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Giuseppe Barreca

LUTILITARISMO
Il lessico della filosofia morale

Jeremy Bentham

John Stuart Mill


Henry Sidgwick

James J.Smart
John C. Harsanyi

Richard M. Hare

Indice

JEREMY BENTHAM 7 JOHN STUART MILL 27 HENRY SIDGWICK 49 JAMES J. SMART 74 JOHN C. HARSANYI 97 RICHARD M. HARE 119 Indicazioni bibliografiche 137

Abbreviazioni
G. E. Moore, Etica, a cura di M. V. Predaval, Angeli, Milano 1983. ETU R. M. Hare, Teoria etica ed utilitarismo (1976), in A. Sen-B. Williams (a cura di), Utilitarismo ed oltre, Edizioni Net, Milano 2002. FR: Libert e ragione, a cura di M. Borioni e F. Palladini, il Saggiatore, Milano 1971 e 1990 (R. M. Hare, Freedom and Reason, Oxford University Press, Oxford 1963). IPML: J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, a cura di E. Lecaldano, UTET, Torino 1998. LM: R. M. Hare, Il linguaggio della morale, a cura di M. Borioni, Ubaldini, Roma 1968 (The Language of Morals, Oxford University Press, Oxford 1952). ME: H. Sidgwick, I metodi delletica, a cura di M. Mori, il Saggiatore, Milano 1995. MT: R. M. Hare, Il pensiero morale. Livelli, metodi, scopi, a cura di S. Sabattini, il Mulino, Bologna 1989 (Moral Thinking: Its Levels, Methods and Points, Oxford University Press, Oxford 1981). PE: G. E. Moore, Principia Ethica, a cura di G. Vattimo, Einaudi, Torino 1964. SL: J. S. Mill, Scienza della logica, 2 voll., a cura di M. Trincherio, UTET, Torino 1988. SO: R. M. Hare, Sorting out Ethics, Oxford University Press, Oxford 1997. TCR: J. C. Harsanyi, Moralit e teoria del comportamento razionale (1977), in A. Sen-B. Williams (a cura di), Utilitarismo ed oltre, Edizioni Net, Milano 2002. TRG R. Brandt, A Theory of the Right and the Good , Clarendon Press, Oxford 1979. U: J. S. Mill, La libert, Lutilitarismo, Lasservimento delle donne, a cura di E. Lecaldano, Rizzoli, Milano 1995. E

UFA: J. J. Smart, Lineamenti di un sistema morale utilitarista, in Smart/Williams, Utilitarismo: un confronto, a cura di B. Morcavallo, Bibliopolis, Napoli 1985 ( An Outline of a System of Utilitarian Ethics, in Smart/Williams, Utilitarianism: for and against, Cambridge University Press, Cambridge 1973). UT: J. C. Harsanyi, Lutilitarismo, a cura di S. Morini, il Saggiatore, Milano 1994 (raccoglie i seguenti saggi: Verso una teoria del comportamento razionale, Teoria della decisone bayesiana ed etica utilitaristica, Utilit individuali ed etica utilitaristica , Utilitarismo della regola e teoria della decisione, Benessere cardinale, etica individualistica e confronti interpersonali di utilit, Pu il principio del maxmin essere una base per la morale?).

JEREMY BENTHAM
Non possibile fornire una definizione univoca dellutilitarismo, come daltra parte di gran parte delle teorie morali contemporanee. Lutilitarismo, fin dalla sua origine (ovviamente non possibile definire la data di nascita di una dottrina filosofica, anzi, la considerazione dellutilit per certi aspetti sembra esser presente, solo come generica tendenza del comportamento umano, gi nella filosofia greca, si pensi alla nozione di imparzialit discussa dallo Stoicismo e passata poi nel Cristianesimo), o meglio, fin dal momento in cui stato trattato come dottrina morale, ha subito diverse ridefinizioni, sia nel suo apparato concettuale, sia nei suoi criteri normativi. Esso inoltre composto da diversi fattori ed stato impiegato nel 900 sia come teoria morale, sia come paradigma economico, sia come teoria della giustizia, con risultati dibattuti e controversi. Inoltre, al giorno doggi, parlare in modo univoco di utilitarismo appare non del tutto corretto, perch vi sono varie versioni di esso (utilitarismo dellatto, della regola, utilitarismo della preferenza, utilitarismo della norma ideale, utilitarismo edonistico sullesempio degli autori classici). Ad ogni modo, per cominciare, si pu provare a fornire una definizione di comodo, molto parziale ed incompleta, dellutilitarismo stesso, in modo da orientarsi nel suo studio. Dunque, lutilitarismo , in generale, quella dottrina morale che raccomanda di agire sempre per incrementare la quantit di utilit (o di felicit o di benessere) presente nella societ; ossia, tra due o pi azioni alternative, va scelta quella che incrementer maggiormente la quantit complessiva di utilit posseduta da tutti gli individui interessati dalle conseguenze

dellazione. Come si legge nel Dictionnaire de philosophie morale, curato da M. Canto-Sperber: Lutilitarismo insegna che unazione non pu essere giudicata buona o cattiva se non in ragione delle sue conseguenze buone o cattive in vista della felicit degli individui coinvolti. Lutilitarismo pertanto una dottrina consequenzialista (poich presta maggiore attenzione agli effetti ed alle conseguenze di un atto) e in genere teleologica (poich indica un fine preciso per lazione, cio lincremento dellutilit). Lopera di Jeremy Bentham (1748-1832), Introduzione ai principi della morale e della legislazione, pubblicata per la prima volta nel 1789 (lanno della Rivoluzione Francese), il testo che viene indicato come quello che ha fatto nascere la dottrina utilitarista come teoria filosofica. Bentham ritiene in realt che il principio di utilit sia qualcosa di intimamente presente, in modo innato, in tutti gli esseri umani, poich evidente che ognuno tende a preferire quegli oggetti (o a compiere quegli atti) che gli procurano piacere: Non esiste e non mai esistita una creatura umana vivente, per quanto stupida o perversa, che non abbia fatto riferimento al principio di utilit in molte, forse nella maggior parte delle situazioni della sua vita. Per la naturale costituzione della struttura umana, nella maggior parte delle situazioni della loro vita, gli uomini generalmente abbracciano tale principio senza rifletterci, se non per regolare le loro azioni e quelle degli altri, almeno per giudicarle (IPML, I.12)1. Lautore sostiene che il primo a parlare in modo argomentato del principio di utilit sia stato David Hume2, il quale per ne
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Gran parte della trattazione dellutilitarismo di Bentham, Mill e Sidgwick far riferimento ai testi di F. Frongia, Nascita dellutilitarismo contemporaneo, Angeli, Milano 2000 e di F. Fagiani, Lutilitarismo classico da Bentham a Sidgwick, Edizioni Busento, Cosenza 1990. 2 Questa tesi costituisce lasse portante del classico saggio di J. Plamenatz, The English Utilitarians, Basil Blackwell, Oxford 1966.

avrebbe fornito una definizione vaga e confusa. Se facciamo per un attimo riferimento a Hume, vedremo che nellopera Ricerca sui principi della morale (1751), alla fine del capitolo V (intitolato peraltro Perch lutilit piace), lautore scrive: Il fatto che la caratteristica dell utilit, in ogni caso, sia fonte di lode e di approvazione, sembra che sia una questione di fatto; del pari sembra che sia questione di fatto che costantemente ci si appella allutilit in tutte le decisioni morali che riguardano il merito ed il demerito delle azioni, che lutilit la sola fonte dellalta considerazione che si ha per la giustizia.in una parola, che lutilit il fondamento della parte principale della morale. Lo stesso Hume per evidenzia in questopera come lutilit non sia il fondamento della moralit, bens una tendenza tra le altre che pu certamente motivare la condotta, senza per determinarla in modo primario: Lutilit soltanto una tendenza ad un certo fine; e se il fine ci fosse del tutto indifferente, noi proveremmo la stessa indifferenza nei riguardi dei mezzi per conseguirlo. Qui occorre che si affermi un sentimento, affinch si dia una preferenza alle tendenze utili rispetto a quelle dannose3. Quindi, Hume non pu essere definito un utilitarista antelitteram (ed in questo senso ha ragione Bentham, largomentazione di Hume vaga, ma non perch egli non avesse ben compreso il principio di utilit, bens perch non era interessato a parlarne), poich la sua riflessione morale ha dei presupposti concettuali e degli scopi diversi da quelli utilitaristici: essa per esempio non interessata a delineare una dottrina etica normativa (mentre questo lo scopo principale degli utilitaristi) e, al contrario dellutilitarismo, sostiene

D. Hume, Ricerca sui principi della morale, edizione con testo a fronte, trad. di M. Dal Pra, a cura di E. Lecaldano, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 99 per la prima citazione e p. 191 per la seconda.

esservi un legame significativo tra le emozioni del singolo e le sue valutazioni morali. Secondo Bentham, invece, chi si maggiormente avvicinato a definire il principio di utilit stato Helvetius, nellopera De lEsprit del 1758. In realt, stato lo stesso Bentham ad introdurre nel campo della filosofia morale il principio di utilit, fin dal 1776, sebbene lenunciazione dellassunto cardine dellutilitarismo, the greatest happiness of the greatest number, stata da alcuni studiosi collegata alla riflessione di F. Hutcheson il quale, nellopera An Inquiry Concerning Moral Good and Evil (1725), nel cap. III 8, afferma che la migliore azione possibile quella che procura la maggiore felicit per il maggior numero; e la peggiore quella che, similmente, genera la miseria. Il punto di partenza di Bentham dunque lesperienza diretta del fatto per cui gli individui tendono a ricercare ci che procura loro piacere e a rifuggire quello che li conduce al dolore; secondo Bentham questa una constatazione naturale e della quale il moralista deve prendere atto: La natura ha posto il genere umano sotto il dominio di due supremi padroni: il dolore e il piacere. Spetta ad essi soltanto indicare quel che dovremmo fare, come anche determinare ci che giusto o ingiustoDolore e piacere ci dominano in tutto quel che facciamo, in tutto quel che diciamo, in tutto quel che pensiamo (IPML, I.1, p. 89). Secondo Bentham il principio di utilit allora il pi appropriato e quello che risponde meglio alle naturali esigenze degli individui; chi non si rende conto di ci non in grado di ragionare in maniera chiara o non capace di comprendere ci che lesperienza gli mostra. Se per esempio ci venisse proposto un principio alternativo a quello di utilit, secondo Bentham esso andrebbe accuratamente esaminato per accertarsi se il principio che crede di aver trovato sia davvero un principio intelligibile ben distinto, o non sia un mero principio verbale, una specie di frase che alla fine

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non esprime n pi n meno che la pura affermazione dei propri infondati sentimenti, cio quel che in unaltra persona egli potrebbe chiamare capriccio (IPML, I.14). Bentham nella sua esposizione adotta un metodo che si potrebbe definire assiomatico-deduttivo, in quanto vorrebbe dotare letica di quella saldezza e sistematicit che appartenevano alle scienze naturali del suo tempo e per questo egli non solo fornisce delle definizioni il pi possibile rigorose, ma opera delle classificazioni molto puntuali dei concetti trattati, sul modello tassonomico adottato da Linneo per le scienze naturali. Lopera presente, scrive Bentham, cos come ogni altra mia opera che stata o sar pubblicata sul tema della legislazione o su ogni altro ramo della scienza morale, un tentativo di estendere il metodo sperimentale di ragionamento dal settore fisico a quello morale. Ci che Bacone stato per il mondo fisico, Helvetius lo stato per il morale. Il mondo morale ha perci avuto il suo Bacone, ma il suo Newton non ancora venuto . Bentham parte da un serie di principi generali ritenuti evidenti in base allesperienza (il fatto che gli uomini siano influenzati dal piacere e dal dolore, il fatto che ognuno ricerchi la felicit ed il proprio benessere), per costruire su di essi la sua indagine sulla morale. Egli vuole inoltre meglio definire il rapporto tra letica e il diritto (linteresse di Bentham infatti in primis di carattere legislativo), il quale regolato da norme giuridiche, ed affermare di contro che nellambito della moralit ogni individuo pu agire in modo libero, ossia non costretto da leggi o interventi del legislatore, a patto che sia sempre guidato dal principio di utilit. Bentham non ha per alcun intento fondativo rispetto allutilitarismo (come invece fanno gli utilitaristi moderni), poich tale dottrina a suo parere semplicemente identifica il valore con la felicit (in questo

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senso una teoria del valore) e promuove quella condotta che massimizza lutilit (in questo senso normativa). Losservazione dellimportanza del piacere e del dolore per lindividuo, conduce Bentham a definire cos il principio di utilit:
quel principio che approva o disapprova qualunque azione a seconda della tendenza che essa sembra avere ad aumentare o diminuire la felicit della parte il cui interesse in questione. [Pertanto] Per utilit si intende quella propriet di ogni oggetto per mezzo del quale esso tende a produrre beneficio, vantaggio, piacere, bene o felicitoppure ad evitare che si verifichi quel danno. [Infine]: unazione pu essere conforme allutilitquando la sua tendenza ad aumentare la felicit della comunit maggiore di ogni sua tendenza a diminuirla (IPML, I.2.3.6).

Come si pu notare, lutilit una propriet che Bentham ascrive agli atti e che conoscibile come qualcosa di cui, ad uno sguardo attento, qualsiasi individuo pu fare esperienza (vi qui una distinzione netta rispetto a Hume, per il quale le propriet morali sono assimilabili alle qualit secondarie e dunque hanno un fondo soggettivo). La tendenza edonistica perci innata negli individui ed il principio di utilit deve semplicemente essere meglio definito per incanalare tale tendenza edonistica, correggendola eventualmente, ma senza fondarla. Esso infatti una sorta di unit di misura empirica che permette di stabilire la giustezza o meno degli atti, delle scelte: questa idea presente in Bentham anche perch egli aveva di mira la costruzione di un sistema legislativo giusto, il quale potesse comminare delle sanzioni eque basandosi su una applicazione rigorosa, ma al contempo ragionevole, del principio di utilit. Lautore sembra abbastanza chiaro in proposito: il piacere e levitare il dolore, sono i fini che il legislatore ha in vista. Compete a lui, perci,

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comprendere il loro valore. I piaceri e i dolori sono gli strumenti con cui deve lavorare e perci per lui doveroso comprendere la loro forza (IPML, IV.1). Ci che differenzia Bentham rispetto a Hume ed ai moralisti del 700, non solo laver depurato letica da qualsiasi riferimento trascendente o comunque estrinseco rispetto ad essa; egli ha altres contribuito a trasformare il principio di utilit, da Hume inteso solo come strumento analitico, esplicativo, in strumento prescrittivo o valutativo, poich esso non descrive solo la bont di una istituzione o di un atto che produce piacere, bens prescrive il corso dazione che massimizza al meglio lutilit, valutandolo per questo positivamente (o negativamente nel caso contrario). Bentham perci per certi aspetti anticipa la teoria dellazione razionale, poich egli sostiene che tale lazione che massimizza lutilit, ovvero lazione che, in base al calcolo felicifico compiuto dagli agenti, presenta il miglior saldo attivo di benefici sui costi in termini di utilit. Se lagente tiene conto solamente del proprio interesse, agir secondo le sole regole della prudenza, ma solo se riuscir a considerare anche gli interessi altrui, sar un utilitarista. Si pu notare di passaggio che lautore nomina in modo costante la comunit in cui gli individui vivono. Infatti, sebbene, come detto, egli ritenga che ci sia una separazione tra la condotta che riguarda se stessi e quella che riguarda i propri rapporti con gli altri, vi deve essere un medesimo criterio che regola questi due ambiti ed esso deve essere coerente con il principio di utilit. Il cittadino ha il dovere di contribuire al benessere complessivo della comunit in cui vive, sebbene spetta al legislatore approntare e garantire le condizioni per favorire il comportamento utilitarista. Il legislatore, daltra parte, deve avere ben chiaro in mente che esiste una gradualit che caratterizza la giustezza o meno delle azioni compiute, nel

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senso che non sempre un atto buono o cattivo in massimo grado, ma lo pu essere secondo differenti modalit; inoltre, importante conoscere, per quel che possibile, le intenzioni ed i moventi che spingono gli individui ad agire, proprio a partire dagli effetti empiricamente osservabili delle loro azioni. Va tuttavia detto che Bentham non molto chiaro per quel che riguarda i criteri che delimitano una comunit: egli per esempio include in essa anche le specie animali, ma naturalmente tale asserzione problematica. probabile che, al di l dei punti oscuri della trattazione di Bentham, la sua vaghezza nella definizione dei limiti della comunit sia ascrivibile allidea per cui il principio di utilit debba regolare sia lambito pubblico che quello della condotta privata, tenendoli per nettamente separati: per quanto riguarda quel ramo della disposizione di un uomo il cui effetto riguarda in prima istanza solo la sua persona non c molto che si possa dire. Il compito di riformare questa disposizione, quando cattiva, spetta al moralista piuttosto che al legislatore (IPML, XI.2). Di contro, lacribia che Bentham mostra nel definire il principio di utilit e le nozioni di piacere e dolore non deve far pensare che egli sia un completo determinista in campo morale. Certamente egli vorrebbe che la sua trattazione della morale adottasse alcuni paradigmi meccanicisti, propri del modello di scienza a lui coevo; egli tuttavia sa bene che il comportamento umano vario ed influenzato da molti fattori, i quali non sono riducibili a pochi principi. Inoltre, la ricerca del piacere non pu essere oggetto di una preparazione accurata, come se prima di agire si dovessero fare dei calcoli complessi per comprendere quale atto sia pi apportatore di felicit e quale meno, dato che possono verificarsi eventi imponderabili. Lautore infatti riconosce che non ci si deve aspettare che questo procedimento sia scrupolosamente seguito prima di ogni

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giudizio morale, o di ogni provvedimento legislativo o giudiziario. Tuttavia, si pu sempre tenerlo presente, e pi il procedimento realmente seguito in tali occasioni, pi quel procedimento si avviciner allesattezza (IPML, IV.6) Bentham traccia anche delle classificazioni dei piaceri e dei dolori in base allintensit ed alla durata, ma questo non sempre pu essere daiuto a chi agisce. Quindi, nella filosofia di Bentham, lespressione calcolo felicifico significa che lindividuo, prima di agire, deve compiere delle valutazioni ponderate, avendo sempre presente il suo fine, ossia laccrescimento della utilit sociale, ma non pu compiere operazioni di carattere matematico. Lindividuo pu fare invece affidamento sui fattori che possono rendere meno arduo valutare gli esiti di un atto: la certezza che le leggi del comportamento umano siano nella gran parte dei casi costanti; la conoscenza dei caratteri degli individui con i quali si hanno rapporti; le esperienze accumulate in precedenza rispetto al verificarsi di certi effetti in determinate circostanze e cos via. Bentham vuole in sostanza definire alcune regole generali costanti, ricavabili dallosservazione del comportamento umano, in base alle quali lindividuo potr agire, ma, come detto, il calcolo si riduce alla considerazione delle proprie conoscenze sulla natura degli individui, delle proprie esperienze passate: lautore indica il metodo generale, saranno poi gli individui che, in base alle diverse circostanze, lo applicheranno. Inoltre, molto spesso ci che procura piacere non conferisce necessariamente la felicit, magari perch lindividuo crede che un atto sia per lui piacevole e invece lo conduce alla rovina. Il legislatore ed il filosofo morale, nei rispettivi ambiti, devono tenere dunque presente il valore condizionale di ci che spinge luomo ad agire. Per queste ragioni Bentham fornisce una descrizione condizionale delle azioni che conducono al piacere o al

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dolore, dato che non esiste unazione in s sempre giusta o sempre sbagliata, poich ci possono essere diversi stadi approssimazione al principio di utilit. Egli a questo proposito evidenzia che laddove si esamina una condotta bisogna fare riferimento ad elementi quali: 1) latto compiuto; 2) le circostanze in cui esso viene compiuto; 3) lintenzione che laccompagna; 4) la consapevolezza che di esso si ha; 5) il movente; 6) la disposizione generale dellagente che esso indica. Il discorso che Bentham fa a proposito di questi elementi, interessante per tre motivi: in primis, egli mostra in tal modo la volont di indagare secondo un metodo scientifico aspetti della vita interiore degli individui (si rammenta che egli adotta un approccio osservativo, empirico ma non valutativo di questi moti interiori, in quanto lontano dalla psicologia associazionista); in secondo luogo, egli non si sofferma a considerare solo gli effetti di un atto, ma ritiene sia giusto provare a considerare anche ci che interiormente spinge lindividuo ad agire; infine, lautore, nella trattazione di questi temi, avverte pi volte delle ambiguit e delle difficolt insite nel linguaggio con il quale solitamente si parla della morale. Bentham pensa in particolare che laccettazione o meno di un atto (elemento 1) come piacevole o spiacevole non sia univoca, sia perch gli individui sono diversi tra loro, sia perch uno stesso individuo, in base alle sue condizioni psicofisiche, alle sue convinzioni religiose, alleducazione, alla sensibilit, alle fasi della sua vita, pu percepire il piacere in modo differente. Pertanto, sebbene la causa del piacere possa essere la medesima (un evento particolare), la risposta non sar sempre la stessa, ma dipender dalle disposizioni individuali: la quantit di piacere o dolore che un uomo soggetto a sperimentare in ragione ad una causa scatenante, dal momento che non dipender del tutto da quella causa, dipender in

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qualche misura da qualche altra circostanza o circostanze (IPML, VI.5). fondamentale considerare altres il rapporto che sussiste tra atti e conseguenze. Tra di essi vi una distinzione per cos dire cronologica, prima che concettuale, empiricamente evidente: latto si esaurisce, come evento, in un breve lasso di tempo, mentre le conseguenze, ad esso posteriori, possono avere varie sfaccettature e prolungarsi nel tempo. Daltra parte, non possibile descrivere e definire in modo esaustivo le conseguenze di unazione, n porre un rapporto necessario tra esse e latto che le origina, mentre un atto si pu definire in modo pi esatto, in quanto tale secondo Bentham solo se nasce da unintenzione (elemento 3). Inoltre, le conseguenze di un atto non possono essere intenzionali, senza che latto stesso lo sia almeno al suo primo stadio. Se latto non intenzionale al suo primo stadio, non un tuo atto (IPML, VIII.5). Detto in altro modo: Bentham offre un resoconto empirico sul benessere, in virt del quale il tuo benessere consiste solo delle esperienze che hai. Qualsiasi cosa ti accada al di fuori delle tua consapevolezza e non tocca tale consapevolezza, non pu influenzare il tuo benessere4. Dunque, i tre elementi, ossia intenzioni, atti e conseguenze, sono decisivi per la riflessione di Bentham e le distinzioni poste tra di essi, sebbene non sempre chiare, sono comunque fondamentali. La differenza tra intenzioni e conseguenze soprattutto linguistica, poich le prime rappresentano per cos dire latto a livello interiore, solo pensato, mentre le seconde riguardano gli effetti che esso produce una volta che si esternato.

Crisp R. (edited by), Mill on utilitarianism, Routledge, London and New York 1997, p. 21.

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Allora per prima cosa, lintenzione o volont pu riguardare uno dei due seguenti oggetti: 1. Latto stesso 2. Le sue conseguenze. Di questi due oggetti, si caratterizza come intenzionale quello preso in considerazione dallintenzione. Se lintenzione prende in considerazione latto, allora si pu dire che latto intenzionale; se prende in considerazione le conseguenze, allora allo stesso modo si pu dire che le conseguenze sono intenzionali. Se riguarda sia latto che le conseguenze, si pu dire che tutta lazione intenzionale. Se nessuno di questi due elementi oggetto di intenzione, naturalmente si pu dire che lazione inintenzionale (IPML, VIII.2).

Vi invece una relazione causale tra intenzioni ed atti, ma essa non meccanica, nel senso che unintenzione di un certo tipo non produrr necessariamente sempre lo stesso atto; inoltre, unintenzione buona pu anche tramutarsi in un atto cattivo (e viceversa) e ci dipender dagli effetti causati, ossia proprio dalle conseguenze. Tuttavia, la bont di unazione pu anche non mostrarsi nei soli suoi risultati per le circostanze avverse che lo impediscono: in quel caso per ad essere cattive non sono n le intenzioni, n le conseguenze, bens le circostanze (lelemento 2), le quali non dipendono dalla volont del soggetto (egli spesso non le pu influenzare, sebbene dovrebbe quantomeno averne consapevolezza, elemento 4), come accade invece per le intenzioni. Gli atti, con le loro conseguenze, sono oggetti della volont come dellintelletto; le circostanze, come tali, sono oggetto del solo intelletto. Tutto quello che [lindividuo] pu fare di esse, come tali, conoscerle o non conoscerle; in altre parole: esserne consapevole o inconsapevole (IPML, VIII.13). La considerazione di questi elementi fondamentale per stabilire in modo chiaro la responsabilit effettiva di chi agisce, il quale pu anche essere stato costretto ad agire in un certo modo e dunque non essere colpevole. Ci che Bentham sembra

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qui suggerire che, fatto salvo il ruolo delle conseguenze nella valutazione di un atto, esiste anche un elemento intrinseco alle azioni, ovvero le intenzioni, la cui influenza non va trascurata. Per di pi, per quanto possibile, le intenzioni possono essere conosciute. Per quel che riguarda i moventi (elemento 5), Bentham precisa che come movente va intesa qualunque cosa che, influenzando la volont di un essere senziente, si suppone serva come mezzo per costringerlo ad agire, o ad evitare volontariamente di agire, in ogni occasione (IPML, X.3). Bentham propone una distinzione dei moventi (i quali possono esseri interno o esterni) che non facile da seguire, ma fondamentale comprendere che per lui anche i moventi in s non sono costantemente buoni o cattivi, poich ci che conta sono gli effetti che essi producono: se un qualunque tipo di movente, considerando i suoi effetti, pu essere definito con una certa appropriatezza cattivo , questo pu avvenire solo in riferimento al bilancio di tutti gli effetti di entrambi i tipi che pu aver avuto durante un dato periodo (IPML, X.29). I moventi vanno esaminati con attenzione per verificare la loro coerenza con il principio di utilit, sia rispetto alle azioni che riguardano se stessi, sia rispetto a quelle che concernono la societ. Per cui, un movente come il prendersi cura di s (legoismo), sebbene spesso debba essere limitato, possiede altre volte una funzione positiva, in quanto fino a un certo punto giusto interessarsi a se stessi. I moventi sono in definitiva laspettativa di piacere o di dolore che muove allazione: essi dunque sono variabili e contano relativamente poco nella determinazione della responsabilit (morale e legale), soprattutto perch spesso non conducono allazione, mentre lintenzione ha un carattere pi significativo, giacch determina effettivamente la responsabilit individuale. Tuttavia, lunico elemento realmente costante nellanimo umano, quello da cui deriva gran parte del suo comportamento,

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la disposizione (elemento 6), la quale una specie di entit fittizia, ipotizzata ai fini del discorso, per esprimere quel che si suppone permanente nella struttura mentale di un uomo, quando in una certa occasione stato spinto da un certo movente ad intraprendere una azione (IPML, XI.1). Bench anche le disposizioni siano buone o cattive in base agli effetti che esse determinano, tuttavia esse rispetto ai moventi ed alle intenzioni possiedono un grado di costanza maggiore perch in gran parte corrispondono al carattere dellindividuo. In coerenza con il suo interesse etico-politico, lautore nota come la conoscenza delle disposizioni sia indispensabile per risalire ai moventi e alle intenzioni che hanno condotto un individuo ad agire: in questo modo, anche il legislatore possiede uno strumento abbastanza affidabile per i propri provvedimenti, sebbene la disposizione sia qualcosa che interessa soprattutto il filosofo morale, tanto vero che correggerla quando cattiva compito pi del moralista che del legislatore (IPML, XI.2). Le disposizioni possono essere quindi educate e limitate, favorendo quelle che per esperienza si mostrano vantaggiose, sia per il singolo, ma soprattutto per la comunit: fondamentale quindi la loro coerenza con il principio di utilit. La possibilit di risalire dalla disposizione ai moventi ottenuta tramite un tipo di inferenza, la quale non di stampo deduttivo, bens legata alla conoscenza del carattere di una persona, della sua sensibilit, delle circostanze della sua vita, della sua condizione sociale: su queste informazioni si basa il cosiddetto calcolo felicifico. Peraltro, anche il rapporto di causa/effetto che Bentham pone tra disposizioni ed atti non assoluto, bench il modello di riferimento sia quello che regola i fenomeni naturali e che la scienza naturale descrive. Per questo si pu sostenere che nelletica di Bentham viga una sorta di meccanicismo attenuato, cosciente del fatto che la

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condotta umana sia solo in parte spiegabile secondo rapporti di causa/effetto. Per chiarire meglio queste distinzioni, si pu affermare che latto e le conseguenze sono elementi fattuali, descrittivi, empiricamente conoscibili, sebbene le conseguenze siano pi varie e pi utili per valutare latto (hanno quindi in parte una funzione valutativa). Le intenzioni e le disposizioni sono invece elementi psicologici, conoscibili in modo parziale ed impiegate con funzione generalmente valutativa, in quanto tramite esse latto viene valutato e sanzionato dal legislatore. I moventi rappresentano lespressione esterna di questi elementi psichici. Nelledizione del 1823 di IPML, Bentham aggiunge una nota che avr grande importanza nello sviluppo dellutilitarismo: egli rileva infatti che alla denominazione principio di utilit stato in seguito aggiunto o sostituito il principio della maggiore felicit o maggiore eudemonia;la parola utilit non si riferisce cos chiaramente alle idee di piacere e dolore, come invece le parole felicit (happiness) e eudemonia ed inoltre non ci porta a considerare il numero degli interessi toccati (IPML, I.1a). Una tale concezione peraltro presente in unaltra opera, il Fragment on Government, nella quale Bentham scrive: la misura del giusto e dellingiusto data dalla capacit di un atto di produrre la maggiore felicit per il maggior numero di individui5. questa la celebre formula benthamiana, la maggior felicit per il maggior numero. Il cambiamento sostanziale, sebbene poi Bentham forse non tragga appieno le conseguenze di esso, come invece far J. S. Mill. Ad ogni modo, secondo Bentham il compito del legislatore e del cittadino, nei loro diversi ambiti dazione, quello di promuovere la felicit collettiva. Essi devono avere di
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J. Bentham, A Fragment on Government , a cura di J.H. Burns e H.L.A. Hart, Athlone, London 1977.

