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1.

CONFINI DISCIPLINARI

1.1 Una definizione minima

L’antropologia culturale può essere definita come il “sapere della differenza”. Il termine
sapere sta ad indicare che l’antropologia è nata in Occidente e si è sviluppata secondo le
modalità classiche della tradizione scientifica e accademica occidentale.
L’antropologia ha un carattere profondamente storico, difatti Kilani la definisce come una
modalità particolare della relazione storica che l’Occidente ha instaurato con gli altri.
Il termine “differenza” sta a delimitare l’ambito disciplinare dell’antropologia, ovvero fatti, usi
e costumi che appaiono strani, assurdi e incomprensibili ai nostri occhi, perché diversi da
quelli che ci appaiono familiari.

1.2 L’ambito dell’antropologia


Uno dei problemi principali concernenti la definizione di una disciplina è individuare l’oggetto
e l’ambito di cui si occupa la disciplina stessa.
In antropologia, per la particolarità di questa scienza sociale e della sua storia è quasi
impossibile.
E’ necessario presentare tale disciplina partendo dalle sue origini e dal suo carattere
altamente problematico.
A ritroso nel tempo, è possibile individuare due percorsi di riflessione differenti del sapere
antropologico.
Il primo, quello canonico, ci porta ad affermare che l’antropologia nasce in Europa
nell’Ottocento e si caratterizza come studio dei popoli primitivi, selvaggi o tribali. L’americano
Clyde Kluckhohn sostiene che lo studio dei primitivi ci permette di vedere meglio noi stessi,
ovvero considera fondamentali gli “effetti di ritorno” dello studio degli altri.
Nel Novecento, nell’antropologia si delineano due intenti.
Il primo, studiare le altre culture e documentarle per salvaguardare le differenze culturali dal
rischio di un massiccio processo di omogeneizzazione culturale mondiale.
Il secondo, attraverso lo studio di altre società, farsi critica culturale della stessa società
occidentale. Il secondo di questi intenti conoscitivi dell’antropologia è rimasto inevaso in
seguito al ruolo assegnato all’antropologia dalle scienze sociali nel Novecento.
Fino a qualche anno fa, il mondo contemporaneo era suddiviso in tre parti, ognuna delle
quali era oggetto di studio di discipline differenti:
1. il Primo Mondo, oggetto di studio di discipline come l’economia, la storia, la
sociologia;
2. il Secondo Mondo, quello dei paesi socialisti, il cui sviluppo era ostacolato
dall’autoritarismo;
3. Il Terzo mondo, quello dei paesi sottosviluppati, schiacciato da tradizioni primitive,
arretrato e marginale.
E’ stato proprio il Terzo Mondo il campo di applicazione dell’antropologia culturale, che
mirava a studiare tradizioni, usi e costumi locali.
Questa collocazione dell’antropologia al momento non è più valida, perché il panorama
mondiale è cambiato e fa sì che l’antropologia si confronti con un altro problema.
Infatti, è emersa la questione se l’antropologia fosse destinata a scomparire con
l’approssimarsi della scomparsa delle popolazioni di cui si era occupata fino a quel punto.
Tuttavia, questa preoccupazione si rivelò infondata, perché tali popolazioni non sono
scomparsa, bensì trasformate.
Da ciò è possibile trarre delle conclusioni:
a. l’intento descrittivo dell’antropologia è stato realizzato poiché tutti i popoli della Terra
oggi sono collocati spazialmente e conosciuti e le loro culture localizzate;
b. la categoria di omogeneizzazione culturale si è rivelata riduttiva perché le culture
sono sottoposte oggi a riformulazioni dovute alla globalizzazione.

Le culture sono immerse nella storia e non sono ferme, si trasformano secondo modalità
complesse. Ovunque gli individui avvertono il momento di rottura e allontanamento dalla
norma e dalla tradizione. Non sempre, però, l’antropologia è in grado di avvertire tali
cambiamenti.

1.3 Pluridirezionalità storiche e molteplicità culturali


La ricerca antropologica della prima metà del Novecento costituisce un importante momento
di apertura nei confronti dei frammenti sperduti e isolati di umanità che gli antropologi hanno
cercato di riportare nelle categorie dello spirito umano. Con ciò si intende il riconoscimento
della “molteplicità delle culture”, che è indispensabile per riconoscere la pluralità di direzioni
che gli uomini e le società possono imprimere alla storia.
Il passaggio dalla molteplicità culturale alla pluralità storica è un aspetto fondamentale del
concetto di cultura e non è raggiungibile fin quando l’applicazione della nozione di cultura
venga applicata solo alle società primitive.
Infatti, è sorta una sensibilità antropologica verso gli aspetti dinamici della altre culture
cosiddette “Moderne”.
Se si tiene fede alla concezione della storia come processo di sviluppo univoco, alla sarà
unica la formazione culturale e legittima, mentre tutte le altre saranno manifestazioni di
arretratezza, primitive, selvagge o altro.
D’altro canto, se si accetta l’idea che il processo di modernizzazione sia irriducibile ad uno
schema univoco, allora è necessario ammettere la legittimità di qualsiasi formazione
culturale.
La società e le culture, infatti, non sono statiche, sono in continuo movimento. Tutte le
culture tentano di apparire statiche dandosi delle istituzioni la cui funzione è assorbire il
flusso storico e compensare l’azione di altre istituzioni tese verso il cambiamento.

1.4 Una cultura comune


Il fatto che le società e le culture vogliano apparire immobili si è riflesso in un’ambiguità che
caratterizza il discorso sulla cultura, diventato il nucleo cognitivo dell’antropologia culturale.
Secondo la definizione di Taylor, la cultura o la civiltà può essere considerata come
quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il
costume e qualsiasi altra capacità o abitudine acquisita dall’uomo perché membro di una
società.
Tale definizione è il punto di riferimento cronologico dell’antropologia culturale, perché è nel
1871 che nasce tale disciplina ed è anche punto di riferimento logico, perché quella
definizione si presta a precisazioni, riformulazioni o ampliamenti.
L’espressione “insieme complesso” sottolinea come il “mescolare” è un aspetto
fondamentale, poiché ad usi e costumi si sono mescolati conoscenza, arte, diritto ecc.
Questa definizione permette il superamento della separazione in classi, ceti o strati sociali;
la cultura non emerge da ambiti esclusivi e nobili, propri di alcuni ceti sociali. Tale concetto si
oppone al pensiero per cui le società primitive o selvagge erano ritenute prive di cultura.
Dunque, la cultura accomuna tutte le società umane e tutti i suoi livelli interni.
Secondo Francesco Remotti, l’antropologia abbatte qualsiasi barriera di separazione fra un
luogo di ragione e verità al di là dei confini dove vi è errore e irrazionalità dei costumi.
Il concetto di Taylor apre la strada alla riflessione antropologica e stabilisce che la cultura è
una caratteristica dell’uomo sociale in quanto tale, dunque la cultura è qui come è là presso
gli altri. Con il concetto di cultura riformulato, gli antropologi possono iniziare a dare
significato ai costumi e, una volta riconosciuta la base sociale comune a tutte le culture, ci si
può occupare anche dello studio degli effetti di ritorno, ovvero come riflessione critica su di
noi.

1.5 Le barriere ricostruite: noi e gli altri

Le definizioni successive a quella di Taylor hanno un duplice carattere:


a. cerca di individuare i contenuti che costituiscono l’ambito della cultura (abiti e
comportamenti sociali; usi e costumo, valori,credenze ecc.)
b. affermano il carattere di acquisizione sociale della cultura.
Franz Boas e Bronislaw Malinowski, fondatori delle due maggiori scuole antropologiche del
Novecento, respingono il punto di vista di taylor.
Essi negano la possibilità di riportare tutte le culture ad uno schema univoco e valido
universalmente e di determinare le fasi secondo leggi uniformi,
Boas afferma che le culture debbano essere studiate nel loro particolare contesto storico
evitando generalizzazioni.
Malinowski ritiene che ogni cultura sia un sistema chiuso, composto da elementi legati fra
loro da relazioni funzionali.
Rispetto a Taylor il concetto si è esteso includendo la molteplicità di culture diverse e
indipendenti.
Dunque, la singola cultura esiste nella sua individualità ed è osservabile poiché circoscritta
nello spazio e portata da un popolo, collettività, tribù.
Da ciò nascono le grandi imprese etnografiche, tese a ricostruire la cultura di un popolo in
base a delle osservazioni come partecipante.
Con questo si fa strada l’idea delle culture particolari, ad esempio la cultura americana, la
cultura russa ecc. grazie alla quale è possibile comprendere il comportamento di coloro che
appartengono a tale cultura. Da quel momento in avanti la ricerca sul campo è passata dalla
fase osservativa e neutra delle culture a fulcro logico del sapere antropologico.
Secondo Wagner, l’antropologia si consolida come invenzione delle differenze, ovvero
marcando la differenza fra noi e gli altri per costruirsi un oggetto di studio.
Se consideriamo l’operazione di mescolamento fra la cultura nostra e quella che c’è altrove,
possiamo evidenziare la presenza di una logica della continuità tra noi e gli altri.
Tuttavia, a partire dal Novecento, con l’aumento delle conoscenze etnografiche e i
riconoscimento della molteplicità delle culture, si assiste ad una rottura di tale logica, ma si
fa strada la logica della discontinuità.
Il riconoscimento della molteplicità culturale, le teorie del relativismo culturale, il concetto di
cultura come oggetto, la necessità di salvaguardare i mondi culturali in vista del progresso
nascono in seguito all’affermarsi della logica della discontinuità che è dominante nel
Novecento. Ciò ha rafforzato sul piano empirico l'immagine di un pianeta diviso in tante
culture distinte ognuna portata da un popolo e collocata in uno spazio.
Tuttavia, questa logica si è dimostrata inadeguata per orientare gli studi antropologici,
pertanto sono molti i fenomeni attuali che inducono ad una rivalutazione della cultura
tayloriana.

1.6 Tipologie antropologiche


L’idea della discontinuità fra noi e gli altri ha contribuito ad affermare quel processo che da
un certo momento in poi ha assunto l’Occidente nei confronti degli altri popoli e ha portato
all’immagine di un mondo frazionato in etnie, popoli e culture distinte e ben delimitate, al
quale ha partecipato anche l’antropologia.
Da ciò nasce il concetto di cultura intesa come oggetto dotato di visibilità, uan sorta di
massa che si impone agli individui determinandone azioni, pensieri e credenze e
rappresentabile come un modello, una totalità. Le “culture” non sono “pure”, ma sono
mescolate e contaminate l’un l’altra, dunque degli ibridi. Tuttavia, all’osservazione empirica,
ciò che risalta è la distinzione tra etnie e culture. Pertanto, la cultura appare come un
sistema di processi mutevoli, dinamici e instabili. L'etnia si classifica come il risultato di
un’operazione che serve ad identificare gli individui e i gruppi in uno spazio sociale e in un
determinato tempo storico in continua evoluzione.
Le teorie antropologiche devono conciliare il presupposto universalista (gli uomini sono tutti
uguali) e l'unità del genere umano, con differenze sociali e culturali.
A tal proposito ci sono tre possibilità:
1- universalismo evoluzionista (le differenze scompariranno grazie all’evoluzione);
2- universalismo relativista (le differenze devono rimanere poiché sono un patrimonio
dell’umanità e va protetto);
3. universalismo gerarchico (le differenze sono reali e per questo alcune società sono “più
uguali” di altre).

Capitolo 2. Lo studio. Oggetti e teorie


Un altro modo per intendere la nostra disciplina si ricava direttamente dalla parola
“antropologia”, antropos più logos, ovvero “discorso, ragionamento sull’uomo”.
L’uomo è immerso in un ambiente fisico, biotico e sociale.
L’ecologia è lo studio delle relazioni fra gli organismi e l’ambiente in cui vivono. Vicino
all’ecologia vi è lo studio antropologico dell’adattamento umano: il modo in cui gli individui o
le popolazioni reagiscono alle condizioni ambientali e si garantiscono il sostentamento.
Gli uomini appartengono alla specie biologica dell’homo sapiens che rappresenta delle
caratteristiche identificabili comuni.
L’uomo è prima di tutto un organismo animale, immerso in un ecosistema, che deve trovare
l’energia necessaria per poter mantenersi in vita; che deve mantenere una temperatura
corporea entro certi livelli; che deve riprodursi.
Tuttavia, l’essere umano presenta molte caratteristiche diverse dagli altri animali: la stazione
eretta, il coordinamento occhi mani e la precisione ecc.
Gli esseri umani trascorrono la maggior parte del tempo in compagnia di altri esseri umani;
generalmente è in gruppo che si adattano all’ambiente e cercano di procurarsi il proprio
sostentamento.
Si può affermare che le strategie adattive si basano su tre elementi: la tecnologia,
l’organizzazione sociale, le credenze religiose e i valori.
Un ulteriore elemento cruciale dell’adattamento umano è lo scambio di informazioni, dunque
la capacità di comunicazione, essenziale per l’adattamento di qualsiasi specie.
Molti studiosi hanno da tempo accolto l’idea dell’unità del genere umano in seguito alle
funzioni mentali o in generale alla natura degli esseri umani. Tuttavia, anche uno sguardo
più superficiale metterebbe in evidenza non l’unità ma la diversità, in quanto l’essere umano
è una specie animale incredibilmente differenziata dalle altre.
Difatti, una differenza fondamentale riguarda la capacità dell’uomo di produrre idee e
rappresentazioni del mondo.
Gli uomini vivono in un mondo che loro stessi hanno costruito, attribuendo significati alle
cose di cui fanno esperienza, agli oggetti, alle persone, alle emozioni ecc.
Questa prospettiva socio-costruttivista ci rimanda al concetto di cultura.

2.2 Cultura e società


L’idea che esista qualcosa che distingue la specie umana da tutte le altre specie è antica.
Tuttavia, gli antropologi l’hanno declinata e hanno messo in evidenza come questa cosa
cambia nel tempo e può essere rappresentata lungo una linea che va dal generale al
particolare, tanto che diventa fattore di differenza anche entro la stessa specie umana.
Nel XIX secolo vennero maturate le condizioni necessarie per pensare i tratti esclusivi della
specie umana grazie ad un progetto conoscitivo: una scienza generale dell’uomo, tesa alla
scoperta delle leggi generali di evoluzione culturale e sociale.
Probabilmente perché nel corso della storia una serie di condizioni portarono una nazione
europea (inghilterra) a diventare la più grande potenza militare ed economica, rendendo
visibili molteplici disuguaglianze sociali e culturali.
A partire dall’epoca delle grandi scoperte geografiche l’Europa divenne il più grande centro
culturale, che avrebbe allontanato via via tutti i popoli incontrati. A partire dal centro,
allontanarsi nello spazio, verso le periferie, equivale a risalire nel tempo, verso le origini.
Ciò vale per i popoli in Asia, in Africa, in America, ma vale anche per i popoli contadini,
coloro che appaiono diversi dal centro culturale e sociale di riferimento. Si delinea così un
progetto scientifico di scoperta delle origini delle istituzioni moderne e civili, delle leggi che
hanno regolato e regoleranno l’evoluzione storica dei popoli dallo stato selvaggio alla civiltà.
L’antropologia, dunque, nasce come progetto scientifico e conoscitivo molto ambizioso e
globale. Quest’ultimo carattere però è stato di breve durata: in seguito a molti cambiamenti
interni alla disciplina, si verificò il passaggio dalla visione ottocentesca dell'antropologia
come una vera e propria scienza dell’uomo, alla visione novecentesca della disciplina intesa
come una pratica di ricerca intensiva e specifica.
La procedura etnografica che nel Novecento divenne il tratto distintivo delle culture portò:
1. ridimensionamento della tendenza degli evoluzionisti;
2. ridimensionamento della portata del metodo comparativo: da una comparazione
globale ad un confronto più localizzato.

2.3 La cultura come un tutto

A partire dai primi decenni del Novecento, l’oggetto dell’antropologia divenne la singola
cultura nella sua individualità osservabile.
Per Boas è necessario studiare le culture nel loro contesto storico; per Malinowski una
cultura è un complesso di elementi legati tra loro da relazioni funzionali.
Radcliffe-Brown si convinse che l’oggetto dell’antropologo doveva essere la società,
concretamente osservabile e non la cultura, un’astrazione derivata da quella.
Per molto tempo, l’oggetto dell’antropologia rimase la società e le culture arcaiche.
L’idea di culture al plurale, come un tutt’uno integrato, nasce dal pensiero per cui per
studiare le culture è necessario adottare una prospettiva “interna” ad esse almeno nella
prima fase di ricerca, poiché esse sono reti di significati costruite dai loro membri attraverso
l’esperienza, l’interazione netro cornici storiche, economiche, ambientali ecc
Non si può trascurare che società e culture sono prodotti storici, dunque cambiano nel
tempo. Il mutamento culturale è un processo complesso e articolato, difficile da
comprendere in base all’idea di cultura come struttura integrata, chiusa e localizzata,
parallela al concetto di società.
Intorno alla metà del Novecento, dopo la seconda guerra mondiale, gli antropologi iniziarono
a studiare il conflitto. E’ in questo periodo che presero le distanze da quella concezione di
cultura, per avvalorare l’idea che le società e le culture cambiano e per porre al centro
dell’attenzione le trasformazioni, gli sconvolgimenti provocati dal colonialismo, imperialismo
e le successive fasi di riorganizzazione.
Ciò portò ad affermare che il mutamento non distruzione o degenerazione, bensì conflitto e
mutamento sono due costanti della vita umana.
Dall’altro lato, il presupposto della condivisione nasce dalla nozione di “coscienza collettiva”
di Emile Durkheim che ha portato a vedere le culture e le società come entità preesistenti
alle azioni degli individui.
Questa premessa ha influenzato a lungo le teorie antropologiche e tende a omogeneizzare i
materiali ricavati sia nel pensiero antropologico sia nella scrittura etnografica.

2.4 Il dibattito sulla cultura

Il termine “cultura” è una parola centrale dell’antropologia.


Dopo la definizione di Tylor e le riformulazioni in senso plurale e con il consolidarsi della
materia, ebbe inizio il periodo in cui si cominciarono a studiare piccole comunità
relativamente isolate, categorizzabili come tante”culture”, sulla base del concetto di cultura
inteso come il modo di vivere di un popolo.
Comunità, nazioni, civiltà, popolazioni, tutti dovevano avere una cultura e il compito
dell’antropologo era scoprire quale fosse.
Dalla prima metà del Novecento, l’antropologia è fortemente localizzata: studia realtà chiuse,
limitate, localizzate.
La località, la tribalità, sono intese come tratti distintivi della vita sociale: molte teorie
antropologiche nascono in stretta dipendenza dal contesto in cui si collocano i fenomeni
studiati.
Dunque, le società studiate dagli antropologi, chiude in un dominio politico e culturale per
tutta la prima metà del Novecento, sono apparse come delle società e culture antiche,
immobili, in grado di assorbire le spinte al cambiamento.
La visione negativa del mutamento come fattore distruttivo era infatti prevalente fra gli
studiosi. Con il tempo tale concezione scomparve per lasciare posto all’idea che il
cambiamento fosse un fattore importante delle dinamiche sociali e culturali, in grado di
stimolare creatività e nuovi ordini di differenza. La realtà storica delle società e delle culture
cosiddette "tradizionali" mostrò con evidenza che queste erano in grado di cambiare senza
spezzarsi. I modi del cambiamento culturale dipendono dal peso della tradizione e dalle
spinte alla modernità.
Nessuna comunità umana, per quanto all'apparenza stabile, statica e confinata, può essere
considerata fuori dalla storia. ma in qualche modo le loro storie si intrecciano con la storia
europea.
Difatti, una cultura, per quanto si sforzi, non riuscirà mai ad essere chiusa e autosufficiente,
sarà sempre aperta al contatto, al confronto, allo scambio, instaurando i contatti e gli scambi
più importanti per la vita sociale.
Appare allora sempre più evidente che le culture sono aperte all’ibridazione e il modo di
pensare la cultura come un tutto localizzato, è inadeguato e poco utile.
Leach condusse il primo studio antropologico in aree caratterizzate dalla presenza di società
stratificate, alfabetizzate, economicamente articolate; Leach arrivò ad affermare che la
cultura è l’esito di complessi processi di produzione, articolazione, circolazione e
interpretazione delle risorse simboliche,
Questo interesse per le dinamiche sociali è il tratto che più caratterizza l’antropologia del
dopoguerra; inoltre, nell’antropologia del secondo dopoguerra si può individuare una forte
influenza del pensiero di Marx, soprattutto nel tentativo di mettere a fuoco processi sociali e
culturali, in cui l’incoerenza, il conflitto e la contraddizione sono caratterizzanti.

