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antropologia medica Giovanni

Pizza
Antropologia Medica
Università degli Studi di Perugia (UNIPG)
65 pag.

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ANTROPOLOGIA MEDICA. SAPERI, PRATICHE E POLITICHE DEL
CORPO.
GIOVANNI PIZZA.

INTRODUZIONE.
Antropologia medica => Nata inizialmente con l'obiettivo di analizzare (aiutando la ricerca antropologica) i
modi e le forme delle diverse società di vivere, rappresentare e fronteggiare l'esperienza della malattia,
questa disciplina ha poi cercato di coniugare l'interesse per le esperienze del corpo, della salute e della
malattia con la ricostruzione di processi sociali, culturali, politici e istituzionali storicamente determinati.
L'antr. med. ha concettualizzato le stesse nozioni di "corpo", "salute" e "malattia", mettendo in discussione il
loro presunto carattere naturale per poi osservare le modalità storiche attraverso le quali il concetto di natura
è stato culturalmente costruito sulla base di assunti ideologici considerati non criticabili.
Oggi l'antr. med. è una scienza critica, sperimentale e dialogica, che produce ricerche etnografiche e
riflessioni teoriche specifiche sul modo in cui corpo, salute e malattia sono definiti, costruiti, negoziati e
vissuti in un continuo processo dinamico, osservabile nella trasformazione storica con una metodologia
comparativa attenta alla variabilità dei contesti culturali, sociali e politici.
L’ant. Med., come l’antropologia in generale, attribuisce un ruolo centrale alla ricerca sul campo.
L'etnografia (ricerca antropologica che si incentra sulla permanenza di lunga durata dell’antropologo sul
proprio territorio di ricerca e sul confronto con le persone con le quali lavora), non va intesa come prova di
tesi pregresse, ma come luogo di costruzione e insieme di messa all'opera del sapere teorico --> non è solo un
metodo di ricerca, ma una prassi di ricerca, per questo oggi, in ambito antropologico, troviamo un
superamento della distinzione tra "teoria" e "pratica" scientifica, nel riconoscimento che la stessa produzione
della teoria scientifica è una pratica sociale, messa in opera attraverso gesti ed azioni concreti. Insomma,
l'antropologia elabora di volta in volta il proprio sapere situandosi all'interno dell'esperienza concreta degli
attori sociali che, come l'antropologo, vivono sulla propria pelle la dialettica continua tra libera capacità di
agire e quadro dei rapporti di forza in cui tale capacità si dispiega. --> l'antropologo oggi sa di essere
pienamente coinvolto nelle realtà esplorate (proprio coinvolgimento soggettivo, affettivo ed emotivo) e non
tende più a ridurre le persone osservate in meri e passivi oggetti di ricerca.
Diversi passaggi nel percorso della disciplina:
1. fase iniziale - primi del '900, anni di grande successo per scienze biologiche e biomedicina in Europa –
antr. med. caratterizzata da un certo biologismo --> forma di subalternità al paradigma positivista delle
scienze biologiche, che l'antropologia fa in un certo modo proprio, finendo con il sottovalutare i fattori
extrabiologici storico-sociali altrettanto importanti nell'esperienza umana.
2. rifondazione delle ricerche di antropologia medica sul concetto di cultura, alla cui base vi e l'idea del
carattere culturalmente costruito della corporeità, da cui deriverebbe la variabilità culturale della soglia tra
salute e malattia. Gli antropologi osservano le diverse forme culturali attraverso le quali i soggetti umani
esprimono sofferenza, emozioni, dolore. Diversamente dalle ideologie scientifiche dominanti, corpo, salute e
malattia non sono viste più come indiscutibili realtà biologiche totalmente naturali.
3. fase, più recente, di riconoscimento dei limiti dell'approccio culturale (primo tra tutti, quello di favorire
una dicotomia tra Noi – occidentali e razionali,- e Loro – non occidentali e non razionali, primitive -) -->
affermazione di un'esigenza di critica del concetto di "cultura" astratto. Attenzione in questo modo spostata
dalle visioni del mondo collettive e condivise, alle pratiche (concrete azioni sociali) e ai soggetti protagonisti
di tali azioni.
Si è così superata una visione essenzialista della cultura (intesa come cosa posseduta dalle persone) per
osservare piuttosto i modi di produzione della cultura e rivalutando le differenziazioni interne ai diversi
contesti culturali, esotici o endotici, cioè esterni o interni all’Occidente). Ora cultura intesa come processo
incessante di produzione materiale e simbolica.
4. fase di ricerca etnografica in contesto occidentale, che mostra il rapporto tra cultura e processi di
istituzionalizzazione dei saperi medici. In questo modo, da un lato si è giunti a valutare le diverse posizioni
dei soggetti sociali, dei loro punti di vista, dei loro modi di dire, di fare e sentire il problema della sofferenza
e della malattia; e dall'altro hanno illuminato i processi di estensione dei saperi e poteri biomedici in atto
(definiti processi di medicalizzazione), che mostrano come le istituzioni biomediche giungano a stabilire un
dialogo intimo con i soggetti sociali.

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[biomedicina = medicina occidentale]

La biomedicina, come ogni istituzione: fonte di attività culturale permanente, che esercita la sua autorità non
solo in virtù di un proprio ordinamento normativo, ma anche attraverso la formazione organizzata di un
consenso naturalizzato (sentito come spontaneo dai soggetti in gioco – attori sociali- iscritto direttamente nei
loro corpi). La biomedicina costruisce i corpi e ricalibra la propria azione sui corpi stessi, in una dialettica
continua. => es. stabilisce i confini tra vita e morte, tra salute e malattia, normale e patologico; fornendo
simboli, schemi, nozioni per pensare il corpo, la persona, il sé, la sessualità.
Gli antropologi che hanno effettuato ricerche in campo biomedico hanno mostrato come, anche all'interno di
uno stesso contesto culturale, sussistano diverse posizioni, talvolta anche tra loro conflittuali, aiutando così a
superare l'idea di "Appartenenza culturale" immaginata come fissata una volta per tutte.
Nell’antr. med. Contemporanea si è andata affermando la consapevolezza di un necessario sviluppo
scientifico in senso riflessivo => si sono recentemente sviluppate molte correnti che insistono sul rischio da
parte del mondo scientifico di trasformare in oggetti le esperienze di corporeità e sofferenza. --> necessità di
guardare a queste realtà come a realtà storiche, ovvero negoziazione e costruzione sociale, culturale e politica
di esse => esplorare tali esperienze osservandole come processi sociali, storici, culturali e politici che
svolgono un ruolo centrale nei diversi contesti umani.
Nel campo antropologico prevale oggi un approccio riflessivo, in grado di riflettere sul carattere proiettivo
del nostro sguardo, sul fatto cioè che noi costruiamo oggetti col nostro sguardo e la nostra azione
scientifica, e non costruiamo oggetti che già esistono in sé in modo naturale (sono consapevoli che la
neutralità in campo scientifico è sempre un'illusione ingenua – di chi non si rende conto di vivere ed
orientare l’esperienza della conoscenza anche attraverso un proprio coinvolgimento soggettivo- o una
rappresentazione interessata – di chi mira a occultare questo coinvolgimento per costruire la propria autorità
su una presunzione di verità-). Se costruiamo gli oggetti col nostro sguardo, dobbiamo imparare a osservare
il nostro sguardo, modellato sulla base di un’esperienza, cioè all’interno di un percorso formativo orientato
da specifiche coordinate storico-culturali e sociopolitiche. Antr. med. consapevole del fatto che lo stesso
antropologo è dotato di un corpo che non è possibile estromettere dalla scena conoscitiva.

Un utile ossimoro. antr. med.: branca dell'antropologia non unitaria, ma costituita da diversi indirizzi teorici,
anche tra loro contrastanti. → Prova ne è il dibattito circa la denominazione della disciplina => in
Italia,"antropologia medica" grazie alla costituzione della Società italiana di antropologia medica -SIAM- da
parte di Tullio Seppilli: altrove si preferisce "antropologia della cura", "antropologia della malattia" etc.
Anche nella stessa Italia non manca comunque il dibattito sulla denominazione della disciplina, fra gli
studiosi che propongono di definirla “antropologia dei saperi medici”, “antropologia della salute” e altri che
avanzano perplessità sull’uso di queste etichette specialistiche, poiché rischiano di far frammentare il
progetto unitario dell’antropologia.
Diverse sono le ragioni nella scelta dell'etichetta disciplinare: accademiche, politico-culturali, di confronto
tra intellettuali etc. (carattere arbitrario delle etichette disciplinari) Ad ogni modo queste distinzioni interne
nella denominazione servono soprattutto ad indicare il campo tematico specifico su cui si indirizzeranno le
ricerche, nella consapevolezza che ciò non vuol dire separare in settori non comunicanti le aree del sapere
prodotto dagli antropologi. Il progetto antropologico risponde infatti all’intento di mettere in luce le relazioni
tra campi del sapere apparentemente separati e di cogliere le distinzioni interne a campi del sapere
apparentemente omogenei.

Altre volte, il dibattito è scaturito dal problema che la denominazione "antropologia medica" porta con sè: il
rapporto tra antropologia e medicina (rischio di contaminazione in una rapporto troppo stretto tra le due
discipline?) Ma questo potrebbe essere visto anche come una sfida => Per B. Good la nozione di
"antropologia medica" potrebbe essere vista come un ossimoro (una contraddizione di termini), visto gli
ambiti (scienze umani e scienze biologiche) così diversi che mette in relazione. Eppure per Good questo
potrebbe essere anche uno stimolo, lavorando questa nuova disciplina sui confini disciplinari ed esaltando il
ruolo dialogico dell'antropologia. (dialogo già attivo nella pratica etnografica, in cui medici ed antropologi si
affiancano per lunghi periodi). Un dialogo tanto più efficacie quando entrambi si rendono disponibili a
ridefinire i concetti e il vocabolario che orienta le loro rispettive scienze.

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Tale questione dialogica fondamentale la ritroviamo anche all'interno dello stesso campo dell’antropologia,
tra settori adiacenti (cioè le specializzazioni dell’antropologia).
Le specializzazioni non devono essere considerate come una frammentazione del campo antropologico -->
prospettiva critica attenta al dialogo interdisciplinare e a svelare il carattere storico e politico degli stessi
confini disciplinari, in modo da renderli permeabili al confronto con saperi provenienti da esperienze diverse.
L’antro. Medi. Cerca di far rientrare nel dibattito scientifico e in quello pubblico saperi e pratiche
implicitamente ed esplicitamente prodotti intorno all’esperienza del corpo, della salute, della malattia, che
emergono dai diversi contesti umani ma che in genere sono ignorati dalle discipline più regolate, ordinate.

parte prima
CORPO, SALUTE E MALATTIA: ESPERIENZE E RAPPRESENTAZIONI.
[problema della ridefinizione antropologica delle figure del corpo, della coppia salute e malattia e
dell'esperienza del dolore]
Corpo, salute e malattia: non sono gli oggetti di studio dell’antr. med.: sono piuttosto figure concettuali che
agiscono simbolicamente e materialmente sui corpi viventi, non separabili quindi dai campi sociali e dalle
forze storiche che intervengono attivamente alla loro definizione.
parlare del corpo significa indagare dunque un'area in cui processi vitali e pensiero si influenzano
reciprocamente. (macchine concettuali che tentano di catturare l’esperienza vivente in una definizione o
rappresentazione astratta)
Dal punto di vista antropologico: “corpo” non come oggetto naturale, ma come prodotto storico, cioè
costruzione culturale che varia nei vari contesti storico-culturali --> l'antr. medica, adottando una
metodologia critica di tipo culturale, politico e storico; contestualizza i processi percettivi e di conoscenza
nel rapporto tra corpo e mondo e contribuisce a sviluppare una certa riflessività sulla concreta esperienza del
vivere in società.

[tre capitoli:
1. figure del corpo: sui modi di costruzione sociale e culturale del corpo. corpo come strumento privilegiato
per ripensare come produzioni storiche sia la separazione mente/corpo sia l'opposizione salute/malattia.
centrale qui la nozione di incorporazione.
2. salute e malattia: una coppia ambigua: problematica variabilità culturale, storica e politica di queste due
nozioni, in rapporto alle definizioni di normalità/anormalità. coppia ambigua perché non opposizione ma
coppia dialettica, con un ruolo centrale nella vita sociale, nella produzione culturale e nei rapporti di potere.
3. l'esperienza del dolore: sul carattere paradossale della separazione tra mente e corpo, fatta vacillare
maggiormente nell'esperienza del dolore, la quale stimola nuovi strumenti concettuali e nuovi spazi di
dialogo tra biomedicina ed antropologia medica.]

CAP.1. FIGURE DEL CORPO.


Sono un corpo – ho un corpo => questa è l’ambiguità costitutiva della corporeità: oscillamento tra la sua
esperienza di corpo vissuto, la sua oggettivazione come organismo biologico, il suo essere uno schema di
riferimento adottato per produrre modelli per comprendere il mondo circostante.
In diverse riflessioni filosofiche e antropologiche è spesso adottata una dicotomia tra esperienza (vita
vissuta) e rappresentazione (idea che ne costruiamo) del corpo. => da una parte l’approccio fenomenologico,
la percezione (discorso del corpo – corpo che sono); dall'altra l’approccio cognitivo, la cognizione (discorso
sul corpo – corpo che ho). --> Il primo approccio si fonda sull’esperienza “corporea” della percezione, il
secondo sull’esperienza “mentale” della cognizione.
n.b. la separazione tra esperienza corporea e rappresentazione mentale è una finzione filosofica -scientifica,
radicata nella dicotomia fra mente e corpo, che nella vita quotidiana non è assolutamente sentita come netta.
Nella vita quotidiana noi siamo <corpi pensanti>, ovvero abbiamo un corpo, di cui possiamo parlare
oggettivandolo, e allo stesso tempo siamo corpo, che facciamo vero soggetto conoscente del mondo esterno:
la nostra esperienza e la nostra conoscenza sono incorporate.
incorporazione: nozione che considera il soggetto e l'oggetto della rappresentazione e dell'esperienza del
corpo inscindibili: è il corpo che conosce il mondo, e se fingo di ignorare la dimensione corporea di questo
rapporto, la conoscenza risulta falsificata. --> Dunque, rappresentazione ed esperienza del corpo
indissociabili.

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n.b. la difficoltà di superare tali dicotomie risiede nell'effetto di naturalizzazione dell'immaginazione della
realtà che il corpo produce. → es. organizzazione dello spazio in alto e basso, destra e sinistra, avanti e
dietro, ecc. prodotta dalla posizione eretta, è un’ esperienza umana, fondata sul camminare eretti, che rende
naturale la classificazione della realtà assunta in realtà nel corpo attraverso un processo di apprendimento che
articola e riproduce costantemente l’intersezione fra pensiero e vita.
L'antropologia, con la ricerca etnografica, ha minato la separazione mente/corpo, mostrando come la
rappresentazione del corpo in realtà si trasformi a seconda dei diversi contesti culturali → elaborazione di
nuove nozioni in campo antropologico, in un percorso storico che va dagli anni 30 agli studicontemporanei:
dalle tecniche del corpo all'incorporazione .

1.1. Le tecniche del corpo: un sapere incarnato.


“tecniche del corpo”: espressione che prende vita negli anni '30, con pubblicazione saggio di M. Mauss, uno
dei fondatori dell’antropologia francese. Mass intende per “tecniche del corpo” <i modi in cui gli uomini,
nelle diverse società, si servono, uniformandosi alla tradizione, del proprio corpo>
Il monopolio del tema “corpo” viene così sottratto alle scienze biologiche e si avviò, in questo modo, una
riflessione sul corpo da parte delle scienze umane.
La nozione di “tecnica” si basa sull’idea che il corpo stesso sia il primo “strumento” dell'uomo.
n.b. Liberare il corpo dal monopolio della biomedicina, e considerare la “tecnica” come gesto del corpo,
significa restituire alla dimensione corporea i legami con cultura, società e storia. → Per la prima volta in
campo antropologico, si afferma l'attenzione alle modalità con cui la vita sociale e culturale modella anche
gli aspetti biologici dell'essere umano, intrecciandosi con essi in maniera inestricabile.
Tutte le nostre pratiche portano l'impronta di un processo di apprendimento, di educazione e formazione che
è in primis un meccanismo attraverso cui le forze sociali modellano il corpo → il gesto è sempre un prodotto
storico, non è mai naturale. → “Tecnica del corpo”: indica la capacità del corpo di naturalizzare la tecnica
appresa, assorbirla al punto da non riconoscerne più il carattere socioculturale.
Insomma, pelle, gesti, corpo in generale riflettono un'abitudine di uno specifico contesto socio culturale, che
agiscono in un atto che discende dall'apprendimento e poi dalla volontà creativa del soggetto.
L'introduzione del concetto di “tecnica del corpo” e il riconoscimento della sua variabilità storico culturale,
permette di cogliere meglio la natura sociale dell'habitus (abitudine).
Habitus: termine usato dallo stesso Mauss per indicare una sorta di ragione pratica (non una specie di
memoria): modi di agire che ci sembrano naturali, spontanei (es. correre, mangiare, fare l’amore, nuotare),
ma sono comportamenti “naturalizzati” frutto di un apprendimento graduale attraverso un’esposizione del
nostro corpo all'ambiente sociale esterno.
Apprendimento corporeo spesso silenzioso, non verbale: perché le tecniche vengano apprese, occorre
semplicemente che siano agite da altri, osservate, imitate (più che descritte e spiegate) → grande capacità
mimetica del corpo, in grado di assorbire conoscenze, saperi attinenti all’esperienza sociale, che poi
naturalizza i comportamenti appresi.
È attraverso la mimèsi (imitazione) che apprendiamo le tecniche, imparando a posizionare il nostro corpo
sulla scena sociale.
Il posizionamento del corpo, i suoi movimenti e le sue posture assumono senso solo se contestualizzati nel
quadro delle relazioni con gli altri.
Anche il genere sessuale è una tecnica del corpo => es1. modo diverso di camminare: l’uomo deve
dimostrasi virile, sicuro; la donna cammina dondolando, con gli occhi bassi.
Es2. cerimonia del naven (significa “mostrarsi”, “dare a vedere” – rituale che consiste in azioni spettacolari)
tra gli iatmul (Nuova Guinea) studiata da Bateson, in cui viene messo in scena un confronto tra tecniche del
corpo (maschi si travestono da donne, femmine da uomini) => le donne imitavano la gestualità dei guerrieri
in maniera caricaturale, forzando il loro proverbiale orgoglio, ironizzando duramente la loro fierezza ->
ridicolizzando così la figura maschile. Analogamente la femminilità era rappresentata dagli uomini come una
crudele capacità di seduzione, che si spingeva fino a evocare l’incesto.
Tale confronto innescava una progressiva ostilità che poteva spingersi fino allo scontro fisico. Poi
all’improvviso, dopo la strana eccitazione che accompagna la derisione reciproca, il tono cambia. Il navcen
si conclude tra pianti e silenzi. -> le emozioni quindi esplodono quando il rito raggiunge il punto più alto
della sua intensità fisica.

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Il rituale veniva eseguito in un particolare momento per il gruppo sociale, ovvero dopo che un giovane abbia
portato a termine un'impresa importante (negli anni 30 caccia o guerra, oggi ritorno al villaggio o una
ragazza accompagna per la prima volta la madre al mercato). Obiettivo del rituale: esigenza di cambiamento
di atteggiamento da parte del fratello della madre del ragazzo per il quale si celebra il naven, che ha l'autorità
“paterna” su di lui nel sistema di parentela iatmul.
Nella società in questione, che non contempla atteggiamenti affettuosi dell'uomo e fieri della donna,
l'inversione dei ruoli ha l'obbiettivo di consentire allo zio di mostrarsi affettuoso e alla madre di mostrarsi
fiera del ragazzo attraverso il gioco del travestimento. → queste due figure possono così manifestare i
sentimenti senza entrare in contrasto con il comportamento socialmente legato al proprio ruolo sessuale, e il
giovane può riposizionarsi in termini affettivi nei confronti di entrambi.
► Con questo studio Bateson cerca di comprendere come nei rapporti sociali si generino dinamiche
reciproche di adattamento e contrasto che innescano processi di azione e reazione e di progressiva
differenziazione del comportamento, definiti da lui schismogenesi (“nascita della separazione”) => “processo
di differenziazione delle norme del comportamento individuale” , ovvero dinamica di azione-reazione che
genera contrapposizioni e divergenze progressivamente più intense nelle relazioni tra individui. La
schismogenesi può essere:
a. simmetrica: ognuno risponde all'altro con lo stesso comportamento (es aggressività reciproca)
b. complementare: il comportamento di un individuo o di un gruppo è autoritativo e quello dell’altro è umile.
Es. tra gli iatmul: simmetrica tra uomini e complementare uomo-donna : più gli uomini mettevano in scena la
propria mascolità (attraverso tecniche corporee ed espressioni di rudezza, esibizionismo ed orgoglio), più le
donne si adeguavano alla norma di comportamento femminile fondatosull’emotività, l’umiltà e
l’ammirazione per gli uomini → dimostrazione che il gruppo di uomini e quello di donne definiscono la
propria identità intensificando i comportamenti che li differenziano gli uni dagli altri, che per Bateson non
scaturiscono dall'inconscio, ma sono <acquisiti con apprendimento e imitazione>.
→ obiettivo del naven: produzione di una sorta di equilibrio dinamico che garantisca il controllo della
schismogenesi, temperando i processi di diversificazione ed evitando quindi possibili conseguenze estreme
che potrebbero far esplodere i contrasti. Ciò avviene attraverso un riposizionamento fisico ed emotivo dei
due gruppi presenti sulla scena sociale.
Imitazione come dinamica centrale del naven. n.b. L'imitazione nel naven non è una fedele riproduzione del
comportamento dell'altro, quanto piuttosto una distorsione ironica e caricaturale → questo rito offre la
possibilità a uomini e donne iatmul di uscire dall'habitus per poi rientrarvi modificando nel proprio corpo le
tecniche acquisite , riposizionandosi sulla scena sociale dopo aver incorporato nuove possibilità espressive
delle emozioni e nuove gestualità per manifestare i propri sentimenti.
Esso non trasmette passivamente un codice culturale o simbolico, ma fornisce un contesto per l’azione entro
il quale l’improvvisazione ha un senso e il simbolo culturale si lega all’esperienza corporea.
n.b. Bateson si rifiuta di parlare in termini di “comportamento sociale degli individui”. Per lui, piuttosto, il
comportamento individuale non è determinato dall'appartenenza a un gruppo sociale, dalla condivisione di
un patrimonio simbolico, ma si produce come risultato delle reazioni degli individui alle reazioni di altri
individui> → così sfugge a determinismi dell'epoca che vedono l'uomo come determinato da cultura, società
e biologia, inchiodandolo a un'appartenenza fissa e predeterminata. Sceglie di osservare la dialettica concreta
delle relazioni sociali attraverso emozioni e figure corporee dei protagonisti del naven.
► L’es. den naven ci suggerisce dunque di affrontare più ampiamente la dimensione corporea dello studio di
questi comportamenti umani, evidenziando allo stesso tempo la base corporea dello studio di questi
comportamenti: anche lo “studio del corpo”, infatti, è prodotto da “un corpo che studia”. => dimensione
corporea della conoscenza.
Nell'esame del naven, nozione di incorporazione, usata per indicare la capacità del corpo di assorbire la
conoscenza, di agire nel mondo e al tempo stesso di essere modellato dalle forze storiche, culturali e sociali.

1.3. l'incorporazione: i corpi nel mondo e il mondo nei corpi.


Riflessione contemporanea dell'antropologia sul tema corpo fondata sulla nozione di “incorporazione”.→
Incorporazione: condizione esistenziale dell'uomo => stare al mondo abitandolo con il proprio corpo e
abituandosi ad esso.
Insomma, la nozione di incorporazione definisce le modalità attraverso le quali gli esseri umani vivono
l'esperienza del corpo nel mondo e ne producono la rappresentazione. → soggetto e oggetto della

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rappresentazione e dell'esperienza del corpo sono inscindibili: è il corpo a vivere l’esperienza nel mondo e a
conoscere il mondo producendone rappresentazioni.
La stessa storia dell'uomo è fondata sulla presenza del corpo nel mondo e presenza del mondo nei corpi,
poichè incorporiamo forze esterne ed esperienze passate e insieme agiamo creativamente nel mondo
trasformandolo con la nostra “presenza”.
Presenza: nozione introdotta da De Martino, fondatore della moderna antropologia italiana.
1948, il mondo magico: leggendo studi etnografici > studia specifici comportamenti e condizioni corporee
simili presenti in numerose culture umane e definiti problematici. => (Latah in Malesia, olon dai Tungusi
dell’Asia, imu degli Ainu dell’isola di Hokkaido.) Gli etnografi li considerano ”stati psicofisici”, in cui il
soggetto sembra perdere l'unità della propria persona e il controllo dei propri atti in un momento di
un'emozione o di qualcosa che lo sorprende. → DM studia questi stati dopo aver studiato diversi
comportamenti e poteri “magici”, che l'etnografica interpretava allora, in maniera riduttiva, come stati simili
a malattie mentali → in realtà si tratta di complesse figure corporee. Tra queste soprattutto due, che
esprimono due diversi stili di mediazione e relazione tra visibile ed invisibile:
1. estasi: quando il corpo entra in uno stato simile al sogno, nel quale si ritiene che possa viaggiare in
mondi immateriali e sovrannaturali – gli spiriti appaiono dominati
2. possessione: si è dominati dagli spiriti.
└> Entrambe le condizioni sono definite di trance e possono essere considerate come processi corporei di
esperienza e rappresentazione di una “pluralità” del sè.
- Sciamano: potere di incorporare pluralità di spiriti e di dominarli. Operatore di guarigione capace di
dominare il suo corpo e la sua anima o spirito guida e di uscirvi per viaggiare in dimensioni immateriali delle
cosmologie mitologiche locali, → potere che mette al servizio del gruppo sociale di appartenenza.
Lo sciamano è tale perché manifesta nel corso della sua vita una “vocazione” consistente in una crisi di
“invasamento”, di trance estatica o di possessione. n.b. I primi antropologi occidentali consideravano
piuttosto questa vocazione come una predisposizione di alcune popolazioni a forme psicopatologiche definite
“isteria artica” e assimilabili all'epilessia. In realtà, secondo loro, lo sciamano assume legittimità nel contesto
locale per aver superato attraverso un percorso iniziatico il proprio disturbo, e per essere in grado di
provocarlo volontariamente: avendo conosciuto e superato malattia e dolore propri è in grado di
rappresentare ed affrontare quelli altrui.
I poteri magici dello sciamano, quando non erano considerati come superstizioni irrazionali o disturbi
psichici, mettevano in crisi lo sguardo scientifico e gli habitus corporei degli osservatori occidentali,
provocando, per DM, un turbamento che si riflette nelle scritture etnografiche sul tema.
DM considera quei “poteri magici” e quegli “stati psicofisici” come esperienze corporee reali, non
alterazioni patologiche → cosa che non significa accertarsi della “verità” degli stati psicofisici, quanto aprirsi
maggiormente a discussione e confronto.
Il problema dei poteri magici non coinvolge soltanto la qualità di tali poteri, ma anche il nostro stesso
concetto di realtà>, cioè non solo l'oggetto dell’osservazione ma anche la <categoria giudicante>
dell'osservatore. → le pratiche corporee osservate spingono DM a riconoscere l'esistenza nel mondo di forme
di costruzione del corpo e della realtà sociale diverse da quelle rappresentate nei saperi scientifici e filosofici
occidentali. → giunge ad una problematizzazione delle nozioni di realtà, follia e normalità come
storicamente definite in Occidente. ┐┐
Conseguenza: individuare anche in contesto europeo forme di corporeità e soggettività diverse da quelle
dominanti, e quindi viventi come contraddizioni e fratture all'ombra del codice culturale egemone.
Al centro della riflessione demartiniana due concetti: presenza e crisi della presenza. → nozioni di matrice
esistenzialista, ma trasformati e storicizzati con studio di esperienze, rappresentazioni e pratiche corporee
contenuto nel volume Il mondo magico.
Presenza nel mondo (per DM): < capacita di riunire nell'attualità della coscienza tutte le memorie e le
esperienze necessarie per rispondere in modo adeguato a una determinata situazione storica, inserendosi
attivamente in essa mediante l'iniziativa personale, e andando oltre di essa mediante l'azione>.
Tale capacita di azione può smarrirsi in momenti particolari e critici dell'esistenza, quando la storicità sporge
con particolare evidenza e violenza, in momenti connessi a crisi inorganiche decisive, a particolari rapporti
economici e sociali o alla malattie e alla morte.
Quindi presenza come capacità di azione e di trasformazione del mondo e nel mondo. → capacità data dalla
potenzialità del corpo di incarnare la realtà rendendola ovvia. È nella minimale quotidianità di gesti

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apparentemente automatici perché appresi e naturalizzati col corpo, che si realizza l'appaesamento nel
mondo → la perdita di questo rapporto di “oggettivazione della realtà” porta a una crisi della presenza, la
quale svela che il mondo non è già dato, ma costruito, e l'appaesamento è una continua produzione culturale
data dalla nostra capacità di abitarlo e trasformarlo, e al contempo esserne abitati e trasformati. (Morin)
Questa tensione verso l'operabilità nel mondo è per DM sforzo continuo, insieme individuale e sociale. La
progettazione dell'operabilità umana è costantemente socializzata ed è parte di un più ampio processo storico
garantito dalla presenza stessa attraverso un ethos del trascendimento, la capacita cioè di superare la crisi
della presenza.
Oggi la nozione di incorporazione supera quella di presenza per un carattere più accentuatamente
processuale e dinamico: indica un processo corporeo continuamente in corso e non una condizione fissa e
stabile, né uno stato psico-fisico. Non riguarda il corpo in sé, inteso come oggetto di studio, ma fa
riferimento ai processi storici di costruzione della corporeità e ai modi corporei di produzione della storia,
intrecciando le capacità umane di percezione, rappresentazione e azione. Quindi coinvolge anche lo studioso
in quanto essere umano. Per questo motivo il concetto di incorporazione diventa anche un concetto
metodologico.
1990: in un saggio, Thomas Csordas propone di considerare l'incorporazione come un paradigma
dell'antropologia → l’incorporazione non è considerata come un nuovo oggetto di studio antropologico, ma
ha prodotto una vera e propria nuova prospettiva teorico-etnografica che ha rinnovato la disciplina.
Obiettivo della nuova prospettiva: critica radicale alle dicotomie mente-corpo, soggetto-oggetto e tutte le
opposizioni conseguenti (es. natura-cultura, materia-spirito) → assumere il concetto di incorporazione come
principio di analisi delle forme di vita culturale significa andare oltre la visione dualistica classica del corpo
come separato dalla mente.
Visione di Csordas, da lui definita “fenomenologia culturale”: rilettura antropologica dei contributi di
Maurice Merleau-Ponty e del sociologo Pierre Bourdieu (francesi).
1. M MP: elaborazione della nozione di incorporazione a partire dalla questione della percezione
2. P B: nuova teoria socio-antropologica della pratica, attraverso un ripensamento di Marcel Mauss →
habitus per Bourdieu: esprime dialettica continua negli esseri umani tra interiorità ed esteriorità, all'interno di
una continua relazione tra “interiorizzazione dell'esteriorità” ed “esteriorizzazione dell'interiorità” →
scambio incessante corpo-mondo esterno, non solo nei termini della percezione, ma anche di valutazioni e di
azioni, che contraddistinguono l'agentività (capacità di agire delle persone).
→►Quindi habitus: insieme delle disposizioni (da intendersi sia come risultato di un'azione organizzatrice
che agisce sul corpo umano dall'esterno, sia come modi di essere che esprimono una potenzialità di azione)
incorporate dell'individuo → l'habitus si forma attraverso l'incorporazione delle forze agenti nel contesto
sociale, nel percorso storico vissuto dall'individuo.
Esso, per questo, è al tempo stesso strutturato e strutturante:
1. come risultato di un'azione organizzatrice veicolata dall'esterno, le disposizioni sono strutturate dal
contesto sociale in cui l'individuo vive al tempo stesso
2. intese come modi di essere abituali, sono strutturanti in quanto capaci di riprodurre nuove rappresentazioni
della realtà e nuove pratiche sociali.

→► Quindi, nella fenomenologia culturale di Csordas, l'incorporazione indica insieme:


1. l'esperienza di essere nel mondo data dalla percezione corporea della realtà
2. la rappresentazione di tale esperienza prodotta in un'oggettivazione del corpo.
3. I modi di agire nel mondo, messi in atto nelle pratiche umane.

→ analisi della percezione e della pratica fondate sull’incorporazione spinge a superare il dualismo
oppositivo convenzionali tra soggetto e oggetto della conoscenza, studiando in che modo le esperienze e le
rappresentazioni culturale siano costituite ed oggettivate in un processo corporeo continuo →
l'incorporazione consente così di comprendere la base esistenziale ed emozionale dei processi storici, delle
dinamiche sociali e delle produzioni culturali, comprese le immagini del sé, della persona e dell'individuo,
del malessere e del benessere; che non sono naturali ma sono prodotti culturali costruiti sia attraverso
l'incorporazione di forze esterne che forniscono strumenti per pensare la nostra stessa soggettività, sia
attraverso l'oggettivazione delle proprie esperienze corporee.

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Poiché le forze esterne e i meccanismi di oggettivazione di tali esperienze variano nei vari contesti umani,
anche le idee di “persona” e “individuo” possono variare all'interno dei diversi contesti culturali e dei diversi
momenti storici, così come all’interno di uno stesso contesto → corpo come prodotto storico e storia
osservabile come processo corporeo.
Tutti i tentativi di esprimere la propria capacità di agire si fondano sull'esperienza incorporata degli attori
sociali: le relazioni di dominio e di potere si esercitano sui corpi e attraverso i corpi.
L'analisi che parte dalla nozione di incorporazione porta l'antropologia a guardare corpo, salute e malattia,
benessere e malessere, piacere e dolore etc in un'ottica molto diversa da quella biomedica o psicologica →
esperienza interpretabili come forme di incorporazione della conoscenza fondate sulla percezione della realtà
esterna (storica, sociale, ambientale).
E ancora, con questa nozione, le classificazioni delle malattie, e la definizione stessa di malattia come
anomalia, appaiono prodotti culturali costruiti socialmente nei vari saperi, biomedici e non (popolari, folk
loriche – considerati profani).

1.4. Nervi
studi sui nervi (particolare categoria di malattia, a metà tra saperi biomedici e saperi popolari) come esempio
della rilevanza esistenziale, sociale e politica dei processi di incorporazione.
Termine “nervi” spesso associato a esperienze di malessere indefinite (es. crisi di nervi, sentirsi nervosi,
nevrosi): i sofferenti usano un vocabolario molto articolato per definire queste esperienze di malessere; ciò
indica una difficoltà nella rappresentazione, in quanto ci troviamo di fronte ad una forma incorporata di
sofferenza sociale.

1. Studio sui nervi in Costa Rica e in Guatemala di Setha M. Low. => • etichetta di nervios applicata ad
ampia gamma di sensazioni , emozioni e comportamenti (es. paura, tremore, pianto, insonnia,
batticuore, autolesionismo, ecc). • Causa dei nervios rappresentata come biologica o genetica, sia
nelle spiegazioni specialistiche biomediche che nel discorso ordinario • nell'esperienza reale, però,
l'incidente che provoca il malessere è sempre di natura sociale ed emozionale
• In Costa rica, nei paesi rurali, nervios soprattutto tra le donne, in particolare nel momento in cui si
formano le famiglie o in seguito ad eventi traumatici. Anche nelle città si evidenzia che l'esperienza
vissuta dei nervios corrisponde a un'incorporazione della sofferenza connessa a fattori sociali,
economici e politici → corpo come mediatore tra il sé e la società, come luogo quindi di
rappresentazione delle forze sociali.

2. ricerca etnografica di N Sheper-Huges: • analoghe manifestazioni anche tra coltivatori salariati delle
bidonville nel nord-est del Brasile. → cadono improvvisamente al suolo, in preda appunto ad un
“attacco di nervi”, che rappresentano in parte metafore codificate attraverso cui i braccianti
esprimono la loro precaria ed inaccettabile condizione di malnutrizione cronica e bisogno, e in parte
atti di sfida e dissenso che mostrano il rifiuto di sopportare questa realtà insopportabile. (lavorano
per 1 dollaro al giorno come tagliatori di canne da zucchero fin dall’età di 8 anni) • Anche donne
soffrono di questi attacchi in seguito ad eventi traumatici → • sistema nervoso come una metafora
incorporata del “sistema sociopolitico” • per S-H agitazione nervosa come forma di critica sociale
incorporata: malattia come “ribellione incarnata”, strumento dei deboli per denunciare una situazione
inaccettabile.

3. Altri studi dimostrano come la medicalizzazione dell'esperienza nervosa non sia solo una forma di
occultamento prodotto dalle istituzioni, ma anche una tattica attivata dagli stessi soggetti sofferenti 1.
inchiesta sui nevra presso le immigrate greche in Canada di Margaret Lock (1990): • operaie
sottopagate, costantemente in preda a stanchezza, nervosismo e ansia → non connettono condizione
economica e stato fisico, ma cercano di medicalizzare il proprio malessere in modo da legittimarlo
come malattia. • In questo caso, le categorie mediche sono strumenti per <dar voce all'esperienza
soggettiva delle donne greche immigrate> → comprensione del disagio nei termini delle
biomedicina come strategia di legittimazione del malessere.

