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CAPITOLO PRIMO
L’ORIGINE DEL CAMPO DI RICERCA
1. Che cos’è l’interazione in classe? Delimitazione del campo
Quando si parla di interazione in classe si fa in genere riferimento all’esistenza di un sistema speciale,
peculiare, la classe scolastica, con le relazioni che lo costituiscono (la comunicazione tra insegnante e
studenti, tra studenti e studenti). Il campo degli studi sull’interazione in classe nasce dal riconoscimento che
esiste un dominio di fenomeni in qualche modo autonomo e indipendente all’interno dei classici temi
studiati dalla sociologia dell’educazione [Vanderstraeten 2001].
Per molto tempo la sociologia non ha avuto un posto centrale nello studio dei processi educativi. Come ci
ricorda Becker [1983], lo studio dei processi educativi, «sia come campo di attività professionale
accademica
che come istituzione pubblica, all’inizio della sua storia è stato fatto proprio dal campo della psicologia. La
premessa – continua ancora Becker – era che l’educazione consisteva nel mettere informazioni e abilità
nella testa dei bambini e di altre persone ignoranti. C’era così bisogno di una scienza dell’apprendimento e,
in secondo luogo, dell’insegnamento (invece di una scienza, per esempio, dell’organizzazione scolastica o
delle situazioni educative). La scienza che poteva fornire la conoscenza su cui basare i metodi di
insegnamento era la psicologia, la scienza che studia l’interno della testa delle persone. Questo ha coinciso
con uno spostamento deciso della psicologia verso lo scientismo, verso modi sperimentali di pensare e di
procedere, verso la quantificazione» [Becker 1983, 100-101].
Nel processo di istituzionalizzazione come disciplina che poteva dare un contributo alla comprensione del
ruolo che le diseguaglianze sociali giocano nei processi formativi, e ¶sul ruolo che i processi formativi
giocano sullo strutturarsi delle diseguaglianze sociali, la sociologia dell’educazione ha essenzialmente
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trascurato di esaminare quello che avveniva nelle classi scolastiche [Cicourel e Jehan 1985]. Il problema era
concettualizzato essenzialmente all’interno di un modello di input-output nell’istituzione scuola [Walker
1972]: l’importante era esaminare le condizioni di ingresso e le condizioni di uscita da un sistema che però
in sé non veniva analizzato [Mehan 1979a]. Un approccio del genere tendeva a considerare i processi che si
svolgono a scuola, e nelle classi scolastiche, come essenzialmente omogenei: quello che interessava erano i
prodotti del sistema, mentre i processi non facevano differenza. La scuola, e la classe scolastica in
particolare, era considerata una «scatola nera» [Mehan 1992].
Eppure, la classe scolastica rappresenta un «sistema sociale» autonomo [Parsons 1959; Getzels e Thelen
1960], anche se fa parte di un sistema sociale educativo più ampio che è quello della scuola (oltre,
naturalmente, ad un livello ancora più ampio, dal sistema sociale costituito dall’istituzione educativa
nazionale). È nella classe scolastica che si svolgono una serie di funzioni educative proprie, dalla
trasmissione del sapere alla socializzazione dei ragazzi, ed è questa realtà quotidiana della classe che tutti
noi conserviamo con vividi ricordi. La classe scolastica designa uno specifico luogo fisico nelle scuole, dove
una coorte di ragazzi della stessa età, e che provengono da una ristretta e spesso omogenea area geografica
che ruota attorno a quella scuola, vive quotidianamente una parte rilevante della propria vita per un intero
anno, quando non per più anni. Inoltre, la classe scolastica è soprattutto un ambito di relazioni sociali che
possiede proprie modalità di interazione e di comunicazione, che possono risultare cruciali per spiegare
processi di esclusione e di emarginazione in larga scala.
Il campo degli studi sull’interazione in classe appare disomogeneo e molto differenziato al suo interno. Non
si tratta solo del riconoscimento di un campo intrinsecamente interdisciplinare, alla cui costituzione
concorrono diverse discipline accademiche, ma del fatto che ci sia un ampio spettro di temi, di metodi
utilizzati e di teorie, unificate solo ¶dal fatto che si applicano ad una «classe scolastica». In questo primo
capitolo introduttivo cerchiamo di definire l’ambito che vogliamo analizzare, distinguendolo sia dagli
approcci che si occupano in modo specifico degli aspetti didattici (come si prepara e si presenta una lezione)
sia da quelli pedagogici (come riflessione sulle finalità educative). Presentiamo una storia sommaria degli
studi e delle ricerche sull’interazione in classe e sulla rilevanza del linguaggio nei processi di
apprendimento. Infine, sosteniamo un approccio basato sull’osservazione naturalistica delle pratiche
concrete di interazione in classe, non basato sui ricordi degli insegnanti e degli alunni, o sulle intenzioni, i
piani e i progetti di lezioni preparate dall’insegnante, ma sulla registrazione di quanto effettivamente
accade tutti i giorni in una classe scolastica.
2. Il linguaggio nei contesti educativi
Stubbs [1990] ci ricorda schematicamente l’origine dell’interesse per lo studio del linguaggio nei contesti
educativi. A partire dalla fine della seconda guerra mondiale i sistemi educativi occidentali sono impegnati
ad allargare il più possibile la base della scolarizzazione. Intorno alla metà degli anni ’60 diviene sempre più
chiaro che questi sforzi non hanno prodotto i risultati auspicati e sperati: a fronte di un forte cambiamento
nella struttura sociale ed economica, in una situazione di grande mobilità e di immigrazione, non solo i tassi
di scolarizzazione sono cresciuti in modo difforme nei gruppi e negli strati sociali, ma la stessa riuscita
scolastica di un bambino, il suo «successo» a scuola, appare legata in modo sistematico alla provenienza di
classe. Dopo un periodo (dagli anni ’20 agli anni ’40) in cui l’insuccesso scolastico veniva attribuito a variabili
biologiche (e, con connotazioni razziste, anche all’appartenenza etnica), misurato attraverso test di
intelligenza, gli anni ’60 sono il momento in cui invece viene esaminato il contesto familiare e la
collocazione di classe della famiglia dell’alunno. Si fa ricorso soprattutto alle indagini demografiche e
statistiche ¶per svelare gli squilibri del sistema educativo. La posizione della famiglia all’interno del sistema
di stratificazione sociale permette quasi di predire il successo o l’insuccesso scolastico di un bambino. Gli
sforzi entusiasti e ingenui delle politiche sociali, che ritenevano l’aumento indiscriminato
dell’alfabetizzazione una diretta conseguenza dell’aumento degli investimenti e dei finanziamenti rivolti alle
scuole, si rivelano vani. Tutti gli sforzi sono ora orientati a capire le cause di questo squilibrio.
Una volta che ci si è posti di fronte al fatto che, di norma, i bambini che provengono dalla classe media
hanno più successo a scuola dei bambini che provengono dalla classe operaia, rimane aperto il problema
del perché questo avvenga. Quali sono i meccanismi che presiedono a questa realizzazione selettiva? Cosa
c’è alla base di questo differenziale di successo? È a questo punto che si comincia a riflettere sul ruolo che il
linguaggio assume nei processi di esclusione sociale [Edwards 1976; Edwards e Furlong 1978; Edwards e
Westgate 1987; Furlong e Edwards 1977]. La scuola, a sua volta, è il momento centrale in cui si verificano
processi di esclusione sociale a partire dall’uso del linguaggio verbale.
2.1. Lo svantaggio linguistico
La formulazione più importante di questa tesi è quella che ha dato Basil Bernstein, un sociologo inglese. Lo
studio di Bernstein affronta un aspetto particolare della relazione tra linguaggio e strutture sociali, l’aspetto
legato ai processi di socializzazione. Proviamo a chiarire con poche parole il denso e complesso lavoro di
Bernstein [per un’introduzione si può vedere Giglioli 1973, 209-213; Stubbs 1976, cap. 3, 34-50; Klein 1977].
Anzitutto si può dire in linea generale che Bernstein cerca di analizzare i meccanismi di riproduzione,
mantenimento o cambiamento dell’ordine sociale a partire dal linguaggio e dai sistemi simbolici che sono
usati nella famiglia e nella scuola. Il punto fondamentale sottolineato da Bernstein è che il linguaggio e i
sistemi simbolici usati in famiglia possono divergere drammaticamente ¶da quelli richiesti e usati nella
scuola. Bernstein ritiene che tutti i contesti sociali stabiliscano quali significati devono essere realizzati
verbalmente, così come determinano quali scelte sintattiche e lessicali possono essere fatte. Il punto è che
contesti diversi tra loro attribuiscono significati diversi a certi comportamenti, così come richiedono diversi
gradi di elaborazione nel linguaggio tipico utilizzato in un contesto. Quando ragazzi cresciuti in certi contesti
(familiare, dei pari, sociale più ampio) arrivano a scuola, spesso incontrano un contesto del tutto nuovo che
richiede degli obblighi che possono essere molto diversi da quelli di partenza. In particolare, i ragazzi
provenienti della classe operaia, afferma Bernstein, trovano difficoltà nella loro performance scolastica (e
quindi vengono progressivamente emarginati e «scartati» dall’istituzione) in un contesto educativo che fa
propri i valori (e i modi di parlare) delle classi medie.
