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NOVECENTO PEDAGOGICO
CAPITOLO 1, MODERNITA’, SCIENZA E PEDAGOGIA TRA OTTO E NOVECENTO
1. Affermarsi della civiltà moderna
La pedagogia non fu estranea a quel grande processo di cambiamento e di modernizzazione che contraddistinse la cultura
europea della seconda metà del XIX secolo, segnato dall’idea positivistica di progresso e di sviluppo illimitato governato
dalla razionalità scientifica. Positivismo, scienza positiva, positivista erano espressioni già entrate nel linguaggio
intellettuale qualche decennio prima per iniziativa del filosofo e sociologo francese Compte con “Corso di filosofia
positiva”. Da quel momento in poi la cultura romantica e spiritualista fu incalzata dall’avvento dello studio positivo
dell’umanità basato sui fatti e ligio al presupposto che non vi può essere libertà dove non c’è verifica scientifica. Si iniziò a
parlare di cultura e civiltà moderna o di modernità.
La modernità poggiava sulla convinzione di aver finalmente scoperto la chiave in grado di aprire tutte le porte della
conoscenza e il segreto per assicurare all’umanità una convivenza pacifica. Compte aveva formulato la Legge dei tre stadi.
Secondo tale legge l’umanità passa attraverso tre stadi:
1. Teologico  eventi umani, naturali e sociali vengono giustificati mediante l’intervento di agenti soprannaturali.
2. Metafisico  eventi spiegati ad opera di idee e forze astratte
3. Positivo  lo spirito umano, riconoscendo l’impossibilità di ottenere conoscenze assolute, si limita a scoprire le
leggi effettive attraverso l’uso combinato del ragionamento e dell’osservazione.
Il “fatto” assurse l’applicazione del metodo razionale maturato dalle scienze matematiche e naturali fu esteso anche a
fenomeni naturali e sociali. Di conseguenza l’unica conoscenza di cui l’uomo poteva essere certo era quella che poggiava su
fatti che assumevano la dignità di “fatti osservati”.
Modernità e scienza si presentano come categorie strettamente e indissolubilmente intrecciate. Alla scienza era deputata la
soluzione dei problemi e delle difficoltà che si frapponevano al progredire della modernità.
Lo sviluppo industriale aveva innescato un processo di trasformazione delle condizioni di vita della società europea. Le
scoperte della medicina e le pratiche igieniche debellarono antichi mali, sconfissero le epidemie che in passato avevano
falciato la popolazione e consentirono di prolungare la vita media di individui e ridimensionare la piaga della mortalità
infantile. La scuola cominciò ad aprirsi anche alle classi subalterne che potevano in tal modo accedere almeno agli elementi
più semplici del sapere.
Non tutti condivisero la visione razionalistica e scientista che animava gran parte della cultura positivista. Il mondo cattolico
vide a lungo nella modernità il prolungamento di quell’azione diabolica che si proponeva di sradicare la fede religiosa.
L’analisi critica della società borghese svolta dal marxismo intendeva dimostrare come quella fosse strutturalmente incapace
di risolvere i problemi dell’ingiustizia sociale in quanto espressione degli interessi economici dei capitalisti.
2. Educazione come fatto naturale
La cultura della modernità pose uno dei suoi presupposti nella forza dell’educazione. L’educazione alla quale pensavano i
positivisti si svolgeva in una prospettiva del tutto diversa dalle prevalenti tendenze spiritualistiche che fino ad allora avevano
tenuto in campo. Essa era concepita come fatto naturale, ovvero un campo di applicazione ampia e razionale delle leggi
messe a punto sul piano biologico, psicologico, biologico ed etico. Queste scienze dovevano fornire all’educazione i dati
intorno a cui costituire la scienza dell’educazione.
La pedagogia concorreva alla realizzazione della modernità nella misura in cui accettava di considerare l’uomo per quello
che di fatto risultava sulla base di analisi biologiche e sociali. Essa doveva rinunciare ad elaborare valori individuati oltre
all’esperienza umana ed affidarsi alle leggi dettate dalla scienza sperimentale.
Secondo l’analisi positivista essa aveva ai suoi capisaldi due principi fondamentali:
1. Educazione come fatto naturale
2. Associato alla concezione evolutiva di cui Compte si era fatto interprete e che assunse importanza sempre crescente:
anche l’educazione non fuggiva alla legge dell’evoluzione.
Due autori furono destinati ad assumere una straordinaria importanza e segnare un’epoca: Darwin associato alla
formulazione della teoria dell’evoluzione della specie o evoluzionismo e Spencer che si prefisse di estendere l’impostazione
evolutiva a tutti gli aspetti della vita naturale, biologica, sociale, politica ed anche educativa.
Darwin si occupo né di educazione né di pedagogia, ma è impossibile rendere conto delle nuove prospettive aperte dalle
teorie evoluzioniste anche in questo settore, senza aver chiaro il quadro di riferimento del principio evoluzionistico tracciato
da Darwin. La sua teoria “Origine della specie per la selezione naturale” rappresentò una vera svolta per quanto riguarda la
concezione dell’uomo. Con Darwin cambiava il posto dell’uomo nella natura visto come prodotto di un complesso gioco di
forze naturali. Nella visione darwiniana la natura si esprimeva in divenire secondo un piano in cui la presenza dell’uomo era
considerata soltanto come tassello dell’evoluzione dell’universo. Per D. l’uomo era parte stretta della natura. Spettò a
Spencer dare una consistenza filosofica all’evoluzionismo. Secondo S. l’evoluzione si svolge mediante passaggi da una
forma meno coerente a una più coerente, dall’omogeneo all’eterogeneo, dall’indefinito al finito. Il cammino dell’evoluzione
sarebbe sostenuto da un moto propulsivo (differenziazione) e da una forza di conservazione e riutilizzazione delle esperienze
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(ereditarietà).
L’intelligenza umana si presenterebbe come un dato ereditario consolidato durante l’evoluzione mediante un progressivo
accumulo di esperienze. Spencer definì la propria concezione di educazione secondo cui il punto di partenza poteva essere la
semplice pianificazione delle tappe mediante cui assicurare agli uomini una vita completa.
Il filosofo concentrò la sua attenzione sui comportamenti pratici, personali e sociali.
Secondo Spencer non esistono obbligazioni morali o comportamenti permanenti e validi in ogni tempo e situazione, ma i
comportamenti sono il risultato dell’evoluzione. Lo scopo dell’educazione era il perfezionamento razionale dei risultati
raggiunti dalla specie umana nel corso dell’evoluzione.
Lo scopo dell’educazione era il perfezionamento razionale dei risultati raggiunti dalla specie umana nel corso
dell’evoluzione. Ad asse angolare dell’intervento educativo Spencer poneva l’educazione fisica in quanto l’uomo era visto
come un essere organico sensibile. All’educazione fisica si doveva accompagnare l’educazione intellettuale concepita come
introduzione del metodo scientifico. Spencer intendeva affermare la netta superiorità della conoscenza personalmente
verificata rispetto alla conoscenza affidata alla semplice opinione senza il sostegno del riscontro obiettivo. Con analoghe
preoccupazioni pratiche si doveva svolgere l’educazione morale concepita come semplice constatazione che quanto più
l’agire umano si fosse scostato dalle regole naturali e consuetudini sociali tanto maggiori potevano essere le conseguenze
dannose. Anziché infliggere punizioni dolorose si dovevano lasciar sperimentare le conseguenze degli errori, lasciando
trovare in esse la punizione relativa.
3.Fisionomia e valori della società borghese
Darwinismo e Spencerismo ebbero larghissima circolazione culturale in Europa e un’influenza più profonda e duratura di
quella di Compte che pure aveva aperto la strada della modernità.
Il passaggio alla modernità dettata dai principi teorici del positivismo e dai loro allievi dovette fare presto i conti con una
realtà assai complessa da governare. I processi di modernizzazione incontravano una grandissima difficoltà a creare un
sistema altrettanto organico.
La società moderna si costituì intorno a tre soggetti principali: l’affermarsi della moderna borghesia, il dinamismo impresso
alla vita dalla civiltà industriale e l’emergere della vita urbana come modello sociale preferibile.
Il primo protagonista fu il BORGHESE, l’uomo d’affari, proprietario agricolo o padrone d’industria, banchiere, grande
commerciante, dotato di una forza economica superiore a qualsiasi aristocratico.
L’affermarsi del nuovo ceto portò con sé una serie una serie di nuovi valori e norme di vita: prestigio e rispettabilità
personali e famigliari giudicate condizioni per raggiungere il successo economico, la visione laica, il dinamismo negli affari,
l’etica individualistica e la conseguente identificazione degli interessi privati con quelli pubblici, la concezione gerarchica
della società.
Un secondo fenomeno fu il DINAMISMO SOCIALE superiore al passato come rivelava l’affermazione di quei ceti che si
interposero con la relativa autonomia tra alta borghesia e le classi operaia e contadina. La media e piccola borghesia
crebbero con lo sviluppo della società industriale e l’espansione dell’area delle attività terziarie come dimostra il fatto che
verso la fine del secolo nei due paesi più industrializzati d’Europa esse rappresentavano circa un quarto della popolazione
totale.
Due grandi fattori tenevano insieme grande e medio-piccola borghesia: il fatto di non svolgere in genere attività manuali e di
essere scolarizzati a livello secondario o superiore.
Il terzo grande scenario della società borghese fu costituito dalla CIVILTA’ INDUSTRIALE e urbana. La città fu il cuore
della modernizzazione: nuovo modo di produrre e di consumare, qui si avviarono processi di secolarizzazione e si dissolsero
più nettamente e radicalmente gli antichi valori e legami con il passato che persistettero più a lungo nella società rurale.
Fra Ottocento e Novecento la crescita urbana fu impetuosa. Nella città si concentrarono anche luoghi della politica, le fonti
della ricchezza, i centri di cultura, come università e scuole, molteplici occasioni di svago e divertimento.
La città favorì la sperimentazione di nuovi modelli di rapporti interpersonali aperti a stili di vita che si ispirano a nuovi
valori.
4. Durkheim: l’educazione come socializzazione
La società borghese si presentò come un fenomeno percorso da trasformazioni tanto profonde quanto repentine e si sviluppò
attraverso tensioni e difficoltà che misero a dura prova il fiducioso ottimismo che percorreva in genere la mentalità
positivista.
Con la teoria dell’educazione come fatto naturale Spencer affermò un principio assai innovativo giudicando l’educazione
dell’uomo alla stregua di un puro e semplice adattamento evolutivo.
D. compì un passo più in là, proponendosi di indagare i modi di agire e di pensare collettivi e i loro rapporti con la genesi e
il funzionamento delle istituzioni, applicando le leggi dell’evoluzione all’analisi sociale. D. venne considerato uno dei
promotori della scienza sociologica moderna.
Durkheim nega che l’educazione sia il risultato di processi esterni all’esperienza dell’uomo, ma nega altresì che essa sia
soltanto un pacifico adattamento psico-fisico. Essa è un fatto sociale. L’educazione varia a seconda delle condizioni storiche
delle classi sociali e poggia su una base di norme, sentimenti e modelli di comportamento largamente condivisi in una
determinata epoca. Per lo studioso francese educare significa formare in ragione ad una determinata società. L’uomo è
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educato bene nella misura in cui è ben socializzato.


Secondo D. in ciascun individuo coesistono due esseri che sono tuttavia distinti: uno è costituito da tutti gli stati mentali che
riguardano solo noi stessi e gli avvenimenti della nostra vita sociale e personale (essere individuale). L’altro è un sistema di
idee, di sentimenti, di abitudini che esprimono in noi il gruppo o i gruppi diversi dei quali facciamo parte (essere sociale).
Costituire questo essere in ciascuno di noi è lo scopo finale dell’educazione.
L’obiettivo dell’intervento educativo è dunque quello di innalzare l’individuo al di sopra di sé stesso, conformandolo
all’ideale espresso dalla coscienza collettiva e sistemandolo nel ruolo più adatto al mantenimento dell’ordine complessivo.
Lo spirito di disciplina è il primo elemento della morale. Le regole assicurano una forte stabilità; la stabilità è un bene
perché senza ordine non c’è progresso, il complesso delle regole è sottratto all’arbitrio del singolo e gode dell’autorità per
imporsi alla collettività in quanto finalizzato al mantenimento dell’ordine e alla formazione di buone abitudini.
Senza spirito di disciplina non possono maturare l’attaccamento ai gruppi sociali e l’autonomia della volontà, cioè due ideali
che egli pone a fondamento dell’etica personale e collettiva.
La scuola nell’impostazione di D. riveste un ruolo strategico nella costituzione della nuova società moderna borghese in
quanto rappresenta un ruolo privilegiato per la formazione dell’individuo e la trasmissione dell’ethos collettivo. La scuola
contribuisce in tal modo a rendere possibili integrazione e riproduzione.
I processi educativi/integrativi si svolgono secondo una logica stabilizzatrice che diffida di qualsiasi illusione spontaneista
sia sul piano sociale sia su quello individuale.
La perfetta geometria disegnata dal sociologo francese trova nello Stato un garante e promotore di socialità. D. riconosce
alla società una sua autonomia e una capacità di iniziativa che non può essere interamente ricondotta sotto il potere dello
Stato. Allo Stato spetta il compito di supremo regolatore della disciplina nazionale e interprete, in apparenza superiore alle
parti e disinteressato, dei compiti e delle tensioni sociali.
Il problema che assillava D. era quello dell’ordine, di come promuoverlo e di come conservarlo anche nella società moderna
nella quale il mutamento sociale si sviluppa come differenziazione, crescente divisione del lavoro e specializzazione delle
funzioni delle parti.
5. La scuola nella società borghese
La scuola fu una tipica espressione della cultura borghese, assumendo importanza e fisionomia abbastanza diverse rispetto a
quelle del passato. La scuola fu conseguentemente reputata un efficace strumento per trasmettere e consolidare i nuovi
valori della modernità. I cambiamenti produttivi legati ai processi di industrializzazione rendevano necessaria una
preparazione almeno elementare di larga parte della popolazione.
La frequenza della scuola fu un requisito associato all’identità del cittadino/suddito o funzionale alla condizione borghese.
Resta da chiedersi quali furono le ragioni che agevolarono nel XIX secolo la generalizzazione ella scuola elementare e il
rilevante incremento della scolarità secondaria e della frequenza universitaria e perché questi fenomeni trovarono particolare
impulso proprio nella stagione positivistica.
Si trattò di un insieme si cause in cui interagiscono il maggior dinamismo della civiltà moderna impresso dalla produzione
industriale, l’estendersi dei mercati, la più ampia diffusione della cultura scritta, la modernizzazione degli stili di vita che in
genere si ispirarono alle abitudini e alle consuetudini dei ceti borghesi e del buon borghese, come sappiamo, legittimava sé
stesso e il proprio ruolo con un titolo di studio.
La scuola fu concepita come un formidabile strumento per creare mentalità più dinamiche e disposte a creare una società
diversa da quella tradizionale.
La promozione attraverso la scuola delle forme di vita borghese entrò spesso in rotta di collisione con la Chiesa.
Fu soprattutto a livello di istruzione secondaria he il modello scolastico borghese manifestò la sua forza innovativa, sulla
scia di quanto avevano indicato le riforme scolastiche di Napoleone. L’interesse della borghesia si rivolse soprattutto alla
preparazione della futura classe dirigente. Le scuole a base di cultura classica continuarono a restare al centro dei sistemi
scolastici nazionali, nonostante la creazione di nuovi generi di scuola d tipo tecnico e professionale funzionali alle esigenze
e ai bisogni del mondo industriale.
6. Pedagogia e psicologia sperimentale: esperienza tedesca
Ai mutamenti in nome della modernità della cultura, del costume, delle mentalità corrispose l’idea di pedagogia alla cui
definizione contribuirono diversi fattori.
In Germania, le esperienze nel campo della psicologia e in quello della preparazione degli insenanti rappresentarono un
importante punto di avvio. Il mondo pedagogico e scolastico tedesco fu considerato un significativo punto di riferimento in
tutta Europa e anche in Italia.
Il laboratorio di psicologia sperimentale diretto da Wundt costituì un crocevia di studi, di ricerche e di studiosi destinati ad
avere larga influenza non solo in Europa ma anche negli USA. Nel laboratorio di Wundt venne creata la psicologia
scientifica e ambirono a dimostrare in modo sperimentale il funzionamento di alcuni aspetti della psiche umana. Gli interessi
di Wundt riguardarono soprattutto l’analisi dei dati dell’esperienza e degli “atti” o “processi mentali” attraverso cui questi
vengono fatti propri dal soggetto. I contributi più significativi del laboratorio di Lipsia riguardarono la visione, il tatto, il
senso del tempo, l’udito e i tempi di reazione.
L’insegnamento sarebbe stato tanto più efficace quanto più avesse potuto disporre di migliori conoscenze dei dinamismi
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psichici.
Nel secondo Ottocento la scuola di Wundt entrò in contatto con Herbart, che si era sforzato di creare una scienza
dell’educazione basata su un metodo verificabile. Per Herbart l’educazione doveva avere come base due saperi
fondamentali: la psicologia e l’etica. La prima, perché introduceva ed esplicava i processi relativi alla conoscenza,
all’apprendimento, ai comportamenti; la seconda chiariva la natura, l’estensione e la giustificazione delle norme morali e
delle condotte umane.
La struttura metodologica definita da Herbart si prestò per fornire le premesse del passaggio dalla vecchia alla nuova
pedagogia e questo ne spiega il largo successo non soltanto in Germania ma anche negli USA, in Inghilterra e i Italia.
Da quel momento in poi la psicologia entrò a poco a poco nei programmi di formazione degli insegnanti e contribuì al
cambiamento di pratiche e metodi didattici.
8. La scala metrica dell’intelligenza di Binet e Simon
Toccò a Cattel (psicologo americano) introdurre per primo l’uso di un’altra tecnica entrata nell’uso corrente e cioè i test
mentali. Gli studi sui test mentali generali aprirono la strada alla loro applicazione anche nell’età evolutiva. Nel 1905 gli
psicologi Binet e Simon pubblicarono sulla rivista L’année psychologique una serie di articoli con cui presentarono una
scala metrica dell’intelligenza, poi largamente diffusa.
Nel 1902 Binet e Simon erano stati incaricati dalla società per lo studio psicologico del fanciullo di compiere un’indagine
sull’intelligenza degli alunni delle scuole elementari della capitale francese per individuare i ritardati mentali da destinare ad
apposite iniziative di recupero. I due studiosi si resero ben presto conto che i metodi allora in uso per verificare il livello
mentale dei soggetti studiati non erano in alcun modo attendibili. Prese dunque corpo il progetto di predisporre una batteria
di test mentali e reattivi organizzati secondo una scala metrica corrispondente alle varie età e non legati a particolari
competenze di carattere culturale.
Binet ha descritto il modo con il quale la scala metrica fu costruita, avvalendosi delle osservazioni condotte in scuole
elementari e materne, ma anche in ospedali ed ospizi. L’idea principale della misurazione è stata la seguente: inventare un
gran numero di prove nello stesso tempo rapide, precise e in difficoltà crescente. Sperimentare queste prove su un gran
numero di bambini di età differente e annotare i risultati.
Sulla base dei risultati raggiunti dai due psicologi francesi, venne messa a punto la scala metrica. Le reazioni e le risposte
alle prove permettevano di stabilire se il soggetto fosse in ritardo, regolare o precoce rispetto alla sua età effettiva. Binet e
Simon introdussero in tal modo il concetto di età mentale, destinato ad avere una grande influenza per meglio calibrare e
organizzare in funzionamento della vita scolastica. Qualche anno più tardi Stern mise a punto il quoziente di intelligenza,
ottenuto mediante il calcolo del rapporto tra l’età mentale e quella cronologica.
Le ricerche sull’intelligenza infantile consentirono a Binet di chiarire le differenze tra intelligenza dell’adulto e quella del
bambino, questione di notevole rilievo e interesse per le implicanze sul piano degli apprendimenti e in seguito attentamente
indagata e approfondita negli ambienti psico-pedagogici ginevrini. Secondo Binet gli elementi costitutivi dell’intelligenza
adulta e infantile erano medesimi ma del tutto diverse risultavano le modalità attraverso cui operavano nell’adulto e nel
bambino in ordine alla sistemazione logica, alla capacità di descrivere ed enumerare, all’uso del linguaggio, sul piano
dell’osservazione, della comprensione e del giudizio.
Binet poteva pertanto concludere che le differenze erano di tipo quantitativo ma anche di natura qualitativa come emergeva
in modo particolare dall’analisi del linguaggio infantile molto più semplice, schematico e concreto di quello dell’adulto.
9. Gli apporti della medicina e l’educazione degli anormali
Anche la medicina fu percorsa da impetuose trasformazioni che conferiscono quel carattere sperimentale che doveva
assicurarle credibilità di scienza. I medici si fecero scienziati e ambirono a presentarsi come i profeti di una nuova
concezione dell’uomo incentrata su aspetti bio-fisico-psichici. Fondamentale è la riflessione di Bernard che sosteneva che
non c’era alcuna differenza fra metodi d’indagine della fisiologia, della patologia e della terapia. Si trattava sempre del
medesimo metodo di osservazione e di esperimento che si basava sugli stessi principi e variava soltanto nell’applicazione
secondo la complessità del fenomeno. Diagnosi, prognosi e terapia dovevano essere considerate soltanto come ipotesi da
verificare che andavano provate nelle loro conseguenze per accertarsi se corrispondevano o no ai fatti.
Attraverso questo approccio Bernard intendeva definire i tratti essenziali della nuova enciclopedia del sapere che scaturiva
dall’applicazione del criterio scientifico ai vari ambiti del sapere umano. Fu precisamente in questa prospettiva che un’intera
generazione di medici cominciò ad occuparsi di educazione in vari ambiti. Il medico assunse la veste di educatore popolare
e benefattore al servizio della salute collettiva.
Due campi risultarono particolarmente congeniali ai medici: il primo fu quello relativo all’igiene e all’educazione fisica, il
secondo riguardò l’educazione degli anormali, soprattutto quelli psichici.
La necessità dell’igiene personale e sociale e l’utilità dell’esercizio fisico entrarono nel secondo Ottocento in tutti i trattati di
pedagogia dietro alla spinta della cultura igienica.
La prospettiva con la quale si guardava nella seconda metà del XIX secolo all’igiene e all’educazione fisica poggiava
sull’ideologia naturalistica che faceva del corpo sia uno strumento di sviluppo delle più alte facoltà dell’uomo, sia un bene
in sé che a sua volta si collegava ad un fine sociale ben preciso cioè all’esigenza di una società più sana, più prospera, più
produttiva e anche più forte e in grado di essere competitiva sul piano bellico.
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Il problema del miglioramento delle condizioni di vita e della salute delle crisi popolari si presentò in forme strettamente
associate con l’evasione della frequenza scolastica e dell’analfabetismo, come denunciavano scrittori, giornalisti e quella
parte di borghesia liberale più attenta alla questione sociale.
