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Antropologia Medica
Università degli Studi di Perugia (UNIPG)
65 pag.
INTRODUZIONE.
Antropologia medica => Nata inizialmente con l'obiettivo di analizzare (aiutando la ricerca antropologica) i
modi e le forme delle diverse società di vivere, rappresentare e fronteggiare l'esperienza della malattia,
questa disciplina ha poi cercato di coniugare l'interesse per le esperienze del corpo, della salute e della
malattia con la ricostruzione di processi sociali, culturali, politici e istituzionali storicamente determinati.
L'antr. med. ha concettualizzato le stesse nozioni di "corpo", "salute" e "malattia", mettendo in discussione il
loro presunto carattere naturale per poi osservare le modalità storiche attraverso le quali il concetto di natura
è stato culturalmente costruito sulla base di assunti ideologici considerati non criticabili.
Oggi l'antr. med. è una scienza critica, sperimentale e dialogica, che produce ricerche etnografiche e
riflessioni teoriche specifiche sul modo in cui corpo, salute e malattia sono definiti, costruiti, negoziati e
vissuti in un continuo processo dinamico, osservabile nella trasformazione storica con una metodologia
comparativa attenta alla variabilità dei contesti culturali, sociali e politici.
L’ant. Med., come l’antropologia in generale, attribuisce un ruolo centrale alla ricerca sul campo.
L'etnografia (ricerca antropologica che si incentra sulla permanenza di lunga durata dell’antropologo sul
proprio territorio di ricerca e sul confronto con le persone con le quali lavora), non va intesa come prova di
tesi pregresse, ma come luogo di costruzione e insieme di messa all'opera del sapere teorico --> non è solo un
metodo di ricerca, ma una prassi di ricerca, per questo oggi, in ambito antropologico, troviamo un
superamento della distinzione tra "teoria" e "pratica" scientifica, nel riconoscimento che la stessa produzione
della teoria scientifica è una pratica sociale, messa in opera attraverso gesti ed azioni concreti. Insomma,
l'antropologia elabora di volta in volta il proprio sapere situandosi all'interno dell'esperienza concreta degli
attori sociali che, come l'antropologo, vivono sulla propria pelle la dialettica continua tra libera capacità di
agire e quadro dei rapporti di forza in cui tale capacità si dispiega. --> l'antropologo oggi sa di essere
pienamente coinvolto nelle realtà esplorate (proprio coinvolgimento soggettivo, affettivo ed emotivo) e non
tende più a ridurre le persone osservate in meri e passivi oggetti di ricerca.
Diversi passaggi nel percorso della disciplina:
1. fase iniziale - primi del '900, anni di grande successo per scienze biologiche e biomedicina in Europa –
antr. med. caratterizzata da un certo biologismo --> forma di subalternità al paradigma positivista delle
scienze biologiche, che l'antropologia fa in un certo modo proprio, finendo con il sottovalutare i fattori
extrabiologici storico-sociali altrettanto importanti nell'esperienza umana.
2. rifondazione delle ricerche di antropologia medica sul concetto di cultura, alla cui base vi e l'idea del
carattere culturalmente costruito della corporeità, da cui deriverebbe la variabilità culturale della soglia tra
salute e malattia. Gli antropologi osservano le diverse forme culturali attraverso le quali i soggetti umani
esprimono sofferenza, emozioni, dolore. Diversamente dalle ideologie scientifiche dominanti, corpo, salute e
malattia non sono viste più come indiscutibili realtà biologiche totalmente naturali.
3. fase, più recente, di riconoscimento dei limiti dell'approccio culturale (primo tra tutti, quello di favorire
una dicotomia tra Noi – occidentali e razionali,- e Loro – non occidentali e non razionali, primitive -) -->
affermazione di un'esigenza di critica del concetto di "cultura" astratto. Attenzione in questo modo spostata
dalle visioni del mondo collettive e condivise, alle pratiche (concrete azioni sociali) e ai soggetti protagonisti
di tali azioni.
Si è così superata una visione essenzialista della cultura (intesa come cosa posseduta dalle persone) per
osservare piuttosto i modi di produzione della cultura e rivalutando le differenziazioni interne ai diversi
contesti culturali, esotici o endotici, cioè esterni o interni all’Occidente). Ora cultura intesa come processo
incessante di produzione materiale e simbolica.
4. fase di ricerca etnografica in contesto occidentale, che mostra il rapporto tra cultura e processi di
istituzionalizzazione dei saperi medici. In questo modo, da un lato si è giunti a valutare le diverse posizioni
dei soggetti sociali, dei loro punti di vista, dei loro modi di dire, di fare e sentire il problema della sofferenza
e della malattia; e dall'altro hanno illuminato i processi di estensione dei saperi e poteri biomedici in atto
(definiti processi di medicalizzazione), che mostrano come le istituzioni biomediche giungano a stabilire un
dialogo intimo con i soggetti sociali.
La biomedicina, come ogni istituzione: fonte di attività culturale permanente, che esercita la sua autorità non
solo in virtù di un proprio ordinamento normativo, ma anche attraverso la formazione organizzata di un
consenso naturalizzato (sentito come spontaneo dai soggetti in gioco – attori sociali- iscritto direttamente nei
loro corpi). La biomedicina costruisce i corpi e ricalibra la propria azione sui corpi stessi, in una dialettica
continua. => es. stabilisce i confini tra vita e morte, tra salute e malattia, normale e patologico; fornendo
simboli, schemi, nozioni per pensare il corpo, la persona, il sé, la sessualità.
Gli antropologi che hanno effettuato ricerche in campo biomedico hanno mostrato come, anche all'interno di
uno stesso contesto culturale, sussistano diverse posizioni, talvolta anche tra loro conflittuali, aiutando così a
superare l'idea di "Appartenenza culturale" immaginata come fissata una volta per tutte.
Nell’antr. med. Contemporanea si è andata affermando la consapevolezza di un necessario sviluppo
scientifico in senso riflessivo => si sono recentemente sviluppate molte correnti che insistono sul rischio da
parte del mondo scientifico di trasformare in oggetti le esperienze di corporeità e sofferenza. --> necessità di
guardare a queste realtà come a realtà storiche, ovvero negoziazione e costruzione sociale, culturale e politica
di esse => esplorare tali esperienze osservandole come processi sociali, storici, culturali e politici che
svolgono un ruolo centrale nei diversi contesti umani.
Nel campo antropologico prevale oggi un approccio riflessivo, in grado di riflettere sul carattere proiettivo
del nostro sguardo, sul fatto cioè che noi costruiamo oggetti col nostro sguardo e la nostra azione
scientifica, e non costruiamo oggetti che già esistono in sé in modo naturale (sono consapevoli che la
neutralità in campo scientifico è sempre un'illusione ingenua – di chi non si rende conto di vivere ed
orientare l’esperienza della conoscenza anche attraverso un proprio coinvolgimento soggettivo- o una
rappresentazione interessata – di chi mira a occultare questo coinvolgimento per costruire la propria autorità
su una presunzione di verità-). Se costruiamo gli oggetti col nostro sguardo, dobbiamo imparare a osservare
il nostro sguardo, modellato sulla base di un’esperienza, cioè all’interno di un percorso formativo orientato
da specifiche coordinate storico-culturali e sociopolitiche. Antr. med. consapevole del fatto che lo stesso
antropologo è dotato di un corpo che non è possibile estromettere dalla scena conoscitiva.
Un utile ossimoro. antr. med.: branca dell'antropologia non unitaria, ma costituita da diversi indirizzi teorici,
anche tra loro contrastanti. → Prova ne è il dibattito circa la denominazione della disciplina => in
Italia,"antropologia medica" grazie alla costituzione della Società italiana di antropologia medica -SIAM- da
parte di Tullio Seppilli: altrove si preferisce "antropologia della cura", "antropologia della malattia" etc.
Anche nella stessa Italia non manca comunque il dibattito sulla denominazione della disciplina, fra gli
studiosi che propongono di definirla “antropologia dei saperi medici”, “antropologia della salute” e altri che
avanzano perplessità sull’uso di queste etichette specialistiche, poiché rischiano di far frammentare il
progetto unitario dell’antropologia.
Diverse sono le ragioni nella scelta dell'etichetta disciplinare: accademiche, politico-culturali, di confronto
tra intellettuali etc. (carattere arbitrario delle etichette disciplinari) Ad ogni modo queste distinzioni interne
nella denominazione servono soprattutto ad indicare il campo tematico specifico su cui si indirizzeranno le
ricerche, nella consapevolezza che ciò non vuol dire separare in settori non comunicanti le aree del sapere
prodotto dagli antropologi. Il progetto antropologico risponde infatti all’intento di mettere in luce le relazioni
tra campi del sapere apparentemente separati e di cogliere le distinzioni interne a campi del sapere
apparentemente omogenei.
