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UNIVERSITÀ TELEMATICA PEGASO

Corso di laurea in

Scienze dell’educazione e della formazione (L-19)

Insegnamento di

Didattica Speciale

TITOLO ELABORATO

La Disabilità non come un mondo a parte, ma come “parte del mondo


’’:
percorsi di pedagogia inclusiva.

RELATORE: CANDIDATO:
Chiar.mo Prof. Stefano Biancotto Conti Giusy Cristiana
Anno Accademico
2021/2022
Sapere
aude!
Abbi il coraggio di
servirti
della tua intelligenza.
(Immanuel Kant)
Indice
Introduzione 1

Capitolo I - Disabilità: quadro normativo


1.1 Differenza tra menomazione, disabilità ed handicap 2

1.2 I Modelli di disabilità 4

1.3 Legislazione di riferimento: dalle classi speciali all’integrazione scolastica 6

1.4 Abbattimento delle barriere interpersonali 8

Capitolo II - Disabilità e famiglia.


2.1 Scoprire di aspettare un figlio disabile 9

2.2 Famiglia e personalità del disabile 11

2.3 Il supporto educativo della famiglia 14

2.4 La ricchezza del diverso 16

Capitolo III - Star bene a scuola.

3.1 Una scuola inclusiva a misura del disabile 21

3.2 Le strategie cooperative 23

3.2.1 Peer Tutoring


23

3.2.2 Cooperative Learning 25

3.3 Clima positive e regole condivise in classe


26

3.4 Didattica laboratoriale: learning by doing 29


3.5 Integrazione della tecnologia nella didattica
31

Conclusioni 32
Bibliografia 33
Introduzione

Questa tesi nasce dalla volontà di voler affrontare il tema della disabilità, vista non come

uno svantaggio e motivo di emarginazione, ma come un frammento prezioso, ricco proprio

perché diverso dagli altri.

Ѐ da questo punto di vista che la disabilità deve essere considerata una risorsa, una

condizione della persona da promuovere educativamente: soltanto così l’educatore può

mettere in pratica tutto ciò che ha imparato in tanti anni di studio, aiutando una persona in

difficoltà e collaborando per qualcosa di cui non può che esserne orgoglioso.

Nel primo capitolo si analizzeranno i modelli della disabilità (ICD, ICDIH) confrontando il

concetto di disabilità con quello di menomazione e handicap contestualizzandoli alla

normativa di riferimento.

Nel secondo, invece, si parlerà della disabilità all’interno del contesto familiare; il modo in

cui i genitori affrontano questa nuova realtà. Ѐ quì che entra in campo il lavoro dell’educatore,

un ruolo senza dubbio difficile, soprattutto quando si entra in relazione con la famiglia del

disabile: riconoscere la sofferenza, la fatica, il disagio di vivere costantemente nell’incertezza

per il futuro dei propri figli, diventa per l’educatore il primo passo per entrare in relazione con

le famiglie, per poi coinvolgerli nella costruzione di percorsi educatici personalizzati. Ѐ in

questo capitolo che si parlerà del disabile come ‘’frammento d’umanità, da recuperare e da

considerarsi non come un qualcosa a parte, ma come parte dell’intera umanità.


Infine, si parlerà dell’inserimento del disabile nel mondo della scuola, della figura

dell’educatore e degli interventi educativi che vengono attuati per permettere l’inserimento

della persona disabile all’interno del contesto sociale.

1
Capitolo I Disabilità: quadro normativo

1.1 Differenza tra menomazione, disabilità ed handicap.

Il senso comune tende a concepire la disabilità come sinonimo di menomazione, cioè un

fatto accidentale più o meno grave che afferisce al fisico, alla mente, ai sensi, e che differisce dal

concetto di normalità.

Nel 1980 l’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) pubblicò la

classificazione internazionale di menomazione, disabilità e handicap, nella quale

veniva fatta un’importante distinzione tra menomazione, disabilità e handicap.

In tale pubblicazione quando si parla di menomazione si fa riferimento a una qualsiasi

perdita o anormalità a carico di strutture o funzioni psicologiche, fisiologiche o anatomiche:

riflette il deficit a livello organico. Le menomazioni vengono suddivise in 3 specifiche

categorie:

-Menomazione visiva

-menomazione uditiva

-menomazione motoria

Si analizzeranno di seguito tutti i tipi di menomazione.


Con menomazione visiva ci si riferisce a una condizione che causa una perdita o una

riduzione della capacità visiva che può presentarsi congenita, cioè alla nascita, oppure può

svilupparsi in un secondo momento.

2
Nel caso in cui la perdita visiva è totale si parlerà di cecità o di amaurosi; la persona

disabile colpita da tale deficit non percepirà affatto la luce. A sua volta la cecità può definirsi

funzionale o legale. Nel primo caso la persona colpita da cecità funzionale è in grado di

percepire una ridotta quantità di luce, quindi possiamo definirla affetta da cecità parziale, ma

non è in grado di distinguere le singole forme, quindi incapace di svolgere le diverse attività

nella vita di tutti i giorni. Nel secondo caso invece, la cecità legale si presenta con una

percezione offuscata della vista che non permette l’autonomia della persona che ne soffre.

La seconda categoria di menomazione è quella uditiva, con la quale s’intende la riduzione

parziale o totale di una persona disabile di catturare i suoni. Tal volte la sordità è un problema

che si riscontra alla nascita, come conseguenza di malattie infettive a cui è stata esposta la

madre (rosolia o influenza), o in seguito all’assunzione di farmaci o sostanze stupefacenti

sempre assunti dalla madre, o anche dovuti a traumi subiti alla nascita (nascita prematura,

mancanza di ossigeno, peso del bambino inferiore a 1 kilo e mezzo).

Ma può accadere, anche, che la sordità si presenta in seguito e soprattutto se il bambino è

esposto a rumori troppo forti, se viene colpito da malattie infettive nella prima età quali

meningite, rosolia, influenza, morbillo o orecchioni.

Chi soffre di menomazione motoria, invece, viene privato della capacità di movimento che

può essere temporanea o permanente. Solitamente tale menomazione si manifesta con la

paralisi celebrale infantile o con l’encefalopatia.

Con il termine disabilità, invece, s’intende la limitazione o la perdita (conseguente a

una

menomazione) della capacità di compiere un’azione nei tempi e nei modi che possono essere
considerati normali. Ѐ in questo senso che possiamo definirla l’oggettivizzazione della

menomazione.

3
Quando si parla di handicap, invece, si fa riferimento a quella condizione di svantaggio,

vissuta da una determinata persona in conseguenza di una menomazione o disabilità, che

impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo che sarebbe lecito attendersi da quella persona.

Abbiamo visto come questi tre concetti sono correlati tra di loro in quanto la menomazione

determina la disabilità; e la disabilità a sua volta causa l’handicap.

Vediamo un esempio: un non vedente può definirsi affetto da una menomazione oculare,

che a sua volta causa una disabilità nella locomozione e comporta handicap nella mobilità e

nell’occupazione.

1.2 Modelli di disabilità

La disabilità, nel tempo, è stata interpretata in modo diverso in relazione a dei modelli

teorici di riferimento.

Il primo modello di disabilità è il modello individuale o ‘’medico’’ che tende a vedere

la

disabilità come un problema dell’individuo legata ad una condizione patologica che richiede

un intervento clinico e riabilitativo da parte di professionisti, in modo tale da facilitare un suo

adattamento al contesto sociale di appartenenza. I concetti di menomazione, disabilità ed

handicap in questo modello vengono interpretati in modo lineare mediante un rapporto di

causa - effetto: la menomazione determina disabilità e la disabilità causa l’handicap.


Il modello sociale nasce dall’iniziativa politica di alcune persone con disabilità con lo

scopo di opporsi al primo modello, che considera la disabilità come effetto di una condizione

patologica individuale, per centrare l’attenzione sulle barriere sociali che a volte possono

essere disabilitanti. In una prospettiva di integrazione e inclusione di soggetti con disabilità, la

società dovrebbe essere riprogettata affinché prenda in considerazione i bisogni di tutti i

4
disabili. Il modello sociale sposta l’attenzione dai deficit funzionali dei disabili ai contesti

sociali disabilitanti che creano emarginazione.