Altri apporti medico-pedagogici giunsero dal settore dell’educazione degli anormali: sono questi i più noti e forse anche i
più importanti. L’itinerario dalla medicina alla pedagogia speciale fu inaugurato da Seguin.
La Montessori fu debitrice al medico francese del suo materiale, Binet e Simon riconobbero il ruolo precursore di Seguin,
pur riservandogli numerose osservazioni critiche. Il principale interesse di Seguin e le sue prime cure verso gli idioti e gli
altri fanciulli handicappati psichici sono da far risalire al suo servizio in qualità di medico in un ospedale pubblico e in
seguito in uno studio privato.
Spesso i medici del tempo si limitavano a dichiarare idiozia o imbecillità di un individuo senza curarsi di stabilirne le cause
e senza elaborare un trattamento terapeutico o educativo. L’educazione sensoriale, secondo Seguin, era indispensabile per
l’acquisizione di dati percettivi, ma lo scopo dell’educazione degli handicappati mentali non poteva essere diverso da quello
degli individui normali e doveva perciò svolgersi anche sul piano intellettivo e su quello morale. Il medico francese mise a
punto una grande quantità di esercizi e di apposito materiale mediante cui promuovere il recupero dell’handicappato.
Dalle conoscenze scientifiche il medico francese mutava la tipologia e la gradualità degli esercizi e la maggiore o minore
complessità del materiale in vista di obiettivi come il consolidamento dell’apprendimento attraverso la manipolazione,
l’importanza delle rassomiglianze e differenze percettive e del coordinamento di nozioni e gesti.
L’autorità di Seguin durò a lungo.
L’Italiana Maria Montessori nacque nel 1870, Decroly nel 1871, Claparede nel 1873: tre vite, tre giovinezze, tre formazioni
culturali quasi contemporanee.
La Montessori studiò medicina a Roma. Già in questo periodo fu particolarmente attratta da casi clinici infantili e dalla
condizione di handicappati mentali. A partire dal 1898 cominciò più intensamente ad occuparsi degli aspetti educativi
mediante una sperimentazione condotta in una classe di handicappati appositamente organizzata nell’ambito di un corso per
maestre sull’educazione dei bambini deficienti. Dal 1907 mise a punto un metodo di insegnamento per bambini normali in
gran parte basato sulle esperienze maturati con gli alunni handicappati.
Decroly era un medico. Nel 1901 aprì presso la sua abitazione un laboratorio di psicologia che segnò anche la nascita
dell’Ecole d’enseignement special pour enfants irreguliers, ciò che gli permise di sperimentare alcune forme di recupero
educativo. Decroly applicò ai bambini normali molte delle esperienze che aveva messo a punto a contatto con i fanciulli
deficienti.
Claparede, dopo un periodo di studio a Parigi, tornò a Ginevra dove cominciò a lavorare spinto dal fatto di aver intrapreso
l’attività di recupero di fanciulli ritardati e anomali psichici. Da questo momento in poi le ricerche e gli studi di Claparede
assunsero un’intonazione sempre più marcatamente psico-pedagogica fino alla costruzione, insieme a Bovet, dell’Institut
Jean Jacques Rousseau.
L’apporto di questi medici-pedagogisti aprì alla pedagogia l’orizzonte sperimentale. L’apporto di psicologi e medici favorì
una più puntuale conoscenza dell’infanzia anormale e normale, delle dinamiche di apprendimento, dei metodi più efficaci
per raggiungere il successo scolastico.
10. La cura dell’infanzia
Il passaggio tra un secolo e l’altro fu segnato anche dal consolidarsi e del generalizzarsi di una più moderna concezione
dell’infanzia e fanciullezza quale esito di una storia di lenta emancipazione e di faticoso riscatto da una condizione di
emarginazione, sfruttamento, misconoscimento. SI trattava di un movimento di graduale riconoscimento e identità del valore
dell’infanzia e della fanciullezza che si era manifestato fin dagli inizi del secolo nelle riflessioni dei teorici delle utopie
socialiste.
Gli studi più recenti e documentati sull’infanzia europea pongono in rilievo come nel corso dell’Ottocento si definiscono e si
materializzano progressivamente spazi, iniziative, oggetti sempre più a misura di bambino e come tale fenomeno sia il
riflesso di una più avvertita sensibilità verso l’infanzia. Nell’età borghese ottocentesca ogni bambino viveva un’infanzia
predeterminata dal costume e delle condizioni sociali della famiglia nella quale gli accadeva di nascere e crescere.
L’infanzia dei figli della borghesia era segnata dalle cure famigliari, all’impronta di una rigida divisione di ruoli tra madre e
padre. Si trattava di un’infanzia già percepita sul piano educativo secondo criteri di modernità pedagogica e valorizzata
come età dalle caratteristiche specifiche.
Essa andava finalizzata nel senso della socializzazione/educazione basata sull’osservanza delle regole, rispetto delle forme,
sull’obbedienza.
L’infanzia dei ceti popolari era diversa da quella che si viveva nelle città industriali e da quella sella campagne, segnate da
un lavoro precoce, dalle malattie endemiche, dalla cattiva alimentazione, dall’alta mortalità e dal precoce allontanamento
dalla famiglia. I figli dei ceti popolari diventavano adulti piuttosto in fretta e senza quelle forme di controllo sociale che
invece agivano nelle realtà contadine ove la dimensione comunitaria si allungava al di là della famiglia. Le infanzie popolari
apparivano arrestate alla sensibilità dei ceti borghesi in quanto quasi sempre poco o per niente alfabetizzate e sfornite di quel
decoro e di quella pulizia esteriore che segnava invece la civiltà borghese. Questo disordine era visto come motivo di
insicurezza e stabilità sociale.
Negli ultimi decenni dell’Ottocento le premure e le attenzioni verso i bambini ed i fanciulli si accrebbero fino a diventare
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motivi di accesi dibattiti e a coinvolgere quote sempre più significative di opinione pubblica.
Alla base del nuovo fenomeno vi fu un concorso di fattori e sensibilità nuovi che si manifestarono nella denuncia contro lo
sfruttamento e il lavoro dell’infanzia, in sostanza contro la sua precoce adultizzazione, reclamando condizioni di vita più
umane e nella necessità che le famiglie (pur povere) si prendessero cura dei figli.
I movimenti di opinione determinarono una grande spinta favorevole alla tutela e alla protezione dell’infanzia. I principali
punti di riferimento furono: le denunzie sociali ella poetessa inglese Browning, di Hugo, Dickens, Tolstoj; le prime
esperienze delle scuole nuove, fino all’appassionata arringa in favore del fanciullo di Ellen Key in un libro del 1902. Dalla
fine del secolo in poi si registrò un crescendo di interessi e iniziative per assicurare al fanciullo protezione, autonomia e
libertà che trovò interessanti e emblematici riscontri anche al di fuori della pedagogia e dell’educazione.
Il fanciullo di Hall e della Key, dei maestri sperimentatori di pedagogie più moderne e dei primi studi dell’età evolutiva era
naturalmente meno poetico e più concreto di quello dei letterati e romanzieri e segnato in profondità da quel clima
naturalistico-evoluzionistico che richiamava lo stato di natura dell’Emilio di Rousseau.
Soltanto ripristinando l’ordine di natura e lasciando il bambino libero di manifestare i suoi bisogni e i suoi interessi si
potevano scongiurare quelle forme educative destinate a rendere infelici gli uomini e a violarne la libertà. Si trattava di un
messaggio suggestivo e nuovo destinato a segnare un’intera epoca e tuttavia non negava affatto le finalità socio-adattive
della pedagogia positivista.
Nella celebrazione dell’innocenza e della libertà infantile non ci fu nulla che anticipasse la stagione antiautoritaria che
avrebbe avuto più tardi negli esponenti della scuola di Francoforte la sua più matura espressione.
11. Educazione e pedagogia al femminile
Un altro fenomeno che si manifestò nella seconda metà dell’Ottocento fu una considerazione diversa rivolta al ruolo svolto
dalle donne. I mutamenti che interessarono il mondo femminile spaziarono dall’incremento della frequenza scolastica al
lavoro extra casalingo di molte ragazze, dall’emergere della prima professione quasi tutta al femminile (maestra elementare)
al moltiplicarsi di una stampa specializzata per donne e ragazze. Non va trascurata l’influenza esercitata da piccoli gruppi di
donne emancipazioniste che tennero viva sui giornali e con libri e opuscoli la questione femminile.
La scuola elementare ebbe più spazio anche nella vira delle bambine ma con una curvatura che ne sottolineava le
caratteristiche al “femminile” come dimostrava il largo spazio riservato ai lavori “donneschi” che a lungo costituirono una
importante disciplina scolastica.
Nel 1875 furono aperti alle ragazze i corsi universitari e dal 1883 fu data loro la possibilità di accedere alle scuole tecniche e
a quelle liceali. Ai livelli scolastici inferiori si moltiplicarono apposite scuole professionali che offrivano immediate
possibilità di lavoro e garantivano in tal modo maggiore autonomia sociale al mondo femminile.
La scuola per eccellenza destinata alle fanciulle fu tuttavia quella delle maestre, cioè la scuola normale, una scuola che
apriva prospettive in precedenza precluse alle donne, ma si presentava come un corso di studi che per durata e programmi
previsti risultava ben lontana dal prestigio del liceo.
Le donne iniziarono a praticare il lavoro fuori dalle mura domestiche e a sperimentare una certa indipendenza. Sulla base
delle constatazioni fisico-biologiche “scientifiche” che rilevavano nelle donne una minore forza fisica furono rafforzati gli
stereotipi settecenteschi circa la presunta inferiorità intellettuale della donna rispetto all’uomo.
Nell’Ottocento la donna istruita era generalmente vista come portatrice di una certa instabilità e comunque scomoda, tale da
suscitare riserve più o meno marcate.
Nell’ultimo scorcio dell’Ottocento un modello sociale di donna in lenta, ma irreversibile, trasformazione.
12. Il positivismo in Italia: Ardigò e De Dominicis
Negli anni ’60 cominciò una certa circolazione di autori e opere che indicavano attenzione e interesse per la cultura
scientifica ed evoluzionista. Nel 1865 furono tradotte le opere più importanti di Darwin.
Un poco più tardiva fu la conoscenza della riflessione spenceriana che s’intrecciò con gli studi di tipo medico-fisiologico.
Ardigò abbandonò il sacerdozio e aderì ad una nuova fede scientifica; questa può essere assunta come caso esemplare di
un’epoca e di una temperie culturale.
A rallentare e condizionare in modo negativo lo sviluppo del positivismo in Italia contribuiscono due fattori: la mancanza
del retroterra dello sviluppo industriale che ne rappresentava invece naturale brodo di coltura e il prevalere di un positivismo
dogmatico incentrato su una visione totalitaria e scientista della razionalità positiva con la riduzione dell’uomo a puro e
semplice fenomeno della natura.
Nella pedagogia italiana il problema educativo risultò fortemente condizionato dall’esigenza di assimilare i risultati della
scienza e di adeguarsi ai postulati e alle deduzioni. Si moltiplicarono i tentativi di trasformare la pedagogia in scienza,
attingendo a piene mani dai risultati delle scoperte mediche, biologiche, psicologiche, sociologiche fino al punto da pensare
e descrivere un fanciullo come intreccio di dati biologici, fisiologici, psicologici secondo una spiegazione meccanicistica e
deterministica.
Le poche iniziative che potevano competere con i laboratori tedeschi e francesi ebbero per lo più vita breve e scarsa
influenza. Gli apporti più significativi furono quelli di Ardigò e di De Dominicis.
Ardigò non fu un pedagogista in senso stretto ma un filosofo, forse la più robusta personalità di quegli anni. La sua analisi
del problema etico fornisce elementi di notevole interesse anche in chiave pedagogica. Alla concezione dell’intelligenza
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come funzione biologica, Ardigò affianco la coscienza morale nella sensazione impulsiva o emozione e le idealità e le
norme morali furono viste come reazione degli uomini associati a ciò che essi percepiscono come bene o male in quel
preciso momento dell’evoluzione sociale. La morale aveva come base il criterio della socievolezza e si riduceva nella
disposizione a seguire le leggi che governano la società, vivendole come un dovere. Di qui la regola pedagogica
fondamentale dell’Ardigò: l’educazione è “formazione di abitudini utili a sé e alla società”. Attraverso l’acquisizione di
“abitudini positive” le giovani generazioni si preparavano ad essere accolte nel corpo sociale con buona garanzia per
l’ordine sociale.
Da queste premesse Ardigò faceva scaturire due conseguenze che ebbero notevole peso nella cultura scolastica del tempo: la
necessità di un diretto impegno dello Stato in campo educativo per assicurare in maniera diffusa la moltiplicazione delle
“abitudini positive” e l’esclusione di qualsiasi forma di insegnamento religioso, reputato un semplice residuo di mentalità
metafisica.
De Dominicis fu un pedagogista e un affermato e brillante espositore del verbo positivista e un fortunato autore di libri di
divulgazione pedagogica su cui si formarono generazioni di maestri.
De Dominicis giudicava la nuova psicologia capace di interpretare la vita umana e sociale attraverso “le leggi fisico-
chimiche e dell’evoluzione”. Pedagogia e didattica dovevano perciò dipendere dall’adeguamento alle leggi scientifiche della
biologia e della sociologia r l’insegnamento era tenuto ad organizzarsi in forme scientifiche sulla base di una serie di
requisiti oggettivi come la struttura delle materie, l’età evolutiva degli allievi, la sequenza graduata degli esercizi, …
Questi principi, in sé condivisibili erano tuttavia calati nella realtà scolastica del tempo in forme impersonali e precettistiche,
sminuzzate e semplificate a tal punto da ridurre la didattica ad un insieme di norme e di raccomandazioni da applicare in
forme standardizzate e quasi automatiche.
13. Gabelli e il metodo positivo
Un’altra linea di sviluppo del positivismo italiano, favorevole ad un impiego più empirico che ideologico della razionalità
sperimentale. L’orizzonte concettuale fu quello della scienza e del metodo scientifico interpretata come procedimento
conoscitivo basato sull’osservazione critica, sul controllo delle procedure, sulla comparazione dei dati, sullo stretto rapporto
tra correttezza del metodo e qualità dei risultati.
In Gabelli si concentrò lo sforzo più interessante per sottrarre la cultura del positivismo scolastico e pedagogico agli
irrigidimenti deterministici dei celebratori dell’onnipotenza del “fatto”.
Gabelli aveva studiato prima a Venezia e a Padova, poi a Vienna. Ne 1859 fu esule politico a Firenze e Torino e infine a
Milano, era entrato in contatto con gli ambienti del Politecnico di Carlo Cattaneo.
L’incontro con l’insegnamento del Cattaneo fu importante perché orientò il suo senso concreto a pratico verso un
positivismo aperto alle situazioni mutevoli della realtà e gli apporti dell’intelligenza umana. Il suo positivismo era volto a
promuovere quella che egli definiva “la rigenerazione del popolo”, traendo positivi gli ideali popolari, richiamando politici e
uomini di scuola allora impegnati a fare gli italiani, a considerazioni realistiche.
Secondo Gabelli occorreva una scuola strettamente legata allo sviluppo sociale, concreta e pratica, che liberasse l’anima
italiana dai difetti tradizionali, come il gusto della retorica, la faciloneria, la mancanza di disciplina, capace quindi di
formare uno spirito di osservazione sagace pronto a cogliere da sé il vero. Il “buon metodo” era basato sull’osservazione e
sull’esperienza. Tale sarà il metodo della scuola in generale; esso verrà adottato nel suo spirito anche nelle scuole
elementari. Il metodo di vita sarà anche il metodo della scuola, bandendo da essa tutti i metodi teorici o astrattivi e i metodi
deduttivi e passivi, come contrari allo stato mentale dei fanciulli e ai fini speciali della scuola popolare.
Il nome di Gabelli resta vivo proprio per l’importanza attribuita al metodo cioè alla capacità della scuola di formare delle
teste, ossia delle persone in grado di avere un proprio criterio di giudizio e analisi. La ricerca e il perfezionamento del
metodo restava perciò “la principale fra quelle, da cui dipende l’efficacia vere delle scuole”, metodo inteso come insieme di
strategie volte a far maturare negli allievi una personalità solida e consapevole.
CAPITOLO DUE: MOVIMENTO PER L’EDUCAZIONE NUOVA
1. I caratteri dell’educazione nuova
La prima parte del Novecento è segnata dal movimento in favore dell’educazione nuova e della pedagogia dell’attivismo che
si prefissero di tradurre sul piano dei comportamenti educativi e delle prassi scolastiche la concezione di un’infanzia attiva e
portatrice di una propria originalità. Dalla fine dell’Ottocento in poi si registrò un crescendo di interessi e di iniziative per
assicurare al fanciullo non solo protezione, ma anche un’educazione più rispettosa dei suoi diritti. Il saggio di Ellen Key, Il
secolo dei fanciulli, insieme alle esperienze condotte da Maria Montessori e da John Dewey divenne la “bibbia” della nuova
pedagogia.
Dewey parlò di “rivoluzione copernicana”. Mentre la pedagogia tradizionale aveva costantemente posto al centro
dell’evento educativo il programma di studi, il maestro, la disciplina e il metodo, l’educazione nuova veniva ad incontrarsi
sul fanciullo.
Con l’educazione nuova si sta verificando lo spostamento del centro di gravità. Il punto di svolta fu rappresentato da un
diverso modo di intendere l’infanzia dell’uomo, a lungo e tradizionalmente segnata da una forte precarietà e da precoci
forme di adultismo.
La concezione moderna dell’infanzia perseguita dai fautori dell’educazione nuova suggerì di valorizzarla per ciò che essa
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rappresentava: in rapporto al suo pieno e disinteressato sviluppo per consentire a ciascun fanciullo di conseguire la
cosiddetta “maturità dell’infanzia” secondo i suoi ritmi evolutivi., le caratteristiche psico-fisiche dell’età, gli interessi e i
bisogni specifici.
Cambiava anche il ruolo dell’educatore: egli non doveva accelerare l’uscita dalla fanciullezza ma era chiamato a sbarrare il
passo a tutto quanto pareva ostacolare il pieno esercizio dell’età infantile e a promuovere tutto ciò che lo avrebbe reso un
vero fanciullo, presupposto per divenire un vero uomo.
L’espressione “educazione nuova” entrò nell’uso corrente dopo la pubblicazione nel 1898 di un volume con questo titolo di
Edmond Demolins. Si ha una concezione educativa puerocentrica.
La pedagogia dell’educazione nuova o dell’attivismo si costituì intorno a quattro principali nuclei tematici.
PRIMO  rilevanza assegnata alla psicologia del fanciullo. I sostenitori si proposero di promuovere la crescita fisica,
intellettiva, affettiva e sessuale affidandosi alle indicazioni messe a punto dagli studi di psicologia dell’età evolutiva. Per
educare bisognava appellarsi alle risorse del fanciullo e rispondere ai suoi interessi più profondi, rispettandone l’intrinseca
natura ed i suoi ritmi di sviluppo.
SECONDO  richiamo agli interessi-bisogni; motivo dell’educazione nuova che si portò dietro come immediato corollario,
la necessità di predisporre piani di lavoro e sviluppo personalizzati. Gli attivisti sostengono che l’educazione pratica e
attraente non escludeva lo sforzo, ma anziché renderlo fine a sé stesso occorreva armonizzarlo con le aspettative e i bisogni
profondi degli individui.
TERZO  rapporto tra scuola e vita; superando quella barriera che sovente si sovrapponeva tra esperienze scolastiche ed
esperienze quotidiane. Si trattava di un punto di una rottura molto forte con le prassi consuete che concepivano la scuola
come un luogo separato destinato alla coltivazione delle intelligenze e dell’impegno scolastico soprattutto sotto il profilo
individuale e meritocratico.
QUARTO  considerazione dell’intelligenza in termini di riflessione teorica a base umanistica, ma in termini più ampi e
anche di intelligenza indagatrice nel mondo delle scienze e di intelligenza operativa e pratica impegnata a “fare”. Si trattava
di una rottura piuttosto netta con la scuola del passato che aveva reputato non soltanto le discipline come formative per
eccellenza, ma aveva sempre escluso dall’orizzonte educativo le attività manuali, regalandole a livello di scuole
professionali.
3 Le prime “scuole nuove” a livello primario
Anche nell’ambito della scuola dell’infanzia e primaria si manifestarono nuovi fermenti e iniziative rinnovatrici. Si trattò di
innovazioni intraprese in contesti culturali e ambientali diversi che testimoniavano il maturare di nuove attenzioni verso
l’infanzia, gli apprendimenti scolastici, il rapporto tra scuola e realtà sociale.
Nel 1896 Dewey diede vita ad una scuola elementare sperimentale annessa all’università di Chicago che funzionò per pochi
anni ma che divenne presto molto celebre date la notorietà del promotore e le novità del suo impianto.
Nel 1907 la Montessori inaugurò la sua prima Casa dei bambini nel popolare quartiere di San Lorenzo a Roma. Decroly
apriva la scuola in rue de L’Eremitage.
In Svizzera, centro degli studi sulla psicologia infantile grazie alle ricerche promosse dall’Institut Jean Jacques Rousseau, si
aprirono varie scuole ispirate alla centralità del fanciullo a cominciare da quella annessa allo stesso Institut Rousseau.
Se le iniziative di rinnovamento dell’educazione collegiale trovarono nelle esperienze inglesi un fondamentale punto di
riferimento, quelle riguardanti la scuola infantile, elementare e popolare manifestarono maggiore varietà di ispirazione e
realizzazione. Si andò infatti da scuole sperimentali vere e proprie a scuole frutto dell’istruzione di un educatore, da
iniziative fortemente strutturate e organizzate ad altre molto più affidate alla personalità del maestro e alla sua capacità di
cogliere dall’ambiente le opportunità per far germogliare le risorse del fanciullo.
E’ improponibile sforzarsi di ricondurre ad un unico e prevalente modello quelle che invece furono esperienze differenziate,
anche se tutte in genere si richiamavano ai principi di autoeducazione, dell’interesse, del lavoro, del rispetto dello sviluppo
psicologico.
Per quello che rappresentò storicamente e per il prestigio goduto dal suo animatore, la University laboratory school fondata
da Dewey nel 1896 rappresentò un’esperienza destinata a spianare la via alla scuola del futuro, anche se fu di breve durata
ed ebbe un vero e proprio carattere sperimentale in stretto contatto con l’ambiente universitario a cui era collegata.
Dewey ci ha lasciato un resoconto della finalità e della organizzazione della scuola in un volume apparso per la prima volta
nel 1899: “Scuola e società”. Secondo Dewey la rivoluzione industriale aveva profondamente modificato la situazione
dell’individuo rispetto alla società tradizionale.
