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Riassunto del libro Materia, corpo, azione di Lara Conte.

Introduzione. “Nuovo alfabeto per corpo e materia”.

In un momento storico caratterizzato da una forte tensione politica, sociale e culturale, in luoghi diversi si
svilupparono esperienze artistiche accomunate da uno stesso spirito operativo che contribuiscono a
ridefinire i confini geografici e mentali del territorio dell’arte. Con una nuova visone del fare e una nuova
relazione tra sé e il mondo, l’artista si spinge verso un progressivo annullamento della separazione tra arte e
vita; l’arte sconfina nell’azione e l’osservatore non si confronta più con una fruizione passiva dell’opera, ma è
sollecitato a un coinvolgimento attivo all’evento. Tutto ciò implica una riconsiderazione della pratica
espositiva, così come la messa in discussione della funzione del mercato e della critica, in modo da
assumere una nuova posizione attiva e creativa accanto all’artista.
La rapidità della circolazione dell’informazione, i contatti tra gli artisti, critici e galleristi (impegnati a
esplorare nuove ricerche) determinano una tempestiva internazionalizzazione della dimensione operativa e
quindi lo sviluppo di un nuovo confronto dialettico tra l’Europa e l’America. A partire dal 1967 si assiste a
un’insurrezione dell’arte europea nei confronti dell’imperialismo culturale americano; certamente
l’opposizione alla guerra del Vietnam e lo sviluppo della controcultura agevolano la creazione di nuove
dinamiche di apertura tra i due continenti, facendo vacillare assetti ormai consolidati.
Mentre l’America, dopo la pop art, tenta di imporre la propria egemonia in Europa attraverso la promozione
del minimalismo, in Europa emergono nuove ricerche. Importante è il ruolo svolto dall’Europa centro
settentrionale nella ricezione e nella promozione dell’arte postminimalista USA. Una posizione di primo
piano è rivestita dal mercato e dai musei tedeschi.
Principale luogo di elaborazione della nuova arte tedesca è Dusseldorf, grazie alla presenza di Joseph Beuys,
insegnante presso l’Accademia di Belle Arti della città.
In Europa emergono altri centri di sviluppo dell’arte che concorrono a ridisegnare la nuova geografia
artistica indirizzata verso nuovi orizzonti.
Se ci concentriamo sull’Italia non è difficile notare che i principali luoghi di elaborazione delle nuove
ricerche sono Roma e Torino. Se l’ambiente artistico della capitale già nel corso degli anni 50 si era avviato a
intrecciare una serie di contatti con la scena artistica d’oltreoceano, sarà solo con la fine degli anni 60 che
Torino completerà questo processo. Grazie all’azione degli artisti, dei critici e dei galleristi operanti in questa
città, Torino nel giro di pochi anni si affermerà come uno dei centri cruciali dell’avanguardia europea: luogo
chiave per la nascita delle poetiche poveriste e per la diffusione delle ricerche postminimaliste
internazionali.
A Torino inaugura la sua attività il gallerista Gian Enzo Sperone, che promuove prima la pop art e poi il
minimalismo e le tendenze processuali e concettuali, contribuendo parallelamente a esportare le
caratteristiche del movimento poverista in Europa e oltreoceano, attraverso la collaborazione con Ileana
Sonnabend, Leo Castelli e Konrad Fischer. A lui sono legate le figure di Michelangelo Pistoletto e Piero
Gilardi.
A partire dall’estate del 1968 si susseguono le occasioni di incontro e confronto tra gli artisti italiani e il
contesto internazionale. Si intensifica l’informazione e si moltiplicano i momenti e i luoghi di riflessione sul
rinnovamento estetico in atto che vedono coinvolti critici di diversa formazione e generazione: Maurizio
Calvesi, Renato Barilli, Filiberto Menna, Achille Bonito Oliva, Alberto Boatto, Mario Diacono, Carla Lonzi,
Marisa Volpi, Tommaso Trini e Germano Celant. Nel 1967 Celant conia la fortunata etichetta di “arte
povera”, con la quale sostiene e impone all’attenzione internazionale l’avanguardia artistica italiana. Tra il
1968 (anno della rassegna di Amalfi Arte povera più azioni povere, alla quali non partecipano solo artisti
italiani ma anche il britannico Richard Long e gli olandesi Jan Dibbets e Ger van Elk) e il 1969 (anno in cui
viene pubblicato in tre lingue il libro Arte povera), questa definizione viene utilizzata ampiamente per
indicare il nuovo clima operativo transnazionale.
L’etichetta di arte povera viene abbandonata da Celant nel 1971 affinché ciascun artista possa riscoprire la

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propria dimensione personale di lavoro al di fuori di una logica di gruppo. La sua presa di posizione si rivela
però transitoria dato che tra il 1984 e il 1985 il critico rilancerà questa definizione attraverso l’organizzazione
di una serie di mostre e pubblicazioni, avviando così il processo di storicizzazione del movimento poverista.
Da allora in avanti quest’etichetta sarà utilizzata per designare un ben definito e circoscritto nucleo di artisti
italiani comprendente Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis
Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto,
Emilio Prini e Gilberto Zorio. La lettura celantiana dell’arte povera degli anni 80 ha sicuramente arricchito
l’analisi e ha messo a fuoco alcune peculiarità dei singoli, tuttavia, ha anche contribuito a emarginare alcune
personalità che pure avevano partecipato allo sviluppo di quel clima operativo. Oltretutto, la storicizzazione
dell’arte povera ha anche contribuito a restituire un profilo parziale della situazione artistica e del dibattito
critico.
Questo studio si prefigge quindi di analizzare il cruciale snodo cronologico 1966-1970 che ha segnato
l’inizio di quelle tendenze etichettate come minimal art, process art, earth art, arte povera, arte concettuale
e body art, soprattutto per quanto riguarda la situazione artistica italiana.

1. Italia: dall’oggetto all’ambiente, dai materiali all’azione.

1.1. Oltre la pop e le strutture primarie.

Il minimalismo in Europa viene recepito in maniera del tutto originale rispetto alle ricerche proposte
oltreoceano.
Per quanto riguarda l’Italia, possiamo notare che nell’estate del 1967, quando le strutture primaria
approdano alla Biennale di San Marino (grazie alla partecipazione di Robert Morris, Dan Flavin, Tony DeLap
e John McCracken) diversi appuntamenti – come Fuoco, Immagine, Acqua, Terra alla Galleria l’Attico di
Roma o Lo spazio dell’immagine a Palazzo Trinci di Foligno – presentano un’ampia panoramica della nuova
scultura italiana. Le esperienze plastiche sviluppate in Italia a partire dal 1966, pur tenendo atto
dell’apertura sul reale proposta dal new-dada e dalla pop art, e della sintassi minimalista (che aveva avviato
una nuova analisi dello spazio), l’arte inizia ad invadere lo spazio della vita, sconfinando nell’azione, dove
l’osservatore non è più chiamato a una visione contemplativa dell’oggetto artistico, ma dinamicamente
coinvolto in una partecipazione psico-fisica dell’evento estetico.
I luoghi di elaborazione delle nuove ricerche sono Torino e Roma; Tommaso Trini scrive che “La creazione
sembra più favorita laddove abbiamo una struttura sociale oggettivamente più repressiva”, non è un caso
che a Milan “dove il dinamismo sociale coinvolge tutti” non si siano sviluppate esperienze artistiche simili.
A Torino, a partire dai primi anni 60, artisti come Giulio Paolini, Michelangelo Pistoletto e Piero Gilardi
percorrono per vie diverse una nuova dimensione linguistica, che Pistoletto e Gilardi orienteranno con una
nuova relazione tra arte e vita.
A Roma, più o meno parallelamente, si muovono artisti come Jannis Kounellis, Pino Pascali, Mario Ceroli e
Eliseo Mattiacci.
Nato al Pireo (Grecia) nel 1939 Kounellis si era trasferito a Roma nel 1956, dove aveva iniziato a
frequentare l’ambiente dell’Accademia di Belle Arti, lì aveva conosciuto Pascali. Qui i due giovani artisti sono
stimolati a esplorare un campo allargato della cultura, dove arti figurative, teatro, letteratura e filosofia si
fondono e allo stesso tempo possono giovarsi di un’informazione aggiornata sull’espressionismo astratto,
alimentata dalle visite alle mostre e dagli incontri. A metà degli anni 50, infatti, Roma inizia a imporsi come
la capitale dell’arte europea.
Su questo sfondo, Kounellis tiene la sua prima mostra personale nel 1960. L’artista si presenta alla Galleria
La Tartaruga di Plinio de Martiis con grandi tele bianche che recano impresse, a mo’ di timbri, cifre, lettere,
frecce. Kounellis metabolizza le ricerche americane (Pollock, Kline, Johns) creando una nuova visione fatta di
frammenti minimi, di segni essenziali che non comunicano niente se non la loro stessa essenza, rilevando la
primarietà di linguaggio.
La prima personale di Pascali risale al 1965. L’11 gennaio l’artista espone alla Tartaruga opere come
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Colosseo, Teatrino, Labbra rosse. Questi anti-monumenti irriverenti, pur rivelando suggestioni new-dada e
pop, si collocano in un altro territorio, preannunciando nuovi sconfinamenti nel reale.

1.1.1. Fuoco, Immagine, Acqua, Terra e Lo spazio dell’immagine.

Il primo momento d’incontro tra gli artisti operanti a Roma e a Torino – il cui dialogo era stato avviato da
Pistoletto grazie ai suoi contatti con Pascali – si ha con la mostra Fuoco, Immagine, Acqua, Terra presentata
nel giugno 1967 da Alberto Boatto e Maurizio Calvesi alla Galleria l’Attico di Fabio Sargentini. Questa
esposizione riunisce gli artisti gravitanti a Roma (Mario Schifano, Umberto Bignardi, Mario Ceroli, Jannis
Kounellis e Pino Pascali) e i torinesi Piero Gilardi e Michelangelo Pistoletto, articolandosi in due momenti di
ricerca, scanditi nel catalogo da due momenti di lettura: Lo spazio dello spettacolo e Lo spazio degli
elementi. Pistoletto e Gilardi propongono rispettivamente un Quadro specchiante e un rotolo di Tappeto
natura. Con Pascali e Kounellis entrano in scena gli elementi naturali: Kounellis espone Margherita di fuoco
(una struttura in ferro e in plexiglas dalla quale esce un getto di fuoco), Pascali 9mq di pozzanghere (cavità
riempite con acqua colorata all’anilina, un composto chimico) e 1mc di terra e 2 mc di terra (due
parallelepipedi rivestiti di terra appesi alla parete).
Subito dopo la mostra romana, a Palazzo Trinci a Foligno viene inaugurata Lo spazio dell’immagine,
considerata dagli artisti, dai critici e dai galleristi l’evento espositivo più innovativo che si potesse vedere in
quel momento in Europa. Questo appuntamento, dove gli artisti sono invitati a creare ciascuno un ambiente
plastico-spaziale, sancisce il passaggio dall’oggetto all’environnement.
Le riflessioni di Calvesi e del critico genovese Germano Celant, che compongono l’articolato dibattito del
catalogo, mettono in luce il significato di questa nuova idea di spazio. Coniando la definizione di Im-Spazio
(immagine spazio), Celant evidenzia il passaggio dell’immagine dal “significare lo spazio” ad “essere lo
spazio”. Il discorso di Calvesi si concentra invece sulle “strutture del primario”; egli individua nel concetto di
“primario” l’essenza della nuova sensibilità plastica italiana, che si manifesta sia nell’occupazione diretta e
reale dello spazio, sia nell’uso di materiali fisici e naturali. Calvesi identifica le radici delle nuove esperienze
artistiche italiane nella scia che lega la neoavanguardia all’avanguardia (scia costituita dalla pittura d’azione
e delle ricerche informali). Lo studioso romano (Calvesi, appunto) introduce una questione fondamentale,
che sarà sviluppata dal dibattito critico coevo e futuro: il confronto che l’arte italiana ricerca con l’arte
oltreoceano per individuare la propria identità.
Tra le opere-ambiente proposte alla mostra di Foligno alcune emblematiche sono:
- 32mq di mare circa di Pascali. Installazione composta da 30 vasche di lamiera zincata colme d’acqua
colorata all’anilina; opera che vibra di una fisicità primordiale.
- il Tubo di Eliseo Mattiacci. Installazione composta da un lungo tubo di metallo snodabile verniciato di giallo
“Agip” che occupa lo spazio con la sua invadente plasticità organica in continuo divenire. Una prima
versione dell’opera era stata proposta nel marzo 1967 nella sua prima personale tenutasi alla Tartaruga.
- In Cubo di Luciano Fabro. Un cubo di tela a cinque facce, aperto su quella che s’appoggia al pavimento,
realizzato in relazione alle misure del corpo dell’artista: l’altezza corrisponde alla sua altezza, la larghezza
all’ampiezza delle sue braccia. Il fruitore può sollevarlo e penetrare all’interno, in questo modo non deve
essere solo spettatore, ma anche essere spettatore di sé stesso (parole di Fabro). Lavoro che costituisce uno
snodo nella ricerca plastica dell’artista, incentrata sulla penetrazione, lo spazio e la forma.
I punti di riferimento di Fabro sono da ricercarsi nella concezione spaziale di Fontana (i due entrano in
contatto a Milano), nella luce come sensazione estesa di Newman, Rothko e Lo Savio, nella tensione
concettuale di de Chirico, Fontana, Klein e Manzoni.

1.1.2. La partecipazione italiana alla Biennale de Paris.

La sezione italiana alla Biennale de Paris viene organizzata da Palma Bucarelli, la quale propone una scelta
precisa e didascalica, volta a presentare le ricerche cine-visuali, la figurazione, l’astrazione oggettuale e
alcuni environnements. Nella sezione italiana dedicata alla pittura espongono Pistoletto e Kounellis (con

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Margherita di fuoco); in quella riservata alla scultura ci sono Pascali con Ricostruzione del dinosauro e Acque
stagnanti, Ceroli con Environment, Mattiacci con il Tubo e Paolo Icaro con Cage e non cage.
Il torinese Paolo Icaro, dopo un soggiorno a Roma, nel 1966 si era trasferito a NY, restandovi per due anni,
pur mantenendo contatti con la situazione artistica italiana. A NY nascono le Forme di spazio, ribattezzate
ironicamente Gabbie da Ceroli. Queste sono strutture hand-made realizzate con sbarre d’acciaio angolare
distanziate a 30 cm circa l’una dall’altra, in modo da permettere il passaggio del corpo. Anche per lui la
scultura, da occupare lo spazio, si fa luogo, origine di spazio: uno spazio a misura d’uomo, percorribile e
transitabile, che si lascia attraversare dal corpo e dallo sguardo.

1.2. Arte povera.

Nel settembre 1967, presso la Galleria La Bertesca di Genova inaugura la mostra Arte Povera – IM Spazio
curata da Celant.
Allievo di Eugenio Battisti all’Università di Genova, Celant aveva mosso i primi passi nella critica
collaborando a Marcatré, rivista fondata proprio da Battisti. Aveva poi iniziato a frequentare l’ambiente
torinese, entrando in contatto con i galleristi Luciano Pistoi e Gian Enzo Sperone, e con giovani artisti tra cui
Pistoletto, Gilardi, Mondino e Paolini. Dal 1965, a Torino, Celant aveva seguito il progetto del Museo
Sperimentale d’Arte Contemporanea.
La mostra di Genova del 1967 si articola in due sezioni: quella dedicata all’”IM-Spazio”, in cui Celant
inserisce le ricerche ambientali di Umberto Bignardi, Mario Ceroli, Paolo Icaro, Renato Membor, Elieseo
Mattiacci e Cesare Tacchi; e quella dedicata all’arte povera con opere di Alighiero Boetti, Giulio Paolini,
Jannis Kounellis, Pino Pascali, Luciano Fabro e Emilio Prini. Gli artisti riuniti in questo gruppo intendono
ricondurre l’arte alla vita, accogliendo il banale.
Sin dal suo nascere l’arte povera si presenta come una poetica composta da un’eterogeneità di procedure
e modalità operative. Ciò riflette la dimensione estetica del momento: fluida, che si dilata a tal punto da
penetrare a vario modo nello spazio del reale, rivendicando la centralità del soggetto nel suo essere
presente qui e ora.
Dopo la mostra genovese, Celant definisce il panorama dell’arte povera con la pubblicazione del testo-
manifesto Arte povera. Appunti per una guerriglia, apparso su Flash, e attraverso una serie di mostre e
rassegne. In queste occasioni sono in numero minore le ricerche ambientali della scuola romana, mentre
vengono perlopiù inseriti i protagonisti della scuola di Torino: Giovanni Anselmo, Piero Gilardi, Mario Merz,
Gianni Piacentino, Michelangelo Pistoletto e Gilberto Zorio.
La definizione di Arte Povera, tanto semplice quanto ambigua, sarà destinata ad avere una tempestiva e
assai ampia fortuna. Paolini, in un’intervista con Carla Lonzi, fa riferimento a una “povertà di mezzi”, in
quanto processo di semplificazione linguistica.
Ben presto, dal discorso linguistico, la riflessione critica celantiana si sposta sul piano ideologico. In Arte
povera. Appunti per una guerriglia, Celant annuncia che l’arte povera deve contrapporsi dialetticamente a
quei linguaggi ricchi, codificati e integrati al sistema. L’artista da sfruttato deve diventare guerrigliero e
superare ogni posizione categoriale, individuata nella pop art, nella op art e nelle strutture primarie.
Attraverso una compromissione col presente – quindi rispecchiandosi nel clima culturale, politico e sociale
di quegli anni (movimenti studenteschi, lotte sindacali, guerra del Vietnam) – l’artista è sollecitato a
ripensare al proprio ruolo nella società, liberandosi da rapporti di forza che limitano il proprio agire libero.