La disabilità è vista come un costrutto sociale, data dall’incapacità della società di fornire

servizi adeguati a garantire le esigenze delle persone disabili.

Prendendo in considerazione un esempio: una persona ha una disabilità non perché si

muove con una sedia a rotelle, ma perché gli edifici in cui si trova a vivere sono costruiti con

scale ed altre attrezzature che non permettono ad una persona disabile di spostarsi facilmente. A

tal proposito la disciplina Disability Studies mette in discussione il rapporto causale tra

menomazione e disabilità, cercando di spostare il focus sul cambiamento della società verso la

promozione di un clima inclusivo.

Il terzo modello, l’ICF si pone come un anello di congiunzione dei due modelli descritti

precedentemente e considera come elemento centrare il concetto di salute, un ideale che

nessuno riesce a sperimentare in maniera completa durante la propria esistenza.

Tale modello può considerarsi biopsicosociale poiché considera due fattori che stanno alla

base del funzionamento dell’individuo: quelli personali, cioè i tratti caratteristici di ogni

persona ( funzioni e strutture corporee) e quelli ambientali, che includono il contesto fisico e

sociale e l’impatto dei comportamenti di ognuno.

Il modello delle capacità - Capability Approch, formulato a metà degli anni Ottanta

del

secolo scorso dall’economista Amartya Sen, ha come oggetto di riferimento il principio del

“well being”, dello star bene, che non dipende dai mezzi che ogni individuo ha a disposizione,

ma piuttosto dalla capacitò di trasformare tali mezzi in opportunità per realizzare il proprio
benessere individuale. Così come qualsiasi persona ha il diritto di prendere scelte che

riguardano la propria vita, anche la persona disabile deve essere supportata

all’autodeterminazione a prendere decisioni importanti che riguardano la sua vita e sviluppare

le proprie potenzialità.

5
Nel contesto scolastico e sociale in generale, la persona disabile non deve adattarsi alla

normalità, ma al contrario deve essere costruito un contesto inclusivo che accolga in modo

positivo tutte le differenze. Marta Nussbam riprende questo modello in relazione alla

disabilità, delineando un elenco di capabilities fondamentali, uguali per tutti gli esseri umani.

Questa afferma che tutti hanno il diritto di mettere in atto le proprie abilità per poter prendere

delle scelte e se qualcuno non riesca a farlo a causa di una menomazione, la società dovrà

garantire un supporto in modo tale che essi riescano a superare gli ostacoli. Riguardo le

persone con disabilità bisognerebbe chiedersi cosa essi siano in grado di fare e di essere, quali

sono gli ostacoli da superare e cosa essi vorrebbero essere. In realtà tendiamo a tralasciare

quest’ultimo aspetto importantissimo quando parliamo di prospettive inclusive. Valutare le

performance di un individuo relativamente ad un’attività, senza chiedersi se egli è realmente

interessato a svolgerla, significa non dare importanza ad uno dei diritti fondamentali delle

persone, cioè scegliere liberamente della propria esistenza.

1.3 Legislazione nazionale: dalle classi differenziali all’integrazione scolastica dei disabili

Nel contesto scolastico, è cambiato il modo di considerare gli alunni con disabilità, pertanto vi

è stata un’evoluzione legislativa verso l’integrazione scolastica.

Con la legge n. 1073 del 1962 si ha il primo intervento dello Stato nell’ambito delle

scuole

speciali per quanto riguardava lo stanziamento di fondi “per il funzionamento, l’assistenza

igienico - sanitaria e le attrezzature per le classi differenziali nelle scuole statali e per le classi

di scuola speciale da istituire anche nei comuni minori” . La legge 1859 del 1962 istituì
la

scuola media unica, obbligatoria, gratuita e rappresentò la prima svolta nel sistema scolastico

dal dopoguerra in poi.

Fino alla fine degli anni 60 i soggetti disabili gravi venivano collocati in istituti speciali per

sordi, ciechi e anormali psichici. La logica era quella della separazione, in cui l’allievo

6
disabile era percepito come un malato da affidare ad un maestro-medico da inserire in scuole

speciali e classi differenziali, considerato come potenziale elemento di disturbo. Inserendo gli

alunni disabili in classi differenziali insieme a compagni con deficit simili, si riteneva che

l’intervento clinico sarebbe stato più opportuno.

Dagli anni 70 in poi inizia a cambiare il modo di considerare i disabili, ma senza alcun

accenno alla didattica speciale, allo sviluppo potenziale. La legge 118 del 1971

prevedeva

l’inserimento degli allievi con disabilità lieve nelle classi comuni della scuola dell’obbligo.

L’alunno disabile fa ingresso nelle classi comuni, ma deve adeguarsi al contesto scolastico,

mancava ancora la logica inclusiva volta a creare un contesto scolastico flessibile 1.

La vera e propria svolta si ebbe con la legge 517 del 1977, in quanto prevedeva

la

soppressione delle classi differenziali e delle scuole speciali e l’inserimento degli alunni

disabili in classi comuni. Questa legge ha iniziato a riflettere sul fatto che il disabile non solo

ha diritto allo studio, ma ha anche il diritto di essere inserito e integrato. A tal proposito con la

legge 270 del 1982 fu istituita la figura dell’insegnante di sostegno, egli ha il compito

di

supportare alunni con disabilità fisiche o psichiche nei processi formativi e nell’integrazione

scolastica e sociale. Deve contribuire alla maturazione del ragazzo mediante un approccio

umanistico e una certa empatia. Dall’istituzione dell’insegnante di sostegno a oggi, il suo

ruolo si è ampliato sempre di più ed ha acquisito delle competenze più specifiche. Oggigiorno

questa figura diventa importante non solo per lo studente disabile ma per tutta la classe.

Chiunque voglia intraprendere questa professione non deve possedere solo abilità a livello
didattico ma deve essere in grado di interagire con l’alunno dal punto di vista affettivo e

relazionale. Ѐ necessaria una collaborazione con gli altri docenti per creare un percorso

educativo che coinvolga tutta la classe e crei un clima positivo e inclusivo per tutti.

Quando si parla di disabilità non possiamo non citare la legge n.104 del 5 febbraio del

1992.

Ѐ il riferimento legislativo per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone con
1
Un contesto scolastco flessibile dovrebbe adatarsi alle esigenze, ai bisogni eterogenei degli alunni, dunque il
contesto scolastco, e nello specifico, la classe deve adatarsi a ciascun alunno.

7
disabilità. I soggetti destinatari di tale legge sono: soggetti con disabilità visiva; soggetti con

disabilità uditiva; soggetti autistici; soggetti colpiti da sindrome di Down; soggetti mutilati;

soggetti con disabilità psichica, ma non mancano di certo aiuti e sostegno anche a chi vive con

loro come agevolazioni lavorative e fiscali. Questa legge predilige una prospettiva pedagogica

con l’attenzione allo sviluppo della persona, alla sua dignità favorendone l’integrazione anche nel

contesto lavorativo con il collocamento mirato2.

1.4 Abbattimento delle barriere interpersonali

Abbiamo visto come alcuni anni fa si considerava la persona disabile parte di un altro

mondo a causa di alcune loro diversità ma in realtà la diversità è ciò che caratterizza

ciascuno di noi e va considerata una ricchezza umana. Pertanto quando parliamo di

abbattimento di barriere interpersonali facciamo riferimento all’abbattimento degli

ostacoli relazionali e comunicativi che si antepongono alla piena integrazione sociale dei

soggetti disabili.

Ѐ secondo questo punto di vista che l’educatore si pone come obiettivo la piena attenzione a

tutti i soggetti che presentano delle difficoltà d’ogni genere affinché possa raggiungere lo

sviluppo delle abilità che consentano loro la più piena integrazione nel tessuto sociale:

dall’autonomia di movimento, alla possibilità di assumere decisioni che li rendono più

responsabili nei confronti della vita, di se stessi e degli altri.

Il problema dell’abbattimento delle barriere interpersonali va visto in positivo: occorre

impegno culturale e civile per costruire una nuova efficace rete di relazioni interpersonali
in cui i soggetti con disabilità costruiscono nodi di forza e di convergenza di quanto di

meglio è presente nella società civile.

