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Riassunto del libro L’indizio e la prova. La storia nella fotografia di Gabriele D’autilia.

PARTE PRIMA. La fotografia nella storia.


Capitolo 1. Origini e natura della fotografia.

1.1. Una rivoluzione tecnica e culturale.

Ogni fotografia rappresenta un soggetto secondo le intenzioni di un fotografo che realizza l’immagine
attraverso una macchina. Questa descrizione contiene diversi elementi:
- l’espressione di una soggettività (quella del fotografo)
- una rappresentazione della realtà
- uno o più soggetti ripresi.
 La fotografia si presenta subito come una doppia magia: ferma l’immagine in movimento e riproduce
chimicamente il processo ottico umano.
L’immagine ha accompagnato tutta la storia dell’umanità; fin dall’antichità ci si esprimeva attraverso le
immagini.
L’immagine ottica, per la prima volta, non raffigura la realtà ma la riproduce: la fotografia riconduce nel
regno dei morti, genera fantasmi. Con la fotografia l’immagine torna ad avere la sua funzione primitiva,
come era nel mondo latino dove lo scopo dell’immagine era quello di mettere in comunicazione con l’aldilà.

Emblematica è la storia della Sindone. Essa fu fotografata per la prima volta dal torinese Secondo Pia
durante l’ostensione del 1898: al momento dello sviluppo comparve sul negativo la figura positiva di un
uomo. La fotografia condivise il valore di prova della fotografia, dichiarando questo documento veritiero.

La fotografia fece davvero vedere cose mai viste: evocò il passato, fermò l’istante, ingrandì il microscopico e
si avvicinò agli astri. Dal momento in cui nasce la fotografia diventa oggetto di universale interesse.
La fotografia ha un’origine controversa: attribuita a Daguerre e a Joseph Niecephore Niepce, essa ebbe
però numerosi altri padri: da Hippolyte Bayard, a William Henry Fox Talbot. Tutte queste paternità lasciano
intendere che essa rispondeva allo spirito dei tempi. Ognuno dei padri della fotografia ha dato un
contributo fondamentale:
- Niepce inventò la matrice fotografica, che consentirà più tardi il passaggio dall’unicum all’oggetto
riproducibile.
- Talbot inventò la calotipia, ovvero il procedimento negativo-positivo a immagine latente
Il dagherrotipo rispondeva bene alla richiesta di ritratti della nuova borghesia: era un’immagine elegante
e piena di fascino, ma meno conveniente della stampa su carta, che finì per sostituirlo.
Nacque così il mito della fotografia: la nuova invenzione che fu accolta con entusiasmo in cui tutto ciò che
era fatto a macchina sembrava superiore a ciò che era fatto a mano.
Sarà poi con George Estmann (inventore della Kodak) che il principio della fotografia divenne più
economico e più veloce, entrando così a pieno titolo nel mondo dei media. Eastmann iniziò prima ad
utilizzare lastre alla gelatina bromuro, poi sostituì la lastra con la pellicola, idea che rese – insieme allo
slogan della società “voi premete il bottone e noi facciamo il resto “ –, la fotografia accessibile al grande
pubblico.

1.2. Un approccio soggettivo.

Problema della definizione della natura della fotografia. Un contributo fondamentale per questa ricerca è
dato da Roland Barthes, il quale mette a punto un mutamento teorico-metodologico, andando a puntare
fortemente sulla dimensione soggettiva. Barthes dice che la fotografia ha caratteristiche troppo peculiari
per essere assimilata ad altri oggetti. Barthes sostiene che la fotografia ha alla base due elementi: lo
studium (l’interessamento culturale che parte da me e si rivolge alla fotografia) e il punctum (una ferita
provocata da una freccia che parte dalla fotografia e mi raggiunge, venendo a disturbare lo studium). La

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fotografia attesta che la persona o la cosa c’è stata, senza mediazione: la fotografia è quindi un’emanazione
del referente; il linguaggio non può dare questo tipo di certezza, per potersi autentificare ha bisogno della
logica. La fotografia è invece una prova, è un reale. Un’altra caratteristica della fotografia, secondo Barthes,
è la compressione del tempo: se si prende in esempio la fotografia che Alexander Gardner fece a Lewis
Payne (accusato nel 1865 di aver partecipato al complotto per assassinare Abraham Lincoln) nella sua cella
prima di essere impiccato, dice allo stesso tempo “sta per morire” e “è morto”. È un tempo elastico, quello
fotografico, pur nella fissità dell’immagine. Secondo Barthes, poi, la fotografia non sa dire ciò che dà a
vedere: “La fotografia autentifica l’esistenza di una persona, ma non mi restituisce l’aria, cioè il
supplemento intrattabile dell’identità”. Per Barthes tra tutte le foto della madre, solo quella di lei da piccola
nel giardino d’inverno restituiva la sua aria.

1.3. Specchio della realtà.

Pierre Sorlin afferma: “L’immagine non è, in sé, né falsa né vera, non offre che un aspetto di una realtà che
si estende ben al di là di quanto mostri”. Allora si chiede che cosa l’audiovisivo (perché lui fa riferimento al
cinema) ai fini di una migliore comprensione della storia:
- un tuffo nel passato
- una conoscenza più precisa dell’universo sempre in mutamento
- un confronto nello spazio e nei tempi.
 anche la fotografia, seppure con modalità diverse, consente questo tipo di conoscenza.
La massima espressione del rapporto tra fotografia e realtà è la fotografia scientifica, come quella
astronomica o zoologica. L’oggettività di questo tipo di fotografia non viene mai messa in discussione,
proprio perché il suo rapporto con la scienza è determinato dalla funzione che la scienza le attribuisce.
Tuttavia, anche le fotografie comuni inseguono da sempre il realismo (un esempio è la ricerca dell’effetto
della tridimensionalità attuata con la stereoscopia dal 1855).
Fin dalle origini la fotografia si sentì in dovere di accentuare l’impressione di realtà: per esempio, la
sfocatura dei piani veniva considerato un limite quindi si rimediò con l’inserimento di fondali dipinti e
ravvicinati. Un altro vincolo che rendeva la fotografia troppo poco realistica era la fissità data dalla posa
obbligata, limite che viene risolto (fino alla nascita della fotografia istantanea) attraverso pose che
simulavano il movimento.

Capitolo 2. Dietro l’obiettivo.

2.1. Dilettanti e professionisti.

Con l’industrializzazione delle tecniche e la nascita della fotografia istantanea il lavoro del fotografo si
semplifica di molto, tuttavia, l’introduzione dell’immagine ottica nel mondo della stampa d’informazione
finì per creare alcuni vincoli che danneggiarono le capacità creative e interpretative del mezzo: il fotografo
esprime sempre una propria intenzionalità, ma il suo incontro con il soggetto è un incontro fugace. Ci
chiediamo allora quali spazi lascia al fotografo l’immagine meccanica:
- scelta del soggetto, del genere, della pellicola, della focale, del tempo di posa, dell’apertura del
diaframma.
- scelta dell’inquadratura, dell’illuminazione
- sviluppo.
L’industrializzazione della fotografia non ha fatto scomparire la figura del fotografo tradizionale ma ne ha
trasformato le caratteristiche, o isolandolo nel suo lavoro artigianale o inserendolo nel circuito
commerciale, spesso svilendone le capacità creative e chiedendogli di sottoporsi a cliché consolidati.
La novità socialmente più importante è stata la creazione di una figura nuova: l’industria ha cercato in
ognuno un consumatore di fotografie e di macchine fotografiche, attraverso l’identificazione della figura del
fotografo con ognuno di noi.
La differenza tra professionista e dilettante, tuttavia, non è mai netta. È nella natura ambigua della
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fotografia la possibilità che un dilettante realizzi immagini di eccezionale bellezza o interesse, del tutto
paragonabili al lavoro di un professionista. Allora ci chiediamo se esistano solo belle fotografie e non
esistano grandi fotografi.

2.2. I grandi produttori di fonti.

I primi pionieri dell’immagine ottica appartenevano in genere all’ambiente dell’immagine popolare o


pittorica; tra questi, figura emblematica fu Gaspard-Felix Tournachon, detto Nadar. Nadar proveniva da una
famiglia di editori e tipografi, entrò a far parte del giro di intellettuali bohémien, pubblicò racconti,
caricature e disegni e poi decise di dedicarsi alla fotografia. Aprì uno studio nel 1853 in rue Saint Lazare 113,
che in poco tempo divenne un ritrovo per gli intellettuali parigini: passarono da lì Doré, Delacroix, Rossini,
George Sand… Le prime fotografie di Nadar descrivono il rapporto personale che il fotografo intratteneva
con i suoi clienti, che erano suoi amici. Questo rapporto si esprime in ritratti espressivi.
Nadar suggerisce un confronto con un altro professionista, questa volta novecentesco: Edward Weston.
Inizialmente seguace del pittorialismo, si dedicò successivamente alla fotografia pura, che otteneva
attraverso la precisione della messa a fuoco e un massimo di profondità di campo. Fotografo moderno che
osservava le forme realizzando un realismo non sociale, ma estetico.

Capitolo 3. Arte e fotografia.

3.1. Fotografie e quadri.

La fotografia ha due importanti precedenti: la pittura e l’iconografia popolare.


Se non si può attribuire alla fotografia una totale oggettività, allo stesso modo non si può neanche
attribuirle una totale soggettività, come nel caso della pittura. Quella pittorica è un’immagine che nasce da
una volontà soggettiva e da una cultura, e rappresenta la sintesi di una realtà complessa. Anche l’immagine
fotografica nasce da una scelta soggettiva, ma è realizzata attraverso una macchina e rappresenta solo un
frammento di realtà.
La rivoluzione tecnica porta dalla fotografia ha avuto enormi conseguenze sulla nostra visione dell’opera
d’arte; attraverso la fotografia milioni di persone hanno avuto accesso alla pittura, alla scultura e
all’architettura in ogni parte del mondo. L’opera d’arte perde la sua unicità ma guadagna nuovi estimatori.
 Quella del rapporto tra arte e fotografia non è solo la storia tra gli artisti e la fotografia, ma soprattutto
una storia di incontri di culture, di mentalità e di tecniche. Ed è una storia raccontata anche dagli strumenti
che esse hanno in comune, come la camera oscura.
La fotografia ha in comune con l’arte la capacità di insegnare a guardare: l’occhio del fotografo è come il
pennello del pittore. Una delle cose che differenzia la pittura dalla fotografia è la sua analisi: una delle
caratteristiche dell’analisi dell’opera d’arte tradizionale è la lettura della singola immagine, un’opera d’arte
può assumere facilmente una funzione di sintesi di un fatto, un periodo, un fenomeno storico. Per la
fotografia invece è diverso: una lettura della struttura e dei significati di una singola immagine fotografica
non è sufficiente per il discorso storico, anche se esistono certamente immagini simbolo che hanno avuto
un ruolo storico e hanno saputo sintetizzare un fatto o un periodo. Ognuno di noi può poi attribuire
all’immagine ottica significati simbolici non necessariamente condivisi.