La fabbrica concentrava tutte le fasi produttive in pochi luoghi non accessibili ai ragazzi e la divisione del lavoro rendeva
incomprensibili agli stessi operai i processi di lavorazione. La circolazione delle idee a mezzo stampa stava modificando la
vita delle comunità tradizionali. Gli apprendimenti naturali che i bambini assimilavano dall’ambiente non erano sufficienti a
creare in loro vincoli di solidarietà necessari per dare identità e coesione alla vita sociale.
La scuola doveva diventare occasione per introdurre i fanciulli nella vita sociale, facendo loro ricomporre quelle tappe
evolutive che erano naturalmente percorse nelle comunità umane. Accanto all’aspetto sociologico, Dewey considerava
anche quello psicologico ovvero la centralità del fanciullo nei processi educativi, affermando che gli istinti e i poteri del
fanciullo forniscono il materiale e danno l’avvio a tutta l’educazione. Il problema della scuola era quello di dominare queste
risorse per orientarle verso risultati apprezzabili ed evitare la loro dispersione distruttiva.
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La scuola di Dewey poneva in primo piano l’importanza delle attività manuali e pratiche. Attraverso esse i fanciulli
entravano in contatto con la realtà ed imparavano a ricostruirla, a stabilire rapporti di integrazione con l’ambiente sociale e a
vivere significative esperienze comunitarie di stile famigliare. La scuola era vista come una grande famiglia in cui
l’educazione già iniziata nell’ambiente domestico continuava in modo più completo.
Gli allievi erano distribuiti in piccoli gruppi, ciascuno dei quali impegnato a svolgere il proprio lavoro in un rapporto di
collaborazione e assistenza con gli insegnanti e secondo una prospettiva più cooperativa che subalterna.
L’esperienza di Chicago incontrò grande fortuna e Scuola e società fu tradotto in decine di lingue fino a rappresentare uno
dei testi simbolo dell’educazione nuova, continuamente richiamato e citato nella letteratura pedagogica del tempo.
6 Funzionalismo ed esperienza in Dewey
La scuola di Chicago, fondata e diretta da D., costituì la premessa pratica alla sistemazione della sua riflessione pedagogica.
In Dewey teoria e pratica risultano strettamente associate ed anzi la elaborazione teorica ha senso soltanto se ha riscontro nei
risultati pratici.
La pedagogia deweyana viene collocata nel contesto dei problemi e delle vicende della società americana nel passaggio tra i
due secoli: percorsa da una forte immigrazione, da impetuosi processi di industrializzazione e dalla conseguente urgenza di
affrontare i bisogni immediati dell’individuo e della comunità. La giovane nazione americana era alla ricerca di un’identità e
di un costume democratico che avevano tuttavia poco spessore.
Questo contesto ha notevole importanza per intraprendere quello che è sicuramente il primo dato della pedagogia di D. e
cioè la sua finalità funzionalistica: l’educazione coincide con i processi di socializzazione. Nel primo articolo del manifesto
pedagogico deweyano (Il mio credo pedagogico) si legge questa fondamentale affermazione “Ogni educazione deriva dalla
partecipazione dell’individuo alla coscienza sociale della specie”. La vera educazione avviene mediante lo stimolo esercitato
sulle facoltà del ragazzo da parte delle esigenze della situazione sociale nella quale esso si trova. Nel porre uno stretto
rapporto tra educazione e forme della socializzazione, Dewey non si allontana da quella che costituisce una delle
caratteristiche della società occidentale del suo tempo.
La concezione dinamica del rapporto tra individuo e società scaturiva in Dewey direttamente dal suo concetto di esperienza.
D. guardava all’esperienza secondo una prospettiva evolutiva: esperienza è la realtà considerata nel suo dinamismo e, al
tempo stesso, la sperimentazione di questa realtà.
Nella prima accezione l’esperienza è qualcosa di semplice e di grezzo e che include tutto quello che normalmente
indichiamo con termini di oggettività e di soggettività. L’esperienza si presenta come natura e storia, vale a dire un
continuum temporale segnato da sviluppo e crescita. Ma esperienza significa anche la possibilità che l’uomo ha di interagire
con la natura e l’ambiente che lo circonda, concorrendo a trasformarlo e venendo egli stesso trasformato.
All’idea di esperienza è strettamente associata quella di natura: per D. la natura è una continua emergenza di forme nuove
che scaturisce dalla continuità e dall’interazione tra l’uomo e l’ambiente. L’uomo si sforza di piegare l’ambiente ai suoi fini
e l’ambiente plasma e modifica l’uomo in un processo perennemente interattivo. L’uomo costruisce la propria mente nella
misura in cui fa esperienza ed è capace non soltanto di organizzarlo, ma di modificarlo. L’intelligenza umana è considerata
come un vero e proprio “agente di riorganizzazione”.
In Dewey, come in Durhkeim, c’è una continuità tra il contesto biologico, quello sociale e quello culturale, ma tale
continuità si svolge in modo diverso: mentre nel sociologo francese prevale un’impronta adattivo-assimilativa, lo studioso
statunitense prospetta una concezione adattivo-costruttiva. I processi di adattamento si svolgono mediante una graduale e
continua opera di costruzione personale.
È la natura stessa che realizza le proprie potenzialità in vista di un esito più ricco e complesso. Conoscere e fare sono perciò
strettamente connessi. Le idee assumono la caratteristica di “piani d’azione” per progettare il futuro, definire modi di
intervento, ipotizzare soluzioni. Il pensiero è uno strumento per costruire piani futuri.
L’educazione si presenta con una doppia caratteristica: da una parte è adattamento alle forme di vita, ai costumi e agli ideali
della società in cui si svolge, ma è anche sviluppo costruttivo della personalità dell’educando che opera per trasformare e
migliorare la realtà che lo circonda. Il fine dell’educazione è assicurare di promuovere tutte le capacità degli individui. La
società è costituita dall’insieme delle esperienze che si svolgono in un determinato luogo ed in una determinata situazione.
7. Pensare e apprendere: le 5 fasi del pensiero riflessivo
Nell’educazione coesistono un fine sociale e un fine individuale; c’è la ricerca dell’adattamento, ma anche lo sforzo di non
rendere questo adattamento una pura e semplice abitudine passiva e renderlo invece qualcosa di attivo e costruttivo.
L’apprendimento consiste nella capacità di organizzare i dati, pianificare le ipotesi e verificare le soluzioni e il pensiero
rappresenta lo strumento attraverso il quale operiamo la modificazione dell’ambiente.
Dewey prospetta le cinque fasi del pensiero riflessivo che costituiscono la trama del metodo dell’apprendimento:
1. L’apprendimento per problemi comincia quando l’individuo si trova in una situazione ricca di interrogativi e aperta
a svariate soluzioni attraverso l’osservazione ne prende consapevolezza.
2. La seconda fase è costituita dal processo di intellettualizzazione per portare a termine quello stato di incertezza
iniziale occorre trasformare il problema in una situazione emozionale. Bisogna procedere alla ricognizione delle
conoscenze in nostro possesso e delle questioni aperte alla loro razionalizzazione.
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3. Il terzo momento è dato dall’ipotesi: sulla base delle conoscenze in nostro possesso formuliamo un’ipotesi di
soluzione. È l’idea che salta in mente e che fino a quando non è verificata non ci consente di acquisire elementi
certi.
4. La quarta fase è strettamente associata alla precedente: formulata l’ipotesi, si tratta di mettere in campo un
ragionamento congruente per verificare la consistenza, fondato sia sulle conoscenze personali acquisite sia sui
contributi scientifici e sulle esperienze già compiute.
5. La fase conclusiva è data dal controllo mediante l’azione cioè la convalida o meno dell’ipotesi; tale verifica può
avvenire attraverso l’osservazione diretta oppure mediante un esperimento. Il ciclo del pensiero in tal modo si
chiude: o perché abbiamo raggiunto l’obiettivo di una conoscenza nuova, o perché dobbiamo riconsiderarla e rifare
l’iter progettuale.
Pensare, educare a pensare e apprendere sono aspetti diversi di un medesimo processo attivo, in cui l’individuo stabilisce un
rapporto di interazione con la realtà al fine di modificarla.
8. Democrazia, educazione e scuola
La società democratica è quella che meglio consente il pieno sviluppo dell’uomo perché favorisce la liberazione di una
maggiore varietà di capacità personali ed estende l’area degli interessi condividi.
Per D. la democrazia è qualcosa di più di un sistema di governo; è fiducia nella capacità umana, nell’intelligenza posta al
servizio della comunità e nella forza trascinatrice di un’esperienza associata.
La società democratica è un tipo di vita comunitaria contraddistinta da un’estesa e profonda partecipazione di tutte le sue
parti agli stessi scopi, valori, interessi, dall’apertura a reciproci rapporti con l’esterno e dalla disponibilità a trasformare e
rinnovare di continuo le proprie abitudini. Essa è un modo di vivere per il quale gli individui collaborano consapevolmente
nel perseguimento di fini comuni, un modo di vivere la cui legge è la cooperazione.
Una vera democrazia esige uomini che siano stati avviati a collaborare, uomini che abbiano frequentato scuole concepite in
modo diverso da quello tradizionale, cioè che respingano il metodo dell’indottrinamento e favoriscano l’inserimento “attivo”
degli individui.
Democrazia ed educazione costituiscono le due facce del medesimo problema: l’educazione è un’attività che ha la sua
giustificazione e il suo fine nella società di cui l’individuo fa parte. L’educazione garantisce la continuità della vita sociale
ed assicura che gli interessi, gli impulsi, le aspettative, … dei singoli siano orientati in modo costruttivo e congruo con i
valori condivisi.
La democrazia esige la partecipazione di tutte le persone al conseguimento del bene comune nella continua verifica dei
valori che regolano le norme del vivere associato; è la garanzia che a ciascuno sia data l’occasione di mettere a frutto nella
società il meglio di sé stesso.
Se la società democratica è il prodotto dell’intelligenza degli uomini, a sua volta l’educazione dell’intelligenza rappresenta
un fattore decisivo per il costituirsi della democrazia. La democrazia ha nell’intelligenza il suo strumento e fine. Lo stretto
rapporto che intercorre tra democrazia ed educazione è alla base del rapporto tra scuola e società. La scuola basata
sull’attività e sugli interessi degli alunni assicura una società nella quale gli individui sperimentino, in modo sempre più
ricco e personale, la democrazia.
Nella riflessione deweyana la scuola è un’occasione di sviluppo, di miglioramento della qualità dell’esistenza, di
collaborazione tra gli uomini, di partecipazione alle decisioni comuni. Una scuola fondata sulla cooperazione costituisce di
per sé un nucleo sociale nuovo che rifiuta logiche autoritarie ed esercita una positiva influenza sulla vita sociale. Il
microcosmo scolastico interagisce con la più vasta e complessa realtà sociale. È istituzione sociale in cui sono concentrati
tutti i mezzi che serviranno più efficacemente a rendere il fanciullo partecipe dei beni ereditari della specie nella quale opera
e a far uso dei suoi poteri per finalità sociali.
I suoi scritti pedagogici forniscono una robusta base teorica e politica all’educazione puerocentrica. L’educazione sarà più o
meno valida se sarà in grado o meno di promuovere le risorse dell’individuo, di inserirlo in modo non passivo nella vita
sociale, di renderlo protagonista delle sue scelte personali e di quelle comunitarie.
9. Il cenacolo ginevrino e la psicopedagogia di Claparede
L’altro principale polo di elaborazione dell’attivismo pedagogico furono gli ambienti psicopedagogici di Ginevra e in
particolare l’Istituto J.J. Rousseau, fondato nel 1912. L’antefatto alla creazione dell’istituto risale al 1889; qui svolse i primi
studi Claparede, che mise a punto il progetto di un apposito centro stabile di studi e ricerche volto sia ad assicurare una
migliore preparazione agli insegnanti, sia ad approfondire la conoscenza psicologica del fanciullo, sia infine a diffondere
nell’opinione pubblica i temi e i problemi dell’educazione nuova.
Intorno all’istituto J.J. Rousseau si raccolse un buon numero di studiosi che contribuirono alle ricerche e scritti alla
elaborazione della pedagogia attiva e alla più approfondita conoscenza della psicologia infantile: Ferriere, Piaget, Bovet
(direttore). Per tramite di Bovet e Ferriere l’istituto stabilì stretti contatti con il Bureau international d’Education divenuto
nel 1929 un organismo internazionale.
Il motto scelto per l’istituto fu “Discat a puero magister”. Fondatore e animatore dell’istituto fu Claparede, guidato dalla
convinzione che la validità e l’efficacia dell’azione educativa dipendessero dalla preparazione psicologica degli insegnanti.
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La pedagogia doveva costituirsi in scienza sperimentale ed avere come base la psicologia dell’intelligenza del fanciullo.
La teoria dell’intelligenza costituisce il fondamento della riflessione psicopedagogica di Claparede. L’intelligenza è definita
la capacità di risolvere con il pensiero nuovi problemi.
L’atto intelligente è funzionale ad una situazione di squilibrio. Quello che chiamiamo bisogno non è altro che la risposta alla
percezione di uno stato di squilibrio. La risposta al bisogno si presenta con maggiore complessità rispetto ad altri esseri
animati, poiché prevede l’impiego, accanto all’istinto e all’abitudine, di un processo mentale più complesso: l’intelligenza
razionale. Per spiegarne i dinamismi e la complessità, lo studioso ginevrino ricorre alla definizione di tre leggi. La prima è la
“legge del bisogno”: ogni bisogno provoca reazione atte a soddisfarlo, con il relativo corollario che il “bisogno è il motore
della nostra condotta”. Lo sviluppo della vita mentale è strettamente proporzionale allo scarto esistente tra il bisogno ed i
mezzi necessari per soddisfarlo. Se lo scarto è inesistente non è necessaria alcuna forma di attività intelligente. Se lo scarto è
invece rilevante essa si manifesta in modo ampio e complesso.
La legge del bisogno appartiene alla dimensione biologica dell’individuo. Il passaggio alla sfera psichica avviene attraverso
la “legge dell’interesse”: il bisogno rinvia ad un interesse o l’interesse ha come base un bisogno. L’interesse è alla base della
motivazione dei nostri comportamenti.
Quando la situazione è talmente nuova da non evocare alcuna associazione di somiglianza o quando la ripetizione del simile
è inefficace, il bisogno suscita una serie di reazioni finalizzate a trovare un nuovo equilibrio e nuovi interessi. Questa ricerca
viene definita da C. come “legge del brancolamento”.
Queste tre principali leggi psicologiche trovano la loro composizione e organizzazione nella legge dell’autonomia
funzionale, secondo cui ad ogni momento del suo sviluppo un essere animato costituisce un’unità funzionale, vale a dire che
le sue capacità di reazione sono proporzionate al bisogno.
10. La concezione funzionale dell’educazione e la “scuola su misura”
Su questa base psicologica C. elaborò la teoria dell’educazione funzionale. Secondo questa impostazione l’educazione è
concepita come un graduale e progressivo adattamento rispetto allo sviluppo dei bisogni-interessi e delle capacità del
fanciullo. Claparede riconosceva a Rousseau il merito di aver per primo individuato il principio dell’educazione funzionale.
Il fondamento dell’educazione deve essere l’interesse per la cosa che si tratta di assimilare o di eseguire. Il fanciullo non
deve comportarsi bene per obbedire agli altri, ma perché questo modo di comportarsi è sentito da lui come desiderabile.
Insomma la disciplina interiore deve sostituire la disciplina esteriore.
Claparede rivolse molte attenzioni al gioco visto come esercizio educativo spontaneo, regolato da importanti dinamiche dal
punto di vista evolutivo. Nella prospettiva del pieno e integrale rispetto dell’infanzia era importante che il bambino avesse il
tempo e la possibilità di aprirsi ad un ampio spettro di capacità senza la mortificazione della specializzazione precoce.
La scuola andava situata nel momento giusto per non mutilare il soggetto nella sua evoluzione e nel suo processo di
autoformazione. Claparede lamentava che la scuola spesso abbreviasse il periodo dell’infanzia, bruciando le tappe che
avrebbero dovuto essere rispettate. L’educazione doveva promuovere lo sviluppo delle funzioni intellettive e morali, ma
senza riempire il cranio di una massa di cognizioni che rimangono spesso vuote, trattenute nella memoria come corpi
estranei, senza riferimenti alla vita.
Nel saggio La scuola su misura C. pose il problema dell’articolazione e individualizzazione degli interventi per valorizzare
al massimo i diversi ritmi di apprendimento, le differenti attitudini e capacità individuali. Nella “scuola su misura” i
contenuti scolastici, i tempi dell’apprendimento e la stessa organizzazione didattica erano predisposti in modo da
assecondare e soddisfare le esigenze delle diversità personali documentate dalla ricerca biologica, antropologica e
psicologica. La scuola era tenuta a svolgere il proprio compito, ponendosi al servizio dell’alunno e del suo sviluppo più che
rispettare un programma precostituito uguale per tutti.
Cambiava anche il ruolo del maestro che si doveva trasformare in uno stimolatore di interessi e di un promotore di bisogni
intellettuali e morali, assumendo più la fisionomia del collaboratore dei suoi allievi che dell’insegnante ex cathedra. La
preparazione dell’insegnante andava sostenuta dall’osservazione psicologica e dalla conoscenza dei metodi didattici messi a
punto attraverso la pratica sperimentale.
Claparede resta uno dei più autorevoli esponenti della cosiddetta rivoluzione copernicana dell’educazione.
11. La scuola attiva di Ferriere e la Carta per l’educazione nuova
Il prestigio goduto per tutta la prima parte del secolo dagli ambienti ginevrini furono anche merito dell’attività di Ferriere, a
cui si deve l’introduzione nel linguaggio pedagogico corrente dell’espressione “scuola attiva” destinata a sostituire ed
oltrepassare quella di scuola o educazione nuova che venne impiegata fino agli anni 20.
Anche lui ginevrino, aveva promosso con Claparede, la costituzione del Bureau International des ecoles nouvelles sorto a
Ginevra nel 1899 e potenziato nel 1912. Il Bureau ebbe lo scopo di stabilire rapporti di cooperazione scientifica tra le
diverse scuole nuove, di centralizzare i documenti che le concernono e di valorizzare le esperienze psicologiche effettuate in
questi laboratori della pedagogia dell’avvenire, diventando un punto di riferimento per tutto il movimento dell’educazione
nuova.
La prospettiva con cui Ferriere considerava il puerocentrismo pedagogico era diversa da quella di Claparede. Egli diffidava
dell’eccesso di sperimentalismo che era alla base delle proposte claparediane, sforzandosi di moderare il naturalismo
psicologico e valorizzando anche molte esperienze d’avanguardia che non si basavano su protocolli sperimentali rigorosi.
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Questo spiega il suo interesse per le esperienze innovative condotte in Italia da Lombardo Radice e dalla Montessori.
Ferriere si faceva alla teoria dello slancio vitale, adattandola alle esigenze educative. Per lui lo “slancio vitale” nel fanciullo
era rappresentato dalla volontà di accrescere la possibilità di vita, per non lasciarsi sopraffare dalle forze avverse
dell’ambiente e dei suoi stessi simili.
Lo “slancio vitale” si esprimeva come principio di autoconservazione, ma anche come promotore di sviluppo: occorreva
rispettare e favorire nel fanciullo ogni manifestazione del suo slancio vitale spirituale, nella misura in cui questo tende ad
accrescere la potenza del suo spirito e della potenza del suo corpo messa al servizio del suo spirito.
Nel 1920 F. pubblicò L’ecole active; da quel momento in poi il movimento per l’educazione nuova si configurò come
movimento di scuole attive e la pedagogia che lo sosteneva cominciò ad essere definita attivismo pedagogico. Per “scuola
attiva” si intende una scuola nella quale i fanciulli erano protagonisti. Essa si basava e promuoveva l’attività spontanea dei
fanciulli opponendosi alla “scuola passiva”, vista come la scuola del maestro e della subalternità infantile. La scuola attiva
era quella che muoveva dai bisogni e si svolgeva attraverso gli interessi, rispettava la legge dello sviluppo psicologico e
metteva a contatto il fanciullo con la natura e lo rendeva attivo sia attraverso l’esercizio manuale sia attraverso la
coscientizzazione della libertà personale.
Si trattava di partire dalle attività manuali e costruttive degli alunni, da quelle intellettuali, dai loro interessi, dalle loro
preferenze, dalle loro tendenze dominanti; prendere le mosse delle loro manifestazioni morali e sociali quali si presentavano
nella vita libera e naturale d’ogni giorno, secondo le circostanze.
Il compito dell’adulto era quello di stare vicino al fanciullo per sostenerne la buona volontà; educare voleva dire preparare
alla vita attraverso la vita: non sovrapporre modelli precostituiti, ma lasciar crescere, sviluppare e ordinare le capacità
infantili e dell’adolescente.
Ferriere e Claparede ponevano stretta associazione tra il rinnovamento della scuola e i valori democratici progressisti. A
Ginevra si insediarono i principali centri di politica sovranazionale come la Società delle Nazioni e gli uffici collegati.
Questo passaggio politico-culturale negli anni dell’immediato dopoguerra fu di capitale importanza. Da quel momento in
poi il movimento riformatore si caratterizzò sempre più marcatamente in senso laico e democratico, sostenuto dalle ricerche
di tipo scientifico, dal forte contributo della cultura pedagogica protestante che su tematiche come la difesa dell’autonomia
del fanciullo e la posizione critica verso il principio di autorità ritrovava alcuni motivi congeniali.
L’attività di promozione e organizzazione del movimento per l’educazione nuova si svolse lungo una traiettoria etico-civile
nella quale la riflessione pedagogica era posta al servizio degli ideali democratici e progressisti in un momento in cui in
varie parti d’Europa assumevano il potere gruppi liberali, addirittura totalitari.
L’espressione “scuola attiva” assunse negli anni 20/30 una caratterizzazione sempre più specifica e puntuale non solo in
termini pedagogici, ma anche sul piano politico.
Nel 1919 il Bureau curò la redazione e la diffusione della Carta per l’educazione nuova: 30 punti qualificati sulla base dei
quali identificare i requisiti oggettivi richiesti alle scuole che ambivano alla qualifica di “nuove”.
I primi 10 punti riguardavano l’organizzazione della scuola. La “scuola nuova” doveva essere concepita come un laboratorio
di pedagogia pratica ed essere predisposta in forma di internato, situato in campagna ed organizzato in piccoli gruppi di tipo
famigliare nei quali era auspicata la coeducazione dei sessi. Largo spazio era attribuito al lavoro manuale per tutti gli allievi
(falegnameria, attività campestri, allevamenti di piccoli animali) oltre alla pratica dei lavori liberi e della ginnastica, ai
viaggi ed ai campeggi.