Bernstein vuole mettere in risalto come le differenze nel linguaggio rimandano a codici sociolinguistici
diversi e a un sistema di stratificazione sociale determinato: la classe media padroneggia sia un codice
ristretto che un codice elaborato, mentre la classe operaia ha accesso solo al codice ristretto. Naturalmente
tutto questo ha una rilevanza forte per i processi educativi, dato che la scuola è basata su un codice
elaborato quale modello linguistico degli strati sociali medi e medio alti. Ecco spiegata la ragione di classe
delle differenze nel successo scolastico. In realtà, la nozione di codice sociolinguistico è molto controversa.
Se si va a vedere con precisione che cosa intenda in concreto Bernstein per «codice ristretto» e «codice
elaborato» si rimane un po’ delusi. Per Bernstein un «codice elaborato» implica una grammatica accurata e
complessa, un frequente uso di preposizioni, di pronomi impersonali, di verbi passivi, un uso di aggettivi e
avverbi insoliti; un «codice ristretto» implica invece una grammatica semplice e breve, delle frasi spezzate e
interrotte, un uso frequente
di comandi brevi, delle affermazioni categoriche (non ipotetiche), un uso semplice e ripetitivo delle
congiunzioni, un uso limitato e rigido degli aggettivi e degli avverbi.
Se si prendono in esame gli studi empirici condotti dalla ¶scuola di Bernstein le perplessità rimangono. Per
esempio, Hawkins [1972] esamina il linguaggio di bambini (di cinque anni) appartenenti a due gruppi sociali,
la classe media e la classe operaia, mostrando loro quattro figure e chiedendo loro di raccontare la storia
che unisce quelle figure. Il risultato della ricerca conferma la tesi di Bernstein, cioè che i bambini
provenienti dalla classe operaia fanno uso di un «codice ristretto» e quelli provenienti dalla classe media di
un «codice elaborato». Il commento di Hawkins è che la versione dei bambini appartenenti alla classe
operaia «fa appello in forte misura alla collaborazione dell’ascoltatore. Ciò significa che il contesto (vale a
dire, le figure) deve essere presente perché l’ascoltatore possa capire a chi e a che cosa ci si sta riferendo. Si
assume che l’ascoltatore possa vedere le immagini» (p. 87). Il giudizio sulla performance dei bambini di
classe operaia è quindi negativo. Stubbs [1976b] fa giustamente notare che in realtà la versione dei bambini
della classe operaia sia perfettamente adeguata alla situazione: una situazione tipicamente sperimentale,
non un contesto cosiddetto «naturale», in cui non c’è alcun bisogno di un linguaggio esplicito ed elaborato,
dato che il ricercatore era lì presente, assieme al bambino. Al contrario, nota sempre Stubbs [1976b], si può
ritenere la versione fornita dai bambini della classe media, elaborata ed astratta, sostanzialmente inadatta
al contesto, in quanto piena di particolari inutili e di informazioni ridondanti. In sostanza, il punto cruciale
che ci sembra emerga da questo tipo di studi sui codici sociolinguistici è che non si tratta di ritenere un
codice il prodotto necessario dell’appartenenza di classe, quanto piuttosto di sottolineare come la scuola sia
un contesto differente e specifico rispetto al resto della vita quotidiana, in cui si usa e viene richiesto un
codice elaborato. Questo vuol dire che spesso la variabilità nella performance scolastica può derivare
piuttosto dalla differente capacità da parte dei bambini provenienti da classi sociali diverse di riconoscere o
considerare la scuola come un contesto speciale, con le proprie regole linguistiche, sostanzialmente diverse
o specifiche rispetto a quelle di altri contesti della vita quotidiana.
L’opera di Bernstein è stata ampiamente criticata sia sul piano teorico che sul piano empirico. Per quanto
riguarda il piano teorico, abbiamo visto come sia stata sottolineata in particolare l’ambigua definizione
concettuale delle espressioni codice elaborato e codice ristretto, che ha provocato molti fraintendimenti
nell’interpretazione «autentica» del lavoro di Bernstein. Sul piano empirico, il lavoro di Bernstein è stato
criticato per la difficile operativizzazione delle sue intuizioni teoriche in termini di precise verifiche
empiriche, che una volta messe alla prova della ricerca sociale mostrano alcuni limiti, specie per quanto
riguarda l’individuazione di concrete variabili linguistiche a fondamento della sua teoria dei codici.
La teoria di Bernstein ha dato vita ad una consistente letteratura che può essere riportata al tema dello
svantaggio linguistico. Le principali spiegazioni teoriche dell’eziologia dello svantaggio sono essenzialmente
le seguenti [Mehan 1973; Edwards 1990, 481-482]:
1) Ipotesi del deficit genetico. Secondo questo approccio, alcuni studenti sono intrinsecamente,
geneticamente, meno bravi di altri; l’intelligenza è quindi una qualità che si eredita per via biologica. Questa
posizione potrebbe essere benissimo trascurata, se non avesse avuto un seguito e una risonanza e
periodicamente, ciclicamente, si riaffaccia nelle pagine culturali dei quotidiani a rianimare dibattiti un po’
spenti. Senza considerare le implicazioni esplicitamente o implicitamente razziste in questa posizione, uno
sguardo un po’ più approfondito ci fa vedere come sorgano seri problemi rispetto alla possibilità di
misurare l’intelligenza in sé, e di ridurre a zero l’influsso del contesto sociale.
2) Ipotesi del deficit ambientale. Secondo questo approccio, delle deficienze fisiche, sociali e psicologiche
(«deprivazione culturale») nei primi anni di vita del bambino porterebbero ad un deficit intellettuale e
linguistico («deprivazione linguistica» intesa come vera e propria incapacità mentale e logica). Per ovviare a
questi esiti e all’insuccesso scolastico conseguente occorre quindi studiare dei programmi di educazione
compensatoria e di «risocializzazione». La scuola viene investita così del compito della correzione di
processi
¶ambientali «deprivati»: negli anni ’60 un grande flusso di risorse viene investito per realizzare questa
politica. In realtà, sottostante a questo approccio c’è il presupposto che solo certi comportamenti
(linguistici) siano corretti e che si debbano applicare degli standard (che poi si scopre corrispondono a quelli
della classe media) nell’insegnamento e nei processi educativi.
3) Ipotesi della differenza di gruppo. In questo caso lo svantaggio viene invece visto come differenza tra
gruppi, ognuno dei quali conserva e possiede propria dignità e proprie peculiarità. Questa differenza
diventa
uno scompenso sociale quando il confronto tra gruppi è condizionato da un differenziale di potere, che
permette che certi standard possano dominare e che altri siano considerati carenti e manchevoli.
2.2. Osservazione partecipante
Un modello che contesta fortemente l’impostazione di Bernstein (e soprattutto di coloro che a lui si sono
ispirati) e il mito della «deprivazione verbale» è quello di William Labov, sociolinguista statunitense [per
un’introduzione si può vedere Stubbs 1976b, cap. 4, 51-67; Klein 1977]. A differenza di Bernstein, che usa
episodi ricostruiti o di fantasia, ipotetici o presi da situazioni costruite in laboratorio, Labov ha invece una
forte propensione alla ricerca sul campo, basata sull’osservazione partecipante nelle comunità linguistiche
studiate, in una situazione «la più naturale possibile» di uso linguistico effettivo. Labov [1969] sostiene la
completa dignità dei linguaggi dialettali e le varietà non standard di una lingua nel veicolare concetti e
rappresentazioni astratte. Labov contesta il fatto che queste varietà e dialetti possano essere definiti come
«codici meno elaborati»: come molti antropologi avevano già affermato, Labov ritiene che tutte le lingue,
nonché le loro varietà, sono equivalenti quanto a complessità e capacità di astrazione. Quello che può
succedere secondo Labov è che esistano piuttosto dei vincoli stilistici di coerenza, per cui può apparire
¶strano per esempio che termini colti e scientifici appaiano in frasi dialettali. Per Labov non esiste un deficit
grammaticale nei bambini che li renderebbe inadatti ad apprendere: «i bambini che erano apparsi
verbalmente insensibili in classe si rivelavano dei comunicatori estremamente efficaci in situazioni di gruppi
dei pari e proprio le espressioni che gli educatori avevano citato come indice di una grammatica degenerata
risultavano riflettere regole grammaticali in ogni loro minima parte tanto complesse quanto quelle della
lingua standard» [Gumperz e Cook-Gumperz 1996, 128]. Per quanto riguarda il campo educativo, dunque,
Labov ritiene che da solo il linguaggio non può essere ritenuto la causa del successo o dell’insuccesso
scolastico, mentre occorre rilevare un insieme di componenti sociolinguistiche. Per Labov, dunque, è
possibile che gruppi sociali differenti usino forme di linguaggio differenti in situazioni sociali simili, e che
gruppi sociali differenti abbiano norme differenti che riguardano l’uso appropriato del linguaggio. La scuola
e gli insegnanti trovano inadeguato il linguaggio usato da certi studenti: ma ciò non implica che questi
studenti abbiano un linguaggio impoverito, quanto piuttosto che questo linguaggio sia ritenuto
inappropriato rispetto alla situazione della classe. Gli insegnanti in genere coltivano un pregiudizio (spesso
non cosciente) per cui reagiscono negativamente alle varietà linguistiche meno prestigiose; ma in realtà
queste stesse varietà linguistiche possono avere molte funzioni per chi le usa, prime tra tutte la funzione
positiva di mostrare la lealtà di gruppo del parlante. Lo svantaggio educativo è così il risultato del fatto che i
parlanti non riconoscono differenze linguistiche; una delle richieste della scuola è che la varietà standard
della lingua usata sia il linguaggio appropriato da usare in classe.