3.2. Pittori-fotografi.

Nella metà dell’800 ci si inizia a chiedere quale sia il rapporto della fotografia con l’arte. La fotografia
possedeva tre difetti fondamentali:
- il suo rapporto con la realtà
- la sua natura tecnica
- la sua riproducibilità.
Tuttavia molti artisti, da Courbet a Delacroix, da Manet a Degas, si servirono più o meno esplicitamente
della fotografia.
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Di fronte all’irruzione della fotografia vi furono due atteggiamenti:
- da un lato c’era chi considera l’arte un’attività dello spirito che non può essere sostituita da un mezzo
meccanico (Baudelaire e i simbolisti).
- dall’altro la tesi di chi sostiene che si tratta di un problema di visione e che bisogna distinguere le funzioni
dell’immagine (realisti e impressionisti).
Courbet fu uno dei primi ad utilizzare la fotografia come base dei propri dipinti: egli non crede che
l’occhio umano veda meglio dell’obiettivo, infatti decide di copiare dalla fotografia. Ciò che per lui è
insostituibile non è la visione, ma la manifattura del quadro, il lavoro del pittore. Quindi l’immagine diventa
non più solo la sembianza di una cosa, ma una cosa diversa, proprio perché nel quadro c’è una forza lavoro
che è assente nella fotografia, ciò che conta è la forza lavoro che dà al quadro la concretezza di una cosa
reale.
Dopo di lui gli impressionisti non si sono posti alcun problema teorico nell’utilizzare la fotografia, e le novità
che essa suggeriva: macchie di chiaro e scuro, taglio arbitrario dell’immagine, indifferenza per la
comprensibilità dello sfondo. La fotografia inoltre allargava l’interesse dei pittori per la realtà sociale.
La vicenda dei rapporti tra fotografia e pittura è esemplificata dal legame tra Nadar e gli impressionisti,
caratterizzato da una forte amicizia e da una divisione dei compiti; egli accolse nel suo studio la prima
mostra degli impressionisti (1874), ma non cercò di arrivare a una fotografia impressionista.

3.3. Fotografi-pittori.

Se da un lato la fotografia è funzionale agli artisti, dall’altro cerca di imitarne il lavoro. Fin dalle origini arte e
fotografia si confrontano, avendo in comune non solo la volontà di rappresentazione della realtà, ma anche
quello della creatività. Il loro è un rapporto complesso nel quale la fotografia cerca subito uno spazio
autonomo. Questo confronto avviene in un momento di apertura alla sensibilità e alle idee di libertà nei
confronti della tradizione accademica.
La fotografia fornisce all’arte suggerimenti formali condizionandone anche gli sviluppi: l’arte pittorica di
conseguenza si allontana dalla fotografia accentuando le caratteristiche che le sono proprie, quindi
lavorando sul colore, sull’antinaturalismo e sull’astrattismo; a sua volta la fotografia sperimenta una sua
strada verso la distruzione dell’armonia della composizione o sceglie di concentrarsi sul dettaglio e sulle
parti del corpo umano, giungendo alla distruzione del ritratto tradizionale. La fotografia cerca dunque una
propria unicità.
Sarà a NY che la fotografia riuscirà ad ottenere grande rilevanza; Stieglitz espone nella sua galleria di NY
la sua fotografia Il ponte di terza classe, fotografia talmente documentaria che potrebbe essere considerata
l’immagine simbolo dell’apertura del 20° secolo, caratterizzata da una volta formale dominata da una
composizione geometrica modernista. Il ruolo di Stieglitz nella cultura americana è importante: per sua
iniziativa i newyorkesi inizieranno a conoscere Picasso, Rodin, Cézanne e Braque, le stampe giapponesi e le
sculture africane.
Anche in Europa il confronto tra nuovi artisti e fotografi è ricco di suggestioni: se la diffusione delle nuove
macchine maneggevoli massifica la produzione fotografica, lo sviluppo della stampa e della pubblicità apre
nuovi spazi e pone nuove problematiche alle avanguardie artistiche. Una delle più accese battaglie per la
fotografia la fece Anton Giulio Bragaglia col suo Fotodinamismo Futurista del 1911, uno dei primi studi sul
movimento in ambito fotografico.
Con il dadaismo si approfondisce la tecnica del fotomontaggio: tecnica che si presta perfettamente a
interpretare l’idea dadaista della decontestualizzazione e ricontestualizzazione incongrua.
Un diverso rapporto tra fotografia e storia viene trovato in Russia, nel contesto della rivoluzione. La ricerca
di nuove forme artistiche è quasi al servizio della politica; qui i nuovi studi assumono un significato
fortemente ideologico.
 in questo contesto vi è una forte affinità tra russi ed americani nella comune esaltazione per la macchina
e per il mezzo tecnico di riproduzione del reale. Entrambi hanno una sorta di fiducia nell’efficacia e nel

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valore documentario della fotografia e del cinema, di cui danno entrambi prove eccellenti.
Interessante è poi il rapporto tra la fotografia e il surrealismo, movimento impegnato nella ricerca
dell’inconscio.
Conclusa la guerra la fotografia cercherà in Europa e in America i propri mezzi di espressione sia
attraverso l’uso dell’immagine tecnica come semplice segno, non quindi come rappresentazione di un
soggetto, sia attraverso l’uso di un’immagine realistica carica di nuovi sensi. Dominerà la soggettività
dell’autore, tendenza che proseguirà poi negli anni 60.
Dagli anni 60 la massiccia presenza dell’immagine commerciale coinvolgerà anche l’arte: tra gli artisti sarà
Andy Warhol ad avvertirla per primo, ma la tendenza sarà molto più evidente nella fotografia. Non è un
caso che Warhol usi la fotografia come uno dei prodotti della nuova civiltà dell’immagine.
Allo stesso tempo gli artisti cominciano ad utilizzare la fotografia in modi diversi e originali: il fenomeno
più significativo è quello che fa della pittura un doppio della fotografia, in cui l’inquadratura, il taglio e lo
stile iperrealista rendono l’immagine non riproduzione fedele della realtà ma di un’altra immagine.
Il confronto tra fotografia e arte non può prescindere dagli atteggiamenti e dalla cultura di quelli che hanno
fatto dell’immagine ottica una professione; e sarà nel momento in cui i fotografi hanno smesso di
confrontarsi con l’arte che la fotografia è entrata nei musei.

Capitolo 4. Icone popolari.

4.1. Una storia di lungo periodo.

La scoperta della matrice fotografica rappresentò una versa rivoluzione, soprattutto in relazione ai
procedimenti esistenti di riproduzione dell’iconografia popolare, quali la xilografia, la calcografia e la
litografia. Ognuna di queste tecniche aveva rappresentato un superamento delle possibilità tecniche della
precedente; la matrice fotografia fu in grado di riprodurre la stampa di un’immagine ottenuta tramite
qualsiasi tecnica, mantenendo così forme e contenuti dell’iconografia popolare. La possibilità di fotografare
immagini e di riprodurle in quantità illimitata fu una conseguenza dell’invenzione della fotografia: le
numerose immagini che appartengono alla nostra vita quotidiana e alla nostra cultura sono state rese
possibili dalla fotografia.
Le prime icone di largo consumo fanno la loro comparsa nel 14° secolo, e hanno funzioni ben precise:
sono xilografie (incisioni sul legno) che servono a proteggere dai furti, dalle malattie ecc. prodotte e
distribuite solitamente nei santuari. La stampa su carta di queste tavolette incise precedette di circa un
secolo l’invenzione della stampa a caratteri mobili; quando questa comparve esisteva già un’ampia
diffusione di immagini popolari. A distanza di secoli queste immagini vengono ereditate dalla fotografia, che
le moltiplica o ne produce di nuove (es. i santini, che nascono come strumento di propaganda
controriformistica). C’è poi il fenomeno delle fotografie di prevenzione prodotte durante la 1GM, che
furono stampate e diffuse in enorme quantità e circolavano tra il fronte e le famiglie dei soldati.
Dopo la xilografia, a distanza di due secoli, compare la calcografia (con matrice intagliata in genere nel
rame). Esistono vari modi per lavorare il metallo e tra questi, particolarmente efficace è l’acquaforte.
Tuttavia la xilografia sopravvive a questa nuova tecnica perché rimane un genere più di largo consumo,
oltre che ad avere rispetto alla calcografia il vantaggio di poter utilizzare il colore; inoltre la sua natura
rilievografica permette la riproduzione di immagini e parole sullo stesso foglio. La calcografia, invece,
permette la riproduzione del disegno e quindi l’elaborazione di prodotti per un consumo specifico, come
copie delle opere di pittori, scultori e architetti. Prima della fotografia essa è il primo mezzo di riproduzione
tecnica dell’immagine: gli stessi pittori la utilizzeranno per diffondere le loro opere. Le matrici di metallo
hanno anche il vantaggio di conservarsi meglio di quelle in legno e questo garantisce la loro sopravvivenza
in numerosi archivi.
La produzione di immagini di largo consumo subisce un’accelerazione alle soglie della rivoluzione
industriale, e presto pubblicità e propaganda politica richiederanno soluzioni agili ed efficaci per le proprie
necessità di comunicazione.
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La litografia (incisione su pietra inventata nel 1797) ha le caratteristiche di un’invenzione che nasce da una
richiesta del mercato: è un metodo più semplice ed economico rispetto alle precedenti. Questa nuova
matrice garantisce la tiratura di un alto numero di stampe, che si ottengono esercitando una pressione
minima e quindi con maggiore velocità.

4.2. Il “fardello” del passato.

La rivoluzione fotografica fu una rivoluzione più tecnica che formale, essa non rappresentò un grande passo
avanti rispetto alla litografia. La fotografia cambia il corso dell’iconografia popolare chiedendo al pubblico di
abituarsi a veder e in modo nuovo: agisce quindi non solo sulle abitudini e sulla mentalità, ma sulla
percezione. La fotografia nasce piena di difetti:
- più è grande meno permette la precisione del dettaglio nelle zone d’ombra
- problema della messa a fuoco dei soggetti (utilizzo di poggiatesta e sedie per gli adulti, mentre spesso
bambini e animali sono esclusi dagli atelier per la loro incontrollabilità)
- fino alla 1GM non si usava ingrandire: la stampa avviene per contatto quindi le sue dimensioni sono come
quelle del negativo
- utilizzo unicamente della luce naturale, quindi in molte occasioni è impossibile scattare
 la litografia invece aveva raggiunto livelli di precisione dei dettagli paragonabili a quelli della pittura.
= la fotografia per un lungo periodo si è scontrata con queste limitazioni anche nella scelta dei soggetti,
evitando riprese di interni o panoramiche con oggetti in primo piano e accettando espressioni stereotipate
nei ritratti.
Fu il procedimento ideato dall’inglese Walter Bentey Woodbury il primo a consentire alla fotografia di
rivaleggiare dal pov industriale con metodi già consolidati. Esso permetteva di ottenere una matrice
fotografica per la stampa e faceva si che già nel 1870 un operaio stampasse in una settimana circa 10.000
esemplari. Quando la matrice fotografica giunge a ottenere le caratteristiche di quelle xilografiche,
calcografiche e litografiche, e dimostra di essere in grado di produrre infiniti documenti identici, si inaugura
l’era della riproducibilità tecnica dell’immagine.

Capitolo 5. La “verità” nei media.