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Studi e casi, questi, che mostrano come i “nervi” costituiscano un'incorporazione dei conflitti e delle
disuguaglianze sociali e politiche. E insieme, come categoria medica, essi possano essere sia una forma di
controllo sociale che occulti le motivazioni sociopolitiche attraverso una descrizione medica ufficiale o
popolare che trasformi il disagio in malattia, sia un'occasione per legittimare il malessere soggettivo proprio
attraverso la sua rappresentazione e descrizione in termini biomedici e culturali.
In generale, gli studi sui nervi mostrano come la nozione di incorporazione possa arrivare a segnalare il
processo esistenziale e storico che genera il malessere rappresentato come “malattia”. ▲ n.b.
“Incorporazione” diversa da “somatizzazione”, in quanto la prima, a differenza della seconda, vuole superare
la distinzione mente-corpo, su cui invece si fonda la somatizzazione nello stesso istante in cui dice di volerla
superare (essa si fonda sull’idea di corpo come supporto sul quale si manifestano sintomi di ordine
psicologico) → limite del concetto di somatizzazione: se in teoria pretende di sostenere l’indissolubile unità
di mente e corpo, di corpo individuale e sociale, di natura e cultura, non riesce a superare nella pratica questi
dualismi.
Dal punto di vista dell'incorporazione non esistono malattie psicosomatiche!: se dovessimo usare questa
categoria, allora tutte le malattie lo sarebbero, stante l’inscindibile unità fra mente e corpo.
La nozione di incorporazione spinge gli antropologi medici a dare maggiore importanza alle relazioni tra
interpretazione della sofferenza, elaborata da pazienti e medici, ed esperienza storica dei rapporti sociali e di
potere. Il tutto con la consapevolezza che il malessere è un sapere incorporato nei soggetti stessi → la ricerca
antropologica deve coglierne il senso attraverso l'analisi della realtà storica espressa nell'idioma corporeo dei
sofferenti.
Conseguente necessità di una riflessione sulla dimensione corporea delle stesse rappresentazioni scientifiche,
in particolare quelle prodotte da antropologia e biomedicina.

1.5. Lo scienziato e il (suo) corpo.


Il fatto che il concetto di incorporazione non corrisponda alla scoperta di un nuovo oggetto di studio (il corpo
non è una cosa), non significa che non si possa studiare il corpo, quanto piuttosto che la sua osservazione
richiede una profonda trasformazione dei paradigmi classici della conoscenza, che tendono a ridurne la
complessità.
Nella realtà lo studio del corpo è sempre uno studio dal corpo: gli scienziati sono essi stessi corpi (carne ed
ossa) e l'esperienza della conoscenza scientifica è anch'essa un’esperienza corporea. Nel loro percorso
formativo gli scienziati assumono anche un habitus, una disposizione incorporata.
Rilettura del naven di Bateson dal pdv dell'incorporazione:
• Bateson ha forzato in qualche modo le proprie tecniche di ricercatore scientifico (il suo habitus di
antropologo appreso da Malinowski) per andare contro alle teorie dominanti del determinismo - biologico o
culturale – dei comportamenti umani.
• Lettura superficiale del naven: non è possibile comprendere l'altro se non mettendosi nei suoi panni. •
Andando più a fondo, il naven insegna qualcosa di più: che mettersi nei panni dell'altro implica una relazione
competitiva che ha piuttosto come obiettivo mettere l'altro nei nostri panni (non mettersi nei panni dell’altro)
→ il naven mostra che il confronto conoscitivo può sempre trasformarsi in una relazione di dominio
dell'altro, rischio disastroso che il naven mette in scena, per riprodurlo, controllarlo e scongiurarlo nei
termini di un equilibrio dinamico e di un adattamento creativo e reciproco dei corpi sulla scena sociale.
►Insomma, con il naven Bateson comprende che non si può inglobare l'altro nelle nostre categorie
scientifiche, né d'altra parte si può pensare di diventare l'altro (come il limitante concetto di empatia potrebbe
far credere); si può però “riflettere” l'altro, osservando le emozioni che l'incontro produce in noi stessi, in un
certo senso “imitandolo” facendo della mimèsi non solo un principio di comprensione delle relazioni sociali,
ma anche una metodologia di conoscenza che integra gli aspetti corporei.

Dimensione corporea del sapere scientifico: a lungo scarsamente considerata, quasi mai oggettivata nella
pratica scientifica e raramente rappresentata nella scrittura scientifica → formazione di una dicotomia tra
scrittura scientifica e scrittura letteraria (- scientifica: risultati oggettivi, - letteraria: diari con confessioni
intime, in cui si mettono in scena anche le emozioni e le sensazioni fisiche dello scienziato. Scrittura non
destinata al pubblico a differenza dei saggi scientifici, che dovevano essere estranei al corpo dello
scienziato).

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( !!! ) solo quando le scienze sociali e umane hanno compreso che i processi di conoscenza sono il frutto
dell'esperienza del corpo nel mondo, la dicotomia gerarchica tra soggetto che conosce ed oggetto conosciuto
è stata messa in questione. Fino ad allora l'idea positivista di una conoscenza scientifica oggettiva rimuoveva
il corpo come pesante fardello, nell'ingenua fiducia nella possibilità di conoscere le cose oggettivamente, in
toto. A lungo, sensi, emozioni , dolore etc. intesi come miraggi ingannevoli.
Rimozione del corpo dello scienziato ancora più paradossale in ambiti di sapere e ricerca scientifica (es
antropologia e biomedicina) che si fondano sull'osservazione dell'altro e sul confronto tra due sguardi,
ovvero tra due corpi → incrocio efficace solo se l'osservatore è capace di rispecchiarsi nel volto dell'altro,
senza il quale non si può ottenere che incomprensione o dominio sull'altro.
Questione fondamentale per l’antropologia medica, in particolare per quanto riguarda i processi di cura, dove
la dimensione conoscitiva è data dall'incontro etnografico e dove si fanno interagire questa consapevolezza
con la complessità che emerge dall'incontro terapeutico fra osservatore e osservato.→ Georges Devereux:
sottolinea come attraverso il corpo e le sue emozioni sia possibile rendere più complesso ed efficace il
metodo di osservazione dell'altro. → corpo e sue emozioni come strumento per migliorare l'osservazione
dell'altro.
1967: Dall'angoscia al metodo nelle scienze del comportamento. Nel quale mostrava che le prescrizioni
dell'osservazione scientifica oggettivante dell'essere umano e del loro comportamento (come la medicina, la
psichiatria, l’antropologia, ecc) fossero in realtà vere e proprie difese contro l'angoscia data dal rapporto
conoscitivo con l'altro.
Fondamentale invece secondo lui l'autoanalisi dell'osservatore: l'osservazione deve essere insieme anche
meta-osservazione, cioè una osservazione dell’osservazione, condotta nella consapevolezza che
nell'osservare si è sempre anche contro-osservati, altrimenti essa si riduce a mero riflesso della propria
ideologia.
Neutralità e oggettività dell'osservazione sono solo costruzioni ideologiche per scongiurare le perturbazioni
che si generano nell’osservatore nel momento dell’incontro con il soggetto osservato.
La presenza del corpo dello scienziato sulla scena conoscitiva è ineludibile → ne deriva che esserne
consapevoli diventa un buono strumento per migliorare la stessa conoscenza dell'altro, anche se questo può
spingere lo scienziato a criticare il proprio retroterra ideologico e il proprio percorso formativo, che gli
avrebbe insegnato a considerare il proprio corpo come “assente” dalla scienza conoscitiva.

→ sempre nel 1967, in Italia, Franco Basaglia riflette sulla dimensione corporea del rapporto tra medico e
paziente → incontro in cui, sebbene richieda la presenza del corpo di entrambi, si considera quello del
paziente come unico presente sulla scena, come corpo passivo e anatomico, unico oggetto dell'indagine
medica. Non si tratta di un incontro reale, ma di un incontro fra un soggetto ed un corpo cui non viene data
altra alternativa oltre quella di essere oggetto agli occhi di chi lo esamina>.
In questo senso: • Corpo del medico risulta rimosso
• corpo del paziente -a cui viene sottratta la capacita di agire – espropriato

n.b. Studi antropologici più recenti hanno dimostrato come non sia esattamente così, ma la dinamica di
relazione sia più complessa: nel rapporto medico-paziente, per quanto la relazione possa essere asimmetrica,
vi è sempre un incontro reale in cui la capacità del paziente di agire è sempre potenzialmente attiva.
Inoltre la presenza corporea del medico può emergere in modo ineludibile a partire da contraddizioni che si
possono verificare in circostanze particolari, ad esempio quando è lo stesso medico ad ammalarsi, cosa che
lo porta in una crisi che spinge il medico (apparentemente osservatore neutrale dei corpi sofferenti) a
confrontare l'immagine del proprio corpo vissuto con quella del corpo del paziente, costruita nel corso della
sua formazione e della sua pratica medica. → malattia del medico incarna fallimento che la corporeità
vissuta infligge all'idea di una corporeità oggettivata, producendo una contraddizione che spinge il medico
stesso a esercitare un’azione critica rispetto al proprio retroterra ideologico.
Si crea una contraddizione tra esperienza corporea diretta e uso dei concetti teorici della disciplina.
Insomma, nella pratica la rimozione del corpo dello scienziato è una mistificazione, è un paradosso
impossibile, frutto di una negazione più o meno consapevole legittimata sul piano ideologico diversamente a
seconda della disciplina specifica.
Es. la rimozione delle proprie emozioni è costantemente rappresentata come indispensabile da parte dei
chirurghi, mentre è più spesso ritenuta controproducente da parte dei pediatri e degli psichiatri. Ciò tuttavia

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non significa che il corpo debba essere considerato assente dalla scena: come tutti i rapporti umani, la
relazione corpo a corpo tra medico e paziente è sempre presa in una necessaria dialettica tra vicinanza e
distacco. In ogni caso: Negazione della presenza del corpo = errore epistemologico, in quanto occulta il fatto
che il sapere scientifico si incarna nello stesso scienziato, poiché è appreso attraverso un procedimento di
trasmissione e un’esperienza pratica che non può in alcun modo escludere il corpo, ma anzi si fonda proprio
sulla capacità di incorporare la conoscenza.
Due domande:
1. come avviene questo occultamento? L'osservatore organizza il contesto di osservazione, occultando una
serie infinita di variabili alla ricerca di un'ideale di neutralità irraggiungibile nella realtà.
2. Perché si verifica? Base nei principi positivistici della scienza, che ha posto nell'uomo come oggetto la
finalità della sua ricerca.

Necessità di riconsiderare a questo punto la paradossale rimozione del corpo dall'impresa conoscitiva
scientifica occidentale, esplorando la costruzione ideologica che la produce e giustifica: la separazione
gerarchica mente pensante-corpo come suo supporto.

1.6. La separazione mente/corpo: errore di Cartesio?


Problema della separazione tra mente e corpo: una delle maggior controversie filosofiche dell'Occidente.
Obiettivo più recente: togliere l'uomo dal dominio esclusivo delle religioni, con concetti come anima o
spirito e al loro posto parlare di corpo e mente → corporeità a lungo bandita dalla filosofia, scandalizzata dal
destino di corruttibilità del corpo, in quanto pesantemente influenzata dalla teologia cristiana e dalle sue
speculazioni sull'indivisibilità dell'essenza divina.
In questo contesto, sistema filosofico-scientifico cartesiano estremamente innovativo: la sua celebre
intuizione <penso dunque sono> è insieme sia teoria generale della struttura e del funzionamento
dell'universo fisico, sia spiegazione della meccanica umana e della fisiologia animale.
I) Nella sua prima formulazione, il dualismo mente-corpo sembra mostrare il soggetto umano
inteso unicamente in base alla sua facoltà di pensiero, sganciato da qualsiasi ancoraggio
corporeo –> corpo come semplice supporto fisico, sostanzialmente estraneo al pensiero. Esso
non offre nessun correlato fisiologico alle attività del pensiero, anzi è fonte di inganni e di errori
che solo la mente può fugare esercitando un controllo.
Per il “dualismo cartesiano” il mondo consiste essenzialmente di due tipi di sostanze: a. la
sostanza fisica, definita estesa (res extensa) in quanto ha volume, profondità, è misurabile e
divisibile b. la sostanza pensante (res cogitans), non fisica → Così il corpo umano, il cervello, il
sistema nervoso, sono per Cartesio cose fisiche che appartengono alla prima categoria; mentre i
pensieri, i desideri, gli atti della volontà e tutto ciò che rientra nella definizione di mente
appartiene alla seconda. → mente totalmente indipendente dal corpo, che ha natura fisica,
materiale

II) La teoria è diversa = Cartesio ammise il rapporto tra mente e corpo, seppur sosteneva ancora un
primato della prima sul secondo conservando la distinzione tra io-pensante e l’ io-meditante, sua
estensione corporea. (sensazioni come fame, sete, dolore, ecc non sono altro che certi confusi
modi di pensare che provengono dall’unione e dalla quasi mescolanza della mente con il corpo)

→► Più che essere l’autore di un grande “errore”, secondo Damasio, Cartesio sembra vivere vivere una
profonda contraddizione: quella di una distinzione teorica che si rivela inadeguata nell’esperienza pratica
della vita quotidiana, elaborata lontano dall’esperienza vissuta nella realtà storica dell’azione quotidiana
e dei rapporti sociali.

1.7. Cartesio, gli antropologi e il “corpo pensante”


Fine anni ‘80: Nancy Scheper-Hughes e Margaret Lock = critica al dualismo mente/ corpo, inteso da loro
come “modello culturale” occidentale di lunghissima durata (radicato nella filosofia di Aristotele, nella
medicina di Ippocrate e sancito definitivamente da Cartesio nel ‘600).
- Es.: donna sofferente di emicrania cronica, racconta ad uno studente di medicina del primo anno di avere
marito alcolizzato e violento, di essere quasi reclusa in casa per prendersi cura della suocera e di essere

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costantemente preoccupata per i suoi figli. -> Lo studente chiede al prof di chiarire quale sia la causa “reale”
dell’emicrania => le info emerse dalla narrazione biografica della donna è dunque considerato estraneo e
irrilevante per una diagnosi biomedica “reale”. → Questa opposizione tra “reale” e non è per le antropologhe
da ricondursi all’antica dicotomia mente/corpo, che la vedono come una tradizione epistemologica, una
costruzione culturale e storica, e pertanto essa perde il suo carattere “naturale” e la sua pretesa di
universalità.
L’antr.med. può contribuire alla sospensione delle nostre credenze filosofico-scientifhiche, partendo dal
presupposto che il corpo sia simultaneamente un prodotto fisico e simbolico, naturale e culturale, incastrato
nel contesto storico in cui vive. → Inteso come intreccio di pensiero e di pratica, il corpo incarna il pensiero:
è dunque un “corpo pensante” (mindful body), capace di ricordare il passato ed immaginare il futuro.
Per una ricomposizione della frattura cartesiana, Scheper-Hughes e Lock articolano l’immagine di un “corpo
molteplice”, dato dall’intreccio di “tre corpi”:
1. Corpo individuale: vissuto nell’esperienza, nella produzione del proprio sé
2. Corpo sociale: “simbolo naturale” con il quale immaginiamo, classifichiamo e rappresentiamo la
realtà naturale, sociale e culturale
3. Corpo politico: poteri e forze che esercitano il controllo e la sorveglianza sui corpi dei soggetti
sociali, intervenendo sul campo della regolamentazione della sessualità, del lavoro, del tempo libero,
della salute e della malattia, stabilendo quindi la soglia fra normalità e devianza.
└> La mediazione tra queste tre dimensioni della corporeità è data dalle emozioni: implicano orientamenti
sentimentali e cognitivi, fanno riferimento a valori sociali della moralità pubblica e dell’ideologia culturale e
forniscono il legame mancante tra mente e corpo.

► Le riflessioni di Cartesio sono state tentativi per cercare di dare una risposta all’esperienza
dell’uomo nel mondo. Il suo modello dicotomico, ereditato dalla filosofia classica, ha dominato sul piano
ideologico per la costruzione dei saperi in Occidente. Anzi, la separazione è diventata
un principio ontologico considerato universale e indiscutibile. Su di esso si è fondata la
costruzione dei saperi occidentali, strutturati su rigide opposizioni: natura/cultura, passione/ragione,
irrazionale/razionale, generando distinzioni gerarchiche tra generi, mentalità, nazionalità.
In realtà, il mito della dicotomia mente/corpo ha incominciato ad incrinarsi già al momento della sua
formulazione, facendo emergere una contraddizione originaria: la vita non sembra iscriversi in quella
dicotomia, anzi si ribella ad essa producendo feconde contraddizioni che l’osservazione scientifica deve
rimuovere.

Una delle conseguenze di questo modo di ragionare per opposizioni è stato quello di separare l’umanità in un
“Noi” (Occidente spirituale) e un “Loro” (Non-Occidente selvaggio, materiale). => Etnocentrismo (compito
dell’antropologia è eliminarlo)

Michael Lambek, riprendendo alcune ricerche svolte in Mozambico e in Madagascar, mostra come entrambe
le teorie, quella dualista (basata sulla scissione mente/corpo) e quella monista (basata su un’idea di unità),
possano essere rintracciate in tutte le società. Ma, in tutte le società in cui il dualismo mente/corpo è diffuso
genera contraddizioni: sostenuto dalla teoria, entra in crisi nella pratica.
Come ha dimostrato l’antropologo Laurence J. Kirayer, tale contraddizione si verifica anche nel campo
biomedico.  La medicina occidentale è stata spesso rappresentata e criticata come sistema basato sul
dualismo e sul riduzionismo (cioè sulla separazione netta fra mente e corpo e sulla riduzione di ogni aspetto
sociale, culturale ed emozionale al dato biologico oggettivo). Tuttavia, tale paradigma, pur orientando le
pratiche della biomedicina, non è in grado di determinarle in maniera meccanica o automatica. Gli operatori
dell’ambito biomedico, infatti, adeguano le loro pratiche a valori di riferimento che hanno incorporato nel
percorso di formazione, ma possono coglierne la contraddizione per prenderne le distanze e agire in senso
trasformativo. Sono corpi-soggetto dotati di capacità e intenzionalità creativa.

Emily Martin muove una critica alle neuroscienze contemporanee, le quali tendono a interpretare il rapporto
mente/corpo in termini naturalistici: cercando cioè di spiegare le attività sociali umane attraverso i
meccanismi neurali e i processi cerebrali. -> Anche se questo campo di ricerca sembra avvicinarsi all’idea di
un intreccio fra dimensione mentale e corporea, esso nasconde un certo neuroriduzionismo, ovvero il

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tentativo di ridurre alla funzione nervosa del cervello la complessità dei comportamenti umani. Il neuro
riduzionismo, secondo Martin, sarebbe motivato dall’esigenza di produrre nuove forme di soggettività e una
diversa visione della società basata sull’individualismo radicale che considera l’individuo come autonomo,
chiuso nei confini di se stesso e quindi separato dagli altri (società invece è basata sullo scambio sociale e
sulle forme di solidarietà). → Una visione che, nell’interpretazione di Martin, sarebbe funzionale ai processi
di ristrutturazione del mercato nel capitalismo contemporaneo e che porterebbe alla sparizione dei riferimenti
sociali e culturali.
Ridurre l’idea di individuo alle sue funzioni cerebrali significherebbe immaginare la relazione
intersoggettiva come un rapporto fra “cervello e cervello”, considerare la comunicazione con gli altri alla
stregua di quella che si attiva fra computer connessi in rete. Negando la complessità dei rapporti
intersoggettivi, reali, vissuti nell’esperienza, la dimensione socioculturale verrebbe ridotta a funzione
esclusiva del sistema nervoso.
Mostrando come l’idea occidentale di “individuo” non sia un dato naturale, ma una costruzione storica,
culturale e ideologica, si può comprendere come tale idea essenzializzata come naturale solo perché è quella
dominante.

1.8. Il corpo fuori di se ovvero i medici, la Chiesa e lo Stato


L’antropologia mostra come le nozioni di “individuo”, “persona” e “sé” non costituiscono contesti
universali, come vorrebbe la tradizione filosofica occidentale, ma possono variare non soltanto nei contesti
culturali, ma anche all’interno di ciascuno di essi.
Anche la definizione di “individualità” (come totale autonomia dell’individuo isolato nel proprio corpo)
appare come una finzione storica complessa e contraddittoria. → Ad es., noi tendiamo a considerare il corpo
come un organismo biologico unico, individuale, eppure questo individuo (Turner) <dipende biologicamente
per la riproduzione, l’alimentazione, la sua continua esistenza, da input biologici e sociali provenienti da altri
individui e dall’ambiente. Inoltre, anche la sua individualità biologica è complessa, mediata come prodotto di
numerosi e distinti arti, organi, stadi di crescita e così via>.

Ciò è  ancora più evidente se si osserva la varietà delle rappresentazioni culturali del corpo, della persona,
del sè, dell'individuo.  Ad esempio, non tutte le culture umane concettualizzano “il corpo” come un'entità
individuale. In Brasile, tra i Kayapo studiati da Turner, manca un termine specifico per definire il “corpo”
individuale che viene indicato come la “carne di qualcuno”.

Lévi-Strauss racconta il caso dei missionari in Amazzonia, osservatori severi dei tatuaggi tracciati sui volti
dei Caduveo. => il missionario è incapace di comprendere una pratica corporea che lo scandalizza (perchè
gli indigeni alterano l’apparenza del viso, opera del Creatore?), nè  sa chiedere a se stesso il perché di questo
scandalo: per farlo egli dovrebbe denaturalizzare la sua stessa appartenenza e interrogarsi criticamente sul
fascino o sul senso di repulsione che quei ricami esercitano i suoi occhi. Al contrario egli rimuove
l'emozione e giudica insana incomprensibile quella manipolazione del corpo, escludendo l'esistenza di corpi
diversi da quelli concepiti dal cristianesimo europeo.  E’ a questo punto che gli indigeni chiedono ai
missionari, incrociando il viso non tatuato: < perché siete così stupidi? Perchè non vi dipingete?>>.  Per loro
bisognava dipingersi per essere uomini, colui che restava allo stato naturale non si distingueva dal bruto. 
I missionari avrebbero potuto trarre un buon insegnamento da quel faccia a faccia, riflettendo sul fatto che
l'identificazione fra “uomo” e “cristiano” non è un dato naturale: se chi non è battezzato per il missionario
era un animale, un non-uomo, per il suo interlocutore caduveo il volto non tatuato era invece segno di
disumanità. 
Incapaci di riflettersi nel volto tatuato dei Caduveo, i missionari oggettivavano quelle pratiche distanziandole
con giudizi etnocentrici, prontamente ricambiati dai loro interlocutori. 
Come mostra Lévi-Strauss, il missionario, dopo aver giudicato quei disegni come <un’artificiosa bruttezza
opposta alle grazie della natura>, si contraddice, affermando che difficilmente le più pregiate tappezzerie
europee potrebbero eguagliare la bellezza di queste pitture. Ma alla fine il dubbio ha la peggio, e il gesuita
scorge il demonio in quei corpi dipinti. Formato a un'idea dell'uomo fatto immagine e somiglianza del dio
Cristiano, egli non riesce a straniare la sua appartenenza:  per comprendere quei tatuaggi dell'altro avrebbe
forse dovuto rispecchiare se stesso.

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Studio condotto in Nuova Caledonia, nel 1947, Maurice Leenhardt, antropologo e missionario cattolico => 
nel corso di un colloquio con un Boesoou,  un anziano filosofo e scultore canaco, sulle conseguenze
cambiamenti che la civilizzazione occidentale Europea aveva portato in quelle Terre, Leenhardt sosteneva
che l'Occidente avesse introdotto la nozione di “spirito” in una cultura che ne era sprovvista. Ma il suo
interlocutore rispose che loro già conoscevano l'esistenza dello spirito, che loro procedevano seguendo lo
spirito. Quello che gli occidentali avevano portato era il corpo. -> Questa risposta fece crollare un duplice
stereotipo: quello di un’umanità selvaggia, primitiva e naturale, dominata dalla corporeità e dai suoi istinti; e
quello di un Occidente spirituale e civilizzato. Uno stereotipo che collocava lo spirito dalla parte della cultura
e il corpo dalla parte della natura, proiettando la separazione in una differenza tra due umanità: civilizzati e
primitivi.
Tra i canachi il corpo non esisteva in se stesso, nè c'erano nomi specifici per designarlo: era solo un
supporto.
L’inattesa risposta di Boesoou metteva in discussione la concezione occidentale del corvo e la pretesa
universale delle nozioni di “persona” e di” sé” => anche il sé quindi non è oggettivabile come un’essenza
interiore, profonda e universale. È una finzione storico-politica. Da un punto di vista antropologico è
un’economia rappresentazionale, una pratica esistenziale in perenne riconfigurazione. Il sé trascendente,
quale entità unica e non trasformabile, è una costruzione etnocentrica prodotta dalla psicologia occidentale.

[In genere Cartesio è considerato anche l'inventore di una concezione occidentale del sé, inteso come entità
unica e non trasferibile. In realtà, come ha notato l'antropologo statunitense Paul Rabinow,  proprio Cartesio, 
negli scritti in cui rievoca le sue esperienze teatrali, mostra come sia possibile per tutti operare una continua
plasmazione del proprio s'è, riflettendo sul l'uso delle maschere degli attori per celare le emozioni o sulle
tecniche di mimetizzazione utilizzate da viaggiatori in Paesi stranieri per passare inosservati e non essere
individuati come estranei.]

Le ricerche etnografiche hanno mostrato come altre culture umane hanno prodotto costruzioni diverse da
quelle dell’individualità, considerando l’essere umano come dividuo. -> Nozione di dividualità: identità
trans-individuale fondata su una concezione intersoggettiva delle persone.
Le persone si definiscono come persone relazionali, cioè appunto dividuali.
D’altra parte, aspetti dividuali e individuali concorrono alla definizione della persona umana.

L’identità corporea, quindi, non è un dato naturale, fisso, ma un gioco di rappresentazione: si fonda sulle
proprie emozioni e si produce e riproduce continuamente nel rapporto con gli altri. La
definizione antropologica di identità corporea, intesa come meccanismo relazionale e quindi come un
processo in continua trasformazione, è diversa dalle concezioni essenzialiste dell’identità che riscontriamo
nel significato originale che assume nelle scienze occidentali. (aggettivo “identico” inteso come perfetta
somiglianza) =>L’identità è considerata una disposizione che si acquisisce durante la formazione della
propria personalità nell’infanzia e che tende ad essere fissa nel tempo. Il distanziamento da essa era
considerato come devianza, disturbo psichico. Esempio, le identità ambigue in campo sessuale: storicamente
oggetto di classificazioni essenzialiste e violente, spinte fino alla persecuzione, vedevano l’azione congiunta
di Stato, Chiesa e biomedicina, attraverso l’internamento nei manicomi e nelle carceri di soggetti la cui
identità sessuale non si identificava né nel maschile né nel femminile e venivano pertanto considerati folli o
devianti dalle tre istituzioni.
Altro es. = Controllo del corpo femminile dalla Chiesa, dallo Stato e dalla biomedicina: l’azione di
classificazione istituzionale del corpo femminile è un processo di lunga durata. => Ciò è evidenziato
dall’analogia tra isteria (categoria elaborata dalle istituzioni mediche) e stregoneria (coniata dalle istituzioni
religiose). ┐
Streghe, cioè cattive cristiane, erano considerate le donne che praticavano saperi religiosi o terapeutici
lontani da quelli ufficiali.
Nel caso dell’isteria, in realtà, si trattava di forme di medicalizzazione di un tipo di femminilità che
intendeva sottrarsi ai valori dominanti (in primo luogo una sessualità unicamente votata alla procreazione). -
> L’internamento delle isteriche consentiva di escludere dallo scambio sociale figure che le famiglie e le
comunità consideravano devianti perché non riuscivano più a controllare. Stato,Chiesa e biomedicina sono

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risultati essere alleati nella definizione di normale e anormale, in una convergenza di interessi che ha
l’obiettivo del controllo della corporeità femminile e, attraverso di essa, dell’intero corpo sociale.
Il corpo femminile è stato e rimane luogo pubblico di dibattito e conflitti (controversie sul diritto
di aborto, nuove forme di procreazione assistita).

Uno studio di Adelina Talamonti sulla costruzione del “ corpo diabolico”, condotto attraverso l'osservazione
etnografica di un rituale esorcistico cattolico contemporaneo,  mette in evidenza come la manipolazione
fisica del corpo dell’esorcizzata sia un elemento fondamentale nel processo rituale. => Il rituale agisce sulle
forme di incorporazione e si configura come un dispositivo di addomesticamento del corpo. 
Il tentativo di ristabilire la salute attraverso la salvezza dell'anima è di fatto praticato con una più profana
manipolazione del corpo ->  in tal senso, il rito esorcistico apre una contraddizione rispetto alla stessa
nozione Cattolica della persona, mostrando l'impossibilità di eseguire, nella pratica, la disincarnazione
dell'anima dichiarata sul piano ideologico e teorico delle teologie. Proprio come accade nell’azione dello
sciamano, l'anima è cercata nel corpo, attraverso la sua manipolazione operata dall'esorcista in nome del
sapere teologico. Ma il corpo” posseduto” incarna e al tempo stesso disarticola le forme simboliche
istituzionali che cercano di renderlo docile, e mette in scena un ambiguo intreccio di critica e consenso, di
incorporazione e di smontaggio dei dispositivi dominanti che tentano di controllarlo. In campo antropologico
questa strategia è definita spesso come una forma di “resistenza” o di “critica incorporata”. Queste teorie
sottolineano l’aspetto contro egemonico del corpo posseduto.┐
Più recentemente, invece, si è cercato di mostrare come esso esprima anche significati più ambigui e
complessi: l’idioma del corpo convulsivo incarna anche altri aspetti: estetici, religiosi o economici (per es e
chiarimenti vedi paragrafi successivi).

1.9. L’antropologo e la taranta


De Martino, estate del 1959, effettuò ricerca etnografica in Salento in collaborazione con un gruppo di
studiosi comprendenti un etnomusicologo, uno psichiatra, una psicologa, un’assistente sociale e
un’antropologa. Per la prima volta veniva condotta in Italia un’etnografia di gruppo (ciò rilevava la
consapevolezza che i fenomeni umani sono complessi e radicate in precise situazioni storiche e locali). La
ricerca richiedeva approcci diversi, ma integrati.
Si trattava di studiare da vicino il fenomeno del “tarantismo”: in quell’area le donne che dicevano essere
state “pizzicate dalla tarantola” si recavano a Galatina il giorno di S. Paolo (la notte tra il 28 e il 29 giugno),
presso la chiesa dedicata al santo, e lì erano scosse da vere e proprie convulsioni, dimenandosi, urlando e poi
crollando inerti al suolo -> assumendo figure fisiche vicine alle crisi psicomotorie che la medicina
paragonava ad attacchi morbosi di follia.
Pizzicate dalla tarantola durante il lavoro nei campi (opinione condivisa nel contesto sociale locale), esse si
rivolgevano al santo per guarire da una vera e propria forma di possessione dallo spirito del ragno, ritenuto
responsabile delle loro convulsioni.
De Martino aveva osservato le crisi di alcune “tarantate” nel contesto domestico: qui accadeva che, in uno
spazio delimitato da un lenzuolo bianco steso per terra coperto da alcuni oggetti (nastri rossi o gialli e figure
di S. Paolo), le donne, vestite completamente di bianco, cominciano a muovere il corpo al suono di
un’orchestrina locale composta da chitarra, tamburello, violino e fisarmonica. Seguendo il ritmo, soprattutto
del tamburello, esse pian piano eseguono una specie di ballo.
Si notò che la danze era strutturata in due fasi: 1. a terra, la donna si contorceva imitando i movimenti del
ragno (danzava identificandosi in esso); 2. Si alzava in piedi saltellando e battendo la punta dei piedi, come a
rappresentare la volontà di schiacciare la tarantola.
Il ballo poteva continuare per giorni, con brevi intervalli, finchè la donna non cedeva al suolo sfinita
dichiarandosi liberata dallo spirito del ragno.
Quando queste donne si recavano alla chiesa di s. Paolo il 29 giugno, per chiedere la guarigione, i loro
comportamenti erano molto più drammatici e irreali: non danzavano in pose riconoscibili e ordinate, ma
erano prese da vere e proprie crisi convulsive; in assenza dell’orchestra, sembrava non potessero configurare
nel ritmo musicale la loro sofferenza.

Fenomeno di lunghissima durata: i documenti lo attestano fin dal medioevo.

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Aveva coinvolto due istituzioni cardine della storia occidentale: (biomedica) medici e psichiatri,
(ecclesiastica) Chiesa. -> adottarono differenti strategie di comprensione, ma anche di controllo e
trasformazione. => 1. Posizione dei medici: consideravano questi comportamenti, prevalentemente
femminili, in tre modi: - malattie derivanti realmente dal veleno del ragno, - disturbi mentali di tipo isterico, -
pure finzioni femminili, cd “carnevaletti delle donne” 2. Posizione della Chiesa: se nei secoli precedenti,
dinanzi a comportamenti convulsi delle donne aveva praticato la persecuzione, (interpretandoli come forme
di “possessione diabolica”, inserendoli nel quadro della stregoneria ed agendo con la repressione e il rogo);
nei confronti del tarantismo fu adottata una diversa strategia. = mediazione simbolica fra il mondo
istituzionale della Chiesa e le pratiche del tarantismo: figura di S. Paolo, fondatore di uno spazio sociale e
simbolico di dialogo intimo fra istituzione ecclesiastica e credenti (la Chiesa non poteva praticare
persecuzione).
Nella tradizione cristiana vi erano molte figure di santità mistiche i cui comportamenti erano molto simili a
quelle delle tarantate: crisi di trance mistiche: possessione divina.
De Martino critica l’approccio della medicina definendolo “riduzionista”: i medici riducevano il tarantismo
a malattia ignorandone l’autonoma funzione simbolica => <autonomia simbolica del tarantismo>: esso non
può essere considerato malattia per almeno cinque motivi:
1. Immunità territoriale:la zona di Galatina, che ospita il santuario, era considerata immune dai morsi
della tarantola
2. Ripetizione calendariale: la cura attraverso la danza era calendarialmente ripetuta ogni anno
3. Prevalenza femminile: non spiegabile in termini biologici, né in termini di maggiore esposizione al
ragno
4. Distribuzione familiare
5. Autonomia simbolica: riferito all’età del primo morso, <tra gli inizi della pubertà e il termine dell’età
evolutiva>.
└► Il tarantismo era quindi irriducibile a malattia, stante la sua distribuzione di luogo, tempo, sesso,
famiglia ed età. Ma era autonomo da altre forme di descrizione scientifica occidentale,ad es. dalla zoologia
=> la categoria del tarantismo era molto più complessa di quella di malattie mentali come l’isteria o di
malattie di avvelenamento del ragno.
► de Martino mostrò come il tarantismo fosse un ordine simbolico, centrato sulle figure della corporeità
femminile e praticato nel quadro di un’azione collettiva culturalmente e storicamente significativa => ricerca
irriduzionista: sforzo antropologico di liberazione del corpo femminile dal riduzionismo della medicina e dal
controllo religioso, senza negare la connessione fra tarantismo e sofferenza, fisica, esistenziale e sociale.
Si trattava di performance rituali, prese in un intreccio fra cerimoniale festivo, terapia e sofferenza, vissuta
anche come pratica terapeutica del dolore, attivata ogni volta che la sofferenza femminile era incontenibile.
Da notare come l’azione delle forze istituzionali agisca nel corpo dei soggetti e come a sua volta la forza di
agire di questi soggetti possa dar luogo a iniziative di volontà collettive agenti nel senso della trasformazione
sociale.

1.10. Il corpo espropriato: dalla fabbrica all’ospedale


Nell’analisi critica di Marx la partecipazione del lavoratore al sistema di produzione (capitalistico) è
osservata nei termini dell’alienazione (espropriazione) e della reificazione del corpo. => il corpo del
lavoratore è tendenzialmente trasformato in una cosa, in una proprietà del datore di lavoro.
[il lavoratore, col suo corpo, crea il prodotto, il quale verrà poi venduto sul mercato, quindi tolto a chi lo ha
creato]
Le riforme legislative, ottenute in Occidente negli ultimi due secoli come risultato delle lotte per
l’acquisizione di maggiore diritti da parte dei lavoratori, hanno determinato una diminuzione di “presenza
corporea”, a partire da una riduzione dell’orario di lavoro, fino al problema delle malattie professionali e
delle morti sul luogo di lavoro (medicalizzazione del malessere del corpo operaio).

L’antropologa Aihwa Ong: studio dei fenomenici possessione femminile che si verificano nelle fabbriche di
grandi aziende multinazionali, per lo più giapponesi, che all’inizio degli anni ’60 hanno cominciato a
lavorare in Malesia.
Manodopera femminile, a basso costo. Operaie periodicamente soggette ad attacchi di rabbia incontrollabile,
accompagnati da convulsioni e frasi incomprensibili.

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Vengono isolate da altre operaie, sottoposte a somministrazione di Valium e licenziate.
La progressiva diffusione di questi incidenti ha portato la dirigenza a chiedere l’intervento di psicoterapeuti
che hanno interpretato il fenomeno riducendolo a due categorie di malattia: - malattia epidemica di origine
batteriologica (attribuibile a cause fisiche come la malnutrizione) – isteria epidemica di massa (imputabile a
credenze superstiziose, all’incapacità di queste donne di adattarsi ai ritmi e alla disciplina della fabbrica
capitalista)
La Ong è andata oltre questa interpretazione, evidenziando nell’idioma della possessione una forma di
incorporazione del malessere sociale, che ha la duplice valenza di espressione di paura e di resistenza
contro le violazioni di confini, di ordine sia morale che fisico => Le donne incorporavano un senso di colpa
per la loro presenza in contesti di lavoro e a dirigenza maschili e subivano molestie da parte dei capi. [vedi
pag. 71]
La lettura biomedica andava quindi ad occultare la dimensione politica e critica espressa dal corpo
convulsivo.

Michael Taissig (antropologo e medico) riprende la questione della trasformazione del corpo in oggetto nel
sistema produttivo del capitalismo contemporaneo. -> studia il caso di una donna ammalata per le condizioni
di lavoro e di indigenza in cui versava. => Mostra come i rapporti di potere culminanti nella reificazione del
corpo possono trasferirsi dal campo economico al campo dell’assistenza sanitaria.
Nei colloqui, questa donna (affetta da infiammazione degenerativa dei tessuti muscolari) pone domande
connesse all’esperienza soggettiva del proprio corpo malato (perché a me? Perché ora?), domande che si
collocano sul piano sociale, relazionale, esistenziale, culturale, morale (poiché la sua malattia si configura
come la conseguenza di una vita di povertà, malnutrizione e di lavoro eccessivo). Ma, La storia e
l’esperienze di vita reale vengono lasciate fuori dall’ospedale e dalle pratiche biomediche e il paziente
percepisce soltanto la forza autoritaria rappresentata dal personale sanitario. -> I rapporti di potere e di
autorità, le uniche cose percepite dalle donna, giungono a oggettivare e reificare il corpo del paziente, a
modificare l’ordine della realtà e a produrre una versione “clinica” della realtà attraverso la diagnosi. Il
corpo è preso in una rete di rapporti di forza, di dispositivi dominanti che lo definiscono sano o malato,
iscrivendolo in un quadro concettuale dotato di autorità scientifica.
Allora domande sorgono spontanee: quali sono i significati dei concetti “salute” e “malattia”? qual è il
confine tra “normalità” e “patologia”? Chi lo ha inventato? Ecc.

