Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
20/10/2021
LIBRI
Antropologia culturale, Fabio Dei
Prima lezione di antropologia, Francesco Remotti
L’antropologia nasce nel 1950 circa.
Prima c’era una distinzione tra antropologo sociologo e antropologo culturalista, ma ora
questa distinzione non c’è più (dalla fine dell’800). Oggi le diverse “etichette” che
identificano diversi tipi di antropologia, rientrano tutte nell’ambito dei “cultural studies”.
In origine, la differenza tra antropologia sociale e culturale era che:
l’antropologia sociale era legata all’Europa strutturalista, e serviva a capire il funzionamento
della società. Il suo asse si era spostato dall’Inghilterra alla Francia, dove è diventata poi
sociologia.
L’antropologia sociale studiava i fenomeni partendo dal basso, come l’individuo reagisce ai
vari fenomeni, mentre la sociologia parte dall’insieme per arrivare agli effetti sul singolo.
L’antropologia culturale invece si è sviluppata in America, e l’interesse era legato non ai
problemi sociali politici, economici…, ma alla relazione tra individuo e religione. Fino a
pochi decenni fa con antropologia culturale si intendeva qualcosa che sfociava più nella
filosofia.
Negli ultimi 20 anni è andata scomparendo questa distinzione; i pensieri, i ruoli sono
contaminati e intrecciati.
Questa visione è nata perché necessaria a descrivere una società così complessa.
Tuttavia, le due scuole (settorializzazione dell’antropologia e contaminazione) coesistono
ancora oggi.
COS’È L’ANTROPOLOGIA?
L’antropologia è la scienza dell’uomo considerato sia come soggetto, individuo (Uomo come
essere pensante, che produce documenti culturali) sia in aggregati, comunità, situazioni.
Aggregato: condizione di essere in un gruppo senza averlo scelto, o senza esserci nato.
Comunità: incontro volontario con altri, o appartenenza a una data cultura. Tutto quello che si
fa nella tua comunità ti pare normale.
Non basta considerare la singola persona, bisogna considerare l’armonia tra la singola
persona e le persone intorno, o tra le diverse comunità tra loro.
DEFINIRE LA CULTURA:
Ogni aspetto della nostra vita costituisce cultura. Fino a qualche anno fa si intendeva con
cultura solo l’educazione formale, che in realtà ne costituisce solo una minima parte.
La cultura è dunque il complesso degli elementi non strettamente biologici attraverso i quali i
gruppi umani si adattano all’ambiente (In ogni ambiente c’è una risposta adattiva che è in
parte biologica, in parte culturale) e organizzano la propria vita sociale. Ovviamente dipende
dalla grandezza dell’ambiente in cui si vive. Se si vive in una grande città, comunità e
aggregato si sovrappongono, c’è una comunità di cui ci importa che fa parte di un aggregato
più grande
In quest’ottica fanno parte della cultura attrezzi e tecniche di lavoro, (per adattarci
all’ambiente produciamo tecnologia) trasmissione del sapere (trasmissione scritta, orale,
segreta..), istituzioni sociali, la lingua e gli altri codici comunicativi, i valori e le credenze…
Distinguere tra il dato biologico e il dato culturale è un’operazione spesso difficile, perché è
difficile non essere condizionati dalla propria visione. Tu, nato in una data comunità, assorbi
tutto ciò in cui sei sempre stato come natura, non come cultura. Dai per scontato che sia
naturale, ad esempio, non mangiare le cavallette, mentre che sia culturale per qualcun altro.
L’altra persona, invece, considererà naturale mangiare le cavallette, e culturale il tuo non
farlo.
Bisognerebbe mettersi in una situazione di astensione dal giudizio.
La cultura, infatti, si incorpora (embodiment), divenendo ed essendo percepita come fatto
naturale (= es. provare ribrezzo davanti a certi atteggiamenti).
Un altro aspetto dell’antropologia è dato dall’antropologia fisica; in Italia la disciplina è
suddivisa in due branche:
M-DEA/O1= antropologia culturale
L-BIO/08= antropologia fisica, legata alla biologia, che è studiata dagli antropologi forensi e
si occupa di caratteristiche fisiche (forma del cranio, dentatura, resti biologici…)
L’antropologia fisica è stata usata dal positivismo per “giustificare” teorie razziali e di
evoluzionismo.
Assuefazione alla consuetudine ci porta a dare per scontati determinati comportamenti che
adottiamo sin dalla nascita, e a considerare “strano” chi non adotta gli stessi comportamenti.
Per avere uno sguardo antropologico, dobbiamo renderci conto di quanto siamo condizionati
dalla comunità dove siamo nati e/o abbiamo vissuto. La consuetudine ci comanda, fa in modo
che non ci poniamo nemmeno il quesito. (Michel de Montaigne, XVI secolo)
Quello che è fuori dai cardini della consuetudine lo si giudica fuori dai cardini della ragione.
Bisogna astenersi dal giudizio, in modo da vedere le differenze, ma anche saperle collocare in
una storia, in un contesto, in una determinata società
Etnologia/etnografia: è quella parte dei cultural studies che si occupa di studi settoriali su
specifici popoli e culture in ogni parte del mondo (normalmente lontani), per trovare il
‘popolo incontaminato’. Si occupa della descrizione dei comportamenti, di come funzionano
le cose e di come si svolge la vita nei singoli popoli. Andare in un ambiente del tutto opposto
facilita lo studio antropologico, perché si nota tutto, si ha uno shock culturale che ti spoglia
dalla consuetudine. Fare esperienza antropologica in luoghi vicini, vuol dire avere già
processate alcune differenze.
Dagli anni ’90 in poi, a causa della globalizzazione, è sempre più difficile studiare popoli
come ‘incontaminati’. Le grandi opere etnologiche sono state prodotte dagli anni ’50 agli
anni ’90. Oggi questo tipo di opera deve essere aperta ad uno sguardo più ampio.
CON LA GLOBALIZZAZIONE?
La contaminazione tra culture c’è sempre stata, è nata con l’uomo, non c’è mai stata una
comunità umana isolata dall’altra, ma la globalizzazione ha accelerato i tempi. Ora questi
fenomeni di contaminazione avvengono in maniera rapidissima, grazie ai voli, a internet.
La globalizzazione è un processo omologante, che va bene se è scelto in maniera
consapevole, ma questo non è quasi mai possibile.
27/10/2021
Tutto quello che facciamo ogni giorno deriva da una globalizzazione risalente anche a tempi
in cui di globalizzazione non si parlava: i tessuti provenienti dall’Oriente, ecc…
Il livello 1 è quello di base, e analizza il comportamento di ogni singolo individuo, che vive
all’interno della sua società. Si basa sull’osservazione. Il secondo livello di analisi, invece, si
basa sul fatto che dal comportamento dell’uomo si traccia una panoramica della società in cui
l’individuo vive. Il terzo livello non descrive più il caso singolo, ma mette a paragone un caso
singolo con altri casi simili e ne estrae una visione sul caso x nel mondo occidentale, ad
esempio. È un approccio anche comparativo.
Livello 1 osservazione
Livello 2 descrizione della società
Livello 3 comparazione
COS’È L’ANTROPOLOGIA
L’antropologia è un sapere di frontiera, di confine (critico e marginale rispetto al mondo da
cui nasce), è un sapere che esce sulla frontiera tra culture diverse. Questo vuol dire uscire sul
confine del senso comune all’interno della cultura in cui uno nasce. [Ugo Fabietti]
Anthropologos= chiacchierone, pettegolo del paese, chi era morbosamente curioso di cosa
facevano gli altri.
Secondo la definizione aristotelica, la nostra società è altamente antropologica, perché non va
oltre la curiosità morbosa, addita gli elementi che la compongono come “mostruosi” o
“sbagliati”.
La curiosità che non è morbosa, ma che si astiene dal giudizio, può essere antropologia. Lo
sguardo antropologico dovrebbe essere uno sguardo curioso,
multidisciplinare per sua natura. Ha a che fare con
Archeologia e storia
Geografia
Scienze umane
Scienze della cognizione (l’ambiente in cui nasci condiziona il tuo percetto sensoriale,
che poi viene veicolato in maniera diversa nelle diverse lingue) il tuo mondo viene
diviso in paradigmi in base alla tua esperienza.
Linguistica...
Avendo come oggetto di studio comportamenti che hanno una marcatura sociale, non si
possono creare ambienti di laboratorio. Allo stesso modo, l’antropologia è fuori dalla legge
dei grandi numeri (al contrario della sociologia). L’attenzione è veicolata sul profondo, sul
modello qualitativo. La sociologia invece si affida alla statistica, ai numeri, ai grafici, è
quantitativa. L’antropologia si avvicina alla filosofia, con la differenza che la filosofia si
riferisce principalmente al mondo occidentale.
Non è però una disciplina ascientifica: tuttavia può aiutare le scienze dure a capire come
comportarsi in situazioni diverse da quelle a cui sono abituate.
Claude Levy-Strauss punta tutto sullo sguardo lontano; tentare di guardare all’essere umano
come se tu non ne facessi parte, cercare di guardare ai popoli più lontani per capire ciò che è
diametralmente diverso. Una volta affinata questa capacità, ci si può riavvicinare e cogliere
differenze anche in ambienti più “simili”.
L’approccio è chiaramente comparativo, ma allo stesso tempo critico della stessa società da
cui ha origine lo studio. Si mettono a paragone certe esperienze, ma considerando la tua
esperienza come UNA DELLE POSSIBILI ESPERIENZE, non come IL MODELLO, come
l’unica esperienza possibile.
