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Antropologia culturale

Corso di scienze sociali

1. Oggetto e metodo dell’antropologia

1. Che cos’è e di che cosa si occupa l’antropologia culturale


L’antropologia culturale è lo studio delle culture e delle società umane. Essa si occupa
della varietà dei modi di vita e di pensiero che hanno caratterizzato in ogni tempo e luogo
l’esistenza dei gruppi umani.
L’antropologia è interessata a rilevare le differenze e le somiglianze tra comportamenti,
idee, istituzioni nel confronto tra società diversa.
Gli antropologi ritengono che la cultura consista nelle idee condivise dai membri di un
gruppo e che invece, la società sia costituita dall’insieme delle posizioni sociali e dei
modelli di interazione.
Cultura e società tuttavia, non sono realtà ‘naturali’ che si offrono all’osservazione, sono
piuttosto due astrazioni usate dagli antropologi per analizzare i comportamenti concreti di
individui e gruppi. Sono varie le etichette impiegate per designare l’antropologia: accanto
all’antropologia culturale troviamo infatti anche antropologia sociale ed etnologia.
Inoltre i campi di indagine dell’antropologia si moltiplicano e si sono così costituite le varie
branche dell’antropologia: antropologia politica, antropologia economica, antropologia
della parentela, antropologia applicata, antropologia medica ecc…

APPROFONDIMENTO
Le differenze tra la concezione ‘classica’ e ‘antropologica’ di ‘cultura’:
La concezione classica di ‘cultura’ (Cicerone) definiva la cultura come ‘animi philosophia’.
Quella antropologica (Tylor) la definisce ‘quell’insieme complesso che include la
conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e
abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società’.

CULTURA ‘CLASSICA’ CULTURA ‘ANTROPOLOGICA’


Si riferisce allo sviluppo dell’individuo Si riferisce alla condizione di una società
Implica un differenziarsi di alcuni individui Non implica alcuna distinzione tra colti ed
colti dalla massa degli incolti incolti
Concerne una minoranza di individui Si estende a qualunque tipo di società
all’interno di alcune società privilegiate
Comporta la formazione o l’acquisizione di Fa coincidere del tutto i contenuti della
un sapere nettamente distinto dai costumi cultura con gli stessi costumi
Si pone a fondamento, dunque, dello È a fondamento dell’antropologia culturale,
sviluppo di una tradizione di pensiero la quale va alla ricerca di forme di pensieri
(prettamente filosofico) esclusivo in non importa quale angolo del mondo

2. Le diverse interpretazione dell’oggetto della ricerca antropologica


A seconda di come vengano intesi i due fulcri dello studio antropologico, ovvero la società
e la cultura, l’antropologo può intendere la scienza dell’antropologia stessa in maniera
differente: è per questo che possiamo distinguere tre tipi universali di interpretazione
antropologica:
1) Alfred Radcliffe-Brown definisce l’oggetto dell’antropologia come le leggi che
determinano il funzionamento e le trasformazioni della società: il compito
dell’antropologo è perciò quello di individuare queste leggi utilizzando il metodo
delle scienze naturali
2) Molti antropologi della seconda metà del Novecento hanno rivolto l’attenzione ai
processi sociali, ovvero alle azioni e alle relazioni sociali concrete: il compito
dell’antropologo diviene l’analisi dettagliata dei casi, la ricostruzione dei processi
sociali, del rapporto fra produzione, riproduzione e cambiamento di regole e
comportamenti.
3) Secondo Clifford Geertz, l’antropologia non spiga trovando fatti ‘puri’ e le ‘leggi’
che li causano, ma interpreta cercando di porsi dal punto di vista dei nativi: il
compito dell’antropologo è l’interpretazione e la traduzione dei significati che
l’altro attribuisce alle proprie azioni.

3. L’approccio antropologico: caratteristiche e condizionamenti


La peculiarità dello sguardo antropologico, ciò che distingue questa disciplina dalla
sociologia e dalle altre scienze socio-umane, è l’attraversamento delle culture e il loro
confronto. Il suo ‘giro più lungo’ consente di guardare non solo el società altrui ma anche
la nostra con altre lenti. La concezione del ‘relativismo culturale’ rappresenta, ad
esempio, uno dei contributi epistemologici fondamentali dell’antropologia alle scienze
socio-umane.
L’antropologia, inoltre, preferisce lo studio delle piccole comunità proprio per
comprendere i comportamenti e le idee dei loro membri all’interno del sistema sociale e
culturale più ampio. L’antropologia si è anche interrogata sulle effettive possibilità di
conoscere scientificamente le altre culture.
Per tentare di controllare il condizionamento esercitato dalle proprie categorie culturali,
che altrimenti condurrebbe ad un inevitabile lavoro di ‘etnocentrismo’, ovvero tendente a
valutare le altre culture sulla base dei propri schemi di giudizio, l’antropologo può
ricorrere alla pratica del ‘decentramento’, come parziale allontanamento sia dai propri
concetti che da quelli studiati.

4. Il metodo e le sue trasformazioni


Ciò che è distintivo dell’antropologia rispetto alle altre scienze socio-umane è il metodo
etnografico, il quale è costituito di due elementi:
- La pratica di lavoro sul campo
- Il resoconto della cultura
L’etnografia non è un’attività separata di semplice raccolta di dati oggettivi, un momento
di pura descrizione assolutamente fedele della realtà: è al contrario impregnata di teoria. Il
rapporto che lega descrizione ed elaborazione teorica è un rapporto di interazione
continua e di aggiustamenti reciproci.

5. I principali strumenti metodologici


La ricerca sul campo, ovvero ‘fieldwork’, è il metodo per eccellenza dell’antropologia e il
suo strumento principale è ‘l’osservazione partecipante’, modalità di lavoro
originariamente usata da Bronislaw Malinowki durante il suo soggiorno nelle isole
Trobiand in Melanesia.
La ricerca sul campo è un lungo periodo di stretto contatto con la gente alla cui lingua o
modo di vita ci si interessa, durante il quale gli antropologi raccolgono di solito la maggior
parte dei dati.
L'antropologo Malinowski nella sua prima e più celebre monografia etnografica Argonauti
del Pacifico occidentale critica l'approccio evoluzionista e impone l'osservazione
partecipante come metodo fondamentale dell'antropologia.
Questo grazie anche al grandissimo successo editoriale, che la rese una delle monografie
antropologiche più lette della storia.
L'idea chiave è quella che l'etnografo deve partecipare alle attività della società da
studiare, imparare la lingua e le categorizzazioni dei soggetti studiati, permanendo sul
campo per uno o due anni. Questo per stabilire un'empatia che permetta di rendere nella
descrizione il punto di vista dei nativi. Fondamentale per quest'attività di studio è la
capacità mimetica dell'antropologo, la sua abilità a conquistare la fiducia e diventare
nativo.
Va però evidenziato che l'antropologo pur impregnandosi dei modi di fare dell'ambiente
in cui si trova non si trasforma in un membro della società. Vi è anzi un continuo e
fondamentale passaggio mentale tra il mondo di appartenenza e quello che si sta
studiando.
L'osservazione partecipante consente quindi di considerare con un certo distacco
l'esperienza condivisa con gli appartenenti ad una cultura diversa dalla sua.
Tuttavia, questo metodo può essere diversamente inteso:
1) Malinowki e i suoi seguaci hanno insistito sull’osservazione neutrale e distaccata
2) Gli antropologi interpretativi hanno invece insistito sul coinvolgimento
dell’esperienza soggettiva e l’alternanza continua tra empatia e distacco
L’antropologo dovrebbe, dunque, cercare di immergersi il più possibile nella realtà che lo
circonda e allo stesso tempo rimanere un osservatore esterno.
Gli strumenti di raccolta e i metodi di analisi in antropologia culturale sono molti.
I metodi di analisi quantitativa e di elaborazione statistica dei dati sono stati importanti a
metà del Novecento, mentre oggi si impiegano maggiormente metodi di analisi
qualitativa. Tale analisi si basa sulle interviste (spesso in profondità), sul dialogo con gli
‘informatori’ (interlocutori privilegiati) e sulle storie di vita, con la registrazione scritta o
sonora delle testimonianze e delle narrazioni.

2. Storia dell’antropologia
-Tutto il capitolo è riassunto in maniera schematica alla fine dei paragrafi-

1. Quando è cominciata l’impresa antropologica?


L’antropologia culturale come disciplina scientifica nasce tra l’Europa e gli Stati Uniti nella
seconda metà dell’Ottocento, in un momento in cui si verificano un incremento e una
trasformazione nella riflessione teorica sull’uomo: viene formulato l pensiero che lo studio
dell’uomo non possa essere condotto solo nella propria società, ma debba invece fondarsi
sull’osservazione e l’analisi delle diverse forme di aggregazione che l’umanità assume nelle
varie parti del mondo.
Universalmente, si fa risalire l’antropologia culturale ad Erodoto, lo storico di lingua greca
del V secolo, che per primo mostrò un atteggiamento di curiosità e di sensibilità nei
confronti degli altrui modi di vita.

2. L’antropologia culturale dell’Ottocento


Gli antropologi evoluzionisti, sia britannici che americani, fondano la loro teoria sulla
convinzione dell’esistenza di un progresso nella storia dell’uomo. La storia della società
umana è vista perciò come il prodotto di una sequenza necessaria di stadi di sviluppo
sempre più complessi, culminante nella società industriale di metà Ottocento.
Le società contemporanee più semplici non hanno ancora raggiunto gli stadi culturali più
elevati del progresso e possono essere ritenute simili alle società più antiche.
Edward Tylor, tra i più noti antropologi evoluzionisti, individua tre stadi di sviluppo
collegati all’incremento della conoscenza: stato selvaggio, barbarie e civiltà.
Anche nelle società più avanzate si trovano tracce dei costumi più remoti, come
l’animismo. Sarà Frazer a ritenere che il progresso da uno stadio all’altro risulta come il
passaggio dallo stato dapprima magico a quello religioso, e poi a quello scientifico.
Lo stesso Tylor, come già detto nel capitolo precedente, segnerà l’inizio della concezione
di ‘cultura’ dal punto di vista antropologico: la ‘cultura’ è cosa di tutti, insieme delle
conoscenze, credenze, arti, morale, diritto, costumi, e non più cosa di ‘pochi’.