2
Con l’espressione collocamento mirato dei disabili si intendono quella serie di strument (sia tecnici che non)
che permetono un’adeguata valutazione della capacità lavoratva delle persone con disabilità. Comprende

8
L’obiettivo del superamento di tutti i tipi di barriere fisiche, culturali, ambientali e sociali

serve a diffondere ed affermare la cultura delle pari opportunità3.

Per definizione una barriera architettonica, viene definita come un impedimento per la

persona disabile sia per l’utilizzo di uno spazio, ma anche per l’accesso ad un servizio.

A differenza delle barriere fisiche che si possono abbattere con l’utilizzo di mezzi

concreti, più difficile viene abbattere quelle barriere fatte di incomprensioni,

incomunicabilità e indifferenza che provoca, certamente, un grande danno alla persona

disabile per il quale non riesce a trovare alcun tipo di rimedio.

Capitolo II: Disabilità e famiglia

2.1 Scoprire di aspettare un figlio disabile

L’inizio di una gravidanza rappresenta per i genitori un’esperienza del tutto sconosciuta

composta da un mix di emozioni, ansia, paura, felicità, aspettative e sogni che profilano

un cambiamento nella vita di coppia.

Da un lato i genitori che intraprendono questo percorso iniziano a maturare sin dai primi

mesi il desiderio di conoscere il proprio figlio, iniziano ad immaginarlo, ad ipotizzare la

carnagione, l’aspetto fisico, i tratti caratteristici della sua personalità, i successi e gli

insuccessi scolastici; dall’altro invece, avvertono la paura che qualcosa possa non andare

del verso giusto, che il proprio figlio non sarà come loro lo avevano immaginato, che sarà

diverso dagli altri, che altererà il loro equilibrio familiare.


Soltanto quando si arriva a metà gravidanza, o in casi eccezionali dopo il parto, i genitori

prendono consapevolezza della reale situazione. In casi eccezionali i genitori si trovano ad

3
l’analisi dei post lavoro, le forme di sostegno da atvare, siano esse di eliminazione di barriere architetoniche
che non.

9
affrontare una situazione del tutto opposta a quella che avevano immaginato, progettato e

pensato per il proprio bambino. Rappresenta una situazione che, il più delle volte, i

genitori percepiscono come un castigo nei loro confronti, come qualcosa che è arrivata per

sconvolgere la loro vita di coppia, domandandosi spesso il ‘’perché A NOI?’’ e questo

molte volte li porta a chiudersi in se stessi, ignorando gli aiuti che la società mette loro a

disposizione. Ѐ chiaro come la presenza di un disabile in una famiglia comprometta la

situazione, ma chiudersi in se stessi non è una strategia efficace per affrontare la disabilità,

anzi tale reazione non solo non garantirebbe alcun servizio al figlio disabile, ma sarebbe

anche un cattivo esempio per gli altri figli, trasmettendo loro l’esempio di fuggire dai

problemi.

Ma può accadere, anche, che i genitori decidano di rimboccarsi le maniche sin da subito

per affrontare tale situazione, cercando di considerare il proprio figlio parte integrante

della società e non un essere “diverso” e per tale causa, motivo di emarginazione sociale.

A questo proposito non possiamo non citare le strutture di accoglienza (RSD) che si

trovano nella nostra società, strutture nate per essere da supporto sia ai genitori dei

disabili, con incontri settimanali supportati da uno psicologo, dove possono aprirsi al

dialogo reciproco, all’ascolto delle loro storie di vita, ma anche strutture appositamente

create per essere di aiuto ai bambini stessi, ambienti riabilitativi dove al bambino disabile

vengono garantiti tutti quei servizi per l’acquisizione di capacità o abilità mai raggiunte

fino a quel momento. Di cruciale importanza è anche il ruolo della famiglia, che deve

collaborare con queste strutture nell’attuazione di un Piano individualizzato a misura del

disabile.
Tale piano individualizzato inizia nella struttura di riabilitazione, ma deve essere un

continuo anche a casa e a scuola in modo tale che il bambino sia in grado di conservare e

10
mettere in pratica, quelle abilità e conoscenze create dall’equipe multidisciplinare delle

residenze sanitarie per disabili (RSD).

2.2 Famiglia e personalità del disabile

La famiglia nel tempo ha subito delle modifiche, sia per quanto riguarda la composizione

numerica, che per quanto riguarda l’interpretazione dei ruoli genitoriali. Nelle società

tradizionali la famiglia era molto più allargata. Essa costituiva unità produttiva e le

funzioni principali erano di tipo economiche - produttive e di sicurezza sociale.

Con la modernizzazione della società, la famiglia si trasforma da allargata a nucleare,

questo determina un cambiamento di responsabilità e compiti sociali, perdendo ogni

funzione economica- produttiva e politica. La famiglia inizia pertanto ad acquistare nuovi

compiti sociali. Essa è la prima agenzia di socializzazione primaria, a partire dalla prima

infanzia fino all’adolescenza e riveste un ruolo fondamentale nella vita psichica

dell’individuo. Questo processo non bisogna intenderlo in modo unilaterale, in quanto il

bambino reagisce e collabora in vario modo in questo processo.

La famiglia è il luogo in cui si sviluppano aspetti importanti come la personalità, il

carattere, gli atteggiamenti, le capacità sociali di base. Essa è un sistema complesso, con

una propria storia, un proprio modo di leggere gli eventi, proprie regole e valori alla base

del senso di identità e appartenenza. Possiamo affermare che la famiglia è la prima

esperienza di relazione affettiva sperimentata dal bambino, è la prima esperienza di

relazione con l’altro e anche il modo in cui i membri della famiglia percepiscono la

disabilità che influenzerà l’autostima e il modo in cui il disabile si percepirà.


Nella maggior parte dei casi il disabile viene percepito come “un soggetto da proteggere”,

ma un eccessivo assistenzialismo nei suoi confronti è da considerarsi in modo negativo nel

percorso di maturazione della sua identità. Considerare in tale modo una persona disabile

genererebbe atteggiamenti di dipendenza, di continua ricerca di aiuto e assistenza.

11
Dall’altro lato bisogna educare i famigliari a considerare il disabile come una ricchezza,

un’opportunità di crescita dai quali apprendere.

Ѐ dalla famiglia del disabile che inizia il percorso di inclusione, innanzitutto la famiglia

con appositi supporti psicologi deve essere educata all’accettazione della disabilità e a

relazionarsi in modo positivo al disabile poiché come esplicitato sopra, la famiglia e le

relazioni familiari influenzeranno la sua personalità.

Quando si parla di disabile e del suo inserimento sociale non possiamo non parlare del

contesto educativo e del rapporto che si istaura con il contesto familiare.

Molte famiglie che vivono la disabilità in prima persona decidono, come già citato nel

paragrafo precedente, di affidarsi a delle strutture specializzate per garantire al figlio

disabile una vita non lontana da ciò che viene ritenuto ‘’normale’’.

Altre famiglie, invece, decidono di non affidarsi a queste strutture specializzate e di far

affidamento a delle scuole comuni. Come abbiamo già spiegato nel 1 capitolo, oggi non

esistono più classi differenziali che separano i disabili dai “normodotati”, bensì classi

miste dove il disabile, grazie al supporto dell’insegnante di sostegno, vive la sua vita

scolastica di pari passo con quella dell’intera classe. Nel momento in cui il bambino

disabile fa ingresso nel contesto scolastico, il compito dell’educatore è quello di entrare in

empatia con la famiglia, mettersi nei suoi panni e cercare di capire ciò che affrontano ogni

giorno per poter portare avanti una situazione apparentemente difficile. Dopodiché,

l’educatore attraverso un’osservazione accurata dell’alunno disabile, comunica la diagnosi

all’equipe che opera nel mondo scolastico, per attuare insieme ad essi un piano educativo

personalizzato con al centro il bambino con i suoi bisogni, i suoi interessi e le cure
necessarie. Essere educatori di un bambino disabile non è certo semplice, se da un lato è

fondamentale creare una buona relazione comunicativa ed empatica, essere in grado di

conquistare la sua fiducia; dall’altro lato l’educatore deve contribuire a far crescere nel

12
contesto classe la cultura della disabilità, che spesso nonostante la società abbia fatto molti

passi avanti, permane ancora qualche ostacolo che impedisce di considerarlo come una

risorsa da accogliere nella società.