Ernesto De Martino (anni ’50) parlava di scandalo etnografico (approccio emico): se ti metti
nella posizione di osservare davvero la tua società, questo incontro-scontro manda in
cortocircuito tutto ciò in cui hai creduto fino a questo momento.
Il ruolo dell’antropologo passa da un ruolo teorico a uno fattivo, implicato e applicato.
ANTROPOPOIESI
il fatto di darsi una forma come società implica il formare le future generazioni per aderire al
modello.
Qualsiasi educazione è impositiva di un modello, considerato dai genitori adeguato a
integrarsi nella società in cui si vive. Togliere quello che la comunità ritiene molesto,
deviante, e modellare tutto il resto. Questa parola è stata coniata da Francesco Remotti.
Questo imprinting è funzionale all’incontro con l’altro, senza questo non si ha percezione di
se stessi.
Bisogna considerare quegli elementi del gruppo che non sono aderenti alla forma
scelta e che stanno tra alterità ed emarginazione. (scegliere tra inclusione ed
emarginazione, dialogo e accettazione o giudizio ed esclusione).
Considerare che spesso nell’incontro con l’altro, le singole forme di umanità si
riconoscono incomplete.
Quanto più si costruiscono forme complesse di umanità, tanto più tali forme di
rivelano dipendenti e incomplete.
LEZIONE 3
10/11/2021
LE FONTI DELL’ANTROPOLOGO
Tutto ciò che viene prodotto in ambito antropologico, come nelle altre discipline, viene
prodotto all’interno di un sistema che ha una propria sensibilità e un proprio modo di
focalizzare i problemi e di affrontarli. Bisogna dunque tenere presente l’equilibrio precario
tra la persona che svolge lo studio e il medico scientifico.
È così nato il posizionamento, la declaratoria iniziale dell’antropologo, una sorta di
“ammissione” che la nostra posizione sarà condizionata da dove e quando siamo nati, dove
siamo cresciuti…
Per avere una visione maggiormente ampia dei problemi da affrontare si fa riferimento a
diversi tipi di fonti:
Fonti orali: lo strumento più comune (perché la maggioranza delle popolazioni studiate non
hanno una scrittura e una documentazione scritta diacronica, e perché l’antropologia è
incontrare l’uomo faccia a faccia, al di là di quelli che sono i suoi prodotti ((Geertz))
Non sono sufficienti da sole, perché le persone possono mentire, anche per fare bella figura
Fonti scritte: per lungo tempo non considerate, oggi sempre più necessarie ad un approccio
olistico alla disciplina nel suo avvicinarsi alla storia (sono necessari in contesti a noi più
vicini, per confrontare in senso diacronico l’attuale incontro con le fonti scritte. È solitamente
“più indietro” rispetto alle fonti orali.
Fonti iconiche: fotografie e riprese necessarie come nuovi strumenti di narrazione,
soprattutto nell’antropologia visiva (produzione artistica di una determinata comunità, arte
pittorica, architettura, scultura, murales)
Fonti materiali: oggetti, manufatti, strumenti, reperti vari, utili soprattutto per l’entomologia
museale. Si tratta di oggetti, tecnologia, vestiario, ornamento. L’essere umano non è
monodirezionale, ma pluridirezionale, ogni volta che produce qualcosa fa una scelta.
Esseri umani, per loro natura mutevoli e mutanti, e che hanno comportamenti stravaganti
• Sistemi di parentela
• Sistemi economici
• Stratificazione sociale
• Linguaggio e CNV (comunicazione non verbale); la lingua riguarda il codice verbale, il
linguaggio indica qualsiasi forma di comunicazione: vestiario, gesti, ecc.
• Religione e magia
• Etnoscienza (conoscenze tecniche popolari); produzione di sapere e tecnologie inculturate
• Espressione estetica (che è un linguaggio)
• (Mutamento culturale); prima si vedeva come un’evoluzione da uno stato di primitività a
uno stato di modernità, pensiero positivista adottato fino a poco prima degli anni 2000.
Possono essere interessanti, ma vanno contestualizzati.
IL RISCHIO DELL'ETNOCENTRISMO
Incontrare l'umanità faccia a faccia (C. Geertz): bisogna capire che tutto ciò a cui
ci troviamo di fronte è frutto di una cultura, che deve essere compresa prima di
essere cambiata. Il compito dell’antropologo è di mettersi nella condizione di
mettere in discussione se stessi nell’incontro con l’altro.
L'immersione con i 5 sensi (stare sempre molto all’erta, attenti a tutto quello che il
luogo e le persone che lo abitano ci danno dal punto di vista delle nostre reazioni
biochimiche) perché ci sentiamo a nostro agio/a disagio in determinate
situazioni, mentre per altri è il contrario?
Approccio emico versus etico (sempre Geertz: approccio emico utopia, cercare
di dar conto di qual è la vita di un determinato gruppo dall’interno, attraverso
un’immersione totale. Questo tipo di approccio è un tentativo, che è ovviamente
limitato. Casomai si può parlare di visioni multisituate (dell’antropologo, che ha
una sua forma mentis e degli interlocutori, che l’antropologo fa parlare nelle sue
monografie. Si riportano tutti i materiali registrati in maniera tale da rendere
evidente su cosa l’antropologo si è basato per la stesura della sua opera.
L’approccio etico consiste nel dichiarare che l’antropologo appartiene a una
determinata cultura, ne descrive un’altra, con tutti i bias che ciò può comportare.
Lezione 4
17/11/202
RELATIVISMO
LE PERSONE COINVOLTE
• L’antropologo (o etnografo)
• L’ospite (che ti ospita e ti apre le porte della sua società. Selezionare il tipo di
ospite presso il quale stabilirsi è importante.)
• L’informatore/interlocutore/mediatore (colui che ti informava sulla propria
cultura, il proprio modo di fare le cose.) il termine “informatore” ora è visto
come un termine negativo, poliziesco, di spia. Dà anche l’idea di una figura
“Passiva”, che risolve i dubbi sollevati dall’antropologo. Per questo ora si
parla di “interlocutori” (rapporto paritario), anche se potrebbe sembrare una
cosa occasionale; dunque, si è arrivati al termine “mediatore”: una persona che
ne sa più di te e ti informa di ciò che devi sapere.
Il campo e l’osservazione partecipante (se non sono sicuro sull’ospite da cui farmi
ospitare, è meglio andare in un luogo “neutro”, e stare lì qualche mese, costruirsi una
piccola rete e cercando di capire quali sono le persone su cui fare affidamento, a cui
chiedere di ospitarmi). Una volta entrato in una famiglia, dovrei assumerne le
abitudini. L’osservazione partecipante dovrebbe essere un periodo in cui capisco
l’organizzazione del potere, i diritti di genere, i ruoli. Spesso si adotta
un’osservazione coperta, in incognito, senza dire che in realtà si sta svolgendo un
lavoro di documentazione. Ovviamente si rischia la propria vita, e anche di inficiare il
lavoro di qualcun altro che vorrebbe fare lo stesso lavoro ma non ne avrà la
possibilità.
Le storie di vita. Far raccontare le storie di vita nella maniera più naturale possibile, in
maniera rilassata, chiedendo di raccontare ciò che si vuole della propria vita, per
cercare di capire gli snodi centrali della cultura della persona e i punti di attenzione
delle persone locali, che possono essere molto diversi da quello che si crede. Anche
l’ordine in cui gli argomenti vengono fuori è un dato interessante per l’antropologo.
Le interviste semi-strutturate. Una volta individuati i nuclei centrali, si può
organizzare una scaletta per gli incontri successivi, per snodare meglio le questioni.
I questionari strutturati. Strumenti quantitativi, quando l’indagine diventa sociologica,
per avere un quadro generale. L’antropologo arriva ad utilizzare il questionario
strutturato solo quando fa antropologia applicata, quando il suo lavoro di antropologo
qualitativo è di preparazione a un questionario strutturato e alla raccolta di dati, utile
alla creazione di un progetto quantitativo sul terreno.
Il diario di campo. È uno strumento sul quale ogni giorno si scrivono le reazioni
“improprie”, insieme alla situazione che le ha suscitate, per poterle rivedere. Si
dovrebbero notare tutti i propri punti di disagio, per capire se derivano dalla propria
forma mentis, dalla reazione inaspettata dell’interlocutore…
E LA TECNOLOGIA?
Ognuno di noi si colloca in un certo modo per quanto riguarda il diritto alla privacy. Se un
diritto è indispensabile per te, dovresti riconoscerlo anche a una persona che ritieni altrettanto
degna.
Registrare sì o no... (trattare tutti allo stesso modo, va chiesto il permesso a tutti)
Registrare come... il fatto stesso di registrare inficia la naturalità del processo. Ci sono
tutti degli accorgimenti per camuffare le macchine da presa, scartando tutto ciò che
avviene davanti alla macchina da presa per i primi tempi, fino a quando la vita non
riprende a svolgersi in maniera normale. Ci vuole del tempo per far sì che le persone
si rilassino davanti a un registratore, bisogna rassicurare la persona che la
registrazione si può fermare in qualunque momento.
Il problema dei diritti d’autore
Il problema della privacy
Il consenso informato (tutti quelli che partecipano come interlocutori all’immagine
antropologica devono compilare un modulo, in cui li si informa della partecipazione
all’indagine, la durata dell’indagine stessa, si accetta l’utilizzo delle proprie immagini,
la registrazione. La firma dovrebbe essere certificata da un testimone che assiste. Nel
caso in cui la persona non sappia leggere e scrivere, si fa un consenso verbale, che va
registrato/ripreso.
Non sono fattori che inficiano la ricerca, ma sono fattori su cui ragionare per poter condurre
al meglio l’indagine.
