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L’INVENZIONE DEL FOTOGRAFICO – Storia e idee della fotografia dell'Ottocento

Camera oscura (Reiner Gemma Frisius)


La parola camera deriva dall'antico dispositivo ottico, detto in latino camera obscura, dalle cui evoluzioni e
perfezionamenti tecnici e scientifici, ottici e chimici, è in seguito nata la fotografia. Già nel IV secolo a.C. il filosofo
Aristotele osservava i fenomeni dell’eclissi grazie a una camera o scuola che gli permetteva di non rimanere
accecato dalla luce emessa dai raggi potenti del sole. Il primato della visualizzazione di una camera oscura sia in
un disegno tracciato dal matematico e fisico olandese Reiner Gemma Frisius riferito all’eclissi solare verificatasi a
Lovanio nel 1544. Il fenomeno alla base del funzionamento di una camera oscura si verifica producendo un foro
sulla parete di una stanza resa completamente buia, in modo che sulla parete opposta al foro si rifletta
un’immagine ribaltata della proporzione di realtà illuminata che è al di fuori della stanza stessa. Grazie a questo
espediente alcuni fenomeni particolari come appunto le eclissi, potevano essere studiati e seguiti senza i rischi
per la vista.
La camera oscura nasce come strumento del desiderio dell’uomo di conoscere e capire il mondo e le sue
manifestazioni visibili, perciò ottieni Innanzitutto applicazione nel campo degli studi scientifici ma nel corso del
tempo il suo uso si risponderà sempre di più anche in campo artistico come strumento capace di realizzare
un’immagine della realtà precisa è affidabile. Intanto la camera oscura assume sempre più le sembianze di una
scatola, un apparecchio che si può spostare per effettuare riprese all'esterno di vedute paesaggistiche. >> grazie
alle evoluzioni e agli sviluppi della camera oscura il percorso verso la nascita della fotografia si farà nel corso dei
secoli sempre più stringente. I due fattori che cresceranno e renderanno più complesso il fabbisogno di immagini
saranno l'ascesa della borghesia e il progresso delle scienze.
Nel XVI e XVII secolo la camera oscura è stata molto usata ma è sicuramente durante il rinascimento che gli
interessi e gli studi attorno alla camera oscura si fanno importanti: a metà del Cinquecento Gerolamo Cardano
propone l’inserimento di una lente convessa in corrispondenza del foro per aumentare la luminosità,
contemporaneamente Daniele Barbaro aggiunge a tale scopo una lente al diaframma. Altre descrizioni della
camera oscura aggiungono a rimarcare la volontà di aumentare il grado di fedeltà e perfezione dell’immagine del
reale, decretando al contempo l’ausiliarietà dello strumento nei confronti della pittura.
Nella 1685 lo scienziato Johann Zahn mette a punto un modello di camera oscura reflex, principio tutt’ora alla base
delle macchine fotografiche reflex, che aggiunge sulla parete di fondo, su cui si proietta l’immagine della realtà,
uno specchio inclinato a 45° grazie al quale l’immagine viene ribaltata è proiettata in alto recuperando quindi la
corretta visione naturale sinistra-destra. Nel corso dei secoli, Dunque, tanti sono i miglioramenti che vengono
apportati a questo apparecchio conosciuto Fin dall’antichità, è sempre di più il suo utilizzo e le curiosità che stimola
oscillano tra gli studi scientifici e le applicazioni artistiche.
È evidente che le ricerche sulla strada della cattura di un’immagine della natura avevano compiuto nel corso del
tempo grandi passi avanti. In fatto di ottica, ma ancora nel XVIII secolo le conoscenze in campo chimico non
consentivano di conservare l’immagine formatasi dentro la camera oscura e di renderla permanente
trasformandola così in una fotografia. Pure in questo campo tanti inventori e studiosi avevano compiuto
importanti esperimenti però, pur prossimi alla scoperta di come catturare automaticamente l’immagine del
mondo, rimangono un passo indietro rispetto alla definitiva nascita della tecnica fotografica di cui altri si sarebbero
potuti un giorno fregiare.
La prospettiva rinascimentale e la fotografia
Con la prospettiva si poteva riprodurre la realtà tridimensionale su una superficie bidimensionale, di
costituendone la profondità e il rilievo e rispettandone i rapporti spaziali. Come alcuni studiosi hanno evidenziato,
il rapporto triplice fra prospettiva rinascimentale, camera oscura, fotografia è ben più complesso e articolato di un
semplicistico loro legame di discendenza ereditaria quanto a perfezionamento progressivo di meccanismi della
visione. Non ci si può, dunque, limitare alla sola trattazione della fotografia come oggetto prodotto da un'azione
e da una macchina con particolari caratteristiche tecniche che la legano all'orizzonte e all'eredità della pittura. Si
deve piuttosto considerarla un universo complesso non svincolabile da tutta la ricchezza di significati e implicazioni
che anima la filosofia della fotografia. Non limitarsi alla sola spartizione di campo che la fotografia contese alla
pittura dell'800, ma tentare di volgere lo sguardo a ciò che essa rappresenterà nell'arte del Novecento.
Vista dalla finestra a Gras (Nicéphore Niépce 1826-27)
L’invenzione che è stata chiamata fotografia nasce solo nel XIX secolo, dopo sperimentazioni, fallimenti, errori e
incredibili intuizioni. Solo quando le conoscenze chimiche riescono finalmente a individuare quali sostanze
fotosensibili possono catturare quelle immagini fuggevoli e quali altre le possono tenere fissate per sempre nello
scorrere del tempo.
Nicéphore Niépce già dal 1822 sperimenta una speciale resina, il Bitume di Giudea, che gli permette di ottenere
immagini con una tecnica di tipo incisorio e parallelamente continuare a ragionare su come poter applicare certe
migliorie alla camera oscura.
Cerca una sostanza che, se colpita la luce, invece che Scurire posso sbiancare, e dopo 10 anni di tentativi, Niépce
realizza Vista dalla finestra a Gras, che si può leggere come il positivo di una ripresa dell’ambiente esterno alla
soffitta nella casa di famiglia, che viene considerata la prima immagine fotografica della storia (di scarsissima
nitidezza, impressa su una lastra di peltro spalmata di Bitume di Giudea è lasciata nella camera oscura per circa
10 ore). Non si può quindi negare che la prima fotografia della storia sia una sorta di operazione estetica.
Nell’immagine il sole colpisce entrambi i lati presentandosi come una somma di temporalità, una specie di
mezzogiorno eterno. In questo senso Niépce non ci ha dato solo la prima immutabile traccia automatica della luce,
ma ci ha lasciato anche la prima testimonianza di un’esperienza proto-concettuale. Battezza ciò che ha ottenuto
con un nome di origine greca, eliografia: “la scoperta che ho fatto, e che indico col nome di eliografia, consiste nel
riprodurre spontaneamente, mediante l’azione della luce colle di gradazioni di tinte dal nero al bianco, le immagini
ricevute nella camera oscura”. Definire l'immagine ottenuta come una realizzazione spontanea della luce del sole
significa capire profondamente quale eccezionale scatto storico e culturale si è prodotto. Parlando di spontaneità,
Niépce decreta definitivamente la nascita della possibilità che un apparecchio meccanico sia però in grado di
produrre da solo una visione del reale.
Nel 1830 Niépce continua a rimanere l’unico depositario del suo segreto ma è da qualche tempo che Luis-
JaquesMandé Daguerre, pittore e scenografo che possiede un diorama a Parigi dove, tramite proiezioni e l’uso di
camere oscure, mette in scena effetti di illusionismo spettacolari molto amati dai parigini, sta cercando di
contattarlo. I due alla fine si conoscono e a forza di insistere, e anche grazie alla debolezza economica e psicologica
in cui versa Niépce dopo la morte del fratello, arrivano alla stipula di un accordo in cui Niépce porterà la sua
invenzione e Daguerre una nuova combinazione della camera oscura, i suoi talenti e il suo spirito di intrapresa. La
firma viene messa il 14 dicembre 1829 ma purtroppo nel 1833 Niépce muore e nell’accordo subentra il figlio
Isidore, che avrà una parte marginale e solo simbolica della storia delle origini della fotografia. Al successo ufficiale
arriva solo Daguerre, mentre il nome di Niépce dovrà aspettare molto tempo per essere recuperato. Le eliografie
di Niépce rappresentano Dunque degli incunaboli fotografici da cui, con sviluppi avanzamenti nella tecnica, ebbe
seguito la successiva e gloriosa storia della fotografia.
Protesi tecnologiche e punti di vista
Nicéphore Niépce comincia a usare una resina, il bitume di Giudea, che aveva la proprietà di indurire se esposto
alla luce del sole, assumendo una colorazione bianco pallido. Prendendo esempio dalla tecnica della fotografia
Niépce comincia a sfruttare le caratteristiche del bitume spalmandolo sopra una lastra e mettendo questa a
contatto con un’incisione o una litografia rese trasparenti grazie all’uso di cera oppure olio. Espone quindi tutta la
luce che, passando attraverso la carta trasparente, indurisce il bitume esposto ma lo lascia molle laddove è coperto
dalla traccia del disegno sovrapposto. Dilavando il bitume dopo l’esposizione con olio di lavanda ottiene una sorta
di matrice che puoi inchiostrare e stampare a contatto, realizzando immagini ispirate al nuovo metodo litografico.
> immagini chiamate fotoincisioni, immagini off-camera, realizzate senza l’ausilio della camera oscura.
Riflettendo sulle proprietà fotosensibili del bitume di Giudea, sperimentate nelle fotoincisioni, Niépce pensa di
utilizzarlo anche nella camera oscura, arrivando a realizzare quella che lui stesso definisce la prima immagine
spontanea della storia. Decide di spalmare una lastra di peltro con il bitume e di inserirla nella parete di fondo
della sua camera oscura, che aveva posizionato sul davanzale della finestra di casa con l’obiettivo rivolto al
paesaggio antistante. Dopo 8-10 ore di esposizione, il bitume si è indurito e imbiancato nelle parti colpite dal sole,
mentre la parte metallica del supporto mostra le ombre. In seguito scopre di poter annerire ulteriormente le parti
metalliche della lastra con i vapori di iodio e riesce anche a eliminare del tutto il bitume indurito con l'alcool.
Usa il termine poits de vue per indicare le riprese che faceva con la camera oscura. Con questa parola sottolinea
bene l’idea che quello fotografico è solo uno dei possibili sguardi sul mondo.
Boulevard du Temple (Luis-Jaques-Mandé Daguerre 1839)
Il rinnovo del contratto stabilisce che la scoperta che deriverà da ogni Futura sperimentazione porterà il nome solo
di Daguerre. Negli anni che intercorrono tra la morte di Niépce della notizia ufficiale della nascita della fotografia,
Daguerre compie dei passi fondamentali per trasformare alcune intuizioni in una tecnica davvero utilizzabile
funzionare. Dopo la prova della foto sensibilità dello ioduro d’argento nel 1835 scopre la cosiddetta immagine
latente, il fenomeno grazie al quale una lastra di rame argentato inserita nella camera oscura può rivelare, una
volta sottoposta ai vapori di mercurio, la porzione di realtà che vi è rimasta impressa sopra dopo un’esposizione
che dovrei inizialmente essere di mezz’ora e poi potrà essere anche di pochi minuti. Perfezionata la tecnica con
una fissazione fatta con sale comune acqua calda, la riduzione dei tempi di posa e di sviluppo diviene in questo
modo uno degli aspetti determinanti per la messa a punto definitiva del procedimento fotografico.
Nel 1837 realizza un'immagine che ha come soggetto una natura morta la cui definizione dei particolari e la
precisione offerta dalla gamma di sfumature sono ormai lontane dalla famosa Vista dalla finestra a Gras di Niépce.
Nel 1839 realizzano Boulverad du Temple dove appare per la prima volta una isolata figura umana che è quella di
un passante fermo i lati della strada. Il passante parigino è stato fermo nella sua posizione il tempo sufficiente
affinché il suo profilo potesse essere catturato dalle sostanze fotosensibili sulla lastra della camera oscura, tutto
ciò che gli si muoveva attorno e invece andato perduto in quanto il materiale e la tecnica a disposizione non
prevedevano ancora la possibilità di riprendere soggetti in movimento.
Daguerre ha quindi Manuela scoperta della fotografia, ora deve trovare il canale giusto per comunicarla,
diffonderla e il modo di godere dei benefici economici. Mediatore: François Jean Dominique Arago, fisico
astronomo e politico che decide di patrocinare la scoperta di Daguerre e, in una seduta storica dell’Accademia
delle Scienze di Parigi, il 7 gennaio 1839 annuncia al mondo la nascita della fotografia. In seguito si adopererà in
tutti i modi affinché lo stato francese ne acquisisca i diritti facendone dono all’umanità intera. In un’altra
memorabile seduta il 19 agosto 1839 viene fatta dimostrazione del funzionamento del dagherrotipo. Dopo che lo
stato francese entra in possesso ufficialmente del brevetto, viene assegnata a Daguerre e al figlio di Niépce, un
vitalizio con il quale potranno vivere tranquillamente per il resto dei loro giorni. Successivamente Daguerre stipula
un accordo con la Casa Giroux per la commercializzazione di apparecchi di legno autenticate da lui che danno il
via a una diffusione dell’invenzione, anche oltreoceano.
