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LE TECNICHE DELL'OSSERVATORE: RIASSUNTO (CRARY)


L'obiettivo di questo volume di Crary è quello di studiare l'osservatore ottocentesco come il luogo di un
importante mutamento epistemologico (conoscenza certa). Nella prima metà dell'800 si manifesta il
passaggio fra il modello della camera oscura e quello legato al corpo produttore di immagini. Il testo apre
una serie di riflessioni che ridefiniscono la questione dell'osservatore nella modernità del 19° secolo.
Crary osserva come non ci si trovi in presenza di semplici oggetti d'intrattenimento ma piuttosto di veri e
propri oggetti filosofici a partire dai quali è possibile interrogarsi sullo statuto dell'osservatore e sui
cambiamenti che a partire dal 1820 si determinarono.

1° LA MODERNITÀ E LA QUESTIONE DELL'OSSERVATORE (introduzione)


L'intenzione di questo libro è quella di trattare il problema della visione e della sua costruzione
storica. C’è un rapido sviluppo delle tecniche di infografica che vanno a ricostituire una
riconfigurazione nelle relazioni tra soggetto osservatore e modi di rappresentazione. La diffusione
delle immagini prodotte al computer preannunciano un’installazione capillare di spazi visuali artificiali
estranei alle capacità mimetiche del cinema, della fotografia e della televisione. Queste tecnologie
stanno progressivamente diventando il modello dominante di visualizzazione secondo il quale le
istituzioni e i processi sociali funzionano. La maggior parte delle importanti funzioni dell'occhio
umano stanno per essere soppiantate da pratiche visive nelle quali le immagini non hanno più
nessun riferimento alla posizione di un osservatore in un mondo reale, percepito secondo le leggi
dell'ottica. La diagnosi di Crary si è rivelata esatta: il fenomeno visivo, scriveva, sarà situato in un
terreno cibernetico ed elettromagnetico dove coincidono elementi astratti, visivi e linguistici.
Ma come si è arrivati a questo punto? Crary risponde in modo indiretto, descrivendo cos'è accaduto
negli anni precedenti il 1850, prima dell'invenzione della fotografia, quando dall'incorporeo
osservatore cartesiano, postulato dalla filosofia occidentale, si è passati all'osservatore dotato di un
apparato sensoriale. Si studierà un'organizzazione della visione precedente, quella della prima metà
del 19° secolo, delineando alcuni degli eventi e delle forze che hanno prodotto un nuovo tipo di
osservatore. In tale periodo i problemi della visione erano questioni relative al corpo e al
funzionamento del potere sociale. La pittura modernista degli anni 70-80 e lo sviluppo della
fotografia dopo il 1839 possono essere considerati come dei sintomi tardivi o delle conseguenze di
questa svolta decisiva.
Questo libro si vuole occupare del fenomeno dell'osservatore: una storia della visione dipende da
una più larga serie di fattori rispetto a quelli che può restituirci una semplice analisi dei
cambiamenti nelle pratiche di rappresentazione. Ricopre la dimensione epistemologia in cui la
visione si materializza nella storia e diviene essa stessa visibile. La visione e i suoi effetti sono
sempre inseparabili dalle possibilità di un soggetto osservatore che allo stesso tempo è sia il
prodotto storico sia il luogo dove si verificano le pratiche, le tecniche, le istituzioni e le procedure di
soggettivazione.
Spettatore è sinonimo di osservatore. Ma un osservatore è soprattutto un individuo che compie tale
azione all’interno di una determinata serie di possibilità, un soggetto che è dunque inquadrato in
un sistema di convenzioni e di limitazioni. Non ci sarà mai un osservatore che si autodetermini e al
quale il mondo appaia nella sua trasparente evidenza: al contrario, ci sono concatenazioni più o
meno potenti di forze che possono rendere possibili le sue facoltà.
Si studierà la camera oscura in quanto elemento paradigmatico dello statuto dell'osservatore nel 17° e
18° secolo; per il 19° secolo si metterà al centro l'analisi di svariati strumenti ottici come lo stereoscopio;
essi (gli strumenti ottici) sono punti di intersezione dove discorsi filosofici, scientifici ed estetici si
intrecciano a tecniche meccaniche, esigenze istituzionali e forze socioeconomiche. La camera
oscura è parte di un campo di conoscenze e pratiche che strutturalmente non corrisponde agli ambiti
dove si collocano gli strumenti ottici.
Il soggetto osservatore si delineò come un prodotto e allo stesso tempo come agente costitutivo
della modernità del XIX secolo. Quello che investì l'osservatore in quest'epoca fu un processo di
modernizzazione; egli venne spinto ad adattarsi a nuovi eventi, forze e istituzioni che nell'insieme sono
definibili come modernità. La modernizzazione diventa un'interminabile creazione di nuovi bisogni,
nuovi consumi e nuove produzioni. L’osservatore non è esterno a questo processo, ma anzi, risulta
completamente immanente ad esso. La modernità è inseparabile sia dalla trasformazione
dell’osservatore che dalla proliferazione dei segni e degli oggetti in circolazione, il cui effetto coincide
con la loro visualità. Per Baudrillard la modernità era strettamente legata alla facoltà di superare
l’esclusività dei segni e di promuovere una proliferazione di segni dietro domanda.

Uno dei fenomeni più importanti in termini di impatto sociale e culturale fu la fotografia e tutta la gamma
delle tecniche simili che permisero l'industrializzazione della produzione delle immagini. Le foto potevano
avere qualche apparente somiglianza con le vecchie tipologie d'immagine, i dipinti e i disegni in
Scaricato da Mario Senario (mariusstansilviu@gmail.com)
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prospettiva eseguiti con l'ausilio di una camera oscura. Nella società del 19° secolo, la fotografia e il
denaro divennero due forme di potere; sono forme che stabiliscono un nuovo insieme di relazioni
astratte fra individui e cose, imponendo queste relazioni alla sfera del reale. Ciò che accadde fu una
nuova valutazione dell'esperienza visiva.

La modernizzazione si basata sulla produzione di soggetti manipolabili attraverso una politica del
corpo, (Foucault) una maniera di rendere docile e utile l’accumulazione degli uomini. Questa
manipolazione si ha grazie all’accumulo di informazioni, grazie alle varie discipline, di sempre più
informazioni sugli uomini. I soggetti diventano oggetti di osservazione in contesti di controllo
istituzionale.

Per Walter Benjamin la percezione è temporale e cinetica, chiarisce come la modernità abbia
sovvertito anche la possibilità di un osservatore contemplativo. Non esiste un accesso puro ad un
singolo oggetto; la visione è sempre multipla, contigua, sovrapposta ad altri oggetti e desideri. La
percezione non rivela mai il mondo come presenza: una modalità possibile per l’osservatore è quella
del flâneur, il consumatore mobile di un’infinita successione di merci tanto illusorie quanto lo
possono essere le immagini.