5.1. Alcuni problemi.

Secondo Marshall McLuhan la fotografia ha una natura particolare che la differenzia dagli altri media; essa
ha creato un nuovo rapporto dell’uomo con il mondo, perché ha mercificato tutte le esperienze e ha creato
una nuova consapevolezza dovuta all’onnipresenza dell’obiettivo.
Inserita nel sistema dei media la fotografia assume però un significato diverso sia come fonte (perché
deve essere letta in un nuovo e diverso contesto) sia come agente. All’interno dei media la fotografia
diventa parte di un meccanismo molto complesso e quindi l’interpretazione dell’immagine deve tener
conto anche di questo. Nei media la fotografia si accompagna in genere a un testo, che fa si che la lettura
dell’immagine venga in qualche modo guidata. Anche per lo storico è più semplice capire il significato
dell’immagine da un contesto costruito, piuttosto che interrogare un documento muto. Allo stesso tempo
nelle immagini inserite nella stampa gli indizi sono talmente tanti – la didascalia, l’articolo che accompagna
la foto, la storia del periodico, la data di pubblicazione – diventando sì, sostegni straordinari per
l’interpretazione, ma anche condizionanti.
 Come storicamente la fotografia si inserisce nel sistema dei media? Il retino dà vita a un nuovo tipo di
immagine e rappresenta una rivoluzione: l’immagine che passa attraverso il retino è trasformata da
tantissimi punti che ne consentono la stampa e la fruizione immediata (con naturalmente caratteristiche e
qualità diverse da quelle iniziali). Anche quest’invenzione risponde a una richiesta del mercato, infatti non è
più importante la qualità: l’immagine è soprattutto comunicazione di un contenuto.
Anche per la fotografia, come per tutti i media, si pone il problema della sua collocazione tra arte e
industria. La fotografia ha un rapporto ambiguo con entrambe: da una parte non viene mai del tutto
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riconosciuta tra le arti figurative, dall’altra diventa quasi subito industria e strumento alla portata di tutti
ma essa resta un mezzo di espressione originale e popolare.
La fotografia come fenomeno di massa supera la barriere dei confini nazionali; interessante qua è il fatto
che non si diffonde solo la produzione del suo prodotto (come per il cinema e la tv), ma anche del suo
strumento. Il concetto di cultura fotografica è diverso da quello di cultura cinematografica perché chiunque
è insieme fruitore e produttore di fotografia. Tuttavia, la fotografia ha tutte le caratteristiche degli altri
media, quindi esercita un enorme influsso sulla vita e sulla mentalità del grande pubblico, non solo come
mezzo di comunicazione, ma anche come oggetto individuale.
Le immagini servono poi a costruire i fatti; molte immagini sono state prodotte da fotoreporter ma solo una
parte di esse, per motivi diversi, è diventata immagine pubblica. Queste fotografie sono diventate delle
dimostrazioni, monumenti, perché hanno creato la coscienza collettiva di un evento. Lo storico spesso
dispone solo di queste immagini, le uniche che la storia ha tramandato, il suo compito è interpretarle senza
credere che siano le uniche solo perché sono disponibili.
La pubblicità è un fondamentale veicolo mediatico di immagine fotografica. Tra di loro esiste una sorta di
doppio gioco per cui la pubblicità chiede alla fotografia di dire di più di quanto non dica la riproduzione
realistica di un oggetto e, allo stesso tempo, chiede di far percepire queste intenzioni non realistiche come
se fossero realistiche. Così tutte le forme di espressione pubblicitaria sono duplici. Inoltre, chi fa pubblicità
la crea in funzione della sua ricezione, cioè crea contenuti per far recepire un messaggio. Oltre a eseguire
semplicemente un compito, il fotografo pubblicitario interiorizza desideri ed estetiche del committente e le
somma alla sua soggettività. La fotografia pubblicitaria, infine, ha un rapporto particolare con il testo,
sempre indispensabile; il testo ha qua una funzione allegorica, evidenziata dal suo rapporto con lo slogan.

5.2. Giornalismo fotografico.

Così come cambiano la fotografia, i media cambiano anche la figura del fotografo; Gisèle Freund traccia un
ritratto della sintesi ideale del fotoreporter, ossia il fotografo di Life: il fotografo lavora in circostanze
difficili, sempre in lotta con il tempo, deve avere grande coraggio, reazioni immediate, adattarsi ad ogni
situazione.
Il fotoreporter deve trasmettere ciò che vede, ma non è così semplice soprattutto per la presenza di
diversi limiti del fotografabile (es. non si può fotografare un cadavere, ma si può riprendere un uomo che
cade da una finestra prima che tocchi il suolo). Prima che fosse resa possibile la stampa della fotografia sui
giornali, il racconto dei fatti veniva accompagnato da incisioni su legno; gli illustratori si recavano sul luogo
d’interesse e realizzavano schizzi che poi passavano agli incisori.
La fotografia è un aiuto prezioso alla stampa, e anche un ottimo strumento di dimostrazione dell’obiettività
giornalistica. Tuttavia è sempre complesso il rapporto tra il fotoreporter e la redazione, è quest’ultima
infatti a decidere il destino delle immagini.
Nella storia del primo fotogiornalismo, il più celebre reporter è Erich Salomon, primo a fotografare
persone in interni senza essere visto (riuscì persino a riprendere un processo, cosa che al tempo era
proibito fare in Germania). Salomon creò una nuova professione e la rese rispettabile. Tuttavia, la figura
sociale del fotoreporter non è mai riuscita a godere di grande prestigio (tanto che il loro nome non viene
per anni pubblicato a fianco delle fotografie). Del resto, questi fotografi rubavano l’intimità ai politici, ai
personaggi dello spettacolo o alla gente sorpresa nella sua quotidianità, con un’invadenza a cui non si era
ancora abituati; per di più le fotografie di interni utilizzavano inizialmente il magnesio in polvere, una
sostanza che al momento dello scatto creava un lampo accecante e lasciava un odore insopportabile.
Sarà con Life, Look e Fortune che la figura del fotoreporter (in America in primis) acquisì più importanza.
Queste riviste illustrate furono un fenomeno simile a quello successivo della televisione, comprendendo
informazione, immagini, rubriche, servizi di scienza e di cultura, pubblicità. Life voleva essere una rivista per
tutta la famiglia, comunicava poi un’immagine positiva, legata alla visione del capitalismo americano e la
fotografia, grazie al suo essere specchio della verità, rappresentò un potente supporto. Il ruolo sociale della

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stampa illustrata sta quindi nella sua natura di strumento dotato di una credibilità straordinaria e nelle sua
duttilità che gli permette di comunicare messaggi di ogni genere.

Capitolo 6. Immagini fisse e immagini in movimento.

6.1. Analogie e differenze.

È nel cinema non fiction, come il film documentario, che troviamo il maggior numero di affinità con la
fotografia. Questi tipi di film non sono ancora televisione, ma non sono neanche più fotografia, tuttavia, la
fotografia è propedeutica alla lettura di questo genere di film. Non si tratta semplicemente di fotografia in
movimento ma è una cosa diversa: il contenuto è spesso lo stesso in realtà, tuttavia viene letto con occhi
diversi.
Sul piano tecnico è l’istantanea a consentire il cinema, passando dal tempo lungo della posa al
movimento, all’attimo. L’istantanea è movimento bloccato che sembra poter continuare, ci suggerisce un
prima e un dopo.
Fino alla nascita del montaggio, il cinema utilizzava solo l’inquadratura fissa, la quale rendeva
l’inquadratura come una fotografia in movimento, dove il movimento è dato dagli spostamenti dei
personaggi più che da quelli della macchina.
Nel sistema dei media il film non fiction ha una funzione simile alla fotografia, descrivendo eventi o episodi
della vita sociale; inoltre è per lo più anonimo.
Una differenza tra la fotografia e il cinema non fiction è che quest’ultimo è costoso, mentre la fotografia no.
Un’altra è la loro interpretazione: gli audiovisivi sono in genere più facili da interpetrare (sono spesso
collocabili, sappiamo spesso da chi sono prodotti e perché), mentre la fotografia è meno contestualizzabile.
Infine, la fotografia è preziosa per documentare aspetti ripetitivi e insignificanti, proprio perché
onnipresente; il film documentario, invece, a meno che non abbia uno scopo scientifico, antropologico o
sociologico, non lo fa.
 Quindi per ricapitolare: fotografia e cinema non fiction ci appaiono:
- Simili sul piano di fonte per la storia, in quanto sono entrambi specchio della realtà.
- diversi sul piano di agente di storia: la fotografia ha funzioni molteplici, mentre il cinema non fiction è
legato principalmente a logiche produttive commerciali o politiche.
- simili come strumento per raccontare la storia.

PARTE SECONDA. La fotografia e la storia.


Capitolo 7. Testimone e complice: brevissima storia della fotografia.

7.1. Borghesi e rivoluzionari.

Le origini storiche e sociali della fotografia si intrecciano con le origini dell’età del trionfo della borghesia.
L’affermazione di questa nuova classe sociale e del capitalismo, la scomparsa dell’aristocrazia e la comparsa
della questione operaia, la nascita del naturalismo nell’arte e nella letteratura e il trionfo delle scienze
esatte sono eventi che coincidono con le origini della fotografia.
Il capitalismo e l’industrialismo cambiano progressivamente la vita quotidiana e le abitudini, trasporti,
illuminazione elettrica, nuove disponibilità alimentari portarono dei mutamenti radicali. Inoltre, il gusto
estetico inizia a diventare frivolo e decorativo, di conseguenza si sviluppa il naturalismo.
 Primo maestro del naturalismo è Courbet. Nei suoi dipinti il popolo è ritratto senza distanza o
superiorità, bensì i suoi operai (come quelli di Millet o di Daumier) esprimono una polemica contro la nuova
realtà industriale. La loro tendenza è verso il commento giornalistico dei fatti del giorno.
Il naturalismo ha un rapporto immediato con la fotografia, pittori e scrittori ne apprezzano il valore di
strumento di conoscenza della realtà e raramente il suo valore artistico.
La fotografia diventa presto uno degli strumenti di affermazione della nuova borghesia. La fotografia si

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confronta poi presto anche con temi sociali, inserendosi da un lato nella corrente d’avanguardia del
realismo, dall’altra nel grande movimento sociale che attraversa tutta l’Europa.

 Gli anni 50 dell’800 vedono due grandi innovazioni:


1. La carte de visite: cartoncini fotografici di formato 6 x 9. Inventata da Adolphe Disderi, questo nuovo
formato consente di ottenere a un prezzo accessibile (20 franchi per 12 fotografie, pochissimo in confronto
ai prezzi degli altri fotografi ritrattisti, se si pensi che Nadar per solo un ritratto chiedeva 100 franchi) fino a
8 pose diverse in una stessa seduta.
2. Il collodio: riduce il tempo di posa fino a soli due secondi.