La nuova invenzione viene chiamata dagherrotipo costituito da immagini tratte dalla realtà in presse su piccole
lastre metalliche che per non sciuparsi e rompersi vengono costruite in astucci di cuoio, velluto o cartone. Grazie
al procedimento messo appunto da Daguerre, l’immagine formatasi all’interno della camera oscura può essere
letta come un positivo diretto, grazie all’inclinazione della lastra e la conseguente incidenza della luce sulla
superficie specchiata. Dopo il grande successo dei primi anni il dagherrotipo cadde in disuso per la sua unicità, il
suo essere non riproducibile, fino a scomparire definitivamente. Verrà sostituito nei gusti del pubblico dall’altra
scoperta fotografica che quasi contemporaneamente era stata diffusa è presentata al mondo e che possedeva
qualcosa che si sarebbe rivelato impareggiabile nel futuro dei mezzi di comunicazione di massa: la riproducibilità
tecnica.
Il fascino della copia unica
L’unicità del dagherrotipo è stata la motivazione principale della sua scomparsa definitiva. La sua precisione nella
definizione delle forme e la sua lucida brillantezza non potevano competere con la possibilità di essere riprodotto
e diffuso in un numero infinito di copie. La possibilità di moltiplicare le tracce di realtà tante volte quante si
desidera, la loro diffusione ai quattro angoli del mondo sono solo le principali voci dell’elenco di vantaggi che
hanno fatto della fotografia uno strumento di democratizzazione e di interazione di massa. Eppure, si deve ribadire
la salvaguardia profonda della concettualità del dagherrotipo come l'impronta e invece del mondo. Ma anche se
deve rilevare che la scelta dell'unicità non è per nulla morta nella contemporaneità novecentesca, ma anzi trovato
interpreti, forme e significati assai importanti.
Nel 1947 un americano di nome Edwin Land mette a punto la tecnologia della Polaroid, un apparecchio a sviluppo
immediato, brevettandola e immettendola poi nel mercato mondiale l'anno successivo. La magia consiste nel fatto
che dallo stesso apparecchio con cui si effettuata la ripresa, un minuto dopo e dall'apposita fessura, esce la
fotografia sviluppata. Oltre al principio dell'unicità, merita ricordare che ciò che unisce il dagherrotipo alla Polaroid
è anche un aspetto materico e un rapporto privilegiato e sensorialità: così come il dagherrotipo veniva custodito
in astucci e inciso e acquerellato per far risaltare meglio i particolari degli incarnati, così la Polaroid è la più tattile
delle fotografie.
Polaroid come strumento centrale nella poetica delle sessioni porno-soft del designer torinese Carlo Mollino, degli
autoritratti intimi ed erotici di Mapplethorpe e delle ricognizioni voyeristiche sulla Tokyo hard degli anni 90 di
Araki. Tutti i casi in cui l’autoreferenzialità dello sviluppo privato della Polaroid aumenta il grado di erotismo della
performance fotografica. + uso della Polaroid da parte di Andy Warhol quale perfetto strumento dell’arte no-hands
look.
Oggi la Polaroid è più viva che mai: con Lady Gaga come direttore creativo, l'ultima scommessa è quella di avere
un apparecchio digitale che, mentre scatta un'immagine e la stampa istantaneamente fisicamente, al contempo
la può modificare applicandole i filtri di Instagram per condividerla virtualmente sul web.
Finestra con telaio a griglia (William Henry Talbot 1835)
A Londra un altro inventore, il matematico e botanico William Henry Talbot, decide d’urgenza, dopo la notizia che
daguerre si appresta a presentare al mondo la scoperta della fotografia a Parigi, che è venuto il momento di
comunicare ufficialmente il punto di arrivo delle sue sperimentazioni chimico-ottiche. Sfruttando le sue
conoscenze di ottica e di chimica, Talbot riesce a realizzare delle immagini a contatto che chiama disegni fotogenici.
In pratica e gli sovrappone degli elementi naturali come foglie e fiori, ma anche tessuti e pizzi semi-trasparenti, a
fogli di carta resi sensibili alla luce. Lasciati esposti per un certo lasso di tempo, una volta tolti gli oggetti avranno
lasciato impressa su quel foglio la loro impronta in negativo. Mentre tutto attorno le sostanze fotosensibili si
saranno annerite alla luce. Queste immagini dette off-camera saranno per Talbot un passaggio fondamentale per
successive sperimentazioni.
Riporta e applica le scoperte fatte con le carte dei disegni fotogenici alle camere oscure punto nel 1835 ottiene
quello che viene considerato il primo negativo fotografico della storia chiamato Finestra con telaio a griglia.
Inspiegabilmente ne abbandona il perfezionamento per dedicarsi ad altro, pronto però a rivendicare le sue
scoperte non appena dalla Francia aggiungerà la notizia che la fotografia è stata inventata.
I due metodi differiscono per alcuni particolari importanti che decreteranno la scoperta del l'uno e il successo
secolare dall’altro. Il dagherrotipo era una copia unica, leggibile come positivo diretto ma non riproducibile. Era
estremamente preciso nei dettagli, brillante nella definizione dei particolari, piacevole allo sguardo. Al contrario
Talbot ha realizzato il negativo fotografico da cui si possono ottenere un numero teoricamente infinito di copie
positive: ha inventato quindi quella riproducibilità tecnica così importante per le riflessioni teoriche ed estetiche
sulla contemporaneità. Ma la qualità delle immagini è assai inferiore a quella dei dagherrotipi, apparendo sgranate
e poco definite.
Dopo aver anche subito alcune modifiche che ne miglioreranno le prestazioni, il metodo negativo-positivo di Talbot
si imporrà alla storia: dal brevetto depositato nel 1841 il procedimento inglese sarà universalmente noto come
calotipia. Un altro importantissimo merito è quello di aver dato alle stampe il primo libro fotografico della storia
nel 1844.
I soggetti principali dei libri fotografici di Talbot sono paesaggi, granai, persone in posa, piccoli oggetti e la famosa
scopa appoggiata allo stipite di una porta aperta. Anche se si tratta perlopiù di vedute anonimi e banali, e se sono
il primo assaggio di un fenomeno che avrebbe avuto, e ha tutt'ora, un'importanza fondamentale nel rapporto
dell'uomo con il mondo: quello di poter viaggiare virtualmente grazie alle immagini e alle illustrazioni dei libri.
La scrittura della luce
Fra i tanti nomi degli appassionati e studiosi che si erano cimentati nella messa a punto definitiva del procedimento
fotografico se sono Johann Heinrich Schulze è Thomas Wedgwood che avevano fatto nel 700 dei tentativi per
individuare le sostanze chimiche in grado di subire modificazioni se sottoposti alla luce del sole. Purtroppo non
individuano quale sostanze fossero in grado di fissare con le impronte generate dal sole che, una volta sollevato
l’oggetto, anneriscono del tutto. Si limitano ad osservare la luce di una candela ma non le possono rendere eterna,
cosa che riusciva ad altri qualche decennio dopo.
Il passaggio successivo è dato dai disegni fotogenici di Henry Fox Talbot, che rappresentano in sostanza la
possibilità di ottenere in modo stabile le prime immagini a contatto. Il principio è lo stesso: se in un ambiente
oscurato si poggiano su una superficie sensibile degli oggetti e si espone tutto alla luce, quando gli oggetti verranno
tolti, e il materiale verrà sviluppato è fissato, che sarà tenuto negativo e cioè una silhouette bianca sul fondo nero.
Nell’epoca dinamica e rivoluzionaria delle avanguardie storiche alcuni artisti recupereranno proprio l’idea di far
lavorare autonomamente la luce su di una superficie sensibile praticando degli off-camera. Tra i più famosi che
applicano il principio della fotografia senza macchina ci sono Man Ray con i rayographs, Lázsló Moholy-Nagy con
i fotogrammi e Christian Shad con le schadografie.
Autoritratto in figura di annegato (Hippolyte Bayard 1840)
Hippolyte Bayard è un nome noto Tra quanti a metà dell’Ottocento stanno lavorando attorno all’invenzione del
procedimento fotografico. In particolare, Bayard era stato convinto a riprendere i suoi studi sulle sostanze
fotosensibili dall’annuncio di Arago e Daguerre del 1839, così si rimette al lavoro e quello stesso anno può già
sottoporre delle immagini positive dirette, su carta sensibilizzata con ioduro d’argento, a un membro dell’Istituto
di Francia (le chiama images photogénées). Conto di aver ottenuto qualcosa di decisamente importante e visto
che Argo si è mostrato sensibile alle proposte di Daguerre lo contatta per mostrargli cosa ha realizzato. Ma passano
i mesi e apparecchiare io che il matematico francese vuole sponsorizzare la sola intenzione di Daguerre così Bayard
organizza una sua personale esibizione immagini, con trenta fotografie tra nature morte e architetture che
possono considerarsi come la prima mostra pubblica di fotografia.
Bayard viene considerato, sfortunato "pioniere” della fotografia poi che non viene ascoltato e in cambio riceve
una sorta di compenso di 600 Franchi dal Ministero dell'Interno che deve funzionare come una ricompensa
simbolica per ripagare il suo silenzio. Nonostante ciò, medita subito una sua personalissima vendetta: pubblica il
18 ottobre 1940 un’immagine intitolata Le Noyé che raffigura lui stesso morto annegato nella Senna. Si tratta in
realtà di un vero progetto costituito da una serie di tre scatti con leggere differenze tra loro, e nelle quali Bayard
gioca a costruire i riferimenti all'iconografia classica grazie alla presenza di oggetti, come un vaso è una statuetta,
e alla posa accademica. Sul retro dell'immagine scrive un lungo testo a metà strada fra una lettera d'addio è un
resoconto di cronaca dell'evento luttuoso. Dal momento che negli interessi del governo francese non c’era spazio
per lui e gli si è tolto appunto la vita.
Bayard, Recitando nella sua performance la parte di un annegato nella Senna, e fotografando se stesso come è
morto suicida, ci offre la prima messa in essere della potenzialità della fotografia di dichiarare il falso e certificare
l'immaginario. Quella foto, che peraltro è anche il primo corpo nudo fotografia, è un falso, che però è raccontato
da un nuovo strumento che, nato dalla tecnica è battezzato dalla scienza, per la prima volta è in grado di raccontare
la verità e descrivere la realtà. È un fantastico passo verso una delle dimensioni più affascinanti del fotografico:
l’idea della fuga nella fantasia che poi fiorita è diventata un grande territorio di sperimentazione artistica nel
Novecento.
Il recupero fotografico del corpo
La Vendetta privata di Bayard è un primo storico Esempio di come la fotografia possa essere usata per dare
consistenza al sogno e alla immaginazione, ma altresì una prova magistrale del potere di questo nuovo mezzo di
recuperare il gesso e la corporeità. Alla base del ragionamento sta il già citato sta tutto indicale della fotografia,
quel suo essere un segno-traccia legato fisicamente al referente di cui offre una prova in presenza. Grazie al suo
costituirsi come delizia, la fotografia di un corpo, ma anche di un corpo in azione, ci fornisce una registrazione
esperienziale che ci consente di recuperarne tutta la fisicità è la verità. Da Bayard momento in poi, quando gli
artisti hanno avuto bisogno di mettere nel loro lavoro la pregnanza della Dimensione performativa e della presenza
di un corpo, sono ricorsi anzitutto la fotografia, che appare dunque lo strumento perfetto per negoziare le
problematiche inerenti all’identità e per esaltare le esperienze di prassi e di azione mondana.
Dalla fine degli anni sessanta e Settanta del Novecento il corpo fotografato e poi divenuto l’oggetto privilegiato
delle operazioni artistiche, in un’ondata diffusa e ampia che è culminata in una corrente chiamata appunto Body
Art. Assolutamente privata di ricercatezza formale e tecnica, la fotografia di questi anni diviene l’emblema della
concettualità. I body artisti sono i protagonisti delle loro immagini e ostentano la loro pelle per raccontare che
sono, di cosa sono fatti e quali limiti ha la loro corporeità, ma anche che vorrebbero essere e quali non li
vorrebbero abitare. Di lì in poi il corpo e la performance fotografici non hanno mai smesso di essere delle grandi
presenze nel mondo dell’arte, arricchendosi di nuovi e diversi esponenti e accompagnando le poetiche degli artisti
nei decenni successivi.
Il giocoliere (Eugène Desidéri 1860 circa)
Nel 1854 il francese André-Adolphe-Eugène Desidéri brevetta un nuovo apparecchio fotografico in grado di
realizzare delle immagini di piccole dimensioni che vengono chiamate cartes de visite. La novità sta nel fatto che
la macchina è dotata di più obiettivi ed è dunque in grado di scattare da 4 a 8 immagini dello stesso soggetto,
identiche o consequenziali, riprese sulla stessa lastra. Da questa vengono tirate delle stampe positive che poi,
ritagliate e singolarmente incollate su cartoncini di circa 6 x 10 cm, raggiungono la dimensione degli odierni
biglietti da visita. Fungono infatti da strumento di presentazione, e sul retro trovano posto informazioni del
soggetto ma anche slogan e indicazioni pubblicitari dell'atelier che le ha prodotte.
L'effettiva economicità delle piccole immagini fa compiere un balzo in avanti alla fotografia verso il suo progressivo
e inarrestabile processo di diffusione democratica e popolare: un carte de visite costa in media un quinto di un
ritratto fotografico di atelier. Quella del formato carta da visita diventa quindi una moda che si diffonde
rapidamente. Anche da un punto di vista sociologico, la carte de visite segna un passo importante nella marcia
verso la massificazione della fotografia: non belle e curate, troppo piccola per avere una perfetta definizione
attenzione ai dettagli, però perfette per essere scambiate spedite per ricordo, acquistate per essere collezionate
e custodite in album di famiglia. >> esempio emblematico del fatto che se da un lato la fotografia ottocentesca ha
come modello di riferimento il quadro e un approccio sostanzialmente visivo-formale agli oggetti artistici e,
dall’altro però essa è già in grado da subito di innescare dei processi di concettualità quali si troverà ad assumere
dai primi decenni del 900 in poi. Si svincola da una ricezione passiva modello quadro ed entra nei meccanismi di
interazione e performativi tipici della concettualità. Nonostante questo, gli storici della fotografia si sono il più
delle volte fermati agli aspetti più superficiali e appunto formali delle carte de visite. L’interesse dell’invenzione di
Desidéri, pure essendo tutte importanti le questioni riguardanti i processi di diffusione democratica e popolare
delle cartes de visite dovute alla loro economicità e praticità d’uso, non si ferma fatto a questi aspetti.