1.3. L’arte come azione.

Il punto d’arrivo di quel percorso che conduce l’arte alla vita, è costituito dal passaggio dall’oggetto
all’azione, in cui l’opera oltrepassa la propria dimensione oggettuale per dissolversi in un evento effimero e
transitorio. Questo passaggio ci spinge a riflettere sulle nuove dinamiche del rapporto artista-mercante-
fruitore e anche su una nuova concezione di temporalità del fare.

1.3.1. Con temp l’azione.


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La rassegna Con temp l’azione, organizzata a Torino dalla critica milanese Daniela Palazzoli, è un punto
cruciale nella determinazione del passaggio dall’oggetto all’azione. Il progetto della Palazzoli si realizza
attraverso la collaborazione tra le gallerie torinesi Sperone, Il Punto e Stein. La mostra si snoda nelle tre sedi
espositive, sconfinando anche nello spazio urbano. Qua il termine “contemplazione” si destruttura
attraverso il tempo dell’azione. L’arte deve contaminarsi con la vita, sfuggire la mercificazione, far vacillare i
confini. Gli artisti coinvolti – torinesi e milanesi – sono Getulio Alviani, Giovanni Aneselmo, Alighiero Boetti,
Luciano Fabro, Aldo Mondino, Ugo Nespolo, Gianni Piacentino, Michelangelo Pistoletto, Paolo Scheggi,
Gianni Emilio Simonetti e Gilberto Zorio.

1.3.2. Il percorso e il Teatro delle Mostre.

Il Percorso e Il Teatro delle mostre, insieme alla rassegna di Amalfi Arte povera più azioni povere, mettono a
fuoco le diverse sfumature che la “processualità dal fare” assume progressivamente nella ricerca artistica e
nel dibattito critico.
Il Percorso si tiene alla Galleria Arco d’Alibert nel marzo del 1968. L’evento coinvolge nove artisti torinesi:
Piacentino, Pistoletto, Nespolo, Mondino, Boetti, Merz, Zorio, Anselmo, Paolini (con l’aggiunta di Gilardi
presente con un testo), i quali creano opere direttamente nello spazio della galleria, sotto gli occhi del
pubblico. Boetti realizza una Colonna di tovaglioli di carta (performance ispirata a quella di Saburo
Murakami, del gruppo giapponese Gutai) predisponendo due cerchi di carta che sfonda passandovi
attraverso. Mondino realizza il Sole, sempre riprendendo la poetica di Gutai. Zorio dispone un cono per una
colata di cacciù, Pistoletto realizza una Trincea impilando sacchi di cemento; Merz installa l’Igloo di Giap,
struttura in ferro ricoperta di piani di stucco e percorsa dalla scritta al neon: Se il nemico si concentra perde
terreno, se si disperde perde forza, ripresa da una dichiarazione del generale Giap.
Alcuni mesi dopo Il percorso ha luogo alla Tartaruga il Teatro delle mostre (maggio 1968). Organizzata da
Plinio De Martiis (e presentata in catalogo da Maurizio Calvesi), coinvolge artisti non esclusivamente d’area
poverista e non solo artisti vivi, articolandosi in 20 appuntamenti: ciascun artista è invitato a esporre un
lavoro o a proporre un’azione per la durata di una sola serata. Calvesi, nella presentazione del catalogo
scrive: “L’esperienza, nella sua stessa instabilità, contiene l’impulso verso la conoscenza, e la conoscenza
non è mai un traguardo ma un processo”. Cambia così l’impostazione dello spazio espositivo, che da
contenitore definito atto ad accogliere l’opera, diventa un luogo dell’esperienza in continuo divenire.
Nel Teatro delle mostre la contaminazione tra i media e i linguaggi è totale, con sconfinamenti dalle arti
visive, alla musica, dalla poesia alla performance. Qui Paolini, con un linguaggio che indaga la natura stessa
dell’opera e la sua storia, realizza un’unica opera: Autoritratto, un fotomontaggio che vede inserita alle
spalle di un autoritratto del Doganiere Rousseau una folla di conoscenti e amici, tra i quali Fontana, Festa,
Carla Lonzi, De Martiis, Boetti, Fabro e Consagra. Renato Mambor imballa un uomo in una cassa di legno;
Nanni Balestrini, di ritorno da Parigi, ancora all’aeroporto, comunica telefonicamente le frasi scritte sui muri
della Sorbona, che Achille Bonito Oliva, Alfredo Giuliani, Cesare Milanese e Giulia Niccolai trascrivono in
tempo reale sulle pareti della galleria. Pier Paolo Calzolari “occupa” la propria serata mettendo in scena
l’accadere di una situazione plastica, il divenire e la dissoluzione di un materiale nel tempo; egli posiziona al
centro due contenitori: in uno viene collocato un blocco di ghiaccio rosso, nell’altro sono raccolte le gocce
del volume in liquefazione. A terra sono disposte delle scatole trasparenti dalle quali esce del fumo viola che
invade la stanza.

1.4. Arte povera più azioni povere: verso una dimensione internazionale.

I diversi umori che caratterizzano e riflettono il complesso clima della fine degli anni ’60 si palesano in
occasione della rassegna di Amalfi Arte povera più azioni povere, tenutasi dal 4 al 6 ottobre 1968. Con
questo evento, sotto diversi aspetti, l’arte povera arriva a uno snodo. Questa rassegna senza uno
spartiacque, determinando un prima e un dopo nelle vicende dell’arte povera: da questo si completa quel
processo di ricondurre l’arte alla vita e insieme si apre al dialogo con il contesto internazionale,

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assecondando la naturale vocazione della dimensione estetica del momento.
La rassegna si articola in una mostra allestita negli antichi Arsenali della Repubblica, in una serie di azioni
che invadono la città e che coinvolgono in maniera diretta la popolazione. La mostra si incentra
essenzialmente su due temi:
- i materiali
- l’esperienza dell’opera come processo, inteso anche in senso fisico e chimico.
Riunisce lavori di Pistoletto, Boetti, Zorio, Merz, Anselmo, Piacentino, Paolini, Fabro, Pascali e Kounellis. Le
opere sono installate dagli artisti in un clima rilassato che dà vita a una sorta di azione collettiva.
Fra le opere proposte da Zorio si segnala Spugna fluorescente, una ciotola in eternit rivestita di polietilene
contenente acqua al fluoro su cui galleggiano delle spugne marine; di Anselmo Struttura che beve, un
contenitore di piombo riempito d’acqua, dal quale fuoriesce del cotone che assorbe il liquido e lo trasferisce
a un altro cotone collocato sul pavimento, e Direzione, un lenzuolo bagnato disposto sul pavimento e un
cilindro contenente una bussola che lo fende trasversalmente in direzione del nord; Merz allestisce tre
opere: un Cono in vimini all’interno del quale bolle una pentola di fagioli, Sit-in che consiste in una struttura
metallica riempita di cerca entro cui si trova la scritta al neon che dà il titolo all’opera, e Lance. Paolini
presenta Titolo, due grandi fogli di carta appuntati su due tele affiancate, sui fogli sono riportate le lettere
dei nomi delle persone annotate in ordine alfabetico nell’agenda dell’artista, il quale verifica la propria
esistenza attraverso l’estensione dei nomi delle persone che la riconoscono. Piacentino espone Specchiera e
Oggetto marmorizzato. Fabro realizza Mezzo specchiato e mezzo trasparente, Tutto trasparente, Felce e
L’Italia: quest’ultima consiste nella sagoma dell’Italia ritagliata in una lamina di acciaio su cui è incollata una
carta automobilistica. Pascali espone Vedova blu. Kounellis invia Lana nera. Mattiacci, sebbene inviato,
rifiuta di prendere parte all’evento. Marisa Merz presenta Scarpette e Bea, alcune creazioni plastiche
realizzate con fili di nylon. Pistoletto, tra le opere proposte, riveste un antico sarcofago con stracci colorati
(Sarcofago e stracci), in linea con un gruppo di suoi lavori costituiti da cumuli di vestiti colorati posti in
relazione con uno o più oggetti: si tratta di opere fondate su una dialettica di forte impatto, generata dal
contrasto tra ordine e disordine, passato e presente (questo è evidente nella Venere degli stracci, non
esposta ad Amalfi).
La sezione delle “azioni povere” riunisce interventi Riccardo Camoni, Paolo Icaro, Pietro Lista, Gino
Marotta, Plinio Martelli, Anne Marie Sauzeau Boetti e dello Zoo di Pistoletto. L’azione di Icaro consiste nella
ricostruzione dell’angolo sbrecciato di una casa nella piazza del paese.
Ad Amalfi è anche presente il videomaker tedesco Gerry Schum, il quale realizza le riprese della
manifestazione.
Il convegno che affianca il momento espositivo si modella sui nuovi valori dell’arte come esperienza e sul
tema del rapporto tra arte e azione politica. Tuttavia, il dialogo tra gli artisti e la nuova critica si rivelò un
fiasco, dato che molti artisti preferirono non partecipare al dibattito.
Con la rassegna amalfitana si arriva quindi a uno snodo: o l’arte sarebbe uscita dal sistema, oppure,
smaltito il turbine del 68, essa avrebbe ridefinito la propria posizione all’interno del sistema dell’arte. La
maggior parte degli artisti coinvolti nella mostra sposterà la propria riflessione sull’arte, attingendo una
dimensione di lavoro personale, al di là di una logica di gruppo, esplorando in una nuova direzione i binomi
del momento (arte-vita, arte-natura, materiali-povertà).
NB: il coinvolgimento degli artisti dell’arte povera alla situazione d'opposizione del momento non implica un
loro reale impegno militante.
Con la rassegna di Amalfi inizia il “naturale” processo di internazionalizzazione dell’arte povera, si
definiscono i confini dell’arte povera: da designare un gruppo nazionale, quest’etichetta si avvia a
identificare una ben più ampia situazione estetica transnazionale.

2. Torino: le ricerche poveriste e i rapporti con la scena artistica internazionale.

2.1. Per un nuovo discorso.

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In Italia il principale luogo di elaborazione delle ricerche processuali è Torino, che nel giro di pochi anni,
grazie alla presenza di artisti, critici e galleristi operanti in città, si afferma come uno dei centri nodali
dell’avanguardia europea. Torino in quel periodo era un punto di collegamento tra Nord e Sud, caratterizzata
da un fortissimo fenomeno migratorio dal Mezzogiorno e un conseguente passaggio verso una nuova
società operaria. Ben presto le sue tensioni e contraddizioni, economiche e sociali, sarebbero sfociate nei
movimenti di contestazione studentesca e delle lotte operaie dell’autunno del 1969.
A partire dal 1966 a Torino si sviluppano le prime ricerche postpop e postminimaliste. A segnare l’inizio di
un nuovo discorso linguistico è la mostra Arte Abitabile presso la Galleria Sperone nel maggio del 66. L’idea
di questa mostra è quella di sperimentare un nuovo rapporto tra l’arte e lo spazio della vita, che implica “un
consumo fisico dell’arte”. Alla mostra partecipano Pistoletto, Gilardi e Piacentino.
Stava pian piano nascendo quella che Tommaso Trini avrebbe poi definito la “scuola di Torino” e quella che
Celant, connettendola alle coeve ricerche sviluppatesi negli altri centri della penisola, avrebbe riunito sotto
la definizione di arte povera.
Insieme all’emergere delle poetiche poveriste, Torino si apre al dialogo con l’avanguardia postminimalista.
A sancire l’internazionalizzazione del capoluogo piemontese contribuiscono l’attività di Gian Enzo Sperone e
l’azione di Pistoletto e Gilardi.
Uno snodo decisivo è segnato dall’estate 1968: da allora in avanti si susseguono eventi, incontri e confronti
tra gli artisti torinesi e il contesto oltreoceano. In questi anni si intensifica anche l’informazione grazie alla
circolazione delle riviste internazionali. Alla Biblioteca Americana in piazza Castello si potevano consultare
diverse riviste come Art in America, Art News, Art International, e alcune monografie sugli americani.

2.2. Un passo indietro: l’ambiente artistico torinese tra anni 50 e 60.

Nell’immediato dopoguerra Torino detiene una posizione piuttosto marginale rispetto ai centri di Roma e
Milano. Il contatto con la Francia fa si che il processo di sprovincializzazione si orienti anche con il dialogo
con la cultura d’oltralpe; emblematica la manifestazione Pittori d’oggi. Francia-Italia tenutasi in 7 edizioni.
Questa rassegna contribuisce ad aggiornare l’informazione e il dibattito critico, almeno nei suoi primi
appuntamenti.
A orientare il dibattito verso un nuovo dialogo con il contesto internazionale concorrono l’esperienza del
Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista ideato ad Alba e l’arrivo di Michel Tapié a Torino,
luogo considerato ancora carente per ciò che riguardava l’informazione e la promozione dell’arte informale
internazionale. Da quel momento Tapié indirizza la sua attenzione all’arte giapponese. La promozione
dell’arte Gutai (gruppo giapponese fondato da Yoshihara nel 1954, la cui denominazione significa
“concreto”) compiuta da Tapié in Europa e oltreoceano è molto rilevante per tutte quelle esperienze
performative che vanno dall’happening a fluxus all’environment, che a loro volta influenzeranno lo sviluppo
delle ricerche processuali successive.
Grazie a Tapié, opere e immagini delle azioni di Gutai cominciano a circolare nell’ambiente torinese.
Emblematiche sono le mostre:
- Arte Nuova, che riunisce opere di artisti europei, americani e giapponesi, rappresentando la “versione
europea” del Festival di Osaka The International Art of a New Era - USA Japan Europe.
- Mostra tenuta alla Galleria Notizie, espressamente dedicata a Gutai.
A partire dal 1960, proiezioni di diapositive ed esposizioni di opere di artisti Gutai sono presentate presso
l’International Center of Aesthetic Research (ICAR), spazio fondato da Tapié riconosciuto come una delle
radici dell’arte povera. Questo centro si rivela fin da subito attento alla promozione dell’arte internazionale e
alla sperimentazione di uno sconfinamento dell’esperienza artistica attraverso il superamento di una
dimensione oggettuale dell’opera d’arte. L’ICAR vuole essere un museo manifesto, luogo di elaborazione
delle nuove ricerche e di costruzione di una tradizione del nuovo, con la promozione di una diversificata
attività culturale.

2.2.1. La riapertura della Galleria Civica d’Arte Moderna e il Museo Sperimentale d’Arte Contemporanea.
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Il 31 ottobre 1959, dopo circa 6 anni di lavori, riapre la Galleria Civica d’arte Moderna che, assieme alla
Galleria Nazionale d’arte Moerna di Roma, diventerà la principale istituzione museale italiana impegnata
nella promozione dell’arte contemporanea. Negli anni 60, sotto la direzione di Vittorio Viale e poi di Luigi
Mallé, la programmazione della Galleria Civica torinese si aprirà progressivamente al panorama
internazionale: si pensi alla rassegna Conceptual Art, Arte Povera, Land Art, curata da Germano Celant nel
giugno-luglio 1970.
Nel 1965 confluisce nelle raccolte museali la collezione del Museo Sperimentale d’Arte Contemporanea,
ideato nel 1963 da Eugenio Battisti per la città di Genova, al fine di aprire il capoluogo ligure alla conoscenza
dei nuovi linguaggi dell’arte contemporanea. Battisti sperava che il museo diventasse un organismo
dinamico, in cui insieme ai compiti di tutela e conservazione si affiancassero quelli educativi e di
promozione. L’istituzione museale torinese viene presto da lui individuata come la realtà più idonea in cui
far confluire questa raccolta e proseguire il lavoro.
La collezione del Museo Sperimentale viene presentata al pubblico con una mostra che ha luogo dal 26
aprile al 5 settembre 1967. A questa data la raccolta riunisce più di 200 opere donate dagli artisti coinvolti
da Battisti, offrendo una vasta documentazione sulla situazione artistica italiana contemporanea.