In alcuni casi si è trovato utile lavorare in un team, ognuno con caratteristiche fisiche
differenti, in modo che ciascuno possa adattarsi a un ruolo che la società attribuisce. Ognuno
avrà un quadro diverso della società, e insieme si potrà costruire un quadro complessivo della
realtà più poliedrico.
I DIRITTI UMANI
È necessaria una sorveglianza critica per evitare posizioni etnocentriche nella definizione
dei diritti.
Es. diritti dei bambini (chi sono?); MGF; fine vita, diritti degli animali…
È necessario sangue freddo per affrontare certi temi. Ci impegniamo affinché i diritti che noi
consideriamo “normali” vengano riconosciuti altrove. Ci sono antropologi che si occupano di
tentare di far dialogare diverse culture per portarle ad allargare i diritti. Questo tipo di
antropologia è considerato un sottoprodotto, perché l’antropologo non dovrebbe essere
proattivo, ma fornire dei documenti per una ricerca accademica.
Antropologia 24/11
LA STORIA
Precursori dell’antropologia:
Grecia: Aristotele (IV sec. AC) descrive l’anthropologos come un incline a parlare della
gente, e successivamente Erodoto di Alicarnasso (V sec. d.C.) e le sue istoriai. Erodoto era
stipendiato dai militari per fare il resoconto dei viaggi, alla ricerca delle sorgenti del Nilo.
Roma: Strabone I sec., Polibio II sec., ma anche Giulio Cesare con il De Bello Gallico (I sec.
l’idea di studiare il nemico prima di invaderlo, di osservare le tecniche di produzione, di
costruzione delle fortificazioni, con un’osservazione etnografica) e Tacito nella Germania (I
sec.)
Nel Medioevo:
Dal Medio Oriente, a seguito dell’espansione dell’Islam: Ibn Khaldun e Ibn Battuta (XIV
sec.)
Dall’Europa: Marco Polo (il Milione – XIII secolo)
Come disciplina, l’antropologia nasce nella seconda metà dell’Ottocento e nasce in una
determinata moda culturale, quella del Positivismo. Il Positivismo seguiva la logica
darwiniana dell’evoluzione umana, per cui da un punto di primitività si fa un percorso
obbligato fino ad arrivare ad un punto di miglioramento della specie che va verso la
modernità. Sono anni di fiducia nel progresso e di sviluppo capitalistico inarrestabile, di
nazionalismo e colonialismo, alla base delle visioni del periodo.
L’idea alla base dei primi tentativi di ricerca antropologica è fondata sull’esistenza dei popoli
primitivi (poligenesi delle razze umane, razza superiore più moderna).
I primi due antropologi sono stati E.B. Tylor (padre dell’antropologia sociale; 1871,
“Primitive culture”, si basa su evoluzionismo culturale) e J.G. Frazer (padre dell’antropologia
culturale;1890, “The Golden Bough. A study in Magic and Religion.” Si tratta di un
continuum tra magia- religione – animista, politeista, monoteista, teologia contemporanea e
scienza. –
Sono entrambi inglesi, ed entrambi hanno fatto antropologia senza spostarsi effettivamente
dal luogo in cui si trovavano. Le fonti sulle quali si basavano erano fonti di seconda o anche
terza mano (fotografie, racconti di viaggio). L’archeologia nasceva in questo periodo.
Si immagina in questo momento che ci siano diversi stati obbligati e che quindi si possano
collocare le varie culture in un continuum che va dai primitivi ai moderni.
Alla base c’è il concetto darwiniano di evoluzione poligenetica; l’antropologia come
disciplina che studia l’evoluzione umana nell’ambito della cultura secondo un principio
uniformista che porta necessariamente a una sequenza fissa di fasi o stadi da + primitivo a +
moderno.
Nelle società più moderne ci sarebbero sopravvivenze di fasi precedenti. Oggi questa idea si
ha soprattutto in Occidente, perché con la cultura di massa oggi, chi utilizza tecniche
produttive proprie è una mosca bianca.
Il metodo utilizzato è comparativo, con esempi incompleti e decontestualizzarti da tutto il
mondo e fonti di seconda mano.
Si prendevano a paragone singoli tratti, senza avere un’idea di tutto il contorno, senza
inserirle in una dimensione di senso collettivo. (anche se esistevano “manuali” per il
raccoglimento di dati, es. “Notes and Queries on Anthropology – Royal Anthropological
institute dal 1870).
Il ricercatore sul campo e il comparativista sono due figure separate. L’antropologo vero era
considerato il comparativista, che pagava qualcuno per andare a raccogliere dati.
(Frazer: “etnologia descrittiva e quella comparativa devono essere tenute rigidamente
separate: tentare di combinarle vuol dire rovinarle entrambe”)
I viaggi diventano più facili, si trovano le cure alla malaria, ci sono più regole igieniche.
Nella accademia occidentale si affermano altre discipline, come la geografia e la geologia, e
dai geografi arrivano una serie di documentazioni. Si iniziano ad incontrare le persone, e ad
abbandonare l’idea del positivismo, anche grazie ad alcuni resti archeologici. Si inizia a
parlare di monogenesi della razza umana.
Si comincia anche in questo periodo a parlare di un altro concetto: il relativismo. Queste
differenti manifestazioni di strutture sociali, religiose ecc. è correlato alla contestualizzazione
ecologica nella quale si inseriscono i vari gruppi. C’è dunque una specificità in ogni gruppo
determinata dall’ambiente in cui questo gruppo vive.
I vari comportamenti sono varie risposte della razza umana alla nicchia ecologica.
Leo Fronibus, etnografo, scrive “Die Gedeimbünde Afrikas”, 1894 e istituisce
l’Archivio Africano a Berlino nel 1938
Franz Boas (USA) e il relativismo culturale. “The mind of primitive man”, 1911,
basato sul particolarismo storico.
Oltre all’antropologia, inizia a nascere un’altra disciplina, la sociologia, che va dal macro
verso il micro, al contrario dell’antropologia.
Il padre fondatore della sociologia e dell’antropologia sociale è Émile Durkheim (1858-
1917), un relativista statunitense che per la prima volta parla di “fatto sociale”.
Un fatto sociale è “qualsiasi maniera di fare, fissata o meno, suscettibile di esercitare
sull’individuo una costrizione esteriore”. (più tardi chiamato habitus). Si tratta di un modo di
fare talmente radicato in un gruppo umano da costituirne un modello; chi condivide il fatto
sociale fa parte del gruppo, chi invece lo contesta diventa il reietto.
Da questo discende il concetto di coscienza o rappresentazione collettiva, come mediatore tra
l’individuo e la società (basilare la performance rituale). Ci sarebbe un’entità, spirito guida,
rappresentazione collettiva del modo giusto di fare le cose alla quale ciascun membro della
società dovrebbe attenersi per non rimanere ai margini.
Durkheim metteva questo sotto una luce ulteriore: tutto questo rappresenta una dimensione
sacra a questa società. La connessione religione- società è centrale, come se ci fosse uno
spirito sovraindividuale che aleggia all’interno del gruppo e che fa sì che il gruppo si adegui.
In caso contrario, nasceranno tensioni all’interno. Questo fatto della sovraindividualità è di
garanzia, e chi si discosta mette a repentaglio la sicurezza del gruppo. La sovraindividualià
del collettivo è l’asse portante dell’esperienza religiosa nel sacro, e dell’esperienza sociale nel
profano.
1° DICEMBRE
Malinowski cercava di dare il punto della società dal punto di vista indigeno. Tuttavia questo
termine è visto come termine derogatorio, come popolazioni ‘arretrate’. All’epoca, però,
offrire il punto di vista dell’indigeno non aveva la connotazione di oggi. Era anche il periodo
in cui il viaggio inizió ad essere più accessibile.
Osservazione e interpretazione scientifica non sono separabili, bensì necessarie l’una all’altra
.
“Le condizioni appropriate per il lavoro etnografico [..] consistono principalmente nel
tagliarsi fuori dalla compagnia di altri uomini bianchi e nel restare in contatto il più stretto
possibile con gli indigeni” B. Malinowski
Obiettivo dell’etnografia “ afferrare il punto di vista dell’indigeno, il suo rapporto con la
vita...”
Ad ogni antropologo il suo popolo, un popolo colonizzato che vive in un tempo e in una
condizione politica artificiosamente immobile. C’era una sorta di corsa alla ricerca di un
popolo specifico, di cui dovevi essere l’unico descrittore. Se un campo era occupato da altri,
o l’altro era il tuo maestro o niente. Gli antropologi non volevano campi già percorsi da altri,
c’era un ideale di territorialità.
Quando si è cominciato ad avere seconde o terze generazioni di antropologi che tornavano in
luoghi già visitati da maestri, le osservazioni venivano completamente ribaltate. Questo
accade perché ognuno di noi si concentra su aspetti diversi dell’alterità, mettendoli in
evidenza rispetto ad altri. Questa ondata di “un antropologo il suo popolo” è stata frutto della
svolta di Malinowski, ma è stata quindi superata.
La dimensione comparativa riemerge poco dopo: non più comparazione di singoli tratti
deconstestualizzati, bensì di interi sistemi culturali.
L’ANTROPOLOGIA E LE AVANGUARDIE
Finalmente si inizia a pensare che le culture primitive abbiano la capacità di autogestirsi. Ora
si inizia a sovravvalutare tutte le parti del mondo che sono state osservate. Dal disvalore, si
passa a considerare a considerare il selvaggio come l’essere umano migliore, il “buon
selvaggio”
Le culture “primitive” avrebbero:
un rapporto più autentico con gli universali dell’esistenza umana, il sacro, l’inconscio, la
capacità di esprimere concetti attraverso forme estetiche “pure”.