CAP.2. SALUTE E MALATTIA: UNA COPPIA AMBIGUA.


[Salute e malattia considerate nella loro problematica variabilità culturale, storica e politica, in rapporto alle
definizioni di normalità e anormalità. La coppia viene definita “ambigua” in quanto da considerare non come
mera opposizione, ma come relazione dialettica, centrale nella vita sociale, nella produzione culturale e nei
rapporti di potere]

Le forme di incorporazione ci spingono a guardare alle figure del corpo come processi esistenziali, culturali e
sociopolitici (e non come stati fisici)→ Dobbiamo quindi mettere in questione anche la dicotomia salute-
malattia.
Salute e malattia sono spesso definite per opposizione tautologica, ovvero si definisce una come assenza
dell'altra. In più, l'opposizione salute-malattia è una dicotomia normativa che si autolegittima come dato
oggettivo e pertanto riflette i rapporti di potere che governano la vita sociale. (opposizione che discende da
un altro paradigma oppositivo: normale/anormale)
L'antropologia medica invita a riflettere sulla fluidità dei confini tra salute e malattia (che variano nel tempo
e nello spazio) e sul loro rapporto che, lontano dall'essere un'opposizione, è un rapporto dialettico, un
processo dinamico tra due termini difficilmente riducibili ad una dicotomia → l'antropologia propone di
osservare piuttosto quanto ci sia di sano nella malattia e di malato nella salute. → Non è scontato quindi che
la salute sia l’”ordine” e la malattia il “disordine”, che cioè il rapporto salute-malattia equivalga a quello
cosmos-caos.

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D'altronde molti esempi pratici mostrano come non si possa fare un facile parallelismo tra salute e cosmos
(ordine) e malattia e caos. -> nella pratica la salute può contenere il caos e la malattia può generare un nuovo
cosmo.
Ciò che emerge è il bisogno di porsi il problema della condizioni che rendono possibile la produzione e il
successo dell’oggettivazione dei concetti di salute e malattia, chiarire quali istituzioni la producono, quali
soggetti la rendono operativa e come si diffonda sul piano culturale
fino ad essere naturalizzata.
Se guardiamo a salute e malattia dal punto di vista dell’esperienza incorporata, esse figurano come
rappresentazioni oggettivate di esperienze corporee che svolgono un ruolo centrale nella vita
sociale, nei rapporti di potere e nella produzione della cura.

2.1.Il normale e il patologico: la “doppia menzogna”.


Definizione da dizionario medico di salute e malattia:
• Salute: stato di benessere di un organismo o di una parte di esso, caratterizzato da una funzione normale e
non affetto da malattie”.
• Malattia: condizione che altera o interferisce con lo stato di salute di un organismo, caratterizzata
da un anomalo funzionamento di uno o più sistemi, parti o organi.
└► Evidente tautologia, una definizione per contrasto che oppone salute e malattia, reificandole come stati e
condizioni oggettive incomunicanti tra loro.
Altro elemento importante da notare è come la definizione biomedica di salute e malattia siano uno stato
oggettivo, che si iscrivono nel corpo del paziente e si definiscono a prescindere della percezione soggettiva
del malessere, se non nella lettura dei sintomi che il paziente descrive.
(paradossali esempi di non coincidenza tra lo star bene ed il sentirsi bene delle persone => ci si può sentire
bene ed essere dichiarati malati, e viceversa).
Esempio di due critiche alla scelta della biomedicina di definire la malattia in riferimento a norme oggettive:
1.Secondo il filosofo tedesco HANS-GEORG GADAMER la salute non si manifesta, resta silenziosa
finché non è la malattia a determinarne la consapevolezza di essa (carattere di segretezza della salute) →
sorta di “primato metodologico” della malattia = sola si manifesta e si oggettiva. -> Ma questo avviene
nell'esperienza del soggetto, non attraverso l'individuazione di elementi oggettivi. -> La biomedicina, invece,
definisce la salute in base alla rilevazione di dati oggettivi (es. analisi del sangue), rischiando i criteri che la
salute utilizza per conservare se stessa.

2. Lo storico e filosofo della scienza GEORGES CANGUILHEM nel suo studio Il normale e il patologico
(1966) sostiene la necessità di uscire dalla dicotomia e di elaborare nuovi paradigmi concettuali capaci di
cogliere il senso profondo del malessere nell'esperienza intima del soggetto che lo vive. Caughilhem
smaschera il riduzionismo implicito in una classificazione che oggettivizza la malattia e la sottrae al malato,
che la vive: secondo lui, non è possibile qualificare la salute come inconsapevolezza del corpo = il silenzio
del corpo non è sempre indice di salute. Così come la consapevolezza del corpo sia percezione di una
minaccia (es. mi può far male lo stomaco solo perchè ho fame, che non è una patologia medicalizzabile)

Rigida opposizione salute/malattia molto problematica → tentate diverse definizioni in un percorso storico di
progressivo abbandono della pretesa di distinguerle in base a criteri “oggettivi”; pretesa criticata da vari punti
di vista, tra cui quello che considera la variabilità storica, culturale e sociale della distinzione: EMILE
DURKHEIM, nel terzo capitolo de Le regole del metodo sociologico dedicato alle “Regole per la
distinzione del normale e del patologico” sostiene che sia limitante distinguere salute e malattia scegliendo
come loro tratti salienti piacere e godimento per la prima e dolore e sofferenza per la seconda → “relazione
che manca di costanza e precisione”.
Dalla consapevolezza che normalità ed anormalità non sono essenze ma norme prestabilite, deriva la
necessità di comprendere i processi attraverso cui sia stata stabilita la norma prima di definire a priori
l'evento della malattia.
Lo stato di salute, basato su norme, varia infatti non solo tra società differenti, ma anche all'interno di stesso
contesto sociale. Durkheim ridefinisce dunque la malattia come qualcosa che “ci costringe soltanto ad
adattarci in modo diverso dalla maggior parte dei nostri simili” e la salute, per contro, come condizione
fisiologica “ideale” identificata con la norma costruita dalla maggioranza della specie sociale cui si

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appartiene → relativizzando la norma all'ordine sociale, Durkheim mostra dunque come l'opposizione
normale/patologico non costituisca una soglia naturale e fissa.
La variabilità sociale e culturale della soglia che separa salute e malattia è fondamentale per cominciare
a rendere più dialettica la loro distinzione. Per non restare imprigionati nella dicotomia normale/patologico e
non rischiare di cadere in un determinismo sociale della norma come condizione ideale media dei membri di
un gruppo sociale, bisogna a questo punto elaborare strumenti in grado di farci comprendere come nei vari
contesti questa soglia venga costruita e giocata nello spazio sociale come norma dominante.
Nuovi problemi: chi definisce le soglie di separazione fra salute e malattia, fra “normale “ e “ anormale”?
Come queste si affermano al punto da oggettivarsi e naturalizzarsi? Chi produce tale oggettivazione e
naturalizzazione? Con quali forze vengono imposte? Come agiscono i soggetti nei confronti delle distinzioni
istituzionali tra normale ed anormale?
In rapporto a questi problemi, importante ripensamento critico della coppia salute-malattia da parte di
FRANCO BASAGLIA. A partire dalla constatazione che la soglia che separa salute e malattia varia al
variare delle condizioni storiche, sociali, politiche, economiche e culturali, Basaglia fa un passo in più e
arriva a sostenere che per superare la dicotomia occorre riflettere sui rapporti di forza che di volta in volta in
ogni contesto definiscono normalità ed anormalità. Insomma, secondo lo psichiatra l'incapacità o il rifiuto di
problematizzare la distinzione fra salute e malattia, è un atteggiamento non solo culturale, ma fondato su
motivazioni politico-economiche. D'altronde, nota Basaglia, la salute è ciò per cui si ricorre al medico e
all'ospedale e che determina una sospensione della vita “normale” di attività e lavoro. Al contrario, la salute
è il segno del mantenimento dell'individuo nel proprio ruolo secondo il grado di efficienza richiesto → la
norma per Basaglia si colloca dunque nel rapporto tra salute ed “efficienza”, tra il corpo individuale e il
corpo sociale, e nelle società occidentali a produzione capitalistica, riguarda la partecipazione dei soggetti
sociali alla vita produttiva (come corpi che il sistema produttivo tende ad espropriare ai soggetti).
Definita come “necessità produttiva” e non come bisogno dell'uomo, la salute appare come valore assoluto
fondato su un’equivalenza diretta fra essere in salute e lavorare, essere efficiente; il malato si trova a vivere
la malattia come qualcosa si estraneo alla vita, per cui deve ricorrere alla scienza. Il che gli impedisce di
vivere la malattia come un’esperienza personale.
Oltre alla critica del oggettivismo biomedico, le sue intuizioni segnalano la necessità di costruire ponti
analitici, interpretativi ed operativi per connettere l'esperienza del benessere e del malessere al contesto
sociale ed economico → dialettica problematica tra salute e malattia, in cui quest'ultima, oltre che un
significato culturale, assume la fisionomia di un processo sociopolitico.
Negli stessi anni (60 e 70 del 900), ERNESTO DE MARTINO segnala i rischi del rimanere intrappolati nel
gioco di rimandi tra le due definizioni. Secondo lui non basta la relativizzazione culturale di salute e
malattia: per comprenderne la variabilità culturale senza rimanere subalterni ad una visione naturalista e
biologista, bisogna demolire la stessa distinzione tra salute e malattia. Senza questa condizione preliminare,
l’antropologia resterebbe subalterna ad una visione naturalistica e biologistica, che taglia i ponti con i
processi culturali, sociali e politici.
Per De Martino, l'opposizione salute/malattia è una “doppia menzogna”. Per uscire dal vicolo cieco,
suggerisce di assumere come criterio per distinguere sano e malato non la realtà, ma la “realtà storica”: “il
giudizio di sanità o malattia è un giudizio storico, e non può prescindere dalla considerazione storica del
rapporto tra comportamento e ambiente storico”.
Da questo punto di vista, va considerata anche la “rappresentazione magica della malattia”, cosa che De
Martino fa nel suo libro Sud e magia in cui, attraverso una ricerca etnografica in alcuni paesi della Lucania,
sviluppa la sua teoria della “crisi della presenza” osservando le esperienze sociali ed esistenziali concrete in
cui si generano le rappresentazioni culturali e le pratiche simboliche della malattia, anche in rapporto ai
saperi della biomedicina, della teologia e della religione cattolica.
Negli anni '50 in Lucania, la nozione di malattia è intrecciata con quella di “fascinazione”, termine che indica
“un senso di dominazione, un essere agito da una forza altrettanto potente quanto occulta, che lascia senza
margine l'autonomia della persona, la sua capacità decisionale e di scelta → inquadrando nella
configurazione culturale della fascinazione l'esperienza della malattia, de Martino esplora una dimensione
sociale e storica più ampia di quella delineata dallo spazio biomedico e da quello religioso: La malattia,
osservata in contesto lucano, è pensabile all'interno di un allargato sistema di rappresentazioni e pratiche
simboliche che mette in rapporto il corpo, la società e il mondo naturale e sovrannaturale (magia e religione).

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La malattia tra gli eventi rappresentati in un sistema simbolico che coinvolge realtà immateriali,
inoggettivabili e sovrannaturali, sia nelle forme colte e istituzionali che in quelle popolarizzate.
L'analisi culturale di de Martino delle rappresentazioni, dei saperi e delle pratiche connesse all'esperienza del
malessere punta a scomporre il concetto di “malattia” nella dialettica tra la “presenza” e la sua “crisi”, e a
rivelare l'idioma corporeo attraverso il quale la dialettica si rende manifesta e quindi manipolabile, nelle
pratiche rituali, mediche o religiose → approccio destinato a superare la distinzione (risalente alla medicina
ippocratica) tra malattia vissuta dal malato e malattia definita dal medico.
Nello stesso anno (1959) de Martino avvia la ricerca sul tarantismo, preparata in critica con il riduzionismo
delle definizioni biomediche di “malattia” e in linea con l'ipotesi che le forme della sofferenza fisica siano
l'espressione corporea di una condizione diseguale.
È attraverso questo percorso che l'antropologo giunge a criticare la separazione salute/malattia definendola
“doppia menzogna” → alla luce delle sue ricerche etnografiche fondate sulla dialettica tra “presenza” e la
sua “crisi”, le definizioni di malattia e salute smettono di essere rigide e opposte l'un l'altra e assumono
significati intrecciati e mutevoli.
Ne deriva per de Martino anche una critica alla separazione tra discipline umanistiche e discipline
biomediche e psichiatriche, (poiché entrambe si occupano del vivente) causa ed effetto della scissione
salute/malattia (“la cesura di competenze, metodi e fini... ha trascurato il rapporto dialettico tra sanità e
malattia mentale favorendo l'immaginazione dualistica di due mondi”).
In ogni contesto storico-culturale, le etichette che definiscono “stati” di salute e malattia possono essere
smontate e osservate processualmente come forme di oggettivazione dell'esperienza incorporata, come
processi di incorporazione della realtà storica.
L’insegnamento di de Martino alle scienze antropologiche e quelle biomediche, è la scelta di considerare
salute e malattia come processi storico-culturali e sociopolitici, svelando l'inadeguatezza del termine
“malattia” a cogliere la complessità e la variabilità delle forme di incorporazione della storia, cioè dei diversi
modi di stare al mondo e delle diverse capacità di incorporarlo e trasformarlo.

2.2.Scomporre la malattia: la parola, la cosa, il racconto.


Di fronte alla molteplicità di esperienze individuali, di significati e di pratiche sociali, politiche e culturali
connesse all'esperienza della malattia, l'antropologia medica ha sottolineato i rischi di un linguaggio
intrappolato nelle dicotomie, e la conseguente urgenza di elaborare nuove nozioni e nuovi termini.
In primis, nasce una considerazione sul termine stesso di “malattia” da cui deriva l'esigenza di elaborare
diverse forme di denominazione che decostruiscano le designazioni biomediche e restituiscano al fenomeno
la sua multidimensionalità e complessità insieme esistenziale, sociale e culturale.
Nel campo delle antropologie di lingua inglese, utilizzo di tre termini già esistenti nella lingua per indicare
tre diverse dimensioni della malattia, osservabili così come tre realtà distinte:
1. illness: esperienza soggettiva del malessere, lo stato di sofferenza così come è percepito dal sofferente
stesso.
2. Desease: definizione biomedica di malattia, condizione patologica oggettivata come alterazione
dell'organismo e denominata in base a segni e sintomi interpretati da un punto di vista esterno al corpo del
sofferente.
3. Sickness: significato sociale dello star male, “il ruolo sociale del malato formalizzato all'atto della
diagnosi”.
→ il vantaggio di questa scomposizione è di sottolineare la complessa varietà di piani di significato e di
azione sociale cui il concetto di “malattia” rimanda, nonché di evidenziale le contraddizioni di una
definizione unilaterale biomedica di malattia (si pensi alla difficoltà con cui i medici trattano il dolore
cronico che, percepito dal soggetto ma non diagnosticabile dagli strumenti scientifici, viene
semplicisticamente messo nella sfera psicologica).
- D'altra parte, nella pratica, la medicina non può totalmente sottrarre la malattia al soggetto che lo vive, se
non altro perché è dalle micro narrazioni dei sintomi da parte dello stesso che essa costruisce le proprie
diagnosi.
n.b. La medicina distingue il sintomo (percezione soggettiva della malattia) dal segno (manifestazione
oggettivamente accertata sul corpo) → dal punto di vista antropologico, il sintomo è una micro narrazione
costruita dal paziente a partire dall'incorporazione della propria esperienza di vita: coinvolge i processi di
incorporazione dell'esperienza, le forme di rappresentazione messe in campo dal soggetto sofferente ed il

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contesto storico nel quale tali dinamiche si verificano. In tal senso, il sintomo può essere sia un veicolo di
significati culturali sia la testimonianza di contraddizioni sociali. (il sintomo racchiude un’esperienza di
sofferenza che è raccontata facendo ricorso a riferimenti simbolici e socioculturali, e che è collocata in
specifiche contraddizioni politico-economiche)
In quest'ottica, la distanza segno/sintomo viene colmata, in quanto riprende un'opposizione
soggettivo/oggettivo che smette di aver senso alla luce del concetto di “ incorporazione” e di “corpo
pensante”. (es. tachicardia: “segno” e insieme sintomo definibile solo in relazione al rapporto fra emozione e
un complesso di riferimenti, storici, culturali, sociali, politici e quindi corporei).
La scuola di Harvard sperimenta una metodologia di studio dialogico e interpretativo delle narrazioni dei
sofferenti prodotte per comunicare la propria percezione soggettiva dell'esperienza di sofferenza, con
l'obiettivo di cogliere al tempo stesso la complessità della trasformazione corporea nella sofferenza e la
produzione di significati che in essa i sofferenti attivano.
→ approccio ideato dall'antropologo e psichiatra ARTHUR KLEINMAN nei primi anni '70 con l'obiettivo
di sottrarre la malattia ad una definizione biologica “oggettiva” e “naturale” e dare maggiore attenzione alla
sua dimensione culturale. Nei suoi lavori e in quelli del collega BYRON GOOD (docenti di Havard)
l'attenzione viene dunque posta sui racconti dell'esperienza individuale della malattia da parte dei soggetti
sofferenti → attenzione alla illness basata sulla consapevolezza che il malessere provoca una modificazione
dell'habitus di chi lo esperisce, del modo stesso di stare al mondo delle persone che soffrono, e attiva di
conseguenza l'urgenza di immaginare e rappresentare la propria malattia in forme comunicabili agli altri.
La illness si configura come “sindrome dell’esperienza”.
Le narrazioni nascono dunque come strumenti culturali finalizzati a posizionare le esperienze del malessere
in un ordine di significato. n.b. La malattia determina sempre in chi la vive una forte richiesta di senso, che
lo spinge a far ricorso a tutti gli strumenti di cui dispone e a produrne di altri per inquadrare la propria
esperienza in un significato.
Importanza in antropologia medica della definizione di illness, che ha contribuito a denaturalizzare la parola
“malattia” mostrando la sua dimensione fenomenologica e culturale, e insieme ha portato alla luce, accanto
alle rappresentazioni biomediche dominanti, altre forme di concettualizzazione del malessere che prendono
vita nell'intersecazione tra spazio individuale, sociale e culturale.
Il racconto dell'esperienza del malessere, infatti, non è unicamente individuale, ma si configura come
resoconto storico-culturale di una serie di emozioni, credenze, scelte operative elaborate dal soggetto per
rappresentare l'evento e la sua incidenza sul proprio vissuto → In questo modo si può dire che la narrazione
mette in gioco non solo la dimensione individuale del malessere ma è insieme connessa alla produzione di
significati culturali, alle relazioni sociali, alla profondità storica e ai rapporti economico-politici
Davanti a questa complessità, il modello della tripartizione è risultato con il tempo riduttivo, in quanto la
concentrazione sulla sola illness mette a rischio la consapevolezza del intreccio tra le diverse dimensioni
della malattia. Inoltre l'accento posto sulla narrazione sembra trascurare la contestualizzazione delle
narrazioni stesse nella realtà sociale, nella profondità storica e nel processi sociopolitici.

2.3.La produzione sociale della malattia.


Secondo l'antropologo francese ANDRAS ZEMPLÉNI il modello triadico è ancora troppo riduttivo rispetto
al problema ben più complesso di una definizione della malattia. In modo provocatorio, alla domanda “che
cos'è la malattia?”, Zempléni risponde allora con una lunga serie di ipotesi tutte ugualmente plausibili, il
tutto per dimostrare che, se dovessimo trovare nomi per ogni aspetto della malattia, nemmeno la triade
anglofona basterebbe mai → essa rischia non solo di non individuare l'interazione tra i tre ordini -
immaginati come distinti - ma anche quella tra questi e altri innumerevoli ordini possibili.
Critica analoga presentata da RONALD FRANKENBERG (1980) ed ALLAN YOUNG (1982), che
sottolineano come l'approccio delle ricerche di antropologia della illness sia un approccio clinico, in quanto
non mette in discussione i processi di costruzione storica delle categorie biomediche di “malattia” ed assume
come oggetto di studio privilegiato unicamente la dimensione dell'esperienza individuale del paziente, intesa
come luogo nel quale gli eventi prendono forma e vengono comunicati attraverso la narrazione.
Secondo loro, l'opposizione disease/illness rischia di occultare i modi in cui le relazioni sociali e i rapporti di
potere si iscrivono nei corpo dei sofferenti modellando le forme stesse della malattia e attivando le strategie
di narrazione. Suggeriscono allora di rivolgere maggiore attenzione ai processi di costruzione della
disease – ovvero alle motivazioni storico-culturali e sociopolitiche che conducono alla costruzione delle

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categorie biomediche della malattia – e alla sickness intesa come processo di socializzazione sia della illness
che della disease → scopo: rilevare attraverso quali pratiche, quali relazioni, in quali contesti e partire da
quali azioni di specifici protagonisti venga conferito un significato sociale all'esperienza del malessere.
Attenzione su tutte le forze sociali che hanno il potere di considerare come sintomi di malattia i segni
comportamentali o biologici ritenuti preoccupanti.
Si sviluppano cosi le antropologie mediche della disease e della sickness che cercano di superare
l'opposizione disease/illness e di aprire lo spazio dell'incontro terapeutico, finora focalizzato sul rapporto
medico-paziente, ad un a più complessa realtà di relazioni sociali → ogni atto terapeutico è sempre un
confronto di poteri, che si gioca nel più complessivo campo sociopolitico dei rapporti di forza in cui
intervengono anche attività istituzionale dello Stato, famiglie e altri soggetti sociali.
Dimensione sociopolitica particolarmente evidente nel caso in cui la socializzazione del malessere diventi
oggetto di conflitti sociali e politici, come per le malattie derivanti dalle condizioni di lavoro.
Esempio dello studio di BARBARA SMITH (1971) sulla produzione sociale della malattia nel caso della
silicosi (“polmone nero”) tra i minatori di carbone in Virginia, negli Stati Uniti. Colpendo gli operai delle
miniere, non i proprietari delle compagnie minerarie, la silicosi può essere vista come una forma di
materializzazione corporea delle relazioni sociali, un'incorporazione dell'inuguaglianza di una malattia che si
distribuisce in rapporto alle specifiche condizioni materiali di lavoro di ciascuno.
Le relazioni sociali non producono soltanto la malattia del minatore (illness), ma determinano anche la
categoria biomedica (desease) la quale, lontana dall'essere oggettiva, riflette anch'essa i rapporti di forza e di
potere dentro i quali viene fatta la diagnosi. Come nota la Smith nel caso della silicosi per i minatori, la
diagnosi viene fatta con lo scopo di valutare l'indennizzo economico per i danni subiti:
• i medici scelti dalla compagnia mineraria scelgono come criterio diagnostico la misura di noduli nei
polmoni come dato oggettivo che escluda qualsiasi parametro soggettivo, potenziale causa di discussioni.
• I minatori non sono d'accordo con questa modalità, che non vorrebbe quantificare la loro sofferenza in
centimetri quadrati, e contro la ricerca del “dato oggettivo” rivendicano il riconoscimento della propria
sofferenza personale ed è per quella, ovvero per i danni subiti nel loro modo di vivere e stare al mondo, che
chiedono di essere risarciti.
• Altri medici (a dimostrazione del fatto che le decisioni della biomedicina non sono univoche) appoggiano
la posizione dei minatori rivendicando per loro il riconoscimento di una “disabilità respiratoria”.
►questo caso dimostra come le decisioni della biomedicina non sono univoche, ma molteplici e connesse
alle scelte di specifici attori sociali → in questo caso le scelte sono per forza di cose interne al conflitto
politico-sociale fra operai e proprietari della miniera → si può dire allora che non esiste una sola “silicosi”
ma ben tre - in base agli attori sociali: il minatore, il medico della compagnia minerarie, il medico degli
operai -, che prendono il loro significato all'interno di una negoziazione conflittuale della “realtà” della
silicosi.
Qui non si tratta di una “tripartizione” della malattia, né di comprendere un “significato culturale”; si tratta
piuttosto di una lotta politica, di una negoziazione culturale della realtà della malattia.
Insomma, con la sua ricerca la Smith mostra come le categorie di desease biomedica e di illness dei minatori
siano intrecciate nel riconoscimento sociale del malessere (sickness) e come questo riconoscimento sia
sostanzialmente di ordine sociopolitico → si comprende allora che la strada per superare l'opposizione
tautologica tra salute e malattia e insieme superare i limiti di un approccio ad esse esclusivamente
culturalista, sia proprio quella della produzione sociopolitica della malattia, che consente di svelare il
carattere istituzionale dell'opposizione normale/patologico. La dimensione politica dei concetti salute e
malattia va sempre inquadrata all'interno dei processi istituzionale.
L'antropologo francese DIDIER FASSIN sostiene la necessità di liberare la malattia dal riduzionismo
biologico che la considera una realtà oggettivamente inscritta nel corpo del paziente, per considerarla
piuttosto come una realtà sociale che mette in questione gli stessi rapporti di potere che contribuisce a
rendere visibili, mostrando in che modo l'ordine sociale si esprime nell'ordine corporeo: evidenziando cioè le
inuguaglianze nell'accesso alle risorse di cura, la distribuzione ineguale delle stesse possibilità di vita o di
morte.
Riconoscendo il legame tra definizione di salute e poteri di Stato ed istituzioni, è possibile notare come
l'identificazione salute/normalità porti la malattia a diventare semplicisticamente devianza ed anormalità.
Occultare le dinamiche di potere che regolano i processi di salute e malattia, significa oggettivare la stessa
dialettica salute-malattia come fosse un'opposizione naturale: al contrario, illuminare queste dinamiche,

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esplorando la relazione tra benessere fisico ed economia politica mondiale, la salute potrà configurarsi come
una possibilità di accesso alle risorse materiali e immateriali che garantiscono la vita ad alti livelli di
soddisfazione, e la malattia come un'”incorporazione dell'ineguaglianza”.

2.4.La salute e lo Stato.


Studio di DIDIER FASSIN (1996) dedicato allo “spazio politico” del concetto di salute → salute non
definibile solo come nozione, ma come un vero e proprio spazio strutturato dai rapporti che il corpo fisico
intrattiene con il corpo sociale.
La salute per Fassin è “nozione culturalmente determinata” (rappresentazione cognitiva -costruzione
culturale) e “spazio politicamente strutturato” (pratiche che da essa discendono e al tempo stesso
contribuiscono a costruirla – costruzione politica): “nozione nella quale si sedimentano i significati elaborati
sia dal senso comune che dai saperi ufficiali. Spazio che mette in relazione un insieme di agenti che si
incontrano, come i malati, i professionisti o gli amministratori”.
La salute viene dunque riconosciuta quale prodotto – in continuo cambiamento – delle lotte che i diversi
agenti nel campo sociale mettono in atto, contendendosi e negoziando il significato stesso della nozione.
Lo spazio politico della salute determina una gestione politica della salute e dei corpi, strutturata e governata
da un sistema di poteri che definiamo “salute pubblica” → gestione della salute collettiva governata dallo
Stato, che pone il problema della possibilità di accesso alle risorse che garantiscono il benessere.
Ruolo centrale dello Sato nella ridefinizione del concetto di salute.
MICHEL FOUCAULT colloca (per l’Europa occidentale) nel decennio 1940-50 la genesi di una nuova
attenzione intellettuale, economica e politica alla salute: la nascita di un “diritto alla salute” che governa il
rapporto tra individuo e Stato.
In quel periodo nacque il britannico “piano Beveridge” con cui per la prima volta lo Stato si fa carico della
salute dei cittadini. Fino a quel momento, attenzione dello stato alla salute dei suoi cittadini come interesse
alla conservazione di una forza fisica nazionale, del corpo dei lavoratori, della potenza produttiva e militare:
con il piano, la salute diventa oggetto di preoccupazione dello Stato non per se stesso, ma per i cittadini →
dal concetto di individuo in buona salute al servizio dello Stato si passa a quello dello Stato al servizio del
cittadino in buona salute.
Non vi è più una <morale del corpo>, intesa come conservazione della salute umana attraverso l’igiene
familiare e domestica.
Seconda metà ‘900= Con il riconoscimento del diritto alla salute, comincia a prendere forma il diritto ad
interrompere il lavoro (diritto di essere ammalato quando lo si vuole e quando è una necessità) → con il
piano Beveredge, la salute entra nel campo economico in relazione alle spese derivanti dall'interruzione del
lavoro per motivi di salute: la salute (configurata come diritto: obbligo degli Stati, tenuti a garantirlo e
tutelarlo) è presa nella rete macroeconomica degli Stati, socializzata, connessa ai problemi di redistribuzione
delle risorse, di livellamento delle imposte, di creazione dello “Stato sociale”, cioè la garanzia per i cittadini
dell’accesso alle cure presso i servizi sanitari pubblici. E insieme, Salute, corpo e malattia diventano terreni
di rivendicazione politica.
Anche in Italia, si arriva all'articolo 32 della costituzione, che recita: “la Repubblica tutela la salute come
fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge. La
legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. → momento in cui la
salute, a lungo connessa alle politiche dell'ordine pubblico, diventa un diritto della persona riconosciuto nella
carta costituzionale.
Nello stesso periodo, la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 proclama che “ogni individuo
ha diritto a un livello di vita sufficiente a garantire la sua salute, il suo benessere e quello della sua
famiglia...”.
È poi l'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) che propone una nozione di salute in cui centrale
diventa il carattere di sicurezza sociale: salute come “stato di benessere fisico, mentale e sociale e non
semplicemente assenza di malattia e infermità”. → salute come dimensione non solo biologica, ma anche
sociale, vale a dire che pur non essendo una “malattia”, la povertà, intesa come debolezza sociale ed
economica, è vista comunque come una mancanza di “salute”.
Da qui viene riconosciuto un diritto universale alla salute.

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Nel 1978, ad Alma Ata (Kazakistan sud-orientale) una conferenza internazionale di OMS e Unicef studia un
progetto chiamato “Salute per tutti nell'anno duemila”, in cui lo strumento principale per raggiungere
l'obiettivo di un superamento delle ineguaglianze nell'accesso alla salute in campo mondiale viene
riconosciuto nell'assistenza sanitaria.
Indebolita, negli ultimi 20 anni, la funzione guida dell'OMS nella definizione delle politiche per la salute
(progetto “Salute per tutti fallito”), la funzione viene presa da Banca Mondiale e Fondo monetario
internazionale, che ad oggi condizionano le scelte dei governi in campo sanitario, in particolare nelle aree più
povere del pianeta → la salute resta ancora un problema sociale e politico e le difficoltà di accesso alle
risorse e ai servizi che la tutelano sono ancora una conseguenza dell'ineguaglianza e dell'ingiustizia sociale.

2.5.Il dramma storico dell'AIDS.


AIDS come campo privilegiato di riflessione sull'intreccio tra questioni politiche, sociali, economiche e
processi di salute-malattia.
Prime manifestazioni della malattia nella comunità gay a Los Angeles negli anni '80 -> si scatenano processi
di stigmatizzazione e reazioni di indignazione morale
→ inizio di un processo di continua ridefinizione nel rapporto tra medicina ed antropologia medica, che
inizialmente svolge una funzione secondaria e pian piano acquista sempre più voce in capitolo, soprattutto
nella redistribuzione delle risorse e dei finanziamenti per la ricerca (prima maggiormente destinati alla
ricerca biomedica, alla psicologia e alla psichiatria = scelte di finanziamento di ricerche che non solo evitano
di considerare gli aspetti storico-politici, ma rinunciano anche ad osservare le correlazioni sociali e culturali
del fenomeno, isolandolo nella sfera psicologica individuale e comportamentale).
L'AIDS riapre la questione sociale e culturale della sessualità (malattia considerata una conseguenza di
“comportamenti a rischio”). Ma l’iniziale sottovalutazione dell'antropologia finisce con l'appiattire la
questione, facendo dimenticare l'intreccio tra sessualità, biologia, vita sociale e condizione economica. n.b. A
questo riguardo, proprio in quegli anni l'antropologia medica sta mostrando attraverso una serie di studi
come la stessa sessualità, insieme alle identità di genere, sia vincolata a complesse costruzioni sociali e
culturali → sesso da considerare come un sistema simbolico i cui “significati” variano al variare dei contesti
storico-culturali e delle formazioni sociali di riferimento. (mette in discussione il paradigma di una sessualità
unicamente incentrata sull’aspetto biologico)
Ma, come già accennato, il primo approccio all’HIV è molto riduttivo, e gli studi nel campo sono per lo più
studi quantitativi e depersonalizzati sui comportamenti sessuali, basati sulla definizione del concetto di
“comportamento sessuale a rischio” e sulla condanna di esperienze sessuali a rischio di contrazione in nome
della prevenzione, ma anche in nome di egemonie religiose e morali. Spirito di queste ricerche, quello di
ispirare politiche di prevenzione e di intervento in grado di “correggere” i comportamenti “sbagliati”,
considerati cause dell'espansione dell'epidemia.
Quadri teorici di riferimento: teoriche psicologiche che considerano il comportamento individuale
modificabile attraverso programmi di prevenzione, persuadendoli a mutare le loro abitudini per evitare
l’infezione.
Carattere “etnocentrico” di questi programmi educativi, con strumenti concettuali ed interventi elaborati a
tavolino senza precedenti ricerche etnografiche nei contesti umani ai quali erano indirizzati. -> Ma la
questione della variabilità delle pratiche sessuali e delle costruzioni culturali delle sessualità mette in crisi un
tipo di intervento insensibile all'analisi dei contesti locali → fase dell'antropologia medica che sposta
l'attenzione dalla dimensione della psicologia individuale e mostra i limiti delle ricerche biomediche e
psicologiche e denuncia l'impossibilita di comunicazione e di traduzione culturale di protocolli di ricerca
pensati nel quadro di un sistema biomedico sostanzialmente occidentale e di scarsa sensibilità transculturale.
Insomma, gli interventi basati sull'informazione come strumento di prevenzione si mostrano incapaci di
ridurre il rischio.
Fondamentali nella comprensione del fenomeno, studi come quelli di PAUL FARMER basati su ricerche
etnografiche di lunga durata che analizzano le cause del rischio quotidiano a partire dall'esperienza delle
persone che lo vivono. → cause complesse e che si intrecciano a vari livelli microlocali, mediolocali e
macrolocali.
Attraverso questi studi è stato finalmente possibile guardare all'AIDS come a una forma di incorporazione
della disuguaglianza e dell'ingiustizia sociale, cosa che ha allargato l'analisi antropologico-medica
dell'AIDS all'azione delle forze politico-economiche.

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2.6.Incorporare l'ineguaglianza.
Oggi al centro di numerosi studi di antropologia medica la connessione tra definizione di salute e malattia
e le questioni di economia politica mondiale, di ineguaglianza sociale e di necessaria redistribuzione
delle risorse.
Vedi ricerche etnografiche di Paur Farmer stesso sui significati, le politiche, le pratiche legate all'epidemia di
AIDS, basate su una questione fondamentale: attraverso quale meccanismo le forze sociali vengono
incorporate come esperienza individuale?
Tesi di Farmer è che i tratti complessivi della sofferenza possono essere colti solo nell'esperienza e nella
storia individuale → le vittime di AIDS condividono il fatto di occupare tutti il punto più basso della scala
sociale all'interno di società non egualitarie (essi non condividono cultura, linguaggio o razza).
pp. 99-100: due esempi di biografie di persone colpite dalla malattia ad Haiti, dove ancora AIDS e violenza
politica sono le principali cause di morte. → le due persone, anche se in modo diverso, sono entrambe
evidentemente vittime della stessa violenza strutturale.
- 1 storia: Acéphie è una delle primi ad ammalarsi nel suo villaggio.
È una storia che rende conto delle forze e dei vincoli che condizionano profondamente la vita di molte donne
di Haiti e il modo in cui l’AIDS le colpisce. Donne che ancora giovani si spostano nella capitale per sfuggire
alla povertà, che lavorano come domestiche in una situazione di vita caratterizzata da profonda incertezza,
che hanno relazioni affettive e una vita sessuale costruite e radicate nella povertà.
- 2 storia: riguarda un ragazzo vittima della violenza politica, una delle tante persone afflitte dalla povertà
che è incappata nelle bande paramilitari e negli squadroni della morte (viene fatto scendere dall’autobus,
picchiato di fronte agli altri passeggeri ed arrestato; ciò perché si è sbilanciato in commenti sulla politica e
viene ascoltato da un militare in borghese).

Per Farmer è difficile evidenziale le relazioni tra forme di sofferenza e violenza strutturale per tre diversi
ordini di motivi:
1. distanziamento connesso all'esotizzazione della sofferenza, per cui è difficile riconoscere la sofferenza di
persone che non ci sono vicine (distanza geografica, di genere, culturale).
2. Difficoltà che si riscontra nel rappresentare la sofferenza altrui, che sfugge sempre all'oggettivazione.
3. Distanza – da colmare – tra interpretazione del senso individuale della sofferenza e le matrici
socioculturali e politiche della stessa.

Per questo motivo, Farmer propone di considerare tre “Assi della sofferenza” per un'analisi della violenza
strutturale:
1. asse del “genere”, che permette di capire perché due persone dotate dello stesso status (come nei due casi
riportati) possano cadere vittima di violenze differenti. Essere donna, infatti, spesso significa subire un
rapporto di subordinazione che investe in modo diretto l’intimità della vita domestica
2. Asse della “razza” o dell'”etnia” → concetti questi che vengono usati concretamente per deprivare dei
diritti fondamentali specifici gruppi sociali impedendo di concepire la disuguaglianza sociale come la
conseguenza di una differente distribuzione delle risorse. La differenza di “razza” o “etnia” occulta le
disuguaglianze sociali, biologizzandole o etnicizzandole
3. asse che vede combinarsi la “violenza strutturale” e la “differenza culturale” (che spesso si confonde con
la disuguaglianza sociale) → gli approcci basati su un concetto di cultura inteso come essenza degli uomini,
hanno portato a una “culturalizzazione” della sofferenza, affrontando spesso il tema della gestione del potere
e degli assetti istituzionali come un problema di trasformazioni culturali dei contesti locali, a scapito di
elementi strutturali che incidono sui concreti rapporti di forza.
Come mostrano i lavori di Farmer, i meccanismi creatori di disuguaglianze mostrano la propria facoltà di
ingabbiare le capacità di azione dei soggetti nelle loro scelte di vita. Per cui le storie concrete delle persone
malate permettono di illuminare i modi attraverso cui “forze sociali di larga scala” si cristallizzano nella
sofferenza individuale, evidenziando il rapporto fra potere e privilegio, e le forme di sofferenza, mostrando
parallelamente come le condizioni di ineguaglianza facciano si che la “Salute” di alcuni sia resa possibile
dalla “malattia” degli altri.

