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disciplina, prende il nome di etnografia, e dev’ essere basata sul fondamentale principio ora
esposto.
4.1 L’ ETNOGRAFIA E LA RACCOLTA DEI ‘DATI’
L’ etnografia segna l’ incontro dell’ antropologo con le realtà da lui studiate, tipicamente diverse
rispetto a quella di provenienza; si pratica mettendo in atto prospettive e tecniche particolari.
Raccogliere i dati significa per lo più registrare storie e miti, aneddoti e proverbi, norme e
comportamenti della comunità studiata. Accanto all’ ascolto delle voci di chi vive quella particolare
cultura, è pero importante che l’ antropologo si periti anche di osservare ciò che accade attorno a
lui, e lo potrà fare nel modo più proficuo quando riesca a entrare a far parte della comunità,
anzitutto praticandone i costumi. Il compito successivo, ben più arduo, sarà quello di comparare
criticamente ciò che, presso la comunità di riferimento, viene detto e viene fatto, in quanto ciò
costituirà la ‘cifra’ degli usi e dell’ identità di quel particolare gruppo. In effetti, proprio il fatto d
trascorrere un certo lasso di tempo con gli individui di una particolare comunità, è l’ elemento che
più contraddistingue l’ antropologia rispetto alle discipline ad essa prossime, come la sociologia:
pur ricorrendo anch’ essa a metodologie tradizionali, in primis l’ intervista o anche la compilazione
di tabelle, l’ antropologia ha pure una base decisamente concreta che si visualizza, appunto, nello
‘stare sul campo’.
4.2 L’ OSSERVAZIONE PARTECIPANTE
L’ antropologo, vivendo per un certo tempo nella comunità che studia, entra di fatto nel mondo di
essa, e comincia ad osservare la realtà con il punto di vista che quel particolare gruppo possiede.
Cionondimeno, egli conserva pur sempre le coordinate del sistema culturale da cui proviene, ed è
anzi decisamente salutare, per il suo piglio critico, che in momenti frequenti ma imprevedibili,
magari talora persino inconsci, egli faccia mentalmente ritorno al ‘mondo di casa’: l’ esperienza
praticata viene così ad affiancarsi ad una dimensione di distacco, originando la cosiddetta
osservazione partecipante.
4.3 CENTRALITA’ DELL’ ETNOGRAFIA PER L’ ANTROPOLOGIA
L’ elemento partecipativo, necessario per cogliere le idee e i modelli culturali che si vogliono
esaminare, comporta che la ‘raccolta di esperienze’ praticata dall’ etnografia non possa ridursi ad
una mera registrazione di dati: osservare, per gli antropologi, è un’ azione che si accompagna
sempre a quella di scoprire, dietro comportamenti ed idee, altri comportamenti e idee connessi coi
primi e costituenti una loro possibile spiegazione. Ciò non significa, comunque, che l’ antropologo
possa evitare di interpretare quegli stessi dati, essendo stato infatti appurato che già la semplice
selezione degli stessi rappresenta un atto ermeneutico: nel cogliere i dati, infatti, e nel
contemporaneo atto di scartarne altri, già li si sta costruendo in funzione di un’ ipotesi che si ha in
mente; né può essere diverso, giacché le stesse informazioni raccolte sul campo dall’ etnologo, di
fatto, si configurano già come frutti di interpretazioni avanzate sulle stesse da quanti sono
intervistati, e su quelle interpretazioni l’ etnologo avanzerà nuove possibili interpretazioni. Da ciò
deriva che quello antropologico è un sapere liminare, che sta dunque sulla frontiera ossia sulla
linea di confronto tra modi di pensare che sono caratteristici di culture differenti; l’ antropologo
avrà allora il compito di ‘gettare un ponte’ fra quei due differenti sistemi. Va ricordato infine, a tal
proposito, che tali responsabilità fanno sì che l’ antropologo svolga un compito decisamente
rischioso, suscettibile com’ è di essere (spesso faziosamente) sospettato di partigianeria dall’ una o
dall’ altra parte (di essere, cioè, percepito ora come dissidente dal Paese di provenienza, ora come
spia o comunque intruso presso la comunità che egli studia).
altro paradigma, capace di spiegare dati della realtà che il primo faticava ad incasellare oppure non
considerava affatto, il paradigma vecchio viene eliminato e non è più tenuto in considerazione.
Nelle scienze umane, il discorso figura diverso: infatti, seppure i paradigmi esistano e abbiano una
funzione di fatto equivalente, non è vero che i paradigmi di più vecchia data devono essere
eliminati dalla comparsa di altri più recenti; il sapere antropologico è dunque pluriparadigmatico.
8. IL VERSANTE APPLICATIVO
Fin dai suoi inizi, l’ antropologia si qualificò come sapere ben suscettibile di avere risvolti pratici,
applicativi: nel tardo ‘700, in particolare, quando l’ antropologia iniziò ad essere praticata, si era
sinceramente convinti che il suo ruolo sarebbe stato quello di edificare una società migliore per il
futuro. Nel secondo ‘800, l’ antropologia fu percepita soprattutto quale strumento utile a ‘riformare’
la società e a rimuoverne le ampie sacche di pregiudizi; contestualmente, i governi d’ Europa
pensarono che la disciplina potesse avere utili ripercussioni sul miglioramento delle conoscenze
rispetto alle condizioni dei popoli coloniali, che così sarebbero stati più facilmente controllabili; ad
oggi, quindi, non si può affatto negare che l’ antropologia sia del tutto estranea alle responsabilità
del fenomeno colonialistico. Ad oggi, comunque, la concretezza del sapere antropologico si
apprezza soprattutto nella partecipazione, garantita da molti studiosi del settore, a progetti volti
alla fattiva difesa delle minoranze, per lo più quelle immigrate. Non si dovrà dedurre da ciò,
comunque, che l’ antropologia abbia la pretesa di insegnare agli altri come comportarsi: l’ azione è
aspetto di pertinenza della politica, laddove l’ antropologia conserva inderogabilmente un carattere
disciplinare accademico, pur non essendo estranea all’ impegno etico di cui sopra.
9. LA RIFLESSIVITA’ E IL DECENTRAMENTO DELLO SGUARDO
E’ piuttosto recente l’ idea che quella antropologica sia una disciplina riflessiva, tale cioè per cui l’
incontro con soggetti appartenenti a culture diverse dalla propria consente all’ antropologo di
esplorare meglio la propria cultura: rivivendo situazioni più o meno analoghe a quelle studiate in
altre comunità, all’ interno di quella sua propria lo studioso saprà carpire meglio determinati aspetti
esperienziali.In effetti, risulta addirittura inevitabile che l’ alterità produca un tentativo di
comprensione e riflessione intorno a sé stessi, in chi la sperimenta. L’ antropologia si può allora
definire, con KLUCKHOHN, come specchio in cui gli occidentali possono riflettersi e soprattutto
osservarsi, guardando a sé medesimi tramite lo sguardo altrui. Così, “vedere noi stessi come gli
altri ci vedono (GEERTZ) si configura quale importantissimo e irrinunciabile tipo di prassi, a livello
tanto scientifico quanto etico.
PARTE SECONDA - UNITA’ E VARIETA’ DEL GENERE UMANO
CAP. 1- ‘RAZZE’, GENI, LINGUE, CULTURE
1. APPARENTEMENTE DIVERSI, DEL TUTTO SIMILI
L’ umanità attuale è contraddistinta da un tasso di varietà davvero elevato; né meno stupefacente
è il numero di livelli a cui tale differenza si evidenzia, procedendo infatti dal punto di vista fisico a
quello linguistico, a quello culturale. Non manca però un’ ampia batteria di aspetti che conferiscono
un ampio tasso di unitarietà: il primo aspetto, oggi tautologico ma di per sé tutt’ altro che
scontato, è che quella umana rappresenta un’ unica specie, suddivisa bensì in gruppi diversi ma
pur sempre una (BUFFON). Parallelamente, dovremo evidenziare che tutti i gruppi umani sono
produttori di cultura, altra caratteristica dunque che li accomuna; ancora, è un dato rilevante che,
pur nell’ esuberante pluralità che le contraddistingue, persino le varie lingue parlate nel mondo
posseggono strutture grammaticali paragonabili per la loro complessità.
Ad oggi, comunque, la diversità fisica degli esseri umani, ossia quella del loro variegato aspetto,
costituisce ancora il principale fattore di riconoscimento della (presunta, come vedremo)
differenza: in effetti, il cosiddetto razzismo ha preteso, nella sua forma ‘ortodossa’, di istituire un
nesso causale fra aspetto fisico e cultura e di giustificare su base somatica la dominazione di certi
gruppi su certi altri, quasi che l’ apparenza corporea potesse essere qualificata come segno di
superiorità culturale e morale (cfr. le ‘gerarchie di purezza’ stilate nel XIX secolo). Inteso come
atteggiamento di autocelebrazione della propria superiorità da un lato e di disprezzo per quanti
considerati inferiori dall’ altro, il razzismo circola attorno al concetto di ‘razza’. Utilizzarlo all’ interno
del campo umano, tuttavia, rappresenta un grave atto ermeneutico e terminologico,
semplicemente perché non esistono criteri atti a individuare le presunte diverse razze; ciò è tanto
più facile a comprendersi, se si considera che il razzismo esce spesso da qualsiai ragionamento
logico e si arrocca in un insoddisfabile desiderio di chiusura totale all’ esterno, al diverso,
impossibile a praticarsi a maggior ragione nell’ epoca della globalizzazione. Definiremo perciò la
razza come costruzione culturale, prodotta essenzialmente dal senso comune e pericolosa foriera
di stereotipi diffusi. Più che alle razze, dunque, si deve ricorrere a criteri differenti, se si vogliono
cercare elementi di discontinuità fra i vari gruppi umani; e uno di essi è rappresemntato dal codice
genetico, ossia dal DNA. Le ricerche di CAVALLI-SFORZA, in particolare, hanno evidenziato che le
differenze somatiche, oltre che superficiali, sono recenti, delineatesi come sono non più di 50 000
anni fa. Dal canto suo, il codice genetico è del tutto prossimo da gruppo umano a gruppo umano;
anzi, è persino lecito asserire, stando ai dati forniti dalle ricerche summenzionate, che il tasso di
diversità genetica esistente fra due individui pertinenti alla stessa ‘razza’ tradizionalmente intesa
(es. due neri) può risultare superiore a quello che intercorre tra due individui di altrettante ‘razze’
diverse.
2. POPOLAZIONI GENETICHE E FAMIGLIE LINGUISTICHE
Il concetto di famiglia linguistica, evidentemente utile nel suffragare le ipotesi del paragrafo
precedente, venne formulato anzitutto d William JONES, giurista inglese vissuto nel ‘600 e
incaricato di alcune mansioni presso il Tribunale coloniale di Calcutta: egli rilevò analogie
numerose e specifiche tra la lingua sacra degli indù, il sanscrito, e le lingue classiche, il celtico, il
gotico (tedesco arcaico). Studiate più sistematicamente, esse sarebbero risultate in seguito lingue
tutte quante appartenenti alla famiglia indoeuropea. Alcuni studiosi, spingendosi ancora oltre,
hanno cercato, di norma senza troppo successo, di individuare una ‘superlingua’ delle origini
(monogenetismo di TROMBETTI): sarebbe perciò esistito un unico, originario ceppo, che avrebbe
dato vita ad uno spettro inizialmente unitario (donde il nome di teoria unitarista).
3. GENI, LINGUE E CULTURE
La distanza genetica fra le popolazioni, e la sua larga corrispondenza con la distanza fra famiglie
linguistiche, non trova nessun corrispettivo nelle differenze culturali presentate dalle popolazioni
stesse: alla distanza genetica e linguistica, cioè, non corrisponde una distanza culturale
commensurabile, non essendo infatti i tratti culturali stabili, isolabili e databili. Un esempio classico
e pertinente è in tal senso offerto dai baschi, popolazione geneticamente molto lontana dal resto
delle popolazioni europee. A giudizio di alcuni studiosi, i baschi sarebbero i discendenti di una
popolazione paleolitica presente in Europa prima che le ondate migratorie dal Medio Oriente vi
trapiantassero l’ agricoltura. Anche se ciò non fosse corretto, sembra comunque fuor di dubbio che
i baschi discendano da genti pre-indoeuropee. E’ significativo che essi mostrino alcuni punti di
contatto coi sardi e, soprattutto, con alcuni popoli caucasici; ed è altrettanto importante rilevare
che, nonostante questa prossimità genetica e in parte anche linguistica, dal punto di vista culturale
non esistono di fatto punti di contatto fra le due popolazioni. Geni e lingue, dunque, cambiano
esattamente quanto la cultura, ma lo fanno a velocità molto più bassa di quella.
4. LE AREE CULTURALI E LA GLOBALIZZAZIONE
Per area culturale s’ intende una regione geografica al cui interno pare plausibile intendere una
serie di elementi sociali, culturali, linguistici ecc. relativamente simili. Attualmente, secondo i
diversi calcoli, si contano fra le 10 e le 11 aree culturali sul pianeta.
Tuttavia, quella delle aree culturali è un’ utilità soltanto relativa, nel senso che, all’ interno del
mondo globalizzato, avvicinato in ogni sua parte soprattutto dalle tecnologie e dai media, sarebbe
di per sé scorretto pensare alle cosiddette aree culturali come a compartimenti stagni, statici ed
immutati; ne scaturirebbe, cioè, una visione gravemente parziale e semplicistica.
PARTE TERZA - COMUNICAZIONE E CONOSCENZA
CAP. 1 - ORALITA’ E SCRITTURA
1. COMUNICAZIONE ORALE, COMUNICAZIONE SCRITTA
Se da un lato possiamo asserire che non esiste ormai società priva della conoscenza della scrittura,
dall’ altro dovremo ricordare che, anche nei contesti ad altissimo tasso di diffusione della scrittura,
la comunicazione ordinaria si svolge principalmente in forma orale. Nondimeno, è necessario
rimarcare che la scrittura, o meglio i processi disciplinanti la stessa, viene interiorizzata dall’
individuo e finisce per influenarne la persona (‘imperialismo’ della scrittura).
L’ origine della scrittura sembra dover essere associata al III millennio a.C., quando, nel contesto
mesopotamico, essa iniziò ad essere praticata sulla base di certi sistemi di calcolo, in cui gli oggetti
concreti tipicamente utilizzati presero ad essere sostituiti con dei segni recanti ciascuno un proprio
significato. Si svilupparono così le prime tracce di un fenomeno oggi più che mai planetario, al
punto che la maggior parte delle culture è a ‘oralità ristretta’, nelle quali, cioè, la scrittura è un
fatto assai diffuso; è invece ormai impossibile trovare culture a ‘oralità primaria’; anche nei contesti
a diffuso analfabetismo, le culture possono essere definite ‘a oralità diffusa’, giacché, al loro
interno, lo stile comunicativo prevalente non è ancora stato influenzato del tutto da quello della
comunicazione scritta.
E’ significativo notare che, nei contesti a ‘oralità ristetta’, non solo lo stile comunicativo, ma anche
il funzionamento del pensiero è influenzato dalla pervasività della scrittura, nel senso che le
persone scolarizzate non possono cogliere il senso delle parole in un contesto in cui esse siano
pronunciate da individui all’ oscuro della scrittura.
Chi, dal canto suo, fa uso specifico e sistematico della scrittura è, ad esempio, il cantastorie, per
esempio il griot africani: anche quando potrebbero avvalersi della scrittura per trasmettersi i testi
recitati, essi preferiscono conservare una struttura improntata all’ oralità, affidandosi quindi a
mezzi mnemonici derivati da uno stile di pensiero tipico delle culture a oralità primaria. In
particolare, sono frequenti le ripetizioni, che hanno il compito di semplificare la memoria del testo
e la comprensione dell’ uditore. Nelle culture a oralità diffusa, procedimenti siffatti appaiono tipici
anche della comunicazione politica; nelle ricche e alfabetizzate società post-industriali, è invece in
atto un fenomeno di ‘regresso all’ oralità’, cioè un processo d’ impoverimento lessicale e linguistico
in genere, dettato dalla semplificata comunicazione prodotta dai mass media. Ciò non toglie che,
all’ interno di tali sistemi, l’ analfabetismo si configura comunque quale grave causa di
emarginazione sociale, accompagnandosi spesso alla povertà.
2. PAROLA, CORPO, PERCEZIONE DEL MONDO
Senza essere scritte, le parole sono prive di autentica esistenza visiva, e tendono a configurarsi
come eventi che ‘accadono’ in un momento specifico e delimitato, quello in cui vengono
pronunciate; di norma, ciò determina che, all’ interno delle culture a oralità diffusa, gli individui
posseggano una memoria verbale migliore di quella presso le culture a oralità ristretta, dove la
traccia scritta è di fatto indispensabile perché si possa avere memoria di ciò che viene detto. Nelle
culture a oralità diffusa, ciò si accompagna spesso a una situazione tale per cui, allo scopo di
accentuare la forza espressiva di un dato enunciato, la narrazione viene accompagnata da una
gestualità ben precisa. Si badi che i gesti così prodotti hanno una loro valenza precisa, in
determinati contesti ne servono di specifici e non di altri: parleremo allora, riprendendo la
terminologia di SOUSSE, di culture verbomotorie, in cui esiste dunque un forte legame tra modelli
ritmici del discorso e respirazione e/o gesti, sulla base di un repertorio di ‘norme non dette’. Si
concretizza così la definizione che, agli inizi del Novecento, MALINOWSKI diede del linguaggio
presse i popoli delle isole Trobriand: lì, a detta dello studioso, il linguaggio si configura più come
azione che come pensiero. Ne deriva che, presso le culture a oralità diffusa, appare del tutto
coerente che le parole abbiano un ‘potere’ sulle cose e sugli esseri umani stessi: il potere deriva
alla parola dal fatto che, nominando qualcosa, essa fa accadere quel determinato qualcosa. Alcune
popolazioni hanno un’ autentica ‘teoria della parola’: nel Mali, i Dogan ritengono che la parola
possa essere scomposta in quattro elementi, come il corpo umano; presso gli Azande, popolo dell’
Africa centro-orientale, le arpe -che sono il principale strumento musicale- vengono accordate alla
voce di chi canta con il loro accompagnamento musicale, a dimostrazione del potere ampio che la
parola sembra possedere.
3. SCRITTURA, ORALITA’, MEMORIA
Evidentemente, le culture a oralità ristretta posseggono metodi e tecniche di altissima elaborazione
finalizzati a conservare la memoria e quindi a trasmettere il sapere; presso le culture a oralità
diffusa, invece, l’ unico modo per ricordare sequenze argomentative lunghe è dato dal pensare pr
‘moduli mnemonici’ suscettibili di funzionare per un rapido recupero orale, come temi, proverbi,
scenari, ripetizioni, antitesi. Inevitabilmente, ciò si riflette sul tipo stesso di memoria e di
conoscenza trasmesse. Si producono così effetti omeostatici, tali da eliminare tutto ciò che non ha
interesse per il presente; del passato e delle conoscenze, si veicola solo ciò che ha un significato
per il presente. Dunque, presso culture siffatte, le pur molte genealogie che vengono ricordate non
hanno valore di per sé, quanto piuttosto -perlomeno di norma- perché giustificano le relazioni
esistenti fra i gruppi allo stato presente.
4. ORALITA’ ED ESPERIENZA
Nelle culture a oralità diffusa, il dato cruciale è dato dalla dimensione dell’ esperienza concreta: se
il rapporto immediato fra parola ed esperienza concreta viene meno, il significato della parola può
affievolirsi o perdersi. In tal senso, hanno avuto grande importanza soprattutto le ricerche
condotte da LURIJA in Uzbekistan, all’ inizio degli anni Trenta del XX secolo: esse muovevano dal
presupposto che il pensiero umano s’ articola in un contesto pratico e di esperienza concreta; già
VYGOTOSKIJ, d’ altronde, aveva chiarito che lo sviluppo del pensiero umano, ben lungi dall’ essere
un processo naturale, è il prodotto di processi combinati di natura psichica e sociale (rapporto col
contesto d’ esperienza). Ponendo quesiti di geometria a fasce di disomogeneo grado d’ istruzione e
rilevando che, laddove i meno istruiti avevano associato le forme proposte loro a oggetti comuni e
concreti, gli scolarizzati avevano fornito risposte teoricamente ‘esatte’, Lurija constatò che, per l’
individuazione di un oggetto e la sua comprensione mediante la riconduzione a categorie già note,
l’ esperienza riveste un’ importanza sostanziale. Ne deduciamo che la logica dev’ essere intesa alla
stregua di un prodotto dell’ alfabetizzazione, essendosi sviliuppata in seguito non solo alla
diffusione della scrittura, ma anche alla sua interiorizzazione da parte degli antichi Greci. La mente,
di partenza, ovverosia di per sé, non ragiona dunque per via formale né sillogistica; una cultura
può pensare le forme in termini di figure geometriche e ragionare su categorie logiche solo se
abituata al confronto col medium della scrittura (la quale agisce come addomesticamento del
pensiero, dice GOODY). Allo stesso tempo, per quanto paradossale all’ apparenza, il fatto di fissare
le parole in un testo scritto aumenta la possibilità di immaginare alternative a quanto in quel testo
viene asserito, tornando sistematicamente sul contenuto; il che, evidentemente, non accade dove
la parola viene considerata sacra, per esempio nel mondo arabo rispetto al Corano.
Concluderemo dicendo che, per quanto le facoltà intellettuali degli uomini siano comuni a tutti
quanti loro, l’ acquisizione della scrittura permette di sviluppare un modus cogitandi
tendenzialmente più ampio di quello che può affermarsi in una cultura ad oralità diffusa.
COPPIE, I GENITORI CHIAMANO I PROPRI FIGLI MARCANDONE L’ ORDINE DI NASCITA SU BASE QUATTRO (FINO AL
‘QUARTO NATO’; IL QUINTO FIGLIO TORNERÀ AD ESSERE DETTO ‘PRIMO NATO’ E COSÌ VIA). LA FUNZIONE DEI
MARCATORI, SPIEGA LO STUDIOSO, NON È QUELLA DI BOLLARE DEGLI INDIVIDUI IN QUANTO TALI, BENSÌ
SUGGERIRE UNA REPLICA DI UNA FORMA IMPERITURA IN QUATTRO STADI, COSÌ DA OTTENERE UNA CICLICITÀ IN
EFFETTI CONFACENTESI AL SISTEMA INDÙ CUI I BALINESI APPARTENGONO: L’ ESSERE UMANO, IN QUELLA
CULTURA, VALE COME RAPPRESENTANTE DI UN MODELLO GENERALE PIÙ CHE COME CREATURA UNICA CON UN SUO
DESTINO PARTICOLARE; LO SFORZO CHE OGNI BALINESE SARÀ CHIAMATO A COMPIERE, CONSISTERÀ NEL
COMPORTARSI IL PIÙ ADERENTEMENTE POSSIBILE A QUANTO PREVISTO DAL TIPO CUI PERTIENE, PENA UNA SORTA
DI ‘CRISI D’ IDENTITÀ’.
UN ULTIMO ESEMPIO PUÒ DERIVARCI DALLA CULTURA DEI SAMO, UNA POPOLAZIONE BURKINABÈ: I SAMO SONO
CONVINTI CHE L’ ESSERE UMANO SIA FORMATO DA NOVE COMPONENTI, INSIEME AD UNA SERIE DI ATTRIBUTI (ES.
IL NOME, LA POTENZA EXTRA-UMANA DA CUI I BAMBINI DERIVANO ECC.) CHE, A DIFFERENZA DELLE COMPONENTI
‘NATURALI’ SUCCITATE, SONO COMPONENTI SOCIALI, FONDANTI CIOÈ IL DESTINO SOCIALE DELL’ INDIVIDUO. L’
INTERAZIONE TRA FATTORI NATURALI E FATTORI SOCIALI DETERMINERÀ L’ ELEMENTO INDIVIDUALE DELLA
SINGOLA PERSONA.
CAP. 2 - IL SESSO, IL GENERE, LE EMOZIONI
1. FEMMINILE E MASCHILE
QUELLO TRA FEMMINILE E MASCHILE È, CON OGNI PROBABILITÀ, IL CONFINE IDENTITARIO PIÙ NETTO PRESENTE
NELLE DIVERSE SOCIETÀ. MALGRADO IL FERMENTO CHE, IN OCCIDENTE, RIBOLLE NEL TENTATIVO DI CANCELLARE
LA DICOTOMIA, È PROBABILE, COME ALCUNI ANTROPOLOGI HANNO SOSTENUTO, CHE LA BARRIERA
MASCHILE/FEMMINILE RAPPRESENTI UN LIMITE ULTIMO DEL PENSIERO. CIONONOSTANTE, L’ UNIVERSALITÀ DELL’
OPPOSIZIONE MASCHILE/FEMMINILE NON SIGNIFICA CHE TUTTE LE CULTURE TRATTEGGINO LE RELAZIONI FRA I
DUE SESSI IN MANIERA SEMPRE ANALOGA; SI TRATTA, PIUTTOSTO, DI VALUTARE LE DINAMICHE PER CUI ANCHE
TALE DICOTOMIA È, PER MOLTI ASPETTI, UNA COSTRUZIONE SOCIALE. HERITIER, STUDIOSA FRANCESE, CITA IN
TAL SENSO IL CASO DEGLI INUIT: PRESSO DI LORO, INFATTI, L’ IDENTITÀ SESSUALE DELL’ INDIVIDUO NON È
LEGATA AL SESSO ANATOMICO, BENSÌ ALL’ IDENTITÀ SESSUALE DELL’ ANIMA-NOME INCARNATA, CHE ALCUNI
SCIAMANI ASSEGNANO AL NEONATO SULLA BASE DI DETERMINATI ‘SEGNI’; QUANDO SI AVVICINA ALL’ ETÀ ADULTA,
COMUNQUE, IL GIOVANE DEVE VESTIRE I PANNI DEL SESSO PROPRIO, QUELLO CIOÈ ANATOMICO.
2. IL SESSO E IL GENERE
CON UN’ IMPORTANTE DISTINIZIONE TERMINOLOGICA, GLI ANTROPOLOGI PARLANO DI SESSO IN RIFERIMENTO
ALL’ IDENTITÀ SESSUALE ANATOMICA, DI GENERE RISPETTO ALL’ IDENTITÀ SESSUALE SOCIALMENTE COSTRUITA.DI
CONSEGUENZA, SE LE DISTINZIONI DI SESSO SONO APPUNTO ANATOMICHE, CORPORALI, QUELLE DI GENERE
RISULTEREBBERO DAL DIVERSO MODO DI CONCEPIRE CULTURALMENTE LA DIFFERENZA SESSUALE. NE RICAVEREMO
CHE, FRA SESSO E GENERE, NON ESISTE UN RAPPORTO BIUNIVOCO: D’ ALTRONDE, I PRESUNTI TRATTI DI
MASCOLINITÀ E QUELLI DI FEMMINILITÀ, LUNGI DALL’ ESSERE SOMIGLIANTI FRA LORO IN TUTTI I SISTEMI
CULTURALI, PRESENTANO SPESSO DIVERSITÀ SPECIFICHE E RIMARCHEVOLI: È LA CULTURA, UTILIZZANDO PER VIA
SIMBOLICA LE DIFFERENZE DI GENERE, A COSTRUIRE RAPPRESENTAZIONI SOCIALI E CULTURALI DELL’ IDENTITÀ
SESSUALE, CHE PROPRIO PER QUESTO CAMBIANO A SECONDA DEL SISTEMA CULTURALE CONSIDERATO.
3. IL SESSO, IL GENERE, LE RELAZIONI SOCIALI
PER QUANTO CORRETTAMENTE DISTINTE NELLA PRASSI ACCADEMICA, LE DIMENSIONI DEL GENERE E DEL SESSO
TENDONO A CONFLUIRE O MEGLIO A CONFONDERSI, NELLA REALTÀ QUOTIDIANA: È DIFFUSA, PER ESEMPIO, L’
IMMAGINE DELLA DONNA COME INDIVIDUO NATURALMENTE PREDISPOSTO ALLE FUNZIONI RIPRODUTTIVE; MA È
FACILE RENDERSI CONTO CHE NULLA COME LA GESTAZIONE SIA POCO NATURALE E MARCATO, PIUTTOSTO, DA
ELEMENTI CULTURALI. UN ESEMPIO È OFFERTO DAGLI YANOMANI DELL’ AMAZZONIA, CHE, QUALORA UNA DONNA
PARTORISSE PIÙ VOLTE A DISTANZA RAVVICINATA, QUASI SEMPRE OPTAVANO PER L’ UCCISIONE DELLA FEMMINA,
IN UN BEN POCO NATURALE EPISODIO DI INFANTICIDIO. LA PROCREAZIONE NEL SUO COMPLESSO, INSOMMA, SI
CONFIGURA COME ATTO BEN POCO NATURALE.
E’ POI IMPORTANTE NOTARE QUANTO SIA DIFFICILE CONSIDERARE LA SFERA DELLE RELAZIONI DI POTERE COME
ESTRANEA AL TRATTEGGIAMENTO DEI RAPPORTI FRA INDIVIDUI DI SESSO DIVERSO; UNA CONSEGUENZA DI CIÒ,
TRA L’ ALTRO, È RAPPRESENTATA DALLA MOLTEPLICITÀ DEGLI SPAZI DI GENERE ESISTENTI. LA SEPARAZIONE FRA
SESSI SI È PER LO PIÙ REALIZZATA TRAMITE LA MESSA IN ATTO DI SIMBOLI, PRATICHE E ATTRIBUZIONI DI RUOLI,
TANTO REALI QUANTO IMMAGINARI. ANCORA, LE CULTURE CONCEPISCONO DIVERSAMENTE IL MODO DI ESPORRE
IL CORPO, E FANNO SOGGIACERE LE PROPRIE POSIZIONI IN TAL SENSO A CONSIDERAZIONI DI NATURA SESSUALE:
CERTE SOCIETÀ ABORRONO CHE LA DONNA SI MOSTRI, ALTRE -PER ESEMPIO QUELLA INDÙ- NON REPUTANO
DISDICEVOLE CHE ELLA LASCI SCOPERTO L’ OMBELICO, IN QUANTO CONSIDERATO IL PRINCIPIO GENERATORE
DELLA VITA. AD AVER DIMOSTRATO, CON PREGEVOLE COERENZA D’ ANALISI, QUANTO IL GENERE SIA NEL SUO
COMPLESSO UNA COSTRUZIONE CULTURALE, È STATA SOPRATTUTTO MARGARET MEAD, AUTRICE DI FORTUNATI
LIBRI BASATI SUGLI STUDI DA LEI COMPIUTI PRESSO ALCUNI POPOLI ESOTICI.
4. LE EMOZIONI
LO STUDIO DELLE EMOZIONI RAPPRESENTA UNA BRANCA MOLTO RECENTE DELL’ ANTROPOLOGIA.
I SENTIMENTI SI DEFINISCONO COME “I CONCETTI CHE UNA CULTURA POSSIEDE DI UN DETERMINATO STATO D’
ANIMO”; È INVECE PIÙ DIFFICILE DIRE CHE COSA SIA UN’ EMOZIONE, IN QUANTO IDENTIFICARE L’ EMOZIONE
DERIVANTE DAL FATTO DI ‘ESSERE INNAMORATI’ IMPLICA DI TROVARE QUALCOSA DI DIVERSO RISPETTO AL
CONCETTO DI AMORE MEDIANTE CUI QUESTO PARTICOLARE STATO D’ ANIMO VIENE ESPRESSO. LO STUDIO
ANTROPOLOGICO DELLE EMOZIONI, COMUNQUE, RESTA ALTAMENTE PROBLEMATICO, NELLA MISURA IN CUI GLI
STATI D’ ANIMO, PUR ESSENDO PROBABILMENTE UNIVERSALI, NON VENGONO MANIFESTATI NELLO STESSO MODO
ALL’ INTERNO DEI VARI CONTESTI: NON SONO, CIOÈ, UN ELEMENTO CHE MERITI DI ESSERE DEFINITO NATURALE,
CONFIGURANDOSI PIUTTOSTO COME CONSEGUENZA DELLA CULTURA PRESSO CUI SI CRESCE.
IN TERMINI GENERALI, POTREMO COMUNQUE CHIUDERE RICORDANDO CHE LE EMOZIONI, INTERESSANTI DA
STUDIARE PERCHÉ CONSENTONO D’ INDIVIDUARE ALCUNI DEI MECCANISMI CON CUI IL SÉ SI COSTRUISCE IN
RAPPORTO ALL’ ALTRO E ALL’ ESTERNO, NON RICADONO AL DI FUORI DELLA SFERA RAZIONALE DELLA VITA: NON S’
OPPONGONO, COME EVIDENZIA ROSALDO, AL PENSIERO, MA COGNIZIONI CHE INTERESSANO UN IO CORPOREO,
PENSIERI INCORPORATI.
CAP. 3 - LE CLASSI, LE CASTE, LE ETNIE
1. LE CASTE
LA PAROLA ‘CASTA’ SIGNIFICA, IN PORTOGHESE, ‘CASATA’; VENNE APPLICATO PER LA PRIMA VOLTA DAI
NAVIGATORI LUSITANI, CHE, GIUNGENDO IN INDIA, LO USARONO INDISTINTAMENTE PER RIFERIRSI AI VARNA E AI
JAT. I ‘VARNA’, LETTERALMENTE ‘COLORI’, SONO LE QUATTRO PRINCIPALI CATEGORIE DELLA SOCIETÀ INDÙ:
SACERDOTI, GUERRIERI, COMMERCIANTI, ARTIGIANI E, INFINE, CONTADINI (OLTRE AI PARIA, I FUORI CASTA
DETTI ANCHE ‘INTOCCABILI’). I VARNA SONO ULTERIORMENTE SOTTOCATEGORIZZATI IN MOLTISSIMI JAT E
SOTTO-JAT. TANTO I VARNA QUANTO I JAT SI PRESENTANO COME ENTITÀ SOCIALI TENDENZIALMENTE -TALORA
RIGIDAMENTE- RIPIEGATE SU SÉ MEDESIME: AD ESEMPIO, LE UNIONI MATRIMONIALI DEVONO AVVENIRE FRA
INDIVIDUI APPARTENENTI ALLO STESSO VARNA O ALLO STESSO JAT. IN PARTICOLARE, VIENE PRESTATA
ATTENZIONE A CHE NON SI VERIFICHINO OCCASIONI DI CONTATTO FRA INDIVIDUI DI CASTE SUPERIORI E
INDIVIDUI DI CASTE INFERIORI, ESSENDO LE CASTE DISPOSTE GERRCHICHAMENTE IN BASE AD UN CRITERIO DI
PUREZZA RITUALE. SI TRATTA, PER MOLTI STUDIOSI, DI UN ESASPERATO METODO DI STRATIFICAZIONE SOCIALE,
CHE DÀ EVIDENTEMENTE ACCESSO IN MANIERA DIFFORME ALLE RICCHEZZE; TUTTAVIA, I VERTIGINOSI
CAMBIAMENTI REGISTRATI NEGLI ULTIMI ANNI HANNO FATTO SÌ CHE, PROPRIO RISPETTO ALL’ ELEMENTO
ECONOMICO, IL SISTEMA DELLE CASTE VIVA FORTI CONTRADDIZIONI. DUMONT, STUDIOSO FRANCESE, HA PERÒ
CRITICATO LE INTERPRETAZIONI CHE RIDUCONO LE CASTE A UNA MISTIFICAZIONE DELLE CLASSI E, DUNQUE,
DEGLI ELEMENTI STRUTTURALI NECESSARI PER LA CODIFICA DI UNA STRATIFICAZIONE SOCIALE ‘MASCHERATA’: SI
TRATTEREBBE, EGLI SOSTIENE, DI UNA LETTURA EUROCENTRICA, BASATA SU IMMAGINI E CONCEZIONI NOSTRANE,
DUNQUE INADATTA A COGLIERE LA PECULIARITÀ E LA COMPLESSITÀ INDÙ. LA GERARCHIA DI PUREZZA RITUALE,
NELLO SPECIFICO, SI BASA SU UNA LOGICA CHE INFORMA DI SÉ L’ INTERO PENSIERO INDÙ, E NON SOLO L’ AMBITO
DELLE RELAZIONI ECONOMICHE E DI POTERE. IL SISTEMA CASTALE, AD OGGI, SI CONSERVA SOPRATTUTTO IN
VIRTÙ DEL ‘CONGELAMENTO’ VOLUTAMENTE OPERATO NEI SUOI CONFRONTI DAI COLONIZZATORI BRITANNICI,
INTERESSATI A FOMENTARE LA DIVERSITÀ E DUNQUE LA DISCORDIA SOCIALI.
SECONDO LEVI-STRAUSS, LE CASTE INDÙ SONO UN ESEMPIO TIPICO DELLE TENDENZE CLASSIFICATRICI DELLA
MENTE UMANA. IN PARTICOLARE, ESSE MOSTRANO A SUO GIUDIZIO D’ INTRATTENERE LEGAMI SPECIFICI CON IL
C.D. TOTEMISMO, OSSIA LA TENDENZA, PROPRIA DI MOLTE CULTURE, AD ASSOCIARE AGLI INDIVIDUI O AI LORO
GRUPPI IL NOME L’ IMMAGINE DI UN ANIMALE O DI UNA PIANTA. NELLO SPECIFICO, IL TOTEMISMO AUSTRALIANO
ASSEGNA A OGNUNO DEI GRUPPI LOCALI UN RISPETTIVO TOTEM, TALE PER CUI I COMPONENTI DEI GRUPPI
DEVONO SPOSARE INDIVIDUI DI ALTRI GRUPPI, AVENTI TOTEM DIFFERENTI. MALGRADO QUEST’ USO SIA
DIAMETRALMENTE OPPOSTO A QUANTO SI È VISTO CIRCA IL SISTEMA INDÙ, È POSSIBILE, SECODO LEVI-STRAUSS,
COGLIERE CHE I PRINCIPI ALLA BASE DELL’ ORGANIZZAZIONE DELL’ UNO E DELL’ ALTRO SISTEMA SONO GLI STESSI.