Altri 10 punti erano relativi all’educazione intellettuale. Doveva fondarsi su un’ampia cultura generale impartita non solo
attraverso nozioni, ma basata su fatti ed esperienze, orientata alla formazione dello spirito critico e ispirata all’applicazione
del metodo scientifico: osservazione, ipotesi, verifica, legge. Alla base di ogni procedimento erano posti gli interessi e
l’attività personale del fanciullo, quest’ultima svolta ora in modo individuale ora in forma di gruppo. L’insegnamento
propriamente detto andava limitato a poche ore e a poche materie al giorno, per lasciare spazio anche ad altre attività
culturali e ricreative.
I restanti 10 punti riguardavano l’educazione morale. Il prestigio su cui essa doveva basarsi era quello di promuovere
l’autorità interna, vale a dire la coscienza interiore. Ciò era possibile attraverso l’esercizio diretto della responsabilità
personale, della partecipazione democratica alla vita scolastica e nella riflessione e studi sulle leggi naturali del progresso
spirituale, individuale e sociale. I premi erano orientati a fornire occasioni di accrescimento della “potenza di creazione” dei
fanciulli; le punizioni avevano lo scopo di mettere il fanciullo in condizione di raggiungere meglio in avvenire lo scopo
giudicato buono che egli ha mal raggiunto non ha raggiunto affatto.
L’emulazione era giudicata in modo positivo. Per quanto riguardava la dimensione religiosa, la questione era affrontata
all’ultimo punto secondo un principio di tolleranza e equivalenza tra le varie esperienze di fede fondato sulla condizione che
esse incarnassero uno sforzo in vista della crescita spirituale dell’uomo.
Il Bureau di Ginevra cessò di esistere nel 1925 in seguito alla costituzione del Bureau international d’education, la cui
direzione fu conservata fino al 1931 da Ferriere.
12. Altre esperienze di attivismo psicopedagogico: Decroly
In questo medesimo periodo ebbero una parte importante nel movimento riformatore anche altre personalità di studiosi ed
educatori. Il primo e Decroly; era un medico che visse ed operò a Ixelles, nei pressi di Bruxelles, dove lavorò in un primo
tempo in un istituto per fanciulli anormali, dando vita in seguito alla scuola “de l’eremitage”, definita da Decroly, scuola per
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la vita mediante la vita.


Nel 1908 Decroly pubblicò un saggio dal titolo Le programme d’une école dans la vie nel quale affidava l’educazione alla
legge del bisogno e ai suoi interessi vitali: l’uomo ha alcuni bisogni fondamentali: nutrirsi, proteggersi dalle intemperie,
difendersi dai nemici. Egli dovrà essere in grado di badare a sé stesso e di soddisfare le esigenze della sua famiglia,
assolvendo al tempo stesso a tutti i suoi obblighi sociali.
Come bisogna regolarsi con il fanciullo? Facendo ricorso in un primo tempo all’osservazione diretta ed aiutandolo a
riconoscere i processi vitali che in lui si svolgono; guidandolo poi alla comprensione dei fenomeni del suo ambiente
immediato e alla comprensione dei fenomeni da lui più lontani nel tempo e nello spazio.
La scuola di D. era centrata sui bisogni fondamentali dell’uomo intorno a cui si raccolgono gli interessi dei fanciulli la cui
soddisfazione costituisce la traccia dei programmi di insegnamento. Anche in D. la scuola muove dalla dinamica interesse-
bisogno dei fanciulli. La pedagogia non è altro che psicologia applicata: educare significa seguire il corso dell’evoluzione
naturale dei dinamismi psichici.
Decroly individua 4 fondamentali bisogni dell’uomo:
1. Il bisogno di nutrirsi 2. Bisogno di lottare contro le intemperie 3. Il bisogno di difendersi dai pericoli e dai nemici 4. Il
bisogno di agire, di lavorare da solo o in gruppo, di ricrearsi e di migliorarsi.
I bisogni trovavano il loro centro naturale nell’allievo che, attraverso la loro esplorazione, poteva familiarizzare con il
campo della cultura e delle conoscenze.
I bisogni trovavano il loro centro naturale nell’allievo che poteva familiarizzare con il tempo della cultura e delle
conoscenze. Questo era possibile traducendo sul piano didattico il bisogno in una serie di “centri di interesse” intorno a cui
raccogliere tutte le attività che hanno significato per la formazione dell’individuo: ciascun bisogno doveva consentire ampi
riferimenti ad attività, ricerche, fatti storici e sociali, problemi morali, riuscendo in tal modo ad evitare situazioni scolastiche
artificiose. Decroly prospettava il superamento delle materie tradizionali e la loro reciproca separatezza, indicazione poi
illustrata in un famoso scritto dal titolo l’ecole renovéè.
La divisione tradizionale per materie era legata ad una condizione oggettivistica della cultura che non teneva in alcun modo
la varietà di interessi e di capacità dell’allievo ed era destinata ad accentuare gli aspetti intellettuali del sapere. La proposta
per svolgere l’apprendimento e il sapere scolastico attraverso i centri d’interesse.
Il collegamento delle materie mediante i centri di interesse riguardava i modi di attività dell’allievo nel processo di
apprendimento. Lo scopo dell’innovazione era quello di porre al centro del processo formativo l’allievo stesso sospinto dai
suoi bisogni fondamentali.
Per dare efficacia a questo obiettivo D. suggeriva lo svolgimento dei centri d’interesse attraverso tre principali fasi:
l’osservazione, l’associazione e l’espressione.
Mediante l’osservazione gli allievi andavano posti a contatto con gli oggetti, i fenomeni, gli avvenimenti per impadronirsene
non solo dal punto di vista mnemonico o verbale, ma esperienziale.
L’associazione ha il compito di collegare questo tipo di conoscenze ad altre conoscenze non più dirette, ma fornite da libri,
documenti, illustrazioni, spiegazioni degli insegnanti e così via. L’associazione si propone di far progredire le conoscenze
verso i concetti generali ampliando l’ambito dell’esperienza diretta. Decroly individua 4 tipi di associazione:
1. Esercizi su oggetti e fatti considerati nel presente nello spazio, oggetti e fatti, cioè che si trovino o accadano in luoghi
poco o punti accessibili all’osservazione diretta.
2. Gruppo di esercizi consiste nell’esaminare gli stessi argomenti dal punto di vista cronologico e nello stabilire i confronti
tra lo stato attuale, osservato durante gli esercizi del primo gruppo, e quanto accadeva nei tempi passati.
3. Esercizi basati sull’esame delle utilizzazioni e delle applicazioni industriali, domestiche, igieniche o d’altra specie, delle
materie prime e dei loro derivati.
4. Esercizi di causa-effetto in riferimento a quanto appreso attraverso l’osservazione e altri esercizi di associazione. Gli
allievi vengono in tal modo resi sempre più consapevoli del perché e del come dei fenomeni.
L’espressione accompagna l’una e l’altra attività si configura come la capacità di manifestare mediante un linguaggio il
proprio pensiero agli altri. Essa comprende non soltanto il parlare o lo scrivere, ma anche il disegno e il lavoro manuale.
Il fenomeno della globalizzazione o funzione globalizzante è spiegata dallo stesso D.: la conoscenza e la sensazione nel loro
stadio iniziale hanno a che fare non co elementi che poi si associano per formare tutto un tutto complesso, ma non proprio
con un tutto la cui struttura risulta però ancora indifferenziata. Il bambino percepisce e apprende ciò che entra in contatto
con lui in modo globale e indistinto, senza processi di scomposizione analitica.
Soltanto dopo aver compiuto la prima conoscenza di tipo globalizzante, il fanciullo sarà in grado di compiere operazioni di
sintesi. Decroly ritiene che la funzione di globalizzazione rappresenti il ponte tra attività istintiva e attività superiore di
intelligenza. Essa svolge un ruolo primario soprattutto durante il periodo di transizione che va dall’educazione materna a
quella che adotta procedimenti più logici ed astratti.
L’originalità di D. fu quella di aver scoperto il meccanismo psicologico della globalizzazione, fenomeno già intuito sul
piano empirico da autori anche in passato e al centro di numerose ricerche psicologiche del tempo, e di averlo applicato alle
varie attività scolastiche, in primo luogo la lettura, la scrittura e l’attività grafica e di aver contribuito mediante l’impiego
cosiddetto “metodo globale” al rinnovamento delle prassi di apprendimento negli anni compresi tra infanzia e fanciullezza.
Un esempio della funzione di globalizzazione fu l’apprendimento della lettura e della scrittura attraverso la pratica
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ideovisuale. Dopo aver invitato il fanciullo ad osservare un oggetto e ad esprimere brevi frasi, l’insegnate le scrive alla
lavagna. L’allievo le ricopia sul quaderno come se fossero dei disegni mentre il maestro le trascrive su apposite strisce che
vengono dapprima affisse alle pareti dell’aula e quindi raccolte in scatolette che vengono consegnate al fanciullo che si
esercita a riconoscerle globalmente sulla base del loro aspetto complessivo.
A poco a poco, moltiplicandosi gli esercizi, resi attraenti sotto forma di gioco, egli si abitua a comparare le frasi, a
riconoscere segni e parole ricorrenti fino a sillabe e alle varie lettere dell’alfabeto. A questo punto si intensificano gli
esercizi, ogni giorno diversi e non più soltanto riferiti alla stretta esperienza dell’allievo per passare ai caratteri a stampa
perché i fanciulli riconoscono presto l’immagine visuale della parola stampata. Arrivati a questo punto si può dire che i
fanciulli sono ormai pronti a leggere e scrivere in modo autonomo.
13. Educazione nuova in Italia e Maria Montessori
Le iniziative intraprese da Maria Montessori ci induce a volgere lo sguardo all’Italia.
Tutte le espressioni più significative e vincenti della cultura italiana d’inizio secolo si manifestarono con un’impronta
fortemente antipositivistica, tanto in campo artistico quanto in campo letterario e filosofico.
Particolarmente significativa si può considerare la critica di Benedetto Croce verso qualsiasi estetica di impronta
naturalistica e il suo schierarsi a favore di un processo intuitivo.
Gli intellettuali che nei primi decenni del secolo operarono in questa direzione, ingaggiando vivaci polemiche con Giolitti e
il suo pragmatismo politico, si servirono spesso di riviste culturali e d’impiego letterario per lamentare la mediocrità degli
ideali del tempo e auspicare una svolta ispirata all’esaltazione della libertà individuale, interpretata quasi sempre in chiave
irrazionalistica e volontaristica.
Questa temperie non poteva ovviamente lasciare indifferente il mondo dell’educazione e della pedagogia. Gli antipositivisti
furono soprattutto occupati a salvaguardare la dimensione e la prospettiva spirituale dell’uomo che a loro giudizio le scienze
umane rischiavano di dimenticare o di annullare.
La svolta idealistica di Gentile e il peso esercitato sul piano accademico e in seguito anche politico provocarono la fine dello
sperimentalismo. Le ricerche sperimentali avviate a fine secolo da vari studiosi in linea con quanto accadeva negli altri paesi
non ebbero futuro e finirono per avvizzire e declinare o ridursi nell’area dei fanciulli anomali, mentre gli orientamenti
prevalenti della pedagogia italiana andarono su strade del tutto diverse.
Anche in Italia maturò comunque nei primi anni del secolo una nuova sensibilità verso infanzia e esigenza di tenere in
maggior conto le dinamiche evolutive, gli interessi e i bisogni, evento che si verificò in vari settori della vita sociale e
intellettuale.
Nel 1906 per iniziativa di Bertelli cominciò ad uscire il giornalino della domenica, pubblicazione per ragazzi piuttosto
anticonformistica che segnò un netto cambiamento di orizzonte rispetto ai periodici per la gioventù d’impronta tardo-
ottocentesca nei quali prevaleva la pedagogia delle regole e del bon ton borghese.
Fu in tal temperie che Maria Montessori aprì un popolare quartiere romano, nel 1906, la sua prima Casa dei bambini. La
pedagogia doveva essere scientifica nel senso che era chiamata a rispettare le leggi dello sviluppo del fanciullo, liberandosi
di qualsiasi pregiudizio di tipo metafisico e dal peso delle consuetudini e di tradizioni, ma anche dalle esagerazioni di quel
positivismo bio-sociometrico che circolava in Italia nei primi decenni del secolo e che guardava all’educazione come ad una
specie di catena di montaggio in grado di assicurare buone abitudini.
Natura e libertà coincidevano: per la Montessori la natura si manifestava nella spinta interiore ad agire e a crescere sul piano
fisico e intellettuale secondo un piano di autonomia, se l’intrusione indebita e le prepotenze degli adulti non lo deformavano
e lo sviavano. Educare significava promuovere autoeducazione dei bambini, sollecitandone le forze interiori e le capacità
potenziali. A tal fine occorreva porli nelle condizioni favorevoli e questo era possibile solo a partire dalla conoscenza
sperimentale del loro sviluppo fisico e psichico Il compito dell’educatore era di creare un ambiente adatto al bisogno d’agire
del bambino, al suo bisogno di giocare, assimilare spontaneamente, un ambiente che deve essere a misura di bambino, cioè a
lui adattato.
La Montessori parla della necessità di formare “maestri scienziati”, intendendo con questa espressione l’esigenza che il
maestro sia preparato nello spirito dello scienziato piuttosto che nel semplice meccanismo didattico.
I mobili, gli attrezzi, i giochi, in altre parole, dovevano corrispondere per dimensioni e peso alle forze e alle capacità
infantili ed essere facilmente impiegati così da permettere ai bambini di muoversi e comportarsi a loro agio.
La Casa era veramente tale quando il suo ambiente e le sue occupazioni erano orientate allo sviluppo e alla crescita dei
bambini attraverso un clima adeguato e una serie di occupazioni incentrate sul materiale strutturato e legato alla via
dell’ambiente stesso.
Sul piano delle attività pratiche la Montessori prospettò una serie di lavori conservativi, cioè lavori adatti ai bambini
finalizzati a conservare gli oggetti esistenti. Questi lavori furono individuati nelle tante opere attive necessarie a tenere ben
pulita e in ordine la casa.
Il valore educativo attribuito all’ambiente e al materiale posto a disposizione del bambino era pensato secondo un piano
progettuale nel quale la figura dell’insegnante doveva assumere la veste della direzione delle attività individuali e sociali dei
bambini. La vita dei bambini si manifestava in piena libertà.
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14. Materiale montessoriano


Secondo la Montessori spettava proprio al materiale educativo svolgere tanto la funzione promotrice quanto quella
ordinatrice dello sviluppo infantile. Le Case dei bambini dovevano disporre di oggetti progettati per questo duplice fine, in
grado sia di rispondere ai bisogni di manipolazione e di gioco dei bambini sia di rispettare la gradualità legata allo sviluppo
dei sensi e dell’intelligenza infantile.
Nelle Case dei bambini era previsto l’impiego di materiali in grado di favorire uno sviluppo sensoriale, nonché l’esercizio di
svariate attività. Si trattava, di solidi da incastrare, tavolette, figure e blocchi da ordinare secondo le dimensioni, matasse
colorate e campanellini da porre in scala, superfici ruvide e lisce da graduare e così via. Altri materiali avevano la finalità di
sviluppare le capacità logiche: avvio al calcolo, alla lettura, alla misura. Lo scopo era di esercitare analiticamente i sensi,
ampliare il campo della percezione, sviluppare l’intelligenza, acquisire l’abitudine all’ordine e alla chiarezza. La Montessori
individuò 4 qualità fondamentali del materiale: predisporre oggetti che permettessero il controllo dell’errore, attraenza,
dimensione attiva del materiale. Gli oggetti erano predisposti per prestarsi all’attività del bambino in quanto la possibilità di
trattenere l’attenzione infantile non dipendeva dalla qualità delle cose, quanto dalla possibilità che esse offrivano di agire.
Ciò che rendeva o meno interessante un oggetto era il suo prestarsi all’attività motrice del bambino. La quarta e ultima
qualità consisteva nel fatto che il materiale a disposizione fosse limitato in quantità. Il bambino normale è sveglio, e i suoi
rapporti con l’ambiente sono innumerevoli e continui. Egli ha invece bisogno di ordinare il caos formato nella sua coscienza
dalla moltitudine di sensazioni che il mondo gli ha dato. Il materiale di sviluppo montessoriano fu al centro di contrastate
valutazioni di esponenti dell’attivismo pedagogico, la cui analisi consente di meglio collocare la Montessori nel quadro del
rinnovamento del tempo e di approfondire le dinamiche in gioco.
Nel 1916, in un passaggio di Democrazia ed educazione, Dewey sosteneva che la Montessori fosse troppo impaziente di
giungere alla distinzione intellettuale senza perdita di tempo, così da sottovalutare l’importanza del materiale rudimentale di
cui i bambini si servono spontaneamente. Dewey riteneva che soltanto situazioni di tipo famigliare e diretto potessero
consentire al bambino uno sviluppo funzionale alla sua esperienza, in quanto si presentavano come intero e non secondo la
logica del semplice e del complesso.
Facendo esercitare il bambino con materiale già predisposto e ordinato, si cadeva nell’errore di ritenere che la mente
infantile avrebbe assorbito l’intelligenza che era stata originariamente impiegata nella sua predisposizione.
Claparede lamentava alcuni limiti del materiale montessoriano partendo dalla propria concezione dell’educazione e
giungendo da conclusioni non molto diverse di Dewey. C. riteneva che il materiale finisse per essere applicato in modo
dogmatico portando con sé il limite di essere stato elaborato per gli anormali che hanno continuamente necessità di essere
stimolati in quanto sono in loro meno forti gli impulsi intellettivi naturali.
In secondo luogo gli esercizi previsti dalla Montessori erano compiuti per sé stessi, senza essere associati alla soluzione di
alcun problema di vita pratica e manifestavano pertanto il limite della frammentazione analitica.
15. La teoria della mente assorbente
La cultura psicologica alla quale il concetto dell’ambiente e il materiale montessoriano si rifaceva privilegiava ancora la
dimensione sensorio-motoria, ancorata all’idea che il semplice è la parte di un tutto, abbastanza distante dalla novità dei
processi di globalizzazione che prima C. e poi Decroly stavano mettendo a punto nei loro studi.
La M. prendeva in prestito dal linguaggio astronomico l’espressione nebule per indicare specifiche sensibilità che si
risvegliano nel corso dello sviluppo psichico con carattere di totalità indistinte e dotate di particolare dinamismo.
Esse costituiscono un elemento selettivo a servizio della maturazione psichica e, non determinano modelli di
comportamento fissi e automatici, ma spingono il soggetto ad appropriarsi degli elementi dell’ambiente.
La conquista dell’ambiente non ha come oggetto immediato un aspetto particolare, ma si attua in campo, manifestandosi
come visione d’insieme. Il principio della mente assorbente costituì il tentativo di portare in primo piano degli elementi
inconsci, affettivi e sociali che erano stati trascurati nella prima fase della riflessione della M.
Al fenomeno dell’assorbimento si associò un più profondo concetto della libertà dell’infanzia, che la M. prospettava con
l’immagine del bambino esploratore. La discussione sul significato della pedagogia montessoriana non è una novità, la M.
ottenne consensi internazionali difficilmente tributati ad altri educatori ma fu spesso al centro di vivaci critiche.
Per quanto riguarda l’Italia, il suo metodo fu spesso contrapposto a quello delle sorelle Agazzi. La M. dovette scontare le
critiche degli idealisti e la stroncatura di Lombardo- Radice che poco amava l’impostazione scientifica dell’educazione
infantile della pratica montessoriana. Ma pagò anche il prezzo di un metodo costoso e dall’impianto organizzativo
abbastanza complesso, le prevalenti simpatie del mondo cattolico per le sorelle Agazzi. Nonostante difficoltà,
incomprensioni, la pedagogia montessoriana costruisce una realtà che non appartiene solo alla storia pedagogica ma si
configura con un’esperienza tutt’ora viva.
CAPITOLO 3: PEDAGOGIE EUROPEE DEL PRIMO NOVECENTO
1.Due diverse concezioni della libertà
A fianco delle teorie puerocentriche si svolsero anche altri itinerari. Nel quadro della relazione antipositivistica che segnò
ampia parte della cultura europea del tempo, si manifestò una vigorosa ripresa di motivi legati all’ideale umanistico
dell’educazione.
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Dopo una fase di ricerca e di rielaborazione, tra la fine dell’800 e la fine del 900 si verificarono i primi tentativi di
riconquistare gli spazi educativi che le tendenze positivistiche avevano in larga misura fatto propri. In primo piano emerse
la questione della libertà.
Alla base della pedagogia delle scuole attive e delle pedagogie non puerocentriche sta una diversa concezione della libertà
educativa. Nel primo caso siamo in presenza di una concezione di libertà strettamente associata all’idea di sviluppo
psicologico: l’iniziativa educativa consiste principalmente nel prendere atto dello svolgersi delle facoltà e delle capacità del
soggetto in formazione senza la pretesa di intervenire in forme direttive esterne o con finalità estranee allo sviluppo stesso.
La libertà dell’individuo che cresce non avrebbe altri fini che quelli dettati dallo sviluppo stesso.
Nel secondo caso le teorie educative riguardano la libertà ponendola in relazione alle finalità metaindividuali. La libertà
dell’uomo è vista come l’irripetibile occasione per perfezionare o accrescere la coscienza/autocoscienza di sé stesso cui
giungere alla condivisione di esperienze di più ampio significato.
La priorità attribuita ai valori dalla cultura ha comportato che tali bisogni e i ritmi di sviluppo sono stati ricondotti
all’interno di una strategia educativa non funzionale soltanto allo sviluppo psicologico. La psicologia è stata vista in
funzione ausiliaria ed il baricentro educativo posto in un sistema organico di significati educativi indipendenti dallo sviluppo
naturale del fanciullo. Anche sotto il profilo del modello pedagogico si registrano differenze notevoli. Mentre nel primo caso
hanno avuto ampi riconoscimenti gli aspetti sperimentali del processo educativo nella prospettiva delle scienze
dell’educazione, nel secondo hanno continuato ad avere un ruolo prevalente gli approcci filosofici e/o politici a cui è stato
affidato il compito di definire la costellazione dei contesti culturali e dei fini dell’educazione.
2. La pedagogia dei valori nella cultura tedesca
Negli ultimi decenni dell’Ottocento si verificò un ritorno a Kant. Il ritorno a Kant si sviluppò intorno a due principali centri:
la scuola di Marburgo e la scuola di Baden.
I neokantiani rivendicarono la libertà dell’uomo affidata al mondo dei valori; se i valori non esistessero non avrebbe
nemmeno senso l’esistenza dell’uomo. Nell’uomo stesso, colto entro il proprio formarsi storico, nei nessi che lo conducono
al sociale e alle sue culture, l’uomo sperimenta un mondo di valori.