2.3. Il posto del linguaggio nei processi educativi
Gli studi successivi di sociolinguistica hanno messo in evidenza come la classe scolastica sia un luogo molto
importante per i processi di apprendimento [Mehan 1984b; Shuy ¶1984, 1988; Stubbs 1976, 1990; Stubbs e
Hillier (a cura di) 1983; Verhoeven 1977]. In particolare lo sviluppo del linguaggio è visto come una funzione
non più solo del contesto familiare e delle interazioni con i genitori, ma dell’interazione con i propri pari e
della relazione con gli insegnanti [Edwards 1990].
Stubbs [1990] discute una serie di sviluppi interessanti dello studio del linguaggio nei processi educativi in
almeno quattro aree: (a) la differenza tra il linguaggio usato a scuola e quello usato a casa; (b)
l’apprendimento della lettura e della scrittura come alfabetizzazione; (c) il linguaggio dei testi scolastici; (d)
il ruolo della scuola, e in particolare del lavoro che si svolge in classe, all’interno delle politiche sociali.
a) Il linguaggio a casa, in famiglia, e a scuola, nella classe. Nella sociologia dell’educazione Bourdieu
aveva sottolineato come famiglie di classi sociali diverse trasmettano ai propri figli un capitale
culturale diverso, e che la scuola premi la riproduzione del capitale sociale delle classi dominanti
[Lareau 1987]. Wells [1981b], in una ricerca svolta a Bristol (G.B.), mette in evidenza come non ci
sia molta differenza tra il contesto familiare e quello scolastico: anche a casa i genitori usano delle
routine conversazionali come fanno gli insegnanti in classe [Fasulo e Pontecorvo 1999]. Ma per
Wells nelle famiglie, a differenza di quanto avviene nelle classi scolastiche, i bambini hanno più
libertà di iniziare un dialogo, mentre a scuola questa libertà è minima. Heath [1982; 1983], in uno
studio di una comunità chiamata col nome fittizio di «Trackton», rileva una differenza di classe
sociale nelle modalità conversazionali delle famiglie che si rivolgono ai bambini: il problema si pone
quando i bambini provenienti da classi sociali basse entrano in un ambiente con delle modalità
comunicative
tipiche delle classi medie (a cui appartengono gli insegnanti, che a loro volta incorporano
un’ideologia educativa, implicita ed esplicita, tipica delle classi medie). Come a scuola, nelle famiglie
di classe media i genitori chiedono ai bambini di dare un nome agli oggetti, parlano di cose fuori del
contesto immediatamente circostante, usano un formato interrogativo con domande ¶che
sollecitano una risposta già conosciuta. Nelle famiglie di classe sociale bassa, invece, le domande
sono poche (si usano imperativi o affermazioni), e, quando si fanno, richiedono come risposta
analogie o confronti non specifici. Nel contesto statunitense, Philips [1972; 1983] fa vedere come
l’insuccesso scolastico possa dipendere da una variabile culturale su base etnica. I nativi americani
non sono abituati, come avviene nelle scuole, ad essere chiamati a lavorare individualmente o in un
contesto in cui si premia la competizione nel gruppo dei pari. Molte altre ricerche negli Stati Uniti
sono state poi rivolte a studiare il differenziale di successo degli alunni a partire da un differenziale
culturale di partenza costituito dall’appartenenza etnica della famiglia di provenienza, come per gli
afroamericani di Chicago [Foster 1989] o i portoricani [McCullum 1989]
b) L’alfabetizzazione. L’apprendimento della lettura, della scrittura e della matematica sono attività
che dipendono in grande misura, anche se non solo, dal lavoro che si svolge nelle classi
scolastiche[1]. In questo quadro rivolto ad analizzare l’apprendimento di nuove competenze sono
collocati gli studi sull’apprendimento della lettura[2]. Hale e Edwards [1981] analizzano come gli
insegnanti ascoltano la lettura dei ragazzi; Pace e Powers [1981] rilevano come la riuscita del
compito dipenda dall’influenza sia degli insegnanti sugli studenti, ma anche degli studenti sugli
insegnanti; Heap [1985 e 1990] è interessato a collegare la lettura con la produzione, trasmissione e
dimostrazione della conoscenza scolastica; McDermott [1977] ha analizzato le sessioni di lettura di
gruppo; sia Heap [1990] che McHoul [1988] hanno sottolineato come la lettura debba venire
liberata dalle teorie che la descrivono come un’attività oggetti¶va, che risiede nei singoli, nelle loro
capacità mentali nascoste, ma sia invece un’attività pubblica e sociale, che prevede un’interazione
costitutiva tra studenti, insegnanti e testi scritti[3].
c) Il linguaggio dei testi scolastici. Si tratta di un tema classico nel campo degli studi educativi [Rosen
1967]. Baker e Freebody [1986; 1987; 1989; Freebody e Baker 1985] hanno analizzato i testi
scolastici come una forma di conoscenza o una rappresentazione della realtà particolare, diversa
dall’esperienza viva che i lettori possono trarre nelle loro interazioni faccia-a-faccia della vita
quotidiana. In particolare, hanno esaminato il modo in cui il linguaggio parlato viene rappresentato,
ritenendo che il testo scolastico proponga un modello normativo (e un’ideologia) delle relazioni tra
adulti e bambini, tra insegnanti e alunni, tra genitori e figli; inoltre, hanno cercato di verificare se le
difficoltà di lettura possano dipendere da un modello di interazioni rappresentato nel testo che non
ha una base reale nella vita quotidiana del bambino; in terzo luogo, hanno esaminato la
rappresentazione, l’immagine culturale, degli adulti e dei bambini.
d) Scuola e politiche sociali. In questo filone di ricerca si possono trovare, per esempio, la lista delle
questioni che Edwards [1990, 485] ha posto. Che rapporto c’è tra linguaggio e identità? Il
pluralismo culturale è un bene e l’assimilazione è un male? È realistico pensare che sia la scuola a
guidare il cambiamento sociale? Cioè, la scuola può sostenere identità di gruppo a rischio di
sopravvivenza e contribuire al pluralismo e alla diversità? Tutto questo passa attraverso il
linguaggio? Qual è il ruolo dell’educazione multiculturale? La scuola può diventare promotrice di
diversità e allo stesso tempo offrire una forte formazione unitaria? In Italia possiamo pensare alle
situazioni di multiculturalismo, come avviene nelle scuole dell’Alto Adige, o ai temi sempre più
presenti nell’agenda delle politiche scolastiche connessi all’immigrazione di stranieri[4].¶
2.4. L’approccio discorsivo all’interazione in classe
In tempi recenti, un ulteriore passaggio caratterizza gli studi di ambito linguistico nel loro sforzo di
comprendere l’interazione e i processi di comunicazione che si svolgono nella classe scolastica [Coulthard
1974]. Qui la classe non è più considerata come un luogo ideale nel quale analizzare i processi di selezione
sociale all’opera, ma piuttosto come un contesto particolare nel quale studiare la strutturazione del
contesto sociale. I tradizionali interrogativi sociologici recedono sullo sfondo o spariscono del tutto, mentre
viene riconsiderato completamente il modo di intendere il linguaggio. Con le parole di due studiosi del
campo, possiamo dire che fino a quel punto «il linguaggio è stato prevalentemente considerato dal punto di
vista della forma linguistica. Negli anni ’80 l’attenzione si è spostata dalla forma grammaticale al
discorso, e di
conseguenza a differenti questioni linguistiche. La competenza comunicativa, e cioè la capacità di
partecipare al discorso in situazione, la conoscenza che richiede, e come essa muti col mutare dell’origine
sociale, ha cominciato ad assumere una nuova importanza. Il punto analitico di partenza non è più l’uso del
linguaggio in quanto tale, bensì le attività di discorso in quanto avvengono nel contesto di specifici eventi di
discorso» [Gumperz e Cook-Gumperz 1996, 131][5]. Dal punto di vista sociologico questa svolta negli studi
sul linguaggio poteva risultare promettente per riconsiderare le basi delle dinamiche di esclusione sociale:
in realtà questo non è avvenuto, anche se i risultati di questi lavori linguistici sono stati utili per studi
successivi. Presentiamo quindi ora brevemente quello che può essere considerato il più importante e
rappresentativo lavoro di questo tipo di approccio dedicato all’analisi del discorso, quello di Sinclair e
Coulthard [1975], poi rielaborato da Sinclair [1982].