IL TOTEMISMO, ASSOCIANDO IL NOME DI UNA PIANTA O DI UN ANIMALE AD UN GRUPPO, OPERA UNA DISTINZIONE
FRA I GRUPPI SERVENDOSI DELLE DIFFERENZE ESISTENTI TRA LE SPECIE NATURALI; DI CONTRO, LE DISTINZIONI
OPERATE DAL SISTEMA CASTALE TRAGGONO ORIGINE DALL’ OCCUPAZIONE, PERCIÒ DALLA CULTURA (PRIMA
TRASFORMAZIONE). PER IL TOTEMISMO AUSTRALIANO, LE DIFFERENZE TRA LE SPECIE (DISTINIZIONI NATURALI)
SONO ASSIMILATE A QUELLE TRA I GRUPPI SOCIALI (DISTINZIONI CULTURALI); PER IL SISTEMA CASTALE, LE
DIFFERENZE TRA GRIPPI OCCUPAZOONALI (DISTINZIONI CULTURALI) VENGONO ASSIMILATE A DIFFERENZE
NATURALI, BASATE SULLA NASCITA (SECONDA TRASFORMAZIONE). AVVIENE COSÌ CHE IL TOTEMISMO
AUSTRALIANO PENSI LA NATURA TRAMITE LA CULTURA, E CHE INVECE LE CASTE PERCEPISCANO LA CULTURA
ATTRAVERSO LA NATURA. LE CONSEGUENZE SONO CHIARE: I GRUPPI TOTEMICI, AUTOPERCEPENDOSI IN QUANTO
CULTURALI, SCAMBIANO TRA DI LORO DONNE, ATTI CERIMONIALI E ATTI MAGICI; LE CASTE, AUTOPERCEPENDOSI
IN QUANTO CULTURALI, SONO UNITÀ CHIUSE SUL PIANO MATRIMONIALE E SEPARATE LE UNE DALLE ALTRE SULLA
BASE DI PRECISI DIVIETI. CIÒ NON TOGLIE, ANZI NON FA CHE RIMARCARLO, CHE I DUE TIPI DI GRUPPI
RAGIONANO SULLA BASE DI ANALOGIE FORMALI, DUNQUE DI SCHEMI CONSIMILI.
2. LE CLASSI
LA NOZIONE DI ‘CLASSE SOCIALE’ È STRETTAMENTE LEGATA ALLA TRADIZIONE DELLA FILOSOFIA E DELL’
ECONOMIA POLITICA EUROPEE. IN PARTICOLARE, SEPPE UTILIZZARLA MARX, CONVINTO CHE LA STORIA DELLA
SOCIETÀ EUROPEA SI FOSSE SVOLTA, NEL CORSO DEI SECOLI, ALL’ INSEGNA DELLA LOTTA DI CLASSE, DUNQUE
DELLO SCONTRO FRA GRUPPI SOCIALI AVENTI INTERESSI ECONOMICI E POLITICI TRA LORO DIVERSI E
CONFLITTUALI: COME LA SOCIETÀ MODERNA ERA NATA DALLO SCONTRO FRA BORGHESIA E ARISTOCRAZIA, COSÌ
LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE SI SAREBBE CONCLUSA CON LA LOTTA FRA PROLETARIATO URBANO INDUSTRIALE E
BORGHESIA, E AVREBBE VISTO LA VITTORIA DEL PRIMO. VA RILEVATO, COMUNQUE, CHE LE DISTINZIONI DI
CLASSE NON SI RISOLVONO IN DIFFERENZE DI TIPO ECONOMICO, BENSÌ -PER QUANTO LA DISPARITÀ NELL’
ACCESSO ALLE RISORSE GIOCHI LA SUA PARTE- DALLA RAPPRESENTAZIONE CHE CIASCUN GRUPPO JA DI SÉ STESSO
IN RAPPORTO ALLE ALTRE CLASSI: LA COSCIENZA DI CLASSE, IN EFFETTI, SI CONFIGURA COME LA
CONSAPEVOLEZZA CHE IL PROLETARIATO DOVEVA ACQUISIRE CIRCA LA CONDIZIONE DI SFRUTTAMENTO, CUI ERA
SOTTOPOSTO DALLA BORGHESIA. LE DISTINZIONI DI CLASSE, INFATTI, SI RIFLETTONO ANCHE SUL PIANO DELLA
CULTURA CHE OGNI CLASSE ELABORA ED ESPRIME IN BASE ALLA PROPRIA ESPERIENZA DEL MONDO: DONDE LA
DISTINZIONE CULTURE EGEMONICHE/CULTURE SUBALTERNE.
3. GLI STUDI CULTURALI
OGGI, MOLTE DELLE QUESTIONI FACENTI CAPO ALLA DIVISIONE IN CLASSI TIPICA DELLA CULTURA OCCIDENTALE,
SONO AFFRONTATATE DALLA TRADIZIONE DEI CULTURAL STUDIES. IL NOME SI DEVE A RICHARD HOGGART,
CHE NEL 1964 FONDÒ A BIRMINGHAM IL CENTRE FOR CONTEMPORARY CULTURAL STUDIES (CCCS). NATI NEGLI
AMBIENTI DELLA SINISTRA POLITICA INGLESE, IN UNA FASE DI CRISI IDENTITARIA DELLA CLASSE OPERAIA D’
OLTREMANICA, I CULTURAL STUDIES INTESERO LA CULTURA NON COME UN MODELLO ETICO-RILFESSIVO
ASSOCIABILE A UNA DATA POPOLAZIONE NÉ COME CARATTERISTICA PROPRIA DEL GENERE UMANO NEL SUO
COMPLESSO, QUANTO PIUTTOSTO COME UN’ ARENA, UN LUOGO D’ INCONTRO-SCONTRO E DI DISPUTA-DIBATTITO
PER L’ AFFERMAZIONE DELLE PROPRIE IDEE E DEI PROPRI DIRITTI: NON ESISTE, IN QUESTA PROSPETTIVA, UNA
CULTURA ‘DELLE DONNE’, QUANTO PIUTTOSTO UNA CULTURA COME DISCOSRSO SOCIALMENTE COSTRUITO
INTORNO AI DIVERSI GRUPPI E COME RAPPRESENTAZIONE DELLA LORO ESPERIENZA NEL MONDO. CON AGENCY,
ALLORA, S’ INTENDE LA CAPACITÀ DEGLI INDIVIDUI DI INVESTIRE DI SIGNIFICATO EVENTI E RAPPRESENTAZIONI,
ACCOGLIENDOLI O RIFIUTANDOLI PER ADDATTARVISI O RESISTERVI NEL MOMENTO IN CUI PROMUOVONO UNA
PROPRIA FORMA DI SOGGETTIVITÀ. L’ APPARTENENZA ALLA CLASSE NON È ASCRITTIVA, PERCHÉ VIVONO IN
SOCIETÀ DOVE, PERLOMENO FORMALMENTE, TUTTI HANNO LA POSSIBILITÀ DI COMPIERE UN’ ASCESA SOCIALE. LE
CLASSI, POI, NON EQUIVALGONO AI GRUPPI OCCUPAZIONALI, ESSENDO INFATTI POSSIBILE CHE GRUPPI
OCCUPAZIONALI DIVERSI APPARTENGANO ALLA STESSA CLASSE. DOVE NON ESISTE COSCIENZA DI CLASSE, CIOÈ
UNA FORMA DI AUTOPERCEZIONE CHE NASCE DALLA CONTRAPPOSIZIONE AD ALTRI GRUPPI SOCIALI ANCH’ ESSI
AVVERTITI COME CLASSI, NON PARREBBE LECITO PARLARE DI CLASSI SOCIALI. NONDIMENO, L’ ORMAI GLOBALE
ESPANSIONE RAGGIUNTA DAL MODELLO CAPITALISTICO FA SÌ CHE LA CLASSE POSSA VENIRE AD ESSERE
CONSIDERATA PURE AL DI FUORI DEL SUO ORIGINARIO CONTESTO APPLICATIVO; NON MANCANO, COMUNQUE,
OSTACOLI IN TAL SENSO, RAPPRESENTATI SOPRATTUTTO DA FATTORI COME L’ ETNICITÀ.
4. LE ETNIE E L’ ETNICITA’
SECONDO LA TRADIZIONALE DEFINIZIONE ANTROPOLOGICA, L’ ETNIA È UN GRUPPO UMANO IDENTIFICABILE PER
LA CONDIVISIONE DI UNA MEDESIMA CULTURA, DI UNA MEDESIMA LINGUA, DI UNA MEDESIMA TRADIZIONE E DI
UN MEDESIMO TERRITORIO. DAL SECONDO NOVECENTO IN AVANTI, PERÒ, È INVALSA LA TENDENZA A OPERARE
UNA RE-IMPOSTAZIONE DEL SIGNIFICATO DEL TERMINE. IN PARTICOLARE, BARTH HA CRITICATO L’ EQUAZIONE
CULTURA=LINGUA=TERRITORIO, CHE A SUO DIRE DAREBBE PER SCONTATA L’ IDEA CHE, DIETRO OGNI ETNIA,
ESISTA UN’ ORIGINE COMUNE: CIÒ, IN EFFETTI, ASSICURA LINFA VITALE AD UN MODO SENTIMENTALE
IDENTITARIO, QUELLO DELL’ ETNICITÀ, DI CONCEPIRE L’ ETNIA, CHE DÀ PER SCONTATO IL CARATTERE ASSOLUTO,
STATICO E COSTANTE O ADDIRITTURA ETERNO DEL GRUPPO. UN TALE PARADIGMA, SCRIVE LO STUDIOSO,
SAREBBE RINFOCOLATO SOPRATTUTTO DAL LINGUAGGIO CUI SONO ADUSI I MEDIA. BISOGNA PERÒ CONSIDERARE
CHE I GRUPPI SIMILI NON ESISTONO IN SENSO ASSOLUTO, CONFIGURANDOSI COME IL FRUTTO DI UN PIÙ O MENO
LENTO PROCESSO D’ INTERAZIONE CON ALTRI: RISULTA CIOÈ FREQUENTE CHE, IN MISURA ASSAI MAGGIORE DI
QUANTO NON RITENGANO SI ASSOMIGLINO MOLTO SUL PIANO CULTURALE.
4.1 L’ USO POLITICO DELL’ ETNICITA’
NELLA CONTRAPPOSIZIONE ETNICA, CIÒ CHE AGISCE MAGGIORMENTE È LA VOLONTÀ DI ENFATIZZARE UNO O PIÙ
ELEMENTI DIFFERENZIALI, SIANO ESSI EFFETTIVI O IMMAGINARI, PONENDO IN SECONDO PIANO, INVECE, QUELLI
ACCOMUNANTI. LO SCOPO DELLO SCONTRO ETNICO È DUNQUE LA NEGAZIONE DELL’ ALTRO, LA SUA ELIMINAZIONE
FISICA (PER ALLONTANAMENTO O PER STERMINIO).
PUÒ SUCCEDERE ANCHE CHE IL FATTORE ETNICO VENGA MANIPOLATO CON LO SCOPO DI OTTENERE VANTAGGI SUL
PIANO ECONOMICO PER ALCUNI GRUPPI D’ INTERESSE. SECONDO COHEN, QUANDO DUE GRUPPI ENTRANO IN
CONTATTO ALL’ INTERNO DI SITUAZIONI COMPLESSE, POSSONO VERIFICARSI DUE SITUAZIONI: LA PRIMA È QUELLA
PER CU, SE IL DIVARIO ECONOMICO TRA I DUE GRUPPI RISULTA TRASVERSALE AD ENTRAMBI, L’ ELEMENTO ETNICO
È INIBITO E NON VIENE FATTO COMPARIRE O COMUNQUE PESARE; NEL SECONDO CASO, SE L’ ACCESSO ALLE
RISORSE HA NELL’ ELEMENTO ETNICO IL PROPRIO DISCRIMINE, L’ ETNICITÀ HA OTTIME CHANCES DI AFFERMARSI,
INIBENDO DI NORMA LO SVILUPPO DI UNA COSCIENZA DI CLASSE. ANCHE SE PER COHEN, DUNQUE, L’ ETNICITÀ E
LA COSCIENZA DI CLASSE SI AUTO-ESCLUDONO VICENDEVOLMENTE, SICCHÉ IN PRESENZA DELL’ UNO DOVREBBE
MANCARE L’ ALTRO, ANDRÀ FATTO DI NOTARE CHE, PURE QUANDO L’ ETNICITÀ È PRESENTE, LE DIFFERENZE DI
CLASSE, LUNGI DALL’ ESTINGUERSI, SOLTANTO PASSANO IN SECONDO PIANO. UN ESEMPIO DI TUTTO CIÒ È
OFFERTO DAL DRAMMATICO CONTESTO DI MOLTI PAESI AFRICANI, NEI QUALI I LEADERS DI VARI GRUPPI
FOMENTANO LE DIVISIONI ETNICHE, COSÌ DA PERMETTERE LORO DI ESERCITARE IL CONTROLLO SUGLI STRATI PIÙ
UMILI E DI PRESENTARSI QUALI CAMPIONI DEL PROPRIO GRUPPO ETNICO.
DIREMO IN CONCLUSIONE CHE L’ ETNICITÀ È UN MODO DI COMPRENDERE L’ IDENTITÀ, SUSCETTIBILE DI ESSERE
INTESO SOLO IN RELAZIONE A SITUAZIONI STORICO-SOCIALI SPECIFICHE, NON COME RIFLESSO DI UN’ ORIGINALE
E PIÙ O MENO PERDUTA AUTENTICITÀ; SI TRATTA DEL PRODOTTO DELL’ INTERAZIONE FRA GRUPPI AVENTI
INTERESSI DIVERSI, SPESSO INNESCATI -COME NEL CASO DEL RUANDA- DA GRUPPI POLITICI ESTERNI.
BOX 5. IL CONFLITTO ETNICO ‘PERFETTO’: HUTU E TUTSI IN RUANDA
QUELLO TRA HUTU E TUTSI È UNO DEI CONFLITTI PIÙ ETNICI DIVAMPATI NEL SECONDO NOVECENTO. NON SI
TRATTÒ SOLO DI UNA GUERRA FRA ETNIE, BENSÌ DI UN RESIDUO O STRASCICO DELL’ EPOCA COLONIALE E DELLA
RADICALIZZAZIONE DELLA DIFFERENZA FRA DUE COMUNITÀ CHE, NELLA LORO STORIA, HANNO SEMPRE CONDIVISO
LINGUA, TERRITORIO, RELIGIONE, VALORI E ISTITUZIONI. QUANDO I COLONIZZATORI EUROPEI ARRIVARONO,
PRIMA DALLA GERMANIA E POI DAL BELGIO, TROVARONO UN SISTEMA POLITICO ASSAI ELABORATO, BASATO SU
UNA SITUAZIONE D’ EQUILIBRIO FRA IL GRUPPO DEI PASTORI, QUELLO DEGLI AGRICOLTORI E QUELLO DEI
CACCIATORI-RACCOGLITORI. I PASTORI ERANO PERLOPIÙ TUTSI; GLI AGRICOLTORI, LA FASCIA
DEMOGRAFICAMENTE PIÙ RILEVANTE ERANO HUTU E I CACCIATORI-RACCOGLITORI, MINORITARI, ERANO I PIGMEI
TWA. I COLONIZZATORI, INTERPRETANDO RAZZIALMENTE LA RIPARTIZIONE, STILARONO UNA SORTA DI
GERARCHIA DI MERITO RISPETTIVAMENTE DAI TUTSI AGLI HUTU AI TWA. EFFETTIVAMENTE, PRIMA DELLA
COLONIZZAZIONE ERANO SOPRATTUTTO I TUTSI A DETENERE IL POTERE, MENTRE DALL’ ARISTOCRAZIA HUTU
PROVENIVANO I MAGISTRATI RELIGIOSI. ESSENDOSI, TALORA SULLA BASE DI IMPROBABILI ASCENDENZE EUROPEE,
I COLONIZZATORI RIVOLTI SOPRATTUTTO AI TUTSI COME PROPRI INTERLOCUTORI, ESSI SCELSERO DI
ABBANDONARE L’ ANTICA RELIGIONE E DI CONVERTIRSI AL CATTOLICESIMO, COSICCHÉ IL LORO POTERE, A
DIFFERENZA DI QUANTO ERA SEMPRE STATO, VENNE A REGGERSI SULLA BASE DI UN PATTO COI COLONIZZATORI, E
NON DI UN PATTO COL RESTO DELLA POPOLAZIONE; PRIVATI DELLA TRADIZIONALE INFLUENZA RELIGIOSA, GLI
HUTU FURONO RIDOTTI AL RANGO DI CONTADINI AL SERVIZIO DEI TUTSI. RADICALIZZATA COSÌ LA DIFFERENZA
ANCHE SU BASE ETNICA, SI CREARONO I PRESUPPOSTI PER UNA DEFLAGRAZIONE DEL CONFLITTO, CHE
PUNTUALMENTE OCCORSE QUANDO GLI HUTU RIUSCIRONO A CONQUISTARE IL POTERE DANDO AVVIO A TERRIBILI
MASSACRI, AVENTI L’ OBIETTIVO DELL’ AUTENTICO GENOCIDIO. COME RISULTA EVIDENTE, I PRESUPPOSTI VANNO
RICERCATI ENTRO IL CAMPO COLONIALE, E SPECIFICAMENTE NELL’ ARTIFICIALE RIPARTIZIONE DELLA
POPOLAZIONE COLONIALE IN TRE ETNIE, APPUNTO TUTSI, HUTU E TWA; POICHÉ, TUTTAVIA, L’ ASPETTO FISICO
ERA SPESSO INSUFFICIENTE A DISTINGUERE I MEMBRI DELLE PRESUNTE ETNIE, SI RICORSE A UN DISCRIMINE
ECONOMICO, TALE PER CUI CHI FOSSE RISULTATO PROPRIETARIO DI DIECI O PIÙ BUOI VENIVA CLASSIFICATO
COME TUTSI, CHI NE AVEVA MENO COME HUTU. IN QUESTO MODO, L’ ACCESSO AI PRIVILEGI GARANTITI ALL’
‘ETNIA’ TUTSI FURONO ACCORDATI SULLA BASE DELLA RICCHEZZA PECUNIARIA PREGRESSA; IMPORTANTEMENTE, I
DOCUMENTI UTILIZZATI DALLE AUTORITÀ COLONIALI EBBERO UN LORO VALORE ANCHE DOPO L’ AVVENUTA
DIPARTITA DEI BELGI, PERCHÉ SPESSO FU SULLA LORO BASE CHE LE AUTORITÀ DI VOLTA IN VOLTA AL POTERE
STABILIRONO CHI UCCIDERE NEGLI INDISCRIMINATI MASSACRI DELLA GUERRA CIVILE.
PARTE SETTIMA
CAP. 3 - RELIGIONI E IDENTITA’ NEL MONDO GLOBALIZZATO
1. LA SECOLARIZZAZIONE E LE NUOVE RELIGIONI
PER ‘SECOLARIZZAZIONE’, S’ INTENDE DI NORMA IL FENOMENO DELLA RITRAZIONE PROGRESSIVA DEL SACRO
DALLA VITA SOCIALE E DALLA SENSIBILITÀ CULTURALE. SE CIÒ POTEVA ESSERE VERO PER LE SOCIETÀ
INDUSTRIALI AVANZATE, SEMBRA DECISAMENTE SCORRETTO E INFONDATO ASSOCIARE UNA TENDENZA SIFFATTA
ALL’ OCCIDENTE DI OGGI, CHE VIVE ANZI UN ‘RITORNO DI FIAMMA’ DEL SACRO, PUR IN FORME SPESSO
RIMODULATE. IN PARTICOLARE, LE NUOVE MANIFESTAZIONI RELIGIOSE VANNO ASSUMENDO UN CARATTERE
MASSIFICATO (CFR. SUCCESSO PELLEGRINAGGI), LA DIMENSIONE SACRALE PARE SVILUPPARE I TONI DI UNA
PRIVATIZZAZIONE (DIFFUSIONE DELLA CULTUALITÀ ‘FAI DA TE’, SPESSO CON ELEMENTI SINCRETISTICI); IN
ENTRAMBI I CASI, LA RELIGIONE STA SENZ’ ALTRO ESSENSIALIZZANDOSI. CON QUEST’ ULTIMO VERBO, S’ INTENDE
CHE LA FEDE STA VENENDO SPESSO RIDOTTA A DISCORSO DI PURA CONTRAPPOSIZIONE POLITICA, ETNICA E
CULTURALE (HUNINGTON); NON È INFREQUENTE, TRA L’ ALTRO, CHE SIANO GLI SQUILIBRI FRA LE AREE DEL
PIANETA ALL’ ORIGINE DI NUOVI CULTI O DEL RAFFORZAMENTO DI QUELLI NATI IN EPOCA POST-COLONIALE. I
CULTI NATI IN RISPOSTA AGLI EVENTI SOCIO-POLITICI DEL ‘900 VENGONO DEFINITI ‘MOVIMENTI’ DAGLI
ANTROPOLOGI; SE NE DISTINGUONO VARIE TIPOLOGIE:
CULTI DI REVITALIZZAZIONE, PRATICATI DA GRUPPI CHE MIRANO A UN MIGLIORAMENTO DELLE LORO
CONDIZIONI DI VITA, COSICCHÉ I RITI HANNO LA FUNZIONE DI RIVITALIZZARE IL SENSO D’ IDENTITÀ DEL
GRUPPO O DELLA COMUNITÀ MEDESIMA (ES. CULTI DEI NATIVI AMERICANI);
CULTI MILLENARISTICI, CHE RIPOSANO SOPRATTUTTO SU RAPPRESENTAZIONI INERENTI ALL’ AVVENTO
D’ EPOCHE DI PACE E FELICITÀ, COSÌ DA CREDERE DI DOVER FAVORIRE, PER IL TRAMITE DEI RITI
PRATICATI, L’ ASSUNZIONE DI UNO STATO D’ ANIMO PARTICOLARE DA PARTE DEL FEDELE; UNO DEI PRIMI
ESEMPI IN TALE PROSPETTIVA È OFFERTO DA GIOACCHINO DA FIORE;
CULTI NATIVISTICI, CHE SI BASANO SULLA PROTESTA CONTRO LE CONDIZIONI SVANTAGGIOSE IN CUI
VIVONO LE POPOLAZIONI LOCALI; L’ OBIETTIVO CHE PERSEGUONO È QUELLO DI FAR RINASCERE ASPETTI
CULTURALI SPECIFICI COME STRUMENTI DI RIVENDICAZIONE DELLA PROPRIA IDENTITÀ;
CULTI MESSIANICI, DI CARATTERE CARISMATICO, LEGATI ALLA PRESENZA DI UNA PERSONALITÀ FORTE,
IL MESSIA APPUNTO, E TIPICAMENTE SORTI DALL’ INCONTRO FRA CULTUALITÀ LOCALI E RELIGIONI
MONOTEISTICHE MESSIANICHE (ISLAM O CRISTIANESIMO). QUASI SEMPRE, SI BASANO SULL’ ATTESA DI
UN RIVOLGIMENTO SOCIO-POLITICO RADICALE; SPESSO, CULTI DEL GENERE SONO SERVITI A RINVERDIRE
MOVIMENTI NAZIONALISTICI IN CONTESTI AFFLITTI DAL COLONIALISMO.
4. IL FONDAMENTALISMO RELIGIOSO
Con l’ espressione ‘fondamentalismo religioso’, si fa riferimento ad uno stile di pensiero e di
comportamento consistente nel prospettare un ritorno a quelli che si reputano i fondamenti di una
data fede religiosa; essi sono i testi sacri, interpretati in una maniera letterale e dogmatica. I vari
media possono favorire la diffusione di letture integraliste della religione, soprattutto per via di
telepredicatori che sfruttano per scopi politici le varie presenze religiose di un territorio e guidano
così la percezione degli eventi. Le ‘telechiese’ così costruite, spesso richiedenti fra l’ altro ingenti
somme di denaro ai loro più assidui frequentatori, sono quindi interessate a diffondere messaggi
religiosi estremamente semplificati, non di rado addirittura faziosi, capitalizzando perciò la
tendenza semplificatoria che il mezzo televisivo di per sé esige.
I fondamentalisti, presenti in ogni religione, si caratterizzano per un’ interpretazione rigida e
ideologica della loro tradizione religiosa, così come per un atteggiamento d’ intollerante
opposizione verso chi non professa le loro stesse dottrine. Il fondamentalismo, pur essendo un
fenomeno secolare -si pensi, per esempio, alle guerre di religione che insanguinarono l’ Europa
della Riforma e della Controriforma nel XVII secolo-, ha senz’ altro trovato oggi una diffusione
geografica molto più endemica che mai.
U. FABIETTI - DAL TRIBALE AL GLOBALE
3. LOCALE E GLOBALE
Negli ultimi decenni, la prospettiva volta a cogliere le società e le culture come entità dinamiche
sottoposte all’ influenza di forze sia esterne sia interne è andata affinandosi, pervenendo così alla
c.d. ‘dialettica del locale e del globale’: le due dimensioni, quella locale e quella globale appunto,
sono viste interagire e intrecciarsi per via di un processo di norma imprevedibile. In tale processo,
una cultura vede i propri valori e significati, entrambi locali, trasformarsi in rapporto a ciò che le
proviene dall’ esterno; né va dimenticato che, in una prospettiva siffatta, l’ ‘esterno’ deve essere
considerato come un’ altra cultura, quanto piuttosto come un insieme di fenomeni comuni a tutte
quante le culture, come il mercato delle materie prime o la televisione. Si tratta di fenomeni
‘globali’ che, una volta sussunti da una certa cultura, non le risultano più esterni, integrandosi
piuttosto in essa, che prosegue nel formulare i propri significati in base alle proprie esigenze,
chiamate però a tener conto delle forze globali suddette: s’ ingenera così una (quanto meno
parziale) ri-formulazione dei significati locali, che tendono allora a rendersi ibridi.
Piuttosto che ad una lenta e totalizzante omogeneizzazione, dovremo dunque pensare ad un vasto
scenario, dove le varie tradizioni culturali recepiscono logiche globali; queste, pur essendosi
originate altrove, sono suscettibili -dopo la loro avvenuta assimilazione- di riformulare altre logiche
a livello locale, in un proesso virtualmente infinito. Insomma, se LEVI-STRAUSS vedeva nell’
occidentalizzazione del mondo un fenomeno di progressivo ‘insozzamento’ ambientale e culturale
del pianeta, CLIFFORD ha parlato piuttosto della pur stessa sozzura come di un ‘fertilizzante’ di
nuove sntesi ed emersioni culturali.
3. ASIMMETRIE PERSISTENTI
Per quanto ciò che è appena stato detto sia vero, nel senso di non poter istituire rapporti
esclusivamente unidirezionali fra periferie e centri anche nel campo culturale come in quello
economico, non dobbiamo neppure pensare che le cose vadano in modo completamente diverso,
nei termini cioè di una supposta pariteticità fra i due tipi di poli: le forze culturali del c.d. Terzo
Mondo non possono certo controbilanciare il flusso culturale dei centri in direzione contraria ed
equipollente. E’ indubbio che esistano categorie speciali d’ oggetti proveniente da aree del Terzo
Mondo che sono particolarmente apprezzati nella cultura occidentale; le culture, invece, che ne
vengono private o se ne sono private vivono oggi una grave situazione di disagio: alcune di tali
culture, reagendo al traffico riservato agli oggetti della propria tradizione, non solo tendono a
contestare i criteri ispiratori delle operazione in esame, ma giungono anche talora a prendere
coscienza del valore artistico, e dunque commerciale, assunto dagli oggetti stessi quando inseriti in
un contesto differente da quello originario. Il ‘trasferimento’ degli oggetti, infatti, comporta che
essi vengano reinseriti in contesti di significato molto diversi da quelli originari, con tutti gli effetti
derivabili dalla profonda trasformazione che così si attua. Un esempio è dato dal ‘tamburo reale’
proveniente dal regno precoloniale dell’ Ankole, nell’ Africa centro-orientale, che veniva fatto
risuonare solo in occasioni molto solenni, come l’ ascesa al trono oppure la morte di un re,
configurandosi perciò come metafora del re e della sua corte. Se -come storicamente non è
successo- i britannici lo avessero conquistato prima che fosse nascosto dalla popolazione locale,
probabilmente lo avrebbero alloggiato nello spazio di un museo etnografico, all’ interno della
sezione dedicata agli strumenti musicali: ne sarebbe derivato, così, un cambio nel contesto di
significato assunto da quell’ oggetto, semplicemente perché, agli occhi europei, il tamburo deve
appartenere al novero degli strumenti musicali. Il lessico e la sintassi dei due orizzonti culturali,
essendo tra loro differenti, non possono essere fatti equivalere in alcun modo. Se, però, quella in
esame si sarebbe eventualmente configurata come un’ appropriazione indebita, non voluta dai
cedenti, in altri casi è piuttosto una volontà condivisa a rendere possibile lo scambio, anche se
rimane pur sempre il cambiamento di paradigma di significato: ne è un esempio l’ insieme dei
frigoriferi trasferiti da Singapore in Gran Bretagna, atto voluto da ambo le parti e dunque -dalla
prospettiva dei cedenti- perfettamente consapevole. Dal primo esempio, però, traiamo la
conclusione che il traffico culturale porta su di sé il marchio della relazione asimmetrica, legata al
dominio che certe culture possono esercitare su certe altre.
4. IBRIDAZIONI
E’ rilevante notare che alcune culture riescono a produrre un proprio discorso o commento sui
processi di trasformazione che ne segnano la storia presente. Un esempio è fornito dai contadini di
BIJAPUR, località dell’ India meridionale. Essi parlano del loro presente come di un tempo ibrido e
di loro stessi come di genete ibrida, oltee che delicata, debole e vulnerabile alle malattie, come
delicate, deboli ed esposte alle malattie sono le sementi introdotte in tempi recenti. Secondo i
ricercatori che si sono occupati della questione, le parole dei contadini cercano di esprimere l’
articolazione delle forme locali di esistenza con le forme egemoniche di provenienza esterna; il
quadro di riferimento è dato da un ethos preesistente, che vede la condizione della terra, la
natura delle sementi e quella degli esseri umani come strettamente correlate fra loro. Le attività
agricole sono condotte lì nella stretta osservanza di un calendario rituale, avente per oggetto la
terra. I contadini definiscono guna la qualità della terra, hada l’ insieme delle operazioni che vanno
svolte in maniera appropriata per coltivarla, hulighe ciò che si riferisce ai raccolti concessi loro dalla
terra. Ne deriva che, ai loro occhi, la produttività possiede origini sacre, giacché la nozione di
hulighe risulta strettamente connessa ai riti che fammp della terra la fonte della produttività e della
produzione un evento inscritto in un contesto sociale e morale, riti tutti quanti preposti ad
accrescere e rinnovare la forza della terra. I cambiamenti derivati dall’ introduzione delle colture
risicole, però, hanno intaccato anche il background valoriale appena delineato; il vocabolo hulighe
è stato sostituito da utpati, dall’ inglese output, indicante la produttività calcolata in termini
quantitativi, finalizzati -come lo è il riso, appunto- al guadagno. Parimenti, all’ idea di hada, l’
appropriatezza, va sostituendosi quella di sistem, il sistema volto al raggiungimento di nuovi
obiettivi e all’ adozione di nuovi metodi atti allo scopo. I contadini, perciò, hanno imparato a
disprezzare le sementi ibride e a cambiare i concetti di riferimento, ma non il paradigma rituale,
che, pur passando dall’ avere come oggetto la terra all’ offrire primizie e all’ agghindare a festa
pozzi e pome (l’ acqua, invero necessaria per qualsiasi coltura, è indispensabile per il riso), ha
preservato le sue forme strutturali. Allo stesso tempo, e in maniera consapevole da parte degli
agricoltori, il poderoso processo di ristrutturazione colturale ha imposto nuovi schemi anche in
ambito sociale, sicché gl’ individui sanno di non essere più legati fra loro da rapporti sociali basati
sulla reciprocità, quanto piuttosto sulla logica dell’ utputi, ossia della produttività quantitativamente
intese. Il carattere ibrido delle sementi viene allora ricondotto dai contadini alla natura ibrida,
mescidata fra tradizione valoriale e innovazione produttivo-strutturale, degli esseri umani,
vulnerabili a malattie per tutto ciò anche morali, oltre che fisiche.
5. DELOCALIZZAZIONE
Gli scienziati sociali parlano sempre più pesso di culture transnazionali, da intendersi secondo
HANNERZ come strutture di significato viaggianti su reti di comunicazione sociale non interamente
situate in alcun singolo territorio. L’ idea di cultura come complesso strutturato, in questo modo,
viene ricongiunta alla nozione di rete come complesso fluido e composito, non riconducibile a un
rigido ed univoco modello, di relazioni sociali (come potrebbe essere, invece, una struttura del tipo
del linguaggio). Diremo così che le c.d. culture transnazionali non sono ancorate ad un solo
territorio, giacché i loro gangli posseggono nodi in ambienti, luoghi e talora persino continenti fra
loro diversi: si potrebbe allora parlare, in aggiunta ma non in opposizione alla definizione di cui
sopra, di culture delocalizzate; basti pensare, per avere un esempio limite, alle comunità costruite
via Internet. I flussi culturali, in tal modo, si svincolano dalle iniziative culturali delle singole
nazione, apparendo percorsi da flussi appunto transnazionali. Parliamo di trans-nazionalità e non di
inter-nazionalità proprio per rimarcare che le logiche dei processi culturali seguono vie e canali
perlopiù sfuggenti alla logica stessa del territorio nazionalmente inteso e ai rapporti fra stati-
nazione. Scendendo più nel concreto, noteremo che, ad oggi, individui provenienti da paesi del
Terzo Mondo ed ‘educati’ in Occidente tornano spesso alle loro patrie d’ origine portando con sé
modi di pensare e stili di vita ormai diversi da quelli della comunità da cui provengono; parimenti,
nei paesi presso cui si migra, tendono a formarsi più o meno ampi ‘circoli’ di culture ibridate, come
ad esempio quello curdo in Germania e in Svezia. Gli Stati, formando quadri di vario tipo -dal
burocratico all’ educativo al militare- si aprono necessariamente a un processo di tal foggia, anche
quando vorrebbero preservare la loro ‘tradizione culturale’. La transnazionalizzazione delle culture,
di conseguenza, implica un deprezzamento e un decadimento della nozione di luogo, appunto
devalorizzata in quanto non più percepita come coestensione della dimensione culturale e della
stessa identità: l’ ecumene globale e i suoi persistenti meccanismi di reciproco scambio implicano
appunto fenomeni del genere.
3. NUOVI PAESAGGI
2. PANORAMI
Se, alla luce delle problematiche dimensioni finora esaminate, non è più possibile pensare il mondo
attuale come marcato dal rapporto fra un centro e una periferia; se la globalizzazione non è solo
omogeneizzazione; se il mondo d’ oggi è attraversato da flussi di persone, beni e informazioni;
quale rappresentazione potremo offrire delle culture? Un mondo in movimento e multidirezionale
è, difatti, più difficile a rappresentarsi di un mondo fermo e i cui flussi procedano in un’ unica
direzione. Ciò rimette in discussione anche l’ antropologia, che, nelle sue indagini, è sempre stata
abituata a produrre immagini compartimentate dell’ umanità e delle varie culture, che si riteneva
potessero corrispondere, di volta in volta, ad un territorio e ad una società; ma il concetto stesso
di delocalizzazione ci ha messo in guardia contro simili pretese ermeneutiche.
Per uscire alloa dall’ empasse che inevitabilmente si crea, l’ antropologo statunitense APPADURAI
ha introdotto la nozione di panorama critico od etno-panorama, volta a designare le nuove
configurazioni identitarie e i nuovi scenari socioculturali emergenti in un contesto segnato dal
movimento e dal contatto fra individui e sistemi di significato. In particolare, APPADURAI definisce
l’ etno-panorama come il panorama di persone che costituiscono il mondo mutevole in cui vivono
(persone in movimento, come turisti, profughi, lavoratori stagionali ecc.), dato che -egli prosegue-
molte persone e gruppi hanno a che fare con la realtà di dover muoversi o la fantasia di farlo. La
nozione di etno-panorama introduce una nuova immagine dei contesti culturali in cui gl’
antropologi si trovano a lavorare. Proprio nel tentativo di applicare alla realtà concreta la sua
speculazione, Appadurai propone di calare il concetto di panorama nelle varie branche dell’ attività
umana: parleremo allora di panorama tecnologico, panorama finanziario, panorama mediatico,
paradigma ideologico… Ciò che non cambia è, appunto, la natura mutevole e movimentata del
panorama in sé. Da ciò consegue che le configurazioni identitarie, sia individuali sia collettive -
dunque, il modo in cui la gente elabora un’ idea di sé e degli altri- mutano più velocemente
rispetto al passato, non essendo quelle configurazioni più ancorate ad un territorio specifico. Ciò
non significa, comunque, che le identità individuali e collettive scompaiano, mutando soltanto; e,
parimenti, proprio nell’ età della globalizzazione e della delocalizzazione trans-nazionalizzante,
quelle identità tendono a riformarsi, per quanto le dinamiche relazionali cambino.
3. DETERRITORIALIZZAZIONE
La nozione di panorama etnico è direttamente legata sia a quella di delocalizzazione culturale, sia a
quella di deterritoralizzazione. Quest’ ultima, in particolare, indica lo status d’ individui, comunità e
gruppi derivante dal loro spostamento nello spazio fisico e nel loro radicamento, temporaneo o
definitivo, in molteplici ‘altrove’ rispetto al luogo d’ origine. A differenziare tra delocalizzazione e
deterritorializzazione è il fatto che quest’ ultima possiede una base più materiale; ciò che indica,
comunque, è pur sempre il fatto che non è più possibile identificare una coincidenza percepita
come ovvia fra luogo, cultura e identità. APPADURAI evidenzia che la deterritorializzazione
rappresenta una delle forze più potenti della realtà contemporanea, giacché coincide con lo
spostamento e la dispersione di masse d’ individui elaboranti concezioni particolari della loro
esistenza. A giudizio dello studioso, la deterritorializzazione è oggi al centro non solo di processi di
scambio sul piano culturale, ma anche di fondamentalismi e di rivendicazioni identitarie di vario
tipo, fungenti da elementi di coesione di fronte alla minaccia di una perdita d’ identità. Scendendo
più nel concreto, diremo che la deterritorializzazione è ricca di conseguenze tangibili: per esempio,
ha la possibilità di estendere il panorama del cinema (panorama mediatico), suscettibile di
provocare un processo di trasfigurazione ai Paesi differenti da quello di provenienza del prodotto.
Nel campo della finanza e del denaro, l’ idea di deterritorializzazione può aiutarci a comprendere la
natura di alcuni conflitti aperti o latenti sparsi per il pianeta: ad esempio, gli abitanti di alcune città
californiane sono preoccupate dall’ acquisto, da parte di molti giapponesi, di case a Los Angeles.
Con la deterritorializzazione, in effetti, l’ immaginario di gruppi e individui non fa più riferimento a
un luogo come punto d’ ancoraggio dell’ esperienza e dell’ identità; viaggiando e spostandosi -sia
fisicamente sia, per esempio tramite il cinema, fantasiosamente-, gruppi e individui incontrano
altrettanti gruppi e individui ricchi di altre storie di viaggio e di sopostamento.
