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INTRODUZIONE
Il termine “immagine” definisce una pluralità di fenomeni e implica funzioni diverse attraverso cui
l’uomo interagisce visivamente con l’ambiente. Seppur diverse, percezione, immaginazione e
rappresentazione sono strettamente intrecciate. A ciascun livello, l’immagine è il risultato di
“operazioni di selezione” poiché il punto di vista adottato produce una visione particolare che è il
risultato del lavoro interpretativo della mente applicato agli input esterni. Definire le immagini
come il risultato selettivo di un’interpretazione del mondo significa considerarle dei “segni”. Le
immagini sono segni di una visone particolare e sono studiate dall’antropologia in quanto tali.
Interpretazione e rappresentazione costituiscono, infatti, funzioni antropologiche fondamentali. La
percezione e la rappresentazione sono due momenti essenziali dell’insieme di attività umane note
come “cultura”.
Per marcare la differenza tra comunicazione verbale e comunicazione visiva, alcuni semiologi
fanno riferimento alla classificazione dei segni di Pierce:
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Per concludere l’introduzione, è importante focalizzarsi brevemente su due argomenti che non sono
stati sviluppati nel volume:
In conclusione, oggi la vocazione transculturale del cinema e dei media sta incrementando
sempre più la produzione di film e comunicazioni audio-visive al di fuori del mondo
occidentale. In particolare, la speranza è che il cinema e le immagini possano contribuire a
rendere più profondo il dialogo tra le culture.
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1. VISIONE E CULTURA
Fin dalle origini dell’antropologia, la fotografia e il cinema vengono utilizzati con lo scopo di
raccogliere documenti visivi delle realtà etnologiche, ma solo negli anni Trenta comincia a farsi
strada l’idea di sviluppare una vera e propria antropologia visiva. Bateson e Mead saranno i primi a
sviluppare un progetto antropologico visuale, studiando i comportamenti non verbali tramite
l’utilizzo sistematico e massiccio di tecniche di registrazione audio-visiva. Bisognerà, però,
attendere gli anni Settanta del Novecento perché l’espressione “antropologia visiva” inizi a essere
usata consapevolmente. A partire dagli anni Novanta, la riflessione comincia a svilupparsi nel senso
di un importante ampliamento della prospettiva teorica. L’antropologia visiva formalizza una prima
definizione di se stessa nel corso di un convegno tenutosi a Chicago nel 1973, da cui verrà tratto il
volume “Principles of Visual Anthropology”, a cura di Hockings. Si possono individuare due
ondate che hanno dato valore diverso all’antropologia visiva:
Naturalmente, esistono tante culture visive quante sono le culture stesse e ciascuna da forma
all’ambiente in cui una determinata società vive: le culture “formano” e “deformano” corpi, oggetti
e paesaggi secondo modelli dati attraverso decorazioni, segni e colori. In quest’ottica, le culture
sono insiemi di segni e hanno, tra gli obiettivi principali, quello di trasformare la natura secondo
modelli specifici, dotati di una forte valenza comunicativa. Questa “cultura visiva” è un insieme di
segni visibili costruito dall’uomo in quanto membro della società. Thompson ha studiato la cultura
visiva degli Yoruba della Nigeria e ha rilevato che i concetti di visibilità, luminosità, forma e linea
risultano fondamentali nella cultura yoruba. Le linee tracciate secondo precisi stilemi si trovano
sulle sculture, sugli oggetti e sui visi, dove vengono eseguiti tramite scarnificazione. Nella lingua
yoruba, la parola per “civilizzazione” è ilaju, che letteralmente significa “un volto segnato da linee”.
È evidente che, in questa concezione, l’idea di cultura è strettamente legata all’intervento estetico.
Il mondo e le culture risultano visibili unicamente in quanto percepiti da esseri dotati di organi
sensoriali preposti alla visione, quindi la visibilità è una qualità che emerge dalla relazione tra il
mondo fisico, dotato di caratteristiche che lo rendono percepibile a determinati organi di senso, e i
veggenti. L’antropologia dei sensi ha il merito di aver messo in discussione la credenza
nell’assoluta naturalità della percezione sensoriale, luogo comune che pervade la cultura
occidentale. Questo atteggiamento, definito “assolutismo fenomenologico”, accetta acriticamente
l’evidenza percettiva senza riconoscere il carattere mediato dalla percezione, che fin dal suo
originarsi viene invece sottoposta a inferenze individuali e culturali produttrici di significati. Fabian
denuncia la tendenza “visualista” insita nel pensiero occidentale che sembrerebbe essersi rafforzata
con la diffusione della scrittura attraverso la stampa. Per Fabian, il “visualismo” costituisce una
tendenza importante del pensiero occidentale, che gli conferisce un particolare stile cognitivo. La
centralità e la presunta oggettività della percezione visiva sono temi cruciali nella messa a punto del
metodo etnografico.
Fotografie e filmati, impiegati già nelle prime spedizioni etnologiche alla fine dell’Ottocento, erano
considerati testimonianze inconfutabili, in particolare grazie al lavoro di Malinowski. Tuttavia, per
l’antropologo polacco, l’obiettivo ultimo della ricerca sul campo è quello di afferrare il punto di
vista dell’indigeno, ossia rendersi conto della sua visione del suo mondo. L’antropologo non deve
solo osservare i costumi nativi, ma aspirare a cogliere la visione che i nativi stessi hanno del loro
mondo. Per raggiungere l’obiettivo indicato da Malinowki, è indispensabile riconoscere l’influenza
esercitata dalla cultura della visione e dotarsi di strumenti concettuali idonei ad analizzarla.
La messa a punto di una teoria delle culture visive richiede una revisione del ruolo svolto dalla
visione nella percezione, utile anche a bilanciare l’oculocentrismo occidentale attraverso il
riconoscimento della relatività della visione e delle gerarchie sensoriali presenti in diverse culture.
Di conseguenza, studiare le culture visive significa spostare l’attenzione dagli oggetti della visione
alle modalità di costruzione culturale dello sguardo e dei suoi prodotti.
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1.3. Come vediamo?
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1.4. L’immagine come selezione e rappresentazione
La teoria tradizionale della percezione, detta “atomistica”, descriveva la percezione visiva secondo
il modello della camera oscura. Le immagini si sarebbero formate a partire da una molteplicità di
punti luminosi proiettati sulla retina e di qui inviati al cervello, che avrebbe ricomposto tali “atomi”
visivi in immagini dotate di senso grazie a un’attività di tipo cognitivo. In quest’ottica, la
percezione è un processo passivo a cui la mente deve successivamente conferire significato.