2.3. Luciano Pistoi e l’attività della Galleria Notizie.

La presenza del Museo Civico, con la sua programmazione aperta al contemporaneo, determina lo sviluppo
di un nuovo collezionismo orientato al contemporaneo, che a sua volta stimola un più dinamico mercato
dell’arte e l’apertura di nuove gallerie. Tra il 1957 e il 1958 inaugurano La Galatea e Notizie. Negli anni 60 Il
Punto, Sperone, Christian Stein e Martano.
Fondata da Mario Tazzoli nel 1957, la Galatea prosegue la promozione di quel filone di ricerca proposto
dalla Bussola.
La Galleria Notizie di Luciano Pistoi inaugura la sua attività nel 1958. Già critico di l’Unità, egli aveva diretto
la Galleria Mastarone e (insieme a Filippo Scroppo) la Galleria Il Prisma. Nel 1957 aveva promosso la rivista
“Notizie – Arti figurative”, bollettino dell’Associazione Arti Figurative.
All’inizio degli anni 60 comincia a collaborare con Pistoi Carla Lonzi, figura di primo piano per il
rinnovamento della critica italiana degli anni 60. L’azione artistica di Longhi agevola il dialogo tra Torino e la
scena emergente romana e milanese, e contribuisce alla circolazione d’informazione sul contesto
internazionale. Lonzi collabora con Pistoi e Alberto Ulrich all’organizzazione della rassegna L’incontro di
Torino. Pittori d’America, Europa e Giappone tenutasi presso il Palazzo della società promotrice delle Belle
Arti al Valentino.
Quindi, mentre Sperone era interessato a promuovere le nuove ricerche d’oltreoceano legate alla pop art,
Pistoi e Lonzi volgono il loro interesse alla post painterly abstaction. Da allora in avanti Pistoi privilegerà la
promozione di un filone di ricerca d’arte italiana orientato all’esplorazione di una nuova dimensione
linguistica: da Fontana a Manzoni, da Castellani a Carla Accardi, per giungere sino ai giovani artisti Paolini e
Fabro.
Fra le mostre realizzate nella Galleria Notizie nel 1963 vi sono la personale di Twombly e la collettiva di
Accardi, Castellani, Festa, Kounellis e Schifano. Il 1964 vede le esposizioni di Castellani e di Accardi e la
doppia personale di Noland e Stella, i quali avevano poco prima esposto alla Biennale di Venezia. Il 1965 si
apre con l’esposizione di Lucio Fontana e si chiude con la prima personale torinese del giovane Giulio
Paolini.
Nato a Genova, Paolini si era trasferito a Torino con la famiglia all’età di 12 anni, e inizia a seguire studi in
ambito grafico. Ancora studente si affianca al mondo dell’arte da autodidatta, rivolgendo il proprio sguardo
oltre Torino. Questa curiosità lo conduce a ideare lavori sempre più estremi, indiziari di una ricerca che si
sarebbe fatta sempre più concettuale. Nel settembre 1960 realizza un’opera assolutamente radicale:
Disegno geometrico, dipinto che considera la sua prima vera opera.
Nel 1961 Paolini viene invitato a partecipare al 12° Premio Lissone internazionale per la pittura, dove

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presenta l’opera Senza titolo, costituita da un foglio di plastica trasparente fissato a un telaio, su cui in
origine aveva applicato con lo scotch un pennello e dei tubetti di colori. Pur rimanendo all’interno del lavoro
del pittore, Paolini si volge verso l’esplorazione di una dimensione di ricerca oltre il quadro e la pittura. La
ricerca di Paolini si inserisce quindi su quell’asse che corre da Johns a Twombly, da Fontana a Manzoni, per
giungere alla generazione di artisti operante a Roma (Schifano, Kounellis, Angeli), indirizzata a esplorare “i
gesti più semplici del dipingere”. All’ambiente artistico romano Paolini volge presto l’attenzione: nel 1963
entra in contatto con Guido Montana, direttore della rivista Arte Oggi; poi si dirige verso la Galleria La
Tartaruga di Plinio De Martiis, cui presenta il progetto Ipotesi per una mostra, che però non verrà realizzato.
Nel frattempo, a Torino allaccia i primi contatti con l’avanguardia operante in città: conosce Aldo Mondino, e
attraverso lui entra in contatto con il gallerista romano Gian Tommaso Liverani, direttore della Galleria la
Salita (a Roma); sarà Liverani a organizzare la sua prima personale, inaugurata il 31 ottobre 1964. La mostra
era composta da 7 lavori costituiti da pannelli di legno grezzo appoggiati o sospesi alla parete, come si
trattasse di una mostra in allestimento piuttosto che di una mostra di quadri.
Dopo questa esposizione entrerà in contatto con Carla Lonzi, grazie alla quale entra in contatto con Luciano
Pistoi. Da Pistoi è coinvolto prima in una mostra collettiva con Accardi, Castellani, Pistoletto e Twombly
(maggio 1965) e poi è invitato a tenere nel novembre 1965 la sua prima personale torinese. Carla Lonzi,
curatrice del catalogo, allude al concetto di riduzione e semplificazione linguistica caratterizzante la modalità
operativa di Paolini, concetto che potrebbe aver concorso anche alla primissima formulazione critica di arte
povera. È proprio in questo senso che può essere letto il lavoro di Paolini in relazione all’arte povera. La sua
ricerca rivela un’autonomia di linguaggio, che si distingue dall’approccio concreto della poetica poverista.
Successivamente Paolini entra in contatto con Luciano Fabro, prima coinvolto in una mostra collettiva, poi
invitato a tenere una personale presentata in catalogo da Carla Lonzi.

2.4. Il ruolo di Michelangelo Pistoletto e di Piero Gilardi nelle dinamiche dei contatti internazionali.

Nel 1961 Pistoletto, il cui esordio espositivo come pittore risale al 1955, dà avvio a una nuova fase di ricerca
caratterizzata dalla realizzazione dei Quadri Specchianti. Questi determinano il superamento della pratica
pittorica, pur continuando a implicare (in un primo momento) l’utilizzo del supporto della tela, poi sostituita
da lamine d’acciaio inox lucidate a specchio montate su telai di ferro, su cui sono applicate figure a
grandezza naturale realizzate su veline fotografiche dipinte. In essi si crea un intreccio continuo tra reale e
virtuale, forzando il limite, i quadri specchianti avviano un’esplorazione dei confini dell’arte e dell’esperienza
artistica.
I primi esemplari sono presentati alla Galatea nell’aprile 1963. Questa mostra non riesce però a suscitare
interesse nell’ambiente artistico torinese. La delusione induce Pistoletto a compiere un viaggio a Parigi,
dove entra in contatto con Ileana e Michael Sonnabend, nella cui galleria ha modo di vedere opere di
Rauschenberg, Johns, Rosenquist e Lichtenstein, nonché sculture di Segal e Chamberlain. Ai Sonnabend
Pistoletto fa vedere il catalogo della personale tenuta alla Galatea e un Quadro specchiante. Incuriositi, i
galleristi vanno a Torino, dove comprano tutte le opere esposte in mostra; nel marzo 1964 gli organizzano
presso la loro galleria parigina una personale, che decreta un rapido successo commerciale dell’artista. I
testi in catalogo sono affidati a Alain Jouffroy, Michael Sonnabend e al giovane critico Tommaso Trini.
Nato a Sanremo nel 1937, Trini, dopo gli studi universitari romani con Argan, alla fine degli anni 50 entra
in contatto con l’ambiente torinese, frequentando le gallerie La Bussola, il Grifo e la Galatea; in quest’ultima
aveva conosciuto Gian Enzo Sperone e Pistoletto. Si trasferisce a Londra e a Parigi, qua grazie a Pistoletto
entra in contatto con Ileana Sonnabend.
Nel catalogo della mostra di Parigi, Trini e Jouffroy propongono una lettura connessa al significato dell’opera
di Pistoletto, al contrario, Michael Sonnabend mette in relazione il lavoro dell’artista piemontese con le
coeve ricerche oggettuali americane. Leggendo i Quadri specchianti in un’ottica pop, Sonnabend avanza una
lettura fuorviante del lavoro di Pistoletto. L’operazione condotta dai Sonnabend determina un tempestivo
inserimento dell’opera di Pistoletto nel circuito del mercato internazionale legato alla pop art.

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Tra la fine del 1965 e l’inizio del 1966 nascono gli Oggetti in meno, una trentina di oggetti eterogenei che
sfuggono a qualsiasi tentativo di riconoscibilità stilistica; fra di essi ricordiamo Rosa bruciata e Pozzo di
Cartone, entrambi in cartone ondulato; Colonna di cemento; le Tele torte, in cui tre tele montate su telaio
sono state dipinte e, nel processo di asciugatura, hanno subito un’identica torsione; Sfera di giornali,
costituita da carta di quotidiani pressata, il cui diametro è concepito in relazione al luogo per cui è stata
ideata in modo da riempire lo spazio e ridurre al minimo la possibilità di movimento dell’oggetto; La vetrina,
contenente i vestiti che l’artista indossava durante il giorno in studio e toglieva di notte.
Nel catalogo della mostra tenutasi presso la Galleria La Bertesca di Genova nel 1966, Pistoletto scrive: “I
lavori che faccio sono oggetti attraverso i quali io mi libero di qualcosa – non sono costruzioni ma liberazioni
– io non li considero oggetti in più ma oggetti in meno”. Questi oggetti ampliano l’orizzonte della ricerca
plastica, grazie all’eterogeneità delle forme e dei materiali usati in piena libertà. Pistoletto vuole evitare di
circoscrivere questi oggetti entro la definizione di scultura, considerandoli piuttosto come l’uscita della
dimensione pittorica nello spazio del vissuto. La conseguenza di questa ricerca sarà, per Pistoletto, la
sperimentazione del teatro di strada, attraverso la fondazione del gruppo Lo Zoo, individuando nell’azione
demercificata il modo per superare il sistema dello sdoppiamento tra arte e vita.
Seppure il suo lavoro si sia orientato verso una diversa ricerca e riflessione, Pistoletto continua ad essere
riconosciuto a livello internazionale per i Quadri specchianti, che tra il 1966 e il 1967 ottengono un’ampia
attenzione da parte della critica. Viene poi premiato alla Biennale di San Paolo e presenta mostre personali
in diversi musei europei e oltreoceano; grazie all’aiuto di Gilardi entra per la prima volta in contatto con
l’ambiente artistico newyorkese.
Nell’ottobre 1963 Gilardi tiene la sua prima mostra personale presso la Galleria L’Immagine: Le macchine
per il futuro; qua anche lui riesce a superare le dimensioni tradizionali di pittura e scultura per arrivare a una
nuova formula linguistica volta a sperimentare nuove oggettualità. La mostra propone, attraverso modellini,
grafici e film, il progetto di un’utopica città per il futuro governata totalmente dalla tecnologia. NB: nei primi
anni ’60 era ampiamente diffuso il sentimento di fiducia nella tecnologia e nel sistema di vita capitalistico,
soprattutto americano.
Risalgono al 1965 i primi Tappeti natura: questi costituiscono il punto d’arrivo di una ricerca incentrata
sull’idea di oggetto estetico fruibile praticamente, maturata attraverso la realizzazione, l’anno precedente,
del Totem domestico e dell’Igloo, in cui, attraverso l’uso di materiali industriali come le sostanze viniliche e il
poliuretano espanso, Gilardi dà vita a uno spazio praticabile. Nei Tappeti natura, utilizzando sempre il
poliuretano espanso (utilizzato nel settore dell’arredamento per ogni tipo di imbottitura) scolpisce pezzi di
natura, prati, orti, torrenti e ambienti marini, che possono essere calpestati o appesi. Queste opere
provocano uno straniante effetto antinaturalistico: non rappresentano la natura, ma un’immagine della
visione naturale. I Tappeti natura sono proposti per la prima volta al pubblico nel maggio 1966 da Sperone,
dove nel catalogo possiamo leggere un testo di Michael Sonnabend. Al 1966 risalgono i primi contatti
dell’artista con i Sonnabend, i quali lo invitano a esporre a Parigi nel 1967.
Grazie ai Tappeti natura, Gilardi inaugura un’intensa attività espositiva, raggiungendo anche lui, come
Pistoletto, un rapido successo mercantile e un’ampia attenzione critica internazionale.
Già dal 1966, Gilardi aveva orientato la propria ricerca verso un superamento dell’esperienza legata ai
Tappeti natura cercando un nuovo rapporto con l’oggetto e uno sconfinamento di questo nello spazio del
quotidiano. Si pensi alla creazione ideata per la mostra Arte Abitabile, una sorta di torre composta da tubi di
ferro sulla quale si può salire e scendere tramite una scala. Tuttavia, il successo dei Tappeti natura rende
quasi impossibile l’accettazione da parte del mercato dei nuovi lavori proposti.
Nel 1968 Gilardi smette di produrre opere per dedicarsi alla riflessione teorica, con l’obiettivo di analizzare
la nuova situazione internazionale sviluppatasi a partire dal 1966. Grazie ai suoi scritti e alla
documentazione raccolta, contribuisce a far circolare nell’ambiente torinese informazioni sul lavoro degli
artisti incontrati, molti dei quali erano ancora sconosciuti in Italia.

2.5. Le mostre alla Galleria Sperone.


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La Galleria Sperone è il principale luogo d’incontro della giovane avanguardia artistica torinese: lì si discute,
circolano le riviste internazionali e nascono le opere.
Proveniente da Carignano, Gian Enzo Sperone si era avvicinato al mondo dell’arte tramite l’amico pittore
Colombotto Rosso, che lo aveva messo in contatto con Mario Tazzoli, proprietario della Galatea. Qua
Sperone conosce Pistoletto e Mondino, e grazie a loro due nel dicembre del 1962 viene nominato direttore
della Galleria Il Punto, il nuovo spazio espositivo aperto da Remo Pastori. Sempre grazie ai due artisti
avviene il suo primo contatto con l’arte d’oltreoceano. Successivamente, grazie ai contatti con i Sonnabend,
riceve in deposito alcune opere di Lichtenstein con cui organizza una personale a Torino.
La Galleria Sperone, situata al numero 15 di via Cesare Battisti, si caratterizza da subito per una vocazione
internazionale: il gallerista promuove il new-dada, la pop art e il nouveau réalisme, sostenendo
parallelamente la giovane generazione torinese.
La mostra inaugurale presentava opere di Rotella, Mondino, Pistoletto e Lichtenstein; altre mostre
significative sono le personali di Christo e Pistoletto, la prima mostra italiana di James Rosenquist, la
personale di Rauschenberg, la prima personale italiana di Andy Warhol.
Uno snodo cruciale per l’attività della galleria è segnato dal 1966: nel corso dell’anno Sperone promuove le
nuove ricerche torinesi, organizzando le prime personali di Gilardi e Piacentino e, grazie all’intermediazione
di Pistoletto, volge lo sguardo alla scena artistica romana: l’anno si apre infatti con l’esposizione delle Armi di
Pino Pascali, rifiutata da Plinio de Martiis. Le creazioni plastiche di Pascali qua proposte sono costituite da
oggetti di recupero, cui viene negato il loro valore di assemblaggio attraverso l’uso di una vernice militare
che ne uniforma l’aspetto, creando ingannevoli forme oggettuali apparentemente perfette, ma svuotate
della loro funzionalità. Le Armi inglobano e contaminano l’ambiente, superando la distinzione tra spazio
dell’opera e spazio del vissuto. Quest’opera ha un impatto enorme sugli artisti torinesi, indirizzati a
esplorare un nuovo approccio realistico.
Nel giugno dello stesso anno inaugura Arte Abitabile, progetto espositivo nato dalla riflessione di Gilardi e
Pistoletto, cui prendono parte Piacentino, Sperone e Trini. Questa mostra dà avvio a una nuova dimensione
di ricerca. In mostra sono presentati Terrazza e un Tappeto natura di Gilardi, alcuni Oggetti in meno di
Pistoletto (Semisfera decorativa, una lastra coperta di addobbi natalizi; Lampada a mercurio; e Statua
lignea, scultura di legno del Quattrocento inserita per metà in un cubo di plexiglas arancione), e due opere
di Piacentino.
Nella primavera del 1966 Sperone apre una nuova sede espositiva a Milano, la cui gestione viene affidata a
Tommaso Trini. La galleria però verrà chiusa un anno dopo. Tra gli eventi presentati si segnala la personale di
Dan Flavin: questa mostra sancisce il primo avvicinamento del gallerista al minimalismo.
Ritornando a Torino, tra il 1967 e il 1968, Sperone, con la sua galleria, sostiene le emergenti ricerche
torinesi – Anselmo, Boetti, Marisa e Mario Merz, Zorio – e invita Ceroli e Kounellis, fornendo un’ampia
panoramica sulle nuove attitudini plastiche poveriste.
Il 30 giugno 1067 la galleria accoglie la prima personale di Marisa Merz. L’artista propone un environnement
costituito da forme sculturali realizzate con sottili lamine di alluminio tagliate e cucite che possono essere
appoggiate casualmente al suolo o liberamente sospese al soffitto. Trini le descrive come “associazioni di
elementi che non creano una struttura né uno schema”. In quegli anni Marisa Merz ha iniziato prima a
tagliare e cucire fogli d’alluminio, poi a lavorare a maglia, realizzando oggetti in filo di nylon e rame, in una
assidua esplorazione della relazione tra arte e vita.
Dopo la mostra di Marisa Merz, Sperone inaugura una personale di Gilberto Zorio, presentata da Trini.
Sperone era entrato in contatto con il gallerista nel 1966 tramite Gilardi, nel cui studio aveva visto la Sedia di
Zorio, una struttura semplicissima, realizzata con tubi di ferro dipinti d’azzurro, entro la quale si accatasta un
cumolo di gommapiuma colorata, su cui è sospeso un batacchio di cemento. Zorio, allora studente
all’Accademia Albertina, collaborava con Gilardi come assistente, aiutandolo nella realizzazione dei Tappeti
natura. Il suo esordio espositivo era avvenuto nel 1963, con la sua prima personale alla Piccola Galleria
d’Arte Moderna di Torino; in quest’occasione espone le sue prime creazioni plastiche in ceramica, polistirolo