Cosa è successo in quelle stanze parigine, al cospetto del nuovo brevetto. Il meccanico è di fronte a un disperato
fotografo che tentava inutilmente di essere preso sul serio? Era sparita la presunta serietà dell'artista, del regista
che deve dirigere il soggetto e condizionare col suo volere l'esito dell'opera. Era sparito l'autore, polverizzato dalla
consapevolezza che lì si stava concretizzando una magia Incredibile, la possibilità di vivere altre vite, anche sognate
e inverosimili, solo per quei pochi istanti che sembravano una seduta di posa. Grazie all'idea di trovarsi da soli
difronte ad un impassibile macchinario, si può giocare con l'immaginazione e i travestimenti identitari. Difficile
non vedere in questa avventura della fotografia i prodromi di un’altra vicenda che ha ispirato alcune delle idee più
interessanti dell’arte del Novecento: quella della cabina per fototessere.
L’automatismo fotografico
Nel 1889 i soci Carquerot e Guillaumot brevettano un car photographique, che porta il compimento di un passo
determinante verso la completa automatizzazione del processo fotografico in quella che è la strada verso la
commercializzazione della Moderna cabina per fototessere. Dopo questa invenzione ci saranno altre
sperimentazioni e brevetti con i quali, seppur con difetti ancora evidenti e carenze tecniche, se arriva alle soglie
dell’auto fotografia.
Un prototipo perfezionato è davvero ormai automatizzato e infine quello brevettato da un socialista proveniente
dalla Siberia, Anatol Marco Josepho > Photomanton, la prima cabina per fototessere. La fotografia automatica
diventa da una necessità sempre più richiesta dei sistemi sociali che, basati sul controllo e la sicurezza, impongono
certificati e documenti corredati appunto da fotografie formato tessera, ma si presenta anche come uno speciale
stimolo alla sperimentazione estetica.
The Two Ways of Life (Oscar Gustav Rejlander 1857)
La nascita e la conseguente pratica della tecnica del fotomontaggio è, alla metà dell'Ottocento, o no degli esempi
più fulgidi e chiari del dibattito e della temperie culturale in cui la fotografia si trova muovere i suoi primi passi.
Nel 1857 Oscar Gustave Rejlander realizza il suo primo fotomontaggio e lo intitola The Two Ways of Life (quando
il brevetto della tecnica fotografica si diffonde, egli pensa sia meglio lasciar perdere con le ambizioni artistiche
elitarie per tentare la via più diretta e facile della camera oscura).
Per capire il significato di questo primo fotomontaggio occorre sapere anzitutto che esso è stato costruito
combinando insieme 30 negativi diversi, stampati su due fogli di carta sensibile accostati. La misura dell’immagine
finale è decisamente anomala per gli standard fotografici del tempo e invece vicina a quelli della pittura alta.
Inoltre, per recitare le parti della complicata scenografia ideata nel suo progetto, Rejlander assolda una truppe
teatrale specializzata in raffinati tableaux vivants che può assicurargli professionalità e consapevolezza
nell’assunzione dei gesti e delle cose che lui ha previsto. La costruzione finale è chiaramente ispirata ad alcuni
quadri storici come la scuola di Atene di Raffaello. Il soggetto stesso, infine, l’eterna lotta tra il bene e il male e tra
vizio e la virtù, è assolutamente in linea con il gusto per la retorica e per i temi mitologici a sfondo educativo e di
ammonimento allora di gran moda nell'arte. L’insieme di tutte queste informazioni raccontà perfettamente quali
fossero le esigenze di un fotografo, ex pittore, che certamente aveva essere considerato un artista.
Negli anni che seguiranno la fotografia verrà ovviamente accolta dai pittori con diffidenza e freddezza nelle sue
pretese di poter essere considerata un oggetto artistico. Accettata come strumento ausiliario alla realizzazione
dell’opera d’arte, l’immagine fotografica non può però concorrere con il quadro del quale non detiene simile
statuto in fatto di originalità, difficoltà, virtuosismo ed eccezionalità. Tanti pittori ne fanno un uso amplissimo e
strumentale, tra di essi Eugène Delacroix, Gustave Courbet, Édouard Manet e Claude Monet, ma numerosi sono
anche quelli che la detestano e ne dichiarano pubblicamente l’ignominia e che arrivano al punto di firmare un
manifesto in cui si accusa lo stato francese di avere irrimediabilmente danneggiato l'arte avendo patrocinato il
brevetto della nuova tecnica fotografica.
Se si tiene conto di questo clima acceso, la lettura del lavoro di fotomontaggio di Rejlander diventa un manifesto
di quello che la critica avrebbe poi chiamato il pittorialismo storico ottocentesco. > il fotomontaggio appare come
la reazione più immediata all’ansia di apparire artistiche i fotografi e vivono fino dall’invenzione della nuova
tecnica. Nel fotomontaggio di Rejlander c’è la volontà di innalzare la fotografia al livello della pittura
reintroducendo il ruolo e le capacità di un autore contro la freddezza di una macchina. Così facendo, in caricandosi
personalmente di montare a una a una le singole parti dell'immagine stessa, e gli può pensare che essa possa
rivaleggiare con un'opera d'arte pittorica In fatto di organizzazione visiva, scenografie, contenuti e artificiosità,
tutte qualità determinanti nell'Ottocento per certificarne l’identità.
Dunque, i fotografi hanno finalmente a disposizione un nuovo strumento capace di catturare la realtà nella sua
immediatezza, con alcune manovre possono tenere un’immagine che è lo specchio congelato del mondo ma
cercano invece in tutti i modi di spiegare quelle caratteristiche, annullarle. Lo fanno prima lavorando a lungo su
disegni e bozzetti per studiare la composizione di un’immagine, quindi realizzandole accostando un vasto numero
di scatti magistralmente combinati in fase di stampa. L’obiettivo e mostrare che il fotomontaggio può far sì che la
fotografia ottenga la dignità dell’arte tradizionalmente intesa in quanto capace di ostentare laboriosità,
interpretazione creativa e originalità, togliendole quegli aspetti di meccanicità e automaticità che le derivano dal
suo statuto indicale.
Merita ricordare che The Two Ways of Life ha avuto accoglienza volte critica e a volte entusiastiche. Ciò che si
rimprovera quell'immagine sono la volgarità delle pose delle modelle e la superficialità mostrata nel trattare temi
importanti e delicati. L'oscenità che il pubblico percepisce è decisiva nel dibattito tra pittura e fotografia: la pittura
da Salon, a quei tempi, e affollata di nudi ma di fronte al fotomontaggio di Rejlander nonostante la costruzione
artificiosa non c’è nulla da fare punto che guarda quell’immagine capisce di assistere a una realtà manipolata e
Fantastica, però credibile perché fotografica. Dunque, quei corpi offendono perché sono corpi veri.
Stesso discorso per il secondo fotomontaggio della storia: Il momento del trapasso della 1858 dell’inglese Henry
Peach Robinson. Anche in questo caso una normalissima scena in cui doveva essere rappresentato un dolore
privato viene percepita come disturbante è scioccante. Eppure, non c’è sangue, nel dramma disperato nei
particolari violenti e cruenti come la pittura poteva raccontare.
Il modello quadro
Il grande poeta francese Charles Baudelaire viene citato ogni volta che si riflette sui rapporti tra fotografia e pittura
nell'Ottocento, te li sostiene che la fotografia ha il diritto di essere usata per sottrarre i templi e monumenti alla
decadenza causata dal passaggio del tempo, per salvare le memorie collettive contenute nei libri antichi, ka che
mai e poi mai potrà credere di arrivare alla dimensione del sogno dell'immaginario.
I difetti che impediscono alla fotografia all'accesso alla giurisdizione artistica sono sostanzialmente la sua richiesta
minima di capacità manuali e abilità eccezionali da parte dell'autore, il suo essere un calco di realtà troppo
aderente a ciò che già abbiamo quotidianamente sotto gli occhi nella sua volgarità e banalità, il suo essere sporcata
dalla compromissione con i meccanismi industriali. Quando la fotografia muove i primi passi e chiede le sue
prime legittimazioni, l’arte essenzialmente si uniforma solo gusto e l’estetica pittorica, i fotografi non possono fare
altro che dibattersi alla ricerca di modi e sperimentazioni che facciano della fotografia un’imitazione del quadro.
Ecco perché nell’Ottocento nasce il pittorialismo fotografico, in cui la fotografia finge di essere un quadro e così
facendo nega la sua stessa identità.
Il processo di emancipazione della fotografia rispetto al quadro comincerà quando cambierà la stessa idea di arte,
che non sarà più solo manualità e interpretazione. Questo succederà solo con l’introduzione del ready-made nel
1913 di Duchamp. >> l'arte del Novecento Erika di recuperi dal passato, di citazioni e ritorni al principio dei valori
formali. Così la fotografia è stata grande protagonista in momenti a Forte impatto concettuale nell'arte ma anche
accompagnato percorsi e correnti in cui anche la dimensione pittorica è il principio dell'autorità (modello-quadro)
sono tornati a farsi sentire.
Spettacolo di lanterna magica (Smeeton Tilly 1881)
Parallelamente alla scienza anche l’ho colto, la magia e l’inganno visivo erano parte dell’universo dei dispositivi
ottici che anticipano le invenzioni della fotografia prima ed è cinema poi punto nel clima culturale della seconda
metà dell'800 si sviluppa l'attrazione irresistibile per i fenomeni irrazionali della visione. Discendendo dalla camera
oscura e dalla lanterna magica, tutte e cosiddetti dispositivi del pre-cinema si collocano in suggestivo bilico tra
serietà scientifica e tentazione del magico illusorio. In essi la prospettiva si delinea come uno strumento per
forgiare allucinazioni, secondo l'idea di un potenziamento immaginario delle impressioni di realtà che dalla
prospettiva rispettata nella camera oscura passa le sue discendenze tecnologiche, fotografie cinema anzitutto.
Rispetto agli altri strumenti ottici e, nel caso della fotografia e del cinema la dimensione finalmente fissata è
stabilizzata del segno indicale da loro prodotto consente un incremento notevole di suggestione nel gioco ambiguo
e nel fascino oscuro tra scienza e magia. Il fatto che si potesse garantire con una fotografia che gli spiriti esistono
fa compiere un balzo in avanti in paragonabile alle pretese dell’universo nelle scienze occulte. La fantasmagoria
di Étienne-Gaspard Robertson va ricordata come uno tra i più originali esperimenti di quello che viene definito il
"meraviglioso scientifico": inaugurata nel 1798 essa consisteva in uno spettacolo di immagini in movimento che si
ingrandivano e rimpicciolivano provocando stupore e turbamento nel pubblico.
L'idea che si potessero raddoppiare il mondo, gli oggetti, i volti e le identità, unità all'ambizione della creazione di
uno spazio virtuale, rese questi spettacoli un'attrazione per le nuove masse urbane, facendo leva proprio
sull’essere macchine ottiche studiate dalla scienza e dunque ammantate dal velo della serietà e della verità. La
produzione degli spettacoli ottici è anche portatrice di un nuovo ruolo dello spettatore, sempre più attratto dalla
vicinanza con il mondo e i suoi fenomeni, ma al contempo rapito dalla dimensione dell'extra-realtà.
La fotografia spiritica
L’idea che la fotografia potesse raddoppiare la realtà, con quella certificazione di verità scientifica che la sua natura
indicale le concedeva, andava a incrementare e potenziare qualitativamente l’eredità di suggestione immagnifica
è fantastica che le derivava dalle tradizioni sei-settecentesche dei dispositivi ottici della visione. Mentre dunque la
fotografia prosegue la sua storia ottocentesca al braccio di scienziati e studiosi, parimenti da libero sfogo a quanti
desiderano percorrere le strade scure della magia e dell’occulto. Si sviluppa anche la fotografia dei fantasmi o
spiritica molto in voga tra fine 800 e primi 900. Il dottore Hippolyte Baraduc studia l’aura che alcuni oggetti
sembrano emanare se la loro immagine viene catturata dentro una stanza completamente buia.
La cattedrale di St. Paul (1870 circa)
Nel 1838 lo scienziato inglese Charles Wheatstone presenta alla Royal Society di Londra un apparecchio chiamato
stereoscopio che, fondandosi sul principio della visione nella normale fisiologia umana, permette di guardare
dentro a un visore disegni di oggetti e paesaggi con la percezione della profondità e della tridimensionalità. Nel
1848, David Brewster perfeziona quel brevetto dotando l’apparecchio di lenti e rendendolo più agile e
maneggevole. Il dispositivo diventa una specie di binocolo in cui i disegni vengono sostituiti da due immagini
fotografiche che devono essere prese a una piccola distanza l’una dall’altra, in modo da rispettare la medesima
differenza che c’è tra i singoli punti di vista di due occhi. Così, una volta inserite nello stereoscopio, attivano lo
stesso meccanismo della nostra visione umana.