In definitiva, potremo asserire che la nozione di panorama etnico corrisponde in primo luogo a un
diverso modo di disporsi a comprendere il mondo contemporaneo da un punto di vista
socioculturale; derivano poi conseguenze anche di natura metodologica, anzitutto nel definitivo
rifiuto di una visione omogeneizzante -lo stesso APPADURAI ammonisce a non pensare che l’
allargamento su scala mondiale del mercato corrisponda alla formazione di un’ unica cultura
planetaeria. Tutti i fenomeni connessi alla deterritorializzazione, allora, si applicano alla
metodologia che, ora come ora, il sapere antropologico è chiamato ad applicare: una metodologia,
cioè, consapevole delle implicazioni derivanti dal ‘traffico delle culture, in cui la rottura del vincolo
territorio-identità-cultura è assolutamente basilare.
4. IMMAGINAZIONE GLOBALE
Una fra le più dirette e significative conseguenze della diffusione dell’ etno-panorama teorizzata da
Appadurai è che l’ immaginazione di quanti vivono in mondi locali tende ad articolarsi in forme via
via più complesse all’ interno di contesti globali, anche quando il movimento dei soggetti nello
spazio è limitato o addirittura esistente. Tali contesti globali sono i processi indotti dalla presenza
di entità come il mercato, lo stato, i mezzi d’ informazione: molte località vedono la propria cultura
inserita in un contesto di globalità, esattamente perché gli elementi con cui entrano in contatto i
mondi locali sono dipendenti da flussi culturali globali. Sul piano culturale, dunque, i mondi locali si
aritcolano in riferimento a strutture aperte alla realtà globale, cosicché producono forme d’
immaginazione basate sulla relazione fra contesti diversi e non in rifeirmento al contesto di un’
unica dimensione territoriale. Per tutto questo, gl’ individui riformulano le proprie identità e le
proprie culture anche nei mondi nuovi creati dall’ immaginazione globale. Parole, espressioni
collettive e dunque identità nascono proprio da questo contesto come entità nuove, come
comunità immaginate.
5. COMUNITA’ IMMAGINATE
L’ espressione ‘comunità immaginate’, introdotta da ANDERSON per spiegare alcuni aspetti della
cultura c.d. nazionalistica, può trovare un reimpiego nel campo dell’ antropologia culturale, se s’
intende con essa l’ accresciuta capacità degli esseri umani di pensari, ovviamente per via
immaginata, come parte di un mondo più ampio, condiviso da altri soggetti (cfr. delocalizzazione +
panorama, soprattutto quello mediatico).
Schematizzando il ragionamento di Anderson, ricorderemo che, a suo giudizio, le comunità
immaginate, ovvero quelle nazionale, sono l’ effetto di un processo duplice: la diffusione di una
lingua scritta, favorita dal print capitalism dato dalla fortuna di libri e giornali, e la secolarizzazione
del mondo, che aveva portato alla dissolvenza l’ idea di salvazione divina. Gli individui dell’ Europa
tardo-moderna, dunque, potevano immaginarsi in quanto legati fra loro perché semplicemente
leggevano le stesse cose lette dagli altri, tanto più nella medesima lingua; d’ altro canto, essi
ancoravano quella loro identità collettiva, pensabile concretamente tramite la comunità nazionale,
in qualcosa di più duraturo, ancorché non più identificabile con un disegno nativo. Ricorda
utilmente SCHUETZ, in effetti, che l’ essenza del fenomeno è data dal fatto di poter pensare un
alter ego non in carne ed ossa, dunque temporalmente e spazialmente immediato, ma
cionondimeno descrivibile in quanto coesistente alla propria persona, alla stregua, appunto, di un
membro della stessa comunità. Risulta altresì evidente che, nella prospettiva che Anderson
adduce, praticamente qualsiasi comunità andrebbe descritta come immaginata; è però altrettanto
importante rilevare che le comunità nazionali hanno un grado più alto d’ immaginazione; a loro
volta, le comunità transnazionali sono ancor più immaginate, essendo gl’ individui che le formano
sciolti anche da un qualsiasi vincolo territoriale.
Tutto ciò appare utile nella misura in cui costringe il ragionamento antropologico a non poter più
limitarsi ad analisi territorialmente delimitate e definite.
2. MODERNIZZAZIONE E SEPARATEZZA
Quando sentiamo parlare di ‘modernizzazione’, non bisogna intendere solo ed esclusivamente una
specie di accesso a tecnologie e servizi reputati moderni dalla nostra mentalità di occidentali, ma
anche una mimesi mirante a ottenere una condizione di parità; questa, tuttavia, non esclude
affatto la distinzione o la separatezza. Per seguire le suggestioni di GIRARD, diremo che il mondo
di oggi pare caratterizzato dal c.d. scatenamento delle crisi mimetiche, che sono manifestazioni del
comportamento e dell’ immaginario collettivo mediante cui gruppi, popoli, nazioni perseguono
finalità d’ acquisizione dei medesimi beni già in possesso di gruppi, popoli, popoli più
avvantaggiati; le conseguenze di ciò, avverte sempre Girard, sono spesso rovinose. Ne abbiamo
molti esempi, all’ interno del mondo contemporaneo: basti pensare, per riferirne uno dei tanti, alla
c.d. corsa agli armamenti atomici da parte di Paesi sottosviluppati, nella speranza di superare
quelli tecnologicamente più avanzati. Un ruolo centrale è assunto, in effetti, dall’ assimilazione del
linguaggio della modernità bellica, assimilazione che produce un codice uniforme di dialogo
interculturale; è però rilevante che tale linguaggio, pur uniformante, produce separatezza.
Il linguaggio della modernizzazione, infatti, è il linguaggio egemonico dell’ Occidente, che, ovunque
sia adottato, riproduce le idee di egemonia veicolate da quello stesso linguaggio. L’ ibridazione
culturale, se è vero che riesce a produrre contatto e scambio, ma non sempre dà luogo al dialogo
e al riconoscimento reciproco. Diremo perciò che, nello stesso mentre in cui avvicina fra di loro le
culture omologandole al proprio linguaggio, il discorso della modernizzazione di fatto le separa e
distanzia: il linguaggio dello sviluppo, infatti, implica un’ idea di progressione su una sorta di scala
evolutiva, perciò si presta a distanziare l’ Altro, possibilmente sopravanzandolo nel grado di
modernizzazione.
1. TEORIE A CONFRONTO
Fin dai suoi esordi, la ricerca antropologica nei contesti educativi ha sviluppato particolare interesse per l’
impatto dell’ istruzione sugli studenti che appartengono a gruppi di minoranza, siano essi immigrati o di
umile estrazione sociale. Se, fino agli anni Sessanta, erano state propugnate teorie deterministe per
spiegare il loro insuccesso scolastico, che veniva imputato a scarse capacità cognitive, da quel decennio in
poi molti studiosi hanno cercato di chiarire il fenomeno con una visione più globale, comprensiva dei fattori
socio-culturali degli ambienti da cui quei bambini provengono; si cercò allora di colmare le lacune derivanti
da quelle condizioni favorendo l’ insegnamento della seconda lingua e promuovendo l’ acquisizione delle
capacità cognitive di base. Al termine degli anni Sessanta, però, i ricercatori americani diffusero un nuovo
approccio a riguardo, basato sul modello della c.d. discontinuità culturale: come dice il nome, esso s’
incentra sulle discrepanze esistenti fra cultura dominante e culture minoritarie, e sul loro impatto nel
mondo della scuola. Si poté allora comprendere che le incomprensioni e i conflitti patiti da quei bambini,
lungi dall’ essere soltanto la conseguenza di un ambiente di vita impoverito, derivavano dalla difformità fra
gli stili di vita e apprendimento che si confrontavano a scuola. Non si trattava, allora, di promuovere
interventi ad hoc per gli studenti delle minoranze, bensì di creare contesti d’ apprendimento più accoglienti
verso le differenze culturali. Lo studio della discontinuità culturale, date premesse siffatte, dovette perciò
dotarsi di adeguati strumenti d’ analisi: attenzione ai micro-contesti d’ interazione; uso della
sociolinguistica come via d’ accesso ai mondi presi in esame; garanzia d’ importanza alle ricadute
applicative della ricerca svolta sul campo, e dunque stretta collaborazione fra ricercatore ed insegnante.
Tutto ciò, inevitabilmente, conferiva alla ricerca così svolta il riconoscimento di un vero impegno sociale.
Lo studio della discontinuità culturale, cionondimeno, aveva la pecca di trascurare i fattori strutturali capaci
di contribuire alla riproduzione sociale: esso, cioè, non sa spiegare perché alcuni gruppi di minoranza
giungano al successo scolastico e altri no. L’ attenzione degli antropologi, così, andò focalizzandosi su
dimensioni come le esperienze storiche dei gruppi di minoranza, l’ evoluzione delle rispettive credenze
comunitarie circa l’ impegno scolastico, i fattori socio-economici precludenti un buon inserimento nel
mercato del lavoro. Sviluppando le nozioni di discontinuità culturale secondaria e di identità sociale
oppositiva, l’ americano John OGBU elaborò una teoria capace di contemperare le forze macro-sociali e i
fattori micro-etnografici, suscettibili entrambi di influenzare la vita in classe.
Negli stessi anni in cui Ogbu sviluppò la massima parte delle sue asserzioni, il contesto europeo vide fiorire
studiosi di particolare importanza, su tutti BORDIEU e PASSERON, che, nel loro esercizio di critica verso le
democrazie liberal-capitaliste del tempo, riconobbero nella scuola uno fra i principali vettori in grado di
riprodurre le ineguaglianze socio-culturali. Essi, perciò, individuarono nella nozione di classe il più
importante oggetto dei loro studi, relegando in secondo piano quella differenza etnico-culturale indagata
dai colleghi americani. Anche i loro indirizzi, però, furono superati dai tempi e, soprattutto, dall’
affermazione su larga scala dei c.d. cultural studies, in grado di cancellare l’ immagine dello studente (anche
di minoranza) malleabile e passivo, capace dunque di presentarlo in quanto co-partecipe alla costruzione
dei processi educativi ed eventualmente attore consapevole di strategie di resistenza contro la scuola, volte
alla salvaguardia della propria identità (cfr. minoranze involontarie secondo Ogbu).
2. DEPRIVATI O DIVERSI?
Dopo vent’ anni di ricerca sul campo trascorsi nei miseri contesti di Messico e Caraibi, l’
antropologo Oscar LEWIS pubblicò The Children of Sanchez, pubblicazione in cui, con l’ espressione
‘cultura della povertà’, volle far riferimento alle forze che rendevano la povertà un modo di vita
stabile e strutturato; senza esserne consapevole, egli offrì spunti interessanti agli studiosi del suo
tempo impegnati nella ricerca sull’ insuccesso scolastico delle minoranze, che definirono la
povertà come un fattore determinante per il comportamento individuale, in grado perciò di
forgiare i tratti della personalità di un gruppo. Lewis, infatti, aveva dimostrato che, quando la
forma culturale data dalla povertà s’ innesta in un certo contesto, cessa di essere un semplie modo
di adattarsi a una vita disagevole, trasmettendosi piuttosto da generazione a generazione
(processo d’ incultazione). I bambini poveri, allora, assorbendo i valori base e le attitudini del
proprio sottogruppo, erano psicologicamente incapaci di migliorare la loro situazione, sicché le
loro modalità di vita li privavano delle caratteristiche necessarie ad un pieno inserimento sociale.
La teoria così abbozzata, detta ‘deprivazionista’, pur non ascrivendo gli insuccessi degli alunni di
minoranza a deficit mentali degli stessi, era tuttavia minata da un grave vizio di fondo: la
convinzione, cioè, che l’ incapacità di uniformarsi alle regoli e gli scarsi risultati scolastici fossero da
attribuire a una mancanza di competenze culturali, cosicché le difficoltà di quegli studenti,
risultato fatale delle loro condizioni esistenziali, andavano compensate dalla scuola; il modello da
seguire, per la trasmissione delle pratiche linguistiche e sociali considerate più adeguate, andava
ricercato nelle abitudini dei figli della classe media.
Tutta la teoria deprivazionista si presta a due fondate obiezioni: la prima è che propende a stilare
una sorta di graduatoria di bambini più e meno bisognosi; in secondo luogo, cerca responsabili e
colpevoli per quegli insuccessi scolastici al di fuori del contesto della classe, cuore di quotidiane
interazioni. Partendo dal primo nodo problematico, diremo che l’ approccio deprivazionista
riconosce bensì l’ esistenza di una ‘cultura della povertà’, diversa da quella della maggioranza, ma,
proprio perché vi riconosce la causa prima delle difficoltà incontrate a scuola da chi vi aderisce,
non fa altro che presentarla in modo politicamente corretto, con una sua sanzione terminologica,
senza minarne la base. In tal modo, si esasperano i caratteri problematici propri degli alunni di
minoranza, che vengono così identificati sulla base dei loro bisogni attribuiti loro (es., i bambini
rom non sanno rispettare le regole); s’ ignora che il comportamento o le attività identificate come
problematiche sono tali anche per contrasto con la definizione di ‘normalità’ prodotta dall’
insegnante e dagli altti compagni. Agli studenti in difficoltà, insomma, non si prospetta altra
soluzione se non acquisire con duro lavoro i tratti culturali di quanti bisognosi non sono. Il
problema non è dunque individuato nell’ assenza di certe caratteristiche del percorso (es. carenze
metodologiche), ma solo negli ostacoli che si frappongono tra i bambini di minoranza e l’
apprendimento erogato da un contesto scolastico ‘preconfezionato’. Graziella FAVARO ha dunque
ragione nel parlare di un ‘approccio difettologico’. Siamo così al secondo nodo problematico: la
caccia ai colpevoli si limita al mondo esterno alla scuola, che dal canto suo viene
deresponsabilizzata; è il mondo della povertà, con le sue difficoltà economiche, il basso livello d’
istruzione dei genitori, la condizione d’ abbandono affettivo ed educativo del bambino, le lunghe
ore trascorse fuori da casa e lontano dai familiari, a produrre le difficoltà, e non la scarsa
accoglienza dei contesti scolastici verso gli stili d’ apprendimento degli alunni di minoranza.
Tali assunti esplicano, evidentemente, il motivo per cui le ricerche antropologiche sono state
effettuate soprattutto in micro-contesti sociali, ad esempio una classe o un suo gruppo di alunni: l’
etnografia del settore, dati i suoi presupposti teorici cui si appella, svolge di necessità indagine
assai circostanziate. Ciò, tuttavia, rischia di trasformarsi in un limite se scoraggia una
comprensione più estensiva della problematica studiata, capace, cioè, di abbracciare anche le
forze macro-sociali che concorrono a determinare lo scarso rendimento degli alunni di minoranza.
Secondo lo studioso, alcuni aspetti della scolarizzazione sono di per sé discontinui rispetto alle
esperienze vissute dai bambini a casa e in comunità, dove sono promosse le dimensoni dell’
intimità, dell’ inter-dipendenza e del particolarismo. Ciò riguarda le discontinuità c.d. universali;
quanto alle altre due tipologie, la differenza è data dal fatto che le primarie caratterizzano un dato
gruppo a prescindere dal contatto con la cultura e il sistema scolastico occidentale, le secondarie si
sviluppano in risposta ad una situazione di contatto. Proprio queste ultime, riconosce Ogbu, sono
le discontinuità più difficili ad eliminarsi, chè non possono essere risolte semplicemente con una
valorizzazione delle differenze culturali, bensì con un intervento sulle basi strutturali della
disuguaglianza e dunque sul sistema delle opportunità garantite. Un esempio della situazione è
offerto dai neri d’ America: durante il periodo schiavista, i bianchi cercarono in ogni modo di
scoraggiarli a legger e a scrivere, e pure in seguito eressero barriere contro la loro alfabetizzazione
di base. In condizioni siffatte, argimenta Ogbu, i neri hanno maturato un’ identità oppositiva,
esacerbando gli elementi di distinzione rispetto alla maggioranza: non si tratta solo di differenza,
ma anche, appunto, di contrapposizione. Le differenze linguistico-culturali sperimentate a scuola,
così, sono viste non come barriere da superare, ma come simboli di un’ identità collettiva da
salvaguardare. Ne consegue che, in una situazione di forte ‘dissonanza affettiva’, i bambini
temono di perdere il supporto della comunità, se acquiscono i comportamenti che la maggiornaza
tenta di instillare in loro. Per cambiare le cose in generale, secondo le minoranze involontarie,
servirebbe uno sforzo collettivo che arrivi a modificare le regole sociali; essendo ciò difficile a
realizzarsi, appare più semplice attuare strategie di sopravvivenza in aperto e consapevole
conflitto con le abitudini della maggioranza (es. droga, oltranzismo religioso). La marginalità,
insomma, è percepita come un dato ascritto fin dalla nascita, non come una condizione
provvisoria.
8.4 TRA ADATTAMENTO E ASSIMILAZIONE
I modelli culturali delle minoranze volontarie e involontarie sono interiorizzati dai bambini e
forgiano attitudini, saperi e competenze portati dai bambini a scuola. Tuttavia, se i figli delle
minoranze involontarie s’ impegnano a non assimilarsi ai modelli proposti loro dall’ istituzione
scolastica, i genitori immigrati esortano i figli a seguire le regole etiche vigenti a scuola, anche se in
contrapposizione coi valori familiari. In un primo momento, le differenze linguistiche e culturali
primarie dei bambini immigrati possono causare problemi, ma, essendo dovute ad assunzioni
culturali e a stili educativi parimenti diversi, e non a forme d’ opposizione sociale, si affievoliscono
nel tempo. Di conseguenza, per usare le parole di GIBSON, i figli degl’ immigrati adottano una
strategia di adattamento senza assimilazione (accomodation without assimilation): non vogliono
rinunciare alle credenze e alle pratiche della loro comunità, però sono volenterosi e cercano di
attenersi alle regole del gioco di classe, con l’ obiettivo di acquisire le abilità necessarie a farli
integrare nella società. Al contrario loro, le minoranze involontarie, che pure sperimentano
analogamente problemi interpersonali e d’ apprendimento dovuti alle discontinità culturali patite,
ricevono meno pressione dalle famiglie a cercare l’ integrazione, e, nel gruppo dei pari, vedono
favorita la tendenza a scoraggiare strategie per il miglioramento dei risultati scolastici, pena l’
accusa di tradurre il gruppo e di agire come il c.d. nemico (acting like Uncle Tom). Mentre i genitori
immigrati credono che la scuola sia un’ arena dove i gruppi minoritari possono competere più o
meno allo stesso livello con i membri della classe dominante, le minoranze involontarie sono
persuase che le istituzioni scolastiche non vadano incontro alle loro necessità; perciò, ancora a
differenza del primo gruppo, esse colpevolizzano l’ istituzione scolastica degli insuccessi dei figli,
che si sentono legittimati a contrastarla anch’ essi.
Il modello ecologico-culturale di Ogbu, in definitiva, per quanto si possa oggi definire per alcuni
aspetti ormai superato, resta un valido punto di riferimento, addirittura imprescindibile per chi s’
accosti per la prima volta allo studio degli insuccessi scolastici degli alunni di minoranza.
Nel primo caso, la studiosa ha osservato che, malgrado le difficoltà incontrate a causa della lingua
e in generale delle differenze primarie, gli studenti pubjabi ottengono di solito buoni risultati e
proseguono gli studi con successo; le motivazioni vanno ricercate soprattutto negli investimenti
sull’ educazione garantiti dalle famiglie di provenienza, che, pur rifiutando l’ assimilazione
culturale tout court, suggeriscono alle proprie giovani leve di adattarsi alle regole della scuola.
Gibson, che pure rileva analogie comportamentali con i Punjabi di Gran Bretagna e promuove in
generale il modello di Ogbu, mette comunque in guardia contro il rischio di troppo vaste
generalizzazioni, chè non tutti i gruppi raggiungono gli stessi obiettivi scolastici: in particolare, ella
evidenzia che, talora, sono gli alunni di minoranza primaria ad ottenere risultati più scadenti
rispetto a quelli di minoranza secondaria, soprattutto se sono arrivati nel Paese di turno dopo uno
o due anni di educazione ricevuta in patria e hanno quindi una scarsissima o addirittura nulla
dimistichezza con la lingua della nuova realtà; vivendo il nuovo contesto in quanto minaccioso nei
loro confronti, tanto più se esso è condito da atteggiamenti di discriminazione nei loro confronti,
possono sviluppare strategie di opposizione, facendo resistenza all’ insegnamento e creando
scompiglio di proposito in classe.
10. ANTROPOLOGIA, PSICOLOGIA, ETNOPSICHIATRIA
Oltre al periodo di permanenza nel nuovo Paese, all’ età avuta nel momento dell’ arrivo e al livello
di padronanza della lingua, altri cinque fattori incidono sulla variabilità dei risultati scolastici
conseguiti dai bambini d’ origine immigrata:
o la storia del gruppo prima dell’ emigrazione;
o il sistema di stratificazione sociale del Paese d’ arrivo;
o il tipo d’ integrazione raggiunta dalla famiglia nella società d’ approdo;
o la politica della singola scuola rispetto alle differenze culturali;
o l’ equilibrio psichico derivante dall’ esperienza migratoria.
Per effetto di questi studi, l’ antropologia dell’ educazione ha spostato la sua attenzione dalla
struttura all’ agency; a loro volta, gli indirizzi più recenti esperiscono tentativi atti a superare la
dicotomia tradizionale fra le due dimensione, nella consapevolezza che la struttura può essere
anche il risultato variabile dell’ agency umana e non una sua precondizione estranea a qualsiasi
cambiamento.
PARTE TERZA - LA NUOVA ETNOGRAFIA DELL’ EDUCAZIONE
Entrambi i limiti sono stati superati, sul versante antropologico, dal ricorso al metodo etnografico, capace di
analizzare i modi concreti nei quali gli alunni contribuivano a rafforzare l’ ideologia dominante o ad opporvi
resistenza.
Willis, dunque, è in grado di scardinare l’ immagine dello studente malleabile e passivo, e a fortiori di
smontare le teorie riproduzioniste formulate in precedenza. I lads da lui studiati, ragazzi di estrazione
operaia, partecipano attivamente alla vita scolastica e utilizzano modi specifici per resistere all’ ideologia
dominante, volti comunque a mettere in luce la loro subcultura di opposizione. Spinti dalla solidarietà
interna al loro gruppo e dalla tipica grinta mascolina, i lads evidenziano ostentatamente la loro forza fisica,
che Willis considera un elemento fondante della loro ‘cultura di fabbrica’; considerano le attività proposte
dalla scuola come ‘roba da donnicciole’, dunque se ne tengono ben distanti più che possono, svolgendo il
minimo indispensabile dei loro compiti. Chi non fa parte del loro gruppo, è relegato entro gli ear’ oles,
letteralmente i ‘buchi d’ orecchio’, considerati quindi passivi e conformisti, incapaci di agire -l’ udito è d’
altronde il senso che richiede meno partecipazione al soggetto- e di prendersi beffe di tutto o tutti, come i
lads invece fanno. Il loro comportamento è una conseguenza diretta, per Willis, del gruppo sociale cui
appartengono e della sua condizione economica; essi intravedono nel solo lavoro manuale la propria idea di
successo, devalorizzano quello intellettuale e lo percepiscono in quanto inutile se non fallimentare. Così
facendo, si condannano da soli a lavori duri e mal retribuiti.
Willis, insomma, istituisce un autentico nesso fra auto-determinazione e riproduzione del sistema d’
ineguaglianza sociale; diremo perciò che, pur configurando un esito della scolarizzazione non dissimile
rispetto a quello dei riproduzionisti, se ne discosta nella misura in cui riconosce agli attori del processo
delineato una capacità d’ azione e di scelta, determinante per il futuro che lavorativamente li aspetta e che,
appunto, essi coi loro comportamenti producono.
Ciononostante, l’ identità familiare era accoantonata solo provvisoramente, non abbandonata né rifiutata.
Anche se basate su presupposti diversi, quello dell’ utilità dei processi scolastici volti a ridurre il gap
interculturale presente a scuola e quello dell’ ineliminabile costanza di quest’ ultimo (discontinuità
culturale), le due ricerche analizzate hanno aspetti comuni: attribuiscono importanza alla cultura dei pari;
mostrano interesse per la dimensione situazionale; descrivono i contesti interattivi dove i comportamenti a
scuola si attuano; somo riluttanti verso un’ interpretazione troppo meccanicistica delle azioni sociali dei
giovani immigrati. I punti comuni dei risultati delle ricerche sono quindi plurimi: entrambe, per esempio,
sottolineano l’ incredibile capacità dei bambini di selezionare i comportamenti più funzionali al contesto o il
loro desiderio di essere considerati come tutti gli altri, al punto da essere a disagio quando chiamati a
spiegare le proprie origini culturali; ciò deriva non dal fatto che si metta a repentaglio la propria identità
etnica, bensì dal fatto che essi si vogliono percepire come ragazzi e basta, senza ulteriori distinzioni.
PSICOLOGIA
2.4 LA RESILIENZA
Gli adolescenti che, malgrado una soluzione molto complessa, mostrano un buon livello di
adattamento, incarnano ciò che si definisce la resilienza. WERNER ha studiato un campione di
circa 700 neonati del 1955 in un’isola delle Hawaii, 200 dei quali caratterizzati da condizioni
fisiche, mentali o familiari giudicate ad alto rischio. Ristudiati in età adolescenziale, di essi solo 2/3
davano segni di persistenza dei problemi e di tendenza alla devianza. 1/3 aveva quindi sviluppato
strategie di resilienza, veicolate perlopiù dalla presenza di una figura adulta di riferimento (zio,
insegnante), di un nucleo familiare poco numeroso e di una salda fede religiosa.
Ad oggi, la resilienza si definisce come un processo dinamico, per il cui tramite l’individuo si
adatta positivamente a un contesto avverso. Per parlarne a ragion veduta, dunque, serve sia che
l’individuo sia esposto a una condizione di rischio grave, sia che ciononostante egli sviluppi
positivi.
In quanto -come visto- è un processo dinamico, la resilienza non può essere banalizzata come
caratteristica della personalità. Per individuarla, conviene guardare non solo ai problemi, ma anche
alle potenzialità che quelli offrono alla persona: nel percorso di vita condotto in maniera resiliente,
anche la situazione più drammatica assume un senso costruttivo.
2. L’IDENTITA’
1. ADOLESCENTI E LAVORO
L’adolescenza e la prima giovinezza sono un periodo di transizione verso l’assunzione di nuove
responsabilità, tipiche del mondo adulto. L’incontro col lavoro è un momento importante per tale
periodo, ha un valore simile a quello degli altri compiti di sviluppo per acquisire indipendenza
sociale e affettiva dalla famiglia e delineare un soddisfacente inserimento sociale. In questa fase,
però, l’occupazione tende spesso a restringere le opportunità di crescita, creando una sorta di
competizione -dall’esito incerto- tra esperienza formativa e lavoro. Ciò accade tanto più nelle
società pluraliste di oggi, nelle quali il lavoro esige tipicamente di essere accompagnato da un
bagaglio elevato d’ istruzione. L’incontro dell’adolescenza col lavoro si svolge secondo ritmi
diversi, imposti dal contesto socioculturale di turno: per esempio, mentre i Paesi sottosviluppati o in
via di sviluppo vedono i ragazzi precocemente inseriti nel mondo del lavoro e desiderosi di tornare
in quello della scuola, i due sistemi hanno una netta separazione fra loro nei Paesi più avanzati.
Inoltre, il ruolo della famiglia nel rendere significativa l’esperienza di lavoro cambia sia in base al
fattore tempo, sia in base alla collocazione sociale del nucleo di riferimento: le famiglie più modeste
e orientano i figli verso occupazioni a ritorno economico immediato, mentre quelle di status medio
tendono a vedere l’ occupazione più come opportunità per l’apprendimento di nuove competenze,
utili a completare la maturazione sociale. In generale, il lavoro può facilitare un inserimento sociale
appropriato, perché amplia le prospettive da cui l’adolescente può guardare a interessi, desideri e
rappresentazioni della realtà, rispetto a quanto confezionato dalla scuola. Altrimenti, il ‘rischio’ è
quello di una segregazione rispetto al mondo adulto, che conduce alla scarsa considerazione del
mondo professionale e indirizza quasi sempre all’intrapresa di una carriera universitaria.
4. CONCLUSIONI
La forma finale assunta da una carriera non deriva solo dalle scelte iniziali della persona, ma anche
da altre cause di natura sociale. Occorre fare una distinzione:
1. da un lato, gli esiti delle transizioni fanno riferimento a differenze nei modi di partecipare
alla vita sociale e lavorativa. Ad esempio, uno studente che abbandona precocemente gli
studi non potrà accedere a posizioni occupazionali di prestigio e si differenzierà dai coetanei
ancora studenti per lo stile di vita praticato;
2. dall’altro lato, serve analizzare con cura opinioni, atteggiamenti e attribuzioni di significato
all’esperienza d’incontro col lavoro e, in generale, il problema dell’identità.
E’ congetturabile che il modo in cui l’adolescente vede sé e gli altri nel nuovo contesto lavorativo
vada associato all’assetto dell’identità costituitasi in precedenza, risultando però anche segnato dalla
soddisfazione delle aspettative in quel contesto, dal tipo di valutazioni ricevute e dai confronti
realizzati con le persone incontrate. Il lavoro adolescenziale, però, con una forte distonia tra
aspettative e realtà, nonché con una conseguente autoriduzione degli scopi, mette a dura prova
l’identità nell’ incontro col lavoro e modifica aspetti rilevanti del sé. Per differenziarsi dal destino
sociale degli adolescenti lavoratori ‘medi’, il singolo può cercare o di adattarsi o di negoziare le
forme di cambiamento.
L. MOLINARI - PSICOLOGIA DEI PROCESSI DI SVILUPPO E DI
ADATTAMENTO IN CLASSE
INTRODUZIONE
Il rapido cambiamento cui si assiste, all’interno del mondo della scuola, chiede agli insegnanti di evolversi
definitivamente da ‘dispensatori di nozioni’ a ‘soggetti consapevoli’ dei processi psicologici vissuti da chi
hanno davanti.
2. LO STUDIO DELL’ADOLESCENZA
Nell’approcciarsi agli adolescenti, i primi problemi da porsi sono:
1. la nascita dell’adolescenza come categoria a sé della psicologia;
2. la durata dell’adolescenza nel ciclo della vita.
Quanto al primo punto, è fuor di dubbio che gli adolescenti sono sempre stati descritti; tuttavia, prima che le
società industriali e proto-industriali nascessero, infanzia ed età adulta formavano una sorta di continuum.
Solo la progressiva richiesta di una qualificazione maggiore della manodopera ha condotto a una
valorizzazione dell’età adolescenziale: i ragazzi non erano più considerati solo in funzione della forza lavoro
(come nel Medioevo) né tutelati soltanto da bambini (come nella prima età borghese). La nascita del
romanzo psicologico ha permesso di rendere l’adolescenza una categoria prima letteraria, poi -a fine
Ottocento- anche psicologica, studiata in primis da HALL. A oggi, i modelli di studio dell’adolescenza sono
due:
1. approccio psicodinamico: a partire dagli studi di A. FREUD e BLOS, ha cercato di spiegare alcune
dinamiche dell’adolescenza alla luce delle dinamiche interne caratterizzanti gli adolescenti (es.
meccanismi di difesa come risposta alle pulsioni indotte dalla pubertà). Il focus, a oggi, è spostato
perlopiù sulle trasformazioni dei rapporti coi genitori e con quelle socio-economiche;
2. approccio psicosociale: esso colloca i processi di cambiamento propri dell’adolescenza nel contesto
sociale, dove essi innescherebbero processi sociali.
Sono esistiti anche altri tipi di approccio: lo studio socioantropologico di M. MEAD, che ha dimostrato
come l’adolescenza sia una fase culturalmente determinata; l’approccio cognitivo di PIAGET ha saputo
disegnare un’immagine multiforme e sfaccettata dell’adolescenza.
Quanto alla durata dell’adolescenza nella vita di una persona, l’inizio è di solito fatto coincidere con la
pubertà, termine che indica il momento (attorno agli 11-12 anni d’età) in cui il corpo di un bambino diventa
quello di un adulto. L’adolescenza è diversa dalla pubertà in senso stretto, perché non si esaurisce a essa,
bensì implica processi di vario genere, che permettono di costruire un’identità adulta. Possiamo distinguere:
1. preadolescenza ;
2. prima adolescenza;
3. adolescenza propriamente detta;
4. tarda adolescenza.
In realtà, non sono pochi gli studiosi che propendono oggi per un allungamento dei termini dell’adolescenza,
a causa della trasformazione della famiglia da normativa ad affettiva e, soprattutto, della crisi economica,
responsabile di un inserimento sempre più lento e tardo nel mondo del lavoro. Parallelamente, l’inizio della
pubertà è anch’esso in evoluzione, ma questa volta verso il basso: il possesso dei device tecnologici più
affermati sembra decisivo nel convincere i giovanissimi a sentirsi adulti.
In sintesi, quella dell’adolescenza è una durata molto difficile a definirsi, a causa dei processi sociali,
economici e culturali che ne complicano la delimitazione.
3. I CAMBIAMENTI IN ADOLESCENZA
I molti cambiamenti da registrare nell’adolescenza riguardano, per limitarci a quelli più importanti, il corpo,
le modalità di pensiero e il raggiungimento di una condizione d’autonomia rispetto agli adulti significativi.
3. STARE IN GRUPPO
Lo stare in gruppo è la modalità di partecipazione sociale più caratteristica dell’adolescenza, solo
parzialmente sovrapponibile alle relazioni amicali: non necessariamente, infatti, coloro che sono conosciuti
all’ interno di un gruppo diventano propri amici. Ad ogni modo, proprio il gruppo dei coetanei è percepito di
norma come l’ambito sociale di riferimento. Per lungo tempo il gruppo di aggregazione spontanea
adolescenziale è stato valutato in maniera negativa, perché associato a situazioni di marginalità e devianza in
quanto privo di altri scopi che non fossero il bighellonare insieme.
Esistono gruppi formali e gruppi informali. I gruppi formali sono aggregazioni di giovani finalizzate alla
realizzazione di compiti specifici, dunque al raggiungimento di un obiettivo strumentale che richiede
impegno e abnegazione (es. aggregazioni sportive). Sono spesso guidati da adulti che supervisionano la
condotta dei fanciulli. Gruppi del genere rappresentano contesti protetti, oltre a scuola e famiglia, in cui
sperimentare competenze, aspettative per il futuro, relazioni amicali e scambi d’opinione. La partecipazione
del fanciullo è dunque importante e positiva soprattutto quando la sua età è ancora tale da richiedere un
contesto protettivo e la presenza di un adulto a monitorare: pertanto, il tasso di presenza adolescenziale nei
gruppi formali si riduce dopo i 14/15 anni (di conseguenza, la secondaria di primo grado è senz’altro un
potente gruppo formale). I gruppi informali, che attirano gli adolescenti soprattutto tra i 15 e i 18 anni, sono
nuclei di individui che hanno una relazione intensa e sistematica, fondata sulla condivisione di valori,
interessi ed esperienze, considerati importanti per sé e per il gruppo, non necessariamente esplicitati. Sono
presenti norme implicite di fedeltà e lealtà al gruppo e leadership sommerse. Non esistono obiettivi
strumentali, la frequentazione spontanea è dovuta al voler stare insieme, fare amicizie, avere esperienze
interessanti, comunicare, esprimere le proprie idee e in generale divertirsi. L’appartenenza a un gruppo
informale, favorendo meccanismi d’identificazione col gruppo e di differenziazione dagli altri, promuove la
consapevolezza delle proprie caratteristiche e quindi la costruzione della propria identità. Dà sicurezza
emotiva, si pone come contenitore psichico pronto ad accogliere sentimenti ed emozioni di tutti; sostiene nei
momenti di difficoltà e d’incomprensione con scuola e/o famiglia. A livello intrapsichico, si mettono in
comune sentimenti e stati d’animo, distanziandosi dagli adulti. Il gruppo può configurarsi come oggetto
sostitutivo, colmando il vuoto del disinvestimento affettivo dei genitori. Sentirsi accettati e compresi
aumenta l’autostima degli adolescenti. Il gruppo informale è stato definito anche come laboratorio sociale,
in quanto luogo privilegiato per una sperimentazione dei comportamenti sociali al di fuori del controllo
immediato da parte adulta, nonché ambito d’apprendimento e di confronto strategico per risolvere i
problemi. Esso aiuta a tenere conto delle posizioni altrui, a negoziare fra punti di vista diversi e a saper
chiedere aiuto; consente anche di valutare e definire la propria reputazione sociale, sviluppando quindi
l’identità. Poiché alcune di queste funzioni sono proprie anche dei gruppi formali, talora l’ azione delle due
tipologie di collettivo s’intreccia, anche se tipicamente le età di chi vi fa parte sono diverse. Sulla scelta e
l’appartenenza influiscono anche fattori personali, connessi a uno stile individuale d’appartenenza ai
gruppi, dovuti essenzialmente a fattori tanto individuali quanto familiari (i più competitivi sembrano
prediligere gruppi formali, i più trasgressivi gruppi informali, i più sensibili a istanze sociali gruppi
associazionistici). A pensarci bene, oggi è difficile persino dire che cosa sia un gruppo, dal punto di vista dei
ragazzi. I gruppi su Facebook e Whatsapp, per esempio, sono tanto frequenti quanto perlopiù provvisori e
hanno un effetto quasi ‘persecutorio’ sui loro membri, inondandoli di messaggi e notifiche. I molti filoni di
ricerca incentratisi sulla presentazione di sé nei social sostengono che, in quei gruppi, la relazione con gli
altri perde d’importanza, a vantaggio dell’Io che torna al centro dell’attenzione.
4. RELAZIONI SENTIMENTALI
La pubertà fa sì che negli adolescenti emerga la sessualità, perciò si cercano spesso contatti fisici con l’altro
sesso. Le conversazioni delle ragazze ruotano attorno a un ‘terzo assente’, un ragazzo che magari non le
corrisponde, in molti casi. Dopo gli esordi, si cerca spesso una stabilizzazione dei rapporti: dapprima si
hanno sperimentazioni delle proprie capacità come partner, poi brevi infatuazioni o relazioni veloci e
superficiali, momenti di condivisione dell’intimità e impegno in una relazione più duratura. Queste
trasformazioni richiedono l’integrazione dei diversi sistemi motivazionali degli adolescenti: affiliativo,
accuditivo, riproduttivo. Serve anche che sia avvenuto un percorso di costruzione e d’integrazione di
differenti forme d’identità, fino alla scelta di un orientamento sessuale.