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Necessaria dunque una maggiore consapevolezza del rapporto tra storia, potere e processi di incorporazione
→ l'etnografia nel campo dell'esperienza della malattia mostra come questo rapporto si iscriva direttamente
nei corpi in cui la disuguaglianza sociale si rende manifesta.

2.7.Politiche del corpo e metafore della sofferenza


Corpo vissuto: è insieme agìto dalla storia ed agente di storia, nel senso che ogni sua azione intenzionale può
dirigersi verso l'innovazione o la conservazione.
Poiché il corpo è prodotto storico e produttore di storia: Le forme elaborate dai soggetti sofferenti per
raccontare, spiegare ed interpretare il proprio male sono una triangolazione tra dimensione individuale,
dimensione sociale e processo storico.
Figura retorica al cuore di tale incrocio è la metafora. Per esempio, quando produco una metafora per
esprimere una mia sofferenza e dico che “il cuore mi sta scoppiando”, questa espressione, questo micro
racconto, è una specie di ponte gettato tra i significati emozionali, fisici e concettuali del malessere che mi
affligge. -> Quando il racconto sintomatologico espresso in forma metaforica esprime il dolore della
condizione esistenziale quotidiana, rimanda chiaramente ad un ordine di relazione fra soggetto e realtà
esterna, assumendo un significato politico.
Si pensi alle metafore corporee femminili raccolte da MARIELLA PANDOLFI in Campania (pagina 103:
se si è in attesa di qualcuno che non arriva allora il sangue “si annacqua”, ma di fronte a una presenza
inquietante il sangue “si gela”, e in seguito ad emozioni ancora più intense si può “bloccare” ) => Metafore
prodotte per <raccontare la percezione della propria esistenza e il vissuto doloroso di essa>. Narrate
attraverso una fisiologia simbolica, esse esprimono il rapporto fra il corpo ed il mondo esterno, sociale,
naturale ed evenemenziale (connesso agli eventi che accadono nel mondo sociale).
Un linguaggio dell'incorporazione viene prodotto attingendo sia all'esperienza del proprio corpo che ai
significati che provengono dal contesto storico-culturale → i frammenti di narrazione raccolti si radicano
nell'esperienza vissuta del corpo, ma non sono mai un discorso esclusivo del corpo, né esclusivamente
narrazioni sul corpo: il corpo narrato è inscindibile dal corpo narrante, il corpo pensato è anche corpo
vissuto, e queste sue due dimensioni si intrecciano ad una terza dimensione, quella politica che è data dalla
realtà dei rapporti sociali in cui il corpo-soggetto è preso e dalla profondità storica dei riferimenti culturali
cui si attinge per la costruzione delle metafore.
Ne deriva chiaramente che la metafora corporea integra insieme aspetti fisici, narrativi e storici, che a fronte
dell'esperienza della sofferenza -esistenziale, fisica e/o sociale – vengono qui ad intrecciarsi.
Come mostrano ricerche condotte nello stesso contesto da BERNARDINO PALUMBO, quando rifiuta di
inquadrarsi nel sistema di valori dominante (dominato dai valori e stereotipi del discorso maschile
sull’identità femminile), il discorso delle donne si esprime nell'idioma corporeo, in un linguaggio delle
emozioni che rivela il loro malessere come consistente in un'incorporazione della disuguaglianza di genere,
fra le donne e gli uomini, che si esprime nelle pratiche di costruzione dell’identità femminile e
nell’organizzazione sociale dei rapporti di parentela.
Ne deriva che spesso le emozioni, narrate sotto forma di sintomi fisici dolorosi, vengono medicalizzate o
psicologizzate.
È in queste prospettive di ricerca che assume un ruolo di rilievo la questione dei processi di incorporazione,
con particolare attenzione al ruolo giocato dalle emozioni e dai sentimenti nel rapporto tra soggetto, corpo e
mondo sociale.
Se in passato le emozioni sono sempre state considerate nei termini di “istintualità”, negli ultimi vent'anni
molte ricerche etnografiche hanno posto in primo piano l'aspetto comunicativo e strutturante delle emozioni
nel gioco dell'interazione sociale → ne deriva che le emozioni non possono essere sottratte al contesto reale
in cui vengono provate, ma devono essere più adeguatamente considerate come un linguaggio del corpo,
come “pensieri incorporati” (definizione di MICHELLE ROSALDO), e quindi rivalutate come forze
capaci di agire nello spazio sociale, nella produzione della cultura e nel processi di trasformazione.
L'esperienza emozionale intensa, come nel caso del dolore e della sofferenza, è un momento che produce la
“crisi della presenza” in senso demartiniano, intesa come smarrimento della propria capacità di agire, come
crisi del proprio modo di stare al mondo. In queste circostanze la sofferenza e dolore non sono sensazioni
“metafisiche”, ma costituiscono un momento drammatico nel quale la dimensione soggettiva e quella
culturale, sociale e politica si intrecciano in un'unica storia.

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La stessa Pandolfi ricorda come la nozione demartiniana di “crisi della presenza” sia da considerare una
“Categoria esistenziale che introduce fluidità e dialettica nella dimensione del soggetto nel mondo → la
“crisi della presenza” è connessa alla corporeità, alle emozioni, e implica un rapporto del soggetto con le
condizioni materiali di esistenza.
Quelle di “memoria del corpo” e di “incorporazione” sono dunque nozioni che aprono i confini del concetto
biomedico di “malattia”, verso il riconoscimento di punti di incontro tra l'esperienza soggettiva della malattia
e la storia sociale esterna → corpo come “memoriale” (definizione della Pandolfi) in cui la storia esterna, e
il vissuto interno di essa si inscrivono.
Ma, se il corpo è in grado di incorporare il sapere nelle sue tecniche e di esprimerlo oltre la comunicazione
linguistica, è altrettanto vero che il sapere incorporato, il “senso del corpo” è difficilmente comunicabile con
parole ad altri, ugualmente impegnati in un percorso di ricerca di senso → necessario quindi a questo punto
esplorare il problema dell'esperienza del dolore.

CAP.3.L'ESPERIENZA DEL DOLORE.


[Capitolo atto a dimostrare il carattere paradossale tra mente e corpo: il dolore fa vacillare assunti ideologici
e spinge biomedicina ed antropologia medica a sperimentare nuovi strumenti concettuali e nuovi spazi di
dialogo]

Esperienza del dolore come conferma del carattere artificioso e meramente teorico della dicotomia
mente/corpo, che nel dolore rivela tutta la sua astrazione.
Il dolore mette in crisi le categorie biomediche, le pratiche diagnostiche e lo stesso linguaggio nella sua
funzione comunicativa e rappresentativa.
L'esperienza del dolore ha portato sia la biomedicina che l'antropologia medica a provare metodologie ed
interpretazioni nuove e a sperimentare un dialogo interdisciplinare.
1. Recentemente, il trattamento del dolore ha portato alla nascita di un nuovo campo medico: la medicina del
dolore.
2. L'antropologia medica si è resa conto della difficoltà di collegare il dolore all'appartenenza culturale: la
sofferenza impedisce ogni tentativo di inserirla all'interno di un codice culturale (morale, medico o
religioso).

Il dolore è radicato nel soggetto sofferente ed è incomprensibile a chi non lo prova. Anche se indicibile,esso
è drammaticamente reale per il soggetto sofferente. Il dolore attiva una richiesta di senso e di
comunicabilità, ma si mostra come problema pratico, in quanto modifica la vita quotidiana e le tecniche del
corpo di chi lo prova (cosa particolarmente evidente nei soggetti che soffrono di colore cronico).
Al dolore non sono immuni ne’ medici ne’ antropologi, e quando capita loro di provarlo, si trovano a
testimoniare da ambo i campi l'impossibilita di descrivere l'esperienza del dolore. ma l’elaborazione di
tale difficoltà è diversa.
In questo capitolo si mostra:
1. Attraverso quali sviluppi l'antropologia medica contemporanea ha fatto i conti con le teorie che riducevano
il dolore alle sue elaborazioni culturali.
2. Come la ricerca etnografica in campo biomedico abbia rivelato una differenziazione interna di scelte,
posizioni ed azioni in relazione alle difficoltà dell'approccio terapeutico al dolore.

3.1.Dolore e critica della cultura.


L'antropologia medica contemporanea riflette sull'universalità dell'esperienza umana del dolore (come
mostra l’attenzione ad esso rivolta dalle pratiche religiose e da tutti i sistemi medici conosciuti).
Il dolore è soggetto a un'elaborazione culturale e le forme attraverso cui l'esperienza viene rappresentata si
modellano alla luce di riferimenti sociali, culturali, storico e politici, in quanto è all'interno di essi che vive il
corpo che lo sperimenta (si pensi ad esempio ai tanti modi di definire l’emicrania: tra gli Ainu del Giappone
le denominazioni del mal di testa sono metaforicamente connesse al rumore dei passi di vari animali: “mal di
testa dell’orso”, quando il dolore risuona come i passi dell’orso che si avvicina, oppure “mal di testa del

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cervo o del picchio”, quando il dolore richiama la corsa del cervo o quando batte come un picchio sul tronco
di un albero).
Dunque, è necessario un accostamento tra dolore e “appartenenza” culturale, ma con le dovute
precauzioni: se da un lato è vero che ciascuno può attingere al proprio repertorio culturale per elaborare la
propria esperienza di dolore in una rete di significato da poter condividere e comunicare, questo non deve far
pensare che si possa stabilire una correlazione meccanica tra appartenenza culturale e forma espressiva del
dolore.
D'altronde si guarda sempre più alla cultura come ad un processo di produzione, piuttosto che come ad
un'essenza che gli uomini hanno, e si è notato con il tempo come le reificazioni essenzialiste della cultura
abbiano portato ad alimentare stereotipi e pregiudizi.
Si pensi ad esempio agli studi condotti da MARK ZBOROWSKI negli anni 50-60 nel tentativo di riflettere
sul rapporto tra dolore ed appartenenza etnica (quindi collegata alla cultura): con essi si cerca di dimostrare –
attraverso una comparazione tra le esperienze di dolore di italiani ed ebrei – come la soglia di sopportazione
del dolore abbia radici culturali (in questo caso, Zborowski sostiene che gli italiani davanti al dolore
chiedano che sia loro alleviato, chiedevano analgesici; mentre i pazienti ebrei sembrano rifiutare i medicinali
prefissi a questo scopo e giustificavano la loro riluttanza dicendo di essere preoccupati degli effetti che il
farmaco potrebbe avere sulla salute in generale).
Ma la soglia di sopportazione del dolore non è fissata staticamente nell'appartenenza culturale → se da
una parte essa è certamente collegata al processo di apprendimento e alla formazione del paziente, dall'altra è
collegata a numerosi altri fattori.
La consapevolezza del legame tra la soglia del dolore e i processi storico-culturali non legittima dunque
alcuna teoria sulla diversa “nazionalità” della percezione del dolore, e lavori come quello di Zoborowski,
basati implicitamente su stereotipi nazionali, non fanno che occultare le specifiche forme soggettive,
emozionale, contestuali e relazionali che caratterizzano l'esperienza di ciascun malato → approcci che
contribuiscono ad inventare le differenze culturali più che a dimostrarle, all'interno di una prospettiva che
riduce soggettività, spessore sociale, culturale e politico della sofferenza.
Come osserva giustamente Kleinmann, il lavoro di Zoborowski ha il merito di aprire gli studi del dolore alla
comparazione culturale e di illustrare i modo in cui i significati modellano il comportamento, ma insieme
porta ad un vicolo cieco metodologico e concettuale, in quanto semplifica forzatamente un problema molto
più complesso.
Oggi molti antropologi sottolineano come il dolore sia resistente al riduzionismo culturale. Inteso come
condizione esistenziale umana, esso è un'esperienza che mette in crisi la percezione del mondo
quotidiano, che rischia di far cadere chi lo prova in una “crisi della presenza” in senso demartiniano → si
può dunque sostenere che il dolore, in quanto agisce direttamente sui processi di incorporazione del mondo,
spinge a una riflessione più complessa di quella culturalista.

3.2.Il dolore in diretta.


Sia nel caso del medico che in quello dello studioso di antropologia medica, quando essi si ammalano
avvertono entrambi la difficoltà nel dar conto della complessità dell'esperienza vissuta, comprendendo
parallelamente la differenza tra esperienza personale del dolore ed osservazione di essa negli altri.
Vivendo il dolore si sperimenta l'impossibilita di una condivisione, che marca l'irriducibile distanza tra
noi e gli altri. => Ciò svela le illusioni dell’empatia: possiamo forse condividere la sofferenza delle persone
che amiamo, possiamo sentirci angosciati di fronte alla sofferenza dell’altro perché non possiamo fare nulla
per lenirla. Ma per cogliere l’intensità del dolore altrui bisognerebbe diventare l’altro.
Si pensi ad esempio agli studi dell'antropologa spagnola MARTA ALLUÈ, eseguiti dopo che un incidente
stradale (che l’ha costretta per 6 mesi in un reparto di cura intensiva), con conseguenti ustioni cutanee di
terzo grado sull''80 % del corpo, le ha fatto vivere sia l'esperienza del dolore acuto in ospedale che quella del
dolore cronico una volta finita la degenza → esperienza diretta del dolore porta questa studiosa ad una
radicale critica degli approcci correnti in antropologia medica:
1. Da una parte critica le interpretazioni universaliste di tipo biomedico
2. dall'altra critica le interpretazioni culturaliste dell'antropologia, che tendono a classificare il dolore
inquadrandolo in irriducibili “differenze culturali”.

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La studiosa parla nei suoi resoconti della propria esperienza dell'assoluta incomunicabilita' del dolore, sia
in ospedale con il dolore acuto che negli anni successivi, in cui si rende conto di quanto sia difficile per gli
altri “credere” alla sofferenza di chi soffre di dolore cronico.
Dolore cronico: sofferenza meno socializzabile, in quanto spesso rifiutata o vista come segno di debolezza.
Per questo esso sfugge sia alle iscrizioni biomediche che a quelle culturaliste.
La propria esperienza spinge l'Alluè a riflettere sulla difficoltà a socializzare la sofferenza e insieme a
convincersi della necessità di continuare a sperimentale modalità collettive per lenire la sofferenza propria e
quella altrui.

3.3.Dolore e linguaggio.
Nel 1990 ELAINE SCARRY pubblica La sofferenza del corpo, studio importante su come il dolore incida
sulla percezione corporea del mondo e nella possibilità di comunicabilità con gli altri individui.
La Scarry sostiene l'impossibilità di esprimere il dolore fisico (perché tale dolore assume, nel corpo della
persona che soffre, la consistenza di un fenomeno sotterraneo e invisibile), cosa che porta di conseguenza
alla creazione di complessi rapporti tra la persona sofferente ed il mondo. Si pensi alla frustrazione e
all’impotenza di chi assiste una persona afflitta da dolore acuto o cronico, che nasce non solo dalla difficoltà
nel lenirlo, ma anche da quella di poterne condividere il significato → frustrazione di un dialogo difficile –
se non impossibile – attorno all'esperienza del dolore.
Chi non soffre, non avendo percezione diretta del dolore altrui, si deve in qualche modo fidare del resoconto
di chi soffre, che cerca di comunicare qualcosa di incomunicabile → è per questo motivo che il racconto del
dolore non può mai essere “letterale”, ma è sempre costruito attorno ad un tessuto di paragoni e metafore,
rintracciabili nelle narrazione di tutte le culture umane (è come se venissi trafitto da una spada, brucia come
il fuoco, batte come un martello).
È vero che si ha la possibilità del grido, dei gemiti, dei lamenti, ma queste forme espressive non sono di
immediata destinazione comunicativa: esse rappresentano esattamente la capacità che il dolore ha di sottrarsi
al linguaggio ma anche di aggredirlo, distruggerlo.
Il dolore aggredisce il linguaggio umano, e dalla parola-segno (espressione di un significato condiviso) si
passa alla parola-grido, al suono. Non solo il sofferente, ma anche chi lo circonda, tenta spesso di
sperimentare nuove forme di comunicazione → il dolore produce nuove forme di immaginazione
espressiva incentrate sulla metafora: PAUL E. BRODWIN mostra come il discorso delle persone afflitte
da dolore cronico sia intessuto di metafore (un uomo con un mal di schiena afferma che si sente come se la
sua spina dorsale venisse divisa in due parti, una donna descrive il suo dolore cronico alla spalla come un
enorme zolla rossa e calda, una massa informe di tendini, muscoli e nervi intrecciati).
Le metafore prodotte per descrivere il dolore non sono soltanto “narrazioni” o “resoconti”, ma sono piuttosto
azioni sociali, che partono dalla trasformazione sperimentale del linguaggio quotidiano, inadeguato ad
esprimere il corpo sofferente, e riconfigurano il posizionamento fisico del soggetto nel contesto sociale.
D'altronde, quando si prova ad iscrivere il dolore in linguaggi già strutturati – che siano del sofferente, del
medico o dell'antropologo – questi si rivelano inadeguati a descrivere la complessità delle trasformazioni del
corpo, del tempo e dello spazio che il dolore produce → per questo: riarticolazione dei linguaggi quotidiani
e scientifici, nel tentativo di spiegare, interpretare e comprendere un oggetto oscuro e sfuggente, ma che al
tempo stesso ha una sua materiale fisicità.
Metafore corporee (diffuse in tutte le società ed in tutte le epoche storiche): immagini dialettiche (figure
complesse) che non hanno solo un’efficacia rappresentativa, ma svolgono anche una funzione più attiva: fare
ricorso ad esse significa costruire una retorica del dolore che ha sia una funzione comunicativa-
rappresentativa, sia una funzione pragmatica (si occupa del contesto), come modo di agire nella realtà e
nei rapporti sociali.
Per Brodwin, dunque, le metafore corporee, come le modalità corporee e performative di rappresentazione
del dolore (es. lamento quotidiano) sono atte a creare una “retorica del dolore” che intende provocare
risposte negli altri: sono modi di agire dentro un campo di rapporti di forza e di relazioni di potere che
connette il soggetto sofferente e il suo spazio intimo a una dimensione sociale, politica e istituzionale.
Il carattere sociopolitico della sofferenza risiede nella dimensione pratica dell'esperienza del dolore, nel
lato che produce una trasformazione concreta dell’esistenza quotidiana. (nonostante esso sia incomunicabile,
difficilmente socializzabile)

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3.4.La materialità del dolore.
Ricerca etnografica di ANNE-MARIE MOL condotta in un ospedale olandese con lo scopo di studiare le
pratiche materiali e gli eventi concreti relativi al trattamento dell'aterosclerosi alla gamba (graduale
ostruzione delle arterie con forti dolori, fino alla possibile amputazione) → studio di ciò che i medici fanno:
metodo etnografico che intende andare oltre l’analisi dei discorsi, delle narrazioni, delle concezioni della
malattia condotte dal malato (illness) o dal medico (disease) => obiettivo: osservare cosa realmente essi
fanno intorno a una gamba dolorante, non ricostruire le loro visioni o prospettive culturali => non intende
individuare le diverse visioni ma le diverse pratiche dell’aterosclerosi. -> Così la malattia stessa diventa parte
di ciò che è realmente costruito nella pratica.
Chi soffre di questa malattia è interessato soprattutto a risolvere un problema pratico (poter salire delle scale
ad esempio) davanti agli ostacoli quotidiani, non cerca solo un senso alla sua nuova situazione → storie che
hanno direttamente a che fare con la materialità della realtà corporea: eventi reali, in cui il dolore assume una
forma materiale ed attiva. (scale, carrelli della spesa, ecc)
Nel contesto ospedaliero, la materialità dei racconti riguarda la realtà fisica, corporea (arterie, sangue,
anestetici, bisturi), non emozioni o visioni personali.
Secondo la Mol l'idea di una grande separazione medico-paziente è contraddetta nella pratica da una loro
inevitabile interazione - cooperazione.
Esempio del colloquio tra un medico e una paziente affetta da questa malattia: all'interno di questa
interazione viene creata la claudicanza intermittente → attraverso la narrazione dei sintomi e dei problemi
quotidiani della donna questa – che era entrata nello studio del medico con un problema pratico,- esce con
una patologia ben definita. Questo non significa che è il medico a inventare la malattia, in quanto invece la
diagnosi viene costruita in un rapporto a due, in cui giocano un ruolo importante anche altri elementi/eventi
(gli oggetti della stanza, le figure del racconto della donna etc.). => tutti questi elementi partecipano negli
eventi che insieme “fanno” la claudicanza intermittente.

3.5.La “medicina del dolore”.


Il discorso biomedico sul dolore è storicamente incentrato su due aspetti:
1. Considerazione del dolore come sintomo di una lesione.
2. Questione di una sua possibile cura, connessa all'uso di farmaci antidolorifici.
Lo storico francese JEAN-PIERRE PETER ha evidenziato come nel suo sviluppo storico, la medicina
occidentale abbia costantemente operato una rimozione dell'esperienza del dolore (culminato nella
scoperta del’anestesia). È come se il dolore fosse sfuggito ad ogni classificazione e pertanto non sia esistito
nella costruzione di un sapere biomedico che negava lo scacco di non riuscire a padroneggiarlo.
Ancora oggi, nella teoria biomedica emerge una visione riduzionista del dolore, ridotto a meccanismi
eziologici, ovvero ricondotto a cause individuate in lesioni e malattie, a processi misurabili in maniera
quantitativa e tecnica → da un punto di vista tecnico la biomedicina guarda al dolore come a un
cambiamento materiale dell'organismo in cui sono coinvolti i meccanismi della trasmissione nervosa.
Dal momento che il dolore continuava a sfuggire ai tentativi di misurazione scientifica, con il suo
trasformarsi da dolore acuto in dolore permanente, cronico, tutti gli aspetti non misurabili sono stati affidati a
una categoria psichiatrica che ipotizzata una natura “psicogena” del dolore cronico. (uno dei casi in cui
appare evidente la dicotomia mente/corpo) Ne deriva che molti pazienti affetti da dolore cronico vivono
l'esperienza di “ non essere creduti” in quanto il loro dolore, proprio perché non misurabile, viene
diagnosticato come non reale.
Più recentemente la biomedicina ha cominciato a riflettere sul rapporto tra esperienza del dolore, processi
sociali e meccanismi neurobiologici, con rischio di “neuroriduzionismo” → cioè, spiegazione su base
neurobiologica di tutti gli aspetti sociali, politici ed esistenziali dell'esperienza umana.
Tuttavia, quando l'antropologia ha iniziato a studiare non tanto la teoria, la “visione biomedica”, quanto
piuttosto la pratica biomedica nei confronti del dolore, è emerso un quadro molto più complesso e
contraddittorio: si è in primis notato infatti che la biomedicina non ha una visione unica del dolore, in
quanto l'unicità della teoria viene in realtà contraddetta dalle pratiche.
Es. ricerca di ISABELLE BASZANGER in due centri clinici francesi specializzati nella medicina del
dolore, sorti nella prima metà degli anni ‘80. -> Se da una parte entrambi i centri si rifanno allo stesso quadro
teorico biomedico (“teoria del controllo della soglia del dolore”), le strategie di trattamento del dolore in esse
sviluppate sono profondamente diverse.

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1. Il primo gruppo opera con interventi tecnici basati sull'impiego di anestetici ed interventi chirurgici con
l'obiettivo di manipolare la trasmissione nervosa del dolore (“teoria del controllo della soglia”). Quando
l'intervento tecnico si rivela inefficace, si ricorre all'aiuto di psicologi e psichiatri, parte di un équipe che
opera una classificazione tra due tipi di dolore: quelli per cui si può fare qualcosa a livello tecnico e quello
per cui l’intervento è inefficace. Tuttavia la presenza di medici di diversi settori non si traduce qui in un
lavoro di sperimentazione interdisciplinare: essa è giustificata dall’esigenza di affrontare tutti i problemi
collegati al dolore.
2. Il secondo gruppo ha sviluppato un approccio opposto al dolore cronico: piuttosto che puntare alla sua
terapia, cerca di elaborare una metodologia di gestione e di controllo, differenziandosi grandemente
dall'approccio dominante in biomedicina (che affida la gestione del dolore cronico alla psicologia e alla
psichiatria, escludendolo sostanzialmente dal trattamento medico). I medici di questa clinica, davanti ad un
dolore che sfugge all'intervento tecnico, non si rifanno ad altri specialisti, ma tentano di ridefinire il concetto
stesso di “dolore cronico”, nonché le sue modalità di trattamento. In breve, più che alla terapia del dolore,
essi sono interessati al controllo e alla gestione di esso (interesse alla persona, ai suoi problemi con ambiente
familiare, lavoro etc.)

Nella teoria del controllo della soglia, il dolore – considerato fenomeno multidimensionale, fisico, sociale e
psicologico – diventa malattia, patologia (non più come sintomo di una lesione). Ma il lavoro di Banszanger
mostra come questa non sia che un quadro teorico comune dal quale si sviluppano significative differenze
pratiche nei percorsi di ricerca.
La diversità fra i due centri studiati dall’etnografia è tale che essi sono considerati come i due poli estremi di
due differenti modi di “costruire” il dolore, inscrivendolo in due diversi dispositivi: il primo, basato sulla
cura del dolore attraverso procedure tecniche, il secondo che tenta un passaggio dalla cura del dolore al
controllo e alla gestione quotidiana di esso attraverso un adattamento dei comportamenti delle persone
sofferenti.
→ i due centri studiati costituiscono due poli opposti di un continuum di centri che si adeguano all'una o
all'altra pratica biomedica, con una tendenza all'integrazione dei due approcci.
È da tale processo di integrazione che si è giunti infine alla definizione di una nuova categoria diagnostica
definita “sindrome da dolore cronico” che cerca di integrare nella definizione del dolore, non solo le sue
cause, ma anche le azioni quotidiane delle persone sofferenti e le reazioni degli altri.
Questo lavoro mostra come il corpo dei soggetti sofferenti sia preso in una rete di pratiche istituzionali
differenti e insieme ha mostrato come la biomedicina sia una realtà eterogenea, con grandi
differenziazioni interne ad un'apparente identità teorica unitaria.

Parte seconda
MEDICINE E ISTITUZIONI: SAPERI, PRATICHE, POLITICHE.
La “medicina” non è una realtà unitaria, specifica e definita, ma corrisponde piuttosto ad una vasta
molteplicità di realtà diverse e multi localizzate. ->E’ una nozione astratta. Se volessimo considerare la
medicina una “cosa” allora dovremmo intenderla solo come il farmaco, il medicamento.
TULLIO SEPPILLI, visto il suo carattere multiforme e variegato, conviene dare una definizione generale
di medicina, intesa, in ogni contesto storico, come “assetto delle forme culturali, comportamentali e
organizzative concernenti, grosso modo, la difesa della salute e dell'equilibrio psichico” → molteplicità
virtualmente infinita delle forme di medicina (dalle medicine strutturate e di lunga durata storica, come la
biomedicina, la medicina cinese, o quella ayurvedica; fino all’atto individuale di auto cura elementare, come
prendere una camomilla o misurare la febbre col termometro; dall’incontro con un guaritore di “medicina
popolare” o con un mago televisivo; al pellegrinaggio a Lourdes o presso una clinica statunitense), per cui
non esiste la medicina” ma una molteplicità di “medicine”, ciascuna incastrata in specifici contesti storici,
sociali e istituzionali nei quali spesso non è possibile isolare un settore medico, separabile dal flusso
complessivo dei saperi locali sulla realtà naturale e soprannaturale, dagli usi simbolici della malattia, dai
significati religiosi e così via.
(ogni atto che caratterizza i percorsi individuali e sociali connessi alla cura del corpo, della persona e del
proprio sé, potrebbero rientrare nell’etichetta di “medicina”)
Parte del libro in cui si esplora il legame che unisce le forme di intervento sul corpo, la salute e la malattia ai
contesti sociali in cui tali forme hanno luogo, alle istituzioni cui esse danno vita, ai soggetti che la mettono in

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opera, agli oggetti e alle tecnologie in cui esse si iscrivono, ovvero il legame tra ambito di corpo, salute e
malattia e l'elaborazione di saperi scientifici e di tecniche di intervento, e il concreto articolarsi dei
rapporti di potere in contesti storici definiti.

CHE COS'È LA BIOMEDICINA.


[diversi passaggi che l'antropologia medica ha attraversato, prima evidenziando il carattere culturale di ogni
sapere scientifico e della prospettiva biomedica, poi sviluppando un'analisi meno attenta alla visione
biomedica e più concentrata alle pratiche della biomedicina e agli specifici agenti che le attivano]

Con il termine “biomedicina” si intende la medicina detta anche “occidentale”, “ufficiale”, “moderna”,
scientifica”, “cosmopolita” etc. → tutti termini che la definiscono per contrasto ed opposizione a presunte
medicine altre.
Il prefisso bio- la definisce come medicina che tende a privilegiare l'aspetto biologico e a ridurre o negare la
dimensione socioculturale della malattia.
Il termine “biomedicina” è utilizzato dall’antropologia medica proprio per sottolineare il carattere peculiare
della “medicina occidentale” rispetto ad una più ampia pluralità di forme di medicina.
Spesso si tende a chiamarla semplicemente “medicina” in quanto si naturalizza l'ambito biomedico, come
fosse l'unica prospettiva possibile e legittima.
Primo compito che l'antropologia medica ha dovuto affrontare è stato quello di svelare il carattere storico-
culturale della biomedicina, operando una denaturalizzazione dell'ideologia scientifica attraverso una
prospettiva di comparazione culturale
• Stimolo dato in questo senso anche dalle definizioni per contrasto, in primis quella di “medicina
occidentale” che ha facilitato un confronto con medicine alternative lontane ma anche interne allo stesso
territorio occidentale → Svolta questa funzione, la definizione di “medicina occidentale” è poi apparsa
limitante, in quanto ha rischiato di conferire alla biomedicina un inesistente carattere di omogeneità ed
unitarietà.
• Anche la nozione di “sistema culturale” ha favorito la riflessione sulla complessità strutturale dei saperi e
delle pratiche biomediche e sull'organizzazione delle istituzioni ad essi connesse, svelando inoltre il carattere
storico-culturale e non naturale degli assunti filosofici e scientifici su cui la biomedicina ha costruito la sua
identità. → anche l'approccio culturale ha mostrato i proprio limiti, quando è andato sostituendo alla critica
di riduzionismo e “naturalismo” di scienze e medicina un culturalismo essenzialista che avrebbe per
oggetto un inesistente “sistema culturale biomedico” omogeneo e funzionalmente organizzato.
• La categoria di medicina occidentale si è allora andata scomponendo e frammentando in una vasta e
virtualmente infinita varietà di gesti, azioni, discorsi, procedure divergenti e talvolta conflittuale (come
abbiamo0 visto nel caso delle cliniche del dolore). Una complessa eterogeneità, questa, che viene
ulteriormente ampliata dalle nuove tecnologie

4.1.La “medicina occidentale” come “sistema culturale”.


800'-900: presenza sempre più diffusa della biomedicina nel mondo, anche grazie ad una battaglia
istituzionale di delegittimazione e criminalizzazione delle medicine “diverse”. Forse proprio a causa della
sua diffusione, è piuttosto difficile definire in maniera netta gli ambiti in cui opera e delinearne le principali
caratteristiche e funzioni → anche per questa difficoltà nella sua prima fase, l'antropologia medica ha tentato
di definirne i tratti peculiari attraverso un'opera di confronto con altri sistemi di significato e con pratiche
mediche di altre medicine.
In antropologia medica per lungo tempo la nozione di “medicina occidentale” ha svolto l'utile funzione di
delineare ed indicare un modo particolare di fronteggiare malattia e sofferenza.
Per cercare di dar conto insieme del carattere sistemico e della sua variabilità interna, in questa prima fase si
utilizza la nozione di sistema medico, definito come “insieme delle rappresentazioni, dei saperi, delle
pratiche e delle risorse, nonché le relazioni sociali, gli assetti organizzativi e normativi, le professionalità e le
forme di trasmissione delle competenze, che in un determinato contesto storico-sociale sono finalizzate a
individuare, interpretare, prevenire e fronteggiare ciò che viene considerato come “malattia” o comunque
compromissione di un “normale” stato di salute”. → nozione utile a qualificare l'intero campo di saperi,
rappresentazioni e pratiche della biomedicina, considerandolo come strutturato in un sistema (complessità
organizzata), appunto.

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Come sistema, la biomedicina può essere a questo punto differenziata sia da pratiche esterne che da pratiche
con cui convive all'interno di un dato contesto storico e geografico.
D'altronde, parallelamente si rende chiara l'impossibilità di considerare la biomedicina come unica pratica
vera e scientifica, in quanto, nonostante i suoi successi e sviluppi, è esposta continuamente alla morte dei
pazienti, da guarigioni inspiegabili o dalla cura ottenuta attraverso terapie alternative. → ne deriva che la
biomedicina è da considerare come solo una delle possibili modalità di organizzare, strutturare e
istituzionalizzare le conoscenze teoriche e le azioni pratiche relative a malattia e cura.
Studiare la biomedicina come “sistema culturale” significa dunque “esplorare i modi in cui essa è
socialmente, culturalmente e storicamente costruita, mostrando in che modo le sue prospettive influenzano la
vita dei suoi pazienti”.
Primo passo della critica culturale della biomedicina messa in atto dagli studi antropologici è stato dunque
quello di una sua comprensione socioculturale: mostrare cioè come il sistema biomedico sia al tempo stesso
strutturato su un insieme di significati, valori e di norme, e come tali norme tendano ad orientare le relazioni
sociali che la biomedicina, in quanto istituzione, attiva →per far questo l’antropologia ha elaborato un
modello di “sistema culturale biomedico”: i principi e “fatti” scientifici su cui la biomedicina si fonda
vengono denaturalizzati, e quindi esaminati come assunzioni ideologiche di cui è possibile ricostruire genesi
e sviluppo storico-culturale.
L'antropologa DEBORAH GORDON mostra nei suoi studi come gli attributi di scientificità, razionalità e
verità della biomedicina facciano riferimento a una retorica identitaria, connessa ad una costruzione di
“un’appartenenza” e una “tradizione”, e ad un discorso che intende fondare e legittimare un'ideologia
occidentalista strutturata su alcuni assunti filosofici, primo tra tutti quello della dicotomia mente-corpo, che
dà vita a sua volta a numerose altre dicotomia come razionale/irrazionale, materiale/simbologico, vero/falso,
naturale/culturale etc. → la biomedicina tende ad autorappresentarsi attraverso un'identificazione con
razionalità e verità. (separare biomedicina da altri ambiti)
Nelle analisi antropologiche culturaliste, invece, essa è un sistema di credenze, valori, rappresentazioni e
pratiche culturali storicamente determinate e spesso intrise di quei simboli irrazionali contro i quali la
biomedicina si autodesigna per contrasto. Si pensi a come una verità scientifica in una data epoca venga poi
giudicata superstizione in quella successiva (esempio dell’isterectomia: asportazione chirurgica dell’utero
perché la donna guarisse dall’isteria), cosa che si giustifica con l'idea di un “progresso della ragione”
(scientifico).
Esempio contemporaneo che sembra testimoniare a favore del carattere culturale delle pratiche biomediche:
l’asportazione delle tonsille, delle adenoidi o dell’appendice, ritenuti organi non solo inutili ma quasi dannosi
per la crescita. => Significato socioculturale di tali operazioni, definite come “chirurgia dell’età” in quanto
hanno assunto una funzione medico-culturale di produzione rituale dei passaggi di età. (pratiche chirurgiche
che assumevano la funzione di manipolazione dei corpi infantili al fine di garantirne la crescita)
Secondo la Gordon, studiare la biomedicina come sistema culturale non significa solo considerarla come una
delle possibili forme di organizzazione e strutturazione delle conoscenze e delle pratiche contro la malattia,
ma anche mostrare come il discorso medico vada ben oltre lo specifico campo della malattia stessa: il
riduzionismo biologico, la tendenza cioè a considerare l’essere umano esclusivamente dal punto di vista
biologico escludendo il valore delle relazioni sociali e del processo storico, è quindi una prospettiva culturale
e teorica, ma anche politica, che supera gli aspetti biologici e ci fornisce modi di pensare noi stessi, il nostro
corpo, il nostro sé, la nostra idea di persona, le relazioni intersoggettive, le categorie di maschile e
femminile, dell'individuo e della società. -> In tal senso le ricerche antropologiche hanno tentato di
evidenziare in questa prospettiva come la biomedicina – insieme di pratiche e saperi diversificati – sia
fondata su una cosmologia (ordinamento del mondo), un’ontologia (concetti su realtà ed essere) ed
un'epistemologia (teoria della conoscenza) storicamente determinati.
Gordon definisce questa struttura ideologica come l’”occidentalismo” della medicina => La biomedicina,
fondata su un retroterra strutturato su una rivendicata “autonomia della natura” da società e cultura,
costruisce dicotomie che tendono ad occultare il proprio carattere storico-culturale. → natura vista come
isolata da ogni logica simbolica, sovrannaturale, culturale, sociale, psicologica, morale, spaziale e temporale.
(es. non considerare più malattiua come conseguenza del peccato)
E ancora, la biomedicina identifica se stessa con la verità e produce rivendicazioni di universalità della
propria teoria ed ideologia, occultando il significato socioculturale della sua pratica. Così le pratiche
biomediche fondano la verità oggettiva dei processi naturali ed esercitano un controllo sull'esperienza

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quotidiana di tali processi → la biomedicina non solo studia il corpo e ne definisce l’oggettiva esistenza, ma
è il luogo primario in cui avviene la costruzione del nostro modo di percepire e vivere il corpo stesso.
Le conoscenze della biomedicina sono così strumenti di produzione e riproduzione di teorie della conoscenza
e di concezioni della persona della società e della natura.
Tuttavia, a causa del fatto che all'interno della biomedicina coesistono complesse e variabili azioni concrete,
l'idea di una “cultura della biomedicina” è risultata poco efficace per comprendere le azioni reali delle
persone in carne ed ossa che abitano il “sistema”.
Ne è derivata per l'antropologia medica la necessità di abbandonare l'immagine di una medicina occidentale
come “sistema culturale” unitario, funzionale ed omogeneo, per mettere invece a fuoco genesi e struttura di
un “campo biomedico” abitato da diversi soggetti (i medici, i pazienti e i loro familiari, gli infermieri, e tutti
i vari attori sociali coinvolti) che agiscono concretamente in un contesto istituzionale la cui stabilita è
regolata da rapporti di forza e assetti di potere più o meno duraturi → ricerche hanno rivelato differenze
interne, dimensioni nascoste ed intime della vita istituzionale e culturale della biomedicina, mostrando come
schemi concettuali e prospettive ideali della biomedicina non preesistano come forme di condizionamento
delle pratiche, ma siano esse stesse pratiche, fondate su azioni e discorsi: la biomedicina non esiste al di fuori
degli atti materiali che la mettono in opera.
La visione culturalista, una volta rivelata la natura culturale degli assunti “naturalisti” della biomedicina, ha
reso così evidente il rischio ridurre l'estrema eterogeneità e diversità delle azioni concrete a un “codice
culturale” fisso e immanente: rischio che un culturalismo altrettanto rigido si sostituisca al precedente
naturalismo biomedico.
La categoria di “sistema culturale” è stata quindi progressivamente superata a vantaggio di un interesse
etnografico più attento alle pratiche culturali della biomedicina ed alle sue differenze interne.