Tra il 1859 e il 1863 Oliver Wendell Holmes scrive 3 articoli sulla stereoscopia. Leggendo oggi Italia articoli che si
meraviglia per la quantità di informazioni, intuizioni e suggestive interpretazione che l’autore riesce a dare della
fotografia e della sua applicazione nella stereoscopia. La capacità del racconto è quella di far entrare il lettore nella
dimensione della virtualità di cui certamente la fotografia è esperienza pionieristica. Ci si può immaginare la
meraviglia di chi, Con gli occhi appoggiati al visore, sentiva fisicamente e mentalmente di essere spostato
nell’altrove del viaggio virtuale che di volta in volta suggerivano le stereoscopie. Grazie a queste visioni si gode di
un “effetto intensificato In modo tale da produrre una realtà apparente che inganna i sensi con una parvenza di
verità” sfruttando e diversi punti di vista in cui le vedute vengono riprese. Le sue descrizioni sono così e trascinanti,
puntigliose e realistiche da provare davvero l’impressione di vedere scorrere un film in 3D, Ma anche di vivere
un’esaltazione onirica delle proprie facoltà.
Possiamo dire che Oliver Wendell Holmes è capace anche di suggerire l’idea che nell’epoca delle immagini
tecnologiche l’originale Non servirà più punto, infine, il medico americano solleva il velo inquietante sui rapporti
tra fotografia e morte. Scrive quindi una serie di articoli da rileggere per la lungimiranza e anche per la sua
visionarietà.
La realtà artificiale
L’uso dello stereoscopio permette di ragionare sul rapporto tra fotografia e mezzi tecnologici di ultima
generazione, in relazione alla possibilità che questi offrono di dar vita a esperienze di realtà artificiale.
Conseguenze psicologiche e culturali che l’introduzione dei cosiddetti nuovi media ha portato nella frizione di una
seconda realtà, nella quale è possibile vivere esperienze e situazioni con una forza di coinvolgimento sensoriale
paragonabile alla realtà di primo grado.
La natura indicale del segno fotografico, il suo statuto all’impronta gli traccia della realtà, ha storicamente prodotto
una riflessione che ha guardato a questo mezzo come una straordinaria occasione per recuperare e mantenere la
realtà fisica, i corpi, i gesti e i comportamenti. Queste intuizioni possono trovare un sorprendente rilancio e nuove
occasioni interpretative all’interno del dibattito sulla realtà artificiale confermando, a posteriori, l’interesse e
l’originalità di Tali teorie. Alla base della rilettura stai fatto che i caratteri di duplicazione del reale chiedi
automatismo produttivo generati dalla natura indicale della fotografia e del cinema, perdono quella patina di
ingenuità che era stata attribuita loro dal fronte linguistico-semiotico, entrando a pieno diritto nel gioco della
simulazione della duplicazione aperto dai nuovi media.
Album fotografico dei dignitari di Romsey (XIX secolo)
L’impulso più forte all’abitudine a costruire e custodire le fotografie in un album è stato offerto dalla piccola grande
rivoluzione del brevetto della carte de visite di Desidéri. Con il ritratto fotografico che i primi uomini dell'800
possono mettere in tasca, nel portafoglio, spedire o inserire in un album, se vedi fa qualcosa che ha a che fare con
i meccanismi dei culti religiosi: è l’idea di essere custodi di una reliquia, l’emanazione o meglio la traccia di un
referente reale che la semiotica di Peirce ha chiamato indice.
La foto da album di famiglia, quella che funziona anzitutto per ciò che stimola nella mente, e solo in seconda o
ultima battuta per le sue caratteristiche formali, si identifica. Infatti come l’oggetto concettuale per eccellenza. È
naturale che parlando di album di fotografie si privilegino discorsi sulla memoria, sul tempo e sulle Recupera della
realtà piuttosto che dimensioni che hanno a che fare con lo stile e gli elementi tecnici. André Bazin sostiene che
gli uomini hanno usato i mezzi di ri-presentazione della realtà, tra cui primariamente la fotografia, per risolvere
un bisogno di cristallizzazione del tempo e del conseguente annullamento mortifero dei corpi.
Ecco allora che il rapporto tra fotografia e memoria trova nell'album di famiglia la sua traduzione più esemplare è
un vero inno alla concettualità fotografica. Roland Barthez ha dedicato uno dei suoi scritti più famosi, la Camera
chiara, alla ricerca dell'immagine che per lui rappresentava una necessità psicologica: quella della madre bambina.
In molti passaggi del saggio sottolinea il rapporto genetico della fotografia con il tempo, la memoria e con la morte,
arrivando a definire l'essenza della fotografia nel tempo verbale dell'azione conclusa: è stato.
La fotografia si definisce perciò Come l'universo di ciò che è terminato, morto. Naturale per ciò che essa diventi
custode delle memorie personali e di famiglia. La foto di album di famiglia è perciò l'esempio migliore di una
pratica sociale collettiva che, anche quando insegue modelli pseudo-artistici, come la messa in posa, sorrisi e pose
naturali, non può resistere prioritariamente all’insopprimibile vocazione del ritratto fotografico a essere un
attestato di presenza e una traccia di memoria. In genere, le foto che sono state affidate agli album sono già state
selezionate in partenza, giudicate interessanti. Si fotografano le feste, le celebrazioni, i viaggi e le ricorrenze.
Rimane quindi non modificato un pudore istintivo verso certi tabù come le malattie, i decadimenti fisici e la morte.
Oggi la diffusione del digitale ha esteso in modo prima impensabile l’impulso a fotografare gli istanti della nostra
vita e delle nostre relazioni in tempo reale, così come ha messo in crisi il contenitore-album grazie all’immediata
visualizzazione sugli schermi punto il mondo digitale non ha però modificato il significato profondo e l’uso della
fotografia di famiglia.
Collezionare la memoria
Tra gli oggetti che più facilmente si collezionano durante il corso di una vita ci sono sicuramente le fotografie.
Collezionarle è già di per sé qualcosa di speciale nel senso che la fotografia non è un oggetto soltanto: a differenza
della vocazione simbolica che è un oggetto da collezione può esercitare nei confronti di un’esperienza, la fotografia
è la riproposizione di quella esperienza.
Il Colosso di Abu Simbel o il Colosso di Ramses
L’impulso a mettersi in viaggio per fotografare in luoghi lontani ed esotici, fino a quel momento descritti solo dalla
pena degli scrittori e dal pennello dei pittori, risale ai primissimi tempi della diffusione del brevetto fotografico.
Grazie all'iniziativa dell'editore Noël-Marie Lerebours parte la prima spedizione organizzata di fotografie con
l’incarico di riportare in patria una traccia visiva dei paesaggi di ogni nazione e continente. Tra il 1841 e il 1844
escono due volumi di incisioni ricavate dai 1200 dagherrotipi giunti a Parigi dai confini del mondo. Dunque, è la
prima fotografia storica di paesaggio, escludendo le auratiche vedute di Niépce e Daguerre, è la fotografia di
viaggio.
Guardare le fotografie di posti lontano diventa come viaggiare mentalmente e, come si è detto anche per le visioni
stereoscopiche, un modo per esaltare La forza del fotografico di agire come una seconda realtà. Viaggiare con la
fotografia significa, dal 1839, vivere un’esperienza reale è virtuale assieme, che lega gli uomini dell’800 con le
pratiche della simulazione che le nuove tecnologie informatiche hanno reso sempre più perfezionate ma che lì
troveranno le loro radici ontologiche.
Si possono individuare due tendenze principali nelle modalità che i primi fotografi di paesaggio hanno utilizzato:
la prima si sforza di evitare Cliché ereditari dalla letteratura e dalla pittura, promuovendo un atteggiamento che
esalta l'idea della archiviazione del reale, obiettiva e fedele perché fotografica, e più esplicita nella direzione di
una riproposizione della dimensione concettuale del viaggio? L’altra, invece, è più legata alla tradizione del genere
pittorico del paesaggio nelle componenti formali dell’immagine. In questi qua casi l’inquadratura scelta dai
fotografi ripropone gli schemi visivi della pittura, le simmetrie e gli equilibri compositivi. Il dualismo che i primi
fotografi hanno già bene messo in luce tra una fotografia di viaggio è una fotografia di paesaggio è assai utile per
esaltare ancora una volta la duplice identità del fotografico, oscillante dialettica mente tra presentazione
automatica del prelievo di realtà ed eredità formali della tradizione pittorica.
Appartiene certamente alla fotografia di viaggio Il lavoro di Maxim Du Camp, scrittore e fotografo che compie nel
1849 un viaggio in Medio Oriente in compagnia di Gustave Flaubert, dal loro viaggio devono riportare in patria
immagini dei monumenti delle civiltà del passato sui quali studiosi e appassionati non aspettano altro che posare
lo sguardo punto da questa mitica spedizione e due ricavano diversi prodotti editoriali. Il modo con cui du Camp
fotografa la vestigia del passato è molto adatto a emblematizzare quel tipo di immagine che cerca di emanciparsi
dagli ingombranti i riferimenti artistici della tradizione visiva di quel momento. I soggetti sono inquadrati in modo
austero e rigoroso, quasi da manuale di architettura e seguendo il più possibile visioni prospettiche geometriche.
Applica ai luoghi, pur così suggestivi e facili a essere guardati con occhio sentimentale, l’atteggiamento freddo e
impassibile dell’apparecchio fotografico. Quello che nevicava è un inventario di immagine che si impegna il più
possibile a essere filologico.
Francis Frith, esperto di tecnica fotografica, percorrendo l’Egitto fotografi luoghi che incontra con un gusto
pittorico e un’attenzione alla composizione “modello quadro” che risultano l’esempio più chiaro della modalità da
fotografia di paesaggio prima descritta.
La storia del successo di Frith dimostra come i suoi contemporanei avvertissero il bisogno di vedere confermati gli
stereotipi di un mito collettivo: le culture antiche, un mondo misterioso e affascinante, La magia del diverso e
l’inquietudine delle terre straniere. Ancora una volta la fotografia si dimostra adatta a incamminarsi su percorsi
diversi ma ugualmente importanti: da un lato e l’esercizio automatico di un mezzo tecnologico che, per il suo solo
applicarsi al mondo, nel plasma l’aspetto rendendolo un immenso schedario visiva del reale. Dall’altro è la migliore
prosecuzione di un ideale letterario e pittorico, che ha nella fantasia degli artisti e nella trasfigurazione poetica del
mondo il corrispettivo di un paesaggio dell'anima.
Il viaggio fotografico
Il fotografico anelli idea del fare esperienza uno dei suoi pilastri ontologici, e la parola viaggio possiede nella sua
ricostruzione etimologica la stessa idea di esperienza e relazione con l’ambiente circostante, si potrebbe quindi
concludere che lo stesso atto fotografico è una sorta di viaggio nella realtà del mondo. L’attrazione per una pratica
fotografica intesa come dinamica necessaria a un viaggiare per entrare nelle cose per percepirle, conoscerli e
viverli, ha suscitato un particolare interesse con l'esplosione delle attività performative degli anni Sessanta e
Settanta del
Novecento. L'atto del fotografare diventa un requisito fondamentale per ogni possibile riscoperta sensoriale e
mentale.
Lo sguardo fotografico diviene un meccanismo di epifanizzazione delle cose, delle esperienze e degli spazi;
un'avventura di viaggio capace di attuare di nuovo un’estetizzazione del banale quotidiano.
La contessa di Castiglione, vestita da suora carmelitana nel romitorio di Passy (Pierre-Louis Pierson, 1863)
La Virginia Oldoini, conosciuta come la Contessa di Castiglione è una donna che ha incarnato fino alla morte il
culto della propria immagine e coltivato con devozione la religione del narcisismo. Nasce a Firenze nel 1837 da
una famiglia nobile e colta e, a soli 17 anni, è già sposata con Francesco Verasis di Castiglione, addetto alla casa
Torinese di re Vittorio Emanuele II. Da sempre blandita e corteggiata per il suo fascino ammaliatore, il cugino
Camillo Benso Conte di Cavour le chiede di recarsi a Parigi per una missione "diplomatica" dove le chiede In
sostanza di mettere in campo tutte le sue capacità per entrare alla corte e nelle grazie di Napoleone III, con lo
scopo finale di incoraggiare l'intervento delle truppe francesi in senso anti austriaco a fianco della casa sabauda.
L’obiettivo viene centrato e la contessa diventa l’amante favorita di Napoleone III. >> Quasi contemporaneamente
al suo arrivo a Parigi, la contessa inizia a frequentare uno degli studi di ritrattistica fotografica più rinomati della
città, l'atelier di Héribert Mayer e Pierre-Louis Pierson.
La contessa, finché anche l’imperatore non si stancherà di lei scaricando la virgola domina lo spettacolo mondano
di Parigi, ne è al centro e ne controlla pienamente meccanismi. Sa che il culto di sé va continuamente alimentato,
coltivato il narcisismo, esercitato l’esibizionismo. Ed ecco che la fotografia entra in scena come lo strumento
privilegiato per questa avventura a metà strada fra arte e vita. >> La frequentazione dell’atelier di Pierson è legata
alle performance a cui dava vita la contessa alle feste: la sera stessa di una sua uscita in società travestita da uno
dei personaggi fantasiosi che ama interpretare, eccolo presentarsi di fronte all'obiettivo fotografico di Pearson per
recitare, una seconda volta, quelli identità fittizia ma resa credibile, perché fotografica. >> Bisogna ammettere che,
innamorata allo sfinimento della propria immagine, questa donna ha usato la fotografia attribuendole quel ruolo
che pochi avevano fino a quel momento intuito in modi così potenti. >> La contessa, infatti, si costruisce una vita
parallela nella certificazione eterna della fotografia, dove ogni trasformazione e ogni diversa identità, insieme al
suo carisma e alla sua bellezza, rimarranno inchiodate per sempre trasmesse contro il tempo e contro la morte.