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dipinto e agglomerato di sughero. Da Sperone invece propone nuovi lavori: Colonna, una colonna di eternit
in bilico su una camera d’aria; Rosa-blu-rosa, un semicilindro di eternit contenente un impasto di cloruro di
cobalto che cambia colore con il mutare dell’umidità atmosferica; Tenda, una struttura di tubi di ferro
parzialmente ricoperta da una tenda verde, sulla cui superficie evapora acqua di mare che deposita il sale.
Sempre più Zorio realizza situazioni plastiche in continuo divenire. Egli in un’intervista dirà che i suoi lavori
sono “lavori viventi”, e che sono essi stessi energia.
Dopo questa mostra Sperone collabora con le Gallerie Il Punto e Stein per la realizzazione della rassegna
Con temp l’azione, curata da Daniela Palazzoli. Successivamente Pistoletto inaugura nella galleria una
personale, che dallo spazio espositivo sconfina nel suo studio.
La programmazione del 1968 si apre con la personale di Mario Merz; la mostra viene presentata da Celant.
Più anziano dei suoi compagni, Merz aveva tenuto la sua prima mostra presso la Galleria La Bussola nel
1954. L’artista rivela in primis suggestioni neonaturalistiche ed espressioniste sfocianti in quella corrente
antiformale che ha i suoi massimi esponenti internazionali in De Kooning , Bacon, Jorn; guarda inoltre opere
di artisti come Spazzapan, Mattia Moreni e Pinot Gallizio.
Tra il 1964 e il 1965 Merz forza il piano della tela indirizzandosi verso nuove ricerche oggettuali. Nascono
le Strutture aggettanti, nelle quali la tela entra nello spazio fenomenologico. La naturale prosecuzione di
questa ricerca sono le Strutture attraversate dal neon: tele volumetriche di forma irregolare, nelle quali
l’artista non interviene con un’azione pittorica, ma ne squarcia la superficie attraverso l’uso di tubi di luce al
neon. A partire dal 1967 Merz interviene su oggetti banali e quotidiani che sono presentati in mostra da
Sperone: un ombrello, un cuscino, un bicchiere, un impermeabile, tutti trafitti da tubi di luce al neon.
Al 1968 risalgono i primi Igloo, la cui calotta è ricoperta da materiali organici e informi, come la cera, la
terra, ma anche il vetro, dove i confini tra spazio esterno e interno si fanno sempre più labili. Anche gli Igloo
sono spesso percorsi da scritte al neon, che assumono un valore politico-esistenziale.
Dopo la mostra di Merz, la programmazione della galleria Sperone prosegue con Mario Ceroli e poi con
Kounellis. Quest’ultimo alla galleria dà vita a un’istallazione poetica e scenografica, attraverso un libero
disporsi dei materiali primari nello spazio (vecchi sacchi di iuta poggiati al suolo, lana di pecora disposta su
pali verticali appoggiati alla parete).
Sempre nel 1968 la galleria Sperone ospita la mostra d’esordio di Giovanni Anselmo. Egli aveva compiuto
studi nell’ambito della grafica pubblicitaria, avvicinando all’arte nel 1965. È di quest’anno la fotografia La
mia ombra verso l’infinito dalla cima dello Stromboli durante l’alba del 16 agosto 1965, che segna l’avvio del
suo cammino. Nei lavori presentati da Sperone, l’artista esplora le proprietà fisiche della materia: gravità,
oscillazione, tensione, peso, movimento. Successivamente passa ad indagare i processi fisici di
trasformazione della materia. Si pensi a Torsione, in cui la tensione provocata dalla torsione di un panno di
fustagno è accumulata e restituita attraverso la reale spinta di ritorno esercitata dalla sbarra di ferro attorno
a cui è fissato il tessuto. Struttura che mangia è costituita da un piccolo blocco di granito collegato a un
parallelepipedo più grande attraverso un filo di ferro e un cespo di lattuga fresca è posto tra i due elementi,
quest’ultimo, appassendo e quindi diminuendo di volume provoca l’instabilità della struttura, il cui
equilibrio è reso possibile solo tramite un continuo ricambio del vegetale stesso.
Nel settembre 1968 Anselmo, Merz e Zorio sono invitati a partecipare a Prospect 68, esponendo nello
stand della Sonnabend assieme a Bruce Nauman e a Robert Morris. Da quel momento si susseguono per
questi artisti diverse occasioni espositive internazionali: a dicembre Anselmo e Zorio sono invitati a
partecipare alla mostra Nine at Castelli. Nel 1969 Zorio espone alla mostra Nine Young Artist presso il
Guggenheim Museum, dove presenta Letto, Luci, Piombi e Macchia II (quest’ultima comprata dal museo
americano). Tutti e tre gli artisti esporranno poi, grazie ai contatti con i Sonnabend, nella galleria parigina.
Nel frattempo la programmazione di Sperone a Torino assume un taglio internazionale, in quanto le
mostre degli artisti italiani si intrecciano con quelle dedicate ai protagonisti delle ricerche processuali e
concettuali operanti in Europa e negli USA (Morris, Andre, Kosuth, Weiner, Barry, Bollinger, Nauman,
Huebler, Watts, De Maria, LeWitt, Fulton, Bochner, Darboven).

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Nel febbraio del 1969 inaugura la personale di Calzolari, artista bolognese entrato in contatto con
l’ambiente torinese nel 1968 e da subito coinvolto nell’esperienza del Deposito d’Arte Presente. Da Sperone
presenta alcuni lavori evocati in Casa ideale, scritto dell’artista in cui egli descrive alcune opere sognate per
un’esposizione ideale. Impazza angelo artista è una struttura auricolare realizzata in base alle misure
corporee dell’artista; i riferimenti all’autobiografico ritornano anche nelle opere Un flauto dolce per farmi
suonare e nel Mio letto così dev’essere; quest’ultimo è costituito da foglie di banano adagiate al suolo che
accolgono un elemento di rame avvolto di muschio, costruito in base al profilo della colonna vertebrale
dell’artista e allo spessore del suo polso, mentre una scritta di ottone riporta il titolo dell’opera.
In quel periodo anche Giuseppe Penone entra in contatto con Sperone; esso viene coinvolto prima in una
mostra collettiva tenutasi al Deposito d’Arte Presente e, subito dopo in galleria nella mostra Disegni
progetti, che riunisce lavori di Anselmo, Calzolari, Merz e Zorio. In quest’occasione Penone presenta alcune
fotografie delle azioni compiute sugli alberi della propria regione natale; in questi lavori l’artista indaga il
processo e il tempo di crescita della pianta in relazione all’azione umana. Queste foto sono viste da Celant,
che inserisce il lavoro dell’artista nella pubblicazione Arte Povera, decretando il suo coinvolgimento nelle
vicende poveriste. Qualche mese dopo l’artista presenta la sua prima personale nella nuova galleria di
Sperone: un ampio spazio di 400 mq al 27 di corso San Maurizio, che sostituisce il più tradizionale spazio di
via Battisti. Penone prende conoscenza in senso fisico dello spazio della galleria, realizzando un
parallelepipedo di cemento posto sul pavimento, una sbarra di mattoni infissa al muro e una barra d0aria
che si materializza in un tubo di vetro a sezione quadra infisso nella finestra (conducendo all’interno della
galleria i rumori e l’aria provenienti dall’esterno).
Per quanto riguarda la promozione degli artisti internazionali, il 30 marzo 1969 Sperone organizza la
personale di Robert Morris mentre a settembre inaugura la personale di Carl Andre. Nel 1970 Nauman
realizza da Sperone Audio/Tactile Separation Piece: le pareti della galleria vengono rivestite da pannelli
dietro i quali sono posizionati dei sensori; a ogni sollecitazione fisica del fruitore essi reagiscono emettendo
un suono, trasmesso dagli altoparlanti collocati agli angoli della stanza e dando quindi vita a un ambiente
che attiva perturbanti processi psico-sensoriali.

2.6. Le mostre alla Galleria Christian Stein.

Nel novembre 1966 viene aperto un nuovo spazio espositivo, destinato anch’esso a giocare un ruolo
rilevante nella promozione delle ricerche poveriste: la Galleria Christian Stein. La proprietaria, Margherita
Stein, è una collezionista appartenente all’alta borghesia torinese, di una generazione più anziana rispetto ai
giovani che sostiene. A differenza di Sperone, la cui programmazione si caratterizza presto per un taglio
internazionale, la Stein si volge principalmente alla promozione delle ricerche italiane. La mostra inaugurale
è tenuta da Aldo Mondino, cui fa seguito una personale di Schifano. Il 1967 si apre con la mostra d’esordio
di Alighero Boetti.
Boetti si era avvicinato all’arte da autodidatta, dopo gli studi di economia, subito abbandonati. Il suo
primo approccio all’arte è da visitatore; si avvicina all’arte attraverso la tecnica incisoria, realizzando anche
alcuni disegni a china. Nel 1966 moltiplica le forme e i materiali in una dimensione operativa che va oltre
l’oggetto e il fatto plastico. Fra le opere esposte dalla Stein figurano Rotolo di cartone ondulato, derivato da
un gesto di un ricordo d’infanzia; Lampada annuale, costituita da una scatola entro la quale è collocata una
lampadina, che mediante un contatore a tempo si sarebbe accesa in un momento imprecisato dell’anno.
Dopo la mostra di Boetti la Stein ospita una collettiva con opere di Boetti, Fabro, Fontana, Griffa, Klein,
Kounellis, Lo Savio, Manzoni, Mario Merz, Mondino, Paolini, Schifano e Twombly. Nel frattempo, grazie a
Mondino, anche Paolini entra in contatto con la gallerista, che nel novembre 1967 gli organizza una
personale.

2.7. Spazi alternativi: il Piper Club e il Deposito d’Arte presente.

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Nella seconda metà degli anni 60 a Torino nascono spazi alternativi che facilitano la sperimentazione di un
nuovo rapporto tra l’intervento artistico e l’ambiente e la contaminazione tra i diversi linguaggi, soprattutto
tra l’arte e il teatro.
Il Piper Club era un locale ideato dagli architetti Giorgio Ceretti, Pietro Derossi e Riccardo Rosso, che
inaugura il 29 novembre 1966, un anno dopo l’apertura dell’omonimo locale romano. Tra il 1967 e il 1968 la
discoteca torinese, trasformabile da cabaret a night club, da galleria d’arte a sede per concerti, ospita
interventi ambientali, happening, performance, mostre e dibattiti, che vedono coinvolti artisti come Gilardi,
Pistoletto Marisa Merz, Boetti.
Nel gennaio 1967 Gilardi espone i Tappeti natura, i quali – racconta Gilardi – vengono appesi; l’ultimo
giorno della mostra viene fatto un “happening” al poliuretano, materia di cui sono fatti i Tappeti natura; la
rappresentazione si è conclusa con un enorme fungo di espanso, traboccato da un secchio; dal fungo, subito
solidificato, la gente ha cominciato a strappare pezzi e a lanciarseli, racconta sempre l’artista.
La sera del 6 marzo Pistoletto presenta La fine di Pistoletto. La performance si articola in un’orchestra di
acciai e ottoni composta da una trentina di elementi. Nel locale vengono anche allestiti alcuni Quadri
specchianti.
Alla fine del 1967 nasce il progetto del Deposito d’Arte Presente (DDP), ideato dall’industriale e
collezionista Marcello Levi e da Gian Enzo Sperone. Sin da subito viene coinvolto nell’iniziativa Gilardi.
Situato al numero 3 di via San Fermo, in un ampio spazio di 450 mq, il DDP inizia l’attività espositiva
probabilmente nella primavera del 1968. Lo spazio però avrà vita breve, dato che concluderà la sua attività
nell’aprile del 1969.
Il DDP è un luogo singolare, unico nel panorama italiano, che mette in evidenza le contraddizioni
dell’ambiente culturale torinese. Robert Lumley definisce il DDP come “uno spazio ibrido, in cui l’arte viene
creata, ma anche osservata, un incrocio fra la galleria e l’atelier, uno spazio per le mostre così come per la
performance”. Già la scelta del nome indica l’originalità del progetto: il DDP doveva essere simile a un
magazzino, a un deposito industriale di merci, che potesse soddisfare le nuove esigenze espositive delle
ricerche artistiche, le quali, spostando l’attenzione dal risultato al processo, implicavano una ridefinizione
del concetto di spazio espositivo.
È difficile individuare con precisione gli eventi espositivi che si sono susseguiti al DDP, proprio per le
caratteristiche dello spazio, che lo rendono un luogo in continuo divenire: i lavori vengono portati o
realizzati sul posto, ed essi creano una contaminazione totale tra le opere. Gli artisti coinvolti nel progetto
sono Anselmo, Boetti, Calzolari, Fabro, Icaro, Mario e Marisa Merz, Nespolo, Paolini, Piacentino, Prini,
Pistoletto e Zorio.
In realtà, l’evento che pone il DDP all’attenzione nazionale è legato al teatro e non all’arte: il 25 novembre
ospita, infatti, la prima nazionale di Orgia di Pier Paolo Pasolini, con struttura scenica di Ceroli e musiche di
Ennio Morricone.
Dopo il passaggio di Paolini, il DDP ospita la performance Play realizzata dallo Zoo di Pistoletto, e dà avvio
a una collaborazione con il Laboratorio del Teatro Stabile. impegnato in un’attività sperimentale di
decentramento del teatro in luoghi alternativi, come, ad esempio, i quartieri popolari della città.
A partire dalla fine del 1968 si acutizzano le tensioni interne, che decretano presto il fallimento del progetto.
Il punto di non ritorno è raggiunto nel marzo 1969, quando si inaugura la mostra Inventario I. Giovane
avanguardia italiana, mostra organizzata da Trini e Sperone allo scopo di fornire una ricognizione sulle
nuove esperienze di segno poverista. Sono invitati a partecipare Bonfà, Camoni, Veneri e Penone, a parte
quest’ultimo operano tutti al di fuori dell’ambiente torinese. Durante alcune proiezioni cinematografiche, il
gruppo di contestazione studentesca e alcuni artisti compiono un’irruzione nello spazio, con il conseguente
danneggiamento di alcune opere esposte. Dopo questi eventi la storia del DDP si avvia alla conclusione.

3. Uno sguardo oltreoceano: situazioni postminimaliste.

3.1. La nuova scultura postminimalista.

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A partire dalla seconda metà degli anni 60, nell’East e nella West Coast, si sviluppano nuove esperienze
plastiche tese a esaltare il processo di realizzazione dell’opera, l’espressività e le proprietà intrinseche dei
materiali. La sintassi modulare e minimalista viene sovvertita da creazioni sculturali accidentali, fluide,
morbide, realizzate con un’ampia gamma di materiali non tradizionali (caucciù, ferro, fibra di vetro, resine…)
che spostano l’attenzione dall’oggetto al processo del fare.
Robert Morris, uno dei principali esponenti del minimalismo, teorizzerà nel 1968 la svolta in direzione
antiform della scultura statunitense.
Nel corso degli anni 70, Robert Pincus-Witten riunisce entro la definizione di postminimalismo le
sperimentazioni antiformali e processuali di Eva Hesse, Bruce Nauman, Richard Serra, Keith Sonnier e tanti
altri.
La definizione di postminilamismo certamente mira a considerare le nuove attitudini plastiche come la
naturale prosecuzione del percorso di superamento della scultura modernista iniziato con il minimalismo. Le
ricerche minimaliste avviano una nuova esplorazione del rapporto tra l’oggetto plastico e lo spazio
fenomenologico, che diventa parte integrante del lavoro; l’opera minimalista è costituita da sequenze seriali
di unità elementari realizzate con materiali di tipo industriale, che annullano qualsiasi principio di
gerarchizzazione: principi che costituiscono il punto di partenza della nuova riflessione sculturale.
Le attitudini plastiche postiminimaliste, se accettano l’abolizione dell’organizzazione relazionale della
scultura, così come il rapporto che si istituisce tra l’oggetto e lo spazio contingente, rifiutano anche la
rigidità dell’oggetto seriale per esplorare invece una nuova plasticità che evita la forma. Individuano una
nuova relazione tra forma e contenuto, figura e sfondo, ordine e disordine. La nuova scultura
postminimalista può oltrepassare la propria esplicazione nello spazio fisico, dematerializzandosi in progetto,
informazione o idea.
Nel corso degli anni l’etichetta di postminimalismo è stata usata dalla critica in maniera sempre più
allargata, fino a comprendere le attitudini processuali europee, che rientrano così nel più vasto contenitore
del postminimalismo.
L’idea di trovare una definizione critica che potesse fornire una lettura transnazionale di questa nuova
dimensione artistica, si era manifestata precocemente.
Nel 1968, Lucy Lippard e John Chandler pubblicano su “Art International” The Dematerialization of Art,
saggio con una larga diffusione. I due critici analizzano il progressivo superamento della presenza oggettuale
dell’opera e l’emergenza di nuove modalità operative concettuali: l’arte come idea e l’arte come azione, che
attingono entrambe le radici nel dada e nel surrealismo.
Harold Rosenberg fornisce invece un’analisi dell’arte de-estetizzata, sulla scia del concetto di arte post-
estetica. Egli scrive “L’arte de-estetizzata è l’ultimo dei movimenti d’avanguardia, e oggi sta cercando di
diffondersi e di conquistare la leadership sul terreno che essa stessa simbolicamente denuncia”.
Anche se i primi fermenti postminimalisti sono presentati nella scena artistica newyorkese da Lucy Lippard
con la mostra del 1966 Eccentric Abstracrion, uno snodo cruciale per il dibattito critico sulla nuova scultura è
segnato dal 1967, anno che secondo Irving Sandler segna la fine del modernismo. Nel giugno 1967 viene
dedicato un intero numero di “Artforum” alle ultime tendenze della scultura americana; in questo numero
sono convocate le principali voci della critica statunitense. Il dibattito su Artforum si orienta poi sulla
presentazione di quelle ricerche anti-minimaliste tese all’esplorazione di un approccio plastico sensualistico.

3.2. Eccentric abstraction.

Nel sttembre 1966, presso la Fischbach Gallery di NY, inaugura la mostra Eccentric abstracrion, curata da
Lucy Lippard. Questa mostra riunisce il lavoro di alcuni artisti operanti nelle coste del Pacifico e
dell’Atlantico, che stavano indirizzando la loro ricerca in senso antiminimalista.
Con la definizione di “eccentric abstraction”, Lippard sottolinea il legame che le emergenti ricerche
platiche intendono riallacciare con le attitudini gestuali dell’espressionismo astratto. Questa intuizione
conoscerà una più chiara determinazione critica nel 1968 con lo scritto Anti Form di Robert Morris.

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Tra i precedenti dell’eccentric abstraction, Lippard individua il surrealismo e la pop art.
Per la mostra, Lippard coinvolge Louise Bourgeois, Eva Hesse, Alice Adams, Bruce Nauman, Keith Sonnier,
Frank Lincoln Viner, Don Potts, Gary Kuehn, tutti appartenenti alla generazione degli anni trenta e dei primi
anni quaranta, eccetto la Bourgeois.
Nata a Parigi nel 1911, Bourgeois si era traferita a NY nel ’38, doveva si era approcciata all’arte tardo
surrealista; da subito però mostra un atteggiamento eccentrico.
Una ricerca affine a quella di Bourgeois, seppur spinta verso una più radicale esplorazione formale, è quella
di Eva Hesse, per la sua costante relazione con il dato biografico, con il corpo, con la dimensione organica e
sessuale. Nata ad Amburgo nel 1936, Hesse si era trasferita da piccola a NY. Il suo esordio è segnato dalla
pittura, anche se si muoverà presto verso la scultura. Inconsueti sono i materiali utilizzati: lattice, corda,
cartapesta, fibra di vetro, che danno vita a dorme morbide e in continuo cambiamento. Queste creazioni
animano lo spazio: si lasciano appendere morbide alla parete o si adagiano precarie sul pavimento. Nella
mostra alla Fischbach Gallery, oltre a proporre due forme afflosciate, allusivamente falliche, Ingeminate e
Several, Hesse presenta Metronomic Irregularity II, opera che non abbandona l’impatto visuale e tematico
della serialità minimalista. Un minimalismo però irreversibilmente compromesso da uno spirito sensuale e
romantico. Quest’opera sarà una delle sculture in mostra più apprezzate dalla critica. È formata da tre
pannelli di legno grigi, posti a intervalli regolari sulla parete, collegati tra loro e percorsi da un groviglio di fili
che intuiscono una contaminazione continua tra la forma e l’informe, tra la morbidezza e la rigidità, tra
l’ordine e il disordine.
Anche gli altri lavori esposti in mostra sono molto interessanti: Nauman sparge sul pavimento e sospende
alla parete dei nastri di lattice; Don Potts riveste delle costruzioni di legno, ben intagliate, con pelle e
pelliccia; Alice Adams, usando una rete metallica, dà vita a un’instabile e morbida ideazione plastica simile a
una forma organica.