Quali sono le funzioni assolte dal legame sentimentale rispetto ai processi di crescita adolescenziale? Avere
un partner serve ai ragazzi soprattutto a scambiarsi affetto, sostegno e amore, aiutando nel processo di
autonomizzazione emotiva dalla famiglia. Inoltre, amare ed essere amati è un’importante conferma della
propria identità anche sul piano fisico, perché aiuta a rimentalizzare il corpo. Si soddisfano utilmente
soprattutto bisogni autocentrati (rivolti al proprio Io), sia sessuali sia maturativi (es. autostima), passando
progressivamente anche a quelli etero centrati (i.e. del partner).
Come ogni fenomeno dell’adolescenza, anche lo stare in coppia è culturalmente determinato. Una prima
riflessione è quella per cui molti ragazzi oggi faticherebbero a vivere le proprie esperienze amorose. Da un
lato influisce la trasformazione della famiglia da normativa ad affettiva, dunque c’è un bisogno minore di
staccarsene affettivamente; dall’altro, influisce l’alto tasso di narcisismo con cui le relazioni sentimentali
vengono vissute. Nel primo caso, o si vive la propria copularità con un senso di colpa verso i genitori, se
affettivamente molto presenti, oppure si ‘familiarizza’ la propria vita di coppia, inserendola nelle dinamiche
di quotidianità della famiglia. Nel secondo caso, la famiglia troppo portata a soddisfare i desideri dei figli
rende questi ultimi più narcisisti nel guardare alle relazioni amorose, cosicché il partner è vissuto come un
qualcuno che potenzia il valore del proprio Sé, non come qualcuno da idealizzare e per cui valga la pena di
rinunciare a qualcosa. Una seconda riflessione sull’influenza che la cultura ha sulla vita di coppia deriva dai
social network. Molti studi hanno indagato i c.d. amori digitali, sottolineando come molti ragazzi sfruttino il
Web per consolidare i propri legami sentimentali più che per conoscere nuovi partner. La comunicazione
virtuale permette di scambiarsi stati d’animo difficilmente esprimibili di persona, inoltre stringe i legami di
coppia perché trascende i vincoli della fisicità. Ciò è vero, tuttavia, anche nel senso che le relazioni, oltre a
potersi formare rapidamente, si possono sfaldare con altrettanta velocità. Molte coppie agiscono come tali
anche sul Web, e soprattutto le ragazze ‘inglobano’ i partner sui propri profili, con soddisfazione maggiore.
A causa delle caratteristiche pubbliche, fugaci e funzionali di queste relazioni, esse sono perciò più a rischio
di amplificazione di gelosia e controllo, a partire p. es. da like poco graditi al partner. Ciò non toglie che i
rapporti siano vissuti con le stesse emozioni di sempre, quelle che predominano anche nei gruppi: euforia,
turbamento, rabbia, disperazione ecc.
2. LA LEZIONE DIALOGICA
La lezione dialogica è una strategia didattica che sposta il focus da una didattica centrata sul docente a una
didattica fondata sullo studente. Secondo il suo massimo teorico, ALEXANDER, la lezione dialogica ha
cinque caratteristiche essenziali:
1. è collettiva: presuppone che insegnante e allievi affrontino insieme i compiti d’apprendimento;
2. è fondata sulla reciprocità, ossia si basa sull’ascolto reciproco fra docente e discenti, entrambi
chiamati a condividere i punti di vista e a esplorare le alternative possibili;
3. mostra apertura alla collaborazione: offre agli studenti spazi di espressione libera, durante i quali
la paura di sbagliare è sostituita dalla ricerca di aiuto reciproco per risolvere la carenza conoscitiva;
4. è esplorativa: prevede che i partecipanti alla lezione intervengano a partire dalle risposte precedenti
e siano attivi nel legare insieme i contenuti emersi nei vari contributi;
5. è propositiva: tanto l’insegnante quanto gli allievi contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi
didattici.
Nelle lezioni dialogiche, vengono particolarmente sollecitate le discussioni in classe, durante le quali gli
allievi sono esortati a scambiarsi opinioni in un clima aperto. Lì, il ruolo dell’insegnante passa da quello di
conduttore e conoscitore primario a quello di facilitatore degli scambi dialogici e della valorizzazione dei
contributi. I suoi feedback non hanno più una funzione valutativa, bensì servono a incoraggiare e
aggiungere informazioni. La lezione dialogica è dunque una metodologia molto democratica, perché tutti gli
allievi possono contribuire costruttivamente al discorso ed essere valorizzati come legittimi autori di
conoscenza. Nelle discussioni fra pari, gli adolescenti hanno modo di elaborare il proprio pensiero. Secondo
MERCER, che condusse un’indagine a riguardo in alcune scuole britanniche, le modalità d’interazione fra
docente e studenti può essere di tre tipi:
1. disputa: caratterizzata da disaccordi e prese di posizione individuali; si sviluppano soprattutto
(contro)asserzioni e la dinamica non contribuisce granché alla crescita delle conoscenze;
2. discorso cumulativo: grazie a esso, gli studenti accumulano le conoscenze, utilizzando soprattutto
ripetizioni e conferme;
3. discorso esplorativo: è uno scambio comunicativo in cui gli studenti si confrontano, anche
criticandosi, in maniera costruttiva, argomentando e controargomentando. Si attiva così un
atteggiamento esplorativo verso i contenuti didattici.
Partecipando ai dialoghi in classe, gli allievi sono chiamati a farsi co-pensatori e danno un contributo critico
alla costruzione del proprio sapere.
Va da sé che la verifica dei contenuti appresi tramite lezioni dialogiche è diversa dall’interrogazione sui
contenuti disciplinari. Anche in questo caso i contenuti appresi sono il prodotto finale del lavoro d’
apprendimento, tuttavia a essere oggetto di valutazione è anche l’intero processo di elaborazione e
sollecitazione reciproca. Gli insegnanti dovranno essere consapevoli dell’importanza del processo tramite cui
vengono sviluppate le conoscenze e dotarsi di strumenti specifici per la valutazione, che sappiano
considerare il grado d’ originalità dei contenuti espressi, la capacità di sintesi e d’analisi rispetto alle
informazioni reciproche, l’ impegno nella partecipazione attiva sia in fase di raccolta dati, sia in fase di
collaborazione e discussione in classe.
3. L’APPRENDIMENTO COLLABORATIVO
L’apprendimento collaborativo ha come premessa fondante l’importanza dell’interazione tra pari per
costruire le conoscenze. La strategia si focalizza perciò soprattutto sullo studente, e dà all’insegnante
perlopiù un ruolo di monitoraggio rispetto al lavoro dei gruppi e dei singoli membri di questi. Ogni alunno
diventa responsabile dell’apprendimento proprio e altrui, il successo personale favorisce quello di gruppo.
Vengono raggiunti i requisiti di partecipazione democratica e collettiva se sono rispettati questi parametri:
1. interdipendenza positiva: nessuno studente può portare a termine il proprio compito senza il
contributo degli altri;
2. affidabilità individuale: ogni gruppo può fare affidamento sull’impegno di ogni suo membro;
3. promozione dell’interazione e della discussione in itinere di ogni lavoro o prodotto del gruppo, per
raccogliere commenti e idee;
4. formazione delle competenze collaborative, come la fiducia reciproca, l’assunzione di decisioni
collettive, la gestione positiva del conflitto, la comunicazione efficace;
5. attivazione di processi di gruppo: sono i gruppi stessi, infatti, a stabilire gli obiettivi, a valutare
passo dopo passo il lavoro svolto e a rilevare i cambiamenti da attuare per raggiungere gli scopi.
Le lezioni basate sull’apprendimento collaborativo possono essere offerte a studenti d’ogni età e all’interno
di qualsiasi disciplina, con alti livelli d’efficacia. Ne escono migliorati la motivazione, il profitto scolastico,
le abilità di ruolo e le competenze metacognitive; in maniera rimarchevole, questi buoni livelli di risultato
sono stati raggiunti da studenti di qualsiasi livello, dai più capaci ai meno brillanti. La ricerca di ROSETH e
JOHNSON, condotta su un campione di 17.000 adolescenti americani, conferma questo trend.
Fra le metodologie più efficaci di apprendimento collaborativo, ricordiamo il ‘metodo Jigsaw’ o ‘metodo
puzzle’. Sono previste diverse fasi:
1. l’insegnante scompone l’argomento da affrontare in vari sotto-argomenti;
2. costituisce i ‘gruppi puzzle’, con tanti membri quanti sono i sottoargomenti, e individua un leader;
3. per ogni gruppo, ciascun membro è incaricato di studiare un certo sotto-argomento entro un tempo
determinato;
4. si formano gruppi di ‘esperti’, formati dai membri dei vari gruppi che studiano lo stesso tema;
5. si ricompongono i gruppi puzzle, che condividono quanto appreso per stendere un prodotto finale (di
solito una relazione orale o scritta).
L’insegnante assiste i leader, che hanno la responsabilità di vigilare sullo svolgimento dei compiti assegnati
da parte di ciascun membro del gruppo di turno. Le difficoltà del metodo puzzle sono evidenti: il docente
deve modificare drasticamente il proprio ruolo e predisporre modalità di valutazione ad hoc. Esse dovranno
riguardare soprattutto il modo in cui sono state messe in luce determinate abilità sociali e competenze
comunicative all’interno dei gruppi; occorrerà prestare attenzione anche ai livelli metacognitivi emersi in
itinere. L’autovalutazione può senz’altro essere una soluzione ad alcuni di questi problemi.
1. LA MOTIVAZIONE AD APPRENDERE
In termini generali, la motivazione è una sorgente d’energia interna che spinge la persona verso esiti
desiderati e le tiene lontane da effetti o processi indesiderati. Più nello specifico, la motivazione è un insieme
di esperienze soggettive in grado di spiegare l’inizio, l’intensità, la direzione e la qualità del comportamento
avente un obiettivo. Gli aspetti che determinano la ricerca motivazionale sono tre:
1. ruolo attivo degli studenti;
2. percezioni individuali;
3. strumenti dell’apprendere.
Il primo aspetto richiama il grado d’impegno da parte individuale, essendo la motivazione un fatto attivo e
non passivo. Gli studenti sono artefici dell’innescamento o del disinnescamento della propria motivazione, e
gli insegnanti dovrebbero aiutarli a percepirsi attori in questo senso.
La dimensione attiva chiama in causa un altro importante costrutto della psicologia dell’educazione, cioè l’
impegno o coinvolgimento (ing. engagement). A scuola, l’impegno può essere osservato a livello
comportamentale, emotivo e cognitivo.
Il secondo aspetto chiama in causa le percezioni individuali che il soggetto ha di sé, del compito da svolgere
e del risultato ottenibile. Il punto cardine è dunque la correlazione tra la performance dell’individuo e la sua
idea di potercela fare. Poiché le attese da parte altrui sono il principale fattore che influisce sulla percezione
individuale, è bene che gli insegnanti calibrino sempre con attenzione commenti e parole per gli studenti.
L’ultimo aspetto verte sugli strumenti usati dall’individuo per raggiungere l’obiettivo. Non si tratta di oggetti
materiali, ma di metodi e passaggi tramite cui uno studente pianifica, organizza, controlla e valuta il suo
comportamento rivolto allo scopo. Si tratta, in sostanza, di avere e di dimostrare buone capacità di
autoregolazione; un buon viatico per svilupparle è l’autovalutazione.
Nel complesso, i tre fattori consentono di capire bene perché alcuni studenti riescono senza molta fatica,
mentre altri rischiano l’insuccesso: la motivazione, infatti, si collega direttamente alla qualità dei risultati.
2. LE EMOZIONI
Nonostante l’importanza che il tema del mondo emotivo ha a scuola, esso è alquanto trascurato in letteratura.
PEKRUN asserisce che le emozioni legate ai processi d’apprendimento si caratterizzano per una valenza
positiva o negativa e per una attivazione o disattivazione. Nell’intreccio fra questi aspetti, si evidenziano
quattro gruppi di emozioni:
1. attivazione positiva (soddisfazione, orgoglio);
2. deattivazione positiva (rilassamento che segue il successo);
3. attivazione negativa (rabbia, vergogna);
4. deattivazione negativa (sconforto, noia).
La valenza negativa di alcuni stati morali è alla base del disimpegno motivazionale. DE BENI e MOE’
hanno sottolineato che lo stato emotivo è una funzione dell’intreccio fra percezione di difficoltà e percezione
della propria competenza. Pertanto, in un compito facile, lo studente che si autopercepisce poco competente
proverà apatia, quello che si autopercepisce competente proverà noia; in un compito difficile, lo studente
che si autopercepisce poco competente proverà ansia, quello che si autopercepisce competente proverà un’
esperienza di flusso. Essi, pertanto, riusciranno a farsi assorbire dallo svolgimento dell’attività al punto da
sperimentare una sorta di fusione fra sé stessi e il compito, perdendo la cognizione del tempo.
E’ importante sottolineare anche che, in classe, le emozioni possono presentarsi a livello di gruppo o di
sistema(co-costruzione degli elementi emotivi del contesto). Il gruppo classe diventa una sorta di
contenitore che può essere più o meno in grado di accettare, riconoscere e regolare le spinte emotive da cui
è pervaso, trasformandole in fonti di coesione favorevoli o di disgregazione sfavorevoli. Le emozioni si
sviluppano e assumono un diverso significato man mano che evolvono, in una sorta di dialogo interattivo
circolare, per cui ciascun individuo col suo comportamento emotivamente connotato influenza, essendone a
sua volta influenzato, il comportamento altrui. Gli insegnanti possono fare molto affinché le emozioni non
sia relegate come elementi di disturbo da lasciare fuori e siano invece accolte nelle dinamiche in aula,
imparando anzitutto a nominare le emozioni stesse.
3. LA TEORIA DELL’AUTODETERMINAZIONE
Come abbiamo visto, la motivazione intrinseca è data dall’intreccio fra fattori cognitivi (es. sforzo di
concentrazione, ragionamento, interiorizzazione conoscenze) e fattori affettivi (es. propensione verso il
sapere da sviluppare). C’è poi un altro elemento essenziale: ossia, che l’individuo percepisca di poter
autodeterminare le proprie azioni, che avverta perciò un senso d’autonomia. Secondo DECI e RYAN, le
persone sono portate ‘naturalmente’ a voler apprendere, perché sanno che ciò è gratificante. Ci sono però
vari elementi che possono giocare contro questo desiderio, dalle aspettative familiari alle possibili difficoltà
relazionali con insegnanti o compagni. Ci sono tre bisogni psicologici di base che, se soddisfatti, concorrono
positivamente al benessere dell’individuo; essi riguardano:
la sfera dell’autonomia;
la sfera delle competenza;
la sfera della relazionalità.
L’ambizione della maggior parte degli studenti, infatti, è quella di sentirsi persone autonome, competenti e
parte di una rete relazionale significativa. Il compito dell’insegnante è cercare risposte a simili bisogni, senza
ignorarli né tantomeno negarli. REEVE aggiunge che, affinché una persona sia autodeterminata ad
apprendere, bisogna che essa non sia sottoposta a fattori di pressione e stress.
2. LA PARTECIPAZIONE IN CLASSE
Ormai da tempo, la psicologia dell’educazione e dello sviluppo sostiene una visione sociale e interattiva dei
processi d’apprendimento: ossia, lo studente apprende quando è messo nelle condizioni di partecipare
attivamente a pratiche situate in una determinata comunità d’apprendimento.
Un primo assunto da ricordare è che la partecipazione degli studenti in classe vale come indicatore della
qualità dell’insegnamento. Ciononostante, i richiami a fare silenzio e a parlare uno alla volta abbondano nella
quasi totalità delle lezioni. C’è dunque un paradosso dell’educazione: da un lato, gli insegnanti riconoscono
come prioritario e formativo favorire la partecipazione in classe, dall’altro non riescono a sganciarsi da un
bisogno di controllo dell’ambiente formativo, valorizzando solo quegli interventi studenteschi rispondenti
alle loro sollecitazioni e indicazioni. Ne deriva, da parte degli alunni, una partecipazione controllata, in
fondo non molto utile per la qualità della didattica. In realtà, difatti, è importante che la tensione fra
partecipazione e controllo sia regolata nel ‘qui e ora’ della lezione, dosandola nelle attività in classe. Ciò
deriva dal fatto che, in un contesto ampio e disomogeneo qual è la classe, immaginare una partecipazione
libera e piena è impossibile: serve bensì una guida, quella del docente, capace di guidare gli allievi e la loro
partecipazione, ma senza che quest’ultima sia stroncata sul nascere, quando divergente dagli scopi didattici
originari. Ne risulteranno forme partecipative individuo- e contesto-specifiche. Quando l’orientamento è
centrato sull’insegnante, il docente svolge un’azione costante di controllo dell’attività, perciò dirige la
lezione in vista di obiettivi prefissati e non negoziabili. Quando l’orientamento è centrato sull’insegnante, si
attiva una pratica d’insegnamento e apprendimento come costruzione collettiva delle conoscenze, in cui gli
studenti assumono un ruolo attivo e partecipativo e, sebbene quello dell’adulto resti il ruolo guida, possono
in parte negoziare attività e modalità d’erogazione del contenuto.
Nel loro complesso, i disturbi specifici dell’apprendimento hanno bensì una base neurobiologica e
una discreta persistenza nel tempo, ma recano anche un decorso e una manifestazione variabili, a
seconda p. es. della tipologia dei compiti richiesti, del carattere più o meno grave delle difficoltà,
dei sistemi disponibili per il sostegno.
Sono attualmente in crescita i soggetti DSA registrati alle superiori: essi rappresentano il 17% dei
casi totali di richiesta di controllo, e il 92% dà esito positivo agli esami specifici. E’ frequente che i
DSA si manifestino fin dai primordi della scolarizzazione, quindi dalla primaria, ma talora essi si
evidenziano alle superiori, a causa del carattere ‘traumatico’ che il passaggio a esse può avere
(aumento delle ore di lezione frontale, del carico di lavoro, dell’autonomia necessaria per le
attività).
Va rilevato che, secondo alcune ricerche, i ragazzi DSA possiedono uno stile di pensiero
particolare, per cui processano le informazioni in maniera globale anziché sequenziale e a
organizzare le informazioni visivamente piuttosto che verbalmente.
L’adolescente DSA organizza anche alcune strategie per ‘compensare’ le difficoltà, e tramite di esse
riesce a raggiungere livelli funzionali dell’apprendimento richiestogli. Rimane comunque una
difficoltà nell’automatizzazione di determinati processi d’apprendimento, il che richiede ai ragazzi
in questione un investimento notevole anche per compiti elementari agli altri. A maggior ragione
rispetto ai coetanei ‘normodotati’, i soggetti DSA sono a rischio demotivazione e disinvestimento
scolastico, perché più esposti a quella sistematica ripetizione di fallimenti che ingenera la c.d.
impotenza appresa.
alone: elementi non correalti con gli obiettivi della prova che si valuta, incidono nella
valutazione della stessa (es. grafia disordinata, dizione scorretta);
contagio: la valutazione esplicitata da un personaggio (di norma collega disciplinare) di cui
l’insegnante si fida su un determinato studente, finisce per influenzare l’insegnante nel
valutare egli stesso lo studente medesimo;
contraccolpo: in prossimità di scadenze d’esami (per lo più esterni), l’insegnante modifica
la propria didattica, investendo più tempo in determinate materie e sottraendolo ad altre;
distribuzione forzata dei risultati: assimilazione degli studenti e dei rispettivi risultati in
termini omogeneizzanti;
Pigmalione: realizzazione di aspettative, di norma positive, nutrite nell’ambiente scolare o
in quello familiare, sul rendimento degli studenti;
stereotipia: tendenza ad “assolutizzare” giudizi formulati su uno studente, applicandoli in
maniera sistematica e tipicamente acritica sulle performances da lui fornite anche in prove
successive;
successione/contrasto: comportamento per cui, a seguito di una performance
particolarmente positiva o negativa di uno studente, quella dello studente successivo viene
(inconsciamente) comparata con l’altra, così da essere rispettivamente sotto- e sovrastimata
senza ragioni che lo implichino.
Per mettere gli studenti nelle condizioni di apprendere bene, il docente dovrà compiere una serie di
passi:
formulare chiaramente ciò che intende per padronanza della sua materia, quindi chiarire agli
studenti che cosa dovranno imparare;
determinare il livello di padronanza da raggiungere;
suddividere il corso in una serie di unità didattiche conclusa da momenti di feedback;
programmare test diagnostici del progresso in itinere.
Gli obiettivi educativi che devono essere acquisiti con l’insegnamento di una materia sono stati
tassonomizzati da Bloom:
CONOSCENZA (capacità di ricordare o riconoscere un contenuto in forma pressoché
identica a quella nella quale esso è stato presentato;
COMPRENSIONE, sottocategorizzata in 1. TRADUZIONE (capacità di trasporre il
contenuto presentato da una forma simbolica ad un’altra, es. passare da un’espressione
spagnola ad una tedescs), 2. INTERPRETAZIONE (capacità di spiegare e riassumere un
contenuto presentato, es. riassumere una vicenda), 3. ESTRAPOLAZIONE (capacità dello
studente di trascendere il contenuto presentato, determinandone le applicazioni o
conseguenze, es. ricavare conclusioni da una vicenda storica);
APPLICAZIONE (utilizzare il contenuto appreso in una situazione nuova, es. applicare
regola grammaticale a contesto sintattico);
ANALISI, sottocategorizzata in 1. ANALISI DEGLI ELEMENTI (capacità di scomporre
un aggregato di contenuto presentatogli nei suoi elementi, es. parti di un documento), 2.
ANALISI DELLE RELAZIONI (capacità di individuare la relazione fra un parte di
aggregato di contenuto e altre parti di esso, es. associazione colori pittorici/emozioni);
SINTESI (capacità di organizzare e combinare il contenuto in modo da produrre una
scrittura, un modello o un’idea nuova; es. produzione di un elaborato scritto);
VALUTAZIONE (capacità di esprimere giudizi sia qualitativi sia quantitativi sul modo in
cui particolari elementi o aggregati di contenuti criteri interni e/o esterni).
Per formulare gli obiettivi, il docente dovrà rispondere ai seguenti tre quesiti:
1. Che cosa dovrebbe essere in grado di fare l’allievo?
2. In quali situazioni egli dovrebbe essere in grado di produrre il comportamento desiderato?
3. Come dovrà essere tale comportamento?
Il principale discrimine fra i diversi livelli è rappresentato dal diverso grado di capacità di
rapportare la competenza al contesto situazionale specifico, con crescente flessibilità.
Lo studioso invita inoltre a non dicotomizzare per via artificiosa le categorie e classificazioni che,
come visto, la didattica presenta in elevata quantità.
Diremo che la funzione principale della valutazione è la regolazione del processo che può
svilupparsi in diversi momenti didattici (tempi), avere diverse finalità (scopi) ed essere condotta
con diversi gradi di precisione nella rilevazione (livello misurativo).
3.5 UN QUADRO DI SINTESI DEGLI STRUMENTI DI VALUTAZIONE SCOLASTICA
I principi che orientano nella scelta degli strumenti di valutazione e relativamente alla loro
funzionalità docimologica sono due:
non esiste lo strumento di verifica migliore, ma solo quello più adatto allo scopo per il quale
è pensato, tenendo presenti anche i limiti contingenti imposti dal contesto di classe;
l’affidabilità dei diversi strumenti di rilevazione si ottiene controllandone le diverse fasi di
costruzione.
Tali scelte sono davvero un momento e un’occasione su cui riflettere, per i docenti, soltanto quando
essi non abbiano ancora maturato una ventagliata esperienza, che induca in loro una sorta di
automatismo valutativo, oppure in concomitanza con specifici e sensibili cambiamenti di contesto.
4.1 CARATTERISTICHE (REQUISITI) DEGLI STRUMENTI DI VALUTAZIONE
I principali requisiti degli strumenti valutativi sono quelli della validità e dell’affidabilità; riflettere
su di essi ed eventualmente modificarli se necessario, può contribuire a migliorare la qualità della
didattica nel suo complesso.
4.1.1 LA VALIDITA’
La validità di una misura, secondo la definizone di GARRETT, si evince dalla capacità che essa ha
di misurare effettivamente ciò che si propone di misurare, dunque se tra la misura e il misurato
esiste una forma di corrispondenza. La validità di una misura e successivamente di una valutazione
è strettamente correlata al tipo di strumento che si adopera: se adoperiamo o costruiamo uno
strumento poco adatto alla misurazione di un determinato apprendimento o se utilizziamo una scala
poco sensibile alla misurazione di quell’apprendimento, le nostre misure non saranno valide.
I livelli a cui la validità va individuata e attuata sono quattro:
VALIDITA’ DI CONTENUTO, che si raggiunge riscontrando la significatività degli
elementi da sottoporre a verifica e l’intenzionalità e programmazione della scelta degli
elementi stessi come rappresentativi del settore di contenuti o della competenza da valutare;
VALIDITA’ DI CRITERIO, possibile -ad esempio- tramite confronti fra risultati a diversi
tipi di prove (verifica indiretta). Parliamo di VALIDITA’ CONCORRENTE se misurata
attraverso misure simultanee, VALIDITA’ PREDITTIVA se misurata a distanza di tempo;
VALIDITA’ DI COSTRUTTO, individuabile se esiste un modello teorico di riferimento;
VALIDITA’ DI PRESENTAZIONE, che si realizza grazie alla considerazione degli
elementi d’impatto con chi si sorropone alla prova: gli aspetti qualitativi e intuitivi
relativamente all’inadeguatezza degli stimoli rispetto ai destinatari previsti viene così
controllata.
4.1.2 L’AFFIDABILITA’
L’affidabilità indica il grado di precisione con cui una misura può essere effettuata. Essa è
suscettibile di essere considerata a tre livelli distinti:
PRECISIONE DELLO STRUMENTO, se questo è in grado di offrire uno stimolo uguale
per tutti;
PRECISIONE DEL VALUTATORE, se riesce ad evitare il più possibile che la sua
soggettività interferisca con la misurazione in atto;
PRECISIONE DEL SOGGETTO ESAMINATO, se è privo di circostanze ecologiche in
grado eventualmente di influenzare lui e la sua prestazione.
Nella prima accezione, parliamo di indicatore tutte le volte che scegliamo un qualche elemento
come significativo per la comprensione di un determinato fenomeno; in contesto educativo, ciò
significa trascegliere certi aspetti connessi, ad esempio, a una competenza e intendere quegli stessi
aspetti come importanti, e propriamente esplicativi, intorno all’acquisizione o meno di quella
competenza.
La seconda accezione d’indicatore, d’altro canto, ci rimanda agli aspetti di quantificazione e di
misurazione. Molte volte gl’indicatori così considerati sono vere e proprie elaborazioni statistiche,
mentre in altre circostanze è più difficile una loro esplicitazione in termini numerici, per i quali è
necessaria una serie piuttosto rigorosa di criteri d’attribuzione.
In entrambi i casi, parleremo di indicatore come di uno strumento utile per la valitazione di
determinati fenomeni, in quanto permette -quando valido e affidabile- di effetturare comparazioni.
Malgrado sia manifesta la loro importanza, l’attività di valutazione deve utilizzare gl’indicatori così
come utilizza altre tipologie d’analisi (ALLULLI). Individuare indicatori seri e funzionali,
d’altronde, è un’operazione difficile da portare a termine.
Il termine standard, dal canto suo, indica il livello di prestazione (punteggio o criterio) prestabilito
da utilizzare come riferimento per la valutazione. Tale livello di prestazione, dunque, coincide con
la soglia d’accettabilità indispensabilmente raggiunta da una prova che si possa definire (almeno)
sufficiente. Qual è la differenza tra punteggio e criterio?
Nel primo caso, si fa riferimento al concetto di norma, ovvero si comparano i risultati dei
singoli studenti in rapporto a un gruppo di altri studenti assunto come norma (standard
normativo); in tal caso, si ricorre spesso al punteggio percentile, definendo così la posizione
del singolo studente rispetto al gruppo adibito a norma;
nel secondo caso, si parla di criterio come di termine discriminante: ovverosia, la
definizione degli obiettivi da raggiungere è accompagnata dall’individuazione di uno
standard prestabilito rispetto alla prestazione richiesta (standard criteriale).
Le prove standardizzate fungono quindi da autentici strumenti di misura, in quanto sono stati
sottoposti a controlli di natura statistica da parte di personale ‘specializzato’. Alcuni esempi di
prove standardizzate sono il PISA, che indaga le competenze di base dei quindicenni, e l’IALS-
SALS, che misura il tasso di competenza alfabetica funzionale nella popolazione scolastica
(competenza alfabetica funzionale = insieme delle capacità necessarie per l’elaborazione e l’utilizzo
di materiali stampati comunemente diffusi sul lavoro, a casa e nella vita sociale).
5.3.5 LA SOMMINISTRAZIONE
Prima di utilizzare la prova di testing somministrandola a degli studenti, è opportuno verificarla.
Alcune questioni da considerare:
Gli studenti sono necessariamente motivati a svolgere la prova? E’ importante che lo siano,
in modo che possano dare il peso opportuno alla prova stessa e svolgerla quindi con
impegno;
Ci sono istruzioni predefinite, da leggere prima di sottoporsi alla prova? Esse sono
necessarie soprattutto se il gruppo classe non ha mai svolto prima prove analoghe;
In che modo avviene la somministrazione? Ossia, essa è erogata nei confronti dell’intera
classe o a singoli gruppi?
Il somministratore è l’insegnante di classe? Nella massima parte delle situazioni, la risposta
sarà affermativa;
Il test è svolto ‘carta e matita’ o a computer? La seconda opzione lascia meno margine ad
eventuali tentativi di copiatura;
I tempi sono rispettati da tutti? Ciò è essenziale, affinché anche in tal senso l’obiettività sia
garantita.
1. I MITI
MITO 1. UN METODO VALE L’ALTRO, BASTA CHE L’INSEGNANTE CI CREDA E LO PRATICHI CON
PASSIONE.
La convinzione della più totale equipollenza dei metodi usati dai docenti è radicata nel senso
comune e fonda una sorta di qualunquismo didattico, in base a cui seguire la propria vocazione
sarebbe, da parte degli insegnanti, del tutto sufficiente per trasmettere sapere. Oggi, invece,
sappiamo che, a parità di scuola e di contesto socioculturale, sono proprio i metodi trascelti dagli
insegnanti a fare la differenza. Come ampiamente dimostrato dalla c.d. evidence-based education,
un insegnante esperto comincia la lezione con una breve rassegna dell’apprendimento precedente
e con una veloce presentazione di che cosa vuole ottenere; fornisce feedback continui; procede
gradualmente nell’erogazione dei materiali e destruttura il compito di turno per adattarlo agli
alunni; sollecita questi ultimi all’impiego di alti processi cognitivi (cfr. apprendimento metaforico in
Castoldi); orienta alla pratica guidata e conduce l’alunno ad acquisire autonomia sempre
maggiore. Tali aspetti sono congruenti con modelli d’istruzione chiari e graduali, attenti anche
all’aspetto metacognitivo (apprendistato cognitivo) [active learning, problem solving autonomo,
inquiry-based learning]. La passione del docente è bensì necessaria, e richiede dunque che egli
dimostri passione nella ricerca che compie con gli studente affinché costoro ne recepiscano l’
entusiasmo, ma serve che gli alunni abbiano modo anche di constatare i risultati che otterranno,
rendendo ‘visibile’ l’apprendimento stesso.
I risultati della ricerca hanno dimostrato che il modello deweyano non può più essere considerato
valido e che la scienza non possiede alcun metodo generale. Psicologicamente e cognitivamente,
poi, è sbagliato pensare che il bambino possa muovere i suoi primi passi in una disciplina
applicandovi gli stessi strumenti che sono adoperati dal ricercatore: si produrranno al massimo
sovraccarichi cognitivi, dispersività e frustrazione. Tutto ciò non significa, comunque, che
l’erogazione attuale dei contenuti scolastici sia oro colato: BRUNER, per esempio, ha sottolineato
l’importanza di individuare attentamente i contenuti fondamentali di un ambito disciplinare,
mettendo in secondo piano quelli secondari ed evitando (anche) così un nozionismo inerte.
Inoltre, la c.d. teoria della trasposizione didattica ha rimarcato l’importanza di operare un
processo di trasformazione dei ‘saperi sapienti’ (quelli accademici) in ‘saperi insegnati’, ‘saperi
appresi’, adeguati dunque al milieu scolastico. In generale, dunque, il contenuto disciplinare deve
essere salvaguardato, ma dopo essere stato selezionato in virtù della sua essenzialità e rilevanza
scientifica, e riformulato compatibilmente con gli schemi cognitivi dell’allievo. Quanto alla
metodologia, la pur innegabile utilità delle pratiche laboratoriali va accompagnata a una riflessione
ex post sulla procedura seguita, sul valore del dato ricavato e sulla sua trasferibilità ad altre
circostanze. Il modello dell’apprendistato cognitivo offre un riferimento interessante a tal
riguardo. In definitiva, l’idea alla base del mito in oggetto è stata sconfessata dalla ricerca, capace
di appurare che non esiste isomorfismo tra la dimensione epistemologica, relativa a procedure e a
processi delle ricerche scientifiche, e la dimensione cognitiva, attinente ai processi
d’apprendimento seguiti in fase evolutiva (anche) tramite schemi e ristrutturazioni graduali. Tutto
questo non vuol dire, comunque, che le metodologie di avvicinamento del contenuto al bambino,
soprattutto quelle di laboratorio, debbano essere disprezzate né ridimensionate, purché
accompagnate da processi riflessivi adeguati.
Per il primo aspetto, è noto da tempo che le tecnologie possono alleggerire il carico della didattica
frontale dell’insegnante, portando all’elaborazione di sistemi CAI (computer-assisted instruction).
Gli strumenti più pratici e recenti, come le video lezioni o i podcast, si prestano comunque meglio
a un contesto universitario, dove di norma la motivazione e l’autoregolazione sono di per sé
maggiori che non a scuola.
Quanto al secondo aspetto, ricorderemo che l’apprendimento cooperativo può raggiungere livelli
accettabili sono in particolari circostanze e a seguito di una preparazione adeguata.
Il terzo livello, infine, propone il concetto di ‘anticipazione’, generalmente considerato efficace.
Affinché siano tali, però, le anticipazioni devono essere coerenti, sul piano cognitivo, con le
conoscenze destinate a essere acquisite; se la congruenza cognitiva è scarsa, rischia di prodursi
una situazione di sovraccarico cognitivo. Ulteriori problemi sono, rispettivamente, la sottostima
della rilevanza che i momenti di ristrutturazione cognitiva hanno per l’allievo e la sostenibilità: i
video, infatti, sono pur sempre elementi multimediali non semplici a gestirsi, tanto più se rivolte a
studenti di fascia preuniversitaria; il docente dovrà conoscere i principi della comunicazione
multimediale, saper mettere a fuoco le cose ed evidenziare soltanto i concetti fondamentali. Non
è sempre facile, in ultima battuta, garantire l’adeguata conservazione dei materiali digitali
prodotti.
2. LE REGOLE
REGOLA 1. PREDEFINIRE UNA STRUTTURA DI CONOSCENZA BEN ORGANIZZATA (SCHEMA
EPISTEMICO)
Principio: predefinire una struttura ben organizzata della conoscenza da apprendere e renderla
esplicita tramite uno schema epistemico facilita i docenti a identificare le idee più rilevanti e, d’
altra parte, il discente, nel costruire rappresentazioni coese e coerenti.
Quesiti per l’insegnante:
a) Prima d’iniziare il corso, rappresenti con uno schema la struttura degli argomenti che
tratterai, evidenziando i contenuti di maggior rilevanza?
b) All’inizio del corso, fornisci agli studenti uno schema generale degli argomenti, così che gli
allievi possano avere una visione d’insieme?
c) Prima d’esporre un argomento, mostri la sua collocazione nella struttura generale degli
argomenti del corso?
d) Svolgi attività esplicite per capire se e come gli studenti hanno usato la struttura generale
degli argomenti che hai fornito?
e) Consenti agli studenti di usare la struttura generale degli argomenti anche nelle prove di
valutazione?
Argomentazioni: il soggetto che apprende costruisce rappresentazioni mentali a partire dalle
molteplici fonti d’informazione con cui viene in contatto. Per rappresentare bene internamente un
sapere, è importante muovere da una buona organizzazione esterna, il che richiede al docente la
capacità di predisporre una struttura coerente del contenuto. In tal modo, si mettono in luce i
concetti più importanti per quel contenuto e le relazioni che li legano. La strutturazione sarà utile
sia al docente, che è così più consapevole dell’organizzazione da lui data al sapere, sia al discente,
che potrà ancorare a quella struttura tutte le informazioni che riceve; essa lo illuminerà rispetto
all’intero percorso da compiere, per giungere a determinati obiettivi. La strutturazione,
soprattutto se assume una forma grafica, aiuta a visualizzare i rapporti fra i concetti.
REGOLA 2. RENDERE CHIARI GLI OBIETTIVI E TRASMETTERE FIDUCIA NEL LORO CONSEGUIMENTO
ALL’INTERNO DI UN CLIMA SFIDANTE.
Principio: chiarire gli obiettivi che si vogliono raggiungere, è un fattore essenziale per migliorare
l’apprendimento. Sapere dove si vuole arrivare, infatti, alimenta nell’alunno la fiducia di potercela
fare e mobilita attenzione e motivazione. Talora, le indicazioni d’intervento possono essere
utilmente accompagnate da sfide, che aiutano a ottimizzare l’impiego delle proprie risorse interne.
E’ comunque necessario che, oltre a essere espressi verbalmente, gli obiettivi vengano
operazionalizzati: solo così, infatti, se ne potrà valutare il conseguimento senza ambiguità.
Quesiti per l’insegnante:
a) Prima di esporre un argomento, chiarisci gli obiettivi della tua lezione e il modo in cui essi s’
inseriscono nel quadro generale del tuo apprendimento?
b) Cerchi di rendere il risultato dell’apprendimento quanto più possibile concreto e
comprensibile agli alunni, mostrando loro anche il criterio con cui saranno valutati?
c) Intervieni per trasmettere la sicurezza che gli obiettivi, pur complessi a un primo sguardo,
potranno essere raggiunti dagli alunni?