Tuttavia, anche quando depressa e isolata si chiuderà al mondo, vivendo appartata e nascondendo il suo volto
invecchiato, sarà pronta a rinunciare a tutto ma non ho la fotografia. Fino quasi alla morte accetterà di sottoporsi
allo shock dello scatto fotografico, come sfida estrema, come testimonianza che solo la fotografia le permette
ancora di sognare.
Aveva una forte consapevolezza del valore della fotografia, tanto che ne fece un uso commerciale Punto i suoi
ritratti fotografici funzionano davvero come reliquie: le dona agli amanti e le rivuole indietro quando l’amore
finisce.
Inoltre, partecipa attivamente alla realizzazione delle fotografie punto su molti dei negativi che sono stati
conservati c’è traccia delle tante indicazioni che lei fornisce a Pierson su come tagliare, evidenziare o colorare dei
particolari delle immagini, poi anche note con frasi suggestive in cui costruisce una vera e propria sceneggiatura.
Infine, si occupa anche della progettazione delle cornici di merletti e cartapesta. → dunque la Contessa è anche la
responsabile di tutte le fasi successive all’ideazione: è una vera artista totale, una performer prima del tempo che
non produce fisicamente l’opera ma che ne Immagina edilizia completamente la realizzazione.
L’ossessione dello specchio
La storia della Contessa di Castiglione è un esempio tra i più interessanti di esibizionismo narcisistico ottenuto con
il mezzo fotografico. Tra gli artisti che hanno fatto della propria immagine l’oggetto più ricorrente è importante
menzionare Francesca Woodman, che ha lavorato quasi esclusivamente con l'autoscatto realizzando immagini
nelle quali il suo corpo viene messo in scena in modo che il voto venga spesso trasfigurato, nascosto. Le sue foto
sono delle immagini nelle quali una delle principali evocazioni della fotografia, quella del riconoscimento, viene
disattesa e volutamente sconfessata.
La sfida che Woodman lancia tramite i suoi autoritratti: la continua necessità di autoritrarsi e di specchiarsi
nell’obiettivo fotografico ha come scopo quello di sfuggire a questa vocazione così naturale e primaria per la
fotografia per attingere all'altro e complementare su universo parallelo che la fotografia condivide con altri
dispositivi prodotti dalla scienza, e cioè l'universo della magia e del mistero. Dunque, per Woodman da un lato c'è
sicuramente la fuga da un'identità stereotipata o determinata per sempre, in favore di una disseminazione del io
che moltiplica e annulla i confini troppo claustrofobici di ciò che siamo e saremo. Ma dall'altro nel suo lavoro c'è
anche il costante desiderio di diventare cosa unica con il mondo e l'ambiente circostante.
Ritratto di Charles Baudelaire (Nadar, 1855)
Nel 1841 Richard Beard apre a Londra il primo atelier di ritrattistica in Europa e nel 1853 la città di New York conta
già 86 studi specializzati in ritratti fotografici. In questi atelier sono presenti dal subito gli stessi elementi classici
da arredo usati anche dai pittori come gli specchi, le sedie, i divani, ma ciò che è più interessante è che i modi e i
riferimenti usati dai fotografi durante le sezioni di posa sono gli stessi di quelli della tradizione pittorica.
Il maestro indiscusso della ritrattistica ottocentesca è Gaspard-Félix Tournachon in arte Nadar, che capisce che il
nuovo strumento fotografico a davanti a te enormi distese di applicazioni da sperimentare, e soprattutto può
assicurare il successo di attività imprenditoriali ad essa legate punto nel 1853 decide così di aprire uno studio
fotografico che diventa una tappa obbligatoria per tutta l'élite desiderosa di farsi fare dal grande Nadar un ritratto
fotografico di eccellente qualità. Al fotografo vengono riconosciute un'indiscussa abilità e una raffinatezza
eccezionale nel saper cogliere la psicologia dei suoi soggetti. Recarsi presso il suo studio di Boulevard des
Capucines è un'esperienza complessa, si viene infatti accolti da un notevole numero di collaboratori, ognuno dei
quali ha ricevuto precise disposizioni in relazione alle fasi del lavoro fotografico di cui è responsabile: la messa in
posa, lo studio delle luci dai lucernari, la stampa e il ritocco. Il maestro entra in azione al momento dello stato. Il
suo stile è molto codificato, al punto da aver dato vita a una vera e propria maniera ritrattistica: nei suoi lavori fa
mettere in posa i clienti in modo che il volto sia per lo più di tre quarti è illuminato lateralmente, davanti a sfondi
neutri e minimalisti, con lo sguardo rivolto in macchina e con un'inquadratura in piano americano.
La sua è una fotografia pittorialista è tutta concentrata sugli effetti formali di luce, composizione, taglio,
chiaroscuri. Questo spiega anche il grande apprezzamento che lo circonda, dal momento che la sua ritrattistica
continua la tradizione pittorica.
Nadar è tra coloro che, in fotografia, hanno meglio di altre dato rilevanza al ruolo dell’autore, alla preminenza
dell’artista durante l’elaborazione dell’opera. Si distanzia dall’automatismo dell'apparecchio carte de visite di
Desidéri, Nadar infatti veniva considerato il migliore e cioè colui che poteva piegare la fotografia a fare qualcosa
di molto simile alla pittura. Merita anche ricordare che gli è stato il primo a usare la luce artificiale per fotografare
i cumuli di ossa e teschi nelle fogne parigine, ma anche che è stato un pioniere nell'uso del pallone aerostatico per
fotografare dall'alto la città di Parigi. Realizza anche la prima foto intervista della storia allo scienziato Eugène
Chevreul.
La costruzione dell’icona mediatica
Ossessivamente attento al modo di vestire, camminare, parlare e mangiare, interessato al make-up e al profumo
Baudelaire è uno degli ultimi veri dandy, che individua nella moda uno dei linguaggi specifici del moderno soggetto
urbano. Nonostante la freddezza che il dandy deve mostrare verso il mondo, e soprattutto nonostante la sua critica
per tante verso la fotografia e fotografi, si sottopone, in varie tappe della sua esistenza, al meccanismo cinico
dell'obiettivo fotografico.
Solo con i nuovi strumenti di registrazione meccanica, fotografia e poi cinema, nasce il concetto di mito moderno
e cioè di un’icona massificata, replicata all’infinito, vendibile, che conserva del suo referente una traccia fisica, una
reliquia che i fan possono possedere imitare.
La morte di re Artú (Julia Margaret Cameron,1875)
Per Julia Margaret Cameron l'incontro con la fotografia avviene in modo abbastanza casuale quando un giorno
una delle figlie decide di regalarle un grande apparecchio fotografico in legno assieme a tutto il necessario per
allestire una camera oscura. >> A partire dal ritratto di una bambina di nome Annie Philpot del 1864, la Cameron
si dedica con ostinata intensità a fotografare giovani donne ritratte come Mosè o ninfe e uomini illustri di cuore
amica. I suoi ritratti diventano subito motivo di discussione e anche di ironia: la fotografa usa Infatti degli effetti di
fuori fuoco molto spinti che qualcuno si ottiene derivino dalla sua imperizia tecnica o anche da presunti difetti
della vista. In realtà, come lei stessa riporta è una scelta di poetica molto consapevole. La Cameron è solita usare
tempi di posa lunghissimi, particolare che denuncia quella particolare dimensione comportamentale e
performativa instaurata con i propri soggetti che cercherà anche Diane Arbus. Oltre a ciò, la Cameron si dimostra
anche in grado di intuire le potenzialità psicofisiche dell'apparecchio fotografico, come la stessa Arbus farà.
Oltre alla ritrattistica: serie fotografiche che prende spunto dai tableaux vivants. Grande appassionata di teatro
letteratura, ama organizzare piccoli pezzi teatrali ispirati alla Bibbia, alla letteratura cavalleresca, all'arte classica e
medievale, tanto da indebitarsi per affittare costumi e accessori che nel 1874 le permettono di cominciare a
lavorare alla trasposizione fotografica degli Idilli del re di Tennyson. Molti grandi storici della fotografia come
Gernsheim hanno giudicato questi lavori i peggiori della sua produzione, perché gravati di sentimentalismo e di
ingenuità. In particolare, per la morte di Re Artù si parla di immagine ridicola e Patetica a causa del
sovraffollamento dei personaggi negli spazi angusti della casa della Cameron.
Il lato più affascinante del rapporto della Cameron con la fotografia è il fatto che lei la usi come uno strumento di
innesco di un’attività performativa che, per la durata della posa, è capace di far scattare l’evasione dalla realtà e la
sperimentazione dell’immaginario.
È naturale che se il punto di vista sulla Cameron privilegia la preminenza di lavori formali e compositivi delle singole
immagini, allora esse saranno destinate al fallimento. Ma se si sposta l'analisi dalle immagini alla performance
fotografica, a cui minuti oppure ore di preparazione, allestimento, messa in posa, allora le sue evasioni appaiono
uno splendido esempio di pratica fotografica concettuale.
L’immaginario fotografico
Nata anzitutto come prodotto della tecnica e dell’ingegno, la fotografia dell'800 è primariamente il brevetto con il
quale l'uomo moderno con questa la conoscenza del mondo e cioè la capacità di poter leggere, documentari,
studiare e archiviare la realtà. A fianco di questa originaria funzione dello strumento fotografico, ben presto si
sviluppa la competizione con il quadro all'interno della giurisdizione dell'arte: si diffonde un atteggiamento che
predispone all’imitazione e alla rincorsa dei modi, degli stili, delle idee e delle identità della pittura dell'800.

Ma c'è un territorio, quello della fotografia che accede alle dimensioni del sogno e dell'immaginario che
inizialmente ed è legato a casi estremi, esempi: Hippolyte Bayard e la sua folle vendetta, l’esasperato sforzo
operativo dei fotomontaggi e l’evasione solitaria di Julia Margaret Cameron. Tutte queste esperienze hanno in
comune la vera è piegato la fotografia a estensioni che sembravano non appartenere le per nascita: li reale, il
fantastico, l'inesistente. Queste, nel corso dell’800 non vengono attribuite come prerogative identitarie alla
fotografia è ancora nel 900 sono considerate come scelte ingenue e fallimentari se inseguite tramite il mezzo
fotografico. Eppure sono proprio queste prime è originario occasioni a scoprire un filone che sarà tra i più utilizzati
dagli artisti nella contemporaneità.
Settore in cui proprio il sogno certificato della fotografia è il motore primario di ogni occasione: la moda. La moda
è per sua definizione l'universo in cui si rispecchiano ambizioni, proiezioni e aspettative vissute come possibile
perché imitabili. Solo nel momento in cui la fotografia ha potuto registrare la realtà con un massimo possibile di
fedeltà e dunque d’immedesimazione, allora la moda ha assunto la sua fisionomia attuale, letteralmente nascendo
dentro la fotografia.
Due donne nude (1850)
Al pari di quella tra fotografia di viaggio e fotografia di paesaggio, anche nella biforcazione che si può individuare
tra fotografia di nudo e fotografia pornografica si trova il dualismo di fondo delle identità della fotografia: quello
tra un’immagine realizzata su presupposti formali e compositivi adeguati all’idea di quadro, e quello in cui emerge
invece la sua forza di prelievo e traccia di realtà. Nel primo caso si può parlare di un’identità prevalentemente, ma
con alcune ragioni e pure con affascinanti eccezioni, ottocentesca; nel secondo caso di un'identità che invece sarà
dominante nelle pratiche artistiche dal 900 in poi.
Il nudo, come il paesaggio, è una categoria classica della tradizione pittorica. Così i fotografi ottocenteschi si
dedicano a questo genere applicando fedelmente le regole degli stilemi dei quadri di nudo che regolarmente
affollano le pareti dei saloni parigini. Una tipologia fotografica come quella del dagherrotipo si mostra assai
predisposta a ospitare nudi fotografici. Su quelle piccole e Preziosi superfici metalliche vengono Infatti ritratte
modelle Di Atelier che si offrono all’occhio del fotografo, e poi del fruitore-voyeur, ricreando un’atmosfera tipica
dell’harem o del boudoir. È evidente che nella testa e negli occhi dei fotografi c'è una lunga tradizione di nudo
accademico, di ispirazione classica. Da sempre il nudo nell'arte, collocato in un'ambientazione lontano dalla
quotidianità, immette l'elemento erotico rendendolo meno provocante perché appunto distante nello spazio e
nel tempo. Finché le figure femminili della fotografia ottocentesca vengono trasfigurate sotto le spoglie di ninfe,
divinità o concubine, e se si adeguano ai codici vigenti di moralità e di decoro e, anzi, proiettando appunto la
sensualità di un mondo altro, ottenendo così il lasciapassare sociale.
In particolare, nella seconda metà dell’800, alcuni laboratori e Atelier di fotografia si specializzano nel genere del
nudo, e ci sono fotografi di nudo che danno vita a solide e durature collaborazioni con famosi pittori
contemporanei in cui forniscono immagini fotografiche a partire dalle quali poter realizzare le loro tele. Le
fotografie di nudo hanno infatti l'obbligo, per poter circolare ed essere esposte, di possedere l'etichetta d'après
nature, perché in questo modo si assicura il fatto che sono studi anatomici d'accademia il cui fine è funzionale alla
realizzazione dei quadri.
Se da un lato la fotografia di nudo insegue la pittura, e come tale viene considerata artistica e tollerata, dall'altro
lato scatta subito e inevitabilmente un meccanismo inarrestabile in cui il confine tra nudo e pornografia si fa
sempre più labile. > diventa finalmente chiaro che si tratta di un corpo nudo fotografato a scopi voyeristici,
scaturendo una fitta produzione di immagini fotografiche dichiaratamente pornografica. >> Chiaramente si
ripropone il bivio di formale e concettuale. La diffusione di fotografie pornografiche è immediata, ma non è poi
così semplice farle circolare perché le giovani modelle che si prestano a posare non devono essere riconosciute.