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mira la maggior felicit per il maggior numero di individui, allinterno di una comunit nella quale vanno contemperate le esigenze individuali e quelle collettive. La felicit ha infatti un ambito pi esteso del piacere, poich ci possono essere piaceri che non conducono ad essa. Bentham infatti ricorda che fondamentale la rappresentazione che ognuno di noi si fa del suo stato di benessere: quello che appare come felicit pu variare in virt delle condizioni psico-fisiche dellindividuo, della sua et, delle circostanze. E dunque lindividuo che pu giudicare nel modo migliore della propria felicit: questo non significa che il legislatore non possa formulare norme in tal senso, ma solo che, nella sfera personale (dove si agisce in base alla prudenza e dove il movente legoismo), la felicit una condizione spesse volte soggettiva e la promozione dei mezzi per raggiungerla va armonizzata con il diritto alla felicit posseduto dagli altri membri della comunit. In definitiva, la felicit uno stato diffuso della coscienza, poich ha un carattere costante e non possiede una localizzazione spaziale e temporale ben definita. Piacere e dolore, invece, sono delle sensazioni, spesso estemporanee, produttori di effetti circoscritti e dotati di durata limitata. Come pi volte sottolineato, lopera di Bentham non nasce solo come trattato di filosofia morale; al contrario, lautore in gran parte interessato a descrivere le modalit attraverso le quali garantire il buon governo della comunit politica6. Ma qual il rapporto che tale riflessione morale ha con la legislazione? Lautore ritiene che letica, al contrario del
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Bentham per esempio ide un nuovo sistema di sorveglianza dei detenuti, il Panottico, ovvero una struttura carceraria nella quale, in base alla particolare disposizione delle celle, un solo sorvegliante, posto al centro della struttura, avrebbe potuto controllare, non visto, tutti i detenuti. Del Panottico e del modello generale di carcerazione e punizione dei detenuti che esso introduce, M. Foucault in Sorvegliare e punire (a cura di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1995), conduce uninteressante disanima critica, cfr. pp. 213-250.

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diritto, sia larte di dirigere le azioni umane alla produzione della pi grande quantit possibile di felicit (IPML, XVII.2); questa definizione, molto generica, si applica in particolare alla condotta che riguarda se stessi, ossia alle regole di prudenza, le quali non dovrebbero essere influenzate dalla legge, mentre la sfera del diritto quella regolamentata da leggi la cui trasgressione implica una sanzione. Per esempio, se qualcuno decidesse di compiere sempre le cose che gli procurano svantaggio e insoddisfazione, nessuna legge potrebbe intervenire per farlo recedere da questo proposito, ovviamente nel caso che questo individuo non arrechi danno agli altri. Il diritto infatti per Bentham essenziale allordine della comunit, in quanto regola i conflitti tra i soggetti che, nella loro ricerca del benessere, possono trovarsi in disaccordo. Pertanto, la sfera della legge cerca di contemperare il naturale diritto alla felicit che tutti hanno, con lobbligo di rispettare questo diritto negli altri, ma non pu intromettersi nella sfera privata ed imporre, per esempio, di non essere egoista. Naturalmente, il legislatore pu operare, in modo indiretto, per far s che comportamenti di questo genere, i quali possono facilmente avere delle gravi ricadute sociali, non vengano adottati, quantomeno nei rapporti con altri individui. In questultimo caso letica pu cooperare con il diritto, anche perch essi sono due rami che partono dallo stesso tronco e che, nel disegno di Bentham, hanno lo stesso scopo: laffermazione del principio di utilit. Per questo lautore sostiene che le definizioni relative al piacere, al dolore, alle disposizioni, alle intenzioni ed ai moventi, sono suscettibili dellapplicazione pi estesa e costante sia al discorso morale come alla pratica legislativa (IPML, IX.18). Ci significa che per Bentham le sfere del diritto e delletica sono complementari e che il diritto rappresenta, per cos dire, un sottoinsieme delletica, la quale si applica ad un numero di atti molto pi ampio. Letica pu a sua volta rafforzare il

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diritto, dissuadendo, in modo preventivo, chi vuole compiere un atto malvagio, sebbene essa, rispetto al diritto, non possieda strumenti coercitivi. Letica inoltre pu promuovere in modo positivo, nel costume e nella societ, quelle condizioni che tendono a scoraggiare azioni lesive dei diritti altrui. Ci risulta chiaro quando Bentham esamina i tipi di sanzioni che possono applicarsi a chi sbaglia. Esistono le sanzioni fisiche (legate al piacere e al dolore fisico) e quelle politiche, le quali si identificano con la sfera del diritto e della legge: esso provengono direttamente dal potere sovrano e colpiscono chi non ottempera alla legge. Il potere sovrano ovviamente ha il diritto di comminare queste sanzioni perch la comunit ha messo nelle sue mani la propria sicurezza, in cambio della possibilit di esercitare il proprio diritto alla felicit. La sanzione politica possiede inoltre particolare efficacia se si coordina con le sanzioni religiose, ma soprattutto con quelle morali. Queste ultime, chiamate da Bentham anche public opinions, agiscono sullindividuo perch sono quelle forme di approvazione o disapprovazione che la comunit pu manifestare verso il suo comportamento. Esse, pur non utilizzando mezzi coercitivi, vanno a toccare il desiderio di ingraziarsi gli altri, ossia lamore per la reputazione e generano, nellindividuo, un sentimento che lo spinge ad incontrare il favore altrui. Proprio in questo modo, letica mostra di essere pi ampia del diritto: questo infatti ha un carattere essenzialmente punitivo, mentre letica elargisce una sorta di premio, legato al piacere che deriva dal vedere che gli altri approvano la nostra condotta. Tuttavia proprio questo il modo con cui letica pu allearsi al diritto: La paura delle punizioni e la speranza delle ricompense che derivano dallamore della reputazione (love of reputation) uno di quei moventi tutelari (tutelary motives) la cui tendenza regolare e ordinaria di trattenere gli esseri umani da ogni sorta di comportamento nocivo per la societ; per non menzionare la

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tendenza a spingerli ad azioni che tendono a produrre un benefico effetto7. Si pu in conclusione sostenere che la concezione etica di Bentham assume cinque capisaldi: 1. 2. 3. 4. 5. nulla desiderabile in s, eccetto ottenere il piacere ed evitare il dolore; il piacere di un uomo in s altrettanto desiderabile come il piacere di un altro; lazione corretta sempre quella che dalla prospettiva dellagente ritenuta essere produttiva della pi grande felicit; luomo costituzionalmente egoista, ma capace di benevolenza; leggi e punizioni devono agire in modo tale che, con la minima riduzione di libert e quantit di dolore, garantiscano che gli individui agiscano in modi che promuovano la felicit altrui come la loro.

J. Bentham, Of laws in general, a cura di H.L. Hart, Athlone, London 1979, XVI.12.

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JOHN STUART MILL


John Stuart Mill (1806-1873) un altro degli utilitaristi classici, nonch figlio del filosofo utilitarista James Mill. John Stuart studi a fondo la filosofia di Bentham ed ader ben presto alla dottrina utilitarista, come si evince da quello che scrive nella sua Autobiografia, quando ricorda come nel 1822 avesse progettato di fondare un circolo denominato Utilitarian Society. La riflessione morale di Mill comunque una parte del suo pi generale metodo filosofico, ampiamente esposto nellopera Sistema di logica (1843), cui qui si potr solo accennare. Per quel che riguarda lutilitarismo, Mill da giovane conduce una contestazione generale al metodo di lavoro di Bentham; nel 1838, in un articolo a lui dedicato, Mill scrive per esempio I punti generali della sua filosofia presentano pochi elementi di novit, se non addirittura nessuno. Considerare innovativa la dottrina secondo cui lutilit generale la fondazione della morale, significherebbe ignorare la storia della filosofia, della letteratura generale e delle opere dello stesso Bentham8. Una seconda critica a Bentham legata alla sua incapacit di trarre insegnamento da altri autori, ossia la sua incapacit a confrontare le proprie idee con quelle di autori che le avevano anticipate o esposte in forma embrionale: Bentham non ha saputo trarre alcun beneficio da altri intelletti. I suoi scritti contengono poche tracce di unaccurata conoscenza di scuole di pensiero diverse dalla sua; mentre contengono molte prove della sua forte convinzione che esse non gli avrebbero insegnato nulla che valesse la pena conoscere9.
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J. S. Mill, Bentham e Coleridge, trad. di M. Stangherlin, Guida, Napoli 1999, p. 55. 9 Ibidem, p. 60

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dunque allinizio necessario soffermarsi sulle differenze metodologiche fra Mill e Bentham, perch lutilitarismo di Mill accetta invece molti dei presupposti pratici di Bentham, inserendoli per allinterno di un apparato concettuale nuovo ed affrontandoli attraverso una diversa metodologia dindagine. Per esempio, mentre il metodo empirico di Bentham cerca di fornire alla morale il carattere di una scienza naturale, in Mill prevale lidea che letica non sia affatto una scienza. Contro la scuola intuizionista, Mill critica invece come inapplicabile lidea che i principi morali siano autoevidenti, in quanto se ci fosse vero, si dovrebbe postulare lesistenza di una facolt morale specifica. Per questo il principio di utilit non pu essere dedotto come i principi scientifici: lunica cosa realmente chiara che il fine ultimo la felicit e che questo fine ultimo non pu essere razionalmente provato, giacch evidente che non pu trattarsi di una prova nel senso popolare del termine. Le questioni che riguardano i fini ultimi non ammettono prove (U, p. 237):
Non dobbiamo per questo concludere che la formula [del principio dellutilit] debba essere accettata o respinta sulla base di un impulso cieco o di una scelta arbitraria. C anche un significato pi ampio della parola prova [ proof], cui la nostra questione pu ricondursi, n pi e n meno di tutte le altre questioni discusse dalla filosofia. Il nostro tema rientra nellambito della competenza della facolt razionale; e questa facolt non lo tratta certo unicamente in modo intuitivo (U, p. 238).

Mill in realt sostiene che lutilitarismo pu andare oltre lintuizionismo, incorporandolo in s stesso ed ampliandone la portata morale: Se mai ci fosse qualcosa di innato al riguardo, non vedo ragioni perch a essere innato non dovrebbe essere un sentimento di considerazione per i dolori e i piaceri altrui; se c un principio della morale intuitivamente obbligatorio, direi

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che deve essere proprio questo. Ma allora, letica intuizionista coinciderebbe con quella utilitarista (U, p. 274). Mill rifiuta il metodo deduttivo-astratto di Bentham, poich ritiene impossibile, per letica, fare delle osservazioni sperimentali complete come quelle della scienza; al contempo egli sostiene che il principio di utilit non un principio del quale sia possibile condurre una completa dimostrazione sperimentale: Anche se potessimo escogitare esperimenti a piacere e compierli senza limiti, lo faremmo in condizioni di svantaggio, per limpossibilit di prendere nota di tutti i fatti di ciascun caso (dato che quei fatti sono in perpetuo mutamento) prima che sia trascorso un tempo sufficiente per accertare il risultato dellesperimento, [dato che] alcune circostanze essenziali avrebbero cessato di essere le stesse (SL, VI, viii.2). Pertanto, Nessun principio primo ammette prove basate su ragionamenti: ci vale per le premesse fondamentali della nostra conoscenza, come anche per quelle della nostra condotta (U, p. 281). Letica infatti non una scienza, bens unarte (nel senso del termine greco tchne), ed il rapporto tra di esse va definito con molta precisione:
Larte si propone un fine da raggiungere, lo definisce e lo affida alla scienza. La scienza lo riceve, lo considera come un fenomeno o un effetto da studiare e, dopo averne investigato le cause e le condizioni, lo rinvia allarte con un teorema sulla combinazione di circostanze da cui potrebbe venire prodotto. Larte allora esamina queste combinazioni di circostanze, e, secondo che siano o no in potere umano, decide che il fine raggiungibile o no. Perci la sola premessa fornita allarte la premessa originaria che asserisce che desiderabile il raggiungimento del fine dato. La scienza poi presta allarte la proposizione (ottenuta con una serie di induzioni o di deduzioni) che il compimento di certe azioni far raggiungere il fine. Da queste premesse larte conclude che il compimento di queste azioni desiderabile e, trovandolo anche possibile, converte il teorema in una regola o precetto.Dunque i

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fondamenti dogni regola darte si devono trovare in teoremi di scienza (SL, IV, vi).

La scienza quindi pu servire allarte, bench esse siano distinte. Per Mill inoltre, al fine di accertare quel che moralmente corretto o scorretto, non bisogna postulare lesistenza di una facolt naturale, di un innato senso morale capace di cogliere intuitivamente le propriet morali. Allo stesso modo non corretto, come fa la scuola empirista (ascrivibile a Bentham), sostenere che la moralit vada dedotta da principi che la sola osservazione sperimentale pu offrire in modo certo. Mill invece sostiene che i principi morali devono essere a priori, non deducibili da principi generali estranei alla morale: alla radice di ogni moralit ci dovrebbe essere un principio o legge fondamentale [a priori]; oppure, nel caso ce ne fosse pi di uno, essi dovrebbero avere un preciso ordine di priorit (U, p. 235). Le deduzioni di Bentham potevano basarsi su un numero limitato di osservazioni, dato che (giustamente) egli ammetteva non essere possibile conoscere tutte le sfaccettature del comportamento umano: questa difficolt toglieva per credibilit alla sua indagine. Infatti, al di l di una impossibile verifica diretta della proprie asserzioni, secondo Mill il moralista deve seguire un metodo deduttivo concreto, ossia sussumere le leggi parziali derivate dallosservazione sotto principi morali generali, desunti in modo non empirico e validi a priori. La scienza sociale inferisce la legge di ciascun effetto dalle leggi di causazione dalle quali quelleffetto dipende; ma non, puramente e semplicemente, dalla legge di una sola causa, come accade nel metodo geometrico, bens prendendo in considerazione tutte le cause che influenzano congiuntamente leffetto e componendo le loro leggi luna con laltra (SL, VI, ix.1).

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Secondo Bentham lagire degli individui spiegabile in modo sufficientemente chiaro dalla legge di causalit che lega le intenzioni e le conseguenze degli atti (attraverso la conoscenza, per quanto incompleta, delle disposizioni), e questo genere di causalit, pur non possedendo in toto il carattere oggettivo e necessario che ha nelle scienze naturali, deve guardare ad esso come un modello. Per esempio, una volta individuato il piacere come causa dei nostri atti, questa causa viene da Bentham considerata unica e, proprio perch spesso lesperienza mostra che gli uomini ricercano il piacere, egli deriva il principio generale per il quale la ricerca del piacere il principale movente del comportamento umano. Secondo Mill, invece, i principi generali della morale hanno una funzione diversa da quelli della scienza: essi non stabiliscono leggi universali ed oggettive, giacch si basano su una concatenazione causale molto meno rigida, dato che, quando si parla di comportamento umano, differenti cause possono produrre lo stesso effetto. Lidea di un rapporto meccanico tra motivi ed azioni solo dovuto ad una nostra abitudine che preferisce pensare che il comportamento umano sia lineare:
la dottrina chiamata della necessit filosofica semplicemente questa: che, dati i motivi che sono presenti nella mente di un individuo e dati, analogamente, il carattere o la disposizione dellindividuo, se ne potr inferire, senza tema di sbagliare, in quale maniera agir quellindividuo Secondo il mio punto di vista questa proposizione una pura e semplice interpretazione di unesperienza universalese si eccettuano alcuni casi di pazzia, tali azioni non sono mai regolate da nessun motivo che abbia un dominio talmente assoluto da non lasciar spazio allinfluenza di alcun altro motivo. Pertanto, le cause da cui dipende lazione non sono mai controllabili, e un certo effetto sar necessario soltanto a

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condizione che le cause che tendono a produrlo non siano controllate (SL, VI, viii.2).

Mill evidenzia dunque che losservazione empirica, per quanto cogente, non pu supportare i principi generali in modo esaustivo, poich essa necessariamente limitata. Pertanto, giusto, osservando il comportamento umano, proporre delle classificazioni di esso, ma quel che Bentham non comprendeva che tali classificazioni delletica sono parziali, poich essa non pu acquisire la completezza della scienza, tanto pi che in alcuni casi invece di dedurre le nostre conclusioni facendo ricorso al ragionamento e di verificarle facendo ricorso allosservazione, cominciamo con lottenerle provvisoriamente dallesperienza specifica per poi connetterle in seguito con i principi della natura umana facendo uso di ragionamenti a priori, che costituiscono in tal modo una vera e propria verifica (SL, VI, ix.1). Mill mostra quindi unattenzione pi accurata alla vita interiore degli individui, affidandosi alla psicologia associazionista per questa sua analisi e derivando lidea dellestrema variet e versatilit delle motivazioni interiori che ci spingono ad agire. Mill nota per esempio che spesso un atto nasce la prima volta per ricercare un piacere, ma in seguito il perseguimento di obiettivi scelti per la loro piacevolezza pu diventare unabitudine e continuare ad agire come movente senza pi essere diretto al piacere che lha originato. Non vi dunque un rapporto necessario tra antecedente e conseguente, ma solo unassociazione che si pone tra essi e che noi riteniamo valida per abitudine, ma che pu anche mutare o mostrarsi, in talune circostanze, non valida: anche se abbiamo cessato, per qualche mutamento intervenuto in noi o nelle circostanze, di provare piacere nellazione, o forse danticipare qualche piacere come conseguenza, continuiamo tuttavia a desiderare lazione e a compierla (SL, VI, ii.4).

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Al di l di queste sostanziali differenze metodologiche e filosofiche, Mill non sembra discostarsi molto da Bentham quando afferma che lutilit consiste nella assenza di dolore, ossia nella felicit e che per lutilitarismo: le azioni sono moralmente corrette nella misura in cui tendono a procurare felicit, moralmente scorrette se tendono a produrre il contrario della felicit. Piacere e liberazione dal dolore sono le uniche cose desiderabili come fini (U, p. 241). Piacere e assenza di dolore sono fini in quanto contribuiscono al raggiungimento della felicit, poich: La felicit non unidea astratta, ma un tutto concreto (U, p. 285). In realt, Mill assegna al piacere e al dolore un ruolo sussidiario rispetto a quello che Bentham riconosceva loro in IPML: essi possono essere utili al fine di stabilizzare le abitudini che ci conducono ad agire, ma un individuo possieder un carattere definito e fermo solo quando comincer ad agire in modo autonomo rispetto alla semplice ricerca del piacere ed alla sottrazione dal dolore. Dal punto di vista della moralit pratica, la grande differenza rispetto a Bentham riguarda per la distinzione qualitativa dei piaceri. Per Bentham i piaceri si distinguevano in base allintensit, alla durata, ma, in generale, non vi era a priori un piacere migliore di un altro. Ci accadeva non perch non ci fossero dei piaceri pi raccomandabili di altri, ma perch un piacere poteva essere valutato solo conoscendo le circostanze in cui esso viene perseguito, oltre alla sensibilit, alle disposizioni, alle intenzioni ed al carattere di chi lo persegue (per esempio una societ di ubriaconi soddisfatti, bench per Bentham sia naturalmente qualcosa di negativo, per pura ipotesi non va respinta come irrealizzabile, perch non si pu imporre alle persone di passare il tempo in letture sublimi). Il piacere semplice di una persona non pu essere ritenuto inferiore a quello di un intellettuale, poich la cosa fondamentale che latto cui esso d vita produca piacere,

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ossia utilit, per lindividuo. Vi dunque per Bentham una questione metodologica, ma anche contenutistica che lo induce a preferire una considerazione quantitativa dei piaceri: infatti, chi potrebbe prendersi limpegno di decidere quale piacere sia migliore di un altro? Bentham invece ricorda che: nessuno pu essere miglior giudice di se stesso per quanto riguarda ci che gli procura piacere o dolore (IPML, XIII.4). Mill dal canto suo ritiene che le differenze tra gli individui debbano far capire che Riconoscere che alcuni tipi di piacere sono pi desiderabili ed hanno maggior valore di altri, perfettamente conciliabile con il principio di utilit. Sarebbe assurdo supporre che la valutazione dei piaceri debba dipendere solo dalla quantit, quando invece per valutare tutte le altre cose si considera sia la qualit che la quantit (U, p. 243). In questa osservazione di Mill traspaiono due convinzioni importanti che caratterizzeranno buona parte dellutilitarismo del XIX secolo: la prima legata alla convinzione delloggettivit dei valori, per cui, essendo lutilitarismo una teoria del valore, il raffronto tra soddisfazioni di diversa qualit non pu essere demandato ad una valutazione soggettiva di essi. La seconda convinzione, ancor pi significativa, legata allidea di Mill (ripresa in seguito da molti teorici utilitaristi) del carattere fondamentale dei confronti interpersonali di utilit, i quali non interessavano pi di tanto Bentham, che mirava invece ad un miglioramento delle istituzioni che potevano determinare i bisogni primari dei cittadini. Una volta chiarita la natura di questi bisogni, sarebbe stato sufficiente riformare le istituzioni affinch rispettassero e promuovessero questi bisogni, tenendo presente che limpulso alla benevolenza possiede un ruolo primario ed innato nellinfluenzare la condotta della maggioranza degli individui. Mill, pi interessato alle relazioni tra i singoli individui, ritiene invece opportuno distinguere tra i piaceri, e nota che la promozione di quelli pi lodevoli garantiva alla societ un accrescimento del

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livello generale della felicit: E meglio essere una creatura umana inappagata che un maiale appagato; meglio essere un Socrate insoddisfatto che uno sciocco soddisfatto (U, p. 245). Per Mill la ricerca della felicit non segue dunque una ferrea logica calcolante, attenta soltanto alla quantit di piacere ottenibile; invece un fatto acclarato che spesso si sceglie un piacere allapparenza meno intenso, ma pi sublime, perch lo si preferisce, bench il puro calcolo felicifico possa propendere per il piacere pi intenso. La preoccupazione di Mill allora legata ad unidea di societ in cui, contrariamente a quello che pensava Bentham, non possibile affidarsi allidea per la quale gli individui, una volta capaci di comprendere ci che ottimo per loro, avrebbero scelto progressivamente e senza difficolt quei piaceri ottimi per loro. Bentham infatti ritiene che gli impulsi alla benevolenza ed alla simpatia siano in gran parte innati e pertanto, grazie ad un governo attento alla loro promozione, ma anche capace di non intromettersi troppo nelle scelte private dei cittadini, alla fine avrebbero prevalso. Mill pensa invece che vi debba essere una attenuazione del liberismo in campo economico, perch non possibile affidarsi allidea della progressiva affermazione della benevolenza come pulsione innata, dato che le dissennatezze dei ricchi non possono essere viste come residui di unet al tramonto destinata a far trionfare benevolenza ed altruismo:
nella natura umana, la capacit di nutrire i sentimenti pi nobili il pi delle volte una pianta molto tenera, che muore facilmente, uccisa non soltanto dalle influenze ostili, ma da una mancanza di sostentamentoGli uomini perdono le loro aspirazioni pi altee si danno a piaceri inferiori non perch deliberatamente li preferiscano, ma o perch sono gli unici cui hanno accesso oppure gli unici di cui riescono ormai a godere (U, p. 246).

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Qui si pu dire che nellutilitarismo moderno, sebbene la distinzione qualitativa tra piaceri verr abbandonata (e in genere sostituita da quella tra le preferenze), passer invece lidea milliana secondo cui colui che avr meglio assimilato la dottrina utilitarista, sar la persona che, grazie alle completezza delle informazioni sulla societ in cui vive ed al giusto cumulo di esperienze pregresse, sar in grado di comprendere quale piacere sia migliore ed utilitaristicamente pi efficace per lincremento della felicit complessiva: il banco di prova della qualit, il metro per misurarla a fronte della quantit, sta nelle preferenze assegnate da coloro che sono meglio forniti di strumenti di confronto, grazie alle opportunit offerte loro dallesperienza ma anche grazie alla loro abitudine allautoconsapevolezza e allautosservazione (U, p. 248). Per Mill dunque chi sperimenta i piaceri superiori conosce anche quelli inferiori ed lindividuo pi qualificato per dire quali di essi possono contribuire al meglio alla promozione della felicit sociale. Infatti ci che va promossa la maggior quantit di felicit complessiva; e se si pu dubitare che un carattere nobile sia sempre pi felice degli altri grazie alla sua nobilt, non c alcun dubbio che egli renda pi felici gli altri (U, p. 247). Il saggio sullutilitarismo di Mill riveste altres un particolare interesse in quanto lautore si preoccupa di rispondere ad alcune obiezioni solitamente condotte contro la sua dottrina morale; queste pagine permettono peraltro allautore di precisare meglio la sua visione dellutilitarismo. Vediamole con ordine: 1) la felicit, in qualsiasi sua forma, non pu essere lo scopo razionale della vita; 2) gli uomini possono fare a meno della felicit;

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3) lutilitarismo pretende troppo dagli individui, come se questi dovessero sempre essere santi; 4) lutilitarismo valuta solo le conseguenze degli atti, non la qualit della persona agente; 5) lutilitarismo non riconosce il ruolo di Dio nel determinare le azioni umane; 6) non possibile, prima di agire, calcolare con esattezza quanta felicit possa scaturire dai propri atti. Queste obiezioni verranno riprese spesso dagli avversarsi dellutilitarismo e per questo importante sottolinearle. Ma vediamo come Mill risponde ad esse. La felicit, in qualsiasi sua forma, non pu essere lo scopo razionale della vita. Il fatto che non sia possibile, come naturale, che tutti siano sempre felici, non significa che la felicit non possa essere uno scopo razionale della vita. Certamente se con felicit si intende uno stato permanente di esaltazione ed entusiasmo, evidente che essa si verifica raramente, sebbene il fatto che questi momenti comunque si presentino, indica che tale felicit esiste. Tuttavia fondamentale ricordare che lutilitnon comprende soltanto il perseguimento della felicit ma anche la prevenzione o lattenuazione dellinfelicit (U, p. 249). Mill ammette che la vita ottimale quella in cui i dolori siano pochi e rari, intervallati da rapidi momenti di contentezza. Egli cosciente della estemporaneit dei momenti di esaltazione, i quali non possono essere il segno della felicit. Daltra parte, il sentirsi felici dipende da tante cose, dalle aspettative che ognuno ripone nella sua vita, da quello che pu ottenere da essa in base alle sue condizioni fisiche, economiche, alla fortuna. La cosa fondamentale che ognuno non sia privato della libert di attingere alle fonti della felicit che sono alla sua portata, le quali peraltro sono molte e pi una mente elevata, pi fonti di felicit riesce ad individuare.