A partire dalla metà del secondo, la circolazione e ricezione di tutti i tipi di immagini visive erano
strettamente legate al punto che ogni singolo medium o forma di rappresentazione visiva non aveva più
un’identità considerevolmente autonoma.

2° LA CAMERA OSCURA E IL SUO SOGGETTO

Scaricato da Mario Senario (mariusstansilviu@gmail.com)


La camera oscura è parte dello sviluppo delle scienze dell’osservazione dell’Europa dell’17° e
del 18° secolo. Gli storici più radicali considerano spesso la camera oscura e il cinema come
fenomeni ugualmente legati a uno stesso apparato di potere sociale e politico, elaborato nel
corso dei secoli (modello della continuità). Il modello di visione della camera oscura finisce per
collassare negli anni 20 e 30 dell'800. Sappiamo che, quando attraverso un piccolo foro una luce
viene proiettata in un interno buio e chiuso, un'immagine rovesciata appare nella parete opposta al
foro. Durante il 17° e il 18° secolo, la camera oscura era senza dubbio il modello più ampiamente
diffuso per spiegare la visione umana; il dispositivo della camera oscura era quindi molto più di un
semplice strumento ottico. Essa era anche un apparato tecnico usato in attività culturali, per
ricerche scientifiche, ecc.
Il più grande ostacolo che si frappone alla piena comprensione della camera oscura è l'idea che
l'osservatore e lo strumento ottico siano due entità distinte e che l'identità del primo esista
indipendentemente dal secondo, concepito semplicemente come un componente materiale di
un'apparecchiatura tecnica. In realtà, ciò che costituisce la camera oscura è proprio la sua
identità multipla. La camera oscura è ciò che Deleuze chiamerà agencement: (concatenamento),
ovvero un oggetto sul quale viene detto qualcosa e, allo stesso tempo, un oggetto che viene
utilizzato, un luogo d'intersezione tra formazioni discorsive e pratiche materiali. La camera
oscura, dunque, non può essere ridotta né a un oggetto tecnologico né a un oggetto discorsivo.
È un amalgama sociale complesso la cui esistenza come figura testuale non è mai separabile
dai suoi utilizzi come macchina.
Inizialmente si intende la camera oscura come aiuto per gli artisti per fabbricare le copie e nella
realizzazione dei quadri, come se fosse un arrangiamento di una macchina fotografica. Ma per
mezzo della camera oscura anche chi non sa nulla di disegno può disegnare gli oggetti con
esattezza e precisione. La camera oscura è sinonimo di una tipologia di effetto-soggetto assai
più ampia. L’uso della camera oscura era uno dei tanti metodi che permettevano ad un
osservatore di assumere una maggiore concentrazione su un particolare oggetto. Non aveva
nessuna priorità né come luogo né come modo di osservazione. Dalla fine del 500 la camera
oscura inizia ad avere un ruolo nel delimitare e definire le relazioni tra osservatore e mondo;
smise di essere un semplice strumento e diviene il luogo necessario dove la visione poteva
essere concepita o rappresentata. Indicò l’apparire di un nuovo modello di soggettività.

Wheelock afferma che la verosimiglianza della camera oscura permetteva ai pittori olandesi
del 17° secolo di soddisfare il loro desiderio di naturalismo. Per gli artisti olandesi la camera
oscura offriva un criterio unico per giudicare a cosa dovesse assomigliare un quadro veramente
naturale. Wheelock sostiene che lo strumento permetteva di mostrare la realtà visiva in maniera
del tutto neutrale e non problematica. La riproduzione mediante camera oscura era solo uno dei
possibili usi di questo strumento.

Le descrizioni della camera oscura che omettono la sua natura si trovano dappertutto. I lavori
del gesuita Kircher e la sua leggendaria tecnologia della lanterna magica rappresentano un
importante rovesciamento nell'uso dei sistemi ottici classici. Egli concepisce delle tecniche per
inondare l'interno della camera oscura usando varie fonti di luce artificiale.

Quello che è importante sottolineare a riguardo della camera oscura è quindi da una parte la
relazione che essa istituisce fra l'osservatore e l'indifferenziata superficie del mondo esteriore, e
dall'altra il modo in cui la sua struttura esegue un ritaglio e una delimitazione metodica di tale
superficie.

Un certo numero di versioni della storia della camera oscura avanzano l'ipotesi che le sue origini
siano mediterranee. Svetlana Alpers (storica dell'arte) ha sviluppato che le caratteristiche
essenziali della pittura olandese del 17° secolo sono inseparabili dall'utilizzo della camera oscura
nel Nord Europa. La Alpers aggiunge poi che le vere origini della fotografia vanno cercate nella
tradizione nordica (si ignora comunque il carattere transnazionale della vita culturale e scientifica
europea).

I volumi che trattano il tema della camera oscura accordano un posto a Giovanni Battista della
Porta (premoderno, filosofo) spesso identificato come uno dei suoi inventori. Disponiamo della
descrizione di una camera oscura nella sua opera Magia naturalis, pubblicata nel 1558; l'autore
spiega l'uso di uno specchio concavo per far sì che l'immagine proiettata non appaia rovesciata.
Nella seconda edizione del 1589, Della Porta descrive poi in dettaglio come una lente concava
possa essere posta nell'apertura della camera oscura per produrre un'immagine molto più
finemente definita. Secondo Foucault, Della Porta immagina un mondo dove tutte le cose si
giustappongono e sono legate le une alle altre in una catena; questo concatenarsi della natura e
della sua rappresentazione sarà abolita dalla camera oscura, la quale istituirà un regime ottico che
invece separa e distingue a priori l'immagine dall'oggetto.

La camera oscura definì l’osservatore come un’entità isolata, chiusa e autonoma all’interno delle
sue pareti oscure. L’osservatore era spinto verso una askesis, straniamento dal mondo, con
l’obiettivo di purificare la relazione dell’osservatore stesso con i molteplici contenuti del mondo, con
una realtà che era diventata esteriore. Rappresenta sia la figura dell’osservatore che quella del
soggetto confinato nell’intimità in uno spazio quasi domestico, separato da un mondo esteriore
pubblico.

Un'altra funzione correlata della camera oscura è stata quella di separare l'atto della visione dal
corpo fisico dell'osservatore.

Fra i testi più celebri nei quali troviamo l'immagine della camera oscura figurano l'Ottica di Newton
e il Saggio sull'intelligenza umana di Locke. Entrambi osservano come la camera oscura sia un
modello per l’osservazione di fenomeni empirici ma anche per l’introspezione riflessiva e
l’osservazione di sé.
Una delle immagini della camera oscura tra le più famose si trova dell'opera di Locke Saggio sull'intelligenza
umana (1690); All’interno del suo generale progetto di introspezione, Locke propone un mezzo per visualizzare
spazialmente le operazioni dell'intelletto. L'occhio dell'osservatore è completamente separato dal dispositivo che
permette alle immagini o alle somiglianze di entrare e di formarsi. La camera oscura permette al soggetto di
garantire e monitorare la corrispondenza fra il mondo esteriore e la rappresentazione esterna, consentendogli di di
escludere ciò che può risultare disordinato.