3. L’età classica dell’antropologia culturale


Tra il 1890 e il 1940 si affacciano sulla scena i ‘grandi’ dell’antropologia e si costituiscono
le tradizioni di ricerca dominanti, le quali si impegnano nella costruzione di una scienza
oggettiva, assumendo una posizione critica nei confronti del modello evoluzionista e
ponendo al centro delle loro attività la ricerca sul campo e la riflessione sulle questioni di
metodo. Si definiscono le tre ‘scuole’ nazionali più importanti:
1) L’antropologia culturale americana
Franz Boas, principale oppositore del metodo evoluzionista, propone il ‘metodo
storico’: l’obiettivo dell’antropologia deve essere la conoscenza delle specifiche
cause storiche di un fenomeno culturale presso una data popolazione.
Questa prospettiva, definita ‘particolarismo storico’, ritiene che un costume deve
essere posto in relazione con la cultura specifica di un gruppo, e non estrapolato
dal suo contesto come gli evoluzionisti facevano, e si deve inoltre esaminare la sua
distribuzione geografica.
Alfred Kroeber invece, mette in crisi quello che era il principio darwiniano secondo il
quale ordine sociale ed ordine biologico si equivalevano: l’antropologo ritiene
infatti che l’ordine biologico sia sottostante a quello sociale, e da una definizione di
‘area culturale’, intesa come area geografica all’interno della quale sono distribuiti
determinati tratti culturali a causa di un processo di diffusione (per questo motivo è
definito ‘esponente della scuola diffusionista americana’

2) L’etnologia francese
Il maggior esponente dell’etnologia francese è Emile Durkheim, il quale da un
apporto positivista alla ricerca antropologica, ritenendo che i fatti sociali nelle
società più semplici presentino in una forma elementare le loro caratteristiche
fondamentale, quindi più facilmente analizzabili dal punto di vista scientifico.
Un esempio della dottrina di Durkheim è ravvisabile nel ‘totemismo’ australiano: il
totem, simbolo del clan, è venerato da tutti i membri del clan, che dunque si
riconoscono e si identificano come tali, perciò totemismo australiano, religione
degli antichi e religione contemporanea hanno tutti, per Durkheim, la stessa natura.
In un altro saggio composto da lui e dal nipote Mauss, gli autori riconoscono al
contrario degli evoluzionisti, che ogni società abbia le sue forme distintive di
pensiero ma che considerino il pensiero primitivo come una fase del processo
storico il cui esito è costituito dalla classificazione in generi e specie.
Per Lévy-Bruhl invece, il pensiero nelle società inferiori è caratterizzato dal carattere
emozionale e affettivo delle rappresentazioni collettive.
3) L’antropologia sociale britannica
All’inizio del Novecento in Gran Bretagna l’etnografia diventa parte fondamentale
dello studio antropologico. La crescente quantità di materiale etnografico
contribuisce in modo determinante a porre in discussione il paradigma
evoluzionista. L’antropologia britannica del periodo classico è così caratterizzata
dall’affermarsi del paradigma funzionalista, che considera la società, sulla scia di
Durkheim, come totalità integrata.
Come abbiamo già visto, Malinowski cerca di costruire una scienza antropologica
secondo l’ideale positivistico, fondata sull’osservazione neutrale e imparziale del
ricercatore.
Radcliffe-Brown, invece, definisce la prospettiva teorica che dominerà l’antropologia
sociale: costruire una scienza che indaghi le leggi e i meccanismi di funzionamento
della società. Si definisce perciò sostenitore del ‘funzionalismo’.

4. Gli orientamenti dell’antropologia culturale contemporanea


1) Lo strutturalismo di Lèvi-Strauss
Secondo Levi-Strauss, l’attività dello spirito umano presso i primitivi come tra i civili
consiste nell’imporre forme o modelli prefissati, e le strutture sono schemi
concettuali della mente umana, di carattere universale e formale.
Levi-Struass individua nell’universalità della proibizione dell’incesto il passaggio
fondamentale dalla natura alla cultura, l’atto che dunque istituisce la società umana.
Ad essa si accompagna il principio di reciprocità, che dà luogo alla pratica
dell’esogamia, ovvero il matrimonio fuori dal proprio gruppo.
Levi-Strauss ritiene inoltre che le forme di pensiero corrispondano tutte ad uno
stesso tipo di logica, che si traduce in una disposizione a pensare per sistemi di
opposizione, a partire dall’opposizione originaria tra natura e cultura. Il significato
del ‘pensiero selvaggio’, perciò, non va cercato nei ‘mitemi’, ovvero le unità prive di
un significato proprio che li costituiscono, bensì nel sistema di relazioni che collega
un mito ad altri miti.

2) Gli sviluppi e le rotture del funzionalismo britannico


Nel frattempo, lo struttural-funzionalismo di Radcliffe Brown si trova soprattutto
nell’opera di Pritchard e Fortes, i quali affrontano le cosiddette società
‘segmentarie’, società prive di un potere politico centralizzato, dove i rapporti
politici si fondano sulle relazioni di alleanza e di ostilità tra i lignaggi, ovvero
gruppo di parenti discendenti da un antenato fondatore. Gli autori dimostrano che
la stabilità sociale non è soltanto il risultato del funzionamento armonico di tutti gli
elementi della struttura, ma nasce anche dal conflitto, dalle relazioni di opposizione
oltre che di cooperazione tra i lignaggi.
Gli studiosi britannici della ‘Scuola di Manchester’, invece, elaborano nuovi concetti
e metodi per il passaggio dall’analisi della struttura a quella del processo sociale e
spostano l’attenzione al piano delle pratiche sociali. LA revisione critica dello
struttural-funzionalismo si compie con l’opera di autori, come Gluckman, che
riconoscono il flusso e il mutamento come caratteristiche imprescindibili di ogni
realtà sociale e che si propongono di restituire all’attore sociale la sua centralità
nella dinamica sociale. Una società, dunque, è per loro una realtà in movimento che
deve essere pensata come un processo di costruzione sociale. Sono perciò definiti
sostenitori della ‘prospettiva processuale’.
3) Le svolte dell’antropologia americana
Intorno alla metà del Novecento, negli Stati Uniti riemerge l’interesse per
l’evoluzionismo. Leslie White sostiene che non ci siano fattori esterni che
determinano l’evoluzione ma solo condizioni interne alla cultura: il principio
dell’evoluzione è per lui la tecnologia.
Gli studiosi della Scuola di Yale sviluppano la corrente di ricerca definita
‘Etnoscienza’, il cui termine si riferisce sia alla conoscenza del mondo naturale
proprio di una certa cultura sia alla branca dell’antropologia che se ne occupa: essa
studia per esempio le classificazioni botaniche e zoologiche, la percezione del
colore ecc…
A partire dalla fine degli anni Sessanta, però, molti antropologi statunitensi, e dopo
di loro anche molti europei, pongono radicalmente in discussione i modelli teorici
dominanti, le metodologie della ricerca sul campo, le modalità di costruzione del
sapere antropologico e le sue finalità. La riformazione critica incomincia dal lavoro
sul campo e dallo stile della scrittura. Ci si interroga così sulla natura dell’esperienza
etnografica e sulle strategie di costruzione del testo etnografico.
Allo stesso tempo le antropologhe femministe inglesi e americane pongono in
evidenza l’invisibilità delle donne nell’antropologia tradizionale, sia nell’ambito
accademico come ricercatrici che nei contesti etnografici come attori sociali, e
smontano l’ideale positivistico della neutralità dell’osservatore e della
contrapposizione netta tra soggetto e oggetto.
Come alternativa a modelli come lo strutturalismo o il neo-evoluzionismo di cui
abbiamo appena parlato, si propone la ‘prospettiva interpretativa’, secondo la quale
la ricerca antropologica non deve mirare all’elaborazione di tipologie e al
reperimento di leggi universali, non è più una descrizione di dati ma
un’interpretazione, che riconosce la centralità dell’incontro etnografico nella
costruzione della conoscenza antropologica e considera il testo etnografico come
prodotto della relazione tra l’antropologo e i suoi interlocutori.
Per spiegare al meglio la funzionalità della prospettiva interpretativa, Geertz, uno
dei principali antropologi sostenitori della corrente, impiega la metafora del testo: i
significati culturali sono depositati e stratificati nella pratica sociale, la loro trama
costituisce il testo che l’antropologo sfoglia, cercando di ricostruire le ‘ragnatele di
significati’.

Vista la complessità e la vastità della storia dell’antropologia culturale, propongo qui uno
schema riassuntivo:

ANTROPOLOGIA CULTURALE DELL’OTTOCENTO


E. Tylor e L.H. ‘Evoluzionismo’:
Morgan approccio teorico che vede le varie culture umane collocate in
differenti stadi evolutivi.
Morgan individuò tre stadi di sviluppo:
1) Lo stadio selvaggio: la popolazione vive prevalentemente di
caccia, pesca e raccolta. Stadio caratterizzato da nomadismo.
La comunità primitiva non avverte l'esigenza di stabilirsi su di
un territorio preciso e si sposta di volta in volta.
2) Lo stadio delle barbarie: la popolazione si dedica
all'agricoltura ed all'allevamento degli animali. Le comunità
cominciano a raggiungere notevoli livelli di strutturazione
sociale (ad es. fanno la loro comparsa i tabù come quello
dell'incesto). Scompare o cala vistosamente il fenomeno del
nomadismo.
3) Lo stadio della civiltà, ossia lo stadio che - secondo Tylor - è
stato raggiunto solo dalle civiltà occidentali; è lo stadio più
evoluto fra i tre ed è uno stadio in cui nasce e si sviluppa
l'economia industriale.
Poiché le società più semplici non hanno ancora raggiunto gli stadi
culturali più elevati del progresso, possono essere ritenute simili alle
società più antiche. È quindi possibile che le tribù primitive riescano a
illustrare le condizioni di vita dei nostri antenati.