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daltra parte evidente che nel mondo si verificano parecchie calamit e disgrazie alle quali difficile sottrarsi ma che, secondo Mill, potranno in gran parte essere attenuate, grazie al miglioramento delle condizioni di vita dellumanit. I mali del mondo non vengono dunque negati dallutilitarismo, tuttavia esso sostiene che tutte le maggiori fonti della sofferenza umana si possono in gran parte battere con la sollecitudine degli uomini e con i loro sforzi; molte possono addirittura essere distrutte completamente o quasi (U, p. 253). Gli uomini possono fare a meno della felicit Mill riconosce la possibilit che un individuo sacrifichi la propria felicit; tuttavia egli non assegna un valore assoluto a questo atto, il quale valido solo se aumenta lutilit complessiva, ma se ci non accade, un atto contro lutilitarismo (Bentham ha dal canto suo dedicato molte pagine a criticare lascetismo). Ci significa che lutilitarismo in grado di apprezzare il sacrificio ma, rispetto per esempio allo stoicismo, non lo valuta sempre in modo positivo, in quanto tale solo se incrementa le felicit. Lunica rinuncia di s cui plaude la dedizione alla felicit altrui, o a qualcuno dei mezzi per ottenerla (U, p. 255). La cosa fondamentale dunque riuscire a contemperare la propria esigenza di felicit con quella degli altri membri della comunit (Nella regola doro di Ges di Nazareth possiamo leggere tutto lo spirito delletica utilitarista. Fare agli altri quello che si vorrebbe gli altri facessero a noi, e amare il prossimo come se stessi, costituiscono la perfezione ideale della moralit utilitarista, U, p. 256). Lutilitarismo pretende troppo dagli individui, come se questi dovessero sempre essere santi. Mill ritiene che letica abbia il compito di indicarci quale dovrebbe essere la nostra condotta ottimale e pertanto, quando si indica un modello, normale che esso si configuri come non raggiungibile in modo completo, ma ci non significa che esso

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sia una chimera. Ci vuol dire che per lutilitarismo lintenzione quella che deve sempre mirare allincremento della felicit complessiva, mentre chiaro che i motivi per i quali agiamo non sono sempre volti a promuovere il bene universale, perch ovviamente un essere umano non un santo e non pu ragionare in questo modo. La grande maggioranza delle azioni buone non fatta a beneficio del mondo, ma a beneficio di singoli individui, ed di questi singoli benefici che composto il bene del mondo (U, p. 258). Questo perch, una volta adottata la regola generale dellutilitarismo, agiamo comunque sempre allinterno di una ristretta cerchia di persone. In altre parole, a livello ideale lindividuo deve aver acquisito il principio di utilit e farsi guidare da esso, mentre a livello pratico nomale che i motivi per cui agisce siano meno universali. Lutilitarismo valuta solo le conseguenze degli atti, non la qualit della persona agente e si mostra essere una dottrina fredda ed insensibile. Questa obiezione sar riproposta pi volte in chiave moderna, dal momento che lutilitarismo verr definito come una forma di consequenzialismo. Mill ritiene invece che per valutare in modo imparziale unazione sia necessario non farsi influenzare dalle opinioni relative alla persona che compie latto: anche un uomo cattivo pu compiere una buona azione. Tuttavia, nel lungo termine, sono proprio le azioni buone la migliore prova di un buon carattere. Lutilitarismo non riconosce il ruolo di Dio nel determinare le azioni umane. Mill molto attento nel respingere questa obiezione; egli ovviamente non nega lesistenza di Dio, ma vuole proseguire lopera di Bentham e dunque emancipare letica da sovrastrutture di carattere religioso o metafisico. Solo in questo modo essa pu diventare autonoma ed indicare alluomo regole di condotta le quali trovano in se stesse la propria

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giustificazione. Bentham stigmatizzava peraltro lidea di attribuire unorigine divina alle regole morali, poich ci le avrebbe rese non criticabili ed immutabili. Tuttavia, se i dettami delle religione appaiono contraddire lutilitarismo, la religione a mostrarsi sbagliata, dato che sono le verit rivelate che devono passare al vaglio della moralit. Scrive Bentham: I dettami della religione coinciderebbero in tutti i casi con quelli dellutilit, se lEssere che oggetto della religione fosse ritenuto benevolo quanto ritenuto saggio e potente, e se le nozioni che si hanno sulla sua benevolenza, allo stesso tempo, fossero altrettanto corrette quanto quelle che si hanno sulla sua saggezza e il suo potere. Sfortunatamente, per, questo non avviene (IPML, X.40). Mill dal canto suo riconosce il grande valore ideale della figura di Ges Cristo (cfr il saggio La libert: penso sia un grave errore cercar di trovare per forza nella dottrina cristiana quella completa regola di vita che il suo autore intendeva s sancire e far valere, ma solo in parte darci in modo esplicito U, p. 133) e ritiene che molti dettami della religione si adattino alla perfezione allutilitarismo, la quale per questi motivi la dottrina pi religiosa perch, come Dio, vuole assegnare la felicit agli individui. Egli raccomanda, di fronte alla religione, un atteggiamento di partecipato e sano scetticismo: le sacre scritture possono fornire certamente modelli di eccellenza morale che, attraverso limmaginazione, noi possiamo fare nostri, ma alla fine La credenza nel soprannaturale non pu pi essere considerata una condizione necessaria per conoscere ci che giusto e sbagliato nella moralit sociale per fare il bene o astenersi dal male10. Non possibile, prima di agire, calcolare con esattezza quanta felicit possa scaturire dai propri atti.
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J. S. Mill, Tre saggi sulla religione, a cura di L. Geymonat, Universale Economica, Milano 1953, p. 71.

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Mill sostiene che una tale obiezione non tiene conto del fatto che nessuno di noi agisce senza essere a conoscenza delle esperienze accumulate in precedenza, sia da lui stesso, sia da tutti gli individui che lo hanno preceduto; pertanto, nessuno agisce in condizioni di totale solitudine, poich per esempio si pu fare affidamento al principio di utilit, il quale non deve essere ogni volta ridefinito e dimostrato. Le risposte di Mill, come si vede, partono dal presupposto che il principio di utilit sia qualcosa di innato e che la fede in esso sia qualcosa di profondamente radicato nelluomo; questo reso chiaro dalla sua discussione relativamente al ruolo che possiede la sanzione ultima del principio dellutilit, la quale da Mill individuata nei sentimenti della nostra coscienza, in coerenza con la psicologia associazionista. Il carattere naturale dellutilitarismo dimostrato dal fatto che gran parte degli individui sono predisposti alla vita associata e che, in genere, i sentimenti di benevolenza e simpatia verso gli altri predominano su quelli contrari (Ogni consolidamento dei vincoli sociali e ogni sviluppo salutare della societ, non soltanto rafforzano linteresse di ognuno a tenere effettivamente in conto il benessere altrui nel proprio agire, ma ci conducono anche a identificare sempre pi i nostri sentimenti con il bene degli altriIl bene diventa per noi qualcosa cui naturalmente e necessariamente dobbiamo badare, U, p. 277). Certamente ogni individuo pu ospitare queste tendenze secondo diversi gradi, ma se esse trovano un terreno fertile, ossia se vengono associate a comportamenti che producono un aumento di benessere (si tenga conto che Mill parla sempre di benessere collettivo, giacch quello del singolo non disgiunto da esso) rispetto a quelli a loro contrarie, esse saranno rafforzate e tali associazioni, se allinizio accettate solo perch produttrici di piacere, in seguito saranno attuate anche indipendentemente da questultimo. Infatti, la felicit un fine

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molto pi ampio, raffinato e complesso del semplice piacere o dellassenza di dolore. Secondo Mill, ci che garantisce il comportamento morale delluomo proprio il rafforzamento di queste associazioni di idee, il cui riproporsi d vita a quei sentimenti morali che stanno alla base della nostra vita etica. Mill non sostiene il carattere innato dei sentimenti morali, ma afferma che esiste una predisposizione naturale ad accoglierli e che il loro sviluppo possibile grazie alleducazione. Il risultato notevole della ricerca di Mill proprio laffermazione per cui i sentimenti, come quelli che spingono verso la giustizia e la benevolenza, vanno coltivati e rafforzati attraverso uneducazione continua: in Mill acquista quindi una speciale importanza lautoformazione della persona e lidea che leducazione non debba riguardare solo i giovani, ma tutti gli individui. I sentimenti morali perci sono presenti in misura differente in ogni individuo e sar compito delleducazione intervenire su di essi, promuovendo un loro sviluppo positivo, che favorisca la vita associata ma che al contempo non invada la vita privata degli individui. La facolt morale, se pur non fa parte della nostra natura, ne per un frutto naturale, proprio come le altre capacit acquisite proprio come loro capace, entro certi ristretti limiti, di nascere spontaneamente, e pu raggiungere, se coltivata, un alto grado di sviluppo (U, p. 275). In noi dunque esistono le tendenze benevole e quelle loro opposte. Se per quelle benevole si associano in modo pi frequente con comportamenti che si rivelano utilitaristicamente efficaci, pi probabile che esse permettano il consolidarsi di sentimenti positivi verso quei comportamenti benefici. Questo non significa ovviamente che da un certo punto in poi, lindividuo si comporter sempre nella maniera giusta: tuttavia, egli avr comunque sviluppato la coscienza di quale comportamento pu produrre per lui felicit. Per questo Mill

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ritiene che leducazione debba essere continua e che anche un adulto debba attingere ad essa. I sentimenti morali, come quello del dovere, costituiscono per questo motivo lambito di quelle sanzioni interne dellutilitarismo, le quali possono rafforzare la propria tendenza a comportarsi secondo dovere. Ecco allora che il sentimento del dovere, se correttamente associato, tramite leducazione, al principio di utilit e rafforzato nellanimo dellindividuo (il quale quando agisce in modo coerente con esso percepisce di provare benessere), pu confermarsi effettivamente come lautentico principio della moralit: se la moralit utilitarista non avesse come propria base un sentimento naturale, anche questa associazione potrebbe benissimo dissolversi, alla luce dellanalisi, pur dopo essere stata inculcata dalleducazione (U, p. 276). Pertanto Mill propone, per la sua visione dei sentimenti morali, un complesso intreccio tra il loro carattere naturale e il loro valore convenzionale. In tal modo, da un lato, si pu evitare di dover fondare lutilitarismo su unidea di animo umano completamente malleabile a piacimento, dallaltro si evitano le confusioni cui fanno incorrere linnatismo e lintuizionismo. Partendo da queste convinzioni, ci si pu domandare da cosa sia composto in ultima istanza il fenomeno della coscienza morale sul quale si fonda il sentimento di obbligazione. Esso invero non un fatto puro e semplice e in genere si presenta tutto incrostato di associazioni collaterali, che derivano dalla simpatia, dallamore, e ancor pi dal timore; da tutte le forme di sentimento religioso; dai ricordi della nostra infanzia e di tutta la nostra vita trascorsa (U, p. 272). Il sentimento dellobbligazione dunque si presenta come un insieme variegato di inclinazioni, convinzioni, le quali sono state rafforzate sia dalle nostre precedenti esperienze, sia dalleducazione, sia dal favore che gli altri hanno accordato ai

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nostri comportamenti. Il riferimento alla coscienza come sede pi profonda dei nostri sentimenti morali non significa introdurre un elemento soggettivo alla base delletica di Mill, ma solo prendere atto che non esiste nulla di pi affidabile dei sentimenti morali per garantire la sanzione ultima del principio dellutilit. Mill ritiene per questo poco rigoroso affidarsi allidea che il senso del dovere sia qualcosa di oggettivo, una cosa in s difficilmente conoscibile, verso la quale si dovrebbe avere una fede simile alla fede in Dio: i sentimenti morali hanno invece il dono della spontaneit, possono in parte essere conosciuti tramite lesperienza e possono essere educati e corretti. La fondazione della sanzione ultima dellutilitarismo sui sentimenti della coscienza permette allautore di fornire uninnovativa e stringente definizione della giustizia, la quale anchessa un sentimento, il cui ruolo quello di sostenere tutta la dottrina utilitarista. Mill infatti dichiara che i sentimenti cooperativi, se presenti, paiono agli individui come i pi naturali ed adatti alla promozione della felicit. La convinzione, gi oggi profondamente radicata in ognuno di noi, che siamo tutti degli esseri sociali, ci induce a sentire un naturale bisogno di armonia fra i nostri sentimenti e i nostri fini da un lato, e quelli dei nostri simili dallaltro (U, pp. 279280). Il sentimento di giustizia pu essere opportunamente coltivato in ognuno di noi e rafforzare questi sentimenti cooperativi: Tra la sua felicit e quella degli altri, lutilitarista richiede al singolo individuo di essere tanto rigorosamente imparziale, quanto uno spettatore benevolo e disinteressato (U, p. 256). Lideale della giustizia acquista per Mill un ruolo centrale che esula dal suo valore giuridico ed oltrepassa la riflessione che Bentham le aveva dedicato. Mentre Bentham riteneva lidea di giustizia una entit fittizia, utile solo a rafforzare la

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benevolenza, Mill pensa che essa sia necessaria per il principio di utilit (giacch la giustizia ha il compito di favorire questo principio), dotandolo di un valore pi razionale e fondandolo altres il vero carattere prescrittivo del principio di utilit. Il termine giustizia denota alcune categorie di regole morali che riguardano nella maniera pi diretta gli aspetti essenziali del benessere umano, e sono perci pi rigorosamente obbligatorie di qualsiasi altra regola di condotta per la vita (U, p. 319). Lidea di giustizia ha un peculiare potere emotivo e la sua formazione, come sentimento, molto complessa, poich essa impone non solo di cooperare con altri individui che hanno diritti e interessi simili ai nostri (le regole morali che proibiscono agli uomini di nuocersi reciprocamente hanno la peculiarit di essere lelemento principale che contribuisce a formare il complesso dei sentimenti sociali del genere umano. Solo osservando quelle regole si riesce a preservare la pace tra esseri umani, U, pp. 319-320), ma anche di rapportarsi con una sorta di entit astratta che la comunit nel suo complesso. Il principio di giustizia va inculcato con una educazione condotta solo da chi (istituzioni scolastiche o politiche) ha compreso nel modo pi pieno il suo significato razionale ed in grado di trasmetterlo allindividuo. Esso dunque basato su una sorta di scambio, tra gli individui che riconoscono che una attenzione per gli altri non esclude la possibilit di godere della sicurezza (della quale parlava anche Bentham) del rispetto delle proprie prerogative e le istituzioni che garantiscono tali prerogative. Infatti, essendo convinti che avere un diritto equivale ad avere qualcosa il cui possesso dovrebbe essere tutelato dalla societ (U, p. 310), lesigenza che tale diritto venga rispettato assume un carattere di assolutezza, diremmo quasi di infinitezza, di incommensurabilit rispetto a qualsiasi altra considerazione: ed questo suo carattere che costituisce il tratto distintivo tra il sentimento di ci che moralmente

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corretto o scorretto da un lato, e quello di ci che soltanto conveniente e non conveniente dallaltro (U, p. 311). La giustizia pertanto assume una importanza universale, in quanto il puntello del principio di utilit, tanto vero che la stessa benevolenza deve essere da essa fondata, altrimenti non avremmo alcuna base, alcuna sanzione morale, per pretenderla dagli altri:
Mi sembra che questa caratteristica un diritto in una persona che corrisponde ad unobbligazione morale costituisca la specifica differenza tra la giustizia da un lato e la generosit dallaltro. La giustizia implica qualcosa che non solo corretto fare o sbagliato non fare, ma che una certa persona pu reclamare da noi come proprio diritto morale. Nessuno ha un diritto morale alla nostra generosit o beneficenza, in quanto noi non siamo moralmente obbligati a praticare queste virt verso qualcuno in particolare (U, p. 304).

Pertanto, la giustizia supera lambito del diritto e riveste un ruolo significativo per letica, sebbene questultima nasca come branca del diritto positivo, tanto vero che condivide con esso molti concetti. Tale affermazione di Mill si basa sulla distinzione tra doveri perfetti ed imperfetti (gi posta da Kant nella Fondazione della metafisica dei costumi, parte II). I doveri imperfetti sono quelle azioni che la morale riconosce come meritorie, ma che sono obbligatorie solo in senso condizionato, poich ognuno ha la facolt di decidere se compierli oppure no. I doveri perfetti, invece, implicano unobbligazione forte ad agire in conformit con la norma, avallata dalla presenza di un diritto altrui. La trasgressione di un tale dovere implica la punizione per chi non si conforma a quella norma. Alla luce di quanto detto, risulter chiaro come il nome di giustizia sia il nome di certi requisiti morali che, se considerati collettivamente, occupano un posto elevatissimo

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nella scala dellutilit sociale e hanno quindi unobbligatoriet molto pi forte di qualsiasi altro (U, p. 325). Lutilitarismo di Mill, dunque, mostra di avere una preoccupazione pi ampia di quello di Bentham, in quanto vuole ancorare maggiormente il principio di utilit alle regole di giustizia che costituiscono un sentimento interiore molto forte nelluomo. Tramite essi, letica acquista un significato ed una portata universale (almeno nelle intenzioni dellautore) e si fonda su ci che di pi profondo esiste nellanimo umano: il principio di dare a ciascuno quanto si merita, cio bene per il bene e male per il male, non solo inglobato nellidea di giustizia cos come labbiamo definita, ma anche a buon diritto oggetto di quel sentimento cos intenso che ci fa apprezzare e stimare il giusto al di sopra del semplice conveniente (U, pp. 321-322). Tale principio, fondato sulla assoluta imparzialit che non distingue a priori tra noi e gli altri, costituisce il paradigma fondamentale del principio di utilit e fonda il diritto alla felicit che ognuno possiede. Questo significa che se tutti gli uomini hanno eguale diritto alla felicit, allora altrettanto eguale deve essere il loro diritto di accedere a tutti i mezzi per ottenerla, anche se entro i limiti imposti a questa massima dalle non eludibili condizioni della vita umana e dallinteresse generale, in cui incluso linteresse di ogni individuo (U, p. 324).

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HENRY SIDGWICK
Henry Sidgwick (1838-1900) stato lautore che ha cercato, forse per la prima volta, di definire lutilitarismo come teoria etica, favorendo un suo rinnovamento e ponendo le basi per molte delle analisi su di esso condotte nel 900. La sua opera principale, The Methods of Ethics (1874), ha avuto moltissime ristampe e traduzioni ed uno dei primi trattati sistematici dedicati alletica in epoca moderna. Lopera non un libro sul solo utilitarismo, bens il tentativo, tra gli altri, di confrontare il metodo dellutilitarismo con quello dellegoismo edonistico e dellintuizionismo. Quando Sidgwick parla di metodo, egli non vuol sostenere che letica debba dotarsi dei procedimenti della scienza, ma solo che essa debba dare a se stessa una struttura razionale e coerente, a partire dal comportamento osservabile degli individui: Ho voluto concentrare lattenzione del lettore, dallinizio alla fine, non sui risultati pratici a cui siamo condotti dai nostri metodi, ma sui metodi stessi. Ho volutoesaminare semplicemente le conclusioni che razionalmente si raggiungono quando partiamo da certe premesse etiche, e stabilire con quale grado di certezza e precisione possiamo giungere a tali conclusioni (ME, pref. alla I ed., p. 26 e p. VI ed. inglese). Lidea primaria di Sidgwick di operare una sintesi tra i tre metodi che gli individui, nella vita quotidiana, solitamente tendono ad utilizzare in modo alternato e ovviamente non sempre con la coscienza di farlo. Infatti, in genere, quando agiamo, tendiamo a privilegiare la nostra felicit o quella di chi ci vicino, ossia seguiamo legoismo edonistico, che per Sidgwick rappresenta dunque parte integrante dellimpulso alla moralit. Quando invece agiamo in una dimensione universale, o comunque sociale, dovremmo adottare il metodo delledonismo universalistico, ovvero dellutilitarismo.

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E lintuizionismo che ruolo possiede? La questione in questo caso pi complicata, in quanto mentre i metodi dellutilitarismo e delledonismo egoistico sono manifestamente dei modi di comportamento che mirano alle azioni, lintuizionismo possiede un evidente valenza epistemologica e riguarda i giudizi che si esprimono in riferimento alla condotta. Come si cercher di mostrare, la comparazione tra questi tre metodi non facile, sia per le differenti funzioni che essi svolgono, sia, nel caso delledonismo egoistico ed universalistico, per i conflitti che possono sorgere tra di essi. Prima di procedere oltre, si pu comunque qui abbozzare una sintesi, sostenendo che mentre egoismo ed utilitarismo appaino due metodi con un chiaro carattere teleologico (entrambi mirano alla felicit, ma differiscono rispetto ai modi per raggiungerla), lintuizionismo possiede soprattutto una valenza deontologica, in quanto sostiene che il valore delle azioni non dipende solo dalla conseguenze che esse provocano, ma dal loro valore immanente. Per esempio, sebbene le azioni giuste siano quelle che conducono ad effetti benefici, la giustezza dellagire per ricercare la felicit possiede un valore a priori. Tuttavia, Sidgwick rimane un filosofo utilitarista ed in cuor suo ritiene che solo lutilitarismo si possa accordare con lintuizionismo, ma, come si vedr, egli non nasconde la difficolt a fondare razionalmente tale convinzione:
se cerchiamo il criterio finale sia del valore relativo dei vari oggetti che gli uomini ricercano entusiasticamente, sia dei limiti entro cui ciascuno di questi oggetti pu legittimamente monopolizzare lattenzione dellumanit, vediamo chetale criterio dipende dalla maggiore o minore misura in cui tali oggetti conducono alla felicit. Se comunque si rifiuta questa prospettiva, resta da considerare se possiamo elaborare una qualche altra teoria coerente del bene ultimo. Se non dobbiamo rendere

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sistematici i vari aspetti e ambiti dellattivit umana assumendo come loro fine comune la felicit universale, in base a quali altri principi dobbiamo renderli sistematici? Non sono riuscito a individuare e sono incapace di elaborarla io stesso una qualche risposta sistematica a questo problema che mi sembra meriti una seria considerazione. Pertanto alla fine sono condotto alla conclusioneche una rigorosa applicazione del metodo intuizionista viene ad avere come risultato finale la dottrina del puro edonismo universalistico, dottrina questa che conveniente indicare con una parola: utilitarismo (ME, III.5, pp. 438-39, ed inglese pp. 406-407).

Nel suo testo, lautore propone unesposizione degli argomenti non facile da seguire, in quanto torna pi volte su un medesimo tema, pone molte obiezioni a cui fornisce riposte che a volte rimette in discussione: ecco perch in questa sede si cercher di fornire un ragguaglio solo sintetico dellopera. Essa comunque fondamentale perch influenzer buona parte della filosofia morale del 900, inaugurando sia lutilizzo di una nuova terminologia, sia di un rinnovata metodologia di indagine. In particolare, con Sidgwick comincia ad affermarsi una distinzione che avr grande importanza nel campo della filosofia morale anglosassone moderna: quella fra metaetica ed etica normativa. La metaetica studia i concetti delletica, ovvero cerca di individuare i loro fondamenti teorici e le loro condizioni di possibilit; letica normativa, invece, determina quale la condotta morale appropriata degli individui. Sidgwick appare molto chiaro in proposito: il tentativo di conoscere le leggi generali o le generalizzazioni empiriche attraverso cui possibile spiegare la variet dei comportamenti umani e dei sentimenti e dei giudizi umani circa la condotta, qualcosa di essenzialmente diverso dal tentativo di determinare

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quale tra questi sia il comportamento giusto e quale tra questi giudizi sia quello valido (ME, Introduzione, p. 42, p. 2). Le numerose e puntuali ridefinizioni cui Sidgwick sottopone lutilitarismo, sono funzionali a superare le inesattezze con cui altri autori avevano trattato la medesima materia; egli peraltro, proprio in nome di questo rigore espositivo, non nasconde nemmeno le difficolt e le contraddizioni che lutilitarismo reca con s, prima fra tutte la sua difficolt a soverchiare limpulso egoistico. Inoltre, da una delle definizioni di utilitarismo di Sidgwick, si nota in modo immediato lutilizzo di un linguaggio molto diverso rispetto agli utilitaristi classici: Con utilitarismo qui si intende quella teoria etica secondo cui la condotta oggettivamente giusta quella che in date circostanze produrr nel complesso la maggior quantit di felicit, cio la teoria che prende in considerazione la felicit di tutti coloro che sono influenzati dalla condotta in questione (ME, IV.1, p. 443, p. 411). Come si vede, lautore parla di teoria etica, un termine assente in Bentham e Mill (B. Williams cos definisce la teoria etica: una teoria etica un trattazione teorica del pensiero e della prassi etica che implicaun test generale per la valutazione della correttezza formale delle credenze e dei principi etici fondamentaliLe teorie etiche sono imprese filosofiche e, come tali, comportano la convinzione che la filosofia possa determinare, positivamente o negativamente, in che modo dobbiamo pensare in etica11); egli per di pi parla della maggior quantit di felicit, di una condotta oggettivamente giusta, oltre che della necessit di prendere in considerazione tutti coloro che sono influenzati dalla condotta in questione. Sidgwick dunque estende lutilitarismo a tutti i soggetti, nel senso che la condotta deve avere una portata universale: limparzialit diventa qui una propriet generale del modo dagire utilitarista, ma anche
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B. Williams, Letica e i limiti della filosofia, a cura di R. Rini, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 87-88 e 90.

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(e questo un elemento di novit) del modo stesso di concettualizzare tale teoria etica12. La proposta finale di Sidgwick, quella di una conciliazione tra intuizionismo ed utilitarismo, rispecchia proprio questa esigenza metodologica. Lutilitarismo infatti si compone da un lato di unindagine sui principi generali delletica, noti per intuizione, dallaltro di una componente pratico-normativa (che secondo Sidgwick coincide in gran parte con la morale di senso comune), fondata e supportata per proprio dai suddetti principi intuitivamente noti. Abbiamo visto come si debba completamente abbandonare lidea diffusa che afferma esserci unopposizione tra intuizionisti e utilitaristi, perch quei principi morali astratti che possiamo ammettere essere davvero autoevidenti non sono incompatibili con un sistema utilitarista, ma anzi sembrano richiesti per fornire una base razionale a tale sistema (ME, IV, p. 523, p. 496). Sidgwick definibile come un filosofo intuizionista, giacch sostiene che a fondamento della morale ci sono tre principi autoevidenti (ossia i principi di giustizia, di prudenza e di benevolenza razionale). Vi qui una differenza rispetto a Mill, il quale, pur ritenendo i principi delletica a priori ed immediatamente dati, sosteneva che losservazione sperimentale potesse rendere tali principi di agevole applicazione laddove ad essi si fosse associato e reso abituale un comportamento coerente con il principio di utilit. Secondo Sidgwick, invece, losservazione sperimentale e lassociazione tra principi e comportamenti possiedono un ruolo secondario, giacch intervengono a posteriori, dato che un principio morale
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Il principio di imparzialit o equit di Sidgwick deve essere compreso, non solo dicendo che non dobbiamo discriminare laddove non vi sono differenze rilevanti, ma anche che dobbiamo distinguere in modo positivo laddove invece esiste una differenza; in altre parole, la non discriminazione giusta se e solo se produrr quantomeno tanta felicit quanto la discriminazione. D. D. Raphael, Sidgwick on Intuitionism, The Monist, n. 3, 1974, p. 415.