Ci sono due quadri di Vermeer nei quali il paradigma della camera oscura cartesiana è rappresentato chiaramente: Il
Geografo e L'Astronomo (1668). Ciascuno di questi dipinti mostra una solitaria figura maschile assorta in pratiche
scientifiche, nella penombra di una camera rettangolare il cui unico varco sembra essere l'apertura della finestra.
L'astronomo studia una sfera celeste dove sono disegnate le costellazioni mentre il geografo ha davanti a sé una
mappa nautica. Entrambi distolgono il loro sguardo dalla finestra che inquadra l'apertura sull'esterno. Il mondo viene
quindi conosciuto attraverso un'ispezione mentale delle sue chiare e distinte rappresentazioni all'interno della stanza
(introspezione). La camera oscura, così come la stanza, è il luogo nel quale una proiezione ordinata del mondo si
offre all'ispezione della mente. Ciascuno dei due studiosi medita su questa caratteristica fondamentale del mondo che
è l'estensione (res extensa). Tutti e due sono figure di una interiorità primaria e sovrana.

Per Descartes, le immagini osservate nella camera oscura si formano per mezzo di un occhio ciclopico disincarnato,
distaccato dall'osservatore (un occhio incorporeo). L’occhio stesso, morto o di natura bovina, subisce una specie di
apoteosi e raggiunge uno statuto incorporeo. Egli nella sua visione celestiale ci dice che si tratta di uno strumento (la
camera oscura) che incarna la posizione dell'uomo, fra Dio e il mondo. La camera oscura, basata su delle leggi di
natura (quelle ottiche) fornisce un punto di vista strategico sul mondo simile all'occhio di Dio. L’evidenza sensoriale è
respinta in favore della rappresentazione di un dispositivo monoculare, la cui autenticità non è messa in dubbio.
Descartes pensa che la ghiandola pineale eserciti un potere monoculare fondamentale.

Leibniz, attorno al 1703, sembra accettare il modello della camera oscura di Locke, benché con una differenza; per
Leibniz la camera oscura non è un apparecchio passivo, ma, al contrario, è dotata di una capacità intrinseca di
strutturare le idee che essa riceve, di organizzarle (cono di visione). Per Leibniz, la differenza che esiste fra
l'apparizione dei corpi per noi e la loro apparizione per Dio è in un certo modo simile a quella che esiste fra la
scenografia e l'icnografia (cioè fra la prospettiva e la visione a volo d’uccello).

L'osservatore del 18° secolo, quindi, si commisura sempre a uno spazio unificato e ordinato (cono di visione); uno
spazio nel quale è possibile comparare e studiare i contenuti del mondo. Il problema di Molyneux pone, per
esempio, la questione della percezione nel caso di un soggetto cieco. Locke cita il contenuto di una lettera
indirizzatagli dallo stesso Molyneux: "Supponete un cieco nato che sia oggi un adulto, al quale si stia insegnando a distinguere
mediante il tatto un cubo e una sfera, dello stesso metallo, della stessa grandezza, in modo che quando egli tocca l'uno e l'altro,
sappia dire quale sia il cubo e quale sia la sfera. Supponete che, trovandosi posati sopra una tavola il cubo e la sfera, questo cieco
venga ad acquistare la vista. Si domanda se, vedendoli prima di toccarli, egli saprebbe ora distinguerli, e dire quale sia il cubo e
quale la sfera."
Indipendentemente dalla risposta, l'unico problema è quello di sapere come si passa da un ordine di percezione
all'altro.

Il pensiero del XVIII secolo, sottolineando che la conoscenza è costruita da percezioni accumulate ordinatamente e
in maniera interdipendente su un piano autonomo da colui che guarda, ignora completamente le nozioni di pura
visibilità del XIX secolo.
Se all'epoca di Descartes (XVII sec) la vista e il tatto erano sensi che facevano capo a un occhio interiore superiore,
nel secolo successivo la vista ritrova la sua specificità finendo per inglobare anche il tatto nelle tangibilità oculari
della stereoscopia.

I quadri di Chardin si situano in questa stessa problematica del sapere e della percezione. Le sue nature morte, in
particolare, sono un'ultima grande presentazione dell'oggetto classico in tutta la sua pienezza. Nelle sue nature
morte, conoscere qualcosa non vuol dire possedere la singolarità ottica di un oggetto ma apprendere la sua identità
fenomenica e simultaneamente la sua posizione in un campo ordinato. Si prenda, per esempio, Il paniere di fragole
di bosco (1761): il suo superbo cono di fragole accatastate è un segno di come il sapere razionale delle forme
geometriche possa coincidere con un'intuizione percettiva della molteplicità e della deperibilità della vita. Per
Chardin, la conoscenza sensoriale e quella razionale sono inseparabili. Nel quadro Le bolle di sapone (1739) un
vetro ripieno di un liquido saponoso biancastro si trova sul lato di un balcone di una finestra, mentre un giovane con
una cannuccia trasforma questa opacità liquida e informe in una trasparente bolla di sapone sferica. Qui la visione e
il tatto cooperano l’uno con l’altra. La pesantezza dell’atmosfera dell’opera finisce per essere un medium nel
quale la visione funziona come il senso del tatto, passando per uno spazio in cui nessuna minima parte è vuota.

3° LA VISIONE SOGGETTIVA E LA SEPARAZIONE DEI SENSI


Goethe fa della camera oscura il luogo dei suoi studi ottici, per stabilire relazioni categoriali tra interno ed esterno.
Tuttavia, egli abbandona bruscamente il sistema della camera oscura; la nega sia come sistema ottico che come
figura epistemologica. La chiusura dell’apertura fa venire meno la distinzione tra interno ed esterno dalla quale
dipende il funzionamento della camera oscura.

Ne La teoria dei colori, i cerchi colorati che sembrano ondeggiare, ondulare e subire una sequenza di trasformazioni
cromatiche non può trovare un suo corrispondente né all'interno né al di fuori della camera oscura; si tratta di colori
fisiologici che appartengono al corpo dell'osservatore e che rappresentano le condizioni necessarie della visione. Il
corpo umano genera lo spettro di un altro colore e diventa così un produttore attivo di esperienza ottica.

Ciò che risulta più importante nell'analisi di Goethe della visione soggettiva è l'affermazione dell'inseparabilità di
due modelli di osservatore presentati solitamente come distinti e irreconciliabili: da una parte l'osservatore fisiologico,
descritto sempre più dettagliatamente dalle scienze empiriche del 19° secolo e dall'altra l'osservatore considerato
come il produttore attivo e autonomo della sua propria esperienza visiva; per dirla alla William Blake: "Dall'occhio
dipende l'oggetto".