7.2. Schedature.

La fotografia non si ferma al ritratto: dal turismo con interessi etnografici fino all’uso scientifico,
accompagna la nuova cultura razionalista e positivista per un lungo periodo. Inoltre non rimane segregata
nel vecchio continente, sebbene fosse un’invenzione europea.
La fotografia inizia a seguire le rotte delle potenze coloniali e i loro interessi; paesaggi e testimonianze di
civiltà nuove e sconosciute giungono sotto gli occhi di tutto il mondo. il merito di aver introdotto la
fotografia al di fuori dall’Europa spetta alle missioni religiose. La fotografia coloniale fece poi dei mondi
sconosciuti soggetti di mostre specifiche durante le esposizioni universali dei solenni momenti di
autocelebrazione del mondo industrializzato. È in questo ambito che la cultura positivista inizia a
concentrare la sua attenzione sulla ricerca di un ordinamento sistematico delle razze umane attraverso
l’individuazione di dati “oggettivi”, con la conseguente volontà di trovare una razza eletta.
In questo ambito la fotografia è testimone e strumento di dimostrazione di un’ideologia che verrà
utilizzata successivamente per scopi ancora più aberranti.
L’individuo viene qui innanzitutto catalogato (grazie a una fotografia il più possibile oggettiva e ripetitiva),
non come portatore di una soggettività, ma come tipo umano.

La fotografia ha un rapporto storico con il crimine.


Alla metà del secolo essa permette di dare un volto a ogni cittadino, e quindi di esercitare un controllo
preventivo e un intervento punitivo. A Losanna, nel 1854 la fotografia per la prima volta permette di
risolvere un caso giudiziario.
Subito ci si avvale dell’immagine fotografica per schedare i criminali e per le operazioni della polizia
scientifica. Si diffonde l’uso della foto di fronte e di profilo e una particolare attenzione viene data
all’orecchio destro (poiché non esistono due orecchie uguali), metodo che assomiglia a quello di Morelli.
Il pregiudizio sull’oggettività della fotografia spinge fino al punto di voler vedere più del possibile, non solo il
corpo, ma attraverso il corpo anche l’anima. Vediamo come con questo metodo Lombroso identifica
criminali o selvaggi. L’ideologia di Lombroso, per cui alcuni caratteri fisici si associano a manifestazioni e
tendenze criminose, ci riporta al problema dell’interpretazione dell’immagine fotografica, non tanto
soggettiva, ma ideologica.
In Italia una delle leggi fasciste del 1927 prevede la consegna obbligatoria di una propria foto allo stato.
La fotografia giudiziaria, oltre a essere una forma di violenza psicologica, come lo è quella etnologica del
periodo coloniale, era realizzata attraverso la violenza fisica, tenendo fermo il soggetto con la forza.

Vi fu anche un uso meno scientifico e più popolare della fotografia come strumento di dimostrazione e
mezzo di prova. Negli anni 80 si diffusero gli apparecchi detective, piccole macchine camuffate da
bombette, da bastoni da passeggio o da Sacre Scritture, che servivano a sorprendere in flagranza ladri o
mogli infedeli. In realtà questi oggetti non furono in grado di riprodurre alcuna immagine fotografica,
tuttavia ebbero un successo commerciale clamoroso: nell’immaginario comune era scontato quindi il
legame tra la fotografia e l’indagine e la prova.

7.3. Un fenomeno di massa.

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La fotografia, grazie alla nascita dell’istantanea, strappava alla pittura e al disegno un altro vantaggio, quello
di fermare il tempo.
Con la nascita dell’istantanea ci si abitua a vedere la fotografia e i suoi soggetti in modo diverso (presi alla
sprovvista, immobilizzati nel movimento) e ci si abitua a un livello qualitativo più basso dell’immagine. Con
l’istantanea davvero tutti potevano diventare fotografi. L’istantanea inoltre non poteva mentire, mentre la
posa suggeriva l’idea di un allestimento (in realtà anche con l’istantanea le messe in scene, persino storiche,
non mancarono). Con l’evoluzione dell’istantanea si entra nel nuovo secolo, il 900.

L’inizio del 900 è un passaggio decisivo che coincide con la seconda rivoluzione industriale e l’imperialismo.
Dal punto di vista sociale la nascita della fotografia di massa significa la nascita di una pratica culturale
certamente influenzata dall’industria, ma creativa, disinteressata ed economica.
Alla fine dell’800, nell’ansia di vedere tutto e andare oltre il corpo, Rontgen scopre i raggi X; l fotografia
sarà applicata al microscopio, mentre Marey e Muybridge studieranno il movimento attraverso la
cronofotografia (ricerca che dimostrerà che il movimento rappresentato dall’arte non è vero ma solo
verosimile).

Vi sono poi dei mercati paralleli all’industria dei media che fanno largo uso della fotografia: cartoline,
figurine, scatole di fiammiferi… Tra questi è soprattutto la cartolina il fenomeno di massa più significativo:
durante la 1GM viene utilizzata largamente per la sua comodità e immediatezza. L’età d’oro della cartolina
si colloca tra la fine del 19° secolo e gli anni successivi alla 1GM. Nel 1899 in Germania con 50 milioni di
abitanti circolarono 88 milioni di cartoline.
La fotoincisione, utilizzata prima della stampa, aggiungeva nella fotografia anche il colore; la cartolina per
questo motivo diventa il primo potente strumento pubblicitario, per esempio nella promozione delle mete
turistiche.
In Italia il fenomeno proseguì anche durante il fascismo: la cartolina era un modo per vedere il duce anche
in sua assenza, sembra infatti che in quegli anni circolassero in Italia dagli 8 ai 30 milioni di cartoline
raffiguranti Mussolini.
 All’inizio la fotografia non riesce da subito a sostituire la raffigurazione pittorica dal vivo degli eventi
storici, proprio perché la fotografia crea un’immagine troppo vera, quindi si dedica inizialmente alla
riproduzione di quello che resta degli eventi dopo la loro conclusione. Sarà poi il fotografo Felice Beato a far
vedere per primo la morte, con immagini dell’India, della Cina e del Giappone.

Lo spirito intraprendente e avventuroso degli USA non poteva trovare mezzo di espressione più adatto della
fotografia. Dal punto di vista industriale, artistico e documentario, gli americani forniranno un contributo
eccezionale; più di 30 milioni di fotografie vengono realizzate negli USA tra il 1840 e il 1860, di cui più del
90% sono ritratti. In questo periodo poi i fotografi – così come i pittori o i letterati – iniziano a viaggiare, e i
fotografi si recano nei posti più pittoreschi, come le cascate del Niagara.

La 1GM segnò l’inizio del 20° secolo. Durante il conflitto fu pubblicata una vignetta inglese che mostrava un
dialogo tra Gugliemo 2° e una macchina fotografica: mentre il Kaiser nega le atrocità commesse dalla
Germania, la macchina, mostrandogli una foto di una città distrutta, gli risponde “la risposta è nel
negativo”. Gli album di immagini belliche, le cartoline postali, le pubblicazioni fotografiche allora, non sono
che i primi segni di una nuova cultura visiva. La mistificazione attraverso l’immagine diventerà una
consuetudine anche dopo la fine della guerra.
La 1GM porta anche a una guerra tecnologica di massa, che cambierà molte cose e tra queste anche la
visione fotografica. Questo momento annuncia la nascita del reportage fotografico degli avvenimenti.
 Tra le due guerre nasce la Leica, apparecchio che diventa simbolo del compimento della rivoluzione
commerciale dell’istantanea. La Leica è una piccola macchina maneggevole che utilizza un metro e mezzo di
pellicola cinematografica da 35 mm. La Leica venne messa in commercio nel 1925, era una macchina
discreta, veloce e funzionante. Grazie anche alla nascita di questa macchina fotografica, la fotografia trova

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uno spazio sia per diffondere i nuovi consumi sia per comunicare i nuovi messaggi politici.
In questo periodo il fotografo si specializza e segue le esigenze della stampa, stampa che non è solo più
informazione. Il tema del corpo in questi anni è al centro dell’attenzione, una scoperta: nelle pubblicazioni
sulla moda la fotografia prende il posto dei disegni e prova nuove sperimentazioni con risultati eccellenti in
riviste come Vogue o Harper’s Bazaar.
I consumi iniziano ad esplodere negli anni 20: moda, cinema e pubblicità hanno in comune molte cose. Il
cinema offre sogni, la pubblicità promesse e l’industria prodotti.

7.4. Indagini sulla società.

Il fotogiornalismo è un potente agente di storia: oltre a esporre i fatti, esprime una tesi, racconta qualcosa.
Esso nasce con i media, ma ha origine nella fotografia etnografica, poliziesca o di denuncia. Jacob Riis e
Lewis Hine sono considerati i padri della fotografia sociale, entrambi cercavano nella fotografia dei
documenti per avvalorare le loro tesi, attribuendo cioè all’immagine un valore di fonte contemporanea. Riis
pubblica nel 1890 il volume Come vive l’altra metà, in cui mostrava le condizioni degli immigrati dell’East
side di NY. Hine intraprende un ampio lavoro sullo sfruttamento minorile.
Anche senza scopi di denuncia, quella che diventerà la fotografia giornalistica nasce dall’intento di
documentare ciò che i diversi generi fotografici non avevano ancora preso in considerazione: luoghi e gesti
della vita quotidiana. Questi soggetti comparivano solo nelle foto di famiglia o nelle immagini pittoresche;
ora invece si osserva con interesse sociologico la vita privata degli altri. Gli aspetti che destano l’interesse
dei fotografi sono le condizioni di vita create dalla società industriale, la povertà, lo sfruttamento, la
solitudine o il degrado sociale delle grandi città (quest’ultimo tema viene ampiamente ripreso da Weege,
pseudonimo di Arthur Feeling).

Gli apparati propagandistici tedeschi, italiani e sovietici danno vita a un nuovo genere fotografico, quello
dell’immagine politica manipolata. Scontornamenti, ritocchi, cancellazioni creano una sorta di verosimile
storico che spesso non si fa scrupolo nemmeno di nascondere il trucco. Ma la propaganda e i suoi mezzi
non furono una prerogativa solo dei regimi totalitari. Su un piano diverso gli USA con la Farm Security
Administration intraprendono una grande campagna fotografica per studiare le condizioni delle popolazioni
agricole colpite dalla siccità e dalle conseguenze della crisi del 1929. Il governo federale assoldò nel 1935
alcuni fotografi tra cui Walker Evans e Dorothea Lange benchè si impegnassero a mostrare all’opinione
pubblica i benefici apportati dall’operato del governo. È questo il primo caso di documentazione
sistematica di questo stato.

7.5. Da documento a frammento.

Ogni guerra moderna comporta un’accelerazione tecnologica, e la 2GM fu la prima guerra che seguì la
nascita delle comunicazioni di massa; questo conflitto implica una messa in discussione del ruolo della
fotografia. Il fotogiornalismo trovò nuove strade, ci si chiese se la fotografia dovesse rappresentare
oggettivamente, oppure essere espressione di un’ideologia. In Italia fu il neorealismo a porsi queste
domande attraverso un’indagine che prosegue la tradizione verista della cultura italiana, e si concentra
sullo studio del mondo degli oppressi, la ricerca di una storia di lungo periodo, nella natura, nella terra, nei
volti e nelle cose.

Nel 1947 nasce la Polaroid, che permette di ottenere una foto in pochi attimi; due sono le novità legate
alla sua nascita:
1. La fotografia ritorna a essere un oggetto unico, non riproducibile.
2. Il fotografo è in grado di vedere subito l’immagine, senza dover aspettare lo sviluppo.