ANTROPOLOGIA DELL’ETA’ ‘CLASSICA’: 1890-1940


AMERICA
F. Boas ‘Particolarismo storico’:
procedimento induttivo fondato sull’osservazione di un gruppo
culturale ben localizzato e volto a metterne in luce le strutture sociali
peculiari a partire dal suo specifico sviluppo storico. L’affermazione di
Boas secondo cui la cultura non esiste, ma esistono invece diverse
culture, trova il suo fondamento proprio nell’idea che ogni gruppo
etnico sia diverso da un altro per il carattere irripetibile della sua
storia.
R. Benedict e ‘Scuola di Cultura e Personalità’:
M.Mead entro ogni configurazione culturale vi è un sistema dominante di
valori, sentimenti ed emozioni che determina le strutture psicologiche
degli individui
A.Kroeber ‘Diffusionismo’:
tratti culturali, originati in alcuni luoghi, si sono estesi in altri luoghi e
bisogna rilevare il loro luogo d’origine.
I tratti culturali si sono diffusi lungo la linea spaziale degli
insediamenti umani.

FRANCIA
E.Durkheim ‘Positivismo’:
i fatti sociali nelle società più semplice presentano in una forma
elementare le loro caratteristiche fondamentali, quindi sono più
facilmente analizzabili da un punto di vista scientifico.
Ad esempio il totemismo nelle società aborigene, ha la stessa natura e
la stessa funzione della religione contemporanea: è cioè un insieme di
rappresentazioni che la società ha di se stessa e insieme di riti che
assicurano la devozione alla società e quindi la coesione sociale.

INGHILTERRA
B. Malinowski ‘Funzionalismo’:
l'idea di società come un organismo, ogni elemento del quale
contribuisce all'armonica funzionalità dell'intero corpo biologico.
‘Argonauti del pacifico occidentale’ è il libro più importante di
Malinowski, all'interno del quale vengono posti in essere tutti i principi
teorici del suo funzionalismo.
Il nocciolo centrale del libro è rappresentato da una specifica forma di
scambio, chiamato Kula, che vige presso alcuni gruppi abitanti piccole
isolette al largo del continente australiano.
All'interno di questo complesso sistema vengono scambiati due tipi di
oggetti, che circolano in direzioni tra loro opposte; la prima serie di
oggetti, ossia collane di conchiglie rosse, circola sempre in senso
orario, mentre la seconda serie, composta da braccialetti di conchiglie
bianche, circola solamente in senso anti-orario, cosicché lo scambio
può avvenire solo tra oggetti diversi, braccialetti al posto di collane e
viceversa: è la base concettuale per poter pensare alla società come un
insieme di elementi interrelati funzionalmente tra di loro, al fine di
permettere il funzionamento stesso del sistema.
A.Radcliffe- ‘Struttural-funzionalismo’:
Brown vi è interdipendenza tra la nozione di struttura e di funzione sociale: ‘la
struttura sociale’ è la trama dei rapporti realmente esistenti in una
società, i quali sono organizzati in attività regolate da istituzioni e la
‘funzione’ di ogni istituzione garantisce l’equilibrio del sistema.

ANTROPOLOGIA CONTEMPORANEA
C.Lévi- ‘Strutturalismo’:
Strauss vi sono delle strutture all’interno della mente umana comune a tutte
le menti. Vi è dunque un ‘pensiero selvaggio’ (e primitivo) comune a
tutte le culture.
Ad esempio, nell’opera Le strutture elementari della parentela, Lévi-
Strauss identifica nella proibizione dell’incesto e nell’esogamia le
costanti universali che segnano il passaggio dal puro stato di natura a
una società umana organizzata. La proibizione dell’incesto è dunque
“il passo fondamentale grazie al quale, per il quale, e soprattutto nel
quale, si compie il passaggio dalla natura alla cultura.
Evans-Pritchard e Continuazione dello ‘struttural-funzionalismo’:
Fortes i due autori introducono il concetto di ‘società segmentarie’, che verrà
analizzato nel capitolo 7
Max Gluckman e Critica dello ‘struttura-funzionalismo’:
la Scuola di gli autori riconoscono il flusso e il mutamento come caratteristiche
Manchester imprescindibili di ogni realtà sociale e che si propongono di restituire
all’attore sociale la sua centralità nella dinamica sociale.
Vengono elaborati nuovi concetti e metodi per il passaggio dall’analisi
della struttura a quella del processo sociale e spostano l’attenzione al
piano delle pratiche sociali.
L. White e la ‘Neoevoluzionismo’:
Scuola di Yale riemerge l’interesse per l’evoluzionismo: non ci sono fattori esterni
che determinano l’evoluzione ma solo condizioni interne alla cultura,
ed il principio dell’evoluzione è la tecnologia
Nasce l’Etnoscienza, ovvero la conoscenza del mondo naturale proprio
di una certa cultura.
C. Geertz ‘Prospettiva interpretativa’:
nasce come alternativa a modelli come lo struttural-funzionalismo o il
neoevoluzionismo, in un momento in cui vi è una crisi generale
dell’antropologia negli anni Sessanta.
La ricerca antropologica consiste in un'interpretazione, un'attività che
attribuisce significato ai fenomeni collocandoli nel loro contesto
particolare. Il problema principale con cui si confronta l'antropologo è
quello della comprensione dei diversi livelli di significato, e
successivamente della loro traduzione da una cultura all'altra: questi
sono i limiti entro cui si può tentare di offrire una visione della cultura
«dall'interno».

3. L’origine della cultura e la sua relazione con la natura

1. Il passaggio all’umanità
A lungo gli studiosi delle scienze socio-umane hanno sottolineato l’unicità dell’uomo, a
differenza dei loro colleghi delle scienze biologiche che, sulle orme di Charles Darwin,
hanno posto l’accento sulla continuità tra il mondo animale e l’uomo.
L’essere umano ha una natura animale, ma è un animale diverso dagli altri: costruisce
utensili, parla, si serve di simboli. In questa prospettiva, fino circa al 1960, la soluzione
condivisa al problema del passaggio dall’animale all’uomo è stata la ‘teoria del punto
critico’, per la quale la capacità di acquisire cultura era comparsa all’improvviso e
rappresentava una rottura nella storia evolutiva dei primati.
Secondo Alfred Kroeber soltanto quando era terminata l’evoluzione organico, e il cervello
umano aveva raggiunto le sue attuali dimensioni e configurazioni, era cominciata
l’evoluzione culturale e l’uomo aveva iniziato a costruire utensili e a parlare. Oggi prevale
invece l’idea che la capacità di cultura sia emersa gradualmente in un lungo arco di tempo
e che lo sviluppo culturale sia iniziato assai prima che quello organico finisse, secondo un
modello ‘interattivo’.
Andrè Leroi-Gourhan sostiene che il punto di partenza di tutto il processo è il
raggiungimento della stazione eretta, a partire dal quale gli antenati dell’Homo sapiens
hanno potuto utilizzare le mani.
Quindi la mano che poteva liberamente afferrare ha a sua volta liberato gli organi facciali
da questa funzione, rendendoli disponibili per al parola. Queste nuove abilità hanno
comportato l’aumento della capacità cranica, la quale ha significato, per le esigenze del
parto, la nascita di una prole immatura.
La conseguente lunga dipendenza dei piccoli, incapaci di sopravvivere da soli, ha richiesto
forme di organizzazione sociale e culturale fondate sulla cooperazione e la divisione del
lavoro, in grado di farsi carico della loro crescita. Così la maturazione progressiva del
cervello ha favorito la definizione del processo di apprendimento e di socializzazione su
cui si fonda la cultura. Il cervello nella sua configurazione attuale è quindi prodotto della
cultura: senza i simboli e le pratiche culturali che ha elaborato e che lo hanno
progressivamente modificato non sarebbe in grado di guidare il comportamento
dell’uomo.

2. Il processo di evoluzione degli ominidi


La scoperta, fatta nel XX secolo, di fossili dei primi ominidi, ovvero gli antenati diretti
dell’uomo moderno, in territorio africano sono state determinanti per la ricostruzione del
processo di ominazione. Oggi si ritiene che questo processo parta dagli australopitechi
(1), che comparvero sulla terra circa 4 milioni di anni fa, con caratteristiche come il
bipedismo, l’alimentazione carnivora e l’organizzazione sociale per caccia e difesa.
In seguito l’Homo abilis (2), comparso 2.5 milioni di anni fa, si dimostrava capace di
scheggiare e lavorare le pietre per farne arnesi utili a compiere meglio le operazioni
manuali.
A conquistare invece il fuoco fu l’Homo erectus (3), le cui tracce fossili risalgono a 1.5
milione di anni fa, capace di realizzare un’espansione di proporzioni mondiali e di una
socialità basata su una forma rudimentale di linguaggio.
L’Homo sapiens (4) compare circa 300.000 anni fa e, con l’uomo di Neanderthal, dimostra
di saper usare gli abiti, migliori utensili, e seppellire i morti.
La comparsa dell’Homo sapiens sapiens (5), data intorno al 35.000 a.C. e si caratterizza
per le capacità di astrazione e simbolizzazione testimoniate dalle attività artistiche.