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autoevidente se 1) i termini della proposizione che lo esprime sono chiari e precisi; 2) se rimane valido dopo unattenta riflessione su di esso; 3) se coerente con altri principi dello stesso tipo; 4) se ha il consenso di giudici competenti (ME, pp. 372-376, 338-43). Lautore inoltre sottolinea che, nello sviluppo dellintuizionismo, si succedono tre fasi (non da intendere in senso cronologico, ma come stadi per lanalisi della validit della morale di senso comune). La prima fase lintuizionismo percettivo, secondo il quale si danno in etica intuizioni intese come giudizi immediati circa ci che si deve fare o ci cui si deve tenderela posizione che abbiamo descritto si pu chiamare ultraintuizionista, dal momento che nella sua forma pi radicale essa riconosce solamente le intuizioni semplici e immediate, e scarta come superflui tutti i modi di ragionamento che conducono a conclusioni morali (ME, I.8, pp. 134 e 136, pp. 99 e 100). Tuttavia, sebbene tutti facciano esperienza di queste intuizioni particolari, non possibile essere soddisfatti di esse, giacch sono estremamente parziali e cadono facilmente in contraddizione. Il secondo genere di intuizionismo definito dogmatico: la sua idea portante che possiamo conoscere certe norme generali attraverso intuizioni veramente chiare e definitivamente valide. Si sostiene che tali norme generali sono implicite nel ragionamento morale degli uomini comuni, i quali ne hanno sufficiente conoscenza per la maggior parte degli scopi pratici e sono anche capaci di enunciarle in maniera grossolana (ME, I.8, p. 137, p. 101). In questo caso per le intuizioni morali, bench abbastanza complete, coerenti ed utilizzate in gran parte della vita ordinaria, sono colte in modo accidentale e sar compito del filosofo mettere ordine tra di essi. Per questo ha origine la terza fase dellintuizionismo, quella filosofica, la quale, pur accettando la moralit del senso comune, cerca tuttavia di trovare ad essa una base

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filosofica che da sola non sa darsi: cerca cio di individuare uno o pi principi che siano assolutamente e innegabilmente veri ed evidenti da cui poter dedurre le norme attuali (ME, I.8, p. 138, p. 102). Il filosofo morale deve perci essere in grado di individuare una fondazione ulteriore di tali doveri comuni, che li salvaguardi da un loro utilizzo accidentale: mentre il filosofo cerca lunit di principio e la coerenza del metodo, chi non filosofo tende a sostenere contemporaneamente principi diversi e a usare metodi diversi combinandoli assieme in modo pi o meno confuso (ME, Introduzione, p. 45, p. 6). Lintuizionismo filosofico fondamentale per risolvere i conflitti che sorgono allinterno delle regole della morale di senso comune, la quale pu invece essere la fonte della gran parte dei comportamento umani fino a che non mostra dei conflitti tra le sue asserzioni. Come anticipato, Sidgwick conduce una serie di rilievi allutilitarismo classico che diverranno pi chiari se si analizzano le nozioni di edonismo (secondo la quale ognuno cerca il proprio piacere), eudemonismo (secondo la quale ognuno cerca la propria felicit) e la loro relazione con lutilitarismo. Come accennato, sia in Bentham che in Mill, seppure in modo diverso, la tendenza egoistica (la ricerca del self-interest) ammessa come parte della pi generale tendenza alla felicit o al piacere che caratterizza la natura umana (edonismo egoistico). Tale affermazione da loro fondata attraverso la distinzione fra le azioni che riguardano se stessi e quelle che riguardano gli altri. Quando si compiono atti che riguardano soltanto se stessi, comprensibile che si cerchi di massimizzare la propria utilit: anzi, Bentham e Mill ritengono che il soggetto, quando agisce secondo le regole della prudenza, debba massimizzare la propria utilit. Mill daltra parte sostiene che gran parte delle nostre azioni non abbiano alcuna influenza sullutilit collettiva. Inoltre, poich

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lutilitarismo prescrive di massimizzare lutilit totale ed essendo tale utilit costituita dalla somma delle utilit individuali, massimizzare la propria utilit pu essere spesso moralmente corretto. Di contro, quando in gioco lutilit pubblica, lindividuo dovr sacrificare la propria, se non vi altra possibilit di incrementare lutilit totale. Questa distinzione tra azioni che riguardano se stessi (regolate dalla prudenza) e quelle che riguardano gli altri (regolate dalla moralit) in Sidgwick viene per messa in discussione, soprattutto perch non sembra cos automatico che gli individui possano agevolmente comprendere quando devono sacrificare il proprio interesse per quello collettivo. Inoltre, spesso essi non sono in grado di capire quale sia linteresse collettivo oppure il comportamento autointeressato pu rivelarsi quello pi vantaggioso ed essere perci razionale. Per Bentham e Mill queste difficolt sono solo di ordine pragmatico, non normativo e possono essere risolte semplicemente sostenendo che legoismo ammissibile fin quando non impedisce la massimizzazione dellutilit collettiva. Al contrario, il riconoscimento come ineliminabile di una componente egoistica del nostro comportamento, conduce Sidgwick a sostenere che sia nel comportamento prudenziale che in quello morale, lindividuo debba essere guidato dalla convinzione che il suo bene personale sia una parte del pi ampio bene universale, il cui perseguimento vantaggioso sia per lui che per gli altri. Pu essere vero, come sostiene Mill, che gran parte dei nostri atti non abbiano rilevanza pubblica e che dunque in genere lazione prudente quella pi efficace; tuttavia, Sidgwick evidenzia che Quandolegoista presenta, implicitamente o esplicitamente, la proposizione che afferma che la sua felicit o il suo piacere personale il bene, non solo per lui ma dal punto di vista delluniversoallora diventa rilevante fargli osservare con forza che, quando si considera

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quel bene da punto di vista delluniverso, la sua felicit non pu essere una parte pi importante delleguale felicit di qualsiasi altra persona (ME, IV.2, p. 451, pp. 420-421). La precisione argomentativa conduce perci Sidgwick a distinguere in modo chiaro tra edonismo o eudemonismo egoistico ed universalistico (utilitarismo), e soprattutto a riconoscere linclinazione egoistica come un ostacolo ad una affermazione dellutilitarismo: bench nelle condizioni normali della societ lobbedienza ai doveri verso gli altri e la pratica delle virt sociali generalmente coincide con la maggior felicit possibile nel lungo periodo per lagente virtuoso, tuttavia come minimo non si riesce a dare una dimostrazione empirica della universalit e della completezza di questa coincidenza (ME, IV, p. 525, p. 497). Edonismo ed eudemonismo rappresentano infatti soprattutto due tendenze psicologiche, presenti in diversi gradi nellanimo umano, sulle quali per non possibile, a parere di Sidgwick, fondare la teoria morale. Lutilitarismo invece rappresenta qualcosa di pi ampio di una tendenza psichica, in quanto aspira ad essere non solo un principio prescrittivo, bens una teoria etica, dato che vuole altres fondare e descrivere il senso stesso dellagire morale degli uomini. Ledonismo e leudemonismo possono tuttavia essere analizzati13 non solo come caratteri psicologici (secondo i quali un fatto che gli uomini cercano il piacere o la felicit), bens anche come dottrine prescrittive (secondo le quali gli uomini devono ricercare la felicit e vi devono essere delle norme che impongono loro di fare ci). Nella riflessione di Bentham, il
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I termini edonismo ed eudemonismo, pur significando cose diverse come detto poco fa, possono essere accomunati, per comodit espositive, per indicare la generica tendenza al piacere inteso anche come felicit. Pertanto, nellesposizione seguente, il termine edonismo verr utilizzato come sinonimo di eudemonismo. Cfr. ME, pref. alla VI edizione, pp. 32-33.

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nesso tra utilitarismo ed edonismo psicologico piuttosto evidente, sebbene egli cerchi di affrancarsi dalla nozione di piacere in favore di quella di felicit. Mill sembra volere andare oltre, sostenendo un edonismo prescrittivo a fianco per di quello psicologico; in altre parole, se un fatto che gli individui ricercano la felicit, per necessario che vi sia una dottrina come lutilitarismo che imponga loro di farlo. Tuttavia, se si accetta ledonismo psicologico, non si comprende bene perch si debba imporre agli individui, attraverso delle norme morali, la ricerca di ci che gi, naturalmente, desiderano ottenere. Ledonismo prescrittivo in realt veicola lidea che gli individui, per varie ragioni, non sempre siano in grado di scegliere ci che bene e dunque necessario individuare delle norme che consentano loro di orientarsi nella ricerca del bene. Sidgwick sembra aver lucidamente compreso queste difficolt, portando ad una definitiva dissoluzione il nesso tra edonismo psicologico ed utilitarismo. Egli infatti sostiene che gli individui non ricercano in modo istintivo il piacere, bens una gamma pi vasta di mete e di azioni che si potrebbe riassumere con la locuzione perseguimento dei propri desideri. Per questa ragione, Sidgwick ritiene che Mill, nel dimostrare il principio dellutilitarismo, sia caduto in una fallacia di composizione, giacch riesce ad affermare solo che ciascuno desidera (o deve desiderare) la propria felicit, ma non che ciascuno desidera o deve desiderare la felicit universale. In realt, il fatto che ognuno desideri la propria felicit un dato psicologico, il quale per non ha immediatamente una ricaduta morale: A mio modo di vedere questa interpretazione non pu essere giustificata passando, come fa Mill, dal fatto psicologico che la felicit il solo oggetto dei desideri attuali degli uomini, alla conclusione etica che solo il piacere desiderabile o buono perchho cercato di mostrare che la felicit o il piacere non

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il solo oggetto che ciascun uomo attualmente desidera per se (ME, III.13, p. 419, pp. 388-389). Sidgwick sottolinea che si cerca ci che desiderabile, e ci che possiede questa propriet non sempre ci che produce piacere: spesso anzi agiamo in vista di ideali altruistici che escludono un piacere, ma che ci gratificano lo stesso pienamente. Perci, contrariamente a quello che scrive Mill, desiderare una cosa non significa al contempo trovarla piacevole, poich, in primis: non si pu concepire come un precetto o un dettame della ragione una legge psicologica che guida invariabilmente la mia condotta, e questo perch un precetto deve essere una norma dalla quale so che possibile deviare (ME, I.4, p. 79, p. 150); inoltre, il termine piacere, proprio per questo, possiede una ambiguit. Infatti, quando agiamo in modo volontario, lo facciamo di solito perch ci piace o ci aggrada farlo: ma il piacere che accompagna lazione non il fine, bens la normale soddisfazione di vedersi agire liberamente. Esso una sensazione, uno strumento di spiegazione psicologica della nostra condotta, il quale non pu essere utilizzato anche in etica. Appare invece pi appropriato, agli occhi di Sidgwick, affermare che ci che desideriamo quel che ci appare razionalmente desiderabile, e questo si verifica se siamo pienamente informati rispetto alle condizioni esterne ed alle nostre possibilit di ottenere quel che vogliamo. Tale conclusione, scaturisce proprio dalla definizione che Sidgwick fornisce di etica: qualsiasi procedura razionale attraverso la quale determinare che cosa gli esseri umani come singoli individui devono fare ci che per essi giusto fare o devono cercare di fare attraverso azioni volontarie ( ME, Introduzione, p. 41, p. 2). Il problema allora questo: possibile dimostrare la superiorit etica delledonismo universalistico rispetto a quello egoistico? Sidgwick afferma che lutilitarismo si fonda su tre

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principi autoevidenti, intuitivamente noti. Il primo principio (di equit) chiaramente universalistico e sostiene che illegittimo favorire se stessi rispetto agli altri se non sussistono fondate ragioni che lo permettono.
Non possiamo dire che unazione giusta per A e ingiusta per B, a meno che non si possa individuare nella natura o nelle circostanze delle due azioni una qualche differenza che possiamo considerare come base ragionevole per una differenza relativa ai rispettivi doveri. Pertanto, se ritengo che lazione sia giusta per me, implicitamente ritengo che essa sia giusta per qualsiasi altra persona, la cui natura e le cui circostanze non sono diverse dalle mie in qualche aspetto importante (ME, III.1, pp. 238-239, p. 209).

Esso un assioma auto-evidente (Sidgwick lo definisce principio di reciprocit) e possiede una diretta applicazione di carattere legale e istituzionale, ovvero sociale. Esso un principio fortemente innovativo allinterno dellutilitarismo classico, perch tenta di aggiungere a tale dottrina dei requisiti deontologici che guardano anche alletica di Kant (Sidgwick sostiene infatti che il requisito della benevolenza razionale abbia molto in comune con la riflessione kantiana: considerata nellaspetto positivo, la conclusione di Kant sembra concordare in larga misura con la prospettiva del dovere di benevolenza razionale che ho presentato, ME, III.13, p. 417, p. 386). Il secondo assioma autoevidente, la benevolenza razionale, ancora pi vicino alle versioni moderne dellutilitarismo ed ovviamente legato al primo, in quanto impone di non porre alcuna distinzione fra il bene personale e il bene collettivo, il quale il solo a dover essere massimizzato: ciascuno moralmente indotto a considerare il bene di qualsiasi altro individuo allo stesso modo in cui considera il proprio bene personale, a eccezione del caso in cui crede che a uno sguardo imparziale esso sia minore, oppure che sia conoscibile con

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minore certezza, oppure che con minore certezza possa essere riconosciuto (ME, III.13, pp. 414-15, p. 383). Il bene personale ha importanza solo se contribuisce al bene collettivo e dunque il bene di un singolo individuo fa parte di un tutto al quale subordinato: come se lagente, prima di prendere una decisione, dovesse essere in grado di porsi dal punto di vista delluniverso. Il terzo principio, la prudenza razionale, che si riferisce alla condotta riguardo a se stessi, asserisce che le differenze temporali tra i propri stati interiori, non devono contare nel considerare il bene di un individuo, ovvero la mera differenza di priorit e di posterit nel tempo non una base ragionevole per avere maggiore riguardo per lo stato di coscienza di un momento rispetto a quello di un altro (ME, p. 414). Questi principi non sono del tutto assenti nella riflessione di Mill e Bentham, ma Sidgwick li ritiene autoevidenti. Attraverso di essi, e dallidea per cui noi, in quanto individui ragionevoli, tendiamo a mirare al bene in generale e non ad una parte particolare di esso, seguirebbe lutilitarismo. Tuttavia legoista edonista, se fa riferimento solo a questi principi, non detto che si comporter immediatamente da utilitarista, in quanto essi fondano certamente la benevolenza razionale, ma per approdare allutilitarismo ci sarebbe bisogno di una definizione di ci che oggettivamente giusto che Sidgwick confessa di non poter fornire. In realt, Sidgwick deve ammettere che possibile ammettere che il proprio bene sia parte di un pi generale bene universale e decidere tuttavia di non massimizzare il bene collettivo. Infatti, il metodo dellegoismo razionale sembra possedere la medesima validit di quello dellutilitarismo, anche perch esso originato dallo stesso impulso che conduce allutilitarismo, ovvero la ricerca della felicit e pu essere fondato sui medesimi principi autoevidenti. Dunque, sebbene

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Sidgwick affermi che lutilitarismo viene cos presentato come la forma finale in cui tende a passare lintuizionismo quando con rigore si pone il problema dei principi primi realmente autoevidenti (ME, III.XIII, p. 419, p. 388), chiaro che tra utilitarismo ed egoismo permane a livello pratico una dualit inconciliabile, tanto che lutilitarismo per essere fondato in modo coerente non pu riferirsi ai soli principi autoevidenti della benevolenza razionale e della universalit delle proprie prescrizioni. Sidgwick non sembra cos convinto che in modo progressivo nella societ verranno meno gli atteggiamenti egoistici a favore dellaltruismo e dellaffermazione della benevolenza. Infatti, anche la tendenza a privilegiare il proprio bene, sembra essere innata e di per s evidente allanimo umano: il problema chiaramente posto in un articolo uscito su Mind nel 1889, Some Fundamental Ethical Controversies:
Insieme con (a) una convinzione morale fondamentale per la quale devo sacrificare la mia personale felicit, se in tal modo aumento la felicit di pi di quanto diminuisce la mia, trovo anche (b) una convinzione che sarebbe paradossale definire morale, ma che ad ogni modo fondamentale per cui sarebbe irrazionale sacrificare qualsiasi parte della mia felicit se tale sacrificio non in qualche modo compensato da un analogo incremento della mia felicit. Io trovo entrambe queste convinzioni nel mio pensiero, con la stessa chiarezza e certezza che pu fornire un processo di riflessione introspettiva: riscontro anche un significativa accettazione di essi quantomeno implicita - nel senso comune dellumanit: e in definitiva, trovo conferma della mia visuale nella storia del pensiero morale inglese.

Sidgwick sostiene daltra parte che accettato dalla moralit di senso comune il fatto che un individuo possa attuare comportamenti autointeressati e che questo edonismo egoistico

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a volte si rivela pi efficace della tendenza utilitaristica, in quanto pu accadere che privilegiare il proprio interesse non leda quello collettivo (o addirittura lo favorisca). Nella vita ordinaria la ricerca del proprio interesse pu essere del tutto naturale e compatibile con la vita sociale, a patto che non rechi danno agli altri. Ledonismo empirico si basa infatti su una riflessione, forse meno raffinata di quella che conduce allutilitarismo, ma ad ogni modo attenta allesperienza. Utilitarismo ed egoismo razionale hanno il medesimo fine, la ricerca del benessere, ma differiscono nei modi per raggiungerlo. Lautore vuole evidenziare la naturalit del comportamento egoistico il quale, nella gran parte delle vicende quotidiane, similmente allutilitarismo, prende le proprie decisioni attraverso una riflessione in gran parte razionale:
Non conosco nessun altro metodo scientifico, che non sia ledonismo empirico, che ci consenta di determinare fino a che punto in date circostanze si debba subordinare ad altre considerazioni laumento della ricchezza o della conoscenza, o anche il miglioramento della salute. N, come detto, mi sembra che il senso comune dellumanit abbia mai applicato n cercato alcun altro metodo per regolare la ricerca di ci che i nostri vecchi moralisti chiamavano bene naturale (ME, IV.5, pp. 506-507, p. 478).

Per Sidgwick dunque ci che innato limpulso alla moralit, ossia la tendenza a comportarsi secondo regole che influenzano le scelte collettive e individuali, sebbene non sia certo che tale impulso alla moralit sia coerente in modo immediato con lutilitarismo. Daltra parte, come detto, quello cui noi aspiriamo non il solo piacere o la felicit, bens la soddisfazione dei nostri desideri e i principi a cui rispondiamo ci sono noti in modo intuitivo (la prospettiva intuizionista

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sostiene che una certa condotta giusta quando conforme a certi precetti o a certi principi di dovere che per questa intuizione sono riconosciuti incondizionatamente vincolanti, ME, Introduzione, p. 43, p. 3), mentre le ragioni che in seguito vengono offerte allindividuo che agisce non fondano il senso morale, bens possono mostrargli come le tendenze edonistiche debbano accordarsi con il principio della benevolenza universale e quindi con lutilitarismo. La stessa struttura della societ, la presenza di sanzioni giuridiche, morali e religiose mostra peraltro che la conciliazione tra prudenza e moralit (ovvero tra edonismo empirico ed universalistico), non sia avvenuta (e probabilmente non avverr), in quanto anche se nelle condizioni normali della societ lobbedienza ai doveri verso gli altri e la pratica delle virt sociali generalmente coincide con la maggior felicit possibile nel lungo periodo per lagente virtuoso, tuttavia come minimo non si riesce a dare una dimostrazione empirica della universalit e della completezza di questa coincidenza (ME, p. 525, p. 498). Non dunque cos certo che gli uomini percepiscano in modo immediato la coincidenza tra i loro interessi e i doveri sociali e che, in caso di conflitto tra essi, se agiscono privatamente seguiranno i propri interessi, mentre se agiscono pubblicamente si adegueranno alla moralit sociale. Sidgwick osserva con occhio molto lucido le dinamiche della societ di mercato a lui coeva, sempre pi industrializzata: anche se lobbedienza ai doveri verso gli altri e lesercizio della virt sociale sembra essere in generale il miglior mezzo per conseguire la felicit personale dellindividuo, e anche se facile sostenere questa coincidenza tra virt e felicit in maniera retorica e popolare, tuttavia, quando analizziamo attentamente e valutiamo le conseguenze che la virt ha sullagente virtuoso, sembra improbabile che questa coincidenza sia completa e universale (ME, III.3, p. 206, p. 178).

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Pertanto, allinterno dellutilitarismo di Sidgwick, limpulso egoistico (nel senso della ricerca delle soddisfazioni dei desideri dellagente) lintuizione fondamentale che, accanto alledonismo universalistico, pone capo a quel dualismo della ragion pratica che costituisce un tratto caratteristico (e molto problematico) della sua riflessione e la soluzione ad esso, secondo lautore, non attingibile tramite unargomentazione razionale: non vedo alcuna incoerenza nel sostenere da una parte che, se laggregato degli esseri senzienti potesse agire collettivamente, per tale aggregato sarebbe ragionevole tendere solamente alla propria felicit come fine ultimo (e analogamente sarebbe ragionevole che ogni individuo facesse lo stesso, se fosse il solo essere senziente delluniverso); e dallaltra parte anche che pu essere effettivamente ragionevole che un individuo sacrifichi il proprio bene personale o la propria felicit per la maggior felicit degli altri (ME, III, 14, p. 437, pp. 408-409)14. Il tentativo di risolvere questo dualismo perseguit gran parte della via intellettuale di Sidgwick, il quale vedeva in esso il possibile fallimento del progetto di fornire alletica una sistemazione coerente e pienamente razionale. Esso poteva infatti voler dire che nessuno dei tre metodi poteva essere del tutto efficace, sebbene la predilezione per lutilitarismo rimarr in Sidgwick salda. Nel 1887, nelle sue memorie, a testimonianza di quanto pensasse a questo problema, egli scrive: la mia preoccupazione particolare non sostenere in qualche modo la moralit, ma fondarla logicamente come un sistema razionale; ed ho dichiarato e scritto che questo non pu
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Sempre nel manoscritto alla prefazione delledizione del 1900 (postuma), Sidgwick scrive: Il risultato finale della mia ricerca era che non era possibile alcuna soluzione completa del conflitto tra la mia felicit personale e la felicit generale, in base alla mera esperienza terrena, p. 33. Il dualismo della ragion pratica ha dato vita a profonde messe in discussioni dellopera di Sidgwick, per indicazioni bibliografiche cfr. G. Pellegrino, Dieci anni di studi su Henry Sidgwick, Rivista di filosofia, 3/2003.

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essere fatto, se ci limitiamo alle sole sanzioni mondane, a causa delle inevitabili divergenze, in questo mondo imperfetto, tra lobbligo individuale [individuals Duty] e la felicit. Poco sotto, Sidgwick aggiunge: devo usare la mia posizione, e il mio salario, per insegnare che la morale un caos, dal punto di vista della ragion pratica; aggiungendo simpaticamente che, sebbene luomo non sia un essere del tutto razionale, non debba esservi alcun timore reale per il fatto che la morale possa essere tenuta su in qualche modo?. E infine: il punto che ho provato tutti i metodi a turnoe tutti, a turno, hanno fallitoAncora, prematuro disperare, e sono abbastanza contento di poter continuare la ricerca finch la vita durala questione se professare unEtica senza fondamento (ed. del 1906 a cura di A. Sidgwick e E. M. Sidgwick, pp. 472-473). In realt, per affrontare questo dualismo, Sidgwick sembra volersi richiamare al postulato pratico dellesistenza di Dio, come garante dellordine armonico delluniverso: il punto di vista delluniverso, dunque, diventa quello di un Essere trascendente i cui precetti, come gi Mill aveva suggerito, si accordano in modo spontaneo con la massima utilitarista che spinge a cercare la felicit: Se come tutti i teologi concordano dobbiamo concepire Dio come un ente che agisce per qualche fine, allora dobbiamo credere che quel fine sia il bene universale e, se gli utilitaristi hanno ragione, dobbiamo credere che esso sia la felicit universale (ME, Conclusione, 4, p. 531, p. 504). Sidgwick tuttavia sostiene che a livello teorico tra egoismo ed utilitarismo sussiste una differenza in quanto questultima, in quanto dottrina universale, ha il dovere di confrontarsi con la morale di senso comune, mentre per ledonismo egoistico, questo problema non sussiste, dato che in genere si trova in accordo con essa e con lintuizionismo dogmatico. Al contrario, di fronte ai conflitti tra le asserzioni della morale

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comune, necessario un pi elevato livello di riflessione che, dal punto di vista epistemologico, fa affidamento allintuizionismo filosofico, mentre a livello normativo pu fondarsi solo sulledonismo universalistico: se i principi della moralit devono veramente servire come assiomi scientifici ed essere utilizzati in dimostrazioni chiare e cogenti, si [deve] prima fare in modo che essi raggiungano una precisione maggiore di quella che hanno nel pensiero e nel discorso comune dellumanit (ME, III.1, p. 244, p. 215). La moralit di senso comune funziona in modo efficace rispetto alle questioni della moralit pratica, ma se si ricercano i fondamenti razionali della teoria etica, essa ovviamente non sufficiente: la moralit del senso comune pu ancora essere perfettamente adeguata a dare indicazioni pratiche alla gente comune in circostanze comuni, ma il tentativo di farla assurgere a sistema di etica intuizionista porta in primo piano le sue inevitabili imperfezioni (ME, II.11, p. 392, p. 361). Ma alla fine che rapporto viene istituito da Sidgwick tra utilitarismo e moralit di senso comune? Esso ampio ed ambivalente. Lautore per esempio dichiara che lutilitarismo la dottrina morale pi coerente con le intuizioni della moralit comune, ma esso non dovrebbe pretendere di sostituirla, bens correggerla e rafforzarla:
dato lattuale stato della nostra conoscenza, non possibile che lutilitarista possa costruire una moralit ex novo n per luomo com (astraendo dalla sua moralit), n per luomo come deve essere e sar. In termini generali, lutilitarista deve partire dallordine sociale esistente; e per decidere il problema se si deve raccomandare una qualche divergenza dal codice attuale, necessario considerare soprattutto le conseguenze immediate che questa divergenza verr ad avere su una societ in cui si pensa che tale codice valga in generale (ME, IV.4, p. 500, pp. 473-474).

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Questa mossa di Sidgwick forse quella che meglio caratterizza la sua riflessione. Egli probabilmente limita la sua indagine alla moralit di senso comune per affermare uneffettiva autonomia delletica e per rimarcare la propria differenza con Mill; in tal modo, Sidgwick vuol sostenere che loggetto proprio delletica come disciplina teorica va trovato allinterno della moralit e non in campi esterni come la psicologia, la sociologia, la metafisica, ecc. Sidgwick critico tanto delletica teologica cio quella che giustifica i principi primi con enunciati teologici, quanto dellassociazionismo (psicologico) che fino ad allora aveva fornito la base teorica dellutilitarismo [si pensi a Mill]15. Per questo la posizione di Sidgwick stata criticata come conservatrice dellordine esistente (al suo tempo, quello dellInghilterra vittoriana), in quanto egli sostiene che ogni mutamento del codice morale corrente vada compiuto con estrema prudenza ed attenzione, cercando in tutti i modi di domandarsi se lintroduzione di una norma che, in astratto, pu apparire pi benefica, lo possa poi essere realmente alla prova dei fatti. Lutilitarista dunque pu proporre di mutare una norma in favore di unaltra, ma deve stare molto attento a farlo, dato che la moralit di senso comune non dovrebbe essere stravolta, ma solo modificata dallutilitarismo, al fine di uscirne pi rafforzata e convincente: Si deve osservareche gran parte della riforma della moralit popolare che un utilitarista coerente cerca di introdurre probabilmente non consister tanto nello stabilire nuove normequanto nellimporre le vecchie (ME, IV.5, p. 511, p. 484). In sostanza, lautore nota che nei
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M. Mori, Utilitarismo, morale e diritto. Per una teoria etica obiettivista , Universit degli Studi di Milano, Istituto di filosofia e sociologia del diritto, Milano 1984, pp. 32-33. Mori a p. 33 ricorda come laver spostato lindagine sulla moralit di senso comune sia stata la mossa decisiva di Sidgwick in quanto, dopo di lui, gran parte della riflessione morale anglosassone, seppure in forme diverse, ha cercato di individuare la teoria morale che meglio si adatta alla moralit comune.