La psicologia della forma elaborata dalla Gestalt di Berlino nei primi anni del Novecento si oppone
a questa prospettiva considerando la percezione visiva come un processo “costruttivo”: se gli
elementi puntiformi, insignificanti se percepiti isolatamente, assumessero un senso solo grazie al
pensiero, gli animali non sarebbero in grado di riconoscere gli oggetti e orientarsi nel mondo.
Attraverso un metodo sperimentale, fondato sulla presentazione di immagini standardizzate a
campioni di spettatori in una situazione di “laboratorio”, gli psicologi della Gestalt proposero alcuni
esperimenti che consentirono loro di dimostrare che la percezione funziona, almeno in parte,
autonomamente dalla cognizione: essa si attiva secondo i meccanismi che le sono propri per
comprendere e archiviare le forme fondamentali del mondo fenomenico. Ciò è dimostrato, ad
esempio, dal fatto che uguali stimoli visivi possano dar luogo a percezioni differenti. Gli
esperimenti mostrano chiaramente come una stessa immagine possa essere percepita in modi
diversi. Il mondo fisico non è, dunque, percepito del tutto fedelmente: la percezione sembra
costruirsi, almeno in parte, in maniera autonoma rispetto agli stimoli visivi emessi dall’ambiente.
Secondo la Gestalt, la percezione scaturisce da un processo di costruzione di immagini che rispetta
alcune regole fondamentali, una sorta di “Grammatica del Vedere”. Ma qual è l’origine di queste
regole? I teorici della Gestalt ipotizzarono che si trattasse di regole universali nella specie umana e,
in quanto tali, da considerarsi innate o dettate da una razionalità comune all’intero genere umano.
Tale ipotesi, tuttavia, contrasta con la maggior parte delle teorie antropologiche della percezione.
Come vengono prodotte le interpretazioni che conferiscono significato agli input visivi? Se l’occhio
registra e seleziona alcuni stimoli visivi, tali stimoli vengono poi rielaborati dal cervello e infine
interpretati alla luce di complesse reti di significati culturali. La mente, quindi, deve poter
riconoscere gli stimoli che le giungono per poterli inserire in una rete di significati socialmente
condivisi. Secondo Faeta, il riconoscimento avviene attraverso due meccanismi fondamentali:
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Tuttavia, il problema della formazione delle percezioni risulta irrisolto: secondo Gibson, sia nel
caso delle teorie associazionistiche, sia in quello delle teorie della Gestalt, è sempre presente il
rischio di delineare un sistema chiuso e unidirezionale. Separando artificialmente percezione e
cognizione, la teoria non riesce a rendere conto appieno della funzione fondamentale della
percezione nel rendere possibile la nostra vita in un dato ambiente. È la percezione a fondare la sua
consapevolezza di sé e del mondo. Per definire meglio questo complesso meccanismo, Gibson
introduce il concetto di “affordance”, un neologismo derivante da “to afford”, che significa “fornire
qualcosa”, “essere in grado di fare” o “sopportare” qualcosa. Il concetto di affordance connette
indissolubilmente gli elementi dell’ambiente che vengono percepiti con l’utilizzo che di essi è in
grado di fare il percipiente. ESEMPIO: una strada offre un’affordance per la locomozione e, come
tale, è percepita in relazione alla sua funzione spaziale e al suo valore per l’individuo che ne fa uso.
Insieme al linguaggio, la percezione funzionale è uno dei pilastri della vita sociale.
Per approfondire il tema del rapporto tra percezione e cognizione, si usa l’esempio concreto della
percezione dei colori, utile per illustrare l’interazione tra percezione, linguaggio e cultura.
L’identificazione dei colori fondamentali (rosso, verde e blu) sembra essere determinata non solo
dalla connessione tra occhi e cervello, ma anche dalle categorie linguistiche e dalle associazioni
simboliche che ciascuna cultura utilizza per organizzare funzionalmente il continuum cromatico in
un numero ridotto di unità discrete. La visione dei colori ha costituito un argomento di studio
classico per filosofi e psicologi, cui l’antropologia ha contribuito in maniera sostanziale,
introducendo dati transculturali utili a mettere in luce il ruolo fondamentale della cultura in questo
ambito. Già Rivers nel 1901 aveva ipotizzato che gli abitanti delle isole Murray nello stretto di
Torres fossero relativamente insensibili a certi colori, in particolare il blu per via di una mancanza
di interessi culturali nei confronti di questo colore. Cinquant’anni dopo, Conklin, studiando il caso
degli Hanunoo delle Filippine, riscontrò che questa popolazione presentava un sistema di termini
per i colori basato su associazioni come luminoso/non luminoso. In questo modo, Conklin dimostra
come le pratiche culturali condizionino la classificazione dei colori: tra gli hanunoo, gli uomini
percepiscono più prontamente il grigio e il rosso, legati alla caccia, le donne la gamma dei blu,
associati alla tintura dei tessuti. La percezione cromatica sarebbe quindi legata al lavoro. Segall,
Campbell e Herskowitz continuarono gli studi dimostrando l’ effettiva influenza della cultura nella
percezione visiva attraverso alcuni test sperimentali sulle illusioni ottiche somministrati in Africa,
Filippine, Europa e Nord America.
Tornando alla percezione dei colori, tra il ’67 e il ’68, Berlin e Kay effettuarono una ricerca per
verificare se la visione dovesse essere considerata un fenomeno culturale o se essa sia regolata da
caratteristiche universali. Analizzando i “basic color terms” in venti lingue, riscontrarono la
presenza di tre leggi universali:
Nella sua opera “Il gesto e la parola” del 1964, il paleontologo francese Leroi-Gourhan ricostruisce
le tappe dello sviluppo dell’estetica e del simbolismo nella storia evolutiva dell’umanità. Il processo
di intellettualizzazione, cioè sensazioni che progressivamente diventano percezioni, si affianca a un
processo di particolarizzazione che Leroi-Gourhan definisce “etnica”. Grazie all’evoluzione della
specie in homo sapiens, le forme e le prime raffigurazioni iniziano a distribuirsi sul pianeta secondo
modelli specifici non identificabili. La percezione estetica e il linguaggio sono quindi legate
all’evoluzione dell’uomo e la raffigurazione visiva si è sviluppata parallelamente all’emergere del
linguaggio e dell’utensile.
L’estetica dovrebbe essere centrale nello studio dell’etnologia perché fornisce strumenti di
comprensione e rappresentazione non verbale utili per studiare i diversi stili etnici.