3.3. Funk art.

Un vivace atteggiamento sensualistico marcatamente antiminimalista caratterizza anche la scena artistica


californiana, dove nei mesi di aprile e maggio 1967 ha luogo la mostra Funk, curata da Peter Selz presso
l’University Art Museum di Berkeley. Il progetto era nato da un’idea dell’artista Harold Paris e di Peter Selz.
Il termine “funk”, originariamente usato dai musicisti jazz per indicare il ritmo sensuale e coinvolgente
della musica soul afroamericana, designa un gruppo di artisti che era prevalentemente attivo nella Baia di
San Francisco e che si era sviluppato attorno al 1965. Gli artisti funk, politicamente impegnati e coinvolti nel
momento di contestazione studentesca, sfidano la scuola cool di NY, proponendo lavori antiformali, bizzarri,
deformi, realizzati con i materiali più diversi, dalla plastica al feltro, dalla finta pelle alla ceramica.
Selz ricerca negli oggetti funk, volgari e indecenti, richiami a oggetti dada e surrealisti. Si riferisce in
particolare ai Merzbau di Schwitters, alle sculture erotiche di Duchamp, alla produzione di Arp.
Ampia è la lista dei partecipanti alla mostra Funk, che riunisce artisti nati negli anni 20, 30 e nei primi anni
’40.
Piero Gilardi – il quale tra i primi referisce della funk art in Italia – individuando relazioni tra la scena artistica
californiana e le attitudini postpop e postminimaliste in corso in Europa, osserva che alcuni artisti non si
erano ancora totalmente staccati dall’arte pop, mentre altri avevano già raggiunto una straordinaria libertà
ed essenzialità di linguaggio, indicando a tal proposito il nome di Bruce Nauman.
Sebbene in contatto con il clima funk, Nauman non partecipa alla mostra della Berkeley University. La sua
ricerca infatti si discosta dalla funk art, non mostrando quella carica irrazionale percepibile negli altri artisti
appartenenti al gruppo; egli intraprende una ricerca plastica antiminimalista creando forme rigide in
vetroresina e lavori morbidi in lattice, opere che contribuiscono a segnare la nuova scultura al di qua e al di
là dell’Atlantico. Egli esplora linguaggi diversi, che spaziano dalla scultura alla fotografia, dal video alla
performance, indagando le relazioni corpo/spazio.

3.4. Antiform e process art.


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La teorizzazione delle nuove attitudini antiformali si deve a Robert Morris. Nato nel 1931 a Kansas City,
l’artista si trasferisce all’età di 20 anni a San Francisco, qui, oltre ad avvicinarsi alla pittura legata
all’espressionismo astratto, si avvicina alla danza e al teatro d’improvvisazione. Nei primi anni ’60 Morris
comincia a lavorare alle sue prime sculture oggettuali. Tra il 1961 e il 1962 realizza alcune opere che si
possono definire protominimaliste e protoconcettuali, come Column, Pine Portal, Pine Portal with Mirrors,
lavori che fanno riferimento, più o meno esplicitamente, alle proporzioni del corpo dell’artista.
Fondamentale nella ricerca di questi anni è il riferimento a duchamp e al postdada.
In risposta allo sviluppo dei nuovi indirizzi minimalisti, Morris riduce la componente duchampiana nel
proprio lavoro. A inaugurare una nuova fase della sua ricerca è la personale tenuta alla Green Gallery tra il
1964 e il 1965. Semplici forme geometriche in compensato grigio saturano lo spazio della galleria, in cui lo
spettatore si trova immerso; queste forme primarie assumono una diversa valenza a seconda della loro
collocazione nello spazio e in base alla relazione che istituiscono con l’ambiente circostante.
Dal 1966 Morris affianca la pratica scultorea alla riflessione teorica, pubblicando su “Artforum” alcuni
scritti che si inseriscono nel dibattito sulla ricerca plastica riduzionista. Dal 1967 inizia ad utilizzare il feltro,
interessato soprattutto alle caratteristiche fisiche e fattuali. Attratto dal feltro a uso industriale, che ritagli in
strisce più o meno regolari e sospende alla parete, realizza i suoi Felt Pieces, dando vita a forme sculturali
accidentali sottomesse alla forza di gravità. Si può dire che dal 1967 egli inizi ad esplorare in modo più
sistematico l’antiforma. È proprio Morris, infatti, a teorizzare il passaggio dal minimalismo alla nuova
attitudine plastica antiformale. Quantunque quest’etichetta sia in un primo momento rifiutata dall’artista,
sarà subito assorbita nel linguaggio critico come definizione di una nuova plasticità svincolata da ogni
controllo formale.
Secondo Morris la ricerca minimalista, oltre ad aver bandito la composizione asimmetrica e tutti i materiali
non rigidi, non aveva preso in considerazione il processo del fare, che rimaneva invisibile nel prodotto finale.
Sarà quindi la nuova attitudine antiformale a sviluppare una ricerca diretta sul materiale, attraverso
l’esaltazione del processo.
La riflessione di Morris sull’antiforma e sulla processualità si radicalizza nella sua ricerca tra il 1968 e il
1969; in questi anni crea installazioni ambientali costituite da cumuli di materiali eterogenei – feltro, fogli di
piombo, ferro, asfalto, terra – disposti disordinatamente al suolo.

3.4.1. Nine at Castelli.

Alcuni mesi dopo la pubblicazione dello scritto di Morris, a NY vengono organizzate due mostre dedicate
alle ricerche antiformali:
- Antiform, presso la John Gibson Gallery, ottobre-novembre 1968;
- Nine at Castelli, presso il Leo Castelli Warehouse, dicembre 1968.
Entrambi gli eventi mettono in luce l’emergenza di una nuova relazione tra la scena artistica americana e
quella europea. Accanto agli artisti americani vengono accolti anche alcuni italiani, come Anselmo e Zorio; i
due artisti con le loro opere indagano i processi chimici e fisici di trasformazione della materia; gli artisti
americani, invece, esplorano la processualità del fare presentando sculture che enfatizzano le qualità
intrinseche dei materiali.
Il lavoro di Anselmo Senza titolo, precedentemente esposto a Prospect 68 e ad Arte povera più azioni
povere ad Amalfi, è basato sul principio dei vasi comunicanti. Consiste in un contenitore di piombo riempito
con acqua, dal quale fuoriesce del cotone, che assorbe il liquido e lo trasferisce al cotone collocato sul
pavimento, esigendo una continua alimentazione d’acqua.
L’opera di Zorio Piombi, è costituita da due vasche riempite l’una con solfato e l’altra con acido idroclorico,
collegate tra loro mediante una barra ricurva di rame che, immersa nei due liquidi, è il luogo di una reazione
chimica, la cui alterazione risulta chiaramente visibile.
L’artista su cui si concentra l’attenzione della critica statunitense è senza dubbio Richard Serra. Nato a San
Francisco nel 1939, Serra aveva completato la propria formazione artistica in Europa. Si sposta in diverse

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città del Vecchio continente e a Roma ha l’opportunità di tenere la sua prima personale alla Galleria La
Salita; qui Serra espone un assemblaggio di vecchi oggetti e animali vivi e impagliati che faranno molto
scandalo, tanto da indurre le autorità a chiedere la chiusura dell’esposizione. Questo provocatorio
assemblaggio è influenzato dal lavoro di Johns e di Rauschenberg, così come da Duchamp.
Dopo il soggiorno europeo Serra si stabilisce a NY e la sua ricerca si indirizza verso la scultura. Realizza le
prime creazioni plastiche antiformali esplorando le proprietà dei materiali anticanonici come il caucciù, la
fibra di vetro, il piombo e i tubi di luce al neon; tuttavia, queste prime creazioni propongono una soluzione
ancora pittorica alle problematiche della scultura.

3.4.2. Anti-Illusion: Procedures/Materials.

Mentre in Europa si erano da poco concluse le prime tappe delle mostre When Attitudes Become Form e Op
Losse Schroeven. Situaties en cryptostructuren, a New York inaugurava l’esposizione Anti-Illusion:
Procedures/Materials curata da Marcia Tucker e James Monte presso il Whitney Museum of American Art.
Se le rassegne europee avevano fornito un ampio censimento delle ricerche postminimaliste di carattere
processuale e concettuale, presentando artisti europei ma non solo, Anti-Illusion: Procedures/Materials
sancisce l’affermazione museale delle tendenze processuali, circoscrivendo però lo sguardo esclusivamente
alla scena artistica americana. Sarà solo con la mostra Information del luglio 1970 che oltreoceano verrà
proposto un ampio sguardo sul clima operativo transnazionale.
L’esposizione Anti-Illusion: Procedures/Materials coinvolge 21 artisti nati negli anni 30 e 40, provenienti da
esperienze diverse ma tutti accomunati dal voler indagare l’aspetto processuale della loro ricerca. La
rassegna riunisce dipinti, performance, proiezioni video, sculture. Tutti i lavori vengono direttamente creati
nello spazio espositivo. Robert Ryman stende un pigmento bianco su alcune pareti dello spazio espositivo,
concentrandosi sulla temporalità del fare; Bruce Nauman presenta il primo Performance Corridor, invitando
lo spettatore a percorrere un angusto passaggio perpendicolare alla parete della stanza; Richard Serra
realizza Casting e One Ton Porp (House of cards). L’artista è interessato a mostrare il processo di creazione
della scultura, la trasformazione del materiale e dello spazio. One Ton Prop (House of cards) consiste in
quattro lastre di piombo inclinate e appoggiate l’una contro l’altra, trattenute in bilico dal bilanciamento di
forze contrapposte; Eva Hesse propone Vinculum I, Untitled (Ice Piece) e Expanded Expansion. Quest’ultima
è un’opera di notevoli dimensioni, in cui elementi verticali di vetroresina sostengono pezzi di tessuto intriso
di lattice; Alla rassegna espone anche Barry Le Va, per il quale questa mostra costituisce la prima occasione
espositiva a livello istituzionale. Le Va nei suoi primi lavori utilizza ritagli di stoffa e tela, pezzi di legno, corda
e carta. Successivamente inizia anche lui ad utilizzare il feltro, tagliandolo in piccoli frammenti, in lunghe
strisce e in ampi pezzi irregolari che poi sparge in modo casuale sul pavimento. Per questa mostra Le Va
amalgama sul pavimento carta, tessuti, gesso e olio, creando così un’installazione il cui aspetto è in continua
evoluzione nel tempo.

3.5. Soft art.

Questa è un’altra etichetta entrata a far parte della terminologia critica d’oltreoceano per designare il
percorso di ricerca orientato verso la destrutturazione della forma plastica minimalista. Tra il 1968 e il 1969
si tendono due mostre che propongono nel titolo questa definizione.
Lucy Lippard cura la rassegna itinerante Soft art apparently soft sculpture, mentre Ralph Pomeroy presenta
Soft art. In queste mostre il colore è quasi sempre una qualità intrinseca del materiale.

3.6. Earth art.

La riflessione sulla processualità e l’antiforma arriva agli esisti più radicali con la earth art. Gli earthworks
implicano lo sconfinamento dell’azione dallo spazio chiuso della galleria al campo aperto del paesaggio:
distese desertiche, laghi, montagne, cave abbandonate, miniere e periferie industriali, sono i luoghi scelti
per accogliere gli interventi degli artisti, che attraverso azioni di accumulazione, scavo, incisione – compiute

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attraverso l’uso di mezzi tecnologici – imprimono i loro segni nell’ambiente: tracce effimere realizzate con
materiali naturali, in continua trasformazione. La scelta dei luoghi, dislocati spesso in località inaccessibili, e
la natura effimera degli interventi presuppongono una dematerializzazione dell’opera, che spesso viene
restituita nello spazio del museo come informazione e documentazione affidata alla fotografia e alla ripresa
video. La earth art sposta la riflessione sulla terra, in quanto materiale organico primario, utilizzato come
mezzo artistico per dare vita a creazioni sculturali e installazioni ambientali antifomali e transitorie.
Le prime grandi operazioni di questo tipo in ambito americano sono realizzate da Michael Heizer, Dennis
Oppenheim, Robert Smithson, Walter De Maria, Robert Morris, Richard Serra, James Turrell, Carl Andre, Sol
LeWitt, Stephen Kaltenbach e Douglas Huebler.
Michael Heizer realizza i primi interventi nell’ambiente nel 1967. Risale a quest’anno la prima Depression:
inizio di un progetto che si completerà con altri tre scavi, a segnare i quattro punti cardinali sul territorio.
Nel 1968 Walter De Maria realizza Mile Long Drawing: traccia due linee parallele lunghe mezzo miglio con
polvere di gesso nel deserto del Mojave (California).

3.6.1. Earthworks.

Nel settembre 1968 Smithson pubblica un testo su “Artforum” A sedimentation of the mind: earth projects,
che diventa una sorta di manifesto della earth art; qui l’artista realizza un testo fortemente allegorico e
visionario, presentando la più recente ricerca plastica sviluppatasi oltreoceano. Un mese dopo l’uscita di
questo testo, Smithson organizza, presso la Dwan Gallery di NY, Earthworks, la prima mostra di earth art,
che riunisce lavori di Morris, De Maria, Oldenburg e progetti e documentazione di interventi eseguiti nel
paesaggio da Andre, Heizer, Oppenheim, LeWitt, Kaltenbache e Bayer. Anche Smithson è presente alla
rassegna con A Nonsite (Franklin New Jersey), costituito da cinque contenitori trapezoidali di misura
decrescente contenenti schegge di minerale grezzo estratto dalle miniere di Franklin (New Jersey), a cui
affianca la documentazione fotografica del prelievo; Morris presenta Dirth, un cumolo informe di terra e
torba amalgamate a grasso industriale, trucioli metallici e pezzi di feltro; De Maria presenta una parete di 6
metri per 2 dipinta con il medesimo colore giallo utilizzato per i bulldozers al cui centro è incisa la frase
“This is the colour men use to atack the earth”.

3.6.2. Earth Art.

Quest’etichetta si impone definitivamente con la rassegna Earth Art, organizzata dal curatore Eilloughby
Sharp presso l’Andrew Dickson White Museum della Cornell University di Ithaca (NY). In questa mostra del
1969 Sharp coinvolge gli artisti americani Neil Jenney, Robert Morris, Robert Smithson, Dennis Oppenheim,
Carl Andre, Michael Heizer e Walter De Maria, e invita gli europei Richard Long, Jan Dibbets, Hans Haacke,
Günther Uecker e il filippino David Medalla. NB: i rapporti di Sharp con il contesto artisti europeo si erano
sviluppati fin dagli anni 50: con la Kineticism Press pubblica “Avalanche”, rivista che contribuisce
notevolmente alla ricezione dell’arte europea in America.
A differenza della rassegna Earthworks, Earth Art affianca alle opere e alla documentazione in mostra,
interventi compiuti all’aperto, sia nel cortile del museo che nello spazio circostante.
Non tutto va per il meglio: Andre, anche se invitato, non partecipa; De Maria arriva poco prima
dell’inaugurazione e sul pavimento sparge della terra sulla quale traccia la scritta “Good Fuck”: la stanza
viene immediatamente chiusa, provocando scandalo. Heizer, per solidarietà, ritira la propria opera.
All’interno del museo sono esposti gli interventi di Morris, Smithson, Uecker, Haacke e Jenney; nel cortile,
oltre all’intervento di Dibbets, sono visibili quelli di Medalla e di Long. Quest’ultimo ricava da una cava
locale 12 pietre che dispone a rettangolo davanti al museo.

3.6.3. Nuove definizioni.

Nel corso del 1969 altre definizioni s’impongono per designare la nuova dimensione di ricerca della earth
art, tra cui ecologic art e land art.

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John Gibson utilizza il termine ecologic art per il titolo di una mostra organizzata nel magio-giugno 1969.
Nell’aprile 1969 in Germania viene trasmesso in tv il videotape realizzato da Gerry Schum dal titolo Land
Art.

4. L’arte processuale in Europa.

4.1. 19:45-21:55 Dies alles Herzchen wird einmal Dir gehören. = TRAD: Questo cuoricino un giorno
apparterrà a te.