Così, dopo il retrobottega del laboratorio fotografico, il set ideale diventa naturalmente il bordello.
Ernest Joseph Bellocq è uno dei pochi casi autoriali di fotografia di un bordello che risale ai primi del Novecento,
realizza un discreto numero di lastre riguardanti fotografie di nudo che evidentemente hanno come protagoniste
delle prostitute messe in posa nelle loro stanze.
Il “bordello senza muri"
Già nell'Ottocento la fotografia diviene uno strumento molto utilizzato nei bordelli di mezzo mondo che divengono
cosi dei "bordelli senza muri" (definizione di McLuhan). Le prostitute Ben presto si inpratichiscono esse stesse di
tecnica fotografica diventano fotografe pornografe in proprio. È il caso della torinese Marta detta La Spagnola, che
dopo essere stata a lungo il soggetto prediletto di fotografi che creavano book di immagini da vendere sottobanco
a clienti voglio, si appassiona a tal punto alla fotografia da diventare fotografa
L'interno della Galleria Vittorio Emanuele a Milano (Fratelli Alinari, 1915-20 circa)
Nella 1852 Leopoldo, Giuseppe e Romualdo Alinari aprono nella città di Firenze o un laboratorio fotografico che
dà avvio ad un eccezionale storia l’imprenditoria culturale italiana. La crescente richiesta di immagini di
monumenti da parte dei turisti stranieri, di guide delle città e soprattutto di riproduzioni di opere d'arte, fa intuire
un grande mercato in espansione punto così la Ditta Fratelli Alinari si specializza nella catalogazione delle bellezze
architettoniche e artistiche del territorio italiano. Gli Alinari sono sempre alla ricerca di nuovi metodi e di
sperimentazioni innovative ma sono anche abili nel costruire una rete di rapporti e di relazioni con le istituzioni
museali, e centri culturali e gli altri pionieri della fotografia. La ditta si propone Inoltre come modello per una
nuova organizzazione del lavoro: in sede lavorano una trentina di dipendenti mentre non si contano i
corrispondenti che sono in contatto con loro da ogni parte del mondo.
A Firenze io dibattito sulla cultura fotografica e vivo è alimentato anche dagli Alinari. In particolare è Vittorio, figlio
di Leopoldo, che cura gli aspetti più intellettuali della gestione. È il vero faro dell'imprenditoria culturale Nazionale:
organizza concorsi, collabora con i critici d'arte, intensifica le campagne fotografiche e progetta edizioni legate ai
maggiori capolavori della lettura nazionale.
Lo stile della fotografia degli Alinari persegue un modello di grande precisione e di attenzione massima ai dettagli,
che il più possibile esclude dall'inquadratura ogni elemento accessorio che possa distrarre l'attenzione dall'oggetto
centrale messo a fuoco e comunque secondo rigorose prospettive geometriche. Prediligono la luce diffusa, la
distanza fissa che aiutano a conferire al soggetto un aspetto monumentalizzato. Sono eredi di una cultura liberale
borghese, interpretano alla perfezione lo spirito di fiducia nella scienza e nella tecnica tipico del clima positivista
ottocentesco, convinti e come sono di poter immagazzinare e comunicare in modo obiettivo ciò che vedono ha
milioni di occhi sconosciuti in tutto il mondo. Con il loro modo di fotografare i monumenti e le architetture, gli
Alinari e rafforzano l’idea della realizzazione di un immenso archivio composto di un’infinità di schede che
omaggiano il fotografico come strumento del l’inventariazione del reale, e che sono in grado di far emergere lo
stereotipo.
L’attività di questi fratelli contribuisce perciò a dare unità visiva al paese e ad archiviare la storia e l’arte dell’Italia
in particolare, ma è anche il veicolo virtuale di un viaggio immaginario che tanti nel corso degli anni hanno potuto
fare tramite le loro edizioni e le loro guide. Il loro stile fotografico diventa poi così distintivo e icastico da
trasformarsi in una vera maniera fotografica, riconoscibile è imitabile da schiere di professionisti.
Schedari topografici
Nel 1975 l’International Museum of Photography di Rochester inaugura una storia che mostra curata da William
Jenkins che si intitola New Topographics. Photographs of a Man Altered Landscape. La fotografia dei nuovi
topografici propone un tipo di sguardo sull'ambiente e il paesaggio circostante lontano da tentazioni epiche e
nostalgiche, e piuttosto disincantato nei confronti di uno spazio e modificato e segnato dalla storia umana.
L’antecedente illustre dei 10 autori in mostra viene individuato in Edward Ruscha, che nel suo famosissimo lavoro
del 1962 dal titolo Twenty-six Gasoline Stations ha fotografato le stazioni di servizio incontrate durante un lungo
viaggio americano con uno stile neutro, freddo, impersonale e meccanico. >> nelle immagini dei new topographers
diventano protagonisti e motel, e supermercati, ma anche i bidoni dei rifiuti lungo le strade e gli anonimi grovigli
dei pali del telefono. Lo sguardo che adottano vuole dichiararsi neutro è palesemente opposto alla grandiosità e
al romanticismo tipici di una certa tradizione sia europea che americana sul paesaggio fotografico.
Ritratto di Alice Liddell (Lewis Caroll, 1863)
Lewis Carroll conosce la tecnica fotografica del 1856, da quel momento fino al 1880, quando chiuderà
definitivamente con la fotografia, e gli scatta quasi tremila immagini. La sua produzione rimane Però praticamente
sconosciuta fino a che lo storico Helmut Gernsheim non ritrova i suoi scatti e le pubblica assieme a un diario in
Lewis Carroll photographer.
La particolarità della sua produzione spiega il lungo oscuramento che ha ricevuto insieme alla censura esercitata
su di essa da parte degli eredi che ne hanno distrutto una buona parte. Accanto all’attività di ritrattista che svolgeva
nei confronti di varie personalità della sua schiera di frequentazioni sociali, i soggetti più ricercati di Lewis Carroll
sono infatti delle bambine, nella maggior parte dei casi e figlia di collegio di conoscenti di Oxford. >> il periodo più
intenso e fervido della sua attività fotografica si colloca tra il 1863 e il 1864 quando ero le concepisce e poi pubblica
anche suo capolavoro letterario Alice nel paese delle meraviglie. Del resto pare proprio che il romanzo che l'ha
reso famoso sia scaturito te essendo insieme piccole storielle inventate per distrarre e incantare madri e bambine
che poi, per consuetudine, erano invitate a passare dal suo studio per una seduta di posa fotografica. Il ritratto di
Alice Liddell rappresenta proprio quella Alice del paese delle meraviglie, figlia del decano del college di Christ
Church. A lei Carroll dedica la sua opera più importante e, nell’ultima pagina del manoscritto, incolla il ritratto
fotografico che le ho scattato come un suggello simbolico.
La meraviglia oltre che in Alice sta per lui anche nella fotografia, e la ragione di tanta riconoscenza è in ciò che essa
gli permette di sperimentare concettualmente: quello strumento è una protesi speciale grazie alla quale può,
virtualmente, scrutare, toccare e possedere le bambine che posano per lui. >> Nella pudica e moralista età
vittoriana, un uomo religioso non può trovare di meglio che affidare all’occhio potenziato dell’apparecchio
fotografico il suo rapporto con le bambine. Nelle pose fotografiche le bimbe di Carroll assumono indubbiamente
un aspetto malizioso e demoniaco dovuto probabilmente alla consapevolezza di esibirsi a uno sguardo adulto.
Carroll è insomma un inguaribile voyeur, te come tale non può non cogliere la Altissimo potenziale di incursione
nel mondo altrui di cui la fotografia è capace. In più è ossessionato da un tabù per eccellenza, l’erotismo infantile
e adolescenziale, e di conseguenza non si fa sfuggire l’esperienza sublimata che può, con lo strumento fotografico
tra le mani, vivere in differita.
Voyeur: colui che trova pagamento nell’impadronirsi di informazioni visive che riguardano la vita degli altri, la
definizione è assolutamente sovrapponibile a quella del fotografo. Il voyeurismo fotografico si mette in moto nella
semplice idea del guardare senza essere visti, nel rubare intimità senza essere scoperti, dell'essere testimoni di un
privato che tale dovrebbe rimanere. Questa la più interessante e stimolante dimensione concettuale del
voyeurismo fotografico, che si esplica più in un’esperienza e in una pratica estetica che nella fruizione dell'oggetto
finale. In questo senso è facile condividere l'idea che tutti i fotografi sono dei voyeur a prescindere da ciò che
stanno fotografando. Il principio del voyeurismo fotografico è legato anche alle dinamiche del gossip e al
fenomeno del divismo.
Autoritratto di Alphonse Bertillon in una foto segnaletica di prova (Alphonse Bertillon, 1912)
Quando nel 1839 Arago presente al mondo la scoperta della fotografia, probabilmente non ha piena
consapevolezza di come contemporaneamente egli stia fornendo uno strumento d'ausilio ma soprattutto un
dispositivo fondamentale a sostenere un pensiero filosofico e un sistema di idee. Nel pieno del clima positivista
ottocentesco, la fotografia trova finalmente in Daguerre e Talbot i suoi padri inventori, i quali individuano gli spazi
per presentarla nel mondo della Scienza e della Tecnica. Così il brevetto fotografico e anzitutto visto come uno
strumento al servizio della conoscenza del mondo fondamentale per nuovi traguardi scientifici, sociologici e
antropologici.
Negli stessi anni in cui la fotografia muove i primi passi, un'altra storia sta arrivando a compimento: la fisiognomica,
Lo studio delle corrispondenze tra linee del volto e le indicazioni psicologiche e caratteriali di un soggetto punto è
facile comprendere quale contributo possa aver dato l’arte come strumento per le visualizzazioni delle teorie
fisiognomiche. Dopo secoli di studio, si comincia a parlare sempre meno e nella seconda metà dell'800 si
definiscono nuove scienze e discipline che ne prendono il posto come l'antropologia, la criminologia, la psicologia
e la psicoanalisi. → si può dire che la nascita della fotografia, in quel momento in quel nuovo scenario, non può
fare a meno di proporsi, nettamente in vantaggio rispetto al disegno e alla pittura, come strumento perfetto per
la realizzazione di immagini fedeli al vero, meccaniche automatiche, utilissime per poter studiare il reale. Così
nell’Ottocento la fotografia affronta uno dei suoi capitoli più affascinanti: quello della scheda tour e scientifica
manicomiale, di quella criminale e di quella antropologica-etnologica.
Nel 1851 viene installato il primo laboratorio fotografico di un'istituzione manicomiale, diretta dal dottore inglese
Hugh
Welch Diamond. Un fenomeno quasi mediatico diventano invece le dimostrazioni che tiene il famoso neurologo
Jean Martin Charcot , facendo performare delle isteriche di fronte ai suoi studenti e agli studiosi. Comprendendo
quale forza ha il nuovo mezzo fotografico per la diagnosi, la cura e lo studio delle malattie mentali, Charcot crea
uno dei laboratori fotografici più famosi dell’800. In Italia nel 1878, Augusto Tamburini introduce l’uso del ritratto
fotografico per schedare gli ospiti al manicomio di Reggio Emilia. Già da qualche anno, però, si usava una
schedatura fotografica anche nei due manicomi di Venezia. La schedatura viene fatta per un’esigenza di ordine e
classificazione dei pazienti, ma anche Naturalmente per un tentativo di registrare dunque verificare gli andamenti
della malattia stessa. Nella fotografia che deve completare la scheda nosologica dei malati mentali si predilige uno
sguardo frontale e asettico, uno sfondo neutro, un'impossibilità da cui non possano trapelare sentimenti e
distrazioni. Si deve comunicare che si tratta di scienza e non di arte.
Le stesse identiche neutralità e freddezza vengono adottate nella schedatura poliziesca. Dal 1882 il servizio di
identità giudiziaria della polizia di Parigi mette a punto un sistema globale di classificazione criminale. Fino a che
a inizio 900 saranno introdotte anche le impronte digitali, questo sistema permette ai sistemi sociali di creare un
immenso archivio visivo sulla delinquenza, ma anche di organizzare un sistema di studio, di chiara derivazione
fisiognomica, che deve riconoscere se ci sono continuità visivamente rilevanti e somiglianze di correnti tra varie
famiglia delinquenziali. Su tali terreni dichiaro influsso positivista-deterministico, e con all’eredità di una
formazione da studio di fisiognomica, in Italia aveva già dato il suo contributo Cesare Lombroso che riconosce alla
fotografia un ruolo primario nello studio nella classificazione delle diversità umane, arrivando a costituire uno dei
più affascinanti archivi fotografici ottocenteschi punto da una sua idea nasce nel 1878 in Italia la prima polizia
scientifica.
Un altro aspetto della schedatura scientifica ottocentesca riguarda la campagna fotografica che le potenze
coloniali, la Gran Bretagna prima di tutte, mettono in campo per conoscere, ma anche separare e umiliare, gli
abitanti indigeni delle popolazioni assoggettate. Con uno schema assolutamente omologo a quello delinquenziale.
Sfondi neutri, sguardi apparentemente impassibile, atteggiamenti inespressivi, la stessa pretesa di scientificità
come verso i malati di mente e delinquenti.
Archiviare il volto del mondo
Il capitolo della fotografia scheda ti va manicomiale, criminologica ed è tecnologica lascia nell'arte del Novecento
un patrimonio suggestivo ma anche estremamente delicato da rivisitare. Non è un caso che, tra gli artisti che
hanno utilizzato l'idea dell'identikit è poliziesco, si trovino due "giganti" come Marcel Duchamp e Andy Warhol
cecità no e usano direttamente nei loro lavori la foto scientifico-schedativa ottocentesca.