Le avanguardie vedono anche nelle manifestazioni artistiche e musicali la manifestazione di
questo rapporto diretto con l’esistenza
Griaule descrive il percorso dell’etnografo come percorso iniziatico (Dio d’Acqua 1948),
perché era appunto era stato iniziato ai misteri del sacro della popolazione Dogon. (si è poi
scoperto che il contenuto di Dio d’Acqua era semplicemente il punto di vista dell’informatore
di Griaule, e non era condiviso da tutta la popolazione). Ciò che è scritto non è dunque per
forza vero e immutabile per tutti coloro che fanno parte di una determinata popolazione.
Ispirato alla linguistica strutturale di Ferdinand De Saussure, non ha mai definito se stesso
uno strutturalista, sta a cavallo tra strutturalismo universale e relativismo.
Struttura sociale come categoria dello spirito umano, entità astratta (langue et parole)
Egli ha dato la migliore definizione di essere umano, definito come bricoleur, una persona
che fa quello che può con quello che ha. Se non riesce con quello che ha in mano studia, si
impegna, ma è sempre un processo che va dalla cosa più semplice a quella più complessa.
Questa è la natura umana base, accanto alla quale abbiamo esempi diametralmente opposti,
ma alla base l’uomo è bricoleur.
In “Les Structures élémentaires de la parenté”, 1949 si oppongono codici binari, ma la realtà
è sempre più complessa. Suo è il concetto di bricolage.
Tutti i fattori del sacro sono fatti sociali, non religiosi.
IL POST STRUTTURALISMO
LA SVOLTA RIFLESSIVA
Cominciano ad esserci pensatori preparati che provengono dal sud del mondo.
Si chiude l’epoca della colonizzazione e si scopre che non esistono più i “primitivi” o gli
“indigeni”, oggetti muti e inconsapevoli, bensì persone con una propria agency. Ciascun
gruppo si adatta al proprio ambiente e alla propria rete di rapporti in una maniera che è sua
propria. Da un lato c’è il riconoscimento di questa idea sbagliata di uomini primitivi,
dall’altra il fieldwork, da momento di osservazione oggettiva diventa un’esperienza
personale, e si capisce che è di fatto impossibile l’osservazione asettica. Ogni antropologo ci
mette del suo, quindi bisogna riflettere sul proprio posizionamento
Franz Fanon, martinicano, psichiatra e antropologo (1925-1961) I dannati della terra (1961).
Il fieldwork diventa esperienza e non più osservazione partecipante e le monografie sono testi
dialogici e non più solo descrittivi (si riscopre il diary di Malinowski).
Per Geertz (Interpretazione di culture 1973), l’uomo è un animale sospeso tra ragnatele di
significato che egli stesso ha tessuto. Comprensione possibile, ma sempre imperfetta.
L’uomo è un creatore di ragnatele di significato, che mette insieme un’impalcatura per
comprendere ciò che gli viene detto. Bisogna quindi distinguere l’interpretazione personale
dai dati che emergono invece dal terreno.
Oggetto dell’antropologia sono le forme di vita che bisogna in- scrivere in un testo narrativo.
Si parla di costruzione di effetti di realtà.
Prospettiva assunta negli anni ’80 dal movimento Writing Culture (Clifford e Marcus) che
definisce la nuova forma di scrittura etnografica realista.
Si arriva alla svolta realista, che cerca di eliminare il ‘filtro’ e di dare un’esperienza diretta.
Nasce l’antropologia visiva, che consiste ne, mettere delle telecamere in un determinato
luogo e di mettere poi la registrazione a disposizione.
Si aprono fasi sperimentali con etnografie riflessive, dialogiche e polifoniche che sfruttano
anche forme d’arte alternative alla narrativa (poesia, teatro...)
Per cultura di massa si intende in origine qualcosa di negativo; la cultura ‘vera’, quella
principale era quella delle élite occidentali. C’è poi la cultura di massa, che caratterizza le
masse popolari e che in teoria non dovrebbe intaccare la cultura di livello. Siamo quindi
impreparati a comprendere la società occidentale quando iniziano a circolare determinate idee
e informazioni anche nelle classi considerate ‘fuori’ dalla cultura principale. Tutto ciò che è
sempre stato considerato demologia, ‘emersioni’, diventa altro; questo perché le classi
contadine diventano parte di un nuovo circuito, ciò non era mai successo prima dell’avvento
del telefono e della televisione.
Tutto ciò che era demologia, folklore, diventa un insieme di tratti costitutivi della cultura di
massa vs la cultura delle élite. L’oggetto stesso dell’antropologia diventa lo studio della
cultura di massa, con tutta una serie di possibilità che non erano possibili 50 anni fa.
C’è un continuum nel comportamento, nel consumo e nella produzione culturale delle masse
rispetto alle élite. Abbiamo quindi copresenze in un continuum all’interno di una medesima
società.
Anche questa nuova prospettiva può essere culla di storture, applicate dai regimi totalitari; si
cerca quello che è folklore per marcare le distinzioni all’interno di un gruppo per fini
meramente politici.
Decidere di far emergere determinati tratti è un’operazione consapevole, con gli strumenti
della comunicazione di massa.
15 dicembre
ANTROPOLOGIA E CULTURA DI MASSA
Quando parliamo di cultura di massa, oltre all’idea di demologia, bisogna vedere anche cosa
succede nel Nord Europa dove si parla di folklore. Nel folklore rientrano i modi di fare, i
costumi, le regole, le superstizioni, le ballate, i proverbi dei tempi passati. Dietro l’etichetta
folklore c’è il primo tentativo di vedere il ruolo di un antropologo come qualcuno che deve
salvare qualcosa che sta per essere perduto, che soggiace all’ondata di massa che sta
arrivando. Tutto ciò è stato alla base anche alla base della mistificazione di tutto ciò che
riguarda un popolo che sta alla base dei regimi totalitari. È una ricerca inizialmente neutra,
che poi è sfociata in queste concretizzazioni negative.
- “Manners, customs, observances, superstitions, ballads, proverbs, ecc. of the olden
times” - vulgares antiquitates / popular antiquities = missione salvataggio
- In Europa si sviluppano la Etnologie française, la tedesca Volkskunde e la Storia delle
tradizioni popolari italiana
- Studi folcloristici e nazionalismi nei regimi totalitari (il fascismo)
- Nel dibattito scientifico si parla di DEMOLOGIA
IL SECONDO DOPOGUERRA
Troviamo una spinta e un’attenzione verso ciò che è popolare, ma in un periodo storico molto
differente, soprattutto in Europa, che ancora il centro della cultura.
In questo periodo, cancellati i regimi totalitari, la lotta che comincia a nascere non è tra
diversi popoli, ma tra classi sociali differenti, perché il boom economico dopo la Seconda
guerra mondiale aumenta il divario tra classi.
Distinzione “verticale”, di diverse classi sociali. Nascono le organizzazioni internazionali,
non c’è più il sovranismo, ci si sente fratelli in tutta Europa ma la distinzione avviene in
senso verticale (scala sociale)
- Ernesto De Martino (Morte e pianto rituale 1958; Sud e magia 1959, La terra del
rimorso1961): religione e magia come sostituti della Cultura nell’atto di tener
radicati gli esseri umani nel mondo (...) attraverso un processo di “destorificazione”
(...) mito e rito aprono una dimensione metaforica che conferisce sicurezza.
Ernesto de Martino si è reso conto che l’idea della modernità incalzante, dello
sviluppo, apparteneva alle classi elevate, che studiavano e che portavano l’Italia
avanti. Le classi contadine invece non andavano a scuola, e la Cultura non era vista
come un avanzamento verso la modernità, ma come un qualcosa di magico a cui
aggrapparsi per sopravvivere in un mondo contadino che si riteneva fatto di cicli
annuali che si ripetevano. Modalità fatalista di vivere, che dà sicurezza, ma che
quando si sgretola fa nascere fratture interne alla comunità che possono portare alla
guerra civile. (questo accade molto spesso nel continente africano)
Era una spinta politica, mossa dal desiderio di “decostruire” queste stratificazioni tra
classi nate a seguito del boom economico. È un antropologo impegnato, e facendo
questo ha lasciato una meravigliosa testimonianza dell’Italia di quel periodo.
- Gianni Bosio L’intellettuale rovesciato 1975, tra contadini e operai del nord
- Alberto M. Cirese conia il termine di demologia abbandonando il pensiero
positivista - lo studio delle culture subalterne come atto di accusa e di protesta
- Il valore politico post anni’60
LEZIONE 8 (12.01.2021)
- Nei diversi sistemi di pratiche dei concreti attori sociali; arena privilegiata di
espressione e produzione delle differenze sociali. L’antropologo deve comprendere le
pratiche culturali nate in origine con un oggetto.
- Bourdieu, La teoria della pratica e l’habitus “sistemi di disposizione durevoli e
trasferibili, di strutture strutturate predisposte a funzionare come strutture strutturanti”
- ereditato, relativamente stabile, modificato sempre in modo parziale
All’interno di una comunità alcune cose vengono percepite come naturali quando non
lo sono, perché vengono assorbite col latte materno. Proprio perché percepite come
naturali, su questa base si costruiscono valori, certezze, modi di fare (habitus, che non
è un’abitudine, ma una pratica data come naturale)
- La cartografia delle differenze sociali si basa su capitale economico + capitale
culturale (istruzione; habitus del gruppo) uso differenziato degli stessi oggetti da
parte di diverse classi sociali.