Altre volte, il dibattito è scaturito dal problema che la denominazione "antropologia medica" porta con sè: il
rapporto tra antropologia e medicina (rischio di contaminazione in una rapporto troppo stretto tra le due
discipline?) Ma questo potrebbe essere visto anche come una sfida => Per B. Good la nozione di
"antropologia medica" potrebbe essere vista come un ossimoro (una contraddizione di termini), visto gli
ambiti (scienze umani e scienze biologiche) così diversi che mette in relazione. Eppure per Good questo
potrebbe essere anche uno stimolo, lavorando questa nuova disciplina sui confini disciplinari ed esaltando il
ruolo dialogico dell'antropologia. (dialogo già attivo nella pratica etnografica, in cui medici ed antropologi si
affiancano per lunghi periodi). Un dialogo tanto più efficacie quando entrambi si rendono disponibili a
ridefinire i concetti e il vocabolario che orienta le loro rispettive scienze.
parte prima
CORPO, SALUTE E MALATTIA: ESPERIENZE E RAPPRESENTAZIONI.
[problema della ridefinizione antropologica delle figure del corpo, della coppia salute e malattia e
dell'esperienza del dolore]
Corpo, salute e malattia: non sono gli oggetti di studio dell’antr. med.: sono piuttosto figure concettuali che
agiscono simbolicamente e materialmente sui corpi viventi, non separabili quindi dai campi sociali e dalle
forze storiche che intervengono attivamente alla loro definizione.
parlare del corpo significa indagare dunque un'area in cui processi vitali e pensiero si influenzano
reciprocamente. (macchine concettuali che tentano di catturare l’esperienza vivente in una definizione o
rappresentazione astratta)
Dal punto di vista antropologico: “corpo” non come oggetto naturale, ma come prodotto storico, cioè
costruzione culturale che varia nei vari contesti storico-culturali --> l'antr. medica, adottando una
metodologia critica di tipo culturale, politico e storico; contestualizza i processi percettivi e di conoscenza
nel rapporto tra corpo e mondo e contribuisce a sviluppare una certa riflessività sulla concreta esperienza del
vivere in società.
[tre capitoli:
1. figure del corpo: sui modi di costruzione sociale e culturale del corpo. corpo come strumento privilegiato
per ripensare come produzioni storiche sia la separazione mente/corpo sia l'opposizione salute/malattia.
centrale qui la nozione di incorporazione.
2. salute e malattia: una coppia ambigua: problematica variabilità culturale, storica e politica di queste due
nozioni, in rapporto alle definizioni di normalità/anormalità. coppia ambigua perché non opposizione ma
coppia dialettica, con un ruolo centrale nella vita sociale, nella produzione culturale e nei rapporti di potere.
3. l'esperienza del dolore: sul carattere paradossale della separazione tra mente e corpo, fatta vacillare
maggiormente nell'esperienza del dolore, la quale stimola nuovi strumenti concettuali e nuovi spazi di
dialogo tra biomedicina ed antropologia medica.]
→ analisi della percezione e della pratica fondate sull’incorporazione spinge a superare il dualismo
oppositivo convenzionali tra soggetto e oggetto della conoscenza, studiando in che modo le esperienze e le
rappresentazioni culturale siano costituite ed oggettivate in un processo corporeo continuo →
l'incorporazione consente così di comprendere la base esistenziale ed emozionale dei processi storici, delle
dinamiche sociali e delle produzioni culturali, comprese le immagini del sé, della persona e dell'individuo,
del malessere e del benessere; che non sono naturali ma sono prodotti culturali costruiti sia attraverso
l'incorporazione di forze esterne che forniscono strumenti per pensare la nostra stessa soggettività, sia
attraverso l'oggettivazione delle proprie esperienze corporee.
1.4. Nervi
studi sui nervi (particolare categoria di malattia, a metà tra saperi biomedici e saperi popolari) come esempio
della rilevanza esistenziale, sociale e politica dei processi di incorporazione.
Termine “nervi” spesso associato a esperienze di malessere indefinite (es. crisi di nervi, sentirsi nervosi,
nevrosi): i sofferenti usano un vocabolario molto articolato per definire queste esperienze di malessere; ciò
indica una difficoltà nella rappresentazione, in quanto ci troviamo di fronte ad una forma incorporata di
sofferenza sociale.
1. Studio sui nervi in Costa Rica e in Guatemala di Setha M. Low. => • etichetta di nervios applicata ad
ampia gamma di sensazioni , emozioni e comportamenti (es. paura, tremore, pianto, insonnia,
batticuore, autolesionismo, ecc). • Causa dei nervios rappresentata come biologica o genetica, sia
nelle spiegazioni specialistiche biomediche che nel discorso ordinario • nell'esperienza reale, però,
l'incidente che provoca il malessere è sempre di natura sociale ed emozionale
• In Costa rica, nei paesi rurali, nervios soprattutto tra le donne, in particolare nel momento in cui si
formano le famiglie o in seguito ad eventi traumatici. Anche nelle città si evidenzia che l'esperienza
vissuta dei nervios corrisponde a un'incorporazione della sofferenza connessa a fattori sociali,
economici e politici → corpo come mediatore tra il sé e la società, come luogo quindi di
rappresentazione delle forze sociali.
2. ricerca etnografica di N Sheper-Huges: • analoghe manifestazioni anche tra coltivatori salariati delle
bidonville nel nord-est del Brasile. → cadono improvvisamente al suolo, in preda appunto ad un
“attacco di nervi”, che rappresentano in parte metafore codificate attraverso cui i braccianti
esprimono la loro precaria ed inaccettabile condizione di malnutrizione cronica e bisogno, e in parte
atti di sfida e dissenso che mostrano il rifiuto di sopportare questa realtà insopportabile. (lavorano
per 1 dollaro al giorno come tagliatori di canne da zucchero fin dall’età di 8 anni) • Anche donne
soffrono di questi attacchi in seguito ad eventi traumatici → • sistema nervoso come una metafora
incorporata del “sistema sociopolitico” • per S-H agitazione nervosa come forma di critica sociale
incorporata: malattia come “ribellione incarnata”, strumento dei deboli per denunciare una situazione
inaccettabile.
3. Altri studi dimostrano come la medicalizzazione dell'esperienza nervosa non sia solo una forma di
occultamento prodotto dalle istituzioni, ma anche una tattica attivata dagli stessi soggetti sofferenti 1.
inchiesta sui nevra presso le immigrate greche in Canada di Margaret Lock (1990): • operaie
sottopagate, costantemente in preda a stanchezza, nervosismo e ansia → non connettono condizione
economica e stato fisico, ma cercano di medicalizzare il proprio malessere in modo da legittimarlo
come malattia. • In questo caso, le categorie mediche sono strumenti per <dar voce all'esperienza
soggettiva delle donne greche immigrate> → comprensione del disagio nei termini delle
biomedicina come strategia di legittimazione del malessere.
Dimensione corporea del sapere scientifico: a lungo scarsamente considerata, quasi mai oggettivata nella
pratica scientifica e raramente rappresentata nella scrittura scientifica → formazione di una dicotomia tra
scrittura scientifica e scrittura letteraria (- scientifica: risultati oggettivi, - letteraria: diari con confessioni
intime, in cui si mettono in scena anche le emozioni e le sensazioni fisiche dello scienziato. Scrittura non
destinata al pubblico a differenza dei saggi scientifici, che dovevano essere estranei al corpo dello
scienziato).
→ sempre nel 1967, in Italia, Franco Basaglia riflette sulla dimensione corporea del rapporto tra medico e
paziente → incontro in cui, sebbene richieda la presenza del corpo di entrambi, si considera quello del
paziente come unico presente sulla scena, come corpo passivo e anatomico, unico oggetto dell'indagine
medica. Non si tratta di un incontro reale, ma di un incontro fra un soggetto ed un corpo cui non viene data
altra alternativa oltre quella di essere oggetto agli occhi di chi lo esamina>.
In questo senso: • Corpo del medico risulta rimosso
• corpo del paziente -a cui viene sottratta la capacita di agire – espropriato
n.b. Studi antropologici più recenti hanno dimostrato come non sia esattamente così, ma la dinamica di
relazione sia più complessa: nel rapporto medico-paziente, per quanto la relazione possa essere asimmetrica,
vi è sempre un incontro reale in cui la capacità del paziente di agire è sempre potenzialmente attiva.
Inoltre la presenza corporea del medico può emergere in modo ineludibile a partire da contraddizioni che si
possono verificare in circostanze particolari, ad esempio quando è lo stesso medico ad ammalarsi, cosa che
lo porta in una crisi che spinge il medico (apparentemente osservatore neutrale dei corpi sofferenti) a
confrontare l'immagine del proprio corpo vissuto con quella del corpo del paziente, costruita nel corso della
sua formazione e della sua pratica medica. → malattia del medico incarna fallimento che la corporeità
vissuta infligge all'idea di una corporeità oggettivata, producendo una contraddizione che spinge il medico
stesso a esercitare un’azione critica rispetto al proprio retroterra ideologico.
Si crea una contraddizione tra esperienza corporea diretta e uso dei concetti teorici della disciplina.