Il 9 settembre 1967, nello spazio di Dorothea Loehr alla periferia di Francoforte, si tiene la mostra 19:45-
21:55. Dies alles Herzchen wird einmal Dir gehören. La rassegna riunisce interventi di carattere effimero e
processuale che si svolgono nel ristretto arco di tempo enunciato dal titolo, gli autori sono giovani artisti
operanti in Inghilterra, Germania e Olanda.
Questo evento viene ad assumere una particolare rilevanza per diversi motivi: attesta l’emergenza di
attitudini processuali affini in diversi paesi e inaugura lo sviluppo di un nuovo asse europeo di relazioni, che
troverà nella Germania un centro nodale di promozione. Gli artisti presenti preso iniziano ad intrecciare un
dialogo con le ricerche d’oltreoceano legate alla process art e alla earth art, ma anche con la scena poverista
italiana.
La mostra è organizzata da Paul Maenz, allora curatore indipendente. Alla fine del 1965 si era trasferito a NY,
poi, rientrato in Germania aveva organizzato la mostra Serielle Formationen a Francoforte, riunendo opere
di 48 artisti operanti oltreoceano e in Europa; subito dopo era nata l’idea di una rassegna che presentasse
non oggetti plastici ma situazioni.
All’evento 19:45-21:55, gli artisti riuniti si confrontano su affini scelte operativi, presentando situazioni
sculturali effimere, che sconfinano anche al di fuori dello spazio fisico della galleria: situazioni caratterizzate
dall’uso di materiali naturali e instabili come la sabbia, il fumo, il legno, l’aria, l’acqua. Richard Long, che
aveva iniziato a compiere interventi nella natura nel 1966, partecipa inviando dei legnetti raccolti nei boschi
dei dintorni di Bristol, questi sono sistemati in modo da formare una linea continua delimitante il perimetro
della galleria, parallelamente riproduce lo stesso intervento nel territorio dove era avvenuta la selezione del
materiale. Jan Dibbets interviene cospargendo sabbia nel cortile antistante lo spazio espositivo tracciando
una forma ovale; in mostra sono proposti anche grandi blocchi di ghiaccio che, collocati vicino alle torce di
fuoco di Bernard Hoke, lentamente si sciolgono.

4.2. La nuova scultura tra Inghilterra, Olanda e Germania.

Nella seconda metà degli anni 60 un clima effervescente caratterizza la scena britannica, dove la critica alla
forma classica è portata avanti dalla generazione di artisti che – discostandosi dal formalismo della New
Generation – indirizza il proprio lavoro verso esiti antiformali e processuali.
Forzando i limiti della scultura in quanto oggetto plastico, questi artisti giungono a esplorare nuovi territori
del fare, in una sperimentazione continua, che implica l’uso di materiali non convenzionali e il
coinvolgimento del corpo stesso nell’azione plastica, così come lo sconfinamento dell’intervento sculturale
nell’ambiente (come parallelamente stava avvenendo in territorio americano).
Completamente diverso è l’approccio degli artisti europei alla natura; alle azioni spettacolari d’oltreoceano
realizzate in spazi sconfinati con l’aiuto di mezzi meccanici, Richard Long, ad esempio, contrappone
interventi che presuppongono l’immersione totale, in senso fisico e spirituale, dell’artista nel paesaggio. In
A line made by walking, l’opera è costituita dalla sola traccia lasciata da Long sul terreno calpestando l’erba.
La testimonianza di questi eventi è affidata a fotografie e testi che restituiscono, nello spazio della galleria, la
traccia delle azioni compiute sul territorio, cui talvolta si affiancano installazioni realizzate con i materiali
prelevati durante le escursioni.
Gilbert & George sono due artisti conosciutisi alla St. Martin’s School of Art (luogo cruciale per lo sviluppo
delle ricerche antiformali in territorio inglese); essi spingono talmente oltre la riflessione sulla processualità
della scultura, da trasformarsi loro stessi in scultura vivente. Nel 1969 presentano Our New Sculpture,
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performance che viene riproposta in forma compiuta nel 1970 col titolo The Singing Sculpure e presentata
in diverse città, tra cui Torino. Abbigliati con un elegante vestito grigio e truccati in viso con polvere di
bronzo e pittura argentata, i due artisti si presentano al pubblico in piedi su un tavolo, e l’uno tenendo in
mano un bastone, l’altro un guanto di caucciù, si muovono lentamente intonando una vecchia canzone. Alla
fine del pezzo, uno dei due scende dal tavolo, per reimpostare la musica e, invertendo i ruoli attraverso lo
scambio del bastone e del guanto, ricominciano la performance che viene ripetuta più volte.
La ricerca più affine a quelle antiform e soft d’oltreoceano è individuabile nella ricerca di Barry Flanagan.
Egli, attraverso l’uso di materiali naturali, morbidi e cedevoli (sabbia, tessuto, sacchi, corda) realizza sculture
che si muovono nello spazio e nel tempo e che danno vita a un unico momento ideativo, che fonde azione e
concezione. Soluzioni simili si riscontrano nella ricerca dell’olandese Ger van Elk, il quale anche lui utilizza
materiali morbidi e informi come la corda e la tela.
Oltre Londra e Amsterdam, altro luogo chiave dell’avanguardia europea è Dusseldorf, città che dai primi
anni 60 si afferma come uno dei centri più vitali della scena artistica tedesca. In questa città è nato il Gruppo
Zero ed è attivo Joseph Beuys, personaggio fondamentale della nuova ricerca tedesca.
Per Beuys gli oggetti e i materiali, mai utilizzati in modo casuale, sono portatori di molteplici significati,
metaforici e simbolici. Durante la guerra Beuys si era arruolato nell’aviazione militare tedesca e, nel corso di
una missione aerea in Crimea, aveva subito un grave incidente, scampando alla morte grazie al soccorso di
una tribù di Tartari, che lo aveva curato con tecniche sciamaniche, cospargendo il suo corpo con grasso e
avvolgendolo con coperte di feltro. L’artista utilizza il grasso per la prima volta nel 1963, quando partecipa a
una conferenza tenuta a Colonia, dove realizza Fettkiste.

4.3. Il ruolo della Germania nel dialogo Europa-America.

4.3.1. La politica culturale americana e il mercato tedesco dell’arte d’avanguardia.

Un articolo pubblicato su Artforum sottolineava come nella seconda metà degli anni 60, era quasi più facile
vedere arte americana contemporanea in Germania piuttosto che a NY. Questo si lega alla politica culturale
americana volta ad affermare, in piena Guerra Fredda, la propria egemonia in Europa. Una politica che si era
rivelata più capillare nei paesi che avevano fatto parte dell’Asse, come l’Austria, la Germania e l’Italia.
Un caso esemplare è costituito dalla Germania occidentale, che nel giro di pochi anni, da “colonia” del
mercato americano, si afferma come il principale mercato internazionale dell’arta, facendo vacillare per un
momento l’egemonia del mercato statunitense; l’apice è raggiunto tra il 1967 e il 1970.
Nella prima metà degli anni 60 il mercato dell’arte americana in Europa era regolato direttamente dai
galleristi americani e soprattutto da Leo Castelli e da Ileana Sonnabend. A partire dalla metà degli anni 70 si
profila un nuovo e più articolato mercato: i galleristi tedeschi, grazie ai sempre più frequenti viaggi
oltreoceano, entrano direttamente in contatto con gli artisti statunitensi. Artisti americani iniziano a
soggiornare per periodi in Germania, ricevendo supporto economico e materiale dai galleristi e collezionisti
tedeschi. Con la fine degli anni ’70 le cose cambiando di nuovo: il mercato USA capisce che era giunto il
momento per una ridistribuzione del potere sul mondo dell’arte, richiamò a NY le proprie filiali europee e
stabilì di mettere in atto un maggiore controllo sulla circolazione degli artisti e delle loro opere.
A partire dai primi anni 60, in relazione al crescente benessere economico, il sistema delle gallerie
tedesche si fa più articolato. Nel 1960 Rudolf Zwirner apre uno spazio espositivo a Essen e poi a Colonia; nel
1963 Heiner Friedrich inaugura una galleria a Monaco e poi a Colonia. Il gallerista di riferimento per l’arte
d’avanguardia a Berlino è René Block, che incentra la propria attività prevalentemente sulla promozione
delle nuove ricerche tedesche; egli allaccia intensi contatti con gli artisti gravitanti nell’ambiente di
Dusseldorf, specialmente con Beuys.
Nel 1967 i galleristi tedeschi maggiormente impegnati nella promozione dell’arte d’avanguardia si
riuniscono nell’associazione Verein Progressiver Deutscher Kunsthandler (Associazione dei mercanti d'arte
progressisti tedeschi), istituendo la prima fiera d’arte europea, che si terrà annualmente a Colonia con
l’obiettivo di fornire una panoramica aggiornata sulle tendenze emergenti. Questo concorre allo sviluppo di
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un fiorente collezionismo. Durante gli anni 60 alcuni collezionisti tedeschi riesco ad assicurarsi importanti
nuclei di opere d’arte americana, tra questi ricordiamo Karl Stroher e Peter Ludwig.
Per quanto riguarda la collezione d’arte americana di Ludwig, nel 1970 in parte confluisce in quella della
Neue Galerie im Alten Kurhaus di Aachen, in seguito sarà sistemata in un apposito spazio espositivo: il
Ludwig Museum.

4.3.2. L’attività di Rolf Ricke, Heiner Friedrich e Konrad Fischer.

Figure centrali per la promozione e la diffusione dell’arte processuale americana in Europa sono questi tre
galleristi.
I primi rapporti di Ricke con l’ambienta artistico di NY risalgono al 1965, quando conosce il gallerista Paul
Bianchini, grazie al quale riesce ad organizzare la prima mostra di artisti americani. Nello stesso periodo,
tramite Tatiana Grossman, diventa il rappresentante dell’Universal Limited Art Editions, e nell’aprile del
1965 organizza la mostra New Grafic USA, seguita nel mese di agosto dall’esposizione 11 Pop Artist
(dedicata alla grafica pop).
Un altro importante gallerista tedesco è Heiner Friedrich; la sua prima attività da gallerista si caratterizza per
la promozione dell’arte tedesca, successivamente, a partire dal 1964 i suoi contatti con l’America si
intensificano, raggiungendo l’apice nel 1968, quando, grazie alla collaborazione con la Dwan Gallery, rivolge
l’attenzione alle ricerche riduzioniste e concettuali presentando Sol LeWitt, Carl Andre e Dan Flavin, per
indirizzarsi ancora dopo verso le tendenze postminimaliste, come l’earth art.
Spostando lo sguardo a Düsseldorf, a partire dai primi anni sessanta, grazie all’azione del Gruppo Zero, alla
presenza di fluxus, e all’attività delle gallerie, prima fra tutte la casa-galleria di Schmela, l’atmosfera della
città si fa sempre più internazionale.
Konrad Fischer inizia la propria attività nell’ottobre 1967. Il suo spazio espositivo non era prettamente una
galleria perché nelle intenzioni di Fischer doveva essere svincolato da una connotazione commerciale e da
un conformismo borghese. La mostra inaugurale è dedicata a Carl Andre.
Come Ricke e Friedrich, anche Fischer imposta l’attività invitando gli artisti a creare progetti in situ; tuttavia,
a differenza di Ricke, la cui programmazione è sbilanciata verso la presentazione dell’arte americana, Fischer
di indirizza alla promozione dell’arte d’oltreoceano, spaziando dal minimalismo alle attitudini
postminimaliste, pur non distogliendo mai lo sguardo dalle ricerche processuali tedesche, inglesi, olandesi e
italiane. Fra il 1967 e il 1970, propone infatti mostre di Blinky Palermo, Klaus Rinke e Reiner Ruthenbeck.
Oltre a Carl Andre e a Nauman, gli artisti americani invitati da Fischer, dall’apertura della galleria sino al
1970, sono Sol LeWitt, Fred Sandback, Richard Artschwager, Robert Ryman, Dan Flavin, Lawrence Weiner,
Donald Judd, Douglas Huebler, Stanley Brown e Robert Smithson.

4.3.3. Documenta IV, 1968

La quarta edizione di Documenta sancisce il potere culturale, economico e politico dell’arte americana in
Europa.
Se la terza edizione di Documenta aveva preso atto del contributo americano nello sviluppo delle ricerche
artistiche contemporanee, con l’edizione successiva fornisce un vero e proprio bilancio dell’arte americana
degli anni 60, determinando uno squilibrio tra le presenze americana e quelle europee (un terzo degli artisti
in mostra provengono dagli USA). Viene infatti proposta un’ampia panoramica sul new-dada, sulla pop art,
sulla post painterly abstraction e sulle ricerche minimaliste.
Un’accesa polemica di natura politico-ideologica è scatenata dall’intervento realizzato il 3 agosto da
Christo. L’artista porta a termine un grandioso progetto consistente in un enorme cilindro gonfiabile alto 85
metri, che copre un’area di 275 metri di diametro e che accoglie il visitatore all’ingresso del Museum
Fridericianum. Dietro questo intervento, destinato a diventare il simbolo della manifestazione, si pensa vi
fosse l’appoggio finanziario di alcuni mecenati americani; Christo ribadì che l’impresa, costata 60.000
dollari, era autofinanziata, quindi dimostrando come un artisti poteva lavorare senza il vincolo del supporto

22
economico delle gallerie.
Nell’ambito di Documenta, la presenza di nuove attitudini plastiche e processuali è circoscritta, ma di rilievo.
Attraverso il coinvolgimento di Beuys, Pistoletto e Nauman, la manifestazione di Kassel fornisce la prima
occasione d’incontro, in ambito istituzionale, fra artisti impegnati al di qua e al di là dell’Atlantico a
sperimentare affini ricerche estetiche tese a esaltare la soggettività interiore dell’individuo. Beuys realizza
uno spazio di forte impatto, Spazio Scultoreo, dove accumula oggetti, attrezzi e strumenti scientifici utilizzati
durante le sue azioni compiute negli ultimi 4 anni. Pistoletto presenta quattro Oggetti in meno (Sarcofago,
Portico, Indicazione di percorso, Pozzi) e un Quadro specchiante (Donna seduta in mini gonna). Nauman
propone sei opere tra le quali My last name exaggerated fouteen times vertically, Henry Moore light trap
n.2 e Henry Moore Bound to fail.

4.3.4. Prospect, 1968-1969.

Nel 1968 Fischer si vede rifiutata la partecipazione al Kunstmarkt; a seguito di ciò, insieme al critico Hans
Strelow, crea un’altra manifestazione commerciale, tenuta alla Kunsthalle di Düsseldorf. Se la partecipazione
al Kunstmarkt di Colonia, sino all’edizione del 1970, è riservata alle gallerie tedesche, Prospect intendeva
coinvolgere le maggiori gallerie di tedenza operanti sulla scena internazionale, così da fornire una
panoramica aggiornata sulle ricerche emergenti. La prima edizione della rassegna si tiene dal 20 al 29
settembre 1968, poco prima della fiera di Colonia, e riscuote grande successo, contando 14.000 visitatori.
L’evento è un importante momento d’incontro e confronto tra gli artisti che stavano sperimentano affini
ricerche plastiche antiformali e processuali.
Fra le 16 gallerie selezionate figurano quella di Gian Enzo Sperone, la Galleria Apollinaire e quella della
Sonnabend. Nello stand della Sonnabend (che espone Nauman, Mario Merz, Anselmo e Zorio) compare un
Feltro di Morris, l’Igloo Mai alzato pietra su pietra di Merz, Sedia e Macchia di Zorio, Direzione e Struttura
che beve di Anselmo.
La seconda edizione di Prospect si diene nel settembre-ottobre 1969 e si articola in due sezioni:
- una dedicata alle gallerie
- una dedicata agli artisti selezionati dal comitato internazionale, indipendentemente dalle scelte operate
dalle singole gallerie.
Nel complesso la manifestazione presenta un’articolata panoramica sulle tendenze processuali e
concettuali. Significativa la presenza degli artisti italiani anche in questa edizione: Sperone propone Boetti,
Prini, Penone e Calzolari; Ileana Sonnabend Giorgio Griffa; è anche invitato Fabio Sargentini che propone il
lavoro di Kounellis e Mattiacci.
Se la prima edizione di Prospect aveva visto la partecipazione di un’unica galleria americana, la Dwan
Gallery, il coinvolgimento delle gallerie USA è maggiore nella seconda edizione (sette su sedici).

5. Gilardi e l’arte microemotiva.

5.1. Viaggi e cronache, 1967-1968.

Grazie ai viaggi intrapresi dal 1967, in Europa e oltreoceano, Gilardi entra in contatto con i primi fermenti
postminimalisti e, attraverso documentazione fotografica, contribuisce a far circolare nell’ambiente torinese
una prima informazione sugli eventi e i protagonisti della scena internazionale emergente.
Gilardi rintraccia un punto comune tra le ricerche europee e quelle americane: l’arte microemotiva.

5.2. I primi viaggi a NY.

Quando Gilardi arriva a NY per una mostra dei suoi Tappeti natura, si accorge presto che i fermenti che
animano la scena artistica d’oltreoceano sembrano muoversi verso un superamento delle ricerche
minimaliste.
L’artista aveva intrapreso un primo viaggio in America in compagnia di Pistoletto nel 1967; in
quest’occasione Gilardi si era reso conto di quanto fosse importante esporre il proprio lavoro in
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quell’ambiente così stimolante. Durante il secondo soggiorno a NY, nell’autunno dello stesso anno, Gilardi
s’immerge nella vita culturale della città, visitando mostre, spazi espositivi e artisti; durante questo
soggiorno fornisce un’analisi della nuova dimensione artistica internazionale marcatamente antiminalista,
sviluppatasi dopo il 1965, che definisce “funny looking”. Tra i principali rappresentanti di questa nuova
tendenza Gilardi individua i sei artisti che avevano partecipato a Eccentric Abstaction: Alice Adams, Eva
Hesse, Gary Kuehn, Bruce Nauman, Keith Sonnier e Frank Viner.

5.2.1. La fortuna critica della funk art in Italia.

In Italia era circolata una tempestiva informazione sulla funk art, la cui rassegna ufficiale si era tenuta presso
l’University Art Museum di Berkeley nell’aprile-maggio 1967.
Gilardi scrive un articolo su Flash, il quale viene affiancato da una scheda e da uno scritto di Arnaldo
Pomodoro, il quale scrive:“Il funk, che è in parte una ripresa dada, è l’unica possibilità plausibile di
neofigurativo, comprende opere disgustose e opere buffe”. Tra gli artisti funk, Pomodoro apprezza
particolarmente il lavoro di Sue Bitney, artista americana per la quale verrà realizzata una personale a
Milano, a Genova e a Bologna.