Il tentativo di Sinclair e Coulthard era quello di superare le limitazioni del tradizionale approccio linguistico
per studiare il discorso. All’interno della grammatica la frase è ¶considerata l’unità più ampia, composta a
sua volta di unità discrete più piccole (per esempio i morfemi), ma che non dà luogo a unità di ordine
superiore: «a dispetto dei molteplici tentativi di descrivere una struttura a livello di paragrafo, e a dispetto
degli ovvi legami coesivi tra frasi, è impossibile caratterizzare i paragrafi in termini di combinazioni
permesse o non permesse di classi di frasi: tutte le combinazioni sono possibili e la sequenza effettiva di tipi
di frasi in un paragrafo dipende dal contenuto e da decisioni stilistiche, non da decisioni grammaticali»
[Coulthard 1985, 121]. Lavorando sull’interazione in classe, Sinclair e Coulthard cercano invece di disegnare
una struttura discorsiva più ampia della frase. Propongono così cinque livelli di articolazione del discorso,
dal più generale al più particolare, che chiamano la lezione, la transazione, lo scambio, la mossa, l’atto.
Secondo questo schema, una lezione è una macro-unità discorsiva composta di più sotto-unità, chiamate
«transazioni», chiaramente marcate una dall’altra da un’espressione che serve ad introdurre un argomento
(con espressioni come «bene», «dunque», «allora», ecc.), seguita da un’espressione metacomunicativa che
riguarda la formulazione dell’argomento che si sta per affrontare (come, per esempio, «oggi parleremo
di...»). Ogni transazione, vale a dire ogni blocco tematico e di attività, è composta di più «scambi», vale a
dire di episodi comunicativi rivolti essenzialmente ad affermare qualcosa (chiamati «scambi informativi»), a
ordinare di fare qualcosa («scambi direttivi») o a sollecitare un comportamento verbale, come fare una
domanda («scambi sollecitativi»). A loro volta, ogni scambio è fatto di «mosse», vale a dire di forme di
presa della parola. In particolare, Sinclair e Coulthard [1975] prendono in considerazione la struttura degli
scambi sollecitativi. Gli autori notano come le mosse nell’interazione in classe non seguano una semplice
alternanza tra i partecipanti (insegnante-studente, insegnante-studente, ecc.), ma hanno una tipica
struttura a tripletta (insegnante-studente-insegnante, insegnante-studente-insegnante, ecc.). Questo è un
risultato importante, che sarà confermato da altre ricerche in modo indipendente, e ¶ricollega l’approccio
basato sull’analisi del discorso ai temi sollevati dalle ricerche sull’interazione in classe: il modello a
«tripletta», per esempio, ci fa vedere come «l’insegnante ha sempre l’ultima parola e due turni per parlare
rispetto ad un solo turno a disposizione di ogni studente. Questo, incidentalmente, va a spiegare il dato
trovato più frequentemente nelle ricerche sull’interazione in classe, vale a dire che l’insegnante parla in
media i due terzi del tempo a disposizione» [Coulthard 1985, 124].
Se si considera in particolare la struttura degli scambi sollecitativi, dicono Sinclair e Coulthard, non solo la
struttura dell’interazione assume una forma particolare, ma anche il tipo di mossa che svolgono è peculiare:
in genere, sistematicamente, l’insegnante fa una domanda (I=inizio), lo studente risponde (R=risposta),
l’insegnante fornisce una valutazione della risposta (F=follow-up). Gli autori notano come questa
configurazione sia onnipresente nell’interazione in classe, al punto che anche dove materialmente il terzo
elemento, il follow-up dell’insegnante, sembrerebbe assente, questa sia una assenza rilevante, importante,
qualcosa che viene notato; in particolare, questa assenza implica un giudizio negativo da parte
dell’insegnante della risposta che ha ottenuto dall’alunno. Per finire, gli atti sono divisi in base alla loro
funzione nell’interazione (e in questo senso sarebbero diversi dalla nozione di atto linguistico di
provenienza filosofica, come nelle analisi di Austin e Searle). Gli atti sono sedici, divisi in meta-interattivi,
interattivi e orientati alla presa del turno nella conversazione, oltre agli aside, rivolti in modo specifico a
classificare quegli atti nei quali l’insegnante non è rivolto in modo specifico all’interazione (l’esempio che
Coulthard fa riguarda l’insegnante che si chiede ad alta voce «Dove ho messo il gessetto?»)[6].¶
L’approccio discorsivo all’interazione in classe ha centrato i propri interessi sulla forma delle relazioni
discorsive tra insegnanti e alunni, senza indagare il modo in cui questo modello poteva essere utilizzato
concretamente dagli insegnanti nel loro lavoro quotidiano, né le conseguenze sociali di questo uso. Ma
questo approccio ha anche dei meriti. Per prima cosa, ci ha fatto vedere in che modo si strutturi
regolarmente una lezione scolastica, con il peso discorsivo forte rappresentato dall’insegnante. In secondo
luogo, ci ha fatto vedere qual è lo specifico discorso che si svolge in classe evidenziandone la sua funzione
educativa [Cazden et al. 1972]. In terzo luogo, abbiamo visto come l’approccio linguistico agli eventi
discorsivi legati all’educazione sia sempre meno qualcosa che riguardi le caratteristiche del linguaggio, ma
sempre più «un oggetto creato collaborativamente da almeno due parlanti» [Coulthard 1985, 144]. Questa
ultima considerazione ci permette di passare ora all’esame proprio di questo aspetto dei processi educativi
centrati sulla classe scolastica, che ha a che fare con lo studio dei processi di interazione più ampiamente
intesi.
3. Dal linguaggio all’interazione in classe
Lo studio del linguaggio usato dalle differenti classi sociali ha condotto ad una mole importante di studi e
ricerche. I limiti di queste analisi sono essenzialmente due: anzitutto, spesso il linguaggio viene visto come
un prodotto determinato esclusivamente e in modo ineludibile dalla classe sociale di appartenenza e, in
secondo luogo, le competenze linguistiche degli alunni e degli insegnanti vengono considerate
separatamente. Da un lato il linguaggio diventa un’altra di quelle variabili esterne che spiega la riuscita o
l’insuccesso educativo, cioè non si tiene conto del carattere «endogeno» della performance linguistica per
la carriera sco¶lastica; dall’altro, non si tiene conto del fatto che l’uso del linguaggio non è una condizione
individuale, ma prevede processi di interpretazione e di comprensione. Questo vuol dire che occorre
considerare il più ampio contesto in cui il linguaggio viene usato, e che occorre concettualizzare
diversamente la relazione tra il linguaggio atteso dell’istituzione e il linguaggio usato dai ragazzi-studenti
come un fondamentale processo di interazione. È a questo punto che si può passare a parlare
propriamente di interazione in classe.
Nonostante sia stata riconosciuta da molti l’importanza di studiare cosa effettivamente succede in una
classe scolastica per conoscere l’origine dei processi di selezione e di riuscita o insuccesso educativo, fino
alla metà degli anni ’60 si trovano pochissimi studi su questo aspetto. Tra i pionieri possiamo menzionare le
ricerche di Bellack et al. [1966] negli Stati Uniti e quelle di Barnes et al. [1969] nel Regno Unito. Furono tali
studi ad aprire un nuovo campo di analisi, quello che riguardava il modo in cui gli insegnanti e gli studenti
comunicavano tra loro. Per la prima volta il linguaggio non è più visto come un attributo importato
dall’esterno, contro cui, potremmo dire, poco c’era da fare: invece di essere considerato come un «peccato
originale» immutabile che condizionava dall’esterno le performance dei ragazzi, si cominciano a
considerare i processi di interazione che strutturano dal vivo la comprensione e i significati della
conoscenza scolastica. È a partire da questi primi studi, per esempio, che emerge la consapevolezza di una
routine costantemente usata nelle classi scolastiche: l’insegnante che fa una domanda agli studenti
chiedendo di fornire una risposta che spesso è solo nella mente dell’insegnante, una pseudo-domanda
chiusa. Tutte le domande dell’insegnante sono di fatto delle domande «fittizie», in quanto l’insegnante già
conosce la risposta alla domanda stessa: e non potrebbe essere altrimenti, se l’insegnante deve poter
valutare l’apprendimento da parte degli studenti[7]. Ma in questo caso appariva chiaro che la
partecipazione degli studenti alla vita ¶della classe era ridotta in modo drammatico. Cominciano una serie
di ricerche che confermano questo piccolo importante dato di partenza, che comporta una serie di ricadute
in termini di politiche educative e formative. Si comincia a mettere in questione questo tipo di
insegnamento direttivo e si propone una gestione dell’interazione nella classe che sia meno dominata dalla
figura dell’insegnante. Da qui viene sottolineata l’importanza dei lavori di gruppo, cioè di contesti in cui i
ragazzi possano avere occasione di discutere tra loro in piccoli gruppi, incoraggiando la partecipazione e la
responsabilizzazione individuale (dove quindi non è la sola figura dell’insegnante a garantire l’ordine e la
disciplina), oltre a rinsaldare il senso di appartenenza e il lavoro cooperativo.