La grande eredità che passa, transitando dalla dimensione del pratico a quella dell’estetico, dalla schedatura
dell’umanità fatta da me dici, criminology e potenze coloniali del XIX secolo all’arte del Novecento è quella
determinante filosofia del fotografico che esalta l'automatismo del mezzo, la sua distanza dalla definizione
dell'artistico ottocentesca, la sua capacità di straniamento e di congelamento impassibile del reale. Enel questo
senso sono altri due "giganti" che si fanno protagonisti della scena, August Sander e Diane Arbus.

La valle dell’ombra della morte (Roger Fenton, 1855)


Nel momento in cui l'invenzione della fotografia permette di viaggiare documentario con immagini testimoniali in
realtà sì le situazioni che prima potevano solo essere raccontate è ovvio che si inaugurano subito progetti e
missioni fotografiche che segnano in sostanza all'inizio del fotogiornalismo. La guerra è uno dei più tristi soggetti
del fotogiornalismo professionistico e naturalmente lo è già a partire dai padri della fotografia ottocentesca.
La prima guerra fotografata della storia è quella di Crimea, combattuta dal 1853 al 1856 da Francia e Gran Bretagna
contro Le Mire espansionistiche dello zar Russo sulla penisola del Mar Nero. Inviato di guerra in Crimea è il
fotografo inglese Roger Fenton che, equipaggiato di Ben 5 macchine fotografiche, 700 lastre di vetro, un carro
coperto che funge la camera oscura sbarca a Balaklava per documentare questo nuovo conflitto che per la prima
volta sarà registrato da una macchina. L'immagine più nota di questo reportage è la valle dell'ombra della morte
dove però, a differenza di quanto ci si potrebbe aspettare, la morte è solo evocata, ma di certo Fenton riesce a
cogliere in questa fotografia, pure priva di cadaveri, un senso di desolazione paragonabile alla morte. Nella
maggior parte delle fotografie le scene più frequenti sono da retroguardia: la distribuzione dei rifornimenti, gli
schieramenti delle truppe, i ritratti in pose degli ufficiali e altre zone di battaglia ormai però deserte. Fenton non
è il primo giornalista di guerra ma anche al contempo l'esempio della fotografia al servizio di un'ideologia politica:
dal momento che l’opinione pubblica inglese non sosteneva questo impegno nel proprio governo nel conflitto, gli
era stato evidentemente raccomandato di non mostrare scene troppo cruente. Roger Fenton realizza trecento
negativi che sono esposti a Londra ea Parigi, ma che ottengono uno scarso successo proprio perché mostrano, al
di là delle aspettative, una visione anestetizzata e parziale della guerra.
Nei territori del conflitto arriva Felice Beato che, insieme a un altro fotografo di nome James Robertson, si occupa
di continuare la missione fotografica. Il reportage di Beato risulta una fredda documentazione delle zone belliche,
sebbene a differenza di quanto aveva fatto Fenton non eviti immagini di devastazioni. Dalla Crimea continua il suo
viaggio verso est che lo porta a toccare gli universi lontani dell’India, Giappone e Cina dove fotografa per la prima
volta corpi senza vita abbandonati sul campo di battaglia. Fotografa i conflitti come la guerra dell’oppio, dalle cui
immagini si deve capire quali risultati si ottengono a ribellarsi contro i colonizzatori inglesi. Telice Beato si ferma
in un Giappone da poco uscito dal suo secolare isolamento, si dedica alla produzione di immagini di paesaggi e
architetture dell’Estremo Oriente, spesso ricostruite in studio, si è specializzata soprattutto nella ritrattistica
dipinta sul modello delle stampe giapponesi è legata agli stereotipi e alle messe in scena care all’immaginario
europeo.
Mathew Brady è stato invece il fotoreporter della Guerra di Secessione americana: a capo di un gruppo di fotografi
egli ha svolto l’impegnativo incarico di lasciare testimonianza di questo conflitto vasto e complicato. Nel capitolo
sulla fotografia ottocentesca che documenta la morte meritano un cenno anche le immagini che realizza André-
AdolpheEugène Desidéri alle salme dei comunardi uccisi durante la Comune di Parigi del 1871. Nelle immagini i
volti degli anonimi comunardi, messi in fretta dentro a casa di legno improvvisate per la sepoltura, sono macabre
maschere di morte è ingiustizia. Morte in fotografia
La fotografia ha sempre a che fare con la morte, Avendo sempre per fare con la dimensione del tempo, ogni
fotografia è legata a un tempo già finito dunque a qualcosa che non è e che non sarà più. La morte in fotografia è
stata uno dei soggetti principali della vicenda eroica del fotogiornalismo novecentesco, che ha trovato alcune delle
sue icone in immagini e divenute patrimonio visuale collettivo. Ma cercando casi di eredità e legami tra filosofia
del fotografico ottocentesca e l’arte nel Novecento, un cenno si deve fare al caso particolare di quegli artisti che
hanno citato è usato la fotografia come strumento di sublimazione estetica, o invece di rivendicazione estrema,
della vita contro la morte. Sono autori che sono stati capaci di puntare l’obiettivo su sé stessi e sulle persone amate
quando la morte è venuta a segnarli.
Il club delle maledette (Alice Austen, 1891)
Nonostante da un punto di vista professionale già nella seconda metà dell’800 molte donne trovino nella fotografia
uno sfogo lavorativo è una via possibile al processo di emancipazione che si sta in quegli anni lentamente
mettendo in moto, dal lato del riconoscimento artistico le donne fotografe sono ancora molto al di là della
possibilità di attestare una loro presenza importante. A eccezione di pochissime donne che riescono ad affermarsi
arrivando anche a esporre i loro lavori fotografici in spazi pubblici, come Julia Margaret Cameron, molte sono
quelle che rimangono per lo più sconosciute ho assolutamente travisate dalla critica. Ciò che è davvero
interessante nel discorso tra donne fotografia nell'Ottocento è il fatto che si possa distinguere in alcune di loro un
uso della fotografia che si può definire addirittura proto-concettuale.
Le donne che vogliono usare la fotografia ed essere artiste devono scontare almeno due epurazioni: uno che viene
loro in posta dall’arte e uno in posta dagli uomini. Eppure, paradossalmente, proprio l’emarginazione che le donne
fotografe vivono diventa l’arma grazie alla quale si dimostrano in grado di usare la fotografia, e le sue potenzialità
concettuali, con una lungimiranza e una capacità intuitiva davvero formidabili. Le donne mettono le aspirazioni, i
sogni, le ambizioni, le frustrazioni e le follie dentro al rapporto che instaurano con l’apparecchio fotografico, dando
così vita a progetti ed esperienze più da artiste contemporanee che da fotografe ottocentesche punto in
particolare, le donne si rivelano capaci di sfruttare la forza che ha la fotografia nel recupero della corporeità e
dell’azione: la fotografia si mostra come il mezzo perfetto per permettere alla donna di riscrivere quel corpo e,
soprattutto, fungere da strumento che le conceda di ricostituirsi in identità, un’identità sociale, storica, politica e
di genere. Le donne paiono con la fotografia a riprendersi il diritto di essere loro a parlare e dire cosa sia il corpo
delle donne, sottraendolo al secolare voyeurismo dello sguardo altrui. Ma, al tempo stesso, la scelta naturale che
le donne fanno della fotografia come strumento di prassi e azione ne costituisce l’esaltazione come territorio
principale dell’estetica e del performativo. Tra donne e fotografia si instaura così nell’Ottocento un rapporto di
solidarietà che è parallelo allenare stabile processo che dal femminismo storico porterà i movimenti di
emancipazione di primo Novecento. Ma, accanto al fondamentale ruolo che la fotografia riveste per la definizione
dell’immagine di una nuova donna libera e indipendente, la fotografia di viene anche veicolo di una messa in
discussione delle rigide separazioni di genere.
La vicenda di Alice Austen È davvero interessante perché permette proprio di sottolineare come, nel rapporto tra
donne e fotografia nell'Ottocento, si condensino da un lato le esigenze di rivendicazione e autonomia da parte
delle donne in una forma di femminismo visuale, ma dall'altro anche la richiesta di liberazione dagli stereotipi di
genere per un'affermazione di diversità e omosessualità. Alice Austen utilizza la fotografia come certificazione
continua e fedele della propria autobiografia, finendo per costruire visivamente la sua vita in un personale album
di famiglia. Si fotografa con le amiche in tutte le occasioni di socializzazione che si presentano, in particolare dei
membri femminili del gruppo denominato il “club delle maledette”. La fotografia le permette di infrangere, in
immagine, i tabù che anche nella vita sta cercando di negare: le regole predefinite e le scelte obbligate della
morale. Così nascono i travestimenti in abiti maschili, le foto dove le donne fumano e bevono punto con la
fotografia Alice trova la possibilità di raccontare una dimensione intima e privata, e insieme di concretizzare
visivamente la sua scelta omosessuale. Le sue immagini ottocentesche, che a volte appaiono anche ingenue
infantili, sono la dimostrazione migliore che, quando insieme all’arte scende in campo la vita, non c’è forza più
dirompente dello specchio fotografico.
La fotografia nel discorso di genere
Rrose Sélavy di Duchamp è il vero emblema di un discorso di negoziazione delle diversità e della attraversamento
dei confini. Negli stessi anni Lucy Schwob, dopo aver adottato lo pseudonimo di Claude Cahun inizia ad utilizzare
la fotografia come un regolare è privato appuntamento con la propria indagine identitaria. Dalla sua omosessualità
e dalla sua esigenza di poterla certificare, nascono le pratiche fotografiche che la accompagneranno per tutta la
vita. Usa la fotografia come il mezzo più adatto per verificare costantemente il suo rifiuto delle regole e delle
barriere precostruite. >> con una semplice Kodak Pocket camera costruisce una delle raccolte di autoritratti
fotografici più significative della storia visuale contemporanea. Come nella realtà vive la sua diversità senza
soffocarla ma anzi sfidandola, allo stesso modo e senza soluzione di continuità attingere a tutto il repertorio
dell’esperienza della diversità sfruttando la dimensione dell’estetica fotografico, per perdercisi dentro annullando
ogni definizione.
Near-naked Man Running (Eadweard Muybridge, 1887)
Quando la fotografia viene presentata al mondo non possiede ancora la capacità di cogliere un corpo in
movimento, non conosce cioè l'istantanea. Questo è dovuto alla scarsa luminosità dei primi obiettivi e al
insufficiente fotosensibilità iniziale delle sostanze chimiche usate nei processi fotografici. Si devono perciò
attendere i progressi della scienza per poter finalmente arrivare a bloccare, nel rettangolo della lastra, qualcosa
che si muove nello spazio e nel tempo.
L’inglese Eadweard Muybridge è il primo che riesci a ottenere dei risultati interessanti cercando di fissare
fotograficamente il moto di un cavallo in corsa. Il proprietario del cavallo desiderava conoscere la dinamica del
cavallo mentre corre, chiamato Occident, per allenarlo meglio. Dopo varie prove riesci a ottenere immagini di
Occident che corre ad alta velocità dimostrando che, per una frazione di secondo, un cavallo in corsa tiene tutte e
quattro le zampe sollevate. Muybridge mette sul percorso del cavallo 12 apparecchi fotografici a intervalli di spazi
regolari e collegati a dei cavetti metallici in modo che, passando e strappando i cavetti, il cavallo azioni gli otturatori
tramite delle elettrocalamite. Nel 1880, inoltre, Muybridge può brevettare un apparecchio, detto
zooprassinoscopio, grazie al quale è in grado di proiettare su uno schermo, durante alcune conferenze, delle
immagini che scorrono in rapida sequenza. La nascita del cinematografo è già davvero molto vicina.
L'altro studioso che si dedica alla fotografia di movimento è il francese Étienne-Jules Marey, che mette a punto un
metodo differente da quello di Muybridge e cioè sperimenta l’utilizzo di un fucile fotografico dotato di una lastra
di vetro circolare che, Ruotando, è capace di registrare 10-12 pose in mezzo secondo e sulla medesima lastra. Nel
suo caso, perciò, la visione del movimento di un corpo è squadrata come se si svolgesse davanti agli occhi di chi
osserva, mentre col metodo di Muybridge si ottengono tante diverse immagini che riportano in sequenza staccata
le fasi del moto. >> ciò che meraviglia è che entrambi non si occupano dei potenziali sviluppi di ciò che hanno
scoperto in relazione ha un suo utilizzo verso la nascita del cinematografo.
Sara invece Georges Demeny a brevettare uno sviluppo del proiettore usato da Marey, e nel 1894 è Thomas Edison
a mettere in commercio il cinetoscopio, un apparecchio finalmente in grado di far scorrere le immagini a una
velocità sufficiente da non far percepire gli stacchi e dare l’idea di movimento anche se, non potendo proiettare,
poteva essere guardato da una persona sola alla volta. La storia delle origini del cinema e poi molto nota: il 29
dicembre 1895, presso il Salon Indien del Gran Cafè sul Boulevard des Capucines, i fratelli Lumière proiettano per
un pubblico pagante le prime pellicole cinematografiche della storia.
Nel capitolo sui rapporti tra fotografia e scienza, si deve accennare anche allo sviluppo della micro e della
macrofotografia, ottenute applicando la fotografia ai microscopi e ai telescopi.
Dalla fotografia al cinema
Fotografia e cinema sono due mezzi storicamente legati da una comune genesi tecnica: sono stati gli studi sulla
fotografia di movimento che hanno portato alle sperimentazioni di dispositivi in grado di effettuare proiezioni
velocissime di fotogrammi in sequenza, esperienze le quali hanno infine segnato la nascita del cinematografo.