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casi di conflitto tra una norma sociale consolidata ed una che si vuole introdurre ci sono due possibilit: o si cerca di cambiare la norma oppure (e Sidgwick propende nettamente per questa seconda ipotesi) si deve cercare di fare in modo che la norma comune sia riconosciuta da tutti e imposta a tutte le persone coscienziose appartenenti a quella parte della societ in cui la violazione sarebbe divenuta abituale (ME, IV.5, p. 518, p. 490). Sidgwick sottolinea peraltro che decidere di promuovere una norma che si discosta da quelle comuni, pu condurre, una volta assunta quella norma, ad una difficolt della sua attuazione pratica; pu mettere in crisi una lunga tradizione di moralit accettata e condivisa di cui tutti noi abbiamo bisogno per orientarci, in modo immediato, di fronte alle scelte dellesistenza. Lutilitarista dovr perci valutare non solo se la norma (o linsieme di esse) da lui proposto porta pi benefici delle altre, ma dovr considerare tutte le questioni appena elencate. Lutilitarista, dunque, se valuta questi fattori con ponderazione, si pone in modo costruttivo rispetto alla moralit comune, dato che se crede che ogni norma di questo tipo conduca al bene comune, egli sta semplicemente dando uninterpretazione speciale e pi stretta del dovere generale della benevolenza universale, laddove il senso comune lascia uno spazio vago ed indeterminato (ME, IV.5, p. 510). Lutilitarismo pu dunque ampliare e meglio definire la moralit di senso comune, ma non stravolgerla. questa una concezione strumentale dellutilitarismo? Forse no, tuttavia sembra attenuarsi la carica prescrittiva riservata ad esso, il quale appare funzionare soprattutto come dottrina morale descrittiva di una situazione, di unet in cui la moralit di senso comune ad essere la fonte della condotta: lutilitarismo si pone come principio esplicativo, dotato di

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forza teoretica (e dunque razionale), ma forse meno determinante dal punto di vista prescrittivo. Questa argomentazione per rappresenta la pars destruens del rapporto tra moralit comune ed utilitarismo, giacch lutilitarismo, rispetto alla morale comune, possiede anche una superiorit teoretica proprio perch basato sugli assiomi autoevidenti di giustizia ed equit e sulla benevolenza razionale. In particolare, a Sidgwick interessa rimarcare come lutilitarismo sia decisivo nel definire il ruolo delle eccezioni e limitazioni cui vanno inevitabilmente incontro i precetti della moralit di senso comune. I principi autoevidenti dellutilitarismo, non essendo ulteriormente derivabili, determinano infatti le condizioni di possibilit della morale comune; ci significa che se, a livello pratico, questultima ad essere in genere affidabile, lutilitarismo, a livello concettuale, a garantire tale affidabilit. Ci accade perch i suddetti assiomi autoevidenti, a livello metaetico, non devono ammettere eccezioni, in quanto dal questo punto di vista sempre chiaro qual lazione pi razionale da compiere. I principi della moralit di senso comune ammettono invece eccezioni e conflitti e se sussiste un conflitto tra due principi ritenuti autoevidenti, significa che uno dei due non tale:
Le proposizioni accettate come autoevidenti devono essere tra loro coerenti. A questo punto ovvio che un qualsiasi conflitto tra due intuizioni costituisce una prova della presenza di qualche errore nelluna o nellaltra, o in entrambeuna simile collisione costituisce la prova assoluta del fatto che almeno uno dei due principi necessita qualche eccezionesorge il dubbio che si sia scambiato per assioma ultimo e indipendente un principio che invece in realt derivato e subordinato (ME, II.11, pp. 374-375).

Le massime della moralit di senso comune non sono assiomi ultimi poich non soddisfano i requisiti di razionalit,

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evidenza, chiarezza e precisione: la razionalit del nostro comportamento garantita solo dagli assiomi autoevidenti dellutilitarismo. Per mostrare che un presunto principio primo possiede una sua superiorit, si deve dimostrare che esso determina i limiti e le eccezioni di altri principi, mentre nessuno determina tali restrizioni su di esso. Tuttavia, mostrare questo significa dimostrare che il primo principio serve per sistemare ed armonizzare le norme subordinate16, ossia ci che per Sidgwick alla fine deve fare lutilitarismo stesso rispetto alla moralit del senso comune. La massimizzazione del bene universale viene dunque ad essere una procedura razionale e si pone, da un lato, come un ampliamento della moralit di senso comune e, dallaltro, come prescrizione che ha a proprio fondamento i principi della moralit intuizionista e dellutilitarismo. la ragione, intesa come facolt pratica, ad mostrarci come pi affini allutilitarismo la considerazione imparziale dei desideri e delle preferenze altrui. Questo un punto di vista assunto in genere anche dallutilitarismo contemporaneo. I nostri desideri vanno massimizzati solo se si mostrano razionali, ossia se sono quelli che un individuo sceglierebbe se fosse in grado di ragionare dal punto di vista delluniverso. Le ragioni che lutilitarismo offre possiedono allora una validit ideale, in quanto costituiscono lossatura di una teoria etica la quale costituisce una riposta alla domanda centrale delletica teorica di quali siano, in via di principio, le condizioni necessarie e sufficienti dellagire moralmente retto e doverosoma nulle dice circa il modo in cui, in concrete situazioni di scelta, si deve deliberare17. Distinto dalla teoria etica il metodo di deliberazione ed un merito di Sidgwick
16

J. Schneewind, Sidgwicks Ethics and Victorian Moral Philosophy , Clarendon Press, Oxford 1977, p. 283. 17 G. Pontara, Utilitarismo e giustizia distributiva , in E. Lecaldano/S.Veca, (a cura di), Utilitarismo oggi, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 64.

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aver posto per primo questa distinzione: la deliberazione riguarda ci che concretamente si deve compiere in particolari situazioni di scelta. Dunque, mentre la teoria etica ben rappresentata, nella riflessione di Sidgwick, dallutilitarismo, intuitivamente fondato, il metodo di deliberazione si determina attraverso la comprensione, la regolazione e la compartecipazione, oltre che dei principi utilitaristici, di quelli egoistici e della moralit di senso comune, sebbene a questo livello, come detto, permangano una dualit tra egoismo ed utilitarismo. In conclusione, ricordando che lutilitarismo di Sidgwick si fonda sui principi autoevidenti di equit, prudenza e benevolenza razionale, possiamo cos riassumere i punti della sua teoria morale: Un atto giusto per un individuo lo deve essere altres per altri individui in simili circostanze. Le semplici differenze numeriche tra di essi non possono costituire una base ragionevole per stabilire delle differenze rispetto ai doveri loro richiesti. Un trattamento corretto per un individuo lo anche per altri individui in simili circostanze. Le semplici differenze numeriche tra di essi non possono costituire una base ragionevole per stabilire delle differenze nel trattamento. Ognuno deve mirare al proprio bene con unattenzione imparziale per tutte le fasi della propria vita. Rimanendo le altre cose uguali, il bene di un individuo non pi importante di quello degli altri. Ognuno deve mirare al bene generale e non ad una parte di esso.

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JAMES J. SMART
La riflessione di Sidgwick rappresenta un fondamentale punto di passaggio tra lutilitarismo classico e quello contemporaneo; egli infatti ha posto dei problemi e prospettato delle soluzioni che verranno ampliate e sviluppate successivamente da vari autori, i quali forniranno allutilitarismo una connotazione diversa da quella classica. Per esempio, nella discussione moderna sullutilitarismo, invalsa la tendenza a distinguere due forme di esso: quello degli atti (act-utilitarianism) e quello delle regole (rule-utilitarianism), distinzione non applicabile agli utilitaristi classici, sia perch non appare corretto definire con categorie concettuali successive dottrine filosofiche anteriori, sia perch nelle loro pagine non possibile individuare una chiara direzione argomentativa in tal senso. Nemmeno Sidgwick del tutto riconducibile a tale distinzione, bench lorigine di essa si possa forse rintracciare proprio nel problema da lui affrontato in ME, IV.5, relativo a quale sia il miglior corso dazione per un utilitarista, allorch, trasgredendo la norma, lagente si ritrovi ad accrescere lutilit pubblica in misura maggiore che osservandola. Sidgwick per non suggerisce una soluzione a tale questione che possa accordarsi con un utilitarismo della regola, sebbene sia lui che Bentham e Mill, se si volesse per cos dire applicare comunque loro unetichetta, sarebbero degli utilitaristi della regola ante-litteram. Gli utilitaristi classici, infatti, ritengono in genere che la massimizzazione

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dellutilit sia appannaggio delle regole di comportamento che devono normare la tendenza umana a ricercare la felicit. Lutilitarismo della norma trover comunque la sua prima affermazione in un articolo delleconomista R. F. Harrod, Utilitarianism Revised, pubblicato nel 1936 sulla rivista Mind. In questo articolo, si sosteneva lesigenza di una saldatura tra utilitarismo e kantismo, alla ricerca di una fondazione a priori dellutilitarismo stesso. Secondo Harrod, le azioni avrebbero dovuto essere coerenti non con la necessit di aumentare il benessere sociale, ma con un insieme di regole razionali, accettate dalla comunit, nel tentativo di stabilire una identit tra la ricerca dellinteresse privato e di quello collettivo. Lutilitarismo poteva dunque assumere un carattere deontologico che ne attenuasse laspetto empiristico ed essere maggiormente attento ai fini generali della societ. Un autore che ha sostenuto lutilitarismo delle regole J. C. Harsanyi, di cui si parler pi avanti, mentre la riflessione di J. J. Smart assume lidea, ritenuta da molti pi semplice ed intuitiva, secondo la quale la massimizzazione dellutilit risiede esclusivamente nella scelta delle azioni adatte a questo scopo: per lutilitarismo degli atti contano perci solo le conseguenze benefiche che si possono produrre scegliendo una certa azione. Lorigine della discussione moderna sullutilitarismo non pu di certo ignorare il libro di G. E. Moore, Principia Ethica, il quale, sebbene non sia propriamente un testo di etica normativa, propone tuttavia delle argomentazioni che contribuiranno alla nascita di quella che stata definita metaetica analitica, capace di influenzare, soprattutto in ambito anglosassone, gran parte della riflessione morale della prima met del secolo scorso. Moore di certo un utilitarista, ma, quantomeno nei PE, non si occupa tanto di fornire una sua interpretazione di questa dottrina, giacch cerca di tracciare un

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quadro teorico generale che chiarisca la validit degli strumenti concettuali di cui in genere letica si serve, in particolare dei concetti di buono, piacevole, giusto, dovere. il linguaggio quello che va attentamente analizzato per affrancare letica, da un lato, dalla subordinazione a principi trascendenti ad essa estranei, dallaltro, per renderla autonoma rispetto alla conoscenza scientifica. Letica pertanto possiede un carattere esplicativo rispetto al significato dei termini morali (in quanto ne chiarifica il senso) ed un carattere fondativo rispetto alla validit dei giudizi morali che essi concorrono a formare (in quanto ne costituisce la giustificazione teorica). Naturalmente, questo genere di fondazione non assimilabile a quella della conoscenza scientifica: proprio per questa ragione Moore, nellintrodurre la sua riflessione morale, sostiene che un libro sulletica non possa prescindere da una primaria chiarificazione del significato dei termini etici: Si tratta di unindagine che merita unattenzione specialissima; giacch questo problema, di come buono vada definito, il problema pi fondamentale di tutta letica. Ci che buono significa in effetti, a parte il suo contrario cattivo, il solo oggetto semplice di pensiero che appartenga peculiarmente alletica (PE, I, 5, p. 48). Nellopera Ethics del 1912, Moore invece definisce cos il suo utilitarismo:
La nostra teoria non asserisce con grande enfasi che il piacere la sola cosa intrinsecamente buona e il dolore la sola cosa intrinsecamente malvagia. Essa afferma al contrario che una qualunque totalit, la quale contenga uneccedenza di piacere sul dolore, intrinsecamente buona, senza riguardo a quanto possa esservi contenuto di diverso e, analogamente, che una qualunque totalit, la quale contenga uneccedenza di dolore sul piacere, intrinsecamente cattiva (E, p. 57).

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Questo genere di utilitarismo stato definito ideale, in quanto lutilit assegnata a stati mentali dotati di valore intrinseco, quali quelli che si sperimentano leggendo poesie, ascoltando della buona musica, guardando i gioielli dellarte o leggendo libri di filosofia. Moore in particolare ha il merito di introdurre lidea dellutilitarismo come dottrina dellobbligo morale, secondo la quale si deve compiere sempre ci che massimizza lutilit generale. Oltre a ci, Moore sostiene che ci che contano sono solamente gli effetti di un atto (le conseguenze effettivamente prodotte) al fine di stabilirne la coerenza o lincoerenza con il principio di utilit: questa una enunciazione chiaramente consequenzialista: ci che rende giuste le azioni che esse siano produttive di pi bene di quanto avrebbe potuto essere prodotto da qualsiasi altra azione disponibile allagente 18. In terzo luogo, Moore dichiara che lutilit va ascritta ai soli atti, non alle regole che li determinano, ponendo le basi per quello che si definir utilitarismo degli atti. Dal punto di vista normativo, Moore riprende da Sidgwick lidea di conciliare utilitarismo ed intuizionismo; Moore ritiene inoltre di poter corregger gli errori degli utilitaristi classici, i quali avevano definito buono come ci che piacevole. A suo parere,pJ. S. Mill aveva sostenuto in modo riduttivo che ledonismo il solo movente delle nostre azioni, ma soprattutto, dal punto di vista teorico, aveva compiuto una fallacia naturalistica, trasgredendo alle asserzioni di Hume contenute alla fine del libro III del Treatise on Human nature, secondo le quali non possibile passare da asserzioni col verbo essere a quelle col verbo dovere. Lerrore compiuto da quelle etiche definite come naturalistiche o metafisiche consiste dunque nel definire i termini etici facendo riferimento a propriet non etiche, come fa Mill, il quale definisce buono
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W. D. Ross, Il giusto e il bene, a cura di R. Mordacci, Bompiani, Milano 2004, p. 23. Ross un intuizionista non utilitarista.

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come ci che desiderabile, spiegando una propriet morale non naturale come buono attraverso una propriet naturale non morale (lessere desiderabile), mentre buono per Moore una nozione semplice, indimostrabile, giacch intuitivamente nota allindividuo: Ci che sostengo che buono una nozione semplice, proprio come una nozione semplice giallo; e che, come non c alcun mezzo di spiegare a qualcuno che gi non lo sappia che cosa sia giallo, cos non c modo di spiegargli che cosa sia bene (PE, I, 7)19. Negli anni successivi, lampliamento delle posizioni di Moore relative alla distinzione fra asserzioni fattuali e asserzioni valutative, condurr i teorici degli studi di metaetica a sviluppare una posizione non cognitivista, secondo la quale le proposizioni morali non devono rispondere a condizioni di vero-falist, poich devono fornire indicazioni per la condotta e perci sono dotate di significato prescrittivo, non descrittivo. Per tornare al discorso generale sullutilitarismo del 900, si pu asserire che uno dei punti pi significativi che esso esprime la necessit di porsi come teoria etica razionale, in quanto sostiene che debbano essere massimizzati non semplicemente qualsiasi piacere o interesse, ma solo quelli valutati in base a criteri imparziali che ne sottolineano la plausibilit e la razionalit. Lutilitarismo contemporaneo definisce per questo lazione razionale come quella assunta
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Moore sottolineava lerrore del naturalismo attraverso largomento della open question, secondo il quale, quando si cerca di definire le propriet morali allo stesso modo di quelle non morali, non si giunge mai ad una conclusione. Per esempio, se si domanda cosa un triangolo, si pu rispondere che una figura geometrica la somma dei cui angoli interni di 180 gradi. In tal modo si fornisce una definizione completa di triangolo. Se di contro, si chiede cosa bene e ci si sente rispondere, per ipotesi, bene ci che produce piacere, non si otterr una definizione di bene, ma solo uninformazione sui suoi effetti e dunque linterlocutore potr di nuovo domandare: s, bene ci che produce piacere, ma cosa invece il bene in s?.

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dallindividuo in condizioni di piena informazione: vi in tal modo un processo di astrazione ed idealizzazione rispetto alle situazioni contingenti, le quali comunque rimangono il teatro principale su cui si confrontano gli individui. Inoltre, lutilitarismo moderno in genere tende ad abbandonare le nozioni di piacere e felicit (ritenute riduttive rispetto ad una vita psichica dellindividuo molto pi complessa ed ampia), per abbracciare quella di preferenza, la quale sembra esprimere in modo pi cogente ed ampio le motivazioni interiore che spingono gli individui ad agire: Lutilitarismo delle preferenze che si sviluppa in particolare nel secolo XX, realizza uno spostamento decisivo del criterio che non pretende pi di fare riferimento a una unit di misura comune e oggettiva quale il piacere, ma muove piuttosto accettando come tutte di eguale valore le preferenze dei diversi soggetti coinvolti e dunque identificando come giusto quel corso di azione che massimizza la soddisfazione delle preferenze, quali che siano20. Va qui aggiunto che laffermazione delle analisi del linguaggio morale ha per molto tempo messo in secondo piano gli studi di etica normativa, giudicati privi di quella chiarezza teorica offerta invece dallanalisi dei significati dei termini morali. Tuttavia, a partire dagli anni 60, alcuni autori, si pensi per esempio ad R. Hare, hanno posto la necessit, pur non rinnegando il primato dellanalisi metaetica, di affrontare le questioni normative proprio alla luce dei risultati pi qualificanti delle analisi dei significati morali. Uno dei testi che, nella seconda met del 900, ha riproposto lattenzione sulle questioni di etica normativa in coerenza con lapproccio non cognitivista, senza dubbio il contributo di J. Smart, An Outline of a System of Utilitarian Ethics (redatto gi nel 1961 e pubblicato nel 1973). Come scrive E. Lecaldano nellIntroduzione alledizione italiana: Il saggio di Smart importante non solo per il fatto di essere uno dei primi
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E. Lecaldano, Etica, TEA, Milano 1995, p. 83.

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documenti della rinascita di un new look normativo, ma pi specificatamente perch in esso si presenta un utilitarismo del tutto nuovo ed originale, la cui novit ed originalit deriva proprio dallaver fatto tesoro dei risultati raggiunti negli anni precedenti da coloro che si concentravano quasi esclusivamente su questioni metaetiche (pp. 14-15). A parere di Smart, lidea che la vera filosofia morale sia costituita dalle sole indagini relative al significato dei termini morali incompleta; egli ritiene che una tale indagine conduca ad una eccessiva astrazione rispetto a quel che accade in concreto nelle varie circostanze in cui gli uomini agiscono. Nellopera di Smart si sostiene una forma di utilitarismo edonistico corretto, in grado di integrare ed ampliare gli studi di metaetica analitica e, dal punto di vista normativo, affine allutilitarismo degli atti: Adottando tale metaetica, rinuncio, naturalmente, al tentativo di dimostrare lutilitarismo dellatto. Mi preoccuper di formularlo in una versione in cui possa apparire persuasivo e di mostrare come possa essere difeso contro molte delle obiezioni che si adducono di frequente contro lutilitarismo (UFA, p. 37). Smart pensa che tale

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genere di utilitarismo sia in realt quello cui naturalmente facciamo riferimento quando agiamo e quello che meglio si adatta alla complessit delle situazioni particolari nelle quali ci troviamo a prendere delle decisioni. Le stesse etiche deontologiche21, quelle che ritengono un atto giusto in quanto rispondente a valori intrinseci, fondati a priori, sembrano incapaci di riflettere leffettivo svolgimento delle cose umane: c una necessit prima facie per il deontologo di difendersi dallaccusa di crudelt, in quanto sembra preferire lastratta conformit ad una regola alla prevenzione della sofferenza umana evitabile (UFA, pp. 3738). Lutilitarismo, invece, appare affrontare meglio le situazioni che si possono verificare, in quanto fa appello al principio della benevolenza generalizzata (ovvero alla disposizione a cercare la felicit o, in ogni caso, in un senso o in un altro, delle buone conseguenze per tutta lumanit, o forse per tutti gli esseri senzienti, UFA, p. 39) che, sebbene in modi e forme diverse, presente in qualsiasi uomo. Lutilitarismo degli atti possiede altres il vantaggio di essere dotato di un

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In termini molto generali, unetica deontologica (dal greco deon, ovvero ci che si deve fare) assegna ai principi morali un valore intrinseco, indipendente dalle loro caratteristiche empiriche e dalle conseguenze pratiche che essi possono determinare. Nella riflessione anglosassone del XX secolo, si sono spesso contrapposte le etiche deontologiche alle etiche teleologiche (dal greco telos, ossia fine). J. Rawls, in Una teoria della giustizia (trad. di S. Maffettone, Feltrinelli, Milano 1999, p. 38 e 43), ha sostenuto che caratteristica delle etiche teleologiche, come lutilitarismo, di definire il bene indipendentemente dal giusto; ossia, vi un primato del bene sul giusto, per cui gli atti vanno valutati positivamente se producono piacere (o benessere), senza riferimento a criteri che ne definiscano in primis la giustezza. Al contrario, unetica deontologica come il contrattualismo suppone la predominanza del giusto sul bene, ovvero lidea che sia necessaria una valutazione a priori dei principi etici, i quali possiedono una validit intrinseca, anche se non generano direttamente un outcome benesserista.

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chiaro carattere universalistico, tanto che in una pi compiuta definizione di esso, Smart scrive:
lunica ragione per fare unazione A piuttosto che unazione ad essa alternativa B che facendo A renderemo lumanit (o, forse, tutti gli esseri senzienti) pi felice di quanto lavremmo resa nel compiere B (Lascio qui da parte la considerazione sul fatto per cui in effetti abbiamo solo credenze probabili sugli effetti delle nostre azioni, e quindi il nostro argomento dovrebbe essere pi profondamente formulato dicendo che A produrr pi probabili benefici di B.). Ci troviamo di fronte a una tesi cos semplice e naturale che molti lettori potranno facilmente condividerla. Infatti, mi rivolgo ad uomini simpatetici e benevoli, cio ad uomini che desiderano la felicit del genere umano (UFA, pp. 59).

Lutilitarismo dellatto inoltre pi efficace rispetto agli altri generi di utilitarismo, in quanto Per lutilitarismo dellatto la correttezza o la non correttezza di unazione deve essere giudicata in base alle conseguenze, buone o cattive, dellazione stessa (UFA, p. 40). questa una definizione del consequenzialismo etico, un caposaldo di questa forma di utilitarismo, tanto che Smart chiarisce che a lui ci che maggiormente interessa la valutazione degli effetti delle azioni (pi che del modo in cui si producono), la quale dovrebbe essere la principale preoccupazione per un utilitarista, appunto, degli atti. Smart nota infatti che lutilitarista si rivolge a persone che molto probabilmente sono daccordo con lui su quali siano le conseguenze buone, ma che non sono daccordo con lui sul principio che il nostro dovere consiste nel produrre le conseguenze migliori (UFA, p. 45). A differenza dellutilitarismo degli atti, lutilitarismo della regola rappresenta lidea che la correttezza o scorrettezza di

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unazione debba essere giudicata attraverso la positivit o negativit delle conseguenze di una norma che ognuno dovrebbe seguire in circostanze simili (UFA, p. 40). Secondo Smart, lutilitarismo dellatto maggiormente dinamico rispetto a quello della regola il quale, assegnando il vaglio del principio di utilit alle norme e non agli atti, crea una sorta di culto della regola (rule worship), secondo cui non mai possibile trasgredire una norma, anche se tale trasgressione conduce a un incremento dellutilit complessiva. opportuno aggiungere che la distinzione tra utilitarismo dellatto e della norma stata discussa filosoficamente in modo approfondito da R. Brandt in unopera del 1958, Ethical Theory. The problems of Normative and Critical Ethics . In un successivo libro del 1979, The Right and the Good, Brandt, a proposito dellutilitarismo dellatto, ha inoltre chiarito che con atto sintende sia il non fare nulla che fare una cosa specifica; ed anche un insieme di atti di qualsiasi durata. Inoltre, quando si domanda quale linea di confine dobbiamo tracciare tra un atto e le sue conseguenze, egli afferma In genere non fa differenza dove tracciamo la linea, ma per determinare la sfera dinfluenza degli atti conviene includere non solo i movimenti corporei, bens anche i cambiamenti che essi provocano nel mondo circostante, quando questi sono essenzialmente sotto il controllo dellagente. Brandt infine, per giustificare i casi in cui lutilitarismo sembra fornire risultati contraddittori, sostiene una tesi accettata in genere dagli utilitaristi contemporanei:
Quel che un sistema morale fornisce una motivazione verso una certa direzione e sentimenti di colpa ed inclinazioni verso altre in certe circostanze. Ma essere motivati a compiere atti con la massima aspettativa di benessere ( welfareexpectation) non garantisce affatto che lagente compir atti con la massima utilit attesa. Un individuo pu essere del

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tutto incapace di capire quali atti possiedono questa caratteristica (TRG, pp. 271 e 273).

In questo caso quindi lerrore non imputabile a problemi della teoria etica, bens alle limitate capacit dellindividuo: anche questa una convinzione comune alle riflessioni morali contemporanee. Per tornare a Smart, va detto che egli, oltre ad essere risoluto nel criticare quella che definisce la rigidit dellutilitarismo della regole, sostiene che, contrariamente a quanto asserito da D. Lyons (nel volume Forms and Limits of Utilitarianism, pubblicato nel 1965), non vi possa essere alcuna equivalenza estensionale tra utilitarismo degli atti e delle regole:
Sono incline a pensare che un adeguato utilitarismo della regola non sarebbe estensionalmente equivalente al principio dellutilitarismo dellatto (ossia approverebbe il medesimo insieme di azioni del primo) in quanto in realt consisterebbe di una sola regola, quella dellutilitarismo dellatto: massimizza il probabile beneficio. Ci accade perch qualsiasi regola che pu essere formulata deve essere in grado di misurarsi con un numero indefinito di tipi di contingenze non previste (UFA, pp. 41).

Lyons, per supportare la sua tesi, poneva questo esempio. Nel caso ci siano delle votazioni e io fossi impossibilitato ad andare a votare, per lutilitarismo dellatto questa scelta sarebbe accettabile, perch probabile che tanti altri invece voteranno e dunque la mia scelta non produrrebbe danni particolari. Tuttavia, lutilitarista della norma stigmatizzerebbe questa decisione, asserendo che votare un mio dovere assoluto, indipendentemente da quello che fanno gli altri ed aggiungerebbe: cosa accadrebbe se tutti facessero come te?.

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Lyons osserva che in questo caso per lutilitarista della norma trascura del tutto il contesto sociale nel quale latto del non votare si verifica, giacch esso fornisce una descrizione in vacuo, ossia non veritiera, della situazione. Infatti, necessario sapere quello che accade attorno a chi agisce e domandarsi, come fa giustamente lutilitarista dellatto, cosa fanno gli altri individui. Per esempio, se ho deciso di votare per un candidato forte che so che molti altri voteranno, se il numero dei voti a lui favorevoli superer un certo punto-soglia, il mio voto sar non influente in modo diretto e lutilit del mio voto sar pressoch nulla. Come chiaro, quando certi atti sono compiuti un numero di volte tale da superare una certa quantit, lutilit fornita da ogni singolo atto non coincide semplicemente con la somma dellutilit di tutti gli atti compiuti. Pertanto, il mio voto pu essere fondamentale per far raggiungere al candidato una certa quantit di voti, ma, una volta raggiunta tale soglia, lutilit del mio voto decrescerebbe, fino a diventare quasi irrisoria. Secondo Lyons, lutilitarismo della norma sarebbe daccordo con queste considerazioni se prestasse pi attenzione a quel che fanno gli altri individui i quali, votando in massa per il candidato favorito, ne garantirebbero comunque lelezione: in questo caso, in termini molto generali, latto del mio votare pressoch equivalente a quello del mio non votare, giacch entrambi hanno le medesime conseguenze. Nondimeno, lutilitarismo degli atti ammette che se muta il contesto generale, anche il mio comportamento pu mutare: se...la pratica del voto per il candidato favorito non generale e solo pochi vanno a votare, allora il mio voto pu diventare decisivo per lelezione del candidato. La sua utilit quindi aumenta e in questo diverso contesto sociale anche lutilitarista dellatto, come lutilitarista [della norma] prescriver di andare a votare. Pertanto, non appena si abbandonano le descrizioni in

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vacuo e si considera il contesto sociale, si ristabilisce una equivalenza tra utilitarismo [della norma] e dellatto22. Smart nondimeno osserva che questa proposta di Lyons non pu essere valida nel caso in cui lazione X non deve essere fatta da un numero eccessivo di persone, ma in cui per ogni persona deve programmare la sua azione senza sapere ci che gli altri fanno. Egli perci non crede ad una equivalenza estensionale tra i due utilitarismi, ma sostiene che quello degli atti comprenda in s quello della regola: Sono propenso a credere che un adeguato utilitarismo della regola non solo sarebbe estensionalmente equivalente al principio utilitarista dellatto (cio ingiungerebbe la stessa serie di azioni), ma consisterebbe in realt in una regola soltanto, quella accettata dallutilitarismo dellatto massimizza i benefici probabili (UFA, p. 43). Secondo Smart una regola, sebbene ritenuta giusta, non va seguita se rischia di produrre conseguenze negative. Lutilitarista dellatto seguir le regole desunte dalle abitudini e dalle esperienze solo quando non avr tempo per operare una deliberazione ragionata poich agisce secondo le regole quando non c tempo per pensare, e, dal momento che non pensa, queste azioni che compie seguendo labitudine non sono il risultato del pensiero morale. Quando deve pensare cosa fare, allora vi un problema di deliberazione o di scelta ed precisamente per queste situazioni che il criterio utilitarista viene proposto (UFA, pp. 69-70). Ad esempio, se si vede un uomo che sta per annegare, sarebbe assurdo fermarsi a chiedersi se salvarlo aumenter il bene del mondo, domandandosi per esempio se le persona sia un pericoloso criminale che una volta salvato uccider tante persone oppure sia un individuo che non vuole pi vivere: lo si salva e basta.
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M. Mori, Lutilitarismo della norma e si suoi problemi: unanalisi e una proposta, in E. Lecaldano/S.Veca, (a cura di), Utilitarismo oggi, cit., p. 51.