La seconda metà degli anni ’60 sono anche gli anni nei quali all’interno delle scienze sociali avviene un
mutamento di paradigma abbastanza radicale, nel quale affiorano approcci innovativi e interpretativi
[Giglioli 1973]: la cosiddetta «microsociologia», la «sociologia della vita quotidiana», la sociolinguistica,
lavori di ricerca basati su metodi antropologici ed etnografici, e anche nella linguistica ci si allontana da un
modello di analisi di singole frasi per analizzare contesti più ampi, veri e propri «testi», oltre a considerare il
linguaggio come una forma d’azione (la teoria degli atti linguistici).
Il campo dell’interazione in classe è stato studiato a partire da due tradizioni di ricerca radicalmente
diverse, che si possono solo superficialmente etichettare come «quantitativa» e «qualitativa». La prima è
quella che
si basa su modelli di osservazione che prevedono qualche tipo di codifica, attraverso categorie pre-
specificate, del comportamento dell’insegnante e degli studenti, l’elaborazione statistica dei risultati e la
discussione dei dati aggregati. La seconda è quella basata sulla tradizione etnografica e antropologica.¶
3.1. L’osservazione tramite categorie predefinite
Il più famoso dei modelli di osservazione che prevedono qualche tipo di codifica, attraverso categorie pre-
specificate, del comportamento dell’insegnante e degli studenti è quello di Ned Flanders [1970], elaborato
all’università del Michigan negli Stati Uniti e ampiamente utilizzato per centinaia di ricerche successive. Il
modello teorico deriva da una tradizione di psicologia sociale particolarmente sviluppata negli Stati Uniti
attorno agli anni ’40, grazie soprattutto ai contributi di Kurt Lewin [1972; Lewin, Lippit e White 1939],
interessato e preoccupato per lo sviluppo della democrazia, l’autoritarismo e la leadership. Il metodo di
osservazione e codifica deriva invece essenzialmente dagli studi di R.F. Bales [1950] sulle interazioni che
avvengono nei gruppi e sugli aspetti cognitivi, affettivi, ecc. che queste interazioni comportano.
Il modello di osservazione di Flanders [per contributi di illustrazione in ambito italiano si vedano per
esempio Chiari 1978; Soresi 1978, 73-105; Lumbelli 1982, 47-100] prevede dieci categorie, sette delle quali
costruite per individuare il tipo di comportamento dell’insegnante, due per individuare il tipo di
comportamento degli alunni, mentre l’ultima categoria è solo residuale (per classificare silenzio,
confusione, o quello che non ricade nelle categorie precedenti). In particolare, per quanto riguarda
l’insegnante, le prime quattro categorie individuano il comportamento di un insegnante non direttivo (1.
accetta sentimenti; 2. loda e incoraggia; 3. accetta idee e opinioni; 4. pone domande); le successive tre
categorie individuano il comportamento di un insegnante direttivo (5. fa lezione; 6. dà direttive; 7. critica o
giustifica l’autorità). Per quanto riguarda gli studenti, la categoria 8 individua un comportamento di risposta
ad una sollecitazione dell’insegnante, la categoria 9 un comportamento di iniziativa spontanea non
sollecitato. Attraverso questa lista di categorie per Flanders è possibile classificare ogni unità temporale
(per esempio, diciamo quello che accade ogni 3 secondi) di cui è costituita la lezione in classe. Al termine
del periodo di osservazione otteniamo una serie ¶di numeri che, opportunamente trattati e disposti su una
matrice 10 × 10, ci forniscono il profilo dell’interazione in classe: per esempio, quanto tempo ha parlato
l’insegnante e quanto gli studenti; se l’insegnante è di tipo direttivo o non direttivo, se attribuisce enfasi ai
contenuti o al controllo e alla gestione della classe; ecc. Flanders ci ha lasciato una regola generale
dell’interazione in classe, la «regola del 70%» [Stubbs 1990, 570]: per circa il 70% del tempo, in classe
qualcuno parla; questo «qualcuno che parla in classe» è per il 70% del tempo l’insegnante.
Il modello è stato soggetto a molte critiche [si vedano tra gli altri Delamont 1976a; 1976b; Delamont e
Hamilton 1976; 1986; Walker e Adelman 1975], che possiamo brevemente riassumere. Anzitutto, è un
modello che si focalizza per la gran parte sul comportamento dell’insegnante, mentre appare piuttosto
povero nel caratterizzare il comportamento degli alunni. Il comportamento degli alunni è considerato nel
suo insieme, dato che non ci sono modi di discriminare studente da studente. Manca, insomma, una
contestualizzazione sociale e temporale dei dati raccolti. Il modello prevede un set pre-specificato di
categorie, che esclude molte altre cose che avvengono in classe. Questa può non essere una critica
rilevante, perché tutti i modelli di analisi necessariamente devono far a meno di notare tante cose, che
magari altri paradigmi e approcci considerano importanti: non può che essere così. Il punto, qui, è che i
risultati dell’analisi tendono ad auto-confermarsi: c’è cioè una certa riflessività tra assunti iniziali e dati
ottenuti, al punto che la spiegazione di un certo comportamento diventa tautologica. In un modello così
concepito le categorie di analisi oscurano il grande e diverso lavoro che c’è dietro. Per esempio, una
domanda (categoria
4) può essere fatta in molti modi diversi, e quindi sollecitare e ottenere comportamenti di risposta
differenti. Si sente spesso la necessità non tanto di «andare oltre» quelle categorie, quanto di «andare
dietro» a verificare meglio cosa succede in classe. In questo modello conta più l’interpretazione del
codificatore che le intenzioni dell’insegnante. Per esempio, quando e come l’insegnante può lodare e
incoraggiare? Tutto questo può essere fatto in ¶modo non esplicito. Il codificatore fa ricorso alle sue risorse
di membro sociale per interpretare un certo comportamento dell’insegnante. Inoltre, non è chiaro qual è il
ruolo dell’interpretazione da parte degli studenti del comportamento dell’insegnante: uno studente può
cogliere in una frase dell’insegnante una critica o una sanzione negativa, e rispondere di conseguenza,
mentre il codificatore può non notarla affatto. Nel modello la differenza tra le categorie non è chiara,
soprattutto perché impone una segmentazione discreta a un comportamento che va apprezzato
«qualitativamente»: che differenza c’è tra le categorie 1, 2 e 3? Un unico comportamento verbale
dell’insegnante potrebbe realizzare
contemporaneamente tutte e tre le azioni previste da quelle categorie separate, vale a dire accettare i
sentimenti del ragazzo, lodarlo e accettare le sue opinioni.
Queste sono solo alcune delle critiche che sono state sollevate a modelli di osservazione che comportano
una codifica del comportamento basato su categorie pre-specificate. Nonostante queste ampie riserve,
modelli del genere, e in particolare il modello di Flanders, hanno avuto un discreto successo [segnaliamo
negli anni ’80 un modello simile adottato in Gran Bretagna, il progetto Oracle – cfr. Hitchcock e Hughes
1989, 139-144] proprio per la loro facilità di impiego (possono essere utilizzati in tempo reale), la loro
semplicità di presentazione (si ottengono profili sintetici e accattivanti, fatti di tabelle e di numeri), e la loro
utilità per un processo di formazione, di monitoraggio e di valutazione dell’insegnamento. Ma bisogna
ricordare che sono strumenti rigidi, basati su presupposti educativi piuttosto datati, e costruiti su un
frainteso «oggettivismo» del ricercatore.
3.2. Le ricerche sul clima in classe
Questa linea di ricerca essenzialmente basata su metodi quantitativi di indagine ha dato vita, a partire dagli
studi di Lewin, Lippitt e White [1939], ad una rilevante mole di lavoro sul cosiddetto «clima di classe», vale a
dire, l’«atmosfera», l’«umore», un misto di aspetti che riguardano l’ambito dell’affettività e le relazioni
sociali, che vigono nella classe ¶[Withall e Lewis 1963]. Ma che cos’è il «clima»? È possibile descrivere il
clima di una classe o di una scuola? (o il suo «ambiente»: distinzioni chiare e definite tra questi due termini
non si trovano nella letteratura). Il clima è stato studiato usando diverse definizioni e diversi metodi di
raccolta dati. Ad esempio Fraser [1986, 1] definisce l’ambiente scolastico come «la percezione condivisa
degli studenti e a volte dell’insegnante in quell’ambiente». Anderson [1982] evidenzia l’esistenza di una
grande varietà di studi sul clima in classe e nella scuola, ma in cui manca accordo tra i ricercatori circa le
variabili che dovrebbero essere prese in considerazione per descrivere il clima, o circa i metodi per misurare
tali variabili: «il campo delle ricerche sul clima in molti modi ricorda i sette ciechi che dettero sette diverse
descrizioni dell’elefante basate sulla parte che ciascuno poteva toccare, e ciascuno pretendeva di
possedere l’immagine completa di un elefante» [Anderson 1982, 376]. Secondo Anderson [1985] le ricerche
sul clima avevano raggiunto uno stallo ed erano necessari nuovi modelli teorici. Le critiche comunque non
mettono in discussione i fondamenti delle ricerche sul clima. Per Anderson è possibile arrivare a una
descrizione complessiva del clima e definire le variabili giuste per produrla. In questo filone di ricerca, il
clima rimane una proprietà misurabile della classe o della scuola, accessibile tramite l’uso di questionari o
di altri mezzi di osservazione strutturati. Già nel 1963, Withall e Lewis avevano espresso dei dubbi ben più
radicali riguardo alla significatività delle ricerche sulle interazioni in classe, nel contesto dello studio del
clima: «i ricercatori [...] provavano a esaminare processi sociali e interazioni attraverso metodi statici. È
stato a lungo creduto che se uno variasse una o due variabili si potrebbero creare condizioni che
potrebbero assicurare prevedibilità e controllo sulla qualità e sul tipo di apprendimento. L’esperienza ha
mostrato che queste aspettative sono infondate, che le variabili nella situazione di apprendimento
interagiscono tra loro con una complessità caleidoscopica e che la specificazione di interazioni e risultati è
estremamente difficile» [Withall e Lewis 1963, 708]. «Complessità caleidoscopica» esprime molto
efficacemente l’area delle interazioni in classe e del clima come oggetto di ricerca.¶
Recentemente in Italia una serie di ricerche svolte da Chiari [1994] ha documentato come un clima di classe
positivo sia non solo una condizione di maggiore integrazione e dunque indice di coesione di gruppo, ma
anche uno strumento efficace per un apprendimento migliore. In generale, la letteratura sui climi di classe
considera il clima come un oggetto che può essere misurato e oggettivamente descritto, utilizzando variabili
psicologiche e di personalità. Paoletti [1990a] ha invece «decostruito» la nozione di clima, cercando
anzitutto di non sovrapporre una versione «scientifica» alla percezione che gli attori stessi (insegnanti e
alunni) hanno dell’ambiente in cui vivono: il clima diventa così qualcosa di inter-soggettivamente percepito,
aperto a interpretazioni, descrizioni e valutazioni che gli attori fanno di norma sul comportamento degli
altri con cui interagiscono.