4.2.Le differenze in biomedicina.


Antropologia della biomedicina segna ritorno dell'antropologia al proprio contesto occidentale (sorta di
etnografia domestica, genere di ricerca antropologica il cui terreno è situato non in contesti lontani, esotici,
ma in contesti per così dire endotici – quelli nei quali l’antropologo vive la sua vita quotidiana). Tullio
Seppilli indica in questo allargamento di campo un salto di qualità dell'antropologia medica, con l'analisi
della stessa medicina ufficiale occidentale come uno tra i tanti sistemi medici, indagato come istituzione
sociale e struttura di potere e insieme come apparato ideologico-culturale e organizzativo storicamente
determinato.
La prospettiva di quest'analisi antropologica è insieme critica, riflessiva e dialogica1, in quanto per indagare
la biomedicina l'antropologia medica è costretta a mettere in discussione quel sistema filosofico-scientifico
occidentale da cui lei stessa è nata.
[1 La dialogica (dal greco διαλογικός, der. di διά “attraverso” λόγος “discorso”) è la scienza che analizza e
studia le configurazioni discorsive generate nell'interazione tra esseri umani tramite l'uso del linguaggio
ordinario. ]
Abbiamo già detto come ad un certo punto la definizione della biomedicina come “sistema culturale” si sia
rivelata insufficiente. Oggi l'antropologia intende la cultura come un continuo processo di produzione e cerca
concetti meno astratti e più vicini all'esperienza reale della prassi umana → dal concetto di “cultura” si è
quindi passati a quello di “produzione culturale” e di “pratiche culturali”, con i quali ci si chiede cosa
pensano, sentono, dicono e fanno le persone reali, e non i concetti astratti.
L'attenzione alle pratiche (piuttosto che al sistema) mette in luce una complessa eterogeneità della
biomedicina, una differenziazione culturale che si sviluppa su molteplici assi → biomedicina con una
variabilità che, sia nelle diverse localizzazioni globali, sia nella vita culturale intima di ciascuna di queste, si
presenta come una realtà processuale e dinamica non rappresentabile come un insieme omogeneo, come una
cultura singola ma piuttosto come un agglomerato di pratiche culturali diverse.
Si pensi solo all'attuale stato di cose, in cui la medicina occidentale coabita sempre più come forme di
medicina alternative sempre più professionalizzate, per cui se da un lato un malato può essere paziente di più
medicine, dall'altro gli stessi medici possono aderire ad altre forme di pratica medica (es. agopuntura). → ne
deriva che la definizione antropologia di “medicina occidentale” ha ormai superato la sua funzione storica
(quella di occultare il pluralismo ed operare un’”occidentalizzazione”).

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In breve, dopo aver a lungo insistito sulle differenze tra “sistemi medici”, ora l'antropologia ha spostato
l'attenzione sulle differenze interne al “sistema biomedico”, mostrando l'esistenza di un forte pluralismo
biomedico, inteso come pluralità di differenti forme di vita sociale e culturale della biomedicina stessa.
Per prima cosa, grazie al riconoscimento del pluralismo, si può facilmente notare una diversità nelle pratiche
biomediche nei diversi contesti nazionali.
Le differenze tra biomedicine possono essere osservate anche nei modi attraverso cui le ideologie implicite
nella comunicazione medico-paziente in caso di diagnosi e prognosi di malattie come il cancro, appaiono
connesse ai diversi modi di costruzione del corpo e della persona, di percezione delle emozioni, di
immaginazione del rapporto tra vita e morte.
N.b Si è spesso parlato di queste differenze come di differenze culturali, ma a ben guardare esse sono
soprattutto ineguaglianze sociali, connesse alle diverse forme di organizzazione politico-sanitaria, al livelli
variabili di investimento economico per la ricerca, la prevenzione e la cura.
Punto di partenza dello studio antropologico comparativo delle diverse biomedicine può essere costituito dal
riconoscimento di alcune significative differenze nelle effettive pratiche locali.
Es. delle differenti modalità nei vari contesti nella comunicazione di diagnosi di cancro:
• USA: comunicazione diretta della diagnosi al paziente, attraverso una retorica complessa incentrata sul
simbolo della speranza. Convinzione che la volontà individuale possa influenzare i processi corporei => la
speranza, infatti, si combina con le campagne di educazione sanitaria che mobilitano l’opinione pubblica
nella guerra contro il cancro e che informano sulle percentuali di successo delle nuove terapie
• Giappone: molta ambiguità, spesso decisione di non comunicare direttamente la diagnosi al paziente e ai
suoi familiari. Questo coerentemente con un modello dell’interpretazione del rapporto medico-paziente
basato su una rigida codificazione dei ruoli: franchezza della comunicazione considerata professionalmente
inappropriata. Solo da poco maggiore apertura alla diagnosi franca, prima visto come atteggiamento
finalizzato soltanto alla protezione legale del medico.
• Messico: atteggiamento schietto del medico, che tenta anche di indirizzare il paziente e i familiari verso
alcune scelte terapeutiche. Stile giustificato dai medici come un atteggiamento necessario per dirigere i
pazienti verso una scelta razionale del trattamento, orientata nello spettro delle disponibilità e delle
possibilità.
└►Questo studio comparativo mostra l'importanza del rapporto tra discorso bimedico e produzione della
località, nella definizione delle aree problematiche e nella concreta pratica biomedica.
N.b. Quando si mostra come una pratica medica sia sottesa da riferimenti culturali relativi alla località non si
pensi a un semplice determinismo culturalistico localista. Gli approcci culturalisti hanno infatti il limite di
considerare la località come un'essenza in grado di condizionare la prassi medica, mentre essa – come la
cultura – non è un essenza, ma una costruzione sociale e storica, un prodotto costruito dalle concrete pratiche
culturali biomediche, nonché da altre forze ed istituzioni (in primo luogo lo Stato) costruiscono l’idea di
località.
La biomedicina, insomma, attraverso le proprie istituzioni e le proprie pratiche contribuisce alla produzione
della cultura e della località, e alla localizzazione dei soggetti.

4.3.“Dire” o “non dire” la verità?


Entriamo ora nel concreto delle forme di comunicazione all'interno delle diverse biomedicine. Studio di
DEBORAH GORDON del 1991: ricerche etnografiche in Italia sull'esperienza del cancro e sui diversi
atteggiamenti di malati, familiari, medici e professionisti dell'assistenza. Obiettivo è di mostrare come la
pratica di non informare i pazienti della diagnosi non si giustifichi sul piano scientifico, ma sia piuttosto da
guardare come ad una pratica culturale. Gordon cerca insomma di comprendere quali siano le logiche
socioculturali che sottendono la pratica del “non dire” e del “non sapere”.
Motivazioni sottese alla scelta dei medici di non informare i pazienti in caso di diagnosi di cancro:
• diagnosi di cancro = morte sicura e perdita della speranza
• secondo i medici e i familiari i pazienti non vogliono sapere
• una buona morte è quella improvvisa e inconsapevole
• comunicazione della diagnosi ritenuta dai medici come precisa scadenza temporale
• visto il rapporto autoritario medico-paziente, la diagnosi viene percepita come una sentenza
• non dire aiuta la speranza e fa continuare la vita.

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►La pratica medica del “non dire” e “non informare” si regge dunque per i medici italiani intervistati su una
“struttura della speranza” → <la speranza della cura rappresenta tutto. Se a una persona togli la speranza di
guarire allora è come se tu gli avessi lasciato solo una pistola> parole di un chirurgo sul ruolo della speranza
nel suo lavoro → questo sfondo della “struttura della speranza”, che sottende la scelta di “non dire la verità”
al malato di cancro, mostra secondo la Gordon come all'interno di tale logica della prassi biomedica agiscano
concretamente esperienze culturali della propria presenza nel mondo, particolari idee sulla vita, sulla
“buona” e “cattiva” morte, sulla sofferenza e la coscienza, sulla persona e la moralità: Gordon riesce a
sciogliere l'astrattezza di un approccio rigidamente culturalista rapportandosi alla base esistenziale dei
riferimenti culturali: dire o non dire la diagnosi, voler sapere o non sapere, sono stili di vita culturale, sociale,
esistenziale, emozionale, modi diversi di concepire il sé, il corpo, la persona nel rapporto con gli altri e con il
mondo. In questo modo la Gordon forza l'approccio culturalista fino ad andare oltre l'individuazione dei tratti
salienti di una cultura biomedica “italiana” o americana, messicana, giapponese, cosa che ridurrebbe l'analisi
della diversità a facili stereotipi nazionali. Inoltre, un simile approccio apparirebbe connesso a una
metodologia che considera la soggettività del ricercatore come fuorviante. Al contrario, l’antropologia
contemporanea fa del coinvolgimento del ricercatore un elemento chiave per superare gli stereotipi.

D'altra parte la ricercatrice mostra come la pratica medica, mentre riflette specifici significati culturali,
sociali ed esistenziali, al tempo stesso li produce, riproduce e modifica.
Parla di “approccio dominante” in ciascun Paese, segnalando in questo modo come, al di la di un
atteggiamento culturale ritenuto fisso e diffuso, si possano dispiegare un’infinità di comportamenti diversi
che da quell'atteggiamento culturale si distanziano. (molte persone di Paesi diversi condividono gli stessi
orientamenti e le stesse esperienze)
Se continuiamo a pensare al “non dire” come norma italiana, questa resta ad esempio un elemento
problematico cui dare conto in ogni singola concreta interazione con il malato.
Oltre il loro significato culturale, le motivazioni e le conseguenze della menzogna e del segreto della
comunicazione biomedica si riflettono anche nella politica delle emozioni, agendo non solo nelle convinzioni
ideologiche e negli assunti culturali, ma anche sul piano sentimentale, nella concreta pratica esistenziale
intima, dei vari soggetti coinvolti.
(vedi es. pag. 139) La Gordon porta come esempio la sua sensazione di “scandalo” prodotta dall'intenzione
di un medico di non rivelare ad una collega la diagnosi della sua malattia: lo scandalo, dice, non deve essere
visto come rigida differenza culturale che contrappone semplicisticamente due culture (in questo caso quella
italiana a quella nordamericana della studiosa). Lo scandalo è anche quello sentito da un medico italiano
quando deve lottare contro la decisione dei suoi colleghi di non informare un amico -medico anche lui –
della propria malattia.
(se Gordon si chiede come abbia potuto la sua amica “profana” credere alla diagnosi di tubercolosi ovarica,
tanto più tanto più possiamo domandarci come sia possibile nascondere la diagnosi di cancro a un medico. ->
Mantenere il segreto in quel caso non fu facile, ma fu possibile per la complicità di alcuni medici tra gli
amici più cari del malato, che falsificarono le analisi e le documentazioni. La scelta provocò l’indignazione
di alcuni colleghi)
La pratica della menzogna ha una significato più ampio che conduce a una valenza istituzionale e giuridica
→ oltre ai suoi significati culturali, la scelta del “dire” o “non dire” deve essere indagata in rapporto alla
produzione di potere e di autorità connessa alla facoltà del medico di custodire o elargire conoscenza: la
menzogna o il “non dire” è dunque legata alla dinamica dei rapporti di forza e di potere che sottendono la
conservazione di un “segreto” e coinvolgono le relazioni tra i cittadini e lo Stato. Dimensione politica della
menzogna, a cui è facilmente legato il problema del “consenso informato”, che proietta sul piano
normativo, giuridico e politico il senso profondo delle scelte conflittuali interne al “sistema culturale” della
biomedicina.

4.4.Sul “consenso informato”: intimità, conoscenza e “segreti di Stato”.


La formula giuridica del consenso informato si è originata negli USA in seguito ad un lungo dibattito sulla
regolamentazione giuridica della pratica medica → Nel 1957 prima sentenza in cui si afferma che il medico
ha il dovere di comunicare al paziente “ogni fatto che sia necessario a formare la base di un intelligente
consenso del paziente al trattamento proposto”.
Sarà da questo diritto che si svilupperà quello alla salute (v. costituzione italiana, articolo 32).

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Studi socio giuridici (condotti utilizzando statistiche quantitative, attraverso l’uso di questionari) delineano
una grande differenza culturale in questa pratica tra cultura latina e cultura anglosassone. L'antropologia
cerca però di andare oltre le teorie del “condizionamento culturale” del comportamento biomedico, per
esplorare quanto la riproduzione di convenzioni e di poteri garantiscano la produzione e riproduzione di un
sapere segreto, in molti casi strettamente connesso ai poteri dello Stato.
In tutti i contesti locali e nazionali è costante l'asimmetria nel rapporto medico-paziente*, come scelta
deliberata (e politica) di conservazione del segreto, elemento che le teorie del condizionamento culturale
rischiano di occultare. Con queste si rischia di sottovalutare anche il ruolo centrale che svolge lo Stato nella
definizione ed istituzionalizzazione di tali scelte di segretezza.
*non solo asimmetria connessa alla diversità del capitale di sapere specialistico
Ricerca di SHARON KAUFMAN sul consenso informato in relazione alla sperimentazione biomedica. Il
suo studio prende le mosse da una vicenda storica drammatica: la pubblicazione, da parte del governo
americano, a metà degli anni '90, di materiali riservati che provano come durante la Seconda guerra
mondiale in tre ospedali statunitensi sia stata condotta una sperimentazione in cui è stato iniettato plutonio in
18 pazienti inconsapevoli per valutare i tassi di escrezione2 della sostanza e testare alcuni sui effetti
sull'organismo umano.
[2 L'escrezione è un processo fisiologico di secrezione rivolta verso l'esterno con cui gli organismi viventi,
attraverso particolari organi e meccanismi biochimici, eliminano le sostanze del metabolismo inutili o
tossiche o date dal metabolismo cellulare che si accumulano in essi e regolano il proprio equilibrio idro-
salino]
A partire dal grande dibattito pubblico che ne segue, l'antropologa esplora le forme attraverso le quali in esso
viene resa flessibile la soglia tra verità e menzogna. Attraverso una comparazione tra un articolo giornalistico
A ed il rapporto dell'Università della California B sulla questione, Kaufman nota come il punto centrale della
contesa sia rappresentato dalla possibilità di situare in un'adeguata cornice interpretativa e storica la
sperimentazione e le esigenze del consenso. Per questo la critica antropologica, piuttosto che esercitare una
denuncia a posteriori degli eventi, suggerisce che sia molto più interessante e politicamente utile da un punto
di vista democratico valutare quale vantaggio, per capire i problemi del consenso nelle pratiche biomediche
cliniche attuali, possa avere l'analisi delle contraddizioni e dei conflitti connessi alla sperimentazione sul
plutonio negli anni quaranta.
Lo studio di Kaufman mostra come lo studio delle pratiche sperimentali e delle forme di comunicazione nel
campo biomedico sia possibile solo tenendo conto delle relazioni fra contesti sociali, poteri dello Stato,
trasformazioni storiche ed economia politica della biomedicina.

A: obiettivi: mostrare che il governo custodisce il segreto su questioni importanti che possono recare danno
alla salute della popolazione; evidenziare la violazione dell’autonomia individuale e del diritto
all’informazione; denunciare la vulnerabilità dei cittadini di fronte al potere del governo.
B: obiettivi: appurare se “la scienza” e le sue procedure erano conformi alle regole di quel momento storico;
scoprire se gli esperimenti potevano essere considerati legittimi o meno, con particolare riferimento al
trattamento dei soggetti coinvolti e alle info di cui erano venuti in possesso. Una volta appurato che la
somministrazione del plutonio non era letale, il problema etico si sposta sulla questione del “consenso
informato”.

4.5.Il “campo biomedico” e le politiche della biomedicina.


La nozione di “campo biomedico” deriva dalla definizione di “campo” data da PIERRE BOURDIEU: il
campo è uno spazio sociale entro il quale agiscono specifiche istituzioni. (es. campo religioso, scientifico,
sanitario)
Ogni campo è regolato da rapporti di forza entro i quali operano gli agenti che abitano quel campo. Il campo
scientifico, ad esempio, è dato dalla combinazione di un “campo di forze” e di un “campo di lotte” in cui i
diversi agenti, con differenti capitali di conoscenza e di autorità, si fronteggiano nelle contese scientifiche per
mutare i rapporti di forza.
La nozione di campo biomedico (per indicare lo spazio sociale della biomedicina) da’ il vantaggio di far
meglio comprendere gli equilibri e le dinamiche concernenti il confronto, la lotta e lo scambio -materiale e
simbolico – fra diversi agenti, non solo all'interno del campo stesso, ma soprattutto nelle zone di confine, di
sovrapposizione con altri campi sociali in cui le definizioni delle situazioni e delle procedure biomediche

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sono oggetto di contesa (es. rapporti fra pratiche biomediche e morale religiosa, principi di liberta
democratica, rispetto dei diritti umani etc.).
(come abbiamo visto a proposito dell’incorporazione) i corpi sono costantemente esposti a forze storiche che
puntano a dominarne la capacità di azione: nella dimensione quotidiana incorporiamo continuamente le
norme di comportamento stabilite da istituzioni (biomedicina, Chiesa, Stato, cerimonie, partita, carcere etc.)
che agiscono come dispositivi organizzati e formalizzati con l'obiettivo di regolare i comportamenti e le
relazioni sociali. => Queste istituzioni regolano la vita sociale non soltanto nello spazio pubblico, ma anche
nella dimensione intima.
Tale regolamentazione è sempre il frutto di un processo non completamente prevedibile, ma di una dialettica
in cui i singoli agenti possono trasformare lo stato di cose. È per questo motivo che le istituzioni fondano la
loro autorità sia sulla coercizione diretta dei comportamenti che attraverso un dialogo intimo ed una
mobilitazione delle emozioni degli attori sociali finalizzata alla produzione del consenso. Come dimostrato
da Gramsci, le istituzioni agiscono quindi attraverso una permanente attività culturale che stabilisce norme e
sanzioni, regole morali e comportamentali, che definisce il confine fra vita e morte, razionale e irrazionale,
maschio e femmina, ecc, che ordina e classifica la realtà naturale e sociale e costruisce le idee di persona,
soggettività, intimità e sé. → l'appartenenza a un'istituzione è quindi assorbita nel proprio corpo,
naturalizzata attraverso l'incorporazione della norma, così che l'istituzione produce modi di dire, fare e
pensare attraverso cui si rende al tempo stesso visibile (in quanto espressa dai comportamenti stesi) e
invisibile (quei comportamenti appaiono naturali).
Ma, come già visto, l'esercizio del dominio del corpo, della costruzione del sé e della persona nel rapporto tra
esseri umani e istituzioni non è da intendersi come un condizionamento meccanico che plasmi facilmente le
persone a immagine e somiglianza delle istituzioni, proprio in quanto queste sono dotati di agentività, per cui
essi non hanno una cultura ma continuamente la costruiscono, la producono, la agiscono e la trasformano.
Partendo da questo presupposto, risulta che anche nel campo biomedico i soggetti agenti -medici, assistenti,
pazienti etc. - se da una parte conferiscono legittimità alle istituzioni riproducendone le norme, dall'altra
possono assumere posizioni critiche, contestative o dialettiche → all'interno di una realtà definita da rapporti
di forza e assetti di potere, i soggetti implicati nel campo possono contribuire a conservare, sfidare o criticare
i modelli istituzionali dominanti, produrne di nuovi e diversi o passare tatticamente da uno all'altro a seconda
del momento e del contesto.
Sebbene all'interno di rapporti di forza che tendono a regolare le azioni e a prevenire o reprimere conflitti
interni, le azioni all’interno del campo biomedico sono sempre potenzialmente creative → ciò significa che
gli assetti egemonici interni alla biomedicina non sono permanenti ne’ scontati.
Vanno quindi considerati con maggiore attenzione quei luoghi in cui le regole del campo tendono ad entrare
in crisi → si pensi ad esempio alla diffusione della cosiddetta “non osservanza” sia da parte di pazienti che
non seguono le prescrizioni mediche, che da quella dei medici stessi che possono vivere una profonda
contraddizione tra orizzonte ideologico e culturale del modello-normativo e prassi concreta, contraddizione a
cui i medici si rapportano spesso elaborando personali tattiche che li pongono in dialogo critico con il
sistema di riferimento.
Come detto per la cultura in generale, anche quella biomedica non è da intendersi come un'”essenza” fissa ed
immutabile, quanto piuttosto come un processo culturale in movimento, vissuto da persone reali che
continuamente partecipano alla dialettica tra conservazione e trasformazione del campo stesso.
I soggetti agenti del campo biomedico sono presi in una continua dialettica egemonica, cioè devono dunque
orientare la propria capacità di agire in un campo regolato da rapporti di forze → Tale dialettica non può
essere ridotta a mera opposizione: l’egemonia non risiede solo nella funzione dominante, ma può nascere
anche da una politica di trasformazione (egemonia: complessa volontà collettiva) -> i conflitti o le alleanze
nella rivendicazione o restrizione dei diritti del malato come esempio del fatto che il campo biomedico è
continuamente attraversato da un flusso di rapporti di forza e di potere ed è aperto all'azione conservatrice o
contestatrice dei soggetti.
In questo senso il potere e l'ideologia della biomedicina non si collocano all'esterno della sua materialità, ma
al contrario si incorporano nelle istituzioni, nei vari apparati e strutture, nei dispositivi e negli strumenti, e in
generale in tutte le cose e le persone che abitano il “campo biomedico”.
L'antropologia suggerisce dunque di indagare i modi in cui la biomedicina costruisce i suoi oggetti (corpi
umani) nelle sue pratiche (non come li conosce), osservando ciò che gli agenti del campo fanno, esplorando

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le contraddizioni che emergono continuamente tra ideologia e pratiche biomediche, situando in contesti
concreti le forme di vita sociale del campo.
Pur avendo sottolineato come la biomedicina sia una realtà eterogenea (nelle concrete situazioni storiche e
nei diversi contesti culturali essa assume forme molto differenti, e anche in questi singoli contesti i suoi
praticanti non costituiscono un gruppo unitario), è possibile individuare alcune caratteristiche generali del
campo biomedico emerse da studi antropologici sui processi di istituzionalizzazione della gestione pubblica
del corpo, della salute e della malattia:
1. processo di burocratizzazione: efficienza come principio guida di molte procedure (anche nella relazione
medico-paziente); la razionalità tecnica si articola anche nelle pratiche quotidiane; mercificazione della
cura...
2. processo di professionalizzazione: è nella stretta relazione fra la ratifica di procedure di intervento medico
e la riproduzione di un corpo professionale riconosciuto legalmente dallo stato che la biomedicina pone la
certificazione della qualità della cura.
3. processo di medicalizzazione: problemi sociali che investono vari luoghi, contesti, attività etc., diventano
oggetti privilegiati dell'interpretazione e della cura medica → ricadute su forme più dirette di controllo
sociale, politiche del consenso, definizione della sfera cognitiva poiché la medicalizzazione investe i modi in
cui sono classificati i problemi (es. definizione di omosessualità come malattia)
ES. DA PAG 150 A 154

CAP.5. L'INVENZIONE DELLA “MEDICINA POPOLARE”.


[Alcuni elementi per chiarire ascesa e declino della nozione di “medicina popolare”, con particolare
attenzione alla figura dei “medici etnografi” in questo nella produzione di questa nozione, pensata per
rafforzare l'identità della biomedicina italiana ed europea negli anni della sua massima espansione sul
territorio].

L'antropologa francese GIORDANA CHARUTY sostiene l'importanza di interrogarsi sulla funzione svolta
dalla “medicina popolare” nello sviluppo dell'antropologia europea. In realtà è molto difficile isolare un
insieme di fatti reali per costituire un sapere medico “popolare” separato dagli altri saperi su mondo e
società.
Espressione “medicina popolare” coniata in Italia nel 1896 dal medico etnografo GIUSEPPE PITRÈ , poi
utilizzata per circa un secolo e decaduta verso la fine del Novecento. Periodo più maturo di riflessione critica
di questa categoria è stato raggiunto con le ricerche italiane nella seconda meta del 900, fino agli anni ottanta
→ in questo momento, con la nozione di “medicina popolare” si designa <l'insieme dei saperi, delle
rappresentazioni e delle pratiche elaborate a partire dall'esperienza culturale del corpo, della salute e della
malattia nelle “classi popolari” europee. >
In Italia la denominazione ha origine nel periodo di formazione dello Stato con l'unita post-risorgimentale.
Il confronto storico interno all’Europa consente di osservare una dinamica di scontro/incontro tra
biomedicina e saperi e pratiche locali su corpo, salute e malattia (verificatasi in molti altri contesti
mondiali)→ si può allora notare come la costruzione di un campo biomedico e il problema attuale della
mancanza di un’assistenza sanitaria di base abbiano determinato in molti Paesi processi di
istituzionalizzazione consistenti nella delegittimazione di alcune pratiche terapeutiche e nella parallela
“professionalizzazione” di quelle ritenute “valide” dalla biomedicina stessa. -> n.b. La classificazione delle
medicine “popolari”, “tradizionali” e “indigene”, in ciascuna di queste, tende a ridurre la portata significante
dei simboli incorporati nelle rappresentazioni del malessere e dei saperi e delle pratiche che riguardano
forme diverse di esperienza e rappresentazione del corpo. In tal modo le tipologie e le tassonomie dei medici
etnografi, più che essere orientate da “prospettive ideologiche” e “schemi concettuali”, costituiscono una
pratica classificatoria che, attraverso una metodologia di “etnografia clinica”, rimodella i corpi manipolando
i simboli che li rendono pensabili.

5.1.Lo Stato e la diffusione capillare della biomedicina.


La nozione di “medicina popolare” riflette quindi una complessa dinamica storica di connivenze e conflitti
tra forze storiche che governano il processo di medicalizzazione e i soggetti concreti, ovvero i cittadini del
nascente Stato unitario.

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Intreccio tra storia della biomedicina e processi di egemonia e controllo sociale al cuore dei processi che
hanno portato l'organizzazione sanitaria a diffondersi ed insediarsi sul territorio nazionale → diversi studi
che partono da questo riconoscimento mostrano come la diffusione dell'istituzione sanitaria e delle forme
dell'assistenza pubblica accompagni il miglioramento delle condizioni e delle aspettative di vita ad una
parallela estensione (quasi forzata) di un modello naturalistico della conoscenza che riduce la complessità
dell'esperienza sociale, psicologica e culturale della malattia a puro fatto medico.
Fase storica successiva all'Unita d'Italia caratterizzata da una dinamica di incontro/scontro tra medicina
ufficiale e medicina popolare. → l'osservazione di tale dinamica può evidenziare le trasformazioni della
corporeità e dei saperi e delle pratiche ad essa connessi, determinati nelle campagne dall'intervento statale,
che agisce attraverso forme di controllo, repressione e dissuasione da pratiche fino a quel momento
quotidiane.
Lo Stato avvia dunque una capillare “medicalizzazione” del territorio con forme più imponenti di controllo
sui cittadini (a cui ancora non è stato riconosciuto il diritto alla salute! Questo accade solo nel 1948 con la
costituzione della Repubblica italiana). Politica sanitaria concepita come questione di ordine pubblico.
In questo momento viene affidato ai medici un compito di “consulenza” e di valutazione delle condizioni
igienico-sanitarie delle classi popolari da svolgere sul territorio → è in questo contesto che emerge la figura
del medico estensore di resoconti.
Mentre il medico etnografo raccoglie e descrive l'insieme di saperi, pratiche e rappresentazioni della
“medicina popolare”, il medico estensore di resoconti si limita a rilevare esclusivamente la presenza di
patologie classificate come tali dal sapere scientifico, di malattie per così dire ufficiali.
Tuttavia i due filoni di scrittura medica sono accomunati dall'atteggiamento di distacco e rifiuto della
“medicina popolare” e dalla poca attenzione alla complessità dell'esperienza concreta del malessere per i
soggetti coinvolti → sfugge quindi a entrambi il fatto che le forme di rappresentazione della malattia nei
contesti locali non costituiscono un “sapere medico” specialistico separato dalle altre sfere dell'esperienza
sociale e culturale (ad esempio saperi tecnici, naturalistici, connessi al legame di parentela o all'esperienza
magico-religiosa) inoltre, a questi medici le rappresentazioni della medicina popolare risultano in qualche
modo incomprensibili in quando non fondate su una logica cognitiva retta dall'idea di separazione tra mente
e corpo. Al contrario, si può notare spesso uno stretto legame tra la sfera del somatico, dello psichico, del
comportamentale e del relazionale.
Non si può nemmeno sottovalutare il fatto che gli studiosi europei addetti in quel periodo a redigere opere di
classificazione, raccolta e archiviazione sulla medicina popolare fossero quasi sempre medici divenuti
etnografi → la diversità diventa uno strumento strategico di differenziazione tra medicina popolare e
medicina ufficiale.
Quello che emerge, quindi, è il fatto che la costruzione di un'identità medica ufficiale viene a costituirsi
attraverso un meccanismo di distanziamento e di separazione, giocato insieme sul piano politico e su quello
del discorso con cui la medicina ha rappresentato se stessa in relazione agli altri.
Ma mentre la biomedicina prende le distanze da saperi, pratiche e rappresentazioni “popolari”, le è
necessario e funzionale dare una quale forma specifica alla stessa medicina popolare, in modo da
contrapporvisi, combatterla ed autorappresentarsi come vincitrice → “medicina popolare” “inventata” anche
per fungere da termine di contrapposizione negativo allo sviluppo e alla diffusione capillare sul territorio
nazionale della biomedicina, che solo in contrapposizione ad essa si può definire “ufficiale”.
Non esiste una medicina popolare, cioè un assetto specifico di forme di difesa della salute e dell’equilibrio
psichico comune a tutte le classi subalterne.
Ambiguità terminologica di fondo data dalla difficoltà di considerare la “medicina popolare” come sistema
medico delle classi popolari. Ciò è impossibile: la nozione in questione seleziona infatti un insieme di fatti
concreti, ma anche di rappresentazioni ideali, considerati come parte di un sapere complessivo che -come
quello biomedico – viene rappresentato come omogeneo e settoriale → settorializzazione estremamente
riduttiva, in quanto spesso idee, pratiche e figure specifiche si mischiano all'interno di questi saperi. Per cui il
significato di “medicina popolare” va poi indagato di volta in volta in riferimento ai contesti specifici, entro
il quadro di specifici rapporti città-campagna, di classe e così via.
Negli anni 80 ALFONSO MARIA DI NOLA critica la categoria, soprattutto a causa del carattere
catalogante dei trattati di medicina popolare, che ordinano e classificano le malattie e la visione del corpo in
modo identico a quello della medicina ufficiale.

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In particolare, egli nota come in essi (a partire da Medicina popolare siciliana di Pitrè) compaia una
classificazione delle malattie fondato su uno schema mente/corpo, in evidente contraddizione con la visione
unitaria ed integrata dell'organismo emergente dai dati raccolti dagli etnografi (se liberati dalla
classificazione che li cataloga). → Pitrè, come altri, classifica nelle griglie della medicina ufficiale saperi
sostanzialmente estranei ad essa (ecco il perché di questa contraddizione).
Di Nola nota invece come in saperi e pratiche della medicina popolare si possa individuare una
differenziazione di tipo cognitivo ed epistemologico rispetto alla biomedicina, differenziazione relativa, cioè,
alle forme stesse di organizzazione della conoscenza sul corpo, la salute e la malattia. Differenziazione che il
riduzionismo classificatorio dei medici etnografi elimina (taglio netto rispetto a sistemi conoscenza diversi
da quello occidentale cartesiano e galileiano basato su un’idea di separazione del corpo dalla mente e sul
metodo scientifico della verifica empirica) → esclusi dei trattati, ad esempio, la dimensione del simbolismo
religioso e il dispositivo del rituale e la sua efficacia simbolica.
Di Nola sostiene allora l'urgenza di un'educazione politica del personale medico-sanitario, improntata ad una
maggiore attenzione verso forme di vita culturale “diverse” ma interne allo Stato italiano → in questo modo,
secondo lui, gli agenti del campo biomedico potranno tenere conto della pluralità di rappresentazioni del
corpo e del carattere sociopolitico dei processi di salute e malattia, non riducibili ala sola dimensione
naturale e biologica.

5.2.I medici etnografi e le trasformazioni del corpo.


PAOLA FALTERI e PAOLO BARTOLI hanno lavorato per molti anni, in un gruppo di ricerca guidato da
Tullio Seppilli: lettura antropologica del repertorio classico delle medicine popolari italiane (vasto
monitoraggio sia delle pratiche sociali contemporanee relative a salute, malattia e cura del corpo “esterne” al
campo sanitario; sia della polivalenza delle figure di operatori di guarigione), con l'obiettivo di contribuire a
reimpostare i programmi di formazione dei medici e dei professionisti dell'assistenza in termini di una
maggiore attenzione al vissuto emozionale della corporeità e alle forme simboliche che lo rappresentano.
Smontando la retorica testuale dei trattati di medicina popolare permette di:
1. svelare la dimensione ideologica degli schemi concettuali
2. cogliere la prassi classificatoria, etnografica e clinica dei medici etnografi
3. liberare i materiali descritti dalla gabbia che li cataloga provando a restituirli al mondo dell'esperienza dal
quale derivano.

Falteri e Bartoli notano infatti in questi trattati un'assenza di impegno nell'interpretazione storico-culturale
delle pratiche osservate e descritte. -> atteggiamento positivistico riguardo ai saperi e alle pratiche osservate,
che vengono descritte come vere e proprie “superstizioni”, soprattutto quando si sottraggono ai criteri di
verità e verifica empirica della biomedicina. Non emerge in essi il riconoscimento nelle pratiche descritte dei
“livelli di funzionalità e coerenza rispetto alle condizioni materiali dei gruppi sociali che ne erano depositari
ed utenti”.
Questo rilievo pone un punto fondamentale che spiega perché furono i medici a farsi etnografi
dell’esperienza culturale della malattia: in un certo senso e si svolsero questa funzione anche per operare una
stigmatizzazione di tutte le pratiche non coerenti con l’universo scientifico della medicina ufficiale.
Tra gli strumenti principali di questo processo di stigmatizzazione, il reiterato uso del termine
“superstizione”, per qualificarne la falsità e l’irrazionalità. A questo proposito, l'antropologo spagnolo
JOSEP M. COMELLES analizza il rapporto tra “superstizione” e “medicina popolare”, partendo dalla
constatazione che prima della nascita dell'espressione “medicina popolare” vi è una vasta letteratura (non
solo dei medici etnografi, ma anche testi religiosi e di medicina territoriale) che abbonda di termini
denigratori e stigmatizzanti come “superstizione”, “errore, “pregiudizi” in riferimento a rappresentazioni
della malattia.
Secondo Comelles, il passaggio dall'uso del termine superstizione a quello di medicina popolare indica lo
spostamento dell'egemonia sul discorso della salute dalla religione alla medicina.
È da questa tradizione letteraria medica ed ecclesiastica-pastorale che derivano i medici etnografi che
descrivono le forme popolari di rappresentazione di malattia e salute con una retorica testuale colma di figure
di distanziamento e di stigmatizzazione che costantemente costruiscono una sempre più irriducibile
differenza culturale tra medicina popolare e medicina scientifica. Per raggiungere tale obiettivo, questi

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medici adoperano una selezione dei racconti in cui vengono preferiti quelli maggiormente funzionali al
distanziamento.
La differenza tra medicina popolare e medicina scientifica è più forte ed evidente nelle trattazioni dei medici
etnografi che non nell'esperienza concreta dei soggetti sociali, che spesso praticano in maniera indistinta e
non contraddittoria, entrambe le medicine (come accade nelle società contemporanee)→ la dinamica dello
scontro viene dunque perseguita dalla classe medica, e non da quella degli utenti di medicina popolare.
Ne deriva che, perché questi repertori di medicina popolare possano risultare utili, occorre adoperare su di
essi una complessa critica culturale, senza la quale si correrebbe il rischio di diffondere l'immagine piatta e
riduttiva che della medicina popolare questi danno. Questa critica si traduce nella promozione di una rilettura
del repertorio che disarticoli la questione della medicina popolare su diversi piani:
1. istituzionalizzazione della biomedicina e politiche sanitarie dell'assistenza
2. costruzione dell'identità scientifica della biomedicina e lotta razionalistica contro le pratiche considerate
“superstiziose”
3. forme di resistenza o di docilità al processo di medicalizzazione messo in atto dalla biomedicina e dallo
Stato
4. origine della definizione di “medicina popolare” e sua funzione anche in altri ambiti destinati alla “cura
del corpo” come quello religioso.
D'altronde i trattati di medicina popolari racchiudono un'immensa enciclopedia di simboli, saperi e pratiche
che chiamare “medica” è estremamente riduttivo, in quanto evoca complessi sistemi simbolici che
sottendono concezioni del corpo, della persona, del se, del maschile e del femminile, del mondo naturale e
soprannaturale, fisico e metafisico, sostanzialmente diverse da quelle elaborate dalle scienze naturali,
biologiche e biomediche.
La lettura (critica) di questi testi può dunque costituire un'occasione di confronto tra diversi modi di
rappresentare l'esperienza del corpo nel mondo.