La visione diventò un oggetto di studio, di osservazione. In questo periodo (XIX sec), il visibile si allontanò dalla
camera oscura e si posizionò invece all'interno di un diverso dispositivo, cioè nella fisiologia del corpo umano.
Goethe si mostrava convinto del fatto che il colore è sempre il prodotto di una miscela di luce e ombra. Per lui la
visione è sempre un'irriducibile complessità, costituita allo stesso tempo di elementi appartenenti al corpo
dell'osservatore e di dati del mondo esterno. L'opacità è come una componente cruciale e produttiva della visione.
Goethe fa dell'opacità dell'osservatore una condizione necessaria per il manifestarsi dei fenomeni.

Maine de Biran utilizzò il termine coenésthèse per descrivere "il sentimento immediato della presenza del corpo"
nella percezione, il sentimento d'insieme. La percezione visiva, per esempio, era inseparabile dai movimenti muscolari
dell'occhio e dallo sforzo fisico attuato per mettere a fuoco un oggetto o semplicemente per tenere una palpebra
aperta. Per Maine de Biran, l'occhio, come il resto del corpo, diventava una realtà fisica che richiedeva
permanentemente l'esercizio attivo della forza e del movimento. Egli formula l'ipotesi che la sensazione di stanchezza
progressiva facesse propriamente parte della percezione.

Nel 1815 il giovane Schopenhauer invia a Goethe una copia del suo manoscritto La vista e i colori. Il testo è un
omaggio allo scontro del più anziano scrittore con le teorie di Newton. Schopenhauer abbandona la classificazione
dei colori di Goethe in colori fisiologici, fisici e chimici, eliminando le ultime due categorie e affermando che il colore
possa essere considerato solo da una teoria fisiologica. Per Schopenhauer il colore è sinonimo di reazioni e di attività
della retina.

Le qualità primarie sono le qualità intrinseche degli oggetti, cioè quelle che gli oggetti hanno indipendentemente
dall'osservatore, come la massa, la posizione e la forma di un oggetto. Le qualità secondarie, invece, sono le qualità
che gli oggetti hanno solo in relazione all'osservatore, come il colore, l'odore, perché dipendono dalla percezione
dell'osservatore. Secondo Locke, le qualità secondarie non hanno alcuna somiglianza con gli oggetti reali, ma per
Schopenhauer e Goethe, queste qualità costituiscono la nostra primaria immagine della realtà esterna. Per
Schopenhauer, inoltre, questa nozione di corrispondenza tra soggetto e oggetto viene meno; egli studia il colore solo
con riferimento alle sensazioni appartenenti al corpo dell'osservatore. Egli rifiuta tutti modelli che fanno
dell’osservatore un ricettore passivo e produttore di sensazioni. Ed infatti, è centrale il fatto che il colore si manifesti
quando gli occhi dell’osservatore sono chiusi.

Nel 1885 March accreditava sia Goethe che Schopenhauer come i fondatori di una moderna fisiologia dei sensi.

Schopenhauer intraprende inoltre il procedimento di "condanna degli errori" di Kant: lo fa rovesciando il privilegio
kantiano del pensiero astratto sulla conoscenza percettiva. La sua risposta al problema kantiano va al di là della
concezione classica della camera oscura: la rappresentazione è un processo fisiologico complicato, che ha luogo nel
cervello dell'animale e il cui risultato è la coscienza di un'immagine in quello stesso cervello. Secondo Adorno,
Schopenhauer si allontana in parte da Kant poiché riconosce che il soggetto trascendentale è una mera illusione.
Schopenhauer concepisce l'osservatore come un sistema fisiologico adeguato per il consumo di un mondo di
immagini e di rappresentazioni che gli preesiste.

Schopenhauer arriva a questa definitiva fusione di soggettivo e fisiologico durante il lungo intervallo che separa la
prima e la seconda edizione de Il mondo come volontà e rappresentazione, un periodo durante il quale, in Europa,
l'idea del dispositivo ottico e quella del corpo umano subiscono una notevole trasformazione.

In questo senso la figura di Bichat fu di grande importanza per Schopenhauer. Le tesi fisiologiche di Bichat hanno
come punto di partenza i suoi studi sulla morte, nei quali egli identifica il decesso come un processo frammentario,
che consiste nello spegnimento graduale di diversi organi e di differenti processi: la morte della locomozione, della
respirazione, del cervello. Se la morte è quindi un evento multiplo e disseminato in una sequenza durevole, la stessa
cosa dovrebbe valere per la vita organica. Con Bichat inizia la progressiva divisione del corpo in sistemi e funzioni
separate e specifiche; e una di queste funzioni è il senso della vista.

Dal 1820 al 1840 la fisiologia non aveva un'identità istituzionale formale e si costituiva grazie all'accumulazione di
opere di autori non legati fra loro. In comune c'era una sorta di eccitazione e di meraviglia per il corpo. Ma la fisiologia
diventò il luogo di dibattito per nuove tipologie di riflessioni epistemologiche favorite dalle conoscenze sul
funzionamento dell'occhio e sui processi della visione. Si scopre che la conoscenza è condizionata dal funzionamento
fisico e anatomico del corpo e degli occhi. Negli artisti e negli uomini di genio, il senso della vista è quello che ha il
grado più alto a causa della sua indifferenza rispetto alla volontà.

Schopenhauer trovò ulteriore sostegno alle sue teorie sulla percezione anche grazie al lavoro del medico Hall, che
ha dimostrato come il midollo spinale sia alla base di alcune attività del corpo indipendenti dal cervello. Si afferma
inoltre che la percezione di oggetti belli (come una bella vista) è un fenomeno cerebrale e che esistono metodi fisici in
grado di produrre o modificare determinate percezioni. In base a queste idee, la concezione di Schopenhauer
secondo cui l’osservatore ha un ruolo determinante nella percezione diventa un’illusione, poiché la percezione
dipende in realtà dalla struttura fisica e dal funzionamento dell’organismo umano.
Un importante settore di questa nuova disciplina consisteva nello studio quantitativo dell'occhio in termini di
attenzione e tempi di reazione.

Nelle teorie dominanti della visione, si partiva dall’assunto che i raggi di luce si muovessero in modo tale da
raggiungere la loro destinazione seguendo la via più breve possibile. La camera oscura era un modello basato su
questo concetto, secondo cui un punto di partenza si relaziona a un punto di arrivo. Tuttavia, nel 1821, Fresnel
sostenne che le vibrazioni che compongono la luce sono interamente trasversali. Con questa scoperta, egli contribuì a
smontare la meccanica classica. Per “vibrazioni trasversali” si intendono vibrazioni che si muovono in una direzione
perpendicolare alla direzione di propagazione della luce.