4. L’etnografia dei processi educativi
La seconda tradizione di studi sull’interazione in classe è invece quella di origine antropologica ed
etnografica [Hammersley 1986 e 1990; Hammersley e Woods (a cura di) 1976; Woods 1986; Woods e
Pollard (a cura di) 1988]. Delamont e Atkinson [1980] parlano di due tradizioni distinte nel campo
dell’etnografia dei processi educativi: la prima di origine antropologica sviluppatasi negli Usa,
particolarmente interessata ai temi del contatto culturale, delle minoranze etniche e dei gruppi «con
problemi» in relazione all’efficacia dei processi
educativi, con un taglio prettamente descrittivo privo di grandi interrogativi teorici; la seconda, di marca più
prettamente sociologica, sviluppatasi in Gran Bretagna, interessata piuttosto ai temi della cultura urbana,
più consapevole dal punto di vista teorico. Per Mehan [1992, 2], il rifiuto del positivismo funzionalista in
Gran Bretagna si identifica con la «nuova sociologia dell’educazione», interessata essenzialmente alla
costruzione sociale della conoscenza scolastica [Young 1971]; negli Stati Uniti con l’«approccio
interpretativo» [Karabel e Hasley 1977], interessato all’analisi della vita interna della scuola o delle relazioni
¶tra ambiente scolastico e ambiente familiare. Le due tradizioni di ricerca si sono sviluppate praticamente
ignorandosi una con l’altra [cfr. il dibattito tra Jacob 1987 e Atkinson et al. 1988]. In ogni modo, qui
parleremo in generale della tradizione etnografica, senza far riferimento allo specifico contesto geografico
di provenienza.
Nella tradizione antropologica ed etnografica dello studio dell’interazione in classe l’enfasi è posta sulla
presenza del ricercatore come osservatore partecipante [Corsaro 1981; Ball 1985] nel luogo che si vuole
studiare, cioè la scuola e la classe, per un periodo di tempo ampio, comunque più esteso di quello che
comporta la semplice applicazione di un protocollo di categorie. L’etnografo si comporta come un visitatore
di un mondo particolare, staccato dal resto delle attività ordinarie della vita sociale da precisi confini
simbolici e architettonici (come avviene del resto per quasi tutte le attività lavorative), che ha le sue regole
formali e informali di comportamento e i propri codici culturali di riferimento. L’etnografo è in genere colui
che visita una cultura esotica e lontana per descriverne i modi di agire, di pensare e di parlare. In qualche
misura considerare anche la scuola come un mondo specifico e particolare, in certo modo «esotico», aiuta a
coglierne le sue peculiarità e le sue proprie caratteristiche. Non avendo una lista prestabilita di compiti o di
categorie da tenere in considerazione, l’etnografo è impegnato soprattutto ad osservare senza uno scopo
preciso, con l’intenzione di avvicinarsi il più possibile alla logica e ai significati, ai comportamenti e alle
azioni, degli attori che operano nel contesto che vuole esaminare. Non rientrando in uno dei ruoli sociali
tipici del contesto scolastico (per esempio, non essendo né uno studente né un insegnante), e quindi non
essendo vincolato a svolgere determinati compiti che il sistema richiede, l’etnografo può permettersi di
entrare il più possibile nel mondo speciale che vuole esaminare mantenendo allo stesso tempo distanza e
critica dal suo oggetto di analisi[8]. A differenza dell’approccio allo ¶studio dell’interazione in classe che
abbiamo visto in precedenza, un approccio etnografico privilegia gli aspetti complessivi del contesto che si
studia, non riducibili ad una operativizzazione o una segmentazione precoce. È un approccio cosiddetto
naturalistico ed ecologico, in quanto non considera l’ambiente dove opera come un contesto sperimentale,
ma come una fonte di significati e di relazioni sociali non «inventata» dal ricercatore. Anche dal punto di
vista metodologico, l’etnografia si differenzia dall’altro approccio allo studio dell’interazione in classe in
quanto non fa uso di dati in forme aggregate, ma piuttosto tende a privilegiare l’unicità e la particolarità di
un contesto determinato. Si tratta dunque di un approccio non quantitativo e non correlazionale, ma
relazionale e qualitativo[9]. Un etnografo non sovrappone alla logica propria del contesto una griglia di
osservazione pre- determinata, ma cerca di rispet¶tare le relazioni sociali e le forme comunicative per il
significato che assumono in quel contesto specifico. Contro una prospettiva riduzionista, basata su
presupposti behavioristici, un etnografo cerca di tenere conto della complessità dell’ambiente in cui si
trova. Lo strumento essenziale dell’etnografo sono le note e gli appunti di ricerca derivati dall’osservazione
sistematica [Boydell 1975; Galton 1978; McIntyre e Macleod 1978], mentre il primo (anche se non l’unico)
obiettivo di ricerca è quello di ottenere una descrizione puntuale e attenta di quello che effettivamente
avviene sotto i suoi occhi, e di registrare e di riportare anzitutto i commenti, le opinioni e le valutazioni delle
persone che in quel contesto ci vivono e ci lavorano[10].
Una prospettiva del genere si è imposta in ambito sociologico[11] grazie soprattutto ai lavori della scuola di
Chicago e dell’interazionismo simbolico a partire dagli anni ’20 e ’30 negli Stati Uniti[12]. Woods [1983] ha
individuato sei aspetti in particolare che sono stati analizzati all’interno di questi studi sull’interazione a
scuola e nelle classi scolastiche: il concetto di «cultura», il contesto, la prospettiva, la strategia e la
negoziazione, la carriera. Passiamo ad esaminarli brevemente.¶
4.1. Il concetto di «cultura»
La prima elaborazione del concetto di «cultura» è stata forse quella presentata nella prima ricerca che usa
metodi etnografici per indagare i processi educativi, quella di Willard Waller [1932][13]. Waller ha cercato
di studiare la vita della scuola come una istituzione che presenta una cultura propria, come un «mondo a
parte» con le proprie logiche, le proprie cerimonie, le proprie regole. Il metodo utilizzato da Waller è quello
dell’osservazione partecipante, interessato più alla descrizione e alla cura e conservazione dei dettagli di
singoli casi che all’analisi statistica di dati aggregati. Sebbene interessato anche ai rapporti della scuola con
il mondo sociale circostante, in particolare con l’ambiente nel quale la scuola stessa è collocata, Waller ha
presentato un’efficace etnografia delle relazioni che vigono nella classe scolastica tra insegnanti e alunni.
Waller sostiene una prospettiva conflittualista. Come ci dice Coulon, Waller ha considerato «la relazione
insegnante-alunno come una forma istituzionalizzata di dominazione e subordinazione. L’insegnante è in
primo luogo un adulto e in secondo luogo colui che impone i compiti, che infligge le punizioni, e
rappresenta l’ordine sociale della scuola. Al contrario, gli alunni sono più interessati al loro mondo, e
considerano la scuola come “una super-struttura feudale”. In ragione di questi antagonismi, gli
atteggiamenti degli uni e degli altri riposano su una ostilità fondamentale» [Coulon 1993, 71]. Secondo
Becker, Waller «vide e raccontò un fatto, centrale per l’istituzione che stava osservando, l’esistenza del
quale nessuno avrebbe ammesso: disse che i ragazzi non volevano andare a scuola e che gli adulti li
obbligavano ad andarci, ed era per questo che lo stato naturale delle relazioni sociali nella scuola era il
conflitto» [Becker 1983, 99].