2.5 Il mutamento sociale e culturale


Nell’antropologia funzionalista mancavano gli strumenti concettuali per concepire e cogliere
la dinamica dei processi sociali e avviare una riflessione sulle condizioni e i meccanismi del
cambiamento sociale e culturale. Questi strumenti vengono trovati nel pensiero di Marx.
In questo quadro si inserisce la concezione che l’antropologia sia una disciplina emersa
sulla scia della dominazione coloniale, dunque come prodotto storico della costruzione degli
imperi coloniali.
Man mano che diventano espliciti i complessi rapporti fra antropologia e ideologie coloniali,
emergono le distanze poste tra le società “complesse” e le società “semplici” e la
consapevolezza della contemporaneità della società studiata dall’antropologo.
Ormai le persone di cui si occupano gli antropologi sono diventati “cittadini” dei loro stati e
ciò implica una serie di problematiche morali e politiche.
L’antropologo non può più studiare isole remote, è costretto a riconoscere di aver studiato
società e culture non autonome e indipendenti politicamente.
Max Gluckman studiò il tema del conflitto sociale all’interno delle società africane e le
situazioni inedite prodotte dal colonialismo. Mise in luce che le società tradizionali e le
società “dei bianchi” sono legate da molti rapporti e non era possibile studiare tali società in
isolamento.
Un ulteriore passo in avanti fu fatto da Turner che studiò la popolazione ndembu in Rhodesia
e notò la complessa dimensione conflittuale che coinvolge tale popolazione. Egli pose al
centro della sua attenzione l’azione individuale, l’analisi delle scelte secondo cui gli individui
si comportano durante un conflitto. Questo aspetto portò Turner ad interessarsi del
simbolismo, in particolare il simbolismo rituale.
Egli mostrò come nel corso dei processi rituali, attraverso dei simboli, gli ndembu mettono in
mostra la loro concezione di vita sociale ed esprimono cosa significa essere uno ndembu.
Dunque, le tematiche dell’antropologia, pur essendo in parte “localizzate” e “tribali”,
cominciano a dilatare il proprio dominio di ricerca, coinvolgendo anche il conflitto, il
mutamento, la trasgressione.
La situazione coloniale determina e struttura il rapporto fra l’Occidente e le società studiate
dagli antropologi, società che hanno avuto una serie di modifiche in seguito alle dominazioni
cui sono state sottoposte. Tali trasformazioni non sono univoche, ma seguono una logica
proprio, specifica di quelle società; ne consegue una logica ibrida e meticcia, ovvero una
combinazione di questa azione e della logica tradizionale e culturale.
Tale combinazione è stata definita con il concetto di “sincretismo” da Bastide, ovvero
l’intreccio fra culture diverse. Bastide si occupò dello studio delle culture afroamericane
trapiantate in Brasile dagli schiavi africani nei secoli precedenti.
Claude Meillassoux si concentrò sulla popolazione dei gouro in Costa d’Avorio e si pose
interrogativi marxisti, relativi ai processi economici, politici, ideologici che consentono la
riproduzione dei rapporti sociali presso società non capitaliste ma che avevano avuto
rapporti con società capitaliste.
Egli scoprì che molte caratteristiche delle comunità africane tradizionali e come le economie
tradizionali si integrano con l’economia capitalista. Studiare la comunità domestica consente
di far emergere i rapporti di produzione, ovvero le relazioni sociali che legano i mezzi di
produzione (risorse tecnologiche) e la manodopera (forza lavoro) specifici di una società non
capitalista.
La questione fondamentale messa in evidenza riguarda il meccanismo di riproduzione della
forza lavoro, questione che nel recente quadro di integrazione/dipendenza economica sfocia
nel fenomeno della migrazione.
Il lavoro di Godelier tocca un’altra questione fondamentale, il rapporto tra infrastrutture
(insieme delle condizioni materiali dell’esistenza sociale di un gruppo di uomini) e
sovrastruttura (insieme di pensieri, ideologie, valori che determinano l’infrastruttura). Per i
marxisti questo rapporto è un rapporto di determinazione, ovvero la coscienza dell’uomo è
determinata dalla sua esistenza sociale, ovvero dalle condizioni materiali.
Nelle società studiate dall’antropologia, tuttavia, esiste un elemento fondamentale, la
parentela, che è infrastruttura e sovrastruttura allo stesso tempo.
Le relazioni di parentela sono un mezzo per controllare i rapporti di produzione e uno
strumento di controllo dei rapporti politici e religione.
Dunque, il rischio dell’omogeneizzazione e della scomparsa delle diversità culturali emerge
in un contesto definito “olismo localizzato”, ovvero l’idea che la cultura sia una totalità
integrata ma circoscritta in un luogo.
L’avanzare della cultura occidentale è visto come una minaccia per la sopravvivenza delle
altre culture statiche e stabili.
Lo spostamento dell’attenzione verso il mutamento e il conflitto sociale segna il passaggio
del superamento dell’idea olistica e integrata della cultura in direzione del riconoscimento
del carattere ibrido, contaminato dei processi culturali.
Ormai gli antropologi non avviano più studi localizzati senza tener conto della cornice più
ampia, finanche globale.
Ciò non toglie l’importanza del lavoro etnografico: il lavoro sul campo resta una metodologia
fondamentale nell’ambito antropologico.

2.6 Tradizione, interculturazione, acculturazione


Uno dei motivi principali che spinge la società e le culture ad apparire immobili è la
tradizione. Il primo obiettivo della tradizione è ottenere l’immobilità sociale, ovvero
trasmettere da un generazione all’altra il patrimonio culturale senza che questo subisca
variazione alcuna.
Tuttavia, il processo di trasmissione del sapere tradizionale subisce variazioni, poiché nel
passaggio dagli individui di una generazione a quelli della generazione successiva si
inserisce l’elemento individuale per cui un contenuto trasmesso viene interpretato
diversamente da ogni singolo individuo.
La misura del cambiamento varia a seconda del settore investito dall'innovazione e dalle
reazioni che possono scatenarsi.
Dall’esterno, i fenomeni di diffusione sono responsabili degli sconvolgimenti totali o settoriali
a cui la tradizione può andare incontro: elementi culturali esterni possono introdursi nella
cultura tradizionale tramite contatti con altre popolazioni, portando alla nascita del processo
di “acculturazione”. L’assimilazione dei modi culturali di altri gruppi può provocare effetti di
sconvolgimento poiché tali elementi entrano nelle abitudini culturali di altre popolazioni.
Un elemento fondamentale nella realizzazione dei processi di innovazione è la velocità
nell’integrare i prodotti di diversità che conosce.
E’, appunto, un continuo incrociarsi, sommarsi, fondersi di elementi culturali che apre la
strada alla modernità, rispetto alle società tradizionali, le cui mutazioni sono lente e faticose.
L’idea che la società debba rispondere a una legge evolutiva che dal semplice porti al
complesso è antica.
Nel clima profrassista dell’Inghilterra vittoriana prendono piede le teorie dell’evoluzionismo
sociale, per cui si accostano le idee di sviluppo e di progresso a un giudizio di valore in
termini di inferiorità e superiorità rivolto alla società e alle culture.
La nozione di evoluzionismo sociale e culturale però è rimasta radicata sia a livello di senso
comune che a livello politico, economico e religioso, confermandosi come uno dei tratti
distintivi della società occidentale.
Nonostante lo splendore delle diverse civiltà sia avvenuto in modi e tempi differenti, in
Occidente è rimasta la convinzione in un progresso continuo a dispetto di altre civiltà,
lasciate indietro, accompagnata da una visione meccanica dell’evoluzione culturale,
considerata come un processo in cui si entra totalmente una volta per tutte o che avvolge la
società nel suo complesso.
La civiltà occidentale tende a proclamarsi superiore rispetto al resto del mondo, una
superiorità che ha spinto tutti gli altri popoli a seguirlo nel desiderio di recuperare il loro
ritardo nello sviluppo, cercando di guadagnare la modernità.
Tuttavia, occorre precisare che la nozione di uguaglianza nella diversità non esiste mai, c’è
sempre un termine che è più uguale, oltre ad essere diverso.

2.7 Omogeneizzazione e la globalizzazione

L’omogeneizzazione è legata al processo di acculturazione che si svolge in parallelo


all'interulturazione.
L’urgenza etnografica, il timore dell'antropologia per la scomparsa del proprio oggetto di
studio, l’idea che i processi globali possano mostrarsi come una minaccia per le identità
culturali nascono da una concezione sbagliata del concetto di cultura.
Parlare di “riformulazione culturale” è più adatto per esprimere le dimensioni culturali della
globalizzazione.
I processi globali cessano di apparire una minaccia per l’antropologia quando si intravedono
nuovi panorami di ricerca.
La riformulazione è quella provocata dai processi per cui una società vede trasformarsi i
propri valori locali per effetto di qualcosa di esterno, ovvero i fenomeni globali transnazionali
(guerre, immigrazioni, internet, tv ecc.)

L’omogeneizzazione culturale e le culture localizzate da un lato e la globalizzazione della


cultura e la delocalizzazione culturale dall’altro trovano i loro riferimenti l'uno nella tendenza
a sottolineare gli elementi di stabilità e di coesione della società, l’altro nell’enfatizzare i punti
di tensione, di conflitto.
L’uno nell’idea di cultura come contenitore, l’altro nell’idea di cultura come ambiente
comunicativo e pratica.
Il periodo dell’antropologia del dopoguerra ci consente di passare dalla localizzazione del
tribale alla delocalizzazione del globale. Pensare alla cultura come ad un qualcosa legato ad
un luogo, a una società ci costringerebbe a riprodurla identica e di neutralizzare gli elementi
estranei.

Capitolo 3. Oltre i confini disciplinari

3.1 La concezione olistica dell’antropologia


E’ possibile attribuire all’antropologia una terza accezione che fonde le due precedenti:
l’antropologia come “sapere della differenza” e l’antropologia come “discorso sull’uomo”.
L’antropologia è lo studio delle similarità e delle differenze fra esseri umani, con il fine ultimo
di sviluppare una concezione integrata dell’uomo.
Tutti gli esseri umani possono essere oggetto di studio di tale disciplina, poiché non ci sono
popoli più o meno evoluti.
Gli antropologi sono interessati a tutti gli aspetti dell’esistenza umana: l’economia, la politica,
la religione, l’arte ecc.
Questo è ciò che si intende per concezione olistica dell’antropologia, ovvero il desiderio di
comprendere il tutto della condizione umana.
Fino a qualche decennio fa vi era una netta distinzione tra antropologia e sociologia: la
prima si occupava dello studio dell’uomo inteso come animale parlante, mentre la seconda
si occupava dello studio dell’uomo inteso come animale che parla e scrive.
Dunque, trasformare i dati raccolti in quelle società poste ai margini e semplici, significava
costruire il sapere antropologico.
Avendo per oggetto società piccole, la prospettiva olistica era abbastanza praticabile, poiché
tutti gli aspetti della vita dell’uomo (economia, politica, religione ecc) erano strettamente
collegati.
Quando gli antropologi cominciarono a studiare società più ampie e meno localizzate,
l’ideale olistico è crollato. L’integrazione sociale e ambientale in queste società era meno
evidente.
Solo di recente si è sviluppato il pensiero per cui tutte le società sono parte di un sistema
mondiale.
Dunque, le singole società sono interdipendenti e le loro caratteristiche possono essere
comprese solo in relazione al sistema globale.
Negli ultimi decenni gli studiosi si sono occupati di nuovi spunti contrassegnati dai termini
“multietnicità, interculturalità” ecc.
Questo perché l’oggetto si è delocalizzato, si è mosso dai suoi luoghi verso società
moderne, le quali sono diventate multi-etniche.
Sia i sociologi sia gli antropologi hanno rivendicato la legittimità del nuovo fenomeno sociale,
poiché questi ultimi si sono occupati dei fenomeni di multietnicità dell’immigrazione.
In questo modo, ambiti di ricerca distinti si sono avvicinati, portando alla nascita di un
proliferare di studi detti “interculturali”.
Tuttavia, in questo vortice interculturale, l’antropologia fa fatica a ricollocarsi, in quanto non è
una “tuttologia”, bensì è un progetto culturale culturale, conoscitivo e teorico.
Trovandosi dinanzi ad un mondo ricco di problematiche, l’antropologia potrebbe dare un
contributo alal ricerca di soluzioni ad alcune di esse; si potrebbe proporre anche nel cercare
di comprendere la complessità del sistema globale, in rapporto alle periferie e ai
localismi.Inoltre, l’antropologia potrebbe aiutare a fare chiarezza su problematiche di tipo
razziale e legate alla violenza.Tuttavia, non è su questi temi che deve concentrarsi la sua
specificità.

3.2 La procedura etnografica

L’etnografia è una descrizione scritta o una rappresentazione dell’organizzazione sociale,


delle attività sociali, del simbolismo ecc di un determinato gruppo di uomini. La ricerca
etnografica si basa su un’osservazione “oggettivo” e distaccata e sulla partecipazione
interna con le persone studiate. Si tratta del principio “osservazione partecipante” alla base
dell’antropologia del Novecento.
A partire da Malinowski, l’etnografia è diventata una pratica di ricerca caratterizzata dal
lungo soggiorno nei villaggi studiati, dall’apprendimento della lingua locale e da
un'osservazione da partecipante. L’etnografo tenta di avvicinarsi tanto vicino quanto più
possibile al significato culturale dell’esperienza delle persone studiate, per questo
soggiornano sul campo, partecipando alla vita delle persone studiate.
Un tale livello di conoscenza non si raggiunge da una posizione distaccata, ma collocandosi
nel mezzo, partecipando e interagendo.
Grazie all’etnografia, la moderna antropologia sociale e culturale specifica il suo obiettivo in
un duplice senso:
1. cogliere e descrivere le diversità culturali;
2. perseguire una scienza generale dell’uomo e farsi critica culturale della nostra
società.

3.3 Etnocentrismo e relativismo


La cultura non erige barriere psichiche tra gli appartenenti ad una stessa specie, ma è il
luogo in cui gli individui vanno incontro ad un processo di “culturalizzazione” e
“umanizzazione”.
In ogni società esiste l’idea di cosa sia l’uomo, una certa concezione sull’umanità e anche di
ciò che viene definito altro, diverso.
L’etnocentrismo consiste in un atteggiamento che porta a giudicare i modi di comportarsi, le
credenze e le idee sul mondo, il sapere, i valori e la traduzione culturale.
L’etnocentrismo è un tratto comune a tutte le società umane.
D’altro canto, il relativismo culturale consente di interpretare i comportamenti e le credenze
delle singole culture, nei termini della tradizione e dell’esperienza, in relazione ai quali
emergono modi di agire e di pensare che differisce in base ad ogni gruppo umano.
Ciò che non dovrebbe essere consentito è l’ignoranza delle differenze, da cui derivano
atteggiamenti di razzismo e prevaricazione. Una certa dose di attaccamento ai propri valori
può essere creativa e favorire la dinamica dei processi culturali.
QUesto modo di intendere il rapporto tra etnocentrismo e relativismo culturale deriva da una
visione delle differenze culturali e dall’idea della coincidenza totale tra i confini di una società
e i confini della cultura da essa espressa. Tale visione porta alla nascita di due
conseguenze:
1. l’idea che le diversità culturali siano un patrimonio dell’umanità da preservare;
2. l’idea che le differenze culturali siano un ricchezza, ma anche un’ostacolo alla
comprensione delle persone.
La prima è alla base dei programmi di politica culturale degli organismi ad essa preposti, ma
è anche alla base di azioni di rivendicazione identitaria ed etnica delle varie minoranze.
La seconda è alla base delle ricerche di molti sociologi, psicologi, pedagogisti
sull’intercultura.
L’etnografia ha studiato le culture ma non ha fatto luce sul processo culturale, per cui oggi ci
troviamo la ricerca colmo di culture, descritte e rappresentate, ma non sappiamo gran che
sulla cultura.

3.4 L'inesistenza delle culture


A partire dagli anni sessanta-settanta, sono cambiati il mondo e le culture ed è cambiato
anche il modo di intendere il mondo e le culture, di conseguenza è cambiata anche
l’antropologia e i paesi e i popoli che studia. I processi di delocalizzazione delle culture e di
globalizzazione economica, che producono immigrati, clandestini, rifugiati ecc, hanno
modificato le modalità di confronto con l’alterità e le maniere di rappresentarla.
Con il riconoscimento dell’inesistenza di un’alterità totale, si è raggiunta la
consapevolezzadell’impossibilità dell’omologazione delle differenze: in ogni società ci sono
gli altri ed è quindi necessario distinguere fra alterità immediata e lontana, oppure alterità
interna ed esterna alla società occidentale. Ciò ha fatto sì che venisse alla luce la centralità
di processi come “la contaminazione” e “l’ibridazione culturale” sia in relazione all’alterità
culturale o esterna (per via dell’espansione dei commerci, delle nuove tecnologie, della
globalizzazione), sia in relazione all’alterità interna o vicina (per via delle migrazioni ecc).
Ciò ha consentito all’antropologia di rilanciare una seconda vocazione, ovvero quella di
critica culturale del “noi”. In tempi recenti, ha iniziato ad esaminare tutte queste dinamiche
che hanno influenzato non solo il contesto antropologico, in riferimento al concetto di
“cultura”, sia quello empirico, ovvero il “campo”, che non è più luogo in cui si incontrano i
nativi originari, ma solo una tappa di un itinerario più “contaminato”.
Le dichiarazioni contro la cultura sono aumentate negli ultimi anni: ad esempio,
relativamente alla necessità di riformulare una teoria della cultura per chiarire i termini della
trasmissione del sapere e della circolazione sociale delle rappresentazioni e delle idee.
Si è detto che la nozione di cultura allontana gli altri nel tempo e li colloca in una dimensione
sociale lontana, che bisogna liberarsi del concetto di cultura.
L’idea che l’antropologia debba essere una sorta di traduzione da una cultura all’altra è
legata ad un meccanismo che frammenta il mondo.