Un’altra difficoltà che l’educatore può riscontrare è nel rapporto comunicativo che istaura

con la famiglia del disabile, tale criticità può dipendere dalla confusione di ruoli,

dall’ansia di essere giudicati, da una comunicazione non efficace. A tal proposito Rick

Lavoie ne “Il ruolo dell’insegnante nelle comunicazioni scuola famiglia, 2008”, individua

quattro tipologie di atteggiamenti dei genitori che emergono nell’incontro con gli

educatori:

-Sfidanti: quando i genitori si pongono in un atteggiamento di sfida, non riconoscendo il

ruolo autorevole dell’insegnante. Percepiscono le comunicazioni dell’insegnante con

disvalore o come un attacco nei loro confronti e tentano di sottolineare in tutti i modi ciò

che a scuola non funziona. L’insegnante deve quindi, cercare di ignorare tale sfida da parte

del genitore e deve attuare delle strategie per favorire un normale dialogo con la famiglia, per

esempio durante l’incontro oltre a evidenziare i problemi del figlio, potrebbe far

emergere le risorse, le sue capacità e le sue potenzialità. Spetta ora ai genitori, cogliere il

reale motivo dell’incontro ed essere disponibili a porsi da aiuto e supporto all’insegnante

per realizzare a pieno un’educazione inclusiva.

-sottomesso: il genitore ha un ruolo passivo nel rapporto con l’insegnante, forse anche

perché non si sentono in grado di affiancare e aiutare il figlio in questo progetto educativo.

Ѐ come se scaricassero tutta la responsabilità educativa all’insegnante, non partecipando

al progetto educativo del figlio. L’insegnante non può accettare tale responsabilità, non
può farsi carico da solo di un compito così grande e importante che richiede continuità con

la famiglia, ed è per questo che deve cercare di stimolare i genitori a rendersi partecipe di

quel che accade a scuola al proprio figlio, coinvolgendoli nei compiti a casa, invogliandoli

13
a partecipare a corsi di formazione, ricercare un supporto attraverso lo stanziamento di

fondi per l’acquisto di attrezzature sportive che possono essere di aiuto soprattutto agli

alunni con difficoltà motorie.

-assente: il genitore che appartiene a tale categoria è un genitore che non si interessa di

quel che succede a scuola al proprio figlio per tanti motivi, o per una situazione socio -

culturale caratterizzata da difficoltà economiche, sofferenza psichica o fisica e che li porta a

considerare la scuola come un parcheggio per il proprio figlio, un luogo dove poterlo

lasciare per dedicarsi tranquillamente ad altro.

Il rapporto dell’insegnante con questa categoria di genitori è notevolmente difficile,

perché non si riesce ad instaurare il cosiddetto dialogo scuola-famiglia, anzi emerge un

atteggiamento disinteressato dei genitori che non solo non dimostra interesse verso il

figlio, ma è disinteressato anche nei confronti della sua esperienza scolastica.

-partecipativo: rappresenta un modello auspicabile, un genitore attento al proprio

figlio,

alla scuola, al lavoro che svolge l’insegnante, ai progressi del figlio. Sono genitori che da

un lato si interessano e cercano di aiutare il proprio figlio, ma sono anche genitori che

riconoscono i propri limiti ed è per questo che cercano sempre il dialogo e l’aiuto

dell’insegnante per il bene del proprio figlio. La scuola viene vista come un porto sicuro,

un luogo di crescita.

2.3 Il supporto educativo della famiglia

La famiglia del disabile si trova in una situazione di particolare bisogno e deve riuscire ad

attivare le proprie risorse al meglio per rispondere ai bisogni educativi richiesti.


Tuttavia i genitori non sempre riescono a fare ciò, spesso incontrano delle difficoltà su

come educare un figlio disabile, come intervenire, quali obiettivi educativi raggiungere.

Il supporto educativo alle famiglie è fondamentale nella gestione delle problematicità, si

caratterizza dall’accompagnamento della famiglia nel percorso evolutivo del bambino,

14
nella gestione del loro stato di bisogno per evitare ogni possibile emarginazione dal

contesto sociale.

Ѐ importante che gli educatori, che lavorano nell’ambito della disabilità, siano

consapevoli del coinvolgimento delle famiglie e delle loro difficoltà all’interno del

progetto educativo, per poter sviluppare con essi un rapporto positivo di collaborazione

nella co-progettazione di un progetto educativo. Solo attraverso un lavoro di rete, una

condivisione di obiettivi potrà realizzarsi efficacemente qualsiasi intervento educativo.

Per prima cosa l’educatore dovrebbe stabilire con le famiglie un rapporto comunicativo

fondato sull’ascolto, sul dialogo, sulla circolarità delle informazioni. Si deve creare un

rapporto di conoscenza reciproca, uno scambio di informazioni e di saperi, considerando

sin dall’inizio la famiglia come una risorsa nella costruzione degli obiettivi. Come

abbiamo visto nel paragrafo 2.2, le famiglie non sempre e almeno non subito sono

predisposte al dialogo come reazione alle problematiche quotidiane associate alla

disabilità.

Nella fase di accoglienza della famiglia del disabile, per l’educatore è fondamentale

chiedersi quali siano i bisogni educativi, comprendere in quale fase di accettazione della

disabilità si trovino, quali potenzialità e risorse possono essere positive nel percorso

educativo, e quali i comportamenti e gli atteggiamenti da bloccare. Il lavoro

dell’educatore dovrebbe essere visto nell’ottica di co-educazione con i genitori, all’interno

della quale ciascuno dovrebbe apprendere dalla ricchezza dell’altro.

Il percorso di crescita di queste famiglie può essere semplificato dall’incontro di figure

professionali che sappiano leggere il loro disagio, cogliendo le motivazioni sottostanti alle
loro possibili reazioni negative, e rispondendo con consapevolezza alle criticità emerse

nella fase di accettazione della disabilità. Sarebbe controproducente se l’educatore,

vedendo le resistenze della famiglia, si sostituisse ad essa, indirizzando l’intervento

educativo esclusivamente sul bambino. In questo modo si tenderebbe a confermare nel

15
genitore il suo senso di inadeguatezza, il disinvestimento dal suo ruolo negandogli la

possibilità di sfruttare le loro potenzialità come risorse per far fronte alle difficoltà.

Abbiamo visto, come il ruolo dell’educatore appare, sostanzialmente difficile, sia perché

deve adempiere al proprio compito con impegno, professione e collaborazione, ma anche

perché si trova a dover collaborare, a volte, con famiglie che cercano di ostacolarlo e che

tendono a sostituirsi a lui. Tale collaborazione diventerà proficua, nel momento in cui le

persone che collaboreranno tra di loro, riusciranno a condividere tra di loro successi, ma

anche eventuali difficoltà che si riscontreranno durante il percorso. Per questo è

importante la suddivisione dei ruoli delle singole agenzie coinvolte, agenzie che

adempiranno al proprio compito e, che avranno come unico obiettivo comune, il bene del

bambino disabile e il suo possibile rinserimento nella società.

2.4 La ricchezza del diverso

“L’essere umano è dignità e vulnerabilità, ogni essere umano ha queste


due

caratteristiche e sono intrinseche e imprescindibili”4

Ogni disabile prima di essere considerato come tale deve essere considerato come una

persona umana dotata di dignità. Nella maggior parte dei casi al disabile non si tende ad

associare un nome, un cognome, un’età, dei pregi e dei difetti. Spesso la persona con

disabilità è solo un disabile e come tale un ostacolo, un problema. Non vi è la tendenza ad

associare il termine pari opportunità alla disabilità. Se la dignità è legata alla razionalità,

come sostiene l’autrice Maria Zanichelli, la nostra società può diventare molto

individualista, ad esempio per chi ha delle difficoltà, e questo la rende meno razionale di
altri. La dignità non deve essere intesa solo come un’etichetta ma deve comprendere

anche una serie di azioni concrete volte a garantirla. Parlando di disabile, i due concetti

vulnerabilità e dignità si intrecciano. Poiché essi non sono in grado di farsi valere è
4
Maria Zanichelli, ”Persone prima che disabili”, Quaeriniana, 2021

16
importante che siamo noi a far valere i loro diritti e la loro dignità. Come si legge all’art.3

della nostra Costituzione <<tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti

alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,

di condizioni personali e sociali.

