7 Aprile 2014
di mariuccia giacomini
12 minuti
abdelmalek sayad
la doppia assenza. dalle illusioni dell’emigrato alla sofferenza dell’immigrato –
mariuccia giacomini
Il libro di Abdelmalek Sayad La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze
dell’immigrato, recentemente pubblicato in edizione italiana1, riunisce le riflessioni e le ricerche
dello studioso recentemente scomparso, scritte tra il 1975 e il 1996, intorno al tema delle migrazioni
e specialmente dell’emigrazione-immigrazione algerina in Francia. Non gli fu possibile, a causa
della grave malattia, portare a termine questo progetto, che è stato poi completato da Pierre Bour-
dieu, con il quale Sayad condivideva una profonda intesa e amicizia fin dall’incontro all’Università
di Algeri, risalente agli anni ’50.
Riconosciuto come “uno dei più originali e fertili contributi all’antropologia dell’immigrazione
dell’ultimo secolo”2, La doppia assenza muove una critica radicale alla prospettiva etnocentrica con
cui viene affrontata abitualmente l’immigrazione, vale a dire, dal punto di vista della società di ac-
coglienza, omettendo di interrogarsi sull’altro polo fondamentale, quello dell’emigrazione, ovvero
sulle condizioni di crisi che orientano alla partenza. “I rapporti di forza – scrive Abdelmalek Sayad
-, proprio quelli che hanno generato l’emigrazione-immigrazione, non risparmiano la scienza e, più
particolarmente, la scienza del fenomeno migratorio” (p.163).
Obiettivo dell’opera è pertanto, in primo luogo, quello di riannodare i fili di questo “oggetto fram-
mentato”, dal momento che, “come due facce della stessa medaglia, aspetti complementari e dimen-
sioni solidali di uno stesso fenomeno, l’emigrazione e l’immigrazione, rinviano reciprocamente
l’una all’altra” e comportano implicazioni di ogni specie (p.169).
Etnografo dalle qualità eccezionali, analista e testimone diretto, avendo egli stesso conosciuto
l’emigrazione in Francia, Abdelmalek Sayad ci restituisce magistralmente la storia sociale di
quell’esodo di massa, che dura fino ai nostri giorni. Tutti gli aspetti del vissuto concreto dei migran-
ti diventano oggetto di una riflessione pregnante, viva e, a un tempo, rigorosa, che certo possiamo
ricondurre al suo profondo radicamento nella cultura berbera, alla sua costante presenza sul campo,
partecipe e solidale, e, insieme, alle risorse concettuali elaborate all’Università di Algeri e al CNRS
di Parigi.
Sayad delinea tre “età dell’emigrazione”. Una prima forma di emigrazione provvisoria ed episodica,
vissuta come una missione affidata dal gruppo a uno dei suoi membri e imperniata sulla figura
dell’emigrato-contadino “contadinizzato”, il quale, in altre parole, si sforzava di rimanere contadi-
no, malgrado l’impoverimento: “Finché l’emigrazione rimaneva sottoposta all’ordine tradizionale e
continuava a essere al servizio della comunità contadina, finché il gruppo poteva controllarla e pie-
garla ai propri valori e imperativi, gli emigrati […] affrontavano la loro partenza da contadini e
subivano il loro soggiorno in Francia da contadini” (p.53).
Con l’aggravarsi della crisi, anche in seguito agli espropri fondiari coloniali che “mandarono in
rovina il fondamento dell’economia tradizionale e disintegrarono l’intera struttura dell’economia
algerina” (p.91), si afferma un secondo movimento emigratorio che vede come protagonista il con-
tadino “decontadinizzato”. Mohad A., giovane immigrato da poco arrivato in Francia e originario di
un villaggio del massiccio della Cabilia, racconta in un’intervista realizzata nel 1975 la sua storia di
“figlio di una vedova”, travolto dalle vicende di una comunità rurale in piena disgregazione, dove
“la gente ha solo la Francia tra le labbra” perché, preclusa ogni altra via d’uscita, “la sola ‘porta’
che rimane è la Francia” (p.23). A questo punto, si tende a emigrare non più per assistere il gruppo,
ma per emanciparsi dalle sue costrizioni. L’emigrato, spesso già urbanizzato in una città algerina,
ha smesso di essere contadino “nello spirito e nelle intenzioni” e, di solito, ben prima di essere emi-
grato.
Piuttosto tardivamente, nella storia del fenomeno migratorio algerino, si innesta una terza modalità
che coinvolge l’emigrazione delle famiglie. “In quest’ultima fase, tutto il percorso della migrazione
sfugge al controllo morale del gruppo, alla censura che esso vi oppone: i suoi effetti dissuasivi (ri-
provazione sociale, senso di vergogna ecc.) non sono sufficienti a contenerlo” (p.390).