Dagli anni 70 la fotografia è sempre più moda, pubblicità, propaganda, in una parola: media. Eppure la sua
democraticità, la sua ambiguità, ne fanno ancora uno strumento di rivendicazione, di denuncia dello
sfruttamento e della violenza. In questo ambito è fondamentale citare il volume di Robert Frank Les
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Americains (1958), caratterizzato da fotografie non ironiche né di denuncia, pur rappresentando lo strano
mondo della provincia americana, e dove il produttore sembra essere immerso nell’immagine che produce;
queste immagini esprimono le tendenze autodistruttive della società americana. Questa fotografia senza
interpretazione verrà ripresa dai reporter degli anni 70, fotografi non più di eventi ma della società, senza
giudizio.

Negli anni 70 iniziano ad emergere più evidenti i problemi dell’esplosione produttiva in corso ormai da due
decenni: la crisi economica, l’inquinamento, la disoccupazione sono solo alcuni tra le tante espressioni dei
problemi della società capitalistica. Anche la fotografia, di conseguenza, fa i conti con se stessa: una
fotografia sociale, di proteste, esiste ormai da tempo, ora invece i toni si fanno più drammatici. L’immagine
diventa frammentata, perde il rapporto con il suo referente, diventa sostituzione del reale, immagine
virtuale: inizia in questo momento la vera ora dell’immagine, solo ora questa diventa davvero
autosufficiente. La sua perdita di significato, la sua totale decontestualizzazione è in qualche modo
l’opposto del lavoro dello storico.

Capitolo 8. Il ritratto.

8.1. Maschere e volti.

Tra tutti i generi fotografici, il ritratto è certamente il più difficile da interpretare, ha sempre richiesto una
riflessione particolare.
Chiunque venga fotografato cambia per il fatto di esserlo, la fotografia in questo caso non rappresenta
solo un soggetto, ma lo crea.
Se la fotografia nasce come fenomeno borghese, il ritratto in questo contesto si colloca in una posizione
privilegiata, è un po’ il simbolo della nuova classe in ascesa. In Francia, già prima della Rivoluzione, la moda
degli ritratto si diffuse negli ambienti borghesi, che adottano forme di rappresentazione della nobiltà e i
suoi usi. Nel 700 si diffusero in Francia la silhouette e il physionotrace: quest’ultimo consentiva di seguire e
riprodurre rapidamente un’ombra e realizzare così a costi minimi un ritratto. Troviamo quindi tutti gli
elementi che, anche in questo settore, annunciano la fotografia: tempi brevi di realizzazione, prezzo
accessibile e organizzazione di un mercato specifico. Il ritratto fotografico finisce quindi per sostituire il
ritratto pittorico, troppo costoso, ma con una differenza: laddove quest’ultimo voleva essere la sintesi del
soggetto, la fotografia si proponeva come immagine allo specchio della persona stessa.
Si diffonde poi subito la moda di dare un’apparenza artistica al ritratto fotografico facendo uso di pesanti
cornici e decorazioni.
Sono molti i prestiti dalla pittura, tuttavia restano evidenti le differenze tra un dipinto e una fotografia. La
fotografia, inoltre, apporta una maggiore consapevolezza dell’influenza del tempo sul nostro corpo, cosa
che cogliamo di meno in un ritratto dipinto. Quello che accomuna la pittura alla fotografia è la capacità di
entrambe, in assenza di movimento, di creare un’immagine convincente sia come maschera (la volontà di
mostrarsi diversi a seconda del ruolo interpretato) sia come faccia (elementi di fondo che rimangono
costanti nel tempo). Il ritrattista che vuole compensare la mancanza di movimento deve prima mobilitare la
nostra percezione, deve sfruttare le ambiguità della faccia in modo che le possibili letture diano luogo a una
parvenza di vita.
Tra i tratti permanenti (faccia) e quelli mobili (maschera) vi è una gerarchia di elementi che permettono la
comprensione dell’essenza del carattere. Alcuni sostengono che un grande ritratto ci può dare l’illusione di
vedere la faccia dietro la maschera, cosa che non può avvenire con la fotografia, perché non ci può essere
empatia del fotografo nell’immagine tecnica.
Possiamo arrivare alla conclusione che in un ritratto fotografico ci siano molti elementi e tra questi la
parte psichica individuale, che il fotografo ha sempre l’ambizione di cogliere, è certamente la più difficile da
ottenere.
La soggettività è anche messa in gioco dalla presenza dell’obiettivo. Barthes dice che davanti all’obiettivo

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uno è contemporaneamente: quello che crede di essere, quello che vorrebbe essere, quello che il fotografo
crede che lui sia. La nascita della fotografia ha comportato quindi una perdita dell’innocenza, da quel
momento sappiamo di essere sotto un obiettivo e allora ci difendiamo indossando una maschera.
 Nel ritratto ci sono così tante ambiguità proprio perché questo riguarda il soggetto più difficile da
intrappolare, ossia l’uomo.
Per concludere:
- l’immagine ottica è la riproduzione più o meno fedele di una persona, che ci restituisce le sue
caratteristiche fisiche fondamentali (come il sesso e l’età).
- siamo in grado di assegnare, attraverso la fotografia, un individuo a una categoria sociale o economica,
possiamo leggere i segni del suo ruolo sociale, che si esprimono anche attraverso le varie forme di
rappresentazione.
- possiamo riconoscere le convenzioni di genere: non è difficile distinguere tra un ritratto di famiglia e un
ritratto cinematografico.

8.2. Usi sociali.

Non è così scontato riconoscersi nel ritratto: Nadar racconta che i suoi clienti sceglievano ritratti di altri
scambiandoli con i propri. La somiglianza, infatti, non doveva necessariamente rispondere a criteri di
oggettività, ma a convenzioni rappresentative; il borghese richiedeva un ritratto socialmente riconoscibile,
non somigliante, non specchio della propria personalità. Disderi fa di questa pratica un commercio fiorente:
i suoi ritratti sono stereotipi, non esprimono nessuna personalità, ma esprimono tipi.
Un esempio totalmente diverso è August Sander, che nel suo Uomini del 20° secolo fa un ritratto
collettivo di professioni e mestieri della Germania degli anni 20. Se Disderi atteggia e maschera i suoi
soggetti da tipi sociali, Sander li scopre in loro. Tuttavia, il ritratto “borghese” decisamente prevale. 
Durante la posa dal fotografo i gesti solenni, l’espressione forzata, le pose sono ben evidenti.
 chi entra nell’atelier del fotografo?
- i borghesi
- gli aristocratici e i sovrani
- i politici
- gli artisti  in questo periodo gli artisti sono degli irregolari, capaci di ribellarsi alle regole sia della
mentalità che del ritratto borghese. Dai nudi femminili alla musica, alla poesia, tutti i mezzi sono usati
nell’atelier per ottenere un espressione nel soggetto.

Il 19° secolo produsse alcuni tipi di ritratto non più esistenti oggi, come le miniature di dagherrotipi
(immagini di alta qualità in dimensioni ridotte che venivano montate su spille o bottoni) o i ritratti su
ceramica (oggi in uso nei cimiteri), o il fotoalbero genealogico tascabile, che riproduceva la struttura della
famiglia.  la fotografia non veniva quindi solo esposta nel salotto borghese (e presto nelle case operaie e
contadine), ma si poteva trovare sulle scatole, sui piatti e si poteva persino indossare.

La decadenza del ritratto in studio seguirà le vicende della scomparsa del fotografo tradizionale e della
diffusione dell’istantanea: da un certo momento basterà quest’ultima per fare un ritratto. Anche se
istantaneo, il ritratto comunque rimane una presenza.

Capitolo 9. Una disciplina senza nome.

9.1. Benjamin.

Nel corso del 900 i contributi teorici sulla fotografia sono stati in gran parte occasionali e prodotti da
studiosi con le competenze più diverse. Con questi autori la fotografia ha iniziato ad essere storicizzata. Da
Benjamin a Sontag la fotografia è stata presa in esame soprattutto come fenomeno sociale e culturale e
questi autori hanno fornito agli storici alcune argomentazioni preziose per lo studio della storia sociale e
della mentalità.
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Gli studi di Walter Benjamin sulla fotografia e sull’immagine sono fondamentali sia per il loro spessore
teorico sia per il periodo in cui furono elaborati. Con Benjamin nella prima metà del secolo storia e
fotografia si incontrano; Benjamin sostiene che la società di massa e la tecnica permetteranno di rendere
accessibile l’arte al popolo, prospettiva questa positiva. Quelli in cui Benjamin pubblica i suoi saggi sono
anni in cui la fotografia diventa strumento di propaganda e allo stesso tempo accresce il numero delle sue
funzioni.
Il saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è un suo saggio considerato un classico
degli studi sulla nuova era delle comunicazioni di massa: in questo saggio Benjamin inserisce la fotografia
nel generale mutamento di prospettiva storico culturale di quegli anni.
L’originale si differenzia dalla sua riproduzione tecnica attraverso un elemento: la sua esistenza unica e
irripetibile nel luogo in cui si trova. Nella riproduzione viene meno l’aura dell’opera d’arte.
Il modo in cui si organizza la percezione sensoriale umana è condizionato dalla storia; con la nascita del
primo mezzo di riproduzione veramente rivoluzionario, la fotografia, l’arte entra in crisi e reagisce
costruendo una teoria dell’arte per l’arte che finisce per respingere qualsiasi funzione sociale.
Nel 19° secolo la pittura entra in crisi, non solo a causa della fotografia. La pittura non è in grado di
proporre l’oggetto alla ricezione collettiva simultanea, così come riesce all’architettura o al film. Un uomo di
fronte a una pittura può abbandonarsi al flusso delle sue associazioni, mentre uno spettatore davanti a un
film no: appena lo coglie visivamente l’immagine si è già modificata. In questo modo cambia la ricezione.
Nel saggio Piccola storia della fotografia, Benjamin spiega che quando la fotografia stava per nascere,
molti si accorsero di cosa stava accadendo, ma quando nacque ebbe uno sviluppo così rapido che non si
fermò a riflettere. Per Benjamin è chiaro che il periodo di fioritura della fotografia corrisponda con il suo
primo decennio di vita, quello che precede la sua industrializzazione.
Benjamin si sofferma sulle lastre fotografiche di David Octavius Hill, nelle quali individua il valore della
fotografia delle origini.
Nel primo decennio la fotografia, secondo Benjamin, ha un ruolo culturale e sociale diverso da quello che
avrà quando farà il suo ingresso nell’industria. Con lo sviluppo della commercializzazione e con la diffusione
del ritocco del negativo, si assiste a una decadenza del gusto; Benjamin parla di una scomparsa dell’aura e
di una sua ricomparsa con tutt’altro significato. Dopo il 1880 i fotografi si impegnano a ripristinare
artificiosamente l’aura attraverso tecniche come il ritocco: ma si tratta di una falsa aura. Per Benjamin
l’aura è un singolare intreccio di spazio e tempo.
Benjamin percepisce i rischi nelle trasformazioni che l’immagine tecnica stava vivendo e propone alcune
vie d’uscita:
- la fotografia può rivolgersi al surrealismo
- la fotografia può operare attraverso lo smascheramento o la costruzione compiendo una missione di
demistificazione.