Ѐ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,

limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo

della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione

politica, economica e sociale del Paese >>.

Se al primo comma si evince un principio di eguaglianza formale di fronte alla legge, al

secondo comma si evince un principio di eguaglianza sostanziale che coincide nel

compito della Repubblica di rendere effettivo tale principio attraverso la rimozione di

ostacoli, barriere. Es.: la legge è uguale per tutti, ma se alcune persone con disabilità non

possono seguire la legge bisognerà differenziarla, attraverso il principio di eguaglianza

sostanziale.

Le persone con disabilità possono diventare soggetti socialmente attivi e dobbiamo

rendere effettiva tale possibilità. Il dovere di tutta la società è quella di farci carico della

volontà del disabile eliminando ogni forma di isolamento. L’integrazione sociale e la

promozione dell’autonomia, negli ultimi decenni, sono divenuti una priorità nell’agenda

dei governi e degli organismi internazionali, anche se bisognerà fare molto per garantire

una piena inclusione sociale.

A volte modi di pensare tradizionali, abitudini, e talvolta anche l’ignoranza ci portano a

non riconoscere alla persona con disabilità delle prerogative, sogni, valori, ma a fare delle

categorizzazioni. Quest’ultima non può essere considerata al centro della vita, al di là di


qualsiasi difficoltà ciascuna persona ha diritto a vivere in modo pieno la propria esistenza.

La famiglia, quale agenzia di socializzazione primaria ha la responsabilità di garantire il

benessere, lo star bene del familiare disabile collaborando con altre agenzie educative.

17
La disabilità, anziché una patologia deve essere considerata un’esperienza, soprattutto per

chi viene coinvolto in prima persona in questo processo educativo. Se da un lato la

famiglia e l’insegnante supportano il disabile per raggiungere gli obiettivi della propria

vita, dall’altro lato questo processo rappresenta un’opportunità di crescita. Soltanto

attraverso l’osservazione tali agenzie educative, riescono ad imparare tecniche nuove per

approcciarsi al disabile, capire di quali metodi necessita per sviluppare quelle abilità, che

aveva perso o che forse non aveva mai posseduto e sentirsi soddisfatto delle piccole-

grandi conquiste che con il tempo raggiungerà. Tali conquiste non sono di certo né

condivisibili né immaginabili da altri. Solo chi vive tale esperienza in prima persona può

capire tutto ciò.

Ciascuno di noi nel corso della sua vita può confrontarsi con il mondo della disabilità, al

di là dei motivi professionali. Tutti noi nel corso della nostra esistenza abbiamo

sperimentato delle difficoltà che ci hanno fatto sentire “meno abili”. Scomponendo il

termine disabilità possiamo constatare come il suffisso “dis” è posto davanti al termine

“abile”. Dunque entrano in gioco le abilità e le capacità che ogni persona possiede al di là

del suo deficit. Ciascuno ha un proprio mondo, con all’interno i vissuti personali, il suo

carattere. Per questo motivo ogni essere umano è unico e speciale e la diversità

rappresenta una risorsa, in termini di arricchimento personale e di crescita. Come diceva

Aristotele l’uomo è un “animale sociale”, nel senso che tende spontaneamente alla

socialità e non può fare a meno di relazionarsi ad altri. La relazione con una persona

disabile rappresenta una risorsa purché ci sia ascolto, dialogo, confronto e riflessione. Uno

dei presupposti per la costruzione di interazione positiva con il disabile è l’ascolto

reciproco, con il quale si riconosce la presenza dell’altro. Se non c’è la predisposizione


all’ascolto è impensabile stabilire una relazione comunicativa, un dialogo con l’altro.

Nonostante i limiti fisici e psichici il diversamente abile è una persona capace di

trasmettere qualcosa di nuovo alla società. Ma l’ambiente sociale può essere negativo e lo

18
è quando non comprende i più deboli occupandosi solo dei cosiddetti “normali”, quando

non mette il disabile nelle condizioni di autodeterminarsi di scegliere liberamente cosa

voler fare della propria vita senza impedimenti (capability). Essi vivono tra di noi e con

noi e dunque non sono solo i più deboli a trarre benefici dalla società, ma è anche

quest’ultima che ottiene vantaggi dalla loro presenza. Predisponendoci al dialogo,

all’ascolto autentico di storie di vita dei disabili possiamo scoprire come la maggior parte

di essi sono in grado di trasformare la loro “sfortuna” in sfide consapevoli, riuscendo a

realizzare l’impresa più grande, vivere dignitosamente la loro vita.

La nostra Costituzione garantisce pari dignità sociale e uguaglianza di fronte alla legge, e

di conseguenza questo implica: il diritto di tutti allo studio, all’educazione, all’avviamento

professionale, sostanzialmente il diritto ad esser parte della società. Questi sono obiettivi

fondamentali da porre alla base di ogni progetto di integrazione e di apprendimento delle

persone disabili.

A tal proposito si possono citare diverse interviste rilasciate da persone colpite da deficit,

che, nonostante ciò, hanno raggiunto risultati importanti sia sul piano personale che sul

piano professionale, proprio per questo si potrà parlare di ricchezza del diverso. Uno di

questi è Giancarlo Abba5, colpito da cecità che oggi si trova a dirigere un Istituto di non

vedenti a Milano. Il direttore di questo centro milanese, in un’intervista spiega il modo in

cui è riuscito a trasformare il suo handicap in opportunità, realizzando il suo progetto di

vita. Ѐ impossibile immaginare una persona non vedente a capo di una struttura così

importante, ma Abba grazie alla sua forza di volontà e senza dubbio anche agli opportuni
e adeguati aiuti, sta cercando di aiutare persone con la sua stessa disabilità a realizzarsi,

nonostante il deficit che li colpisce.

Numerose sono le strutture nate dall’iniziativa dei disabili in Italia, una di questa è il Polo

tattile multimediale nato a Catania nel marzo del 2008, dove io stessa mi ritrovai a fare
5
Vitore Mariani, 2021 “Vite Reali, la disabilità tra destno e destnazione”.

19
esperienza nell’ottobre del 2015. Tale struttura comprende un Museo tattile, un bar al buio

e un giardino sensoriale, qui vi lavorano proprio i non vedenti ed è nato sia per essere da

supporto a tutti coloro i quali sono affetti da cecità, frequentando luoghi alla portata di

ogni giorno, come il bar , ma anche per tutti coloro che vogliono cimentarsi nel mondo dei

non vedenti, capire il modo in cui riescono a portare avanti questa attività, condividendo,

sperimentando e toccando con mano tutto ciò che vi è all’interno della struttura. Entrando

in questa struttura, fui subito colpita dall’accompagnatore non vedente, che mi prese per

mano e mi accompagnò nel bar al buio. All’inizio ciò che prevaricava in me era l’ansia,

non nutrivo fiducia nel mio accompagnatore, ma lui fu subito pronto a stupirmi. Mi fece

sedere vicino al balcone e mi chiese cosa volessi prendere da bere, ma per fare ciò dovevo

essere io stessa a trovare la bevanda che avevo scelto. Incredula, decisi di ascoltarlo, così

mi avvicinai al bancone e toccando le singole bottiglie capì subito qual era il modo di

riconoscere la mia bevanda: sulle bottiglie erano incise in rilievo le etichette. Soltanto

attraverso questa esperienza ho potuto riflettere sull’importanza di queste strutture per

disabili, all’interno della quale possono svolgere mansioni che li accomunano a noi, avere

i nostri stessi svaghi e allo stesso tempo, sentirsi utili per l’intera società. Attraverso

questa esperienza ho iniziato a guardare in modo diverso la categoria dei disabili e a

cogliere le loro potenzialità che rischiano di sfuggire ai nostri occhi. In quel momento a

sentirmi in difficoltà ero io stessa, non riuscivo a muovermi al buio se non attraverso il

supporto dell’accompagnatore disabile che a differenza mia sapeva muoversi bene nello

spazio.