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2. LA FOTOGRAFIA ANTROPOLOGICA E LA NASCITA DELLA RICERCA
ETNOVISIVA
Le diverse prospettive scientifiche che hanno studiato la visione si sono infine accordate nel
descriverla come un processo selettivo. Nonostante la fiducia tipicamente occidentale
nell’oggettività della visione, la profonda influenza esercitata su di essa dalla cultura è oggi
universalmente riconosciuta e impone di relativizzare i fenomeni percepiti tramite la vista. Allo
stesso modo, le diverse tecnologie utilizzate per riprodurre le percezioni si fondano su una serie di
scelte, che danno luogo a rappresentazioni soggettive. Tra le tecniche in grado di riprodurre
meccanicamente le immagini, la più antica è la fotografia. La tecnica fotografica si sviluppa a
partire da due procedimenti tecnici fondamentali:
La camera oscura era già conosciuta in Europa durante il Rinascimento e veniva impiegata a fini
artistici e scientifici, ma solo con la scoperta chimica di supporti fotosensibili si cominciò a
riprodurre tecnicamente l’immagine ottenuta nella camera oscura.
Le “figure”, seguendo la terminologia di Gibson, possono essere riprodotte attraverso tre tecniche
fondamentali:
Le raffigurazioni procedono a selezioni prodotte sia dalla natura stessa di queste tecnologie (colori
sulla tela, reagenti chimici, numero di pixel), sia dalle scelte e dai particolari interessi dell’autore.
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2.2. Collezionare immagini
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D’altro canto, la teatralità delle espressioni riprodotte suggerisce un altro obiettivo perseguito da
Darwin: persuadere il pubblico della veridicità delle sue affermazioni facendo leva sull’effetto
convalidante che la fotografia sembrava garantire. Nella prospettiva della vastissima catalogazione
di cui si è già parlato, durante la seconda metà dell’Ottocento divennero importanti le cosiddette
“immagini antropometriche”, utilizzate per misurare le proporzioni anatomiche degli appartenenti a
diverse culture. Lo studio delle caratteristiche anatomiche e somatiche era finalizzato alla
costruzione di una teoria evolutiva delle “razze” e delle relative caratteristiche culturali e
intellettive, di cui le fotografie dovevano fornire l’evidenza sperimentale.
Il principale ambito di sviluppo della fotografia etnografica fu quello delle spedizioni sul campo. La
prima spedizione etnografica, che segna simbolicamente la nascita dell’antropologia moderna, è
quella allo Stretto di Torres del 1898. Si trattò di una spedizione interdisciplinare che comprendeva
studiosi di varia formazione appartenenti all’Università di Cambridge; tra gli altri, c’erano il
biologo convertito all’antropologia Haddon e gli etnologi Myers, Rivers e Seligman. L’obiettivo
della spedizione era raccogliere dati e informazioni utili sulla vita dei nativi e per raggiungerlo
furono impiegate diverse tecniche: raccolta di interviste, di genealogie, di informazioni etnografiche
e di specimina di varia natura, tra cui fotografie e riprese relative a rituali e usanze locali. La
motivazione principale che spinse Haddon a condurre la ricerca in questo modo fu proprio la
necessità di inserire a pieno titolo l’antropologia nelle scienze naturali e l’apparente neutralità del
mezzo meccanico sembrava soddisfare la richiesta tipicamente positivista di dati oggettivi.
Dovendo fornire una verità, il fotografo orientava i suoi sforzi verso la standardizzazione delle
scelte raffigurative.
A partire dalla spedizione allo Stretto di Torres, la fotografia verrà sempre più spesso utilizzata
nella ricerca sul campo. Malinowski, il teorico dell’osservazione partecipante, realizzerà una
considerevole raccolta di fotografie su vari aspetti della cultura delle isole Trobriand, che sarebbero
sfuggiti a un’analisi più tradizionale. Se l’obiettivo centrale del metodo messo a punto da
Malinowski consisteva nell’osservazione e nella documentazione della vita quotidiana, l’impulso a
fotografare contribuì sensibilmente all’enucleazione di temi “imponderabili”, ossia tutte quelle
azioni della vita quotidiana che restano verbalmente inespresse e ineffabili.
Come Malinowski, altri grandi antropologi si sentirono a loro volta attratti dalla fotografia. Per
citare i più significativi:
Evans-Pritchardt, che inserì un certo numero di immagini suggestive nella trilogia sui
Nuer;
Lévi-Strauss, che nel 1994 ha pubblicato un volume fotografico intitolato “Saudades do
Brasil”, che raccoglie alcune delle sue fotografie sudamericane.
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2.5. Gregory Bateson e Margaret Mead: una ricerca etnovisiva
Come si è detto, la fotografia e il cinema sono stati impiegati dall’antropologia già dalla metà
dell’Ottocento, ma mancava ancora un’adeguata teoria della visione e delle riproduzioni tecniche.
Saranno Bateson e Mead i primi a prodursi in una riflessione esplicita sull’uso delle immagini in
antropologia, mettendo a punto un metodo fondato sulla raccolta di fotografie e sequenze
cinematografiche e applicandolo a una ricerca etnovisiva vera e propria. Tra il 1929 e il 1936, la
coppia metterà insieme migliaia di fotografie su Bali, una cui selezione sarà presentata nel ’42 nel
volume “Balinese Character”. Oltre alle foto, produrranno una serie di riprese fotografiche tra Bali e
la Nuova Guinea, successivamente montate, sonorizzate e commentate dalla Mead in una serie di
sei brevi film, ciascuno dei quali affrontava un tema specifico in termini molto semplici (“Bathing
Babies in Three Cultures” è l’esplicativo titolo di uno dei sei film). Dall’insieme di queste
esperienze e dalle riflessioni che ne scaturirono nacque il progetto di un’antropologia visiva.
Quando si conobbero e sposarono, la Mead era già famosa per le sue ricerche sull’adolescenza nelle
isole Samoa e in Nuova Guinea, mentre Bateson aveva condotto, sempre in Nuova Guinea, uno
studio sul Naven, un rituale di travestimento degli Iatmul. Commentando l’opera che nacque dal
lavoro di Bateson, Marcus lo definì un “saggio mancato”: pensato come un resoconto etnografico
classico, fin dalle prime pagine si discosta da tale modello per una particolare tensione
epistemologica e riflessiva; Bateson appare, infatti, diviso da un doppio vincolo: da un lato, la
tradizione empirista inglese che lo aveva formato, dall’altro i profondi interessi epistemologici che
lo muovevano. In “Naven”, l’autore introduce l’importante concetto di Ethos, cioè il background
emotivo che muove gli attori sociali. Per Bateson, l’Ethos emerge in moltissime situazioni: il
portamento delle persone quando camminano o lavorano, le decorazioni del corpo, le cerimonie,
ecc…, tutti aspetti della vita capaci di veicolare sentimenti ed emozioni. Era un argomento piuttosto
nuovo per l’antropologia, ma Bateson sosteneva che fosse la causa attiva della cultura e che andasse
studiato per comprenderla completamente. In “Naven”, la ricerca dell’Ethos è affidata alle
fotografie, che diventano strumenti di indagine per cogliere gli aspetti emotivi che tendono a
sfuggire alla descrizione verbale. Nonostante i soggetti fossero spesso in posa e non ritratti in
atteggiamenti spontanei, anche questo risulta utile alla ricerca: il soggetto cerca di interpretare se
stesso.