RIEPILOGANDO
1. I beni di consumo rappresentano ricchi sistemi semantici, strutturati sulle principali
categorie culturali del mondo contemporaneo;
2. I comportamenti di consumo rappresentano un campo morale con una natura simile a
quella del rituale. C’è molto di rituale anche nello scambio del bene di consumo;
3. I consumatori usano i beni in modo creativo e attivo e non sono solo vittime passive
4. L’attenzione dell’antropologia si sposta dall’analisi semiotica dell’oggetto all’analisi
delle sue modalità di fruizione;
5. L’approccio etnografico resta fondamentale
SPIEGARE VS COMPRENDERE
De Martino afferma che il paradosso sull’impossibilità di stabilire che cosa forma l’altro e
che cosa forma me stesso è dato dal fatto che l’osservazione viene da uno che è fatto in quel
modo lì per la sua storia culturale. Per questo deve esserci una astensione dal giudizio
cercando però di arrivare ad una comprensione del perché delle diversità. A questa
comprensione ci arrivi quanto più ti avvicini a comprendere quali sono i momenti storici che
hanno portato l’altro ad assumere quei comportamenti che in tale momento storico tu vedi.
Lingua (strumento di comunicazione non solo all’interno della comunità dei parlanti,
ma anche all’esterno, e rappresenta i momenti di contatto e di scambio)
Collocazione geografica (razza, etnia, gruppo) (ecosistema geografico)
Cultura (descrive tutto quello che è il comportamento di un gruppo nel suo
funzionamento)
Percetto sensoriale (dimensione che sta a cavallo tra natura e cultura): le etichette
verbali che usiamo per definire le percezioni culturali es. percezione dei colori, del
caldo e del freddo, in generale di segmentazione della realtà
Peculiarità somatiche e di costumi (mode culturali, usi e costumi, modi di fare)
Identità personale / etnica (rapporto tra identità singole e di gruppo). Su questa base si
costruisce una diversa dinamica di rapportarsi gli uni agli altri.
LA LINGUA
Equipollenza delle lingue "naturali": tutte le lingue sono equipollenti, ma non sono
equivalenti ogni lingua è funzionale a rispondere a tutti i bisogni della sua
comunità di parlanti, e non è equivalente alla lingua di un’altra comunità, che ha altre
esigenze e un altro ecosistema. L’equivalenza aumenta man mano che aumenta il
grado di interconnessione tra le varie popolazioni.
Lingua e visioni del mondo relativismo linguistico, ogni lingua descrive una
determinata visione del mondo
Categorizzare = discriminare? In ogni lingua, la prima cosa che si fa è categorizzare
l’esperienza umana, in cose positive/negative, determinanti/non determinanti ciò
che viene definito è ciò che è utile o pericoloso per quel gruppo umano.
Lacan e il nome (del padre) che "ti precede" quando nasci dentro una lingua nasci
all’interno di un sistema di pensiero, ed è la prima violenza che ti viene fatta quando
nasci.
LEZIONE 19.01.2021
Etnia: termine usato prevalentemente per esprimere differenze pre- politiche (< gr
ethos aggregato di individui distinto da proprie caratteristiche)
2 valenze: 1) neutrale (antropologica) - ma è davvero neutrale? Noi siamo etnici?
Siamo indigeni?; 2) discriminatoria (secondo l’uso greco e latino)
Ci sono tendenze molto contrastanti al riguardo, molti hanno iniziato ad utilizzare
questo termine quando l’UNESCO ha riconosciuto il valore del patrimonio indigeno.
Tendenza alla reificazione (= processo mentale per cui si converte in un oggetto
concreto e materiale il contenuto di un'esperienza astratta) ed essenzializzazione che
crea un’immagine statica e a-storica dei gruppi umani
Di conseguenza oggi del tutto inadeguato: che cosa sarebbe rimasto di essenziale,
autentico, etnico?
Tutte queste letture, che possono essere usate politicamente per schiacciare qualcuno e
favorire qualcun altro, sono comunque leve su cui ciascun gruppo umano costruisce la
propria identità.
LA CULTURA
I due quadri superiori riguardano la cultura, ciò che viene prodotto dalla mente di un essere
umano che si confronta con il suo ambiente economico, politico, ecc…
Il riquadro a sinistra riguarda gli universali culturali, che abbiamo detto si limitano a ben
poco, l’accudimento da parte della madre verso il figlio (dettato da un fatto biologico), la
spinta a cercare la ragione perché siamo nel mondo, la necessità di procurarsi cibo ma il tutto
dialoga con caratteristiche fisiche, ma anche la danza come espressione di emozioni. Le
variabili culturali costituiscono invece tutto il resto, che lingua parli, cosa cucini e come lo
fai…
Per quanto riguarda la natura, anche qui ci sono universali genetici: il fatto di avere un
determinato apparato nervoso, il fatto di essere fatto in un determinato modo; il resto, il
colore dei capelli, degli occhi, l’altezza, il fisico ecc…
Le differenze sono una risposta del gruppo umano al proprio contesto.
I SENSI
L’esperienza sensoriale ci insegna che in base alle etichette linguistiche che abbiamo,
impariamo a decodificare in mondo in una maniera più o meno fine negli ambiti che ci
interessano.
Su questo si è sviluppata l’etnoscienza (lavori sui colori, ad esempio; i termini per i colori
variano da 2 a 11). Gli studi che sono succeduti a livello neurolinguistico e neurologico
hanno dimostrato che nascendo in una lingua si allena in cervello in un certo modo a
segmentare la realtà.
Vista ("noi")
Udito (Feld, 1982 "Sound and Sentiment" e i Kaluli della Nuova Guinea")
Olfatto (Classen "Exploring the senses in History and across Cultures" 1993 e gli
Ongee delle Andamane)
gusto e tatto?
L’IDENTITA’
Parola chiave: relazione (attori ed agency) Ogni persona ha una capacità di azione in
base a quello che è il suo ruolo. Quando ci si trova in un contesto che non
conosciamo, la situazione diventa delicata perché ci portiamo dietro il ruolo che
ricopriamo nel luogo in cui siamo nati.
Ruolo e Status (diritti e doveri ascribed e achieved). A ogni ruolo e a ogni status sono
associati dei diritti, alcuni acquisiti alla nascita e altri acquisibili in seguito.
Goffman 1959 "The presentation of the Self in Everyday Life": actors, roles,
performances, frontstage, backstage. Goffman è stato il primo sociologo ad aver
analizzato la vita come gioco o come palco, su cui ognuno gioca la sua partita
secondo strategie che gli possano garantire maggior successo.
Remotti: Antropo-poiesi; fare umanità creando elementi di differenziazione rispetto
all’altro; è un universale culturale, io devo distinguermi dall’altro gruppo per avere
maggiore forza di negoziazione, per avere maggiore coesione interna e quindi forza
contrattuale nei rapporti con l’altro. È il processo per cui un gruppo si dà una forma,
creando di riflesso forme ai margini. Fare umanità vuol dire allo stesso tempo
disumanità.
STATI INTERIORI
EMOZIONI
“Se si ammette che l’emozione è un evento biopsicologico e che ogni emozione è universale
e legata chiaramente ad un’espressione facciale (...) il processo della comprensione delle
emozioni al di là di confini culturali diventa semplicemente una questione di lettura della
mimica facciale (...) se, invece, l’emozione è vista come intrecciata in modo complesso con i
sistemi culturali di significato e e con l’interazione sociale, e se l’emozione è usata per
parlare di ciò che è culturalmente definito e sperimentato come “intensamente significativo”,
allora il problema diventa la traduzione di due modi culturali di vedere ed agire il mondo, di
ciò che è vero, buono e adatto” (Lutz 1988:8)
“Se le emozioni sono concepite analiticamente come l’indice delle relazioni sociali esse non
possono non riflettersi nelle definizioni culturali dei modi ideali di stare con gli altri...”
(Ibidem p. 10)
LEZIONE 26/01
Ogni essere umano è inserito in una comunità che è una nicchia ecologica, di sapere, di reti,
un network complesso di vari fattori. La necessità è quella di darsi una forma, stabilire i
confini del “noi” e del “voi”, facendo una scelta: chi risponde alle qualità che il gruppo si dà
è incluso e giudicato come positivo, chi invece no è considerato disumano (si fa umanità ma
si fa anche disumanità).
La moda deriva dalla necessità di marcare il confine tra le “bestie”, il mondo animale, e il
mondo civilizzato. Avviene dai primordi dell’essere umano, è qui che comincia questa
distinzione.
Per passare dallo stato di natura allo stato di cultura c’è bisogno di darsi ua forma esteriore, e
farlo serve anche a determinate i diversi tipi di cultura
Agli esseri umani, incompleti per natura, non basta il loro essere biologico; c’è
bisogno di qualcosa di più per passare dallo stato di bestia a quello di persona civile
Pitture del corpo, incisioni, decorazioni hanno un ruolo nel processo antropo-poietico,
legato all’elaborazione di modelli e forme, che rappresentano allo stesso tempo canoni
di bellezza e di umanità
L’obiettivo è di distanziarsi dalla natura, l’animale non può tingersi, radersi, e se glielo faccio
io è perché quell’animale è mio. L’apparenza diventa segno esteriore di ciò che è una
sostanza.