Insomma, nella pratica la rimozione del corpo dello scienziato è una mistificazione, è un paradosso
impossibile, frutto di una negazione più o meno consapevole legittimata sul piano ideologico diversamente a
seconda della disciplina specifica.
Es. la rimozione delle proprie emozioni è costantemente rappresentata come indispensabile da parte dei
chirurghi, mentre è più spesso ritenuta controproducente da parte dei pediatri e degli psichiatri. Ciò tuttavia
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Necessità di riconsiderare a questo punto la paradossale rimozione del corpo dall'impresa conoscitiva
scientifica occidentale, esplorando la costruzione ideologica che la produce e giustifica: la separazione
gerarchica mente pensante-corpo come suo supporto.
II) La teoria è diversa = Cartesio ammise il rapporto tra mente e corpo, seppur sosteneva ancora un
primato della prima sul secondo conservando la distinzione tra io-pensante e l’ io-meditante, sua
estensione corporea. (sensazioni come fame, sete, dolore, ecc non sono altro che certi confusi
modi di pensare che provengono dall’unione e dalla quasi mescolanza della mente con il corpo)
→► Più che essere l’autore di un grande “errore”, secondo Damasio, Cartesio sembra vivere vivere una
profonda contraddizione: quella di una distinzione teorica che si rivela inadeguata nell’esperienza pratica
della vita quotidiana, elaborata lontano dall’esperienza vissuta nella realtà storica dell’azione quotidiana
e dei rapporti sociali.
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► Le riflessioni di Cartesio sono state tentativi per cercare di dare una risposta all’esperienza
dell’uomo nel mondo. Il suo modello dicotomico, ereditato dalla filosofia classica, ha dominato sul piano
ideologico per la costruzione dei saperi in Occidente. Anzi, la separazione è diventata
un principio ontologico considerato universale e indiscutibile. Su di esso si è fondata la
costruzione dei saperi occidentali, strutturati su rigide opposizioni: natura/cultura, passione/ragione,
irrazionale/razionale, generando distinzioni gerarchiche tra generi, mentalità, nazionalità.
In realtà, il mito della dicotomia mente/corpo ha incominciato ad incrinarsi già al momento della sua
formulazione, facendo emergere una contraddizione originaria: la vita non sembra iscriversi in quella
dicotomia, anzi si ribella ad essa producendo feconde contraddizioni che l’osservazione scientifica deve
rimuovere.
Una delle conseguenze di questo modo di ragionare per opposizioni è stato quello di separare l’umanità in un
“Noi” (Occidente spirituale) e un “Loro” (Non-Occidente selvaggio, materiale). => Etnocentrismo (compito
dell’antropologia è eliminarlo)
Michael Lambek, riprendendo alcune ricerche svolte in Mozambico e in Madagascar, mostra come entrambe
le teorie, quella dualista (basata sulla scissione mente/corpo) e quella monista (basata su un’idea di unità),
possano essere rintracciate in tutte le società. Ma, in tutte le società in cui il dualismo mente/corpo è diffuso
genera contraddizioni: sostenuto dalla teoria, entra in crisi nella pratica.
Come ha dimostrato l’antropologo Laurence J. Kirayer, tale contraddizione si verifica anche nel campo
biomedico. La medicina occidentale è stata spesso rappresentata e criticata come sistema basato sul
dualismo e sul riduzionismo (cioè sulla separazione netta fra mente e corpo e sulla riduzione di ogni aspetto
sociale, culturale ed emozionale al dato biologico oggettivo). Tuttavia, tale paradigma, pur orientando le
pratiche della biomedicina, non è in grado di determinarle in maniera meccanica o automatica. Gli operatori
dell’ambito biomedico, infatti, adeguano le loro pratiche a valori di riferimento che hanno incorporato nel
percorso di formazione, ma possono coglierne la contraddizione per prenderne le distanze e agire in senso
trasformativo. Sono corpi-soggetto dotati di capacità e intenzionalità creativa.
Emily Martin muove una critica alle neuroscienze contemporanee, le quali tendono a interpretare il rapporto
mente/corpo in termini naturalistici: cercando cioè di spiegare le attività sociali umane attraverso i
meccanismi neurali e i processi cerebrali. -> Anche se questo campo di ricerca sembra avvicinarsi all’idea di
un intreccio fra dimensione mentale e corporea, esso nasconde un certo neuroriduzionismo, ovvero il
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Ciò è ancora più evidente se si osserva la varietà delle rappresentazioni culturali del corpo, della persona,
del sè, dell'individuo. Ad esempio, non tutte le culture umane concettualizzano “il corpo” come un'entità
individuale. In Brasile, tra i Kayapo studiati da Turner, manca un termine specifico per definire il “corpo”
individuale che viene indicato come la “carne di qualcuno”.
Lévi-Strauss racconta il caso dei missionari in Amazzonia, osservatori severi dei tatuaggi tracciati sui volti
dei Caduveo. => il missionario è incapace di comprendere una pratica corporea che lo scandalizza (perchè
gli indigeni alterano l’apparenza del viso, opera del Creatore?), nè sa chiedere a se stesso il perché di questo
scandalo: per farlo egli dovrebbe denaturalizzare la sua stessa appartenenza e interrogarsi criticamente sul
fascino o sul senso di repulsione che quei ricami esercitano i suoi occhi. Al contrario egli rimuove
l'emozione e giudica insana incomprensibile quella manipolazione del corpo, escludendo l'esistenza di corpi
diversi da quelli concepiti dal cristianesimo europeo. E’ a questo punto che gli indigeni chiedono ai
missionari, incrociando il viso non tatuato: < perché siete così stupidi? Perchè non vi dipingete?>>. Per loro
bisognava dipingersi per essere uomini, colui che restava allo stato naturale non si distingueva dal bruto.
I missionari avrebbero potuto trarre un buon insegnamento da quel faccia a faccia, riflettendo sul fatto che
l'identificazione fra “uomo” e “cristiano” non è un dato naturale: se chi non è battezzato per il missionario
era un animale, un non-uomo, per il suo interlocutore caduveo il volto non tatuato era invece segno di
disumanità.
Incapaci di riflettersi nel volto tatuato dei Caduveo, i missionari oggettivavano quelle pratiche distanziandole
con giudizi etnocentrici, prontamente ricambiati dai loro interlocutori.
Come mostra Lévi-Strauss, il missionario, dopo aver giudicato quei disegni come <un’artificiosa bruttezza
opposta alle grazie della natura>, si contraddice, affermando che difficilmente le più pregiate tappezzerie
europee potrebbero eguagliare la bellezza di queste pitture. Ma alla fine il dubbio ha la peggio, e il gesuita
scorge il demonio in quei corpi dipinti. Formato a un'idea dell'uomo fatto immagine e somiglianza del dio
Cristiano, egli non riesce a straniare la sua appartenenza: per comprendere quei tatuaggi dell'altro avrebbe
forse dovuto rispecchiare se stesso.
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[In genere Cartesio è considerato anche l'inventore di una concezione occidentale del sé, inteso come entità
unica e non trasferibile. In realtà, come ha notato l'antropologo statunitense Paul Rabinow, proprio Cartesio,
negli scritti in cui rievoca le sue esperienze teatrali, mostra come sia possibile per tutti operare una continua
plasmazione del proprio s'è, riflettendo sul l'uso delle maschere degli attori per celare le emozioni o sulle
tecniche di mimetizzazione utilizzate da viaggiatori in Paesi stranieri per passare inosservati e non essere
individuati come estranei.]
Le ricerche etnografiche hanno mostrato come altre culture umane hanno prodotto costruzioni diverse da
quelle dell’individualità, considerando l’essere umano come dividuo. -> Nozione di dividualità: identità
trans-individuale fondata su una concezione intersoggettiva delle persone.
Le persone si definiscono come persone relazionali, cioè appunto dividuali.
D’altra parte, aspetti dividuali e individuali concorrono alla definizione della persona umana.
L’identità corporea, quindi, non è un dato naturale, fisso, ma un gioco di rappresentazione: si fonda sulle
proprie emozioni e si produce e riproduce continuamente nel rapporto con gli altri. La
definizione antropologica di identità corporea, intesa come meccanismo relazionale e quindi come un
processo in continua trasformazione, è diversa dalle concezioni essenzialiste dell’identità che riscontriamo
nel significato originale che assume nelle scienze occidentali. (aggettivo “identico” inteso come perfetta
somiglianza) =>L’identità è considerata una disposizione che si acquisisce durante la formazione della
propria personalità nell’infanzia e che tende ad essere fissa nel tempo. Il distanziamento da essa era
considerato come devianza, disturbo psichico. Esempio, le identità ambigue in campo sessuale: storicamente
oggetto di classificazioni essenzialiste e violente, spinte fino alla persecuzione, vedevano l’azione congiunta
di Stato, Chiesa e biomedicina, attraverso l’internamento nei manicomi e nelle carceri di soggetti la cui
identità sessuale non si identificava né nel maschile né nel femminile e venivano pertanto considerati folli o
devianti dalle tre istituzioni.