Anche il volume di Muller è un’opera che ha contribuito allo sviluppo del campo della fisiologia (cioè dello studio delle
funzioni del corpo umano). Muller descrive il corpo come un insieme di processi e attività che possono essere
osservati e manipolati in laboratorio, e si sofferma in particolare sulla fisiologia dei sensi, ovvero su come i nostri sensi
ci permettono di percepire il mondo intorno a noi. Muller sostiene che ogni tipo di sensazione è associato a un nervo
specifico e che il nostro sistema fisiologico è suscettibile di illusioni, cioè di fraintendere le percezioni. Inoltre, secondo
Muller, la visione è la facoltà di provare sensazioni che non hanno necessariamente un legame con ciò che vediamo.
In altre parole, il nostro corpo e i nostri sensi possono essere facilmente ingannati.
Negli anni 40 dell’ottocento, Ruskin sostenne che la separazione e la specializzazione dei sensi erano diverse dalla
frammentazione del lavoro umano (cioè dal fatto che le diverse attività lavorative fossero svolte da persone
specializzate in un determinato campo). Egli sosteneva inoltre che la modernità fosse caratterizzata da una cultura
visiva, cioè da una maggiore attenzione alla percezione visiva e da una maggiore dipendenza dalle immagini. Muller
e altri ricercatori avevano già dimostrato che l'occhio poteva essere ridotto alle sue facoltà più essenziali e che era
possibile mettere alla prova i limiti della sua capacità di percezione. In altre parole, Ruskin e Muller erano entrambi
interessati a come l'occhio percepisse il mondo e a come la percezione visiva fosse diventata sempre più importante
nella società moderna.

4° LE TECNICHE DELL'OSSERVATORE

L'immagine postuma (o consecutiva) che si imprime sulla retina è forse il fenomeno ottico più importante che
Goethe analizza nel capitolo sui colori fisiologici della Teoria dei colori. Il filosofo tedesco è senza dubbio colui che
all'epoca approfondisce maggiormente la questione. Per Goethe e per i fisiologi che seguirono i suoi studi, non esiste
qualcosa che si possa chiamare illusione ottica: tutto quello che viene percepito dall'organo oculare sano costituisce
infatti una verità ottica.
L'immagine consecutiva e le sue conseguenti modulazioni costituirono una dimostrazione teorica ed empirica della
visione autonoma, cioè di quell'esperienza ottica prodotta da parte del soggetto e all'interno dell'individuo stesso.
In secondo luogo, la temporalità fu introdotta come un elemento indispensabile dell'osservazione. Agli inizi del 19°
secolo l'atto dell'osservare divenne sempre più legato alla corporeità e la temporalità e la visione diventarono due
fenomeni inseparabili. Nell'800 vi era l'attenzione per le immagini consecutive da parte di Goethe e di altri discorsi
filosofici a lui contemporanei che descrivevano la percezione e la cognizione come processi temporali, dipendenti da
un amalgama dinamico di passato e presente. Per esempio, nella sua prefazione alla Fenomenologia Hegel situava
la percezione all'interno di uno sviluppo temporale e storico; Hegel rifiutava il modello della camera oscura. Goethe e
Hegel definiscono l'osservazione come un gioco e un'interazione di forze e relazioni. Anche altri autori dell'epoca
profilarono l'idea di una percezione come processo continuo.

Le dinamiche dell'immagine consecutiva si possono ritrovare anche in Herbart (successore di Kant). Egli mostra
come il soggetto tenda a evitare e a impedire ogni disorganizzazione e ogni incoerenza interna. All'origine la
coscienza è per Herbart un flusso di elementi caotici che provengono dall'esterno. Egli analizzò particolarmente la
percezione del colore allo scopo di descrivere i meccanismi mentali di opposizione. Sebbene Herbart fosse contrario
alle sperimentazioni empiriche o a qualsiasi ricerca fisiologica, il suo studio preparò le basi per la misurazione della
grandezza delle sensazioni, per cui era necessaria la condizione di un'esperienza sensoriale che si sviluppasse nella
durata. L'immagine consecutiva quindi diventò da un lato un mezzo fondamentale per poter quantificare
l'osservazione, e dall'altro per misurare la durata della stimolazione retinica. L'ubbidienza e l'attenzione erano obiettivi
centrali nella pedagogia di Herbart.
A partire dagli anni 20 dell’ottocento, lo studio quantitativo dell'immagine postuma si poteva ritrovare all'interno di
molte ricerche scientifiche un po' ovunque in Europa. Il fisiologo ceco Purkinje, per esempio, mentre lavorava in
Germania, continuò le ricerche di Goethe sulla persistenza e sulla modulazione delle immagini postume, chiedendosi
in particolare quanto tempo durassero, quali cambiamenti subissero nel tempo e sotto quali condizioni. Formula la
prima classificazione formale di differenti tipi di immagini postume e i suoi disegni a riguardo testimoniavano quanto il
fenomeno della visione soggettiva fosse paradossalmente oggettivo. Il suo approccio era diverso da quello di Goethe,
che registrava le immagini postume nei termini di un tempo vissuto del corpo: Purkinje fu il primo che le studiò come
parte di una globale quantificazione della stimolazione dell'occhio. Egli arrivò a formulare la pima classificazione
formale di differenti tipi di immagini postume. Sebbene utilizzando strumenti imprecisi, egli riuscì a calcolare quanto
tempo impiega l'occhio ad affaticarsi, la pupilla a dilatarsi o a contrarsi, arrivando infine a misurare la forza dei
movimenti oculari: la superficie fisica dell’occhio diviene un campo di informazioni statistiche.

Iniziato alla metà degli anni 20 dell’ottocento, lo studio sperimentale delle immagini consecutive portò all'invenzione di
un numero elevato di tecniche e di dispositivi visivi. Se inizialmente essi erano consacrati agli scopi di osservazione
scientifica, ben presto furono convertiti in forme di intrattenimento popolare. Uno dei primi dispositivi fu il taumatropio
(letteralmente il "girare delle meraviglie"), reso pubblico nel 1825 a Londra dallo scienziato inglese John Paris;
consisteva in un piccolo disco circolare con un disegno su entrambe le facce e con delle corde laterali che
permettevano di farlo girare con un breve movimento delle mani. Il modello che, per esempio, aveva il disegno di un
uccello su un lato e quello di una gabbia dall'altro, nel momento in cui veniva fatto girare, produceva l'immagine
illusoria di un uccello in gabbia (si descriveva la relazione tra l’immagine consecutiva e l’operazione compiuta dal suo
piccolo congegno). Il fenomeno veniva per la prima contestualizzato all’interno di una spiegazione scientifica e in cui
uno strumento corrispondente veniva prodotto per essere venduto come intrattenimento popolare.