A Bali, Bateson e Mead intraprendono una ricerca basata sistematicamente su riprese fotografiche e
cinematografiche finanziata dal comitato per lo studio della dementia precox, oggi nota come
“schizofrenia”. L’importanza della transe e di comportamenti dissociativi nella cultura balinese
suggeriva, infatti, la possibilità di uno studio trasversale di questa patologia.
Durante la seconda guerra mondiale, Bateson tentò qualcosa di nuovo: condusse un’analisi
etnografica a distanza partendo da “Hitlerjunge Quex”, un film di propaganda nazista per applicare
le tecniche antropologiche all’esame di un film di finzione. “Hitlerjunge Quex” non parla del
mondo reale, ma dell’ideologia che animava l’autore; tuttavia, il film non è il risultato
dell’immaginazione di un solo individuo, bensì un mito creato da e per un particolare gruppo
umano. La concezione di Bateson è ora più raffinata rispetto ai tempi di “Naven” e di “Balinese
Character”, poiché, a partire dall’analisi delle immagini e del montaggio, sottolinea le intenzioni
comunicative implicite in essi, facendo emergere gli elementi comunicativi della cultura che ha
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prodotto il film. Sarà proprio a partire da questo tipo di analisi che si svilupperà lo studio delle
forme comunicative.
Nonostante i contributi di Bateson e Mead negli anni Trenta, la fotografia è ancora poco utilizzata
tra gli antropologi, mentre il cinema antropologico e l’antropologia dei media suscitano un interesse
sempre maggiore. Le immagini fisse possono essere utilizzate in varie fasi della ricerca: lavorare
con le fotografie può significare sia avvicinarsi al campo attraverso la mediazione dell’apparecchio
fotografico, sia lavorare su foto altrui per ricavarne dati e significati. Accanto all’analisi di
fotografie preesistenti, metodo che sta prendendo piede da una ventina d’anni, l’antropologia visiva
ha sempre insistito sull’uso diretto della fotografia da parte degli etnografi. Tra gli autori che hanno
teorizzato metodi di indagine fondati quasi esclusivamente sulla fotografia troviamo Collier e
Collier jr, che descrivono schematicamente la ricerca etnografica in una successione di tre fasi:
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2.7. Interpretazione, elicitazione e restituzione
L’ultimo punto che il capitolo affronta è la condivisione della visione di film e fotografie con i
soggetti studiati. Oggi l’antropologia aspira a negoziare significati all’interno di un circuito di
reciprocità interpretativa, che può aprire prospettive interessanti per l’analisi transculturale della
visione. In questo senso, fin dagli anni Settanta, si è sviluppato un dibattito sulla restituzione delle
immagini antropologiche ai soggetti fotografati e filmati, i quali, divenendo spettatori di se stessi,
possono dire la loro sulla rappresentazione culturale che li riguarda. Spesso tali rappresentazioni
assumono un ruolo sulle scene politiche locali, modificando la percezione di intere comunità e il
ruolo da esse svolto in contesti più ampi.
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3. LA NASCITA DEL CINEMA ETNOGRAFICO
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3.2. Primi filmati dal campo
Le prime vere sequenze cinematografiche sul campo vengono realizzate da Haddon durante la
spedizione allo Stretto di Torres di cui si è già parlato. Negli anni immediatamente successivi, cioè
agli inizi del Novecento, Pöch, un etnografo austriaco, corredò le sue spedizioni in Nuova Guinea e
in Africa australe con alcune riprese cinematografiche e sonore, realizzate con l’ausilio di un
fonografo. Pöch dichiarò di aver filmato senza alcun intervento umano, quindi lasciando che la
cinepresa girasse automaticamente. In realtà, le scene sono evidentemente ricostruite, ma restano
utili per un uso museale e collezionistico del cinema. Negli Stati Uniti, Boas, insegnante della
Mead, contribuì all’antropologia americana dedicando particolare attenzione alle concrete
espressioni della vita culturale delle singole comunità, relativamente alla quale girò alcune sequenze
cinematografiche. Tuttavia, il vero cambiamento si verificò solo dopo la Prima Guerra Mondiale,
grazie a “Argonauti del Pacifico Occidentale” (1922), l’opera più importante di Malinowski, padre
dell’osservazione partecipante. Malinowski rimase due anni nelle Trobriand, completamente
immerso nella cultura locale, mentre la spedizione allo Stretto di Torres era stata organizzata in
modo che un’equipe ampia e multidisciplinare potesse spostarsi in un’area piuttosto vasta
fermandosi per brevi periodi. A causa di questa ricerca di tipo estensivo, le osservazioni non
potevano essere accurate. Nello stesso anno, l’americano Flaherty realizza quello che viene
considerato il primo documentario della storia del cinema, “Nanook of the North”, che nasce
dall’osservazione partecipante degli Inuit della Baia dell’Hudson.
Flaherty nasce in Michigan nel 1884 da una famiglia di emigrati irlandesi. Formato in geologia e
mineralogia, eredita dal padre la passione per l’esplorazione. A venticinque anni, finanziato da un
ente interessato al rilevamento di giacimenti minerari, inizia l’esplorazione dei territori della Baia di
Baffin, iniziando a cimentarsi con le riprese e il montaggio di sequenze cinematografiche, ma solo
successivamente il cinema divenne centrale nel suo lavoro. Grazie ai finanziamenti di una casa di
produzione di pellicce francese, Flaherty può avviare il progetto da cui nascerà “Nanook of the
North”. Per realizzarlo, Flaherty passa diversi mesi con gli Inuit, sviluppando con essi un rapporto
di fiducia e collaborazione che gli consentì di realizzare la ricostruzione filmica. “Nanook” è il
primo esperimento del suo genere: nessuno aveva ancora rappresentato cinematograficamente la
vita di persone reali che lavoravano e si muovevano in un ambiente così inospitale. Il film riassume
uno dei paradossi che attraversa l’intera storia dell’antropologia visiva: da un lato, è il primo film a
fornire un documento vivido della vita di una popolazione esotica in loco, dall’altro, deve
necessariamente avvalersi di procedimenti ed espedienti tipici del linguaggio cinematografico. Se i
documenti visivi prodotti in precedenza erano mere registrazioni della realtà che scorreva di fronte
all’obiettivo, Flaherty ricostruisce il significato della realtà da lui osservata e la sua interpretazione
di essa, inventando una tecnica e un linguaggio cinematografico complessi e articolati. Per
comprendere pienamente il senso di questo esperimento, è necessario acquisire degli elementi
generali di linguaggio cinematografico.