5.3.Disordine del corpo, disordine del mondo: il “mal di matre”.


Due esempi di come sia possibile “liberare” i materiali “demoiatrici” (relativi alla medicina contadina) dai
repertori che li racchiudono.
1. Alfonso di Nola rileva come nel trattato di Pitrè una particolare categoria di malattia, la matrazza,
venisse tradotta con due significati diversi: “meteorismo” (malattia dell’apparato digerente) ed
“isteria” (malattia dell’apparato nervoso). Si fa riferimento addirittura agli spiriti (nella medicina
popolare siciliana la matrazza è una “signora” che entra nella bocca e va a fermarsi nello stomaco;
occorre cacciarla con un’orazione) => ciò mostra come la separazione mente/corpo agisce come
contraddizione implicita nella sua stessa zione classificatrice
2. Zeno Zanetti, quattro anni prima, aveva osservato la stessa forma di rappresentazione del malessere
femminile: <tanti disturbi multiformi causati dall’utero vanno tutti sotto il nome di mal di matre
(matrice), mal matrone, e da quest’ultimo, i nostri coloni credono da tempo che anche gli uomini
possano essere affetti da isterismo. […] l’individuo affetto da questo male urla come un lupo
mannaro>.
└►i saperi classificati come medicina popolare non definiscono quindi un sistema medico, ma rimandano a
complesse configurazioni storico-culturali (stregoneria, possessione, licantropia) che racchiudono
rappresentazioni e pratiche del corpo, della sofferenze, della persona, del contrasto fra genere femminile e
maschile e delle difficoltà di accesso a una sessualità socialmente riconosciuta.
i medici etnografi, pur avendo il merito di raccogliere dati con precisione etnografica, li ingabbiano in griglie
classificatorie riduttive secondo la prassi tassonomica e nosologica della biomedicina (perché erano stati
formati così in quanto medici).
Per esempio, in molti repertori etnografici vengono annoverate forme di malessere rappresentate attraverso
metafore di mobilità degli organi (es. mobilita dell'utero) e di caos fisico, che altro non sono che
rappresentazioni metaforiche dei processi emozionali di incorporazione della sofferenza (come già visto nel
caso dei nervios).
Oggi ricerche sull'argomento hanno dimostrato come l'espressione del “mal di matre” fosse da collegare a
particolari figure della corporeità femminile e a complesse rappresentazioni del genere, del sesso e della

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follia. GIORDANA CHARUTY ha osservato ad esempio come la mobilità dell'utero apparisse legata ai
diversi modi di vivere la femminilità e l'amore e alle conflittualità sociali, politiche e morali generate da tali
diversità rispetto ai sistemi simbolici normativi prodotti dalle forze istituzionali della Chiesa, della
biomedicina e dello Stato.
Il desiderio sessuale non socialmente riconosciuto, l'adulterio che incrina il legame coniugale legittimo, il
sentimentalismo romantico, costituivano figure dell'anestesia ”isterica” risultanti dall'incorporazione di
simboli e gesti sottratti alle regole e alle forme convenzionali della femminilità “regolare” → la metafora
della mobilità dell'utero – tratto saliente delle teorie dell'isteria anche nelle varianti popolari – si iscrive
quindi in un quadro narrativo di fisiologia simbolica che vede molte altre malattie definire l'interiorità
sofferente nei termini metaforici del movimento di un organo.
Diverse sono le metafore corporee che esprimono – come nel caso dell'utero – afflizioni emotive
descrivendolo in termini di mobilità.
Tale mobilità si lega inoltre ad una triplice definizione della femminilità: morfologica, psichica e sociale. ->
Il disordine del corpo riflette dunque il disordine del mondo, e la metafora dell'utero “vagante” è una forma
espressiva che indica lo spostamento morale e sociale caratterizzante la figura dell'isterica → “essere isterica
significa cercare l'affermazione della propria identità sessuale nello spostamento paradossale dei punti di
riferimento simbolico che servono alla sua costruzione sociale”.
n.b. La metafora della mobilità non viene usata solo dalle sofferenti per esprimere il proprio malessere, ma
anche dalle iscrizioni mediche, morali e religiose che tendono a “isterizzare” il corpo della donna
legittimando una funzione di controllo, da parte dei saperi e dei poteri maschili, sulla fisiologia femminile.
Le forme sociali di accesso alla mascolinità e alla femminilità, intese come costruzioni culturali di genere,
sembrano soggiacere alla rappresentazione del malessere come un disordine del corpo che riflette un
disordine del mondo.
La versione “maschile” del mal di matre, infatti, si riconfigurar comunque come male dell’identità sessuale:
il matrone nei saperi medici popolari è il corrispettivo della matrazza, e l’organo equivalente all’utero nelle
rappresentazioni del corpo maschile è lo stomaco, che in molte categorie folkloriche del malessere appare
dotato della medesima mobilità e viene considerato come “stomaco calato”.
Si pensi ai rituali terapeutici delle guaritrici di manipolazione del corpo, finalizzati a far rientrare l'utero al
suo posto, individuato nell'ombelico → relazione tra ombelico e “matre” rimanda alla maternità come
dispositivo di inquadramento della femminilità. La maternità figura come evento che ordina l’anatomia
femminile.
Se l'incorporazione indica i modi di stare al mondo con il proprio corpo e le forme attraverso le quali il
mondo (inteso come realtà storica, sociale e naturale) penetra il corpo, allora le forme di rappresentazione del
malessere come “disordine del corpo” sono portatrici di figure diverse del corpo, della persona, del genere e
del se’. Esse svelano un significato politico proprio nella dialettica che le relaziona alle classificazioni
biomediche. Queste ultime cercano infatti di disinnescare la portata innovativa e critica del confronto con i
saperi, le pratiche e le politiche del corpo, riducendone i significati e inquadrandoli nel repertorio nosologico
dei trattati di medicina popolare. →per questo motivo: la raccolta e classificazione dei dati nei trattati non è
disgiunta dall'azione biomedica di controllo, oggettivazione e trasformazione dei corpi.
In questo senso la “natura” del corpo corrisponde al sistema di relazioni sociali, dei rapporti di potere e delle
relazioni istituzionali che legavano fra 800 e 900 l'azione della biomedicina a quella dello Stato italiano
postunitario. Difatti i medici-intellettuali agivano contemporaneamente nel campo biomedico e in quello
folkloristico-etnografico universitario; essi, pertanto, instauravano una rete di relazioni sia con i loro
pazienti, che assumevano il doppio ruolo di assistiti-informatori, sia con le figure di guaritori, praticanti di
forme non legittimate di azione terapeutica.
n.b. In primo piano, in questo paragrafo, la particolarità della figura dei medici etnografi, mediatori fra
mondi diversi: il nascente campo biomedico, la sfera domestica delle cure, il campo intellettuale e
accademico dei folkloristi. Probabilmente tra biomedicina e medicine popolari c'erano vicinanze messe in
ombra dalla rivendicazione di distanza da parte della prima.

CAP.6.“FARE” I MEDICI.
Dal punto di vista antropologico, medici, infermieri e vari professionisti dell'assistenza non sono visti come
“ruoli” e “professioni” (come accadeva in sociologia funzionalista), ma come persone in carne ed ossa che
compiono azioni concrete in spazi sociali reali, e che scelgono come agire e cosa fare in base alle risorse e ai

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rapporti di forza presenti nel campo → non esiste il medico (guardando al suo status o ruolo), ma numerosi
medici in carne ed ossa.
Le figure sopra citate sono tutte oggetto di un'esperienza di formazione organizzata e fondata su processi di
insegnamento e apprendimento teorico e pratico che si originano in specifici apparati istituzionale: dai
laboratori, nei quali viene prodotta la conoscenza scientifica, alle strutture didattiche delle università, nelle
facoltà di medicina e chirurgia, fino agli ospedali in cui si applica il sapere all’esperienza clinica nel
trattamento dei pazienti.
Centralità dell'esperienza corporea nel contesto scientifico e didattico di formazione dei medici →
formazione e modellamento di uno sguardo sul corpo come principale modalità di apprendimento
della conoscenza medica.
Foucault ha dimostrato la nascita della “clinica” (istituzione autonoma fondata sull’osservazione medica) si
collochi al momento della nascita dell’”anatomia patologica”. -> Con la nascita dell'anatomia patologia si ha
una svolta importante nella storia della formazione dello sguardo medico: ora si configura come
osservazione attraverso una pratica di esplorazione intrusiva del corpo che punta a rendere visibile persino
l’invisibile interiorità anatomica. -> sguardo medico centrato sulla manipolazione dei corpi morti.
Molte ricerche mostrano come sia tuttora centrale nella formazione medica la lezione di anatomia, ovvero
l'esperienza di dissezione del corpo. Essa non ha unicamente una funzione didattica empirica di conoscenza
delle parti del corpo, ma si qualifica soprattutto come una modalità di trasformazione della persona, che si
modella attraverso l'esperienza di una drammatica reificazione del corpo di cui gli studenti devono superare
lo shock emotivo: la dissezione del cadavere si configura come un'oggettivazione del corpo, che viene
separato dalla persona. (corpo = cosa)
Prima di questo momento, lo studente di medicina è portato a riflettere ciò che studia sulla sua stessa
corporeità (il suo corpo diventa tavola anatomica vivente sulla quale riflettere e sperimentare il sapere che
apprende), tanto che si può dire che il percorso di acquisizione della competenza biomedica si configura
come un vero e proprio processo di incorporazione e naturalizzazione del sapere. Dunque, la trasmissione del
sapere biomedico non produce soltanto rappresentazioni del corpo del paziente, ma modella e in qualche
modo trasforma anche il corpo del medico, che si riconfigura nello studente di medicina attraverso le
pratiche dell'apprendistato → conferma che il corpo è una costruzione culturale, prodotta in uno specifico
contesto istituzionale. -> Apparati istituzionali di formazione medica sono vere e proprie fabbriche di corpi,
in cui i futuri medici vivono un'esperienza di trasformazione fisica centrata sul rapporto con la corporeità
propria e altrui, con la malattia e con la morte.
Osservare allora come la conoscenza incorporata nella formazione si traduca nella concreta azione
quotidiana del medico e come tale azione di traduca nella concreta azione quotidiana del medico e come tale
azione punti a un'oggettivazione del corpo del paziente.
Fondamentale è anche comprendere come il processo di formazione e trasformazione non sia lineare, in
quanto durante esso si producono nell'apprendista medico complesse contraddizioni tra il corpo vissuto ed il
corpo oggettivato → tali contraddizioni costituiscono il terreno privilegiato della ricerca etnografica nel
campo della formazione medica.

6.1.La formazione dei medici.


Studi antropologici sulla formazione medica focalizzatisi sulla centralità del corpo, sia nel processo di
formazione stessa, sia nelle motivazioni della scelta della facoltà di Medicina.
Gli studi di EMMANUELLE GODEAU mostra come nella biomedicina (nonostante si rappresenti
profondamente diversa da altri sistemi medici) agisca una contraddizione fondamentale fra immagine ideale
e prassi reale, contraddizione che svela vicinanze con mondi di cura definiti irrazionali e con altri sistemi
medici.
Se le figure di terapeuti e guaritori (ad esempio gli sciamani) costruiscono il proprio percorso di mediatori di
guarigione seguendo una “vocazione” giovanile che si identifica spesso con l'esperienza dolorosa di una
malattia grave, nella biomedicina la figura del medico è rappresentata sul piano ideale come una figura in
lotta con la malattia, che si svolge non sul proprio corpo ma su un corpo esterno, quello del malato. →
Tuttavia gli studi di Goudeau mostrano come i rapporti che il medico “occidentale” stabilisce con la malattia
sono molto più complessi: dalla motivazione della scelta di fare il medico, all'esperienza con il proprio corpo
nel corso della formazione, alla pratica quotidiana della professione. -> Ad esempio, l'esperienza diretta o
indiretta (soprattutto di familiari) della malattia è annoverata di frequente come motivazione della propria

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scelta professionale, come avviene per molti guaritori di sistemi medici popolari o non occidentali, che nelle
proprie biografie si rappresentano come coloro che furono in grado di superare il proprio male e dal quel
momento trassero la loro autorità e virtù terapeutica.
In seguito lo studente di medicina sviluppa un complesso rapporto con la malattia, immaginata nel contesto
didattico e dello studio e sistematizzata nell’arco dell’esperienza dell’apprendistato, che si configura come
una progressiva conoscenza-costruzione del proprio corpo → pratiche non direttamente connesse
all'insegnamento ufficiale ed apparentemente marginali, fondamentali per comprendere i processi di
incorporazione del sapere biomedico.
L'acquisizione della conoscenza nella formazione medica punta a trasformare il corpo dei discendi,
producendo un nuovo habitus, una “seconda natura”, attraverso un percorso di progressiva riflessività dello
studente sul proprio corpo (i docenti chiedono agli studenti di toccarsi la carotide, ascoltare il polso,
individuare al tatto ghiandole e ossa specifiche, ecc)→ vero e proprio itinerario di iniziazione che sembra
seguire tre fasi:
1. fase in cui si impara ad oggettivare il proprio corpo
2. fase liminale3 – spesso drammatica - in cui lo studente vive un'esperienza corporea di profonda
inquietudine se non di vera e propria crisi, derivante dalla convinzione di aver contratto le malattie che sta
studiando
[3 Fatto o fenomeno al livello della soglia della coscienza e della percezione]
3. fase in cui, superata l'ossessione autodiagnostica e la sintomatologia immaginaria, si determina una
metamorfosi simbolica che fa del corpo del medico un corpo eternamente in salute e particolarmente
immune alla malattia → sorta di “immunità” del medico dalla malattia, immaginata come prodotto
della formazione medica, che viene incorporata e naturalizzata dai medici stessi attraverso il
superamento dei sintomi immaginari. il medico è portato a rappresentarsi come dotato di
un'immunità superiore a quella dei corpi dei pazienti. È frequente il caso di medici che non
assumono farmaci per piccoli malanni, laddove invece li consigliano ai loro pazienti.
└> In relazione a tale processo, quando il medico si ammala , durante il periodo della formazione, è come se
si verificasse uno scacco paradossale del processo di formazione → molti studi dimostrano come il medico
ammalato entri spesso in una profonda crisi professionale e non riesca ad avere fiducia nei suoi colleghi. ->
diventa l’incarnazione del paradosso
L'esperienza della malattia da parte del medico, insomma, figura come una sorta di fallimento del processo
formativo, una scacco che la corporeità infligge all'egemonia della formazione medica. Solo in ultima istanza
la biomedicina cerca di recuperare nei termini ideali una maggiore prossimità fra il medico e il suo paziente

6.2.Dissezione del cadavere e oggettivazione del corpo.


Il processo di formazione medica non si incentra solo sulla costruzione del corpo come oggetto del sapere
biomedico, ma anche sulla trasformazione del corpo-soggetto dell'apprendista in relazione al corpo oggetto
della sua pratica (prima il cadavere della lezione anatomica e poi il paziente dell'esercitazione clinica).
Lezione di anatomia come esperienza fondante, in quanto primo momento in cui si verifica il dramma della
ricostruzione della persona come oggetto dello sguardo medico → corpo qui simbolicamente “reinventato”,
che smette di essere luogo deputato all'esperienza e diventa oggetto inerte da esplorare.
Godeau descrive i comportamenti e le reazioni degli studenti francesi dell'università di Tolosa, prima e
durante l'esperienza della dissezione:
• mentre si recano nella sala di dissezione sono tesi
• durante la dissezione: umorismo per sdrammatizzare la situazione emotivamente difficile
• vissuta come prova fisica e psichica: prima di tutto impatto sensoriale (odore, poi vista e tatto) come fonte
di disagio

Pur attribuendo ormai in pochi un vero valore pedagogico e formativo alle esercitazioni di dissezione (alcuni
sostengono che le componenti anatomiche si riconoscono con difficoltà in una lezione di anatomia svolta
direttamente in aula e che gli studenti si distraggono con estrema facilità in tali contesti), queste continuano
ad essere praticate come una sorta di tradizione necessaria. D’altra parte, gli studenti sono consapevoli
dell’importanza formativa di tale attività e temono le loro possibili reazioni, svenimenti, malesseri che
potrebbero essere letti come debolezze, mettendo in dubbio la loro capacità di diventare buoni medici.

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►un'esercitazione pratica che può essere considerata un atto prescritto che sancisce l'ingresso nel mondo
medico.
Anche uno studio statunitense condotto da BYRON GOOD e MARY-JO DEL VECCHIO GOOD mostra
l'esperienza della dissezione come la più intensa espressione del processo formativo dei medici →
l'oggettivazione del corpo produce una ricostruzione del concetto di “persona” sia in riferimento al cadavere
che in riferimento agli stessi studenti i quali, intervistati, dicono di aver subìto attraverso questa esperienza
un processo di cambiamento in grado di fargli vivere un'esperienza quotidiana diversa di se’ e degli altri;un
processo di cambiamento definito da loro di crescita. Altri sottolineano invece l’intensa e drammatica
emozione provata quando, togliendo la pelle, si entra in una diversa interiorità.
GRAZIA ANTONELLI intervista gli studenti di Medicina e Chirurgia dell’Unipg, chiedendo loro di
raccontare l’esperienza della lezione di anatomia e della dissezione del cadavere. –precisazione: attualmente
all’Unipg non vengono più praticate dissezioni, ma gli studenti prendono visione di filmati di operazioni
chirurgiche a cuore aperto e autopsie. Gli studenti inoltre possono vedere e toccare con mano composti
anatomici che vengono fatti girare tra i banchi. – Quasi tutti gli studenti affermano che il momento più
problematico è l’impatto iniziale, quando le mani degli operatori cominciano a toccare con apparente
noncuranza i vari organi, tirandoli, girandoli, incidendoli. => momento in cui si ha ancora la consapevolezza
che ciò che si sta vedendo è un corpo umano, e non si è riusciti ad oggettivare il corpo pensandolo materia
inerte.
Il legame fra corpo del medico e corpo del paziente viene continuamente esorcizzato alla proiezione su un
piano astratto e formale di aspetti che sono parte della stessa corporeità del medico.
◊ La trasformazione del corpo in oggetto dello sguardo medico attraverso la lezione di anatomia è una
trasformazione biunivoca che coinvolge non solo l'oggetto (cadavere), ma anche il soggetto (docente ed
apprendista).
Si pongono a questo punto nuovi problemi:
• in quale misura le trasformazioni biomediche della corporeità e della persona, della vita e della morte
vanno ad incidere sull'idea stessa di uomo ed umanità prodotta nei discorsi e nelle pratiche istituzionali della
biomedicina?
• È giusto definire l'esperienza della dissezione anatomica come un'esperienza di trasformazione della
persona?
• Se da tale esperienza si genera l'intero processo della formazione medica, quale sarà la qualità “umana” del
medico al termine del percorso?

6.3.Una lezione di anatomia... umana.


Esempio del film People will talk, “la gente mormora”, in cui il medico protagonista, in un’aula di anatomia
dove si sta per avviare una dissezione, attira l’attenzione degli studenti sul fatto che quel corpo che giace
inerte sul tavolo non è separabile dalla memoria della persona che fu, non tanto dalla persona cui il corpo
apparteneva (ho un corpo), ma dalla persona che il corpo era (sono un corpo) => ▲ egli NON pratica
un’inversione, un rovesciamento ideologico del paradigma oggettivante della lezione di anatomia: in tal caso
sarebbe populistico, poiché lui non ha certo il potere di ridare la vita. Il docente compie un’operazione
diversa da quella convenzionale, non inversa né opposta → bloccando la reificazione del corpo e ricordando
agli studenti che il corpo sul tavolo della dissezione apparteneva ad una persona con una propria storia, il
medico diventa il protagonista di un rituale fallito => destino di quel rituale era la disumanizzazione del
corpo, destinata a formare studenti di medicina talmente “potenti” da essere capaci in futuro di separare i
corpi dalle persone.
In questo caso, il far fallire consapevolmente un rito finalizzato alla disumanizzazione del corpo è un atto
critico di sovversione volontaria che può avere fini positivi nei termini di una riflessione sull'idea di
“umanità” del cadavere e sull'intreccio fra corpo e persona, nei termini di un'educazione alla medicina come
pratica che ripensi se stessa ricomponendo tali dicotomie sul piano teorico per rinnovare la sua prassi.
Il protagonista vive la contraddizione fra la sua azione umana e i paradigmi naturalisti della sua formazione.
In questo suo agire critico restituisce una dimensione umana alla pratica medica.
Spunto critico: la medicina, che dovrebbe trattare di e con persone, non dovrebbe rivedere criticamente le
proprie pratiche di oggettivazione e naturalizzazione del corpo, considerato riduttivamente come mero
organismo biologico, per far propria un'epistemologia umana che non smetta di guardare al corpo come
prodotto storico?

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Nel film si scopre anche che il fedele aiutante del medico non è altro che un cadavere tornato in vita durante
una lezione di anatomia (il cadavere resuscitato viene salvato e salva il medico: determina una sorta di crisi
della tradizione medica o una sua sospensione)→ il rito anatomico destinato all'oggettivazione del corpo
diviene così in questo caso fabbrica di umanità, e l'esperienza delle dissezione luogo della ricomposizione di
dicotomie, separazioni e scissioni, che stimola un'esigenza di riflessione, verso una consapevolezza nuova
dell'impossibilita di separare la mente dal corpo, il corpo dalla persona, la vita dalla morte.
Il fallimento della lezioni di anatomia, insomma, dà scacco all'oggettivazione del corpo e libera una nuova
immaginazione dell'agire medico, che si presenta come una medicina nuova, dialogica ed innovativa, ad alto
potenziale trasformativo, che riflette sulle forme di vita, sull’incontro fra i corpi umani e la materia, vivente e
non.

Parte terza
PERCORSI DI GUARIGIONE E DISPOSITIVI DI EFFICACIA.
Si tratta qui la questione della pluralità dei percorsi di guarigione e delle pratiche di cura e di terapia →
pluralità che indica il carattere capillare e diffuso delle azioni destinate a conferire un senso al malessere, a
produrre effetti sui corpi e sulla realtà: azioni che mirano a trasformare i corpi e a incidere sul corso degli
eventi.

CAP.6.IL SENSO DEL MALE.


[Capitolo atto ad evidenziare la pluralità dei percorsi che i soggetti colpiti dalla malattia costruiscono,
osservando poi la malattia stessa come molteplicità di possibili itinerari terapeutici. Emergerà poi come in
molti casi la ricerca delle cause della malattia non segue un meccanismo causa-effetto, ma fa riferimento a
una più ampia rete di relazioni simboliche e di pratiche sociali all'interno delle quali la malattia è
immaginabile, pensabile e “usabile”].

La ricerca del senso della malattia si fonda sulla possibilità per le persone sofferenti di ricorrere a diversi
sistemi di riferimento, di pensiero e di pratica, entro cui configurare l'evento malattia per rispondere
all'angoscia data dalla crisi di “senso” che tali esperienze producono → tali possibilità possono darsi, a
seconda dei contesti, nel quadro di una pluralità di scelte che esprime il carattere composito e complesso
dell'esperienza del malessere.
In questo senso la malattia si configura come un evento in cui dimensioni sociali ed individuali sono
inestricabilmente legate, come esempio concreto di legame intellettuale tra percezione individuale e
simbolismo sociale→ eventi personali, simbolismo sociale, rapporti di forza dell'ordine sociale
contribuiscono a costruire la malattia come un oggetto individuato attraverso l'osservazione dei sintomi che
richiede risposte in termini di manipolazione del corpo.
I percorsi attivati dai soggetti sofferenti possono dunque percorre molteplici itinerari possibili (nel caso della
sola società occidentale, essi si possono già diversificare sia come scelte diverse all'interno del campo
biomedico, sia come ricorso a diverse forme di medicina presenti sul mercato sanitario). Ma al tempo stesso
tale pluralismo risiede nella distribuzione delle conoscenze e nella varietà potenzialmente amplissima delle
azioni e delle scelte quotidiane di ogni singolo soggetto.
I processi terapeutici non sono solo attribuibili alle competenze tecniche e scientifiche della biomedicina, o a
quelle di altri sistemi medici strutturati. Tutte le azioni sociali che vengono compiute per cercare di
rispondere alla richiesta di senso possono avere un'intenzione e una finalità di efficacia, una motivazione e
una conseguenza di carattere terapeutico → si può arrivare a dire che solo l'atto di porsi la domanda su cosa
ci stia accadendo sia il primo momento di un'elaborazione efficace del senso da attribuire al proprio
inspiegabile malessere. Per questo motivo,dal punto di vista antropologico la malattia è stata definita come
“il più individuale e il più sociale di tutti gli eventi”.
Come già accennato, la richiesta di cura e guarigione da parte del malato dà luogo ad una complessa ed
eterogenea rete di possibili risposte, attivando ogni forma di scambio: da quelle strutturate in forma
istituzionale (stato sociale) nell'organizzazione pubblica dei servizi di assistenza sanitaria, a quelle basate sul
dono dell'assistenza volontaria ai malati. In ciascuno di questi campi le risposte alla domanda possono essere
più o meno strutturate, essendo elargite in modo regolato dalla legge o da una molteplicità di soggetti (dagli
operatori di medicine alternative, ai guaritori carismatici, maghi, a figure immateriali come accade nel culto
dei santi, a pratiche rituali etc.). -> in ciascuno di questi casi la pluralità dei percorsi è attivata dal soggetto

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sofferente, anche se egli è preso dentro un complesso campo di forze materiali e immateriali, reali e
simboliche → infatti, anche le azioni destinate alla definizione del percorso di cura, come tutte le azioni
sociali, sono attuate in una dialettica egemonica, cioè in un quadro di rapporti di potere. Ma non per questo
non possono essere creative: dal momento che le risposte alle domande di guarigione sono date anche dagli
stessi soggetti sofferenti che le pongono, ogni atto quotidiano di risposta al proprio malessere può
configurarsi come primo passo di un percorso di cura.
Qui sotto, definizione delle pratiche di “autocura” e del concetto di “itinerario terapeutico”. In seguito si
seguiranno gli sviluppi antropologici che hanno portato al superamento della dicotomia tra “spiegazione
razionale” e “interpretazione irrazionale”, una volta dimostrato come significati ed emozioni legati alla
sofferenza sfuggano a tale rigida opposizione.
Infine, si affronterà il tema delle cause, la cui ricerca non si costituisce come un’eziologia specifica, ma
come un percorso che mobilita azioni che vanno oltre un modello esplicativo lineare e razionale, basato su
una fase logica di causa-effetto. La ricerca delle causa, infatti, coinvolge piani che sono insieme storici e
metastorici, materiali e sovrannaturali, sociali e politici.

7.1.“Autocura”, “itinerari terapeutici” e “modelli esplicativi”.


Autocura: non indica unicamente una scelta curativa individuale => concetto che designa i sistemi tecnici e
simbolici e l'insieme dei saperi, delle rappresentazioni e delle pratiche messe in opera nella dimensione
individuale, familiare o comunitaria per fronteggiare – prima del ricorso a professionisti della salute –
l'insorgenza di minacce ed eventi negativi avvertiti come rischiosi per la propria salute. (Sappilli suggerisce
di chiamarla “gestione domestica della salute”).
Questo non significa che vi sia un isolamento dal livello della ricerca scientifica e dalle istituzioni mediche,
ma piuttosto vi è uno spazio di negoziazione, ovvero una continua contrattazione delle stesse nozioni di
corpo, salute e malattia tra i diversi soggetti sociali coinvolti nel discorso esplicativo (ricerca delle cause)
interpretativo (comprensione dei significati) e narrativo (formulazione espressiva di un racconto) che si
genera a partire dall'irruzione del malessere. Ad esempio, l’uso domestico di oggetti e strumenti della
biomedicina, quali termometro, lo stetoscopio, o tutta una serie di farmaci elementari e di procedimenti auto-
diagnostici, l’osservazione di particolari diete o anche la fruizione sistematica-e il grande successo editoriale-
delle letterature, delle trasmissioni televisive, dei siti Internet di divulgazione biomedica sono solo alcune fra
le pratiche che caratterizzano il fenomeno socioculturale dell’autocura nel mondo contemporaneo. → il
concetto di autocura così inteso rende più elastici e fluidi i confini tra i modelli cognitivi e tecnico-operativi
della biomedicina e quelli impliciti nelle pratiche terapeutiche profane che possono attingere anche a quel
patrimonio “tradizionale” di credenze, saperi e tecniche volte ad affrontare l'esperienza del malessere.
L'autocura si inquadra dunque nella più ampia “cura di sé” che costituisce lo spazio entro il quale il soggetto
incorpora un’idea della propria persona e della propria stessa funzione vitale → le pratiche di autocura sono
infatti anche il luogo nel quale si dispiegano in maniera più capillare i meccanismi di medicalizzazione della
vita quotidiana (la biopolitica: governo del corpo e della persona), d’altronde, conoscenza e gestione del
proprio corpo non sono mai totalmente liberi, (il dibattito sull’aborto, sulle operazioni genitali femminili, o
sulle nuove forme di fecondazione assistita, rende il corpo femminile una sorta di “luogo pubblico”) tanto
che anche i modelli estetici dominanti influiscono nella considerazione di un corpo come sano o meno (ideali
di corporeità vengono presentati come salutari e che possono in realtà essere immagini prodotte in relazione
a specifici interessi di consumo, dal mercato alimentare a quello dei farmaci e dei prodotti di bellezza, alla
popolarizzazione della chirurgia estetica e così via).
Lo spazio dell'autocura è dunque il luogo di una conoscenza di sé che può essere orientata sia in chiave
critica (ovvero denaturalizzando le immagini corporee dominanti), sia con consenso per i modelli dominanti
sul mercato. => Autocura dunque come spazio dialettico che solleva conflitti o condivisioni tra medici e
pazienti e segnale l'esigenza di un maggiore confronto, ascolto e dialogo fra le istituzioni biomediche e i
soggetti portatori di esperienze, credenze e conoscenze – individuali e collettive – differenti rispetto a quelli
istituzionali.
La nozione di itinerario terapeutico designa invece l'individuazione dei soggetti cui pare opportuno
rivolgersi per un efficace dialogo operativo intorno al proprio disturbo e i percorsi di guarigione che ne
conseguono. La negoziazione fra pratiche e saperi è spesso direttamente messa in atto dagli agenti, in
situazioni emotivamente coinvolgenti, di fronte alle manifestazioni della malattia.

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La ricerca etnografica mira insieme a riconoscere i molteplici itinerari terapeutici e “ricerca di aiuto” messi
in atto dai pazienti e dal loro ambiente familiare e la compresenza in un dato contesto di risorse diversificate
e di varie figure di terapeuti che svolgono funzioni differenti in luoghi diversi. → La forte carica emotiva che
anima questi processi (ed incide sulla scelta delle possibili soluzioni) non è ancora sufficientemente presa in
considerazione dalle istituzioni biomediche. Le emozioni incidono infatti sulla scelta delle possibili
soluzioni, anche perché il processo di decisione dell’itinerario terapeutico si origina in uno spazio intimo,
attraverso lo scambio informale e quotidiano di rassicurazioni, informazioni, consigli e interpretazioni
prodotte nella comunicazione fra il soggetto sofferente e le persone a lui più vicine. L’individuazione di un
percorso istituzionale, la preferenza del rapporto diretto medico-paziente, il ricorso alle medicine alternative,
agli operatori tradizionali (maghi, guaritori), alle figure del mito religioso (santi, madonne), o anche la
simultanea scelta di più e diverse opzioni, sono solo alcune delle possibili risorse materiali e simboliche di
cui gli attori sociali dispongono per fronteggiare la malattia, ipotizzarne le cause e negoziarne i significati in
un sistema di relazioni.
La pluralità dei percorsi alla ricerca di senso del male e dei saperi che ne derivano è stata spesso racchiusa in
un concetto più problematico di quelli di “autocura” ed “itinerario terapeutico”: si tratta del concetto di
modello esplicativo, elaborato da ARTHUR KLEINMAN. Con esso si intende l'insieme delle nozioni
impiegate dai vari soggetti coinvolti nel processo terapeutico - i malati, i medici, i familiari - per ricostruire
cause e significato di un episodio di malattia ed elaborare il sapere utile per una possibile azione terapeutica.
Secondo Kleinman, ipotesi, decisioni e scelte adottate per trovare soluzioni possibili sarebbero guidate da
modelli di conoscenza e valutazione che – pur con elementi contraddittori e non omogenei al loro interno e
continuamente rielaborate – si strutturano in un modello di spiegazione.
Il modello esplicativo è prodotto sia dal paziente che dal medico: - nel primo caso esso fornisce risposte a
domande che sorgono in un momento drammatico della propria esistenza: perché proprio io? Perché ora?
Cosa accadrà? Il paziente e i suoi familiari iniziano così un percorso a partire da conoscenze informali,
personali e dirette della malattia, che vengono strutturate lungo l’itinerario che va dalla percezione del
problema alla ricerca del trattamento, fino alla scelta della terapia. - Nel secondo combina le conoscenze
elaborate durante la formazione medica e l'acquisizione dello status socio-professionale (università, tirocinio,
ecc) e l'esperienza derivante dalla pratica terapeutica e in genere dall'esercizio professionale. ┐
Quest'ultimo modello secondo Kleinman tenderebbe a separare progressivamente la competenza tecnica (che
consente la diagnosi della malattia nel confronto clinico) dalle conoscenze che la persona malata elabora in
relazione a una lettura soggettiva dei sintomi del proprio disturbo e ai sintomi che si manifestano nello stato
di sofferenza. -> E ancora, il modello esplicativo del paziente si fonderebbe sulla illness, quello del medico
sulla desease.
L'intreccio conflittuale dei molteplici modelli esplicativi coinvolti nel confronto terapeuta-paziente-familiari,
struttura la realtà clinica del rapporto di cura. I modelli esplicativi s entrano cioè in gioco nelle attività
diagnostiche e di denominazione della malattia e in questo modo si costituiscono come oggetti
dell'attenzione terapeutica.
La compresenza, anche conflittuale, dei modelli esplicativi, determina due ordini di conseguenze:
1. nella pratica clinica, il corpo del paziente si ritrova al centro di un incontro-scontro di linguaggi e pratiche
di varia provenienza
2. nella vita quotidiana, i sistemi professionali della biomedicina, attraverso la loro popolarizzazione,
tendono a prolungare questo confronto, entrando in conflitto o influenzando profondamente i modelli
esplicativi profani.
n.b. La conflittualità tra modelli biomedici e modelli profani, meno radicale di quanto appaia, è una dialettica
di circolarità più che un'opposizione vera e propria.
BYRON GOOD, in una ricerca etnografica sull'epilessia in Iran (1977) introduce il concetto di rete
semantica. La rete semantica di una malattia indica “la rete delle parole, delle situazioni, dei sintomi e delle
emozioni attraverso la quale il sofferente conferisce un significato alla propria malattia”. -> Solo tramite la
rete semantica per Good si possono indagare i significati delle categorie della malattia.
In questo modo Good tenta anche di mettere in discussione il paradigma empirista del linguaggio biomedico,
esaminandolo nella teoria e nella pratica della clinica occidentale; linguaggio tecnico, mutato dalle
bioscienze, che presuppone un rapporto “ostensivo4 ” tra nome e sintomo corrispondente (processo che trova
la sua espressione nella diagnosi medica). → Secondo Good, invece, la ricerca dovrebbe concentrarsi su

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parole, emozioni, aspetti dell'interazione sociale che vengono usati per strutturare a livello intersoggettivo
forme di esperienza legate alla malattia.
[4Diretto a mostrare o a dimostrare ]
Nella ricerca di Good a Maragheh (Iran) viene dunque sviluppato l'approccio semantico, in modo da
comprendere le espressioni sintomatiche di persone sofferenti di una malattia definita “mal di cuore”.
Secondo l'antropologo, le reti semantiche che connettono l'esperienza della malattia ai valori culturali di uno
specifico contesto sociale appaiono strutturate intorno a un elemento simbolico centrale → il “mal di cuore”
in Iran costituisce infatti un simbolo centrale intorno al quale vengono costruite narrazioni riguardanti diversi
episodi connessi alla tensione e al malessere psicofisico delle donne, come parto, contraccezione,
invecchiamento, tristezza, mestruazioni etc. tutti questi elementi si strutturano in forme espressive che si
dispongono come su una rete discorsiva costruita intorno a una nozione locale di malattia, che è al tempo
stesso popolarizzata e strutturata in diversi sistemi medici locali.
n.b. Il “mal di cuore” è una malattia i cui sintomi sono descritti in termini molto fisici (es. “il mio cuore si
sente..pressato, spremuto, agitato … sta tremando).
Il concetto di rete semantica consente di tenere conto degli elementi affettivi ed esperienziali che partecipano
nell'attribuzione di senso ad un particolare episodio di malattia e ricostruire l'insieme di significati personali,
sociali e culturali che si aggregano attorno agli stati di sofferenza.
Critica di ALLAN YOUNG ai concetti di “rete semantica” e “modello esplicativo”: per Young entrambi
sono concepiti come modelli “razionalistici”, fondati su un ragionamento caratterizzato da nessi causali di
spiegazione della malattia, come se le persone elaborassero una sorta di modello “parascientifico” in base a
una conoscenza teorica sviluppata in catena argomentative razionali o associative. Si tratta di modelli che,
secondo Young, rappresentano tipi ideali lontani dalla concreta realtà. -> Al contrario, sostiene Young, il
discorso delle persone sofferenti non può essere ridotto a schemi razionalistici simili al ragionamento
biomedico → il sapere prodotto dai soggetti sulla propria malattia , lontano dunque dall'essere una versione
“popolare” del sapere scientifico, si configura come una complessa tessitura di molti altri elementi. Si pensi a
come la narrazione del proprio male da parte dei soggetti sofferenti al medico, lontana dall'essere una
spiegazione profana o lo specchio fedele del loro stato emotivo, possa essere consapevolmente orientata al
raggiungimento di specifici obiettivi (es. cambio della cura), anche con l'uso della menzogna. =>
L'esperienza della sofferenza resta difficilmente riducibile ad uno schema esplicativo, sia esso quello del
medico o del paziente. -> Ne deriva che il percorso di ragionamento previsto dalla nozione di “modello
esplicativo” non è lineare, ma si configura come una molteplicità di riferimenti a diversi piani di significato e
campi di esperienza → pensare che i pazienti siano dotati di modelli esplicativi analogamente razionali a
quello della biomedicina significa ridurre la complessa molteplicità delle forme espressive che tentano di
dare un senso narrativo alla malattia.
Diversi approcci in antr.med. hanno cercato di comprendere l’attribuzione di significato al proprio malessere
da parte dei soggetti sofferenti. In tutti i casi la malattia si costituisce come un idioma socioculturale, che può
servire anche a comunicare una più intensa condizione di sofferenza. Per questi motivi la nozione di
“casualità” non è riducibile allo schema del ragionamento biomedico. Questa irriducibilità alla “razionalità”
biomedica, però, non è indicativa di un “irrazionalità”. Anzi essa segnala alla biomedicina l’esigenza di una
risposta diagnostico-terapeutica ben più complessa, ampia, responsabile e impegnata, che sembra andare ben
oltre un metodo di “ricerca delle cause” della malattia.
Due esempi per mostrare la pluralità di figure, azioni, e rappresentazioni simboliche dentro le quali
l’esperienza del malessere si sviluppa, producendo comportamenti significati apparentemente “irrazionali”,
simultaneamente collocati a più livelli e dotati di una profonda storicità
I-7.2. La ricerca delle “cause” ovvero il cacciatore di streghe
Tra le popolazioni dei Wolof e dei Lébou del Senegal la malattia può essere segno visibile di un’aggressione
proveniente dall’esterno da parte di: spiriti ancestrali, spiriti della religione islamica, strega mangiatrice di
uomini, attacco magico attivato da relazioni personali.-> L’interpretazione del disturbo rientra in un discorso
collettivo sulla malattia e coinvolge vari soggetti nella negoziazione di significati => i soggetti ai quali è
affidata la cura agiscono in un contesto politico-religioso che vede la religione islamica e i culti animisti in
continuo rapporto di rivalità. In questo quadro, il loro compito terapeutico consiste in una mediazione
politica: trovare soluzioni di compromesso in circostanze conflittuali. => - fajkat (il marbout) recita versetti
coranici – jabarkaut (mago), rivale infedele del primo, usa sostanze farmacologiche naturali – bilego,
personaggio ambivalente, cacciatore di streghe – boroom tuur agisce sulla malattia attraverso la ridefinizione

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delle relazioni e dei poteri all’interno del sistema di lignaggio (gruppo di discendenza). -> A ciascun livello
di interpretazione corrisponde un insieme di tecniche e di procedure terapeutiche. La pluralità di tale tecniche
si sviluppa in un processo continuo e irregolare, che si modella su vari piani, descritto come una successione
di fasi (consenso familiare primario, consultazione – incentrata sulla decifrazione dei legami ipotetici tra i
segni presentati dal paziente e la ricerca delle causa, procedure di visione e divinazione – hanno la funzione
di affermare la preminenza della parola collettiva sulle esperienze e le parole individuali – dimostrazione che
le esperienze specifiche del malato sono parte del gruppo sociale, organizzazione del consenso secondario e
della domanda terapeutica – azione congiunta del terapeuta, del paziente e della famiglia; produce consenso
allargato, socializzato, che riguarda azioni e discorsi collettivi rispetto ai quali il terapeuta si fa mediatore di
rappresentazioni culturali in relazione alle quali si cerca di ristrutturare l’esperienza patologica; passaggio
dall’immaginario al simbolico collettivo).
►questo es. etnografico mostra come la ricerca delle cause della malattia sia un percorso individuale e
collettivo che coinvolge agenti diversi, entità materiali ed immaginarie, che implica la soluzione di conflitti
politico-religiosi e pertanto richiede l’azione di un mediatore specializzato. In tal senso la malattia è vissuta
come un fatto sociale e la terapia assume un obiettivo politico: ricondurre i comportamenti fondati
sull’immaginazione individuale alle regole del discorso sociale.
II-7.3. Costruire il consenso: il “male dell’arcobaleno”
In una specifica area della Campania, col termine ‘nzularcate si indica sia l’arcobaleno che una malattia,
altrimenti definita “male dell’arco”. La malattia viene diagnosticata come sanzione di alcuni comportamenti
(es. indicare, sputare od orinare in presenza o direttamente rivolti all’arcobaleno), che appaiono tabuizzati
nelle credenze locali. → Le connessioni simboliche che consentono di denominare la malattia sono apparse
irrazionali, in quanto si allontanano dalle regole scientifiche del rapporto causa-effetto. In realtà, anche la più
evidente manifestazione di un sintomo specifico non è detto che vada ascritta a una causa unica, dato che il
carattere fluente ed elastico delle categorie nosologiche (che classificano le malattie) rende possibile il
passaggio da una causa all’altra. -> Ci si trova dinanzi ad una pluralità di possibili cause radicate nel mondo
emozionale ed intimo del soggetto sofferente che si appiglia alla categoria etnomedica per raccontare in
realtà la propria condizione esistenziale ed emotiva, segnata da eventi particolarmente significativi ed intensi
(es. convulsione del figlio provoca tristezza e paura, dalle quali deriva travaso di bile).