La pedagogia fu considerata come filosofia applicata in grado di fornire gli strumenti per il superamento del puro orizzonte
naturalistico. La condivisione di una teoria educativa normativa innervata di una realtà ideale capace di dare senso e di
trascurare l’esperienza empirica e pedagogica. Oltre alla ragione scientifica stavano esperienze umane come quelle del
sentimento e della volontà che testimoniavano la realtà di un mondo non soltanto fenomenico. Il mondo dei valori
rappresentava la spera del dover-essere di fronte all’essere.
I valori non sono reali nel senso corrente, ma la realtà tende tuttavia ad adeguarvisi e l’atto di correlare la realtà e valore
costituisce il significato attribuito alla natura e alla storia.
4. Hessen: la pedagogia come teoria della cultura
Nato in Siberia, Hessen insegnò a Berlino, Praga e Varsavia e la sua ricerca si svolse in due principali direzioni. La prima fu
sviluppata nel volume I fondamenti della pedagogia come filosofia applicata. La seconda si prefisse di indagare i caratteri
della scuola democratica al quale dedicò il saggio Struttura e contenuto della scuola moderna. Secondo Hessen si
confrontarono due irriducibili modi di pensare e gestire l’educazione: uno di tipo negativo (il semplice lasciar scorrere
l’essere) e uno di tipo positivo (promuovere il dover essere). L’educazione negativa muove dal presupposto che occorre
porre l’alunno in condizioni tali che egli debba far tutto da sé. L’educazione non dovrebbe far altro che seguire le nascenti
esigenze dell’allievo. Soddisfarle e metterlo in condizioni il più possibile favorevoli allo sviluppo dei suoi organi e delle sue
capacità.
Secondo Hessen il limite della visione Rousseauiana e tolstoiana risiede nell’insufficiente e parziale visione della libertà,
che non è un fatto, bensì un ideale. La costrizione è un fenomeno esterno ma esiste nelle stesse passioni umane e la libertà si
consegue soltanto attraverso il loro dominio. La costrizione può essere sradicata soltanto coltivando nell’uomo la forza
interiore, capace di resistere ad ogni costrizione e non mediante la semplice abolizione della costrizione. Libertà e disciplina
sono tra loro in stretta connessione. L’educazione positiva poggia sulla constatazione che il problema della libertà
dell’individuo è molto più complesso di quello che vorrebbero far credere le tesi naturalistiche. La libertà autentica si
sperimenta solo nella volontaria subordinazione alla legge, esperienza attraverso la quale si compie il processo di
formazione della personalità.
Il compito primario della pedagogia è identificato nella chiarificazione concettuale dell’intreccio tra fini ideali, mondo della
cultura e crescita personale. La pedagogia è perciò teoria della cultura, ovvero continuo ripensamento dell’inverarsi dei
grandi ideali umani che si sono manifestati e continuamente si rinnovano nell’arte, nella religione, nella morale e nella
politica, e dall’altro, “scienza normativa” che si pone come obiettivo la libera condivisione degli ideali e valori attraverso la
padronanza del mondo della cultura.
Le tappe evolutive non sono prerogativa della psicologia, ma risultano un’esperienza nella quale interagiscono elementi
diversi che Hessen presenta:
- Fase dell’anomia, caratteristica dell’infanzia, nella quale prevalgono il gioco e il mondo dell’immaginazione, attività senza
fini e senza coscienza di legge.
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- Fase dell’eteronomia in cui il soggetto umano passa dal mondo degli affetti famigliari al mondo della comunità scolastica;
all’attività del gioco sostituisce l’attività del lavoro scolastico; la libera espressione dell’età precedente è gradualmente
ordinata secondo norme che promuovono l’interiorizzazione della legge e la conoscenza degli ideali.
-Fase dell’autonomia nella quale si compie la maturità dell’uomo, ad essa corrispondono la ricerca culturale e personale e
l’autonomia etica e cioè la sintesi tra i valori perenni della cultura e le aspettative ed esigenze personali.
È evidente la simmetria tra le fasi evolutive e le tre fondamentali fasi dell’apprendimento: un momento episodico (che si
svolge negli anni infantili ed è organizzato dalle sedi educative prescolastiche), un momento sistematico (trova la sua
espressione nei diversi gradi scolastici e nell’istruzione secondaria) e un momento di libera ricerca a livello universitario.
Il grado dell’autonomia è quello in cui l’individuo è pienamente se stesso in tutta la propria integrità. Anche per Hessen la
scuola doveva rappresentare un’occasione irrinunciabile di promozione delle capacità dell’individuo, non all’interno di una
prospettiva di progresso sociale e comunitario centrata sulla convinzione che la democrazia tanto più ricca quanto maggiore
è il grado di consapevolezza culturale e civile dei suoi membri.
Egli prospettò l’ipotesi di una scuola che fosse aperta in tutti i suoi gradi fino al massimo di cultura di cui ciascuno è
soggettivamente capace, sostituendo alla vecchia formula dell’educazione popolare che esigeva un minimo di cultura per
tutti, il nuovo principio del massimo di cultura per tutti. Questa esigenza si tradusse nella proposta della scuola unica. Fu un
tema che rese nota e popolare la riflessione pedagogica hesseniana, specie in quei paesi che dopo il 1945 si avviarono ad
oltrepassare la fisionomia della scuola d’élite, intendendo ne medesimo tempo salvaguardare il quadro dei valori spirituali e
culturali propri della tradizione classica.
6.La reazione antipositivistica nel neoidealismo di gentile
Il primo e più evidente tratto che emerge dalla lettura degli scritti giovanili di Gentile è la radicale opposizione al
positivismo. Gentile afferma la centralità dell’uomo che pensa e, attraverso l’atto del pensare, scopre e conquista il valore
universale della propria umanità.
L’educazione come “processo dello spirito”, come esperienza spirituale attraverso cui si risponde incessantemente al
socratico invito “conosci te stesso”. Per Gentile le conoscenze psicologiche e sociologiche non erano in grado di portare alla
piena comprensione dell’esperienza umana ciò che invece era possibile soltanto attraverso la riflessione filosofica.
7.La riforma dell’educazione nel sistema gentiliano
La centralità della questione educativa in Gentile si spiega con ragioni storiche e teoriche. Per quanto riguarda le prime
occorre ricordare che il filosofo siciliano non fu estraneo all’insoddisfazione per gli esiti del processo di unificazione
nazionale, lamentando le responsabilità e le insufficienze delle élites dirigenti.
La ragione era individuata da Gentile nel tradimento del messaggio spirituale e religioso dei profeti del risorgimento e nel
conseguente prevalere di una concezione empirica della nazione e di una visione utilitaristica della politica.
Riformare l’educazione voleva dire promuovere innanzi tutto quella “riforma morale degli italiani” innervata da una
riaffermata religione dello spirito come spiritualismo purificato da ogni traccia di naturalismo. La riflessione educativa
gentiliana fu tutt’uno con la sua filosofia perché l’educazione è null’altro che formazione dello spirito, vale a dire ciò che
costituisce la nostra esperienza più pura.
L’educazione è vista come “farsi dello Spirito” e cioè formazione dell’uomo in quanto realtà spirituale e come sviluppo
storico dell’universale attività identica in tutti gli uomini.
L’idealismo gentiliano rivendicò la libertà dell’individuo ad autoeducarsi attraverso un processo infinito coinvolgente
l’intera esistenza.
L’individuo è invece sempre inserito nel flusso universale della storia in cui si manifesta incessantemente lo Spirito, ovvero,
ciò che consente all’umanità di percepirsi come tale.
La duplice e contraddittoria finalità dell’educazione, da un lato l’esigenza che si sviluppi nell’uomo la sua libertà poiché
educare è far l’uomo e l’uomo è degno del suo nome quando è padrone di sé, dall’altro la necessità che tale libertà non si
risolva in un intervento individualistico, ma si compila nel riconoscimento dell’universalità dello Spirito e delle forme che
scaturiscono dai processi storici attraverso cui lo spirito si manifesta. Il problema del rapporto tra libertà e autorità
costituisce quella che Gentile definisce come l’antinomia fondamentale dell’educazione, dalla quale egli esce attraverso il
riesame integrale del concetto stesso di libertà.
La libertà autentica è nel medesimo tempo esperienza di essere liberi ed esperienza di essere parte di una libertà più ampia
che ci trascende.
Vera educazione è perciò quella che compie l’unificazione spirituale nella quale si annullano gli individui come esseri
particolari e si compie la piena partecipazione dell’Io universale. L’uomo è sintesi a priori di individuale e universale,
espressione dello spirito che nel processo della sua attività crea tutte le particolari esistenze, il loro essere e anche il loro
dover essere, la loro realtà, ma altresì l’esigenza nel superarla nell’attuazione di nuove forme ideali emergenti dal senso
della stessa concreta realtà storica.
8. Maestro e scolaro
Gentile nega con forza la dualità di educatore ed educando. Il maestro è dentro di noi. L’apparente dualità scompare quando
l’educando fa propria la parola dell’educatore e l’educatore, a sua volta, fa proprie le attese dell’educando ponendosi l’uno e
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l’altro al cospetto della verità. Nell’atto educativo autentico, maestro e scolaro superano le differenze empiriche e si
ritrovano a sperimentare l’identica condizione umana: “L’autorità dell’educatore diventa la libertà dell’alunno”.
Non ha più senso perciò contrappone educazione negativa ed educazione positiva, come è accaduto per molto tempo: nella
concezione gentiliana l’educazione è frutto dell’incontro reciproco di due umanità che attraverso la loro fusione spirituale
conquistano la loro irripetibile univocità umana.
L’unità dell’educazione costituisce il motivo centrale della riflessione pedagogica di Gentile, unità che consente di superare
quelle che spesso sono apparse come caratteristiche antinomiche dell’evento educativo e a lungo hanno diviso la storia
culturale dell’occidente: istruzione-educazione, educazione religiosa-educazione scientifica, educazione estetica-educazione
umanistica e così via.
L’attuarsi del processo educativo si svolge per altre vie: come intrinseca moralità del sapere e come primato della filosofia.
Quest’ultima è giudicata forma di conoscenza per eccellenza nella quale s’inverano e si unificano tutte le esperienze
culturali.
9. La didattica come teoria della scuola
La didattica di Gentile si configura come momento dialettico intorno allo stesso svolgersi dell’educazione, orientata ad
articolare le varie fasi e a costituirsi come teoria della scuola. La trattazione della didattica è svolta dal filosofo siciliano
lungo due traiettorie, l’una critica, l’altra propositiva. La parte critica ebbe come obiettivo polemico la didattica che si
proponeva di facilitare l’apprendimento mediante accorgimenti particolari.
Gentile rispondeva con la tesi dell’unità del sapere, inteso come “unità intensiva infinita” e “infinita genesi del sapere”.
Il sapere si proponeva come processo infinito se conoscenza e apprendimento si svolgevano come esperienze capaci di
parlare all’interiorità dell’uomo e non si presentavano come puro e semplice accumulo di nozioni.
Toccava alla scuola suscitare il sapere più che trasmetterlo, favorire l’interesse culturale più che moltiplicare le nozioni,
liberare la forza creatrice dell’intelligenza senza costringerla entro norme e regole prestabilite.
Si trattava di principi educativi che contenevano una forte carica polemica rispetto alle pratiche scolastiche del tempo che
poggiavano ancora sull’esercizio della memoria, sull’importanza attribuita alla ripetizione, sulla essenzialità dell’imitazione
di buoni modelli.
Rifiutato il livello della didattica empirica non restava a Gentile che considerare lo sviluppo educativo sotto il profilo della
legge intera dello Spirito. Alla didattica basata sulle facoltà psicologiche, Gentile sostituì la didattica delle “forme dello
spirito” con le tre categorie della soggettività, dell’oggettività e della loro unità e le corrispondenti forme dell’arte, della
religione e il loro compimento-perfezionamento, ovvero verso l’autosufficienza filosofica.
Arte, religione e la filosofia rappresentano tre grandi configurazioni del processo di crescita umana. Attraverso l’arte lo
spirito umano compie l’esperienza del sentimento che viene considerata come il momento “soggettivo, immediato dello
spirito”. Il momento estetico si risolve nel suo opposto, ovvero nel momento dell’oggettività. L’esperienza soggettiva viene
in tal modo avvertita come transitorietà e rinvia al senso della necessità e cioè alla legge.
La maturità dell’uomo culmina infine nell’esperienza filosofica, ove oggettività e soggettività, arte e religione, trovano la
loro sintesi nella riflessione speculativa del soggetto che si oggettiva e dell’oggetto che si soggettiva, vale a dire nella
dimensione dell’atto spirituale.
La formazione del maestro andava pensata soprattutto come formazione dell’uomo che scopre dentro di sé le ragioni più
profonde della propria umanità nella ricerca del sapere e della coerenza etica.
Secondo il pensiero di Gentile egli doveva essere soltanto sé stesso e questo accadeva ogni qualvolta si liberava da tutti i
concetti che rendevano artificioso o meccanico il suo insegnamento.
10. La riforma scolastica del 1923
A Gentile, in qualità di ministro dell’istruzione nel primo governo Mussolini, fu incaricato di redigere la riforma scolastica.
La riforma fu compiuta in pochi mesi con l’aiuto di un ristretto numero di allievi e collaboratori e riflesse l’intreccio di
motivi storici e teorici che furono alla base dell’interesse filosofico e pedagogico di Gentile.
In primo luogo va richiamato il fatto che la riforma fu concepita da Gentile come parte di quella riforma morale degli italiani
reputata condizione indispensabile per attingere la coscienza di essere nazione fu predisposta in funzione della formazione
delle élites dirigenti cui era affidato il compito di guida dello svolgersi del progetto nazionale. Soltanto per le élites era
dunque prospettato un itinerario formativo completo.
Il sistema scolastico fu pensato a base molto larga (scuola elementare finalizzata all’alfabetizzazione dei ceti popolari) e con
un ristretto vertice (istruzione liceale e il ginnasio liceo) cui si poteva accedere soltanto attraverso una rigorosa serie di prove
che dovevano verificare la capacità e la maturità del candidato. La scuola che stava più a cuore a Gentile era la scuola
secondaria che cominciava subito dopo le elementari e su concludeva 8 anni dopo con l’esame di Stato.
Sul piano culturale la riforma gentiliana ebbe un doppio baricentro: l’affermazione dell’unità del sapere e la consapevolezza
che il sapere per eccellenza era quello classico-umanistico.
Il ginnasio-liceo fu organizzato alla luce di questi principi: ampio spazio alla cultura umanistica e trattazione del sapere
scientifico in forma culturale e non in termini di acquisizione di attività pratiche.
Tutti gli altri tipi di scuola furono pensati come copie imperfette di questo, a partire dal liceo scientifico (senza greco) e
dall’istituto magistrale (senza il greco e con un anno di corso in meno) fino ai vari corsi di istruzione tecnica reputati
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funzionali soltanto alle attività professionali subalterne e praticamente posti ai margini della scuola formativa.
I programmi furono predisposti tenendo conto di una duplice esigenza: la valorizzazione della cultura classica e il rispetto
della libertà di insegnamento. Si trattava della tradizione operativa del principio teorico secondo cui il sapere non può essere
trasmesso ma soltanto generato. Secondo Gentile la consuetudine con i classici aveva lo scopo di far scoprire a ciascuno la
propria umanità.
Gentile riconobbe l’importanza della cultura religiosa giudicata un aspetto irrinunciabile della formazione dei giovani, puri
individuando il vertice della coscienza personale nella conoscenza filosofica.
Un altro principio ordinativo della riforma fu quello della libertà di insegnamento intesa come libera concorrenza tra scuola
privata e scuola dello stato. In coerenza con i presupposti teorici posti alla base della ricerca culturale, Gentile riconosceva la
possibilità di una pluralità di vie formative: allo Stato spettava soltanto di verificare la congruenza tra la preparazione del
candidato e il valore legale del titolo di studio. La verifica fu attribuita ad un apposito Esame di Stato posto a conclusione di
ogni ciclo di studi e a quello degli studi secondari.
Altri due tratti caratteristici della riforma relativi alla scuola elementare vanno almeno accennati. Il primo riguarda la
creazione dell’istituto magistrale, in sostituzione delle scuole normali già previste dalla legge Casati, per la preparazione di
maestri elementari. L’istituto magistrale fu concepito come scuola di cultura in stretta coerenza con quella fisionomia del
docente delineata precedentemente. Anche nella scuola primaria si trattava di far crescere coscienze disciplinate più che
trasmettere nozioni e perciò il maestro doveva essere più uomo di cultura che esperto di tecniche didattiche.
La seconda questione concerne l’introduzione dell’insegnamento religioso: toccava ai valori religiosi svolgere un ruolo
normativo e ordinativo; ad essi era affidato il compito di far sentire anche agli strati sociali subalterni d’essere parte di una
vita dagli orizzonti più ampi, che storicamente s’inverava nella nazione italiana alla cui identità i valori del cattolicesimo
fornivano un irrinunciabile contributo.
La riforma del 1923 ha segnato in profondità la storia della scuola italiana ed ha costituito un caso a sé nella storia della
cultura educativa occidentale per la brusca e netta interruzione di ogni rapporto di continuità con gli apporti del positivismo.
Ha invece generalmente posto scarsa attenzione alla ragione della sua straordinaria longevità. La riforma del ’23 ha saputo
formare un ceto dirigente che ha gradualmente consentito anche all’Italia di transitare verso la civiltà della piena modernità.
11. Gentile e i “gentiliani” nella vita scolastica italiana
La riforma del ’23 sarebbe potuta restare più o meno incompiuta se lo spirito della riforma non fosse stato sostenuto con il
massiccio impegno dei gentiliani che operarono con passione e intelligenza con la sua affermazione.
I gentiliani strinsero tra loro rapporti di collaborazione culturale ma anche di stima e amicizia che non vennero meno
neppure quando alcuni itinerari si divaricarono.
In campo pedagogico le figure più vicine a Gentile furono quelle di Lombardo Radice e Codignola. Di origini siciliane,
Lombardo Radice, con il sostegno pieno di Gentile, pubblicò la rivista “Nuovi doveri”, una delle prime e più significative
espressioni e testimonianze dell’idealismo scolastico e pedagogico in Italia. Nel 1913 Radice diede alle stampe un volume
destinato a rappresentare una netta svolta nel modo di guardare all’infanzia e alla sua scuola (lezioni di didattica), che
rappresentò l’antefatto pedagogico della riforma della scuola elementare che lo studioso avrebbe curato nel 1923 in qualità
di direttore dell’istruzione elementare per conto dello stesso Gentile. Il volume si proponeva di fornire una serie di
indicazioni didattiche per superare il distacco tra scuola ed esperienze infantili in vista di una scuola capace di far propria la
ricchezza dell’animo infantile. Un’infanzia che per Lombardo-Radice era fatta di intuizione e fantasia e si manifestava
soprattutto nelle varie forme espressive e artistiche, dalla poesia al folklore, al sentimento religioso, tutte attività che la
scuola del tempo tendeva a trascurare.
Più tardi Lombardo-Radice avrebbe designato con l’espressione scuola serena il suo modello educativo-scolastico che egli si
sforzò di porre e generalizzare con programmi da lui stesi dell’ambito della riforma del 1923.
Dopo l’affermazione del fascismo la rivista si dedicò quasi esclusivamente a sostenere sul piano didattico e metodologico la
nuova scuola elementare.
Grande impegno fu perciò posto nella preparazione dei maestri, considerati i silenziosi promotori d’un Italia che in quanto
meno analfabeta poneva le premesse per mettere per essere anche meno povera.
Mentre i gentiliani operarono a livello di alta cultura e di scuola secondaria e Università, in campo magistrale
l’insegnamento idealistico si manifestò soprattutto nelle forme didattico popolari prospettate da Lombardo-Radice e dai
“lombardiani”, centrate sul modello del maestro “educatore del popolo”, sensibile alla riserva di valori morali espressa dalla
tradizione, manifestazione di quell’Italia rurale e piccolo borghese nella quale l’etica del lavoro, la dimensione comunitaria
dell’esperienza, il sentimento religioso, il senso del dovere, l’unità famigliare rappresentavano un nucleo di comportamenti
ampiamente diffusi e condivisi.
12. Il programma di educazione liberale
Negli Stati Uniti nacque il Movimento di educazione liberale animato negli anni ’30 da un gruppo di docenti dell’università
di Chicago che propugnarono il ritorno il ritorno alla tradizione intesa come ritorno all’uomo in quanto creatura morale,
razionale e spirituale.
Tenace avversario dell’attivismo pedagogico e critico di Dewey fu Hutchins che fu uno dei più autorevoli promotori del
ritorno ad un programma di educazione liberale, espressione impiegata secondo il suo significato classico ovvero come
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conquista della libertà interiore attraverso il valore della cultura e della sapienza.
Al principio dell’adeguamento ai bisogni degli alunni e dell’individualizzazione dell’apprendimento sostenuto dai teorici
della scuola attiva, Hutchins oppose la necessità di avere ben chiari i fini educativi, individuati negli elementi della nostra
comune natura umana, gli stessi in ogni tempo o luogo e nell’importanza dell’abitudine.
Lo studioso di Chicago riconosceva che alcune istanze della scuola puerocentrica non erano del tutto da respingere, come
quando essa richiamava l’utilità di partire dall’attivazione dei poteri e degli individui e quando poneva i fanciulli nelle
condizioni di liberarsi dalle loro inibizioni, ma respingeva fermamente che i programmi ed i metodi di studio dovessero
essere predisposti soltanto in funzione delle inclinazioni naturali.
Contro il materialismo bisognava riporre al centro dell’educazione la cultura nella versione più alta raggiunta dall’Occidente
– la cultura umanistica – ed elaborare un programma coerente e funzionale all’educazione dell’intelletto.
La civiltà aveva diritto a qualificarsi tale soltanto se condivideva un ideale comune: esso non poteva essere che l’ideale
umanistico, l’unico in grado di riportare ordine nel caos dell’educazione contemporanea.
Nel richiamo al valore esemplare dei classici gli intellettuali americani fautori dell’educazione liberale riflessero una
tendenza che anche in Europa ebbe un notevole peso, volta a rilanciare la cultura classica concepita come l’espressione
intensa e tipica di quello che è l’uomo nella sua esperienza più profonda, indipendentemente dalla moda mutevole dei
singoli periodi storici.
13. Il bivio pedagogico di Maritain
Maritain fu uno dei maggiori intellettuali cattolici del ‘900, filosofo, studioso di politica, punto di riferimento per una nuova
cristianità capace di conformarsi con la cultura contemporanea.
Dal 1932 in poi Maritain fu a stretto contratto con i sostenitori dell’educazione liberale. Secondo M. l’educazione
contemporanea si trova di fronte ad un bivio epocale da cui si dipartono due possibilità: quella di pensare all’uomo come
individuo emergente dall’evoluzione naturale e dallo sviluppo sociale, e quella di pensarlo come persona che si possiede per
mezzo dell’intelligenza e della libertà.