Argomentazioni: il docente deve chiarire fin da subito che cosa vuole che i suoi alunni raggiungano
e come si aspetta che lo facciano (i.e., che metodi dovranno essere sfruttati): già TYLER, seguito
poi da BLOOM (che stilò una tassonomia degli obiettivi cognitivi), ne era affatto consapevole. Va
poi fatto di ricordare che, affinché acquisiscano un’efficacia concreta, gli obiettivi devono essere
operazionalizzati: non basta definirli verbalmente, perché ciò può dare adito a processi
d’ambiguità, serve che sia loro allegata la concreta prova che l’alunno dovrà superare. Fare
chiarezza su quali obiettivi devono essere raggiunti e su come farlo, aiuta gli studenti a ottimizzare
il proprio carico cognitivo, perché è difficile che abbiano subito e da soli coscienza circa gli
elementi più importanti del percorso e il metodo da seguire per affrontarne lo studio. Se gli
obiettivi sono chiariti sufficientemente bene, il percorso risulterà graduale, procedendo da
obiettivi meno complessi ad altri più difficoltosi; procedendo passo dopo passo, lo studente
acquisirà un importante senso di fiducia nelle proprie capacità.
Conclusione: la dichiarazione degli obiettivi da raggiungere è un primo, fondamentale passo da
svolgere affinché un insegnamento sia vincente. Se gli studenti capiscono dove devono arrivare e
l’insegnante dà loro fiducia circa le probabilità che riusciranno ad arrivarci, si sono già create delle
buone basi di partenza. L’operazionalizzazione, ossia l’atto che traduce gli obiettivi in specifiche
prove di valutazione, è un atto parimenti necessario.
CONCLUSIONI
Se la scuola nel nostro Paese non dà segnali di miglioramento effettivo rispetto al panorama
internazionale, ciò dipende (anche) da eventi e fattori che trascendono la volontà dei singoli
protagonisti. I risultati delle indagini OCSE-PISA, effettivamente, dimostrano che i risultati sono
migliori là dove l’istituzione scolastica ha una concreta rilevanza sociale, tale per cui è resa oggetto
di investimenti generosi da parte dello Stato e di aspettative alte da parte delle famiglie.
Nonostante tutto, il docente resta la variabile che più di ogni altra incide sulla qualità degli
apprendimenti erogati a scuola, così come sulla motivazione e sugli orizzonti di vita dei giovani. In
particolare, i c.d. insegnanti esperti sanno bene quali sono gli obiettivi, sono in grado di chiarirli
agli studenti e trasmettono loro la fiducia nel conseguimento dei traguardi; inoltre, essi gestiscono
bene il carico cognitivo dei contenuti da apprendere, rendono visibili gli avanzamenti favorendo
così motivazione e autoefficacia, sanno immedesimarsi nei dubbi e nei problemi dei ragazzi e
organizzano ripassi periodici. La ricerca dimostra che, laddove ad agire sono insegnanti esperti, le
esperienze di didattica risultano più efficaci.
Un punto di particolare ambiguità inerisce al significato da attribuire a concetti come quello di
‘apprendimento attivo’, ‘a. significativo’, ‘a. collaborativo’. L’ingenuità sembra consistere
soprattutto nell’identificare i concetti di ‘attivo’ e di ‘significativo’ con esperienze e attività
pratiche concrete, dirette, svolte dall’allievo. S’ignora, così facendo, che non è l’attività in sé a
produrre apprendimento di rilievo, bensì l’attività di ristrutturazione degli schemi cognitivi che si
può accompagnare all’attività concreta. AUSUBEL critica perciò l’attivismo e sostiene che la
maggior parte delle acquisizioni più significative compiute durante la vita sono quelle mutuate
dalle lettura e dalla comprensione dei testi. Neppure l’apprendimento c.d. cooperativo, se lasciato
totalmente svincolato rispetto alla guida dell’insegnante, riesce a contribuire in maniera effettiva,
e rischia anzi di far perdere tempo agli alunni cooperanti, perché privi dell’orientamento che la
guida adulta dovrebbe dare loro. I valori di massima efficacia, al contrario, si registrano tramite l’
intreccio fra modellamento guidato, uso di feedback e attività metacognitive. In definitiva, per
quanto alcuni momenti di centralità dell’alunno siano certamente auspicabili, quello della
riduzione di ruolo dell’insegnante resta un cliché che, quando messo in atto, conduce spesse volte
a fallimenti educativi clamorosi.
APPENDICI
REVISIONI SETTIMANALI E MENSILI: il docente conserva un’attitudine direttiva finché gli allievi non
sono sufficientemente esperti. A inizio lezione, ricapitola l’argomento precedente e indica la meta
dove vuole arrivare; nel procedere, è graduale, fornisce feedback sulle risposte dategli dagli allievi
e controlla che questi lo seguano, fornendo loro anche prompts (cioè suggerimenti procedurali per
la comprensione); opera una sintesi a fine lezione.
1. PROBLEM
L’apprendimento è facilitato quando gli allievi sono impegnati nella soluzione di problemi di
significato reale. E’ utile anche che agli allievi sia subito mostrato che tipo di performance saranno
in grado di produrre dopo l’apprendimento, anziché comunicare loro obiettivi astratti. Se i
problemi da affrontare sono complessi, gli studenti devono iniziare da un compito semplice,
passando gradualmente agli step successivi.
2. ACTIVATION
L’apprendimento è facilitato quando una preconoscenza è attivata come fondamento per la
nuova. Una procedura utile sarà quella degli organizzatori anticipati.
3. DEMONSTRATION
L’apprendimento è facilitato se gli studenti possono farsi già subito un’idea di che cosa devono
fare nel concreto per raggiungere l’obiettivo. Devono quindi abbondare esempi, dimostrazioni e
modellamenti. Serve che lo studente sia guidato dall’insegnante nel selezionare le informazioni più
rilevanti, ma gradualmente egli dovrebbe acquisire da per sé la capacità di farlo.
4. APPLICATION
L’apprendimento è facilitato se gli studenti hanno modo di praticare le abilità e le conoscenze che
acquisiscono. Attivando procedure di feedback e conservando una buona attinenza fra attività e
tipologie degli obiettivi, si perverrà a condizioni ottimali per favorire il transfer del sapere.
5. INTEGRATION
L’apprendimento è facilitato quando l’allievo può dimostrare nella concretezza della vita reale e
quotidiana gli strumenti, le abilità e le conoscenze che ha acquisito. Ciò influisce in maniera
positiva anche sulla sua motivazione.
A5 SUL LIBRO
ha maggior fiducia nelle sue capacità di influenzare positivamente gli allievi e il loro
raggiungimento degli obiettivi didattici;
sa basarsi su ciò che gli alunni già conoscono;
non si perde in monologhi;
usa un tono incalzante e dialogico in classe;
conduce esplicitamente i suoi allievi verso obiettivi condivisi;
bilancia conoscenze di base con momenti di comprensione approfondita;
prevede anche momenti di valutazione tra pari e di autovalutazione;
concentra la sua attenzione sul processo d’apprendimento degli studenti, fornisce loro
feedback e capitalizza gli errori come occasioni d’apprendimento.
Come aveva specificato già nel 2009, aggiunge Hattie che l’insegnante esperto:
usa voti e punteggi, ma non dà loro un peso eccessivo;
non favorisce aspettative basse o logiche al ribasso (es. ‘fai del tuo meglio’);
non raccoglie dati con test o schede in maniera ‘compulsiva’.
Egli, infine:
testa ipotesi sugli effetti del proprio insegnamento;
ha una profonda comprensione degli effetti sullo studente;
ha senso di autocontrollo;
sa adattarsi all’improvvisazione;
sa tradurre i contenuti in problem solving (disposizione ‘problemica’);
controlla la chiarezza dell’informazione;
sa gestire la classe, contribuendo a formare un clima positivo, e ha rispetto per gli studenti.
I principali fattori di successo saranno allora:
chiarezza dei criteri di valutazione;
uso di compiti sfidanti;
entusiasmo trasmesso nell’affrontare i compiti;
attenzione nell’uso del feedback;
capacità di creare entusiasmo nell’ambiente di riferimento.
In ogni caso, il punto fondamentale resta quello di rendere visibili sia l’insegnamento, sia l’
apprendimento; solo così, agendo empaticamente, l’insegnante potrà mettersi nell’ottica di chi
apprende e viceversa, così da favorire in entrambi capacità di autoregolazione.
A7 SUL LIBRO
GLOSSARIO
ACTIVE LEARNING: approccio alla didattica focalizzato sul coinvolgimento degli studenti nelle
attività formative. E’ contrapposto all’approccio trasmissivo, in cui lo studente ha un ruolo
tipicamente passivo. Un classico fraintendimento è quello che confonde la parola ‘attivo’ con
‘fisico’ o ‘manuale’: l’attività, infatti, va intesa in termini (meta)cognitivi.
ADVANCE ORGANIZER ( =organizzatore anticipato o anticipatore): concetto introdotto da
AUSUBEL che si riferisce a ogni elemento capace di offrire un ‘assaggio’ comprensibile di quelli che
saranno poi i punti da acquisire, richiamando anche le preconoscenze più utili.
APPRENDIMENTO MULTIMEDIALE: introdotto da MAYER, è definito come la costruzione mentale
a partire da parole e immagini. Le parole dovrebbero essere, secondo l’autore, abbinate a
immagini anziché essere solo parole; parole e immagini andrebbero presentate simultaneamente,
non separate nel tempo; le animazioni sono arricchite da narrazioni audio anziché da testi scritti.
APPRENDISTATO COGNITIVO: a partire da alcuni aspetti dell’apprendistato tradizionale, quello
cognitivo (COLLINS, BROWN, NEWMAN) introduce le strategie di articolazione, riflessione ed
esplorazione. Gli studenti sono incoraggiati a verbalizzare la loro esperienza, a confrontare i loro
problemi con quelli di un esperto, a porli e a risolverli in forma nuova.
ATTIVAZIONE COGNITIVA: ci si riferisce a qualsiasi azione didattica finalizzata a ‘mettere in azione’
risorse cognitive e/o conoscenze interne all’enciclopedia del soggetto. Un aspetto specifico e
importante è quello da associare all’attivazione delle preconoscenze.
ATTIVISMO: prospettiva pedagogica ispirata ai valori della sperimentazione e dell’attività pratica
(prassi prima della teoria), al lavoro di gruppo e all’avvicinamento dei contenuti didattici ai
contesti di vita (DEWEY).
BEST EVIDENCE SYNTHESIS: proposto d SLAVIN come strumento per l’analisi dei risultati di ricerca,
tende a integrare le procedure della meta-analisi (selezione e sintesi su base quantitativa e
statistica) con un’attenzione ai casi singoli e alle questioni metodologiche (es. pertinenza della
ricerca rispetto al problema, adeguatezza della metodologia trascelta).
BLENDED LEARNING: è una didattica ‘mista’, in parte da remoto, in parte in presenza.
CARICO COGNITIVO: v. appendice sulla CLT.
COGNITIVISMO: orientamento teorico che studia l’apprendimento in termini di processi cognitivi
interni alla mente umana. Il cognitivismo ha aiutato a valorizzare aspetti come le preconoscenze,
le tre tipologie di memoria (sensoriale, a breve termine, a lungo termine), la metacognizione e
l’uso di mappe concettuali.
COMPITO AUTENTICO: situazione-problema tratta dalla realtà, in cui il soggetto deve attuare la
stessa performance che sarebbe svolta da un esperto del dominio di riferimento.
COMPUTER-ASSISTED INTRODUCTION (CAI): programmi d’istruzione implementata su computer,
secondo modelli tipici dell’istruzione programmata. Il software presenta quesiti e compiti in
sequenza progressiva di difficoltà, dando feedback continui.
COMUNICAZIONE VISIVA/MULTIMEDIALE: anche se può essere molto utile per la didattica a
distanza e per quella con disabili, questo approccio è spesso frainteso, secondo una mistificazione
riassumibile nella formula: più tecnologia, miglior apprendimento.
COMUNITA’ DI PRATICA: raggruppamenti sociali che si prefiggono l’obiettivo di generare
conoscenza esperta e condivisa. L’apprendimento s’identifica allora con la partecipazione della
comunità alle pratiche, assumendo una valenza collettiva anziché individuale.
CONFLITTO SOCIOCOGNITIVO: situazione di criticità negli schemi cognitivi del soggetto, che può
portare a una ristrutturazione o accomodamento di quegli schemi. La criticità può essere favorita
dal confronto tra punti di vista.
COOPERATIVE LEARNING (=apprendimento cooperativo): solitamente frainteso col ‘lavoro di
gruppo’, l’apprendimento cooperativo riguarda in verità molte metodologie e tecniche, tali per cui
gli allievi sono portati a lavorare in piccoli gruppi rispettando precise norme (ruoli, tempi ecc.). Per
creare condizioni favorevoli a tale apprendimento, occorre che gli alunni imparino a
padroneggiarlo, visto che numerosi fattori cotribuiscono a ostacolarlo (carenza di autocontrollo,
dispersività, differenze linguistiche ecc.). Appurate che le regole di funzionamento siano state
assimilate, l’ apprendimento cooperativo dà risultati soddisfacenti anche dal punto di vista degli
esiti raggiunti.
COSTRUTTIVISMO: si è sviluppato negli anni ’90 come risposta a una visione dell’apprendimento
come mera acquisizione di nozioni. I concetti principali sono tre: la conoscenza è prodotto di una
costruzione attiva del soggetto; essa ha carattere situato, collocandosi cioè nel conteso concreto
di riferimento; si svolge tramite particolari forme di collaborazione e negoziazione sociale. Al
centro si colloca la ‘costruzione del significato’, sottolineando il carattere attivo, polisemico e non
predeterminabile di quel processo. Il costruttivismo ha beneficiato dell’espansione delle
tecnologie Web, che favoriscono la costruzione collaborativa della conoscenza. Nonostante la
complessità degli assunti teorici, le ricadute pratiche del costruttivismo sono state spesso poco più
che banalizzazioni, tese a ridurre la frontalità del rapporto educativo e la guida istruttiva. Il
costruttivismo è stato ampiamente criticato dalla CLT e, in definitiva, sembra oggi aver esaurito la
propria spinta propulsiva.
DIRECT EXPLICIT INSTRUCTION (=istruzione diretta o esplicita): inaugurato negli anni Settanta da
ENGELMANN, BECKER e ROSENSHINE, quest’approccio si basa su una progettazione ben
pianificata, su piccoli avanzamenti d’apprendimento e su compiti d’insegnamento già predefiniti,
con una forte interazione guidata. Gli allievi ricevono istruzioni molto chiare. Si fa ricorso a
strategie metacognitive. Gli studiosi del carico cognitivo reputano che questa metodologia sia la
più efficace; non va confusa, come ROSENSHINE ricorda, con la lezione frontale più tradizionale.
M. CASTOLDI - DIDATTICA GENERALE (NO PARTE IV)
PARTE PRIMA
1. DIDATTICA
La didattica, termine che trae origine dalla radice indoeuropea dak ‘mostrare’, è una disciplina
molto antica, che si è rinnovata parecchio durante gli ultimi decenni. La sua formalizzazione come
sapere autonomo risale al secolo XVII e va ascritta a Comenio, secondo cui tutto può essere
insegnato a tutte le età. In generale, le tendenze della didattica si modificano di pari passo con l’
evolversi delle stagioni culturali: ad esempio, nell’ Italia dell’ idealismo primonovecentesco, essa
venne di fatto negata, costretta come fu a stemperarsi nella pedagogia, nel senso che la
formazione degli insegnanti fu identificata con la loro preparazione culturale e umana, senza la
necessità di tecnicismi né di formalizzazioni preventive.
I cambiamenti occorsi nei decenni scorsi sono stati, come accennato sopra, davvero imponenti.
Anzitutto, occorre sottolineare l’ estensione di campo della didattica, non più circoscritta alla
scuola ma estesasi anche ad altri campi dell’ educazione informale, dallo scoutismo allo sport. Ne
consegue che parlare oggi di ‘didattica’ è troppo generalista, nel senso che bisogna specificare a
quale campo si rapporta la disciplina. Nel campo propriamente scolastico, poi, si è registrata una
specificazione dell’ oggetto della didattica in relazione alle diverse materie; così, accanto a una
didattica scolastica generale, hanno proliferato le didattiche più particolari, da quella dell’ italiano
a quella della geografia. Sono emerse, ancora, nuove metodologie didattiche, accomunate da un
approccio meno dogmatico e più flessibile, senza più l’ illusione che esista un modello di didattica
universale e nella consapevolezza, piuttosto, che le singole proposte devono essere calibrate nei
vari contesti disciplinari. Alla luce di tutto ciò, è stata investita di luce nuova la didattica stessa
generalmente intesa, considerata cioè dal punto di vista del suo statuto discplinare. Gli elementi
caratterizzanti di una disciplina scientifica sono l’ oggetto di studio e il metodo d’ approccio
trascelto. Nel caso della didattica, il primo compito sarà quello di posizionarla entro le c.d. scienze
dell’ educazione. LAENG classifica le discipline afferenti al campo educativo in tre categorie:
1. discipline rilevative, cioè saperi che si occupano d’ indagare l’ evento educativo nelle sue
dimensioni costitutive, così da migliorarne la comprensione; forniscono quindi chiavi di
lettura utili ad analizzare l’ evento educativo. Ne è un esempio l’ antropologia educativa;
2. discipline prescrittive, saperi orientati alla comprensione del sistema valoriale entro cui
identificare i traguardi formativi cui è mirato l’ evento educativo (es. di traguardo
formativo: acquisizione dell’ idea di cittadino). Vi appartiene, tra le altre, la filosofia
educativa;
3. discipline operative, collocate fra l’ ‘essere’ e il ‘dover essere’ dei due precedenti gruppi,
perché cercano di rispondere alla domanda: come educare? Come la docimologia, anche la
didattica generale pertiene a questo campo.
Se il raggio d’ azione proprio della didattica generale è dunque quello del ‘come educare’, il suo
oggetto consiste nell’ azione d’ insegnamento, dunque nell’ azione formativa erogata a scuola in
maniera sistematica e intenzionale. Quella impartita a scuola è dunque un’ educazione formale,
proprio perché soddisfa sia il parametro della sistematicità, sia quello dell’ intenzionalità; l’
educazione familiare è informale perché, pur non essendo sistematica, risulta intenzionale; l’
educazione non formale, cioè l’ insieme di eventi della realtà sociale aventi una valenza educativa
(es. mass media), non possiede nessuno dei due criteri suddetti.
Concentrandoci ora sulla didattica formale erogata a scuola, diremo che l’ azione d’ insegnamento
è una relazione educativa finalizzata all’ apprendimento di un dato patrimonio culturale, situata in
un certo contesto istituzionale. L’ evento didattico può essere osservato da più punti di vista:
1. una dimensione relazionale-comunicativa, attenta alla dinamica relazionale attiva fra
insegnante e alunni e alla comunicazione che dunque avviene: quale stile di conduzione ha
l’ insegnante? Quale clima relaziona egli instaura in classe?
2. una dimensione metodologico-didattica, incentrata sulle modalità con cui l’ insegnante
attua la trasmissione del patrimonio culturale: quali metodologie utilizza l’ insegnante?
3. una dimensione organizzativa, preposta a organizzare l’ ambiente formativo entro cui
erogare l’ azione didattica: com’ è strutturata l’ aula? Come sono organizzate le
tempistiche?
A conti fatti, la didattica si configura come ricerca sull’ insegnamento, definizione utile a
contemperare il metodo utilizzato dalla disciplina (comprensione più che regolamentazione) e il
suo oggetto di studio. Oggi, in conseguenza di ciò, la didattica è vista più come un sapere con gli
insegnanti anziché per gli insegnanti. A differenza della prospettiva tradizionale, dunque, la
didattica trova negli insegnanti una fonte essenziale del proprio sapere, funzionalizzando il
ricercatore non come attore unico del processo di produzione della didattica bensì come co-
attore, come partner, dell’ insegnante (ruolo paritetico).
2. RICERCA
Laddove la didattica tradizionale si basava su un rapporto gerarchico fra teoria e azione e il
compito dell’ insegnante era essenzialmente esecutivo, nella nuova didattica teoria e azione
intrattengono un rapporto circolare o esecutivo. La sfiducia verso i modelli universali, invece,
deriva soprattutto dalla constatazione che qualsiasi proposta deve essere calibrata e verificata all’
interno di un contesto specifico. Tale visione della didattica deriva soprattutto dall’ epistemologia
propugnata da SCHOEN e richiede di distinguere due paradigmi conoscitivi: la razionalità tecnica e
la riflessività. La prima, derivato dell’ epistemologia del Positivismo, asserisce che la conoscenza
può essere definita significativa solo se validata da un’ osservazione empirica, il che richiede agli
operatori soltanto di applicare per via sistematica le generalizzazioni partorite dalla ricerca. Poiché
un approccio siffatto faticherà a imporsi e soprattutto a funzionare in situazioni complesse,
ambigue o conflittuali, SCHOEN propone il concetto della riflessione in azione, processo di
pensiero che si attua nel corso dell’ azione stessa: occorre quindi attribuire significato in tempo
reale a ciò che si fa, modificando mezzi e fini in rapporto al contesto di turno. Ciò avvicina
notevolmente, malgrado siano forieri di logiche euristiche differenti, il ruolo dell’ insegnante e
quello del ricercatore. Dalla riflessione di Schoen emerge il carattere pratico del sapere didattico e
la sua natura prevalentemente tacita, ossia interna all’ azione del docente. In quanto
‘professionista riflessivo’, l’ insegnante si gioca la sua professionalità nel passaggio da un sapere
pratico a un sapere esplicito. Il ricercatore, e astrattamente la didattica, avranno il compito di
aiutare l’ insegnante a realizzare ciò, soprattutto assistendolo nel rendere comunicabile il proprio
sapere. La ricerca si collocherà perciò tra teoria e pratica, ponendo la didattica a servizio dell’
azione. CALIDONI presenta tre visioni della ricerca didattica, esplorando il rapporto tra azione d’
insegnamento e riflessione didattica:
1. la visione grammaticale sottolinea la funzione regolativa affidata alla didattica in rapporto
all’ azione d’ insegnamento, come la grammatica propone un modello d’ uso della lingua
cui attenersi nelle situazioni concrete; ha come azione-chiave quella di guidare e utilizza
come proprio dispositivo soprattutto le guide;
2. la visione sintattica rimarca la funzione esplicativa affidata alla didattica in rapporto all’
azione d’ insegnamento, come la sintassi analizza i meccanismi di funzionamento del
codice linguistico; ha come azione-chiave quella di guidare e utilizza come proprio
dispositivo soprattutto i modelli;
3. la visione semantica evidenzia la funzione narrativa assegnata alla didattica in rapporto all’
azione d’ insegnamento, come la semantica analizza la funzione assegnata ai simboli
componenti il codice linguistico; ha come azione-chiave quella di raccontare e utilizza come
proprio dispositivo soprattutto le storie.
Ne deriva una serie di stati tensionali fra poli di opposta collocazione logica:
nomotetico (prospettiva di un modello teorico prescrittivo, dato dall’ accomunarsi dei
processi reali) vs idiografico (prospettiva del processo educativo come evento unico e
irripetibile);
analitico (prospettiva delle singole componenti elementari) vs globale (prospettiva
sistemica e complessiva);
tecnico (prospettiva della costruzione di un modello come insieme di variabili con cui
leggere la realtà) vs relazionale (prospettiva del processo educativo all’ interno di una
dinamica relazionale fra oggetti);
descrittivo (strumento funzionale a una rappresentazione sistematica dell’ oggetto
osservato) vs pragmatico (azioni didattiche da intendersi non in senso astratto, bensì
sempre orientate a scopi e intenzionalità che conferiscono significato alle azioni stesse);
statico (prospettiva di fotografare il reale) vs dinamico (processo educativo assunto nella
sua dimensione evolutiva e di sviluppo).
3. INNOVAZIONE
L’ innovazione è legata a doppio filo alla didattica in quanto ricerca sull’ insegnamento: essendo
essa svolta con gli insegnanti, necessariamente sfocia nell’ azione e diventa strumento per la
gestione del cambiamento, anche in ambito didattico. In particolare, dalla metà degli anni
Settanta, si è avviata una stagione di riflessione sul cambiamento come processo di reciproco
apprendimento fra individui e contesto d’ azione. Scurati definisce la fase in oggetto come
‘momento antropologico’, a sottolineare la rilevanza assunta dal soggetto e dai concetti di dialogo,
comunicazione e apprendimento. La stessa tensione che aveva caratterizzato la riflessione
precedente sull’ innovazione si stempera a favore di categorie descrittive e interpretative. Tale
ambito di riflessione si caratterizza per la ricorrenza di alcuni principi di fondo:
1. intrinseca storicità del processo di cambiamento. Di esso, secondo QUAGLINO, sono forme
diverse progetto e processo, differenziate fra loro dalla variabile ‘tempo’, che il primo
riduce a poche righe e condensa profondamente;
2. soggettività di colui che è responsabile dell’ azione, come punto di connessione fra
intenzione progettuale e processi reali;
3. contestualità, ossia comprensione del significato dell’ innovazione in rapporto allo specifico
contesto ambientale in cui è inserita;
4. globalità, ossia il coinvolgimento nell’ evento trasformativo del sistema organizzativo nella
sua complessità;
5. reciprocità come tratto essenziale della riflessione sull’ innovazione, ossia bidirezionalità
dei suoi effetti fra scuola e ambiente esterno;
6. riflessività come condizione richiesta alle strutture di comunicazione componenti il sistema
organizzativo per apprendere della propria esperienza.
I criteri che regolano un’ innovazione efficace sono quindi i seguenti:
1. contrattualità: i soggetti coinvolti nel piano di miglioramento devono operare in un
mandato chiaro e articolato;
2. gradualità: l’ azione migliorativa può essere pensata solo in termini di estensione
progressiva;
3. condivisione;
4. negoziazione: occorre valorizzare e rispettare la pluralità delle posizioni e delle opinioni,
entro un processo dialogico di costruzione comune di significati e decisioni;
5. supporto: un processo innovativo richiede sempre di essere guidato e sostenuto da chi se
ne fa promotore;
6. praticità: non limitarsi a indirizzi strategici generici, ma identificare chiaramente le azioni
da compiere;
7. rivedibilità: il processo migliorativo non può essere fissato una volta per tutte, bensì
richiede di essere precisato e riformulato in corso d’ opera.
E’ in quest’ ultima prospettiva che si colloca il paradigma della ricerca/azione che, a partire dagli
anni Settanta, ha incontrato una fortuna crescente anche nel nostro Paese, sulla scorta dei risultati
emergenti dalle scuole francofona e anglofona. La ricerca/azione (R/A), scrive MASTROMARINO, è
un tipo di ricerca sociale applicata, diversa dalle altre perché vi partecipano attivamente tanto
ricercatori quanto operatori sul campo. E’ dunque, aggiunge POURTOIS, un tipo di ricerca che
tende all’ azione, e che mira pertanto a cogliere l’ applicabilità dei dati in contesti reali. Un
secondo aspetto è legato al coinvolgimento paritetico di ricercatori e operatori, essendo la loro
compresenza necessaria affinché si captino meglio i problemi professionali. Un terzo aspetto
inerisce alle metodologie d’ indagine, propense ad appoggiarsi a un paradigma fenomenologico e
qualitativo, in base a cui il ricercatore non fa ricerca ma è in ricerca.
4. DOCUMENTAZIONE
La centralità della documentazione nel sapere didattico trae origine dall’ idea di ricerca presentata
sopra: se la ricerca didattica si qualifica come opportunità di rielaborazione dell’ esperienza dell’
insegnamento, allora diventa decisivo possedere un linguaggio per esprimere tale esperienza. La
documentazione serve proprio a dire l’ azione e, raffreddandola, a trasformarla in documento,
suscettibile di essere conservato e capitalizzato, dunque di fornire materia prima alla costituzione
di una memoria. Quanto è possibile tesaurizzare un’ esperienza didattica? Come riuscire a
renderne la ricchezza con parole o altri simboli? Tale sfida si presenta per qualsiasi forma di sapere
pratico: l’ azione, infatti, si svolge in un contesto e instaura una relazione complessa e articolata
con tutti gli elementi che compongono quello stesso contesto; com’ è possibile restituire questa
complessità tramite una stringa di parole, un linguaggio che inevitabile deve riportare tale
esperienza in forma lineare, sotto forma di sequenza verbale? Nel caso dell’ azione didattica,
svolgendosi essa nella forma di una relazione e dunque di un evento complesso e pluridirezionale,
questa problematica è ancora più grave e difficile a risolversi. Si tratta quindi di trasformare il fare
nel dire, di rendere dicibile l’ azione senza perdere la sua ricchezza e la sua complessità. Nella
storia della pedagogia, sono stati esperiti svariati tentativi di raccontare l’ azione, a partire per
esempio dai c.d. romanzi pedagogici e al loro tentativo di restituire un modello educativo tramite il
racconto di un’ esperienza singolare ed emblematica. Tuttavia, dobbiamo anche registrare che la
cultura scolastica non ha mai curato granché la documentazione della propria esperienza didattica,
o meglio lo ha fatto privilegiando un’ ottica amministrativo-burocratica anziché professionale. Le
prime immagini associate alla ‘documentazione’, da parte degli insegnanti, sono quelle del
registro, della pagella, del fascicolo personale. Quali sono le radici di questo generalizzato
disinteresse? In primo luogo, dobbiamo menzionare la tendenza alla devalorizzazione dell’
esperienza e della sua ricchezza, pensando all’ azione come a qualcosa d’ imperfetto a confronto
con la purezza del modello didattico. Contribuisce anche la deformazione dell’ impiego burocratico
della documentazione, che viene considerata alla stregua di un mero adempimento. Questi segnali
confermano che, nella cultura scolastica, è quasi del tutto assente una documentazione
professionale, utile a comunicare le esperienze didattiche fra insegnanti e a trasferirle in altri
contesti. Il summenzionato e auspicato connubio fra ricerca e azione, del resto, riconosce proprio
alla documentazione un ruolo d’ intersezione e d’ interfaccia fra i due momenti del lavoro
didattico.
Messi a fuoco i significati della documentazione, occorre spostare l’ attenzione sul come
documentare. Anzitutto, occorre menzionare alcuni criteri ordinatori con cui classificare le diverse
forme:
1. le funzioni della documentazione: regolativa, nel senso di puntare a indirizzare l’ azione
dell’ insegnante; esplicativa, nel senso di mirare a fornire chiavi di lettura per la
comprensione dell’ esperienza didattica; narrativa, nel senso di tendere a raccontare l’
esperienza e i suoi significati;
2. distinguere le fasi temporali presenti in qualsiasi azione, e dunque anche nell’
insegnamento: fase ex ante, preparatoria dell’ azione stessa, volta all’ anticipazione dell’
azione; fase contestuale, parallela allo svolgimento dell’ azione; fase ex post, successiva all’
azione, tesa a riscostruirne il percorso e ad apprezzarne o meno i risultati. Possiamo
pensare a fasi di documentazione per ognuno di questi tre momenti, a seconda che
precedano, accompagnino o seguano lo svolgimento dell’ azione didattica;
I piani sono una forma di documentazione precedente all’ azione e con scopo regolativo; possono
assumere forme molto varie, ma in generale si caratterizzano per il fatto che cercano di anticipare
lo sviluppo di un percorso didattico, allo scopo di poterne gestire più attentamente l’ azione.
Occorre individuare gli elementi di quest’ ultima e mettere quindi in relazioni mezzi e fini
I cirteri di qualità, che accompagnano l’ azione con scopo regolativo, sono tentativi di criteriologia,
volti a formalizzare una certa idea d’ insegnamento e a orientare sulla sua base l’ azione didattica
(esplicitazione dei principi ispiratori).
I prototipi sono resoconti strutturati dell’ azione, seguono ad essa e si configurano come idealtipi a
cui conformare l’ azione. Si tratta dunque di simulacri dell’ azione didattica, elaborati sulla base di
esperienze reali e miranti a proporre un modello su cui sviluppare tentativi di trasferimento e
adattamento.
Le teorie precedono l’ azione e hanno un ruolo esplicativo; precedono l’ azione perché sono
modelli mentali. Formalizzano l’ azione e generalizzano la prassi per fornire gli strumenti per
interpretare le azioni che si producono.
Le categorie d’ analisi sono forme di documentazione che accompagnano l’ azione e cercano di
facilitarne la lettura. Dànno chiavi di lettura per lo svolgimento dell’ azione. A differenza dei criteri
di qualità, non hanno alcun aspetto di caratterizzazione valoriale, ma forniscono strumenti per
comprendere l’ esperienza.
Le tipologie didattiche seguono l’ esperienza e aiutano a riconoscerne i tratti salienti, a classificarla
e a confrontarla. Generalizzano l’ esperienza per cercare denominatori comuni e tratti ricorrenti. Si
differenziano dai prototipi per il più alto grado di generalizzabilità cui ambiscono, svincolandosi di
più dal carattere singolo dell’ esperienza.
Le simulazioni anticipano l’ azione con scopo narrativo. Non si tratta di un testo ma di una
ricostruzione esperienziale.
I protocolli osservativi, che accompagnano l’ azione e svolgono una funzione narrativa, descrivono
a 360° l’ esperienza vissuta. E’ l’ osservazione carta e matita, ricca e autentica, volta a restituire ciò
che succede.
I diari di bordo, posteriori all’ azione e con funzione narrativa, sono forme di registrazione appunto
successiva ma non troppo a freddo, finalizzata a conservare la ricchezza e la vitalità dell’
esperienza.
5. AZIONE D’ INSEGNAMENTO
Se è vero che la didattica ha come azione l’ insegnamento, e che l’ insegnamento si definisce come
relazione comunicativa finalizzata all’ apprendimento di un patrimonio culturale, agita entro un
contesto istituzionale, bisogna adesso esaminare più in profondità i caratteri di tale azione. Essa,
come abbiamo già visto, è in possesso di due requisiti, l’ intenzionalità e la sistematicità, che la
fanno rientrare nel novero dell’ educazione c.d. formale, e può essere analizzata, per
comprenderne il significato più profondo, a partire dal concetto-chiave di mediazione. Seguendo
DAMIANO, diremo anzitutto che l’ insegnamento è un’ azione pratico-poietica. Esso si configura
perciò come un’ azione, il che sottolinea una volta di più la natura eminentemente concreta del
suo svolgersi: per questo, più che di validità in generale di un modello didattico, dovremo parlare
della sua maggiore o minore applicabilità entro determinati contesti. Praxis e poiesis, come ricorda
Damiano, sono concetti aristotelici: praxis è l’ azione finalizzata a uno scopo etico, non concreto
(es. azione dei missionari), ed è di qualità se accompagnata dalla phronesis ovverosia dalla
saggezza; poiesis è l’ azione volta al conseguimento di un risultato concreto, un prodotto tangibile
e determinato, tale da acquisire valore in base appunto al risultato conseguito; la maestria nel
compiere la poiesis si richiama alla nozione di techne, o meglio implica il possesso di quella techne
come insieme di abilità e competenze necessarie a realizzare un prodotto a regola d’ arte. La
differenza sta quindi nello scopo: la praxis ha il suo scopo in sé medesima, perché è espressione
dei valori etici a cui si rifà, mentre la poiesis raggiunge il suo scopo tramite il prodotto che realizza.
E’ invece comune il rapporto fra soggetto e qualità dell’ azione; praxis sta a phronesis come poiesis
sta a techne. Riprendendo MACINTYRE, Damiano esprime l’ auspicio che praxis e poiesis vivano un
momento di sintesi, nell’ insegnamento: la dimensione poietica, orientata al prodotto, richiama la
valenza didattica dell’ insegnamento e attiene alle qualità pratico-professionali dell’ insegnante nel
relazionare allievi e contenuti di conoscenza; la dimensione pratica, orientata al processo, richiama
la valenza educativa dell’ insegnamento e inerisce alle qualità umane e personali che l’ insegnante
possiede nel veicolare e testimoniare un insieme di valori etici.
Nell’ insegnamento, pertanto, adeguatezza tecnica e legittimità etica sono requisiti imprescindibili;
s’ intersecano e la praxis, che detiene un’ estensione maggiore, abbraccia, oltre che sé stessa,
anche la poiesis.
Nella vita quotidiana del docente, l’ intersecazione fra praxis e poiesis si ripercuote su determinate
fasi della documentazione: la programmazione didattica, che è volta al conseguimento di traguardi
formativi specifici e circoscritti (azione poietica) da un lato, la programmazione educativa,
orientata invece al perseguimento di scopi formativi più ampi (azione pratica) dall’ altro.
Damiano, ad ogni modo, si concentra soprattutto sulla dimensione poietica. Essendo il suo
risultato o prodotto l’ apprendimento settoriale degli alunni, si potrebbe credere che fra
insegnamento e apprendimento esista una relazione causale; ma una conclusione del genere
sarebbe fallace, perché intervengono molti fattori, come motivazione dell’ allievo, preconoscenze
e impegno, sintetizzabili nella locuzione ‘disponibilità ad apprendere’. La relazione insegnamento-
apprendimento, dunque, non è causale, quanto piuttosto probabilistica, e sussiste fra qualità dell’
insegnamento e qualità dell’ apprendimento. E’ così che s’ inserisce la riconcettualizzazione del
prodotto dell’ insegnamento come mediazione operata dall’ insegnante per promuovere l’
apprendimento da parte degli alunni. Secondo Damiano, la mediazione didattica va intesa come
regolazione della distanza fra i contenuti culturali da trasmettere e i soggetti in apprendimento,
tra la struttura logica dei contenuti d’ apprendimento e la struttura psicologica dei soggetti che
apprendono. La mediazione richiede che i contenuti che si vogliono veicolare siano metaforizzati e
così semplificati, mediando così la distanza fra la realtà di cui si parla e la forma con cui si
rappresenta quella realtà. Al di là delle differenze situazionali specifiche, ciò che caratterizza il
processo di mediazione è la trasformazione di determinati contenuti culturali in contenuti
accessibili all’ apprendimento per un determinato gruppo in vista di un determinato scopo
didattico. L’ effetto è duplice: da un lato si fornisce protezione rispetto all’ impatto dell’ esperienza
diretta, predisponendo un ambiente simulato che garantisce condizioni di sicurezza e distanza;
dall’ altro sostituisce il contenuto di realtà com segni appropriati, semplificandoli e ristrutturandoli
da un punto di vista spazio-temporale, così da renderli funzionali all’ apprendimento. Questi due
meccanismi, quello di simulazione e quello di semplificazione, agiscono in qualsiasi situazione
didattica e costituiscono sia un punto di forza, sia un punto di debolezza dell’ istituzione scolastica:
di forza perché semplificano e agevolano l’ apprendimento, rendendo quello scolastico un
contesto protetto; di criticità perché tale distanziamento è un rischio per la scuola, rendendo più
probabile che si sviluppino forme di auto-referenzialità. La mediazione didattica, in senso lato, si
riferisce all’ azione didattica intesa nelle sue diverse dimensioni (metodologica, organizzativa e
relazionale-comunicativa). Tra di esse, secondo la prospettiva di Damiano, è soprattutto la
dimensione metodologica ad acquisire importanza, donde la proposta di classificazione dei
mediatori didattici:
1. mediatori attivi, che mirano a ricostruire l’ esperienza di realtà ma all’ interno di un
contesto scolastico (es. uscite didattiche); si caratterizzano per la consistenza fisico-
percettiva con cui vien trattato il contenuto culturale e per la motivazione che favoriscono
nei soggetti partecipanti; i maggiori problemi sono quelli della fattibilità e del
particolarismo, essendo assai contestualizzati;
2. mediatori analogici, che trasformano la realtà in contesti simulati pur mantenenti un
rapporto d’ analogia con la realtà stessa (es. drammatizzazioni, giochi di ruolo);
permettono di considerare la complessitò del fenomeno di turno, ma sono problematici nel
senso che non rendono sempre facile distinguere chiaramente fra situazione reale e
situazione simulata;
3. mediatori iconici, che privilegiano una rappresentazione della realtà per via d’ immagini
visive (es. disegni); permettono di condensare e organizzare, anche spazialmente, l’
informazione, ma possono ingenerare problemi legati al carattere astratto di taluni
significati;
4. mediatori simbolici, che rappresentano la realtà tramite simboli (es. verbalizzazioni o
codificazioni); hanno grande capacità di sintesi e coprono gamme pressoché infinite di
significati, ma possono avere problemi connessi all’ eccessiva distanza tra ciò che si
rappresenta e come esso viene rappresentato.