Ai nostri giorni, l’immigrazione algerina in Francia non è che una tra le tante immigrazioni dal Ter-
zo mondo e dai paesi geograficamente lontani. Ma, diversamente dal modello algerino, le migrazio-
ni attuali tendono a configurarsi, da subito e allo stesso tempo, come “immigrazioni di lavoro” e
“immigrazioni familiari”. L’immigrazione algerina ha finito, in ogni caso, col riunire in Francia
quasi una “piccola società” relativamente autonoma, che si dà i mezzi necessari per la propria ripro-
duzione ed “è stata spinta a formare da sé il corpo dei numerosi intermediari incaricati di assicurare
al meglio alcune relazioni indispensabili con la società francese” (p.86). È una realtà di cui, ancora
oggi, si fa fatica a prendere atto su entrambe le rive del Mediterraneo…
Approfondendo la sua analisi fino a penetrare nei recessi più nascosti e largamente inconsapevoli
della “storia incorporata” nelle persone, Abdelmalek Sayad ci disvela con grande lucidità le dissi-
mulazioni e le collusioni che tengono insieme le parti coinvolte per far sì che l’emigrazione-
immigrazione si riproduca.
Bisogna considerare che “il sospetto di tradimento, addirittura di apostasia (sociale, culturale più
che propriamente religiosa) è una costante che ossessiona l’emigrazione in quanto condotta pratica
e in quanto categoria di pensiero; in questo essa è anche un’assenza “illegittima”, un’assenza che
richiede un intenso e costante lavoro di legittimazione, cosi com’è fondamentalmente “illegittima”
la presenza dell’immigrato che richiede anch’essa, secondo lo stesso schema di pensiero, un’altra
forma di legittimazione” (p.157, nota 5).
Si comprendono allora le ragioni per cui gli emigrati cercano incessantemente di provare con atti e
progetti che la loro emigrazione non è tradimento, né fallimento, né atto individualista, ma, al con-
trario, “un ‘sacrificio’ compiuto per la causa e per l’interesse del gruppo”. Nello stesso tempo, essi
raccontano e si raccontano che la propria situazione è provvisoria, “quando essa ha una grande pos-
sibilità di diventare definitiva o di estendersi alla vita attiva”. A riprova di ciò, Sayad riporta che,
per molto tempo, l’emigrazione familiare fu considerata un atto di cui vergognarsi “che veniva ac-
curatamente nascosto, al punto tale che era necessario lasciare il villaggio nottetempo”.
Il migrante resta così intrappolato, sospeso, schiacciato dal paradosso emarginante del “provvisorio
che dura”. Trasposta nell’ordine spaziale, tale condizione si traduce in una doppia assenza: essere
solo parzialmente assenti là dove si è assenti – assenti dalla famiglia, dal villaggio, dal paese – e,
nello stesso tempo, non essere totalmente presenti là dove si è presenti – per le molte forme di es-
clusione di cui si è vittime nel paese di arrivo. Un miscela di contraddizioni che può diventare lace-
rante e che viene vissuta dai più spossessati come “un inferno ricoperto da un lenzuolo o, in appa-
renza, da un tappeto immobile fatto di tristezza, di angoscia e di sofferenza” (p.193).
Permanentemente gravato dal sospetto di sedizione, di “perdizione”, se non altro per i modelli che
importa nei suoi rientri estivi “da turista”, l’emigrato può arrivare a essere qualificato come jayah.
Semplificando molto le complesse stratificazioni semantiche di questo termine, possiamo dire, ri-
prendendo Sayad, che l’emigrato jayah è “colui che ha ‘disertato’ la sua comunità, colui che non è
di alcun vantaggio – materiale o simbolico – né per sé, né per i suoi (non esserlo per i suoi è anche
non esserlo per sé)” (p. 140). Contrariamente agli emigrati che si conformano a ciò che da essi ci si
attende, “gli emigrati tacciati di essere jayhin erano emigrati solo perché contravvenivano o tende-
vano a contravvenire alla morale del loro gruppo […]” (p. 141).