Nel 1825 Roget, matematico inglese e autore del primo dizionario di sinonimi e contrari, pubblicò un resoconto
dell'osservazione delle ruote di un treno in movimento viste attraverso le aperture verticali di una barricata. Roget
rilevò l'illusione ottica che si creava in questa situazione, e cioè l'impressione che i raggi delle ruote in movimento
risultassero immobili o che addirittura girassero al contrario. Il posizionamento di un ostacolo che facesse da schermo
tra l’osservatore e l’oggetto, poteva dar luogo allo sfruttamento delle proprietà di durata delle immagine consecutive
allo scopo di creare diversi effetti di movimento.

Il fisico inglese Faraday esplorò dei fenomeni simili, in particolare l'osservazione di ruote che, pur girando molto
rapidamente, danno l'impressione di muoversi piuttosto lentamente. Nel 1831 egli costruì il suo proprio strumento
ottico, più tardi chiamato "ruota di Faraday", composto da due dischi con delle aperture a raggiera montati sullo
stesso asse.

Verso la fine degli anni 20 dell’ottocento anche lo scienziato belga Plateau effettuò numerosi esperimenti sulle
immagini postume. Egli aveva dimostrato che la durata e la qualità dell'immagine postuma variava a seconda
dell'intensità, del colore, del tempo e della direzione dello stimolo. Egli arrivò anche a calcolare il tempo medio della
durata di tale sensazione: circa un terzo di secondo. Plateau propose allora una delle più importanti formulazioni della
teoria della persistenza retinica della visione. "Se una serie di oggetti, che differiscono gradualmente gli uni dagli altri per forma
e posizione, si mostrano all'occhio attraverso una successione di intervalli molto corti e in maniera da risultare sufficientemente
ravvicinati, le impressioni che essi producono sulla retina si legheranno fra di loro senza confondersi, e si crederà di vedere un solo
oggetto che muta progressivamente per forma e per posizione."
Durante i primi anni 30 dell’ottocento, Plateau concepì così il fenachistoscopio (letteralmente "visione ingannatrice"):
lo strumento consisteva in un singolo disco, diviso in 8 o 16 segmenti equivalenti, ognuno dei quali conteneva una
piccola apertura a taglio e una figura che rappresentava una delle posizioni di una sequenza di movimenti. Il lato del
disco con le figure dipinte veniva messo di fronte a uno specchio e l'osservatore restava immobile mentre il disco
veniva fatto girare. Quando una delle aperture passava davanti l'occhio, essa permetteva di vedere per una durata
molto breve la figura sul disco. Questo fenomeno avveniva per ogni fessura e, a causa della persistenza retinica, la
serie di immagini dava l'impressione di un movimento continuo.

Nel 1834 apparvero due congegni simili: lo stroboscopio e lo zootropio, letteralmente "ruota della vita".
Quest'ultimo strumento consisteva in un cilindro ruotante attorno al quale numerosi spettatori potevano assistere
simultaneamente a un'azione simulata, spesso una rappresentazione di una sequenza di danzatori, giocolieri o
acrobati. La caratteristica che in tali studi accomuna tutti questi strumenti è il fatto di non potersi definire ancora come
cinema ma di rappresentarlo allo stato nascente, nella sua forma ancora imperfetta. Per Goethe, Purkinje, Plateau e
altri studiosi le condizioni mutevoli della retina dell'osservatore erano (o si credeva che fossero) l'oggetto stesso della
ricerca. Se da una parte il fenachistoscopio era un oggetto di intrattenimento popolare, dall'altro esso rimandava al
formato degli strumenti scientifici usati da Purkinje, da Plateau e da altri studiosi per gli esperimenti sulla visione
soggettiva.

Il fenachistoscopio forniva fondamento all’affermazione di Benjamin per cui ne XIX secolo la tecnica sottoponeva il
sensorio dell’uomo a un training di ordine complesso. Tuttavia, le nuove tecniche industriali non ebbero un ruolo
preponderante nel formare o determinare un nuovo osservatore: se da una parte il fenachistoscopio era un oggetto di
intrattenimento dall’altro rimandava al formato degli strumenti scientifici di Purkinje e Plateau. La forma con la quale il
nuovo pubblico consumava le immagini di una illusoria realtà era isomorfa agli apparati utilizzati per accumulare
saperi e conoscenze scientifiche sull’osservatore stesso.
Un altro fenomeno fu il diorama, nella sua versione definitiva messa a punto da Daguerre agli inizi degli anni 20
dell’ottocento. Esso era basato da una parte sull'incorporazione di un osservatore immobile all'interno di un apparato
meccanico. La tela circolare o semicircolare del panorama, che permetteva allo spettatore di muoversi in ogni
direzione, rappresentava una rottura con il punto di vista inquadrato della pittura in prospettiva o della camera oscura.
Si era infatti obbligati a girare la testa e gli occhi per avere la possibilità di vedere l'opera intera. Il diorama
multimediale privava l'osservatore di questa autonomia: il pubblico era spesso situato su una piattaforma circolare
che, muovendosi lentamente, permetteva vedute di differenti scene sotto mutevoli effetti di illuminazione. Come il
fenachistoscopio e lo zootropio, il diorama era una macchina composta di ruote in movimento, e faceva dello
spettatore uno degli elementi della macchina stessa.

Bisogna ricordare anche il caleidoscopio, inventato da Brewster nel 1815. Per Baudelaire il caleidoscopio veniva a
coincidere con la modernità stessa, lo vedeva come una macchina tesa a disintegrare l’unità della soggettività e a
disperdere il desiderio in una nuova mutevole e instabile struttura, attraverso la frammentazione di ogni punto di
iconicità e la rottura dell’immobilità della visione. Secondo Marx ed Engels il caleidoscopio aveva una funzione del
tutto diversa. La caratteristica della molteplicità che aveva sedotto Baudelaire, per i due autori tedeschi rappresentava
al contrario un'impostura, un artificio basato sulla caratteristica illusoria degli specchi. La struttura del caleidoscopio è
bipolare e il caratteristico effetto della dissoluzione che provoca lo scintillio è il risultato di un semplice meccanismo di
riflessione binaria: esso consiste in due specchi piatti della lunghezza pari a quella del tubo e collocati all'interno di
esso, inclinati a un angolo di 60 gradi. Secondo Brewster, la motivazione che lo spinse alla creazione del
caleidoscopio sta in due caratteristiche precise dello strumento: la produttività e l'efficienza. Lo studioso scozzese lo
considerava come un mezzo meccanico per riformare l'arte.

La forma più significativa di immaginario visivo nel corso del 19° secolo fu lo stereoscopio. Si è spesso confusa
l'esperienza di questa forma visiva con il fenomeno stesso della fotografia ma in realtà la sua struttura concettuale e
le circostante storiche della sua invenzione sono profondamente indipendenti da essa. Le origini dello stereoscopio
sono legate agli studi degli anni 20 e 30 dell’ottocento dedicati alla visione soggettiva e più generalmente all'ambito
della fisiologia del 19° secolo.