►Nei due es. presentati, il problema non è individuare la razionalità delle rappresentazioni della malattia che
esse sottendono, si tratta piuttosto di indagarne l’efficacia simbolica,la quale, di volta in volta coniuga in
situazioni storiche particolari e in determinate situazioni strutturali le interpretazioni e le azioni concrete
prodotte intorno al corpo del sofferente. (es. porsi il problema dell’accostamento simbolico fra il corpo e
l’arcobaleno e delle relazioni efficaci fra le tensioni sociopolitiche e le loro rappresentazioni nei termini della
stregoneria) Il meccanismo dell’efficacia è nel rapporto fra corpo, esperienza intersoggettiva e contesto
storico dentro il quale le azioni efficaci si svolgono. L’efficacia è l’effetto di trasformazione che tali azioni
vogliono produrre.

CAP.8. DISPOSITIVI DI EFFICACIA.


Nella biomedicina la nozione di “efficacia” riguarda quasi esclusivamente il grado di raggiungimento degli
obiettivi terapeutici fissati da parte, ad esempio, di un farmaco o più in generale la capacità della pratica
medica di ottenere risultati prefissati in termini di obiettivi di prevenzione o di quelli stabiliti nei passaggi
dalla diagnosi alla terapia. Essa è una “efficacia terapeutica”, intesa come andamento a buon fine della
terapia, ovvero di quella branca della biomedicina che si occupa del trattamento destinato a “porre riparo alle
malattie” ripristinando la salute. Da un punto di vista antropologico, invece, la questione dell’efficacia supera
di gran lunga la dimensione specificatamente “terapeutica” e, pur integrando nella propria interpretazione la
consapevolezza gli aspetti biologici dell’essere umano, si colloca su piani più estesi e complessi che
riguardano l’esperienza culturale, sociale ed esistenziale di ogni singolo individuo. L’antropologia medica,
pertanto, parte da una critica del riduzionismo nella definizione dell’efficacia. Il riduzionismo consiste
appunto nel tagliare via dalla definizione degli aspetti sociali, culturali, esistenziali, emozionali e simbolici
che qualificano la complessità della vita umana. La distanza fra biomedicina e antropologia sul tema
dell’efficacia può essere messa in questione se si cerca di andare oltre uno stile di pensiero basato sulla
separazione tra “materiale” e “spirituale”, fra “tecnica” e “simbolo”. Ad esempio, nella nostra gestualità non
agisce unicamente la capacità di movimento regolata da una serie di meccanismi nervosi, ma anche la

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modalità culturale che qualifica il tipo di gestualità; ciò vuol dire che il gesto non è “naturale”, ma è intriso di
convenzioni culturali. Così il gesto tecnico dell’artigiano esprime un’abilità incorporata: è un vero e proprio
“sapere della mano”. In altri termini, se nelle tecniche del corpo non agisce unicamente la motivazione
biologica che le rende possibili, ma anche la dimensione simbolica che al tempo stesso è incorporata e
prodotta dal gesto, ciò vuol dire che il corpo è in grado di assorbire il sapere: ogni atto manuale (es. attaccare
un bottone, salutare con un cenno, dipingere, guidare, ecc) è un atto intriso di senso, è un sapere incarnato.
Tutte le pratiche umane sono perciò al tempo stesso materiali e simboliche. Abbiamo già visto, inoltre, che
quando si soffre e non si percepisce più il senso di ciò che ci accade, la produzione simbolica può agire per
riconfigurare una rete di significato entro la quale si possono trovare risposte a domande come: “cosa mi
accade?”, “Perché proprio a me?”. Nel caso del dolore abbiamo mostrato che quanto più gli esseri umani
avvertono la sofferenza tanto meno riescono rappresentarla. Ora si tratta di capovolgere questa
consapevolezza: se più si sente dolore e nemmeno lo si riesce a rappresentare, allora ciò può significare
anche che quanto più si riesce a costruire nella rappresentazione, tanto meno si “sente” dolore. Queste
dinamiche di rapporto fra il piano della rappresentazione e quello dell’incorporazione costituiscono quella
che in antropologia si definisce “efficacia simbolica”.
I dispositivi di efficacia mirano, almeno nelle intenzioni dichiarate, a produrre la “guarigione”, a ristabilire lo
stato di salute. Ma ancora oggi, sia in antropologia si è biomedicina, la questione della “guarigione” non è
sufficientemente problematizzata. => “Ci deve essere un momento in cui si dichiara o si viene dichiarato
“guarito”. Ma chi dichiara che cosa?” Racconti delle guarigioni di Lourdes, i medici di fronte allo scacco
dalla guarigione inspiegabile, è come se avessero avviato una strategia di legittimazione delle guarigioni
miracolose assumendo il compito nuovo di “constatare” il miracolo avvenuto = bureau de constatations
mèdicale nei pressi del santuario: ufficio di verifica medica nel quale la guarigione inspiegabile era provata,
in alleanza con la Chiesa, attraverso la lettura clinica dei resoconti dei miracolati interrogati dal medico.
Altro scacco alla biomedicina è quello della morte, la cosiddetta morte voodoo: morte determinata dalla
convinzione di aver subito un’aggressione di stregoneria. -> Secondo Gilles Bibeau, in entrambi i casi, la
guarigione miracolosa o la morte voodoo, la questione dell’efficacia risiede nei “meccanismi mediante i
quali il cervello reagisce gli stati emozionali e instaura a livello endocrinologico le comunicazioni con gli
organi”, meccanismi di cui si occupa una branca della stessa biomedicina, la psiconeuroimmunologia.
Le proposte che l’antropologia medica fornisce nell’interpretazione della guarigione sono utili per
comprendere che ogni processo terapeutico si fonda su un intreccio inestricabile fra elementi legati al
funzionamento biochimico dell’organismo ed elementi connessi alla produzione simbolica osservata nella
sua dimensione sociale e politica. L’isolamento di queste dinamiche nello spazio ristretto del rapporto
medico-paziente o guaritore-consultate non riuscirebbe a dare conto di tale complessa funzione di
mediazione. Ed è forse proprio perché tale spazio clinico sembra tagliare via tutti gli altri aspetti sociali e
culturali, che si assiste nella biomedicina contemporanea a una crisi del rapporto medico-paziente.
Lo spazio di un incontro tra biomedicina e antropologia risiede nel fatto che i ricercatori di entrambi gli
ambiti possono considerare l’efficacia terapeutica non esclusivamente attribuibile al trattamento medico o
farmaceutico, ma come il frutto di una più ampia serie di fattori e meccanismi. Ma gli elementi che
contribuiscono a produrre azioni efficaci non sono assolutamente isolabili gli uni dagli altri né sono
disponibili in una sequenza causale. La dimensione dell’efficacia terapeutica si può identificare come uno
spazio comunicativo e interattivo fra azioni esterne e azioni interne e cioè dall’azione di operatori esterni che
agiscono con un loro trattamento e l’azione delle persone sofferenti che reagiscono attraverso meccanismi di
autoguarigione: essa pertanto non è solo un efficacia di “comunicazione”, ma anche un efficace di
“incorporazione”.

8.1.L’efficacia simbolica
Per comprendere che cosa si intende in antropologia per “efficacia simbolica”, occorre fare riferimento a uno
studio condotto nel 1949 da Claude Levi-Strauss. In quella ricerca Levi-Strauss si poneva il problema di
come, presso la popolazione di Cuna di Panama, lo sciamano potesse ottenere, attraverso un’azione rituale, la
guarigione del paziente. -> Analizza un canto sciamanico recitato per la riuscita di un parto che si presenta
difficile. Nel canto e in una serie di azioni compiute sulla scena del rito ed in presenza della donna sofferente
e di altri membri del gruppo, lo sciamano riesce a rappresentare la sofferenza della partoriente nel racconto
fantastico di un viaggio sovrannaturale che egli compie in uno spazio simbolico che corrisponde alla
rappresentazione metaforica del corpo della paziente. Il canto evoca una serie di eventi, di oggetti, di

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immagini sacre che ruotano intorno alla partoriente (es. descrizione della sua casa, visita della levatrice
presso lo sciamano, preparativi, invocazioni, ecc). le immagini sacre rappresentano gli spiriti protettori e
ausiliari dello sciamano. Tra questi emerge uno spirito che si è impadronito dell’anima della partoriente
(Muu). Compito dello sciamano e degli spiriti aiutanti e liberare l’anima intrappolata. Egli lo farà attraverso
un viaggio immaginario in un paesaggio fantastico che corrisponde al complesso mondo dell’aldilà dei Cuna.
Questo viaggio tuttavia ha come obiettivo pratico la manipolazione simbolica del corpo della sofferente
nell’intento di ridurre il dolore fisico che la tormenta. I vari simboli che si alternano nel canto non sono dei
luoghi mitici ma sono i termini che indicano la vagina e l’utero della donna gravida. Il senso del racconto va
di pari passo anche con il suo ritmo, ed anzi è il proprio attraverso il ritmo che esso più facilmente entra in
contatto con l’organismo della paziente. => Questo ritmo è dato anche dal continuo passaggio fra temi mitici
e temi fisiologici, piani intrecciati che lo sciamano tende a far coincidere nella coscienza dell’ammalato,
facendo crollare ogni distinzione che li separa.
Inoltre, attraverso descrizioni minuziosissime sulla posizione della donna, sulla fisionomia degli spiriti e
sulle loro modalità di penetrazione nel corpo della donna, si contribuisce a rendere labile il confine tra
metafora e realtà.
In definitiva l’efficacia della cura consiste nel costruire una rete simbolica che rende pensabile una situazione
che si presenta all’inizio nei termini del dolore fisico e dell’afflizione. L’efficacia simbolica mira a rendere
accettabile alla mente dolori che il corpo si rifiuta di tollerare.
Che la mitologia dello sciamano non corrisponde a una realtà oggettiva è un fatto privo di importanza. La
malata ci crede ed è un membro di una società che ci crede. Gli spiriti protettori e gli spiriti maligni, i mostri
sovrannaturali degli animali magici, fanno parte di un sistema coerente che fonda la condizione indigena
dell’universo, la malata li accetta, o più esattamente, non gli ha mai messi in dubbio. Quel che non accetta
sono i dolori incoerenti arbitrari, che invece, costituiscono un elemento estraneo al suo sistema, ma che
grazie al ricorso al mito, vengono sostituiti dalla sua mano in un insieme in cui tutto ha una ragione d’essere.
=> L’azione efficace risiede nel fatto che “lo sciamano fornisce alla sua malata un linguaggio nel quale
possono esprimersi immediatamente certi stati non formulati, e altrimenti non formulabili”. -> Questa
dimensione di efficacia del rito è paragonata da Levi-Strauss all’effetto terapeutico della cura psicoanalitica.
Levi-Strauss pone un problema molto importante che riguarda in particolare la funzione della produzione
simbolica nel rapporto di cura e la possibilità di funzionamento di un trattamento terapeutico in un contesto
specifico. -> Per essere più precisi, egli tratta della natura stessa delle elaborazioni psichiche che chiamiamo
inconsce, e del loro rapporto con il funzionamento biochimico dell’organismo.
Carlo Severi, che ha svolto ricerche sul campo presso la stessa popolazione cuna, perfeziona la teoria di Levi
Strauss. => Secondo Severi l’efficacia simbolica non può fondarsi sulla relazione verbale e sulla
comprensione del significato del canto cuna da parte della partoriente, ma implica un ruolo della persona
sofferente meno passivo di quanto non appaia dalla scena descritta da Levi Strauss. Tanto più che il canto è
formulato in una lingua incomprensibile per i profani, pertanto non è ipotizzabile che le metafore del viaggio
sciamanico all’interno del corpo della sofferente possono essere compresi. La partoriente percepisce un
suono incomprensibile dalla voce dello sciamano: ella avverte unicamente una sequenza di suoni ritmati dal
ritorno di formule fisse. -> A partire da questa osservazione etnografica, Severi suggerisce di riflettere, da un
lato, su che cosa significhi “credere” e, dall’altro, ipotizzare un nuovo tipo di comunicazione terapeutica che
tenga conto non solo del contenuto del linguaggio ma anche del suo effetto sonoro. Per capire cioè quali sono
i meccanismi che innescano la guarigione nella paziente è necessario riflettere sui diversi significati che la
credenza assume per il paziente e per il suo terapeuta.┐
La credenza è stata considerata a lungo dagli antropologi un modo di aderire a una specifica concezione del
mondo stabilita dalla cultura cui si riteneva di appartenere. Oggi essa viene considerata come “un particolare
processo proiettivo, che conduce allo stabilirsi di un tipo particolarmente complesso di legame. Si è portati a
credere che qualcosa non perché si condivide un patrimonio comune (“La cultura”) ma al contrario, perché
gran parte del contenuto della credenza è frutto di una proiezione privata dell’osservatore, di colui o colei
che crede”. -> Questa nuova prospettiva restituisce al singolo credente un carattere più attivo, la credenza fa
parte cioè della capacità di agire del soggetto: ciascuno di noi proietta le credenze, piuttosto che assorbirlo in
maniera passiva. La credenza ha una sua particolare funzione nel momento in cui nel corpo del soggetto si
manifesta il dolore e per questo assume un particolare ruolo nell’atto terapeutico.
Sperimentazione terapeutica sull’autismo, mostra come la comunicazione anche non comprensibile ci
consenta di riformulare il rapporto fra suono e significato e di sottolineare il carattere terapeutico di questo

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rapporto. => Nel rapporto con i giovani pazienti autistici emergono situazioni comunicative in cui non
prevalgono i significati delle parole ma altri elementi della comunicazione come i rumori, il borbottio, le
parole mozzate o fuse tra loro, i toni, le esclamazioni che caratterizzano apparenti monologhi. (questo
rapporto tra senso e suono è tipico della poesia)
Il canto sciamanico cuna può essere considerato come una sequenza di immagini sonore e sottoposto a una
decifrazione che coglie la sola enunciazione e non il significato delle parole di cui è composto. In questo
modo, la paziente esposta al canto ha la posizione di chi osserva un’immagine, mette in atto cioè una
capacità immaginativa, creativa, proiettiva, innescata dalla percezione dell’immagine stessa: in un’immagine
infatti noi vediamo sempre più di quello che essa contiene materialmente.
La paziente, pur senza intendere il senso preciso del canto, capirà molte delle parole dette dallo sciamano, e
tali parole si disporranno nella sua percezione come ancoraggi discontinui che le consentiranno di ricostruire
le parti mancanti e incomprese. Sono queste le condizioni perché si verifichi l’attivazione di un processo
proiettivo, cioè la paziente non intende completamente il senso del canto ma al tempo stesso riesce
immergere il canto in un’atmosfera familiare. Ella è spinta ad agire, a partecipare attivamente all’azione
dello sciamano, a proiettare, con il lavoro del suo organismo mente/corpo, un completamento soggettivo
dell’immagine sonora percepita. Il canto dello sciamano funziona anche attraverso l’emissione dei suoni e
forse proprio in virtù della sua non totale comprensibilità letterale, che spinge la paziente a uscire da una
posizione passiva e a proiettare lei stessa l’efficacia simbolica. In questo senso l’efficacia simbolica del canto
cuna destinato alla terapia del parto difficile non proviene esclusivamente dal terapeuta ma dall’azione che
egli induce nella partoriente.

L’attenzione posta da Severi al carattere attivo della proiezione dell’efficacia da parte della sofferente apre la
strada ad una più ampia dimensione dell’efficacia simbolica che riguarda i significati sociopolitici. Ma
perché questi aspetti più ampi possano essere colti bisogna andare oltre l’idea che la produzione simbolica
sia unicamente una dinamica inconscia. => L’efficacia simbolica, infatti, è anche una ricerca consapevole di
significati, simboli, manipolati e legittimati proprio nel contesto in cui le concrete azioni rituali si verificano.

8.2.L’efficacia simbolica come processo sociopolitico


Episodio dello sciamano che brucia i $ 30 ricevuti per compenso al fine di attirare gli spiriti in un rito per un
giovane cuna recatosi nella città di Panama studiare e non riuscito ad integrarsi in quel mondo. L’immagine
dello sciamano che brucia il denaro, modificando la sequenza rituale “tradizionali”, assume un significato
politico che spinge a riflettere sulle sofferenze del passato recente e sulle minacce future che potrebbero
nascere non tanto dal fallimento del rito, ma dal fallimento dell’incontro con il mondo dei “bianchi” (i cuna
in quel periodo vivevano nelle riserve per via dei “Bianchi”). In quel genere di sofferenze reali, di contrasti
quotidiani, di condizioni materiali di esistenza, si inserisce la provocazione politico-terapeutica dello
sciamano che segnala la fonte reale delle sofferenze del giovane che era stato chiamato a curare.
L’azione sciamanica si fonda su un potere che tuttavia deve essere costantemente riconosciuto dal pubblico
che giudica la pretesa di alcuni individui di essere sciamani. Se lo sciamano riesce attraverso la sua
performance a mostrare di avere saputo dominare, con i suoi gesti, i poteri nascosti, le forze invisibili, egli ha
successo anche se fallisce dal punto di vista della guarigione, in quanto il fallimento si configura solo come
sospensione, il rituale produce una cornice duratura, una condizione di efficacia potenziale: se l’autorità
dello sciamano è rafforzata, alla fine tutti sapranno che in altri momenti e in altri contesti le circostanze,
l’efficacia potrà presentarsi anche nei termini di una guarigione. Il riconoscimento pubblico dei poteri dello
sciamano pertanto è centrale; egli lo sa, e per questo mette in scena un vero e proprio laboratorio teatrale
fondato su azioni spettacolari: musiche, canti, dialoghi con gli spiriti, produzione di uno stato corporeo di
trance. Azioni sempre rivolte al suo pubblico, non solo il malato, ma anche altre persone del gruppo (a cui ad
es. rivolge domande). -> Le vicende cantate nel rito aprono una serie di dilemmi esistenziali che mobilitano i
sentimenti e le emozioni del pubblico, poiché riguardano al tempo stesso la storia di vita delle persone e
quella delle forme di governo della comunità e della vicenda coloniale che l’ha segnata.
Il significato politico dell’efficacia simbolica nei rituali sciamani emerge con molta chiarezza quando
anziché studiarne l’esito positivo si prendano in considerazione i fallimenti, facendo emergere contraddizioni
più complesse di carattere sociale e politico, attraverso l’azione rituale terapeutica.
Il “successo” dei rituali terapeutici non si fonda unicamente sul raggiungimento della guarigione =>
l’efficacia simbolica non va considerata solo in relazione all’esito terapeutico, ma essa è già dentro il

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processo terapeutico, inteso non solo come successione di azioni dominate dall’azione verbale e
dall’interazione fra due soggetti (paziente e terapeuta), ma come un più ampio processo sociopolitico. =>
l’azione terapeutica va osservata nel quadro dei rapporti sociali e di potere poiché le terapie sono esse stesse
atti sociali e come tali esposte alle ambivalenze, ai conflitti e ai compromessi che caratterizzano ogni genere
di relazione sociale.
[es. non importa che il paziente non sia guarito, importa che la sciamana cinese abbia inglobato nel suo
incantesimo slogan, canzoni e gesti attinti dalla tradizione nazionale maoista]

8.3.I mediatori della guarigione


Nel rapporto fra tecniche, istituzioni e pratiche sociali ha un ruolo determinante la concreta azione di
mediazione e di scambio fra diverse realtà svolta da specifici agenti. Gli operatori del corpo, della salute e
della malattia nei vari contesti socioculturali, e all’interno delle più diverse tradizioni mediche, agiscono non
solo come depositari di un sapere specifico sui segni del corpo e sulle possibili cause del disordine fisico e
sociale. Essi sono anche mediatori fra ambiti eterogenei della realtà visibile e invisibile e combinano risorse
diversificate della società e della natura, dove i criteri di definizione di “società” e “natura”, di “visibile” e
“invisibile”, di “umano” e “non umano” variano a seconda del contesto culturale e corrispondono ad
antropologia e cosmologie locali la cui legittimazione e sempre determinata da specifici assetti di potere. ->
assumendo come punto di vista quello della funzione di mediazione, le tecnologie come radiografia ed
ecografia, ad es., consentono di rendere visibile l’interiorità invisibile del corpo e di predire il futuro (come
nel caso della gravidanza), così come le tecniche rituali del sogno o della trance svolgono funzione analoga
di esplorare realtà simboliche, invisibili e immateriali, ma pertinenti sul piano culturale, come l’aldilà
esplorato dagli sciamani o il mondo dei santi.
Gli studi di antropologia storica su figure di operatori quali la levatrice, l’aggiustaossa, il barbiere, il
farmacista, osservati nel periodo di espansione della biomedicina mostrano come tali figure svolgano ruoli di
cerniera, di traduzione fra differenti apparati istituzionali e tradizioni intellettuali, ruoli anche sottoposti a
tensioni derivanti dalla loro resistenza o dalla loro aggressività nei confronti della biomedicina e dei suoi
tentativi di uniformare ad un unico linguaggio “legittimo” la pluralità delle pratiche.
Anche negli studi antropologici dei ruoli dell’esercizio delle pratiche terapeutiche non istituzionalizzate,
l’uso di definizioni classiche come “mago”, “stregone” o “guaritore”, è apparso limitante, poiché la
complessità delle funzioni degli operatori viene ridotta dalla definizioni scelte, e sempre rimane oscura la
concezione dei ruoli da parte dei fruitori.
-> Se si presta maggiore attenzione al rapporto reale tra tali figure e i loro utenti, la fluidità delle categorie
mette in crisi anche opposizioni quali, ad es., quelle fra operatori tradizionali e moderni, empirici e magico-
religiosi.
Uno studio di Daniel Friedmann si rivela utile proprio perché rifiuta a priori le definizioni inventate per
descrivere i comportamenti umani di questi mediatori. Al termine “guaritori”, Friedmann preferisce infatti
quello di mediatori: ogni guaritore è inteso come mediatore di guarigione, anche se al tempo stesso non tutti i
mediatori sono terapeuti.
Egli suggerisce un’analisi attenta alle singole specificità piuttosto che alle definizioni di “tipologie”.
Osservando i rapporti fra i guaritori e consultanti si coglie, come nel caso della relazione medico-paziente in
biomedicina, la distribuzione differenziata del sapere e l’accumulazione di un capitale terapeutico attraverso
l’instaurazione di particolari relazioni con i propri pazienti. La nozione evocata per indicare la proprietà
incorporata di tale capitale terapeutico è il “dono”. Il dono non è solo una componente della persona del
guaritore, cioè un’essenza totalmente incarnata nella sua figura e non trasmissibile per insegnamento, ma è
anche il dono inteso come forma dello scambio che, apparentemente disinteressato, implica invece un
obbligo di ricambiare: il dono come dinamica sociale dello scambio reciproco. Ma tale scambio non è solo
duale. L’autorità del guaritore aumenta in proporzione alla circolazione del dono nel contesto sociale, alla
sua riproduzione.

8.4.La “magia” nelle mani


Osserviamo un esempio dell’elargizione del dono terapeutico nella figura di un guaritore specializzato nel
trattamento delle ossa. Quella dell’aggiustaossa è una delle figure storiche di cerniera fra la biomedicina
professionalizzata e le pratiche terapeutiche non ufficiali. Aniello, detto Pitocco, è uno dei più famosi
“conciaossa” dell’area sub vesuviana della provincia di Napoli.

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La sua autorità nel contesto locale è molto forte = la sua attività di terapeuta non è disgiunta da altre sue
competenze di estrema importanza e collettivamente riconosciute in particolari forme di sciabilità: è
coordinatore di un’associazione di pellegrini. Nello studio dove riceve, accanto al lettino medico, tiene alla
parete una grande foto che lo ritrae in vestito bianco da pellegrino con la fascia di coordinatore. => Si tratta
di un segno determinante nella costruzione della propria identità e nell’affermazione della propria autorità. Il
suo farsi segno della croce prima di iniziare la pratica costituisce ancora testimonianza del fatto che, al di là
di un pur osservabile statuto empirico delle pratiche, in esse l’esperienza e il simbolo appaiono
inestricabilmente legati. => Presentando la sua attività Aniello vanta sia delle lodi ricevute da un noto
ortopedico napoletano con cui ha collaborato, sia al “dono” ricevuto da Dio per saper acconciare le ossa,
specificando che il sapere non gli è stato trasmesso attraverso un insegnamento, la parola, ma attraverso la
discendenza: anche suo padre e suo fratello avevano questo dono.
Figura di raccondo fra pensiero scientifico e medicina popolare.

8.5.L’efficacia dei farmaci


L’efficacia di un farmaco non si arresta affatto alla questione dei processi biochimici che la sua assunzione
attiva nel corpo umano, ma si espande alla dimensione sociopolitica e simbolica, proprio perché “per
definizione i medicinali sono sostanze dotate della capacità di mutare le condizioni di un organismo
vivente”.
Antropologia medica nella sua riflessione sui farmaci si articola in due tradizioni di studio:
l’etnofarmacologia e l’antropologia dei farmaci.
- L’etnofarmacologia è una branca specialistica di studi sulle sostanze efficaci, dotate di principi attivi
naturali, prodotte nel contesto dei diversi “saperi naturalistici tradizionali” delle popolazioni studiate dagli
antropologi, dalla farmacopea popolare all’uso di droghe per indurre stati alterati di coscienza.
- L’antropologia dei farmaci si occupa di una più ampia serie di questioni: ad esempio, l’osservazione di
come i saperi etnofarmacologici provenienti dalle diverse tradizioni culturali costituiscano un patrimonio dal
quale le industrie farmaceutiche hanno tratto e traggono conoscenze per la ricerca chimica farmaceutica. Le
risorse farmacologiche derivanti da sostanze non sintetizzabili nel laboratorio (che ormai fanno capo a
potenti multinazionali), pongono complessi problemi politico, economici ed etici che riguardano ad esempio
la proprietà di tali risorse dei saperi intellettuali ad esse connessi. Altra questione riguarda il fatto che il
farmaco è innanzitutto una merce, un prodotto industriale che rientra nel grande mercato di massa e segue
tutti i percorsi tipici di ogni merce. Per questo i prodotti farmaceutici offrono l’opportunità di studiare “le
relazioni fra simboli ed economia politica. Da un lato essi sono parte di un flusso internazionale di capitali e
di commercio. Dall’altro essi sono simboli della speranza e della cura”. Essi sono oggetti dotati di una vita
sociale che l’antropologia medica contemporanea cerca di esplorare. ┐
Gli studi antropologici aiutano a capire l’eterogeneità degli elementi che intervengono nel momento in cui il
farmaco si trova nello spazio interposto fra il laboratorio scientifico ed il corpo del malato, uno spazio
costituito da una rete di relazioni che lega i laboratori scientifici ai farmacisti, ai medici, ai pazienti, passando
attraverso i media, il mercato e la pubblicità.
Ricerche antropologiche interessate alla possibilità di “manipolare” il farmaco fin dalla sua produzione in
modo da creare il suo campo di destinazione, la sua domanda, come accade per altri prodotti commerciali.
(<per vendere il prodotto bisogna vendere la malattia>)
Nelle politiche delle case farmaceutiche è ben chiara sia la consapevolezza dell’”efficacia bio-chimica” sia
quella di una sorta di “efficacia sociale” del farmaco, nel senso della possibilità che questo ha, come
conseguenza di determinate caratteristiche, di essere assunto da una certa fascia di consumatori, di diventare
un elemento “familiare” per il paziente. L’analisi della scrittura dei foglietti illustrativi evidenzia questi
elementi: sintassi semplice, verbi all’infinito, maggiore o minore visibilità data alle controindicazioni.
Nel caso del farmaco, il feticismo della merce (Marx, 1968), cioè l’attribuzione di un potere “mistico” al
medicamento che va ben oltre l’effetto dei suoi principi attivi, potrebbe apparire particolarmente scandaloso,
stante il fatto che tale prodotto dovrebbe garantire un ripristino della salute. Ciò è confermato dal fatto che
nella pubblicità radiotelevisiva dei farmaci le istruzioni e le avvertenze vengono recitate velocemente solo
per rispondere agli obblighi di legge, poiché si ritiene che esse non abbiano alcuna efficacia commerciale.
Eppure la comunicazione delle avvertenze, da un punto di vista non commerciale, dovrebbe essere
fondamentale.

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Oltre a tali significati legati al farmaco come oggetto di consumo, come merce, l’antropologia dei farmaci
affronta anche il problema della loro efficacia, mostrando come sia riduttivo collocare tale efficacia
esclusivamente nel modello terapeutico della biomedicina.-> Se nel campo biomedico lo sviluppo della
riflessione sulla questione dell’effetto “placebo” non punta più a una spiegazione formulata esclusivamente
in termini psicobiologi, ma viene ormai posta l’esigenza di contestualizzare il “placebo” nell’ambito di un
più complesso sistema di relazioni di cura che include unitariamente un rapporto fra il medico e paziente,
dall’altro lato l’antropologia medica contemporanea riflette sulla funzione attiva del paziente che può
manipolare il farmaco anche in conflitto con la prescrizione medica. Infatti, appena il farmaco è prodotto ed
entra nel circuito commerciale, uscendo dalla sfera di controllo degli scienziati, entra anche nelle pratiche
quotidiane e viene modificato dal carico di fiducia, di aspettative, e dalla più o meno rigorosa autorità
esercitata dalla biomedicina sui pazienti. -> Nella scelta e nell’assunzione del farmaco, oltre che elementi di
biomedicina vi sono rappresentazioni di cui è oggetto la malattia che coinvolgono le relazioni del paziente
conil tempo, la famiglia,i processi sociali, politici, culturali.=> L’autocura diventa autoterapia.
Jean Benoist propone un’analisi di quelli che sono gli “itinerari” che portano il paziente, attraverso
l’intermediazione del medico, verso un dato medicinale rilevando come questi siano molto articolati e solo
raramente si verifichi un rapporto diretto paziente-farmaco determinato dalla prescrizione. L’assunzione del
farmaco è sempre più spesso veicolata sia dall’autocura, con la scelta arbitraria dei farmaci da parte del
malato prima del consulto medico, sia dal ricorso simultaneo a pratiche terapeutiche diverse, vissuto come
complementari dal paziente (medicina specialistica, giornalistica, omeopatica, orientale). La pluralità e la
combinazione di pratiche giudicate dalla biomedicina contraddittorie sottintende da parte del paziente la
necessità di dare risposta alla multi causalità della malattia. In questo senso il farmaco non è più, e non solo,
un “operatore tecnico” che agisce chimicamente, ma un “mediatore simbolico”, lo strumento che consente di
rispondere a un malessere radicato sul terreno della malattia e che viene usato simbolicamente anche nel
momento in cui “il male è altrove”.
La malattia è sempre anche l’espressione di una richiesta da parte del malato che si esprime attraverso il
linguaggio del corpo e che esige che la risposta avvenga sullo stesso “terreno” attraverso un farmaco che,
penetrando nel corpo, veicoli di soccorso. L’osservazione etnografica non può non rivelare come i
comportamenti del paziente di fronte i medicinali siano rivelatori della loro capacità di azione in quanto
simboli e del loro valore simbolico in quanto capaci di agire, nella misura in cui ci permettono di riconoscere
e comprendere il rapporto individuo-malattia.
Le testimonianze dell’antropologia rivelano come anche in contesti culturalmente molto diversi esistano
comportamenti che possono sembrare contraddittorio nell’uso del farmaco, ma vengono riconosciuti dalla
scienza medica. Infatti anche dove la malattia e il dolore sono attribuiti a stregoneria, malocchio e spiriti
negativi, la terapia cerca di agire in ciò che lega l’individuo al mondo e agli altri, collegando esplicitamente
l’azione farmacologica sul corpo a ciò che è fuori dal corpo. Queste pratiche farmacologiche si inseriscono
infatti all’interno di un insieme di forme di aiuto che prevede tanto la somministrazione di farmaci quanto
l’intervento di altri operatori come le preghiere e le offerte di cui il medicinale incorpora le funzioni. Il
farmaco diventa così portatore di un potere che dal proprio interno, dalle condizioni della sua preparazione e
dei rituali che l’accompagnano, si trasmette al mondo attraverso l’individuo, cioè attraverso le attese e le
richieste del suo corpo.
In relazione al rapporto fra prescrizione del medico e osservanza e non osservanza del paziente, il farmaco
vive in uno spazio sociale nel quale è oggetto di diverse pratiche da parte dei medici che lo prescrivono nelle
ricette e dei pazienti che lo possono usare in maniera volontariamente o involontariamente “scorretta”, non
rispettando le ingiunzioni del medico. In tal modo la questione del rapporto medico-paziente si qualifica
come relazione dialettica, negoziata e non misurabile dal più ampio campo biomedico: nella prescrizione del
farmaco il medico non è solo un “mediatore di guarigione”, ma anche un mediatore fra istituzione sanitaria,
mercato farmaceutico e paziente.
Sulla questione dell’inosservanza del malato molto spesso si tende a considerarla come un comportamento
sbagliato, senza volgere l’attenzione ai suoi significati socioculturali. -> Questo giudizio tradisce, talvolta in
maniera evidente, una forma di costruzione dell’autorità da parte del discorso biomedico.
Alcune teorie attribuiscono l’inosservanza a presunte “strutture della personalità del paziente” (maladattive),
definendo una “buona condotta” del paziente la sua sottomissione alla biomedicina.
L’obiettivo di un miglioramento delle cure sembra confondersi con un’attenzione costante fondata
sull’esercizio del controllo dell’autorità medica. Per questo alcuni hanno proposto di parlare di “adesione” e

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di “non adesione” alle prescrizioni mediche, sottolineando come la nozione di “osservanza”, peraltro molto
vicino alla pratica devozionale religiosa, contenga un pesante giudizio di valore sul comportamento del
paziente. Per sfuggire a queste tentazioni normalizzandosi nella definizione dell’osservanza e
dell’inosservanza, l’antropologia ha rivolto l’attenzione all’uso sociale della prescrizione medica messe in
atto dai pazienti. La prescrizione di un medicinale è infatti un atto ricco di significati. Essa può essere
osservato dal punto di vista degli effetti psicologici, o come una forma di comunicazione. Come un esercizio
del potere e del controllo, come un atto che innesca un meccanismo di produzione economica, e così via. Ci
si chiede: Chi prescrive? Cosa è prescritto? Cosa significa per i medici prescrivere medicine? Cosa significa
invece per il paziente? => Tutti i lavori etnografici mostrano come la prescrizione di un medicinale sia un
atto sociale, uno di quegli atti concreti della biomedicina la cui efficacia è polivalente: essa è stata studiata a
partire dalla pratica di scrittura delle ricette e il dato pressoché costante della loro illegibilità ha spinto gli
studiosi a paragonare la ricetta scritta dal medico all’esoterismo delle scritture sacre. Ma l’efficacia simbolica
della prescrizione non si arresta la scrittura: essa si estende alla comunicazione medico-paziente in certi casi
la sostituisce. Quando nel rapporto medico-paziente la prescrizione scritta sostituisce ogni forma di dialogo
rimane pur sempre “l’illusione di un accordo reciproco sulla giusta terapia”. Tale prescrizione segna
un’effettiva complicità fra medico e paziente nella ratificazione di uno stato di malattia, che nel “certificato
medico” è di fatto raggiunta.
Questi significati sociali del farmaco non possono essere sottratti alla definizione della sua efficacia.
L’efficacia del farmaco è infatti processuale, cioè è data dalla complessità dei percorsi dei contesti
attraversati nella sua vita sociale. Tale efficacia inoltre è connessa alle azioni sociali che il farmaco attiva,
dalla sua produzione, alla sua prescrizione, al suo acquisto, al fatto che venga custodito, conservato,
manipolato nelle pratiche di auto cura, consumato osservando con osservando le prescrizione del medico e
quelle indicate nelle istruzioni per l’uso. Anche l’efficacia del farmaco non è riducibile alla sua natura
biochimica=>Le trasformazioni che essa determina non sono separabili dai contesti, dai significati e dalle
pratiche di cura che le rendono possibili.