Altro es. = Controllo del corpo femminile dalla Chiesa, dallo Stato e dalla biomedicina: l’azione di
classificazione istituzionale del corpo femminile è un processo di lunga durata. => Ciò è evidenziato
dall’analogia tra isteria (categoria elaborata dalle istituzioni mediche) e stregoneria (coniata dalle istituzioni
religiose). ┐
Streghe, cioè cattive cristiane, erano considerate le donne che praticavano saperi religiosi o terapeutici
lontani da quelli ufficiali.
Nel caso dell’isteria, in realtà, si trattava di forme di medicalizzazione di un tipo di femminilità che
intendeva sottrarsi ai valori dominanti (in primo luogo una sessualità unicamente votata alla procreazione). -
> L’internamento delle isteriche consentiva di escludere dallo scambio sociale figure che le famiglie e le
comunità consideravano devianti perché non riuscivano più a controllare. Stato,Chiesa e biomedicina sono
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Uno studio di Adelina Talamonti sulla costruzione del “ corpo diabolico”, condotto attraverso l'osservazione
etnografica di un rituale esorcistico cattolico contemporaneo, mette in evidenza come la manipolazione
fisica del corpo dell’esorcizzata sia un elemento fondamentale nel processo rituale. => Il rituale agisce sulle
forme di incorporazione e si configura come un dispositivo di addomesticamento del corpo.
Il tentativo di ristabilire la salute attraverso la salvezza dell'anima è di fatto praticato con una più profana
manipolazione del corpo -> in tal senso, il rito esorcistico apre una contraddizione rispetto alla stessa
nozione Cattolica della persona, mostrando l'impossibilità di eseguire, nella pratica, la disincarnazione
dell'anima dichiarata sul piano ideologico e teorico delle teologie. Proprio come accade nell’azione dello
sciamano, l'anima è cercata nel corpo, attraverso la sua manipolazione operata dall'esorcista in nome del
sapere teologico. Ma il corpo” posseduto” incarna e al tempo stesso disarticola le forme simboliche
istituzionali che cercano di renderlo docile, e mette in scena un ambiguo intreccio di critica e consenso, di
incorporazione e di smontaggio dei dispositivi dominanti che tentano di controllarlo. In campo antropologico
questa strategia è definita spesso come una forma di “resistenza” o di “critica incorporata”. Queste teorie
sottolineano l’aspetto contro egemonico del corpo posseduto.┐
Più recentemente, invece, si è cercato di mostrare come esso esprima anche significati più ambigui e
complessi: l’idioma del corpo convulsivo incarna anche altri aspetti: estetici, religiosi o economici (per es e
chiarimenti vedi paragrafi successivi).
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L’antropologa Aihwa Ong: studio dei fenomenici possessione femminile che si verificano nelle fabbriche di
grandi aziende multinazionali, per lo più giapponesi, che all’inizio degli anni ’60 hanno cominciato a
lavorare in Malesia.
Manodopera femminile, a basso costo. Operaie periodicamente soggette ad attacchi di rabbia incontrollabile,
accompagnati da convulsioni e frasi incomprensibili.
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Michael Taissig (antropologo e medico) riprende la questione della trasformazione del corpo in oggetto nel
sistema produttivo del capitalismo contemporaneo. -> studia il caso di una donna ammalata per le condizioni
di lavoro e di indigenza in cui versava. => Mostra come i rapporti di potere culminanti nella reificazione del
corpo possono trasferirsi dal campo economico al campo dell’assistenza sanitaria.
Nei colloqui, questa donna (affetta da infiammazione degenerativa dei tessuti muscolari) pone domande
connesse all’esperienza soggettiva del proprio corpo malato (perché a me? Perché ora?), domande che si
collocano sul piano sociale, relazionale, esistenziale, culturale, morale (poiché la sua malattia si configura
come la conseguenza di una vita di povertà, malnutrizione e di lavoro eccessivo). Ma, La storia e
l’esperienze di vita reale vengono lasciate fuori dall’ospedale e dalle pratiche biomediche e il paziente
percepisce soltanto la forza autoritaria rappresentata dal personale sanitario. -> I rapporti di potere e di
autorità, le uniche cose percepite dalle donna, giungono a oggettivare e reificare il corpo del paziente, a
modificare l’ordine della realtà e a produrre una versione “clinica” della realtà attraverso la diagnosi. Il
corpo è preso in una rete di rapporti di forza, di dispositivi dominanti che lo definiscono sano o malato,
iscrivendolo in un quadro concettuale dotato di autorità scientifica.
Allora domande sorgono spontanee: quali sono i significati dei concetti “salute” e “malattia”? qual è il
confine tra “normalità” e “patologia”? Chi lo ha inventato? Ecc.
Le forme di incorporazione ci spingono a guardare alle figure del corpo come processi esistenziali, culturali e
sociopolitici (e non come stati fisici)→ Dobbiamo quindi mettere in questione anche la dicotomia salute-
malattia.
Salute e malattia sono spesso definite per opposizione tautologica, ovvero si definisce una come assenza
dell'altra. In più, l'opposizione salute-malattia è una dicotomia normativa che si autolegittima come dato
oggettivo e pertanto riflette i rapporti di potere che governano la vita sociale. (opposizione che discende da
un altro paradigma oppositivo: normale/anormale)
L'antropologia medica invita a riflettere sulla fluidità dei confini tra salute e malattia (che variano nel tempo
e nello spazio) e sul loro rapporto che, lontano dall'essere un'opposizione, è un rapporto dialettico, un
processo dinamico tra due termini difficilmente riducibili ad una dicotomia → l'antropologia propone di
osservare piuttosto quanto ci sia di sano nella malattia e di malato nella salute. → Non è scontato quindi che
la salute sia l’”ordine” e la malattia il “disordine”, che cioè il rapporto salute-malattia equivalga a quello
cosmos-caos.
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2. Lo storico e filosofo della scienza GEORGES CANGUILHEM nel suo studio Il normale e il patologico
(1966) sostiene la necessità di uscire dalla dicotomia e di elaborare nuovi paradigmi concettuali capaci di
cogliere il senso profondo del malessere nell'esperienza intima del soggetto che lo vive. Caughilhem
smaschera il riduzionismo implicito in una classificazione che oggettivizza la malattia e la sottrae al malato,
che la vive: secondo lui, non è possibile qualificare la salute come inconsapevolezza del corpo = il silenzio
del corpo non è sempre indice di salute. Così come la consapevolezza del corpo sia percezione di una
minaccia (es. mi può far male lo stomaco solo perchè ho fame, che non è una patologia medicalizzabile)
Rigida opposizione salute/malattia molto problematica → tentate diverse definizioni in un percorso storico di
progressivo abbandono della pretesa di distinguerle in base a criteri “oggettivi”; pretesa criticata da vari punti
di vista, tra cui quello che considera la variabilità storica, culturale e sociale della distinzione: EMILE
DURKHEIM, nel terzo capitolo de Le regole del metodo sociologico dedicato alle “Regole per la
distinzione del normale e del patologico” sostiene che sia limitante distinguere salute e malattia scegliendo
come loro tratti salienti piacere e godimento per la prima e dolore e sofferenza per la seconda → “relazione
che manca di costanza e precisione”.
Dalla consapevolezza che normalità ed anormalità non sono essenze ma norme prestabilite, deriva la
necessità di comprendere i processi attraverso cui sia stata stabilita la norma prima di definire a priori
l'evento della malattia.
Lo stato di salute, basato su norme, varia infatti non solo tra società differenti, ma anche all'interno di stesso
contesto sociale. Durkheim ridefinisce dunque la malattia come qualcosa che “ci costringe soltanto ad
adattarci in modo diverso dalla maggior parte dei nostri simili” e la salute, per contro, come condizione
fisiologica “ideale” identificata con la norma costruita dalla maggioranza della specie sociale cui si
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Per Farmer è difficile evidenziale le relazioni tra forme di sofferenza e violenza strutturale per tre diversi
ordini di motivi:
1. distanziamento connesso all'esotizzazione della sofferenza, per cui è difficile riconoscere la sofferenza di
persone che non ci sono vicine (distanza geografica, di genere, culturale).
2. Difficoltà che si riscontra nel rappresentare la sofferenza altrui, che sfugge sempre all'oggettivazione.
3. Distanza – da colmare – tra interpretazione del senso individuale della sofferenza e le matrici
socioculturali e politiche della stessa.