3. La cultura delle scimmie e la cultura dell’uomo


Le differenze tra gli esseri umani e gli altri primati sono quantitative più che qualitative, si
tratta di gradi diversi di cultura piuttosto che di forme di vita radicalmente distinte.
Comune a scimmie e uomini è il fatto che il comportamento e l’organizzazione sociale non
sono rigidamente programmati dai geni, ma dipendono in buona parte
dall’apprendimento.
Alcuni primati, come lo scimpanzé, rivelano una tendenza all’uso di utensili e alla
trasmissione culturale di queste capacità: essi imparano dall’esperienza e trasmettono le
informazioni e i comportamenti acquisiti attraverso le linee della loro organizzazione
sociale. La curiosità e il gioco (non solo i bisogni sessuali e alimentari) sono elementi
importanti nei processi di conoscenza di questi primati, e dimostrano anche come l’attività
conoscitiva abbia le sue radici nella comunicazione da individuo a individuo.
Gli uomini si sono specializzati in questa direzione nelle loro prime forme di
organizzazione affidando al gruppo degli anziani, esonerati dalla ricerca del cibo, il
compito di conservare e trasmettere le conoscenze culturali collettive. Inoltre la creazione
con il matrimonio di unità domestiche stabili ha favorito la trasmissione delle tecniche e
dei saperi, e il prolungato periodo di dipendenza della prole ha ampliato le possibilità di
passaggio delle informazioni da una generazione all’altra.
La proibizione dell’incesto e l’esogamia, a cui abbiamo già fatto riferimento prima,
favoriscono la creazione di famiglie stabili al cui interno si realizzano divisione del lavoro e
del cibo e la creazione di legami sociali di più ampia portata tra i gruppi.
Anche a proposito del linguaggio le differenze tra scimmie e uomini sono quantitative e
non qualitative, anche se la differenza è molto consistente.
In tutti i primati i sistemi di comunicazione e trasmissione di significati sono assai più
complessi di quanto si possa immaginare: le scimmie antropomorfe, addestrate in
laboratorio, sono in grado di comprendere e gestire i simboli non verbali del linguaggio
dei segni.
4. Il linguaggio e i simboli
Molto di ciò che consideriamo cultura consiste in prodotti in larga misura verbali e la
comparsa dei simboli del linguaggio ha costituito senza dubbio un evento decisivo nella
storia dell’uomo. Il comportamento culturale dell’uomo è sempre mediato dall’uso di
simboli, in particolare quelli linguistici, e pertanto sono proprio i simboli selezionati a
distinguere una cultura nella sua unicità. La natura sociale del linguaggio è una
caratteristica rilevante da questo punto di vista: dato che il linguaggio è un sistema
condiviso di simboli culturali, risulta cioè da accordi e convezione comuni (anche se spesso
inconsapevoli) al gruppo dei parlanti, esso rinvia necessariamente al comportamento
sociale e alla società.
L’interpretazione del legame tra lingua, cultura e pensiero, al centro dei dibattiti in
antropologia e in psicologia, e nota come ipotesi Sapir-Whorf o ipotesi del relativismo
linguistico, afferma che la struttura e il vocabolario di una lingua sono determinati
dall’esperienza e ne rappresentano una codificazione, ma a loro volta orientano la
percezione e il pensiero degli individui e determinano la particolare visione del mondo che
questo possiedono.

5. La cultura e la relazione con l’ambiente


La vita dell’uomo in qualsiasi forma sociale e culturale non sarebbe possibile se egli non si
appropriasse e trasformasse l’energia presente nell’ambiente.
Il modo e la misura di ciò dipendono da due fattori: la tecnologia di cui dispone e le
caratteristiche dell’ambiente in cui vive. Secondo la prospettiva dell’ecologia culturale il
rapporto tra tecnologica e ambiente è determinante per il processo di adattamento di un
gruppo, per le istituzioni sociali e culturali che lo caratterizzano.
In ogni società le attività che vengono messe in opera per procurare il cibo hanno la
precedenza su tutte le altre attività relative alla sopravvivenza.
La riproduzione, la soluzione dei conflitti, la difesa contro le minacce esterne, la
trasmissione di conoscenze alle generazioni successive, infatti, non sarebbero possibili
senza l’energia ricavata dal cibo.
I metodi attraverso cui gli esseri umani si sono procacciati il cibo sono diventati sempre
più complessi.
Il passaggio dall’utilizzo esclusivo dell’energia umana e della ricerca del cibo al controllo
dell’energia non umana con l’addomesticamento delle piante e degli animali hanno di fatti
innescato cambiamenti fondamentali nello sviluppo delle società umane.
Il comportamento degli esseri umani verso il cibo è diverso da quello degli altri animali: gli
uomini sono molto selettivi nella scelta del cibo, lo cuociono, lo consumano a scadenze
regolari nel corso della giornata e nel contesto di gruppi variamente organizzati, ritengono
commestibili un’ampia serie di specie vegetali ed animali. Soprattutto, gli uomini hanno
operato il passaggio dalla raccolta alla produzione del cibo.
Le distinzioni convenzionali a questo riguardo sottolineano la presenza di caccia, raccolta e
pesca da un lato, e modi di produzione come agricoltura e pastorizia dall’altro,
considerando il primo gruppo più primitivo del secondo. Inoltre, è opportuno tenere
presente che il modo di sussistenza (l’insieme di tecniche, trasformazioni ambientali,
strategie di movimento ecc. diretti all’utilizzo delle risorse ambientali), deve essere tenuto
distinto dal modo di produzione (ovvero le forme di relazione sociale che governano la
divisione del lavoro e che definiscono i diversi sistemi economici), anche se di fatto i modi
di sussistenza sono sempre ricompresi in particolari reti di relazioni sociali.
La produzione di oggetti non si limita all’ambito della tecnologia e della fabbricazione di
utensili per le attività di sussistenza, ma si estende ad altri contesti della vita quotidiana,
agli ornamenti, all’arte e al rituale.
La cultura materiale, l’insieme cioè degli artefatti di una società, non dipende in modo
esclusivo dalle caratteristiche dell’ambiente: quest’ultimo è piuttosto una delle variabili che
contribuiscono a definirla.
Gli antropologi, studiando la forma e la funzione degli oggetti, hanno sottolineato che essi
sono beni socialmente definiti e soddisfano due esigenze fondamentali: una di ‘utilità’
pratica e l’altra di ‘comunicazione’ simbolica.
Come nel caso del cibo, così accade anche per un altro elemento della cultura materiale,
l’abbigliamento, il quale, oltre a riparare il corpo secondo le esigenze del clima, è anche
una forma di ornamento e un importante canale di espressione cultural e di
comunicazione sociale. D’altro canto le forme dell’abitare sono il risultato di una
molteplicità di fattori: il clima, la tecnologica, i materiali, i significati culturali.
Molti studi hanno posto in luce la relazione tra spazio domestico e struttura sociale,
mentre altri hanno sottolineato la funzione simbolica degli edifici, elementi di un codice
che comunica la visione ideale dell’ordine cosmico o che riproduce il mondo della natura.
In molte culture è difficile distinguere gli oggetti artistici da quelli di utilità pratica e
separare l’arte dall’artigianato, così come dai suoi legami con la sfera economica e politica.
Nella definizione ampia e fluida che gli antropologi hanno proposto, gli oggetti artistici si
riconoscono per proprietà estetiche e semantiche poiché essi servono a rappresentare e a
comunicare significati.

4. Le culture e le forme di conoscenza e rappresentazione della realtà

1. Cultura e significati
Oltre che dai segni basilari del linguaggio, la cultura è costituita da significati e da simboli
variamente organizzati in corpi di conoscenze (per esempio miti, dottrine scientifiche,
precetti morali o terminologia di parentela) che trasmettono la ‘visione del mondo’ propria
di una società.
Tali forme di conoscenza sono la base per interpretare l’esperienza e organizzare la realtà,
e allo stesso tempo per legittimare l’ordine costituito. Le forme simboliche che
costituiscono le visioni della realtà proprie di ogni cultura sono state classificate ed
etichettate dagli antropologi a partire dalla distinzione fondamentale tra conoscenza e
credenza, la quale riconduce alle varie dicotomie che nella storia dell’antropologia hanno
contrapposto ‘noi’ agli ‘altri’: la società moderna, occidentale e complessa, alla società
primitiva, selvaggia e arretrata.
Nel prendere inconsiderazione le altrui concezioni del mondo, gli antropologi hanno
lasciato spesso implicito il significato della distinzione tra conoscenza e credenza: mentre
la conoscenza è vera, la credenza è falsa.
Se infatti consideriamo la conoscenza come lo specchio di una realtà oggettiva al modo
delle scienze naturali, la diversità dei sistemi di pratiche e credenze magico-religiose non
può che risultare incomprensibile e irrazionale.
Così val punto di vista funzionalista le attività simbolico-rituali non devono essere valutate
sulla base delle regole della razionalità, ma piuttosto sulla base della loro funzione sociale:
la risoluzione dei conflitti e la realizzazione della coesione sociale.
La nozione corrente di credenza è stata discussa dalle concezioni relativiste della cultura,
opponendosi alla dicotomia tra razionalità e irrazionalità. Secondo queste concezioni le
diverse ‘forme di vita’ costruiscono le loro visioni della realtà sulla base di criteri specifici di
evidenza, coerenza e verità, che hanno le loro radici nella lingua e nella cultura.
Pertanto ogni rappresentazione della realtà, sia essa magica, religiosa o scientifica, può
essere compresa solo a partire dalle regole e dal sistema di concetti e valori presenti in
una società. Ogni forma di pensiero, anche quello scientifico, ha una natura sociale e
affonda le sue radici nei costumi culturali: vero e falso sono relativi alle categorie che le
culture impiegano.