3.5 Il mondo in un granello di sabbia


Il principio dell’osservazione partecipante si colloca in un contesto teorico innovativo, poiché
garantisce ricerche non più superficiali.
Tale principio implica che le ricerche siano concentrate su singole popolazioni e che i risultati
siano esposti tramite un preciso modello, la monografia etnografica, dando vita ad una serie
di saggi articolati che espongono dati omogenei sulla cultura. Ciò favorisce la costruzione
dell’immagine del mondo come un mosaico di culture distinte e la rappresentazione di
un’umanità frazionata in popoli, etnie e culture.
Ciò ha esercitato una grande influenza sulle procedure di comparazione che sono alla base
del discorso antropologico, diventato un discorso sulle singole culture.
In effetti, è vero che l’etnografia, elemento fondante dell’antropologia, non può restare una
ricerca fine a se stessa, ma deve comunque fornire materiale per la riflessione teorica;
dunque, l’esperienza etnografica deve diventare testo.
Tuttavia, le procedure teoriche hanno reso la procedura etnografica ambigua.L’antropologo
si immedesima ma resta distaccato, ascolta ciò che il nativo dice, ma il suo interesse non è
nei confronti delle vicende narrate o del narratore, ma per il sistema di valori che si potrebbe
ricostruire da quelle parole, le relazioni intercorrenti, la logica culturale ecc.
Nel conversare con i nativi, gli etnografi sono consapevoli del loro ruolo “accademico”
quanto basta per collocarsi già verso il testo etnografico che scriveranno e la
rappresentazione culturale che produrranno, pertanto l’interesse dell’etnografo per la
comunità che studia è temporaneo.
Oltre all’interesse e alle motivazioni dell’etnografo, ci sono processi politici ed economici
globali che possono influenzare le relazioni che stabiliscono sul campo.
Il viaggio dell’antropologo è quasi sempre occultato dall'etnografia, ovvero l’essere là
dell’etnografo appare separato dall’andarci, le città importanti, tutti i posti in cui è stato per
raggiungere il campo, il contesto nazionale vengono occultati, poiché non entrano
nell’esperienza culturale realizzata.
Ciò che conta è la qualità di relazioni con le persone rappresentate nei testi.
Un'etnografia si configura in sostanza come il tentativo di costruire una sorta di oggettività
interpersonale che è proprio quella delle persone studiate.
Il termine “oggettività” è stato molto criticato e il termine utilizzato per distruggere tale
concetto è stato “occultazione: sembra che per l’etnografia l'unico modo di avvicinarsi
all’oggettività sia fare uso di una scrittura che riduca l’esperienza, occultando molti elementi.
Dunque, bisogna mascherare la soggettività dell’antropologo, emozioni, atteggiamenti;
bisogna nascondere il carattere “dislocato” dei processi culturali, concentrandosi su quelle
studiate.
L’etnografia nasconde anche il fatto che un unico linguaggio nativo non esiste, né esiste la
possibilità di impararlo e padroneggiarlo in poco tempo e occulta anche che gli antropologi si
siano serviti di traduttori e interpreti per capire eventi complessi, idiomi e testi.
Una lingua è un insieme di discorsi divergenti che persino un nativo non padroneggia
completamente, Allo stesso modo ciò che si definisce cultura è il risultato provvisorio di
processi storici di scambio, ibridazione e mescolanza.
Nella rappresentazione etnografica, l’antropologo localizzava e isolava tutto ciò che era al di
fuori del locale e relegava la cultura ai margini del lavoro sul campo.
Tuttavia, le cose stanno cambiando, l’etnografia più recente pone al centro dell’attenzione le
persone rispetto alla cultura, come soggetti storici e complessi.
Tale procedura ostacola la tendenza diffusa degli etnografi a scoprire modelli, configurazioni
e stili culturali.
Un’etnografia sbilanciata verso la scrittura e poco sull’esperienza ha dei vantaggi, ovvero
creare delle identità forti e un sapere forte.
Un’etnografia tutta esperienza favorisce immedesimazione ed identificazione dei vari punti di
vista.
Emerge che il sapere costruito dagli antropologi non può essere conforme ai presupposti di
elaborazione del sapere antropologico.
Una disciplina deve restare ancorata a dei valori fondanti che non possono essere rimessi in
discussione da ciò che accade esternamente.
La difficoltà maggiore appare proprio la ricerca di un nuovo equilibrio fra antropologo e nativi
che può essere definito con il rapporto tra prassi di ricerca antropologica e prassi di ricerca
scientifica generale.
Per l’antropologo, scivolare sul terreno cognitivo, linguistico e culturale del nativo equivale a
rinunciare al proprio universo e diventare qualcos’altro.
3.6 Il “campo” e la “cultura”
Il campo e la cultura oggi non appaiono più localizzati e definiti, ma esprimono la posizione
da cui un antropologo parla e scrive di ciò che fanno i nativi.
La posizione dell’antropologo spesso è ai margini, è quella di una figura esclusa dalle attività
sociali per scelta o per gioco.
Gli intellettuali, fra cui gli antropologi, ingannano quelli di cui parlano e quelli a cui parlano.
L’antropologia è una disciplina storia sofisticata capace di entrare in relazione con la
diversità; solo alcune società hanno prodotto l’antropologia, difatti in molti paesi risulta quasi
periferica o non esiste in quanto disciplina accademica.
Riflettere sulla posizione dell’antropologo spinge ad interrogarsi sulle procedure di
costruzione dell’antropologia e sulla percezione dell’antropologa periferica da parte dei
rappresentanti di quella dominante.
Parallelo a questo si pone il problema del “campo”: da un lato la capacità di nozione di
“campo” di agire come criterio di selezione fra antropologi e di costruzione di una gerarchia
tematica e professionale con a capo i “veri” antropologi e al fondo quelli che hanno poco
campo antropologico.
Dall’altro, l’ossessione degli antropologi verso chi è più isolato da noi.
Il rischio è che coloro i quali ci appaiono “ i più altri" degli altri, ovvero più lontani e attraenti
dal punto di vista dell’etnografo, siano anche i più restii a condividere la loro cultura al punto
di essere disposti ad abbandonare il loro campo e spostarsi.
La riflessione sulla posizione dell’antropologo non è poi così nuova: Ernesto de Martino ne
ha parlato nell’analisi critica del mondo occidentale nel modo di porsi con quegli uomini su
cui l’antropologo produce un sapere.
De Martino assunse un atteggiamento di “senso di colpa” di chi appartiene ad una società
borghese ricca e colta e si volge verso gli altri.
Le nozioni di etnocentrismo critico e umanesimo etnografico esprimono questa riflessione, in
opposizione a chi propugna la superiorità assoluta della civiltà occidentale.
De Martino affermò l’universalismo gerarchico, riconoscendo il primato della civiltà
occidentale, attribuendole il dovere di aprirsi nei confronti delle altre.
L’etnocentrismo è inevitabile perché ciò che produciamo sugli altri non può non essere
fondato su categorie elaborate dalla nostra civiltà.
L’umanesimo etnografico porta alla storicizzazione di sé della propria cultura, favorendo il
confronto storico-culturale. Le prospettive teoriche degli approcci metodologici più recenti
esprimono ambiguità e contraddizioni e spesso assumono la forma di un liberalismo teorico
poco convincente, finendo per giustificare un’inerzia pratico-politica.
La lezione demartiniana va intesa come un riconoscimento del primato della riflessione
antropologica occidentale nella capacità di costruire discorsi sugli altri.
La ricerca antropologica e i discorsi che alimenta possono dare un importante contributo alla
spiegazione delle cause della violenza presenti nella società.

PARTE 2- IL LAVORO ETNOGRAFICO

1. La congiura del silenzio

1.1 Aneddoti e rimozioni


Il termine etnografia, ethos= popolo e graphein= grafia, si riferisce sia all’attività di ricerca
condotta attraverso prolungati periodi di permanenza a diretto contatto con l’oggetto di
studio, sia alla produzione testuale tipica dell’antropologia.
L’etnografia designa un particolare processo di ricerca e i prodotti di tale processo
comprendono l’esperienza diretta sul campo, la sua restituzione scritta e il metodo di ricerca.
Lo sviluppo dell’etnografia è un processo che ha segnato l’evoluzione dell’antropologia,
accompagnando i cambiamenti teorici e la professionalizzazione accademica.
L’etnografia ha contribuito alla formulazione antropologica, indirizzato le finalità e le pratiche
teoriche, metodologiche ed empiriche. Anche nell’epoca presente, l’antropologia rivendica la
propria originalità rispetto alle altre scienze sociali grazie alla ricerca sul “campo”.
Difatti, il lavoro per eccellenza dell’etnografia è proprio il lavoro sul campo che permette agli
etnografi di stabilire una relazione privilegiata con il proprio”campo” di ricerca.
Tale rapporto richiede al ricercato anche di trasformare in un resoconto scritto la
condivisione dell'ambiente, della lingua, dei rituali ecc.
Le etnografie sono documenti che offrono una visione della realtà sociale attraverso una
rappresentazione testuale.
In quanto tale, ha una sorta di indipendenza dal lavoro sul campo su cui si basa. Il lavoro
etnografico è infatti un lungo processo di comprensione che inizia prima di andare sul campo
e continua dopo.
Il lavoro sul campo è stato definito come il rapporto tra il “laboratorio scientifico” e il “rito di
passaggio” personale, ovvero il rapporto ambiguo tra oggettività e soggettività presenti
all’interno dei discorsi degli antropologi.
La componente soggettiva e intersoggettiva del lavoro è stata sempre mascherata
ponendola ai margini.
La tradizione antropologia, infatti, ha escluso nei processi di scrittura, l’esperienza che ha
iniziato l’antropologo, considerando solamente i dati oggettivi portati a casa.
A differenza degli altri scienziati sociali, gli antropologi difficilmente hanno inserito nei loro
testi le modalità con cui sono riusciti a raggiungere l’insieme di conoscenze, essi sembrano
rifiutarsi di esibire la processualità del proprio lavoro e di mostrare le tecniche di raccolta dati
e scrittura.
In questo modo hanno evitato di prendere in considerazione le modalità con cui hanno
costruito il proprio campo e tutto quell’insieme complesso di occasioni, qualità e sentimenti
che fondano la specificità del metodo di lavoro antropologico.
Qualche antropologo ha pubblicato le proprie memorie del lavoro sul campo in testi distinti
dalla monografia tradizionale e in maniera informale, spesso utilizzando pseudonimi. Molti di
questi lavori non solo altro che riflessioni autobiografiche su progetti passati, finalizzate a
mostrare come le condizioni del lavoro sul campo giustifichino il lavoro teorico realista. Ad
esempio, Laura Bohannan ha firmato come Eleonore Smith Bowen il resoconto del proprio
lavoro sul campo.
Nonostante un secolo di pratica, il metodo rimane non ben definito, non vi è un
apprendistato formale e le pubblicazioni e gli insegnamenti accademici sui fondamenti
metodologici e etici della ricerca etnografica sono molto ridotti. Il lavoro sul campo è solo un
qualcosa che si impara con la pratica.

1.2 Etnografia e antropologia


L’etnografia è stata messa in contrasto con l'antropologia. La prima comprenderebbe i
dettagli raccolti durante la ricerca sul campo; la seconda l’elaborazione teorica e
l’esposizione razionale dei dati ottenuti.
Questa divisione si fonda sullo sforzo di applicare la metodologia elaborata dalle scienze
naturali alle scienze umane o sociali.
L’assunzione di fondo era che le scienze sociali differissero dalle scienze naturali e che i
metodi e gli standard appropriati alle scienze naturali potessero essere estesi alle scienze
sociali.
In accordo con le concezioni positiviste, la scienza si organizza attorno all’esperienza e alla
spiegazione; implica una rigida separazione tra oggetto e soggetto e fra teoria e realtà e si
fonda su dei dati “grezzi”. Gli oggetti sarebbero reali e accessibili all’osservazione diretta e
trascrivibili nel linguaggio denotativo e referenziale delle scienze.
L’osservazione è considerata un atto neutro libera da qualsiasi tipo di influenza che possa
modificare l’oggetto o l’analisi teorica.
La descrizione è gerarchicamente, logicamente e cronologicamente subordinata alla
riformulazione teorica. Ha il compito di fornire alla teoria dati osservativi puri,
indipendentemente dagli obiettivi del sapere scientifico.
E’ un dispositivo tecnico naturale che si limita a rappresentare l’esperienza acquisita
dall’etnografo.
Nella concezione del sapere fondata sul rispetto del modello tipico delle scienze
sperimentali, l’etnografia è inscritta nell’antropologia.
In un secondo momento, il lavoro sul campo funziona come operazione di verifica delle
teorie che fondano la loro scientificità su di esso.
Etnografia e antropologia hanno così costruito due diversi livelli indipendenti e ordinati
gerarchicamente del sapere antropologico.
Da un lato, il livello inferiore dell’etnografia, non problematico relativo alla conoscenza
antropologica; dall’altro, quello superiore della teoria antropologica, denso e complesso.
Nel modello nomologico-deduttivo della scienza, il ricercatore segue delle procedure:
partendo dalla raccolta dei dati giunge all’introduzione ipotetica di leggi teoriche.
Da queste perviene poi alla deduzione delle conseguenze che derivano da tali leggi. Infine,
cerca la conferma delle leggi grazie alle prove fornite dai casi.
Questa prospettiva è stata proposta da Lévi-Strauss nella distinzione tra etnografia,
etnologia, antropologia.
L’etnografia corrisponde alla fase iniziale della ricerca: osservazione, descrizione e lavoro
sul campo condotto da un numero ristretto di etnografi.
L’etnologia rappresenta un primo passo verso la sintesi: tende a conclusioni fondate sulla
comparazione e sulla generalizzazione.
L’antropologia, infine, costituisce l’ultima tappa di una sintesi che ha per base le conclusioni
dell’etnografia e dell’etnologia e per finalità l’elaborazione teorica e la spiegazione.
Questo approccio ha reso la ricerca antropologica un movimento dal particolare al generale
fondato su due momenti: il momento idiografico, ovvero momento di scrittura,
semplicemente descrittivo, con l’etnografia come fase di raccolta e analisi dei materiali.
In secondo luogo, il momento scientifico comparativo e generalizzante. Molti rappresentanti
della disciplina hanno insistito sulla discontinuità tra queste due forme di conoscenza.
Secondo Radcliffe-Brown lo studio scientifico non deve occuparsi del particolare, ma solo
del generale, degli eventi che si ripetono, la scienza infatti necessita di un resoconto della
forma e della struttura.
Tali concezioni hanno portato a sostenere che il ruolo del lavoro sul campo è essenziale per
l’antropologia, ma non universale, altri metodi possono includere altre modalità di lavoro.
1.3 La poltrona e il campo
La separazione fra etnografia e antropologia è stata segnata da una differenza di ruoli. La
fine del XVIII secolo è caratterizzata da una marcata divisione del lavoro fra
raccoglitori-osservatori ed esperti teorici.
Da un lato viaggiatori, esploratori, colonizzatori ecc fornivano informazioni per le istituzioni
antropologiche come l’Ethnological Society, il Royal Anthropological Institute di Londa ecc.
Dall’altro lato, un ristretto numero di professionisti, all’interno delle organizzazioni,
processava le informazioni in vari tipi di pubblicazioni. Tale divisione del lavoro venne
accentuata con la creazione della figura dell’official correspondent di riviste specializzate
come “Man” fondata nel 1900.
In questo modo, venne istituita la figura dell’armchair, che prendeva i propri dati etnografici
dai resoconti di viaggio o dalle relazioni di esploratori, missionari o naturalisti, al fine di
documentare le proprie concezioni, evoluzionistiche degli stadi di sviluppo culturali.
La divisione del lavoro fra teorici ed etnografi si fondava sul presupposto che i dati empirici
raccolti da dilettanti avessero valore e costituissero la base per le inchieste elaborate in
chiave comparatistica da parte di scienziati.
Tuttavia, veniva riposta poca attenzione a come i “fatti” fossero raccolti e le culture erano
considerate oggetti da registrare con il metodo scientifico.
Ai raccoglitori si chiedeva esplicitamente di dedicarsi ad una raccolta di materiali, la cui
oggettività era garantita dalla neutralità e dall’ incontaminazione da pregiudizi teorici da parte
dell’osservatore.
L’acquisizione di informazioni etnografiche da parte degli antropologi armchair era ottenuta
attraverso l’invio ai ricercatori sul campo di elenchi di domande o temi sotto forma di
questionari che erano destinati a guidare la raccolta dei dati e a indirizzare gli
osservatori-compilatori.
In Inghilterra nel 1839 la British Association for the Advancement of Science istituì una
commissione per produrre una serie di domande da indirizzare a coloro che svolgevano la
funzione di osservatori.
Nel 1843 fu fondata la Ethnological Society di Londra con lo scopo di promuovere
programmi per la raccolta di dati ottenibili grazie alla compilazione di questionari da inviare a
coloro che vivevano a contatto con le popolazioni oggetto di studio. Nel 1873 questi
questionari furono pubblicati e utilizzati dai membri di una spedizione all’Artico sostenuta dal
governo.
NEl 1872 ad opera del BAAS e del Royal Anthropological Institute of Great Britain and
Ireland fu formata una commissione che produsse la più importante pubblicazione di questo
tipo nota come Notes and Queries on Anthropology.
Tale opera servì come manuale standard per l’inchiesta etnografica a uso di amministratori,
funzionari, missionari ed esploratori britannici. Aggiornata in sei edizioni, ebbe un grande
impatto sulle modalità di raccolta dei dati, almeno fino alla vigilia della prima guerra
mondiale.
La prima edizione apparve tre anni dopo la pubblicazione di Tylo e ne fu fortemente
influenzata. Il libro fu diviso in tre sezioni:
1. costituzione dell’uomo: antropologia fisica;
2. cultura;
3. raccolta di vari saggi di vari argomenti.
La sezione scritta da Tylor comprende non solo liste di domande ma anche istruzioni su
come selezionare le informazioni con grande attenzione all’oggettività.
All’interno di tale opera sono presenti anche 245 domande sulla religione, una sezione
dedicata al matrimonio redatta da John Lubbock e una piccola sezione sul totemismo
redatta da Frazer.
Rilevante è l’assenza di una sezione sulla vita sociale e la scarsità di indicazioni su come
raccogliere le informazioni.
La tecnica della raccolta dei dati etnografici mediante l’invio di questionari fu promossa
anche da singoli studiosi come James Frazer e Lewis Henry Morgan. Il primo elaborò un
importante questionario per il Golden Bough, il secondo scrisse una Circular avente per
oggetto le terminologie di parentela in uso nel continente asiatico e in Oceania.
Mediante l’invio dei questionari, Frazer e Morgan mantennero strette relazioni epistolari con
persone residenti presso le popolazioni oggetto di studio.
La figura chiave di questo periodo iniziale, dominato da una precisa divisione del lavoro fra
raccoglitori a distanza ed esperti, fu quella di un naturalista della generazione post
darwiniana: Walter Baldwin Spencer che raccolse informazioni sugli aborigeni nel 1894 e nel
deserto centrale australiano durante la Horn Expedition.
Successivamente, venne assistito da Gillen, un magistrato residente in Australia, che lo
aiutò a raccogliere informazioni sugli arunta.
Gillen raccoglieva tali dati per Spencer che da Melbourne gli inviava domande di tipo
evoluzionistico sulle classi matrimoniali.
Il lavoro sul campo nel XIX secolo era inibito dall'ideologia del tempo e dal paradigma
scientifico. Seguendo il modello evoluzionistico, Tylor, Morgan o Frazer utilizzavano i popoli
primitivi per studiare l’evoluzione dell’uomo
La rilevanza di tali popolazioni derivava dall’essere ritenute modelli delle origini della
civilizzazione, stadi connessi l’uno all’altro in una sequenza di sviluppo universale che
poneva all’apice la società moderna europea, mentre all’estremità opposta collocava le
culture selvagge, barbare o primitive.
Lo studio della società era concepito come un campo del sapere in cui agivano le stesse
leggi che determinavano il funzionamento di tutti gli ambiti della natura. Il principio era quello
dell’unità psichica dell’uomo che consentiva agli studiosi di costruire liberamente i processi
che avevano segnato lo sviluppo della cultura.
Concentrandosi sulla relazione fra le variabili e sviluppando un sistema di classificazione
universale dei dati culturali, venivano trascurate le variabili in se stesse, considerate
manifestazioni empiriche oggettive e fattuali, accessibili dall’osservazione diretta.
Tylor cercò di elaborare una scienza naturale della cultura fondata sulla frammentazione
della cultura nei suoi dettagli, al fine di stabilire le correlazioni e le variazioni e i livelli
evolutivi.