Per questo motivo, Farmer propone di considerare tre “Assi della sofferenza” per un'analisi della violenza
strutturale:
1. asse del “genere”, che permette di capire perché due persone dotate dello stesso status (come nei due casi
riportati) possano cadere vittima di violenze differenti. Essere donna, infatti, spesso significa subire un
rapporto di subordinazione che investe in modo diretto l’intimità della vita domestica
2. Asse della “razza” o dell'”etnia” → concetti questi che vengono usati concretamente per deprivare dei
diritti fondamentali specifici gruppi sociali impedendo di concepire la disuguaglianza sociale come la
conseguenza di una differente distribuzione delle risorse. La differenza di “razza” o “etnia” occulta le
disuguaglianze sociali, biologizzandole o etnicizzandole
3. asse che vede combinarsi la “violenza strutturale” e la “differenza culturale” (che spesso si confonde con
la disuguaglianza sociale) → gli approcci basati su un concetto di cultura inteso come essenza degli uomini,
hanno portato a una “culturalizzazione” della sofferenza, affrontando spesso il tema della gestione del potere
e degli assetti istituzionali come un problema di trasformazioni culturali dei contesti locali, a scapito di
elementi strutturali che incidono sui concreti rapporti di forza.
Come mostrano i lavori di Farmer, i meccanismi creatori di disuguaglianze mostrano la propria facoltà di
ingabbiare le capacità di azione dei soggetti nelle loro scelte di vita. Per cui le storie concrete delle persone
malate permettono di illuminare i modi attraverso cui “forze sociali di larga scala” si cristallizzano nella
sofferenza individuale, evidenziando il rapporto fra potere e privilegio, e le forme di sofferenza, mostrando
parallelamente come le condizioni di ineguaglianza facciano si che la “Salute” di alcuni sia resa possibile
dalla “malattia” degli altri.
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Esperienza del dolore come conferma del carattere artificioso e meramente teorico della dicotomia
mente/corpo, che nel dolore rivela tutta la sua astrazione.
Il dolore mette in crisi le categorie biomediche, le pratiche diagnostiche e lo stesso linguaggio nella sua
funzione comunicativa e rappresentativa.
L'esperienza del dolore ha portato sia la biomedicina che l'antropologia medica a provare metodologie ed
interpretazioni nuove e a sperimentare un dialogo interdisciplinare.
1. Recentemente, il trattamento del dolore ha portato alla nascita di un nuovo campo medico: la medicina del
dolore.
2. L'antropologia medica si è resa conto della difficoltà di collegare il dolore all'appartenenza culturale: la
sofferenza impedisce ogni tentativo di inserirla all'interno di un codice culturale (morale, medico o
religioso).
Il dolore è radicato nel soggetto sofferente ed è incomprensibile a chi non lo prova. Anche se indicibile,esso
è drammaticamente reale per il soggetto sofferente. Il dolore attiva una richiesta di senso e di
comunicabilità, ma si mostra come problema pratico, in quanto modifica la vita quotidiana e le tecniche del
corpo di chi lo prova (cosa particolarmente evidente nei soggetti che soffrono di colore cronico).
Al dolore non sono immuni ne’ medici ne’ antropologi, e quando capita loro di provarlo, si trovano a
testimoniare da ambo i campi l'impossibilita di descrivere l'esperienza del dolore. ma l’elaborazione di
tale difficoltà è diversa.
In questo capitolo si mostra:
1. Attraverso quali sviluppi l'antropologia medica contemporanea ha fatto i conti con le teorie che riducevano
il dolore alle sue elaborazioni culturali.
2. Come la ricerca etnografica in campo biomedico abbia rivelato una differenziazione interna di scelte,
posizioni ed azioni in relazione alle difficoltà dell'approccio terapeutico al dolore.
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3.3.Dolore e linguaggio.
Nel 1990 ELAINE SCARRY pubblica La sofferenza del corpo, studio importante su come il dolore incida
sulla percezione corporea del mondo e nella possibilità di comunicabilità con gli altri individui.
La Scarry sostiene l'impossibilità di esprimere il dolore fisico (perché tale dolore assume, nel corpo della
persona che soffre, la consistenza di un fenomeno sotterraneo e invisibile), cosa che porta di conseguenza
alla creazione di complessi rapporti tra la persona sofferente ed il mondo. Si pensi alla frustrazione e
all’impotenza di chi assiste una persona afflitta da dolore acuto o cronico, che nasce non solo dalla difficoltà
nel lenirlo, ma anche da quella di poterne condividere il significato → frustrazione di un dialogo difficile –
se non impossibile – attorno all'esperienza del dolore.
Chi non soffre, non avendo percezione diretta del dolore altrui, si deve in qualche modo fidare del resoconto
di chi soffre, che cerca di comunicare qualcosa di incomunicabile → è per questo motivo che il racconto del
dolore non può mai essere “letterale”, ma è sempre costruito attorno ad un tessuto di paragoni e metafore,
rintracciabili nelle narrazione di tutte le culture umane (è come se venissi trafitto da una spada, brucia come
il fuoco, batte come un martello).
È vero che si ha la possibilità del grido, dei gemiti, dei lamenti, ma queste forme espressive non sono di
immediata destinazione comunicativa: esse rappresentano esattamente la capacità che il dolore ha di sottrarsi
al linguaggio ma anche di aggredirlo, distruggerlo.
Il dolore aggredisce il linguaggio umano, e dalla parola-segno (espressione di un significato condiviso) si
passa alla parola-grido, al suono. Non solo il sofferente, ma anche chi lo circonda, tenta spesso di
sperimentare nuove forme di comunicazione → il dolore produce nuove forme di immaginazione
espressiva incentrate sulla metafora: PAUL E. BRODWIN mostra come il discorso delle persone afflitte
da dolore cronico sia intessuto di metafore (un uomo con un mal di schiena afferma che si sente come se la
sua spina dorsale venisse divisa in due parti, una donna descrive il suo dolore cronico alla spalla come un
enorme zolla rossa e calda, una massa informe di tendini, muscoli e nervi intrecciati).
Le metafore prodotte per descrivere il dolore non sono soltanto “narrazioni” o “resoconti”, ma sono piuttosto
azioni sociali, che partono dalla trasformazione sperimentale del linguaggio quotidiano, inadeguato ad
esprimere il corpo sofferente, e riconfigurano il posizionamento fisico del soggetto nel contesto sociale.
D'altronde, quando si prova ad iscrivere il dolore in linguaggi già strutturati – che siano del sofferente, del
medico o dell'antropologo – questi si rivelano inadeguati a descrivere la complessità delle trasformazioni del
corpo, del tempo e dello spazio che il dolore produce → per questo: riarticolazione dei linguaggi quotidiani
e scientifici, nel tentativo di spiegare, interpretare e comprendere un oggetto oscuro e sfuggente, ma che al
tempo stesso ha una sua materiale fisicità.
Metafore corporee (diffuse in tutte le società ed in tutte le epoche storiche): immagini dialettiche (figure
complesse) che non hanno solo un’efficacia rappresentativa, ma svolgono anche una funzione più attiva: fare
ricorso ad esse significa costruire una retorica del dolore che ha sia una funzione comunicativa-
rappresentativa, sia una funzione pragmatica (si occupa del contesto), come modo di agire nella realtà e
nei rapporti sociali.
Per Brodwin, dunque, le metafore corporee, come le modalità corporee e performative di rappresentazione
del dolore (es. lamento quotidiano) sono atte a creare una “retorica del dolore” che intende provocare
risposte negli altri: sono modi di agire dentro un campo di rapporti di forza e di relazioni di potere che
connette il soggetto sofferente e il suo spazio intimo a una dimensione sociale, politica e istituzionale.
Il carattere sociopolitico della sofferenza risiede nella dimensione pratica dell'esperienza del dolore, nel
lato che produce una trasformazione concreta dell’esistenza quotidiana. (nonostante esso sia incomunicabile,
difficilmente socializzabile)
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Nella teoria del controllo della soglia, il dolore – considerato fenomeno multidimensionale, fisico, sociale e
psicologico – diventa malattia, patologia (non più come sintomo di una lesione). Ma il lavoro di Banszanger
mostra come questa non sia che un quadro teorico comune dal quale si sviluppano significative differenze
pratiche nei percorsi di ricerca.
La diversità fra i due centri studiati dall’etnografia è tale che essi sono considerati come i due poli estremi di
due differenti modi di “costruire” il dolore, inscrivendolo in due diversi dispositivi: il primo, basato sulla
cura del dolore attraverso procedure tecniche, il secondo che tenta un passaggio dalla cura del dolore al
controllo e alla gestione quotidiana di esso attraverso un adattamento dei comportamenti delle persone
sofferenti.
→ i due centri studiati costituiscono due poli opposti di un continuum di centri che si adeguano all'una o
all'altra pratica biomedica, con una tendenza all'integrazione dei due approcci.
È da tale processo di integrazione che si è giunti infine alla definizione di una nuova categoria diagnostica
definita “sindrome da dolore cronico” che cerca di integrare nella definizione del dolore, non solo le sue
cause, ma anche le azioni quotidiane delle persone sofferenti e le reazioni degli altri.
Questo lavoro mostra come il corpo dei soggetti sofferenti sia preso in una rete di pratiche istituzionali
differenti e insieme ha mostrato come la biomedicina sia una realtà eterogenea, con grandi
differenziazioni interne ad un'apparente identità teorica unitaria.
Parte seconda
MEDICINE E ISTITUZIONI: SAPERI, PRATICHE, POLITICHE.