Sulla base della maggiore o minore vicinanza alla realtà che rappresentano, i mediatori possono
essere classificati in vari modi, fra cui quello legato al parametro del ‘calore’: saranno più caldi i
mediatori attivi, più freddi quelli simbolici; eppure, da un altro punto di vista, i primi
necessiteranno di un tempo più lungo per essere messi in atto, i secondo saranno in tal senso
molto più funzionali.
Alla luce di ciò, riconosceremo che un insegnamento erogato con qualità è un insegnamento in
grado di usare plurimi linguaggi comunicativi e dunque plurime tipologie di mediatori, per quanto
tale pluralità, soprattutto nelle scuole secondarie, non trovi l’ adeguato spazio. In effetti, proprio la
trasferibilità linguistica è di norma riconosciuta come parametro garante della qualità dell’
insegnamento.
6. DIMENSIONE METODOLOGICA
Da un punto di vista iconico, la dimensione metodologica si colloca lungo l’ asse di collegamento
fra lo studente e il contenuto culturale. Secondo l’ approccio cognitivista, la metodologia didattica
è un dispostitivo di adeguazione del contenuto culturale al soggetto in apprendimento,
associandone la matrice cognitiva alla struttura del contenuto culturale oggetto d’ apprendimento.
Uno dei maggiori autori cognitivisti ad essersi impegnato in tale direzione è AUSUBEL, che ha
classificato le varie modalità d’ apprendimento in base a due parametri inerenti al ruolo del
soggetto che apprende:
1. la relazione del contenuto d’ apprendimento con la matrice cognitiva del soggetto
(apprendimento significativo, se i due poli hanno un processo d’ integrazione;
apprendimento meccanico, se il nuovo apprendimento è soltanto giustapposto a quelli
precedenti);
2. la modalità d’ approccio del soggetto apprendente al nuovo contenuto culturale
(apprendimento per ricezione, che vede il soggetto in posizione passiva rispetto al nuovo
contenuto reale; apprendimento per scoperta, se il soggetto è in posizione attiva ed
esplorativa).
Una lezione è un tipico esempio di apprendimento per ricezione (secondo parametro), ma può
risultare significativa (primo parametro) se sa relazionarsi alle preconoscenze del soggetto;
viceversa, un apprendimento per scoperta è meccanico se non si sa mettere in relazione con le
preconoscenze del soggetto. Com’ è chiaro, un apprendimento significativo richiederà che le
conoscenze pregresse del soggetto siano richiamate, problematizzate alla luce del nuovo
contenuto culturale e infine riadattate a esso. Muovendo dalla teorizzazione di AUSUBEL,
PELLEREY propone un insieme di principi qualificanti una metodologia didattica efficace:
1. significatività, intesa come capacità d’ integrazione del nuovo contenuto culturale con le
preconoscenze;
2. motivazione, intesa come sollecitazione della disponibilità ad apprendere da parte del
soggetto, agendo tramite esperienze di dissonanza cognitiva, dunque di percezione di uno
scarto fra le preconoscenze e i nuovi dati informativi;
3. direzione, intesa come esplicitazione e condivisione dei traguardi d’ apprendimento verso
cui orientare l’ azione didattica;
4. continuità/ricorsività, intesa come ripresa progressiva di alcuni concetti chiave dell’ ambito
di conoscenza;
5. integrazione fra i diversi saperi disciplinari, ricercando punti di connessione e di
trasversalità;
6. trasferibilità linguistica, intesa come impiego dei diversi codici comunicativi per
rappresentare i contenuti di conoscenza, così da intercettare i diversi stili cognitivi dei
discenti.
Vediamo ora un repertorio di metodologie didattiche, le quali prospettano modalità diverse circa il
rapporto fra soggetto e contenuto culturale; sarà d’ uopo considerare, in tale relazione, anche il
ruolo dell’ insegnante.
La lezione è la metodologia didattica per eccellenza; si qualifica per un’ esposizione sistematica di
contenuti che enfatizza il lato del triangolo didattico relazionante insegnante e contenuto
culturale. Poiché il rapporto fra insegnante e sapere, appunto, risulta attivo e produttivo, la
lezione attua il paradosso per cui, rielaborando il sapere cui è sollecitato, proprio l’ insegnante è il
soggetto che dalla lezione apprende di più. Lo studente è relegato a una posizione passiva,
cosicché le frecce da parte dell’ insegnante e da parte del contenuto culturale nei suoi confronti
sono esclusivamente unidirezionali; l’ insegnante funge da esperto, ossia di detentore di un
settore specifico di sapere. I punti di forza della lezione sono: l’ efficienza del rapporto
informazioni trasmesse/tempo impiegato; possibilità di erogare un contenuto simile anche a un
alto numero di alunni; sistematicità dell’ approccio alla conoscenza. D’ altro canto, i punti di
debolezza sono: lo scarso coinvolgimento dello studente; l’ eccessivo spazio accordato al codice
verbale (mediatore simbolico); limitato feedback a disposizione dell’ insegnante.
L’ apprendistato, che pure è simile alla lezione sotto molti punti di vista, se ne distacca per i
contenuti culturali che eroga, più orientati ad abilità operative, e per la tendenziale autonomia che
accorda al soggetto discente. Pertanto, la freccia fra studente e contenuto culturale è
bidirezionale, mentre quella fra insegnante e studente rimane unidirezionale. I punti di forza di
questa metodologia, ampiamente rivalutata anche nel campo scolastico, sono: la concretezza; la
progressiva autonomia accordata allo studente; la sollecitazione veros un approccio riflessivo all’
apprendimento. I punti critici sono: la limitatezza della sua impiegabilità a taluni ambiti di sapere; i
rischi di una limitazione a un’ imitazione esclusivamente passiva; i problemi di trasferibilità.
L’ approccio tutoriale, come forma di supporto personalizzato all’ apprendimento, valorizza tutti i
poli del triangolo didattico, che intrattengono ognuno rapporti bidirezionali con gli altri due. Il
ruolo del docente tende a essere indiretto, limitato al compito di supportare lo studente nell’
interazione col contenuto culturale. I punti di forza sono: la forte interazione; il feedback continuo;
l’ approccio personalizzato all’ apprendimento. I punti di debolezza sono: la tendenza a privilegiare
una relazione a due insegnante-studente; gli alti costi connessi alla presenza stessa del tutor; il
rischio d’ incrementare le differenze fra studenti, assecondandone i ritmi individuali.
Con la discussione cambia la rappresentazione della relazione didattica: l’ insegnante fa parte del
gruppo, assumendone il ruolo di conduttore e moderatore. I punti di forza sono: l’ interazione
sociale, che stimola la discussione e la problematizzazione del proprio punto di vista, oltre che lo
sviluppo di un’ argomentazione condivisa. I punti di debolezza sono: la difficoltà a garantire una
partecipazione attiva a tutti i membri del gruppo; le dinamiche di ruolo che possono produrre
effetti paralizzanti; il rischio di tralignare dal tema.
Il problem solving è una variabile della discussione e rinforza la natura di gruppo centrato su un
compito e sul tentativo di arrivare a un prodotto (il problema, P, entra perciò a far parte della
schematizzazione grafica). L’ insegnante funge da catalizzatore, ossia deve convogliare le energie e
le risorse del gruppo verso la risoluzione del problema. I punti di forza sono: l’ interazione sociale
interna al gruppo; l’ approccio euristico centrato su un problema condiviso; la concretezza del
compito assegnato. I punti di criticità sono: i prerequisiti necessari al gruppo per operare in modo
produttivo; i tempi lunghi legati alla risoluzione del problema; i problemi di trasferibilità di quanto
appreso ad altri contesti.
L’ apprendimento cooperativo è una variante del problem solving, da cui si differenzia perché l’
insegnante è esterno al gruppo e quest’ ultimo rafforza quindi la propria autonomia. Il docente
fungerà da supporto in fase preliminare, contestuale o conclusiva, ovviamente con ricadute
diverse a seconda di quale di questi momenti egli trascelga. I punti di forza sono: l’ integrazione
delle risorse interne al gruppo; il sostegno reciproco fra i componenti; la diversità dei contributi e
delle prospettive come fonti d’ arricchimento del lavoro del gruppo; lo scambio fra i diversi gruppi.
I punti di criticità sono: i rischi connessi all’ autonomia dei vari gruppi; i pericoli che si attivino
dinamiche disfunzionali, d’ irrigidimento dei ruoli e di difficoltà a restare concentrati sul compito.
L’ espressione libera o brain storming è una metodologia orientata a sollecitare il contributo
attivo da parte dei componenti del gruppo e le risorse di creatività ed energia presenti in esso. Il
rapporto fra studente e insegnante si ribalta, con il secondo che sviluppa un ruolo defilato e il
compito di stimolare contributi, animare il gruppo, recepire e valorizzare le proposte, creare le
condizioni per un confronto libero e partecipato. I punti di forza sono: il coinvolgimento dei diversi
componenti; lo stimolo ad aprirsi a punti di vista numerosi; la valorizzazione delle risorse del
gruppo. I punti di criticità sono: l’ allentamento dei confini tematici e il rischio, quindi, di
mantenere la pertinenza al tema; la difficoltà a rileggere i contributi del gruppo, passando dalla
registrazione delle risposte a una rielaborazione condivisa.
7. DIMENSIONE RELAZIONALE
Nella schematizzazione grafica dell’ azione d’ insegnamento, la dimensione relazionale si colloca
lungo l’ asse di collegamento fra insegnante e studente, perché essa si riferisce alla dinamica
relazionale che intercorre fra i diversi attori coinvolti nell’ evento didattico.
E’ possibile riconoscere due tipi di relazioni comunicative, rispetto alla dinamica che si attiva fra gli
attori: da un lato le relazioni simmetriche, dove le relazioni fra gli attori sono equilibrate; dall’ altro
le relazioni asimmetriche, in cui la distribuzione del potere fra gli attori dell’ interazione è
diseguale, e tende a caricare di un ruolo maggiore colui che, da un punto di vista relazionale, si
trova collocato più in alto. Le relazioni simmetriche possono essere oggetto di contesa e
competizione per stabilire chi, fra gli attori interessati, debba prevalere nell’ interazione; il
problema delle relazioni asimmetriche, invece, consiste nel fatto che esse sono suscettibili di
produrre un irrigidimento dei ruoli fra chi gestisce l’ interazione e chi la subisce. Utilizzando tali
categorie, diremo che quella didattica è una relazione fortemente asimmetrica, strutturata com’
essa è su ruoli ascritti (insegnante e allievo), che differiscono tra loro per età, status sociale, livello
d’ esperienza, patrimonio culturale ecc.; la distribuzione del potere premia l’ insegnante, relega
invece lo studente. La qualità dell’ azione didattica, tuttavia, non si esercita nel tentativo di
renderne simmetrica la natura, quanto piuttosto in quello di gestirne la flessibilità e la
complementarità. Secondo COMPAGNONI, è simile a una didattica fortemente asimmetrica una
visita guidata, nella quale il percorso è imposto dalla guida (i. e. l’ insegnante), mentre è meno
somigliante a tale relazione una visita d’ esplorazione, priva di schema predeterminato e definita
in fieri. Pertanto, riconosceremo una relazione didattica di qualità in una relazione che, pur
restando asimmetrica, si caratterizza per un certo tasso di complementarità con cui l’ insegnante
gestisce la dinamica d’ interazione con gli studenti. Secondo FRANTA e COLASANTI, per esercitare
una proficua ‘arte dell’ incoraggiamento’ con gli alunni, l’ insegnante deve possedere la capacità:
di garantire un ‘ascolto attivo’, inteso come capacità di comprendere il vissuto
esperienziale del proprio interlocutore, anche al di là del contenuto comunicativo
(comportamento emotivo, che aiuta a sviluppare l’ abilità di esternare i propri vissuti
emotivi). Si esercita in tre fasi, a) ricezione del messaggio, durante la quale occorre
ascoltare veramente e sospendere pregiudizi di sorta b) lettura del significato del
messaggio c) reazione comunicativa;
di trasmettere ‘messaggi’, intesi come capacità di comunicare agli allievi il proprio vissuto
circa l’ esperienza relazionale.
In entrambi i casi, è richiesto un ‘andare oltre’ la relazione basata sul solo contenuto culturale,
dando spazio anche alle dimensioni affettiva, emotiva e relazionale presente in qualsiasi dinamica
comunicativa; non si può negare, comunque, che fattori congiunturali legati all’ istituzione
scolastica di per sé e al ruolo che essa conferisce all’ insegnante rendono difficile espletare un
compito del genere.
Operativamente, sempre per parlare dell’ ‘ascolto attivo’, è di estremo interesse lo strumento
consigliato da SCHULZ, ovverosia una scomposizione del messaggio ricevuto in quattro sezioni:
piano del contenuto: che cosa dice l’ interlocutore?
piano relazionale: come la dice? Attenzione alla dinamica verbale e a quella non-verbale;
piano dell’ auto-rappresentazione: come si presenta il soggetto? Quale immagine di sé
intende veicolare tramite il messaggio che trasmette?
piano dell’ appello: qual è l’ intenzione con cui il messaggio viene trasmesso?
Ad esempio, se un bambino si rifiuta di lavorare coi compagni, dovremo riconoscere i seguenti
quattro significati:
piano del contenuto: silenzio o gesto di rifiuto;
piano relazionale: disconoscimento del ruolo di docenza dell’ adulto e delle regole da lui
imposte;
piano dell’ auto-rappresentazione: situazione emotiva d’ agitazione, che impedisce al
bambino di lavorare serenamente;
piano dell’ appello: speranza di ottenere aiuto dall’ adulto.
Alcuni consigli pratici sono offerti anche da Marianella SCLAVI, secondo cui i seguenti fattori
concorrono a definire i ‘segreti’ dell’ arte di ascoltare:
1. non avere fretta di giungere a conclusioni, dunque sospendere il giudizio;
2. sforrzarsi di modificare il punto di vista con cui si osserva una data realtà;
3. mettersi nei panni del proprio interlocutore, esplorandone la prospettiva e riconoscendone
le ragioni;
4. valorizzare il codice delle emozioni;
5. andare oltre la superficie del mondo reale ed esplorare i mondi possibili;
6. sfruttare i paradossi del pensiero e della comunicazione come strumenti euristici;
7. adottare una modalità umoristica mentre si ascolta.
PONTECORVO, dal canto suo, propone una visione dell’ ascolto maggiormente incentrata sul piano
cognitivo: occorre prestare attenzione, dunque, non soltanto alla dimensione socio-emotiva, bensì
anche alla possibilità di valorizzare le potenzialità suscettibili di derivarne sul piano dell’
apprendimento. PONTECORVO si riferisce, più che alla relazione dualistica fra insegnante e alunno,
all’ interazione sociale che avviene in classe, considerata un fattore essenziale, insieme alla
costruzione attiva da parte del soggetto, per l’ apprendimento (‘zona di sviluppo prossimale’ come
principio a partire da cui valorizzare l’ interazione fra pari come occasione di scambio simmetrico e
paritario). PONTERCORVO parla della co-costruzione della conoscenza come esito della ‘sindrome
di Qui, Quo, Qua’; i nipoti di Paperino, infatti, elaborano il proprio pensiero come somma dei
contributi individuali, dove ciascuno formula un pezzo di frase che assume significato solo a frase
stessa completata. Quali sono le condizioni che favoriscono una co-costruzione della conoscenza?
Quali i criteri di qualità di un’ interazione sociale produttiva? Quanto al primo punto, è importante
esperire una comune situazione problematica (es. osservazione di un fenomeno), tale da fungere
da base referenziale comune su cui sviluppare il confronto collettivo e la costruzione di significati
condivisi. Quanto al secondo punto, i parametri sono:
lo sviluppo, inteso come evoluzione del ragionamento collettivo sull’ oggetto del discorso;
la pertinenza, intesa come aderenza del ragionamento all’ oggetto del discorso.
Gli indicatori che dimostrano uno sviluppo argomentativo della discussione sono:
dare elementi;
relazionare;
delimitare;
contrapporsi;
generalizzare;
problematizzare;
ristrutturare.
Per procedere a dinamiche di discussione siffatte, l’ insegnante non può agire in modo casuale,
bensì possedere competenze specifiche. Sarà suo compito, fra l’ altro, stimolare un’ interazione
sociale nel gruppo dalle caratteristiche adeguate. Oltre alle capacità di moderazione di una
discussione collettiva, egli dovrà acquisire dimestichezza con lo scaffolding, dunque con l’ abilità di
fornire una struttura concettuale e procedurale su cui sviluppare l’ argomentazione socioale, e con
il fading, ossia la progressiva riduzione del proprio intervento personale a vantaggio dell’
autonomia del gruppo nella gestione del lavoro.
In definitiva, la relazione comunicativa che concorre a definire l’ insegnamento è fortemente
caratterizzata dalle suddette pratiche di ascolto attivo e co-costruzione della conoscenza. La
relazione che così si costituisce è pensata come un percorso esplorativo, della cui meta l’
insegnante è consapevole, ma il cui itinerario l’ insegnante stesso è ben lieto di modellare insieme
agli allievi.
8. DIMENSIONE ORGANIZZATIVA
Il cosiddetto setting formativo va inteso come l’ insieme delle variabili contestuali influenzanti l’
azione didattica, sul piano dei valori culturali, delle condizioni strutturali, delle regole organizzative
e dei significati istituzionali. Nella schematizzazione grafica, la dimensione organizzativa è un
cerchio che inscrive il triangolo didattico, a testimonianza dell’ influsso profondo che esercita su di
esso. Di tale cerchio, esistono più livelli, corrispondenti ad altrettanti stadi di condizionamento; il
cerchio più esterno è il macro-contesto, che richiama l’ ambiente socio-culturale e istituzionale
entro cui si colloca la scuola e dunque l’ aula; esso si riflette sulla relazione didattica in termini d’
aspettative, di dinamiche sociali e di valori condivisi. Il cerchio intermedio è il mesocontesto,
riconducibile all’ istituto scolastico in cui s’ esercita l’ azione d’ insegnamento, portatore di una
propria cultura formativa e organizzativa, in cui s’ inserisce l’ azione del singolo insegnante. Infine
c’è il microcontesto, che riguarda l’ aula e concerne specificamente il setting formativo entro cui
avviene l’ evento didattico. Occupandoci di quest’ ultimo livello, diremo che i fattori condizionanti
il contesto formativo sono molti, per esempio:
lo spazio, come contenitore fisico e materiale entro cui si esercita l’ insegnamento. I suoi
elementi caratteristici, per esempio il posizionamento dei banchi, veicola una certa idea di
didattica e ne condiziona perciò forme ed esiti;
il tempo, come struttura temporale entro cui viene attuata l’ azione d’ insegnamento (es.
organizzazione del lavoro settimanale);
le regole, come insieme di norme implicite ed esplicite regolamentanti la vita della classe e
lo svolgimento dell’ azione didattica, alcune determinate dal mesocontesto, altre più
specificamente legate alla vita in aula;
gli attori, come insieme dei soggetti coinvolti nella relazione didattica;
i canali comunicativi, intesi come medium tramite cui si svolge la relazione didattica (es.
codici e mediatori).
La giornata pare quindi essere tripartita: momento scolastico, che tende a ricalcare stilemi tipici
dei grandi istituti scolastici; gioco libero; attività di routine, che paiono essere le più propizie per la
formazione, essendo svolte a piccoli gruppi e con un grado intermedio di controllo da parte
insegnante (ma c’è il rischio che, proprio in quanto routinarie, queste attività siano svolte senza
intenzioni precise). Il modello educativo perseguito è, tutto sommato, alquanto tradizionale,
contraddistinto com’ esso è da una separazione netta fra attività scolastiche e attività ludiche, in
ogni momento senza intenzionalità specifiche da parte dell’ insegnante.
Il secondo esempio è tratto da uno studio, coordinato da Marco ORSI, effettuato dall’ IREE
Toscana su alcune scuole primarie del Lucchese e basato sull’ assunto per cui lo spazio aula è una
componente fondamentale dell’ azione didattica, tale da richiedere di essere attentamente
progettata e controllata. I banchi, nella figura riportata, sono disposti in gruppi, e in alto a dx. c’è
uno spazio utile per riunire il gruppo (la c.d. agorà); la cattedra è relegata a lato. Emerge un
modello educativo caratterizzato dalla varietà del setting, dalla compresenza di modalità di lavoro
diverse, dalla valorizzazione della socialità e da un ruolo abbastanza rifilato dell’ insegnante. Lo
spazio scolastico appare così pervaso da connessioni, flessibilità, appartenenza e visibilità, e non
dalle abituali separazioni, rigidità e anonimati. Rispetto allo spazio, i vari attori dell’ evento
scolastico agiscono politiche differenti: gli enti locali perseguono una logica economica per
rispondere alle proprie competenze in materia d’ edilizia scolastica, così da razionalizzare le spese;
i dirigenti scolastici adottano strategie di sicurezza che soddisfino i vincoli normativi; il personale
ausiliario attua una logica di controllo, in funzione dei suoi compiti di sorveglianza; lo studente
esprime, più o meno consapevolmente, una logica di appartenenza, desideroso di uno spazio in cui
riconoscersi e poter soddisfare i suoi bisogni d’ identificazione. L’ insegnante, che pure dovrebbe
essere consapevole del valore pedagogico della dimensione organizzativa e del setting formativo,
rimane spesso prigioniero di logiche propugnate dai suoi superiori e finisce addirittura per
rafforzarne le attuazioni, trasformando lo spazio in un contenitore tipicamente immutabile dell’
evento scolastico.
9. PROGETTAZIONE
In ambito scolastico, quando si parla di argomenti legati alla progettazione, si ha sempre un’
ambiguità di fondo, tra un piano amministrativo-burocratico da un lato, e un piano professionale
dall’ altro. La prevalenza del primo aspetto toglie di fatto qualsiasi significato al momento
progettuale, ridotto a uno spazio di compilazione dei documenti e di formati progettuali fini a sé
stessi, distante perciò dalla prassi didattica. In realtà, almeno di partenza, la progettazione
costituisce uno strumento che l’ insegnante ha a diposizione per agire la sua professionalità.
Dietro ai diversi modelli di progettazione, è possibile riconoscere in filigrana due logiche
progettuali profondamente diverse, denominate da CRISTANINI ‘logica della razionalità tecnica’ e
‘logica della complessità’. La logica della razionalità tecnica presuppone un rapporto lineare tra i
momenti del progettare, dell’ agire e del valutare, pensati come fasi in successione di un processo
unico, cosicché la progettazione si configurerebbe come un momento ex ante dell’ azione
didattica, avente lo scopo di anticipare appunto il processo che si desidera poi realizzare. Un
approccio del genere, eminentemente analitico e mirante a scomporre il processo nelle sue
componenti elementari, è stato ricavato dal mondo produttivo e applicato all’ universo scolastico,
e richiede (SIMON) una razionalità olimpica al soggetto progettante, il quale dovrebbe
padroneggiare tutte le fasi del processo da implementare e le relative variabili. La valutazione, in
questa prospettiva, si configura come momento finale, che misura lo scarto fra quanto era stato
preventivato e quanto è stato raggiunto. Un chiaro prodotto di ciò, nella scuola di oggi, è la
cosiddetta programmazione per obiettivi.
La logica della complessità, dal canto suo, postula un rapporto di circolarità fra i momenti del
progettare, dell’ agire e del valutare, pensati non in successione nettamente compartimentata ma
in dialogo e interazione continui. La progettazione, allora, non sarà una predeterminazione dei
singoli passi processuali, bensì un orientamento strategico rispetto a una direzione di marcia verso
cui dirigere l’ azione. Ciò deriva da un paradigma di tipo relativo, secondo cui non è possibile
tenere in considerazione a priori tutte le variabili di un processo come quello formativo
(complessità di quest’ approccio). Quanto alla valutazione, essa sarà un momento di
ridefinizione dell’ ipotesi progettuale di partenza; il progetto si adegua al processo, o meglio alle
caratteristiche contestuali in cui si organizza l’ esperienza didattica.
A prescindere dalla tipologia d’ approccio che si trasceglie, un progetto didattico è sempre
caratterizzato da alcune features chiave, ben concettualizzate nella mappa di Kerr:
un primo ingrediente concerne i traguardi formativi a cui è finalizzato il progetto didattico,
dunque i risultati attesi verso cui si tende. La domanda a cui rispondere è: perché
insegnare?
un secondo ingrediente riguarda i contenuti culturali destinati a essere affrontati durante l’
insegnamento, una questione che, soprattutto per alcune discipline umanistiche, è di fatto
impossibile separare dalla definizione dei traguardi formativi; la domanda a cui rispondere
è: che cosa insegnare?
un terzo ingrediente attiene ai processi formativi tramite cui sviluppare i traguardi
formativi e i contenuti culturali che in precedenza si sono identificati. La domanda a cui
rispondere è: come insegnare?
un quarto ingrediente si riferisce al momento della valutazione, di cui bisogna individuare
forme e strumenti già in fase precedente all’ azione. La domanda a cui rispondere è: come
valutare il processo formativo?
Un progetto didattico adeguatamente elaborato dovrà fornire risposte a tutti e quattro i quesiti,
laddove è tipico che le scuole rispondano oggi in maniera appropriata solo ai primi due, non
curando particolarmente il terzo e omettendo spesso del tutto il quarto.
Nella selva dei modelli progettuali proposti dall’ editoria scolastica, i principali sono tre:
programmazione per obiettivi;
programmazione per concetti;
programmazione per sfondo integratore.
La programmazione per obiettivi, che si è diffusa nel nostro Paese durante gli anni Settanta,
costituisce l’ espressione più fedele della c.d. logica della razionalità tecnica, perché tende a
tradurre il momento progettuale in un algoritmo di passaggi avente come punto di partenza la
definizione degli obiettivi formativi. Contenuti, strategie e modalità della valutazione vengono
definiti in funzione degli obiettivi identificati, secondo una stretta gerarchia fini-mezzi applicativi
(dalla definizione dei fini, devono discendere i mezzi necessari per perseguirli). Tale modello, che
ha come conclamato ‘padre’ TYLER, è basato su un modello ingegneristico e, stanti le sue
caratteristiche, è spesso pervaso da un ‘delirio di onnipotenza’ circa le sue possibilità d’ esattezza.
L’ elaborazione degli obiettivi assume per questo un’ importanza centrale, testimoniata anche dal
profluvio di nomi con cui essa è nota (cfr. soprattutto ‘operazionalizzazione’). Tali obiettivi
attengono a:
traguardi formativi molto ampi e generici, riferiti a singole discipline oppure a più larghi
orizzonti educativi (es., per la scuola primaria, orientarsi nello spazio e nel tempo);
obiettivi propriamente detti, spesso distinti in obiettivi generali o specifici a seconda dell’
ampiezza (per restare sulla falsariga del precedente esempio, distinguere i vari tipi di
paesaggio e le loro caratteristiche);
prestazioni, ossia le declinazioni degli obiettivi in termini di comportamenti osservabili (es.
capire i fattori favorevoli od ostili presenti in un territorio in rapporto alle attività
produttive);
standard, intesi come soglia di accessibilità delle prestazioni individuate e, quindi, punti di
riferimento per la valutazione dei risultati formativi (es. almeno 3 fattori favorevoli all’
implementazione di attività produttive in un certo territorio).
Come è chiaro, i rischi del modello della programmazione per obiettivi sono legati soprattutto al
riduzionismo e all’ eccessiva rigidità delle sue forme. Esso rischia di basarsi su una realtà luminosa
e ordinata che, nei fatti, è molto distante dalla situazione concreta in cui si andrà poi ad agire.
La programmazione per concetti risente dell’ influsso delle scienze cognitive sulle scienze dell’
educazione, perciò si concentra sui modi in cui il soggetto apprende e sui caratteri distintivi dei
diversi saperi. Occorre quindi una preliminare analisi delle discipline da un punto di vista
epistemologico e delle modalità di sviluppo delle conoscenze da parte dei singoli soggetti. Da un
punto di vista didattico, è fondamentale che il docente identifichi gli elementi chiave del proprio
ambito disciplinare e che precisi i significati essenziali da far apprendere agli studenti tramite una
mappa concettuale ‘esperta’, che andrà considerata punto di riferimento. Si andrà poi a rilevare la
matrice cognitiva pregressa degli allievi, così da costruire una mappa concettuale ‘ingenua’. Il
confronto tra le due mappe darà modo al docente di strutturare un percorso didattico in grado di
far evolvere le mappe ‘ingenue’ degli studenti verso quella ‘esperta’, così come la valutazione
dovrà rilevare i progressi maturati dagli studenti ed evidenziati dal passaggio dalle forme della
mappa ingenua a quelle della mappa esperta. Il problema della programmazione per concetti
consiste nell’ ampia concettualizzazione che essa presuppone, malgrado, soprattutto per l’ enfasi
che pone sulla relazione fra soggetto in apprendimento e contenuto culturale, rappresenti un
paradigma meritorio.
La programmazione per sfondo integratore, infine, diffusa soprattutto nella scuola per l’ infanzia, è
un modello più leggero e attento alla processualità degli eventi. In fase di progettazione, occorre
individuare una cornice progettuale, che funga da sfondo e da contenitore per il percorso e il
raggiungimento, tramite di esso, di obiettivi specifici. Tale sfondo può consistere in un luogo (es.
un bosco), un personaggio fantastico che faccia da conduttore al percorso, un problema da
affrontare in plurimi passaggi o un progetto da realizzare (es. spettacolo teatrale). Non preordina,
quindi l’ itinerario scolastico, ma sicuramente ne influenza, in vista degli obiettivi finali, le modalità
d’ attuazione. I suoi elementi caratteristici sono: la leggerezza dell’ impianto progettuale; l’
orientamento strategico, da declinare in corso d’ opera sulla base di come gli studenti reagiscono;
l’ attenzione alla gradualità degli eventi, il che ribalta il rapporto fini-mezzi caratteristico della
programmazione per obiettivi. I rischi del modello, invece, chiari soprattutto se si tende a proporlo
anche dopo la scuola dell’ infanzia, consistono nell’ indeterminatezza degli obiettivi e nella scarsa
attenzione che può derivare verso i contenuti educativi più specifici, legati alle singole discipline. Il
suo merito maggiore, in ogni caso, è quello per cui aiuta a pensare alla fase di progettazione come
a un momento profondamente integrato nella prassi didattica.
Se relazionati alla mappa di Kerr, i tre modelli esaminati si rivelano poco propensi a definire con
chiarezza il piano della valutazione; invece, la programmazione per obiettivi è incentrata
soprattutto sull’ aspetto dei traguardi, la programmazione per concetti sulla dimensione dei
contenuti e la programmazione per sfondo integratore sul piano dei processi.
10. VALUTAZIONE
Esattamente come per ciò che accade oggi alla progettazione, anche la valutazione tende a essere
‘reintegrata’ entro il ciclo vitale della didattica, così da esserne considerata parte integrante.
La valutazione, seguendo BARBIER, è un atto profondamente soggettivo, perché si configura come
un duplice processo di rappresentazione, il cui punto di partenza è costituito dalla
rappresentazione fattuale di un oggetto, e il cui punto d’ arrivo è formato da una rappresentazione
codificata di quell’ oggetto. I dati di riferimento costituiscono la rappresentazione fattuale dell’
oggetto che il valutatore si è costituito. Il giudizio di valore è la rappresentazione codificata dell’
oggetto, e deriva dall’ incrocio fra i dati di riferimento e i referenti concettuali con cui s’
interpretano quei dati (referenti concettuali = quadro valoriale del valutatore circa l’ oggetto da
valutare). Perciò il giudizio di valore rappresenta l’ incrocio fra l’ idea che ci si è fatti dell’ oggetto
da valutare e l’ idea di qualità veicolata dai criteri che si usano per valutare; anch’ esso, dunque, è
fortemente compromesso con la dimensione soggettiva.
La ‘duplice rappresentazione’ di cui parla Barbier, ancora, è utile per distinguere i due diversi
momenti che presiedono alla valutazione: il momento rilevativo, in cui si raccolgono i dati di
riferimento giudicati utili, e il momento d’ espressione del giudizio, più propriamente
interpretativo, in cui, supportati dai criteri trascelti, si cerca di dare significati ai dati collezionati.
Ampliando la rappresentazione fornita da Barbier, diremo che le questioni presenti quando si
valuta, e i rispettivi momenti, sono:
1. che cosa significa valutare l’ apprendimento dell’ allievo?
2. Quali aspetti della sua esperienza scolastica devo valutare?
3. Che cosa (non) ha funzionato nel giudizio? (ovviamente dopo che il giudizio sia stato
svolto);
4. Quale uso fare, sia internamente sia esternamente, del giudizio ricavato?
Occorre domandarsi anche perché si operi la valutazione, dunque che scopo essa abbia. Possiamo
distinguere varie tipologie, in tal senso:
1. valutazione predittiva od orientativa: precede il processo formativo e serve a prevedere le
caratteristiche del percorso più adatte alle caratteristiche di un certo soggetto (es.: test d’
orientamento);
2. valutazione diagnostica: si colloca nella fase iniziale del processo formativo e serve ad
analizzare le caratteristiche d’ ingresso possedute da un allievo in riferimento al percorso
che dovrà essere svolto
3. valutazione formativa: accompagna le diverse fasi del processo formativo, con lo scopo di
offrire un continuo feed-back sia all’ allievo, sia all’ insegnante nel mentre del percorso;
4. valutazione sommativa: si colloca alla fine di un processo (UD, modulo di lavoro, anno
scolastico) e aiuta a tirare le somme sui risultati conseguiti;
5. valutazione certificativa: segue il processo formativo e serve ad attestare socialmente il
conseguimento di determinati risultati da parte del soggetto, in vista delle sue scelte
scolastiche posteriori o dell’ inserimento nel mondo del lavoro.
Al di là delle differenze fra le varie forme di valutazione, riconosciamo due logiche di fondo con cui
considerare la valutazione scolastica:
una logica di controllo, sintetizzabile nella formula ‘valutazione nell’ apprendimento, tesa a
caratterizzare la valutazione come dispositivo d’ accertamento della produttività dell’
azione scolastica e occasione di rendicontazione sociale della stessa; si basa su una
separazione più netta fra momento formativo e momento valutativo; inoltre, proprio
perché mira ad avere un significato sociale, di norma è svolta da personale esterno alla
scuola di turno;
una logica di sviluppo, sintetizzabile nella formula ‘valutazione per l’ apprendimento’,
propensa a giudicare la valutazione come dispositivo di retro-azione, utile a coinvolgere il
soggetto nel momento valutativo e ad accrescerne la consapevolezza circa il percorso
svolto. Integra i momenti formativo e valutativo; in funzione del suo scopo educativo,
privilegia personale interno alla scuola.
La validità è legata alle caratteristiche dello stimolo proposto, mentre l’ attendibilità dipende dalla
lettura della prestazione da parte dell’ insegnante. In generale, le prove non strutturate tendono a
mostrare elementi critici per quanto attiene all’ attendibilità, mentre le prove strutturate hanno
problemi circa la validità; le prove semistrutturate, dal canto loro, mostrano un certo equilibrio fra
le prime, le seconde e le rispettive qualità.
La definizione dei criteri richiama la stretta relazione fra il momento progettuale e quello
valutativo, perché i criteri di giudizio che si usano nel valutare rinviano ai traguardi formativi
identificati in fase progettuale. A tale proposito, ricorderemo che ci sono tre differenti modi
tramite cui formulare un giudizio scolastico:
standard assoluto, ossia una prestazione considerata ottimale (o accettabile) in base a cui
confrontare la prestazione fatta dall’ allievo di turno, misurando quindi lo scarto;
insieme delle prestazioni ottenute da uno specifico gruppo di studenti, cosicché il giudizio
tende a posizionare il singolo allievo in rapporto alla distribuzione delle prestazioni della
classe;
misura del progresso dell’ allievo: il giudizio apprezza l’ entità del progresso maturato
rispetto al livello ritenuto iniziale dello stesso allievo.
Il requisito essenziale che la valutazione deve soddisfare è quello della trasparenza, dunque dell’
esplicitazione delle scelte fatte dall’ insegnante in rapporto alla formulazione di giudizi valutativi:
solo così si garantirà che la propria è una valutazione ufficiale, non arbitraria né ‘oscurantista’.
Il momento di espressione del giudizio pone la problematica dei codici con cui formulare l’ esito
della valutazione: il giudizio può essere espresso con variabili nominali che identifichino una
situazione dicotomica di presenza/assenza di una certa condizione (es. superamento o meno di
una prova), variabili di tipo ordinale indicanti un certo numero di livelli su cui stabilire una
graduatoria dei risultati, variabili di tipo metrico che quantificano una prestazione sulla base di un’
unità di misura predefinita (es. numero di prove superate). Il giudizio scolastico tende a
privilegiare variabili di tipo ordinale, che permette di graduare i soggetti ma non di misurare con
esattezza le differenza fra di loro. Non fanno differenza, se non per il codice, strumenti come la
scala numerica, quella dei giudizi, quella delle lettere o quella dei colori.