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ELEMENTI DI LINGUAGGIO CINEMATOGRAFICO
Il cinema è un “fatto sociale” totale, dotato di una vasta gamma di implicazioni produttive, economiche, sociali e
comunicative. Nell’ambito del cinema antropologico, non sono rilevanti tanto le problematiche relative alla
produzione e alla diffusione, quanto la teoria dei film, ossia i singoli prodotti filmici e la loro organizzazione testuale, in
altre parole, la semiologia del film. La semiologia considera il cinema un “linguaggio”, cioè un sistema comunicativo
che articola e connette segni nel rispetto di particolari regole e convenzioni. Il cinema è un linguaggio formato da
diversi codici comunicativi:
Codici tecnologici di base: tipo di supporto (pellicola, nastro magnetico, dimensioni dello schermo);
Codici visivi: iconografici (composizione dell’immagine), fotografici (piani e angolature di ripresa,
illuminazione, colore), movimenti;
Codici grafici: didascalie, titoli e sottotitoli;
Codici sonori: voci, rumori, musica e la loro collocazione;
Codici sintattici e di linguaggio: raccordi e associazioni tra le inquadrature, utilizzati per costruire il significato
del film articolando diversi piani di ripresa e i loro contenuti visivi e sonori, connettendo le sequenze le une
alle altre per determinare il progredire della narrazione o dell’argomentazione.
Una volta costruite le inquadrature, esse verranno montate in sequenza. Questa fase della produzione
cinematografica si chiama montaggio ed il momento di vera e propria strutturazione del discorso filmico: associando
le inquadrature, si creano dei significati. Fondamentale nel montaggio è il concetto di diegesi. La diegesi definisce il
racconto, cioè l’insieme dei contenuti narrativi di un discorso. Il film rappresenta una certa diegesi, ossia una
narrazione, una storia. La capacità del film di rinviare a una diegesi, mostrando unicamente alcuni frammenti della sua
rappresentazione, deriva in gran parte dal montaggio.
Il documentario si propone come una “rappresentazione della realtà”: la distanza tra significato e
significante è decisamente ridotta rispetto al cinema di finzione. Tuttavia, anche i documentari sono
frutto di scelte, selezioni, interpretazioni e contestualizzazioni. Ciò che varia da un genere filmico
all’altro sono i regimi di realtà cui le diverse realtà afferiscono. Fondamentale è l’alto coefficiente
di indessicalità delle immagini.
In entrambe le fasi, il découpage richiede una visione a rallentatore del testo filmico. Per
comprendere meglio la tecnica, verrà analizzato “Nanook of the North”, di Flaherty.
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Analisi delle sequenze di “Nanook of the North”
1. Titoli di testa:
Otto lunghi cartelli introducono le condizioni di produzione del film e il contesto etnografico in cui si svolge.
2. Terre sterili.
Introduzione visiva all’ambiente che farà da sfondo alle vicende dei personaggi.
Presentazione dei personaggi: l’inuit Nanook, sua moglie, i tre figli e il cagnolino.
La famiglia arriva all’abitazione di un bianco commerciante di pellicce e si assiste all’incontro delle due
culture.
5. La pesca.
6. Pesca al tricheco.
7. La famiglia si sposta.
Un cartello informa dell’arrivo dell’inverno. Vengono mostrate la casa invernale e la ricerca del cibo degli
inuit.
8. La costruzione dell’igloo.
Scene di vita familiare: Nanook gioca con i bambini e la famiglia si prepara per la notte.
Un cartello indica che è mattina. La famiglia si sveglia e parte. Vengono mostrati i paesaggi artici.
La famiglia deve rientrare, ma è costretta a fermarsi in un igloo abbandonato per trascorrervi la notte.
Cartello: “Tia Mak”, ossia “Fine”.
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Dall’analisi delle sequenze, risulta evidente che il film è stato pensato e realizzato da Flaherty
proprio con l’intento di “mettere in scena” la storia di Nanook, inventando quindi il cinema
documentario. La grande novità introdotta da Flaherty è che i personaggi non sono attori impegnati
in una rappresentazione, ma persone comuni che vivono la loro vita quotidiana davanti a una
cinepresa. Il segreto del metodo di Flaherty sta nell’aver coinvolto direttamente la famiglia di
Nanook, trasferendo loro conoscenze elementari su cosa fosse un film, su come realizzarlo, su quali
fossero gli obiettivi e quali le finalità. Per raggiungere questo obiettivo, portò con sé non solo
l’attrezzatura per riprendere, ma anche quella per lo sviluppo, in modo tale da poter visionare i
“giornalieri” giorno per giorno. Il trasferimento di tecniche e competenze fu reso possibile dalla
grande familiarità che il ricercatore aveva acquisito con i suoi ospiti negli anni precedenti e alla sua
conoscenza della lingua inuit: aveva, infatti, tradotto i vocaboli tecnici nella lingua locale. La
struttura della narrazione procede articolando numerosi piani, molti dei quali ripresi in tempi
diversi. A questo proposito, è noto l’espediente utilizzato da Flaherty per filmare l’interno
dell’igloo: in un primo momento, si era pensato di costruirne uno di dimensioni doppie rispetto al
normale per permettere l’accesso alle macchine da presa, ma dopo due crolli Flaherty e Nanook
risolsero tagliando a metà un normale igloo per poter avere sia spazio, sia luce naturale a
sufficienza. Per finire, è utile approfondire la scena della caccia alla foca, la penultima sequenza,
prendendo spunto dalla trattazione analitica di Bettetini. La sequenza si divide in due parti:
La volontà narrativa di Flaerty si esprime chiaramente nel montaggio, quando, dove necessario,
spezza le scene filmate per ottenere il ritmo del racconto desiderato. Il metodo di Flaherty coniuga
una grande familiarità con il campo e soprattutto una grandissima disponibilità degli informatori a
collaborare in vista del risultato filmico, con una strutturazione complessa del materiale filmato,
ottenuta grazie a una scaletta di ripresa e a un montaggio articolati.