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Al contempo, sarebbe assurdo sostenere che in questo caso noi agiamo in virt di una regola, poich, sostiene Smart, qui non si tratta di una deliberazione razionale, bens di un atto compiuto in modo spontaneo visto che non ci sono alternative: Il criterio utilitarista, quindi, elaborato per aiutare una persona, che potrebbe fare varie cose se scegliesse di farle, a decidere quale di queste cose dovrebbe fare (UFA, p. 72). Lutilitarismo degli atti entra dunque in gioco solo quando deve essere operata una scelta tra azioni alternative, non quando, come nel caso delluomo che sta annegando, meglio agire in modo spontaneo, seguendo le proprie emozioni. Questo significa che In quelle occasioni in cui non agiamo in seguito ad una deliberazione e ad una scelta, in cui, cio, agiamo spontaneamente, nessun metodo di decisione, utilitarista o non utilitarista, entra in questione. Il vero problema che si presenta allutilitarista se debba coscientemente incoraggiare in se stesso la tendenza a certi tipi di sentimento spontaneo (UFA, p. 71). In altri termini, quando implicata una scelta, secondo Smart vi un rapporto di causa/effetto tra la decisione e latto, in quanto se stata compiuta una certa scelta in determinate circostanze, evidentemente per lagente, in quel caso particolare, non si poteva fare diversamente: per questo lautore sostiene che il suo utilitarismo implica lidea di un rapporto rigidamente determinato tra decisioni ed azioni compiute. Il punto di vista dellutilitarista dunque perfettamente compatibile con il determinismo. Lunico senso da noi richiesto di egli avrebbe potuto fare diversamente egli avrebbe fatto diversamente se lavesse scelto. Se poi il modo di vedere utilitarista abbia bisogno di un integrale determinismo metafisico, unaltra questione (UFA, p. 73). Il determinismo non esclude ovviamente la possibilit che latto scelto si riveli fallace, ma per quel che concerne la decisione razionale (presa da un individuo pienamente informato e non

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in modo spontaneo), da un punto di vista metaetico e teorico vi un rapporto meccanico tra atto e sue conseguenze Lutilitarista pu ora fare una conveniente raccomandazione terminologica: usare il temine razionale per raccomandare quellazione che, sulla base delle prove in possesso dellagente, probabile produca i risultati migliori e di riservare il termine corretto per raccomandare lazione che realmente produce i risultati migliori (UFA, p. 73). Smart abbraccia dunque un tipo di utilitarismo monistico per quanto riguarda la teoria del valore, in quanto ritiene che il solo metro valido per stabilire laccettabilit di un atto sia la sua capacit di produrre effetti benefici. Il suo utilitarismo accetta altres un presupposto edonistico, sebbene rigetti come riduttive le nozioni di piacere e dolore e cerchi di ridefinire in termini pi complessi la nozione di felicit. Smart per esempio dichiara che questa nozione molto diversa dal semplice godimento: se cos non fosse, sarebbe possibile per un utilitarista accettare di buon grado un mondo in cui esiste una macchina del piacere che, previa stimolazione elettrica, potrebbe, in qualsiasi momento, regalare sensazioni piacevoli a chiunque, semplicemente premendo un tasto (in un testo del 1974, Anarchy, State and Utopia, il filosofo R. Nozick utilizzer proprio questo esempio per criticare lutilitarismo). Un edonista puro potrebbe ritenere ottimo un mondo in cui tutti gli individui potessero essere stimolati in tal modo tramite elettrodi, ma Smart ribatte che assai dubbio che una tale societ sarebbe utilitaristicamente accettabile. Al contrario, la nozione di felicit include un orizzonte concettuale piuttosto ampio, in quanto essa non ha solamente un significato valutativo (ossia qualifica uno stato di cose come desiderabile), bens anche descrittivo, poich chiamare una persona felice dire di pi che essa contenta per la maggior parte del tempo, o anche che spesso si compiace con se stessa

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ed di rado scontenta o in pena. Cio, perch A chiami B felice, A deve essere contento della prospettiva che B sia in quello stato mentale, e della prospettiva che A stesso, nel caso ce ne fosse lopportunit, goda di quello stato (UFA, p. 52). La nozione di felicit, quindi, indica anche un fatto; ovvero, essa descrive uno stato mentale, il quale deve possedere una certa durata temporale, giacch non pu essere qualcosa di estemporaneo, mentre il piacere qualcosa che si prova in modo rapido ed altrettanto rapidamente svanisce. In altre parole, la nozione di felicit rinvia sia ad alcuni godimenti ricorrenti e di lunga durata, sia al fatto di essere compiaciuti per tali stati felicifico e di ricercarli in futuro. Poich una persona sia felice deve, come condizione minimale, essere abbastanza contento e godere con moderazione per molto del suo tempo (UFA, p. 52). La felicit indica perci qualcosa di molto pi complesso ed articolato rispetto al semplice godimento, qualcosa di duraturo nel tempo, non legato ad un singolo istante: Possiamo parlare di una persona che goda esattamente alle due e un quarto, ma difficilmente di un uomo che felice esattamente alle due e un quartoLa felicit implica che si provi godimento in pi occasioni (UFA, p. 52). A questo proposito, una macchina del piacere ci darebbe solo un godimento estrinseco, ma non potrebbe regalarci la complessit dei nostri moti interiori, di quello che desideriamo e cui siamo inclini: Tuttavia, allo stato attuale, non vogliamo affatto diventare operatori di elettrodi. Vogliamo altre cose, forse scrivere un libro, o entrare in una squadra di cricket (UFA, p. 51). Un orizzonte puramente edonistico tratta dunque gli individui come persone che ricercano solo situazioni nelle quali possano provare piacere: ma allora il piacere che un gatto prova a inseguire un topo potrebbe essere paragonato a quello sperimentato da un uomo che legge una poesia, dal punto di vista della pura intensit. Ecco perch Mill dovette introdurre

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la distinzione qualitativa tra piaceri, distinzione che secondo Smart invece superflua, dato che sufficiente emancipare la nozione di felicit da quella di piacere. Mill infatti, utilizzando felice solo in senso valutativo, riteneva che ci che conta sia il valore intrinseco dei piaceri, ossia la loro maggiore qualit: egli per faceva questo perch trascurava del tutto gli effetti collaterali che gli atti provocano. Sostenere che dilettarsi a leggere poesia provoca un piacere pi elevato rispetto a giocare alle biglie, un fatto evidente, ma per Smart il problema non quello. Ci che conta capire che la distinzione qualitativa non tra diversi tipi di piaceri, ma tra la contentezza, la quale un termine valutativo che indica uno stato estemporaneo di godimento e la felicit, la quale indica una condizione duratura di soddisfazione. Pertanto, la polemica tra Mill e Bentham rispetto alla distinzione qualitativa tra i piaceri, pu essere ritenuta non fondamentale, poich abbastanza chiaro che i piaceri pi complessi sono oltremodo pi fecondi di quelli meno complessi e non solo sono pi godibili in s, ma sono altres mezzi per ottenere ulteriore godimento. Chi legge poesia pu non divertirsi di pi di chi beve whisky, ma sicuramente la mattina dopo non avr mal di testa (UFA, p. 54). Smart affronta poi la critica di Moore a Mill, in base alla quale ci sono forme di godimento che vanno preventivamente escluse dalla considerazione utilitaristica. In altre parole, possibile escludere a priori determinati tipi di piaceri, per esempio quelli sadici? Smart non lo ritiene possibile: laccettabilit o meno di un piacere, legata allaccettabilit o meno delle conseguenze che esso provoca. Se concediamo questo, non risulter tanto assurdo sostenere che non vi sono piaceri intrinsecamente cattivi. I piaceri sono cattivi solo perch causano danno alla persona che li prova, o ad altre persone (UFA, p. 55).

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Da questo punto di vista, Smart sostiene che tutti noi, se posti di fronte allalternativa tra un mondo del tutto privo di esseri senzienti ed uno abitato solo da un sadico felice ma che si inganna, preferiremmo il mondo in cui esiste almeno il sadico (il quale felice perch la prospettiva delle persone che potr tormentare gli provoca una grande gioia, ma si inganna perch il mondo non popolato da altri individui senzienti oltre a lui). E, ancora, peggio un universo che contenesse un individuo senziente con le stesse credenze dellindividuo che popola il precedente Universo, ma che, a differenza di questo, provasse dolore allidea delle immaginarie sofferenze dei suoi simili? Contrariamente a Moore, io credo che preferibile lUniverso che contiene il sadico ingannato [deluded sadist] (UFA, pp. 54-55). Lesempio naturalmente creato ad arte e Smart ammette che:
difficile non sentire unimmediata ripugnanza allidea del sadico ingannatoLa nostra ripugnanza per il sadico nasce, in modo abbastanza naturale, perch nel nostro Universo i sadici sono invariabilmente dannosi. Se vivessimo in un universo in cui, per qualche straordinaria legge psicologica, i sadici fossero sempre disorientati dai loro stessi sporchi trucchi e finissero invariabilmente per produrre una gran quantit di bene, allora ci sentiremmo meglio disposti verso la mentalit sadica (UFA, p. 55).

I piaceri sono quindi cattivi laddove causano danno a chi li prova o agli altri, ossia hanno delle conseguenze nefaste, ma non vanno respinti in modo estrinseco, ossia per ragioni che nulla hanno a che vedere con quello che impone lutilitarismo dellatto, ovvero la considerazione delle conseguenze. Smart tuttavia comprende che ci possano essere dei disaccordi rispetto al modo di valutare i piaceri accettabili; nondimeno ritiene che, nella pratica, tale disaccordo non abbia gravi

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conseguenze: Un accordo approssimativo sui fini ultimi spesso pi che sufficiente per un discorso morale razionale e cooperativo. Nella pratica la possibilit di un disaccordo fattuale su quali effetti producono certe cause probabilmente di gran lunga pi importante del disaccordo sui fini ultimi tra un utilitarista edonista [come Smart diversamente da Mill] ed un utilitarista idealista [ossia Moore] (UFA, p. 56). Smart tende quindi ad evidenziare il carattere condizionale ed empirico della sua teoria etica; egli infatti respinge lidea che lagente utilitarista debba operare un calcolo per individuare le scelta migliore, come se lutilit fosse ununit di misura oggettiva e non un effetto, conoscibile a posteriori, delle azioni. Lutilitarismo non valuta quindi la somma dei piaceri o della felicit che un atto pu offrire: il livello di astrazione richiesto al soggetto basso perch si vuole presentare una dottrina morale aderente alla realt cos come , evitando i formalismi e le generalizzazioni eccessive. Vanno invece paragonate le totalit delle conseguenze implicate dalla scelta dellatto A, piuttosto che dellatto B: stiamo chiedendo un raffronto fra una (presente o futura) situazione totale con unaltra (presente o futura) situazione totale. Fin qui, non stiamo chiedendo una somma o un calcolo di piaceri o di felicit, ma solo un raffronto tra situazioni totali (UFA, p. 61). A giudizio di Smart molto pi cogente appare lidea che a fondamento dellutilitarismo debba esservi un sentimento di benevolenza che, in modi e quantit differenti, esiste in tutti gli uomini: Bisogna ricordare che il principio fondamentale dellutilitarismo non espressione del sentimento dellaltruismo, ma della benevolenza, in quanto lagente considera se stesso, n pi, n meno di ogni altra persona. Il puro altruismo non pu costituire la base di un discorso morale universale, perch conduce persone differenti a compiere serie di azioni differenti e forse incompatibili, anche in circostanze

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identiche (UFA, p. 60). Ad ogni modo, come ha evidenziato Sidgwick, questo non significa che gli individui siano naturalmente benevoli, anzi, molto spesso li guida legoismo o, in altri casi, in virt dei pregiudizi, delle abitudini, delleducazione, essi si comportano in modi che ripugnano lutilitarismo stesso. Tuttavia se ci accade, questo non dovuto allutilitarismo il quale, secondo Smart, deve offrire un principio generale comprensibile ed agevolmente accettabile, senza eccedere con le concettualizzazioni. Smart a questo proposito pensa che una teoria etica che voglia confrontarsi con tutti i casi particolari, che inventa le situazioni pi strane per testare se stessa e che si appoggia su una serie di principi formali ed astratti, inevitabilmente una dottrina morale che non potr essere seguita. Lautore infatti sottolinea che le tendenze anti-utilitaristiche esistono in ognuno di noi e vanno riconosciute come tali: Senza dubbio, noi in casi particolari abbiamo sentimenti anti-utilitaristi, ma forse possibile trascurarli, se solo pensiamo che potrebbero essere dovuti ai condizionamenti ricevuti durante linfanziaCi non di meno, in certi stati danimo il principio generale dellutilitarismo potrebbe essere accolto meglio dei precetti morali particolari, proprio perch esso cos generale (UFA, pp. 92). Lutilitarista sa che potrebbe trovarsi in situazioni nelle quali sarebbe inevitabile comportarsi in modo contrario ai suoi principi, ma questo normale: lutilitarismo indica un modello di comportamento, non quel che va fatto caso per caso: Possiamo dunque sentirci inclini a respingere una metodologia etica che vuole che si mettano alla prova i nostri principi etici generali con le nostre reazioni nei casi particolari (UFA, p. 92). Daltra parte, esperienza comune rendersi conto che non esiste un principio unico che, in ogni situazione, indichi quale sia lazione migliore; infatti, vi possono essere innumerevoli

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situazioni diverse e, inoltre, non sempre facile capire a quali conseguenze dobbiamo mirare, se per esempio solo a quelle pi prossime a noi, oppure anche a quelle remote, per esempio quelle che riguarderanno le popolazioni future: In generale, lutilitarismo pu presumere che gli effetti remoti delle sue azioni tendono rapidamente a zero, come le increspature prodotte dalla caduta di un sasso in un laghetto, e in generale questa assunzione sembra del tutto plausibile (UFA, p. 88). Un concetto simile era espresso anche da Sidgwick, il quale si diceva scettico sulla possibilit di distinguere in modo netto, soprattutto nel lungo periodo, tra un atto e le sue conseguenze: Si deve anche osservare che difficile tracciare una linea netta tra un atto e le sue conseguenze, poich gli effetti che conseguono a ciascuna delle nostre volizioni formano una serie continua che ha unestensione indefinita, e sembra che noi siamo consapevoli di causare tutti questi effetti nella misura in cui, al momento della volizione, li prevediamo essere probabili (ME, I.8, p. 133, p. 96). Secondo Smart non dunque possibile pensare alle conseguenze troppo lontane nel tempo, quelle per esempio riguardanti il mondo fra mille anni, le quali non possono entrare nelle nostre considerazioni perch troppo al di fuori della nostra portata: se cos non fosse, lutilitarismo diverrebbe una dottrina improponibile, perch costringerebbe gli individui a fare delle valutazioni impossibili, paralizzando la loro condotta. Ci che sembra veramente fondamentale perci un accordo su come risolvere le questioni pratiche, al di l dei dissensi sui fini ultimi, sui principi generali: lutilitarismo di Smart non ha pretese di sistematicit:
Naturalmente, se si presenta lutilitarismo come se fosse una descrizione sistematica del modo in cui gli uomini

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comuni e anche noi stessi nei momenti in cui non riflettiamo e siamo acritici pensano realmente sulletica, allora facile da confutare, n io ho alcun desiderio di difenderlo in questa veste. Il caso simile se lo si presenta non come una teoria descrittiva, ma come una teoria esplicativa (UFA, pp. 81-82).

Questo carattere descrittivo dellutilitarismo lo dovrebbe rendere facilmente accettabile anche perch, scrive Smart riecheggiando Sidgwick, spesso meglio lavorare per rafforzare e migliorare la morale presente che avventurarsi in incerte trasformazioni delle leggi delletica. Lutilitarismo altres pu essere insegnato, assecondando i comportamenti positivi degli individui, ossia rafforzando le tendenze benevole che sono presenti, in diversa misura, in ognuno di noi: Possiamo notare, in generale, che sempre pericoloso influenzare una persona in senso contrario a ci che essa ritiene corretto. Si pu arrecare pi danno indebolendo il suo rispetto per il dovere (UFA, p. 77); pertanto, qui Smart potrebbe sottoscrivere queste parole di Sidgwick: una specifica norma morale esistente, bench non sia quella idealmente migliore neanche per quegli uomini che esistono nelle date circostanze, pu darsi che sia pur sempre la migliore cui essi dato di obbedire, cos che pu essere futile, o anche dannoso, proporre una qualche altra norma, perch questa proposta potrebbe tendere ad infirmare le vecchie abitudini morali senza sostituirle efficacemente con delle nuove (ME, IV, p. 497, p. 469). Lutilitarismo sembra di conseguenza essere una dottrina morale duttile, eventualmente adattabile ed in grado di non confliggere, anzi, di collaborare al rafforzamento della moralit comune. Esso maggiormente efficace rispetto ad unetica deontologica, la quale, dovendo essere seguita in ogni occasione, pu pi facilmente produrre dei risultati immorali. Ad esempio, sbagliato sostenere che non bisogna mai

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rompere una promessa, perch potrebbero affacciarsi delle circostanze urgenti che impongano di farlo, pena il patimento di enormi sofferenze. Lutilitarismo dellatto sembra capace di accettare ed affrontare una situazione del generale, mentre letica deontologica e lutilitarismo delle regole, paiono prigionieri dellimposizione di una cieca fedelt alle norme: fra le opzioni possibili, lutilitarismo conserva certamente la sua attrattiva. Con il suo atteggiamento empirico riguardo ai problemi dei mezzi e dei fini, congeniale al temperamento scientifico, e ha la flessibilit per occuparsi del mondo che cambia (UFA, p. 96). Sar tuttavia proprio questa semplicit dellutilitarismo ad essere attaccata dal saggio di Bernard Williams che segue quello di Smart. Non c qui lo spazio per parlarne diffusamente, tuttavia Williams nota, a chiusura del suo saggio, che lutilitarismo tende a negare la complessit del pensiero morale, visto che: In tutte queste cose lutilitarismo mostra una forte tendenza a semplificare. Che non affatto mancanza di raffinatezza intellettuale: lutilitarismo efficace in modo allarmante, sia in pratica che in teoriaQuesta tendenza a semplificare consiste in un corredo troppo povero di pensieri e sentimenti per avere a che fare col mondo cos come realmente (UFA, p. 168). La frase finale di Williams, secondo la quale lutilitarismo avrebbe i giorni contanti, (Non pu essere molto lontano il giorno in cui non ne sentiremo parlare pi UFA, p. 168), suggella la sua critica radicale a questa dottrina normativa, ma si riveler una previsione non giusta.

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JOHN C. HARSANYI
La riflessione delleconomista J. C. Harsanyi (1920-2000) centrale per comprendere lo sviluppo dellutilitarismo contemporaneo, poich presenta degli aspetti innovativi sia dal punto di vista della teoria etica, sia rispetto alla portata normativa del neoutilitarismo contemporaneo. Lautore, premio Nobel per leconomia nel 1994, ha infatti un approccio peculiare alle questioni morali, in quanto affronta la sua riflessione sullutilitarismo con strumenti concettuali desunti dalleconomia politica, dalla teoria delle decisioni e dalla teoria dei giochi. Uno degli aspetti pi rilevanti della sua ricerca la

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reintroduzione della nozione di utilit cardinale, da tempo invece ritenuta da economisti e filosofi non adatta per misurare con parametri matematici il valore delle preferenze e del benessere. Nelle pagine seguenti, si cercher di gettare uno sguardo soprattutto alle implicazioni filosofiche della sua dottrina, il cui pi significativo risultato il tentativo di fornire ai principi dellutilitarismo un fondamento che non sia pi intuizionistico, ma che si ponga come effettivamente formale ed universale, ovvero dotato di unoggettivit fondata su assunzioni a priori. In uno scritto pubblicato nel 1977, Utilitarismo delle regole e teoria della decisione, Harsanyi dichiara in modo quasi programmatico: Scopo principale di questo saggio mostrare come la teoria della decisione (ed in misura minore la teoria dei giochi) possano contribuire alla soluzione di problemi etici sostantivi, alla costruzione di modelli appropriati per le decisioni morali e ad una formulazione soddisfacente della teoria utilitarista (Ut, p. 67). La riflessione di Harsanyi si colloca allinterno della teoria della scelta razionale, in quanto vuole determinare quali sono le condizioni che consentono allindividuo di agire in condizioni ottimali; lautore ritiene che il fine del comportamento razionale debba essere la massimizzazione dellutilit collettiva. Inoltre, egli sostiene che la sua teoria del comportamento razionale debba soprattutto promuovere lutilit delle istituzioni economico-politiche che regolano la vita degli individui. Harsanyi avverte che la sua riflessione fa riferimento alla dottrina dello spettatore imparziale simpatetico di Adam Smith, al criterio di universalizzazione di Kant, ma, soprattutto, alla tradizione degli utilitaristi classici come Bentham, Mill, Sidgwick e leconomista Edgeworth. Queste sono le sue fonti diispirazione, bench ovviamente la sua teoria avr dei caratteri peculiari. Infatti, vi una differenza tra lutilitarismo di Harsanyi e quello edonistico, in quanto egli sostiene (in

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modo simile a Sidgwick) che ledonismo si basa su una psicologia edonistica del tutto superata. Non per nulla ovvio che facciamo tutto quello che facciamo per conseguire il piacere ed evitare la pena (TCR, p. 69). Harsanyi aggiunge inoltre che la teoria psicologica soggettivistica secondo cui tutto ci che vogliamo sono, in ultima analisi, esperienze piacevoli nella nostra mente quasi tanto assurda quanto la sua controparte epistemologica, secondo cui tutto ci che conosciamo sono, in ultima analisi, le esperienze soggettive della nostra mente (Ut, p. 58). Lautore ritiene che gli individui in modo naturale tendano ad agire secondo ragione; nondimeno, qualora non lo facciano in maniera manifesta, spesso mostrano comunque la volont di rendere razionale il loro comportamento. La sua etica, come parte della teoria del comportamento razionale, va incontro proprio a questa esigenza: il comportamento razionale un comportamento che consiste nel semplice perseguimento coerente di alcuni scopi ben definiti, e li persegue in conformit a qualche insieme ben definito di preferenze e priorit (TCR, p. 55). Per questa ragione, nella ricerca di un criterio per rendere razionale il comportamento individuale, Harsanyi assume come base del proprio utilitarismo il concetto di preferenza, sostenendo che La teoria utilitarista che ho proposto definisce lutilit sociale nei termini delle utilit degli individui e definisce la funzione di utilit di ciascuno nei termini delle sue preferenze razionali (TCR, p. 69). Lautore ritiene che lidea di preferenza sia pi funzionale per la teoria della scelta razionale perch consente di operare i confronti interpersonali di utilit, attraverso i quali si possono paragonare i livelli di utilit di ciascun individuo, espresse in termini di preferenze razionali. Per Harsanyi inoltre, il concetto di preferenza, diversamente da quello di desideri o interessi, pi cogente in quanto, mentre in una stessa persona possono

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sussistere conflitti tra desideri ed inclinazioni, la stessa cosa non accade di solito per le preferenze. Parlare di preferenze garantisce perci la imparzialit dei giudizi morali emessi ed una pi proficua considerazione della loro valenza sociale. Inoltre, lutilitarismo della preferenza tende a non stabilire a priori e in modo rigido gli obiettivi degli individui, poich si limita a dare delle direttive minimali che possono guidare i loro comportamenti. Gli individui possono dunque porre una sorta di distanza tra se stessi e le loro preferenze, contrariamente a quanto possibile fare rispetto ai desideri: se ha senso parlare di preferenze razionali e di correzione delle preferenze, molto pi arduo sembra poter parlare di desideri razionali e, soprattutto, di correzione dei desideri di un certo tipo a favore di quelli assunti in condizioni di piena informazione. La distinzione tra desideri e preferenze non allora solo terminologica. Certo, da un lato vero che i termini desideri e preferenze sembrano intercambiabili, ma solo fino a che non si sia stabilito un criterio oggettivo per distinguere tra di esse (in quanto desideri e preferenze sono entrambi inclinazioni). Infatti se, come fa Harsanyi, si distingue tra preferenze razionali e non razionali, il termine desiderio rimarr ad indicare delle inclinazioni, per cos dire, non ancora sottoposte ad unanalisi razionale, mentre parlare di preferenze implica gi un mutamento di prospettiva di analisi che pu condurre, come nel caso di Harsanyi, alla definizione del concetto di preferenza razionale e, allinterno di esso, allindicazione di un criterio per privilegiare le preferenze autenticamente morali (giacch non tutte quelle razionali sono morali). La trattazione della natura del concetto di preferenza e dei criteri per distinguere tra di esse, per questo uno degli aspetti pi significativi della teoria etica di Harsanyi. Egli sostiene a questo proposito che nel definire lutilit sociale non si pu tener conto di quelle preferenze irrazionali ovvero basate su

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credenze false. Quando si sceglie unalternativa tra due possibili situazioni, lo si fa in base a delle credenze su tali alternative; quindi, se tra le situazioni A e B lindividuo preferir la A - poich in base alla sua credenza essa pi efficace dellaltra per raggiungere un dato scopo S - tale preferenza sar irrazionale se basata su una credenza falsa. Inoltre, tra le preferenze basate su credenze vere, vi sono le preferenze personali, le quali non saranno completamente egoistiche, anche se, attraverso di esse, gli individui assegneranno ai loro interessi e a quelli della propria famiglia, dei propri amici e di altri che sono vicini un valore pi alto di quello che assegneranno agli interessi di assoluti estranei (TCR, p. 61). Tuttavia, per prendere decisioni razionali, lindividuo dovr fare affidamento alle sue preferenze morali, le quali sono quelle che egli manifesta in quei momenti (magari rarissimi) in cui impone a se stesso di assumere un atteggiamento imparziale e impersonale, vale a dire, appunto, morale (Ut, p. 35); dunque Le sue preferenze morali, a differenza di quelle personali, assegneranno sempre il medesimo valore a tutti gli interessi degli individui, inclusi i propri (TCR, p. 61). Sono le preferenze morali quelle che rispondono in modo appropriato al criterio di imparzialit e, proprio per questo, permettono agli individui di immaginarsi empaticamente al posto altrui, senza privilegiare le proprie inclinazioni. In altri termini, solo le preferenze imparziali hanno rilevanza etica, in quanto sono pi direttamente coinvolte nelle valutazioni morali, in quanto esprimono ci che [lindividuo] preferisce in quei momenti forse rari in cui egli impone a se stesso un atteggiamento imparziale ed impersonale (Ut, p. 147):
le preferenze vere di un individuo sono le preferenze che egli avrebbe se disponesse di tutta linformazione fattuale rilevante, sempre elaborata con la maggiore cura possibile, e fosse in uno stato mentale molto favorevole alla scelta

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razionale. Data questa distinzione, i voleri razionali di un individuo sono quelli coerenti con le sue preferenze vere e, quindi, coerenti con tutta linformazione effettivamente rilevante e con lanalisi logica migliore possibile di questa informazione, mentre i voleri irrazionali sono quelli che non superano questo esame (TCR, p. 71).