Nel primo caso l’educazione ha per scopo fondamentale l’integrazione dell’individuo nella vita sociale, con la
predisposizione delle necessarie competenze e nel rispetto dei ritmi e dei tempi di sviluppo; nel secondo caso l’itinerario
educativo è scandito dall’esigenza di considerare l’uomo nella sua integrità, corpo e anima, natura e sovranatura, conoscenza
ed azione, libertà e grazia.
L’educazione al bivio si articola in due parti principali. La prima è volta a denunciare quelli che sono giudicati gli errori
dell’educazione contemporanea:
- Misconoscimento dei fini ed un eccessi di attenzione per i metodi con il risultato di scambiare l’obiettivo-efficienza con le
mete educative finali.
- Le false idee riguardo al fine
- Il pragmatismo
- Il sociologismo (l’essenza di educazione non consiste nell’adattare un futuro cittadino alle condizioni e interazioni della
vita sociale, ma prima di tutto nel farne un uomo e preparare un cittadino).
- Volontarismo (errore di basare l’educazione sull’esclusiva formazione della volontà con il rischio di cadute illiberali e
totalitaristiche).
- Ogni cosa può essere insegnata (critica alle forme di eccessivo professionalismo scolastico, dimenticando di avviare ad
esperienze e conoscenze che non maturano soltanto attraverso l’insegnamento di una disciplina).
La seconda parte dell’opera è volta a delineare il programma dell’educazione liberale. Maritain prospetta l’esigenza di
incoraggiare e favorire quelle fondamentali disposizioni che permettono all’agente principale, il bambino, di svilupparsi
nella vita dello spirito; è chiaro che il compito del maestro è soprattutto di liberazione: “liberare le buone energie è il mezzo
migliore per reprimere le cattive”.
Il secondo principio positivo consiste nel centrare l’attenzione sull’intima profondità della persona e del suo precosciente
spirituale dinamismo che consiste nel preoccuparsi del dentro, e dell’interiorizzazione dell’influenza educativa, contrastando
l’eccessiva attenzione a fare o memorizzare più che a riflettere.
La terza norma insiste sull’esigenza che tutti il lavoro educativo e di insegnamento deve tendere ad unificare. Bisogna
pensare all’educazione come ad un processo integrale nel quale mani e mente devono lavorare insieme, ovvero esperienza e
ragione devono procedere di comune intesa.
L’ultima regola esige che l’insegnamento liberi l’intelligenza invece di appesantirla: in altri termini che l’insegnamento
ottenga la liberazione dallo spirito mediante il dominio della ragione sulle cose insegnate.
In ordine al programma di studi Maritain prospetta la ricomposizione dell’antica lista delle sette arti liberali definite dalla
cultura classica. Il modello trivio andrebbe orientato alla padronanza della parola, condizione imprescindibile per
l’espressione del pensiero e della capacità creativa dell’uomo: di qui la proposta degli insegnamenti di eloquenza, letteratura
e poesia. Il quadrivio dovrebbe riguardare l’attività conoscente e razionale, l’attività di intuizione e giudizio, cioè la verità da
scoprire e alla quale acconsentire sulla fede dell’evidenza. Esso dovrebbe puntare all’insegnamento della matematica, delle
scienze fisiche e naturali, sulla filosofia e sulla morale e la filosofia politica e sociale.
Il suo richiamo alla riserva sapienziale della tradizione classico-cristiana aveva lo scopo che gli riteneva perfettamente
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compatibile con la modernità e l’unico modo per darle un senso: quello di non smarrire la gerarchia dei fini in educazione, il
primo e più alto era quello di far conoscere la verità.
14. Il marxismo, educazione e pedagogia
Marx e Engels auspicarono il sorgere di un uomo nuovo coerente con quella socialità animata dall’egualitarismo da essi
preconizzato. I due fondatori del materialismo storico furono soprattutto filosofi, teorici dell’economia e politici.
Nell’ideologia marxista l’educazione rappresenta un’immediata espressione della dialettica sociale e pedagogica, non
concepibile come qualcosa di separato rispetto al contesto sociale e produttivo. La comprensione dei processi educativi è
strettamente associata ai modi di gestire la società, ai meccanismi di riproduzione economica e culturale, alle gerarchie
sociali. È impossibile parlare di educazione e di pedagogia marxista senza immergersi nella critica alle contraddizioni del
sistema economico e politico capitalistico e nelle aspirazioni e nei bisogni delle classi subalterne, sfruttate e marginali.
Bisogna ricordare gli scritti giovanili di Marx nei quali egli dedicò un’ampia trattazione al concetto di alienazione inteso
come estraniamento dell’uomo dal sé e dal mondo. Marx ed Engels affermarono il principio del materialismo scientifico
come fondamentale principio di verità.
La vera essenza della storia degli individui consiste nella loro attività produttiva: la struttura economica è a tal punto
onnipotente da poter condizionare la sovrastruttura, ossia l’insieme delle convinzioni, delle teorie filosofiche, della morale e
della religione e ogni altra forma ideale. Queste sono prive di storia propria e mutano con il variare della struttura
economica. La condizione dell’uomo è quella dell’alienazione. Il processo di alienazione comincia con la divisione del
lavoro prodotta dalla società industriale. Da questa alienazione del lavoro scaturiscono tutte le altre forme di alienazione:
quella verso gli altri uomini, verso la politica, quella morale e religiosa. Gli uomini alienerebbero il loro essere,
proiettandolo in un Dio immaginario in quanto impossibilitati dalle ingiustizie sociali a sviluppare la loro umanità. Il
superamento delle contraddizioni della società capitalistica si compie solo attraverso un sostanziale mutamento dei rapporti
di produzione. Attraverso la dialettica si comprende il movimento reale della storia ovvero l’incessante scontro tra lo stato di
cose esistente e la negazione di esso, scontro che produrrà il superamento della situazione storica iniziale.
Non c’è altra strada per il riscatto dell’uomo che la lotta dei proletari sfruttati ed alienati contro i privilegi della borghesia
capitalistica, così come la borghesia riscattò la propria subalternità rispetto alla classe feudale.
Lo stadio finale di questa lotta epocale sarà la società comunista. L’uomo potrà conquistare la propria libertà solo quando
sarà affrancato dalle storiche catene che lo vincolano. E’ unicamente all’interno di questo orizzonte che è possibile parlare di
educazione.
La ricomposizione della frattura tra l’uomo e il lavoro si verificherà quando l’attività produttiva riuscirà a sfuggire al suo
carattere passivo e a riconquistare il ruolo che le compete nel perfetto dominio sulla natura.
L’uomo unilaterale lascerà il posto all’uomo onnilaterale o uomo nuovo, capace di riunire in sé tanto la dimensione
operativa quanto quella direttiva, dando vita al superamento della divisione storica del lavoro e ponendo le premesse per
stabilire un perfetto equilibrio tra uomo, natura e produzione.
Fu all’interno di questo contesto che Marx prospettò una riforma dell’istruzione poggiata su uno stretto rapporto tra scuola e
lavoro (scuola politecnica o tecnologica) capace di trasmettere i fondamenti scientifici di tutti i saperi e volta ad introdurre
gradualmente il fanciullo e l’adolescente alla padronanza dei mestieri, una scuola capace di riunire le conoscenze operative a
quelle intellettuali.
Il tema della scuola unica politecnica sarebbe diventato presto uno dei motivi ricorrenti della pedagogia del marxismo e
delle relazioni dei paesi socialisti, senza mai raggiungere risultati soddisfacenti.
In sintesi la proposta educativa e pedagogica di Marx e Engels può essere definita: 1. Non c’è pedagogia senza politica, anzi
la pedagogia è una manifestazione della politica. 2. L’educazione dell’uomo non è un evento personale o spirituale, ma è
soltanto un’esperienza sociale ed economica. 3. La classe proletaria è impegnata a perseguire un modello educativo proprio,
contro l’iniziativa dello stato borghese di creare modelli scolastici funzionali al sistema borghese.
15. La pedagogia marxista tra Marx e la rivoluzione russa
Fu sempre costante del movimento socialista l’interesse per l’educazione popolare attraverso la propaganda, un’intensa
pubblicistica, la creazione di università popolari, le biblioteche circolanti, …, in forme alternative tanto alla cultura borghese
quanto a quella cattolica, con cui ingaggiò su varie questioni, battaglie e polemiche molto vivaci.
Nuove ed inedite questioni destinate a segnare la successiva tappa della storia educativa marxista emersero in occasione del
sorgere del primo stato socialista nel mondo, l’Unione Sovietica, dopo la rivoluzione bolscevica del 1917. La critica di Marx
all’educazione borghese fu piegata nel senso dell’identificazione prassi rivoluzionaria/ formazione dell’uomo nuovo con il
suo totale assorbimento nel collettivo sociale.
La traccia suggerita da Lenin ispirò la Dichiarazione dei principi della scuola socialista del 1918, basata su alcuni
fondamentali principi: affermazione del socialismo, la diffusione gratuita della scuola uniforme, obbligatoria e laica, la lotta
contro la scuola borghese in nome della politecnicizzazione, ossia dell’unificazione del mentale e del manuale.
In coerenza con questi presupposti, tutti gli sforzi furono orientati verso le tre principali direzioni: sostenere lo sviluppo
della società socialista, promuovere la realizzazione della scuola politecnica e sconfiggere l’analfabetismo che interessava la
stragrande maggioranza della popolazione. La formazione del comunista doveva avvenire fin dai primi anni sulla base dei
principi del marxismo-leninismo e compiersi in un ambiente collettivizzato.
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Non mancarono tentativi di tenere conto delle esperienze di scuola attiva realizzati in Europa e negli Stati Uniti.
L’illusione di poter trovare un punto di incontro tra le esperienze pedagogiche occidentali d’avanguardia e la nuova società
sovietica è spiegabile con la convinzione che la dittatura del proletariato e le dure disposizioni per la distruzione del vecchio
organismo non erano che una fase passeggera per la formazione definitiva della società senza classi, dove sarebbe comparsa
la necessità dell’apparato statale e di qualsiasi altra forma di costrizione o di forza. Non era perciò fuori luogo ritenere che il
principio dell’educazione puerocentrica avrebbe potuto assicurare ottimi risultati.
L’educazione comunista fu pianificata in funzione degli obiettivi politici ed economici del partito e dello Stato sovietico,
assumendo le caratteristiche di un’azione determinata, riflessa e sistematica esercitata sulla psicologia dell’educando, per
inculcargli le qualità che persegue l’educatore e cioè una data concezione del mondo, una certa morale e determinate regole
di vita sociale.
Nel 1936 furono condannati i metodi ispirati all’attivismo e dell’educazione intesa come sviluppo spontaneo e nel 1940 un
rapporto al Presidium individuò le seguenti caratteristiche dell’uomo nuovo: massimo rendimento nel lavoro, senso
patriottico, piena adesione all’ideologia marxsita-leninista, spirito collettivistico, interesse per la protezione dei beni pubblici
con il netto prevalere di un’impostazione che in nome del primato della politica si faceva azione autoritaria.
16. La pedagogia del collettivo di Makarenko
Makarenko era di origini ucraine e fu maestro e rivoluzionario della prima ora. Direttore per circa vent’anni di istituti per
ragazzi sbandati e orfani, fu chiamato nel 1937 a Mosca dove svolse intensa attività di scrittore e divulgatore pedagogico
portando ad un notevole grado di riflessione le sue esperienze educative.
Le sue opere più note e importanti sono strettamente associate alle sue iniziative: poema pedagogico e Bandiera sulle torri.
Makarenko riflette il proposito di creare l’uomo nuovo in termini coerenti e funzionali con lo scenario del socialismo
rivoluzionario. Visto in questa prospettiva egli rappresenta un esemplare caso di traduzione di un fine politico in un progetto
educativo. L’uomo nuovo è un uomo comunista sempre pronto a cancellare sé stesso in favore alla classe operaia e del
partito. Nella sua esistenza l’uomo rappresenta una macchina. Quando funziona regolarmente produce anche avvenimenti
psichici regolari. La prospettiva dell’uomo nuovo accomunò i totalitarismi che tra le due guerre dominarono l’Europa, dal
fascismo al nazismo, in quest’ultimo caso addirittura nelle aberranti forme della purezza della razza.
La componente messianica che è alla base del mito dell’”uomo nuovo” si saldò alla pretesa della politica di occupare ogni
spazio sociale nel tentativo totalizzante di costruire una nuova società.
Makarenko intuì che la forza della nuova società aveva bisogno di una riserva di valori morali da spendere in funzione del
bene collettivo. Per compiere l’opera della trasformazione-elevazione secondo la prospettiva socialista l’uomo doveva far
suo un senso, dare un significato personale alle proprie scelte e imparare a condividerle con gli altri.
Lo scopo finale anche per Makarenko è quello di realizzare la società collettivista. Gli interessi del collettivo stanno al di
sopra di quelli dell’individuo… debbono essere difesi fino in fondo, inesorabilmente, perché soltanto così è possibile una
vera educazione, sia del collettivo che del singolo.
La parte pedagogicamente più significativa riguarda l’organizzazione del collettivo educativo a cui Makarenko dedicò molte
pagine delle sue opere, dalle quali emerge la figura dell’educatore che sa cogliere, nell’animo di ciascuno dei suoi allievi,
disposizioni, capacità, punti di forza e di debolezza.
Il collettivo sociale è articolato in tanti “collettivi di base” che permettano la manifestazione delle tendenze e delle
caratteristiche di ciascuno dei suoi membri, favoriscono la disciplina gestita in modo sociale e consentono la diretta
sperimentazione di sentimenti come l’onore, il dovere, la produttività, il senso della dignità.
Nel collettivo nessuno viene sacrificato e tutti vengono valorizzati al meglio delle loro capacità perché il collettivo è
l’insieme dei valori espressi da ciascuno: il lavoro produttivo e lo sforzo dell’apprendimento poggiano sulla consapevolezza
di far parte di un’esperienza più ampia e complessa riconducibile nell’ambito del cosiddetto “sistema delle linee
prospettiche” o “pedagogia delle prospettive”.
Le prospettive per essere veramente tali dovevano assumere un significato politico e morale di formazione del carattere.
Makarenko escludeva la possibilità di una teoria morale indipendente dai rapporti economici; egli riteneva che la coesione
della società collettivista non potesse essere considerata alla stregua di un evento automatico e che dipendesse dai rapporti
che i collettivi stabilivano con sentimenti come l’onore, il dovere, la disciplina, il coraggio, intesi quasi come valori
superiori capaci di oltrepassare le classi ed i popoli. Le riflessioni su queste tematiche hanno fatto di Makarenko un autore
letto e apprezzato anche da studiosi di altra estrazione politica e culturale interessati alla vena umanistica.
CAPITOLO 4: LA PEDAGOGIA CATTOLICA FRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE
1. Tra Otto e primo Novecento: Giuseppe Allievo
Quando nel 1912 Giuseppe Allievo lasciò la cattedra di pedagogia presso l’università di Torino, la pedagogia cattolica toccò
il punto più basso della sua storia accademica.
La situazione era profondamente mutata da quando il giovane Allievo aveva avuto modo di incontrare Rosmini poco prima
della morte di questi. La cultura pedagogica era allora rappresentata in prevalenza da studiosi di formazione per lo più
cattolico-liberale, molti dei quali erano addirittura sacerdoti.
Un certo indebolimento cominciò ad avvertirsi all’indomani dell’Unità. A mano a mano che i principali protagonisti della
stagione risorgimentale scomparivano dalla scena si allentava anche il loro insegnamento sostituito dalle prime
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manifestazioni del positivismo pedagogico. L’idea di scienza in grado di offrire ogni tipo di spiegazione combinata con la
circolazione di una cultura self-helpistica sembrava dare ogni potere all’uomo e fare a meno della fede in un Dio
trascendente sostituita da una religione laica innervata di patriottismo e fedeltà del re.
Non bisogna dimenticare nemmeno la questione romana. La dignità dello stato contrapposta all’intransigenza della Chiesa
fu spesso fatta coincidere con una laicità tutta immanente. L’insegnamento della religione nella scuola elementare nella
scuola divenne in pratica facoltativo. I cattolici si ritirarono sdegnosamente dalla vita politica.
Tutti segnali inequivoci di come si stesse compiendo una grave lacerazione tra il mondo cattolico e il mondo liberale che
pure così intensamente avevano operato nei decenni precedenti.
La biografia di Giuseppe Allievo attraversa tutte le stagioni di cui abbiamo fatto cenno. In Allievo si possono ritrovare molti
degli argomenti che rendevano diffidente il mondo cattolico verso la modernità. Lo studioso torinese ne denunciò due
capitali in campo intellettuale: il positivismo e l’idealismo hegeliano; entrambi hanno la sembianza di due dottrine
diametralmente opposte e riluttanti, ma in realtà erano tra loro congiunti da un punto di contatto: assoluta immanenza, realtà
come processo di sviluppo, celebrazione della sola razionalità intellettuale. Negli hegeliani lamentò un soggettivismo
incapace di coniugare reale e ideale con la riduzione della realtà ad idea e dell’uomo al solo pensiero, dei positivisti di
restare inchiodati alla nuda cerchia dei fenomeni disconoscendo di proposito deliberato l’intima sostanzialità dell’uomo, in
cui i fenomeni contengono la loro norma direttiva e la ragione suprema.
Negli uni e negli altri il limite era dato dalla loro concezione antropologica: i positivisti erano rinchiusi nella povertà di un
uomo concepito come un fascio di semplici fenomeni psico-fisici; gli hegeliani lo annullavano nella infinità dello spirito
universale.
Allievo fu critico anche contro Rousseau, dove rivendicò il valore del principio dell’educazione positiva: solo questa poteva
portare alla conquista di una sempre più piena consapevolezza ed una migliore disposizione virtuosa nell’uso della propria
libertà. A Herbart rimproverava una prassi educativa troppo meccanica e formalistica, incapace di parlare all’interiorità dello
spirito dove ha la sua sorgente.
Secondo Allievo occorreva tornare a guardare l’uomo come a una sostanza in grado di affermarsi come distinta dalla realtà
universale e capace di possedersi mediante il pensiero e la volontà. L’uomo è la sintesi vivente di un’anima razionale e di un
corpo organico, insieme composti ad unità di essere, o meglio, è anche una mente informante un organismo corporeo,
prendendo il vocabolo mente come sinonimo di spirito, ossia di anima razionale.
In questa prospettiva si ha: un carattere antropocentrico dell’educazione, il principio del perfezionamento umano come fine
dell’agire educativo, il rifiuto dell’intellettualismo e dell’educazione ridotta a puro e semplice meccanismo di sensazioni, la
difesa dell’unitaria totalità dell’uomo.
Da queste premesse Allievo faceva discendere opzioni pedagogiche molto precise e spesso in controtendenza rispetto alle
prassi del tempo: il primario diritto educativo della famiglia, l’autonomia della società rispetto allo stato in materia
educativa con una critica contro lo Stato educatore, la rilevanza della formazione del sentimento religioso su cui era
innestata l’educazione morale ma anche il rispetto e la lealtà dovute alla Nazione, intesa come entità spirituale e storia di un
popolo.
2.L’impegno educativo delle nuove congregazioni religiose
Tra il 1800 e il 1860 furono costituite oltre 140 congregazioni religiose in Italia, con prevalenti scopi educativi, attive in
prevalenza nel centro e nel nord, che andarono ad incrementare la presenza di quegli ordini religiosi di più antica data
tradizionalmente impegnati in campo educativo.
Altre analoghe iniziative si aggiunsero dopo l’Unità assicurando nelle varie regioni l’apporto di un nuovo personale
religioso che nella condivisione della vita dei ceti popolari testimoniava una vita religiosa senza privilegi.
Mentre la cultura cattolica italiana negli ultimi decenni del secolo era segnata da tesi antimoderne e difensive, l’attivismo dei
cattolici moltiplicò gli sforzi per rispondere a bisogni reali come istruzione, lavoro, protezione della donna, assistenza
all’infanzia, … Esso era l’espressione tangibile di quella società parallela da promuovere per salvare dall’errore la società
italiana nella quale i valori religiosi e la coscienza cristiana si traducevano nella concretezza e nell’unità di opere sociali.
Alle elaborazioni espresse da intellettuali e uomini di scuola in saggi, manuali e trattazioni corrispose una risposta
immediata, empirica, gestita dal buon senso educativo cristiano più che giustificata da moderne teorie.
Molte iniziative educative promosse dagli istituti religiosi si svilupparono sulla base della convinzione che il sentimento
religioso e l’organizzazione ecclesiastica fossero in grado di rispondere ai più vari problemi educativi. Soltanto col
trascorrere del tempo gli istituti religiosi si resero conto della necessità di dotarsi di strumenti pedagogici meno empirici,
specie in relazione al graduale passaggio dalle semplici scuole di carità, incentrate sull’insegnamento del catechismo e
dell’alfabeto a istituzioni più complesse che spesso per funzionare avevano bisogno di un riconoscimento dello Stato.
Risultano così compresenti a lungo una pedagogia “povera” e una pedagogia colta.
3. Tradizione e modernizzazione : il caso dei Salesiani
I Salesiani di Don Bosco furono la più significativa iniziativa intrapresa in favore della gioventù che presenta il vantaggio di
essere stata indagata in modo assai puntuale.
Alla morte del fondatore, i salesiani erano ancora una congregazione giovane e dalle dimensioni circoscritte. Un quarto di
secolo più tardi essi costituivano un’iniziativa imponente distribuita su scala mondiale e godevano di un credito non più
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legato al carisma del fondatore. Le vicende che accompagnano il rapido e imponente sviluppo dei salesiani dimostrano che
alla base della loro azione educativa c’era un’intuizione educativa. Nel 1877 don Bosco aveva consegnato a un breve scritto
la sua riflessione pedagogica: la prevalenza dell’azione educativa amorevole guidata dai principi della carità cristiana in
modo da prevenire più che di colpire il male a posteriori secondo le regole di una disciplina ferrea.
Non a caso i salesiani si sarebbero interrogati a lungo su come tradurre in pratica il principio del “metodo preventivo”. La
graduale definizione del sistema preventivo fu disgiunta entrando nel vivo delle questioni pratiche: la protezione
dell’infanzia e dell’adolescenza, avviamento ad un mestiere, la scolarizzazione di fasce giovanili, l’attenzione verso la prima
infanzia e l’educazione femminile.
Il caso dei salesiani riflette la storia comune alla maggior parte delle iniziative educative cattoliche dell’Ottocento: su una
base di religiosità semplice e tradizionale esse seppero rispondere efficacemente alle esigenze di una società diversa dal
passato e connotata da quella modernità che sembrava foriera di esiti negativi.
nell’attivismo salesiano non c’è traccia di pregiudizi e dell’immobilismo che condizionavano spesso gli ambienti del
conservatorismo cattolico. Non mancano riserve esplicite verso la società moderna.