Nella moda, la pittura del volto è ciò che in modo evidente rende l’uomo “civile”
diverso dall’animale, dal bruto, che resta “selvaggio”
La moda, come ricerca incessante di variazioni, rientra tra gli “universali culturali”
che emergono nell’esplorazione delle varie forme di umanità
Nella moda, sostanza e apparenza dialogano; in una prospettiva antropo-poietica la
sostanza culturale coincide con le forme scelte nell’apparenza
1. Costruire oggetti esterni, indossare (tra i Nande fibre vegetali per l’uomo e pelli
animali per la donna)
2. Togliere grasso, sporcizia, odori dal corpo (igiene, ma non solo)
3. Spalmare, dipingere la superficie esterna della pelle
4. Modellare elementi organici che crescono dal corpo (capelli, unghie, peli)
5. Azione esterna per modificare il tessuto cutaneo e muscolare (massaggi, body
building...)
6. Azioni esterne tese a modificare la struttura ossea (i gigli dorati; serve a far capire al
futuro marito che la donna è in grado di sopportare il dolore, per essere più
desiderabile, dimostra che la donna è forte, che saprà sostenere i parti)
7. Interventi interni alla cavità orale e modifica delle strutture ossee (limatura, avulsione,
scheggiatura dei denti)
8. Perforazione e inserimento nel corpo di oggetti esterni (piattelli labiali)
9. Penetrazione sottocutanea di sostanze coloranti ed elaborazione di disegni (tatuaggi
moko dei maori, completati solo da adulti)
10. Tagli profondi, inserimento di sostanze, cicatrici che riproducono disegni
(scarificazioni)
11. Chirurgia genitale (maschile e femminile; può essere più invasiva o meno invasiva)
12. Chirurgia estetica occidentale (per apparire come il modello ideale, non c’è un motivo
di sostanza, rituale, di credenze o di indicazione di un ruolo, è semplicemente forma)
13. Tipi di alimentazione e diete (l’induista non mangia carne perché crede nella
reincarnazione, in altre popolazioni la carne è riservata a chi fa lavori più pesanti)
14. Trattamento del cadavere
La moda, come ricerca incessante di variazioni, rientra tra gli “universali culturali” che
emergono nell’esplorazione delle varie forme di umanità. Tutte le popolazioni cercano
evoluzione in senso estetico.
Con il contatto, le mode antropo-poietiche entrano continuamente in micromondi diversi da
quelli originari, ci sono contaminazioni continue, nuove simbolizzazioni.
Il rifiuto della società è la reazione a questa incursione del non compreso - non condiviso.
Avviene soprattutto in realtà rurali, non nelle metropoli, che si sentono minacciate perché
ancora legate alle categorie originali e non contaminate dal mondo globale in cui circolano
più velocemente i modi di fare le cose.
La società occidentale è particolarmente chiusa verso tutto ciò che le è estraneo, l’altro è una
minaccia, perché ti rendi conto della distanza.
Fare umanità implica allo stesso tempo fare dis- umanità e questo è ciò che accade in ogni
forma di umanità possibile, poiché l’incompletezza e l’imperfezione sono caratteristiche
presenti in ogni società, compresa quella moderna
LEZIONE 16.02.2022
IL CORPO E LA SALUTE
Le differenze culturali può impedire l’istaurarsi la fiducia negli altri perché si crede in cose
diverse.
Salute è:
“uno stato di completo benessere fisico, mentale e
sociale e non semplice assenza di malattia”. –OMS (organizzazione occidentale)
Il concetto occidentale di salute è redatto recentemente, perché con l’illuminismo (fine 700
inizio 800) c’è stato un periodo in cui si cercava di separare il mondo sicentifico degli
oggetti, delle eziologie da ricercare nella natura da tutto ciò che poteva risultare “spirituale”,
psicologico. Fino al primo dopoguerra non si accettava tutto ciò che era alternativo alla
scienza, e questa definizione sarebbe stata rinnegata. La salute prima era uno stato di
completo benessere fisico.
Recentemente è stata aggiunta l’ultima parte.
Anche la salute è un campo marcatamente culturale, che deriva dall’esperienza culturale (il
nostro è il sistema occidentale)
Non si tratta forse di una semplice variante delle numerosissime epistemologie popolari
possibili?
La nostra percezione occidentale di che cosa sia una malattia è essa stessa costruita
internamente alla cultura che vede il corpo e la malattia come entità oggettive non influenzate
dalla variabilità culturale - definite quindi - quindi in opposizione alla soggettività e cultura-
specifica.
La nostra percezione di cosa sia una malattia dipende dalla proiezione che abbiamo
interiorizzato su cosa sia una malattia nel mondo dove siamo cresciuti. È un’epistemologia
come le altre. In altri luoghi una malattia può essere sradicata dalle leggi della fisica delle
leggi e della biologia, ma magari nelle leggi morali (mi ammalo perché ho fatto qualcosa
contro la volontà dei miei antenati). La rottura, nel primo caso, è dell’equilibrio naturale, e
nel secondo caso è dell’equilibrio sociale.
Il nostro senso comune e la nostra routine quotidiana ci dicono che è controintuitivo pensare
che il corpo e la malattia possano rappresentare oggetti culturali, attraverso i quali si possono
combattere battaglie ideologiche (es. battaglia no vax, leggono il mondo con parametri
diversi da quelli della maggioranza, come il complotto.)
Nella nostra epistemologia popolare l’alterità può essere ammessa solo se riferita a sistemi
medici imperfetti ed evoluzionisticamente meno sviluppati (visione positivista). Continuiamo
ancora ad avere una visione positivista di un mondo che va in una direzione unica, da A verso
B, dove B è una posizione migliore, che è sempre quella presa dall’Occidente. Questa
posizione migliore però non funziona, funziona in astratto, ma inciampa su tutta una serie di
alternativi che si trovano sul percorso. È una visione troppo semplicistica.
L’intrusione della cultura nella pratica diagnostica e terapeutica rappresenta, dal punto di
vista dell’occidentale medio, un chiaro segno di arretratezza, stante la visione comune
illuminista che vede il progresso scientifico come una liberazione da eventuali stereotipi falsi
che impediscono l’oggettività delle cose.
Non è neanche in tutto l’Occidente che funziona così, in realtà scattano tanti meccanismi
basati su fede, credenze.
Sickness - Esperienza sociale dell’essere, o meno, riconosciuto malato/ invalido. Noi per
esempio consideriamo “malati sociali” i senzatetto, i vagabondi, i tossicodipendenti o gli ex
tossicodipendenti.
Una persona può avere un malessere che è di fatto una malattia (la persona si sente ill), anche
se non c’è una etichetta che definisca quel malessere (la descrizione dell’OMS dice questo).
Il medico non è in grado di identificare cosa la persona abbia, quindi non attribuisce un
disease. La società può vedere la persona come malata (se è empatica) oppure no.
Quando cerchiamo di capire come funziona la lettura della malattia nel contesto della
malattia, in un contesto in cui vivono persone che hanno una visione del mondo, della
malattia, del corpo completamente diverse, dobbiamo affidarci a questo schema (prodotto
negli anni 70)
Ci sono una serie di credenze che ciascuno mette in campo davanti alla condizione del
malato. Ci sono tassonomie locali e tassonomie scientifiche. Da questo dialogo nascono le
scelte delle terapie. Più i vari punti di vista dialogano tra di loro, meglio si riuscirà ad avere
una terapia efficace.
“[...] non è possibile paragonare l’essere-nel-mondo di un [...] dogon con quello di chi vive in
società letterate, industriali o postindustriali. Il loro mondo è pieno, c’è continuità tra i
viventi, chi li ha preceduti e quelli che verranno; tra umani, piante e animali; tra creature
naturali e spiriti. Lo spazio attorno non è vuoto, ma abitato; i movimenti dell’aria, le ombre
nascondono presenze. La persona è immersa in un fluire che collega tempi e luoghi; è nodo
di una rete, non individuo isolato, racchiuso in uno spazio-tempo separato”.
Piero Coppo
Piero Coppo intende la persona come “essere agente”, non come “essere umano”. Persona
sono anche i morti, gli spiriti, le persone mai nate.
Quando nasciamo in un ambiente marcato, incorporiamo come naturale tutta una serie di casi
che sono culturali, rendiamo un habitus culturale una cosa che è un fatto di natura.
L’antropologia medica ha il compito di: “Studiare le culture, con le loro forme di pratica
sociale - il loro «comportamento di malattia» (cosa è considerato malattia), le attività degli
specialisti nella diagnosi e nella cura, i loro rituali di guarigione (es. combinare una
guarigione del corpo e una guarigione dello spirito) - formulano la realtà in modi peculiari, e
come la conoscenza e i significati linguistici sono organizzati in rapporto a queste forme
peculiari di realtà”. – Byron Good (2006 Narrare la malattia, Einaudi; p.22)
Lo sguardo antropologico deve prevedere attenzione alle dinamiche sociali, a quelle che sono
le letture che di uno stato di malessere danno gli specialisti. Lo specialista deve capire
l’etichetta linguistica o la mancata etichettatura di determinati disturbi per capire forme
peculiari di realtà.
Si tratta di disease, perché gli esperti di malattia di quel gruppo li definiscono tali, e anche di
sickness, in quanto sono malattie considerate tali anche dalla società. Possono essere
percepite come illness o no.
Hanno sintomi e segni precisi, attribuite a cause particolari, legate a forme di diagnosi e
terapia cultur-specifiche
Esempi:
Il wak (Burkina Faso): disagio psichico dovuto al fatto di non aver accesso a risorse
monetarie importanti. È caratteristica delle persone che si spostano dalle zone rurali per
fortuna, ma non la trovano, e si affidano a ciarlatani. Fallendo, si dice che ha il wak, una stasi
psicosociale che la porta a vagare per strada e ad altri comportamenti del genere.