CAP.9.LA CURA.
Nel concetto di cura si intrecciano tutti gli argomenti qui trattati: corpo, salute e malattia, diverse forme di
medicina, processi di istituzionalizzazione e questione dell'efficacia. Questi campi costituiscono i terreni
elettivi dell’antropologia medica e poiché il tema della cura li attraversa costantemente, mettendoli in
relazione, allora l’antropologia medica può essere considerata anche un antropologia della cura.
Cura differente da terapia. Già nel parlare quotidiano la terapia rimanda sempre e comunque all'ambito del
trattamento di una malattia, mentre la cura va al di la di quella dimensione (es. “prendersi cura di qualcuno”
→ pratica di attenzione). Il concetto di cura può anche non avere nulla a che fare con le questioni mediche,
poiché rientra nell’esperienza complessiva dei rapporti umani e dello scambio sociale.. Differenza in inglese
tra care (meno riduttiva) e cure.
Riducendolo al campo di malattia e sofferenza, il concetto di cura sembra essere circoscritto a un insieme di
gesti, parole e pratiche comunicative che mirano alla compagnia, al sostegno e all'aiuto a persone rese fragili
dalla malattia e dalla sofferenza.
Ma la concezione antropologia del concetto di cura è più vasta, per cui essa si definisce come una tecnica
dell'attenzione, dell'ascolto e del dialogo, basata sulla dialettica tra la prossimità e la distanza, tra la parola e
il silenzio, sulla consapevolezza dell'impossibilita di separare nel gesto l'aspetto tecnico da quello simbolico
ed emozionale, su una comunicazione corporea e sulla dimensione emozionale e politica che questa relazione
comporta. -> In questo senso le pratiche di cura si strutturano in spazi di intimità, in un corpo a corpo che si
fonda su una vera e propria arte di comunicare, che è soprattutto “arte di toccare”.
Cura qui affrontata anche in relazione all'assistenza infermieristica, il cui sapere consente di chiarire la
differenza tra care e cure e sottolinea l'esigenza di un superamento di questa scissione. Esempi etnografici
mostrano come l'efficacia di cura non termina nemmeno quando il paziente, in stato di incoscienza, non
risponde alla comunicazione intenzionale: in questo caso parole e gesti di cura sembrano svolgere la più
grande funzione di attribuzione di un significato di “umanità” alla persona sofferente.
La cura è efficace in quanto processo di relazione e non come esito di guarigione, per cui non esaurisce la
sua funzione nemmeno quando l'efficacia non sembra produrre esiti: essa riguarda le relazioni umane e
l'umanità delle relazioni, umanità resa qui manifesta non come dato ontologico e naturale, ma come prodotto

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culturale di un processo di naturalizzazione → una nuova dicotomia emerge all'interno del discorso
biomedico tra “umanizzazione” e “disumanizzazione” delle pratiche di cura.
Tenere quindi conto dei poteri efficaci che la manipolazione curativa ha sulla stessa costruzione del corpo,
della persona, del sé, sulla sottrazione o attribuzione di una “capacità di agire”, sulla definizione e il
riconoscimento dell'essere umano.

9.1.L'arte di toccare.
Ricerca di HELLE SAMUELSEN sugli aspetti socioculturali della cura infermieristica alle persone operate
di cancro in un ospedale di Copenhagen.
Testimonianza alla Samuelsen di un'infermiera dell'ospedale: “la parte più interessante del mio lavoro è il
paziente. Per me il trattamento in sé non è importante … il mio compito è quello di essere un difensore del
paziente”. Eppure, osservando la stessa infermiera al lavoro, l'antropologa vede nel suo compito piuttosto
quello di un'assistenza tecnica al medico, del quale l’infermiera eseguiva gli ordini.
Secondo lei, dunque, compito dell'infermiera è quello di una mediazione tra malato e medico, fra
l’esperienza e la rappresentazione del malessere vissuto dal malato (illness) e il trattamento della malattia
fondato sulla “visione” che ne ha il medico (desease).
Atre ricerche etnografiche hanno però poi dimostrato come la funzione di mediazione dell'infermiera non si
riduca a questa sorta di “traduzione” da una visione all'altra, ma comprenda una rete molto più vasta di
molteplici mediazioni quotidiane.
La comprensione di tale complessità ha portato la ricerca storica sulla professione infermieristica a sottoporsi
a una critica culturale che decostruisse le rappresentazioni classiche di una serie di progressi nel tempo →
storia della pratica infermieristica utile per chiarire il carattere culturale della funzione infermieristica,
nonché il significato – non “naturale” - della schiacciante prevalenza femminile in questo lavoro.
Lo studio di EVA GAMARNIKOW mostra come la professione nasca nel contesto occidentale
parallelamente alla produzione socioculturale del genere femminile → ne deriva che in questo studio
l'infermiera come professionista della cura appare come la traslazione sociale del ruolo domestico della
donna nelle società europee. Inoltre, caratteristiche come “devozione, sacrificio, passività e subordinazione”
sembrano incarnarsi nella funzione infermieristica in analogia alla rappresentazione dominante del “carattere
femminile” nelle società europee. Tuttavia, la stessa Gamarnikov rende più complessa questa visione della
subalternità femminile identificata nella funzione infermieristica in quanto, se da un lato il riconoscimento
professionale dell'infermiera si viene strutturando a cavallo tra 800 e 900 su un'equazione ideologica tra
attività assistenziale e costruzione sociale del genere femminile, le politiche di riforma nel settore hanno
anche mostrato come la stessa equazione sia stata strategicamente utilizzata dalle stesse donne a loro favore,
ottenendo risultati diversi, se non opposti, a quelli fondati su una “mistica della femminilità”.
Due esempi in contrasto dell'uso della retorica della femminilità:
1. anni 20: le infermiere la utilizzano per ottenere lo status professionale nella sfera pubblica dell'impiego e
dell'occupazione, insistendo sulla necessita di una “divisione sessuale del lavoro” → femminilità attiva di
queste donne, che usano lo stereotipo dell'identificazione tra dovere di cura e ruolo delle donne per il proprio
riconoscimento professionale
2. inizio del secolo scorso: il riconoscimento di funzioni sempre più complesse alle infermiere spaventa i
medici, che per salvaguardare la loro posizione ribadiscono il potere medico maschile e il dovere di
obbedienza femminile, intrisi dello stesso stereotipo.
→ questione della femminilità come terreno di lotta: utilizzato dalle infermiere come strategia di
rafforzamento, e dai medici come strategia opposta di indebolimento => questione di rapporti di forza e non
un dato naturale.
L'antropologia storica mostra quindi che l'”ambiguità” attraversata dalle infermiere nelle pratiche di cura
dentro l'istituzione ospedaliera è una dimensione storico-sociale e politico-culturale complessa → necessità
di andare oltre una definizione sociologica astratta del ruolo professionale dell'infermiera e di osservare la
professione nella pratica quotidiana per far emergere la molteplicità delle mediazioni attivate nelle cure
infermieristiche.
Secondo l'antropologa inglese JENNY LITTLEWOOD le cure infermieristiche di qualificano come una
complessa “gestione dell'ambiguità”, intesa in senso ampio come gestione di spazi e aree liminari e
marginali, che si sviluppano ai confini delle classificazioni formali fra i ruoli definiti dall'istituzione.

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In questo senso, lo sviluppo di un’abilità nella risoluzione di problemi assume significati connessi alla
costituzione di un capitale di saperi e competenze assistenziali fondato sull'esperienza di mediazione non
soltanto tra medico e paziente, ma anche fra tutte le altre figure presenti sulla scena della cura (i familiari, i
volontari, gli ausiliari, eccetera).
Due dimensioni della funzione della cura, intesa come mediazione:
1. compito di “difesa” del paziente
2. molteplicità di pratiche destinate a intervenire sulla ricostruzione dell'habitus del paziente messo in crisi
dal malessere.
Nel contesto ospedaliero il paziente non incarna solo il proprio malessere, ma anche la stessa istituzione nel
quale è ricoverato → nel rapporto con lui, i gesti di cura agiscono dunque direttamente su tali processi di
incorporazione.
L'azione di cura infermieristica, agendo sullo spazio intimo, oscilla in una dialettica continua tra carattere
normalizzante della cura e riconoscimento dei “diritti del malato”.
Sviluppando lo studio della Littlewood, l'antropologa DONATELLA COZZI configura ulteriormente il
concetto di “ambiguità”, sostenendo che se utilizzato unicamente per classificare lo spazio di azione
dell'infermiera, esso rischia di occultare le esperienze reali che emergono nella concreta cura infermieristica.,
fatte di gesti, emozioni, conflitti, irregolarità etc.
In generale, sostiene la Cozzi, l'acquisizione di abilità in ambito infermieristico è un percorso di esperienza e
di pratica fondamentale per modificare e trasformare habitus consolidati nella professione, incapaci di
cogliere la realtà complessa, mutevole e irregolare delle specifiche interazioni che si verificano attorno alle
persone bisognose di cure. Se si va oltre lo stereotipo che attribuisce l'acquisizione delle abilità assistenziali a
doti innate e misteriose, si nota che la cura mette in gioco una metodologia di relazione fondata sulla
percezione e valutazione della “pertinenza dei contesti ai significati” e sulla capacità di oggettivare la
relazione di cura attraverso le pratiche dell'osservazione di sé e dell'altro, attraverso un “ascolto attivo”, una
dialettica di vicinanza e distanza, di coinvolgimento e distacco.
Secondo le antropologhe ELS VAN DONGEN e RIEKJE ELEMA il nursing è un'”arte di toccare”, in
quanto centrale è l'efficacia del tocco, che riveste un doppio significato dato dall'intreccio inseparabile tra un
aspetto tecnico e una dimensione emozionale → la “tecnica del corpo” messo in atto non è mai una
competenza esclusivamente tecnica: il “gesto di cura” non guarda mai ai corpi come oggetti di un'attività
tecnica, ma è anche contatto emozionale che entra nella sfera dell'intimità.
Il lavoro infermieristico ha infatti a che vedere con gli aspetti più materiali dell'aver cura dei corpi altrui
(lavarli, controllarne le mucose, pulirne il vomito etc.), aspetti della relazione intercorporea oggi al centro
della ricerca antropologica sull'attività del nursing in un approccio che privilegia lo studio delle reazioni
emotive degli infermieri → questa attenzione è importante perché le pratiche di cura non possono essere
considerate se non nella relazione tra i due corpi interessati! La manipolazione del corpo – il toccare – è
un'esperienza centrale del nursing e in quanto tecnica del corpo riflette idee e riferimenti culturali, norme e
valori sociali. Toccare è un'azione differenziata e relativa a variabili (età, genere, rapporti di forza etc.) che
influenzano la risposta emozionale derivante dal contatto fisico quotidiano tra infermieri e pazienti e al
tempo stesso la consapevolezza dell'importanza di tale dimensione corporea della pratica infermieristica
contribuisce a fornire criteri di valutazione per una soddisfacente prassi curativa. -> per questo motivo la
dimensione della corporeità nelle cure infermieristiche ha la sua centralità.
L'antropologia, attraverso lo studio delle funzioni di mediazione nella pratica infermieristica cerca quindi di
ridefinire lo spazio ed i contorni dei concetti di “cura” ed “assistenza” che appaiono così più estesi di quelli
di “terapia” e “trattamento” → diversità data dal fatto che le competenze assegnate all'infermiere definiscono
uno spazio di maggiore prossimità ordinaria con il paziente, una vicinanza concreta che si esprime attraverso
una consapevolezza della comunicazione intercorporea.

9.2.Oltre i confini fra terapia e cura.


Cura distinta in due significati nel linguaggio della biomedicina:
1. ogni trattamento prescritto destinato a ripristinare lo stato di benessere.
2. Trattamento destinato a ripristinare lo stato di salute.
└→ Scissione che produce due tipi di riduzione:
1. identificando la cura con il trattamento, essa è ridotta all'insieme di prescrizioni e mezzi terapeutici diretti
al paziente per ristabilirne la salute.

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2. Separazione sul piano ideologico tra cura intesa nel senso generale del prendersi cura e cura definita come
terapia, conseguente distinzione tra salute e benessere → il benessere sarebbe “la qualità o condizione di chi
sta bene, in particolare di chi è decisamente forte e in buona salute”: la salute l'assenza di malattia.
└→ Per svelare ed eliminare questa contraddizione è forse sufficiente esaminare il concetto di “malattia
incurabile”:
1. secondo la prima parte della definizione biomedica, di potrebbe dire che quando il trattamento non
ripristina il benessere, il soggetto è incurabile
2. in base la seconda parte, le “malattie incurabili” sono invece quelle non trattabili e non reversibili in
salute, ovvero non “guaribili”.
└→ la distanza che separa il concetto di “inguaribile” da quello di “incurabile” sta nel fatto che l'incurabilità
non è una condizione oggettiva, ma risponde sempre a una rinuncia volontaria dell'esercizio di cura, ovvero è
una condizione di abbandono conseguente all'assenza o al rifiuto di una cura.
Secondo la visione antropologica non esistono malattie incurabili, in quanto ogni parola, gesto etc, può avere
un'efficacia di cura sullo stato di dolore e sofferenza su paziente, che non è mai incurabile, ma è
semplicemente lasciato solo.
Anche la definizione biomedica di “inguaribilità” non è una condizione oggettiva e universale, ma la
constatazione di uno scacco che la biomedicina subisce rispetto alla propria potenzialità di azione
terapeutica. -> Tale misura della curabilità in base ai propri poteri di guarigione si rispecchia nell'ulteriore
distinzione biomedica tra curabilità “radicale” -con possibilità di guarigione – e “palliativa”, che agisce
alleviando i sintomi senza incidere sulla patogenesi della malattia, rinunciando consapevolmente alla
speranza di guarigione. -> La cura palliativa (da pallium, mantello, quindi coprire con un mantello,
nascondere) è una cura che “copre” e “nasconde” lo stato “reale” del paziente morente, insomma un inganno,
un velo pietoso steso sul morente, come se fosse già morto. Allevia comunque il dolore ed è solitamente una
cura alla “fine della vita”, cosa che solleva problemi di carattere etico relativi alla definizione di quale sia la
cura “giusta” per i morenti, in quanto tale lenimento della sofferenza può identificarsi con l'eutanasia poiché
alcune forme di cura palliativa si configurano come lente eutanasie attive.
Di fronte a queste competenze risulta riduttivo il concetto di “empatia” => invece di metterci nei panni del
malato rischiamo di mettere lui nei nostri → secondo la Cozzi l'empatia è un concetto misterioso che non
fornisce indicazioni operative sullo sviluppo di metodi e capacità per cogliere il sapere implicito e
inarticolabile incorporato nell'esperienza dell'altro. Nella prassi reale l'empatia è una difesa del paziente che
gli infermieri tendono ad esercitare nei confronti del medico e delle strutture sanitarie. ┐
Cozzi propone allora una metodologia che definisce di “exotopia” basata sulla capacità di osservare le
emozioni “empatiche” non per assimilare l'altro a noi, integrandolo in un codice condiviso, ma per
sviluppare la capacità di esplorare nuovi mondi di condivisione possibile → in essa sta il senso di una prassi
curativa dialogica e trasformativa. Per far tesoro delle emozioni che scaturiscono dalla pratica di cura occorre
dunque riflettere sul fatto che esse hanno di ci informano su ciò che accade a noi, non all'esterno.
La gestione dell'ambiguità nella pratica infermieristica consiste dunque nella capacità di interrogare il sapere
che emerge dalla pratica stessa → in questo senso imbarazzi, conflitti, irregolarità etc. dell'esperienza reale
non devono essere ignorati o rimossi perché possono ampliare i punti di vista comunicando qualcosa di più
della situazione nella quale si agisce. Ed è su queste esperienze continuamente irregolari che la vita
professionale infermieristica è fondata.
La pratica etnografica in campo biomedico ha dunque il compito di recuperare il sapere che emerge nelle
concrete interazioni che si verificano in specifici contesti istituzionali, assumendolo come patrimonio di
conoscenza ed esperienza nei rapporti di cura, in modo da esplorare nuove forme di comprensione di se
stessi e degli altri → l'etnografia elabora così un sapere dei confini, che rivendica la parità di dialogo tra sé e
gli altri, senza pretendere di colonizzare l'altro (metterlo nei nostri panni).
n.b. È nel contesto specifico delle cure intensive, nella mediazione tra i soggetti presenti sul campo, che si
nota questa potenzialità del metodo etnografico nell'antropologia medica.

9.3.Questioni di vita e di morte.


Ultimi dieci anni: ricerche etnografiche hanno messo in luce le trasformazioni prodotte dalle innovazioni
tecnologiche sul campo biomedico e nella riconcettualizzazione della vita umana, studiando le pratiche
istituzionali di riconfigurazione dei confini tra la vita e la morte nel contesto delle moderne biotecnologie.

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Scoperte di ingegneria genetica e biologia molecolare (hanno aperto la possibilità di produrre sequenze
cellulari umane immortali), definizione istituzionale di “morte cerebrale” (in rapporto allo sviluppo del
trapianto e della donazione di organi), nuove tecnologie di procreazione etc = hanno costituito terreni di
ricerca per lo studio delle modalità attraverso le quali le istituzioni contemporanee agiscono sulla vita umana.
Tali sviluppi tecnologici, rappresentati nella cultura biomedica come progresso della ricerca scientifica,
hanno un impatto sia di ordine politico-economico che culturale, in quanto contribuiscono alla messa in
opera di una biopolitica che, attraverso la manipolazione dei corpi umani, ridefinisce le categorie di natura,
soggetto, persona, sé e produce la legittimazione istituzionale e morale di nuove idea di natura, famiglia, vita
e morte.
Ricerca di SHARON KAUFMAN che mostra come le unità ospedaliere di terapia intensiva siano luoghi di
produzione sociale di nuove forme di vita biologica e culturale.
La Kaufman svolge la sua ricerca in un reparto specialistico di un ospedale californiano atto ad accogliere
pazienti in coma permanente o persistente, il secondo del quale produce una forma di vita direttamente
connessa alle istituzioni, alle tecnologie e alle pratiche che la rendono possibile e pensabile.
Reparti ospedalieri come questi sono zone di confine, di ambiguità e cambiamento, zone liminali in cui
appare evidente come le categorie di vita e di morte, lungi dall’essere naturali, siano il frutto di processi
decisionali, di una negoziazione tra i diversi soggetti e istituzioni coinvolti (Stato e attività giuridica, Chiesa,
biomedicina e famiglia) → Kaufam esplora dunque le nuove forme di conoscenza e le nuove pratiche
attivate in questi siti, osservando come esse sorgano in un contesto multivocale di un determinato quadro di
rapporti di forza.
I pazienti in stato di coma permanente (esseri umani non del tutto vivi né biologicamente morti) sono qui
considerati corpi privi di coscienza, soggettività, percezione di sé e degli altri, incapaci di autogestirsi e di
azioni volontarie (che nelle società occidentali definiscono gli individui) → incarnano dunque una forma di
vita non classificabile in relazione all'ordine sociale esistente.
In questi contesti, il passaggio dalla vita alla morte non è una transizione naturale ma il risultato di una
decisione negoziata in un confronto che non si fonda unicamente sul potere dello Stato e dell'istituzione
biomedica, ma su una complessa dispersione dei poteri tra tutti i protagonisti agenti nel campo (in primo
luogo familiari e personale medico).
Due casi osservati dalla Kaufam in cui la negoziazione produce risultati diversi:
1. donna di 65 anni da cinque anni nel centro per un'emorragia che l'ha interamente paralizzata. In seguito
alla sua entrata in uno stato di coma persistente il personale medico considera terminata la sua vita.
Eppure nelle pratiche di cura le infermiere continuano a interagire con la donna come se fosse viva,
ascrivendole dall'esterno una soggettività costantemente riprodotta nella relazione di cura quotidiana (cosa
che fa anche il marito nelle visita) → per marito (rifiuta di staccare la spina) ed infermiere la donna è dunque
viva, immersa in un sonno da cui potrebbe ancora potenzialmente svegliarsi.
Il personale medico considera terminata la vita della signora. Le infermiere, nelle pratiche di cura,
continuano a trattarla come se fosse viva, parlando con lei, toccandola e rivolgendosi con gentilezza. Il
marito è animato dalla speranza, dall’amore e da un forte senso di dovere coniugale. -> In realtà, la signora è
un organismo unico con la macchina che le permette di respirare.↓
Lo statuto di persona attribuito alla donna è dunque mobile, elastico, a seconda di coloro che la osservano e
che entrano in relazione con lei → si assiste in casi come questo a una nuova forma di oggettivazione della
soggettività umana: la definizione della persona e dell'individuo non è più quella fondata sull'autonomia del
soggetto, ma di una nuova interdipendenza tra l'individuo sospeso fra la vita e la morte e le persone che gli
sono legate da vincoli professionali o affettivi. Questa pluralità di voci che si produce attorno alla condizione
corporea di liminalità permanente nel contesto ospedaliero innesta un processo di soggettivazione, cioè di
produzione di un soggetto, che rappresenta una nuova modalità di articolazione delle forme di vita e del loro
significato sociale.
2. Donna ricoverata per una malattia neurologia progressiva di cui è consapevole che poteva condurla alla
morte, motivo per lui lascia disposizioni scritte di non venire sottoposta a cure intensive che prolunghino un
eventuale stato vegetativo. Ma il suo passaggio allo stato di incoscienza è progressivo, e riesce a chiedere a
un certo punto (quando le sue condizioni si stavano aggravando) di essere sottoposta al respiratore artificiale,
cosa che contraddice quanto precedentemente scritto. Quando la donna entra in uno stato di totale
incoscienza, si avvia la negoziazione tra medici e familiari, in cui questi portano avanti la soggettività della
donna espressa nello scritto e non nella richiesta successiva.

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Il caso di questa donna mostra come si determini una convergenza tra malattia, tecnologia, processi
decisionali e pratica morale, in vista di due obiettivi: - la trasformazione della concettualizzazione della
“persona” da senziente e desiderosa di vivere, a insensibile e sofferente, e - la concettualizzazione di un
discorso sulla morte, la soggettività e la capacità di agire. N.b. Il caso mostra come i parametri della
soggettività e della capacità di agire della donna vengano costruiti mentre sono dibattuti. In tal modo la
conoscenza del paziente si trasforma e la sua morte è legittimata.
►I due esempi fanno emergere con chiarezza come la categoria di “persona” assuma un carattere variegato:
essa è rilavorata, giocata e negoziata attraverso la conoscenza e le pratiche impiegate in questo particolare
stato di liminalità. → in questo caso le pratiche connesse alla persona comatosa di configurano come
esperimenti culturali di conoscenza e produzione della categoria di persona. Ciò avviene in forme
diverse da quelle ordinarie, per cui si apre una frattura culturale che dovrebbe spingere all'elaborazione di
nuovi metodi di analisi e nuovi spazi di riflessione più vicini a tali esperienze di quanto lo siano i discorsi
ideologici prodotti dai saperi istituzionali. Si pensi ad esempio al fatto che gli esperti di bioetica non
svolgono inchieste etnografiche di lunga durata in questi siti, a stretto contatto con a prassi quotidiana di
questi luoghi in cui tali dilemmi si generano. ┐
L'etnografia mostra invece che la nozione di “persona” socialmente prodotta in questi contesti è
profondamente diversa da quella occidentale dominante: l'idea di un individuo libero di creare e modellare il
sé. Eppure la sperimentazione sembra arrestarsi su questa constatazione, anziché partire da essa, e questo
avviene perché il coma crea perplessità alla medicina in quando frustra l'azione terapeutica che non sembra
aver alcun risultato, ne’ “reale” ne’ “simbolico” (come invece può ancora accadere in altre malattie croniche
dove resta comunque aperta la possibilità di dialogo con il paziente). La frustrazione nasce anche dal fatto
che l’azione terapeutica è intesa unicamente nella sua funzione di produzione e ricreazione di un sé inteso
come autonomo e riflessivo e, smarrita tale funzione, non riesce a capitalizzare in chiave sperimentale la
produzione di un sé diverso, ovvero a produrre nuove immaginazioni terapeutiche e a trasformarsi in
relazione ad esse, riflettendo sulla frustrazione stessa. L’azione terapeutica resta ancorata alle nuove abilità e
competenze fiorite intorno alla tecnologia.
La genesi dello stato comatoso persistente è stata resa possibile dall'invenzione a fine anni '70 del respiratore
artificiale, cui è seguita l'apertura di centri di terapia intensiva. -> Il respiratore artificiale è in grado di
mantenere le persone in vita per mesi o anni in uno stato vegetativo e apre le possibilità per il trapianto
d’organi in quanto consente agli organi vitali di restare ossigenati anche quando sopraggiunge la morte
cerebrale. Ma le persone attaccate al respiratore non sembrano morte agli occhi di chi le guarda, in special
modo a familiari e specialisti dell'assistenza, cosa che rende la “scelta” una sorta di trappola, in cui le
negoziazioni sono centrate sul dilemma di tenere o no la persona comatosa collegata alla macchina.
Nella prassi, a meno che i pazienti non abbiano dato specifiche disposizioni, essi sono collegati al respiratore
artificiale ed inizia il dialogo con i parenti finalizzato alla scelta.
La dinamica della scelta è molto complessa, ed essa si configura come scelta tra la possibilità di prolungare
la morte “innaturalmente” e quella di “causare” la morte attivamente → l'uso della biotecnologia determina
dunque una nuova assunzione di responsabilità e una nuova forma di esperienza definita “problema
bioetico”, e insieme rimanda alla capacità delle istituzioni di ridefinire l'apparente naturalità della morte che,
mai come in questi casi, si svela come costruzione culturale.

9.4.L'invenzione della “morte cerebrale”.


Storia dell'invenzione della “morte cerebrale” emblematica per comprendere la finzione storica alla base di
questi processi socioculturale connessi alle biotecnologie.
Nel 1959 due neurofisiologi francesi coniano la figura del coma depassè, una sorta di “oltrecoma” nato per
definire il coma nel quale “l'abolizione totale delle funzioni della vita di relazione corrisponde all'abolizione
altrettanto totale delle funzioni della vita vegetativa” → forma di vita che termina con l'interruzione delle
tecniche di rianimazione.
Il coma depassè, facendo cadere i criteri definitori della morte come cessazione di battito cardiaco e
respirazione, apre nuove e più drammatiche realtà parallelamente alla questione di una ridefinizione della
morte, resa urgente dal fatto che le figure di “cadaveri viventi” prodotte dalle nuove tecnologie di
rianimazioni risultano immediatamente ideali per il prelievo di organi da trapianto → necessità data dal fatto
di tutelare i chirurghi da eventuali accuse di omicidio.

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Elaborazione della “morte cerebrale” (prima si usava l’espressione “coma irreversibile”) nel 1968 ad opera
di una speciale commissione nominata dall'Università di Harvard, la quale sostiene l'urgenza della
ridefinizione della morte con due motivi:
1. esigenza di alleggerire il carico eccessivo che grava su pazienti, famiglie ed ospedali in seguito
all'avanzamento delle tecnologie di rianimazione
2. “obsoleti criteri per la definizione della morte possono produrre controversie nell'ottenere organi destinati
al trapianto”.
Ma la definizione della commissione non riesce ad impedire il fatto che fino all'81 vi siano una serie di
conflitti e controversie in molti Stati intorno alle definizioni della morte cerebrale, tanto che si assiste in
questi anni al paradosso per cui una stessa persona può essere dichiarata viva in uno Stato e morta in un altro.
Così nel 1981 una commissione presidenziale negli USA stabilisce che tutti gli Stati adottino una Uniform
Determination of Death Act, immediatamente sostenuta dall'American Bar Association e dell'American
Medical Association, associazioni degli avvocati e dei medici americani. -> Il documento in questione
stabilisce che “un individuo che presenta cessazione irreversibile delle funzioni circolatorie o respiratorie
o cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'intero encefalo, compreso il tronco cerebrale, è morto”.
Se non tutti gli individui viventi possono svolgere queste attività (pensare, interagire, respirare, sbadigliare,
etc), secondo la commissione “ciò che manca nel morto è un insieme di attributi che nella loro totalità fanno
parte della sensibilità di un organismo all'ambiente esterno e interno” → la morte cerebrale si differenzia così
dallo stato vegetativo persistente per il fatto che indica la perdita irreversibile di tutte le funzioni
cerebrali.
MARGARET LOCK mostra come il concetto di “morte cerebrale” sia stato inventato in modo da
istituzionalizzare la definizione di morte per rendere possibile e legale la pratica di trapianto di organi. Infatti
la nozione di morte cerebrale consente agli individui cui venga diagnosticata, ma che ancora respirano e cui
il cuore batte attraverso l’assistenza tecnologica, di essere considerati non più in vita e quindi i loro organi
possono essere espiantati senza problemi legali.
Tuttavia la condizione dei “morti viventi” è ambigua, e perché venga accettata, deve essere resa oggettiva,
credibile e “naturale” → questo spiega per la Lock l'attivazione di pratiche discorsive attraverso le quali la
biomedicina e lo Stato definiscono lo statuto dei “morti cerebrali”. Ma la ricerca etnografica mostra come la
contraddizione del corpo cerebralmente morto produca pratiche di legittimazione che lasciano emergere
dubbi e incertezze. => Se da una parte la rappresentazione che i chirurghi si costruiscono per espiantare
organi è quella di agire su corpi senz'anima o mente (rappresentazione cartesiana), la pratica etnografica
mostra che tale spiegazione costituisce una tecnica di difesa e che nella pratica reale anche i medici vivono
complesse emozioni e dubbi problematici che vengono rimossi o bilanciati → l'etnografia riesce spesso a far
emergere i dubbi che emergono nelle certezze legali di medici e personale dell'assistenza (es. “c'è un
conflitto... devo pensare al corpo come a un recipiente perché devo proteggere me stesso...”).
La ricerca etnografica ha dunque il merito di evidenziare la concretezza dei problemi nei luoghi in cui essi
materialmente si generano in contrasto con il carattere astratto dei dibattiti teorici. Le vere storie di vita dei
pazienti in condizioni vegetative sono infatti socialmente invisibili (nei dibattiti politico-culturali sono
“storie-ombra”, diffuse solo nel dibattito etico), e l'antropologia medica cerca di collocarsi nel punto più
vicino all'esperienza reale, esplorando fratture e contraddizioni che si generano nelle pratiche istituzionali,
recuperando un patrimonio inatteso di saperi incorporati in tutte le azioni di coloro che operano
concretamente sui siti indagati → di fronte all'astrattezza del dibattito pubblico, la vocazione
dell'antropologia medica resta quella di ricollocare nel dibattito scientifico e in quello pubblico il sapere che
si genera dalle concrete esperienze prodotte da persone in carne ed ossa intorno alla condizioni di liminalità
cronica in cui versano i corpi umani sospesi tra vita e morte.

9.5.Il “metodo umano”.


Una critica al modello biomedico della cura ha cercato di mettere in primo piano quella che è stata definita
come necessaria “umanizzazione” del rapporto medico-paziente.
All'interno del campo biomedico sono sorti movimenti autodefiniti “umanesimo medico”, con conseguente
nascita di una disciplina denominata “medical humanities” → area di autoriflessione medica che ha recepito
le suggestioni provenienti da una critica culturale rivolta alla biomedicina da scienze sociali e umane (e in
particolare dall’antropologia medica), ma non sempre ciò ha significato la messa in discussione degli assunti
di base della biomedicina né l'attivazione di un reale processo di cambiamento. -> Al contrario,

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l'umanizzazione -ridotta a pura retorica – nella prassi si è tradotta in forme più raffinate di estensione del
dominio della biomedicina nelle sue forme classiche → riflessione che rischia spesso di considerare come
questione di comunicazione ed empatia un problema che risiede invece nei modi di produzione sociale della
conoscenza e della prassi medica.
In breve, il discorso umanizzante della biomedicina contemporanea. Che ormai sembra penetrare anche nei
percorsi di formazione universitaria, prevede semplici miglioramenti nella relazione medico-paziente che
non mettono in discussione due assunti paradossali:
1. illusione di una neutralità del medico nel rapporto con il paziente
2. pretesa – impossibile – di isolare nello spazio ristretto dell'interazione medico-paziente i più estesi
significati sociopolitici e i più complessi rapporti di forza nei quali entrambi i poli della relazioni agiscono e
sono agiti, in rapporto alle istituzioni sanitarie, allo Stato e al mercato.
└→ assunzioni paradossali perché la dichiarazione di neutralità non fa che occultare la funzione mediatrice
politica del medico fra paziente, istituzioni sanitarie e Stato → stante la funzione di mediazione politica del
medico, il paradosso della neutralità del ruolo del medico sembra orientato proprio a scongiurare le
potenzialità trasformative della relazione di cura. => Una generica umanizzazione della biomedicina che
agisca attraverso ritocchi interni all’assetto medico esistente, e non in una consapevole e organica
ridiscussione del suo stesso paradigma e dei suoi esiti operativi, mette completamente in ombra il potenziale
trasformativo di questo dialogo, sia rispetto al processo di cura, sia rispetto alle istituzioni sanitarie, sempre
più governate dai processi di aziendalizzazione e dal mercato. -> Questo non significa però che moltissimi
medici, che vivono la contraddizione fra assunti dell'ideologia istituzionale e concrete irregolarità
dell'esperienza, non lavorino nella giusta direzione di un reale dialogo con i proprio pazienti.
La vitalità sociale e culturale della biomedicina è dimostrata dalla sua differenziazione interna. Costruita su
fondamenti ideologici raramente discussi sul piano teorico, la sua prassi segnala uno spazio sociale
complesso, ricco di differenze e contraddizioni, dentro il quale si può anche agire per aumentare tale
eterogeneità interna, assumendo funzioni critiche, dialogiche e sperimentali, e al tempo stesso unificando le
forze disperse impegnate in tali azioni.
In questo senso il campo biomedico non è isolato dagli altri campi dell'esperienza sociale e quindi non è
impermeabile ai processi di trasformazione.
Allontanandosi dall'ideologie ultraliberiste che mirano a una distribuzione del diritto all’assistenza pubblica,
l'esperienza reale della relazione di cura può produrre alleanze tra i praticanti del campo biomedico che
possono dar luogo, nella prassi terapeutica, a metodologie e percorsi innovativi che mettono in relazione
persone, oggetti e significati eterogenei, aprendo in tal modo contraddizioni feconde nei luoghi stessi della
produzione della biomedicina.

►L’umanità del medico non è quella indicata nel senso comune, non è nelle sue qualità di “brava persona”,
“paterna”. Anzi, il “paternalismo” latente che anima le retoriche dell’umanizzazione offre a comportamenti
come la chiusura autoritaria e antidialogica una maschera di bontà che conferma l’idea che il medico sia il
soggetto che incarna e padroneggia la “verità scientifica”, “unica”, “naturale”, ma propone unicamente di
rendere tale indiscutibile verità più comunicabile, in primo luogo facendo in modo che i pazienti vi abbiano
accesso e la condividano. In realtà, ciò che conta perché si avvii un reale processo di trasformazione
dell’ordine costituito dal discorso e dalla pratica biomedica è la messa in discussione della propria identità e
dei presupposti e degli assunti fondamentali su cui si regge il proprio sapere.
Per avviare una critica agli assunti base della biomedicina occorre considerare il rapporto fra medico e
sofferente come un rapporto unico, un’interazione specifica, sempre negoziata e diversa dalle altre, insomma
un rapporto “umano”: non esiste infatti il rapporto medico-paziente in senso generale e teorico, ma esistono
infiniti e diversi rapporti umani fra persone reali che dovrebbero negoziare – sulla base dei propri reciproci
saperi, riferimenti culturali, emozioni – la gestione e il trattamento di una condizione di malessere.
In questo quadro, il riduzionismo biologico nella definizione del corpo, della salute e della malattia rischia di
occultare le implicazioni politiche del rapporto umano fra medico e paziente.
▲La questione dell’umanità significa ripensare il concetto stesso di “natura umana”, cioè rispondere alla
domanda “cos’è un uomo?” => Gramsci:<l’uomo è un processo, precisamente un processo dei suoi atti; la
natura umana è il complesso dei rapporti sociali>.

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