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3.6. Sviluppi del documentario
Dopo “Nanook of the North”, la produzione di film documentari si intensifica, grazie anche allo
sviluppo della tecnica cinematografica: nel 1923, il 16mm viene introdotto sul mercato come
formato amatoriale o documentaristico, anche se in molti continueranno a usare il 35mm. Il
problema della sincronizzazione del sonoro verrà, invece, risolto completamente solo negli anni
Cinquanta. Dopo il successo di “Nanook”, Flaherty si cimenterà in altre due imprese
documentaristiche, una a Samoa e l’altra a Bora Bora, ma nessuna delle due si rivelerà un successo.
Solo nel 1934, con “L’uomo di Aran”, realizzato in un’isola a nord dell’Irlanda, Flaherty ritornerà
al tema che gli è più caro: la sfida dell’uomo per la sopravvivenza in un ambiente ostile. Il decennio
che va dagli anni Venti agli anni Trenta vede l’emergere di altri cineasti orientati al documentario,
permettendo l’articolazione del genere in vari filoni.
Cooper e Schoedsack (registi di “King Kng”), nel 1925, con “Grass” torneranno ad affrontare temi
“esotici” raccontando la transumanza di 50.000 pastori baktiari dalle montagne del Zardeh Kuh alla
Turchia.
Wright, negli anni Trenta, girerà “Song of Ceylon”, una produzione sostenuta dal governo inglese
che illustra la storia e la cultura singalesi.
In ultimo, è necessario citare il cineasta sovietico Vertov. Influenzato dal futurismo di Majakovskij,
Vertov introdusse il concetto di “cine-occhio” e rivoluzionò il mondo del documentario: la
macchina da presa era come un occhio, impegnato a scrutare le vicende umane. Nel 1926 realizza
“La sesta parte del mondo”, un documentario sull’Unione Sovietica che presentava le varie
repubbliche socialiste dell’Unione, mostrandone gli abitanti nei diversi ambienti, mettendo in
evidenza la ricchezza della diversità. Nel 1929, con “L’uomo con la macchina da presa”, Vertov
realizza il suo capolavoro. Il film è un manifesto cinematografico dai toni fortemente ideologici,
attraverso cui Vortov propone la “cine-verità” come salvezza dalle convenzioni che i primi
trent’anni di cinema avevano radicato. Per cine-verità, Vortov intendeva un cinema che rifuggisse
dal teatro e dalla narrazione per raccogliere e montare i frammenti dell’attualità. Nel tempo, però, la
cine-verità di Vortov diventa un discorso meta-riflessivo, che si allontana dalla realtà.
Gli anni Venti e Trenta del Novecento possono essere considerati il periodo d’oro del
documentarismo, ma i pochi tentativi di utilizzare questo strumento per la ricerca antropologica
appaiono inconsapevoli e finalizzati solo alla collezione di immagini. In Francia, Graiule
incoraggerà l’uso del film nella raccolta etnografica, ma sarà il suo allievo Rouch a imboccare con
determinazione la strada del cinema antropologico, per diventarne ben presto uno dei massimi
esponenti. Soltanto dopo la Seconda Guerra Mondiale alcuni antropologi cominciarono a
considerare il cinema un linguaggio da utilizzare consapevolmente per dar luogo alle
rappresentazioni etnografiche. Questo passaggio richiese un’alfabetizzazione cinematografica degli
antropologi che consentisse di sviluppare metodi e riflessioni specifici ai temi della visione e della
sua rappresentazione. Nonostante ciò, ancora oggi gli antropologi continuano a prediligere la forma
scritta della tradizione accademica occidentale.
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IL SONORO
Fin dalla metà dell’Ottocento era tecnicamente possibile registrare i suoni su rulli di cera, per mezzo del
fonografo Edison e di altre apparecchiature di registrazione, ma sincronizzare i suoni registrati e le
immagini continuava a costituire un problema che si risolse solo con la messa a punto della trascrizione
fono-acustica dei suoni, impressi su una pista della pellicola cinematografica (la colonna sonora). Prima
dell’avvento di questa tecnica, i film muti venivano proiettati in sale dotate di un pianoforte o un’orchestra
che accompagnasse l’immagine. Solo nel secondo Dopoguerra verranno messe a punto attrezzature di
ripresa leggera del suono direttamente sincronizzabili con la macchina da presa. A questo punto, il
documentario potrà registrare in diretta i suoni sincroni, così da filmare interviste, conversazioni e dialoghi,
in uno stile che verrà definito “cinema diretto”.
4. FILMARE L’INVISIBILE
RIPRESE LEGGERE
Tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, grazie all’evoluzione delle tecniche e delle convenzioni del
linguaggio cinematografco, si diffonde l’uso della cinepresa 16 mm, decisamente più leggera e maneggevole
delle classiche 35 mm. L’occhio meccanico della cinepresa viene riumanizzato e svela la presenza
dell’operatore e il suo posizionamento. Nelle applicazioni antropologiche, l’utilizzo della macchina a mano
svela il particolare punto di vista dell’osservatore, respingendo l’idea di oggettività e di verosimiglianza
delle immagini riprodotte meccanicamente. La macchina a mano relativizza lo sguardo dell’osservatore,
ponendolo sullo stesso piano dei personaggi filmati. Nella cinematografia di interesse antropologico, uno
dei primi esempi di utilizzo sperimentale e significativo della macchina a mano si trova nel film “Cavalieri
Divini”, girato a Haiti tra il 1949 e il 1953 da Maya Deren.
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4.2. Maya Deren
Discendente di una famiglia di ebrei russi emigrati negli Stati Uniti negli anni Venti del Novecento,
Eleonora Derenkowski, figlia di un allievo di Pavlov, è una figura fondamentale nel panorama
dell’avanguardia cinematografica americana, di cui viene considerata da molti la principale
ispiratrice. Per la Deren, come per Bateson, con cui collaborò per un periodo, la dicotomia tipica del
periodo occidentale tra la mente e il corpo poteva trovare una riunificazione nell’esperienza estetica,
che è parte dell’Ethos di una cultura, e dunque nelle espressioni artistiche che rimandano a
significati più ampi e spesso trascendenti l’esistenza individuale. La Deren partì per Haiti nel 1947 e
le danze su cui si concentrò fin dall’inizio costituivano il fulcro del rituale vudù, un sistema di culti
di origine africana giunti a Haiti attraverso gli schiavi yoruba della Nigeria e sincretizzatisi con
aspetti del cattolicesimo popolare. Nel vudù haitiano, un pantheon di spiriti, detti “loa”, prendono
possesso degli adepti nel corso dei rituali. La danza e, quando interviene, la transe sono
l’espressione della relazione che si instaura tra il mondo dei vivi e quello degli spiriti, modellando
la forma assunta dai corpi umani durante la possessione la possessione da parte di uno spirito. Esse
possono essere, dunque, considerate la manifestazione visibile del mondo invisibile.