Capitolo III: star bene a scuola


3.1 Una scuola inclusiva a misura del disabile

La scuola è considerata la seconda agenzia di socializzazione, all’interno della quale

ciascun alunno matura la sua personalità. La scuola è chiamata a svolgere determinati

20
compiti al fine di garantire l’opportunità di formazione di ciascun alunno; educare

attraverso l’istruzione, raggiungere gli obiettivi prefissati ricercando metodologie,

materiale didattico, vie curriculari che possano facilitare tale compito.

Una scuola di qualità deve porre al centro della propria attenzione le esigenze diversificate

di tutti gli allievi, nel rispetto del principio di pari opportunità e di partecipazione attiva di

ognuno. Deve, inoltre, continuare a muoversi su questa direzione anche di fronte agli

alunni disabili, garantendo loro un sistema di istruzione inclusivo a tutti gli effetti. La

scuola italiana negli ultimi anni ha fatto passi avanti per garantire l’integrazione scolastica

degli alunni con disabilità; ed è per questo che si è sentito il dover di sostituire il termine

inserimento del bambino disabile nella scuola, con il termine “integrazione”, termine che

esprime meglio l’idea che il compagno disabile non solo fa parte fisicamente di quella

determinata classe, ma cerca di integrarsi al gruppo-classe, condividendo le loro stesse

attività, e anche se in maniera più semplificata riesce ad eseguire gli stessi compiti che

vengono assegnati agli altri, sempre supportato da una figura specializzata nel sostegno.

Tale figura deve essere vista come una risorsa non soltanto per l’alunno disabile, ma anche

per l’intera classe per rispondere alle diverse necessità educative e facilitare la creazione

di un clima inclusivo. Non è soltanto compito dell’insegnante di sostegno incrementare la

didattica inclusiva a scuola, ma devono essere tutti i docenti in grado di far emergere

questo principio, prima di ogni altro insegnamento. Possiamo definirla una didattica

inclusiva di tipo democratico, perché non è soltanto rivolta ai diversamente abili, ma a

tutta la classe dove gli alunni da soggetti passivi diventano interlocutori attivi, in grado di

prendere decisioni con l’insegnante di comune accordo. All’interno della classe ciò che
deve emergere è lo spirito di gruppo, di cooperazione, di tutoraggio tra pari, attraverso il

quale l’insegnante può rendersi conto dei progressi raggiunti dagli allievi sia dal punto di

vista dell’apprendimento, sia sul piano delle capacità relazionali. Ma deve seguire anche

21
un’organizzazione flessibile, composta anche di momenti in cui il bambino tenderà ad

approfondire più attività individualizzate per il raggiungimento di obiettivi personalizzati.

La figura dell’insegnante incide fortemente sul bambino, nell’arco di tutta la sua vita ed è

per questo che il suo compito è il life long learning (apprendimento per tutta la vita) in

termini di aggiornamento professionale continuo in relazione alle diverse esigenze sociali

ed educative degli allievi.

Affinché questo processo didattico inclusivo sia possibile, si deve tener conto anche della

strutturazione degli spazi in cui tale insegnamento deve avvenire: per esempio, gli

insegnanti devono tener conto delle incapacità dell’alunno e per questo devono cercare di

creare un clima sicuro, fornendo informazioni essenziali, semplificare l’ambiente

percettivo riducendo, ad esempio, le distrazioni. L’insegnante potrà far ricorso all’uso dei

simboli o delle immagini , per esempio, potrà affiggere l’immagine del bagno, della

mensa o dell’area giochi nei singoli luoghi, in modo tale da permettere al bambino di

orientarsi facilmente all’interno della scuola, evitando situazioni di disorientamento,

oppure assegnandogli un contrassegno, per facilitarlo nell’individuazione del posto dove

dovrà sedere, o dove dovrà posizionare i suoi indumenti appena entrato in classe,

stimolando così le sue capacità. Chiarificare l’ambiente potrebbe ridurre l’ansia e

prevenire i problemi comportamentali nel bambino. Al fine di evitare problematiche varie

all’interno della classe, come l’isolamento, l’egocentrismo o episodi di aggressività,

l’insegnante dovrà adattare lo spazio- aula, disponendo i banchi degli alunni, non in modo

casuale seguendo particolari forme geometriche (es. a ferro di cavallo o in modo

circolare), ma li dovrà predisporre in modo tale da favorire le capacità relazionali tra


alunni e di aiuto reciproco. Per esempio, accanto ad un bambino con difficoltà potrà

sedere un bambino altruista pronto ad aiutare l’altro.

3.2 Le strategie cooperative

22
Promuovere esperienze di “apprendimento cooperativo” è importante sia perché, da un

lato, favorisce condizioni positive di apprendimento, e dall’altro, può motivare e rendere

disponibili i compagni all’accettazione e all’aiuto. L’educazione fra pari e, la promozione

di strategie collaborative è funzionale a facilitare apprendimenti curricolari,

potenziamento dell’autostima e la percezione di autoefficacia, lo sviluppo di competenze

sociali e la promozione dei processi inclusivi. Vigotskij, aveva affermato, che in qualsiasi

momento ed età, lo sviluppo cognitivo necessita dell’interazione sociale per espletarsi e

concretizzarsi pienamente. Ne consegue che le abilità si sviluppano meglio e di più sotto

la guida di un adulto grazie alla collaborazione tra pari piuttosto che attraverso

l’apprendimento individuale. Vigotskij ha evidenziato la presenza di un’area di sviluppo

prossimale, considerata come la distanza che passa tra lo sviluppo cognitivo derivante

dalle abilità di problem solving, realizzate individualmente e il livello di sviluppo

potenziale che si raggiungerebbe se la stessa attività fosse guidata da un adulto o in

collaborazione con i pari più capaci.

3.2.1 Peer Tutoring

La strategia di Peer Tutoring è una delle strategie di insegnamento che concretizza il

principio di inclusione determinando una forte motivazione negli alunni coinvolti. Questi

ultimi sono chiamati a svolere a rotazione i ruoli di tutor e tutees. Va sottolineata

l’importanza dei benefici che tale strategia può apportare ai tutor, ai tutees, agli insegnanti

e al sistema educativo nel suo complesso. Lo studente che riveste il ruolo di tutor,

attraverso la spiegazione del materiale ai tutees (gli altri studenti) può affinare le abilità

acquisite; i tutees possono apprendere meglio grazie al supporto dei pari attraverso
l’incremento dell’attenzione individuale; gli insegnanti, da un lato, sperimentano una

strategia che supporta e accresce il livello di cooperazione in classe, e dall’altro, si trovano

a gestire un tempo maggiore da dedicare alle attività per il miglioramento della didattica.

23
Ѐ importante che gli alunni con disabilità e altre forme di Bes svolgano il ruolo di tutor e

non soltanto quello di tutees. Il coinvolgimento di questa categoria di alunni è fortemente

gratificante a livello di autostima e sulla percezione di autoefficacia (Bandura, 1982). 6

Stainack e Stainback (1990) evidenziano come i programmi di Peer Tutoring si

caratterizzano in modo diverso in base all’età degli studenti, al grado di scuola, alle

materie di insegnamento. Gli studiosi individuano 3 modalità di Tutoring: fra pari di età;

fra alunni di età diversa; con allievi in difficoltà nel ruolo di tutor.

Nel primo caso, gli alunni hanno un livello di partenza simile fra loro, si suddividono in

coppie o piccoli gruppi. Al loro interno uno fra gli alunni riveste il ruolo di tutor, avendo

come obiettivo l’assistenza, la spiegazione del materiale scolastico agli altri compagni che

rivestono il ruolo di tutees. L’insegnante ha il compito di definire le modalità di

svolgimento di tale strategia, la durata, gli obiettivi, ruoli e adeguati materiali,

intervenendo nel caso in cui emergano difficoltà.

Nel caso di Tutoring fra allievi di età diversa, gli alunni di età maggiore forniscono

assistenza e aiuto ai compagni più giovani, utilizzando i materiali didattici predisposti

dall’insegnante.