La “medicina” non è una realtà unitaria, specifica e definita, ma corrisponde piuttosto ad una vasta
molteplicità di realtà diverse e multi localizzate. ->E’ una nozione astratta. Se volessimo considerare la
medicina una “cosa” allora dovremmo intenderla solo come il farmaco, il medicamento.
TULLIO SEPPILLI, visto il suo carattere multiforme e variegato, conviene dare una definizione generale
di medicina, intesa, in ogni contesto storico, come “assetto delle forme culturali, comportamentali e
organizzative concernenti, grosso modo, la difesa della salute e dell'equilibrio psichico” → molteplicità
virtualmente infinita delle forme di medicina (dalle medicine strutturate e di lunga durata storica, come la
biomedicina, la medicina cinese, o quella ayurvedica; fino all’atto individuale di auto cura elementare, come
prendere una camomilla o misurare la febbre col termometro; dall’incontro con un guaritore di “medicina
popolare” o con un mago televisivo; al pellegrinaggio a Lourdes o presso una clinica statunitense), per cui
non esiste la medicina” ma una molteplicità di “medicine”, ciascuna incastrata in specifici contesti storici,
sociali e istituzionali nei quali spesso non è possibile isolare un settore medico, separabile dal flusso
complessivo dei saperi locali sulla realtà naturale e soprannaturale, dagli usi simbolici della malattia, dai
significati religiosi e così via.
(ogni atto che caratterizza i percorsi individuali e sociali connessi alla cura del corpo, della persona e del
proprio sé, potrebbero rientrare nell’etichetta di “medicina”)
Parte del libro in cui si esplora il legame che unisce le forme di intervento sul corpo, la salute e la malattia ai
contesti sociali in cui tali forme hanno luogo, alle istituzioni cui esse danno vita, ai soggetti che la mettono in
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Con il termine “biomedicina” si intende la medicina detta anche “occidentale”, “ufficiale”, “moderna”,
scientifica”, “cosmopolita” etc. → tutti termini che la definiscono per contrasto ed opposizione a presunte
medicine altre.
Il prefisso bio- la definisce come medicina che tende a privilegiare l'aspetto biologico e a ridurre o negare la
dimensione socioculturale della malattia.
Il termine “biomedicina” è utilizzato dall’antropologia medica proprio per sottolineare il carattere peculiare
della “medicina occidentale” rispetto ad una più ampia pluralità di forme di medicina.
Spesso si tende a chiamarla semplicemente “medicina” in quanto si naturalizza l'ambito biomedico, come
fosse l'unica prospettiva possibile e legittima.
Primo compito che l'antropologia medica ha dovuto affrontare è stato quello di svelare il carattere storico-
culturale della biomedicina, operando una denaturalizzazione dell'ideologia scientifica attraverso una
prospettiva di comparazione culturale
• Stimolo dato in questo senso anche dalle definizioni per contrasto, in primis quella di “medicina
occidentale” che ha facilitato un confronto con medicine alternative lontane ma anche interne allo stesso
territorio occidentale → Svolta questa funzione, la definizione di “medicina occidentale” è poi apparsa
limitante, in quanto ha rischiato di conferire alla biomedicina un inesistente carattere di omogeneità ed
unitarietà.
• Anche la nozione di “sistema culturale” ha favorito la riflessione sulla complessità strutturale dei saperi e
delle pratiche biomediche e sull'organizzazione delle istituzioni ad essi connesse, svelando inoltre il carattere
storico-culturale e non naturale degli assunti filosofici e scientifici su cui la biomedicina ha costruito la sua
identità. → anche l'approccio culturale ha mostrato i proprio limiti, quando è andato sostituendo alla critica
di riduzionismo e “naturalismo” di scienze e medicina un culturalismo essenzialista che avrebbe per
oggetto un inesistente “sistema culturale biomedico” omogeneo e funzionalmente organizzato.
• La categoria di medicina occidentale si è allora andata scomponendo e frammentando in una vasta e
virtualmente infinita varietà di gesti, azioni, discorsi, procedure divergenti e talvolta conflittuale (come
abbiamo0 visto nel caso delle cliniche del dolore). Una complessa eterogeneità, questa, che viene
ulteriormente ampliata dalle nuove tecnologie
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D'altra parte la ricercatrice mostra come la pratica medica, mentre riflette specifici significati culturali,
sociali ed esistenziali, al tempo stesso li produce, riproduce e modifica.
Parla di “approccio dominante” in ciascun Paese, segnalando in questo modo come, al di la di un
atteggiamento culturale ritenuto fisso e diffuso, si possano dispiegare un’infinità di comportamenti diversi
che da quell'atteggiamento culturale si distanziano. (molte persone di Paesi diversi condividono gli stessi
orientamenti e le stesse esperienze)
Se continuiamo a pensare al “non dire” come norma italiana, questa resta ad esempio un elemento
problematico cui dare conto in ogni singola concreta interazione con il malato.
Oltre il loro significato culturale, le motivazioni e le conseguenze della menzogna e del segreto della
comunicazione biomedica si riflettono anche nella politica delle emozioni, agendo non solo nelle convinzioni
ideologiche e negli assunti culturali, ma anche sul piano sentimentale, nella concreta pratica esistenziale
intima, dei vari soggetti coinvolti.
(vedi es. pag. 139) La Gordon porta come esempio la sua sensazione di “scandalo” prodotta dall'intenzione
di un medico di non rivelare ad una collega la diagnosi della sua malattia: lo scandalo, dice, non deve essere
visto come rigida differenza culturale che contrappone semplicisticamente due culture (in questo caso quella
italiana a quella nordamericana della studiosa). Lo scandalo è anche quello sentito da un medico italiano
quando deve lottare contro la decisione dei suoi colleghi di non informare un amico -medico anche lui –
della propria malattia.
(se Gordon si chiede come abbia potuto la sua amica “profana” credere alla diagnosi di tubercolosi ovarica,
tanto più tanto più possiamo domandarci come sia possibile nascondere la diagnosi di cancro a un medico. ->
Mantenere il segreto in quel caso non fu facile, ma fu possibile per la complicità di alcuni medici tra gli
amici più cari del malato, che falsificarono le analisi e le documentazioni. La scelta provocò l’indignazione
di alcuni colleghi)
La pratica della menzogna ha una significato più ampio che conduce a una valenza istituzionale e giuridica
→ oltre ai suoi significati culturali, la scelta del “dire” o “non dire” deve essere indagata in rapporto alla
produzione di potere e di autorità connessa alla facoltà del medico di custodire o elargire conoscenza: la
menzogna o il “non dire” è dunque legata alla dinamica dei rapporti di forza e di potere che sottendono la
conservazione di un “segreto” e coinvolgono le relazioni tra i cittadini e lo Stato. Dimensione politica della
menzogna, a cui è facilmente legato il problema del “consenso informato”, che proietta sul piano
normativo, giuridico e politico il senso profondo delle scelte conflittuali interne al “sistema culturale” della
biomedicina.
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A: obiettivi: mostrare che il governo custodisce il segreto su questioni importanti che possono recare danno
alla salute della popolazione; evidenziare la violazione dell’autonomia individuale e del diritto
all’informazione; denunciare la vulnerabilità dei cittadini di fronte al potere del governo.
B: obiettivi: appurare se “la scienza” e le sue procedure erano conformi alle regole di quel momento storico;
scoprire se gli esperimenti potevano essere considerati legittimi o meno, con particolare riferimento al
trattamento dei soggetti coinvolti e alle info di cui erano venuti in possesso. Una volta appurato che la
somministrazione del plutonio non era letale, il problema etico si sposta sulla questione del “consenso
informato”.
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L'antropologa francese GIORDANA CHARUTY sostiene l'importanza di interrogarsi sulla funzione svolta
dalla “medicina popolare” nello sviluppo dell'antropologia europea. In realtà è molto difficile isolare un
insieme di fatti reali per costituire un sapere medico “popolare” separato dagli altri saperi su mondo e
società.
Espressione “medicina popolare” coniata in Italia nel 1896 dal medico etnografo GIUSEPPE PITRÈ , poi
utilizzata per circa un secolo e decaduta verso la fine del Novecento. Periodo più maturo di riflessione critica
di questa categoria è stato raggiunto con le ricerche italiane nella seconda meta del 900, fino agli anni ottanta
→ in questo momento, con la nozione di “medicina popolare” si designa <l'insieme dei saperi, delle
rappresentazioni e delle pratiche elaborate a partire dall'esperienza culturale del corpo, della salute e della
malattia nelle “classi popolari” europee. >
In Italia la denominazione ha origine nel periodo di formazione dello Stato con l'unita post-risorgimentale.