1.4 L’osservazione rigorosa in prima persona

All’inizio del Novecento l’attività etnografica condotta da antropologi del Regno Unito
conobbe un grande sviluppo. Tra questi, il più celebre fu Malinowski a cui viene attribuito il
ruolo di artefice della rivoluzione etnografica.
Già prima di Malinowski il lavoro sul campo costituiva un settore di ricerca consolidato. Egli
non fu il primo antropologo a teorizzare la ricerca sul campo, altri prima produssero
l’etnografia attraverso il soggiorno prolungato.
Tra questi, Jean-Baptiste Lamarck e studiosi come Volney e De Gérando della Société des
Observateurs de l’Homme e negli Stati Uniti, Henry Rove Schoolcraft e il lavoro sul campo di
Frank Hamilton Cushing.
Gli studiosi della Société des Observateurs de l’Homme avevano come obiettivo studiare
scientificamente l’uomo, applicando il metodo dell’osservazione ampiamente sperimentato
nelle scienze della natura.
Nell’ambito della società vennero messi a punto dei testi contenenti istruzioni di lavoro che
anticipano il metodo della più rigorosa ricerca etnografica moderna. Tali testi, i memoires,
simboleggiano l’interesse per l’osservazione.
Volney pose così il problema dello studio delle culture diverse, toccando come temi la
partecipazione in prima persona alle situazioni studiate, la conoscenza della lingua nativa e
il superamento degli influssi della propria cultura.
L’osservazione rigorosa dei fenomeni, fondata sul metodo delle scienze naturali, servì a
Volney per stendere la sua relazione del viaggio in Medio oriente e successivamente per
produrre un manuale a uso viaggiatori, in cui vennero elaborate alcune domande a cui i
viaggiatori dovevano rispondere.
Nel 1800 venne pubblicato il testo di De Gérando intitolato Considerazioni sui metodi da
seguire nell’osservazione dei popoli selvaggi. Tale testo fu scritto per gli “observateur” per un
viaggio di esplorazione in Australia e in Tasmania e contiene alcuni problemi connessi alla
ricerca etnologica. Include considerazioni sulle difficoltà nel raccogliere informazioni e
istruzioni sulel categorie di dati da registrare non solo in forma di domanda.
In esso De Gérando critica le osservazioni etnografiche dei precedenti esploratori,
sostenendo la necessità di imparare la lingua nativa.
La metodologia dell’osservazione era considerata da De Gérando seondo un approccio
empirico e induttivo e sottolineava l’importanza di studiare i popoli primitivi nel contesto dei
loro sistemi sociali.
Negli Stati Uniti l’antropologia si sviluppò con l’interesse per le culture indigene. Henry Rowe
Schoolcraft può essere considerato tra i primi etnografi professionali.
Portò a termine un grande programma etnografico basato sulla raccolta di dati sulle tribù
nordamericane.
Schoolcraft si concentrò principalmente sull’aspetto linguistico, raccogliendo liste di termini
indigeni e di testi mitici e poetici.
Il centro organizzativo dei primi programmi fu il Bureau of American Ethnology, istituito nel
1879 dal governo, con lo scopo di raccogliere e pubblicare informazioni sugli indiani.
Per vent’anni fu sotto il controllo di John Wesley Powell che si dedicò all’esplorazione delle
regioni occidentali e allo studio delle lingue e delle culture native.
Il Bureau promosse programmi di ricerca con particolare enfasi su questionari e guide.
Tuttavia, il Bureau impiegò anche persone che direttamente svolgevano ricerche sul campo.
In quest’ambito, importante fu la figura di Frank Hamilton Cushing che lavorò fra gli zuni.
Egli aveva pochi modelli per il suo lavoro sul campo ma molta creatività e ambizioni. Le sue
doti gli permisero di essere accolto all’interno della società degli zuni diventando membro di
una cerchia iniziatica di sacerdoti. Le difficoltà e l’iniziazione al sacerdozio di Chusing sono
diventate parte fondamentale dell’antropologia americana e sostengono la considerazione
che egli fu il portavoce del metodo dell’osservazione partecipante in Nord America.
Lo stile di Cushing è differente rispetto a quello utilizzato dai suoi colleghi. Lo standard
antropologico di quel tempo era la trascrizione delle interviste di informatori chiave, mentre
Cushing iniziò subito a osservare e a superare la diffidenza degli zuni e le ostilità
nell’apprendere la lingua.
Si interessò all’analisi etimologica come chiave per studiare le strutture mentali e le
connessioni culturali, raccogliendo le storie locali e la mitologia.
Tutti i risultati raccolti dalla United States Bureau of Ethnology spinsero la British Association
ad istituire una committee per promuovere la ricerca sugli indiani canadesi. La committee
preparò un Circular of Inquiry, di cui Taylor fu il principale ideatore, per ricercare e pubblicare
i resoconti sulle caratteristiche fisiche, le lingue, le condizioni economiche e sociali delle tribù
nord occidentali.
I ricercatori erano invitati a non fare domande ma ad osservare i riti religiosi e a ricercare il
significato e la raccolta di testi dei miti, spiegati poi dall’antropologo.
La commitee di quell’epoca fu una delle tante istituite e la sua importanza deriva dalla
selezione degli uomini per il lavoro sul campo.

1.5 Lo “studio intensivo” e il metodo genealogico


L’utilizzo dei questionari come metodo di ricerca enfatizzò l'importanza del lavoro sul campo
per raccogliere informazioni più dettagliate.
Gli studiosi iniziarono a sentire l’esigenza di verificare personalmente i dati della riflessione
teorica e a considerare che gli scienziati dovessero diventare essi stessi raccoglitori di
informazioni.
I limiti dei questionari furono preso evidenti. Le domande si dimostrarono difficili da porre da
parte di persone che non conoscevano bene le lingue native.
I raccoglitori spesso non ne comprendevano l’importanza.
Dunque, era necessario articolare più coerentemente le componenti empiriche e teoriche
della ricerca etnografica e per sostituire il metodo della conoscenza dell’armchair.
Un forte sviluppo della pratica etnografica si ebbe grazie a due scienziati, Alfred Cort
Haddon e Willian Halse Rivers.
Haddon iniziò ad interessarsi a questioni antropologiche in seguito alla sua partecipazione
alla Torres Straits Expedition del 1888.
Nel primo viaggio, Haddon era interessato alla distribuzione geografica delle forme di vita e
a studiare la struttura e la formazione delle scogliere coralline. La frequentazione dei nativi lo
portò a sviluppare interessi etnografici dapprima solo secondari po preponderanti. La gran
quantità di informazioni etnografiche raccolte vennero pubblicate al suo ritorno sul Journal of
the Anthropological Institute.
Ritenendo i suoi dati etnografici non sufficienti per la pubblicazione di una monografia,
progettò una seconda spedizione allo stretto di Torres, dedicata solo alla raccolta di dati
etnografici. La seconda spedizione è di fondamentale importanza nella storia
dell’antropologia. Haddon raggruppò un gran numero di studiosi ciascuno con la propria
specificità disciplinare, per superare i limiti del naturalismo e favorire i metodi della
psicologia sperimentale.
La spedizione fu importante perché le persone furono iniziate all’antropologia e per gli
sviluppi delle tecniche etnografiche. Haddon riuscì a riunire un équipe composta da Rivers di
Cambridge, dal medico Seligman, dal musicologo Meyers, dal linguista Ray e dal fotografo
Wilkin.
La ricerca produsse sei volumi di dati etnografici, numerosi articoli, insieme al materiale
utilizzato da Haddon e per i libri successivi da Seligman. Tutto questo materiale contribuì al
riconoscimento dell’antropologia come materia accademica.
L’effetto più rilevante della partecipazione di questi studiosi con una formazione scientifica fu
l’impulso che ricevettero le problematiche legate a questioni metodologiche. Haddon
sostenne l’esigenza di nuove investigazioni sul campo in opposizione ai raccoglitori,
enfatizzò il bisogno di ottenere i dati dai nativi tramite paziente simpatia. Questo metodo
venne definito da Haddon come “intensive study” e riguarda lo studio della natura,
dell’origine e la distribuzione delle razze e delle popolazioni di una regione e la loro
posizione nello sviluppo.
Dopo questa spedizione, Rivers e Seligman divennero le figure guida dell’antropologia
britannica. Seligman nel 1903 ritornò in Nuova Guinea e po andò in Sudan, dove cercò di
analizzare lo sviluppo della civilizzazione a partire dall’antico Egitto. Rivers fece ricerche in
Egitto, fra i toda, in India e in Melanesia.
Nel 1922 Rivers er ail principale antropologo britannico. Da un punto di vista storico, può
essere considerato il fondatore dell’antropologia britannica, avendo stimolato la nascita della
scuola funzionalista. Nella spedizione di Torres, Rivas aveva il compito di analizzare la
percezione spaziale e dei colori. Il suo contributo maggiore fu in campo metodologico,
poiché sviluppo il metodo genealogico che si fonda su un approccio riduzionista mediato
dalle scienze naturali: considera che la struttura sociale elementare di ogni gruppo possa
essere rilevata dalla terminologia di parentela.
Il metodo genealogico rappresenta uno schema in cui collocare i membri di un gruppo e a
cui riferire una vasta gamma di informazioni etnografiche. Per ogni individuo nella
genealogia le informazioni riguardano la località di origine e di residenza, il totem, il clan ecc.
Da qui si potevano formulare le regole del matrimonio, il conflitto fra le pratiche culturali e la
pratica reale. I dati raccolti potevano essere usati per analizzare i modelli di eredità, le
migrazioni, i ruoli rituali, la demografia e altro.
Il contributo di Rivers fissò un nuovo standard per lavorare sul campo, egli dichiarò
esplicitamente l’importanza dello studio delle lingue e delle categorie native e pose grande
enfasi sulla necessità di valutare le parole degli interlocutori sul campo piuttosto che
pressarli con interviste.
A tal fine, Rivers sentì il bisogno di un nuovo stile etnografico, fondato su studi intensivi a
lungo termine, maggiormente sensibile alle difficoltà della traduzione culturale.

Capitolo 2. La magia di Malinowski

2.1 La rivoluzione etnografica

All’inizio del XIX secolo, grazie ai lavori di Haddon e Rivers, il metodo della conoscenza
diretta aveva sostituito l’antropologo armchair.
Nonostante gli apprezzabili risultati, le esperienze della scuola di Cambridge non furono
decisive nello sviluppo del metodo antropologico.
Lo stesso Rivers si allontanò dal lavoro intensivo sul campo dedicandosi al metodo
genealogico.
Successivamente, Rivers trascorse diversi mesi nelle isole Salomone occidentali dove
raccolse dati tramite delle interviste a informatori e si interessò alla ricostruzione della storia
globale delle migrazioni e dei processi di prestito culturale.
L’origine della moderna tradizione di ricerca etnografica viene fatta risalire al lavoro di
Malinowski nelle isole Trobriand fra il 1916 e il 1918.
La prospettiva boasiana, dominante negli Stati Uniti, non segnò una rivoluzione etnografica
paragonabile a quella di Malinowski. Difatti, egli trascorse lunghi soggiorni sul campo,
mentre Boas non praticò ricerche continuative.
Boas criticò molto la scarsa qualità dei dati raccolti dagli antropologi armchair o prodotti dal
metodo della survey. Tuttavia, il suo lavoro sul campo si basò su un gran numero di brevi
visite.
Boas studiò le culture native empiricamente attraverso la collezione di artefatti e la
registrazione di testi nelle lingue native. Egli si serviva di interlocutori istruiti a leggere e
scrivere le informazioni nella lingua nativa.
A differenza degli altri antropologi, il lavoro sul campo di Malinowski era stato preceduto da
una specifica formazione professionale in antropologia.
Grazie a Seligman, nel 1914 Malinowski è stato assunto come segretario della sezione
antropologica della British Association, dove esprime ben presto la sua insoddisfazione che
lo porterà ad elaborare il suo successivo stile etnografico.
Durante il suo primo soggiorno a Mailu, i suoi diari rivelano che non visse nel villaggio locale
e rimase sul campo solo per brevi periodi, durante i quali utilizzò le categorie delle Notes
and Queries e la sua aspirazione era quella di sviluppare il metodo genealogico di Rivers.
Solamente nelle Trobriand, Malinowski iniziò a mettere in pratica ciò che aveva pensato
dopo l’esperienza a Mailu e sviluppò il metodo che divenne il segno distintivo
dell’antropologia.
Il lavoro sul campo di Malinowski nelle isole Trobriand rappresenta per la tradizione
antropologica una sorta di esperienza modello. In base ad essa, Malinowski è diventato il
prototipo dell’antropologia, incarnando l'ideale professionale basata sulla conoscenza diretta
dell’oggetto di studio e sulla caratteristica di ricercatore sul campo e di teorico.
Su queste basi Malinowski è diventato il portavoce della rivoluzione metodologica e la sua
ricerca nelle isole Trobriand è considerata un contributo che rivoluzionò gli scopi
dell’antropologia.

2.2 Pratica etnografica e teoria funzionalista


Malinowski era cosciente della novità che voleva introdurre.
Dai diari è chiaro che durante il suo lavoro sul campo era interessato principalmente a
questioni metodologiche.
Nel capitolo introduttivo della sua monografia enfatizza il suo metodo di ricerca nelle
Trobriand e polemizza il dilettantismo dei precedenti etnografi.
Espone, dunque, le linee metodologiche da seguire per poter condurre correttamente una
ricerca sul campo.
Nel capitolo intitolato “Oggetto, metodo e fine della ricerca”, sintetizza i principi del moderno
metodo sociologico di ricerca sul campo.
In primo luogo, rileva che l’etnografo deve conoscere i principi, le finalità e i risultati della
ricerca scientifica moderna.
In secondo luogo deve vivere fra le persone e deve applicare metodi speciali per raccogliere
ed elaborare i dati.
Per quanto riguarda le finalità della ricerca, Malinowski sostiene la necessità di descrivere i
lineamenti dei costumi nativi e le leggi della vita tribale, attraverso il metodo della
documentazione statistica.
Tale metodo implica la raccolta, attraverso domande dirette, di genealogie, dettagli sulla
tecnologia, censimenti dei villaggi ecc.
Malinowski sostiene che sia necessario avere una quantità sufficiente di dati tra loro
confrontabili per ottenere una visione completa della società e della cultura studiata.
Questo obiettivo può essere raggiunto tramite delle “tavole sinottiche” e carte mentali
fondate sul riconoscimento dei principi della cultura dei nativi nei loro comportamenti.
Inoltre, vivere con i nativi deve avere lo scopo di raccogliere dettagli della vita quotidiana
vissuta dai nativi e osservati dall’ etnografo.
Infine, l’ultimo obiettivo richiede all’etnografo di acquisire competenze nella lingua locale
registrando le espressioni quotidiane, le formule magiche e i miti per illustrare i modi tipici di
pensare e sentire dei nativi.
Questi principi permettono di raggiungere l’obiettivo finale dell’etnografia, cioè comprendere
il punto di vista del nativo, il suo rapporto con la vita, tenendo conto della sua visione del
mondo.
Il metodo di Malinowski ha portato una rivoluzione nello stile di lavoro sul campo, infatti non
si fonda su reali regole o prescrizioni, quanto sul fatto di porre se stessi in condizioni
favorevoli per lavorare; pertanto, l’etnografo si collocherebbe in armonia con il suo contesto,
imparando a comportarsi e prendendo parte alla vita del villaggio.
Tali principi non erano nuovi, Malinowski stesso non fu il primo a vivere fra i nativi,
osservando le loro vite e i loro punti di vista.
Il valore del suo lavoro deriva dalla presenza di un contesto accademico, pronto a recepire
le questioni metodologiche da lui sollevate, e dall’aver collocato le sue ricerche all’interno del
paradigma teorico funzionalista.
Secondo Leach, il contributo fondamentale di Malinowski consisteva nella convinzione
teorica che i dati e le informazioni raccolte sul campo fossero interconnesse.
Con Malinowski, l’antropologia cominciò ad interessarsi sempre più a rappresentare una
cultura in modo il più possibile completo.
La natura di questo aspetto consisteva nel fornire un’immagine complessiva di un modo di
vita osservato da vicino e nel concettualizzare gli elementi della cultura per fare connessioni
sistematiche tra esse.
Il funzionalismo non fu solo una teoria generale, ma una teoria del lavoro sul campo.
Malinowski riconobbe l’interconnessione fra lavoro sul campo e teoria, affermando che il suo
funzionalismo era una teoria riconduceva sempre al campo.
Il funzionalismo fornì una serie di principi metodologici per fare e scrivere l’etnografia. Tali
principi si fondavano sul modo in cui una credenza o istituzione è interrelata con altre e
contribuisce alla persistenza del sistema socioculturale.
Negli Argonauti, i suoi diari, Malinowski sostiene che il primo obiettivo della ricerca è fornire
un profilo chiaro dell’organizzazione della società che si studia e di produrre un quadro di
come i vari aspetti di essa costituiscono un insieme articolato.
In tal senso, enuncia il principio guida della prospettiva funzionalista, un approccio olistico
che connette le parti alla totalità e a considerare l'oggetto di indagine da un punto di vista
globale. Pertanto, le informazioni andavano raccolte sotto forma di tavole o carte per poter
stabilire interrelazioni fra loro.

2.3 L’osservazione partecipante


Il metodo dell’osservazione partecipante è parte integrante e necessaria dell’analisi
funzionale e implica che le ricerche siano concentrate su singole popolazioni, al fine di
permettere la comprensione dei significati culturali e della struttura sociale del gruppo e di
tutte le interrelazioni funzionali tra credenze e costumi.
Tale metodo è diventato, per gli antropologi delle generazioni successive, un vero e proprio
credo e un rito di passaggio che segna l’identità professionale del ricercatore, definendo il
comportamento ideale dell’antropologo sul campo.
L’osservazione partecipante consiste in un singolo ricercatore che trascorre un lungo
periodo di tempo fra le persone che intende studiare, padroneggiando la lingua e
immergendosi nelle attività quotidiane. Ciò è per ottenere una comprensione completa dei
loro significati culturali e delle strutture sociali.
Secondo Malinowski, l’etnografo deve cogliere il punto di vista del nativo tramite la sua
esperienza emotiva e soggettiva: Affinché egli riesca a raggiungere tale obiettivo, deve
mettere da parte il proprio sapere per elaborare una descrizione oggettiva dei fenomeni.
In questo modo, la rappresentazione prodotta deve essere oggettiva, riproducibile e
verificabile.
Il metodo si concentra nel ridurre al minimo la distorsione che può essere introdotta dalla
figura dell’etnografo sul campo. Pertanto, Malinowski affermò la necessità di estesi periodi di
lavoro sul campo per minimizzare il problema della reattività e l’effetto distorcente della
partecipazione dell’antropologo che stabilisce un rapporto naturale con gli interlocutori.
Per Malinowski, l’osservazione diretta sul campo è la sola fonte attendibile di informazione
etnografica, poiché è l’unico mezzo che favorisce la descrizione dell’interconnessione degli
elementi della totalità sociale e culturale.
L’osservazione partecipante ha prodotto delle modalità specifiche di scrittura: implica che le
ricerche siano concentrate su singole popolazione e che i risultati siano esposti tramite il
modello della monografia.
La formula monografica si fonda sull’osservazione partecipante elaborata nel lavoro di
Malinowski nelle isole Trobriand e designa una particolare forma di produzione testuale
consistente nella ricostruzione di un intero modo di vita nella sua globalità.
La monografia etnografica è organizzata attorno a particolari convenzioni stilistiche e
retoriche; in essa predominano il registro descrittivo osservatorio-visuale. La forma
discorsiva è impersonale, legata alla neutralità dell’autore, mirante alla produzione oggettiva,
attraverso la registrazione di dati incontaminati.
Malinowski si è servito di un approccio sincronico, attraverso l’utilizzo del cosiddetto
presente etnografico, che implica l’uso del presente per descrivere le attività delle persone.
In tal modo, la società viene colta in un punto del tempo e dello spazio che si presuppone
rappresentativo e invariato.