Per la progettazione di programmi di Peer Tutoring a favore di alunni disabili e in generale

alla categoria di BES7, l’insegnante deve attenzionare una serie di elementi: il contesto

all’interno del quale il programma viene attuato; la selezione degli allievi, in quanto non

bisogna far valere il principio del ragazzo più bravo e disciplinato che aiuta il più debole,

6
L’autoefficacia è un processo cognitvo chiave identficato dallo psicologo Albert Bandura per l’analisi
dell’agentvità umana. Può essere definita come una capacità generatva il cui scopo è quello di orientare le
singole soto abilità cognitve, sociali, emozionali e comportamentali in maniera efficiente per assolvere a scopi
specifici.
7
BES è l’acronimo di Bisogni Educatvi Speciali. Questo termine è entrato in vigore in Italia dopo l’emanazione
della Diretva ministeriale del 27 dicembre 2012 “Strument di Intervento per alunni con Bisogni Educatvi
Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastca”. La categoria dei BES rientra all’interno della
categoria dei DSA (Disturbi specifici dell’apprendimento) introdota dalla legge 170 del 2010. Un Bes può
derivare da: differenze linguistche e culturali; uno svantaggio di natura sociale e/o culturale; un disturbo
specifico dell’apprendimento o evolutvo; una disabilità fisica o mentale.

24
ma è importante coinvolgere e render parteci anche questi ultimi nel ruolo di tutor, oltre

che di tutees, i contenuti sui quali costruire strategie di Peer Tutoring; i materiali didattici

da utilizzare e, infine, gli aspetti organizzativi in termini di tempi, luoghi ecc.

Nello specifico l’insegnante svolge la funzione di supervisione, in quanto può intervenire

per facilitare le modalità di esecuzione delle strategie di Peer Tutoring e fare un passo

indietro quando il programma sta funzionando, limitandosi ad incrementare la

motivazione degli studenti attraverso le gratificazioni.

Diversi sono i vantaggi che si riscontrano adottando tale metodologia educativa; in primis

lo studente “tutees”, grazie al supporto del tutor può apprendere più facilmente e in modo

più rapido le conoscenze che erano state prefissate nel PEI (Piano Educativo

Individualizzato), che in alcuni casi senza l’intervento di una figura di supporto,

difficilmente si sarebbero potute raggiungere; altro vantaggio è il rapporto che si istaura

tra il tutor e l’alunno, destinatario dell’apprendimento, attraverso il quale da un lato

avviene quanto descritto prima, e dall’altro, la sfera relazionale garantisce un clima

positivo in classe.

3.2.2 Cooperative Learning

Mitchell sottolinea come in concreto, il Cooperative Learning si fondi su due

caratteristiche fondamentali: l’effetto sinergico tra gli individui che collaborano e

cooperano, e, in questo modo si avranno risultati migliori in termini di apprendimento

rispetto a situazioni di apprendimento individuali; la seconda caratteristica riguarda il

riconoscimento di come la gran parte della conoscenza si costruisce socialmente grazie al

contatto e all’interazione. Il gruppo fondato sul Cooperative Learning deve essere


caratterizzato da un numero limitato di studenti, affidando a ciascuno di essi un compito

ben preciso. Vanno formati in modo eterogeneo, per quanto riguarda il livello di

competenze, la classe sociale, il sesso, evitando la creazione di gruppi di livello.

25
Per poter realizzare concretamente apprendimenti cooperativi efficaci, è necessario

lavorare sulla costruzione di un clima che sia collaborativo e non competitivo, sulla

creazione di interdipendenze positive. Quest’ultima si determina quando ogni membro del

gruppo si preoccupa non solo dei propri risultati conseguiti ma anche di quelli dei

compagni, acquisendo la consapevolezza che per raggiungere un obiettivo o un compito

occorre cooperazione, non è sufficiente agire da soli. Ѐ importante la definizione di

obiettivi comuni da perseguire individuando le responsabilità individuali e quelle del

gruppo, attraverso la divisione dei compiti. Ѐ necessaria la disponibilità di tutti i membri

di collaborare a favore del compagno in difficoltà, non sostituendolo ma aiutandolo nei

compiti che gli sono stati richiesti di svolgere. L’insegnante, per garantire ciò, non deve

limitarsi ad una modalità educativa unidirezionale, ma deve cercare di facilitare i processi

di apprendimento di ciascuno.

Ultimo aspetto importante da sviluppare è il miglioramento continuo del lavoro di gruppo

attraverso la riflessione e la valutazione critica del lavoro di gruppo, dei risultati

conseguiti e della qualità dei loro rapporti interpersonali.

3.3 Clima positivo e regole condivise in classe

Il clima che si respira in classe e l’atteggiamento assunto dagli insegnanti hanno una

valenza determinante sulla qualità dell’apprendimento di tutti gli allievi. Il clima può

essere contraddistinto dal prevalere di uno stile collaborativo e positivo, oppure

caratterizzato dal prevalere di uno stile competitivo e individualistico.


Innanzitutto è necessario prestare attenzione all’organizzazione della classe come

ambiente fisico, che deve essere accogliente e organizzato in modo da favorire lo spirito

collaborativo e il benessere personale.

26
Mitchell8 individua tre fattori integrati tra loro per la promozione di un clima positivo e

favorevole all’interno della classe: la qualità e l’intensità delle relazioni che si vengono ad

instaurare; favorire l’apprendimento di tutti e di ciascuno; modalità di gestione della

classe da parte dell’insegnante mediante la condivisione di regole. Per quanto riguarda il

primo aspetto è necessario puntare sulla qualità delle relazioni, è fondamentale che tutti

gli alunni si sentano importanti per gli insegnanti e per i compagni, dunque anche il

disabile. L’insegnante deve accettare e valorizzare ciascun allievo, deve promuovere

lavori collaborativi, in modo tale che ciascuno sperimenti quel senso di appartenenza al

contesto classe. Quando essi si sentono valorizzati si dimostrano più inclini ad accettare

l’autorità dell’insegnante e a rispettare le regole di convivenza sociale.

Le relazioni devono basarsi sulla conoscenza e il rispetto delle differenze, per avvicinare

le singole individualità e analizzare i bisogni di ciascuno. Questa è la condizione che

favorisce lo spirito di gruppo e configura la classe come un contesto di apprendimento

collettivo. Gli alunni disabili, in seguito alle frequenti esperienze di insuccesso, possono

manifestare un senso di inadeguatezza e sfiducia generale verso la loro partecipazione

attiva in classe. Di fronte a tale rischio, è importante l’atteggiamento dell’insegnante che

deve dedicare maggiore attenzione a ciascun alunno, trasmettendogli il suo interesse e

autostima: se in primis l’insegnante crede nelle capacità degli alunni, anche questi

svilupperanno maggior fiducia in sé stessi e nelle loro capacità.

Per quanto riguarda l’apprendimento di tutti e di ciascuno, è necessario che l’insegnante

adotti delle metodologie che possano garantire il successo formativo di tutti. A tal
proposito, Lucio Cottini9, individua tre aspetti per configurare la classe come contesto di

apprendimento: attenzione a come vengono presentati gli obiettivi; promozione della

8
Mitchell (2014) propone le strategie per una didatca inclusiva e per la promozione di un clima positvo.
9
Lucio Cotni (2017) “Didatca speciale e inclusione scolastca”, Carocci Editore, 2017

27
cooperazione; mostrare agli allievi come essi siano i veri responsabili del proprio

successo.

Appare necessario illustrare gli obiettivi della classe e dei singoli allievi (risultati

individuali e di gruppo) per stimolare ulteriormente lo spirito di gruppo, nella convinzione

che solo agendo come gruppo si potranno affrontare e superare le difficoltà individuali.

L’insegnante deve cercare di stabilire un equilibrio tra il prevalere di un clima competitivo

e atteggiamenti di individualismo, e uno spirito collaborativo e di interazione positiva.

L’organizzazione individualistica della classe si caratterizza per la tendenza degli studenti a

lavorare da soli, senza manifestare interesse verso i successi e gli insuccessi dei

compagni. In questo caso gli alunni con particolari difficoltà possono manifestare

demotivazione e una rinuncia verso il compito.