Ma l’essere “fuori luogo” può tradursi (come ben sappiamo anche in Italia) in forme stigmatizzanti
ancora più drastiche nel paese di immigrazione, dove, nel migliore dei casi, l’immigrato è trattato da
eterno assistito ed eterno “apprendista”, “come un bambino a cui bisogna insegnare a comportarsi
bene (tecnicamente e moralmente), a conformarsi alle regole e alle esigenze, e in breve “a vivere”
secondo le regole della società di immigrazione” (p. 283). A questo riguardo, Abdelmalek Sayad
esprime una critica radicale di tutti quei termini di derivazione coloniale quali “integrazione”, “adat-
tamento”, “assimilazione”, “minoranza”, “inserimento”: più che parlarci dei problemi
dell’immigrato, tutta questa terminologia identitaria, che dissimula una molteplicità di orientamenti
normativi, ci informa sui problemi della società di approdo e delle sue istituzioni di fronte agli
immigrati. Ancora più lapidari suonano i pareri di alcuni intervistati, che vale la pena citare:
– “Vorrebbero che fossimo francesi, ma allo stesso tempo ci viene fatto capire che non riusciremo
mai a raggiungerli. È questo che chiamano integrazione” (p. 352).
– “Allora, qui che cosa sei? Sei solo una busta paga, per mesi. Senza busta paga non sei accettato,
non hanno fiducia in te. Le buste paga sono fatte per questo: gli devi dimostrare che lavori, che hai
lavorato per loro. Senza quelle, sospettano che tu abbia vissuto alle loro spalle […]” (p. 66).
In ultima analisi, lo statuto discriminato dell’immigrazione, la filosofia del sospetto e le reazioni di
rigetto rendono esplicito ciò che lo stato è e quelle che sono le sue funzioni. Per Sayad pensare
l’immigrazione significa pensare lo stato. È lo stato che pensa se stesso pensando l’immigrazione,
“perché l’immigrazione rappresenta il limite dello stato nazionale, quel limite che mostra ciò che
esso intrinsecamente è, la sua verità fondamentale. Lo stato, per sua stessa natura, discrimina e così
si dota preventivamente di tutti i criteri appropriati, necessari per procedere alla discriminazione,
senza la quale non esiste stato nazionale” (p.368). Ma, aggiunge Abdelmalek Sayad, “sembra che
questa funzione sia più imperativa, e dunque più prescrittiva, nel caso dello stato repubblicano,
nello stato che aspira a un’omogeneità nazionale totale, cioè a un’omogeneità su tutti i piani: politi-
ca, economica, culturale (specialmente linguistica e religiosa) ecc.” (p.369).
Ma l’immigrato, con la sua implicita contaminazione sovversiva nei confronti dell’ “integralismo”
nazionale, “ci obbliga – come afferma Pierre Bourdieu nella Prefazione – a ripensare da cima a fon-
do la questione dei fondamenti legittimi della cittadinanza e della relazione tra il cittadino e lo stato,
la nazione o la nazionalità” (p.6).
In tale direzione, la via tracciata dalla sociologia delle migrazioni di Sayad richiede – come ha effi-
cacemente espresso Salvatore Palidda nell’Introduzione all’edizione italiana – “di liberarsi da ogni
etnocentrismo e pensée d’Etat, considerando i migranti né soltanto come originari di, né come emi-
grati, né come immigrati, ma appunto come esseri umani che, oggi più che mai, spesso aspirano
inconsapevolmente a un’emancipazione politica che forse può trovare spazio solo in una visione del
mondo libera dalle costrizioni a subordinarsi ad appartenenze specifiche” (p. XI).
I cambiamenti di grande ampiezza che oggi si evidenziano con i processi di globalizzazione annun-
ciano dissidenze multiple, nuovi rapporti di identità, insieme alla comparsa sulla scena di nuovi
protagonisti. Tra questi, le numerosissime donne che, sempre più, affrontano l’avventura, i costi, i
rischi e le dislocazioni che la migrazione comporta da primo-migranti e non solo (come sembrereb-
be pensarle esclusivamente Sayad) in quanto familiari al seguito del “capo-famiglia”. Spiace davve-
ro che in questa importante opera poca attenzione venga dedicata alla realtà delle donne, e in parti-
colare alle donne algerine – assassinate, stuprate, mutilate a centinaia negli ultimi decenni -, alle
loro lotte per i diritti di cittadinanza, alla loro ostinata e quotidiana resistenza3.
Note
1
A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato. (Prefa-
zione di P. Bourdieu. Edizione italiana a cura di S. Palidda), Cortina, Milano, 2002.
2
P. Bourdieu, L. Wacquant, “The Organic Ethnologist of Algerian Migration”, in Ethnography, 1-2,
2000, pp. 182-197.
3
Tra i numerosi resoconti e scritti, si vedano, in particolare, le opere della scrittrice e cineasta Assia
Djebar, oltre a libro della giornalista Giuliana Sgrena, Kahina contro i califfi. Islamismo e democra-
zia in Algeria, Datanews, Roma, 1997.