2.4 I limiti degli Argonauti: i diari

L’etnografia funzionalista di Malinowski ha permesso di concentrarsi su resoconti dettagliati


di singole culture, ma basava la sua tecnica sulla collezione non problematica di dati e sulla
descrizione culturale da un punto di vista esterno e oggettivo.
Anche il modello dell’osservazione partecipante implica un equilibrio fra oggettività e
soggettività. L’esperienza personale dell’etnografo è centrale per il processo di ricerca ma
fortemente limitata dagli standard impersonali dell’osservazione e dalla distanza oggettiva.
La soggettività dell’autore è separata dagli oggetti del testo; il metodo si fonda sulla
concezione "realista" dell’osservazione derivata dalle scienze naturali, per cui gli oggetti
d’osservazione sono empiricamente osservabili.
L’osservazione partecipante non costituisce la definizione di un metodo, ma una
rappresentazione della situazione di ricerca, una strategia che facilita la raccolta dei dati sul
campo.
Malinowski non ha definito reali istruzioni, oltre al porsi nella situazione di realizzare
l’esperienza di ricerca. Le sue tecniche sul campo sono simili a quelle adottate
precedentemente, solo che quelle di Malinowski erano realizzate all’interno del villaggio dei
nativi.
Dai suoi due diari, emerge che Malinowski non era affatto un uomo capace così come si
pensava, ma un uomo contorto e preoccupato, in quanto egli rivela un profondo disagio,
caratterizzato dalle difficoltà e dalla frustrazione del lavoro, dallo smarrimento e dalla
solitudine. Inoltre, la natura del lavoro antropologico esclude una totale immedesimazione,
bensì si fonda sull’ insuperabile differenza che vi è tra antropologo e nativo.
La pubblicazione dei diari ha spinto gli antropologi a vedere le cose in termini diversi dal
modello del ricercatore empatico. Dopo di essi, la riflessione antropologica ha trovato
difficilmente un equilibrio tra coinvolgimento diretto e mantenimento del distacco
nell’osservazione.
L’osservazione partecipante si è così rivelata essere altamente contraddittoria, in quanto da
un lato il principio implica che l’antropologo si immerga nella cultura dei nativi e impari a
comportarsi in modo adeguato. Dall’altro lato, pretende che l’antropologo conservi il distacco
necessario dal proprio oggetto di studio per poter raccogliere i dati.
La partecipazione implica una forma di coinvolgimento e ciò rende impossibile il distacco
sufficiente per osservare.
Da un punto di vista metodologico, il concetto di osservazione partecipante viola la
separazione fra soggetto e oggetto e rende problematico che l’oggetto di ricerca esista
indipendentemente nel mondo esterno.
La reale pratica etnografica di Malinowski si è concentrata soprattutto sull’osservazione
piuttosto che sulla partecipazione, rivelandosi un monologo sull’altro e non un dialogo con
l’altro.
Nonostante i presupposti teorici rivelati negli Argonauti, Malinowski sembra essere stato un
partecipante alla vita trobriandese e un interrogatore tollerato a fatica dai nativi. Egli stesso
spiega nei suoi diari che la sua partecipazione era fortemente limitata, in quanto per
partecipare alle attività native implicava una predisposizione fisica e parità sociale.
Nel 1914, quando Malinowski arrivò in Nuova Guinea, le relazioni fra gli amministratori
coloniali europei e i nativi erano irrigidite in una struttura stratificata di dominio e
sfruttamento del lavoro. In tali condizioni era impossibile immaginare una possibile parità
sociale. In Nuova Guinea Malinowski si ritrovò in una situazione difficile per svolgere
ricerche e i suoi diari rivelarono che incontrò risposte negative e antagonistiche, poiché i
nativi lo ostacolavano e lo ingannavano. Gli scritti di Malinowski rivelano anche una forte
critica nei confronti dei colonizzatori per la loro insensibilità e ignoranza.
Gli antropologi hanno sempre operato nel contesto di relazioni simmetriche e gerarchiche fra
i membri di società diseguali.
Nelle isole Trobriand, la società era fortemente stratificata e centralizzata politicamente e
qualsiasi tipo di associazione con i nativi su una base di parità sarebbe stata considerata un
attacco alla struttura di casta e un tradimento ai sentimenti di solidarietà fra le classi
superiori. In Malinowski non vi era nessun desiderio di parità sociale, difatti i popoli primitivi
erano considerati rappresentanti di un’epoca passata, studiati non per il loro valore. Infatti,
Malinowski si riferiva ai trobriandesi come “selvaggi”, “Stone age men” o “nigger”.
Dal punto di vista teorico li considerava paritariamente umani, ma nell’interazione quotidiana
si considerava membro di un’élite.
Dai diari emerge anche che Malinowski si stabilì nel villaggio come un lord in grado di
parlare e osservare con i trobriandesi ma non di partecipare alle loro attività.Dunque, non si
interessò molto al punto di vista del nativo, ma alle regolarità, agli stereotipi, parlando
dell’altro come oggetto e non soggetto.
In tal senso, sembra presentarsi come il classico informatore che, nell’antropologia
contemporanea, viene definito come un interprete originale della propria cultura.
La mutata configurazione delle culture e dei rapporti interculturali nel mondo
contemporaneo, il superamento della distinzione tra società letterate e illiterate ha portato
alla trasformazione del modello monologico, che è diventato dialogico basato sulla
prospettiva dell’antropologo e quella dei suoi interlocutori.

1.5 Oltre Malinowski


Il lavoro di Malinowski cambiò l’antropologia, diventando il punto di riferimento della
disciplina.
Per un lungo periodo molti professionisti dell’antropologia continuarono con le pratiche a
tavolino e a mantenere una grande distanza con i nativi.
In Gran Bretagna, la nuova antropologia fu repressa dalle classi dirigenti di Oxford e
Cambridge e i pochi studenti di antropologia si riunirono alla London School of Economics.
Da ciò nacque la nuova generazione di monografisti sensibili alle teorie di Radcliffe-Brown e
alle sue indicazioni di spostare la focalizzazione dalla cultura alla struttura sociale. Tutta la
produzione antropologica anglofona, britannica e statunitense, fra gli anni quaranta e
settanta, può essere considerata come un tentativo di applicare le teorie di Radcliffe-Brown.
Tali teorie prevedevano un disinteresse del lavoro sul campo.
Il soggiorno di Radcliffe-brown a Chicago influenzò la tradizione statunitense, dominata da
Boas. Le ricerche di Boas erano condotte fra gli indiani nordamericani con brevi visite
frequenti a interlocutori. Le registrazioni della memoria attraverso testi e resoconti dettagliati
delle lingue, delle religioni, delle mitologie, vennero pubblicate sotto forma di articoli separati.
Il lavoro samoano della Mead nel 1926 è la prima etnografia americana in senso
malinowskiano, basata sull’osservazione partecipante.
A differenza di molti studenti di Boas, MEad fece la sua prima esperienza etnografica fuori
dagli Stati Uniti, in Melanesia e a Samoa. Verso gli anni trenta, l’antropologia americana
cambiò, sviluppando i presupposti boasiani e concentrandosi maggiormente sull’analisi dei
dati. La nascita degli studi di cultura e personalità sollevò nuove questioni e stimolò lo studio
delal cultura attraverso l’analisi degli individui, adottando una metodologia psicologica.
Le lezioni di Radcliffe-Brown esercitarono un forte impatto su un gruppo di antropologi e
studenti statunitensi., orientarono molti antropologi ad applicarsi a ricerche di stampo
sociologico.
Furono inaugurati lavori etnografici su studi di comunità industriali e contadine in America
Latina.
Tali studi promossero la consapevolezza che non solo le comunità contadine, ma tutte le
società che gli antropologi studiano fossero parte di un mondo sempre più complesso.
In Francia, la riflessione metodologica fu ostacolata da una forte ideologia di divisione del
lavoro fra raccoglitori dei dati sul campo e i teorici.
Le principali figure per lo sviluppo dell’etnografia non fecero ricerca sul campo, come Marcel
Mauss, e non produssero una metodologia influente.
Mauss fu un grande promotore degli studi sul campo.
Egli privilegia il lavoro di gruppo e i metodi documentari multipli da parte di una varietà di
osservatori.
Arnold Van Gennep fu il primo importante ricercatore sul campo della tradizione francese. Il
suo obiettivo era quello di riformare il folklore trasformando un interesse per gli arcaismi e le
sopravvivenze in una vera e propria antropologia della Francia.
Marcel Griaule ebbe una passione per la ricerca sul campo che promosse come una forma
scientifica di viaggio e esplorazione. Egli articolò le sue attività di ricerca con scarsi interessi
per l’elaborazione teorica. Agli inizi delle sue ricerche gli elaborò il metodo di Maus
interessato a cogliere il fatto sociale totale e l’integrazione fra parti e tutto.
Coniuga l’etnografia al lavoro di gruppo finalizzato alla raccolta di materiali per i musei.
Privilegiò la fotografia aerea, la cartografia, le mappe e utilizzò l’approccio aggressivo di un
inquisitore o di un giudice istruttore piuttosto che quello di un investigatore.
Solamente a partire dagli anni 50, Griaule modificò il suo approccio superando tale metodo e
il lavoro di gruppo, considerato un fallimento.
Il suo rapporto con Ogotemeli inaugura un nuovo stile di ricerca che riconosce l’importanza e
l’autorità degli informatori e adotta una posizione mista tra quella del portavoce e quella che
trascrive, traduce e interpreta.

Capitolo tre: la negoziazione dei significati: il campo e il testo

Negli anni 70 si è avuto un profondo cambiamento nella riflessione metodologica e nella


pratica etnografica. Diverse prospettive avevano messo in discussione le basi teoriche e
politiche della disciplina insieme alle stesse possibilità di esistere. Le accuse di collusione
con i poteri imperialisti, il coinvolgimento in programmi governativi avevano minato le
fondamenta etiche dell’antropologia. Alcune posizioni arrivarono a predirne la fine a causa
dell’esaurimento di un oggetto di studio, che veniva identificato in società isolate. Viene
riconosciuta l’esigenza di reinventare l’antropologia e richiamarla alle proprie responsabilità
etico politiche. Un testo importante fu reinventing cultures, che invitò la disciplina a occuparsi
dei problemi del mondo contemporaneo. Lo sviluppo della antropologia femminista fece
emergere questioni cruciali della simmetria fra sessi e la subordinazione femminile. La
pubblicazione nel 1973 di una collezione di saggi intitolati di Interpretations of cultures, da
parte di Gertz, fornì la base agli antropologi per la riflessione su questioni epistemologiche e
metodologiche di fondo. Questo rappresenta una risposta alla crisi delle scienze umane, è
un processo di riappropriazione dello studio del significato del punto di vista di nativi, i quali
sono oggetti centrali per la ricerca antropologica. L’autore del testo segnò con esso la sua
importanza nello sviluppo dell’etnografia. Il suo lavoro metodologico si fonda sul
superamento delle ortodossie preminenti e mette in discussione l’ossessione con il mito del
metodo scientifico univoco e la confidenza nel adeguatezza degli strumenti teorici, i quali
avevano guidato l’antropologia fino a quel momento. Tra tali strumenti si trovano il principio
di oggettività e di conoscenza come rappresentazione, la separazione fra soggetto e oggetto
e fra teoria e dati. Gertz critica i progetti degli scienziati sociali che avevano riposto
sicurezza sul fatto di avere un saldo fondamento. Egli invita ad abbandonare i tentativi di
costruire teorie generali come la spiegazione ipotetico deduttiva e la divisione fra teoria e
osservazione, oltre che la divisione tra antropologia ed etnografia. Egli si oppone alla
riduzione della cultura a oggetti suscettibili di una trattazione tipologica mirante alla
formazione di una sintassi universale di sistemi culturali. l’etnografia di Gertz tende a
problematizzare la prassi etnografica e a trasmettere il senso delle condizioni del lavoro sul
campo e della traduzione attraverso i confini culturali linguistici. Intende mostrare la concreta
attività di ricerca. La principale caratteristica delle sue revisioni consiste nella riscoperta della
dimensione ermeneutica, in quanto teoria del segno delle significazioni equivoche e
polisemiche. Ciò significa riconoscere che le espressioni, le azioni umane contengono una
componente significativa, riconosciuta dal soggetto che produce e vive in un certo sistema di
valori e di significato. Significa anche riconoscere che le scienze interpretative sono
costituite da modelli attraverso i quali costruiscono i loro referenti, dunque gli oggetti non
sono visti come enti dotati di proprietà indipendentemente dal punto di vista di chi li conosce,
ma il soggetto non è neutro, bensì storico, inserito in una forma di vita e fondato sulla sua
cultura e sul suo sapere. Vi è un superamento del concetto della soggettività e
dell’oggettività del comprendere, in direzione del riconoscimento della reciproca
appartenenza fra soggetto e oggetto.