Nessuno, fino a quel momento, si era occupato dei giovani poveri e abbandonati. Il passaggio dall’infanzia dell’età adulta
era stato fino ad allora mediato dalla famiglia e per lo più scandito dai ritmi naturali della vita rurale, ma questa situazione
stava rapidamente mutando.
La crescita demografica ottocentesca aiutata dalla fine delle guerre napoleoniche e dalla riduzione della mortalità infantile
spinsero molti giovani a cercare lavoro al di fuori della cerchia famigliare che spesso non era in grado di provvedervi. La
mobilità giovanile si accompagnò spesso a violenze, eccessi e disordini morali. Don Bosco intuì con lungimiranza che il
numero dei poveri evangelici era destinato ad aumentare.
Gli interventi educativi previsti dai salesiani erano caratterizzati da complessità e varietà. Centrale appare l’insegnamento
del catechismo, ma l’istruzione religiosa è integrata e sorretta da una vasta gamma di iniziative ricreative, culturali,
assistenziali, sociali e così via.
Il proposito è quello di far maturate la personalità del giovane sul piano della sua umanità: la formazione del buon cristiano
s’incrocia con quella del buon cittadino. Nella prassi educativa salesiana si verifica così un interessante ed originale
intreccio di tradizione e rinnovamento dei metodi. Da una parte le severe regole della sorveglianza e la proposta di un
modello forte pur temperate dal principio dell’amorevolezza educativa, dall’altra entrano nell’orizzonte formativo attività
spesso ritenute estranee ai fini educativi compresa la notevole intuizione che l’educazione è possibile non soltanto in
situazioni istituzionali o formalizzate ma anche durante il tempo libero e la ricreazione.
L’esperienza di Don Bosco e dei salesiani fu espressione di sensibilità e di una mentalità comune a numerose esperienze
analoghe.
L’impasto di tradizione e modernizzazione non riguarda soltanto le prassi educative e la più o meno ampia familiarità con le
tematiche teorico-pedagogiche: esso si applica al modello educativo e sociale fortemente ispirato e sostenuto da un’idea
religiosa, ma non di meno interattivo con i processi di cambiamento in corso nella società pervasa da fenomeni quali
l’industrializzazione, l’urbanesimo, l’accresciuta circolazione della stampa, lo sviluppo del movimento operaio.
5. Religione e libertà in Laberthonniere
L. fu un membro del congresso dell’Oratorio, fu parte significativa di quel vasto movimento che si raccolse principalmente
intorno al magistero filosofico di Blondel.
Secondo Blondel l’anima moderna non poteva accettare una presentazione oggettiva del lato cristiano, ma poteva
sperimentarlo e farlo suo solo nella misura in cui esso s’incontrava nell’interiorità della coscienza umana in forma di
risposta ai supremi interrogativi. Blondel avrebbe fornito indicazioni sulle implicanze pedagogiche della propria concezione:
la verità si manifesta da sé e non si impone coercitivamente, ma perché ciò sia possibile sono necessarie assoluta sincerità,
grande purezza di intenzioni e sforzo autentico e generoso.
L. fu esponente di rilievo di queste tendenze, affermando il primato della libertà sulla necessità, della persona sulle cose,
dell’azione sulle cose, dell’azione che perde o salva sul pensiero astratto e indifferente e consegnò le sue riflessioni a un
saggio uscito nel 1901 con il titolo Theorie de l’education.
In esso L. sviluppa in particolare il tema del rapporto tra l’autorità del maestro e la libertà del discepolo, concepito come
passaggio strategico dell’educazione.
Il sacerdote francese prendeva le mosse dell’esaltazione della libertà dell’individuo proclamata sul piano dei principi della
pedagogia laico- positivista del suo tempo e ne denunciava le contraddizioni sul terreno delle pratiche educative: l’ampio
ricorso alle conoscenze sperimentali consentiva di manipolare le coscienze.
Del resto secondo L. era improponibile la tesi di chi riteneva di doverlo lasciare a sé stesso, perché quando comincia
l’educazione il discepolo non ha ancora una coscienza che gli permetta di dirigere consapevolmente il suo agire. Si tratta di
due tesi egualmente erronee: una incentrata sull’idea che gli educandi siano esseri già costituiti compiutamente e che occorra
soltanto salvaguardare la libertà da qualsiasi intervento dell’autorità; l’altra propria di chi ritiene che i soggetti in formazione
siano bisognosi di ogni cura e giudica perciò decisivi gli interventi dei maestri.
Le due prospettive erano accomunate dalla concezione di un’autorità intesa come potere che viene imposto mediante la
costrizione o mediante abilità che viene ad essere inevitabilmente esterno ed estraneo a colui sul quale si esercita. Di
conseguenza l’autorità poteva cambiare natura a seconda dell’intenzione che l’animava e farsi autorità che asservisce (se
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volta a subordinare gli altri), oppure farsi autorità liberatrice (se posta al servizio degli altri).
Specularmente corrispondenti ai due modelli di autorità stavano due modelli di obbedienza: quella servile (obbedire
significa subire) e quella libera (obbedire significa accettare). La libertà dell’uomo era un ideale da raggiungere e
l’educazione andava vista come un aiuto nella conquista di sé per diventare ciò che deve essere.
L. affronta anche il tema dell’insegnamento religioso che gli sembrava questione di pura e semplice autorità, in quanto bene
da trasmettere, di generazione in generazione, nella sua integrità. Ma anche in questo caso L. prende le distanze dalle prassi
mnemoniche e formalistiche e prospetta una fede condivisa nel profondo dell’anima.
Il compito dei maestri non era quello di “far credere” ma di “far sì che i fanciulli credano”. Soltanto a questa condizione la
verità cristiana s’immedesima nella loro vita e diventa un tutt’uno con loro.
Il Cristianesimo al quale guardava L. era animato soprattutto da spirito di servizio e dalla forza della persuasione, nella
convinzione che il compito dei cristiani fosse quello di proporre e di non imporre la verità.
Tesi che il mondo cattolico del tempo non fece propria subito, tanto che la traduzione del saggio di L. fu pubblicata in Italia
da Codignola agli inizi degli anni ’20.
11. Alcune esperienze: Sorelle Agazzi, Boschetti-Alberti- Agosti
Il gruppo bresciano si impegnò a valorizzare e promuovere alcune significative esperienze nelle quali l’innovazione
pedagogica e la visione religiosa dell’esistenza risultavano funzionalmente e quasi radicalmente intrecciate.
Fu questo il caso della scuola materna delle sorelle Rosa e Carolina Agazzi e delle iniziative compiute nelle scuole di
Muzzano e di Agno da Maria Boschetti- Alberti.
Le sorelle Agazzi avevano messo a punto a Mompiano una scuola infantile ricca di motivi innovativi fin dagli inizi del
secolo. Le due educatrici avevano puntato a riprodurre nella scuola il clima dell’ambiente domestico ricco di affetti e
segnato dall’interattiva collaborazione tra piccoli e grandi. Da qui l’idea di “scuola materna” nella quale il bimbo doveva
trovare il calore familiare e la spontaneità e fiducia necessarie al naturale proseguimento della sua crescita.
Anche le sorelle Agazzi riconoscevano nell’ambiente un fattore educativo decisivo. Diverso era anche il modo di guardare
all’infanzia: per le educatrici bresciane il bimbo era un germe vitale che aspira al suo intero sviluppo e il compito
dell’educatore doveva essere quello di destare la vita in un sistema che si prefigga di non perdere di vista tutto il bambino,
secondo uno stile educativo fatto di disponibilità umana, di rispetto della spontaneità e della creatività infantile, di conquista
dell’ordine inteso come progressivo e interiore ordinamento degli atti e delle espressioni infantili.
Le sorelle Agazzi sottolineavano l’importanza della dimensione religiosa, giudicata componente imprescindibile per la piena
formazione umana.
L’educazione doveva essere espressione della vita naturale e quotidiana del bambino.
L’esperienza di Rosa e Carolina Agazzi restò a lungo circoscritta a Brescia e solo nel 1910 cominciò ad essere più
ampiamente nota. L’iniziativa agazziana si sviluppò in varie parti d’Italia dopo la prima guerra mondiale, agevolata anche
dalla sobrietà dell’attrezzatura didattica e dalla relativa semplicità dell’impianto metodologico.
Ispirate a sensibilità e motivi pedagogici analoghi a questi sviluppati in questo caso nella scuola elementare e popolare
furono anche le esperienze di Maria Boschetti-Alberti, maestra del Canton Ticino che diede vita ad una sua originale
impostazione educativa. Fu proprio sotto la suggestione di Boschetti- Alberti che Lombardo-Radice coniò l’espressione
“scuola serena”, con la quale indicò il movimento di rinnovamento educativo nell’Italia tra le due guerre. Della Boschetti-
Alberti apparivano esemplari l’innovazione didattica all’interno di una situazione normale; l’organizzazione scolastica
ispirata alla sobrietà e addirittura povera in quanto a materiali e attrezzature; il ruolo assegnato all’insegnante era
caratterizzato dal fatto che doveva stare accanto al fanciullo per aiutarlo a scoprirsi e a crescere.
Anche l’esperienza di Marco Agosti del “sistema dei reggenti”, compiuta nelle scuole elementari di Brescia negli anni ’30 e
affidata alle pagine del “Supplemento pedagogico” e poi al volume Verso la scuola integrale, si svolse in condizioni
scolastiche normali, senza particolari attrezzature o materiali. Il “sistema dei reggenti” prospettava la scuola come piccola
polis, in stretta relazione con le altre comunità sociali e poggiava su una forma di organizzazione disciplinare e didattica
della classe che prevedeva la graduale assunzione dell’iniziativa educativa agli alunni che erano chiamati a reggere la scuola
(il reggente era il protagonista della giornata scolastica da lui regolata secondo i ritmi e le attività predisposte dal maestro).
Mentre il clima di libertà e di autogoverno metteva tutti gli alunni a loro agio in modo da poter pienamente esprimere sé
stessi, il turno di reggenza attivava particolari doti di iniziativa e responsabilità. L’impianto didattico era predisposto in
modo da favorire i ritmi di sviluppo individuali, con una particolare attenzione all’insegnamento linguistico impostato
secondo il metodo naturale.
Le tre esperienze erano unificate da alcuni tratti comuni: la semplicità dell’impianto organizzativo, la funzione attiva
riconosciuta all’insegnante, un metodo didattico più empirico che sperimentale, la caratterizzazione popolare, tutti elementi
che dovevano dimostrare che era possibile portare nelle classi comuni i risultati compiuti nelle scuole d’avanguardia.
Per gli studiosi ginevrini si trattava di iniziative “pochissimo probanti” e dietro questo severo giudizio stava la convinzione
che la vera scuola attiva doveva disporre di un impianto scientifico e sperimentale. Le osservazioni degli studiosi ginevrini
sollevano una questione cioè quali debbano essere le caratteristiche ed i contesti che garantiscono la qualità e l’efficacia
dell’innovazione pedagogica e didattica e se quella sia possibile solo in condizioni di controllo sperimentale oppure se possa
compiersi anche secondo altre prassi pedagogiche.
Le opinioni all’interno dello stesso fronte attivistico non erano univoche.
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CAPITOLO 6: PEDAGOGIE E SCIENZE DELL’EDUCAZIONE NELLA CULTURA CONTEMPORANEA


1. Verso il nuovo secolo
Il XIX secolo si chiuse con una vasta riflessione sul significativo e il valore della scienza, passata alla storia come crisi di
Fin de siecle, crisi nel senso che i presupposti fideistici e dogmatici intorno a cui si era sviluppata la cultura positivistica
furono rimessi in discussione, aprendo la strada alla cultura irrazionalista, spiritualista, impressionista del primo Novecento.
Fu questo l’antefatto di quella scoperta della soggettività individuale che costituisce forse il tratto più caratteristico del XX
secolo.
Il secolo appena trascorso si è spento all’insegna di inquietudini e di incertezze non meno drammatiche: d’un lato il destino
stesso dell’uomo sul pianeta e gli interrogativi sulla sua identità, i suoi limiti e le sue potenzialità, in una parola sul senso
dell’umano. Non si può infatti parlare dell’uomo senza tenere conto delle nuove frontiere tracciate dall’ingegneria genetica e
dagli interrogativi etici ad essa connessi.
Si fa un gran parlare di post-modernità e complessità per spiegare quanto sta accadendo nel mondo occidentale e intorno a
questi concetti si svolge il dibattito culturale contemporaneo Alle “certezze” della modernità declinate e di un’epoca al
trasmonto corrisponde l’emergere di concetti come disordine, liquidità, instabilità, squilibrio messi in circolo per render
conto della varietà del reale e della complessità dei sistemi sociali. Da qui quel senso di provvisorietà che contraddistingue
la condizione umana contemporanea.
La riflessione sulla post-modernità e sulla complessità percorre strade diverse e molteplici. I teorici della complessità, ci
invitano a ripensare il mondo e l’esperienza umana alla luce di nuovi paradigmi meno semplicistici ed ingenui di un tempo,
ma ricchi nel medesimo tempo di nuove potenzialità. Si starebbero aprendo nuove possibilità nell’avventura della
conoscenza. Una crisi è sempre testimonianza della presa di coscienza dei problemi che esistono e dei tentativi fatti per la
loro soluzione. Il diffuso senso di fragilità che sembra connotare il nostro tempo apre la strada alla possibilità, alle utopie,
alla speranza e costituisce un forte richiamo alla dignità e alla responsabilità della persona umana.
3.La conferenza di Woods Hole e la teoria del capitale umano
Negli anni tra le due guerre il movimento attivistico conobbe ampia notorietà negli USA e in Europa.
Già negli anni ’30 avevano cominciato ad essere formulate numerose critiche verso pratiche educative ritenute troppo
centrate sull’attività spontanea del fanciullo.
All’indomani della seconda guerra mondiale, negli Usa, le critiche verso l’attivismo nella versione pragmatica proposta da
Dewey si fecero ancora più forti. Di ritorno da un lungo soggiorno americano, Gino Corallo pubblicava un’ampia
monografia sulla pedagogia statunitense nella quale sosteneva che la sua pedagogia avesse ormai esaurito da tempo la sua
spinta propulsiva.
Bruner motivava il suo interesse verso la ricerca cognitiva con la consapevolezza dell’incomprimibile riduzione della mente
nei confini del comportamentismo. Soltanto una teoria della personalità poteva aprire una nuova via allo studio delle
funzioni dell’Io. Era il segnale che un’epoca si stava chiudendo e se ne apriva un’altra. I fatti sembravano dare ragione a chi
suggeriva di andare oltre Dewey. Nel 1957 gli USA furono battuti dall’Unione Sovietica che riuscì ad inviare un satellite
artificiale nello spazio (Sputnik). L’imprevisto evento fu vissuto come una grande sconfitta della pretesa superiorità
tecnologica e scientifica statunitense. Sotto accusa vennero messe le insufficienze della scuola e il suo eccessivo rispetto dei
ritmi di sviluppo degli allievi. Gli scienziati, i pedagogisti, gli uomini di scuola maggiore efficacia per superare il rischio di
un grave gap tecnologico.
Nel settembre del 1959 una trentina di studiosi si riunirono a Woods Hole per studiare come procedere al rinnovamento
scientifico nelle scuole primarie e secondarie.
La conferenza di Woods Hole divenne presto il simbolo della svolta postdeweyana. Gli sforzi si concentrarono soprattutto
sullo studio dei processi di apprendimento, sull’individuazione e sulla predisposizione di nuovi curricoli in grado di
rispondere alle sfide di una società sempre più tecnologicamente avanzata, sulla riorganizzazione scolastica ottimizzata sul
piano del confronto tra risorse e risultati.
Un altro contributo alla definizione del nuovo ruolo che la scuola e la formazione in genere avrebbero dovuto assumere di
fronte alle nuove esigenze giunse dalla “teoria del capitale umano”, messa a punto nella facoltà di economia dell’Università
di Chicago. L’istruzione era prospettata come un investimento produttivo, un investimento in “capitale umano”. Si trattava
di un capitale sui generi che non poteva essere comperato, venduto o trattato come un bene patrimoniale.
Schultz sosteneva che visto e considerato che rende all’economia un servizio produttivo utile, sembra del tutto lecito
concepirlo come una forma di capitale.
Investire nella scuola significava reclutare risorse non ancora valorizzate e capacità utili allo sviluppo produttivo, economico
e scientifico. Mediante l’investimento scolastico si sarebbe potuto assicurare un grande contributo allo sviluppo economico
e sociale. Si potevano inoltre accelerare il progresso tecnologico e la diffusione di una mentalità idonea a recepirlo,
promuovendo l’innalzamento del livello medio di istruzione della popolazione. La scelta prioritaria dell’istruzione era da
considerare un fondamentale fattore di progresso civile e funzionale ad una capacità produttiva più competitiva.
La tesi dell’”istruzione come investimento” incontrarono un grande successo nei Paesi occidentali negli anni ’60. Nel
dicembre del 1961 una ventina di governi diede vita all’Ocse (Organizzazione di cooperazione e di sviluppo economico)
allo scopo di favorire lo sviluppo mediante il migliore impegno della scienza, dell’istruzione e della manodopera.
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Ocse svolse un ruolo attivo sul piano delle politiche dell’istruzione allo scopo di rendere più efficienti e funzionali i sistemi
scolastici, migliorare le prassi didattiche, diffondere una visione positiva delle tecnologie formative.
4. Bruner oltre Dewey e Piaget
Bruner nacque a New York, professore di psicologia nell’università di Harvard, rivolse la propria attenzione alla continuità
tra l’attività percettiva e quella concettuale.
Per cogliere la traiettoria delle riflessioni bruneriane occorre are riferimento alle critiche rivolte a Dewey e al complesso e
controverso rapporto con la psicologia evolutiva di Piaget. Il superamento della prospettiva socio-adattiva deweyana è netto.

Ma “insistendo su carattere di continuità che la scuola ha con una società e con la famiglia, Dewey sottovalutò la speciale
funzione dell’istruzione come introduttrice a nuove prospettive”. Se la scuola fosse soltanto una zona di transito dell’intimità
dalla famiglia alla vita sociale, il suo compito sarebbe assai semplice, ma non è così: questo modello funzionava nelle
società postmoderne, ma non è più praticabile in quelle moderne.
Il passaggio all’età adulta richiede un’introduzione a nuovi campi di esperienza, la scoperta e l’esplorazione di nuovi misteri
e la conquista di nuove forze. L’educazione è formazione di un potere e di una sensibilità mentale che consentono a
ciascuno di procedere da solo nella ricerca e di costruirsi una personale cultura interiore. Il fine dell’educazione è la
conoscenza del mondo e delle sue leggi, conoscenza che ha una struttura e una storia che ci consentono di ordinare e di
definire l’esperienza e di godere della sorpresa.
Il nuovo modello educativo doveva nascere dalla necessità di attribuire un’importanza capitale alle capacità fondamentali,
cioè le abilità nelle operazioni manuali, in quelle del vedere e dell’immaginare, e nelle operazioni simboliche,
particolarmente nella misura in cui esse riguardano quelle tecnologiche che le hanno rese così potenti nelle loro espressioni
umane.
A questi temi Bruner dedicò il volume Verso una teoria dell’istruzione. Se c’è un modo di rendere equivalente
l’adattamento all’insieme dei cambiamenti, esso deve includere lo sviluppo di un metalinguaggio e di una metacapacità,
ovvero di un apprendimento capace di organizzare l’esperienza e di inserirla in una struttura. Il pensiero costituisce
un’attività volta alla soluzione dei problemi, alla sistemazione di categorie e alla definizione di strategie. Pensare significa
collocarsi in una continuità circolare che lega e connette astrazione e concretezza e che vuol dire classificare, scegliere,
ordinare, imporre un sigillo concettuale agli oggetti di esperienza, dominare una molteplicità di dati secondo un criterio.
Una struttura si costruisce mediante le fasi con cui si sviluppa l’intelligenza:
 La “Rappresentazione attiva” nella quale l’identificazione degli oggetti sembra dipendere dalle azioni evocate da
loro (l’azione costituisce lo strumento intellettivo essenziale).
 La “Rappresentazione iconica” in cui il soggetto è in grado di rappresentarsi il mondo mediante un’immagine o uno
schema spaziale relativamente indipendente dall’azione
 La “Rappresentazione simbolica” si organizza a partire da una forma primitiva e innata di attività simbolica che,
attraverso l’acculturazione, si specializza in sistemi diversi, il più completo dei quali è il linguaggio.
I modi di rappresentazione non sono necessariamente successivi tra loro ma possono essere pronti in diversi momenti
dell’attività e della vita dell’individuo. Lo sviluppo intellettuale dell’allievo risente delle condizioni ambientali e soprattutto
di quelle dell’ambiente scolastico. L’educazione al pensare scientifico può guidare lo sviluppo intellettuale proponendo
all’allievo problemi difficili, ma non oziosi e tali da permettergli di porsi a capo del suo sviluppo.
È verificato che alcune strutture non colte a livello simbolico possono esserlo a livello iconico o manipolativo. Sono decisivi
i programmi ma anche le modalità di insegnamento attraverso cui l’allievo viene posto in grado di sviluppare le proprie
capacità intellettuali e di procedere nella costruzione del proprio sapere.
5.La teoria bruneriana dell’istruzione
La teoria dell’istruzione elaborata da B. poggia sul cosiddetto “teorema della struttura” e rifiuta l’ideale educativo del solo
adattamento sociale quanto la prospettiva centrata sull’attività spontanea del fanciullo.
La scuola delle società socialmente progredite e tecnologicamente avanzate deve puntare su un modello strutturalista, logico
e scientifico caratterizzato dall’astrazione e dal linguaggio simbolico. Bruner sostiene il primato dell’istruzione formale
sull’istruzione cosiddetta materiale, nella quale prevalgono contenuti e saperi tradizionali.
Ogni disciplina è sia un sistema di idee e contenuti sia una maniera di conoscere. Tale organizzazione prevede un nucleo di
idee fondamentali dal punto di vista dell’insegnamento e il fine dell’apprendimento è individuato nella chiara
organizzazione di concetti, principi e informazioni essenziali. Si conosce una disciplina di studio quando se ne padroneggia
la struttura (senso interno e coerente) e si è in grado di applicarla a situazioni nuove (principio della trasferibilità).
Risultano centrali nella proposta di Bruner, tanto il problema dell’impostazione e dell’organizzazione dei programmi quanto
quello dei metodi, del ruolo dell’insegnante e delle motivazioni soggettive. Al riguardo egli formula tre principi di uguale
importanza:
 La teoria del “programma a spirale” che si tratta di pensare a programmi che centrati sulla struttura della disciplina
ne forniscano gli elementi costitutivi in modo semplice per passare a contenuti più complessi.
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 L’impostazione didattica in modo tale che le strutture del sapere vengano trasmesse e recepite mediante il metodo
della scoperta piuttosto che in forma trasmissiva; la conoscenza più efficace è quella di scoperta personale mediante
l’attivazione di uno sforzo induttivo con il quale si procede oltre l’informazione fornita in modo diretto (pratica del
problem solving).