9.2. Bourdieu.

Tra gli anni 30 e gli anni 60 cala il silenzio teorico sulla fotografia e sul suo rapporto con la società
contemporanea e quando esso riprende si concentra su riflessioni in gran parte nuove, sensibili al problema
del suo inserimento nel contesto rinnovato delle comunicazioni di massa.
Il libro di Pierre Bourdieu sulla fotografia è uno studio centrale per l’approccio sociologico che prende in
considerazione non solo il consumo di fotografia ma anche la sua produzione di massa. Egli affronta la
fotografia come specchio delle classi sociali, categoria ormai ritenuta insufficiente dall’analisi storica,
tuttavia introduce tra i primi lo studio dei suoi usi sociali. Secondo Bourdieu chiunque può fotografare, il
fotografo sceglie i soggetti, ma questa non è un’operazione individuale: ogni fotografia non esprime solo le
intenzioni di chi l’ha fatta, ma un sistema di schemi percettivi, di pensiero e di valutazione comune a tutto
un gruppo.
Bourdieu individua cinque motivazioni psicologiche del fotografare:

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1. La protezione contro il tempo, la fotografia aiuta a superare l’angoscia provocata dal fluire del tempo
2. Favorisce la comunicazione e i rapporti affettivi con gli altri
3. Permette al fotografo di realizzarsi
4. Dà prestigio personale
5. È una distrazione
 più che le motivazioni psicologiche, contano le funzioni sociali, poiché le motivazioni psicologiche si
formano nell’ambito di situazioni economiche e sociali.
Bourdieu prende in esame gli operai: capire la funzione che essi attribuiscono alla fotografia significa capire
il rapporto che essi hanno con la loro condizione; le loro osservazioni sulla fotografia esprimono insieme
un’impossibilità economica e un divieto, sostengono che potrebbero fare di meglio se avessero i mezzi
adatti. Da queste interviste capiamo anche l’uso e l’importanza del colore: se la fotografia ha la funzione di
mostrare qualcosa di riconoscibile, non serve il colore, è sufficiente il bianco e nero. Una vecchia foto in
bianco e nero svolge egregiamente la sua funzione sociale.
Dopo gli operai Bourdieu prende in esame i contadini. Questi non possono che essere esclusivamente
consumatori di fotografia (siamo negli anni 60). L’ethos contadino nega la spesa per lussi inutili, sospetta
dell’innovazione, disapprova ciò che è cittadino. Nella società rurale la fotografia viene accolta nella misura
in cui può rivestire una funzione sociale.
Bordieu fotografa la società francese degli anni 60 e mostra come la preferenza alla fotografia sia data da
operai e ceti medi impiegatizi mentre essa è snobbata dai ceti alti, professionisti e commercianti. Oggi i dati
sarebbero probabilmente diversi.

9.3. Sontag.

Negli anni 70 la fotografia viene sottoposta da alcuni autori a una critica radicale. Susan Sontag pubblica un
testo dal titolo On Photography; il suo studio si può considerare il contributo più completo all’analisi della
fotografia come agente di storia: esso rileva la ricchezza e anche i rischi della fotografia, che sono nascosti
nella sua ambiguità. La sua lezione è ancora frutto di un approccio soggettivo a una materia non inseribile in
una disciplina specifica.
Per Sontag fotografare significa appropriarsi di ciò che si fotografa, mentre la scrittura è interpretazione,
le fotografie sono pezzi di mondo. Essa scrive in un’epoca in cui la produzione fotografica ormai è diventata
incontrollabile e la perdita di significato dell’immagine sembra irreversibile.
Secondo Sontag la fotografia è intrinsecamente aggressiva, è un rito sociale, una difesa dall’angoscia e
uno strumento di potere; è anche un intervento: il fotografo non interviene in un omicidio ma lo fotografa.
Fotografare qualcosa equivale a violarla. Per Sontag la fotografia è intrinsecamente surreale e ciò che la
rende surreale è il pathos, in quanto messaggio del passato.
Le fotografie sono diventate il modello di come ci appaiono le cose.
Per salvare la fotografia dalla moda Benjamin auspicava l’uso della didascalia per orientarne la lettura.
Nessuna didascalia secondo Sontag può fissare un significato dell’immagine e la bellezza finisce per
prevalere.

PARTE TERZA. La storia nella fotografia.

Capitolo 10. Fonte per la storia.

10.1. Metodo e obiettivi.

Come approcciarsi alla fotografia.


1. Esercitare su di essa una corretta critica delle fonti: individuandone l’autore, il luogo, la data, l’evento, il
committente. Verificarne l’autenticità.
2. Valutarne l’attendibilità del documento.
3. Non limitare la lettura a un unico documento fotografico: la quantità e la serialità consentono di

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ricondurre l’indeterminatezza dei frammenti a sistema.
4. Confrontare la fotografia con altre fonti: le fotografie, se prese singolarmente, non contengono elementi
sufficienti per l’analisi storica.
5. Non cercare nell’immagine semplicemente una conferma a conclusioni ricavate altrove, ma porre ad essa
domande specifiche.
6. Studiare i codici della rappresentazione tenendo conto delle loro origini e delle motivazioni che li hanno
prodotti.
7. Studiare i generi fotografici e la loro relazione con la storia sociale e culturale.
 Per lo storico si tratta di confrontarsi con una fonte nuova, di cui ha già però interiorizzato gli strumenti
di lettura e di interpretazione. Prima di osservare una fotografia come una fonte, come uno strumento di
lavoro, lo storico deve superare e diventare cosciente di tutti gli ostacoli posti dalla sua soggettività, come
l’impatto piscologico individuale (punctum) e i condizionamenti culturali.
Considerare la fotografia una fonte significa accettare epistemologicamente la sua radicale ambiguità e
da questo momento intraprendere un percorso che si concentri su tutti gli approcci in essa contenuti:
capire il linguaggio, leggere l’intenzionalità del produttore e i condizionamenti culturali che l’hanno
prodotta, studiare la storia della sua ricezione… Bisogna poi distinguere tra fotografia pubblica e fotografia
privata. Si potrebbe ricostruire la storia contemporanea seguendo entrambi i percorsi.

10.2. L’approccio semiologico.

I semiologi hanno provato a sezionare la fotografia in modo scientifico. Il contesto e le circostanze variano il
significato della fotografia: una fotografia (il significante) che mostra un oggetto (il referente) può assumere
significati diversi a seconda dei contesti.
Tutti i segni possono significare qualcosa d’altro da sé. Pierce suddivide i segni in tre categorie:
1. Icone, come disegni, fotografie…
2. Indici, come un’impronta nel fango
3. Simboli, come una bandiera o il linguaggio.
Dalla metà del 900 la semiologia è andata alla ricerca del linguaggio specifico dell’immagine, di ciò che la
differenzia dalle altre cose. All’interno dell’immagine si organizzano diverse categorie di segni:
1. I segni iconici
2. I segni plastici
3. I segni linguistici.
C’è uno stretto rapporto tra immagine e linguaggio; è dalle immagini che nascono le parole e spesso vi
ritornano.
Altri elementi dell’analisi dell’immagine sono lo studio della sua funzione e del suo contesto di
apparizione. La funzione dell’immagine sta nel suo essere spesso rivolta all’esterno, nell’essere inserita in
un sistema di comunicazione.
- le fotografie della stampa hanno una funzione denotativa ma anche espressiva, cioè sono testimoni di una
realtà ma esprimono anche la soggettività del fotografo.
- è importante la distinzione poi tra la funzione esplicita e implicita: Pierre Bourdieu mostra come la foto di
famiglia non abbia solo la funzione di mostrare un gruppo familiare in un dato momento, ma quella di dare
coesione al gruppo stesso.
- è anche importante la funzione epistemica dell’immagine, strumento di conoscenza di persone e oggetti.
- c’è poi la funzione estetica: la comunicazione per immagini stimola il senso estetico.

10.3. Leggere la realtà, leggere le immagini.

La lettura dell’immagine come fonte rende indispensabile una storicizzazione della nostra capacità di
crearla e di leggerla. Gombrich pone il problema della difficoltà che chiunque incontra quando tenta di
riprodurre la realtà e si chiede come sia avvenuto che nella storia ci siano state a questo proposito soluzioni

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tanto diverse. Gombrich dice che lo storico sa bene che il tipo d’informazione che ci si aspettava dalle
immagini era molto diverso a seconda delle epoche.
La fotografia ci restituisce le informazioni su un luogo, una persona o una cosa anche contro la nostra
volontà. Gombrich dice che non è che un disegno non possa darci quel numero di informazioni che ci dà la
fotografia, ma è limitato dalla soggettività della visione, dai formulari e dalla ricchezza della realtà. Dal
punto di vista della riconoscibilità del contenuto, la fotografia non presenta alcun problema, perché a ogni
punto del luogo o dell’oggetto raffigurato corrisponde un punto sulla fotografia.

10.4. Fotografia e parole.

Un’operazione necessaria al racconto storico è tradurre la lettura dell’immagine in un percorso narrativo. Il


rapporto tra fotografia e parole può presentarsi sotto diverse forme: dalla didascalia scritta dall’autore della
foto, al documento cartaceo relativo alla produzione di una serie di immagini.
La didascalia sembra essere la soluzione più immediata e più semplice per ovviare alla natura ambigua
della fotografia. La parola è infatti considerata meno ambigua della fotografia. La didascalia è un’irruzione
di intenzionalità che vuole rendere monumento il documento fotografico, non fa altro che ritagliare una
lettura scegliendola tra le tante possibili.
C’è poi il rapporto immagine fotografica e testimonianza orale: la fotografia e le fonti orali hanno in
comune il loro rapporto con la soggettività. Con la testimonianza orale è lo storico a creare la propria fonte
interrogandola e anche stimolandone le reazioni con lo strumento dell’immagine. La testimonianza orale
pone problemi analoghi a quelli posti dalla fotografia: esprime una soggettività ma anche esperienze
condivise, una memoria sociale.
Un diverso rapporto vi è tra la fotografia e la letteratura. Bisogna distinguere tra la letteratura che
affronta il problema della fotografia, quella da cui possiamo ricavare dati sulla fotografia come fenomeno
sociale e quella che nasce dall’interazione con la fotografia. Nel primo caso la fotografia ha suscitato
reazioni appassionate e riflessioni profonde; nel secondo caso sono molti gli esempi in tutte le letterature
che rivelano una presenza dell’immagine ottica nella società tra il 19° e il 20° secolo. interessante è il
rapporto diretto tra scrittori e fotografia: poiché fotografi lo siamo tutti, lo furono anche molti grandi
scrittori, la fotografia condizionò anche l’opera di scrittori celebri. Esempio di Steinbeck e Capa che lavorano
insieme: partono insieme nel 1947 per un viaggio nell’Unione Sovietica devastata dalla guerra e piena di
sospetto per il mondo occidentale. Le due fonti, quella letteraria e quella fotografica, nascono insieme e
con le stesse intenzioni di obiettività.