Su questo tipo di malattie le uniche pratiche che possono funzionale nascono all’interno della
comunità stessa e devono avere una efficacia simbolica (“come orizzonte mitico-rituale di
evocazione, di configurazione, di deflusso, di risoluzione dei conflitti psichici irrisolti che
«rimordono» nelle oscurità dell’inconscio.)
• Il viaggio dello sciamano Cuna (Panama) presso la casa di Muu per favorire un parto
difficile
IL CORPO
Corpo sociale: un peso morto, inerte e passivo, attaccato ad una mente vivace, attenta e
nomade, e che rappresenta il vero agente della cultura
Corpo politico: plasmato dalle relazioni di potere. È più facile avere lo status di rifugiato se
ho un corpo che porta i segni di quello che ho subito. Il mio corpo diventa il mio strumento
politico per ottenere il permesso di soggiorno.
Corpo personale: non solo vittima del controllo politico, ma soggetto attivo di strategie di
autoaffermazione, di difesa o di resistenza. Posso giocare sulla questione di aver subito
qualcosa per ottenere ciò che voglio (spararsi sul piede per non andare al fronte)
Il pluralismo medico, la stessa persona a fasi alterne della sua vita o anche nello stesso
momento, può affidarsi a persone diverse e a medicine diverse.
Le medicine non convenzionali anche in occidente sono frequentate regolarmente almeno dal
10% della popolazione e il 50% delle persone vi si è affidato almeno una volta nella vita.
Diverse culture hanno modi diversi di utilizzare etichette avverbiali tipo domani, in base alla
memoria e all’abitudine a una determinata rappresentazione. In altri contesti con un’etichetta
che tradurremmo come domani si intende un momento vicino alle intenzioni del parlante
(=nel primo momento utile a fare quella cosa lì, è una vicinanza di intenzione)
Anche l’etichetta traducibile come ieri tra i kulango indica una cosa pregnante, che ha avuto
valore nella vita dell’individuo, anche se l’evento è accaduto anni prima (violenze, lutti).
La percezione della vicinanza temporale, in alcune culture, è legata molto di più al fattore
psicologico, piuttosto che al fattore storico- cronologico.
Quando parliamo di spazio, parliamo della nostra posizione in esso. Diciamo che siamo ai
piedi della montagna. Abbiamo una connessione tra noi e la percezione dello spazio che parte
dal nostro corpo.
La memoria è una struttura complessissima della nostra mente, che si muove su diversi binari
contemporaneamente, con meccanismi selettivi.
Con il passare del tempo e con l’accumularsi dei ricordi, la memoria può essere
“scombinata”. Ci si ricorda delle immagini, ma non si riesce a metterle in ordine cronologico.
Un punto di ancoraggio molto forte fino ad ora è stato l’album delle fotografie.
Le operazioni di memoria possono essere influenzate facilmente dai sentimenti, dal senso
comune, dalla propaganda. Tanti fatti avvenuti in passato recente vengono riproposti
dall’élite politica corrente leggermente alterati.
Schema: dato da strategie precise di ricostruire il passato sulla base degli script oltre che
dell’esperienza. Cornice culturalmente molto marcata nella quale dobbiamo inserire i nostri
ricordi.
Ci sono poi dinamiche di oblio (avviene nella memoria al naturale, che non ha nulla a cui
appoggiarsi, per il processo di fare spazio alle cose importanti. Tanto più viviamo altre
esperienze, tanto più quelle che abbiamo vissuto in un momento precedente le sedimentiamo
e manteniamo vivo il ricordo soltanto di alcune. In questa operazione di oblio spesso fissiamo
in un ricordo unico una serie di eventi più o meno uguali che si sono ripetuti più volte, siano
essi positivi o negativi. L’essenziale è ricordare la sensazione del momento, come fosse
accaduta una sola volta, creando una ricostruzione di quello che è stato. Tante volte mettiamo
insieme nel ricordo episodi che sono avvenuti a distanza di 2-3 anni nel corso della nostra
infanzia, ma che ricordiamo come se fossero avvenuti nello stesso giorno. La memoria,
quindi, crea finzioni) distorsioni e possibili falsi ricordi, o finzioni (C. Geertz): la memoria
storica è sempre costruita, mai naturale. Si è avuta l’illusione che la Storia non fosse
sottoposta a questo processo, a questa manipolazione e invenzione, in quanto basata su
documenti. Ma anche lì c’è il problema sulla selezione degli eventi da parte degli autori, di
scelta di prospettiva. Non si potrà mai avere un’idea precisa di quella che è stata la Storia.
Anche uno storico che scrive un libro lo fa partendo dalle sue impressioni, dal suo punto di
vista, dalle sue fonti e dalla sua sensibilità.
MAURICE HALBWACHS 1925 Les cadres sociaux de la mémoire (trad. it. 1997)
“Al di fuori del sogno, il passato, in realtà, non ricompare allo stesso modo, anzi tutto sembra
indicare che esso non si conserva affatto, a meno che non lo si ricostruisca a partire dal
presente (io posso fare una analisi del passato solo partendo dalla comprensione del tempo
presente e cercando di capire quali sono stati i meccanismi che mi hanno portato dove sono.
[...] I quadri collettivi della memoria (gli schemi, il contesto ambientale, sociale, ecologico
ecc.. nel quale si inseriscono gli script; questo crea le premesse per la fissazione di eventi per
la collettività, ricordati secondo la visione della maggioranza, nelle società democratiche, o
delle élite) non sono costituiti dalla combinazione dei ricordi individuali, non sono delle
semplici forme vuote dove i ricordi, venuti da altrove, si inseriranno, ma sono, al contrario,
esattamente gli strumenti di cui la memoria collettiva si serve per ricomporre
un’immagine del passato che si accordi in ogni epoca con il pensiero dominante della
società” (1997, p. 3)
PROBLEMI APERTI
I giochi di potere si basano sull’appello alla verità = una versione deve prevalere sull’altra
(es. nei processi per casi di violenza, l’esito è basato anche sul peso delle mie parole. Un
ricordo che prima era preciso può diventare dubbio se ti senti vittima del potere.
A sostegno e supporto delle diverse narrazioni stanno immagini, oggetti, luoghi, documenti
scritti o non scritti
Società calda: es. quella occidentale, dell’orologio (per Dei è tra le società fredde, ma è con
l’invenzione dell’orologio che abbiamo iniziato con il concetto di “domani”, nel senso di
“entro le 24 ore successive”), delle fonti scritte e del divenire storico come motore dello
sviluppo (idea del motore, della modernità, dell’energia che si muove)
Società fredda: es. quella tradizionale, delle fonti orali, dell’oblio e dell’annullamento dei
fattori storici per consentire equilibrio e continuità (il culto degli antenati (le statue dei
churinga in Australia, dei lari romani come manifestazione del passato all’interno del
presente, la tua presenza nel mondo è ciclica)
In entrambi i casi fondamentali per la “ricostruzione” storica sono oggetti e luoghi della
memoria
Spesso queste due memorie sono in conflitto, a volta in buona fede, perché si danno valori
differenti agli stessi episodi. In altri casi può essere una distorsione voluta, si mandano
nell’oblio alcuni dati per dare una migliore visione di sé. Questa distorsione di norma
avviene con finalità politiche da parte delle élite politiche.
conflitto
es. il caso della Shoah o di altri genocidi
Col mondo globalizzato non c’è più solo la narrazione ufficiale che va contro quella del
singolo che ha vissuto sulla sua pelle l’episodio, in cui tutti sono inseriti nello stesso
schema/script di aspettative. Ci si trovano di fronte persone che appartengono a società
diverse, calde. E fredde, con script e schemi diversi su cui impostare i loro ricordi. E far
quadrare i conti di quella che è la realtà è difficile. Ne esistono diverse o non ne esiste
neanche una.
Annette Wieviorka sulla shoah e il caso Eichmann: tensione profonda tra il sapere e il
discorso del testimone e quello dello storico
dall’altro - si chiede se “questa volontà di non pensare in termini generali [...] non rappresenti
in realtà la negazione stessa della Storia”
Per l’antropologia per arrivare alla storia non si può che passare per la narrazione
autobiografica dei testimoni
Il problema memoria-identità nei rapporti tra diverse comunità (il caso della diaspora
africana e i rigurgiti nazionalistici occidentali)
ANTROPOLOGIA E AMBIENTE
l’ambiente naturale puro non esiste, l’ambiente è determinato dalle nostre attività.
Fisicamente ne è modellato (coltivazioni, campi…), e in base alle nostre attività codifichiamo
in maniera più o meno precisa alcuni ambienti rispetto ad altri. Dal punto di vista prettamente
linguistico, abbiamo molte più etichette per descrivere ambienti in cui abbiamo attività.
La questione del determinismo ambientale (carattere e tipo di attività): esiste?
In antropologia le caratteristiche fisiche di un luogo sono premessa, sfondo della ricerca,
non per riprodurre i modelli dei confini politici, bensì per comprendere le dinamiche culturali
/ relazionali / di movimento di gruppi umani localizzabili in una determinata area in base
alla nostra decodifica dell’antropizzazione o meno di uno spazio, possiamo crearci delle
aspettative sulle attività differenti di popolazioni che vivono in spazi contigui ma
morfologicamente e antropologicamente modellati in maniera diversa.
Lo spazio sociale è quello in cui mi sento a mio agio e svolgo le mie attività (villaggio,
campi, network dei luoghi in cui svolgo le mie azioni), lo spazio antisociale è quello che
sento come pericoloso (abitato da persone che mi fanno paura). Tante volte i confini
informali diventano confini etnico-culturali, si creano veri e propri ghetti, nati in maniera
informale dal non volersi mescolare con l’altro che faceva paura e poi formalizzati dal fatto
di costituire quartieri abitati solo da determinate persone, magari con una madrelingua.
diversa.