Harsanyi in sostanza afferma che vanno privilegiate non le preferenze che un individuo esprime, bens quelle che egli svilupperebbe se fosse un osservatore imparziale (ma simpatetico), ossia pienamente informato e capace di agire sempre secondo ragione. Lautore indica un modello ideale di decisione a cui gli individui dovrebbero il pi possibile conformarsi, proprio perch quello che massimizza meglio lutilit sociale. Lindividuo dovr essere imparziale in virt del postulato dellequiprobabilit e simpatetico, ossa in grado di sperimentare una empatia immaginativa verso gli altri (immedesimandosi con loro ed attenuando comportamenti autointeressati), grazie ai confronti interpersonali di utilit. La presenza di inclinazioni egoistiche innegabile ma, proprio perch lindividuo deve agire come se non conoscesse quale posizione occuperebbe in una ipotetica societ di cui poter far parte, probabile che egli in genere comprenda che sia pi conveniente giudicare in modo imparziale. La teoria del comportamento razionale di Harsanyi vuole perci indurre gli individui a comprendere che un tale modo di giudicare quello che, alla lunga, massimizza meglio lutilit:
se accettiamo di valutare eticamente (giustificare o meno) istituzioni e pratiche sociali, dobbiamo essere disposti a valutarne le conseguenze al buio delle nostre preferenze personali e sapendo di avere la stessa probabilit di essere chiunque nello stato del mondo o nella societ di cui valutiamo istituzioni e pratiche23.
23

S. Veca, La filosofia politica, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 45.

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Vi sono anche altri generi di preferenze, in particolare quelle che Harsanyi, sulla scia dellopera di R. Dworkin del 1978, Taking Rights Seriously, definisce preferenze esterne, in virt delle quali lindividuo ci dice come lui vorrebbe che gli altri vengano trattati. evidente che queste ultime, pi ancora di quelle personali, non possono essere base delletica, in quanto possono facilmente nascere per delle errate convinzioni. Daltra parte, di fronte ad un conflitto tra le preferenze esterne di un individuo (per esempio quelle del sadico che riguardano le persone che egli vuol tormentare) e quelle personali di un altro (per esempio la vittima), sono quelle personali a dover prevalere ed a possedere priorit etica. Questo il principio di sovranit del consumatore, in base al quale gli interessi di ciascun individuo devono essere fondamentalmente definiti nei termini delle sue preferenze personali e non nei termini di quello che qualcun altro pensa sia bene per lui. Inoltre, Harsanyi ritiene che vi debba essere un metodo razionale per escludere dal rango dei confronti di utilit le preferenze palesemente antisociali (ovvero quelle basata sullodio, linvidia, la malvagit). La maggiore parte degli utilitaristi concordano sul fatto che non si debba tenere conto delle preferenze male informate nel definire la funzione di utilit individuale e dunque quella sociale (Ut, p. 62). Tuttavia, sottolinea lautore, pochi utilitaristi escludono a priori tali preferenze palesemente antisociali. Egli invece sostiene che tali preferenze non vanno conteggiate, perci ogni utilitarista, essendo presumibilmente una persona benevola, pu razionalmente rifiutarsi di cooperare con le preferenze malevole delle altre persone, e cio con le sue preferenze antisociali (Ut, p. 63). Le preferenze hanno la caratteristica di determinare quella che Harsanyi definisce la funzione di utilit (individuale o sociale), la quale possiede un valore matematico, in quanto

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considera lutilit ununit di misura e costruisce una scala delle preferenze le quali vengono ordinate a partire da unorigine fissa. Inoltre, nella riflessione di Harsanyi, la funzione di benessere sociale (W) rappresenta la media di tutti i livelli di utilit degli individui che compongono la societ. Lindividuo, se sar un utilitarista razionale, preferir infatti scegliere di massimizzare sempre lutilit media, dato che non sa quale posizione occuper nella societ. La funzione di benessere sociale di conseguenza calcola la media tra le funzioni di utilit individuali, le quali sono rappresentate dalle preferenze razionali degli individui, ossia da quelle morali e, in certi casi, da quelle personali, ma non da quelle basate su credenze false o palesemente antisociali. Harsanyi dunque pensa che qualsiasi giudizio di valore sia un giudizio di preferenza, ma la preferenza in questione non pu essere vaga e generica, bens, come si visto, espressa in particolari condizioni. Qui entra allora in gioco la dimensione e sociale della riflessione di Harsanyi. Lautore perci sostiene che se due individui esprimono una preferenza per un sistema politico A piuttosto che B, tale preferenza valida se ciascuno debba scegliere tra i due sistemi sulla base del presupposto che in ciascuno dei due sistemi avrebbe la medesima probabilit di occupare ognuna delle posizioni sociali disponibili (TCR, p. 58)24.
24

Nel saggio, Teoria della decisione bayesiana ed etica utilitaristica (1979), (Ut, p. 37), Harsanyi, in nota, sottolinea che il suo argomento in favore dellutilit media riprende alcuni aspetti della riflessione di Rawls, perch anche per Harsanyi lindividuo sceglie tra due o pi situazioni sociali senza sapere quale posizione occuper nella societ. Rawls infatti, bench critico con lutilitarismo, ha sostenuto che mentre la versione classica di esso compie un grave errore nel preferire di massimizzare lutilit totale, quella che vuol massimizzare lutilit media presta attenzione allutilit pro capite, quella dei singoli individui (e dunque un principio che potrebbe adottato nella posizione originaria): lutilit totale fa invece riferimento allintera societ, senza attenzione ai singoli (cfr. J. Rawls, Una

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Questa asserzione si basa sul gi nominato postulato di equiprobabilit, ossia sul fatto di assumere per ipotesi che un individuo abbia la medesima probabilit di occupare qualsiasi posizione sociale, senza naturalmente sapere in anticipo quale. Harsanyi propone quindi la costruzione di un modello argomentativo che ipotizza che la societ consista di n individui (numerati come 1, 2,, n), a seconda delle posizioni che essi occuperanno. I livelli di utilit che ognuno di questi individui pu possedere nelle diverse posizioni sono indicati con i simboli U1, U2,, Un (questa la loro funzione di utilit, ossia, come si visto, lunit di misura espressa dalle preferenze personali dellindividuo). Lindividuo che esprime la preferenza sar chiamato i, e dunque per il postulato di equiprobabilit, lindividuo i agir come se assegnasse la medesima probabilit 1/n al proprio occupare qualsiasi particolare posizione sociale e, quindi, al proprio conseguire lutilit di ciascuno dei livelli di utilit U1, U2,, Un (TCR, p. 59). In altre parole, lindividuo, non sapendo quale posizione occuper nella societ (ha le stesse probabilit degli altri di occupare qualsiasi posizione), dovrebbe considerare la media aritmetica dei livelli di utilit di tutti gli individui (lui compreso) e privilegiare proprio questa utilit media: Perci, lutilit sociale la quantit da massimizzarsi nei giudizi di valore morale deve essere definita come la media aritmetica di tutte le utilit individuali (UT, pp. 69-70). Apparentemente questa affermazione in contrasto con quanto asserivano in genere gli utilitaristi classici sullutilit sociale, da loro definita come somma delle utilit individuali. Tuttavia, nota Harsanyi, solo quando il numero dei membri della societ rimane costante nel tempo, dal punto di vista matematico, la somma equivale alla media aritmetica. Il problema si pone nel momento in cui, come accade nelle societ moderne, la popolazione varia in modo continuo e di
teoria della giustizia, cit., pp. 144-148).

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conseguenza, a suo parere, lutilit media un parametro pi fedele per riprodurre le funzioni di utilit individuali e sociali. La possibilit di sommare aritmeticamente le utilit individuali quindi per Harsanyi garanzia della loro confrontabilit; infatti, un aspetto significativo della sua teoria etica costituito proprio dalla fondazione razionale dei confronti interpersonali di utilit, ossia della possibilit di paragonare la quantit di utilit che ogni individuo pu ottenere (a questo proposito, Harsanyi scrive che n la media aritmetica, n la somma avranno un significato matematico ben definito se non sono possibili confronti interpersonali di utilit, Ut, p. 70). Tali confronti
si fondano su unempatia immaginativa, sulla nostra capacit di immaginare di essere nei panni degli altri. Naturalmente tutti noi, a eccezione forse di alcuni individui particolarmente rozzi, ci rendiamo conto di non poter confrontare i livelli di utilit degli altri con il nostro considerando semplicemente la differenza tra le loro condizioni oggettive (salute, posizione sociale ecc.)Quindi, nel valutare lattuale livello di utilit di unaltra persona, non posso chiedermi semplicemente qual lutilit che io, con i miei gusti e i miei atteggiamenti personali, deriverei dalla situazione oggettiva in cui lui si trova. Devo chiedermi piuttosto quale utilit deriverei da tale situazione se avessi i suoi gusti e i suoi atteggiamenti personali (UT, pp. 43-44).

Vi dunque la necessit di saper immaginarsi al posto dellaltro, con i suoi gusti e preferenze, domandandosi quale corso di azione si sceglierebbe al suo posto, con le sue inclinazioni. I confronti interpersonali erano gi stati teorizzati da Mill, ma la prospettiva di Harsanyi differente in quanto non solo essi sono inseriti allinterno di una teoria di scelta

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collettiva, ma sono sorretti da un principio formale, a priori, il principio di similarit, in virt del quale:
data la similarit di fondo della natura umana (cio delle leggi psicologiche fondamentali che governano il comportamento e gli atteggiamenti umani) ragionevole assumere che persone differenti manifesteranno reazioni psicologiche molto simili di fronte a ogni data situazione oggettiva e che deriveranno da esse la stessa utilit e disutilit tenendo in debito conto tutte le differenze empiricamente osservate nella loro costituzione biologica, posizione sociale, formazione educativa e culturale, e, in generale, nella loro vita passata (UT, p. 44).

Tale principio un postulato non empirico a priori, in quanto non passibile di verifica empirica ed assunto come vero. Esso fondamentale sia per confrontare i livelli di utilit in modo imparziale, sia per operare empaticamente con gli altri: La disponibilit a compiere confronti interpersonali non se non unammissione che gli altri individui sono reali proprio come noi, che condividono unumanit come noi e che hanno la medesima capacit essenziale di provare soddisfazione o insoddisfazione, nonostante le innegabili differenze individuali (TCR, p. 67). Harsanyi sostiene che il postulato di similarit, dato che impone di trattare gli altri come vorremo essere tratti noi stessi, riprende alcuni aspetti delletica kantiana e, pi in generale, segue dal principio biblico che raccomanda di non fare agli altri ci che non si vuole sia fatto a se stessi. Lautore ovviamente qui non vuole introdurre argomenti di carattere religioso, tuttavia egli sostiene che limperativo categorico kantiano, se va bene nella sua formulazione teorica, va per cos dire riempito di contenuto e reso adatto alle esigenze della questione della scelta razionale. Infatti, cosa significa, dal punto di vista normativo, trattare gli altri come vorremmo

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fossimo trattati noi stessi? Innanzitutto, vuol dire che vorremmo essere trattati secondo i nostri bisogni e le nostre preferenze razionali. Inoltre, rispetto agli altri, questo significa che dovremmo aiutarli a ottenere il piacere, a evitare il dolore, a raggiunger stati mentali dotati di valore intrinseco o a raggiungere qualunque obiettivo vogliono raggiungere, semplicemente perch vogliono raggiungerlo. Dovremmo aiutarli in ci che essi vogliono e non in ci che noi potremmo volere per loro (Ut, p. 69), ossia, promuovendo le loro preferenze morali e, se il caso, quelle personali, ma mai quelle esterne. Naturalmente, il processo di immedesimazione e la considerazione imparziale non sono qualcosa che attuato sempre in modo spontaneo; entrambi possiedono infatti un valore ideale, regolativo, ma il filosofo morale deve indicare agli individui ci che essi dovrebbero fare se fossero delle persone pienamente informate. Per questo Harsanyi ammette che i confronti interpersonali sono spesso condotti in modo sommario e parziale ed il compito del filosofo indicare il modo affinch essi vengano svolti in modo ottimale:
la teoria utilitarista non implica lassunzione che gli individui sono molto abili a compiere confronti interpersonali di utilit. Implica solo lassunzione che, in molti casi, gli individui semplicemente devono compiere tali confronti per prendere certe decisioni morali, per quanto male possano prenderle. Se sto cercando di decidere quale membro della mia famiglia ha pi bisogno di cibo, posso talvolta farmi unidea sbagliata nel giudicare la situazione. Ma io semplicemente devo prendere qualche decisione. Non posso lasciare affamati tutti i membri della mia famiglia perch ho degli scrupoli filosofici sui confronti interpersonali e non posso prendere una decisione. (TCR, p. 65).

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La scelta di una condotta, dunque, implica la necessit di considerare tutte le conseguenze causali e logiche che essa pu determinare, se tutti la adottassero: questo un appello alluniversalizzabilit dei nostri comportamenti, la quale si basa sulla necessit di considerare la razionalit delle nostre scelte che devono essere compiute in condizioni di piena informazione: Le decisioni collettive dovrebbero selezionare le regole che, se osservate da tutti, nel lungo periodo dovrebbero dare la maggiore utilit media25. Largomentazione di Harsanyi presenta perci molti aspetti innovativi allinterno del dibattito moderno sullutilitarismo. Lidea di comportamento razionale si fonda su assunti a priori come quello di equiprobabilit, il postulato di similarit e il principio di sovranit del consumatore. Da ci conseguono la razionalit delle preferenze personali e di quelle morali, il criterio dellottimo secondo Pareto (secondo il quale Supponiamo che almeno un individuo preferisca personalmente lalternativa A a quella B, e che nessun individuo abbia una preferenza personale contraria. Allora lindividuo i preferir moralmente lalternativa A a quella B TCR, p. 64) e la delineazione di un utilitarismo della regola di stampo chiaramente welfarista, dotato di un elevato grado di idealizzazione. Come anticipato, uno degli aspetti pi significativi della riflessione di Harsanyi la reintroduzione del concetto di utilit cardinale. Egli infatti pensa che solo introducendo funzioni di utilit cardinale (attraverso le quali possibile precisare, per situazioni come A, B ecc., la funzione di utilit individuale, assegnando ad essa un valore numerico assoluto che ne attesti lintensit per un individuo i il quale, in condizioni di incertezza, deve decidere se preferire la situazione A o B) sia possibile non solo confrontare lintensit
25

C. A. Viano, Etica pubblica, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 80.

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reale delle preferenze morali, ma anche quantificare con una stessa unit di misura le differenze tra le funzioni di utilit, fondamentali per il calcolo utilitarista. Lutilit ordinale invece, non completata da quella cardinale, non permetterebbe di svolgere confronti interpersonali di utilit in modo completo, in quanto dispone solo che una certa situazione A preferita a B, e B preferito a C, e permette di costruire una scala lineare in cui le tre situazioni risultano nellordine A, B e C. In realt, questo ordinamento lineare per molto tempo era stato ritenuto dagli economisti, nella prima parte del 900, quello ottimale, in quanto se A preferito a B e B a C, per la propriet transitiva, possibile asserire che A preferito a C: questo era tutto quel che si poteva dire in base allordinamento lineare. Questa constatazione permetteva di stabilire, per esempio nel caso di una votazione, che A preferito sia B che a C, ricavando una preferenza collettiva unica da un insieme di preferenze individuali. Questa situazione era giudicata favorevolmente se rispondeva per al criterio dellottimalit secondo Pareto, ossia se lindividuo i avesse potuto scegliere tra le tre preferenze e tutti gli altri individui fossero invece loro indifferenti. In altre parole, se anche un solo individuo preferisce A rispetto a B e nessun altro B ad A, la situazione A ottima in senso paretiano. Ci significa che se in una votazione la maggioranza sceglie le alternative nellordine A, B e C, anche per un solo voto, non c dubbio che la societ nel suo complesso preferisca A26. Non qui possibile entrare nel dibattito relativo alle questioni di economia politica, ma si pu dire che lidea dellordinamento lineare delle preferenze ben presto si rivel inaffidabile per diverse ragioni, alcune delle quali sono
26

C. A. Viano, Lutilitarismo, in C. A. Viano/E. Lecaldano (a cura di), Teorie etiche contemporanee, Bollati-Boringhieri, Torino 1990, pp. 42-46. Anche per le righe successive viene seguita in gran parte questa esposizione.

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importanti per capire la successiva ricerca di Harsanyi. Infatti, tale metodo di misurazione sembra non tenere in debito conto il valore che le singole preferenze individuali possiedono; inoltre, stato sottolineato che lapplicazione della sola propriet transitiva alla scelta tra le preferenze non permette di definire quale sia quella effettivamente privilegiata. Come ha evidenziato K. Arrow, se tre individui 1, 2 e 3 devono scegliere tra A, B e C, pu capitare che 1 preferisca A a B e B a C, 2 invece B a C e C ad A, mentre 3 preferisca C ad A ed A a B. Avremo che A ottiene pi voti di B (lo preferiscono 1 e 3 contro 2), mentre B supera di due voti C e dunque, secondo il criterio prima definito, lordinamento lineare dovrebbe far preferire A rispetto a C. Tuttavia, anche C preferito ad A per due voti, ossia quelli di 2 e di 3 contro quello di 1. La tabella seguente pu rendere schematicamente lidea della situazione: Preferenze 1 2 3 Totale scelte A vs. B X X 2 B vs. C X X 2 C vs. A X X 2

Ci significa che questo ordinamento lineare non funziona se, come accade quasi sempre nelle societ moderne, non sussistere alcuna unanimit delle decisioni collettive (infatti,

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secondo il principio di Pareto, assunto dallordinamento lineare, date due alternative x e y, se tutti gli individui della societ preferiscono in senso stretto x a y, e nessuno y ad x, allora anche a livello sociale deve valere la stessa preferenza. Nondimeno ci non sempre accade nelle nostre societ complesse). Oltre a ci, lassunto della transitivit non applicabile alle preferenze individuali, le quali non sono del tutto indipendenti le une dalle altre. Ci significa che utilit ordinale, per essere efficace, deve assumere che lordinamento delle preferenze sia non solo transitivo, ma anche aciclico, ovvero un ordinamento nel quale esiste unalternativa almeno altrettanto desiderabile rispetto a tutte le altre. Dunque se, come nel caso della votazione di cui s parlato, non solo A sempre preferito a C, ma anche C pu essere preferito ad A, significa che la scelta per A non la sola, poich quella per C risulta altrettanto desiderabile rispetto ad A. Il problema tuttavia che nessun ordinamento di preferenze individuali nella realt quotidiana effettivamente aciclico e si verifica con le modalit di quello portato come esempio nella tabella, in quanto gli individuipossono non solo preferire x a y e y a z, ma possono preferire fortemente x nei confronti di y e y nei confronti di z, e tuttavia essere indifferenti quando si trovano di fronte ad x e z27. In altre parole, nelle situazioni usuali non succede quasi mai che tre o pi situazioni siano preferite dagli individui con la stessa intensit o che esse abbiano il medesimo grado di desiderabilit: in questo caso, lordinamento sarebbe infatti aciclico e transitivo, e sarebbe sufficiente un loro ordinamento lineare, in quanto le alternative sarebbero tutte egualmente desiderabili. Nella realt complessa invece, anche se 1 preferisce A a B e 2 B ad A, pu accadere che 2 preferisca B pi intensamente di quanto 1 preferisca A e questo fattore non va trascurato.
27

Ibidem, p. 46.

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La soluzione di Harsanyi cerca di superare queste difficolt, analizzando e razionalizzando, per quanto possibile, le situazioni di incertezza in cui si prendono le decisioni. Secondo lutilit ordinale perci per la scelta razionale di un singolo agente sufficiente che questi sia in grado di dar vita ad un ordinamento delle sue preferenze, cio che sia capace di stabilire, fra due o pi alternative, quale di esse preferisce per prima, quale per seconda, fra quali invece indifferente, e cos via28. Lutilit ordinale non consente operazioni aritmetiche sulle preferenze: certamente possibile assegnare ad A, B o C dei valori numerici, ma tale assegnazione arbitraria e la scala di preferenze che in tal caso si forma non vincolante in quanto, assegnando altri valori alle tre situazioni, la scala potrebbe cambiare. Lutilit ordinale, pertanto, ci pu dire quando una situazione preferita pi di unaltra, ma non di quanto una situazione sia preferita rispetto ad unaltra. Nel caso cardinale, lassegnazione di valori numerici alle situazioni non libera, ma vincolata, poich le scale cardinali si compongono scegliendo un punto fisso dorigine ed ununit di misura. Come nota M. Mori, nelle scale ordinali ci si deve solo preoccupare di rispettare lordine di preferibilit, ma si liberi nellassegnare gli indici di preferibilit. Nelle scale cardinali, invece, scelta lorigine (lo zero) e lunit di misuranon v pi alcuna libert nellassegnazione dei nostri indici di preferibilit, poich tali valorisono precisamente vincolati. In questo senso, i numeri ordinali riassumono meno informazioni dei numeri cardinali e, per conseguenza, possono essere trattati con strumenti pi grossolani di quelli leciti per i numeri cardinali29.

28 29

F. Fagiani, Lutilitarismo classico da Bentham a Sidgwick, cit., pp. 96-97. M. Mori, Utilitarismo, morale e diritto. Per una teoria etica obiettivista , cit., pp. 173-174.

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In altre parole, se ci sono tre individui, due dei quali (li si chiami 1 e 2) preferiscono A rispetto a B, mentre il terzo (3) preferisce B ad A, facendo la differenza tra le utilit di 1 e di 2, nella simbologia di Harsanyi avremo che U1 (A) U1 (B)=U1 (A)U1 (B)=18 > 0. Otterremo dunque una funzione di benessere sociale di valore positivo per la situazione A preferita a B sia da 1 che da 2. Lindividuo 3 invece preferisce B ad A per cui avremo U3 (A)U3 (B)= -18 < 0, in quanto tale differenza per 3 negativa. Ora, calcolando lutilit media, dovremo sommare le utilit cardinali dei tre membri e calcolare la media, ossia Wi (A)-Wi (B)=(18+18-18)/3=6 > 0. La funzione di benessere che scaturisce dalla scelta per la situazione A, risulta essere superiore a zero e pertanto, al di l della preferenza di 3, lutilit media maggiore garantita dalla scelta di A, operata da 1 e 2. Se per lintensit delle preferenze sommate di 1 e 2 fosse di valore inferiore a quella di 3, ipotizzando che adesso la somma delle preferenze di 1 e 2 per A rispetto a B abbia valore 6 (mentre per lindividuo 3 il valore rimane 18), la quantit ottenuta alla fine, dopo aver calcolato come prima lutilit media, sarebbe inferiore a zero (avrebbe valore 2), e dunque avrebbe ragione 3 a preferire in modo contrario, perch, pur essendo lunico individuo a preferire B, la sua preferenza possiede una grandezza maggiore di quella di 1 e 2 (Ut, cfr. pp. 48-50). Come scrive lautore, Riassumendo, quanto pi individualistica la nostra teoria etica, quanto pi complete sono le informazioni fattuali di cui disponiamo, tanto pi le funzioni di benessere sociale dei vari individui convergeranno ad una stessa quantit obbiettiva, e cio alla somma non ponderata (o meglio alla media aritmetica non ponderata) di tutte le utilit individuali (Ut, p. 154). Le argomentazioni Harsanyi, come quelle di altri esponenti dellutilitarismo contemporaneo, possiedono un elevato grado di astrazione, in quanto indicano quale dovrebbe essere il

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comportamento individuale in condizioni di piena informazione, sia fattuali, sia logico-analitiche. Lautore daltra parte, cosciente delle ricadute sociali dei nostri atti, ritiene di poter approntare un metodo univocamente applicabile, il quale possiede un valore oggettivo sia perch confronta le utilit che si dovrebbero avere in condizioni ottimali, sia perch si appoggia al postulato di similarit, dato che sostiene che chi rifiuta il postulato di similarit e i confronti interpersonali di utilit basati su di esso, dovrebbe concludere, se fosse coerente, di essere lunico individuo autocosciente e considerare tutti gli altri degli automi senza cervello (Ut, p. 45). In ultimo si pu sottolineare che Harsanyi pensa che solo lutilitarismo della regola garantisca lapplicabilit del suo metodo della scelta razionale. Esso raccomanda di seguire le norme che massimizzano lutilit, giacch introduce un elemento estraneo a quello dellatto: le azioni devono essere coerenti con le norme razionalmente accettate, anche se, in alcuni casi, lesecuzione di quellazione sembra essere meno benefica dellesecuzione di unazione alternativa. Vi dunque una esigenza, parzialmente deontologica, che impone di seguire una regola rivelatasi da tempo efficace ed utilitaristicamente benefica. Nellutilitarismo dellatto, invece, si sostiene che contano solo gli atti che determinano le migliori conseguenze. Lutilitarismo della regola, in quanto parte della teoria del comportamento razionale, consente altres di affrontare in modo equo le questioni di giustizia distributiva. Harsanyi ritiene perci che lutilitarismo degli atti sia lontano dal modo usuale di ragionare degli individui e possa condurre a decisioni palesemente immorali. Per esempio, per lutilitarista dellatto la rottura di una promessa ammissibile se permette di determinare migliori conseguenze rispetto al suo mantenimento. Egli non si preoccupa tuttavia degli effetti a pi largo raggio che il suo comportamento potrebbe causare, ossia la perdita di fiducia che gli individui potrebbero sperimentare

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se latto del disattendere alle promesse diventasse abituale. Lutilitarista dellatto mostra qui di avere una visione ristretta, limitata alle conseguenze causali del suo comportamento, nella convinzione che la rottura di una promessa, anche se avviene pi volte, diminuisca lutilit sociale solo di una quantit irrisoria. Come gi Williams nella critica allutilitarismo posta dopo il saggio di Smart, Harsanyi sostiene che lutilitarismo degli atti sembra violare un principio fondamentale della nostra moralit corrente, e cio che il dovere morale di astenersi da azioni fortemente ingiusteha assoluta precedenza sul dovere morale di impedire agli altri di commettere azioni analogamente ingiuste (Ut, p. 71). Lutilitarismo delle regole, invece, avrebbe una visione pi ampia della situazione: esso non raccomanda infatti la cieca obbedienze a delle norme (Smart invece denunciava il culto della regola), bens discute anche le possibili eccezioni ad esse: lutilitarismo della regola non solo ci premette di compiere una scelta razionale tra possibili regole generali alternative per definire un comportamento moralmente desiderabile. Piuttosto, esso ci fornisce anche una verifica razionale per la determinazione delle eccezioni ammesse a queste regole (TCR, p. 76). Lutilitarismo delle regole, infine, confronta differenti codici morali, mentre quello degli atti si limita a confrontare le diverse conseguenze delle varie azioni. Per riassumere le posizioni pi significative di Harsanyi in modo sintetico: 1. Letica parte della pi ampia teoria del comportamento razionale. 2. Un teoria generale della razionalit distingue casi di scelta in situazioni individuali e casi di scelta in situazioni sociali.

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3.

4. 5. 6.

7.

Casi di scelta in situazioni sociali si danno in presenza di parziale o totale divergenza di interessi oppure in presenza di convergenza di interessi: nei casi di convergenza degli interessi che si danno le scelte etiche. I giudizi morali sono giudizi di preferenza. Vi una distinzione tra le preferenze personali e le preferenze impersonali (o morali). Le istituzioni e le pratiche sociali vanno valutate al buio delle nostre preferenze personali e sapendo di avere la stessa probabilit di essere chiunque nello stato del mondo o nella societ di cui valutiamo istituzioni e pratiche. Perch sia massimizzata lutilit generale, occorre massimizzare lutilit media attesa.

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RICHARD M. HARE
La riflessione di R. M. Hare (1919-2002) intende garantire alletica una base universale e formale a partire dalla definizione delle regole logiche del linguaggio morale. Hare ha infatti cercato di fondare lutilitarismo su principi a priori e universali dotati di carattere logico-linguistico, sviluppando quel filone di ricerca denominato etica analitica, la cui nascita ascrivibile allopera di G. Moore. La speculazione di Hare si tuttavia in seguito aperta a considerazioni normative, sebbene tale apertura non sia stata immediata, ma si sia affermata solo in un momento successivo della sua ricerca e forse non risultata completamente convincente. Hare infatti, nella prima parte del suo percorso filosofico, non ritiene compito del pensatore affrontare questioni normative, giacch per il filosofo pi necessario svolgere una analisi dei concetti morali, ossia delle parole che impieghiamo per esprimere le nostre considerazioni etiche: la filosofia del linguaggio,

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applicata al linguaggio morale, dovrebbe essere in grado di fornire una struttura logica al nostro pensiero morale (SO, p. 1). In altre parole: Il contributo di un filosofo a tali discussioni consiste nella capacit che egli deve possedere di chiarire i concetti impiegati (principalmente i concetti morali stessi) e, mostrando le loro propriet logiche, di portare alla luce gli errori e porre, al loro posto, argomentazioni valide (ETU, p. 32). Poich ha alla propria base lanalisi logico-lingustica, lutilitarismo di Hare assume per alcuni aspetti dei caratteri originali e innovativi, sebbene per altri riguardi faccia altres riferimento alla tradizione utilitarista coeva e classica, rielaborata per attraverso la definizione di principi formali di carattere logico. A questo proposito, si potrebbe dire, riprendendo e reinterpretando la distinzione inaugurata da Sidgwick tra teoria etica e metodo di deliberazione, che in Hare lutilitarismo come metodo di deliberazione deve essere fondato da una teoria etica assolutamente formale (da lui definita prescrittivismo universale), basata su presupposti logico-linguistici, la quale costituisce lintelaiatura dellutilitarismo stesso. Hare pensa che le contraddizioni che lutilitarismo spesso ha mostrato nella pratica fossero proprio dovute al suo esser privo di un tale fondamento formale ed universale. Una volta individuato tale fondamento, esso consente infatti allutilitarismo di configurarsi come una dottrina al contempo dinamica e rigorosamente fondata: Dalle propriet formali, logiche, delle parole morali, e in particolare dal divieto logico di introdurre riferimenti individuali nei principi morali, possibile derivare dei canoni formali di argomentazione morale, per esempio la norma che vieta di fare discriminazioni

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tra gli individui, a meno che non sussista una qualche differenza qualitativa che le giustifichi30. Nellopera Moral Thinking del 1981, nel tentativo di fornire una rappresentazione adeguata del funzionamento ottimale del nostro pensiero morale, Hare sostiene che esso si compone di due livelli, quello intuitivo e quello critico, i quali ovviamente non si succedono cronologicamente, ma sono impostati secondo una gerarchia. I principi del primo livello
sono da usare nella riflessione morale pratica, specialmente in situazioni di tensione. Devono essere sufficientemente generali da essere impartiti con leducazionee da essere prontamente applicabili allemergenza, ma non vanno confusi con le regole di esperienza (la cui violazione non suscita alcun rimorso). I principi del livello 2 [critico] sono quelli cui si dovrebbe arrivare attraverso una riflessione morale tranquilla, in presenza di una conoscenza dei fatti completamente adeguata, come la risposta giusta in un caso specifico (ETU, pp. 40-41).