2. Il senso comune
È stato il pregiudizio verso l’esotico che ha spinto l’antropologo a privilegiare gli universi
della magia e della stregoneria piuttosto che le conoscenze di senso comune, il sapere
informale e pratico che governa la vita quotidiana, cui oggi gli studiosi prestano maggior
attenzione, riconoscendolo, come diceva Geertz, come una forma di rappresentazione del
reale socialmente definita, una rete di assunti impliciti che, come ogni altro sistema
culturale, deve essere interpretata.
L’antropologia cognitiva si è occupata di campi del sapere legati al senso comune come le
terminologie di parentela, le classificazioni del colore, le tassonomie relative al mondo
naturale (i modi di classificare per esempio animali e piante) sottolineando l’importanza
dei fattori culturali nella loro organizzazione e nel loro impiego.

3. Religione e magia
La maggior parte delle definizioni di religione sottolinea che l’elemento comune alla
varietà dei fenomeni religiosi è il riferimento ad una realtà che si pone al di là della
normale esperienza umana, un regno esterno al mondo quotidiano, anche se non tutte le
culture hanno un concetto che risponde a quello di religione o ad un’idea di
soprannaturale, per quanto fluidamente si possano intendere le potenze soprannaturali
(ad esempio, in numerose società africane l’idea che la morte sia provocata dalla
stregoneria è del tutto normale, fa parte del normale ordine delle cose).
Allo stesso modo, la magia è spesso definita come costituita di pratiche occulte, connesse
a forze soprannaturali, le quali vengono manipolate con gesti, parole e oggetti per
conseguire specifici obiettivi. Tuttavia, sono poche le culture che classificano in modo
netto le conoscenze secondo le categorie contrapposte di naturale e soprannaturale. Sotto
l’etichetta di magia sono state comprese del resto pratiche molto diverse tra loro, la cui
unica caratteristica comune sembra essere quella di contrastare la concezione del mondo
dell’antropologo. Perciò oggi si ritiene necessario, prima di etichettare qualcosa come
magia, evidenziare i suoi aspetti significativi come il linguaggio metaforico, i contesti in cui
emergono le sue interpretazioni e , soprattutto, le motivazioni che i soggetti forniscono
per le loro azioni.
Le teorie antropologiche talvolta hanno sottolineato le differenze tra religione e magia,
altre volte ne hanno rilevato le caratteristiche condivise. Credenze e pratiche magico-
religiose fanno la loro comparsa quando le conoscenze e le tecniche vengono meno:
essere aiutano a ridurre l’ansietà che deriva da quegli eventi della vita quotidiana che non
sono sotto il controllo dell’uomo, la morte, le disgrazie o le calamità naturali, consentendo
di affrontare i momenti di crisi della vita. La religione può essere inoltre considerata come
un sistema di simboli che pone l’uomo in relazione all’universo e che permette di dare un
ordine alla molteplicità dei fenomeni.
Infine gli studi antropologici hanno esplorato aspetti diversi dei sistemi religiosi: le forme
di rappresentazione come il mito o il dogma, le pratiche come il sacrificio o la preghiera, le
forme di organizzazione e culto come le società sciamaniche o le chiese, mettendo in luce
il legame tra la sfera delle attività religiose e gli altri ambiti della società, l’organizzazione
sociale, politica, economica o ideologica.

4. Il mito e il rito
I miti sono narrazioni che illustrano come il mondo naturale e umano, le sue
caratteristiche e le sue istituzioni si sono originate.
Secondo Malinowksi il mito interviene a giustificare e a garantire l’antichità e la legittimità
di un tipo di vita sociale: delle regole sociali e morali, dei rituali e delle consuetudini di una
comunità. Per quanto il termine venga impiegato con differenti significati, il mito è un
racconto di carattere generale ed esemplare, spesso collegato ad altre narrazioni dello
stesso tipo in una mitologia, che si trasmette di generazione in generazione. Si concentra
spesso su imprese di eroi, antenati, spiriti e divinità.
Mito e rito sono aspetti complementari di pratiche decisive nella riproduzione di un
sistema sociale.
Il rito è solitamente inteso come una sequenza di comportamenti standardizzati e ripetitivi
costituiti di atti, parole, posture e rappresentazioni che in tempi e luoghi prestabiliti
esprimono un determinato significato simbolico comprensibile all’individuo o alla
comunità che lo condivide, con l’intento di influenzare il corso degli eventi.
Se Durkheim sostiene che dalla periodicità dei riti dipenda l’efficacia della religione nel
rafforzare il senso di appartenenza alla società, allo stesso modo per Radcliffe-Brown il rito
è una componente fondamentale della vita sociale.
Victor Turner, invece, pone l’accento sulla dimensione simbolica e sulle idee implicate nel
rito: attraverso i suoi simboli e le sue forme standardizzate ricostruisce e ristabilisce
periodicamente le categorie e i valori culturali.
Molte sono le forme rituali, non tutte classificabili in una tipologia ristretta: dai riti di
iniziazione a quelli che ruotano intorno alla regalità e che ne definiscono la sacralità, dai
riti di inversione ai rituali funebri.

5. Costruire la persona

1. Dalla personalità alla persona


Ogni società ha la propria concezione riguardo a come devono essere gli uomini e le
donne che ne fanno parte, che è strettamente collegata alle istituzioni sociali di ognuna.
Scuola antropologiche con orientamenti teorici differenti hanno cominciato ad occuparsi
del problema in termini di ‘personalità’ e poi in termini di concezioni culturale della
‘persona’.

2. Cultura e personalità
L’antropologia culturale americana ha elaborato la prospettiva di ‘cultura e personalità’
secondo la quale la personalità degli individui è inevitabilmente plasmata dalla cultura a
cui appartengono. A ogni società corrisponderebbe un’unica cultura e quindi una
particolare personalità.
Secondo Ruth Benedict, l’integrazione dei tratti culturali risulta da un processo di
‘modellizzazione sociale’, cioè di produzione e trasmissione di un ‘modello culturale di
pensiero e di azioni’ che determini la personalità dei membri di una società.
Nel suo studio su alcune popolazione degli Indiani Pueblo, egli riscontrava un tipo
psicologico ‘apollineo’, fondato sul controllo rigoroso delle emozioni e un tipo ‘ dionisiaco’,
fondato sulla manifestazione pubblica ed estrema dei sentimenti e delle passioni.
Margareth Mead si concentrò sul processo di socializzazione per comprendere l’influenza
esercitata dalla cultura sull’individuo.
Abram Kardiner, invece, ideò il concetto di ‘personalità di base’, intesa come ‘l’insieme
degli elementi costitutivi della personalità che i membri di una data cultura possiedono in
comune’, alla cui costituzione concorrono istituzioni primarie (che organizzano la relazione
genitore-bambino, sulla base di meccanismi di soddisfazione, punizione ecc.) e secondarie
(che derivano dall’azione delle ist. primarie sulla psiche individuale, come religione, mito,
ecc.)

3. La persona: tra individualità e legami sociali


È la ‘nostra’ concezione che equipara persona e individuo e non può essere utilizzata come
strumento di analisi delle altrui concezioni.
Marcel Mauss e Maurice Leenhardt sottolinearono come le nozioni di persona e di
individuo siano spesso nettamente distinte.
Secondo Mauss la persona si definisce in termini di diritto e moralità e non in termini di
senso interno e psichico. Nelle società occidentali contemporanee ogni persona è
considerata unica e viene ritenuta tale per l’autoconsapevolezza piuttosto che per la
posizione in un gruppo di parenti come invece avviene in altre società, dove viene messo
l’accento sul valore delle relazioni sociali e sull’adempimento degli obblighi sociali specifici
di ciascun ruolo.
Leenhardt giunse alla conclusione che la persona era concepita come soggetto di
molteplici relazioni, col mondo soprannaturale oltre che naturale e sociale.
Secondo l’approccio sociologico di Meyes Fortes la nozione di persona si avvicina fino
quasi a coincidere con quella di ‘status’. La nozione di persona deve pertanto essere
considerata come ‘una rappresentazione collettiva che si collega all’immagine che una
società ha di se stessa e dei rapporti sociali che la contraddistinguono’.

4. Le costruzioni culturali della persona


Gli antropologi statunitensi degli ultimi decenni hanno iniziato a esplorare concezioni
culturalmente specifiche del Sé e della persona definendole come ‘costrutti ideologici
propri di ogni cultura’. Uno dei percorsi principali di ricerca sono diventate le ‘conoscenze
etnopsicologiche’, ossia i modi culturalmente definiti di costruire le persone, i Sé e
l’esperienza, di cui sono state dimostrate la complessità e la molteplicità.
Nella nozione di persona l’antropologia individua oggi ‘una dimensione della vita
quotidiana’ che pone al centro dell’attenzione l’esperienza e i dettagli dell’interazione. In
questa diversa ottica le persone e i Sé sono punti di intersezione tra il soggettivo e il
sociale. Le persone sono dunque definibili dapprima ‘elementi culturali’, poi ‘elementi della
vita sociale’, poi, ‘fonti di esperienza’, ‘azione,’ ed infine ‘identità’.
Michelle Rosaldo propone un impiego indifferenziato in antropologia di ‘persona’ e di ‘Sé’,
ognuno dei quali ingloba sia l’emozione che la conoscenza, l’esperienza individuale che la
rappresentazione collettiva.

5. Questioni di emozione
Le emozioni sono state intese da questi studi come ‘pensieri inscritti nel corpo’, schemi
cognitivi socialmente appresi che collegano la persona, l’azione sociale e il contesto
culturale. L’antropologia psicologica e interpretativa ha rivelato perciò che le emozioni
sono ‘il prodotto di un particolare contesto’, hanno una ‘dimensione pubblica’ e una
‘funzione comunicativa’. Sono uno dei dispositivi che le culture elaborano per interpretare
e trasformare al realtà, uno dei discorsi attraverso cui organizzano le relazioni sociale.
Le nozioni connesse alle emozioni ‘riflettono il modo in cui le persone sono rappresentate
nei diversi contesti’.