3.2
Il simbolo è il nucleo dell’idea guida dell’antropologia di Gertz. Egli pone al centro del suo
lavoro il tentativo di creare una scienza dell’azione simbolica, la quale si impegna allo studio
dei simboli nei termini nei quali gli individui e gruppi vivono, di come vengono comunicati e
riprodotti. Egli elabora una fenomenologia scientifica della cultura, che si fonda sull’analisi
dei modi in cui la struttura di significato è recepita dagli attori sociali. Alla base dell’analisi c’è
il concetto di comportamento significativo, orientato in senso soggettivamente inteso. La
ricaduta metodologica riconduce il comportamento alla gente e lo considera significativo
riferendolo agli scopi e valori sui quali questo fonda le sue azioni. L’analisi dei sistemi
simbolici è dunque orientata rispetto agli attori. L’interpretazione di Gertz va
dall’oggettivazione di forze della vita alle connessioni psichiche, con il presupposto che
l’accesso all’altro possa avvenire solo attraverso i suoi significati e la sua analisi etnografica
si fonda sulle premesse dell’attore e sulla loro relazione all’azione e ai significati contestuali.
Il problema centrale dell’analisi di Gertz è la comprensione del modo in cui i nativi pensano,
con l’obiettivo di analizzare i significati soggettivi che costituiscono le azioni degli individui
nel mondo sociale. Per Gertz l’azione ha un significato simbolico, è un simbolo significativo
grazie all’attività dell’uomo, poiché il significato non è intrinseco agli oggetti ma è imposto su
di essi e la spiegazione va ricercata in quello che l’impone, ossia gli uomini che vivono in
società. il concetto di interpretazione è un procedimento complesso attraverso il quale
l’uomo interpreta il significato delle sue azioni e di quelle di coloro che interagiscono con lui.
Serve ad analizzare il punto di vista dell’attore collocando l’azione in relazione alla
configurazione di ideali attitudini e valori. Il senso soggettivo e simbolico è l’interpretazione e
la comprensione della rete simbolica che fornisce senso all’esperienza umana. Questo
aspetto viene definito descrizione densa ed invita alla ricostruzione dei livelli di significato
non espliciti nelle prospettive degli attori. Rappresenta la ricerca dei sistemi astratti o
versioni del mondo o contesto, come lo definisce Saussure, al cui interno ascrivere
densamente eventi sociali. L’analisi è orientata verso gli attori considerando il loro punto di
vista. È soltanto in funzione di una convenzione simbolica che possiamo interpretare il
significato di un’azione. lo stesso gesto di alzare il braccio può essere inteso come forma di
saluto o espressione di un voto. La prospettiva è linguistica e comunicativa. Il linguaggio è
soltanto un medium per l’espressione del senso soggettivo che può esprimersi solo in
simboli. Secondo Ricoeur nell’analisi linguistica si coglie il segno in cui l’uomo dice il suo
fare. Il punto di vista del nativo è l’equivalente linguistico di ciò che è vissuto e si deposita
nel linguaggio sotto la forma di dichiarazione di intenzione. Gli atti culturali in quanto
apprendimento e utilizzazione di forme simboliche, sono avvenimenti sociali pubblici e
osservabili. Secondo Gertz il significato coincide con l’uso. Egli ha così elaborato una
scienza empirica delle idee, considerando il pensiero umano intersoggettivo sociale e
pubblico, un traffico di simboli significanti. L’analisi del significato soggettivo coinvolge
l’enunciato pubblico dell’azione. Comprendere non significa rifarsi all’intenzione dell’autore
attraverso rapporti empatici. Non è possibile che il soggetto annulli il proprio essere per
cogliere l’oggettività attraverso magie etnografiche. La completa immedesimazione è
dunque impossibile perché anche gli antropologi, in quanto umani, sono fondati sulla loro
cultura e sul loro sapere.
3.3
La revisione di Gertz delle discipline sociali si fonda sulla riscoperta della dimensione
ermeneutica, in quanto teoria del segno con enfasi sulla comprensione, interpretazione e
carattere costruttivo della conoscenza. La stessa attività conoscitiva non è una semplice
riproduzione di dati ma un’attività formatrice che dà significato e valore ai fenomeni. I testi
antropologici sono fabbricati, finzioni. Gertz esclude la possibilità di un’analisi oggettiva dei
fenomeni sociali indipendente dalle prospettive teoriche. La scienza viene ricondotta
all’uomo e alla sua capacità di dare senso al mondo: è fenomenotecnica, come la definisce
Bachelard. Gertz rimanda i suoi modelli di riferimento alla scienza contemporanea che
restituisce immagini complesse e disordinate di un mondo di oggetti non assoluti. Anche gli
oggetti delle scienze dure, come della fisica subatomica, non possono essere pensati da un
punto di vista individualizzante. Per Gerz se non c’è differenza tra etnografia, intesa come
descrizione rappresentativa, e antropologia, intesa come elaborazione teorica. Già il
commento descrittivo e l’osservazione sono momenti carichi di teoria. Ogni percezione
consapevole è un atto di riconoscimento, in cui viene accoppiato un oggetto sullo sfondo di
un simbolo appropriato. Gli oggetti non sono neutrali, ma costrutti artificiali. Secondo Gertz
soggetto e oggetto sono legati dall’evento storico della pre comprensione. C’è una
complicità ontologica fra essi fondata sulla tradizione e sul linguaggio. Il circolo ermeneutico
implica una relazione circolare fra teoria e referenti, un legame di coappartenenza tra i punti
di vista di antropologo e nativo. Le loro interpretazioni si fondono e si richiamano. Le une
non possono essere comprese senza le altre. La metafora della cultura come testo, porta ad
interessarsi a come le interpretazioni vengono costruite da parte dell’antropologo. Il lavoro
dell’etnografo consiste nel trovare risorse nel suo linguaggio senza imporre pregiudizi.
Comprendere ed interpretare sono movimenti che si basano su un costante rinnovarsi del
progetto: l’interpretazione implica la revisione continua dell’ipotesi preliminari. Il circolo
ermeneutico costituisce un meccanismo che costringe l’antropologo a prendere in esame e
a risolvere i problemi che sorgono nel quadro dell’interazione e del dialogo con i propri
interlocutori. Il dialogo si fonda sull’esplicitazione delle proprie deformazioni e fallimenti, che
sono modalità euristica della ricerca e fondamento della riflessività.
Elaborazione teorica è un processo dinamico e aperto. Le interpretazioni antropologiche
sono diverse dai resoconti di nativi. La forza dell’interpretazione risiede nello scarto che
consente all’analista di costruire il senso. Lo scopo dell’antropologia interpretativa è quello di
raggiungere una comprensione diversa rispetto all’immediato intendimento dell’attore. Il
punto di vista del nativo è sempre mediato. Ciò che dicono non sono verità culturali, ma
risposte circostanziati alla presenza e alle domande dell’etnografo. Gli interlocutori stessi
non sono neutrali ma interpreti originali della propria cultura con una limitata conoscenza
determinata da diversi fattori. L’immersione nel mondo degli interlocutori e scientifica nella
misura in cui riesci a tradurre il linguaggio privato nel linguaggio pubblico e i concetti vicini
all’esperienza nei concetti distanti. L’antropologo non deve limitarsi al punto di vista del
nativo e non deve imporre il suo. l’antropologo secondo Gertz lavora con interpretazioni e
interpretazioni di interpretazioni. I risultati sono stratificazione di quello che l’etnografo ha
registrato e di quello che è stato in grado di comprendere, oltre a quello che gli è stato detto
dai suoi interlocutori. La negoziazione e dialogicità sono articolate e complesse accadendo
a diversi livelli e tra diverse fonti di informazione.
3.4
La restituzione testuale di un’esperienza sul campo si basa su significati che vengono ma
mano scoperti e creati attraverso complesse negoziazioni. La soggettività dell’antropologo è
parte integrante del rapporto con l’altro e dell’esperienza umana che cerca di comprendere.
L’accesso all’altro è sempre mediato dalla propria appartenenza una comunità linguistica e
storica. L’etnografo pone se stesso come oggetto di analisi e l’osservazione di sé si affianca
all’osservazione dell’oggetto in un’esperienza che si avvicina all’autoanalisi dello
psicanalista. Vediamo gli altri attraverso noi stessi e noi stessi attraverso gli altri, secondo
due caratteristiche intrinseche al discorso antropologico: bifocalità e riflessività. Il campo di
ricerca non può essere pensato come contenitore generico, esso è il luogo simbolico di
costruzione di senso, saturo di documenti, che determina le caratteristiche di un’esperienza
relazionale. L’antropologo è l’informatore sul campo partecipano ad una working fiction in cui
condividono un mondo di significati che potrebbe crollare in ogni momento. L’analista è
posizionato in questa arena in cui le prospettive e le identità che si configurano nel reciproco
riconoscimento determinano la qualità dei discorsi. Svincolando la scienza dal dominio della
verità questa è caratterizzata dei propri meccanismi di reclutamento ed è ricondotta al
mondo della vita, un’arena dominata da lotte fra gruppi e impegni di gruppo. Questo principio
può essere letto nei termini del materialismo storico Marxiano per dimostrare come le
scienze della classe dominante sono in ogni epoca le scienze dominanti.
L’idea che la descrizione culturale è conoscenza modellata costringe ad assumere la
responsabilità di ciò che si dice o scrive.
3.5
Il ricercatore ha un ruolo fondamentale. L’etnografo non può rinunciare alla propria autorità,
che autorizza i suoi discorsi che si manifestano nella scrittura. Un ruolo fondamentale ha la
funzione dell’autore. L’etnografo può rinunciare alla propria auto realità, ma per quanto
cerchi di rimpiazzare il monologo con il dialogo, il suo discorso rimane sempre asimmetrico,
infatti la relazione etnografo nativo è gerarchica. Il lavoro di campo è un’interlocuzione fra
prime e seconde persone, ma gli antropologi scrivono per terze persone. La scrittura è luogo
di tensione tra il testo etnografico e l’enciclopedia antropologica. La scrittura è parte della
prassi antropologica, e coincide con il potere di sottoporre la parola dell’altro a una serie di
elaborazioni inerenti al progetto dell’antropologia. L’etnografo nell’ annotare il discorso
sociale lo trasforma in un resoconto che si può consultare. I resoconti culturali hanno natura
artificiale, si tratta di una messa in intrigo. La scrittura non è mimesis ma poiesis. Ciò
concentra l’attenzione sulla natura storica dell’etnografia e sull’invenzione e non la
rappresentazione delle culture. La trasformazione della vita culturale in un testo è raggiunta
attraverso l’imposizione di schemi e limitazioni. Gli approcci interpretativi e geologici hanno
cercato di sottolineare la natura collaborativa della situazione etnografica, interessati alla
relazione fra le costruzioni dell’antropologo e quelle dei suoi interlocutori. Rifiutandosi di
usare forme impersonali cercano di rendere conto della sua soggettività attraverso la
specificazione del discorso, l’uso della prima persona e l’inserzione nel testo di memorie
personali. Sostituiscono ad un modello mono logico e mono fonico un testo polifonico in cui
l’autorità etnografica si fonda sulla negoziazione sul campo fra antropologo e informatore.
3.6
Numerosi autori hanno criticato l’approccio di Gertz in quanto fa emergere i significati ma
non i soggetti a: l’antropologo non viene considerato come attore sociale ed ha un ruolo
attivo solo nel momento della scrittura. Gli interlocutori poi sono assenti ho aggettivati in
modo generico e le loro costruzioni e spiegazioni sono ritenute spontanee, elaborate in
isolamento. L’interdipendenza fra antropologo e nativo è sostituita dall’interdipendenza fra
antropologo e un contesto autonomo. La scrittura etnografica di Gertz resta prigioniera del
dualismo fra soggetto e oggetto, non riuscendo a far emergere la relazione tra antropologo e
interlocutore. Gertz dal suo canto, contesta l’iper siti nazionalismo di Dwyer. Le numerose
citazioni e narrazioni sono separati dai resoconti aggettivanti e falliscono nel mettere in
relazione la soggettività il oggettività: l’esperienza personale e l’autorità scientifica. Dwyer
decurta l’antropologo e ne limita il ruolo a quello di intervistatore e redattore delle note a pié
di pagina. I testi si concentrano sul dire Lasciando parlare i nativi in un dialogo mono logico.
Gertz rifiuta questo Ventriloquio etnografico che assume l’esperienza dell’etnografo come
principale argomento di attenzione analitica. Tali approcci mettono al centro dell’attività
etnografica la sensibilità dell’antropologo piuttosto che le sue competenze. Gertz analizza
quella che Barthes chiama malattia del diario; egli sostiene che non si riesce ad emanciparsi
da una confessione che inghiottisse un informatore che entra da solo nella rappresentazione
per gli effetti che produce sull’etnografo. Il lavoro di crapAnzano è definito da Gertz come
psicanalitico, in quanto produce un’analisi oggettiva della vita marocchina da un punto di
vista neutrale e distante in cui anche il traduttore viene rimosso dalla restituzione testuale.
Diverse prospettive hanno ritenuto che i modelli del test del dialogo sono alla base di punti di
vista astratti. Il modello del testo produce una descrizione del discorso sociale come uno
statico e limitato insieme di significanti, il modello del dialogo invece, finisce con essere il
logo centrico e ignorare il contesto pragmatico dell’incontro con l’altro. Entrambi non tengono
conto dell’opacità che si presenta nel rapporto e considerano l’oggetto come una scena in
uno spazio figurativo piatto, trascurando i livelli e le temporalità del lavoro antropologico,
sovrastimano inoltre, la possibilità dell’interpretare e comprendere scientificamente ciò di cui
l’antropologo ha fatto esperienza.

3.7
I cambiamenti nello statuto scientifico del sapere hanno messo in crisi gli assunti
fondamentali su cui la pratica etnografica si è retta. L’autorità dell’antropologo non è più
legittimata dalla sua appartenenza una potenza coloniale. È venuta meno la separazione
spaziale e morale fra ricercatore e interlocutore: gli antropologi non lavorano più in contesti
isolati in cui erano padroni intellettuali di tutto ciò che avevano intorno. Le loro ricerche si
fondano sulle modalità con cui l’antropologo negozia la propria autorità sul campo, esse si
realizzano sotto lo sguardo di studiosi e specialisti di diverse discipline e di interlocutori
autorevoli. Diverse prospettive hanno sviluppato gli stimoli teorici mitologici di gertz aprendo
nuove strategie di ricerca.
Hanno inaugurato quella che è stata definita etnografia post-moderna, ossia un insieme
diversificato di posizioni che superano le prerogative delle concezioni moderne della scienza
aggiungendo influenze molto diverse, dalla linguistica alla filosofia. L’etnografia
post-moderna concepisce il ruolo della riflessività come strumento per realizzare le
potenzialità sperimentali della produzione etnografica e per analizzare le dimensioni etiche,
politiche e metodologiche. Questa colloca la scienza nei processi storici, linguistici e politici
che determinano le condizioni di produzione del sapere. Una serie di autori influenzati dal
testo writing culture del 1997, hanno dato un forte contributo alla riflessione su
l’inseparabilità di dimensione poetica e politica. Con loro la pratica etnografica ha preso
forma di un’analisi politica e intellettuale delle convenzioni retoriche e del modo in cui la
penetrazione dei processi modelli le prospettive locali. L’abbandono delle modalità di
pensiero essenzializzanti a portato a ripensare le modalità rappresentative, modificando
alcuni elementi del discorso antropologico.le dicotomie del discorso modernista come
modernità-tradizione sono state frantumate in articolazioni complesse. Si creano nuove
configurazioni, gli scienziati sociali articolano immagini di ecumeni globali e di panorami
etnici mettendo, in discussione il rapporto tra distanza e differenza. Vari prospettive
collocano il globale nelle sue articolazioni reali, locali e particolari, sottraendolo
all’universalità astratta. Le culture tradizionali vengono considerate nel loro coinvolgimento
trasformativo con la modernità, che viene frammentata nelle rielaborazioni micro moderne in
proliferazione. La realtà contemporanea viene pensata in termini complessi non omologanti.
Rifiutano i tentativi di promuovere un’ideologia felice della globalizzazione come qualcosa di
inevitabile e ne mostrano la complessità nelle pratiche e nemico processi quotidiani. Le
articolazioni sostituiscono all’idea di processi che dovrebbero rimpiazzare il tradizionale,
l’idea di una modernità multipla, intesa come insieme di realtà negoziali prodotte della
coappartenenza della modernità e della tradizione. Da queste prospettive gli attori post
moderni mostrano come le soggettività locali articolino appartenenze multi situate e
identificazioni multiple, sovrapponendo differenziazioni spaziali, culturali, economiche e
politiche. La critica post-moderna della disciplina ha assunto come problema principale
l’articolazione dei cambiamenti nel mondo contemporaneo con i concetti, le teorie e i metodi
della ricerca sul campo e di scrittura. Essa affronta il superamento degli insiemi culturali. Il
campo viene delocalizzato e diventa un modo di studiare che interessa l’interconnessione di
luoghi molteplici. Concependo l’oggetto post moderno come mobile e molteplice mente
situato, l’etnografia post-moderna si concentra sugli assemblaggi e le combinazioni di
elementi con diverse traiettorie temporali e differenti contesti di origine. E superando
l’identificazione del lavoro etnografico con il viaggio e la residenza, elabora etnografia
multilocale multi situate concepite per rappresentare la molteplicità. A diverse prospettive
fondono la centralità dell’elemento riflessivo del lavoro sul campo sul piano pragmatico ed
esperienziale, piuttosto che sul rapporto cognitivo il logo centrico. La caratteristica principale
dell’antropologia contemporanea non è lo studio di uno specifico tipo di società. Essa rifiuta
di definire il proprio oggetto di studio marcando in modo negativo tutto ciò che non è
moderno e oltrepassa la trasformazione della modernità in oggetto di scienza, studiandone
le forme di razionalità e le strategie di occultamento della propria culturalitá. L’antropologia
contemporanea elabora un approccio trasversale, alternativo alla limitazione dello studio alle
società complesse o alle antropologie native o indigene. In generale trascende l’idea che
l’etnografia sia il lavoro gli esterni che studiano interni. Gli antropologi esibiscono la
complessità e la dinamicità della loro esperienza nelle pratiche innovative e configurano il
superamento della sovranità delle tradizioni nazionali, insieme alla globalizzazione
economica e ai processi di accumulazione e mobilità del capitale lungo linee transnazionali.
Inoltre, delineano un antropologia transnazionale, cosmopolita, che superi la riduzione
geopolitica dell’antropologia e le tradizioni locali e nazionali, con il fine di muovere la
disciplina verso la costituzione di una comunità internazionale.

Parte III
1. L’antropologia nel mondo attuale

Culture ibride e pensiero meticcio, sono due espressioni che rimandano rispettivamente
all’oggetto e alla natura dell’antropologia. Le culture ibride indicano la sintesi di culture, in
seguito a situazioni d’incontro tra esse. Tali incontri sono oggi sempre più frequenti. Le
culture sono sempre state ibride, non bisogna dunque pensare che possano esserci culture
pure. Ciò che caratterizza il mondo nasce sempre dall’incontro di situazioni diverse tra loro,
e il modo in cui le culture si combinano dipende dai rapporti di forza. Dal momento che le
culture non sono mai state pure, l’ibridismo culturale è l’oggetto dell’antropologia.
Gli scienziati sociali si interrogano sulle dinamiche dei fenomeni di ibridazione e sulle
implicazioni di queste sui modi di vivere, rapporti politici, economici e per l’immaginario
dell’umanità contemporanea. L’antropologia culturale, occupandosi del sapere meticcio che
è la dimensione culturale della vita umana, è un sapere meticcio. Ciò perché nasce
dall’incontro fra tradizione culturale di chi la pratica e tradizione culturale dell’oggetto di
quella pratica. Le espressioni come “ibridazione di culture” sono secondo alcuni ridondanti,
ma in realtà necessarie come espressioni operative, per descrivere una situazione di fusione
tra istanze culturali già ibride, meticce. Il complesso di fenomeni di ibridazione che da
sempre hanno luogo nel mondo contemporaneo è detto “ traffico culturale”. Lo scopo
dell’analisi che vuole cogliere i fenomeni di ibridazione è di comprendere il senso che tali
processi rivestono per coloro che li vivono in prima persona e nel contesto in cui si
producono.

1.2
Omogeneizzazione o che altro?
Tutti sappiamo che il contesto culturale in cui viviamo recepisce stimoli che vengono da altri
ambienti. Non sappiamo nulla di come identità e culture di popoli lontani scompaiono,
resistono o si riformulano sotto l’influenza della globalizzazione.
Il traffico culturale non prevede soltanto una serie di acquisti e prestiti, ma una continua
riformulazione o riposizionamento significante, in base al contesto in cui vengono ceduti o
acquistati.
La percezione dei flussi di traffico vede una situazione paradossale; da un lato c’è la
sensazione che i contatti abbiano esiti disastrosi dovuti alla omogeneizzazione che si ha
attraverso contatti e scambi. Dall’altro lato c’è la sensazione che queste culture ed etnie
siano isolate, prigioniere delle proprie logiche e storia. Bisogna impostare l'analisi in modo
da cogliere il senso che convergenze e divergenze culturali assumono nelle diverse
situazioni. E’ certo che le culture vanno studiate nel contesto e nei termini loro proprie, ma
queste non sono isolate, da sempre infatti cambiano, e questi cambiamenti non sono dovuti
solo a processi interni. I cambiamenti derivano dall’interazione tra dinamiche interne ed
esterne. In seguito a tale osservazione dal Novecento in poi, la società e le culture umane
iniziarono a perdere quella rigidità che molte scienze le avevano attribuito.

1.3 Locale e globale


Le dinamiche interne ed esterne ai cambiamenti culturali sono sfociate nella “ dialettica del
locale e del globale”, processo di intrecci dagli esiti imprevedibili. In tale processo, una
cultura vede cambiare i propri valori locali, interni, in base a ciò che giunge dall’esterno. I
fenomeni esterni sono non di un’altra cultura, ma fenomeni che interessano tutte le culture,
come l'avvento degli elettrodomestici, la televisione ecc.
Tali fenomeni globali vengono inseriti all’interno della cultura che li assorbe e questa
riformula nuovi significati per essi, in base alle esigenze locali. Un esempio è l’uso dei
frigoriferi a Singapore, dove questi venivano usati per preservare l’efficacia dei feticci.
Questi sono fenomeni ibridi, che ricorrono a una sintassi della modernità e a un lessico
arcaico.
Dobbiamo pensare al mondo, non come un'entità che va omogeneizzandosi, ma come uno
scenario in cui le tradizioni culturali recepiscono delle logiche globali che sono suscettibili di
riformulare altre logiche a livello locale. Clifford corregge Strauss, il quale vedeva
dell'occidentalizzazione un insozzamento culturale del pianeta, infatti Clifford parla di tale
“sozzura” come di un concime per nuove sintesi ed emersioni culturali.

2. Nell’ecumene globale
2.1 Nuove nozioni per nuove realtà
Le culture e le società umane non hanno mai avuto confini netti, perché i fenomeni di
contatto sono sempre stati presenti. L’intensificazione di tali fenomeni ha portato alla
globalizzazione. che non è un fatto della nostra epoca ma è stato già sperimentato da popoli
come i nativi americani, con l’arrivo degli europei. Per Amselle, la globalizzazione è un vicolo
cieco per l’antropologia, che si trova a sintonizzarsi con gli economisti e sociologi che
scoprono solo ora che le culture sono sempre state interconnesse. Il termine globalizzazione
perde dal punto di vista culturale ogni perspicuità epocale, che deriva dal fatto che ad essere
cambiato oggi è il mondo intero. Il cambiamento del mondo ci porta a dover adattare le
nostre categorie al mondo, e dunque elaborare nuovi concetti o adattare quelli tradizionali.
Dobbiamo affrontare l’analisi vedendo la cultura non come contenitore ma come un “
ambiente comunicativo”. Una nozione che ci rende possibile parlare di questo traffico
culturale e globale è“ ecumene globale”. Ecumene è una regione di interazione e scambio
culturale. Il mondo è oggi un luogo in cui le culture dialogano, si scontrano e si influenzano.
Bisogna condurre analisi particolari su casi particolari, e per tale motivo l’antropologia si
fonda sull’etnografia: l’analisi dei fenomeni culturali osservati,analizzati e descritti nel loro
contesto.

2.2 Centro e periferia o centri e periferie?


Le relazioni tra società e culture sono spesso state impostate in termini di rapporti
asimmetrici tra centro e periferia, con il centro che comanda e la periferia che viene sfruttata,
o il centro industrializzato e la periferia fornitrice di materie prima e
manodopera.L’antropologia offre situazioni più interessanti di quelle degli economisti, per le
comunità agricolo ovest africane della periferia hanno un ruolo di fornitura di forza lavoro per
il centro. L’emigrazione verso il centro è aumentata in epoca postcoloniale, ma tali emigranti
non costano nulla al centro, anzi gli forniscono forza lavoro. Per tale motivo conviene
mantenere inalterata la periferia, che continua a riprodursi senza costi per il settore
capitalistico della produzione. Non vi è investimento nella periferia e i rapporti restano
immutati. Ma la periferia finisce comunque influenzata dal centro nella logica di riproduzione.
In queste analisi è la struttura sociale ed economica ad essere messa in primo piano, ma
tale analisi ignora gli aspetti culturali, visti come secondari nelle dinamiche tra centro e
periferia. Il rapporto asimmetrico è un dato di fatto dal punto di vista economico e sociale,
ma dal punto di vista culturale? In tale ambito la situazione è molto più variegata e sarebbe
bene parlare di centri e periferie, allontanandosi dall’idea del centro che detta regole e della
periferia che esegue.