Nella stessa tradizione etnografica che stiamo prendendo in considerazione, lo stesso Becker [1952a;
1952b; 1953] ha contribuito allo sviluppo di una prospettiva interazionista ¶sull’educazione, studiando la
cultura professionale dell’insegnante e, più tardi, prendendo in considerazione in particolare la formazione
professionale medica e quella universitaria, il concetto di «cultura studentesca» [Becker et al. 1961 e 1968],
concetto che può essere applicato a tutti i livelli della formazione scolastica. Si tratta del riconoscimento
dell’esistenza presso gli studenti di un tessuto di rappresentazioni e di comportamenti coerenti e
abbastanza omogenei tra loro, che implica obblighi e doveri, tipico del fatto di essere in quel momento
studenti: vale a dire, le influenze precedenti familiari, parentali, amicali, ecc. sono subordinate a quella
condizione e a quello status specifico e attuale di studente. Questo ha delle conseguenze importanti anche
per l’ambito dell’interazione nei contesti educativi, in quanto secondo questa prospettiva viene seriamente
messo in questione un approccio individualista, come se gli insegnanti avessero a che fare con uno studente
alla volta e non invece con un «collettivo» che esprime orientamenti e prospettive, oltre che
comportamenti, condivisi. Tutto questo oggi può apparire ovvio a un insegnante esperto, ma nel clima
dell’epoca i lavori di Becker et al. [1961 e 1968] appaiono come la formulazione più compiuta e più
consapevole di questa caratteristica[14]. Il concetto di cultura è stato ripreso da Bill Corsaro in vari lavori di
ricerca dedicati ad una analisi comparativa delle scuole materne in Italia e negli Stati Uniti[15] [Corsaro
¶1985; 1988; Corsaro e Eder 1990; Corsaro e Rizzo 1988; 1990 e 1992] per descrivere «un insieme stabile di
routine, artefatti, valori e interessi che i bambini producono e condividono nella scuola materna» [Corsaro
1985, 3]. La cultura dei pari è quell’insieme di dispositivi, comportamenti e reazioni standardizzate che i
bambini adottano sperimentando e riproducendo per sé parti della cultura «dei grandi», degli adulti.
Corsaro descrive per esempio la routine dell’«approccio-evitamento», con la quale un soggetto pauroso o
mostruoso per i bimbi viene allo stesso tempo avvicinato ed evitato, permettendo ai bambini di
«condividere la tensione creata, l’eccitamento della minaccia e il sollievo e la gioia per l’evitamento o lo
scampato pericolo» [Corsaro 1988, 7]. Oppure, ancora, Corsaro e Rizzo [1988; 1990] descrivono il modo in
cui i bambini utilizzano vari strumenti verbali per fare una discussione con i loro compagni di classe,
utilizzando una vasta gamma di sofisticate strategie retoriche per confutare o ribattere una affermazione,
per sottolineare un punto o per porre enfasi su certi aspetti[16]. La questione che ci interessa è che la
discussione fatta in questi termini diventa una palestra sociale tipica per i bambini in una classe scolastica,
un luogo proprio nel quale si affrontano le questioni degli adulti in termini della cultura dei pari, in cui si
mediano le richieste sociali con una dimostrazione di una certa abilità creativa e innovativa da parte dei
bambini, per mezzo della quale si cementa e si coltiva il sentimento dell’amicizia, della solidarietà e della
vicinanza.
Il concetto di cultura derivato da un ambito interazionista è stato utilizzato anche in una prospettiva neo-
marxista, tradizionalmente interessata a studiare le contraddizioni e i ¶conflitti di classe ora in una
prospettiva non solo materiale[17]. Willis [1976; 1977] ha studiato etnograficamente il processo di auto-
riproduzione della struttura sociale, vale a dire le modalità attraverso le quali gli studenti di classe operaia
alla fine continueranno a fare il mestiere dei genitori. Si tratta di un classico problema della sociologia
dell’educazione, un caso in cui la scuola e i processi educativi non sono strumento di mobilità sociale[18].
Willis utilizza il concetto di cultura (e di contro-cultura) per spiegare questo scacco. I ragazzi della classe
operaia sono portatori di una contro-cultura attiva, antitetica a quella che la scuola vorrebbe imporre (la
riuscita, il rispetto delle regole, l’addestramento alla docilità), fatta di strategie di resistenza e di
opposizione che costituiscono un forte veicolo e un efficace strumento di identità. Le conseguenze sono
spietate. Come
ci dice Coulon [1993, 96], «questa teoria della resistenza ridà un posto al ragazzo e alla sua famiglia di
provenienza, in quanto attori sociali, ma questo comportamento [...] si ritorce in definitiva contro di essi,
poiché la loro resistenza li prepara al lavoro manuale e dunque al loro posto nella classe operaia. Il
comportamento violentemente critico dei partecipanti a questa contro-cultura finisce per produrre una
forza docile di lavoratori manuali»[19].¶
4.2. Il contesto
Collegato strettamente al concetto di cultura è quello di contesto, inteso come ambito concreto
dell’interazione in cui si materializza la specificità culturale della scuola. Con «contesto» gli studi
interazionisti intendono indicare sia gli aspetti fisico-architettonici degli spazi educativi, sia l’aspetto
situazionale di ogni interazione educativa[20]. Nel primo caso, tutti conosciamo l’importanza di una certa
organizzazione spaziale per lo svolgersi di una certa attività: in particolar modo nel campo educativo[21], la
conformazione spaziale di una certa aula, la chiara divisione in un’aula tra lo spazio della cattedra e spesso
della lavagna, opposto a quello dei banchi, l’orientamento e il modo in cui sono costruiti e disposti i banchi,
tutto questo pone dei seri vincoli per la riuscita o meno di una certa iniziativa (per esempio, il lavoro
cooperativo degli alunni rispetto alla lezione frontale dell’insegnante). L’aspetto fisico e architettonico è poi
anche carico di aspetti legati al mantenimento dell’ordine [Cooper 1982], ad aspetti simbolici o
semplicemente strategici. Nella classe esistono luoghi di ribalta e luoghi di retroscena, per riprendere i
termini usati da Goffman [1969], che delle volte coincidono, ma spesse volte non coincidono, con l’esplicita
divisione fisica dello spazio: luoghi di formale presentazione del sé (quasi sempre per l’insegnante, solo a
intermittenza per gli alunni), e luoghi dove invece svolgere delle attività collaterali o parallele rispetto
all’attività ufficiale che si sta svolgendo in quel momento, o semplicemen¶te nicchie di riposo e di
evitamento (quasi mai per l’insegnante, spesso per gli alunni). Ovviamente, queste considerazioni sulla
conformazione fisica e architettonica degli spazi possono essere applicate con gli stessi risultati all’edificio
scuola nel suo complesso. Ma c’è anche un altro aspetto, quello situazionale, che può aiutare a definire il
contesto dell’interazione in classe. La classe può contenere molte diverse attività, ognuna delle quali viene
ad essere segnata e caratterizzata da specifici comportamenti e da diversi criteri di appropriatezza di questi
comportamenti. Ogni ragazzo deve sapere quale frame, cioè quale cornice interpretativa, è quella valida in
quel momento: deve cioè saper riconoscere cognitivamente il comportamento appropriato da
adottare[22]. Per l’insegnante, si tratta di portare a termine il proprio lavoro in classe all’interno delle
costrizioni (imperativi, opportunità, possibilità) tipiche dell’organizzazione scolastica [Denscombe 1980a]
[23].
4.4. La negoziazione
La nozione di prospettiva dei partecipanti si collega a quelle di strategia e di negoziazione [Woods 1983,
capp. 6 e 7, 104-149][24]. Secondo questo approccio, l’interazione in classe appare come il prodotto di una
continua negoziazione di come e cosa fare, che avviene tra insegnanti e studenti. La negoziazione avviene
soprattutto in forme tacite, non esplicitate e aperte, ma spesso anche il contrario: la quantità dei compiti a
casa, i turni di interrogazione, se è meglio «spiegare» invece di «interrogare», come ottenere disciplina e
silenzio, ecc. sono forme costanti di contrattazione in classe. Particolare interesse in questo contesto ha
rivestito la nozione di «strategie di adattamento» (coping strategy) coniata da Edwards e Furlong [1978, 149]
per definire il modo di lavorare dell’insegnante «rivolto a riconciliare il difficile problema di mantenere
l’ordine, comunicare informazioni e offrire almeno un minimo di autonomia agli studenti». La nozione di
strategie di adattamento è stata ripre- ¶sa, utilizzata e studiata da molti autori, in modo indipendente[25].
Woods [1977] identifica quelle che chiama vere e proprie «strategie di sopravvivenza» da parte
dell’insegnante per descrivere l’accomodamento necessario richiesto per far fronte ai requisiti del sistema e
dell’istituzione in condizioni non ottimali di lavoro (numero alto di studenti in classe, alta percentuale di
ripetenti, basso entusiasmo, scarsità di risorse, necessità di attenersi strettamente al programma, ecc.).