6. La costruzione rituale della persona


I ‘riti di passaggio’ e, in particolare, i rituali dell’iniziazione sono un momento significativo
nel processo di definizione culturale della persona e di creazione delle identità sociali. I riti
di iniziazione trasformano l’iniziato, a partire dal suo corpo che molto spesso incidono in
modo definitivo (come nel caso della circoncisione, del tatuaggio, della scarificazione.
La loro analisi consente di porre in luce i meccanismi attraverso cui una data società
garantisce la propria continuità foggiando i corpi e le personalità individuali affinché
corrispondano al proprio ideale morale ed estetico di umanità.

7. La persona e le differenze di genere


La definizione delle persone come uomini o donne richiede non solo l’apprendimento di
certi ruoli sociali ma anche una costruzione del corpo: il termine ‘genere’ è stato
impiegato, comunque, a partire dagli anni Settanta, per significare la ‘differenza
socialmente costruita tra i sessi’.
È stato il pensiero critico femminista a sottolineare che i significati attribuiti al maschile e
al femminile sono costruzioni sociali storicamente prodotte come quelle di persona,
sessualità, matrimonio, famiglia, parentela. Alcuni studi antropologici hanno inoltre
dimostrato che la differenza tra due sessi è prodotta dalla storia e dal pensiero europeo e
che quindi è una costruzione culturale.
Non c’è un consenso universale sulle caratteristiche naturali maschili e femminili, anzi,
talvolta non si sottolinea nemmeno il contrasto tra i due generi.
In Nuova Guinea, ad esempio, il genere non è dato alla nascita, ma prende forma a
seconda della situazione attraverso un processo di ‘ricomposizione’ del corpo.
Spesso le società regolano i rapporti tra gli uomini e le donne attraverso una serie di
credenze riguardanti la contaminazione sessuale: lo status inferiore delle donne è perciò
associato all’impurità del sangue mestruale e numerosi tabù impediscono di avvicinarle
durante il puerperio.
Anche se il rapporto tra i generi può essere simmetrico o asimmetrico (il dominio maschile
infatti non è affatto universale), in ogni caso i concetti di genere vengono spesso utilizzati
per esprimere simbolicamente ‘rapporti di potere disuguali’ (sempre in Nuova Guinea,
infatti, la relazioni anziani-giovani è considerata in termini di maschile-femminile).

6. Trasmissione e riproduzione culturale

1. Il processo di inculturazione
In ogni società sono presenti dei dispositivi per trasmettere la cultura da una generazione
all’altra, ma anche a persone provenienti da altre società. Il processo attraverso cui la
società recluta i suoi membri plasmandoli con la propria cultura, secondo forme
istituzionalizzate o in modo spontaneo, è stato definito dagli antropologi come
‘inculturazione’. Diventiamo esseri umani compiuti sotto la guida di modelli culturali che
danno forma, ordine e scopo alla nostra vita e che allo stesso tempo rappresentano dei
vincoli indispensabili del nostro agire.
Il processo di inculturazione non si concentra solo nel periodo dell’infanzia e
dell’adolescenza, quando cioè è più intenso, ma di fatto si dispiega nell’intero corso della
vita, in relazione alle posizione e ai ruoli che l’individuo si trova ad assumere.
Inculturazione e socializzazione sono due etichette per le stesse modalità di
apprendimento, prevalentemente informali e fondate sull’interazione sociale e
sull’imitazione, secondo Durkheim esercitano un vero e proprio condizionamento sugli
individui.
2. Valori, norme e modelli
La norma stabilisce qual è il modo ‘giusto’ di fare le cose, prescrive il comportamento
socialmente approvato e vieta quello disapprovato, definisce il ruolo associato a uno
status sociale: secondo Radcliffe-Brown le norme sono obblighi sociali la cui infrazione
comporta sanzioni. Non vi è, tuttavia, una corrispondenza matematica tra norma e azione,
e la distinzione tra conformità e devianza dei comportamenti non è sempre così netta.
Le situazioni della vita quotidiana sono fluide e indeterminate, e le azioni e relazioni
rimandano in realtà a una pluralità di norme, talvolta in conflitto tra loro.
Si possono guardare le norme da un diverso punto di vista, come parte di ‘ modelli
operativi’ o ‘modelli decisionali’, distinti dai modelli ideali. Tali modelli sono un insieme di
istruzioni per prendere decisioni e agire nel modo in modo appropriato, e sono costituiti
oltre che da regole, anche da strategie e obiettivi.
Infine i valori culturalmente definiti, come il prestigio, l’indipendenza economica o il
coraggio, sono parte essenziale degli obiettivi che le persone tendono a raggiungere, e
sono un fattore importante nell’indirizzare il corso dell’azione.
I valori non sono legati a una situazione specifica come le norme; possono quindi rendere
conto di una molteplicità di situazioni: a essi si ricorre per legittimare un comportamento
che non si accorda alle regole previste per il caso. Poiché i valori sono la matrice delle
norme e dei modelli di comportamento, hanno una portata più ampia e generale, e come
tutti i significati culturali sono continuamente intrepretati in maniera nuova.

3. Le vie della trasmissione e dell’acquisizione culturale


La trasmissione della cultura è strettamente collegata al problema del controllo sociale e
dell’adesione degli individui alle convenzioni. Tutte le società sono dotate di meccanismi
di controllo che potremmo definire ‘giuridici’ in senso ampio, e che sono strumento della
riproduzione culturale. Essi provvedono a sanzionare le deviazioni dalle regole e a gestire i
conflitti sociali. Oltre ai codici di leggi e ai tribunali questi meccanismi comprendono il
rimprovero, il pettegolezzo, l’opinione pubblica e i sentimenti di rispetto e vergogna.
La trasmissione di saperi e di comportamenti ha una duplice dimensione di conservazione
e mutamento: nel processo di inculturazione, la cultura è consegnata alle azioni di
individui e gruppi che per quanto vincolate, introducono sempre piccole modifiche e
grandi cambiamenti come nuovi modelli di comportamento o nuovi significati e valori.
La famiglia, nelle diverse forme in cui si presenta, è il contesto principale dei processi di
socializzazione e di trasmissione culturale tra le generazioni. A essa è affidato il compito
della riproduzione biologica, presupposto di qualsiasi forma di riproduzione culturale, e le
sono attribuite funzioni educative che contribuiscono in modo decisivo al processo di
formazione della persona.
La scuola è l’istituzione, invece, a cui è assegnato il compito dell’educazione formale,
incaricata in maniera esplicita dell’istruzione e dell’apprendimento. Gli antropologi,
tuttavia, sostengono che le scuole devono essere studiate come istituzione nella loro
connessione con altre istituzioni, come ad esempio l’economia.

4. La politica della cultura: tradizioni, gruppi e identità.


Il processo di inculturazione costruisce il senso di appartenenza dell’individuo al gruppo,
fornisce cioè all’individuo gli strumenti per identificarsi nella comunità più ampia, sia essa
un’etnia o una nazione. Tutto ciò che viene ereditato dal passato, conoscenze, valori,
regole di comportamento, in forma orale o scritta, è pensato come elemento di continuità
ed è etichettato come tradizione. I termini ‘tradizione’ e ‘costume’ vengono dunque
impiegati per sottolineare l’aderenza del comportamento individuale a modelli di pensiero
e di azione condivisi in passato dalle generazioni precedenti e ritenuti immutabili.
Perciò le tradizioni sono una questione sociale: appartengono ad un qualche ‘ noi’ che
proprio attraverso esse si riconosce come gruppo e acquisisce un’identità collettiva.
Studi recenti hanno svelato la natura sempre mutevole delle tradizioni, le quali vengono in
una certa misura re-immaginate o reinventate nelle situazioni di contatto tra le culture, ma
sempre in maniera relativa ed entro alcuni ‘limiti’ che determinano in ogni caso l’unicità di
quella determinata tradizione.
Ma l’identità sociale non si costruisce soltanto nella condivisione di una tradizione, ma si
plasma anche nella relazione che ogni gruppo intrattiene con gli altri e nel conseguente
bisogno di distinzione. La divisione in gruppi etnici è il modo in cui vengono organizzate a
livello sociale le differenze culturali.
Gli studiosi hanno a lungo considerato l’etnia (dal termine greco ‘ethnos’ che indicava i
popoli e i gruppi che avevano istituzioni diverse dalla polis) nei termini di una nazione
incompiuta, un gruppo non ancora costituito in nazione, ovvero nella comunità che
corrisponde ad uno stato con territorio e confini precisi, dove è il potere centrale a definire
i criteri dell’identità e dell’appartenenza nazionale.
Gli studi antropologici hanno oggi posto in luce che le distinzioni tra le comunità umane
non sono conseguenza dell’isolamento, ma piuttosto nascono dalla comunicazione: il
senso di identità di un gruppo emerge in stretta connessione con il senso dell’alterità.
L’identità etnica acquista un significato nella separazione dall’altro, e quindi il gruppo
etnico emerge come prodotto delle relazioni sociali.
L’etnia si definisce in modo contestuale, selezionando solo alcuni tratti culturali come
distintivi, ovvero ad esempio la lingua, la religione, le forme di matrimonio, il cibo, che si
considerano come propri in contrasto a quelli altrui. L’identità etnica non è immutabile, e
non è un possesso originario dell’individuo, dato alla nascita, ma un prodotto delle scelte e
dei comportamenti legati alle varie situazioni.
I contesti caratterizzati da movimenti migratori sono un ambito di manifestazione
privilegiato delle dinamiche legato all’etnicità, per esempio per quanto riguarda la
formazioni di nuovi raggruppamenti o la rilevanza di un elemento culturale piuttosto che
di un altro della definizione delle identità collettive: in tali situazioni, emerge che identità e
cultura degli immigrati hanno dimensione molteplici, alcune delle quali sono il prodotto
dell’esperienza migratoria e non appartenenti alla ‘cultura di origine’.
Termini come ‘ibridazione’ o ‘creolizzazione’ in tal contesto si riferiscono ai processi di
comunicazione globale che riguardano tutti gli aspetti della vita, dalla politica
all’economia, all’alimentazione, alla musica, all’arte, e i cui risultati sono appunto le culture
in vario grado ‘meticce ‘della scena contemporanea.
L’inserimento di individui e gruppi di culture diverse nei paesi di accoglienza è stato in
genere difficile per problemi economici. Sono gradualmente emerse politiche diverse per
l’inserimento degli immigrati, dal modello dell’assimilazione a quello dell’integrazione e
della differenziazione.
Dalle politiche sociali che gli Stati hanno adottato, emergono nelle loro linee generali due
orientamenti opposti:
1) Il multiculturalismo, la cui prospettiva si fonda sul riconoscimento del valoro
positivo delle differenze culturale e che considera il loro confronto come una risorsa
per ogni contesto istituzionale.
2) L’universalismo, che difende l’universalità di alcuni principi fondamentali, che
ritiene debbano fondare tutte le forme di convivenza sociale indipendentemente
dall’appartenenza culturale degli individui.
7. L’organizzazione delle relazioni sociali