Esso risulta inseparabile dal dibattito degli inizi dell’ottocento intorno alla percezione dello spazio; lo spazio era una
forma innata o era piuttosto qualcosa di riconoscibile attraverso il progressivo apprendimento di alcuni parametri? (si
riprendeva così il problema di Molyneux). Un’altra domanda fondamentale a cui si cercava di dare risposta era: dato
che l’osservatore percepisce un’immagine differente per ciascuno degli occhi, per quale mezzo egli arriva a ridurre la
coppia di figure così prodotta a un’immagine singola? Le conclusioni alle quali arrivò Wheatstone nel 1833
derivarono piuttosto dalla misurazione del parallasse binoculare, cioè del grado di scarto nell'angolo formato dagli
assi di ciascuno degli occhi quando si fissano su uno stesso punto. Egli segnò una rottura importante rispetto alle
precedenti spiegazioni del corpo binoculare. La forma dello stereoscopio è proprio legata ad alcune delle scoperte
iniziali di Wheatstone e alle sue ricerche riguardanti l'esperienza visiva di oggetti relativamente vicini agli occhi. Ma
egli esamina più accuratamente il caso di quegli oggetti che sono così vicini all'osservatore da indurre angoli degli
assi ottici differenti. Questo è ciò che lega lo stereoscopio agli altri strumenti sorti intorno al 1830, come il
fenachistoscopio. La relazione dell'osservatore con l'oggetto non è una relazione d'identità ma piuttosto
un'esperienza di immagini disgiunte o divergenti.

Brewster conferma che in realtà non si può parlare di immagine stereoscopica, ma piuttosto di apparizione magica.
Nel concepire lo stereoscopio, Wheatstone voleva simulare la presenza effettiva di un oggetto sulla scena e non
scoprire un altro modo di far vedere una stampa o un disegno. Egli affermava che la pittura fosse una valida forma di
rappresentazione ma solo per immagini di oggetti posti a grande distanza. Tuttavia egli dichiarava che fino a questo
punto, nel corso della storia, era stato impossibile per un artista dare una rappresentazione fedele di un oggetto solido
visto da vicino. Quello che lo scienziato inglese cercava era quindi una completa equivalenza fra l'immagine
stereoscopica e l'oggetto. L'invenzione dello stereoscopio evidenziò per Wheatstone non solo le mancanze della
pittura, ma anche quelle del diorama. A suo avviso, il diorama era infatti troppo legato alla tecnica pittorica, che
produceva i suoi effetti illusori solo nel caso di oggetti rappresentati a una certa distanza. Nel corso del 19° secolo
nessun'altra forma di rappresentazione aveva unito così profondamente la dimensione reale con quella ottica.

Non sapremo mai realmente ciò che lo stereoscopio rappresentasse per uno spettatore del 19° secolo. L'effetto di
realtà dello stereoscopio era molto variabile. Alcune immagini stereoscopiche infatti producono un effetto
tridimensionale minimo o nullo. Effetti stereoscopici pronunciati dipendono infatti dalla presenza di forme o di oggetti
consistenti collocati in primo piano o in piano medio. La profondità di queste immagini è fondamentalmente diversa da
quella che può essere data dalla fotografia o dalla pittura. L'osservatore percepisce i singoli elementi come forme
piane e isolate, allineate più o meno vicino (organizzazione planare). Gli occhi dell'osservatore davanti a un'immagine
stereoscopica non attraversano mai tale immagine come una piena apprensione della tridimensionalità dell'intero
ambiente, ma in termini di esperienze esperienze localizzate di aree separate.

Lo stereoscopio come mezzo di rappresentazione è osceno; esso frantuma la relazione scenica fra l'osservatore e
l'oggetto. Il suo funzionamento dipende dalla priorità visiva dell'oggetto più vicino all'osservatore e dall'assenza di
ogni mediazione fra l'occhio e l’immagine. Una relazione che è connaturata alla struttura teatrale della camera
oscura. È il compimento di quello che Walter Benjamin vedeva come elemento centrale della cultura visiva della
modernità. Nel corso del 19° secolo lo stereoscopio diventa sinonimo di immagini erotiche o pornografiche. Si
suppone che verso la fine del 19° secolo le vendite di questo strumento ottico diminuirono proprio a causa del fatto
che esso sarebbe stato legato a soggetti giudicati indecenti. La relazione che l'osservatore ha verso l'immagine non è
più quella verso un oggetto quantificato rispetto a una precisa posizione nello spazio, ma piuttosto verso due
immagini dissimili la cui posizione simula la struttura anatomica del corpo dell'osservatore.

Con lo stereoscopio di Wheatstone per vedere le immagini con questo strumento, l'osservatore posizionava i suoi
occhi direttamente di fronte a due specchi piani disposti a formare un angolo di 90°. Le immagini da vedere erano
collocate su due pannelli sistemati ai lati dell'osservatore, risultando così completamente separate l'una dall'altra. Il
modello di Wheatstone metteva pienamente in mostra la natura allucinatoria e artificiale della visione. Lo
stereoscopio richiedeva la vicinanza e l'immobilità del corpo dell'osservatore. A differenza dello stereoscopio di
Brewster questo modello rendeva evidente che c’era una separazione tra l’esperienza visiva e la sua causa. Questo
modello mostrava che la visione tridimensionale era artificiale e non ricreava l’illusione di rilievo o profondità in modo
realistico. L’osservatore era responsabile della fusione delle immagini per creare l’illusione tridimensionale.

Canguilhem fa un'importante distinzione fra l'utilitarismo del 18° secolo, che derivava la sua idea di utilità dalla
definizione dell'uomo come creatore di strumenti, e lo strumentalismo delle scienze umane del 19° secolo.
L'osservatore passivo dello stereoscopio e del fenachistoscopio viene in realtà trasformato in un produttore di forme
di verosimiglianza grazie a delle facoltà psicologiche precise. Una delle principali caratteristiche di questi strumenti
ottici inventati tra il 1830 e il 1840 è la visibilità della loro struttura di funzionamento e la forma di assoggettamento
che essi implicano. Questi dispositivi facevano più che altro riferimento all'interazione funzionale fra il corpo e la
macchina, piuttosto che agli oggetti esterni, mettendo in secondo piano la qualità dell'illusione. Perciò il declino e la
scomparsa dello stereoscopio e del fenachistoscopio segnalano che queste forme iniziali non corrispondevano più ai
bisogni e agli usi dell'epoca. Essi non erano abbastanza fantasmagorici; la fantasmagoria era in realtà il termine per
indicare uno specifico tipo di spettacolo di lanterna magica tra il 1790 e i primi anni dell'800, in cui le immagini erano
proiettate da dietro affinché non ci si accorgesse delle lanterne che le generavano. Adorno usava questo termine per
indicare l’occultamento della produzione sotto l’apparenza di prodotto. Il suo apparire, in quanto incompleto, solleva
pretese di appartenenza all’essere. Ma è proprio questo occultamento che Brewster spera di superare con il suo
caleidoscopio e stereoscopio. Sperava che la diffusione delle idee scientifiche avesse indebolito la possibilità degli
effetti fantasmagorici, teorizzando uno stretto collegamento tra la storia della civilizzazione e lo sviluppo delle
tecnologie di illusione e di apparizione. La fotografia aveva abolito l’inseparabilità tra osservatore e camera oscura, è
intermediario trasparente e incorporeo tra osservatore e mondo, si produce come un dispositivo indipendente dallo
spettatore.