Il confronto storico interno all’Europa consente di osservare una dinamica di scontro/incontro tra
biomedicina e saperi e pratiche locali su corpo, salute e malattia (verificatasi in molti altri contesti
mondiali)→ si può allora notare come la costruzione di un campo biomedico e il problema attuale della
mancanza di un’assistenza sanitaria di base abbiano determinato in molti Paesi processi di
istituzionalizzazione consistenti nella delegittimazione di alcune pratiche terapeutiche e nella parallela
“professionalizzazione” di quelle ritenute “valide” dalla biomedicina stessa. -> n.b. La classificazione delle
medicine “popolari”, “tradizionali” e “indigene”, in ciascuna di queste, tende a ridurre la portata significante
dei simboli incorporati nelle rappresentazioni del malessere e dei saperi e delle pratiche che riguardano
forme diverse di esperienza e rappresentazione del corpo. In tal modo le tipologie e le tassonomie dei medici
etnografi, più che essere orientate da “prospettive ideologiche” e “schemi concettuali”, costituiscono una
pratica classificatoria che, attraverso una metodologia di “etnografia clinica”, rimodella i corpi manipolando
i simboli che li rendono pensabili.
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Falteri e Bartoli notano infatti in questi trattati un'assenza di impegno nell'interpretazione storico-culturale
delle pratiche osservate e descritte. -> atteggiamento positivistico riguardo ai saperi e alle pratiche osservate,
che vengono descritte come vere e proprie “superstizioni”, soprattutto quando si sottraggono ai criteri di
verità e verifica empirica della biomedicina. Non emerge in essi il riconoscimento nelle pratiche descritte dei
“livelli di funzionalità e coerenza rispetto alle condizioni materiali dei gruppi sociali che ne erano depositari
ed utenti”.
Questo rilievo pone un punto fondamentale che spiega perché furono i medici a farsi etnografi
dell’esperienza culturale della malattia: in un certo senso e si svolsero questa funzione anche per operare una
stigmatizzazione di tutte le pratiche non coerenti con l’universo scientifico della medicina ufficiale.
Tra gli strumenti principali di questo processo di stigmatizzazione, il reiterato uso del termine
“superstizione”, per qualificarne la falsità e l’irrazionalità. A questo proposito, l'antropologo spagnolo
JOSEP M. COMELLES analizza il rapporto tra “superstizione” e “medicina popolare”, partendo dalla
constatazione che prima della nascita dell'espressione “medicina popolare” vi è una vasta letteratura (non
solo dei medici etnografi, ma anche testi religiosi e di medicina territoriale) che abbonda di termini
denigratori e stigmatizzanti come “superstizione”, “errore, “pregiudizi” in riferimento a rappresentazioni
della malattia.
Secondo Comelles, il passaggio dall'uso del termine superstizione a quello di medicina popolare indica lo
spostamento dell'egemonia sul discorso della salute dalla religione alla medicina.
È da questa tradizione letteraria medica ed ecclesiastica-pastorale che derivano i medici etnografi che
descrivono le forme popolari di rappresentazione di malattia e salute con una retorica testuale colma di figure
di distanziamento e di stigmatizzazione che costantemente costruiscono una sempre più irriducibile
differenza culturale tra medicina popolare e medicina scientifica. Per raggiungere tale obiettivo, questi
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CAP.6.“FARE” I MEDICI.
Dal punto di vista antropologico, medici, infermieri e vari professionisti dell'assistenza non sono visti come
“ruoli” e “professioni” (come accadeva in sociologia funzionalista), ma come persone in carne ed ossa che
compiono azioni concrete in spazi sociali reali, e che scelgono come agire e cosa fare in base alle risorse e ai
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Pur attribuendo ormai in pochi un vero valore pedagogico e formativo alle esercitazioni di dissezione (alcuni
sostengono che le componenti anatomiche si riconoscono con difficoltà in una lezione di anatomia svolta
direttamente in aula e che gli studenti si distraggono con estrema facilità in tali contesti), queste continuano
ad essere praticate come una sorta di tradizione necessaria. D’altra parte, gli studenti sono consapevoli
dell’importanza formativa di tale attività e temono le loro possibili reazioni, svenimenti, malesseri che
potrebbero essere letti come debolezze, mettendo in dubbio la loro capacità di diventare buoni medici.
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Parte terza
PERCORSI DI GUARIGIONE E DISPOSITIVI DI EFFICACIA.
Si tratta qui la questione della pluralità dei percorsi di guarigione e delle pratiche di cura e di terapia →
pluralità che indica il carattere capillare e diffuso delle azioni destinate a conferire un senso al malessere, a
produrre effetti sui corpi e sulla realtà: azioni che mirano a trasformare i corpi e a incidere sul corso degli
eventi.
La ricerca del senso della malattia si fonda sulla possibilità per le persone sofferenti di ricorrere a diversi
sistemi di riferimento, di pensiero e di pratica, entro cui configurare l'evento malattia per rispondere
all'angoscia data dalla crisi di “senso” che tali esperienze producono → tali possibilità possono darsi, a
seconda dei contesti, nel quadro di una pluralità di scelte che esprime il carattere composito e complesso
dell'esperienza del malessere.
In questo senso la malattia si configura come un evento in cui dimensioni sociali ed individuali sono
inestricabilmente legate, come esempio concreto di legame intellettuale tra percezione individuale e
simbolismo sociale→ eventi personali, simbolismo sociale, rapporti di forza dell'ordine sociale
contribuiscono a costruire la malattia come un oggetto individuato attraverso l'osservazione dei sintomi che
richiede risposte in termini di manipolazione del corpo.
I percorsi attivati dai soggetti sofferenti possono dunque percorre molteplici itinerari possibili (nel caso della
sola società occidentale, essi si possono già diversificare sia come scelte diverse all'interno del campo
biomedico, sia come ricorso a diverse forme di medicina presenti sul mercato sanitario). Ma al tempo stesso
tale pluralismo risiede nella distribuzione delle conoscenze e nella varietà potenzialmente amplissima delle
azioni e delle scelte quotidiane di ogni singolo soggetto.
I processi terapeutici non sono solo attribuibili alle competenze tecniche e scientifiche della biomedicina, o a
quelle di altri sistemi medici strutturati. Tutte le azioni sociali che vengono compiute per cercare di
rispondere alla richiesta di senso possono avere un'intenzione e una finalità di efficacia, una motivazione e
una conseguenza di carattere terapeutico → si può arrivare a dire che solo l'atto di porsi la domanda su cosa
ci stia accadendo sia il primo momento di un'elaborazione efficace del senso da attribuire al proprio
inspiegabile malessere. Per questo motivo,dal punto di vista antropologico la malattia è stata definita come
“il più individuale e il più sociale di tutti gli eventi”.
Come già accennato, la richiesta di cura e guarigione da parte del malato dà luogo ad una complessa ed
eterogenea rete di possibili risposte, attivando ogni forma di scambio: da quelle strutturate in forma
istituzionale (stato sociale) nell'organizzazione pubblica dei servizi di assistenza sanitaria, a quelle basate sul
dono dell'assistenza volontaria ai malati. In ciascuno di questi campi le risposte alla domanda possono essere
più o meno strutturate, essendo elargite in modo regolato dalla legge o da una molteplicità di soggetti (dagli
operatori di medicine alternative, ai guaritori carismatici, maghi, a figure immateriali come accade nel culto
dei santi, a pratiche rituali etc.). -> in ciascuno di questi casi la pluralità dei percorsi è attivata dal soggetto
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►Nei due es. presentati, il problema non è individuare la razionalità delle rappresentazioni della malattia che
esse sottendono, si tratta piuttosto di indagarne l’efficacia simbolica,la quale, di volta in volta coniuga in
situazioni storiche particolari e in determinate situazioni strutturali le interpretazioni e le azioni concrete
prodotte intorno al corpo del sofferente. (es. porsi il problema dell’accostamento simbolico fra il corpo e
l’arcobaleno e delle relazioni efficaci fra le tensioni sociopolitiche e le loro rappresentazioni nei termini della
stregoneria) Il meccanismo dell’efficacia è nel rapporto fra corpo, esperienza intersoggettiva e contesto
storico dentro il quale le azioni efficaci si svolgono. L’efficacia è l’effetto di trasformazione che tali azioni
vogliono produrre.
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8.1.L’efficacia simbolica
Per comprendere che cosa si intende in antropologia per “efficacia simbolica”, occorre fare riferimento a uno
studio condotto nel 1949 da Claude Levi-Strauss. In quella ricerca Levi-Strauss si poneva il problema di
come, presso la popolazione di Cuna di Panama, lo sciamano potesse ottenere, attraverso un’azione rituale, la
guarigione del paziente. -> Analizza un canto sciamanico recitato per la riuscita di un parto che si presenta
difficile. Nel canto e in una serie di azioni compiute sulla scena del rito ed in presenza della donna sofferente
e di altri membri del gruppo, lo sciamano riesce a rappresentare la sofferenza della partoriente nel racconto
fantastico di un viaggio sovrannaturale che egli compie in uno spazio simbolico che corrisponde alla
rappresentazione metaforica del corpo della paziente. Il canto evoca una serie di eventi, di oggetti, di
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L’attenzione posta da Severi al carattere attivo della proiezione dell’efficacia da parte della sofferente apre la
strada ad una più ampia dimensione dell’efficacia simbolica che riguarda i significati sociopolitici. Ma
perché questi aspetti più ampi possano essere colti bisogna andare oltre l’idea che la produzione simbolica
sia unicamente una dinamica inconscia. => L’efficacia simbolica, infatti, è anche una ricerca consapevole di
significati, simboli, manipolati e legittimati proprio nel contesto in cui le concrete azioni rituali si verificano.