1. La struttura e il processo
Due nozioni particolarmente importanti per l’antropologia culturale sono ‘struttura’ e
‘processo’: il passaggio dalla struttura al processo sociale è stato definito da alcuni
studiosi una vera e propria rivoluzione.
Il significato del termine ‘struttura’, in origine ristretto a contesti organici per poi
rapidamente estendere le sue potenzialità metaforiche alla lingua e, infine, alla società,
vede due definizioni più o meno opposte: quella di Radcliffe-Brown, sulla base della
metafora organica (la società è come un organismo), con un ritorno al significato biologico
per definire la ‘trama dei rapporti realmente esistenti tra gli individui’, e quello di Levi-
Strauss, per cui le strutture sono i legami tra le diverse realtà e si dispongono
trasversalmente rispetto ai contesti locali.
In senso più generale invece, la concezione di ‘processo’ è connessa all’idea del fluire della
vita sociale ed è stata rilevante per le prospettive che hanno studiato le società nel loro
contesto e nel loro tempo. ‘Processo’ indica dunque le sequenze di eventi che ricorrono ,le
regolarità delle azioni e interazioni che generano una forma di organizzazione sociale.

2. L’organizzazione della parentela


Avendo trovato questo capitolo piuttosto complesso e lungo, ho preferito stendere una
sorta di schema di definizioni:
Possiamo definire la ‘parentela’ come un insieme di codici dotato di una coerenza tale da
fornire una struttura alla vita sociale e allo stesso tempo un grado di apertura che ne
garantisce la flessibilità e adattabilità.
Non sempre la ‘parentela’ è strettamente legata alla riproduzione biologica, come nel caso
delle adozioni, e comunque in senso più generico non è l’atto sessuale in sé a definirne la
costruzione sociale, come presso alcune popolazioni indigene melanesiane che non
condividono la stessa nostra concezione di procreazione (credono in uno spirito-
bambino).
I rapporti di parentela possono essere di due tipi:
1) Basati sulla nascita, ovvero fondati sulla ‘discendenza’.
2) Basati sulla relazione sessuale, ovvero fondati sul ‘ matrimonio’
Prima di analizzare il matrimonio e la discendenza in sé, ricordiamo che oggigiorno
esistono alcune pratiche tecnologiche, come la fecondazione artificiale dell’ovulo che
mettono del tutto in crisi questa schematizzazione, seppur non apportino modifiche alla
concezione di ‘parentela’, che abbiamo definito non associata alla costituente biologica.

La discendenza
La ‘discendenza’ è definibile, dunque, come l’insieme dei legami socialmente riconosciuti
tra una persona e i suoi antenati, in base ai quali si formano i gruppi di parentela.
1) La discendenza è quasi sempre di tipo ‘unilineare’, ovvero l’affiliazione di una persona
al gruppo di parenti passa attraverso uno solo dei genitori, secondo:
1. La discendenza matrilineare, secondo cui un individuo è
considerato appartenere allo stesso gruppo di discendenza della
propria madre (come l’ebraismo, in cui un individuo è ebreo se la
madre è ebrea)
2. La discendenza patrilineare, secondo cui un individuo è
considerato appartenere allo stesso gruppo di discendenza del
proprio padre.
Distinguiamo inoltre due tipi di gruppi fondati sulla discendenza:
1) Il clan, un gruppi i cui membri non possono ricostruire la successione degli
individui che connettono i loro rispettivi lignaggi all’antenato comune, ma che
hanno solo un sentimento di appartenenza a una comune discendenza, e spesso
l’antenato è una figura mitica
2) Il lignaggio, costituito da tutti quegli individui che possono tracciare una comune
discendenza da un unico individuo riconosciuto
2) Se la discendenza non è di tipo unilineare è bilaterale o cognatica, quella più diffusa
nei paesi occidentali, nei quali un individuo traccia i suoi legami di parentela sia
attraverso il padre sia attraverso la madre, andando a formare un gruppo sociale
definito ‘parentado’, che tuttavia non nasconderà tratti patrilineari, come ad esempio
il cognome, che nella nostra società viene ereditato dal padre.

Il matrimonio
Possiamo definire il matrimonio come l’istituzione fondamentale della parentela e il suo
fine è, piuttosto che garantire la continuità di un gruppo secondo l’interpretazione dei
teorici della discendenza, quello di favorire l’interazione sociale fondandosi sulla
proibizione dell’incesto e sul principio di reciprocità, la cui finalità principale, secondo Levi-
Strauss, è quella di stabilire o rinsaldare alleanze tra i gruppi.
Lo stesso Levi-Strauss distingue due tipi di sistemi di scambio matrimoniale:
1) Il sistema elementare, il cui obiettivo è quello di rendere stabili le alleanze, per
questo non solo si specificano i gruppi entro cui non si può decidere un partner
sessuale, ma si definisce un determinato lignaggio;
2) Il sistema complesso, in cui si indica solo chi non può sposare, lasciando entro
certi limiti aperta la scelta del coniuge.
Il matrimonio può avvenire all’interno di uno stesso gruppo sociale o meno; in tal caso di
parla di:
1) Endogamia, la norma sociale che prescrive la scelta del coniuge all’interno dello
stesso gruppo sociale;
2) Esogamia, secondo la cui norma la scelta del coniuge può soltanto avvenire nel
contesto di un altro gruppo sociale, diverso dal proprio.
Un matrimonio può anche variare in base al numero di coniugi che i due individui possono
permettersi; in tal casi distinguiamo:
1) Monogamia, ovvero la norma del matrimonio italiano, secondo la quale i coniugi
possono soltanto essere sposati tra di loro;
2) Poligamia, secondo la quale i coniugi possono avere altri mariti o mogli:
1) Poliginia, nel caso in cui è il marito ad avere più mogli (è la più diffusa);
2) Poliandria, nel caso in cui è la donna ad avere più mariti
Gli antropologi hanno inoltre individuato due categorie di compensazione economica
matrimoniale che hanno etichettato come:
1) La ricchezza della sposa, che è cioè l’insieme dei beni che la famiglia dello sposo
conferisce alla sposa
2) La dote, l’esatto contrario, ovvero l’insieme dei beni che la famiglia della sposa
conferisce allo sposo.

La residenza
Analizziamo adesso i diversi modelli di residenza che seguono il matrimonio:
1) La residenza neolocale, ovvero una nuova unità domestica a scelta della coppia,
separata dai nuclei precedenti al matrimonio (è la più diffusa);
2) La residenza patrilocale, nel caso in cui la coppia risieda presso il padre dello
sposo, la cui soluzione è analoga a quella virilocale, ovvero nel caso in cui si
trasferiscano dai parenti generici allargati dello sposo;
3) La residenza matrilocale, nel caso in cui la coppia vada a risiedere presso la madre
della sposa, la cui soluzione è analoga a quella uxorilocale, nel caso in cui si
trasferiscano dai parenti della sposa;
4) La residenza avuncolocale, ovvero la residenza presso il fratello della madre
dell’uomo, che è il parente matrilineare per lui più importante e dal quale un giorno
erediterà.
Le caratteristiche e gli spostamenti residenziali sono influenzati dalle circostanze
ecologiche, economiche e demografiche in cui le persone si trovano a vivere.
Solo in epoca relativamente recente gli antropologi hanno riconosciuto che il termine
famiglia ha indicato legami tra gli individui diversi a seconda del tempo e del contesto
preso in esame. Interessata a studiare l’intrecciarsi di queste variabili piuttosto che un
denominatore comune, la ricerca antropologica ha proposto espressioni come ‘gruppo
domestico’ per individuare le differenti unità di base quotidianamente coinvolte nei
processi di produzione e riproduzione, protezione e consumo.