2.3 Asimmetrie persistenti


E’ difficile pensare che in campo culturale si possa avere uno scambio alla pari tra culture.
Vero è che in alcuni ambiti, come in quello artistico, alcuni oggetti provenienti dal sud del
mondo arricchiscono la conoscenza e la cultura occidentale. Tali oggetti che avevano altre
funzione, come ad esempio quella sacra, finiscono nei musei o nelle collezioni private. Le
culture che ne sono state private soffrono una situazione di disagio.Vi sono anche culture
che comprendono il valore artistico di tali oggetti solo una volta inseriti in un contesto
diverso. Un esempio si ha con la contestazione dei maori nel 1984, in seguito all’esposizione
dei loro taoga. Vi sono anche casi in cui i popoli si oppongono all’esposizione nei musei di
oggetti sacri, come gli aborigeni australiani che si oppongono all’esposizione dei loro
churinga, tavolette di pietra con il cammino degli antenati. Il trasferimento di tali oggetti
comporta un cambiamento in contesti di significato molto distanti da quelli originari. Il
tamburo reale dell’Ankole, veniva suonato solo in occasioni come la morte di un re e la salita
al trono, esso insieme ad altri costituiva la metafora della corte del re. Nei musei questo
verrebbe inserito tra gli strumenti musicali, e in quel caso quale relazione esisterebbe tra il
tamburo nel regno dell’Ankole e quello nel museo? come nel caso dei frigoriferi, si tratta di
un ricorso a un lessico e una sintassi che appartengono ad orizzonti culturali distinti.
Verrebbe inserito in un contesto di significato corrispondente ad una concezione particolare
di cultura, intesa come entità composta da elementi materiali e spirituali, sottoponibili a
misurazione. Il trasferimento di un oggetto tribale in un museo è appropriazione di tale
oggetto da parte di qualcuno, e dunque diversa dal punto di vista sostanziale dall'avvento
degli elettrodomestici. In quel caso infatti, si tratta di un atto voluto da entrambe le parti, in
cui l’obiettivo perseguito è l’allargamento del mercato da parte di chi cede l'oggetto
consapevolmente.
2.4 Ibridazioni
I fenomeni di ibridazione portano alla riflessione di alcune culture, le quali sviluppano un
proprio discorso sui processi di trasformazione che ne segnano la storia. Un caso è quello
dei contadini di Bijapur, loro parlano del presente come un tempo ibrido, hibred kela, e di
loro stessi come delicati, vulnerabili alle malattie, come lo sono le sementi introdotte
recentemente. Tali affermazioni sono modi di esprimere la resistenza a forme di egemonia
esterne. Il tutto si spiega in base alla concezione secondo cui, la condizione di terra, sementi
e uomini erano legate tra loro. Le coltivazioni seguivano un calendario basato sull’analisi
delle condizioni della terra. Guna è la qualità del suolo e hada le operazioni necessarie ,
hulighe erano i raccolti. Ci sono 3 guna, due coltivate con sorgo e miglio javari “non ibrido” e
una terza hibred. le prime due producono raccolti che fanno crescere uomini forti e le terza
fa crescere uomini deboli. La produttività della terra non rispetta un andamento economico
ma sacro, am ciò è cambiato in seguito alle culture risicole che producono un outputi
“output” e all’idea di hada “coltivare bene le sementi” si sta sostituendo quella di sistam,
orientamento finalizzato a nuovi obiettivi e a nuovi metodi. E’ cambiato il modo di produrre e
con esso il modo di percepire. le nuove sementi hanno comportato una perdita di legami
morali connessi con l’idea di produttività legata alla forza della terra. Il carattere ibrido delle
sementi è collegato alla condizione degli esseri umani. Ciò riflette come anche le culture
meno centrali siano in grado di riflettere sulle forze del cambiamento, forze che diventano
parte di loro e delle loro dinamiche.

2.5 Delocalizzazione
Gli scienziati sociali tendono a parlare di culture transnazionali, ossia strutture di significato
che viaggiano su reti di comunicazione sociale non situate in un singolo territorio. Ciò
concilia il concetto di cultura ( complesso strutturato di significati) con la nozione di rete. La
rete è un insieme di relazioni sociali fluido e non riconducibile a un modello rigido e univoco.
E’ un insieme di relazioni aperto, estendibile o riducibile, che travalica gli ambiti di
appartenenza istituzionali. Le reti non sono basate su un territorio, ma possono avere vari
nodi, e le culture che veicolano sono culture delocalizzate. Un esempio è costituito dalle
comunità su internet. Esso è ancora poco diffuso sul pianeta e non se ne può fare un uso
democratico, dunque alcuni individui sono più formati di altri. Internet costituisce un requisito
per l'emersione di un'élite informatica transnazionale. Il mondo appare percorso da flussi
transnazionali e lontano dalle iniziative culturali delle nazioni singole. Il traffico culturale
vede dunque flussi a livello transnazionale. I significati e le forme espressive sfuggono ai
rapporti tra singoli stati-nazione.Le culture transnazionali implicano una devalorizzazione del
luogo come fattore coestensivo della dimensione culturale e dell’identità. La dimensione
transnazionale fa dell’ecumene, un ecumene globale. Globale proprio per questa
delocalizzazione culturale.

3 Nuovi Paesaggi

3.1 Dal paradigma dell’emigrante all’esperienza dello straniero

Per cogliere la realtà in movimento, bisogna sbarazzarsi di alcuni modi di pensare


consolidati, come quelli del migrante che decide di stabilirsi in un territorio. Questa visione di
migrante come emigrante è influenzata dall’idea dell’emigrante europeo che parte per le
Americhe, ma la realtà odierna è diversa. Gli individui oggi vanno e vengono ad una
frequenza prima inimmaginabile. La dimensione transnazionale della cultura è legata a
questi spostamenti. I migranti non pensano quasi mai di spostarsi definitivamente nel paese
ospite, ma vi si recano per accumulare risorse che dovranno aiutarli nel realizzare qualche
progetto al loro ritorno nel paese d’origine. Il movimento di questi individui che non sono
emigranti nel senso abituale, comporta la presenza di persone che si sottraggono alle
politiche di inserimento degli stranieri nel paese accogliente. Tutti gli stati hanno avuto
esperienza dello straniero, questa è più evidente nei casi in cui cis iano diversità dal punto di
vsita, religioso, culturale, linguistico ecc. Oggi lo straniero è inserito nel contesto sociale, ma
com’è possibile che pur partecipando alle pratiche del paese in cui vive, resti uno straniero?
Partecipare alle pratiche non implica un riconoscimento della cittadinanza, che molte volte
non è nell'interesse dello straniero. C’è una contraddizione tra appartenenza legata alla
nazionalità e presenza costante di individui nel territorio di uno stato nazionale. La
contraddizione sta nel fatto che lo stato prevede la lealtà dei propri cittadini, lealtà che lo
straniero non è tenuto ad avere. Egli è però presenza continua e funzionale al sistema di
produzione globale, e pertanto non può essere isolato dagli aspetti della vita dei componenti
della comunità guidata da uno stato. Anche concedendo la cittadinanza, non si ovvierebbe al
problema, perché gli stranieri manterrebbero la doppia cittadinanza, oltre al fatto che molti la
rifiuterebbero. La loro presenza non è definitiva ma continua, poiché coloro che partono
sono rimpiazzati da altri che arrivano. Lo straniero è secondo Sartre viscoso, sfugge dalle
mani, diversamente da un solido. Questa viscosità suscita paure e malcontenti, che fungono
da armi nelle mani di coloro che hanno sete di potere.

3.2 Panorami
Come si possono rappresentare questi scenari che caratterizzano il mondo, se questo non è
più fatto da scomparti o da un centro e una periferia?
Appadurai propone la nozione di panorama etnico, o etno-rama, per rappresentare i nuovi
scenari che emergono in un contesto segnato dal movimento e dal contatto tra individui e
sistemi di significato. Il panorama etnico è fatto da tutte quelle persone che caratterizzano il
mondo in cui viviamo: turisti, stranieri,emigrati…
Altri panorami affiancano quello etnico: tecnologico, finanziario, mediatico e ideologico.
- tecnologico: scambi generati dalla circolazione di apparati tecnologici;
- finanziario: scenari prodotti dal flusso monetario attraverso le banche mondiali;
- mediatico: insieme di informazioni e parole create dallo scambio mediatico tra
televisione, radio ecc…
- ideologico: nascono dalla diffusione di idee di origine occidentale di tipo universalità
come la libertà ecc
Le dinamiche di tali panorami convergono le une con le altre. La forza di un nuovo modo di
comunicare si appoggia all’esistenza di reti mediatiche, un esempio si ha con la cosiddetta
primavera araba nel 2010. Iniziò in Tunisia e si diffuse rapidamente in altri paesi attraverso
la comunicazione immediata tramite internet. Lo vediamo anche con il caso Wikileaks negli
stati uniti.
Le configurazioni identitarie individuali e collettive mutano più rapidamente perché non più
ancorate ad un unico territorio.

3.3 Deterritorializzazione
Il panorama etnico si collega alla deterritorializzazione, ossia la condizione di individui
derivante dal loro spostamento fisico e dal loro radicamento in molteplici altrove rispetto al
luogo d'origine. La differenza tra questa e la delocalizzazione è che la deterritorializzazione
è base materiale della delocalizzazione. La deterritorializzazione sottolinea una non più
coincidenza di luogo, cultura ed identità. E’ una delle forze più potenti del mondo
contemporaneo, coincide con lo spostamento di individui che porta al sentimento di
appartenenza o esclusione nei confronti sia della nuova dimora che di quella originaria.
Agisce anche a livello pratico, come ad esempio con la diffusione del cinema a uso di
emigrati e non. Ciò può portare a processi di trasfigurazione, come quello secondo cui si
credeva che l'Italia fosse il paese di Bengodi o arrivare a conflitti interni ed esterni
rivalutando la propria tradizione ed identità. Applicata al denaro la deterritorializzazione può
farci comprendere la natura di alcuni conflitti. Gli abitanti di Bombay sono preoccupati
dall’acquisto di palazzi da parte di ricchi arabi che fanno lievitare i costi della vita in questa
città. Con la det. l’immaginario degli individui e gruppi non fa più riferimento ad un unico
luogo come ancoraggio della propria patria ed identità. Spostandosi si fanno nuovi incontri
che possono essere drammatici o produttivi. Appadurai chiama disgiunzione e differenza
nell’economia culturale globale ciò che accompagna il panorama etnico.
Si intende l’impossibilità di stabilire una relazione univoca tra quanto accade all’economia
mondiale e sul piano del significato. La dimensione della deterritorializzazione delle culture è
ormai sfondo di ogni discorso antropologico e tutti i fenomeni elencati sono esempi di traffico
delle culture legati a fenomeni di deterritorializzazione.

3.4 immaginazione globale


Molti aspetti delle realtà locali possono essere compresi solo in riferimento al rapporto tra
centro-periferia. Sul piano culturale le cose sono molto più complesse perché i mondi locali
producono forme di immaginazione che si fondano sulla relazione tra contesti diversi e non
in riferimento al contesto legato a un’unica dimensione territoriale. Le identità nascono da
questo contesto come entità nuove, come comunità immaginate.

3.5 Comunità immaginate


L’espressione comunità immaginare è entrata in uso dopo la pubblicazione di uno studio di
Benedict Anderson sulla nascita del nazionalismo nel 1996. Tale testo ci aiuta a capire cosa
significhi questa capacità dell’essere umano di pensarsi immaginativamente come parte di
un mondo più ampio condiviso da altri soggetti. il compito dell’etnografia è cogliere le vite
umane nel loro ambiente che non ha più aspetti di localizzazione e territorializzazione che
aveva una volta.
Secondo Anderson le comunità immaginate sono l’effetto di un duplice processo: il
diffondersi della lingua scritta e la secolarizzazione del mondo. La secolarizzazione del
mondo aveva portato alla dissolvenza dell’idea di salvezza divina. Gli Individui si resero
conto che tanti stavano leggendo le stesse cose e nello stesso momento e non avendo più
l'idea di appartenenza religiosa, dovevano ancorare quest’identità comune all’idea di
comunità nazionale, immaginata come la garanzia di eternità di un popolo.
Le comunità che condividono lo stesso senso di appartenenza sono quasi sempre
immaginate. E’ raro che i membri si conoscano tutti di persona, ma di certo le comunità
nazionali sono più immaginate delle tribù e queste più del villaggio ecc. Le culture
transnazionali sono ancora più immaginate di quelle nazionali e costituite da individui
deterritorializzati. Non ci si può limitare all’analisi di territori ben definiti, bisogna prestare
attenzione alle idee che nascono dall’esistenza di comunità immaginate.

Capitolo 4 Processi mimetici nel traffico delle culture


4.1 sull’idea di mimesi
La circolazione di SIMBOLI può avvenire per imposizione o per accettazione.
I processi mimetici che derivano dai contatti tra culture consistono in atteggiamenti di
adeguamento e di imitazione. I processi mimetici si possono manifestare a livelli pratici e
simbolici, strettamente collegati.
La mimesi è un atto in cui il piano del comportamento e quello di senso non sono distinguibili
in maniera assoluta. Essa è stata oggetto di riflessione in tutte le culture, un particolare
atteggiamento mimetico lo ritroviamo in quei riti propiziatori che mimano e imitano gli effetti
che si spera di ottenere da tali riti. Questi venivano letti come la consapevolezza dell’uomo
primitivo della sua inferiorità rispetto alla natura. Warburg ha analizzato i riti nel villaggio hopi
nel new mexico. Egli nota che lo scopo di tali riti non è appropriarsi di poteri soprannaturali,
ma di disporre una relazione significante tra esseri umani, natura e forze soprannaturali. Nel
mondo occidentale il concetto di mimesi ha suscitato riflessioni sin dall’antichità. Aristotele la
tratta nella sua Poetica e Platone la interpreta come qualcosa di divino. Egli ne da due
interpretazioni, la prima come qualcosa di divino e la seconda come idea svalutativa. Egli
vede la mimesi come imitazione di secondo livello di un modello. Di secondo livello perché la
prima imitazione è l’idea pura della cosa. La mimesi è dunque allontanamento dalla verità.
PER ARISTOTELE ESSA HA INVECE VALENZA POSITIVA, IN QUANTO ISTINTO
NATURALE. i BAMBINI APPRENDONO ATTRAVERSO L’IMITAZIONE DEGLI ADULTI. Non
è semplice processo meccanico ma attività conoscitiva. La poesia è più seria della storia, in
quanto ci fa vedere quello che potremmo essere e ci dà una lezione di morale.
Ai fini del nostro studio la mimesi è la ripresa di forme culturali altre, da parte di soggetti di
una cultura, in seguito al traffico culturale. La mimesi è uno dei processi scaturiti da esso. Un
caso emblematico è il capitano James Cook, presentato da Sahlins.

4.2 il caso Cook


Nel 1779 in seguito all’espansione dell’occidente nel Pacifico, due culture entrano in
contatto: quella britannica e quella polinesiana, manifestazione del fatto che il traffico di
culture è sempre esistito.
Al suo arrivo Cook fu scambiato per il dio lono, dio della fertilità e dell’abbondanza, e venne
accolto come tale, sottoposto al trattamento rituale di ogni anno per il dio. Ciò perché lui
giunse durante un periodo dell’anno caratterizzato dal tributo al dio Lono. Dopo la morte per
mano degli stessi hawaiani( lo uccisero perché timorosi che volesse reclamare il suo regno),
Cook fu divinizzato, posto nel pantheon locale. Il suo mana, ossia la forza che rende visibile
ciò che è invisibile, venne ereditata dal re locale. Ciò garantì all'aristocrazia hawaiana dei
contatti privilegiati con la Gran Bretagna.
Da tali rapporti gli aristocratici iniziarono a distinguersi dalle tribù di gente comune. Ci fu un
processo di mimesi culturale, per cui gli hawaiani si autonominavano politici della politica
inglese . Questi atteggiamenti non erano un’ingenua imitazione ma il consapevole sviluppo
del sistema dei ranghi sociali e della teoria dell’ereditabilità del mana. L’imitazione dei capi
deriva dal fatto che questi fossero in una relazione particolare con i bianchi.

4.3 mimesis e potere


L’imitazione per catturare il potere dell’altro, ed essere secondo l’altro, si trova in numerosi
casi. Uno emblematico è quello degli schiavi neri venezuelani che nel 18 secolo praticavano
riti in cui imitavano le corti dei bianchi, per essere come i loro dominatori.
Si mostra così il desiderio di avere lo stesso potere dell’altro per fronteggiarlo ad armi pari,
una volta incorporato il suo potere con la mimesi.

4.4 Autenticità, mimesi e modernità


La narrativa può essere un documento etnografico, in quanto espressione di una cultura,
che incorpora rappresentazioni culturali che hanno per destinatari i soggetti di quella cultura.
Un caso che illustra il ruolo della mimesi nel cambiamento culturale si trova nell’opera Il
libro nero di Orhan Pamuk, del 1996. E’ un romanzo d’identità, quella di Galip che vuole
essere come suo cugino Celal. L’identità ricercata è quella della Turchia e della sua gente a
cui Celal indirizza i suoi articoli. Si tratta anche dell’identità di tutti i personaggi, che sono
desiderosi di essere qualcun altro.
Significante nel romanzo è la storia di Mastro Bedii, fabbricante di manichini, che volendo
rappresentare i turchi autentici ne studia i gesti per tradurli in opere d’arte.
Con la modernizzazione vengono esposti capi occidentali, per i quali sono richiesti manichini
occidentali. Mastro Bedii e i suoi manichini sono reclusi ad una vita al buio, in cui lui però
continua a produrli.
Secondo il figlio la loro essenza turca è rinchiusa nei manichini , che sono trasformazione
dei suoi arcani sogni nazionalistici. La sconfitta dell’uomo è sancita dalla diffusione dei film
occidentali che fanno mutare i gesti dei turchi. I manichini sanciscono la sconfitta
dell’artigiano quando vengono esposti da un negoziante, ma a pezzi, per ricavarne gambe,
braccia. Interi non servivano perché rappresentavano una autenticità che la gente voleva
dimenticare. La frammentazione dei manichini è metafora della frammentazione dell’identità
culturale, delocalizzazione. Le visioni allucinate di Mastro Bedii hanno come referente il
disagio reale di fronte alla perdita dell’identità, da parte di un paese che non sa scegliere tra
il desiderio di essere altro e la nostalgia di sé stesso.
La perdita di identità si traduce in una sensazione di cecità, metafore dell’incertezza del
futuro. L'artigiano e i turchi sono entrambi mimetici, uno che cerca il sogno di autenticità e
l’altro per essere come non sono. Il processo dimostra che è anche attraverso la mimesi
che le culture cambiano, mettendo in discussione l’idea di purezza come fattore di
un’identità statica.

5. Nuove identità e nuove opposizioni nella modernizzazione


Di fronte all'espansione dei modelli occidentali molte culture sono scomparse, altre invece
sono riuscite a sopravvivere e tentano di far sentire la loro voce nei contesti nazionali ed
internazionali. Oggi la voce dei popoli è ascoltata in occasione di manifestazioni museali,
esposizioni di oggetti tribali e sono pochi gruppi che rivendicano il riconoscimento dei loro
diritti. In qualsiasi analisi antropologica c’è una presa della parola per conto di altri. E’ un
processo decostruttivo, perchè se esistono identità che vanno difese ce ne sono altre che
vanno contestate. Per essere affermate, le identità non hanno bisogno di essere ostentate.
Un caso è quello dei papua in Nuova Guinea. Fino a poco tempo fa i papua vivevano in
villaggi con a capo un mumi, la cui forza si basa su un seguito di sostenitori.il loro potere era
instabile e i beni avevano un ruolo cruciale per l’attribuzione del potere. Infatti il mumi
diventava tale solo elargendo bene ai suoi seguaci. Come altri gruppi melanesiani, i papua
credevano nell’arrivo di un cargo, una nave mandata dagli dei ricca di beni di produzione
occidentale.
L’importanza di esso si basa sull’uso simbolico della ricchezza europea per rappresentare il
riscatto della società indigena. Il cargo è un discorso critico che la società melanesiana
conduce su sé stessa. Il culto del cargo è un esempio di pratica culturale di tipo mimetico,
sia nella rappresentazione della nave che nei gesti rituali. Ciò ci introduce al ruolo della
mimesi come appropriazione del potere dell’altro allo scopo di potersi distinguere dall’altro. I
papua costieri hanno conosciuto il cargo, quelli degli altopiani hanno continuato le loro
guerre tribali. Usano scudi di metallo oggi, ricavati da bidoni su cui sono dipinti gli stemmi
delle birre più vendute e producono oggetti tradizionali per turisti. Diversamente da quello
che accade per gli scudi con elementi occidentali, nel museo ci sono manufatti fabbricati con
lo stile precedente il contatto con i bianchi. Gli articoli sono destinati ai turisti e ciò prova il
fatto che l’autenticità non è il sogno di un ritorno alle origini ma un discorso che rilancia la
cultura papua nel flusso di contatti con l’Occidente, il turismo e la modernità.
Il rilancio culturale è rappresentato dalla produzione di storyboards. L’arte sacra e profana
ha avuto una rifioritura negli ultimi anni, ma tali produzioni hanno una destinazione esterna
legata al turismo. Di questa produzione fanno parte le storyboards,tavole di legno con
raffigurazioni che si rifanno alla vita quotidiana e ai miti. I miti sono rappresentati attraverso
una tecnica iconografica realistica, lontana da quella stilizzata e simbolica tradizionale. Le
storyboards soddisfano i papua e i turisti. per i turisti è rappresentazione dello stereotipo che
gli da la sensazione di aver raggiunto il fondo tradizionale della società papua e di
essersene impossessato. Per i papua sono uno strumento economico e un modo per
rappresentare sé stessi in orizzonti lontani, per essere conosciuti altrove.
Le aspettative di turisti e papua non sono coincidenti. I papua stessi cambiano il modo di
presentare le storyboards per apparire moderni o tradizionali a seconda delle circostanze. In
un qualche modo le storyboards hanno agito in un processo di ridefinizione e rafforzamento
dell’identità dei papua, in vista di una riaffermazione della propria identità.