5.3. I viaggi in Europa.

Nel viaggio di ritorno in Europa, Gilardi, in compagnia di Icaro, visita Londra e Dusseldorf e nel reportage
pubblicato su Flash Art fornisce dettagliate informazioni sugli artisti incontrati.
Arrivati a Londra, i due artisti si recano alla Rowan Gallery, dove vedono alcuni lavori di Barry Flanagan (dei
sacchi di tela grezza riempita di sabbia e disposti sul pavimento in una specie di composizione Zen). Con
Flanagan si recano alla St. Martin’s School, dove rimangono colpiti dal lavoro di Richard Long, il quale lavora
direttamente sulla natura conservando fotografie dei suoi lavori come documentazione.
Il contatto degli artisti inglesi con il clima italiano non tarda ad avvenire: nel 1968 Long si trova ad Amalfi
per la partecipazione a Arte povera più azioni povere, mentre Flanagan inaugura una personale alla Galleria
dell’Ariete a Milano, dove propone morbide creazioni aformali rivestite con tessuti dai colori vivaci, sacchi
informi e corde sul pavimento.
Da Londra, Gilardi e Icaro si spostano a Dusseldorf, centro dell’avanguardia europea. Qui visitano gallerie e
artisti; il soggiorno si conclude con la visita a Beuys, visita che racconterà nel suo reportage pubblicato in
Italia, scritto che determina una più ampia circolazione dell’informazione sul lavoro dell’artista tedesco.
Dopo la visita a Dusseldorf, Gilardi prosegue il viaggio da solo, dirigendosi a Parigi, dove incontra Ileana
Sonnabend.
Nel gennaio del 1968 Gilardi parte per Amsterdam in compagnia di Tommaso Trini; qui i due visitano mostre
e musei ed entrano in contatto con diversi galleristi e artisti.
Nel frattempo, Gilardi rimane in contatto con Icaro (che stava a NY), i due si scambiano informazioni sulla
scena artistica internazionale. L’ultima lettera di Gilardi trovata nell’Archivio Icaro risale al 24 febbraio 1968.
Dopo aver fatto il punto della situazione sul progetto del Deposito d’Arte Presente, riferisce a Icaro di essere
interessato ad alcune opere di diversi artisti svedesi. Di lì a poco, Gilardi parte per Stoccolma proprio per
conoscere il lavoro della nuova avanguardia svedese. Al ritorno in Italia organizza una doppia personale di
Boezem e van Elk preso la Galleria La nuova loggia di Bologna, presentata da Renato Barilli. Barilli evidenzia
come i due artisti attingono a una primarietà fluida e sensoriale, la quale riesce a superare l’esplicazione
dell’azione nello spazio fisico, dematerializzando l’opera e restituendola esclusivamente come progetto.

5.4. L’arte microemotiva.

Nel 1968 Gilardi conia l’etichetta di arte microemotiva per definire quella nuova dimensione artistica
internazionale, marcatamente antiminimalista, sviluppatasi a partire dal 1965.
Gilardi individua i primi sintomi di quest’arte nel lavoro di Boezem, Kuehn, di Suvero, Thek e Nauman. I
primi eventi espositivi nei quali si manifesta un confronto tra questi artisti sono le mostre newyorkesi

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Eccentric Abstraction, Abstract Inflationism and Stuffed Expressionism e Slow Motion e la rassegna europea
19:45-21.55.
Secondo Gilardi l’arte microemotiva è in parte derivata dal vivace spirito sensualistico della funk art.
Oltrettutto, Gilardi non considera la funk art un atteggiamento esclusivamente californiano, ritrovando
caratteristiche associabili ad esso al di là e al qua dell’Atlantico. Utilizzando materiali morbidi, flosci e
flessibili, gli artisti funk sperimentano forme sculturali sensuali che si espandono liberamente nello spazio.

5.5. Il fallimento di un’utopia.

L’iniziale entusiasmo di Gilardi circa l’avanguardia artistica internazionale presto si affievolisce. L’artista
osserva che a partire dall’estate 1968 manifestazioni come Prospect avevano già messo in luce l’integrazione
al sistema delle nuove ricerche, sancendo il fallimento di quella rivoluzione culturale che doveva portare
l’arte alla vita.
Una conferma che l’avanguardia postminimalista si stava completamente integrando al sistema è fornita,
secondo Gilardi, dalla mostra di Berna.

6. 1969: quando le attitudini diventano forma.

6.1. Op Losse Schroeven. Situaties en cryptostructuren e Live in Your Head. When Attitudes Become
Form.

Con le mostre Op Losse Schroeven. Situaties en cryptostructuren e Live in Your Head. When Attitudes
Become Form Works, Concepts, Processes, Situations, Information gli artisti, i critici, i galleristi e il pubblico
prendono atto di far parte di un circuito percettivo internazionale. Questi eventi sanciscono il
riconoscimento delle ricerche postpop e postminimaliste emerse al di qua e al di là dell’Atlantico nella
seconda metà degli anni 60.
Op Losse Schroeven ha luogo nel marzo-aprile 1969 presso lo Stedelijk Museum di Amsterdam e poi viene
trasferita al Folkwang Museum di Essen con un altro titolo.
When Attitudes become Form viene organizzata da Harald Szeemann presso la Kunsthalle di Berna e poi
viene trasferita a Londra. Come sottolinea Trini nell’articolo pubblicato nel catalogo della mostra bernese, la
situazione di ricerca postpop e postminimalista è caratterizzata da un’eterogeneità di approcci al fare, da qui
la scelta del curatore svizzero di non usare nel titolo restrittive etichette critiche. Le attitudini proposte nelle
due mostre, che si articolano in opere, progetti, processi, situazioni e informazioni, sfuggono infatti le
classificazioni, poiché oltrepassano una dimensione di ricerca facilmente etichettabile.
L’idea della mostra bernese era nata nell’estate 1968, a seguito dell’incontro tra Szeemann, Nina Kaiden e
Jean-Marie Theubet, i quali gli avevano messo a disposizione un budget di 25.000 dollari per organizzare
una mostra internazionale. In un primo momento il critico aveva pensato a una rassegna sui nuovi
esperimenti con la luce, volgendo la propria attenzione ai Light Shows e alle ricerche degli artisti di Los
Angeles, tuttavia questa mostra avrebbe ricalcato quanto già indagato con un’esposizione precedente
tenutasi alla Kunsthalle di Berna. Da qui la decisione del critico di orientare lo sguardo sulle ricerche
processuali.
Grazie a diversi galleristi tedeschi, Szeemann ha modo di vedere lavori e di avere gli indirizzi degli artisti
statunitensi impegnati a esplorare la nuova dimensione operativa postminimalista. Anche l’incontro con
Gilardi deve essere stato determinante per definire la lista dei partecipanti da coinvolgere.
Fin da subito Szeemann aveva l’idea di far viaggiare la mostra in più istituzioni museali possibili, in modo da
creare un circuito internazionale della nuova avanguardia, così da rendere la mostra un organismo in
continuo divenire, da attualizzare in ogni nuova sede. Fra le intenzioni di Szeemann vi è la volontà di far
uscire l’evento espositivo dal museo, nella città e in spazi dismessi.
When Attitudes Become Form inaugura il 22 marzo, accompagnata da una conferenza di Celant, che spiega
le ragioni operative e concettuali degli interventi proposti. A partire dal 15 marzo cominciano ad arrivare a
Berna gli artisti per allestire le opere e realizzare gli interventi. Richard Serra, come nella mostra Nine at
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Castelli, getta 210 kg di piombo fuso sul pavimento e sul muro della sala principale del museo.
La rassegna fornisce un’ampia panoramica sulle attitudini plastiche antiform: il percorso inizia idealmente
con Oldenburg, riconosciuto come il precursore della nuova ricerca plastica incentrata sulla
sperimentazione della non rigidità e dell’antiforma dei materiali, per proseguire con i Feltri di Morris, con le
creazioni sculturali di Sonnier, Nauman, Viner, Hesse, Tuttle, Kuehn, Saret, Bollinger e Serra.
La sala adiacente a quella di Serra è occupata da Beuys, che osserva i visitatori con una cantilena emessa
da un nastro magnetico posto accanto a una pila di feltro. L’artista tedesco stende inoltre pani di margarina
lungo gli angoli della sala.
All’esterno, davanti all’entrata del museo, Heizer realizza alcune Depressions; van Elk sostituisce una lastra di
pietra del marciapiede con la relativa riproduzione fotografica; il giorno dell’inaugurazione, Buren viene
arrestato per affissione illegale di manifesti. De Maria ottiene l’attivazione di un’apposita linea telefonica per
parlare direttamente da New York con i visitatori della mostra (Art by telephone): il telefono è collocato nel
percorso espositivo affiancato dalla scritta: “If this telephone rings, you may answer it. Walter De Maria is
on the line and would like to talk to you”.
Molti artisti sono presenti esclusivamente con informazioni o documentazione fotografica.
Nelle esperienze degli artisti italiani affiora una tensione trasferita dall’uomo all’oggetto, tensione che le fa
apparire più precarie, più discorsive e narrative rispetto all’oggettività di quelle americane. Merz espone un
igloo con vetri rotti intitolato Acqua scivola, il Calco di mastice come per i denti, Sit-in e Appoggiati. Anselmo
realizza Torsione, Senza titolo (lavoro costituito da una vasca di acciaio con acqua, calce e mattoni). Tra le
opere di Zorio si segnalano Torcia e Giunchi e fiaccole. Boetti presenta Io che pendo il sole a Torino il 19
gennaio 1969, La luna, Boetti (due lastre di ferro nero pece su cui è incisa la firma dell’artista in positivo e in
negativo), Terreno giallo (lastre di terracotta della misura 100x100 centimetri disposte a pavimento).
Kounellis, per ovviare al mancato arrivo delle sue opere bloccate in dogana, compra fagioli, farina, piselli,
carbone, caffe e riso, che sistema dentro vecchi sacchi di iuta.
All’inaugurazione è presente anche l’artista giapponese Hidetoshi Nagasawa, che si autoinvita installando
all’ingresso della Kunsthalle un blocco di ghiaccio secco delle dimensioni di 40x40x40 centimetri.
Op Losse Schroeven inaugura il 15 marzo; la mostra risulta più strutturata rispetto a quella di Berna.
Fra gli interventi degli artisti americani si segnala quello di Morris, eseguito a cura del museo: il progetto
prevede una raccolta di materiali combustibili da collocare sul pavimento durante tutto il periodo della
rassegna, per essere poi bruciati in un altro luogo l’ultimo giorno. De Maria propone un materasso su cui il
visitatore può distendersi per ascoltare suoni provenienti da un ricevitore a cuffie; nella sala di Nauman,
semibuia, a fianco delle parole allungate scritte al neon (il mio nome come se fosse scritto sulla superficie
della luna) sono proiettate in continuità alcuni film, come immagini dell’artista che suona il violino o gioca
con le palle.
Gli artisti italiani puntano anche qua a un’autenticità di vita e di comunicazione. Marisa Merz propone i suoi
manufatti in trame di filo di nylon; Icaro concepisce la propria azione ponendo al centro della sala un
vecchio tavolo trovato nei depositi dello Stedelijk, su cui colloca in modo casuale fotografie e
documentazione varia attinta dall’archivio del museo e inerente la passata attività espositiva dell’istituzione.
Con la grafite da annerire le finestre della stanza su cui ogni giorno traccia sue riflessioni, parole e frasi.

7. Le riviste, la critica e l’informazione in Italia.

7.1. Le riviste.

Accanto alle pubblicazioni d’arte d’avanguardia, che seguono la profonda trasformazione del linguaggio e
del ruolo della critica (Bit, Cartabianca, Collage, Flash Art, Made in, Marcatrè, Metro, Pallone,
Senzamargine) si aggiungono i contributi e le cronache pubblicate nei periodici legati all’avanguardia
letterarie e teatrale (come Carte Segrete, Che fare, Il Verri, Nuova Corrente, Quindici, Teatro) e altri tipi di
riviste come le pubblicazioni d’arte a prevalente carattere divulgativo o settimanali d’attualità e politica
(quali Epoca, L’Espresso e Panorama).
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Tra i progetti editoriali legati alle gallerie si ricordano i Quaderni della Galleria de’Foscherari di Bologna, Qui
Arte Contemporanea del Centro d’Arte Editalia di Roma; Nac – Notiziario d’arte contemporanea – nasce
come un progetto autoprodotto e autofinanziato. Questo bollettino non vuole essere una rivista di tendenza
o d’avanguardia, ma intende recensire eventi artistici legati all’arte contemporanea in modo da sollecitare
l’intervento attivo del pubblico ai fatti dell’arte.
A cavallo tra gli anni 50-60 sono pubblicate le prime riviste internazionali: si pensi a Metro, fondata a
Milano nel 1960 da Bruno Alfieri, strumento di diffusione del new-dada e della pop art in Italia.
Due riviste destinate ad assumere una posizione di primo piano nel dibattito culturale del decennio sono
Marcatrè e Collage, che vedono entrambe la luce nel 1963, proseguendo le pubblicazioni fino al 1970. Esse
si propongono di superare l’impostazione settoriale tra i linguaggi per arrivare a una totalizzazione che
abbraccia arte, musica, teatro, cinema, architettura e design.
Marcatrè – notiziario di cultura contemporanea – viene fondato a Genova da Luigi Tola e Rodolfo Vitone,
che affidano la direzione a Eugenio Battisti; anche il giovane Celant, allievo di Battisti alla facoltà di Lettere
dell’Università di Genova, viene coinvolto nel progetto come segretario, e incaricato di curare la cronaca
d’arte, iniziando con questa collaborazione la propria attività critica.
Gli obiettivi di Marcatrè sono il dialogo e lo sconfinamento continuo tra i linguaggi. Sin dai primi numeri la
rivista accoglie contributi di critici stranieri e traduzioni inedite, assumendo un taglio informativo
internazionale.
Collage, trimestrale di nuova musica e arti visive contemporanee, pubblicato a Palermo sotto la direzione di
Paolo Emilio Carapezza e Antonio Titone, condividerà diversi obiettivi di Marcatrè. Per quanto riguarda le
arti visive, la rivista fornisce uno sguardo attento e tempestivo sulle nuove ricerche italiane e, nello stesso
tempo, dedica ampio spazio all’informazione sulla situazione artistica d’oltreoceano.
Nel 1967 vedono la luce Bit, rivista interdisciplinare fondata a Milano nel mese di marzo sotto la direzione
di Daniela Palazzoli e Flash (dal sesto numero diventerà Flash Art), pubblicata a Roma e diretta da Giancarlo
Politi. Entrambe propongono un’informazione aggiornata sulle ricerche artistiche attuali, ma
completamente diversa sarà la loro impostazione e la loro funzione. Flash Art si presenta come un giornale-
bollettino in bianco e nero, con l’obiettivo di offrire uno strumento agile e diretto d’informazione,
privilegiando la cronaca piuttosto che l’elaborazione critica.
Bit, la cui breve esistenza di conclude nel 1968, vuole svincolarsi completamente dalle dinamiche
capitalistiche del mercato dell’arte, rifiutando la pubblicità. Bit si pone come obiettivo il miglioramento della
qualità dell’informazione sulle ricerche contemporanee, dal momento che il problema dell’informazione
continua a essere ancora un problema.
Sia Bit sia Flash Art manifestano una vocazione internazionale; nelle prime annate di Flash Art si presentano
cronache e reportage dagli USA. Bit pubblica anche traduzioni in inglese dei testi.
Altra rivista destinata ad assumere una posizione di primo piano nel dibattito critico e ideologico del
momento è Cartabianca, il bollettino dell’Attico, edito da Fabio Sargentini (proprietario della galleria).
Direttore della pubblicazione è Alberto Boatto, il quale dopo il terzo numero, a causa di contrasti con
Sargentini, abbandona la sua posizione e fonda Senzamargine. L’avventura editoriale di Cartabianca
proseguirà sotto la direzione di Adele Cambria, concludendosi nel maggior 1969 con la pubblicazione del 5°
numero. Come Bit, anche Cartabianca si inserisce nel clima della contestazione, opponendosi alle dinamiche
capitalistiche che regolano il sistema dell’arte e contribuendo, attraverso i critici e gli artisti coinvolti a
riconsiderare il rapporto tra arte e vita.