L’ “Haiti film footage” fu girato in 16 mm, senza sonoro e in bianco e nero, per una durata
complessiva di circa quattro ore. La maggior parte delle riprese furono effettuate dalla stessa Deren
durante la prima permanenza haitiana. Il materiale riguarda alcune cerimonie, in particolare la
cerimonia della benedizione annuale del recinto sacro in cui si svolgono le cerimonie vudù. La
tecnica utilizzata tende a non occultare mai il punto di vista dell’autrice, cercando invece di
esplicitarlo tramite un uso evidente della macchina a mano e degli sguardi di una macchina. Il
risultato è una serie di immagini dinamiche e soggettive che quasi risucchiano lo spettatore nel
gruppo di ballerini in transe. Nemmeno ricorrendo, però, alle figure di cinema partecipativo (lo
sguardo in macchina, la camera a mano) il film riesce a evocare davvero la natura profonda di un
evento, percepibile solo in parte attraverso la condivisione empatica delle emozioni. Giunta di
fronte ai confini della visione, Maya Daren rinuncia all’impresa e decide di abbandonare il film.
Quindi, non monterà il film, che rimarrà incompiuto finché il terzo marito ne produrrà una versione
montata e sonorizzata per completare l’opera. Il film montato è una testimonianza parziale del
progetto della Deren, che ci consente di osservare e apprezzare la particolare tecnica e il linguaggio
utilizzati in fase di ripresa del film.
La visione non consiste solo nell’atto del vedere, ma anche nell’esperienza trans-corporea. Diverse
culture hanno sviluppato un complesso magico-religioso fondato sulla ricerca di una visione
mistica, che supera i confini dell’esistenza individuale, espandendosi oltre lo spazio e il tempo in
una dimensione ulteriore. Le culture “della visione” portano alle estreme conseguenze l’idea che la
percezione costituisca nell’uomo una facoltà plasmata dalla cultura secondo modelli particolari e
selettivi. In questa prospettiva, torna utile l’affermazione di Vertov: “Il cinema, in quanto occhio
meccanico, può spingersi laddove l’occhio umano non potrà mai arrivare”.
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4.5. Jean Rouch, il “griot cinematico”
Jean Rouch è morto nel 2004 in un incidente d’auto nel nord del Niger, considerato da molti il più
grande cineasta antropologo. Rouch è morto a 86 anni durante uno studio sul campo. Formatosi a
Parigi come ingegnere, lavorò in Africa in questo campo prima della Seconda Guerra Mondiale, per
tornare subito dopo il conflitto e risalire il Niger in piroga. Dopo questa avventura, durata sei mesi,
realizza un breve film sulla caccia all’ippopotamo tra i Sorko di Firgoun. L’apprezzamento ricevuto
permetterà a Rouch di ottenere un finanziamento per completare la post-produzione del film,
aggiungendo il sonoro e “gonfiando” la pellicola 16mm. Dopo il dottorato in antropologia, realizza,
nell’arco di circa sessant’anni quasi centoventi film. I punti cardine della tecnica di Rouch sono il
suono sincrono e la macchina a mano, che verranno sviluppati nel contesto del cosiddetto “cinema-
verité”, un’espressione che indica un cinema che rifiuta la fiction e la messa in scena, utilizzando
attori presi dalla strada. Altra caratteristica importante dei film di Rouch è il commento personale
dell’autore: nella versione inglese di “Les Maitres Fous” non si avvale di qualcuno che legga per lui
in inglese, ma preferisce registrarlo di persona in un pessimo inglese. Nel 1957, decidendo di
ricostruire in un film la migrazione di alcuni amici songhai dal Togo ad Accrà, capitale del Ghana.
Quest’opera inaugura un nuovo filone della sua produzione: l’etnofiction. Girato senza sonoro,
verrà poi post sonorizzato in una sala di incisione dove Rouch proietta il film insieme ai tre
protagonisti, che registreranno i commenti in diretta. Il film si chiama “Jaguar” ed è considerato il
primo esperimento di improvvisazione filmica sul tema della migrazione.
Prima dell’avvento del sincrono, tra il 1954 e il 1955, Rouch aveva realizzato un film destinato a
diventare un classico dell’antropologia visiva: “Les Maitres Fous”, ossia “I signori folli”,
straordinario documento del culto di possessione della setta songhai degli Hauka. Nella lingua
locale, “hauka” significa “pazzo” ed è un termine usato per indicare un movimento religioso nato in
Niger nel 1925 con lo scopo di catalizzare le forze di resistenza all’amministrazione coloniale
francese. Le possessioni degli Hauka assumevano una forma particolarmente violenta e durante il
rito veniva messa in scena, attraverso il coinvolgimento dei corpi in transe, il dramma della
colonizzazione. Il film, tuttavia, si concentra soprattutto sulla performance ed è povero di
informazioni sulle origini e sulla storia del culto. Lo sguardo con cui Rouch osserva i fenomeni
della possessione e si avvicina ai posseduti senza timori né distanze, li avvolge dinamicamente in un
avvicinamento progressivo, in cui il cineasta stesso sembra lasciarsi trasportare dall’entusiasmo
collettivo. In questo modo, Rouch riesce nell’intento di filmare l’invisibile, laddove la Deren aveva
rinunciato, e mostra con chiarezza la teatralità mimetica della possessione, che usa gli espedienti
dello spettacolo per dar vita a un mondo trans-umano. Rouch raccoglie il significato profondo della
possessione, dispositivo con cui gli uomini creano e ricreano gli spiriti e le loro esistenze a
beneficio di un pubblico affascinato dal riprodursi di questa illusione, in un fenomeno definito
“cine-transe”.
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5. VERSO UN CINEMA TRANSCULTURALE
Rouch sfruttò le peculiarità dell’antropologia per rinnovare il linguaggio cinematografico. Alla base
di questo rinnovamento c'era la possibilità di mettere più direttamente in contatto gli “osservatori”
con gli “osservati”, grazie alla nuova tecnica del sonoro in sincrono. Il risultato fu una
cinematografia orientata a rappresentare la dimensione personale, intima e privata, piuttosto che
quella pubblica e sociale. Quello di “cine-verità” è un concetto ambiguo: per restituire agli
spettatori una verità oggettiva e inconfutabile, Rouch aveva cercato di superare questa ambiguità
assumendo esplicitamente su di sé la responsabilità delle rappresentazioni proposte nei suoi film.