5.2 Modernizzazione e separatezza


Quando parliamo di modernizzazione, bisogna associare anche un processo di mimesi che
mira ad ottenere una parità, che non esclude distinzione, separatezza o conflitti. Secondo
Girard oggi il mondo è pervaso da crisi mimetiche, processi in cui ci si vuole appropriare di
bene già in possesso di altri, attraverso il comportamento.
La corsa agli armamenti in cui tanti paesi sottosviluppati si lanciano, con il fine di potere
essere come gli altri, sono crisi mimetiche di altra entità rispetto a quelle del cargo.
In questo scatenamento un ruolo centrale lo ha il linguaggio bellico che produce un codice
uniforme per il dialogo interculturale, ma che produce separatezza. Un esempio lo si trae nel
libro Lo schiavo del manoscritto di Ghosh. E’ un libro complesso che unisce all’esperienza
etnografica dell’autore, la ricerca di un personaggio vissuto molti secoli prima. Tale ricerca lo
porta a seguire uno schiavo indiano al servizio di un mercante ebreo. Cercando lo schiavo
percorre spazi geografici e culturali ricordando come tempo prima, quelli fossero luoghi di
incontro e scambio di fedi e culture che non avevano bisogno di un linguaggio della violenza.
Osserva i cambiamenti prodotti dalla modernità e dal linguaggio di essa. In una delle pagine
c’è lo scontro tra Ghosh e un guaritore del villaggio, convertitosi alla medicina moderna,
costituita da aghi spuntati , in rifiuto della tradizione e accettazione della modernità, Ibrahim
sfugge l’antropologo, il quale è desideroso di conoscere la sua sapienza farmacologica
basata sulle piante.
Ibrahim accusa Ghosh di essere un selvaggio perché come Indù appartiene ad un popolo
che venera le vacche. Se i suoi connazionali continueranno così, loro non saranno mai
moderni come gli europei che hanno cannoni, carri armati e bombe. I due si affrontano
rivendicando le superiorità del proprio paese e l'antropologo riflette su come loro siano
entrati in conflitto per stabilire quale paese ha il primato nella violenza moderna. Il desiderio
di Ibrahim è quello di essere diverso e tale scopo attua la mimesi con gli europei, per avere
separatezza.
La modernità di manifesta dunque anche con separatezza e distanza tra fedi e culture,
separando ciò che era unito come nel caso egiziano un tempo venerato da musulmani, ebrei
e cristiani.

5.3 Nazionalismo e linguaggio scientifico


Molti dei paesi nati dopo la decolonizzazione comprendono gruppi con culture, ideologie e
fedi molto diverse. Queste aree sono spesso caratterizzate da scontro dovuti alle spinte di
egemonia di una delle popolazioni, che si sente in diritto di guidare l’intero paese. Molte
delle tensioni nel sud del mondo sono dovute a questa situazione. All’intero di questi territori
si creano spinte che mirano all’indipendenza e nascono gruppi nazionalistici che tendono a
produrre un linguaggio compreso da tutti, quello della scienza occidentale.
In pakistan la popolazione è divisa tra indù e musulmani, a partire dagli anni 30 i baluchi
educati nei college inglesi hanno elaborato l’idea di un Baluchistan indipendente. La
legittimazione di tale ambizione si è intravista con l’interesse dei linguisti europei per la
questione.
Dal 19 secolo i baluchi vennero censiti dall’impero britannico, la loro storia fu ricostruita
attraverso documenti e ipotesi.
Le ipotesi si erano sviluppate in Europa e le teorie dell’ottocento ricalcano quelle dei primi
del novecento, secondo cui la diffusione delle lingue indoeuropee era il prodotto di una
migrazione iniziata dalla Russia meridionale nel 3000 a.C. Secondo le ipotesi, la lingua dei
baluch rappresentava la linea di massima avanzata verso est del sottogruppo delle lingue
iraniche. Loro parlano infatti una lingua affine al persiano e al kurdo e le loro leggende
parlano di un popolamento del Baluchistan. Tali ipotesi e leggende sono però recenti e non
concordi con le origini omogenee dei baluch.
Il nazionalismo Baluchi riprende l’idea di omogeneità di origini e cultura per sostenere le
proprie aspirazioni autonomistiche. Per tali discorsi si appoggiamo alle teorie degli scienziati
europei, entrano così in linguaggio che appartiene alle élite pakistane, cioè a quel potere da
cui vorrebbero ottenere l’indipendenza. Rispetto agli elementi della popolazione pakistana i
baluch non hanno alcun vantaggio, il loro è un nazionalismo laico, risultano sottosviluppati e
vengono relegati a un gradino inferiore nella scala dello sviluppo. Il caso del nazionalismo
baluch è un esempio di come il traffico delle culture si realizzi nel mondo attuale. I baluch
stanno inventando una tradizione e ciò dovrebbe indurci a riflettere sui meccanismi alla base
di tante invenzioni identitarie nel mondo attuale. Si tratta di comprendere come il linguaggio
della scienza occidentale possa attivare le immagini del progresso, che annullano la
possibilità di costruire uno spazio e un diritto alla diversità, introducono invece nuove
opposizioni. Il linguaggio dello sviluppo, dal momento che porta in sé un'idea di progresso,
instaura forme di distanziamento sul piano culturale e politico.
6. Marginalità e resistenze nella globalizzazione
6.1 Le società vernacolari ed enclave sociali

In molte aree del pianeta sono le realtà culturali e sociali informali a mediare con le forze
della globalizzazione, e non le istituzioni politiche. Ciò accade ad esempio in aree del
pianeta in cui le società si riuniscono dopo aver subito un processo di de-culturazione. Ciò
accade nell’Africa subsahariana dove ci sono territori chiamati “ terre dei naufraghi”.
Si tratta di coloro i quali sono esclusi dalla macchina transnazionale e i benefici ricavati dalla
modernità sono per loro inesistenti. Queste comunità sono composte da marginali radicali.
Latouche parla di queste realtà in termini di società vernacolare, la quale starebbe
rinascendo dalle macerie delle comunità antiche, sulle fondamenta di solidarietà sociali
finalizzate al mantenimento della nostalgia compensatrice e alla vita in tutte le sue
dimensioni.
Tale società vernacolare si basa su tre livelli:
- livello immaginario: livello dei culti sincretici, movimenti profetici. E’ complesso poiché
implica un discorso religioso, politico e identitario. Lanternari analizza i culti nella
prospettiva del riscatto nei confronti dell’occidente. Già nel 1920 i culti erano
indirizzati a spiegare i destini delle comunità schiacciate dalla globalizzazione.
Queste comunità hanno sperimentato prima degli occidentali il restringimento dello
spazio, l’individualizzazione dei destini e l’accelerazione della storia. Ciò è stato
prodotto da un eccesso di immagini, un eccesso di riferimenti individuali e un
eccesso di eventi. Questi sono per Augé i tratti tipici della surmodernità e della
mondializzazione.
- livello societario
- livello tecnico economico: produce soluzioni lontane dalla sfera di circolazione di
bene disponibili. E’ il riciclaggio dei rifiuti della modernità, con produzione di strumenti
necessari. Un caso è la comunità di fabbri Kaedi, dove l’autosufficienza si basa su
una rete di cooperazione tra strutture familiari. Queste reti sopperiscono alla
mancanza dei servizi.

I profeti tentano di dare forma al futuro attraverso la mimetica. Producono un discorso


identitario su sé e sul mondo. La società vernacolare è una lettura ottimistica, ma il fatto che
ci siano degli esclusi dalla megamacchina tecnologica è un disastro. Questi esclusi si
organizzano sempre più in enclave sociali, come dice Richards, che fanno un uso
sistematico della violenza, come il revolutionary united front of sierra leone, in cui sono riuniti
giovani che si oppongono al sistema con l’esercizio della violenza. L’enclave sociale forma
un’organizzazione economica della violenza.

6.2 Subculture, resistenze e rapporti di genere

Come i sincretismi anche le subculture nascono in risposta ad un atteggiamento di


resistenza alle forze esterne. Queste non sono culture minori, ma ambiti circoscritti con
codici di significato peculiari. Si tratta di reti di significati condivisi da individui in un contesto
vasto, ai quali essi appartengono. Il concetto è dotato di fluidità. Un esempio di subculture
sono le confraternite religiose in India e Spagna, o ancora gli hooligans, i massoni. La realtà
delle subculture è importante perché le espressioni di resistenza culturale nelle aree
periferiche possono rappresentare la dialettica delle culture al loro interno.Tra i mende della
Sierra Leone esiste una comunità segreta maschile, i poro, e una femminile, sande. Le
sande rappresentano un rifiuto del sincretismo e si oppone a coloro che, all’interno della
stessa cultura mende, vorrebbero far sparire la società sande. Tutto è iniziato con il ritorno
da la Mecca di un pellegrino, Aalhaji Airplane, che aveva iniziato a professare una maggiore
osservanza dell’islam. I suoi discorsi venivano ascoltati perché aveva contatti con membri
dell’élite amministrativa della Sierra Leone. “Airplane” deriva dal fatto che aveva compiuto il
suo viaggio in aereo. Il legame con i promotori dell’islam modernista incoraggiava un
discorso di sviluppo, che andava di pari passo con la modernizzazione dell’islam. Una delle
conseguenze fu incoraggiare le sacerdotesse ad abbandonare i loro riti incompatibili con
l’islam. Le maschere furono ritirate dai riti di iniziazione delle sacerdotesse, che però
avevano abiti europei in contrasto con la tradizione. Le società femminili stavano
organizzando una resistenza alle pressioni dei gruppi maschili, che produceva un discorso di
genere. Reintegrava l’antagonismo sessuale in contrasto con l’islam modernista che
Airplane cercava di sostituire al culto dei mende.

6.3 Rivoluzione, simbolismo e traffico delle culture

Nonostante i luoghi della pratica etnografica siano territori ben determinati, la


delocalizzazione delle culture porta ad una plurilocalizzazione dell’etnografia. Ciò è iscritto
nella natura ibrida delle culture contemporanee. Un esempio di ibridazione è l’arte
calligrafica sorta in seguito alla rivoluzione iraniana nel 1979. I murales hanno una stretta
affinità con quelli della rivoluzione cubana dello scorso secolo. La tradizione del manifesto e
del murales confluisce nell’arte calligrafica persiana. Spesso le tradizioni si uniscono e
formano prodotti in cui due costellazioni di significati non si fondono, ma restano in una
tensione generatrice. La calligrafia è un sistema grafico che integra codice visivo e
linguistico. La bandiera della repubblica islamica d’iran, ad esempio, porta impressi i segni
del discorso politico e i simboli assorbiti dalla tradizione persiana. Il tulipano, icona del
martirio e della determinazione rivoluzionaria, è un fiore d’Oriente, collegato alla bellezza e
all’innocenza, insieme alla morte. E’ finito dunque per essere associato con la morte
innocente.

Capitolo 7. L’elaborazione culturale della marginalità e dello sfruttamento

7.1
Abbiamo visto come il profetismo è la reinterpretazione del ruolo e dell’identità degli
individui, sotto l’influenza della globalizzazione. Nelle società sottoposte a forme di dominio
da altri paesi, tale dominio è stato elaborato in modi differenti.
Un caso interessante è l’adozione della circoncisione da parte dei ngaing della Nuova Papua
Guinea. Tra la fine dell’Ottocento le pratiche coloniali hanno invaso gli spazi del potere
locale, provocando una messa in discussione delle forme politiche locali. Con la
circoncisione e la reintegrazione dei riti di iniziazione, i ngaing hanno tentato di riprendere il
controllo in questo campo.
La pratica fu introdotta dall’esterno e i ngaing ne spiegano l’adozione dicendo che anche i
bianchi la praticano per motivi igienici. La sua introduzione si collega ad una concezione
locale, secondo cui questa servi a liberarsi del sangue materno impuro. Dopo di essa il
giovane diventerà uomo. Il sangue però non è tutto impuro, infatti quello puro viene raccolto
e sarà consegnato all’iniziato.
Per capire il fenomeno sincretico bisogna esaminare le pratiche connesse con i rituali, come
la pulitura degli attrezzi in determinate zone del fiume, la composizione di nuovi brani con
strumenti ricavati da zucche. Prima della cerimonia c’è la fase del ritiro e della confessione
in un luogo isolato. L’iniziato dovrà confessare i rapporti sessuali avuti, visti come un
momento il cui la donna ruba la forza ai maschi.
Dopo alcune settimane gli vengono mostrati gli oggetti sacri: i rombi, tavolette di legno che
vengono ruotate e producono un suono cupo, che è la voce degli antenati attraverso cui si
controllano le forze umane e naturali.
Secondo la popolazione questo rito è compatibile a quello della religione cristiana portato dai
colonizzatori. IL battesimo è associato alla presentazione degli oggetti sacri, il Battista
sarebbe il fratello di Maria, ed è lui ad iniziare Gesù. Le analogie proseguono, perché il
sangue della circoncisione sarebbe quello della crocifissione di Gesù poiché sanno che
Gesù era circonciso. Giuda per loro non è il traditore, ma un altro fratello di Maria che affida
Gesù a Ponzio Pilato, responsabile dell’esecuzione del rito. La crocifissione viene
identificata con la circoncisione. I tre giorni di sepoltura sono la reclusione e la resurrezione
è la presentazione al pubblico che segue il rito.
Il discorso serve ad identificare i papua diversamente da come avevano fatto i colonizzatori,
ossia come popolo da obbligare al lavoro. Riappropriandosi dei propri riti, resistettero e
ripresero il controllo dei loro spazi e corpi. L’associazione dei riti con la vita di Gesù, si
inseriscono in un discorso di redenzione dal peccato come riscatto culturale.
Tuttavia la dominazione ha prodotto l’assimilazione di alcune concezioni, come quella della
pelle bianca alla purezza e del nero, ossia i papua stessi, allo sporco. Lo osserviamo ad
esempio nella fattura dei rombi: questi sono ricavati da una palma sacra che tiene insieme il
mondo, più precisamente dal suo interno che è di colore bianco e rappresenta i bianchi che
hanno la capacità di moltiplicare i beni materiali. Il bianco viene visto come centro del mondo
e il nero come qualcosa di essenziale ma periferico. La bianchezza, come per la palma, è il
contenuto interno della nerezza ed è manipolabile. Nel caso degli nganing siamo di fronte a
un reticolo di significati composti da elementi di cultura locale e influenza globale.

7.2 Lo sfruttamento dell’immaginario


Le forme di sfruttamento a cui sono sottoposte popolazioni intere sono ben conosciute,
mentre non si sa quale sia la risposta nell’immaginario culturale di tali popoli. I minatori dello
stagno boliviani sembrano aver interpretato come presenza demoniache i rapporti
capitalistici di produzione e mercato. Adorano le divinità quanto gli spiriti e le divinità ctonie
che vivono sotto terra, tra le quali Tio. Egli controlla le risorse del sottosuolo ed è
responsabile del rinnovamento della natura e mediatore tra esso e lo sfruttamento
capitalistico delle risorse. La sua immagine è posta all’ingresso delle miniere e viene pregato
affinché si possano trovare tesori nella miniera. E’ il medium tra società precapitalistica e
capitalista. I minatori sono consapevoli della situazione ambigua in cui si trovano. Da un lato
sono costretti a prendere parte ai lavori di sfruttamenti delle risorse e dall’altro riconoscono
che questa logica mette a rischio le risorse e le loro vite. E’ significativo iol fatto che Tio è
passato dall’essere rappresentato come estirpatore di eresie alla rappresentazione come un
cow-boy bianco con tanto di cappello.
Il tema dello sfruttamento e l’intreccio con le credenze locali, può portare al ritorno di antiche
paure. Nel 1990 i chipaya in Bolivia credevano nel ritorno del vampiro. Temono il kharisiri,
uomo bianco o meticcio che gira con un coltello e un laccio di pelle umana e cattura le
vittime per cibarsi del loro grasso e poi divorarle, o se si svegliano moriranno dopo poco. Tali
credenze hanno subito trasformazioni dopo il 1960. In Perù si diffuse la voce che alcuni
gringos (americani) si erano introdotti in una scuola e avevano rapito dei bambini con lo
scopo di espiantare i loro occhi e rivenderli all’estero.Le paure si sono trasformate
prendendo le sembianze dei nuovi colonizzatori. La paura dell’espianto degli occhi dei
bambini rimanda alla concezione della vista dei bambini come possibilità di progresso, è una
speranza che i gringos vogliono togliere.

7.3 Il consumo dell’altro nel mondo globale.

Il traffico di culture e le forme di ibridazione, hanno posto il problema di come rappresentare


l’alterità. Si è parlato di crisi di rappresentazione etnografica. Wolf in L’europa e i popoli
senza storia, si scaglia contro la concezione di valutare i popoli “altri” come senza storia e
attira l’attenzione sul fatto che l’antropologia abbia elaborato un’immagine della cultura e
delle società come entità autonome, autoregolantesi e autogiustificantesi, prigioniera nei
limiti delle sue stesse definizioni. Rappresentare la pluralità di culture nel mondo era più
facile in passato, poiché oggi il territorio non coincide in modo assoluto con identità e cultura.
Da un’etnografia puzzle, che produceva teorie specifiche per ogni tessera del puzzle, si è
passati ad un’etnografia cosmopolita, che tiene conto dei processi a cui sono sottoposte le
culture. Bisogna ricordare che l’occidente tende a ricondurre a sé ogni alterità, purchè sia
assimilabile dalla forma stessa dell’Occidente. L’occidentalizzazione è un processo
economico e culturale che ha un effetto universale, in quanto ad espansione e storia, ed un
effetto riproducibile, per il carattere di modello dell’Occidente e la sua natura di macchina
(Latouche).Dovremmo riflettere come il consumo di tutto ciò che è etnico oggi rifletta questa
natura cannibalesca dell’occidente, teorizzata da Strauss. L’appropriazione dell’ altro che è
versione del metallo sottratto ai boliviani, della terra perduta dei contadini di Bijapur, del
sangue e degli occhi rubati con cui gli abitanti delle periferie cercano il modo per spiegarsi le
ragioni del loro avvenire incerto e precario.

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