5° ASTRAZIONE VISIONARIA

A partire dall'inizio dell'800 la rigidità della camera oscura, il suo sistema ottico lineare, le sue posizioni fisse, la sua
identificazione fra percezione e oggetto, risultavano essere tutte caratteristiche troppo poco flessibili di fronte a
un'organizzazione politica e culturale che richiedeva rapide mutazioni. La visione non era più subordinata ad
un’immagine esteriore del vero o del giusto e l’occhio non doveva più sostenere l’idea di un mondo reale. Fu solo
all'inizio dell'800 che il modello giuridico della camera oscura perse il suo primato di autorità. A partire dal 1840 il
processo della percezione era diventato, in modi diversi, un oggetto fondamentale della visione.

In nessun altro caso come nell'opera tarda del pittore inglese Turner possiamo trovare esposta così esplicitamente la
rottura con il modo di percezione della camera oscura. I dipinti eseguiti da Turner negli ultimi anni 30 e negli anni 40
dell'800, sono sintomatici di un'irrevocabile perdita della fonte di luce fissa. La percezione di un quadro di Turner si
collega sempre all'interno di un'evitabile temporalità. La pienezza sostanziale che egli dava al vuoto fra gli oggetti e la
sua sfida all'integrità dell'identità delle forme, veniva a coincidere con un nuovo ramo della fisica che si sviluppava in
quegli anni: la scienza dei campi e la termodinamica.

Il nuovo statuto dell'osservatore indicato da Turner è forse analizzabile se si tiene conto della famosa relazione che
questo pittore intrattenne con il sole. Il sole come lo presupponeva la camera oscura (un sole che non poteva che
essere indirettamente ri-presentato all'occhio umano) fu trasformato dal nuovo statuto dell'artista-osservatore. Nella
pittura di Turner vengono meno tutte le mediazioni che in passato mettevano a distanza e proteggevano l'osservatore
dalla brillantezza pericolosa del sole. Sono proprio figure esemplari come Keplero o Newton che si sono servite della
camera oscura precisamente per evitare di guardare direttamente il sole mentre cercavano di studiarlo o di acquisire
conoscenze sul tipo di luce che propagava.

In uno dei più grandi lavori dell'opera tarda di Turner, Luce e colore (la teoria di Goethe) del 1843, l'immagine del
sole, che aveva già dominato tanti quadri di Turner, diventa, in questo caso, una sorta di fusione fra l'occhio e il sole.
Se la struttura circolare di questo quadro e di altri dello stesso periodo imitano la forma del sole, essi corrispondono
anche alla forma della pupilla dell'occhio. Attraverso l'immagine postuma il sole si rende suscettibile di appartenere al
corpo, e il corpo, a sua volta, gli si sostituisce come fonte stessa dei suoi effetti.

Durante il 19° secolo, Turner non fu il solo ad avere una relazione visionaria con il sole. Brewster, Plateau e Fechner,
ebbero tutti la vista severamente danneggiata per aver fissato a lungo il sole durante i loro esperimenti sulle immagini
consecutive. Plateau, l'inventore del fenachistoscopio, rimase addirittura cieco a vita. Il loro lavoro di ricerca spesso li
portava a fissare direttamente il sole; non solo essi scoprirono che il corpo è il luogo e il produttore dei fenomeni
cromatici, ma questa scoperta permise loro di concepire anche un'esperienza ottica astratta.

Nel 1846 Turner portò a compimento il quadro intitolato L'angelo in piedi nel sole: una tela quadrata delle stesse
dimensioni di Luce e colore del 1843. La figura del vortice si modula in un puro gorgo sferico di luce dorata. Al centro
di questa opera c'è la figura di un angelo alato che impugna una spada verso l'alto. L'utilizzo di questo simbolo indica
la distanza di Turner dal paradigma della camera oscura. Il ricorso alla figura dell'angelo è un segno
dell'inadeguatezza dei mezzi convenzionali per rappresentare l'astrazione allucinatoria dell'intensità della sua
esperienza ottica. Per il pittore, l'angelo diventa un riconoscimento simbolico. La sua opera si può definire sublime.
Il maggior risultato di Fechner fu quello di concepire quella che venne poi chiamata legge di Fechner (1860): si tratta
di un'equazione matematica che esprime una relazione funzionale fra la sensazione e lo stimolo (una relazione
logaritmica). Uno dei punti centrali del lavoro di Fechner era la possibilità di stabilire delle unità di sensazione
misurabili, dei gradi di incremento quantificabili che rendessero la percezione umana calcolabile e quindi produttiva.
La percezione umana divenne una sequenza di grandezze d'intensità variabile ed era anche temporale: la
sensazione dell'osservatore dipendeva sempre dalla sequenza di stimoli precedente. Questa temporalità è molto
diversa da quella che si trova in Turner. La visione poteva essere misurata, ma ciò che più era significante
nell’equazione di Fechner era la loro funzione di omogeneizzazione: queste relazioni matematiche rappresentava un
mezzo per rendere governabile il soggetto della percezione, di prevederlo, renderlo produttivo e metterlo in
consonanza con tutti gli altri ambiti del processo di razionalizzazione. La visione, come gli altri sensi, era descrivibile
in termini di grandezze astratte e scambiabili. La visione è ora una questione di differenze di quantità, di esperienze
sensoriali che erano più o meno forti, più o meno deboli.

Nel XIX secolo Simmel avrebbe sostenuto che le ipotesi di Fechner erano un mezzo per esprimere come
l’esperienza sensoriale fosse diventata prossima e persino coincidente con un terreno culturale ed economico
dominato dai valori di scambio.
Simmel prese da Fechner una vaga forma di calcolo per dimostrare come i valori di scambio fossero equivalenti alle
quantità di stimolazioni fisiche. L’osservatore è concepibile come un elemento nel flusso dell’inesorabile mobilità dei
valori.

Il corpo, che era stato un elemento neutrale o invisibile della visione, rappresentava ormai una concreta densità nella
quale si cercava e si otteneva il sapere sull’osservatore. Una volta che la visione venne collocata nella soggettività
dell’osservatore due percorsi si aprono: uno verso le molteplici affermazioni della sovranità e dell’autonomia della
visione derivate dai nuovi poteri conferiti al corpo; l’altro si dirigeva verso la crescente conformazione e la progressiva
regolazione dell’osservatore e si orientava verso forme di potere che dipendevano dall’astrazione e dalla
formalizzazione della visione. Questi percorsi spesso si intersecano e si sovrappongono.

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