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CAP.9.LA CURA.
Nel concetto di cura si intrecciano tutti gli argomenti qui trattati: corpo, salute e malattia, diverse forme di
medicina, processi di istituzionalizzazione e questione dell'efficacia. Questi campi costituiscono i terreni
elettivi dell’antropologia medica e poiché il tema della cura li attraversa costantemente, mettendoli in
relazione, allora l’antropologia medica può essere considerata anche un antropologia della cura.
Cura differente da terapia. Già nel parlare quotidiano la terapia rimanda sempre e comunque all'ambito del
trattamento di una malattia, mentre la cura va al di la di quella dimensione (es. “prendersi cura di qualcuno”
→ pratica di attenzione). Il concetto di cura può anche non avere nulla a che fare con le questioni mediche,
poiché rientra nell’esperienza complessiva dei rapporti umani e dello scambio sociale.. Differenza in inglese
tra care (meno riduttiva) e cure.
Riducendolo al campo di malattia e sofferenza, il concetto di cura sembra essere circoscritto a un insieme di
gesti, parole e pratiche comunicative che mirano alla compagnia, al sostegno e all'aiuto a persone rese fragili
dalla malattia e dalla sofferenza.
Ma la concezione antropologia del concetto di cura è più vasta, per cui essa si definisce come una tecnica
dell'attenzione, dell'ascolto e del dialogo, basata sulla dialettica tra la prossimità e la distanza, tra la parola e
il silenzio, sulla consapevolezza dell'impossibilita di separare nel gesto l'aspetto tecnico da quello simbolico
ed emozionale, su una comunicazione corporea e sulla dimensione emozionale e politica che questa relazione
comporta. -> In questo senso le pratiche di cura si strutturano in spazi di intimità, in un corpo a corpo che si
fonda su una vera e propria arte di comunicare, che è soprattutto “arte di toccare”.
Cura qui affrontata anche in relazione all'assistenza infermieristica, il cui sapere consente di chiarire la
differenza tra care e cure e sottolinea l'esigenza di un superamento di questa scissione. Esempi etnografici
mostrano come l'efficacia di cura non termina nemmeno quando il paziente, in stato di incoscienza, non
risponde alla comunicazione intenzionale: in questo caso parole e gesti di cura sembrano svolgere la più
grande funzione di attribuzione di un significato di “umanità” alla persona sofferente.
La cura è efficace in quanto processo di relazione e non come esito di guarigione, per cui non esaurisce la
sua funzione nemmeno quando l'efficacia non sembra produrre esiti: essa riguarda le relazioni umane e
l'umanità delle relazioni, umanità resa qui manifesta non come dato ontologico e naturale, ma come prodotto
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9.1.L'arte di toccare.
Ricerca di HELLE SAMUELSEN sugli aspetti socioculturali della cura infermieristica alle persone operate
di cancro in un ospedale di Copenhagen.
Testimonianza alla Samuelsen di un'infermiera dell'ospedale: “la parte più interessante del mio lavoro è il
paziente. Per me il trattamento in sé non è importante … il mio compito è quello di essere un difensore del
paziente”. Eppure, osservando la stessa infermiera al lavoro, l'antropologa vede nel suo compito piuttosto
quello di un'assistenza tecnica al medico, del quale l’infermiera eseguiva gli ordini.
Secondo lei, dunque, compito dell'infermiera è quello di una mediazione tra malato e medico, fra
l’esperienza e la rappresentazione del malessere vissuto dal malato (illness) e il trattamento della malattia
fondato sulla “visione” che ne ha il medico (desease).
Atre ricerche etnografiche hanno però poi dimostrato come la funzione di mediazione dell'infermiera non si
riduca a questa sorta di “traduzione” da una visione all'altra, ma comprenda una rete molto più vasta di
molteplici mediazioni quotidiane.
La comprensione di tale complessità ha portato la ricerca storica sulla professione infermieristica a sottoporsi
a una critica culturale che decostruisse le rappresentazioni classiche di una serie di progressi nel tempo →
storia della pratica infermieristica utile per chiarire il carattere culturale della funzione infermieristica,
nonché il significato – non “naturale” - della schiacciante prevalenza femminile in questo lavoro.
Lo studio di EVA GAMARNIKOW mostra come la professione nasca nel contesto occidentale
parallelamente alla produzione socioculturale del genere femminile → ne deriva che in questo studio
l'infermiera come professionista della cura appare come la traslazione sociale del ruolo domestico della
donna nelle società europee. Inoltre, caratteristiche come “devozione, sacrificio, passività e subordinazione”
sembrano incarnarsi nella funzione infermieristica in analogia alla rappresentazione dominante del “carattere
femminile” nelle società europee. Tuttavia, la stessa Gamarnikov rende più complessa questa visione della
subalternità femminile identificata nella funzione infermieristica in quanto, se da un lato il riconoscimento
professionale dell'infermiera si viene strutturando a cavallo tra 800 e 900 su un'equazione ideologica tra
attività assistenziale e costruzione sociale del genere femminile, le politiche di riforma nel settore hanno
anche mostrato come la stessa equazione sia stata strategicamente utilizzata dalle stesse donne a loro favore,
ottenendo risultati diversi, se non opposti, a quelli fondati su una “mistica della femminilità”.
Due esempi in contrasto dell'uso della retorica della femminilità:
1. anni 20: le infermiere la utilizzano per ottenere lo status professionale nella sfera pubblica dell'impiego e
dell'occupazione, insistendo sulla necessita di una “divisione sessuale del lavoro” → femminilità attiva di
queste donne, che usano lo stereotipo dell'identificazione tra dovere di cura e ruolo delle donne per il proprio
riconoscimento professionale
2. inizio del secolo scorso: il riconoscimento di funzioni sempre più complesse alle infermiere spaventa i
medici, che per salvaguardare la loro posizione ribadiscono il potere medico maschile e il dovere di
obbedienza femminile, intrisi dello stesso stereotipo.
→ questione della femminilità come terreno di lotta: utilizzato dalle infermiere come strategia di
rafforzamento, e dai medici come strategia opposta di indebolimento => questione di rapporti di forza e non
un dato naturale.
L'antropologia storica mostra quindi che l'”ambiguità” attraversata dalle infermiere nelle pratiche di cura
dentro l'istituzione ospedaliera è una dimensione storico-sociale e politico-culturale complessa → necessità
di andare oltre una definizione sociologica astratta del ruolo professionale dell'infermiera e di osservare la
professione nella pratica quotidiana per far emergere la molteplicità delle mediazioni attivate nelle cure
infermieristiche.
Secondo l'antropologa inglese JENNY LITTLEWOOD le cure infermieristiche di qualificano come una
complessa “gestione dell'ambiguità”, intesa in senso ampio come gestione di spazi e aree liminari e
marginali, che si sviluppano ai confini delle classificazioni formali fra i ruoli definiti dall'istituzione.
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►L’umanità del medico non è quella indicata nel senso comune, non è nelle sue qualità di “brava persona”,
“paterna”. Anzi, il “paternalismo” latente che anima le retoriche dell’umanizzazione offre a comportamenti
come la chiusura autoritaria e antidialogica una maschera di bontà che conferma l’idea che il medico sia il
soggetto che incarna e padroneggia la “verità scientifica”, “unica”, “naturale”, ma propone unicamente di
rendere tale indiscutibile verità più comunicabile, in primo luogo facendo in modo che i pazienti vi abbiano
accesso e la condividano. In realtà, ciò che conta perché si avvii un reale processo di trasformazione
dell’ordine costituito dal discorso e dalla pratica biomedica è la messa in discussione della propria identità e
dei presupposti e degli assunti fondamentali su cui si regge il proprio sapere.
Per avviare una critica agli assunti base della biomedicina occorre considerare il rapporto fra medico e
sofferente come un rapporto unico, un’interazione specifica, sempre negoziata e diversa dalle altre, insomma
un rapporto “umano”: non esiste infatti il rapporto medico-paziente in senso generale e teorico, ma esistono
infiniti e diversi rapporti umani fra persone reali che dovrebbero negoziare – sulla base dei propri reciproci
saperi, riferimenti culturali, emozioni – la gestione e il trattamento di una condizione di malessere.
In questo quadro, il riduzionismo biologico nella definizione del corpo, della salute e della malattia rischia di
occultare le implicazioni politiche del rapporto umano fra medico e paziente.
▲La questione dell’umanità significa ripensare il concetto stesso di “natura umana”, cioè rispondere alla
domanda “cos’è un uomo?” => Gramsci:<l’uomo è un processo, precisamente un processo dei suoi atti; la
natura umana è il complesso dei rapporti sociali>.
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