La fase di regolazione dell’ insegnamento evidenzia la circolarità fra momento valutativo,
momento dell’ azione didattica e momento progettuale e serve a capire che la valutazione, oltre
che per l’ alunno, è di profonda incidenza anche per il docente. Il giudizio sul singolo, infatti,
rappresenta anche un feed-back per l’ insegnante, affinché egli possa ripercorrere sulla sua scorta
il processo formativo svolto e giudicarne la qualità. L’ importanza in tal senso della valutazione,
comunque, è utile soprattutto per le valutazioni predittiva, diagnostica e formativa.
La comunicazione del giudizio richiama la necessità di collocare il momento della valutazione in
una logica formativa: essa, infatti, non è una sentenza, non si esaurisce nel momento in cui è
notificata, ma ricade sulla relazione formativa. Per questo, occorre considerare anche le utenze
esterne che avranno accesso alla valutazione (in particolare i genitori) e fornire a esse chiavi di
lettura adeguate.
Quanto ai ruoli dei soggetti, vi sono diversi piani di lettura delle dinamiche valutative in ambito
scolastico: anzitutto il rapporto fra la valutazione individuale affidata al singolo docente e la
valutazione collegiale elaborata dal Consiglio di Classe, che dovrebbe svolgersi in forme di
collaborazione. Un’ altra questione di relazioni e ruoli dei soggetti è quella legata alle famiglie e
alla loro presenza nella valutazione, soprattutto nei gradi di scuola primari. Esse non vanno
considerate solo come destinatarie del giudizio, ma anche come fonte d’ informazione circa la
capacità, da parte del singolo studente, di usare le competenze apprese a scuola anche al di fuori
di essa. Per questo, diciamo che le famiglie sono corresponsabili dell’ intervento che deve
promuovere la crescita dell’ allievo di turno. Qual è, infine, il ruolo del singolo allievo nella
valutazione? Esso, purtroppo, è generalmente trascurato nella scuola di oggi, ma si tratterebbe,
come nel caso della famiglia, di un’ importante cartina di tornasole per il docente, che tende
invece ad avvertire la ‘cittadinanza’ del giovane nel processo valutativo come una minaccia e un
pericolo da cui difendersi.
PARTE SECONDA
La centralizzazione delle competenze, all’ interno del sistema scolastico, è un fatto epocale, un’
autentica rivoluzione copernicana, in quanto le competenze vanno a sostituire, nel ruolo assunto,
le conoscenze o abilità. I tre momenti di insegnamento, apprendimento e valutazione sono
parimenti imperniati sulle competenze e sull’ importanza specifica delle stesse.
Tutto ciò dimostra come e quanto l’ originaria visione comportamentista della nozione di
competenza si sia ampliata, passando da poter essere sintetizzata nella formula ‘saper fare’ a
quella ‘saper agire’ (LE BOTERF).
PELLEREY dice che la competenza è la capacità di far fronte a un compito, o a un insieme di
compiti, riuscendo a mettere in moto e a orchestrare le proprie risorse interne, cognitive, affettive
e volitive, utilizzando inoltre quelle esterne disponibili in modo coerente e fecondo. Tale
definizione consente di evidenziare gli attributi principali attualmente associati alla competenza:
1. capacità di far fronte a un compito, o a un insieme di compiti come ambito di
manifestazione del comportamento competente;
2. messa in moto e orchestrazione delle proprie risorse interne, che segnala la natura olistica
della competenza, non riducibile alla sola dimensione cognitiva ma estesa anche alle
componenti motivazionali, attribuzionali, socio-emotive ecc.;
3. utilizzo delle risorse esterne in funzione del compito da affrontare, il che sottolinea il valore
situato della competenza e la prospettiva ecologica a partire da cui occorre esaminarla.
Stando così le cose, la nozione di competenza risulta essere comprensiva delle diverse dimensioni
implicate nel processo di apprendimento, riconducibili ai seguenti tre piani:
1. le conoscenze, intese come rappresentazioni del mondo che il soggetto si costruisce
tramite gli stimoli derivanti gli dall’ ambiente esterno e dal sapere codificato;
2. le abilità, intese come schemi operativi che permettono al soggetto di agire in forma fisica
o mentale su oggetti materiali o simbolici;
3. le disposizioni ad agire, da intendere come attitudini del soggetto a relazionarsi con le
realtà in cui opera, tanto soggettivamente quanto oggettivamente.
Nella Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio sul Quadro Europeo delle
Qualifiche e dei Titoli per l’ apprendimento permanente, si dànno le definizioni seguenti:
le conoscenze indicano il risultato dell’ assimilazione d’ informazioni attraverso l’
apprendimento. Le conoscenze sono l’ insieme di fatti, principi, teorie e pratiche relative a
un settore di studio o di lavoro. Esse sono teoriche oppure pratiche;
le abilità indicano le capacità di applicare conoscenze e usare know-how per portare a
termine compiti e risolvere problemi. Sono cognitive (uso del pensiero logico, intuitivo e
creativo) e pratiche (se implicano l’ abilità manuale e l’ impiego di metodi);
le competenze indicano la comprovata capacità di usare conoscenze, abilità e capacità
personali in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e/o personale.
Sono descritte in termini di responsabilità e autonomia.
Una volta individuati gli elementi generali che ci consentono di definire il concetto di competenza,
occorre evidenziare alcune questioni aperte, che rendono problematico l’ uso del termine nel
contesto formativo:
è difficile un costrutto tanto complesso e articolato in termini rigorosi;
è improprio applicare una specifica visione di competenza, o di un suo livello, a una fascia
d’ età determinata, perché la competenza soggiace a una visione dinamica e processuale;
è inadeguato astrarre la competenza dalla dimensione eminentemente situata che la
caratterizza;
è complesso, in molte situazioni, definire le competenze in base alla disciplina di turno,
essendo il carattere delle competenze perlopiù trasversale.
In estrema sintesi, potremmo asserire che il carattere più specifico della competenza è il fatto che
essa ‘è’, non ‘ha’; anche ciò ne spiega l’ alta problematicità da un punto di vista tassonomico.
Il processo d’ apprendimento che mira a sviluppare competenze deve fare i conti con l’ idea
costruttivista d’ apprendimento.
1.3 ALLA RICERCA DELLE COMPETENZE CHIAVE
Uno dei campi che più ha subito la nuova pervasività delle competenze è quello della cittadinanza
attiva, per la quale sono state individuate appunto alcune competenze-chiave.
Le life skills, secondo le indicazioni dell’ OMS, dovrebbero far parte delle competenze trasmesse a
scuola.
A partire da premesse fondate sui valori della democrazia e dello sviluppo sostenibile, vengono
individuate nove competenze, radunate in tre categorie:
CATEGORIA 1: SERVIRSI DI STRUMENTI IN MANIERA INTERATTIVA
Nella società dell’ informazione e dell’ economia globale, la domanda socio-professionale richiede
di padroneggiare sia strumenti socio-culturali (es. linguaggio, informazione ecc.) sia strumenti fisici
(es. computer) per interagire con la conoscenza. Le competenze di questa categoria sono:
1. capacità di utilizzare la lingua, i simboli e i testi in maniera interattiva. Occorre quindi usare
in maniera effettiva il linguaggio parlato e scritto, il calcolo e altre abilità matematiche all’
interno di molteplici situazioni;
2. capacità di utilizzare le conoscenze e le informazioni in maniera interattiva. Per farlo, è
necessario riflettere criticamente sull’ informazione, sulla sua infrastruttura e sul suo
contesto sociale, culturale e ideologico;
3. capacità di utilizzare le tecnologie più recenti in maniera interattiva, riflettendo sulla sua
natura e collegandone le possibilità alle condizioni d’ uso.
Le conseguenze sono rilevanti, oltre che sul piano politico, anche su quello culturale.
Culturalmente parlando, è molto interessante la focalizzazione sul concetto di literacy, da
intendere come padronanza del soggetto di un certo dominio culturale, a un livello adeguato alla
partecipazione attiva e sociale al mondo adulto. L’ enfasi è quindi posta sulle situazioni reali di vita
e su abilità, anziché curricolari, generali. Per questo, i quesiti sono perlopiù basati su trasposizioni
del sapere acquisito a scuola in situazioni problematiche dedotte dalla vita reale. Ci si avvicina,
tramite di ciò, a una prospettiva di valutazione basata sulle competenze.
Non esiste gerarchia fra le competenze chiave, ognuna ha un’ importanza paritetica per il
raggiungimento degli obiettivi.
Tutto questo non deve spingerci a ‘descolarizzare la scuola’, appiattendone il processo educativo
alle forme e alle situazioni che hanno luogo al suo di fuori, perché ciò vorrebbe dire cancellare
quanto rende ‘formale’ l’ educazione erogata a scuola; la sfida a cui la scuola deve rispondere,
piuttosto, è quella di non auto-isolarsi completamente dal mondo esterno, mantenendo invece un
rapporto diretto con l’ esperienza reale. COMOGLIO teorizza i due diversi approcci definiti
‘insegnamento-muro’ e ‘insegnamento-ponte’. Il primo, basato su una sequenza lineare e
gerarchica ‘insegnante-conoscenza-studente-apprendimento’, presenta le caratteristiche seguenti:
lo studente è visto come un ricettore passivo, che riproduce una conoscenza
preconfezionata;
la conoscenza rimane inerte, incapace di connettersi alla vita reale; per questo, può essere
richiamata solo tramite una stimolazione diretta, sennò rimane una raccolta di polvere;
l’ insegnamento tende a frazionare la conoscenza in componenti elementari per renderlo
più accessibile;
il gruppo tende a essere visto come fattore di sfondo, se non addirittura di disturbo, del
processo d’ apprendimento, che si qualifica come relazione ‘privata’ fra docente,
contenuto culturale e allievo.
I due approcci collocano allora diversamente il rispettivo baricentro nella dinamica formativa: il
modello del muro è basato su una logica dell’ insegnamento, su una pianificazione rigida e sull’
affinità col sapere teorico; il modello del ponte, invece, si fonda su una logica dell’ apprendimento,
caratterizzata da ordine di scoperta, esplorazione, flessibilità di gestione e sapere pratico.
Riprendendo, infine, la posizione espressa da RESNICK sulla discontinuità fra insegnamento
scolastico e logica esterna alla scuola, diremo che, mentre l’ apprendimento muro prende atto
della discontinuità e non fa nulla per modificarla, erigendosi a barriera della missione culturale di
cui la scuola è istituzione portatrice, l’ apprendimento ponte cerca di sciogliere o almeno di
limitare tale discontinuità, creando collegamenti fra mondo reale e conoscenza teorica, tra saperi
pratici e saperi teorici; si punta, tramite il lavoro scolastico, non a distaccarsi dalla realtà, bensì a
osservarla dall’ esterno e a comprenderla in profondità.
La sfida della didattica per competenze, in definitiva, è culturale, oltre che tecnica e professionale.
Pertanto, essa investe l’ intera comunità sociale orbitante attorno all’ universo della scuola, di cui
cerca di modificare i significati associati all’ istituzione scolastica stessa. L’ insegnamento sarà così:
significativo, come integrazione e sviluppo delle nuove conoscenze entro il patrimonio
culturale pregresso del soggetto;
attivo, come coinvolgimento consapevole dello studente nella gestione del processo
apprenditivo;
situato, in quanto agganciato a compiti significativi del mondo reale;
collaborativo;
aperto, riferito cioè a differenti prospettive d’ analisi dei contenuti culturali e a molteplici
modalità di soluzione;
multimediale, perché combina e integra differenti modalità di rappresentazione della
realtà;
metacognitivo, in quanto promozione dell’ autoconsapevolezza nel processo di costruzione
della conoscenza.
Ne consegue che le sfide più urgenti e difficili del processo valutativo in seno alla scuola sono:
1. puntare a compiti valutativi più autentici, che accertino anche la capacità studentesca di
usare il proprio sapere nelle sfide poste dai contesti di realtà;
2. responsabilizzare e coinvolgere gli studenti nel processo di valutazione;
3. integrare la valutazione del prodotto della formazione con quella del processo formativo
(cioè il ‘che cosa si apprende’ col ‘come si apprende’);
4. oltrepassare i confini disciplinari della valutazione, valorizzando le dimensioni trasversali
dell’ apprendimento;
5. riconoscere e sviluppare la potenzialità metacognitiva sottesa al processo valutativa.
Nel loro complesso, le sfide summenzionate riassumono il compito attuale della valutazione, ossia
quello di passare da una verifica delle conoscenze e delle abilità a una valutazione delle
competenze, cosicché il soggetto possa rispondere alle esigenze sociali.
La dimensione soggettiva richiama i significati personali attribuiti dal soggetto alla sua esperienza
d’ apprendimento. Implica perciò un’ istanza autovalutativa, legata al modo in cui l’ individuo
osserva e giudica la sua esperienza d’ apprendimento e la sua capacità di rispondere ai compiti
richiesti dal contesto di realtà in cui si trova. Domande tipiche: come mi vedo in rapporto alla
competenza che mi viene richiesta? Mi ritengo adeguato a risolvere i compiti proposti? Riesco a
impiegare nel modo migliore le mie risorse interne e quelle esterne?
La dimensione intersoggettiva richiama il sistema di attese attribuite dal soggetto alla sua
esperienza d’ apprendimento: il senso legato al suo compito operativo, la percezione della propria
adeguatezza nell’ affrontare quello stesso compito, la percezione delle risorse da attivare per farlo.
Implica un’ istanza sociale, connessa al modo in cui i soggetti della comunità sociale percepiscono
e giudicano il comportamento messo in atto. Domande tipiche: quali aspettative sociali vi sono in
rapporto alla competenza richiesta? In che misura tali aspettative vengono soddisfatte dalle
prestazioni e dai comportamenti messi in atto? Le percezioni dei diversi soggetti sono coerenti fra
loro?
La dimensione oggettiva richiama le evidenze osservabili che attestano la prestazione del
soggetto e i suoi risultati, in rapporto al compito affidato e, in particolare, alle conoscenze e alle
abilità richieste dalla manifestazione della competenza. Implica un’ istanza empirica connessa alla
rilevazione in termini osservabili e misurabili del comportamento del soggetto rispetto al compito
assegnato e al contesto operativo. Domande tipiche: quali prestazioni sono fornite in rapporto ai
compiti assegnati? Quali evidenze osservabili ci sono per documentare l’ esperienza d’
apprendimento e i suoi risultati? In che misura le evidenze raccolte segnalano una padronanza nel
rispondere alle esigenze individuali e sociali poste dal contesto?
Al centro delle tre prospettive è l’ idea di competenza su cui si fonda la valutazione, irrinunciabile
affinché la prospettiva trifocale risulti coerente.
3.5 STRUMENTI D’ ANALISI DELLA COMPETENZA
Le tre prospettive analitiche sopra indicate richiedono ciascuna un tipo differente di
strumentazione.
Riguardo alla dimensione soggettiva, ci si può riferire a forme di autovalutazione, attraverso cui
coinvolgere il soggetto nella ricostruzione della propria esperienza d’ apprendimento e nell’
accertamento della propria esperienza. Rientrano in questo campo i diari di bordo, le
autobiografie, i questionari d’ autopercezione, i giudizi più o meno strutturati sulle proprie
prestazioni rispetto a determinati compiti ecc. Tali dispositivi espletano il compito di raccogliere e
documentare il punto di vista del soggetto sulla propria esperienza d’ apprendimento e sui risultati
raggiunti.
Quanto alla dimensione intersoggettiva, ci si può riferire a modalità d’ osservazione e valutazione
delle performances del soggetto da parte degli altri soggetti implicati nel processo formativo
(insegnanti, genitori, altri allievi ecc.). Gli strumenti possono essere protocolli d’ osservazione,
questionari, interviste ecc., rivolti agli altri attori coinvolti nel processo d’ apprendimento e volti a
registrarne le aspettative verso la competenza del soggetto, nonché le loro osservazioni generali.
In riferimento alla dimensione oggettiva, ci si può riferire a strumenti d’ analisi della prestazione
individuale in rapporto allo svolgimento di compiti operativi: prove di verifica, strutturate o meno,
compiti di realtà richiesti al soggetto, realizzazione di manufatti o prodotti assunti come
espressione di competenza, selezione di lavori svolti nell’ arco di un determinato processo
formativo. L’ esperienza d’ apprendimento, se considerata a partire da strumentazioni siffatte, è
rilevata sia nella dimensione processuale, sia in quella prestazionale.
PARTE TERZA
1. L’ APPROCCIO INDUTTIVO
3. L’APPRENDIMENTO COOPERATIVO
Quest’ultimo punto è alla base dei vari modelli proposti dalla letteratura, perché insegna a
lavorare in gruppo. Esso si differenzia da un qualsiasi aggregato di persone, tenute insieme da un
compito condiviso, per i seguenti requisiti:
interdipendenza positiva fra i membri del gruppo;
responsabilità condivisa dei risultati;
possibilità di operare ‘gomito a gomito’;
possesso di abilità sociali basilari per l’interazione in un gruppo;
opportunità di autoverifica del proprio lavoro.
5. IL GIOCO DI RUOLO
6. L’INSEGNAMENTO RECIPROCO
Nel caso specifico qui analizzato, la metodologia in oggetto è applicata allo scopo di promuovere
l’apprendimento di alcune capacità strategiche connesse alla comprensione del testo; tali abilità
sono ‘di secondo livello’, utili per approcciarsi alla lettura come utenti esperti e non ingenui.
L’expertise (=perizia) richiama il concetto di competenza, perché di natura strategica e perché
implica anche risorse extracognitive. L’insegnante, allora, si configura come modello esterno, in
grado di attivare, grazie alla sua esperienza, un insieme di strategie di secondo livello che
migliorano la prestazione. L’insegnamento, nel suo complesso, si qualifica come ‘reciproco’
perché, se in una prima fase è l’insegnante a offrire un modello esperto della competenza
richiesta, verbalizzando ad alta voce i processi che compie per avvicinarsi al testo e captarne il
significato, successivamente il ruolo di docente è assunto a turno dagli alunni, chiamati a
riprodurre il ruolo e la prestazione dell’insegnante, personalizzandolo progressivamente;
l’insegnante fornisce a sua volta un feedback e sollecita l’uso delle modalità esperte.
In generale, dunque, l’apprendistato cognitivo è un’esperienza vicaria basata su una progressiva
autonomia del soggetto nello svolgere una determinata operazione, a partire dal confronto con un
modello di competenza esperta. Si tratta di un’esperienza di sostituzione del modello esperto,
passando dall’imitare quest’ultimo al rielaborarlo in maniera personalizzata. Il principio di fondo è
che, rappresentando la competenza esterna una forma di sapere pratico, essa non può che essere
insegnata se non tramite il suo esercizio, anziché parlandone in generale. Il compito
dell’insegnante, allora, sarà quello di fornire il modello esperto di una determinata prestazione
(modelling), mostrando come essa si svolge nel concreto; in secondo luogo, egli deve fornire
un’impalcatura allo studente, affinché egli eserciti autonomamente quella competenza
(scaffolding), definendo passaggi chiave, uno schema di base e un diagramma di flusso; in terzo
luogo, deve assistere lo studente nella sua prestazione, fungendo da tutor; poi, deve attenuare il
suo supporto, monitorare ancora e dare un feedback, chiamandolo infine a una riflessione
personale rispetto all’esperienza compiuta. Il ruolo del docente, nel complesso, risulta quindi
amplificato. I problemi, dal canto loro, possono essere la tentazione studentesca dell’imitazione
passiva, la distanza coi modelli di lavoro tipicamente scolastici (donde una difficoltà organizzativa
generale) e, infine, il carattere eminentemente situato del risultato raggiunto, che sarà quindi
difficile trasferire in altri contesti. I passaggi chiave della metodologia saranno:
1. indicazione del compito da svolgere e dei relativi traguardi formativi;
2. esecuzione del compito da parte del soggetto esperto;
3. esplicitazione ad alta voce dei processi logico-cognitivi e operativi sottesi al compito;
4. richiesta all’allievo di svolgere il compito richiesto (nel caso specifico, anche conferendo
all’allievo l’incarico di essere a loro volta insegnanti);
5. assistenza e sostegno allo svolgimento del compito da parte dell’allievo, anche da parte di
membri del gruppo dei pari;
6. riflessione sulla prestazione svolta, stimolando gli allievi a riflettere sul proprio operato;
7. prosecuzione del lavoro con gli altri componenti del gruppo;
8. consolidamento della competenza agita e, se possibile, suo trasferimento ad altre
situazioni.
7. L’APPROCCIO METAFORICO
LA DIMENSIONE SOCIALE
Si tratta della dimensione che considera tutte le relazioni interne alla scuola. Allo scopo di intessere
relazioni di spessore, saranno importanti la valorizzazione della professionalità degl’insegnanti
(ognuno dei quali va considerato portatore di professionalità e competenze specifiche) e
l’istituzione di un clima socio-relazionale che consenta sia di sviluppare buoni rapporti fra tutte le
diverse componenti della scuola, sia di allacciarne con i genitori. La dimensione sociale chiama
infine a contemperare le diversità degli alunni, che in certi casi possono essere speciali, in altri
temporanee.
LA DIMENSIONE POLITICO-CULTURALE
Questa dimensione chiama in causa le scelte operative che il collegio docenti intende adottare
rispetto ai rapporti della scuola con l’esterno. In tal senso, è possibile parlare di:
CONTINUITA’ ORIZZONTALE, costruita rispetto al contesto territoriale circostante;
CONTINUITA’ VERTICALE, architettata rispetto ai diversi ordini di scuola: non si tratta
soltanto di eliminare i passaggi bruschi fra un livello scolastico e l’altro, ma anche e
soprattutto di definire obiettivi a lungo termine, dall’ingresso a scuola fino al termine del
percorso scolastico obbligatorio. In vista di ciò, sarà essenziale pianificare ed attuare
momenti di collegialità verticale.
Grande importanza è poi rivestita dalla DOCUMENTAZIONE EDUCATIVA E DIDATTICA,
che contribuisce in maniera decisiva a costruire l’identità dell’istituto. All’interno della scuola, la
documentazione sarà utile per:
consentire agl’insegnanti di conoscersi reciprocamente;
accrescere lo scambio e la professionalità collegiale;
esercitare lo spirito critico degli alunni, se compilata e utilizzata insieme a loro.
All’esterno, invece, la sua importanza sarà legata alla funzione di dialogo e confronto coi genitori,
di presentazione delle logiche d’istituto alla realtà territoriale circostante e di rendere trasparente
l’amministrazione della scuola, onde entrare a far parte di eventuali procedure di accreditamento.
Infine, la dimensione politico-culturale racchiude in sé anche la necessità di assumere decisioni
rispetto alla pianificazione di eventuali progetti di ricerca e di sperimentazione, intendendo per
ricerca non tanto il tentativo di soluzioni innovative, bensì l’adesione a uno stile di ricerca che
richiede una definizione trasparente degli obiettivi che s’intendono perseguire.
LA DIMENSIONE FUNZIONALE
Si tratta della dimensione che riguarda le decisioni pratico-organizzative che il collegio docenti è
chiamato ad assumere in vista di una disposizione organica e coerente delle proprie risorse umano-
materiali. La dimensione in oggetto è fondamentale nell’epoca dell’autonomia scolastica, e per
poter funzionare deve stimolare lo spirito critico e la partecipazione degli alunni. Il collegio
docente, in questa fase, dovrà occuparsi di questioni varie:
COMPOSIZIONE DELLE CLASSI/SEZIONI, privilegiando soluzioni che permettano di
realizzare realtà aperte, come parti cioè di comunità più ampie, in cui intessere scambi
numerosi e reali. A tale scopo, il criterio fondante è quello dell’individualizzazione: a partire
dai bisogni formativi e dalle caratteristiche cognitive di ciascun alunno, i percorsi
d’insegnamento-apprendimento dovranno potersi diversificare per consentire a tutti il
raggiungimento di buone competenze; bisognerà dunque riflettere su un impiego intelligente
di risorse spaziali e temporali della scuola;
ORGANIZZAZIONE DELLE ROUTINE QUOTIDIANE, importanti affinché ogni
alunno imparti a gestire le proprie autonomie personali;
SCELTE DELLE STRUMENTAZIONI DIDATTICHE, il cui acquisto dovrà essere il
punto di partenza per l’individuazione di strategie d’impiego capaci, fra l’altro, di accostare
loro la tradizionale dotazione cartacea.
DIDATTICA E PROGRAMMAZIONE
Il termine utilizzato più spesso per parlare d’intenzionalità nell’ambito della didattica è quello di
‘programmazione’. In generale, ‘progettazione’ ha un significato più ampio, indicante finalità
educative da perseguire, scelte metodologiche da compiere e orientamenti per la valutazione
complessiva delle azioni realizzate. Con ‘programmazione’, invece, si fa riferimento a un’ idea di
operatività più specifica, volta alla definizione di tempi e fasi del progetto e ad inquadrare obiettivi,
contenuti e attività, metodi e strumenti, tempi e spazi. Le programmazioni didattiche, perciò, sono
necessariamente al plurale, e risultano utili per definire traguardi e percorsi che gruppi di alunni e
docenti sono chiamati a raggiungere. L’importante sarà preservare una forma d’equilibrio tra
l’esigenza di tener conto dei soggetti e quella di garantire a tutti la trasmissione delle competenze
fondamentali. In tal senso, il movimento della didattica potrà essere definito come ciclico e
dinamico, essendo essa necessariamente propensa a ripensarsi di continuo e ad aggiornarsi
(programmare non significa infatti fissare e cristallizzare).
LE VIE DELL’INDIVIDUALIZZAZIONE
Le finalità educative contenute nel POF sono lo sfondo e l’oreintamento delle programmazioni
didattiche, di cui indicano la direzione generale (non quella specifica). Le competenze di base, in
effetti, sono oggi l’elemento centrale delle politiche scolastiche per due ordini di motivi:
sono ‘strutture portanti’ per supportare la costruzione di competenze ulteriori, più elevate;
garantiscono al soggetto cui vengono erogate il possesso di abilità strettamente funzionali al
vivere sociale, alla comprensione delle sue regole, all’esercizio di capacità interpretative e
critiche, allo scopo di poter interagire col contesto socioculturale di riferimento, adattarvisi,
selezionarlo e modificarlo (GALLINA).
L’impartizione delle competenze di base deve quindi essere preliminare rispetto a qualsiasi ulteriore
approfondimento tematico aperto a scuola: si parla, in contesto educativo, di individualizzazione.
La seconda direzione, quella dello sviamento verso percorsi e lidi secondari, è interpretabile alla
luce del concetto di personalizzazione, e cerca di valorizzare i talenti personali più specifici di cui
ciascuno è in possesso. Tra l’individualizzazione e la personalizzazione deve sussistere una forma
di equilibrio; lo scopo ultimo è quello di evitare che, come continua a verificarsi troppo spesso nel
contesto della scuola italiana, l’istituzione scolastica stessa di fatto riproponga, se non addirittura
rinverdisca, le disuguaglianze esistenti a livello di contesto socioculturale di provenienza dei singoli
alunni.
PER UNA PROGRAMMAZIONE DIDATTICA DELL’INDIVIDUALIZZAZIONE
L’approccio dell’individualizzazione sposta sulla scuola la principale responsabilità del successo
dello studente, in quanto prevede che l’organizzazione scolastica adegui l’insegnamento alle
differenti caratteristiche di ciascun alunno, in vista del raggiungimento di competenze ritenute
irrinunciabili per tutti. Così facendo, almeno auspicabilmente, si dovrebbe pervenire ad uno
spostamento della curva gaussiana di distribuzione forzata degli allievi (con appiattimento della
quasi totalità di loro sui valori medi della scala di valutazione) verso una distribuzione di risultati
elevati per la maggior parte di costoro. Il presupposto teorico è costituito dall’ipotesi bloomiana del
mastery learning, secondo cui tutti sono in grado di acquisire le competenze fondamentali del
curricolo, purché inseriti in contesti dove i tempi e le metodologie della didattica risultino adeguati.
Di conseguenza, il corpo docenti dovrà prestare attenzione specifica per quanti evidenzino difficoltà
maggiori durante il percorso didattico e, in generale, contribuire e rendere la scuola un luogo
democratico, che non rafforzi le diseguaglianze socioeconomiche di partenza degli alunni ma si
ponga quale punto di riferimento indipendente per la formazione di ciascuno di loro.
L’INDIVIDUALIZZAZIONE POSSIBILE
Troppo stesso, il concetto d’individualizzazione è stato banalizzato e distorto con l’avvicinamento
al significato di ‘omologazione’ o quello di ‘rigidità’. Al contrario, lo scopo che essa si prefigge di
raggiungere è consentire allo stesso tempo:
il DIRITTO ALL’UGUAGLIANZA (quella dei traguardi formativi base comuni);
il DIRITTO ALLA DIVERSITA’ (quella dei bisogni e delle caratteristiche cognitive di
ciascun alunno).
Fra queste due dimensioni si cerca dunque di trovare un equilibrio di compromesso. Evidentemente,
la c.d. personalizzazione è invece meno faticosa e, soprattutto, delega alla scuola un carico minore
di responsabilità, giacché orientata esclusivamente sul diritto alla diversità.
Dal canto suo, l’individualizzazione canonicamente intesa implica la necessità d’interrogarsi
continuativamente sulla maggiore o minore qualità della didattica che si eroga, e impone
all’insegnante di conferire intenzionalità progettuali alle proprie azioni educative; momento
essenziale a tale scopo sarà quello dell’incontro collegiale con le altre componenti del consiglio di
classe di turno. L’attuazione di una didattica consapevole, preludio a qualsiasi strategia
d’individualizzazione, poggerà sulle competenze seguenti:
osservazione e valutazione diagnostica delle (meta)competenze degli alunni;
definizione di obiettivi specifici d’apprendimento a partire da indicazioni nazionali;
organizzazione di contesti didattici stimolanti;
allestimento di didattiche specifiche per le singole aree disciplinari:
gestione delle dinamiche sociocognitive degli alunni;
pianificazione dei tempi d’insegnamento e della relativa verifica;
previsione di adeguate strategie di recupero;
costruzione e impiego di strumenti per la verifica sommativa, anche in funzione di standard
d’apprendimento (inter)nazionali.
Le competenze appena elencate, com’è chiaro, dovrebbero rppresentare una continua
preoccupazione sia per i responsabili istituzionali a livello centrale, sia per i singoli insegnanti.
si svolge nel mentre del percorso didattico, i cui obiettivi devono essere stati esposti in
partenza con sufficiente chiarezza;
serve a ricavare informazioni analitiche su specifici apprendimenti dell’alunno relativamente
ad altrettanto specifici indicatori;
i suoi risultati devono servire a progettare e ad implementare adeguate strategie di recupero
e consolidamento;
i dati che se ne estrapolano dovrebbero rimanere confinati ad un ambito di relazione
‘privata’ fra insegnante e alunno, impedendo che possano trasformarsi in strumenti
d’etichettamento per gli alunni stessi, come tipicamente accade a seguito della valutazione
sommativa;
non deve quindi concludersi con alcun voto, bensì soltanto con l’individuazione degli
eventuali errori dell’alunno, che dovranno essere considerati una fondamentale risorsa per
l’intervento didattico (AIRAISAN: nella valutazione formativa, gli studenti devono essere
liberi di commettere errori, senza perciò temere di esserne penalizzati; se si ricorre alla
valutazione tradizionale in sede formativa, si rischierà A) di convincere gli studenti della
loro negatività in termini di rendimento e B) di impedire loro un possibile risollevamento
della media conclusiva.
identificazione collegiale, fra gl’insegnanti, dei tempi e degli spazi da dedicare alla
valutazione formativa;
scelta e/o costruzione della prova formativa di turno, che potrà essere sia strutturata sia
semistrutturata;
correzione rapida delle prove formative svolte, così da poter apportare gl’interventi di
correzione e recupero in tempi adeguati;
discussione in classe dei risultati, con specifiche analisi degli errori commessi dagli studenti
(dialogo educativo o esplicitazione dialogica).
Grazie a momenti siffatti, potrà prendere avvio la fase di recupero individualizzato, che dovrà
tenere conto dell’importanza di:
dare l’opportunità agli studenti di lavorare per piccoli gruppi, variabili e accomunati da
difficoltà consimili;
predisporre percorsi ad hoc per ciascun gruppo;
non privare nessuno dei gruppi del sostegno o tutoring da parte del docente;
consentire tempi di lavoro distesi ai gruppi in difficoltà, prevedere e costruire (nel mentre)
attività di consolidamento per quelli invece di maggior successo.
Man sollte nicht nur auf die von den Studierenden erreichten Ergebnisse, sondern auch auf das von
der Schule dazu benutzte Geld und die Ressourcen allgemein hinweisen.
INTRODUZIONE
Il libro cerca di prendere in esame l’ identità, i pensieri e i problemi dei figli degli immigrati: spesso
padroni (o quasi) del nostro codice culturale, frequentemente sotto i nostri occhi, essi, in verità,
faticano ad imporsi a noi e alla nostra attenzione, così da essere costretti a vivere in una ‘gabbia
del silenzio’, che è appunto compito del volume cercare di allentare.
La prima parte del testo esamina alcune chiavi di lettura della realtà in cui ci troviamo,
osservandola nelle sue prospettive di agio e disagio, globalizzazione e localismi, povertà e
benessere; essa ci offre sia opportunità di barricarci in costruzioni difensive, sia possibilità di aprirci
al nuovo, all’ insapettato e al possibile.
Nella seconda parte, gli autori riportano una serie d’ interviste svolte con immigrati in età scolare,
tra i 14 e i 18 anni, per ancorare alle esperienze del vissuto le idee che vengono proposte.
L’ uscita dal silenzio è ancora più macroscopica nella terza parte, in cui faranno la loro comparsa
pezzi e interventi di giovani immigrati, anche lavoratori.
Nella parte finale, gli autori offrono alcune riflessioni di natura pedagogica sulle esperienze
raccontate nelle pagine precedenti, convinti che, in un contesto segnato sempre più dalle paure e
dall’ individualismo, cercare di reimpostare alcuni elementi della società come, appunto, la
generale percezione che si ha dei giovani immigrati.
Nonostante le perifrasi ‘minori immigrati’ o ‘giovani d’ origine immigrata’ siano di per sé più
consone se riferite ai minori nati altrove e migrati in momenti successivi, per influenza
anglosassone la letteratura scientifica ha ormai reso invalso parlare anche di essi con l’ espressione
‘seconda generazione’.
E’ poi chiaro che, tra i due poli indicati, si collocano numerose scelte di vita reale volte a far
interagire origine e differenza culturale, con opportunità che si presentano al ragazzo di sentirsi
sostenuto e incoraggiato nel suo percorso di crescita.
In definitiva, la lettura delle diverse buografie ci mostra chiaramente che i casi dei giovani
‘stranieri’, sufficientemente ben integrati nella realtà italiana, hanno sempre a che fare con
opportunità d’ aiuto offerte da gruppi o associazioni, oppure palesatesi per via di adulti attenti e
capaci di creare interessi; i giovani, a loro volta, hanno saputo valorizzare quelle opportunità sul
piano educativo.
Evidentemente, lo ius sanguinis o ‘modello tedesco’ cerca di fondarsi su una condizione oggettiva,
il sangue, dunque sulla paternità o sulla maternità che vengono collegate all’ etnia, alla cultura,
alla lingua. Lo ius soli o ‘modello francese’ presuppone, invece, una nozione di cittadinanza da
valutare in rapporto alla vita di un individuo e fa leva sulla capacità d’ accoglienza del territorio
nazionale di turno e su quella d’ attrazione della cultura locale. Eccettuata la Francia, quasi tutti gli
Stati d’ Europa concedono la cittadinanza sulla base dello ius sanguinis, il numero dei cui
estimatori si è notevolmente allargato negli ultimi anni perché, a seguito dell’ accrescimento dei
flussi migratori, esso è stato generalmente percepito come barriera di salvaguardia dell’ identità
nazionale e della sua possibilità di non mescidarsi al mosaico di quelle veicolate dagli stranieri.
Che lo Stato di turno trascelga l’ una o l’ altra via, essa avrà chiari e profondi impatti sull’ esistenza
del giovane di seconda generazione, la cui aspirazione alla cittadinanza è sempre elevata, tanto più
dopo una pressoché complessiva e avvenuta integrazione ai modelli culturali della realtà di
riferimento (GUERZONI).
Com’ è possibile, nel concreto, tutelare la pluralità culturale e difendere, allo stesso tempo, le
diverse e specifiche identità? Indicazioni di lavoro e di sviluppo delle relazioni fra cittadini possono
essere desunte dal saggio di YEHOSHUA, imperniato sul concetto dell’ identità ebraica in una fase
di grave crisi interna (nelle relazioni fra ebrei e fra ebrei e arabi-israeliani) ed esterna (fra isrealiani
e arabi, fra israeliani e palestinesi). Secondo YEHOSHUA, la fine del conflitto e l’ apertura alla fase
di una ‘comunità di dialogo’ esige l’ apporto costruttivo di intellettuali ed artisti israeliani, a
prescindere dalla loro posizione ideologica e identitaria; l’ appartenenza a quella comunità non
dovrebbe avvenire su basi che non siano quelle della buona volontà, finalizzata a costruire ponti e
contatti fra culture, suscitare il dialogo fra gruppi sociali e combattere qualsiasi forma d’
isolazionismo.
Secondo l’ autore del contributo, la comunità di dialogo può diventare paradigma della convivenza
civile nella realtà globalizzata, convivenza in cui deve trovare posto anche un robusto personale
pedagogico, capace di creare ponti fra le diverse sponde della realtà sociale e culturale.
Parliamo allora di una pedagogia della presenza, perché come educatori ci poniamo nei confronti
dei ragazzi con tutta la carica del nostro ‘esserci’, entrando in contatto con l’ altro, ascoltandone
attivamente le istanze e accettando la sfida del confronto; la presenza va intesa allora come
relazione, frequentazione e intreccio di storie. Provocare trasformazione, crescita e cambiamento:
è questo il compito pedagogico che giustifica la presenza dell’ educatore insieme ai ragazzi. Ciò
che emerge dalle parole dei ragazzi di seconda generazione è la necessità d’ aprirsi all’ incontro
con la ricchezza e le specificità di ciascheduno; il riconoscimento reciproco si configura allora come
il primo passo che va oltre le categorie costituite a priori.
Un secondo quesito che ci dobbiamo porre può essere formulato nei seguenti termini: come
educare i giovani e i ragazzi di fronte ad una società sempre più competitiva, individualista e
cinica, la cui logica è guidata inesorabilmente dall’ ideale del profitto e pare scoraggiare senso e
progettualità basati su parametri diversi? Un primo tentativo da esperire è quello di rieducare i
ragazzi a sognare, a desiderare e a prefiggersi obiettivi elevati: la società in cui viviamo, infatti,
anziché al desiderio educa alle ben più volgari ‘voglie’, cosicché produce più danni che vera
formazione. Il tessuto sociale e comunitario andrà ricostituito tramite i legami, da intendersi non
come dipendenza ma come corresponsabilità e necessità di prendersi cura l’ uno dell’ altro.