Altro esempio: gli allevatori che girano tra Somalia ed Etiopia seguendo le rotte ancestrali,
ogni 6 mesi. Sono terre abitate stabilmente da altre comunità, ma gli allevatori le rivendicano
come loro,
Il centro degli Aranda dell’Australia; il bosco degli antenati Akan. Gli Aranda avevano
individuato attraverso un processo sciamanico i luoghi totemici per le peregrinazioni.
Lo spazio sociale e antisociale: a) la fondazione del villaggio e i riti della terra kulango con il
Saakotèsè; b) il centro geometricamente eccentrico - la cerimonia engwura degli Aranda-
Achilpa e il palo cosmico kauwa-auwa, che viene ripiantato ogni volta che si spostano per
riconnettersi con gli antenati.
LEZIONE 02.03.2022
Marc Augé (1992): le stazioni di servizio, la metro e le stazioni come non luoghi, abitati solo
temporaneamente (non per tutti ovviamente sono non luoghi); i non luoghi sono anche snodi
di movimenti di persone e di merci, spazi transazionali in cui la comunità non è una comunità
che vive nello spazio fisico circostante, ma è una comunità fatta di persone che appartengono
a mondi diversi e che per un momento si incrociano.
Per rendere uno spazio sempre di più un luogo c’è una visione che vede l’antropologia
impegnata insieme all’urbanistica, per fare vita a quartieri che per un certo periodo sono stati
in degrado, per stimolare un senso di appartenenza a quel luogo.
Clifford Geertz:“è tuttora noto che nessuno vive nel mondo- in-generale”. Viviamo in luoghi,
in posti privilegiati e viviamo di relazioni che avvengono in quei luoghi.
3 dimensioni:
Classica: etnografia del luogo e dei modelli culturali di rapporto con l’ambiente. Studia il
funzionamento del rapporto tra la comunità e l’ambiente in cui la comunità vive. Studia il
rapporto “sacrale” con la foresta, con la savana, o vedono com’è l’ambiente nel quotidiano,
anche nel mondo tecnologico occidentale. Il rapporto qui non è più sacrale, ma di godimento
di beni patrimonializzati (Dolomiti patrimonio UNESCO).
Di orientamento micro: etnografia “tornata a casa”, della memoria e della vita quotidiana. Si
vanno a vedere le pratiche nel quotidiano, facendo etnografia anche all’interno di luoghi (es.
etnografia della scuola interpreti, come vengono vissuti gli ambienti?).
Rfilessiva: etnografia critica dell’uso stesso delle categorie di territorio, spazio e luogo negli
studi etnografici. Riflettere sui risultati in maniera teorica.
Il contributo della scuola di Chicago (dal 1918) Robert Park,William Thomas & c. per la
nascita della sociologia e dell’antropologia urbana:
Robert Redfield (1941 - genero di Park) e il folk-urban continuum: in base alle dimensioni
della città/villaggio, ci sarà più o meno solidarietà. L’idea è stata abbandonata, perché a volte
l’armonia bucolica della campagna, tanto decantata, non esisteva, mentre c’erano nelle
megalopoli comunità molto solidali. Si consideravano solo le dimensioni della città e il
rapporto con la natura, ma non:
1) l’educazione formale, che permette all’individuo di svincolarsi dalle aspettative che la
comunità ha su di lui.
2) rapporti economici e culturali, oggi non ci sono praticamente villaggi in cui non ci siano
scambi continui
Oscar Lewis (1951) ribalta la tesi di Redifield con il restudy del villaggio messicano
diTepotzlan (- Gesellschaft) e quello di gruppi di estrazione contadina a città del Messico (+
Gesellschaft)
Le world cities (Londra,Tokyo, Milano) come snodo di flussi, persone, tecnologie. In queste
città convivono diverse comunità, in base alle zone, ed è interessante sapere come si
rapportano.
Nuovi approcci: a) attenzione sui percorsi concreti degli abitanti e dei network di relazioni
(Ruth Finnegan The hidden musicians 1989 e le “strade culturalmente stabilite” dagli
invisibili per strutturare le proprie attività; b) focus sulle mappe mentali degli abitanti sulla
base degli agglomentari (Lynch); della città in cui abito ho una mappa dettagliata e precisa
dei luoghi che frequento abitualmente, ma tendo a dimenticare cosa ci sta in mezzo. c)
attenzione all’intreccio di rappresentazioni
L’ANTROPOLOGIA CLASSICA
John Bodley (1992) “gli antropologi, naturalmente, erano coscienti del destino che attendeva
i gruppi tribali (il fatto che fossero destinati all’estinzione)[...] ma non hanno fatto alcun
tentativo di fermare la violenza perché le teorie evoluzioniste domandanti rappresentavano la
scomparsa degli indigeni come naturale e inevitabile” (per migliorare la popolazione
mondiale). C’era un atto intrinseco di violenza, si negava lo status di essere umano a persone
che lo erano.
La violenza connaturata nell’uomo (Hobbes) > istituzioni rituali come forme di controllo o
valvole di sfogo della violenza, soprattutto nelle civiltà più instabili. Una violenza che non è
gestita crea tensioni continue. Per questo esistono polizia, carabinieri ecc… Siamo ad
esempio riusciti a cancellare atti di violenza nel quotidiano inserendo nella vita di tutti i
giorni lo sport. Nello sport la violenza viene istituzionalizzata e ritualizzata, al di là degli
sport tipicamente violenti.
Nelle grandi etnografie del passato, la violenza era solo un atto nobile, simbolico, fino agli
anni 70-80. La violenza entra nell’analisi antropologica molto tardi, con il Ruanda e con le
guerre nei Balcani, e si fa antropologia di campo in paesi in guerra.
Anni’60, Fanon e I dannati della terra e l’emersione della violenza dei rapporti di potere
dominanti/dominati
Anni ’90 Fieldork under fire (Nordstrom&Robben) prime ricerche in contesti di conflitto
(dopo la guerra dei Balcani)
Il conflitto può essere a bassa intensità o ad alta intensità: bassa intensità il conflitto è latente,
la violenza non si esprime attraverso le bombe, ma si esprime attraverso negoziazioni
sotterranee, ad esempio, tra colonizzatori e reggenti dei paesi. Il malcontento nei luoghi
coloniali aumenta e scoppia in un conflitto vero e proprio.
Rwanda e ex-Jugoslavia: il 90% dei morti sono civili (morti e mutilati, dal punto di vista
fisico e mentale)
La violenza radicale e la sovversione dell’ordine culturale e dell’ethos di una civiltà:
attraverso queste pratiche si cancella completamente una cultura. Si violentano tutti i livelli di
una cultura, i luoghi, in maniera da annientare un’identità. Anche per le persone che facevano
parte della comunità quei luoghi e quelle esperienze diventano talmente insostenibili che non
saranno mai più come prima. La conquista del territorio è garantita, perché chi ci viveva
prima non vorrà mai più metterci piede.
Mary Kaldor (1999) New and Old Wars: organized violence in a global era (it. Le nuove
guerre, 2003): le operazioni di pulizia etnica (e stupro come arma politica) tese a rendere
inabitabile e insopportabile un territorio
Shock emotivo come strumento di testimonianza e denuncia: come conciliare l’approccio
etnografico con il voyeurismo latente di un’indagine degli effetti su corpi violentati?
LE TESTIMONIANZE
Fare i conti con il trauma (dilatazione del tempo e dello spazio; Beneduce Archeologie del
trauma 2010) il trauma modifica il ricordo, si perdono i contorni della narrazione e rimane
la parte delle sensazioni. La testimonianza traumatica va presa con le pinze, perché il ricordo
del trauma è dilatato nello spazio e nel tempo. Un unico evento velocissimo nel ricordo può
diventare lunghissimo. Bisogna dare però valore alle testimonianze, perché il ricordo è molto
reale, la pesantezza che ha avuto l’evento sulla vita della persona è reale, le sensazioni anche.
LEZIONE 14 (09.03.2022)
Ugo Fabietti (1995. L’identità etnica) “quando gli uomini entrano in conflitto non è perché
hanno costumi o culture diverse, ma per conquistare il potere, e quando lo fanno seguendo
schieramenti etnici perché quello dell’identità diventa il mezzo più efficace per farlo”
Identità come conseguenza e NON causa dei conflitti è il mezzo più facile per avere una
“giustificazione” per il conflitto. Il meccanismo dell’identità scatta dopo l’inizio della
violenza, quando il conflitto è iniziato e si deve decidere da che parte stare, e si sceglie in
base a chi è più simile o vicino. Sarebbe impossibile passare dall’altra parte, perché anche gli
altri si sono arroccati sulla loro identità.
Problemi aperti: le violenze di massa a) si indirizzano verso nemici percepiti come etnici (o
religiosi); b) penetrano nel profondo del sentire della società civile
La sfida (Appadurai) è quella di vedere la furia della violenza etnica legata ale incertezze del
mondo contemporaneo NON alle certezze date come primordiali e identitarie; bisogna vedere
le istanze etniche come prodotto della violenza e quali sono le incertezze economiche,
politiche, sociali che hanno dato il via al conflitto.
I CODICI DELLA VIOLENZA
Presenta spiccato carattere simbolico (violenze sui corpi come simbolo di presa di potere,
sulle donne o sui prigionieri di terra, per indicare possesso).
Risponde a specifici modelli culturali (l’antropofagia, genocidio attraverso la violenza:
esempio ingravidare le donne di un’altra etnia per generare figli che apparterranno all’altra
etnia)
IL CONTINUUM GENOCIDA