 Adeguata considerazione per gli aspetti ambientali, motivazionali, orientativi ed autorassicuranti. Bruner avverte
come i fattori ambientali e motivazionali siano in grado di accelerare o ritardare gli apprendimenti e pertanto è
decisivo il contesto nel quale essi si svolgono.
Bruner ha lasciato un altro filone di ricerca che attenua il rischio intellettualistico del suo strutturalismo. In un celebre libro
dal titolo il conoscere. Saggi per la mano sinistra, Bruner riconosce che accanto all’intelligenza logica esiste un’altra
dimensione del conoscere affidata all’intuizione, alla creatività e all’arte.
La razionalità logica va integrata con le cosiddette “abilità della mano sinistra” nelle quali prevalgono gli aspetti narrativi,
metaforici, artistici. L’esperienza dell’uomo è plurale, ma unitaria. La conoscenza intuitiva contribuisce a rendere più piena
e completa la conoscenza umana.
Bruner costituisce una delle figure di maggior rilievo nell’ambito delle pedagogie dell’apprendimento che si sono
gradualmente affermate nel mondo occidentale.
10.Le istanze critiche della pedagogia radicale
Tra gli anni ’60 e ’70 si svilupparono in molti paesi occidentali teorie educativa di varia estrazione accomunate dalla forte
opposizione con il sistema culturale e sociale esistente. Al principio della “massima efficienza del sistema” queste correnti
opposero la critica e spesso anche il rifiuto delle istituzioni educative giudicate autoritarie ed oppressive.
Sul modello del movimento antipsichiatrico, prese fisionomia negli anni ’60 una forte corrente che è stata definita
antipedagogia. Come la saluta e la malattia mentale, così la cultura e il sapere non erano che la codificazione conformistica
di una serie di norme e regole che la scuola si incaricava di trasmettere. Salute mentale, padronanza del sapere e codici etici
non erano che le diverse facce del diverso modo di manifestarsi delle regole sociali e del loro scaricarsi in modo oppressivo
sugli individui.
Intorno a questo modello oppositivo, s’incontrò un insieme quanto mai vario di posizioni delle suggestioni sociologiche di
Bourdieu e Passeron secondo cui la scuola non sarebbe altro che un fattore di normalizzazione e di riproduzione sociale, alla
denuncia delle caratteristiche autoritarie delle prassi educative direttive con un vasto campo di opere e ricerche a sfondo
psicoanalitico.
Anche in Germania si manifestò una forte corrente di pedagogia emancipatrice o “Pedagogia della nuova sinistra. Per
quanto riguarda l’Italia, l’antipedagogia trovò espressione soprattutto in un vasto spettro di iniziative ed elaborazioni
accomunate da alcuni valori portanti. Il primo fu la denuncia dell’intrinseca violenza dell’istruzione, fosse essa politica,
religiosa o educativa. Questa tesi ebbe un importante sostegno teorico nelle ricerche e nelle riflessioni di Foucault sulle
“istituzioni totali” viste come strumenti di assoggettamento dei corpi, di dominio delle volontà umane e di manipolazione
delle coscienze ed a cui non sfuggiva neppure la scuola.
F. si propose di dimostrare come l’origine della prigione andava ricercata nel graduale consolidamento nella società
moderna del principio della disciplina costituita da un insieme di procedure, molte delle quali tipicamente scolastiche, volte
ad addestrare gli individui per renderli docili e utili allo stesso tempo.
L’antipedagogia criticò le pratiche usuali di trasmissione del sapere, viste come imposizione di norme e valori
predeterminati, viziati dalla gerarchizzazione dei ruoli e da un incontenibile condizionamento ideologico il cui esito non
poteva essere che la spersonalizzazione dell’allievo. Contro il “sapere borghese” si opposero la legittimazione del desiderio,
dell’immaginazione, il riconoscimento della differenza,…
Un altro asse portante della cultura antipedagogica riguardò la funzione del maestro. Il ruolo del maestro fu in genere negato
in nome della eguaglianza garantita dal collettivo sia in quanto regolatore dei tempi e dello spazio educativo sia come
produttore di sapere e luogo di scambio e di comunicazione. Il gruppo fu concepito come il luogo ideale dove l’individuo
poteva trovare il relais tra interiorità e l’esteriorità, tra la passività e l’attività, tra il piano immaginario dell’io ideale e il
pano simbolico dell’ideale dell’io.
L’evento educativo andava concepito come scoperta creativa personale, come una forte sottolineatura dell’immaginario, del
possibile e del desiderio e soprattutto come relazione non gerarchizzata e de-pedagogizzata tra fanciullo e adulto, ovvero
senza ruoli fissi tra i due soggetti della relazione, ma continuamente interscambiabili e interscambiati.
Queste impostazioni antipedagogiche ebbero il loro retroterra culturale non sono in Foucault e nelle ricerche di Lévi-Strauss,
ma soprattutto nelle teorie psicoanalitiche di Lucan ispirate all’idea della completezza dell’essere umano alla nascita e al
conseguente difficile rapporto di identificazione, complementarietà, dipendenza che da questo si genera.
Lucan riproponeva la centralità dell’inconscio, invitando a decodificare i linguaggi e a riappropriarsi del desiderio in forme
anti-repressive e senza rimozione e aperto alla varietà e alla dispersione del desiderio stesso.
Il modello della relazione educativa simmetrica prospettato dall’antipedagogia è emblematico per cogliere la traiettoria nella
quale si fondono la prospettiva liberante e quella emancipante. Il processo di sviluppo personale è visto come una
progressiva liberazione del soggetto dai condizionamenti che limiterebbero la sua capacità razionale e la sua libera iniziativa
contro ogni coercizione, evidente o nascosta, e da tutte le forme di potere. I presupposti di questa coercizione sono:
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1. La convinzione di poter restaurare la bontà originaria dell’uomo nel senso psicoanalitico dell’uomo liberato dai fantasmi
della colpa e dei tabù e autorealizzato nell’appagamento soggettivo.
2. La liberazione individuale non avrebbe senso se non si svolgesse un processo di emancipazione sociale rispetto alle
norme, alle regole, alle costruzioni fino a creare una società egualitaria, libertaria, autogestita, istanza che appare
particolarmente significativa negli autori della pedagogia istituzionale.
Parlare di “uomo liberato-emancipato” significa riferirsi ad un essere libero da legami di contenuto fideistico, di norme, da
istituzioni e persone, ovvero da tutto ciò che opera per la considerazione della società autoritaria. Solo chi si sia potuto
sviluppare senza imposizioni sin dalla prima fanciullezza potrà pervenire nell’età adulta, all’autodeterminazione: Il fine
educativo della coscienza adulta è realizzabile solo da parte di quegli uomini, cui nell’infanzia e nella gioventù sia stato
garantito un maximum di libertà.
12. Edgar Morin: apprendere nella complessità
A partire dagli anni ’80 molti studiosi si sono orientati a indagare il processo culturale e sociale che va sotto la
denominazione di “complessità”, considerandolo sotto due principali punti di vista. Alcuni sociologi si sono avventurati
nell’esplorazione delle caratteristiche e del funzionamento delle società connotate da molteplici stili di vita e non più guidate
da ideali unificanti, tecnologicamente avanzate, senza gerarchie prestabilite. Tra i diversi aspetti considerati, questi studiosi
si sono anche interrogati se la scuola predisposta per rispondere alle esigenze di società strutturalmente più semplici di
quelle attuali possa ancora essere efficace per il prossimo futuro.
Nel medesimo tempo altri studiosi si sono dedicati all’approfondimento della nozione teorica di complessità. Nel delineare
la struttura a base multifattoriale essi hanno messo in discussione tutte le spiegazioni lineari basate su una presunta certezza
garantita dalla razionalità e hanno espresso la loro propensione per un pensiero capace di misurarsi con una logica che faccia
giustizia degli approcci che semplicisticamente pensano di poter spiegare i problemi alla luce di un’unica serie di cause.
A fronte delle nuove condizioni in cui vive l’uomo postmoderno e cioè all’interno di reti sociali e comunicative assai ampie,
di sistemi produttivi ed economici assai organizzati su scala internazionale, di saperi sempre più sofisticati e specialistici, la
sua sopravvivenza intellettuale sarebbe legata capacità di familiarizzare con il pluralismo metodologico, di oltrepassare i
confini disciplinari tradizionali e di procedere a forme di contaminazione fra competenze scientifiche diverse. I sostenitori
della complessità non negano il ruolo ordinante della ragione, ma sostengono che l’evoluzione, la vita, il cambiamento e
l’apprendimento non procedono per sequenze lineari, ma si svolgono in ambienti instabili, perturbati, caotici, influenzati da
un gran numero di soggetti e di cause rispetto a cui alla “ragione della certezza” è preferibile la “ragione della possibilità”.
A proposito di organizzare il sapere in categorie predeterminate i teorici della complessità oppongono l’invito a liberarsi
della trama delle abitudini e a costruire ragionamenti aperti al dubbio, disposti alla critica e capaci di apprendere dall’errore.
Tra gli studiosi che si riconoscono nel paradigma della complessità quello più impegnato ad indagare i risvolti sul versante
educativo e delle politiche dell’istruzione è senza dubbio Morin, secondo cui la sfida più impegnativa che attende le società
complesse è individuata in una “riforma del pensiero”. Questa dovrebbe consistere in un nuovo modo di impiegare
l’intelligenza umana in coerenza con l’esaurirsi del modello culturale lineare in stampo ottocentesco e con l’emergere della
società-mondo in seguito ai processi della globalizzazione che stanno modificando il nostro pianeta. Morin riassume questa
esigenza nell’espressione “formare una testa ben fatta” che si basa:
1. Sulla formazione di una buona attitudine generale, l’educazione deve favorire l’attitudine generale della mente a
risolvere i problemi e correlativamente deve stimolare il pieno impiego dell’intelligenza generale; più è robusta
l’attitudine generale più l’individuo è capace di esercitare il proprio senso critico, elaborare soluzioni alternative,
rinunciare ai pregiudizi e agli stereotipi e agire consapevolmente e in modo propositivo.
2. Sulla “padronanza dei processi di contestualizzazione”, ciò che è possibile potenziando la disposizione a “ricercare
sempre le relazioni e le inter-retroazioni tra ogni fenomeno e il suo contesto”.
3. Sull’apprendimento per l’interconnessione predisposto in funzione dell’acquisizione di abilità mentali strategiche e
non per soddisfare programmi precostituiti, basato sulla pluri e transdisciplinarità in modo da rendere possibile la
contaminazione tra differenti campi di conoscenza e di ricerca.

La conquista del sapere personale dovrebbe percorrere le vie di quello prodotto dalle ricerche più avanzate in campo
scientifico, frutto dipiù competenze disciplinari, in continua evoluzione, sottoposto a ripetute verifiche.
La “testa ben fatta” rifugge dal sapere frammentato e sa coniugare una molteplicità di apporti rinunciando a ogni pretesa di
totalità preconfezionata.
Per Morin "la testa ben fatta” è concepita come un perno centrale per vivere in modo attivo la fase del trapasso nella storia
dell’umanità, nella quale siamo immersi, verso la società-mondo. Per Morin i vorticosi processi di trasformazione in corso
sono da considerarsi come la travagliata nascita di un quanto tipo di società umana: la paleo-società degli ominidi, l’archeo-
società dei cacciatori e raccoglitori e la società storica sorta nei primi abbozzi circa 10mila anni fa.
Anche la società-mondo si va delineando attraverso grandi distruzioni, grandi azzardi e grandi sbalzi creativi. E’ in questa
chiave che va compresa la condizione di incertezza che accompagna le trasformazioni attuali: il fenomeno della
comunicazione globale, l’urgenza della salvaguardia dell’ambiente, le migrazioni che stanno ridisegnando la mappa del
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pianeta, l’interdipendenza delle varie economie.


La “testa ben fatta” è la condizione esistenziale necessaria per costruire un umanesimo tutto mondano che si fa portavoce
dell’urgenza di una generale solidarietà fra gli umani e tra gli umani, natura e cosmo.
Gli uomini dovrebbero imparare a vivere, a condividere, a comunicare, a essere in comunione in quanto umani del Pianeta
Terra, capaci di concepire gli insiemi e favorire il senso della responsabilità e della cittadinanza.
L’obiettivo è quello di civilizzare e solidarizzare la terra, trasformare la specie umana in una vera umanità, promuovere
un’etica della comprensione planetaria. Una rivoluzione cognitiva, emotiva e sociale che sta già trasformando il nostro
divenire soggetti.
Una prospettiva che incoraggia tuttavia gli uomini a continuare l’avventura della conoscenza.
18. Le pedagogie della parola
Vi fu una rinnovata attenzione attribuita al linguaggio e alla parola, al significato, in particolare alla parola umana, al
rapporto tra parola e discorso, all’interazione tra possesso della parola e società democratica e all’idea stessa che l’umano si
manifesti soprattutto attraverso la parola. La qualità di una società si misurerebbe con l’intensità degli sforzi per assicurare a
tutti la piena padronanza della parola e cioè la piena capacità di capire e farsi capire.
I pedagogisti della parola furono Freire e Milani.
Animatore di attività di alfabetizzazione nel nord-est del Brasile fu Freire che sviluppò il tema dell’educazione come
coscientizzazione nel più ampio contesto della pedagogia degli oppressi.
Il sapere è conquista personale in coerenza con l’assunto che la vocazione dell’uomo è di essere “soggetto” non “oggetto”.
L’educazione è conseguentemente tale solo a condizione di viverla come acquisizione di conoscenze liberanti ovvero se si
traduce in un processo di coscientizzazione. La “coscientizzazione” è la parola intesa come segno di conquista della piena
autonomia della coscienza stessa e consapevolezza della contrapposizione fra società aperte e società oppressive o chiuse
L’alfabetizzazione e la coscientizzazione sono inseparabili: tutto l’apprendimento va legato alla presa di coscienza di una
situazione reale e vissuta.
Questa fondamentale esigenza comporta la necessità, da parte dell’educatore, di un’accurata ricerca per determinare
l’universo tematico più idoneo per gli alfabetizzandi “per restituirlo come problema e non come dissertazione”, in modo che
il programma formativo sia il riflesso delle sue aspirazioni e delle sue speranze. La didattica dell’alfabetizzazione di Freire è
l’itinerario attraverso cui l’alfabetizzazione si congiunge con la presa di coscienza, anche politica, della propria condizione
di oppressi. Questo è possibile soprattutto con il ricorso alle parole “generatrici” e cioè mediante la comprensione di
vocaboli densi di significato sia dal punto di vista grammaticale sia da quello etico-politico. Con successive fasi
l’alfabetizzando è portato a leggere la parola, a scomporla, a ricomporla, ma soprattutto a decodificarne il significato
generale e le risonanze personali attraverso la discussione in comune.
Riassumendo le varie fasi del processo di alfabetizzazione-coscientizzazione, si ottiene questa sequenza:
- Verifica delle conoscenze linguistiche già acquisite
- Individuazione di parole generatrici
- Analisi della parola e individuazione di altre parole collegate
- Alfabetizzazione strumentale e coscientizzazione
L’esperienza dell’educatore brasiliano va collocata in quella cultura della liberazione che segnò gli sforzi dei Paesi in via
disviluppo di guadagnare una propria identità, differenziandosi tanto dai modelli del capitalismo occidentale quanto da
rigide letture marxiste. Nel caso di Freire il proposito di riscatto sociale e culturale si sforza di porre al centro del riscatto
sociale e culturale, la persona umana vista nella sua dignità irripetibile e nella sua capacità di essere consapevole.
Questi motivi si ritrovano anche nella sua riflessione e nelle esperienze di Lorenzo Milani, sacerdote fiorentino, esponente di
spicco di quella cultura ecclesiastica rinnovatrice che anticipò il Concilio, promotore di alcune celebri e fortunate “scuole
popolari”, prima a S. Donato di Calenzano, nella periferia di Firenze, poi a Barbiana, una parrocchia nel Mugello.
Don Milani misurò la distanza tra la sua ansia evangelizzat5rice e la vita dei suoi parrocchiani a cui mancavano gli interessi
degli di un uomo.
Milani si convinse che questa situazione era dovuta alla mancanza di istruzione generale che impediva di vivere la proposta
del Vangelo, ma riduceva l’umanità dei ceti popolari. Di conseguenza soltanto il potenziamento delle capacità culturali
poteva consentire di ricostituire l’unità tra vita e fede e di sconfiggere lo strisciante indifferentismo paganeggiante o fermo
alla ritualità esteriore.
Già dal periodo di San Donato il sacerdote fiorentino diede vita da una scuola popolare aperta a tutti, credenti e non,
rompendo con le consuetudini del tempo che individuarono perlopiù nell’Azione Cattolica e nelle attività ricreative
dell’oratorio gli strumenti pastorali più efficaci. Nel 1954, don Milani fu trasferito a Barbiana, diede immediatamente vita ad
un’altra esperienza di “scuola popolare” destinata a diventare molto nota, specie in seguito alla pubblicazione del volume
Lettera ad una professoressa (1967).
Secondo Milani solo attraversi il possesso della parola era possibile impadronirsi dello strumento per penetrare il reale nel
suo significato più recondito.
La passione con cui invitava i suoi allievi allo studio della lingua lasciò trasparire la sua stessa concezione di vita. Una
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concezione per la quale la persona avrebbe attuato sé stessa quando, rotta la cappa della propria ignoranza e accantonata la
tentazione di chiudersi nelle proprie visioni parziali, avesse cercato con tenacia la verità delle cose e degli uomini. La parola
doveva assicurare il diritto di cittadinanza culturale anche ai ceti popolari nei quali c’era un sapere più ricco di quello degli
uomini che vivevano nel privilegio, e liberare l’uomo dalle insidie di una scuola che trasmetteva un sapere privo di forza
valoriale. Non vi poteva essere liberazione delle coscienze de non attraverso il passaggio della subalternità sull’autonomia.
Lettera ad una professoressa era un libretto scritto in forma epistolare ad un’insegnate di istituto magistrale che aveva
boccato alcuni allievi della scuola di Don Milani.
Tre erano le principali proposte formulate dai ragazzi di Barbiana: 1. Non bocciare. 2. A quelli che sembrano cretini darli la
scuola a tempo pieno. 3. Agli svogliati basta dargli uno scopo.
La scuola non poteva essere soltanto per i figli dei ricchi ma anche per i ragazzi del pese che erano presto esclusi dal sistema
scolastico quasi fossero nati diversi.
Pur criticando il sistema scolastico in vigore, Milani, era lontano da ogni forma di spontaneismo, sosteneva il valore pieno
della scuola, rivendicava la presenza attiva del maestro e giudicava il rapporto educativo l’unica forma attraverso cui poteva
maturare la conoscenza personale. Gli si poteva rimproverare un eccessivo ottimismo nella capacità della scuola di
rinnovarsi, una proposta culturale talvolta un po' semplificata nello sforzo di metterla a disposizione dei ceti popolari,
un’identificazione quasi totale con le ragioni dei poveri che rischiava di non tenere conto della complessità delle dinamiche
sociali.
L’insegnamento di Don Milani fu raccolto soprattutto da gruppi cristiani che condivisero in forme radicali la stagione
postconciliare e si proposero di storicizzare l’analisi della condizione umana e l’impegno dei cristiani. Queste esperienze si
orientarono verso scelte a tutela e in difesa degli esclusi.
21. Gli scenari del futuro: multimedialità, giustizia e speranza
La ricostruzione dello storico si arresta solitamente alla vigilia della quotidianità. Il primo scenario del futuro con cui
l’educazione avrebbe potuto misurarsi riguardava la realtà di quello che Giuliano Gallino ha definito “telecosmo”, cioè una
rete costituita da tutte e reti di telecomunicazione mediale esistenti sul pianeta di cui nessuno può ormai fare a meno.
L’onnipotenza del telecosmo non può né essere ignorata né combattuta acriticamente, né sottovalutata.
Di fronte all’ineluttabilità del passaggio alla società telematica occorre elaborare e organizzare strategie educative e
formative adeguate per mettere i giovani nelle migliori condizioni per affrontare la nuova realtà, per muoversi con facilità in
essa, sfruttarne le potenzialità, ma anche comprenderne e limitarne gli eventuali rischi.
Il secondo scenario era inquadrato nel contesto della società giusta. Sono evidenti i grandi squilibri del nostro tempo (società
ricche e paesi poveri, gruppi sociali ad alto tenore di vita e ceti marginali, processi migratori verso paesi ricchi alla ricerca di
maggiori possibilità di sopravvivenza e lavoro, …) che connotano la convivenza specie nei paesi occidentali e i fenomeni di
intolleranza e xenofobia verso gli immigrati nel disperato tentativo di protezione contro quello che viene spesso percepito
come un inquietante attacco alle nostre sicurezze economiche.
Tematiche come l’identità, la differenza, l’appartenenza, la cittadinanza entrano a pieno titolo nelle questioni educative e
nella riflessione pedagogica. Si tratta di problemi destinati ad avere sempre più peso nelle società occidentali impiegate a
comporre diritti e doveri, ospitalità e legalità, ricchezza e povertà in un contesto dove le risorse non sono infinite e dunque
facilmente esposte ad alto tasso di conflittualità.
L’educazione è chiamata a svolgere la sua parte per favorire mentalità e modelli di vita cooperativi in grado di maturare la
capacità di comporre storie e culture diverse, stili di vita e abitudini non sempre facilmente componibili.
A 15 anni di distanza occorre considerare il rischio che nella nostra vita scompaia la speranza. Le società europee e quella
italiana in modo particolare sono segnate da una diffusa sfiducia verso il futuro, dalla dismissione di qualsiasi progetto che
non sia a breve termine, in buona sostanza sono percorse da una specie di rassegnazione crepuscolare.
Dalla grave crisi economica se ne uscirà con un assetto nuovo sia sul piano delle regole che dei protagonisti e dopo un
prolungato periodo di forte recessione e bassa domanda.
Le giovani generazioni sono chiamate a sperimentare per un periodo non breve condizioni di vita e a godere di beni inferiori
o comunque non superiori a quelli di cui hanno fruito fin qui.
Si aprono i grandi interrogativi negli scenari educativi sulla capacità dei giovani di reagire in modo adeguato e congruente.
Ci si può chiedere se il modello educativo oggi prevalentemente incentrato sull’interruzione del rapporto vitale tra le
generazioni all’insegna di un individualismo molto marcato e sull’appannamento della nozione di dovere, costituisca la
soluzione più adatta per sostenere la fatica di un’esistenza più sobria e forse più faticosa dal punto di vista materiale, ma
anche stimolatrice di nuove esperienze personali e comunitarie.
Ripensare all’educazione alla luce di questi interrogativi potrebbe costruire un terzo scenario entro cui disegnare il futuro
prossimo della pedagogia.
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