Altri autori, anche per via del ritorno in auge dell’approccio positivista, teorizzano e praticano un
cinema di osservazione passiva, nel quale lo spettatore avrebbe dovuto immaginare le connessioni e
i significati di ciò che scorreva sullo schermo. I fautori di questo cinema d’osservazione
intendevano ridurre al minimo gli interventi tecnici durante la lavorazione del film per restare il più
fedele possibili alla realtà.
5.2. I “Bostoniani”
Negli Stati Uniti, la produzione di film etnografici si intensifica a partire dagli anni Sessanta del
Novecento, soprattutto grazie a un piccolo gruppo di autori, tra cui emergono John Marshall, Ash e
Gardner, le cui carriere si intrecciano intorno al Peabody Museum dell’università di Harvard, da qui
i “bostoniani”. In realtà la famiglia Marshall era impegnata già dagli anni Cinquanta nello studio e
nella rappresentazione etnografica dei !Kung del deserto del Kalahari. Il capofamiglia, Lawrance
Marshall, per conto dello stesso museo, guidò una serie di spedizioni nel Kalahari. Lorna Marshall,
sua moglie, pubblicò diversi articoli etnografici, mentre Elizabeth, sua figlia, pubblicò nel 1959 una
monografia intitolata “The harmless people”, divenuta un classico dell’etnografia. John Marshall, il
figlio “bostoniano”, realizzò più di venti film. Tra gli anni Trenta e i Cinquanta, Marshall aveva
raccolto molto materiale sugli aspetti della vita San e in “The hunters” descrisse lo stile di vita di
questa popolazione San, prima dei grandi cambiamenti che la portarono alla stanzialità in Namibia.
Il tema centrale del film è la caccia. Grazie alle riprese girate nel corso di circa trent’anni, tra il
1978 e il 1980 Marshall realizzò “N/Ai, the story of a !Kung woman”, che precede di appena un
anno la pubblicazione di Marjorie Shostack “Nisa, la vita e le parole di una donna !Kung”.
Entrambe le opere costituiscono il cuore di un racconto che ripercorre i cambiamenti occorsi nella
società San nella seconda metà del Novecento.
Gardner, altro bostoniano, nel 1964 realizza “Dead Bird”, una descrizione cinematografica delle guerre
“rituali” in Nuova Guinea, con l’intendo di costruire un archivio cinematografico dei modelli di adattamento
socio-economico all’ambiente, una sorta di mappatura cinematografica delle società umane. Nel 1986
realizzò “Forest of Bliss”, un esperimento condotto solo attraverso le immagini di un giorno nella città sacra
dove gli indiani vanno per morire. Si rivelò un esperimento particolarmente difficile perché l’osservazione
etnografica richiede l’attivazione di tutti i canali sensoriali per poter inserire l’osservatore in un flusso
comunicativo a cui l’osservatore è chiamato a partecipare attivamente. Portato all’eccesso, il rifiuto di
esternare la soggettività del proprio sguardo sfocia in un lirismo esotizzante e noioso.
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5.3. Il dialogo antropologico
Indagare le società umane significa operare all'interno di una dimensione intersoggettiva. Spesso
l'oggettività di cui parlano le scienze sociali non è altro che la soggettività di un osservatore che si
pone al di sopra di chi è osservato. Considerare le culture come sistemi di segni significa
implicitamente riconoscere il ruolo attivo del ricercatore.
Per Leroi- Gouran, lo sviluppo di caratteri etnici, permea i due modi fondamentali della
rappresentazione umana: il linguaggio e l'estetica. Il potenziale transculturale insito nell'immagine
ha innescato meccanismi di globalizzazione che si oppongono ai processi di differenziazione etnica
descritti da Leroi Gourhan. È in questo contesto che si sviluppa l’Antropologia dei Media, una
disciplina giovane che tenta di studiare gli effetti della globalizzazione sia all’interno delle società
non occidentali, sia a un livello più generale relativo al ruolo svolto dai media nella creazione di
nuove identità nazionali o transnazionali. In quest’ottica, il cinema etnografico sembra ormai
avviato sulla strada della ricerca di un’aperta ed esplicita collaborazione tra antropologi e nativi.
Produrre film in contesti interculturali significa adottare una metodologia idonea alla condivisione
di obiettivi comuni nonostante le differenze culturali e tecnologiche.
Negli stessi anni in cui Rouch avviava la sua carriera cinematografica, MacDougall, insieme alla
moglie, avviava la sperimentazione etno-visiva proponendo un’ampia riflessione sulla possibilità di
fare antropologia con le immagini e, più in generale, sulle capacità del cinema di costruire un
dialogo tra le culture. La produzione di MacDougall si divide in tre fasi:
1. Cinema d’osservazione, con i primi film in Africa;
2. Critica progressiva e avvio verso un cinema partecipativo;
3. Formulazione della teoria secondo cui il cinema è un linguaggio potenzialmente
transculturale.
I suoi film post osservasione si spostano verso le modalità stesse di costruzione della conoscenza:
girati in collaborazione con le comunità aborigene, questi film furono progettati a partire dalle
esplicite
richieste degli aborigeni, che intendevano sfruttare il potere mediatico delle immagini per acquisire
voce e visibilità sulla scena politica. L'estraneità che si percepisce di fronte alle vicende narrate dai
film etnografici viene generalmente superata proprio in virtù della dimensione individuale delle
vicende narrate: è possibile trovare frammenti della propria individualità nell'individualità dell'altro.
IL DOCUMENTARIO DIGITALE
Negli ultimi anni, la tecnica audiovisiva si è evoluta rapidamente, mettendo a punto sistemi digitali di
registrazione delle immagini e del suono potenti, maneggevoli ed economici: la comparsa sul mercato delle
telecamere digitali ha messo a disposizione di tutti una tecnologia che permette di filmare immagini di
qualità e montarle agevolmente per mezzo di programmi informatici facilmente reperibili. Questa
recentissima innovazione ha trasformato anche la cinematografia antropologica: la “democratizzazione”
tecnologica consente infatti anche a studenti, ricercatori indipendenti e nativi di realizzare prodotti
compatibili con gli standard del mercato internazionale. Il digitale offre, inoltre, la possibilità di articolare
testi scritti e rappresentazioni visive all’interno di supporti multimediali che possono rapidamente circolare
su internet. La multimedialità intreccia le parole scritte, i suoni e le immagini, risolvendo l’antica
separazione di linguaggio ed estetica in un’unica forma espressiva, all’interno della quale la
rappresentazione del pensiero può compenetrarsi con l’espressione di emozioni e percezioni.
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5.6. Cinema e antropologia: un sodalizio possibile
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