10.5. Archivi fotografici e nuovi strumenti.

Ci chiediamo quali fotografie e perché sono state conservate in archivio negli ultimi 50 anni. Il problema
della disponibilità della fotografia e delle sue fonti è uno dei primi problemi da porsi per la ricerca
fotografica.
In origine la fotografia era stata usata anche per catalogare: uomini, razze, animali... Essa fu usata come
un mezzo per fare ordine nella varietà del mondo, ma anche come prima forma di conservazione-
riproduzione di fonti storiche.
La fotografia è stata veicolo fondamentale di tutte le fonti e lo è stata inconsapevolmente anche per le
nuove: come si potrebbe studiare la storia del paesaggio senza la fotografia?
Miliardi di fotografie sono oggi sparse per il mondo e solo una parte di esse è raccolta e conservata negli
archivi storici. Il documento fotografico può essere sottoposto a un trattamento articolato:
- vi è la descrizione per parole chiave organizzate in una struttura semantica ipertestuale per consentire una
navigazione guidata
- vi è la libera descrizione che individui hanno realizzato secondo regole condivise.
La catalogazione informatizzata consente di trattare il singolo documento come un oggetto autonomo, ma
consente allo stesso tempo contestualizzazioni.

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Importante è porsi la domanda dove è stata conservata la fotografia? A parte alcuni casi importanti, c’è una
notevole confusione e dispersione di materiali fotografici negli archivi, ma è prevedibile che
l’informatizzazione e lo sviluppo di questo genere di contenuti su internet, potranno fornire un grande
aiuto alla ricerca, sia dal punto di vista dell’ordinamento sia da quello della disponibilità delle immagini.

Capitolo 11. Agente di storia.

11.1. Fotografia e società.

Come agente di storia, la fotografia ha esercitato una straordinaria influenza sia sulla vita individuale sia
sulla vita collettiva. Ha rivoluzionato la percezione di realtà, permettendo di vedere ciò che non si era mai
visto. Essa è anche uno strumento di rimozione: fotografiamo per poter permetterci di dimenticare. La
fotografia condivide con altri produttori culturali, come il cinema o la letteratura, il suo essere sistema di
rappresentazione e autorappresentazione di gruppi e società.
Perché si fotografa? La fotografia è uno dei mezzi attraverso cui le classi medie trovano la loro
espressione, una funzione che essa mantiene nel tempo. C’è qualcosa che rende la fotografia dell’era
industriale uno strumento particolarmente interessante per lo storico: se la società industriale annulla le
individualità, la fotografia risponde al bisogno di esprimersi dell’individuo.
La capacità della fotografia di influenzare i comportamenti collettivi, di costruire e consolidare identità di
gruppo, di influenzare scelte politiche e di costruire la memoria, viene esplicato dalla fotografia in due modi
che corrispondono a due usi dell’immagine ottica: l’uso pubblico e l’uso privato.
 l’uso pubblico dovrebbe comprendere la foto di propaganda, di denuncia sociale, documentaria,
giornalistica, il ritratto; l’uso privato invece la foto di famiglia, di viaggio, quella erotica. Tuttavia, i confini di
queste due distinzioni sono spesso labili.
All’uso sociale della fotografia sono legati i concetti di fotografabile e di non fotografabile, qual è il confine
che non si può oltrepassare? La radice del problema sta nel rapporto pubblico-privato. La sfera pubblica,
nel corso dei decenni, ha finito per contaminare la sfera privata e forse è proprio l’accettazione della
pubblicizzazione del privato nata con il reportage, con l’istantanea che sta all’origine dell’esplosione
pubblica del privato. Se il concetto di fotografabile è in relazione con gli imperativi sociali, la radice del non
fotografabile sta nell’invadente realismo della fotografia.  esempio del nudo: il nudo fotografico ha un
rapporto con l’arte e la rappresentazione popolare, ma per quanti sforzi facciamo è arduo idealizzare, come
si fa per un dipinto, un corpo fotografico. Anche se si rifà a esempi della pittura accademica, è difficile
considerare la produzione di un nudo fotografico del tutto professionale.

11.2. Propaganda.

La propaganda politica e ideologica ha uno stretto rapporto con il lavoro dello storico: i vincitori scrivono la
storia, producono le fonti e le consegnano alla storia, oppure possono manipolare e forzare le fonti
esistenti. La fotografia di propaganda è fonte ma soprattutto agente di storia, il suo uso è fortemente
intenzionale e il suo potere usato da tutti i sistemi politici.
La fotografia pubblicitaria e di propaganda segnano l’entrata della fotografia nel sistema dei media, e
quindi presuppongono un uso sociale diverso, massificato.
La fotografia di propaganda politica è legata soprattutto alla storia del 20° secolo, in particolare a partire
dalla Prima guerra mondiale.
La fotografia di propaganda è una fotografia di leader, un tipo di immagine che stimola i sentimenti:
ammirazione, adorazione, paura, odio.
Quello dell’immagine pubblica di un uomo politico è un processo giocato sul rapporto tra percezione e
diffusione, in cui rivestono un ruolo essenziale le caratteristiche formali del messaggio: le fotografie
possono trasmettere vicinanza o lontananza, e così vicinanza democratica e lontananza autoritaria. Cìè
qualche relazione tra l’immagine democratica del capo e quella totalitarista e sta nella loro comune origine
spettacolare.
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I dittatori europei diventeranno presto icone, vicine e irraggiungibili, come le star del cinema.
Per quanto riguarda la fotografia, inizialmente domina l’immagine presa al volo dal reporter che sorprende
il politico quasi inconsapevole; all’inizio anche Mussolini e Hitler vivono una fase iconografica “borghese”.
Poi domina il mito che la guerra generalizzerà su entrambi gli schieramenti e imporrà su tutti i fronti di
guerra. Nell’Italia del sud con l’evoluzione del conflitto, all’icona mussoliniana esposta accanto a quella
della Madonna, si sostituisce quella del presidente Roosevelt.
Quali obiettivi si pone la fotografia di propaganda?
- l’esaltazione del capo
- la proposizione di una nuova idea di cittadino (l’ideologia totalitaria priva l’uomo della sua individualità e
trova nella fotografia un valido sostegno per diluirne l’identità nella folla).
La propaganda è poi organizzatrice e monopolio dell’immagine.  Heinrich Hoffmann è un fotografo che
diventa nazista nei primi anni 20 per poter fornire alcune fotografie di Hitler al magnate americano della
stampa Randolph Hearst. Hoffmann riceve la fiducia illimitata di Hitler e avrà il diritto esclusivo alla
pubblicazione delle foto del Fuhrer. Hoffmann crea un’agenzia e una casa editrice che avranno il monopolio
della propaganda fotografica del nazismo. Gli americani confischeranno il suo archivio e le sue fotografie
diventeranno prove per accusare i criminali di guerra.
La propaganda nazista raggiunge risultati notevoli. Il cinema di Leni Riefensthal, cinema non fiction di
qualità formale indiscutibile, ne fu l’espressione più alta. La fotografia fu come sempre uno strumento più
ambiguo e incontrollabile del cinema.
Dal 1936 c’erano le PK (Propaganda Kompanien) costituite da un fotografo, un operatore cinematografico,
un redattore di testi e un disegnatore e incaricate di rendere la propaganda per immagini sistematica.
La fotografia ufficiale, tuttavia, non poteva impedire che emergesse anche il lato oscuro della Germania
tra le due guerre. L’Atlante di medicina legale di Weimann e Prokop è un documento impressionante su
aspetti sociali del tutto ignorati dalla stampa ufficiale: si tratta di foto di delitti e violenze non politiche,
commesse nella Germania di Hitler, accompagnate da verbali della polizia e dei medici legali.

11.3. Il non fotografabile.

Fin dall’inizio i fotografi di guerra ebbero un importante ruolo pubblico e furono edificatori della memoria
nazionale. Il fotografo inglese Roger Fenton trovò un finanziamento per recarsi in Crimea durante il
conflitto (1853-1856). Di questa guerra le sue fotografie ci mostrano panorami e ritratti di ufficiali, delle
azioni belliche non vi è traccia, è una guerra senza morti.
Con la nascita del fotogiornalismo, la fotografia di guerra si inserirà in un filone di guerra stabile e
consolidato, che vedrà le iniziative individuali moltiplicarsi grazie alle innovazioni tecniche.
Le fotografie di Mathew Brady mostrano per la prima volta la guerra totale, dove la morte non solo si
comincia a vedere, ma si mostra subito in dimensioni industriali.
Presto la fotografia mostrò la realtà della guerra, gli orrori e non più le glorie come l’iconografia
precedente; inoltre, essa poteva essere ovunque, e ciò rese necessaria la censura militare per impedire che
circolassero immagini che potevano sortire un effetto di denuncia.
Fu la 1GM a creare e generalizzare due fenomeni importanti:
1. Vengono costituire efficienti servizi fotografici legati agli eserciti, che documentano sistematicamente le
operazioni sui fronti e la vita nelle retrovie e le cui immagini vengono filtrate per la propaganda, anch’essa
un’invenzione della guerra.
2. Prima ancora che si diffondano negli anni 20 gli apparecchi leggeri, si afferma la figura del fotografo di
guerra dilettante.
 La 1GM ha rappresentato una vera esplosione documentaria per quanto riguarda le immagini fisse o in
movimento. Prima di allora furono prodotti milioni di fotografie, ma solo questo grande evento ha costruito
un corpus documentario tale da non passare inosservato neanche agli storici, tradizionalmente indifferenti
a questo genere di fonti.

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Con l’era del fotogiornalismo, anche una singola foto po' diventare valore universale, un esempio è la
fotografia di Robert Capa del Soldato Miliziano, pubblicata su Vu nel 1936. Una vera icona della guerra,
della morte, dell’istantanea fotografica, del fotogiornalismo (tuttavia viene da molti considerata un falso,
una messa in scena).
Il fotogiornalismo inserisce la guerra e la morte nei circuiti commerciali e fa sorgere delle domande: Come
si documenta la guerra? Qual è il limite nella rappresentazione della morte e della violenza? In che misura
la loro rappresentazione è utile alla propaganda? Esiste un’estetica della violenza?
Una volta diventata uno strumento di propaganda, di fronte alla nuova emergenza bellica, la produzione
dell’immagine assume un ruolo strategico e richiede oltre che indicazioni precise anche un controllo
accurato. In Italia, per esempio, durante la 2GM giornali e settimanali non pubblicarono immagini di morte
perché questa non puà fare a meno di una cruda personalizzazione. La fotografia, quindi, perde in questo
moto il suo valore di simbolo e, inserita nei media, rischia di essere controproducente. Il fascismo condusse
per tutto il ventennio un’opera di monumentalizzazione ed eroicizzazione dei caduti della 1GM,
sostanzialmente una presa di distanza dalla morte per renderla accettabile e persino funzionale.