Ognuno di noi dà un senso al reale che incontra autenticandolo e divenendo corresponsabile della
sua costruzione. La relazione è il fondamento della nostra esistenza e della nostra conoscenza,
dunque si qualifica come il punto di partenza. Il soggetto è inserito in un flusso complesso di
relazioni, è sempre condizionato da un ambiente, da una storia, da una cultura, da esperienze
diverse; da esse egli è, non diremo influenzato, visto che esiste un margine di scelta e di libertà,
ma sicuramente condizionato. Per questo, diciamo che, allo scopo di comprendere davvero i
comportamenti delle persone, non possiamo fermarci all’ atto in sé, bensì cogliere la visione del
mondo dietro l’ atto, e per farlo dobbiamo partire dalle singole storie di vita, così da avere i dati
necessari per l’ implementazione di un progetto educativo. In questo quadro, l’ educazione s’
inserisce come necessità di dare alternative possibili, e la rieducazione come stimolazione d’
esperienze nuove tramite cui la persona possa sviluppare una nuova e diversa visione del mondo.
Perché ciò accada, sarà compito dell’ educatore:
considerare il ragazzo nella sua globalità, prestando attenzione a tutte le dimensioni della
sua persona;
essere operativo e non tirarsi indietro;
investire nella relazione reciproca, cogliendo e valorizzando i messaggi inviati dall’ altro;
vivere (nel)la dimensione della quotidianità, visto che lì si giocano la relazione e l’
operatività;
tenere insieme la dialettica individuo-società;
conoscere tecniche educative e d’ animazione, in grado di tradurre nella pratica ciò che è
stato appreso.
L’ educatore dovrà altresì rifiutare ogni forma di egocentrismo conoscitivo, ossia problematizzare il
punto di vista con cui è abituato a guardare il mondo; l’ obiettivo sarà quello d’ imparare a
prendere in considerazione entrambi i punti di vista. Lo spazio pedagogico va allora individuato
nelle (limitate) possibilità che il soggetto ha di scegliere e di agire, tanto individualmente quanto
collettivamente, come base del cambiamento; bisogna tendere al superamento dei
condizionamenti imposti da noi stessi, dagli altri e dal mondo, educandoci alla differenza come
educazione al demonismo, ossia l’ energia biopsichica posseduta -in diversa misura- da ciascuno di
noi (condizione data) ma suscettibile di essere ampliata in base alla direzione che si trasceglie e s’
intraprende. Parti costitutive del demonismo sono: la libertà, che è decostruzione dai vincoli; la
nobiltà, che è essere in grado di vivere le dimensioni più impegnative della vita; la lievità, che è la
volontà di donare. Quella fondata su questi concetti è la c.d. pedagogia problematicista, che non
va considerata come utopistica, essendo anzi basata sulla dimensione dell’ oggi; la sua peculiarità,
piuttosto, è quella per cui ci sposta a considerare le cose un po’ al di là della prospettiva che
abtiualmente usiamo nei loro confronti. Essa, promuovendo nel mondo di oggi una forma d’
impegno, automaticamente ne sollecita anche una di resistenza.
Un ultimo riferimento va fatto al tema dell’ interculturalità. Essa è gravemente osteggiata dal
diffondersi del pregiudizio, che -scrive ALLPORT-, pur non essendo costruito su basi oggettive e
verificabili, è molto facilmente in grado di pervenire a generalizzazioni a partire da elementi di
natura per lo più emotiva. Si configura dunque come una forma cognitiva comune a tutti,
caratterizzata da conclusioni semplicistiche e da inferenze non sempre legittime. Il pregiudizio,
oltre che per il singolo individuo, ha un valore anche nella forma di conoscenza collettiva, in un
piano dunque psico-sociale e intersoggettivo. Proprio perché rafforzati dal contesto, oltre che in
quanto fondati sul piano emotivo, i pregiudizi assumono il carattere di giudizi dogmatici, resistenti
al cambiamento e alla discussione. E’ allora chiaro che, per combattere il pregiudizio, occorre agire
educativamente tanto sull’ animo umano e sulla persona, quanto sul sistema di pensiero e sulla
cultura diffusa; ma ciò è tanto più difficile nell’ epoca corrente del mondo occidentale, in cui è
sempre più affermata la tendenza ad associare elementi negativi e inquietanti alla dimensione dell’
alterità e della diversità. La pedagogia interculturale, dal canto suo, cerca di ragionare in termini di
uguaglianza e comunanza fra gli uomini anziché di diversità, e si batte per costruire ponti anziché
muri: se è vero che, fra gli esseri umani, esistono differenze storiche e culturali, è anche innegabile
che vi sono comunanze, legate al fatto che tutti siamo uomini, tutti proviamo emozioni, tutti
sperimentiamo sentimenti e tutti abbiamo, oltre che l’ aspirazione, anche il diritto a vivere. Per
questi motivi, il raggio d’ azione proprio della pedagogia interculturale non è ristretto all’ ambiente
scolastico, dove pure esso è tipicamente relegato; al contrario, essendo la disciplina portata a
promuovere l’ ottica del decentramento come modalità d’ approccio al mondo globalizzato, essa
abita tutti gli spazi in cui si promuovono l’ interazione, il dialogo e la valorizzazione della diveristà
come ricchezza. Secondo GENOVESE, i fondamenti alla base di una prospettiva interculturale sono:
i principi delle differenze e del pluralismo, che rompono le direzioni monoliticamente uniche
della chiusura;
il principio del dialogo, che contempera l’ ascolto e l’ interazione in una relazione
compartecipata, oltre che reciproca;
la capacità, necessaria perché il dialogo possa attuarsi, di provare empatia, così da
garantire pariteticità e libertà a chiunque partecipi a quel dialogo;
il principio della tolleranza, da intendersi non come la sopportazione priva di relazioni, ma
come base della convivenza e del rispetto delle reciproche diversità. Essa deve fungere da
punto di partenza per il riconoscimento dei diritti a colui che è altro.
Le risposte dei docenti interessati da burnout sono molto varie, ma solo una piccola parte di loro
sa affrontare razionalmente il problema e comincia un percorso di recupero di sé stessa; al
contrario, sono parecchi quelli che abbandonano la professione, quelli che si rifugiano in uno stato
permanente di apatia e, soprattutto, quelli che iniziano a consumare compulsivamente palliativi del
calibro di caffè, alcolici o farmaci.
Se le ricerche condotte nel mondo anglosassone all’ inizio degli anni Novanta individuavano
soprattutto nel novero delle relazioni interpersonali intrattenute a scuola, nell’ organizzazione
scolastica stessa e negli ambienti di lavoro le principali cause della situazione, nell’ Italia di oggi a
ciò vanno aggiungendosi -e talora sostituendosi- i difficili rapporti con la componente genitoriale,
ad un tempo delegante e intransigente, l’ inserimento di alunni con deficit nelle classi, l’ obbligo di
utilizzo di strumentazioni informatiche non sempre padroneggiate a dovere, la svalutazione sociale
del mestiere d’ insegnante e la caratterizzazione in senso multiculturale del gruppo classe; fattori,
evidentemente, attinenti tutti alla dimensione socio-culturale in cui l’ insegnante agisce.
POSSENTI afferma che il bene comune è sia fine di ogni società politica, sia principio
costitutivo della stessa; il suo contenuto, secondo lo studioso, è regolato dal diritto naturale e
fa riferimento ai diritti dell’uomo. Viene quindi istituito un collegamento fra l’idea di bene
comune e quello di comunità: già HUSSERL, nel parlare di società, menzionava il concetto di
comunità intersoggettiva, avente l’obiettivo di realizzare un mondo comune nel quale ogni
esperienza sia consapevolmente frutto dell’azione intenzionale svolta da più persone (realtà
oggettiva). Che le istituzioni attualmente non recepiscano stimoli siffatti, risulta chiaro a
partire da più angolazioni: si registrano, infatti, fenomeni di crisi divergenti, o dicotomiche, in
settori come la demografia, la geografia urbana, quella rurale, la politica tout court o la
religione, con fenomenologie opposte ma ugualmente gravi e problematiche fra realtà più
sviluppate e realtà più arretrate (cfr. tasso d’ obesità VS sottonutrizione). Secondo MORIN,
è compito della politica dell’umanità e della politica della civiltà, lottare contro i pregiudizi per
proteggere le culture dalle influenze negative dell’ imperialismo economico, mirante a
separarle. Il filosofo definisce la cultura come l’ insieme delle credenze e dei valori all’
interno di una determinata comunità, laddove la civiltà è il processo per il cui tramite
credenze e valori si trasmettono da una comunità all’ altra. A suo giudizio, è necessario
accogliere un indirizzo ‘meticciato’ contrapposto alla via dello sviluppo, che, paradossalmente,
mentre promuove esso in un luogo, crea sottosviluppo altrove: si parlerà allora, nel legame
indissolubile fra unità e diversità, di umanesimo planetario. Procedere per tale via,
significherà riformulare il senso che attribuiamo a ciascuna esperienza, imparando a vivere
esistenze fondate sull’ autenticità.
Che cosa indica il termine ‘autenticità’? Come dimostra MANCUSO, la partita della vita
autentica si gioca sul concetto di libertà: essere autentici vuol dire saper fare buon uso della
propria libertà, dote che è compito dell’ educazione insegnare. A tal proposito, ricorderemo
che ancora MORIN ha coniato il termine ‘relianza’ (propriamente ‘unione dell’ alleanza’ o
viceversa), basata su un’ etica per cui la relianza indica tutto ciò che unisce e promuove
solidarietà. La causa dell’ umanità inautentica va ricercata nel narcisismo, dunque nella
tendenza ad avere troppa fiducia in sé stessi e a privilegiare gl’ interessi propri a quelli altrui
o comunitari. L’ uscita dal narcisismo dilagante potrà allora avvenire tramite un sistema
educativo basato sulla relianza, e dunque in grado di restituire all’ uomo la dimensione della
complessità epistemologica, oltre l’ iper-semplificazione che attualmente impera e dunque al di
là della separazione in singoli elementi, per un ritorno alla complessità dell’ insieme, del
globale.
Nell’ architettare il nuovo umanesimo pedagogico, quale ruolo dev’ essere assunto dalle
istituzioni educative? Possiamo partire dalle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola
materna e del primo ciclo d’ istruzione, emanate nel 2012: la scuola, si legge nelle Indicazioni,
dovrà fra l’ altro perseguire gli obiettivi seguenti, definiti prioritari:
insegnare a ricomporre i grandi oggetti della conoscenza, superando la frammentazione
disciplinare e riscoprendo i c.d. quadri d’ insieme;
promuovere i saperi propri di un nuovo umanesimo, p. es. cogliere aspetti essenziali dei
problemi, saper vivere nell’ attaule, frequentissima e costante dimensione del
cambiamento del mondo;
diffondere la consapevolezza che i grandi problemi dell’attuale condizione umana
possono essere affrontati per il tramite di una stretta collaborazione bensì fra
nazioni, ma anche fra discipline e culture.
Il passo successivo sarà quindi capire come, nel progetto (ri)educativo che urge, la Pedagogia
speciale potrà esercitare un ruolo, e comprendere quale esso sarà.
L’ ICIDH appariva vincolato ad una impostazione medica esplicitata nella distinzione fra
menomazione, disabilità e handicap. Per menomazione, s’ intendeva una qualsivoglia perdita, o
atipicità, di strutture o funzioni psicologiche, fisiologiche o anatomiche; per disabilità, s’
intendeva l’ insieme degli effetti di quelle atipicità, dunque le limitazioni della capacità di
compiere un’ attività in base a parametri ritenuti ‘normali’, tipici. Una classificazione siffatta,
ponendo la menomazione come causa della disabilità, costringeva ad un’ interpretazione della
persona con disabilità come a quella di una persona esclusivamente vincolata ai suoi limiti,
impossibilitata a partecipare e a contribuire alla vita della comunità d’ appartenenza, perciò
stesso bisognosa di assistenza in quanto non produttiva e dipendente.
Una nuova interpretazione degli studi si ebbe con la distinizione fra gli aspetti biologici e
quelli sociali: l’ organizzazione sociale iniziò ad essere considerata causa dello svantaggio o
delle restrizioni nell’ esecuzione delle attività. La stessa Commissione Europea, nel 2003, ha
riconosciuto che è la società a costruire il concetto di disabilità, erigendo una serie di
barriere ambientali auspicabilmente da abbattere ormai.
Dopo lo sviluppo e la proposta dell’ ICIDH-2, sostanzialmente portato anch’ esso ad
evidenziare il nesso fra deficit e società, il modello dell’ ICF ha finalmente partorito un’
organica concezione bio-psico-sociale della disabilità, inibendo qualsiasi possibilità di
differenziazione netta tra gli ambiti sociale e biologico. Lo stato di salute della persona,
secondo l’ ICF, deve essere considerato sulla base di tre fattori e della relativa interazione:
dotazione biologica;
fattori contestuali esterni;
dimensione psicologica (autostima, identità, motivazione, autodeterminazione ecc.).
E’ un approccio rivoluzionario, che permette di correlare tra loro stato di salute e contesto,
definendo così la disabilità come condizione di salute evidenziantesi all’ interno di un contesto
favorevole. Capiamo così che è impossibile separare le azioni del soggetto dalle circostanze in
cui esse si realizzano (‘teoria del campo’ proposta da LEWIN).
Una visione ancora più articolata è poi quella che fa riferimento all’ approccio alle capabilities,
che sono la possibilità di fuzionamenti variabili da stadi semplici (es. buona salute o
alimentazione completa) ad altri più complessi (es. nozione di felicità). Seguendo l’ economista
indiano SEN, diremo che l’ approccio alle capabilities definisce la realizzazione del benessere
da parte delle persone come equilibrio fra potenzialità possedute ed opportunità espresse. La
qualità della vita, allora, dovrà esserre valutata in termini di capacità di conseguire
funzionamenti di valore.
Un’ ulteriore e recente riflessione è quella data dall’ approccio dei Disability Studies,
sviluppatisi soprattutto nell’ ambito angloamericano degli ultimi quarant’ anni e propensi a
interpretare la disabilità a partire dalla prospettiva del modello sociale: la persona disabile
vive in società, dove viene giocato il suo ruolo attivo e dove dunque si possono generare i
presupposti della sua discriminazione. I Disability Studies evidenziano la necessità di
comprendere la società all’ interno della quale la persona disabile vive, rompendo il
cortocircuito logico per cui avere una menomazione provoca l’ essere disabile. L’ obiettivo di
questa corrente, dunque, è quello di promuovere il cambiamento della societò tramite una
partecipazione attiva delle persone disabili nelle loro scelte, dopo aver individuato nella
società gli aspetti legislativi, culturali ecc. che sono fonte di discriminazione evitando di
operare con un approccio di tipo medico ed agendo piuttosto sulle condizioni provocanti la
discriminazione (es. la disoccupazione) e producenti l’ esclusione dalla cittadinanza attiva,
causando dipendenza. Tutto ciò sottolinea il forte slancio etico e politico che contraddistingue
i Disability Studies.
Nel 2008, nasce la SIPeS, Società italiana di Pedagogia Speciale, che riunisce i docenti
universitari impegnati della disciplina e i professionisti del settore; nel 2009, essa ha avviato
cinque gruppi di ricrerca:
la Pedagogia Speciale nelle università italiane;
la formazione degli insegnanti;
l’ integrazione scolastica;
l’ integrazione sociale extrascolastica;
il problema epistemologico della Pedagogia Speciale.
Quei cinque ambiti di riflessione e ricerca sono parte essenziale del patrimonio odierno della
Pedagogia Speciale; si ricordi, infatti, che il fine ultimo della stessa è contribuire alla
costruzione di un’ idea di società che sia in grado di consentire a tutti, nessuno escluso, di
vivere una vita piena (BOCCI). La ricerca in Pedagogia Speciale dovrebbe assumersi il compito
di consegnare ai professionisti della scuola e a chi detiene potere decisionale, indicazioni
chiare e attuabili in ambito didattico, capaci di sollecitare politiche educative adeguate.
Prospettive di ricerca moderne sono:
l’EBE;
lo SV.
‘EBE’ è l’ acronimo di ‘Evidence Based Education’; il suo presupposto è che ogni ricerca
aspirante ad un impatto sociale, passi attraverso una completa esplicitazione delle proprie
assunzioni valoriali o scientifiche, attenendosi a ben definite procedure, così da risultare
trasparente a possibili valutazioni esterne. Esaminando il rapporto fra EBE e Pedagogia
Speciale, COTTINI e MORGANTI sottolineano i principi chiave della ricerca del settore:
fornire risultati significativi (efficacy research);
essere applicata nel contesto specifico, per poter coglierne tutte le variabili coinvolte
(effectiveness research);
essere collegata strettamente con la pratica (implementation).
Quanto al SV, l’ acronimo è per ‘Student Voice’: evidentemente, l’ approccio in esame -molto
poco conosciuto nel contesto italiano- valorizza il ruolo degli studenti nel processo educativo,
sollecitandone la partecipazione in quanto co-autori dello stesso e superandone la visione
tradizionale di fruitori passivi.
Il primo approccio fa riferimento alla possibilità di accogliere quasi tutti gli alunni con
disabilità entro il sistema ordinario; il secondo approccio è finalizzato a tentare una relazione
fra sistema ordinario e sistema speciale, che comunque agiscono separatamente; il terzo
prevede una netta compartimentazione fra gli stessi (e, in tal caso, è tipico che le figure
genitoriali siano provviste di un ampio margine di decisionalità in merito ai processi educativi,
che sono spesso basati su piani individualizzati). In Italia, la scelta definita con la Legge 517
del 1977 prevede una classe direzionale per tutti. Seguendo BOOTH e AINSCOW, diremo
che ‘integrazione’ è termine specifico per riferirsi ai bisogni degli alunni con disabilità,
‘inclusione’ è invece da riferire a tutti gli alunni.
2.1 L’ INCLUSIONE SCOLASTICA DALLA LEGGE 517 DEL 1977 ALLA DIRETTIVA SUI BES
(2012)
Nel 1962, venne emanata una legge volta ad istituire la scuola media unica, conferendole uno
spiccato carattere democratico. Essa, tra l’ altro, prevedeva classi differenziali, i cui alunni
sarebbero dovuti essere decretati da una Commissione annoverante, fra l’altro, due figure
mediche, una delle quali con espserienza e conoscenze in campo neuropsichiatrico, l’ altro
provvisto di saperi pedagogici.
Progressivamente, tuttavia, ci si allontanò dalle logiche di separazione: la Legge 118 del 1971
stabilì l’ istruzione dell’ obbligo nelle classi normali per mutilati e invalidi. Con la già citata
Legge 517 del 1977, si decise che la scuola dovesse attuare forme d ‘ integrazione a vantaggio
degli alunni portatori di handicap, tramite la prestazione d’ insegnanti specializzati, assegnati
loro in base ad un precedente Decreto firmato dalla Presidenza della Repubblica.
Progressivamente, l’ obbligo di dotazione di personale di sostegno si allargò alla scuola dell’
infanzia, a quella secondaria superiore e infine anche all’ università. Dobbiamo ricordare, più
nello specifico, che l’ innalzamento dell’ obbligo scolastico, stabilito nel 1999 con sua
conduzione a dieci anni di obbligatorietà, nello stesso anno fu fatto legalmente valere anche
per gli studenti con disabilità. L’ ultimo e più recente passo è stato la Direttiva Ministeriale
del 2012, dal nome ‘Strumenti d’ intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali (BES) e
ofganizzazione territoriale per l’ inclusione scolastica (Min. Profumo). Le maggiori critiche si
sono concentrate sulla vaga e troppo ampia definizione di BES: FOLGAROLO, infatti, ricorda
giustamente che, per come essi sono presentati dalla Direttiva, altro non se ne delinea se non
l’ ennesimo modello clinico, e non pedagogico. Sotto il nome di BES, il Ministero ha voluto
indicare un’ ampia gamma di soggetto che, a suo dire, sono afflitti da Bisogni specifici: da
quelli con svantaggio sociale e culturale, a quelli con particolari disturbi dell’ apprendimento,
alla difficoltà della non conoscenza della cultura e della lingua italiane. E’ però stato rilevato
che, per categorie siffatte, sarebbe più adatta la definizione di ‘svantaggio scolastico’; il
‘bisogno educativo’, infatti, sembra di per sé appartenere a ciascun alunno. Il secondo punto
della Direttiva, dal canto suo, contiene indicazioni atte a costituire una struttura
organizzativa territoriale per l’ inclusione, a livello microscolastico, distrettuale sociosanitario
e provinciale (Gruppi di lavoro per l’ Inclusione, Centri territoriali per l’ Inclusione, Centri
Territoriali di Supporto).
A giudizio di DAINESE, comunque, detti valori non possono né debbono essere confusi con l’
inclusione, qualificandosi quest’ ultima come principio anziché come valore; e, in effetti,
seguendo ZAGREBELSKY, il principio deve informare di sé lo svolgimento delle azioni che
pretendono di richiamarvisi, come appunto l’ inclusione si perita di fare.
Gli elementi di debolezza della scuola odierna, poi, vanno naturalmente associati anche all’
indebolimento della dimensione collegiale, dovuta peraltro alla molto maggiore facilità che la
non-decisione, o la decisione ‘sfuggente’ e poco significativa, possiede rispetto alla decisione
‘piena’. Nel campo specifico dell’ inclusione, ancora, dobbiamo registrare la scarsa
collaborazione evidenziata negli ultimi anni fra insegnanti curricolari e insegnanti di sostegno,
ciò che inevitabilmente accresce le dimensioni dell’ individualità e dell’ isolamento (cfr.
riflessioni di FRABBONI sul carattere asfittico della docenza ‘enciclopedica’, isolata da quella
collegiale nonché dalle esigenze attitudinali e motivazionali degli studenti di turno). Il
fenomeno, più macroscopicamente, può infine essere ricondotto allo svilimento che, in
generale, il mestiere d’ insegnante ha patito a livello sociale e percettivo negli ultimi decenni.
In merito al primo punto, ricorderemo gli effetti nefasti provocati dalla mobilità degli
insegnanti di sostegno, che possono scegliere di non proseguire la loro esperienza per l’
inclusione e rendono perciò carenti i loro numeri; gli Uffici scolastici regionali, sollecitati dalle
ampie necessità, abbassano forzatamente i criteri di selezione dei nuovi insegnanti preposti a
quel ruolo.
Quanto al secondo punto, i motivi scatenanti sono:
ritardo dell’ assegnazione degli insegnanti di sostegno, che non di rado sono nominati ad
anno scolastico già iniziato;
azioni di delega, ossia di isolamento dal resto del gruppo classe, cui gli insegnanti di
sostegno sono spesso vincolati;
mancanza di deontologia specifica e di profilo professionale ben definito;
assenza di una valutazione dell’ operato degli insegnanti stessi.
Nel contesto italiano, ha avuto molta importanza un decreto MIUR del 2011, volto a ribadire la
contitolarità dell’ insegnamento fra docenti per l’ inclusione e docenti ‘canonici’ in classi dove
la presenza dei primi sia necessaria: per questo, aggiunge il Decreto, occorre che il personale
per l’ inclusione partecipi alle diverse fasi facenti capo alla programmazione didattica.
Per questo, diremo che, nel contesto della scuola, l’ orientamento ha un valore legato non
soltanto ai passaggi da un ordine scolastico ad un altro, bensì anche e soprattutto lungo la vita
del soggetto stesso, tramite una vera azione processuale (MONTOBBIO e LEPRI).
Quali sono i compiti attribuibili alla scuola rispetto all’ orientamento?
progettazione di apprendimenti disciplinari capaci di rafforzare o far acquisire
competenze utili all’ orientamento;
progettazione di espeienze come tirocinii, stages e laboratori in ambiti professionali
coerenti con l’ ordine di scuola frequentato;
attivazione di un accompagnamento educativo e formativo soprattutto nei momenti di
passaggio.
Tutto ciò richiede di saper riconoscere il potere orientante alle discipline, cui gli studenti
dovranno essere avvicinati gradualmente ma processualmente. Ciò, peraltro, dovrebbe valere
per l’ intero gruppo classe, evitando di offrire agli alunni con disabilità soltanto ciò che può
essere fornito e proposto loro in maniera semplificata. Seguendo VYGOTOSKIJ, infatti, l’
apprendimento è un processo costruttivo: l’ unica forma positiva d’ istruzione, a parere dello
studioso, è quella che anticipa lo sviluppo e lo conduce, grazie ad un’ architettura che preveda
la presenza di mediatori. Questi ultimi possiedono varie caratteristiche e funzioni:
sollecitano conquiste faticose, ma raggiunibili;
stimolano apprendimenti significativi, ma non falsati, per dare senso all’agire di chi si
trova in fase d’ apprendimento;
esortano a crescita, cambiamento e azione di qualità;
concedono a chi è in fase d’ apprendimento un’ azionalità autonoma.
In Italia, l’ inclusione scolastica degli alunni con disabilità è maturata nel tempo, superando
gradualmente l’ idea iniziale che la vedeva prevalentemente mirata ad obiettivi di
socializzazione. CANEVARO rafforza l’ impegno dell’ inclusione legato all’ apprendimento,
definendolo come il punto d’ incontro delle diversità di ciascuno. Perciò, possiamo asserire che
il compito della Didattica per l’ inclusione è quello di promuovere l’ apprendimento attivando e
gestendo processi inclusivi, atti a sollecitare un protagonismo condiviso tutelante l’ azione
autonoma del singolo che apprende, situandola in un contesto partecipativo e relazionale
allargato all’ intera classe. DAMIANO specifica soprattutto l’ interazione, o intersecazione,
che coinvolge nel progetto d’ apprendimento il soggetto discente, l’ oggetto appreso e l’ azione
d’ insegnamento; inoltre, egli esemplifica alcuni dei mediatori non caratterizzati da
indipendenza né autonomia, assommandone le caratteristiche in quattro diverse categorie:
attivi, cioè quelli che fanno ricorso all’ esperienza diretta;
iconici, che utilizzano le rappresentazoioni del linguaggio grafico e spaziale;
analogici, che si rifanno alle possibilità d’ apprendimento insite nel gioco e nella
simulazione;
simbolici, che utilizzano i codici rappresentativi convenzionali ed universali, come il
linguaggio verbale (dunque la lezione dell’ insegnante, di norma, rientra in quest’ ultimo
caso).
Nella situazione degli alunni disabili, la mediazione didattica sul processo d’ apprendimento
acquisisce un peso rilevante, giacché deve saperlo attivare anche allorquando la fragilità dei
funzionamenti biopsicosociali dell’ alunno indurrebbe a negarlo. Si prospetta così il ricorso ad
una didattica individualizzata e personalizzata, l’ introduzione di strumenti compensativi, per
esempio le tecnologie informatiche, e misure dispensative che richiedono flessibilità. Lo
sfondo pedagogico di riferimento, allora, ci accompagna verso la prospettiva di una ricerca di
possibilità, di livelli eventualmente persino utopistici. NOWAK ha una precusa idea con cui
teorizza l’ educazione: l’ apprendimento significativo, a suo giudizio, pone le basi per un’
integrazione costruttiva di pensieri, sentimenti e azioni; il vero apprendimento si verifica
quando ci si attiva per comprendere il significato di ciò che è stato memorizzato, in quanto
proprio il significato conferisce valore all’ apprendimento. MORIN, poi, ammonisce a che l’ uso
di facilitatori nelle forme di mediatori non lenisca la curiosità, dote che, ai suoi occhi, merita
un’ attenzione molto più specifica e marcata, nel mondo scolastico, di quanto tipicamente oggi
non accada. Bisogna sempre tenere presenti il diritto all’ uguaglianza e quello alla diversità;
per attuarli entrambi, occorre provare a compenetrarne le posizioni.
Le ricerche condotte, fra gli altri, da CANEVARO, dimostrano che l’ ultima delle tre
possibilità menzionate, pur restando quella minoritaria, ha avuto un incremento statistico fra
1977 e 2007, e che attecchisce soprattutto entro i contesti della scuola secondaria di
secondo grado, dove la disponiblità all’ ammissione ‘irreflessa’ e spontanea, tipica degli
ambienti ad età media minore, tende a scemare. Come CALDIN ha evidenziato, esiste la
possibilità, per la scuola, di alimentare e promuovere accoglienza negli alunni, stimolando il
rapporto con l’ alunno disabile: bisogna quindi agire affinché le percezioni più negative, che non
mancano, non si trasformino in certezze distorte. Alla luce di ciò, diremo che, nelle classi,
possono essere intensificate le occasioni d’ interazione fra compagni, e che le proposte
didattiche dovrebbero passare per una condivisione di attività operative (‘fare’ operativo e
autentico).
A fine paragrafo, vengono riportate due griglie:
Griglia per l’ osservazione delle Interazioni, della Partecipazione, delle Sollecitazioni;
Griglia per l’ osservazione delle Interazioni in aula - descrizioni narrative.
Pur con metodi e quindi strumenti di foggia differente, entrambe le griglie perseguono un
intento di natura descrittiva e rilevatrice, accompagnandosi di norma a calcoli di frequenza
statistica rispetto ai comportamenti esaminati.
Per predisporre un’ adeguata accoglienza dell’ alunno con disabilità, può essere utile informare
i compagni rispetto alle attività che il futuro compagno disabile potrà svolgere, laddove dare
nozioni intorno al tipo d’ aiuto che gli sarà necessario, potrebbe causare atteggiamenti
negativi fra i compagni. Sarebbe poi importante che le relazioni compagni disabili - compagni
‘curricolari’ si svolgessero principalmente all’ interno dei momenti scolastici, e non soltanto
nelle occasioni ricreative, evitando l’ ormai confutata e quindi scorretta dicotomizzazione di
‘socializzazione’ e ‘apprendimento’. E’ meritevole d’ attenzione, inoltre, che l’ alunno disabile
non subisca eccessivamente le pressioni esercitate dal gruppo con cui cerca d’ intessere
dinamiche relazionali, essendo che -come dimostrato, ad esempio, da ASCH- l’accettazione
entro le dinamiche collettive passa spesso per tale stadio, causando quindi perdita d’
autonomia e aumento della dipendenza dagli altri.
Le dinamiche d’ apprendimento e socializzazione che sinora abbiamo visto, possono contribuire
in maniera decisiva, per gli alunni portatori di disabilità, per lo scopo di raggiungere le life
skills additate dall’ OMS nel 1993:
decision making;
problem solving;
pensiero critico (esplorazione delle alternative possibili);
pensiero critico (analisi obiettiva delle informazioni e delle esperienze);
comunicazione efficace;
capacità di relazioni interpersonali;
autoconsapevolezza;
empatia (capacità d’ immaginare come possa essere la vita di qualcun altro; è un valore
decisivo affinché vengano intessute relazioni all’ insegno della solidarietà);
gestione delle emozioni;
controllo dello stress.
Dei due appena citati, il primo livello riguarda le scelte contenute nel Piano Triennale dell’
Offerta Formativa (PTOF) e nel Piano Annuale per l’ Inclusività (PAI), entrambi documenti
aventi il compito di indirizzare i livelli progettuali anche in considerazione del Piano Educativo
Individualizzato, se presente un alunno con disabilità, e del Piano Educativo Personalizzato, se
presente una alunno con Disturbo Spercifico dell’ Apprendimento o, eventualmente, con
difficoltà non clinicamente qualificate come tali ma comunque riconosciute nelle loro forme da
un gruppo insegnanti interno alla scuola.
Il PTOF, peraltro, deve ricollegarsi al Rapporto di Autovalutazione (RAV) e al Piano di
Miglioramento (PdM), preposti all’ autovalutazione delle istituzioni scolastiche. Una nota
MIUR, datata al 2/3/2015, fornisce indicazioni operative, e indica i seguenti attori coinvolti
nell’ azione di autovalutazione: essa specifica che la gestione di tale processo va ascritta al
Dirigente Scolastico e a un’ Unità di Autovalutazione, che dovrà essere costituita dal
Dirigente Scolastico, dal docente referente della valutazione e da uno o più docenti individuati
dal Collegio.
Nel RAV, la prima sezione sarà preposta all’ analisi del contesto, presente già nell’ ormai
desueto POF; lo scopo, descrittivo anziché valutativo, dovrà essere quello di permettere alla
scuola di turno l’ analisi dei tratti contestuali salienti, con l’individuazione, nelle diverse aree,
dei vincoli (o elementi esterni di incidenza possbilmente negativa) e le opportunità (o elementi
esterni di incidenza possibilmente positiva). Il RAV è articolato nelle seguenti sezioni iniziali:
CONTESTO;
ESITI;
PROCESSI.
La quarta e la quinta sezione del RAV, rispettivamente, orienta la riflessione critica sul
percorso di autovalutazione svolto e chiede alle scuole di fare delle scelte individuando
priorità e traguardi da raggiungere tramite il successivo Piano di Miglioramento. Quest’
ultimio è chiamato a:
analizzare e verificare il proprio servizio sulla base dei dati resi disponibili dal sistema
infomativo del Ministero e dalle rilevazioni specifiche eseguite;
elaborare un rapporto di autovalutazione, sulla base di parametri INVALSI, e un piano
di miglioramento.
Nel 2015, il desueto POF è stato sostituito dal PTOF, Piano Triennale dell’ Offerta Formativa,
che deve essere elaborato dal Collegio dei Docenti per poi essere approvato dal Consiglio d’
Istituto. Prima di poter essere pubblicato sui canali ufficiali della scuola, il PTOF deve essere
esaminato rispettivamente dall’ USR e dal MIUR. Quanto ai contenuti, il PTOF deve
esplicitare da un lato il potenziamento dei saperi e delle competenze degli studenti per il
raggiungimento degli obiettivi, dall’ altro l’ apertura della comunità scolastica al territorio e
alle sue istituzioni. Quanto alle competenze, il PTOF deve indicare la valorizzazione e il
potenziamento:
delle competenze linguistiche;
delle competenze scientifico-matematiche;
delle competenze relative all’ arte in senso lato (anche musicale);
delle competenze in materia di cittadinanza attiva, legalità, rispetto dell’ ambiente,
stile di vita sano;
delle competenze digitali;
delle competenze laboratoriali.
La Legge propone un’ idea di scuola come comunità aperta al territorio, attiva e pronta a
sviluppare l’ interazione con le famiglie e il tessuto territoriale. Il MIUR, comunque, ha anche
fornito, pur nel rispetto dell’ autonomia della compilazione, alcune linee guida su come
procedere col PTOF; gli ambiti che si suggerisce di esplicitare sono:
flessibilità didattica e organizzativa;
definizione del curricolo di scuola;
indicazione di strumenti, metodi e criteri per la valutazione;
definizione dell’ orgamico dell’ autonomia;
attrezzature e infrastrutture disponibili;
piano di formazione del personale.
Al PTOF deve poi coniugarsi il PAI, Piano Annuale per l’ Inclusività, che dovrebbe mettere in
risalto le seguenti finalità:
garantire l’ unitarietà dell’ approccio educativo e didattico;
garantire la continuità dell’ azione;
consentire una riflessione collegiale sulle modalità educative trascelte;
documentare gl’ interventi;
evitare scelte dettate dalla volontà di singoli insegnanti;
condividere con le famiglie i criteri d’ intervento per la personalizzazione.
La Legge del 2013 sottolinea chiaramente che, lungi dall’ esserne disgiunto, il PAI fa parte a
pieno titolo del PTOF. Lo scopo del PAI è perciò quello di avviare obiettivi di miglioramento
delle azioni dell’ istituzione scolastica, tramite uno sfondo aperto all’ inclusione. Il PAI deve
essere redatto alla fine di ogni anno scolastico, entro giugno, dal GLHI, il gruppo di lavoro e di
studio d’ Istituto avente il compito di collaborare alle iniziative educative e, dal 2013.
responsabile anche dei processi inclusivi per i BES; esso coesiste col GLI, il Gruppo di lavoro
per l’ Inclusione. Rispetto ai criteri di compilazione del PAI, ricorderemo che il modello
proposto dal MIUR nel 2013 risulta decisamente troppo schematico; più che utilizzare,
riadattandoli, gl’ indicatori UNESCO per la valutazione del grado d’ inclusività dei sistemi
scolastici, sarebbe più utile un ricorso all’ Index per l’ Inclusione, strumento utile per la
progettazione partecipata e l’ autovalutazione.
Successivo alla Diagnosi Funzionale è il momento del Profilo Dinamico Funzionale, che analizza
il prevedibile livello di sviluppo che l’ alunno handicappato dimostra di possedere nei tempi
brevi (sei mesi) e nei tempi medi (due anni); si tratta dunque di un bilancio diagnostico e
prognostico che, nel corso degli anni, richiede aggiornamenti opportuni e viene redatto dall’
unità multidisciplinare dell’ ASL, dai docenti curricolari e dagli insegnanti specializzati della
scuola, in collaborazione con i familiari dell’ alunno.
La Diagnosi Funzionale e il Profilo Dinamico Funzionale accompagneranno gl’ insegnanti alla
stesura del Piano educativo individualizzato, in cui confluiranno le varie scelte e le molteplici
azioni si contempereranno alle caratteristiche dell’ alunno e al loro possibile sviluppo. Il PEI
descriverà gl’ interventi integrati predisposti per l’ alunno con disabilità a scuola, all’ esterno e
in famiglia; viene redatto congiuntamente dagli operatori sanitari individuati dalla USL e dal
personale insegnante curricolare e di sostegno della scuola. La coordinazione dei vari soggetti
dovrebbe portare allo svolgimento di due azioni combinate:
ricerca degli obiettivi già raggiungibili all’ alunno disabile;
adattamento degli obiettivi per renderli accessibili all’ alunno disabile.
In certi casi, è utile che il PEI diriga, quantomeno per un certo periodo, le azioni didattiche
erogate nei confronti dell’ intera classe.
Nel marzo 2008, il Documento d’ Intesa siglato da Governo, Regioni, Province autonome di
Trento e Bolzano, Province, Comuni e Comunità montane, rispetto ai criteri e alle modalità d’
accoglienza scolastica e alla presa in carico dell’ alunno con disabilità, ha evidenziato alcune
novità sui documenti sopra richiamati; rispetto alla Diagnosi Funzionale
1. deve essere redatta secondo i criteri ICF;
2. deve inclufrtr il Profilo Dinamico Funzionale.
E’ opportuno che, qualora il monitoraggio rispetto alle varie fasi preventivate dalla
documentazione di secondo livello non fornisca risultati in linea con le aspettative, si operi un
intervento immediato, eventualmente riprendendo e modificndo anche la documentazione di
primo livello -elaborata, come sappiamo, non dai singoli gruppi di docenti ma a livello d’ istituto.