Per quanto riguarda invece il dibattito teorico Sul rapporto tra fotografia e cinema, e ancor più quello dei due
mezzi e del loro rapporto con la realtà, i contributi e le riflessioni sono state nel corso dei decenni molto ampi e
articolati. Gli studiosi Si possono dividere in due gruppi: da un lato possono stare gli studiosi che hanno creduto
in prima istanza nella forza del rapporto e del recupero della realtà che fotografia e cinema mettono in campo nel
loro dialogo col mondo. Gli altri hanno considerato invece questa prima idea una fase ingenua di teorizzazione dei
due linguaggi, e hanno individuato piuttosto nel momento creativo, autoriale e di costruzione soggettiva il livello
culturale e interpretativo più interessante.
Bayard Street, casa degli immigrati (Jacob Riis, 1889)
Le nuove possibilità di documentazione offerte dal viaggio fotografico, unite all'interesse sociale e antropologico
sul mondo, portano i pionieri dell'800 a realizzare immagini che raccontano e descrivono la realtà vista negli aspetti
meno scontati e gradevoli. Tra i primi fotografi a dedicarsi in modo consapevole ha un progetto di tipo sociale ci
sono Thomas Annan e John Thomson, a quest’ultimo viene l’idea di collaborare con il giornalista Adolphe Smith
ha un progetto di documentazione sulla Londra dei quartieri degradati. Nasce Street Life in London una
pubblicazione all'interno della quale 36 fotografie di Thomson accompagnano il racconto di una città esclusa dalle
vedute artistiche turistiche.
Jacob Riis, emigrato dalla Danimarca, ha invece l’occhio attratto dalla città di New York che in quegli anni sta
assumendo le caratteristiche della grande megalopoli. È in questa nuova è stupefacente realtà urbana che riesce
a diventare reporter per la “New York news Association”. Anche la tecnica fotografica sta subendo grandi
innovazioni e tra queste c’è la messa sul mercato di una fotocamera, La Kodak detective, e grazie alle piccole
dimensioni e alla facilità d’uso può agevolare le sue ricerche. Stessa cosa può dirsi per la polvere di magnesio che
viene allora utilizzata per il flash. Con questi nuovi strumenti Riis può aggirarsi nella suburra tra bambini miserabili
e donne piegate dalla fatica e dalle privazioni, documentando il lavoro nero, l’affollamento delle stanze-dormitorio.
> inizialmente dai suoi reportage sono ricavati dei disegni che accompagnano gli articoli dei giornali ma in seguito,
poco alla volta, e grazie di nuovo gli sviluppi della tecnica, le fotografie possono essere stampate assieme ai testi.
Nella foto di Bayard Street, la via della famosa casa popolare abitata dagli immigrati, si capisce che il fotografo
deve essere entrato all’improvviso mentre gli immigrati erano ancora nel sonno, sorprendendo lì con il lampo del
flash del magnesio che ha illuminato la stanza. >> Grazie alla fotografia di impegno sociale o documentaria, si
formano nuove coscienze civili e si stimola nel pubblico una nuova visione del mondo, eticamente moralmente
corretta. La fotografia, proprio per il suo carattere di verità e di attestazione indiscutibile, è il mezzo adatto per
intraprendere questa missione politica e sociale.
Altro grande fotografo che lavora sui temi sociali, tra fine dell’Ottocento e i primi del 900, è l'americano Lewis
Hine, che da autodidatta comincia a dedicarsi alla documentazione delle condizioni di vita dei Ceti umili della città.
Alcuni immagini di Hine cominciano a circolare ea essere pubblicate sulle riviste dei primi del 900, ma si deve
aspettare il 1932 per assistere all'uscita del suo libro più famoso Men at Work, dove confluiscono anche alcuni
epici scatti delle fasi di costruzione dell’Empire State Building. Con questa serie di immagini nasce la photostory.
Si deve anche ricordare che è stato grazie alla diffusione delle immagini di Hein che negli Stati Uniti si comincia a
discutere sul lavoro minorile e a impegnarsi per eliminarlo. La sua attenzione è sempre focalizzata sulle persone,
sulla loro umanità.
La denuncia sociale
La tradizione della documentazione sociale dei grandi padri Riis e Hine trova, in un altro periodo "caldo" della
storia americana, degli interpreti altrettanto ideali. Così come i due avevano aperto gli occhi alla società
contemporanea sugli effetti di una nuova disordinata urbanizzazione, la stessa società americana si trova chiamata
a guardare in faccia alle condizioni delle province rurali e dei suoi miserabili abitanti dopo la Grande Depressione
del 1929 seguita al crollo della borsa di New York.
È di nuovo lo strumento fotografico ad assumere per l'opinione pubblica il ruolo di testimone obiettivo e imparziale
che deve creare o rinforzare una coscienza civile. (Farm Security Administration)
George Eastman a bordo del S. S. Gallia (Frederick F. Church, 1890) fotografia che ritrae Eastman, nel classico
formato circolare usato nelle prime macchine, mentre tiene in mano uno dei suoi prototipi
Il brevetto della carte de visite di Desidéri aveva già portato un importante contributo allenare stabile processo di
massificazione della fotografia. Quello che sarebbe diventata certamente una delle caratteristiche più famosi e
riconoscibili della fotografia, la diffusione popolare, compie Infatti i suoi primi passi grazie all'idea del piccolo
formato tascabile, spedibile, collezionabile e che, prima di ogni altra cosa, era economico. Già negli anni sessanta
la carte de visite comincia a perdere le sue attrattive nei gusti del pubblico comune.
Nel 1888 l’americano George Eastman mette sul mercato una macchina di piccolo formato, con fuoco fisso e unica
velocità di scatto a 1/25 secondo: è l’inizio di un mito, quello della Kodak, 1 macchina leggera, economica che esce
dalla fabbrica già caricata con 100 scatti pronti all'uso. Scattate le 100 fotografie si può spedire la macchina al
laboratorio di Rochester che, una volta sviluppate le immagini, la darò indietro di nuovo carica. La facilità e
l'immediatezza della yecnica Kodak sono tali che per pubblicizzarla vengono usati degli slogan che si sono proprio
su questo aspetto: Chiunque abbia un’intelligenza sufficiente per guardare dentro una scatola e premere un
bottone, può ora a far fotografie oppure voi premete un bottone, noi facciamo il resto. Il successo della Kodak e
ovviamente immediato, e anche nella pubblicistica si insiste sull’idea che la facilità del suo uso la rende
indispensabile per quello che sta per diventare uno dei fenomeni più tipici della società contemporanea, cioè
l’esperienza del viaggio e del turismo.
Bisogna ricordare che, nei suoi primi decenni di vita, la fotografia non può ancora definirsi davvero democratica:
tanto dal punto di vista della clientela (la fotografia degli inizi non è alla portata delle tasche di tutti) quanto da
quello della realizzazione (l’uso delle sostanze chimiche della pesantezza e la voluminosità delle apparecchiature
scoraggiano molti dal praticarla), la fotografia delle origini si rivolge a un pubblico alto e borghese. La società
Eastman Kodak Co. diventa invece il simbolo di un’imprenditoria legata ai fenomeni e ai bisogni delle nuove masse:
è con la Brownie che può davvero affermare di aver reso la fotografia qualcosa di definitivamente accessibile a
tutti. >> La storia della Kodak segna l’avvento della fotografia non professionistica, di quella attitudine e passione
allo stato privato e dilettantistico che in genere si definisce fotografia amatoriale. È con la Kodak che si verifica il
passaggio da una moda che si era già diffusa, ma a livello di clientela passiva che si recava Soprattutto negli studi
di ritrattistica, a una che invece riguarda l’uso attivo di tanti anonimi nuovi appassionati che si fanno fotografi in
prima persona. La Kodak segna il trionfo della foto ricordo, delle istantanee di vita quotidiana anonime e
importanti solo per chi le ha colti al volo e per i pochi te le guarderanno custodite negli album di famiglia. Da un
punto di vista teorico, l’evoluzione della tecnica non fa che assecondare la naturale predisposizione del mezzo
fotografico a democratizzare le esperienze traducendo le immagini.
Lo stile “snapshot"
Tra i primi autori che hanno scelto in modo privilegiato la fotografie stile snapshot, cioè l'istantanea colta al volo,
senza grandi pretese formali, legata a storie e situazioni di vita più che a pose pretenziose e accurate, va ricordato
il francese Jacques Henri Lartigue, che ha realizzato una ponderosa mole di scatti istantanei relativi agli incontri e
ai riti familiari, immortalando in modo spesso buffo e antieroico parenti e amici e posando il suo obiettivo anche
su occasioni mondane, feste, gare sportive e passeggiate eleganti. È il passaggio da un secolo all'altro, e l'avvio di
un sistema culturale, che rende possibile è pensabile un tipo di attività come quella di questo fotografo.
L’americano Terry Richardson, gli inglesi Juergen Teller e Corinne Day e l’italo-americano Mario Sorrenti sono alcuni
dei protagonisti di una corrente snapshot della fotografia di moda che ha privilegiato l'approccio autobiografico,
l'esplicitazione di una tecnica sgrammaticata fatta di inquadrature sbagliate, fuori fuoco, occhi rossi ed errori
compositivi vari. Dove i soggetti sono spesso colti di sorpresa e comunque in atteggiamenti privati, lontani dalla
posa auratica è confezionata della tradizione ritrattistica. Lady Filmer nel suo salotto (Lady Filmer, 1860)
Il moralismo è il perbenismo, propagandati nell’Inghilterra vittoriana, rafforzano una dimensione esclusivamente
claustrofobica e Klaus tranne nella quale le donne devono accettare di vivere, per questo è naturale che se
cerchino delle valvole di sfogo che permettano loro una fuga negli immaginali e la possibilità concreta di vivere
vite alternative. In letteratura lo sfogo si è per tradizione manifestato nella produzione di autobiografie e diari, allo
stesso modo, le donne si sono esercitate nelle arti visive privilegiando spesso la pratica dell’autoritratto come
strumento di affermazione personale della propria presenza e di attestazione visiva di un’identità artistica.
Naturale dunque che nell'Ottocento la fotografia sia stata usata dalle donne, e in anticipo sui tempi, come uno
sfogo e uno strumento di ricognizione individuale.
Lady Clementina Hawarden è una donna vittoriana e fotografa, la cui produzione fotografica è costituita da un
cospicuo numero di ritratti. Per lungo tempo ha ricevuto la modesta attenzione che può meritare un ingenuo
album privato di una signora per bene annoiata. Nel suo caso la apparente banalità dell’album fotografico di
famiglia può trasformarsi nello squarcio su una realtà assai diversa e imprevista. Nei corpi delle due figlie, le
protagoniste assolute dei ritratti, la Hawarden sublima le sue fantasie sessuali, per oltrepassare le barriere e vivere
virtualmente, con la fotografia, un mondo altro.
Anche Mary Georgiana Caroline, nota come Lady Filmer, è un’aristocratica inglese di epoca vittoriana, e anche lei
usa la fotografia. Con lo strumento fotografico sa di poter raccontare e visualizzare, confermandole, la propria
identità e insieme le dinamiche della sua realtà familiare. Scusa ricostruire la quotidianità del suo ambiente
creando dei photocollage: ritaglia le fotografie e le incolla insieme a pezzi di carte e disegni. Dopo aver realizzato
questi mosaici complessi e creativi procede nel suo allestimento di una dimensione parallela a quella della realtà
ripassando il tutto ad acquerello, aggiungendo quindi la componente cromatica a questo sforzo di messa in scena
di un palcoscenico virtuale. >> e così certamente, anche il divertissement fotografico di Lady Filmer, introducendo
la creatività autoriale del suo intervento manuale e usando un colore sovraimpresso artificiale e immaginifico,
appare come una curiosa prova di pittorialismo ottocentesco.
Orizzonti digitali
Il 24 agosto del 1981 il giapponese Akio Morita presenta al mondo la Sony mavica, un apparecchio fotografico che
viene considerato il primo dispositivo ad acquisizione digitale di immagini. Dopo quella prima fase ha inizio lo
sviluppo inarrestabile delle applicazioni e degli sviluppi della tecnologia digitale all’universo fotografico: uno
sviluppo che ha modificato il modo di guardare al mondo, di relazionarsi con le persone è influenzato
profondamente il nostro Orizzonte di comunicazione visiva.
La facilità e la naturalezza con le quali, grazie al digitale, le immagini fotografiche possono essere trasformate,
hanno riacceso. L'antico dibattito sul rapporto della fotografia con la realtà, è diviso gli studiosi tra chi suppone
che una certa idea di fotografia sia morta e chi ritiene invece che le funzioni per le quali usiamo la fotografia
rimangano sempre le stesse. Pur nelle trasformazioni di abitudini ed i rapporti relazionali che i dispositivi digitali
hanno portato, gli rimane un cuore identico a quello della fotografia analogica: una porzione di reale illuminato
dal sole che è stato catturato in un'immagine, che sia fatta di sali d'argento o di pixel.
Dunque, se le numerose applicazioni e software oggi disponibili stimolano l'intervento creativo e le manipolazioni
artificiali sulle immagini fotografiche, è importante ricordare che l'idea di fondo del pittorialismo ottocentesco non
era poi molto diversa. Ciò che invece è profondamente cambiato e che dunque, se le numerose applicazioni e
software oggi disponibili stimolano l'intervento creativo e le manipolazioni artificiali sulle immagini fotografiche,
è importante ricordare che l'idea di fondo del pittorialismo ottocentesco non era poi molto diversa. Ciò che invece
è profondamente cambiato è che l’arte contemporanea si è liberata del problema dell’autorialità operativa, della
banalità del rispecchiamento del reale, dell’ossessione dell’originalità.

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