Tra le prove esibite durante il processo di Norimberga c’era un film sulle atrocità dei campi di sterminio, fil
realizzato dagli operatori militari alleati e fu proiettato in aula il 29 novembre 1945. Tutti gli imputati
mostrarono segni di profondo turbamento alla vista di quelle immagini, alcuni abbassarono gli occhi e
alcuni piansero. Il film fu inserito dall’accusa tra le prove documentali.
L’immagine, da prova giudiziaria assume una valenza di prova per lo storico. Tra le fonti che gli storici
studiano oggi sull’Olocausto vi sono, oltre ai documenti scritti, alle testimonianze e agli stessi campi,
fotografie e film, alcuni ufficiali provenienti dalla stampa, o da civili realizzate segretamente dai
sopravvissuti, immagini aeree…
L’olocausto è il limite del rappresentabile: George Rodger, corrispondente di guerra per Life, si soprese a
cercare l’inquadratura giusta davanti ai mucchi di cadaveri di Bergen-Belsen, e smise per due anni di
fotografare.
Le fotografie di Auschwitz mostrano esempi di usi e funzioni diverse: la fotografia diventa subito prova,
dimostrazione proprio nel momento in cui viene prodotta, e a volte viene prodotta proprio per questo
scopo: i nazisti volevano documentare quanto stavano facendo e allo stesso tempo temevano la
produzione di possibili testimonianze dei loro crimini. Con l’esclusione delle fotografie ufficiali, poste
sempre sotto un severo controllo, era proibito fotografare nel campo. I prigionieri mandati al campo per
essere internati ricevevano un numero e venivano fotografati (mentre gli ebrei che arrivavano per essere
mandati direttamente nelle camere a gas non erano né registrati, né fotografati, così come tra coloro che
venivano mandati ai lavori forzati, solo pochi erano prima fotografati). I nazisti fotografavano sempre
invece i prigionieri tedeschi, oppure documentavano gli effetti dei loro esperimenti sulle cavie umane, o
anche ebrei che presentavano caratteristiche fisiche particolari. I prigionieri cercarono in alcuni casi, anche
a rischio della vita, di salvare questi documenti dalla distruzione finale.

Il più significativo gruppo di foto prese dalle SS ad Auschwitz fu quello che riguarda l’arrivo degli ebrei
ungheresi ad Auschwitz 2 Birkenau nel 1944, che mostra la selezione dei prigionieri e l’invio nelle camere a
gas. Lili Jacob era tra questi, essa sopravvisse alla selezione, dopo la liberazione le capitò di imbattersi in un
album di foto, e per un’incredibile coincidenza queste mostravano la sua famiglia che era stata sterminata.
L’album servì per incriminare alcuni responsabili del campo.
Gli album fotografici avevano persino la funzione di ricorso, ed erano ingentiliti con decorazioni e
completati con didascalie. Alcuni di questi furono realizzati nel 1943 per documentare le nuovi costruzioni
realizzate nel campo in quell’anno e Ludwik Lawin, prigioniero polacco incaricato di montarvi le immagini,
decise di conservare una parte del materiale per documentare le atrocità naziste. Lo stesso obiettivo si
posero quei prigionieri politici che, a costo della vita, scattarono essi stessi foto del campo e delle uccisioni.
La fotografia qui esprime una speranza di salvezza e persino giustizia.

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Un altro esempio interessante sono le foto aeree scattate dall’aviazione alleata tra il 1944 e il 1945 che ci
forniscono un’importante mappa delle strutture del campo di Auschwitz e degli edifici adibiti allo sterminio,
che i nazisti distrussero quando lasciarono Auschwitz.
Alla fine della guerra numerose commissioni visitarono il campo realizzando servizi fotografici che ebbero
conseguenze giudiziarie sui responsabili e le immagini dell’apertura dei campi fecero il giro del mondo.
La fotografia giudiziaria era un documento e una prova per riconoscere e individuare i nemici dello stato; gli
archivi comunali dei paesi invasi dovevano fornire ai nazisti materiale per le loro persecuzioni.

La guerra del Vietnam fu la prima guerra interamente mediatica, dove l’obiettivo del fotografo si rivela un
pericoloso avversario delle autorità militari: la celebre foto di Nick Ut del 1972 che mostra una bambina
bruciata dal napalm mentre fugge terrorizzata, ha meritato di diventare un’icona del 20° secolo perché
ebbe la funzione di consolidare l’opposizione alla guerra.
Durante i conflitti precedenti sembrava quasi che si ponesse un problema di distanza: non si potevano
osservare gli effetti ravvicinati della guerra, perché avrebbero destato sentimenti di ribellione o pietà verso
gli altri. La guerra idustriale lascia volutamente nell’anonimato il nemico (vivo) mentre dà un volto e un
nome al nostro soldato; con il Vietnam questo non fu più possibile.

11.4. Famiglie e viaggi.

Dalla metà dell’800 la fotografia ha accompagnato praticamente sempre le nostre vicende familiari.
Prima di parlare del rapporto famiglia – fotografia bisogna fare riferimento al rapporto famiglia – storia.
Anche nelle società contemporanee, fino ai temi recenti, la famiglia ha avuto un ruolo fondamentale nella
conservazione della memoria sociale. La fotografia familiare è quasi un unico documento che attraversa la
storia di 150 anni, riproponendosi con le stesse modalità e caratteristiche. L’album di famiglia raccoglieva
fin dalle origini non solo fotografie, ma anche cartoline, inviti, santini era una sorta di archivio familiare.
Sono soprattutto le donne a iniziare la narrazione della storia illustrata familiare, sono loro a costruire e
impaginare gli album. Nella famiglia borghese è l’uomo il creatore della memoria fotografica, ma è la donna
la custode delle tradizioni familiari.
Con l’album di famiglia ognuno di noi costruisce una fonte intenzionale, crea una rappresentazione di sé
stesso da consegnare al presente e al futuro.
Per studiare la fotografia familiare è necessario, oltre ad analizzare i ritratti di famiglia e la loro relazione
con il precedente ritratto pittorico, approfondire innanzitutto i ruoli svolti dall’uomo e dalla donna
nell’organizzazione sociale del mondo occidentale, studiare i singoli componenti del nucleo familiare e la
loro storia fotografica. Un esempio è il ruolo della donna nel mondo vittoriano, essa è regina della casa e
simbolo di decoro, mentre l’uomo è simbolo dell’industriosità e degli affari. Il mondo domestico, in quegli
anni, appartiene dunque alla donna, e questo ruolo ha cerato le condizioni per un’iniziativa femminile di
rivendicazione sociale e culturale di cui la fotografia diventa testimonianza ma anche strumento. Un altro
esempio riguarda l’infanzia: se fino a tutto il medioevo il bambino viene raffigurato come un piccolo uomo,
nei secoli successivi avviene una progressiva scoperta del sentimento dell’infanzia che si realizzerà
pienamente nell’800; la fotografia di famiglia trascurava i bambini.

La funzione sociale della fotografia si rivela laddove le tradizioni sono più consolidate, cioè nelle comunità
rurali, dove essa giunge presto (tra il 1905 e il 1914) e si pone come metodo per solennizzare un momento
intenso di vita collettiva. Lo si vede bene nel matrimonio, dove la fotografia ha conosciuto un’affermazione
molto rapida e dove, anche quando è ancora costosa, diventa subito obbligatoria. Ai battesimi invece la
fotografia non c’è quasi mai.

Capitolo 12. Strumento per raccontare la storia.

12.1. Sequenze e finestre.

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Le prospettive di un racconto fotografico possono essere di due tipi:
1. La sequenza, ovvero il montaggio di più immagini che è in grado di consentire una narrazione diacronica
o sincronica.
2. La lettura in profondità di un’immagine, scoprendo gli elementi (cioè gli indizi) che danno vita al percorso
narrativo.
Raccontare con la fotografia significa far interagire immagini e parole. Si può quindi o leggere e raccontare
la fotografia insieme, oppure raccontare esclusivamente attraverso la fotografia. Le possibilità di interazioni
tra la lettura della fotografia e il racconto della storia sono molteplici.
Costruire una storia fotografia comporta una ricerca approfondita e una selezione del materiale
individuato, una decontestualizzazione delle immagini e una loro ricontestualizzazione. Il rapporto tra
immagini e testi richiede poi scelte precise, anche in termini di impaginazione e grafica.

Tra le prime forme di vero e proprio racconto storico-fotografico, già nel 19° secolo, ci sono le serie, in
genere stampate in figurine o cartoline postali: provenienti dall’iconografia popolare, queste piccole storie
raccontavano le vicende edificanti di santi o eroi.
Dopo la 2GM molto popolare diventa in Italia e nei paesi latini il fotoromanzo, inizialmente derivato dal
cinema e resosi poi autonomo.

Appendice.
Un caso di studio: l’Archivio fotografico dell’Istituto Luce.

L’istituto nazionale Luce fu fondato da Mussolini nel 1925 e acquisì il monopolio della produzione pubblica
fotografica e cinematografica. Esso aveva la caratteristica di essere un ente particolarmente vicino alla
Presidenza del Consiglio e di essere uno dei primi esempi al mondo di organizzazione sistematica di
educazione, informazione e propaganda condotta attraverso le immagini.
Nel 1927 venne istituito il Servizio fotografico, che si occupava di ogni genere di immagine fotografica ed
ebbe subito l’ambizione di costituire un archivio il più possibile completo ed esaustivo. I responsabili del
reparto fotografico, per motivi soprattutto economici, organizzarono un sistema che garantisse la diffusione
delle fotografie più funzionali al regime: la stampa nazionale fu obbligata a pagare un canone per avere foto
di “varietà”, mentre ricevette gratuitamente quelle di propaganda; alla stampa estera veniva invece inviato
senza alcuna spesa qualsiasi genere di immagine.
Il principale soggetto di fotografie e film dell’Istituto è naturalmente il duce. I ritratti fotografici del duce
erano molto diffusi durante il ventennio: appesi alle pareti o conservati nelle tasche dei combattenti, essi
alimentavano il culto del capo e allo stesso tempo ne rendevano familiare la presenza.
Circa un milione di foto documentano oggi nell’Archivio del Luce ogni aspetto della vita italiana, dai ritratti
del duce, alla fotografia scientifica, alla fotografia di famiglia e così via.
La fotografia del Luce è impersonale, si rivelano raramente nomi significativi di fotografi, rimanendo spesso
nell’anonimato.

Il Luce riforniva la stampa di regime di foto sottoposte preventivamente all’Ufficio stampa del capo del
governo; quando questo organismo sarà diretto da Ciano il controllo si farà più serrato.
L’importanza della comunicazione per immagini viene ribadita dalle note di servizio emanate dai vari
organi preposti. La fotografia quindi è uno strumento efficace di comunicazione, tuttavia il controllo su di
essa non può mai essere così serrato, persino quando è prodotta dagli organismi del regime.
I fotografi Luce racconto l’Italia fascista attraverso moduli non molto diversi da quelli usati dai loro colleghi
delle agenzie private: entrambe le categorie esercitavano una sorta di spontanea autocensura, dato che
tutti conoscevano che cosa il regime avrebbe approvato. Anche i soggetti fotografati sembrano essere
consapevoli delle esigenze del regime: i loro sguardi preoccupati rivolti verso l’obiettivo esprimono la
volontà di mostrarsi all’altezza dell’idea fascista dell’italiano modello.

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Il Luce, come istituzione pubblica e attraverso i suoi fotografi, è edificatore intenzionale di memoria e
strumento di narrazione storica. L’archivio del Luce conserva tutte le foto prodotte, non solo quelle
destinate alla stampa.

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