7.2. Il rinnovamento della critica.

Nel corso degli anni 60 la critica italiana scavalca quella prospettiva europea entro cui aveva fino ad allora
operato e ridefinisce il proprio ruolo.
Nel 1963 si pongono le basi per quella “crisi dell’interpretazione” che attraverserà tutto il decennio. Carla
Lonzi nel 1963 denuncia la pericolosa strumentalizzazione che la critica stava attuando nei confronti

27
dell’artista, iniziando così un lungo dibattito che coinvolgerà altre personalità come Giulio Carlo Argan, il
quale distingue la “critica come funzione” dalla “critica come giudizio” e sottolinea la necessità di esplorare
una nuova relazione tra l’arte e la critica: “L’arte deve avere una componente critica, la critica una
componente creativa”.
Lonzi si schiera di nuovo nel dibattito, assumendo una delle posizioni più radicali, mettendo in discussione i
criteri di assolutezza idealistica della critica d’arte. Lonzi parla di una critica compromessa con gli strumenti
del potere e i privilegi istituzionali, che finisce per alimentare la frattura tra arte e pubblico. In base a queste
premesse Lonzi per tutto il decennio continuerà a cercare un rapporto più immediato con il fatto artistico. Il
punto di arrivo della sua riflessione è costituito dalla pubblicazione nel 1969 di Autoritratto, testo nato dalla
raccolta e dal montaggio di conversazioni – alcune inedite, altre già pubblicate su Marcatrè e Collage – fatte
a partire dal 1965 con quattordici artisti italiani di diversa generazione. Autoritratto è un insieme di
narrazioni in prima persona, cucite insieme per dar vita a una conversazione ideale tra gli artisti.
Lonzi vuole abolire la distanza, quel filtro che si istituite tra l’atto critico e il pensiero dell’artista, attingendo
una maggiore aderenza al vissuto esistenziale di quest’ultimo, per meglio comprendere il processo creativo,
le tecniche di lavoro. Registrare, riascoltare e trascrivere le parole dell’artista non significa annullare
l’operazione critica, ma accettare di mettere in discussione il gioco di ruoli imposto dal sistema, sottraendosi
a quelle dinamiche di potere legate alle logiche di mercato.
Nel novembre 1968, in pieno clima contestatario, sul terzo numero di “Cartabianca”, Boatto, Bonito Oliva,
Calvesi, Celant, Menna e Trini hanno modo di discutere sul rapporto arte e politica, e di ridefinire il valore
dell’intervento critico in relazione alla rivoluzione estetica in atto. Partendo dalla convinzione che l’arte e la
cultura non stanno all’esterno ma dentro gli avvenimenti, questi critici di diversa formazione e generazione
si domandando in che modo arte e cultura possano rifiutare la riduttiva funzione di “commento” e
“testimonianza” degli eventi politici per assumere un impegno di coinvolgimento. Le risposte sono diverse e
riflettono il disordine del momento.
Bonito Oliva segue le trasformazioni dell’operazione critica, parlando di passaggio da una “critica
transitiva”, che rende possibile l’inserimento dell’arte nel mercato e la sua conseguente mercificazione a un
“intransitivo critico”, dove l’intervento critico abbandona l’atto interpretativo e si fa diretta testimonianza.
A differenza di Bonito Oliva, per Calvesi, l’azione del critico deve sempre interpretare; lo studioso deve poi
instaurare un confronto tra il fare artistico contemporaneo e la nozione di processo creativo nell’arte
rinascimentale. Mentre nell’arte antica il processo era stato mitizzato, nell’arte contemporanea questo
scappa da qualsiasi mitizzazione.
Filiberto Menna osserva che l’artista, dopo la militanza politica sperimentata negli anni 50, deve
riconsiderare la propria funzione in chiave soggettiva.
Tommaso Trini ipotizza un superamento della dimensione politica attraverso la dimensione estetica, l’arte è
da lui intesa come un processo di liberazione e non solo come processo metaforico.
Celant interviene proponendo l’intervento più programmatico, che rivela l’esigenza di raggiungere un
completo scambio tra l’azione crito-estetica e l’avvenimento in corso. La critica deve esporsi come evento, in
divenire con il lavoro artistico. Celant cerca di sviluppare un’analisi il più possibile diretta e contingente
dell’evento estetico, che superi la dimensione storicistica dell’atto critico.
Per poter svolgere una diversa azione è necessario che la critica utilizzi nuovi strumenti, abbandonando la
parola ambigua a favore dell’interpretazione; la nuova “critica acritica” deve basarsi sugli strumenti di
documentazione, dalla fotografia alla ripresa cinematografica, dalla registrazione ai documenti a stampa.
Coerentemente con queste premesse, nel giugno 1970, Celant fonda a Genova l’Information
Documentation Archives: un centro di documentazione sull’arte e l’architettura contemporanea, cui il
pubblico può accedere per la consultazione del materiale suddiviso in tre filoni:
- arte povera
- arte concettuale
- land art

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7.3. La ricezione delle ricerche processuali.

7.3.1. L’informazione tra 1967 e 1968.

Mentre in Italia si sviluppano le prime ricerche poveriste, in Europa e negli USA affiorano i fermenti inziali
del postminimalismo, di cui nella stampa periodica italiana si possono trovare i primi riferimenti a partire
dall’autunno 1967, grazie principalmente ai reportage di Piero Gilardi. Fino a questa data le informazioni sul
contesto artistico internazionale sono caratterizzate dalla ricezione della pop e del minimalismo.
Nel numero di gennaio-febbraio 1968 di Flash Art, parallelamente al reportage da Londra e Dusseldorf di
Gilardi, appare una cronaca da NY di Claudio Cintoli, incentrata sulla descrizione della ricerca plastica di
Robert Breer. Cintoli si trasferisce a NY e qui pubblica articoli e cronache su diverse riviste; egli rivolge
principalmente l’attenzione alla ricerca plastica concentrandosi su artisti come Sol LeWitt, Fred Sandback e
David Novros.
Nel maggio 1968 su “Cartabianca” appare un contributo di Maurizio Calvesi. A seguito di un viaggio in USA
il critico romano si rende conto che il minimalismo sta vivendo una seconda ondata che avrà la sua svolta in
direzione antiform. Secondo Calvesi, con questi lavori si arriva a una riconsiderazione del rapporto tra la
forma e la struttura: ora è presente un principio di distinzione della forma dalla struttura, un esempio
emblematico sono i Feltri di Robert Morris. I Feltri, sottoposti alla forza di gravità, danno vita a un cumolo
informe e indeterminato e allo stesso tempo lasciano emergere la precisione del taglio con cui sono stati
selezionati; la tensione che si avverte è sì quella della massa dell’oggetto ma è anche quella del taglio.
A partire dall’estate 1968 si intensificano le occasioni di confronto e incontro tra gli artisti, i critici e i
galleristi, soprattutto in occasione di Documenta e di Prospect 68. Da questo momento si registra una più
ampia circolazione d’informazione sulla nuova avanguardia artistica internazionale.

7.3.2. L’informazione nel 1969.

Nel gennaio 1969 Tommaso Trini pubblica sulla rivista “Domus” Nuovo alfabeto per corpo e materia, testo
che poi verrà pubblicato nel catalogo della mostra When attitudes become form. Con questo scritto il critico
fornisce un’attenta analisi sul clima operativo internazionale, mettendo in relazione le esperienze poveriste
italiane con le coeve ricerche processuali statunitensi ed europee. Ad apertura del testo, Trini, osserva che
ricerche artistiche simili si sono sviluppate spesso pur senza una reciproca influenza tra gli artisti.
Dopo questa pubblicazione, Trini dà alle stampe il testo L’immaginazione conquista il terrestre, che fornisce
un’ulteriore importante lettura sulla dimensione artistica internazionale. Trini si sofferma a descrivere la
prima mostra di earth art, Earthworks, analizzando gli interventi di Morris, Smithson, Opepenheim, Heizer e
Oldenburg. Si rivolge poi al contesto europeo, mettendo in luce come dal 1967 si sia creato un intenso
scambio tra l’ambiente artistico statunitense e quello europeo, soprattutto grazie alla Germania.
Tra la primavera e l’estate 1969 esce il numero unico di “Senzamargine”, sotto la direzione di Alberto
Boatto. La rivista prosegue il dibattito sul tema della constatazione e azione politica aperto col terzo numero
di Cartabianca. Menna e Trini propongono una riflessione teorica sulle linee di comportamento della nuova
generazione di artisti, la cui ricerca giunge alla creazione di un’esperienza globale situata al centro della vita;
Celant esamina in maniera concreta il contenuto delle più recenti esperienze estetiche e del loro senso della
vita e della natura, mettendo in relazione il lavoro dell’avanguardia europea con quello degli artisti
statunitensi, come di lì a poco farà nel volume Arte povera.
Nel luglio 1969, nell’ambito del dibattito pubblicato su “Marcatrè”, Gillo Dorfles parla di “arte situazionale”,
coniando anch’egli una nuova definizione per designare l’attuale dimensione artistica sviluppatasi. Con
questa definizione egli vuole indicare un’arte che esalta la situazione in quanto agire dell’artista e l’azione
naturale.
Nel settembre 1969 Achille Bonito Oliva dà alle stampe su “Domus” l’articolo America Antiforma, resoconto
di un viaggio a NY. Il critico si sofferma a descrivere gli studi degli artisti: vecchi depositi e magazzini, che
offrono ampi spazi adatti al movimento libero dell’artista. definisce poi quelle nuove proposte non-formali

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che si sono imposte sulla scena artistica newyorkese, riunendo nella definizione di antiforma non solo le
attitudini plastiche antifomali, ma anche le ricerche legate alla earh art.
Dal 1969, a seguito dai vari scambi e viaggi di artisti, critici e galleristi, si fanno sempre più intensi i contatti
tra l’Italia e il contesto internazionale. A partire da quest’anno si moltiplicano anche le occasioni espositive
dedicate ai protagonisti della scena internazionale grazie all’azione promozionale compiuta da diversi
galleristi come Gian Enzo Sperone a Torino, Fabio Sargentini a Roma e Francoise Lambert a Milano.

7.3.3. “Cartabianca”: tra critica e informazione.

A seguito del cambio di direzione avvenuto dopo la pubblicazione del terzo numero (novembre 1968),
“Cartabianca” muta l’impostazione recuperando l’originaria vocazione di bollettino di galleria. Sargentini
riferisce che la rivista era nata con lo scopo di pubblicizzare l’attività della galleria.
Dal 1968 Sargentini indirizza l’attività espositiva dell’Attico verso la promozione dell’arte d’oltreoceano,
alternando gli eventi dedicati agli italiani con quelli statunitensi. Ben presto il gallerista volge la sua
attenzione alla earth art.
Nella primavera 1969, per l’organizzazione del festival Danza Volo Musica Dinamite, Sargentini va a NY dove
entra in contatto con Smithson e LeWitt. Su “Cartabianca” Sargentini riferisce di questo incontro: Smithson
gli presenta alcuni Nonsites, lavori che Sargentini non apprezza completamente, preferendo gli interventi
realizzati direttamente sulla natura. Smithson (come LeWitt) arriverà a Roma tenendo una mostra alla
Galleria George Lester. Con Sargentini realizzerà un evento, Asphalt run down, presso la Cava di Selce. Con
questo progetto l’artista fornisce una delle riflessioni più profonde sull’antiform, facendo sì che un materiale
fluido e informe determini la forma dell’opera. Servendosi di una bitumatrice, l’artista produce 15 quintali di
asfalto liquido, che carica su un camion e scarica in un pendio della cava.

8. Intorno all’arte povera.

8.1. Arte Povera, 1969.

Dopo la rassegna di Amalfi, Celant è coinvolto da Carlo Giani per la realizzazione di una pubblicazione sulla
nuova avanguardia artistica internazionale. Questo progetto era stato prima proposto a Tommaso Trini che
però aveva rifiutato. Tra il 1968 e il 1969 Celant viaggia in Europa e in America per selezionare gli artisti e
raccogliere la documentazione e il materiale fotografico. L’uscita del libro, inizialmente prevista per il mese
di marzo, quindi in concomitanza con le mostre di Berna e di Amsterdam, viene posticipata a novembre. Ha
da subito una diffusione internazionale, grazie a una distribuzione in quattro edizioni e in tre lingue
(italiano, inglese e tedesco). Per quanto riguarda il titolo l’editore aveva prima pensato di usare quello della
mostra di Berna, successivamente viene deciso come titolo Arte povera (nell’edizione inglese viene aggiunto
il sottotitolo Conceptual, Actual or Impossibile Art?).
La definizione di arte povera, nata in un momento di forte tensione politica e sociale, nel giro di un biennio
cambia di significato e viene usata per descrivere la nuova situazione artistica intercontinentale.
Celant, nel testo che accompagna il materiale sugli artisti, mette a fuoco la poetica poverista con un nuovo
sguardo: fa convergere in questa definizione attitudini e procedure diverse, tese a esplorare un nuovo
rapporto tra l’individuo e il mondo, tra corpo e spirito, tra tempo e memoria. Dal punto di vista
metodologico il discorso è impostato eliminando il commento critico in base al principio della “critica
acritica”.
Per quanto riguarda le presenze italiane inserisce Pistoletto, Mario Merz, Kounellis, Fabro, Anselmo,
Calzolari, Paolini, Boetti, Zorio, Prini, lo Zoo e Penone, per la prima volta riunito al gruppo poverista. A essi
affianca artisti americani De Maria, Kaltenbach, Hesse, Heizer, Huebler, Weiner, Nauman, Kosuth, Barry,
Oppenheim, Smithson, Sonnier, Morris e Serra, i britannici Flanagan e Long, i tedeschi Beuys, Walther,
Ruthenbeck e Haacke, e gli olandesi Boezem, Dibbets e van Elk.
La posizione del critico nei confronti della definizione di are povera cambia di nuovo: l’anno successivo
dovendo organizzare a Torino una mostra Celant preferisce orientarsi per un titolo connotato criticamente:
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Conceptual Art, Arte Povera, Land Art. l’etichetta qua va a designare la situazione artistica italiana,
sottolineando una poetica che si differenzia sia dall’arte concettuale che dalla earth art.

8.2. Conceptual Art, Arte Povera, Land Art.

Il progetto di questa mostra nasce tra la fine del 1969 e l’inizio del 1970, quando Celant propone a Luigi
Mallé, direttore della Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino, di organizzare un’sposizione dedicata alle
ricerche internazionali; in tal modo l’istituzione torinese si sarebbe allineata al MoMA di NY e alla Tokyo
Metropolitan Art Gallery.
L’intenzione del critico era quella di organizzare una mostra di alto profilo, in grado di presentare la nuvoa
dimensione operativa, proponendosi come “antibiennale” e assicurando in questo modo una visibilità
internazionale all’istituzione torinese. Tuttavia, Celant è consapevole che il museo si potrebbe trovare
impreparato ad accogliere la nuova arte, non solo in termini di allestimento, ma anche di fruizione della
mostra da parte del pubblico.
Celant coinvolge Lucy Lippard per un contributo in catalogo che, sulla scia di quelli di Amsterdam e Berna,
doveva essere ricco d’informazione e documentazione, tanto da costituire una parte integrante dell’evento.
La rassegna si articola in quattro sezioni:
- mostra
- film
- diapositive
- catalogo; qui viene documentato il lavoro di tutti gli artisti.
Per quanto riguarda la scelta delle opere, Celant cerca di contenere le spese avvalendosi essenzialmente di
lavori reperibili in Italia, attraverso prestiti concessi dai galleristi Sperone, Sargentini e Lambert, e dai
collezionisti Peppino Agrati e Giuseppe Panza di Biumo. Il progetto espositivo prevede la presentazione di un
singolo lavoro – non per forza inedito – per ciascun artista selezionato e la realizzazione di alcuni interventi
e progetti appositamente ideati per l’occasione.
Il percorso espositivo si snoda sui due piani del museo per assicurare un più ampio respiro ai lavori e
invade anche il giardino. All’ingresso il visitatore è accolto da uno striscione stradale nero di Kosuth;
vacando l’ingresso il visitatore vede l’opera di Penone: una pagnotta di circa 50 kg (Pane) contenente al suo
interno le lettere dell’alfabeto di latta, che gli uccelli, mangiando il pane, scopriranno poco a poco.
On Kawara (unico artista giapponese presente in mostra) presenta I meet, lavoro composto da una serie di
foglietti, compilati dal 10 maggio al 30 giungo 1969, nei quali sono annotati i nomi delle persone incontrate
dall’artista durante la giornata.
Gli italiani partecipano con opere ampiamente documentate e storicizzate. Pistoletto espone Pietra miliare,
Merz Igloo di Giap, Boetti Lampada annuale, Anselmo Neon nel cemento, Fabro Lenzuola, Paolini Saffo,
Calzolari Io Mio Nome, Zorio Spazio sonoro, Kounellis Letto di fuoco, Prini Undici minuti di lavoro di una
macchina fotografica, e Penone Pane.
Pur collocandosi nel solco delle mostre di Berna e di Amsterdam, la rassegna torinese, in realtà, si
differenzia da queste esposizioni per più aspetti, tra cui la scelta del titolo, che pone in risalto l’obiettivo di
Celant, ovvero proporre una lettura storicizzante degli eventi, piuttosto che un laboratorio aperto e in
divenire.

8.3. Fortuna e sfortuna critica.

Dopo le mostre di Berna e di Amsterdam e la pubblicazione del libro Arte Povera cresce velocemente
l’attenzione sull’arte italiana in ambito internazionale.
Nel 1970 Peter Nemetschek e Alfred Gulden, che avevano fondato lo spazio alternativo Aktionsraum 1 a
Monaco, invitano Penone, Fabro e Boetti a compiere una loro azione nella città tedesca. Penone propone
una grande trave di legno di 12 metri scolpita dall’artista stesso per evidenziare le forme dell’albero in essa
racchiuso; Fabro presenta gli Indumenti, per la prima volta creati di fronte al pubblico con una modella e un

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modello; Boetti esegue alcune azioni, taglia un foglio di carta a metà, che a sua volta ritaglia di nuovo a
metà e così via (Raddoppiare dimezzando), rapporta la sua altezza a quella di un albero e scrive su un muro
usando contemporaneamente entrambe le mani la frase “punto, puntino, zero, goccia, germe”, attinta dal
libro Corpo d’amore di Brown.
Nel frattempo, Jean-Christophe Ammann organizza al Kunstmuseum di Lucerna una rassegna sulla giovane
avanguardia italiana, coinvolgendo Anselmo, Boetti, Calzolari, Fabro, Griffa, Kounellis, Maini, Mattiacci,
Merz, Paolini, Penone, Pistoletto, Prini, Salvo e Zorio. Ritenendo problematica la definizione di arte povera,
il critico svizzero preferisce intitolare l’esposizione Processi di pensiero visualizzati. Junge Italienische
Avantgarde. Anche Celant, dopo la rassegna torinese, vuole prendere le distanze dall’etichetta, ritenendola
fallita. Questa decisione sarà tuttavia transitoria, dato che tra il 1984 e il 1985, in pieno diffondersi della
transavanguardia, egli rilancerà questa definizione attraverso una serie di pubblicazioni.
Celant storicizza l’arte povera, saldando quell’etichetta critica a un ristretto nucleo di artisti italiani; da
allora questa definizione rimane il marchio per designare i percorsi individuali di 13 artisti italiani: Giovanni
Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz,
Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini e Gilberto Zorio.
Sebbene non sia mai stata considerata dagli artisti come definizione di un movimento o di una corrente,
proprio per l’eterogeneità delle poetiche che essa racchiude, questa denominazione ha contributo a
decretare la piena affermazione dell’arte italiana nel contesto internazionale.
Al tempo stesso, la strategia promozionale dell’etichetta ha lasciato in ombra altre personalità e situazioni
che tra il 1966 e il 1971 parteciparono al clima dell’avanguardia artistica italiana e alle formulazioni della
nuova dimensione operativa processuale.

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