3. L’organizzazione politica
Nella prospettiva struttural-funzionalista di Pritchard e Fortes, i sistemi politici erano
divisibili in due grandi categorie:
1) le società senza stato (acefale)
2) le società statuali (gli stati primitivi)
La società segmentaria, ovvero acefala e non centralizzata, è un tipico caso in cui le
relazioni politiche si esprimono nei termini di parentela.
I lignaggi (o segmenti) sono disposti nell’ordine gerarchico definito dalla genealogia che
lega i capi lignaggio all’antenato capostipite della tribù.
La principale funzione è quella di fornire uno schema per le alleanze politiche: i lignaggi
che ad uno stesso livello di segmentazione si trovano in una relazione di opposizione, si
alleano per difendere gli interessi comuni in situazioni di conflitto con un lignaggio di
livello superiore.
In questo tipo di società acefale l’ordine è il bilanciamento tra conflitto e cooperazione.
Un esempio di società segmentaria è quella dei Nuer del Sudan.
Gli antropologi di corrente neo-evoluzionista avevano individuato 4 tipi di sistemi politici:
1) La banda, non centralizzato, le cui decisioni sono prese dal gruppo e il cibo, così
come gli altri beni essenziali sono divisi;
2) La tribù, che, per quanto non centralizzata, si distingue dalla banda per l’esistenza
di sodalizi pantribali che uniscono insieme membri provenienti da diversi gruppi
parentali, e che possono essere uniti secondo un criterio di età, sesso, interesse
personale o di ruolo;
3) Il dominio, società centralizzata intermedie tra tribù e stato, in cui il potere
acquisisce un carattere formale, e in cui l’autorità del capo diventa una carica
ereditaria, dotata di stabilità, e il cui accesso alla carica è di solito riservato ai
lignaggi aristocratici;
4) Lo stato, la forma di organizzazione politica oggi dominante, in cui vi è un’autorità
centralizzata e un rapporto di subordinazione tra la diverse ‘ classi’, in cui non è più
la parentela a regolare i rapporti sociali, ma vengono adottati criteri impersonali,
come quello territoriale, e la gestione è affidata ad un apparato burocratico che
impone tasse e controlla le risorse, e vi è poi un clero ed un esercito.
La vita politica in qualsiasi contesto non ha soltanto una dimensione strutturale, non è
fatta soltanto dei meccanismi che la organizzano ma è sempre presente anche un’attività
politica, l’agire consapevole di individui e gruppi, fatto di scelte e di manipolazioni delle
regole. La politica è una dimensione della vita sociale non sempre separabile dalle altre:
come abbiamo visto spesso le relazioni di potere passano attraverso i legami di parentela.
È possibile affermare che il potere ha una natura sfaccettata, non è tanto una forma di
relazione ben distinta e ristretta ad un preciso ambito politico, quanto piuttosto un
aspetto di tutte le relazioni sociali: sono presenti asimmetrie di potere nelle relazioni
uomo-donna, maestro del culto-iniziato, curatore-malato, e ovviamente sovrano-sudditi.
Il potere ha anche una fondamentale dimensione simbolica, legata all’elaborazione
ideologica di significati.

4. L’organizzazione economica
È difficile dare una definizione universale di ‘economia’: a volta è utile pensare
all’economia come ad un insieme di attività, oggetti, rapporti ed istituzioni che può essere
separato da altri aspetti della vita sociale, ma altre volte è adeguato interpretare il
comportamento economico come un modo di pensare che può essere presente in
qualunque ambito culturale.
Per questo motivo si sono da sempre contrapposti due punti di vista:
1) Il punto di vista formalista, che ritiene che le proposizioni elaborate dalla scienza
economica occidentale siano applicabili a tutte le società, e per i formalisti il
comportamento economico è razionale ed indipendente dalle caratteristiche dei
contesti particolari. Le loro indagini adottano pertanto le categorie dell’economica
classica: utilità, interesse, capitale, mercato, domanda, offerta ecc.
2) Il punto di vista sostanzialista, proposto dallo storico dell’economia Polanyi,
secondo cui l’economico assuma una configurazione particolare a seconda della
società: l’economia si basa su principi totalmente diversi nelle varie società.
Polanyi ha inoltre individuato tre modalità di integrazione dell’economia all’interno della
società, che corrispondono a tre forse di scambio reciproco:
1) La reciprocità, o scambio di doni, tipica delle società egualitarie: è un modo di
condividere basato sul senso di obbligo reciproco, sul principio del dare e ricevere.
Alcuni distinguono:
1) Una reciprocità generalizzata, come nello scambio tra un genitore ad un
figlio, quando non ci si aspetta una contropartita immediata ma si sa che gli
scambi col tempo si bilanceranno
2) Una reciprocità equilibrata, un dono che richiede invece di essere
contraccambiato entro un certo limite di tempo, come il baratto
2) La ridistribuzione, secondo cui chi occupa la posizione centrale riceve beni da tutti i
membri del gruppo e ha la responsabilità di ridistribuirli, come ad esempio il
potlatch, una cerimonia di ridistribuzione presso gli Indiani d’America
3) Lo scambio di mercato, ovvero la modalità più recente di scambio, che avviene
attraverso un mezzo intermediario, la moneta, e in cui è il mercato a regolare il
prezzo della merce.
Caratteristica dello scambio di mercato è la contrattazione, in cui ognuno cerca di
ottenere il prezzo migliore.
L’unicità del capitalismo consiste nel genere di rapporti stabilitisi tra commercio,
mercato e moneta.
Alcuni antropologi, principalmente francesi, hanno sostenuto che non si possono
conoscere i meccanismi dello scambio senza prima conoscere i meccanismi della
produzione, come già aveva fatto Karl Marx, alle cui opere questi ricercatori si allacciano.
Secondo questi, i modi della produzione sono il motore dell’attività economica. Il loro
interesse principale è rivolto all’analisi dei cambiamenti sociali ed economici, in particolare
nei contesti africani.
Alcuni antropologi invece hanno privilegiato l’indagine del consumo rispetto a quella della
produzione e dello scambio dei beni, sostenendo che in questo modo è possibile
realizzare una migliore comprensione degli ordinamenti economici delle società. I dati
etnografici dimostrano che nessuna società sfrutta tutte le fonti di nutrimento che ha a
disposizione, rivelando che i ‘bisogni’ di consumo non sono imposti dalle condizioni
ambientali ma sono plasmati dalla cultura.
La scienza economica neoclassica fonda al sua analisi su una netta distinzione tra al sfera
pubblica della produzione e l’ambito privato della gestione domestica e del consumo
familiare.
Le studiose femministe hanno evidenziato come l’economia moderna impieghi categorie
culturali proprie della società occidentale per quanto riguarda genere e divisione del
lavoro, assegnando le donne all’ambito domestico e gli uomini a quello economico, e
trasformi questo modello culturale in regola universale.

8. L’antropologia nella società

1. I percorsi professionali degli antropologi


L’immagine tradizionale degli antropologi li presenta come esploratori degli usi e costumi
di popoli ‘lontani’: in realtà l’antropologia può essere usata anche nell’analisi delle società
complesse come la nostra. Ciò dipende anzitutto dal fatto che gli antropologi, tramite
l’osservazione partecipante, costruiscono un contatto diretto e prolungato con i diversi
gruppi umani.
Inoltre gli antropologi sono abilitati dalla loro disciplina ad esaminare le situazioni on
ottica comparativa, a rivelare l’etnocentrismo (ovvero, come abbiamo già detto, la
tendenza a giudicare le altre culture ed interpretarle in base ai criteri della propria)
presente in tutte le pratiche sociali, a considerare i fenomeni sociali in una visione unitaria.
L’antropologia culturale, può essere così coinvolta, oltre che nei problemi di mediazione e
cooperazione fra culture diverse, pressoché in tutti i settori sociosanitari, nella scuola, nel
settore economico e di impresa, e così via.
Oggi il contributo degli antropologi è indispensabile anche nelle organizzazioni
internazionali, nella consulenza delle contese per le autonomie locali ed indigene, ma
anche in attività molto più vicine al nostro quotidiano, come ad esempio la
programmazione delle politiche sociali e delle politiche internazionali, come i casi dei
rifugiati di guerra, o l’analisi dei consumi e del rapporto con l’ambiente.

5. L’antropologia medica
È stato di importanza grandiosa lo sviluppo dell’antropologia applicata nel settore medico.
L’antropologia medica, una delle branche dell’antropologia applicata, si occupa del
significato culturale delle malattie e della salute, dei sistemi delle pratiche sanitarie ecc.
Un importante insegnamento dell’antropologia medica è quello sulla relatività di
concezione, istituzioni e pratiche che ciascuna società costruisce intorno a salute e
malattia: gli antropologi possono essere quindi oggi chiamati in causa della formazione
del personale medico-infermieristico, nella preparazione di programmi di prevenzione,
nella gestione da parte di servizi sociosanitari territoriali delle terapie a pazienti di culture
diverse.

6. L’antropologia dell’educazione
Come l’antropologia medica, anche l’antropologia dell’educazione ha sviluppato
risultati interessanti: essa si occupa principalmente di considerare i significati culturali della
globalità dei fattori implicati nel sistema educativo, il modo in cui questi interagiscono con
la società nel suo complesso, con i gruppi che lo costituiscono e con la totalità di vita dello
studente. Gli antropologi dell’educazione hanno cercato di analizzare la misura in cui un
sistema scolastico può essere flessibile alla diversità culturale, consapevole dei problemi
delle minorazione oppure magari organizzato in maniera rigida sui presupposti della
cultura dominante.

7. L’antropologia dell’impresa
Esiste anche un’altra branca dell’antropologia applicata, ovvero quello dell’antropologia
dell’impresa, i cui antropologi hanno osservato in chiave comparativa le ‘culture
dell’impresa’, sia allo scopo di affrontare il trapianto di imprese in contesti socioculturali
diversi sia con l’obiettivo di esaminare la possibilità di applicare all’interno delle
organizzazioni approcci alla produzione mutuati da diverse culture.

8. L’analisi critica del ruolo dell’antropologia applicata


Negli ultimi anni, gli antropologi si sono chiesti in che misura il loro intervento nei
confronti degli ‘altri’ non fosse frutto di etnocentrismo e universalismo culturale, simili a
quelli che hanno orientato l’opera di psicologi e sociologi. Inoltre viene discusso se gli
antropologi debbano mantenere l’atteggiamento degli ‘scienziati neutrali’ limitandosi a
fornire i risultati delle proprie ricerche sulla ricaduta di scelte e politiche in determinati
contesti oppure ammettere che non esistono posizioni neutrali e quindi impegnarsi
apertamente per le scelte che giudicano giuste, in particolar modo dopo il coinvolgimento
degli antropologi stessi nel ‘progetto Camelot’ negli anni ’60, in cui veniva loro chiesto di
valutare le cause alla base dei sentimenti anticomunisti in Cile in un periodo di guerra.

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