Quando, invece, nella classe prevale un clima competitivo, gli allievi interessandosi ai

propri risultati tendono a primeggiare sugli altri dimostrando i propri successi ad

insegnanti e compagni.

Lo spirito cooperativo favorisce solidarietà e interdipendenza positiva, in quanto tutti si

sentono importanti e utili. Gli studenti cercano di raggiungere i risultati congiuntamente,

ognuno si preoccupa del proprio apprendimento e di quello dei compagni. L’allievo, in un

contesto classe dove primeggia la tendenza alla cooperazione, sviluppa la consapevolezza

di quanto sia importare aiutare chi ha più necessità, ma concretizza anche l’idea che, se

avesse bisogno di aiuto, troverebbe supporto sia nel proprio insegnante che nei propri

compagni.

3.4 Didattica laboratoriale: learning by doing


Dewey è il massimo esponente dell’attivismo educativo, segnò il passaggio

dall’insegnamento come trasmissione unidirezionale di conoscenze alla valorizzazione

dell’insegnante come ricercatore che deve costruire un ambiente di apprendimento pratico

28
e costruttivo per favorire le potenzialità del soggetto - persona unico e irripetibile.

Al centro del rapporto educativo deve esserci lo studente con i suoi bisogni educativi. Ciò

significa che l’insegnante deve costruire un ambiente di apprendimento tale da far

sviluppare le capacità di apprendimento del soggetto nelle situazioni educative. In questo

senso l’apprendimento deve essere pratico, secondo il principio di learning by doing

(imparare facendo), proprio perché deve mettere lo studente in condizione di verificare

costantemente e nelle situazioni pratiche le sue capacità di apprendimento.

L’attivismo, da un lato, intende denunciare i difetti più gravi della scuola ufficiale: la

sedentarietà, lo stare ad ascoltare la disciplina imposta, il verbalismo e l’insegnamento

collettivo predominante, la recettività, l’assenza di iniziativa, e dall’altra parte, intende

mostrare l’importanza dei metodi di individualizzazione, delle attività pratiche e manuali,

del movimento, di una vita ricca di esperienze, dell’espressione nelle varie forme

concrete.

Una didattica laboratoriale, dunque, è espressione della scuola democratica, una didattica

che costruisce un ambiente di apprendimento, individualizzata, che promuove

l’atteggiamento cooperativo della classe, non un laboratorio come fatto isolato in una

scuola che resta sostanzialmente tradizionale. Quindi sono necessari mutamenti radicali di

organizzazione, di obiettivi, di metodi e comportamenti. Vi sono diverse strategie che si

sviluppano attorno al concetto di learning by doing, avvicinando il momento formativo

trasmissivo scolastico a quello dell’azione pratica:

-project work: progetto realizzato in aula dagli studenti dopo una serie di lezioni

introduttive ed esplicative;
-business game: gioco di simulazione da svolgere in gruppi sull’attività di impresa o di

marketing;

29
-role playing: gioco di ruolo dove gli studenti interpretano un personaggio che interagisce

in uno spazio immaginario, in un ambientazione che può ispirarsi ad un romanzo, un ilm o

alla realtà;

-Fab lab didattici: piccole officine che realizzano progetti in forma digitale:

-Atelier creativi, aule laboratorio: per la realizzazione di video, app, giochi, arte e musica

digitale. Lo scopo è quello di riportare a scuola il fascino dell’artigianato integrato con i

progressi delle tecnologie digitali nel mondo contemporaneo.

L’apprendimento si attua essenzialmente in laboratorio. Ma cos’è un laboratorio? È un

luogo fisico in cui materiali, attrezzature, metodologie ed esperti sono a disposizione degli

studenti perché facciano le esperienze necessarie all’acquisizione delle conoscenze, delle

abilità ed affrontino e risolvano problemi, avendo un controllo organizzativo delle attività

in relazione alla vita scolastica complessiva. Il termine laboratorio va inteso in senso

estensivo come qualsiasi spazio fisico, operativo e concettuale adattato ed equipaggiato

per lo svolgimento di una specifica attività formativa. Con il lavoro in laboratorio lo

studente domina il senso del suo apprendimento perché opera concretamente e perché

impara facendo.

Per perseguire finalità educative così complesse è necessario ripensare alle proposte

educative tradizionali.

3.5 Integrazione della tecnologia nella didattica


L’insieme delle tecnologie per la didattica comprende tutti quegli strumenti hardware o

software che possono essere utilizzate per facilitare l’apprendimento degli studenti oltre

che l’insegnamento. I materiali didattici e gli strumenti digitali sono in grado di rendere

più motivante il processo di insegnamento - apprendimento e migliorare il clima di classe.

30
Un valido supporto a bambini e ragazzi con DSA è rappresentato dai cosiddetti strumenti

compensativi, ovvero da quegli “strumenti didattici e tecnologici che sostituiscono o

facilitano la prestazione richiesta nell’abilità deficitaria”. Gli strumenti compensativi

rappresentano dei veri e propri “mediatori didattici”, che non risolvono il problema, ma

permettono al bambino di contenerlo e di raggiungere, in relazione alle potenzialità

personali, gli obiettivi di apprendimento previsti per la classe frequentata. I mediatori

didattici permettono di compensare diverse attività come lo studio, la lettura, la scrittura e

il calcolo. Se usati in classe questi strumenti rappresentano un sistema di risorse per

l’apprendimento scolastico, in alternativa ai metodi tradizionali.

Tra i diversi strumenti compensativi digitali rientrano: la sintesi vocale, riconoscimento

vocale, ebook e audiolibri, riconoscimento vocale, programmi per la creazione di mappe

concettuali:

-La sintesi vocale è un software che permette la lettura automatica di testo digitale

presente su file PDF o sulle pagine web.

- Il riconoscimento vocale: riconosce e trasforma in testo elettronico quello che viene

pronunciato ad un microfono. Mediante tale supporto, una persona che ha difficoltà a

scrivere con la tastiera o che impiega molto tempo, può dettare il testo al computer.

-I libri digitali e gli audiolibri: registrazioni audio di libri letti ad alta voce da uno o più

lettori. Questi sono una risorsa interessante per avvicinare alla lettura chi non riesce a

leggere autonomamente.
-Programmi per la creazione di mappe: questi software permettono di creare mappe

concettuali che permettono di riassumere e schematizzare argomenti, nessi logici e

informazioni salienti.

Un altro strumento importante, sia per la professionalità docente che per gli studenti è la

Lavagna Interattiva Multimediale (LIM). Insegnare in classe con il supporto di video,

31
immagini e materiale interattivo, è molto importante in un contesto scolastico

caratterizzato dalla necessità di reinventare un linguaggio efficace ed inclusivo. La LIM

non può essere utilizzata per svolgere un tipo di lezione frontale, ma è uno strumento

versatile perché da un lato facilita la comprensione del singolo alunno, dall’altra, diventa

il focus su cui attirare l’attenzione del gruppo classe in una dimensione cooperativa.

CONCLUSIONI

Le persone con disabilità possono diventare soggetti socialmente attivi se supportati in

questo. Il dovere di tutta la società è quello di farsi carico delle loro volontà e di

assumerle socialmente, politicamente, eliminando qualsiasi ostacolo psicologico,

giuridico, fisico che tenda a isolarla, eliminando qualsiasi forma di pregiudizio.

Fondamentale è l’abbandono di forme di assistenzialismo che finiscono per considerare i

disabili come soggetti da proteggere e da assistere. Bisogna guardare alle persone disabili

in modo attivo, come risorse positive per l’intera comunità, senza eccessive forme di

pietismo.

La nostra società ha fatto molti passi in avanti, ma molti altri se ne dovranno fare per

realizzare una piena inclusione del soggetto disabile nel tessuto sociale.
32

Bibliografia

(Canevaro & Erikson, (2006) Le logiche del confine e del sentiero)

( Cottini, (2017) Didattica speciale e inclusione scolastica)

(Larocca & Franco Angeli, (2003) ( Maria Zanichelli, (2012) Persona prima che disabile)

( Vittore Mariani, (2021) Vite Reali, la disabilità tra destino e destinazione)

( Nei frammenti l’intero, una pedagogia per la disabilità)


33

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