Il livello intuitivo rappresenta i principi che deriviamo in parte dalla nostra educazione, dalle nostre esperienze precedenti, dalle abitudini ed esso fondamentale per agire quando non siamo in grado di riflettere serenamente, sia per le nostre umane incapacit, sia perch ci troviamo a prendere decisioni in situazioni demergenza. Il livello intuitivo, inoltre, quello al quale, in condizioni normali, conduciamo gran parte del nostro pensiero morale. Va precisato che Hare non intende recuperare alcun intuizionismo etico, ma solo sostenere che, in certi casi, comprensibile che ci si affidi alle nostre intuizioni, sempre tenendo per presente il loro carattere condizionale e fallace. Per questo egli tende a parlare di principi prima facie
30

R. M. Hare, Giustizia ed uguaglianza (1978), in R. M. Hare, Sulla morale politica, a cura di R. Rini, Il Saggiatore, Milano 1994, p. 214.

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pi che di intuizioni, rifacendosi in parte alla terminologia usata dal filosofo intuizionista D. Ross, nellopera The Right and The Good (1930), il quale in realt parlava di vero e propri doveri prima facie. Hare tuttavia, a differenza di Ross, ritiene che questi principi prima facie valgano solo in condizioni di informazione incompleta (ossia al livello intuitivo), perch essi sono predominabili da ulteriori prescrizioni, quelle elaborate dal pensiero critico, il quale rappresenta il livello ideale del ragionamento morale, come quello che potrebbe essere appannaggio di un arcangelo, ovvero di un individuo sempre in grado di sapere qual la giusta cosa da fare. Il livello critico dunque, caratteristico della riflessione serena, a mente fredda, seleziona i principi prima facie se questi si sono rivelati universalizzabili, ossia se sono utilitaristicamente efficaci. La teoria dei due livelli del pensiero morale mostra dunque come anche lutilitarismo di Hare si avvalga di un certo grado di idealizzazione. Infatti, come non esiste alcun essere umano che pensi come un arcangelo, cos non esiste nessun essere umano tanto sprovveduto da agire solo in base alle proprie intuizioni: entrambe le posizioni rappresentano dei termini ideali di riferimento, bench siano ricalcate sui modi solitamente utilizzati dagli individui per affrontare le questioni morali. A livello intuitivo, gli individui agiranno come utilitaristi della norma, in quanto tenderanno a seguire quelle regole morali che, per esperienza, si sono mostrate efficaci. Lutilitarismo per contempla anche la necessit che i principi intuitivi siano giustificati a livello critico e dunque la possibilit che essi, se si sono mostrati non universalizzabili, siano abbandonati e sostituiti da principi pi universali. A questo livello, viene privilegiato lutilitarismo dellatto, poich per larcangelo, avendo egli una conoscenza perfetta della logica e dei fatti, sufficiente seguire quegli atti che risultano utilitaristicamente pi benefici.

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possibile comunque riassumere, in modo ovviamente parziale, i punti fondamentali della teoria etica di Hare, per poi analizzarli in modo pi approfondito: a) b) c) i giudizi morali devono essere universalizzabili; un giudizio deve altres essere prescrittivo, ossia, dal punto di vista normativo, esprimere le preferenze valide del soggetto ed indicare una condotta universale; le preferenze valide sono quelle che, solo se universalizzabili, mostrano di possedere una elevata utilit di accettazione, indipendentemente dalle qualit e dai caratteri della persona singola che le sperimenta; i giudizi devono essere accettati dal soggetto come vincolanti per tutte le situazioni simili, indipendentemente dal ruolo che egli occupa (vittima o carnefice): questo il criterio di imparzialit assoluta (si ricordi Sidgwick in ME, pp. 238239); va massimizzata la somma totale delle singole utilit individuali (principio dellordinamento-somma); gli atti vanno promossi o vietati solo se aumentano o diminuiscono la quantit di benessere della societ, ossia solo se promuovo o non promuovono le preferenza accettate secondo il punto c); vanno promossi solo quegli stati di fatto che hanno conseguenze migliori rispetto ad altri. Il punto a) il cardine del prescrittivismo universale, il principio formale, valido a priori, su cui Hare vorrebbe fondare razionalmente lutilitarismo. Esso stabilisce che i giudizi morali sono tali solo se universalizzabili, ovvero se una prescrizione enunciata in una particolare circostanza, per le sue caratteristiche logiche, enunciata nella medesima forma in tutte le situazioni simili a quella che ne ha provocato la prima enunciazione, pena lincoerenza logica: chiamando

d)

e) f)

g)

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universalizzabile un giudizio intendiamo direche esso impegna logicamente il parlante a esprimere un analogo giudizio intorno a ogni cosa che sia o esattamente uguale alloggetto del giudizio originario o simile ad esso nei suoi aspetti rilevanti (FR, p. 193). Dal punto di vista normativo, sostenere che i giudizi morali devono essere universali, significa asserire che se formuliamo un qualsiasi giudizio morale circa una situazione, necessario essere pronti a farlo per ogni altra situazione che sia esattamente simile a questa. Si noti che queste situazioni non devono essere necessariamente reali; possono essere situazioni ipotetiche esattamente simili e logicamente possibili (MT, p. 75). Pertanto, un utilitarista, se decide di massimizzare una certa preferenza P in una situazione S, dovr comportarsi nello stesso modo, qualora si trovasse a dover scegliere in una situazione simile ad S nei suoi aspetti rilevanti. Luniversalit in primis una regola duso dei termini etici e secondo Hare pu essere applicata allambito normativo, alla maniera di Kant. Il problema tuttavia che in Kant luniversalit non era una regola logica, bens una propriet peculiare dei giudizi morali, dotata di contenuto normativo. Inoltre, Kant non adotta una formula in positivo per definire il test delluniversalit (il quale, in poche parole, imporrebbe, prima di agire, di domandarsi: che cosa accadrebbe se tutti facessero cos?), giacch per Kant sono doverosi i comportamenti contrari a quelli non universalizzabili31. Secondo il punto b), i giudizi morali sono realmente tali se forniscono indicazioni per la condotta, ossia se sono
Cfr. S. Landucci, La Critica della ragion pratica. Introduzione alla lettura, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1997, p. 64. Per queste ragioni, lidea di una conciliazione tra utilitarismo e kantismo, gi abbozzata da Sidgwick e sostenuta nel 1936 da F. Harrod, uno dei primi teorici dellutilitarismo delle regole, appare molto problematica.
31

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prescrittivi. Anche questa caratteristica ha un fondamento logico, messa in luce dallanalisi del linguaggio morale. Il filosofo dovr infatti chiarire che i termini morali si caratterizzano per il possesso di un significato peculiare, quello prescrittivo appunto, diverso sia da quello descrittivo (proprio delle asserzioni che informano sui fatti), sia da quello emotivo (peculiare delle proposizioni che vogliono persuadere). Le prescrizioni devono valere per tutti gli individui nelle situazioni moralmente rilevanti. In altre parole, con lesprimere un giudizio ci si impegna ad aderire ad esso con fermezza, ad agire in coerenza con esso ed a fare in modo, attraverso unargomentazione razionale e non per mezzo della semplice persuasione oppure della coercizione propagandistica, che anche gli altri facciano altrettanto. Dal punto di vista normativo, la prescrittivit pu essere meglio definita come lespressione linguistica di preferenze. In altre parole, se io affermo E giusto per il motivo M che tu faccia X, non sto cercando di persuadere o costringere qualcuno ad agire, ma sto cercando di fornire una ragione per spingere allazione quella persona, in quanto esprimo una mia preferenza per un corso dazione che a mio parere possiede unutilit di accettazione maggiore di un altro. Il punto c) ha una pi immediata applicazione normativa e secondo Hare segue logicamente dai due presupposti precedenti. Tramite esso, Hare prende le distanze da qualsiasi edonismo, giacch rifiuta le restrittive nozioni di piacere e dolore ed anche quella di felicit (criticando in ci Smart), poich esse possiedono un significato scarsamente cogente. Il termine felice infatti solo parzialmente valutativo, ossia poco efficace ai fini di una piena valutazione delle conseguenze dellagire. Hare adotta invece il concetto di preferenza, senza per aderire in toto allanalisi di Harsanyi ed interpretando in modo originale alcune sue asserzioni.

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Hare ritiene che le preferenze da massimizzare debbano essere quelle sviluppate in condizioni di piena informazione, indipendentemente dal soggetto che le esprime, giacch solo in tal modo garantita limparzialit. Pertanto, le mie preferenze morali non devono contare di pi perch sono mie, ma solo se manifestano di produrre effetti benefici maggiori di altre e se sono universalizzabili: Questo vuol dire che, per gli scopi della decisione finale, non fa differenza chi ha [la preferenza]. Significa che dobbiamo unimparziale considerazione ai nostri ideali e a quelli degli altri (ETU, p. 39). Rispetto ad Harsanyi, cambia per la natura della condizione di piena informazione: essa non prevede che lindividuo scelga in modo imparziale in quanto la posizione sociale che egli occuperebbe in una ipotetica societ della quale farebbe parte assieme agli altri. In Hare non vi un riferimento preciso ad una dimensione sociopolitica: la persona pienamente informata deve saper applicare le regole logiche in modo corretto e mettersi nelle condizioni di tutti gli individui interessati dalle sue decisioni, con le loro preferenze ed inclinazioni. Infatti, la valutazione delle preferenze deve condurre (ecco unaltra significativa differenza con Harsanyi) a massimizzare la somma delle singole utilit individuali, non lutilit media, proprio perch gli individui non decidono al buio delle informazioni fattuali sugli altri e sulla societ in cui vivono. A differenza che in Harsanyi, nella riflessione di Hare vi per soprattutto una ulteriore e significativa distinzione riguardo alle preferenze da massimizzare: Hare pensa che non sia possibile escludere a priori alcuna preferenza, anche nel caso di preferenze palesemente antisociali o basate su credenze false. Dunque, le preferenze di un sadico vanno comunque conteggiate ed esse non andranno escluse a priori, ma perch, come in genere chiaro grazie semplicemente al livello intuitivo, esse hanno unutilit di accettazione nulla, ovvero non danno vita a prescrizioni universalizzabili: i principi

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migliori da seguire sono quelli che hanno la pi elevata utilit di accettazione, cio quelli la cui generale accettazione, tenuto conto di tutto, massimizza la promozione degli interessi di tutte le parti in causa, trattando tutti questi interessi come aventi ugual peso, cio imparzialmente, cio in modo formalmente giusto32. perci assai probabile che ben pochi individui si sentano attratti da comportamenti esclusivamente basati sullodio, linvidia, la malevolenza o linfliggere il dolore agli altri, ed ancor meno probabile che qualcuno possa giungere a sostenere che tali atteggiamenti siano universalizzabili. Si pu in generale affermare che lautore condivide con Harsanyi lesigenza generale di una fondazione universale e razionale dellutilitarismo, ma che se ne differenzi per i diversi strumenti concettuali adottati per operare tale fondazione. Hare in realt ritiene che solo lanalisi logico-linguistica possa garantire la cogenza delle asserzioni morali. I principi a priori di Harsanyi costituiscono invece, secondo Hare, una sorta di livello successivo ai principi logici che devono fondare lutilitarismo.
il principio dellutilit mi richiede di fare per ogni individuo interessato dalle mie azioni ci che vorrei fosse fatto per me in circostanze ipotetiche in cui io fossi precisamente nella sua situazione; e se le mie azioni interessano pi di un individuo (come accade quasi sempre) il principio mi richiede di fare ci che vorrei, in tutto e per tutto, fosse fatto per me in circostanze ipotetiche in cui mi trovassi in tutte le loro situazioni (naturalmente non nello stesso tempo ma, come dire, in ordine causale) (ETU, p. 35).

Il punto d) rappresenta, potremmo dire, lapplicazione normativa pi pregnante della regola logica delluniversalit. Infatti, a livello pratico, essa suggerisce che il proprio
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R. M. Hare, Giustizia e uguaglianza, in Sulla morale politica, cit., p. 225.

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benessere parte del pi generale benessere comune e dunque, nello scegliere le azioni, necessario avere presente che il soggetto non deve privilegiare le proprie preferenze perch sono sue, ma deve porsi da un punto di vista universale. Limparzialit diventa precondizione della capacit di immedesimarsi con laltro, ossia del tentativo di sapere quel che laltro prova, immaginandosi nei suoi panni con le sue preferenze ed interessi. Limmedesimazione con le preferenze altrui non basata sulla sola empatia, ma coinvolge sia la simpatia, sia un procedimento di carattere cognitivo. In altre parole, scrive Hare, se io soffro, so di soffrire e se vedo unaltra persona soffrire, posso sapere come essa stia male, anche nel caso io non abbia mai provato quella sofferenza particolare e non sia tenuto a provarla con la stessa intensit. Mettersi nei panni dellaltro, non vuole dire quindi cambiare la propria identit e nemmeno pretendere di provare le sue preferenze altrui con la stessa intensit, ma significa:
contemplare lipotetica situazione in cui quelle che in realt sono le esperienze di unaltra persona siano le nostre, acquistando cos un ipotetico interesse alla soddisfazione delle nostre preferenze in quella situazione ipotetica; significa trovarsi vincolati dalluniversalizzabilita trasformare questo interesse esclusivamente ipotetico in un interesse reale alla soddisfazione delle preferenze dellaltra persona reale (MT, p. 274).

Limparzialit dunque presuppone la capacit di sentirsi parte di un insieme di individui e di giudicare la preferenza dal punto di vista, per cos dire, delluniverso, ossia di un individuo come larcangelo, uno spettatore imparziale simpatetico. Questo senzaltro un punto di vicinanza con lutilitarismo classico, in particolare con la tesi di Sidgwick sul carattere imparziale dellimmedesimazione. Tuttavia, mentre Sidgwick sostiene che il principio di imparzialit auto-

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evidente, Hare lo ritiene fondato sulla regola logica delluniversalit. Dal punto di vista pratico ci vuol dire che se ci venisse chiesto di giudicare in modo imparziale un nostro comportamento verso unaltra persona e noi verificassimo che, a parti invertite, non accetteremmo quel comportamento, dovremmo rinunciare ad esso. Il principio di utilit secondo Hare si basa allora su due premesse fondamentali: una premessa metaetica, secondo la quale moralmente giusto in questa circostanza nel linguaggio ordinario significa che io voglio che sia compiuta lazione A invece che B in ogni circostanza come questa, tenendo conto che sono un individuo prudente e pienamente informato. La seconda premessa di natura prettamente empirica e si fonda sullidea per cui una persona prudente e pienamente informata, se pu scegliere tra due azioni, sceglier quella che massimizza i benefici (ovvero che ha le migliori conseguenze). Pertanto,
la premessa empirica mi dice che, se sono prudente e credo che (qualche volta) verr a trovarmi nella posizione ora occupata da qualche persona influenzata dalla mia azione, allora, quando devo scegliere tra A e B, preferir A se e solo se credo che A produca (rispetto a B), conseguenze che, nel complesso, soddisfano maggiormente i desideri delle persone influenzate (dallazione di A). Quindi possiamo concludere che moralmente giusto che faccia A invece che B se e solo se lazione A soddisfa al massimo i desideri delle persone influenzate. E questo, conclude Hare, quanto afferma il principio di utilit33.

Il punto e) definisce il principio dellordinamento-somma, il quale caratteristico di tutte le concezioni dellutilitarismo. Esso il cardine della concezione welfarista, secondo la quale ci che va massimizzato il benessere collettivo, il quale
33

Mori M., Utilitarismo, morale e diritto. Per una teoria etica obiettivista , cit., p. 126.

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scaturisce dalla somma delle utilit individuali. Secondo Hare infatti, se si privilegiasse lutilit media, come fa Harsanyi, ogni nuovo membro della societ (per esempio un nuovo nato P che incrementerebbe solo di poco lutilit totale), potrebbe essere visto come un individuo che abbassa lutilit media (mentre in realt ogni nuovo nato innalza quella totale) e quindi, spingendo allassurdo tale argomentazione, P non dovrebbe essere fatto nascere: Se una personasapr di poter essere P, trover pi attraente il principio classico; mentre se sapr di non poter essere P preferir il principio della media; e ci perch il principio classico esigerebbe una politica demografica che consenta a P di nascere, mentre il principio della media esigerebbe una politica che glielo impedisse (STE, p. 172). I punti f) e g) sono infine quelli che mostrano come lutilitarismo di Hare sia consequenzialista, quantomeno dal punto di vista pratico. Sembra dunque che non debba contare la qualit degli atti o delle persone che agiscono, ma solo levenienza per cui viene scelta lalternativa, tra diversi corsi dazione, che produce le conseguenze migliori. Questa idea era presente gi nellutilitarismo classico e, in epoca moderna, stata molto contestata dagli avversari dellutilitarismo, in particolare da D. Ross e, pi di recente, da Williams, gi nello scritto in risposta a Smart. Nella fattispecie, comunque, possiamo dire che il consequenzialismo prevede che a) sono gli eventi, gli stati di cose o i fatti che debbono essere giudicati buoni o cattivi; b) le azioni vengono prese in considerazione solo in quanto producono o causano tali stati di cose; c) sono le conseguenze ad essere oggetto di valutazione morale e d) la condotta giusta quella che realizza il bene. Linnovazione teorica introdotta da Hare consiste comunque nellasserire che lutilitarismo come metodo di deliberazione

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deriva logicamente dal prescrittivismo. In tal modo, egli ritiene di poter prevenire le usuali critiche condotte per esempio contro il welfarismo ed il consequenzialismo, accusati di restituire unimmagine distorta e, a volte, cinica, di come gli individui effettivamente agiscono. Infatti, lidea che il consequenzialismo derivi da presupposti logico-formali permette di sostenere che la sanzione ultima del principio di utilit non risieda semplicemente nella considerazione delle conseguenze degli atti, bens, in modo pi perspicuo, nelle coerenza dei suoi principi con le regole del linguaggio morale (universalit e prescrittivit). Si pu infatti notare che se atto doveroso significasse soltanto capace di produrre gli effetti migliori, Hare sarebbe un descrittivista, in quanto definirebbe un termine morale ricorrendo ad una propriet non morale (egli in questo caso commetterebbe quella fallacia naturalistica denunciata da Moore). In realt, a livello formale, fondamentale che la prescrizione in virt della quale agiamo sia universalizzabile, ossia coerente con le regole duso del linguaggio morale, bench a livello pratico, invece, contino evidentemente anche le conseguenze degli atti: Hare per sembra sostenete che questa verifica pratica degli atti sia di secondaria importanza. Largomentazione di Hare tende quindi a mostrare che le categorie utilitaristiche entrano in gioco in un secondo momento, successivamente alla giustificazione logicorazionale dellutilitarismo: ci che rimane teoreticamente pi cogente tale fondazione logica. Una volta condotta a termine questultima, il principio morale potr giustificare in modo sicuro, a livello teorico, gli atti benefici, favorendo quelli che producono le migliori conseguenze: tuttavia, se ci non accade, la colpa non del ragionamento morale, ma di eventi accidentali, in particolari alla debolezza del volere (akrasia) dellagente.

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Hare ritiene per questo che lutilitarismo possa in parte acquisire i caratteri qualificanti delle etiche deontologiche, ovvero il loro fondarsi su presupposti a priori e lidea per cui i principi sono giudicati positivamente in virt del loro valore intrinseco, indipendentemente dai loro effetti pratici. Tuttavia, lautore dichiara che unetica esclusivamente deontologica eccessivamente astratta, ovvero poco rispondente allusuale modo di ragionare in etica. Essa infatti non sarebbe in grado di valutare il ruolo di tutti gli elementi fattuali che possono influenzare lazione. Per questo motivo secondo Hare solo un utilitarismo come dottrina formale e sostanziale pu incorporare sia il rigore teorico del deontologismo, sia la dinamicit pratica del consequenzialismo. In altri termini, dal punto di vista formale un principio morale deve essere valido in s, ovvero in modo intrinseco, nel caso che soddisfi i requisiti di universalit e prescrittivit. Dal punto di vista normativo, di contro, un principio morale non solo se universale, ma anche se i suoi effetti sono maggiormente benefici di quelli di altri principi. Tuttavia, lo si ripete, nel sistema di Hare appare pi significativo il livello formale di giustificazione dei principi morali. A questo proposito, stato per esempio sottolineato che lanalisi del linguaggio morale da Hare condotta sia meno salda di quanto egli sostenga: spesso difatti le intuizioni linguistiche sono vaghe e, soprattutto, molto diverse a seconda della lingua nella quale sono espresse (per esempio, il termine inglese right in italiano non sempre significa giusto nel senso di moralmente equo). apparsa inoltre un po ingenua lidea che esista un solo linguaggio morale ed una sola modalit di impiego dei termini morali. La grande questione per se una teoria logico-linguistica possa fondare realmente una dottrina normativa. A questo proposito, stato sottolineato che le ragioni che Hare adduce in favore di un certo atto sembrano

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essere estrinseche rispetto al valore normativo dellatto stesso; in altre parole, Hare impiega le regole di coerenza logica per giustificare un atto che ha degli effetti pratici, ignorando lesigenza, in campo morale, di utilizzare delle ragioni praticostrumentali e non esclusivamente logiche. Pertanto, una volta che il filosofo ha indicato delle ragioni logiche allagente, se questi si rifiuta di agire in base ad esse, non sembra possibile fare altro: una volta raccolte le informazioni rilevanti, una volta delineate tutte le conseguenze ricavabili dalle varie alternative e una volta salvaguardata la coerenza formale e linguistica assumendo le diverse prescrizioni come realmente universalizzabili, poi pi nulla si pu fare per mettere alla prova o fondare i principi ultimi34. Quindi, un conto sostenere che, a livello metaetico, abbiamo il dovere di enunciare principi prescrittivi logicamente coerenti, ossia universalizzabili; un altro invece asserire che, a livello pratico, le sole preferenze accettabili sono quelle che passano il test di universalizzabilit, sostenendo un parallelo tra lessere universalizzabili e produrre un incremento di benessere: in realt, quello che ci impone lambito metaetico pu sussistere indipendentemente da quello che facciamo a livello pratico. Per questa ragione alla fine dubbio che il welfarismo possa essere logicamente dedotto dal prescrittivismo: non sempre agiamo scegliendo latto che produce le conseguenze migliori, anzi, a volte scegliamo di compiere certe azioni indipendentemente dai loro effetti, ma solo perch le riteniamo doverose. Hare pensa invece che un agente razionale, se pienamente informato, quando agisce deve avere di mira, almeno idealmente, la soddisfazione di tutte le preferenze universalizzabili, le quali per lui conducono automaticamente allincremento del benessere totale. In realt, ci presuppone il
34

E. Lecaldano, Etica e significato: un bilancio, in C. Viano (a cura di), Teorie etiche contemporanee, cit., p. 76.

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postulato welfarista, ma non lo dimostra, semplicemente perch succede spesso che gli individui compiano azioni perch giudicate doverose, anche se non aumentano la felicit. In realt, la tendenza ad incrementare il benessere pu essere uno fra i motivi che guida il nostro comportamento e, inoltre, nessun legame appare esservi tra lanalisi dei termini morali e il welfarismo stesso. Non lutilitarismo a giustificare il presupposto welfarista, ma il contrario ed Hare sembra costretto ad introdurre questi elementi fondamentali in modo surrettizio. Non qui comunque possibile rendere conto dellamplissimo dibattito critico suscitato dalle posizioni dellutilitarismo contemporaneo: esso pu essere tuttavia un interessante argomento per approfondimenti. Si pu per qui aggiungere che R. Brandt, sempre in A Theory of the Right and the Good, postula lesistenza di un accordo tra etica e scienza, nella convinzione per cui lindagine sulla morale pu trarre beneficio da strumenti concettuali desunti da discipline quali la psicologia. Brandt ritiene non corretto fare riferimento alle sole intuizioni linguistiche dei parlanti per costruire la morale, dato che esse sono spesso vaghe e confuse. Egli rigetta anche lidea di preferenza razionale cos come definita da Harsanyi, sostenendo di contro che vanno privilegiati quei desideri che hanno superato lesame di una sorta di terapia psichica che ne abbia testato la plausibilit. Brandt sottolinea infatti che lazione si svolge in base a due fattori: un desiderio razionale (il quale razionale se e solo se non cambia anche dopo che la persona stata sottoposta a una psicoterapia cognitiva, TRG, p. 11) ed una serie di conoscenze fattuali. La psicologia cognitiva, secondo Brandt, ci dice a questo proposito che le nostre azioni si svolgono se supportate da una serie di credenze ed informazioni, come ad esempio la probabilit che si verifichino alcune conseguenze a seguito

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della nostra azione. Contrariamente al non cognitivismo di Smart ed Hare, Brandt sembra qui asserire che i giudizi morali si formano anche in virt di informazioni fattuali, descrittive, poich lazione razionale quella che sarebbe compiuta da una persona in possesso di tutte le informazioni rilevanti e delle credenze adatte per valutare le alternative. Pertanto: le credenze o i pensieri giocano un ruolo essenziale nella genesi dei desideri e dei godimenti. Se cos e se noi sappiamo che una credenza e un pensiero importante era esso stesso irragionevole o incompatibile con linformazione a disposizione, possiamo concludere che il desiderio o il piacere in questione era irrazionale, ovvero che non sarebbe stato presente in una persona razionale (TRG, p. 89). A conclusione di queste riflessioni si possono riassumere i caratteri generali dellutilitarismo contemporaneo; lo schema seguente non vuole affatto essere esaustivo e tacere le evidenti differenze tra i vari autori che si cercato di affrontare; tuttavia, esso pu forse fungere da valido strumento per ulteriori approfondimenti e ricerche. Si ricorda il tratto caratterizzante dellutilitarismo contemporaneo la ricerca di un fondamento universale, a priori, per giustificare in modo razionale le proprie asserzioni. Inoltre, secondo lutilitarismo: i) gli uomini, in genere, ricercano la soddisfazione delle proprie preferenze; ii) le preferenze da massimizzare sono soltanto quelle selezionate da un criterio razionale; iii) le preferenze accettate sono quelle sviluppate in condizioni di piena informazione; iv) lazione razionale comporta lincremento del benessere collettivo quale scaturisce dalla massimizzazione delle utilit individuali, le quali possono essere sommate;

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v)

un atto valutato positivamente se incrementa lutilit media o totale e dunque se le conseguenze da esso implicate sono migliori di quelle delle azioni alternative; vi) necessario immedesimarsi in modo imparziale con gli altri, con le loro preferenze ed inclinazioni. Si assume qui come presupposto la similarit delle reazioni psicologiche degli individui e quindi le necessit di immaginarsi al posto di tutti gli individui coinvolti dalle nostre azioni, con le loro preferenze personali; vii) lutilitarismo la dottrina morale pi vicina alla moralit di senso comune, la quale va per corretta con una procedura razionale che fonda razionalmente il valore dei giudizi morali.

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