Woods individua otto di queste strategie[26], che chiama dominio (imporre la propria volontà:
«reprimerli!»), negoziazione (lo scambio: «se giochi con me, io gioco con te»), socializzazione («insegnare
bene»), fraternizzazione (diventare meno adulti: «se non puoi batterli, unisciti a loro!»), assenza o ritiro
(«insegnare sarebbe bello se solo non ci fossero gli studenti!»), rituale e routine («va bene se fai le cose
come si devono fare»), terapia occupazionale («così passa il tempo...»), iniezione di fiducia («dobbiamo
crederci!»). Ecco il punto: «È più una questione di “sopravvivenza” che di altro: arrivare alla fine dell’ora,
del giorno o del quadrimestre intero, con la propria auto-stima ragionevolmente intatta, e con un po’ di
fortuna avendo fatto anche un po’ di lezione. Sono circostanze odiose, dove il solo sollievo per qualcuno, se
la stima professionale non può essere salvaguardata, è quello di puntare a una “distanza dal ruolo”, dove
“l’individuo non nega il ruolo ma il sé virtuale che è implicito nel ruolo per tutti gli esecutori che lo
accettano” [Goffman 1961, 108]» [Woods 1983, 110].
Hargreaves [1977; 1978; 1979] parla esplicitamente di strategie di adattamento da parte dell’insegnante, di
nuovo nel senso di strumenti di gestione della classe che permettano all’insegnante di venire a capo delle
molte contingenze ¶situazionali spesso contraddittorie tra loro. Hargreaves si sofferma sulla strategia di
«polizia» (policing) e su quella dell’evitamento dello scontro (confrontation-avoidance). La prima è
composta di tre principali elementi: controllo rigoroso e sistematico del movimento da parte degli alunni,
sia corporeo che discorsivo; il sistema di regole viene apertamente esplicitato, e la relazione gerarchica che
lega l’insegnante e gli studenti viene mostrata in continuazione, in modo pubblico e plateale; infine, le
caratteristiche e gli atteggiamenti morali degli studenti nella classe sono enfatizzate e hanno la priorità sugli
aspetti cognitivi. La seconda strategia viene definita come «un rifiuto a reagire in seguito ad una sfida da
parte dello studente, oppure come una minimizzazione della risposta in seguito a tale sfida» [Hargreaves
1978, 147]. Non sempre queste sono strategie vincenti: l’insegnante può essere visto come una persona
arrendevole, e quindi questa percezione può allargare il comportamento di disturbo, invece di limitarlo.
Inoltre, si possono verificare comportamenti che portano ad una certa circolarità negativa, azione-
retroazione-nuova azione-nuova retroazione, che portano di nuovo a un aggravamento della situazione in
classe. Hargreaves [1979] mostra come un insegnante che decide di soprassedere al comportamento
indisciplinato di uno studente non fa altro che negare (in quell’esempio che porta) un modo che quello
studente ha di esprimersi, di affermare un barlume di identità. Ciò porta lo studente a continuare, se non
ad aggravare il proprio comportamento: e a quel punto l’insegnante interviene con un’«operazione di
polizia», prendendo misure punitive, che in qualche modo confermano l’identità deviante offerta dallo
studente.
Pollard, in una serie di lavori [1979; 1980; 1982; 1984], ha elaborato ulteriormente la nozione di strategie di
adattamento e di sopravvivenza, sottolineando come non si tratti di una caratteristica tipica solo del
comportamento di un insegnante che deve far fronte alle esigenze della situazione. Per Pollard si tratta
invece di riconoscere che anche gli studenti hanno potere di contribuire allo sviluppo delle strategie di
adattamento: il working consensus che ne deriva, vale a dire l’intesa che permette di procedere senza
partico¶lari problemi, è dunque un prodotto negoziato. Come dice Pollard, «l’insegnante cerca di stabilire
la propria autorità e una serie di routine e procedure per gestire un numero non piccolo di studenti. D’altra
parte, i ragazzi mettono alla prova l’insegnante per vedere se “fa sul serio” e “che cosa ci lascia fare”. Cauti
per il potere dell’insegnante, gli studenti nondimeno valutano le sue azioni e gradualmente accumulano
esperienze e uno stock di conoscenza sull’insegnante, le sue “lune” e le sue probabili risposte in particolari
contesti e situazioni. Sia l’insegnante che i ragazzi adattano le proprie strategie iniziali in risposta alle nuove
esperienze e valutazioni, fino a stabilizzare gradualmente le relazioni» [Pollard 1982, 23]. Quello che è in
gioco è il buon andamento delle relazioni tra i partecipanti, dato che la mancanza della negoziazione o la
semplice imperizia[27] possono portare a un rapido scadimento delle relazioni civili o semplicemente
normali tra i
partecipanti. Gli studenti stessi possono reagire in modo aperto, ma la reazione può essere anch’essa tacita
e nascosta, attraverso forme di resistenza vivaci quanto pervicaci, che impediscono lo svolgimento delle
attività ordinarie della classe. Come ricorda ancora Pollard, la questione che riguarda gli insegnanti è che
tutte le strategie di adattamento possono alla fine risultare efficaci solo quando i comportamenti
dell’insegnante siano ritenuti e giudicati sufficientemente «equi» e «ragionevoli» da parte degli alunni, cosa
questa che può garantire un livello sufficiente di partecipazione e di coinvolgimento: «l’interesse della
maggior parte dei ragazzi viene soddisfatto al meglio quando vengono evitate le censure dell’insegnante o
gli effetti avversi del potere dell’insegnante: questo provoca dunque delle strategie di adattamento e di
sopravvivenza negli stessi studenti basate sul rispetto e l’adesione alla volontà dell’insegnante. In questo
modo, per tutte e due le parti l’evitamento del conflitto e della provocazione può essere considerata la
strategia più importante in molte situazioni normali nella classe» [Pollard 1982, 23].
7. Conclusioni
In questo capitolo abbiamo preso in rassegna i maggiori approcci sociologici allo studio delle dinamiche
comunicative nella classe scolastica (in particolare l’interazionismo simbolico e la teoria
dell’etichettamento); alcuni metodi di analisi, da quelli più strettamente linguistici a quelli che prevedono
forme di osservazione più ampia alla vita della classe, che tenga conto non solo del linguaggio ma anche di
comportamenti e strategie di «sistema», sia da parte dell’insegnante che da parte degli alunni; abbiamo
visto come le forme di osservazione possano giovarsi di griglie precodificate di analisi oppure di un
approccio più «libero», meno predefinito, ma forse più vicino alla vita quotidiana in classe, di tipo
ampiamente «etnografico»; infine abbiamo fatto una carrellata dei temi più importanti che emergono nello
studio dell’interazione in classe, da quelli che riguardano la fondazione «micro» di aspetti «macro» del
sistema sociale, come la diseguaglianza sociale, la riproduzione delle forme culturali, le modalità della
socializzazione, a quelli che ri¶guardano lo specifico del sistema classe, la gestione dell’ordine, fare
lezione, come stimolare la partecipazione, come
«cavarsela».
Tenendo questo sviluppo come sfondo, il resto del libro è dedicato ad analizzare in modo monografico in
ciascuno dei prossimi tre capitoli un tema particolare: l’ordine in classe nel secondo capitolo, il potere nel
terzo, la conoscenza nel quarto. Partiremo non solo dalla discussione della letteratura rilevante, ma da una
analisi ravvicinata di un frammento di vita scolastica reale per rendere più vicina all’esperienza quotidiana
della classe scolastica la nostra argomentazione.
CAPITOLO SECONDO
LA STRUTTURA DELL’INTERAZIONE IN CLASSE
Ho iniziato questo viaggio di scoperta con estrema trepidazione. Dopo tutto uno non può mai essere
perfettamente sicuro della propria abilità e metodologia tanto che un esame più approfondito non lo possa
disturbare. Al principio, avevo paura di cosa potesse emergere dalle registrazioni che la memoria avesse
cancellato e di cui io mi potessi pentire. Comunque, dal momento che cominciai ad esaminare più
accuratamente i trascritti, questi sentimenti di coinvolgimento personale cominciarono ad affievolirsi;
cominciai a guardare la registrazione in modo impersonale e all’interazione come comprendente
«l’insegnante», spesso dimenticando che «l’insegnante» ero io.
La struttura che emergeva della lezione e la competenza dei bambini furono sorprese che non avrei potuto
scoprire senza questa analisi. Nemmeno sarei riuscita a percepire le strategie usate dai bambini e da me per
approfondire sia le competenze interazionali che le acquisizioni conoscitive.
Non sono sicura che cambiamenti tangibili seguiranno questo esercizio; mi sento certamente più
consapevole del mio comportamento e delle reazioni dei bambini in situazioni simili. Non ho trovato
nessuna
«risposta», ma ho forse una comprensione più profonda del modo in cui una parte del mio lavoro si svolge
e di come le esperienze scolastiche dei bambini si materializzano [Adelman 1981].
1. Parlare in classe
Le classi scolastiche sono luoghi turbolenti, non solo quando presentano problemi, ma anche quando
funzionano al meglio: gli interventi si accavallano, diversi corsi di azione si sovrappongono, le storie, i
bisogni e le priorità individuali si intersecano, si scontrano, si amalgamano con le agende, le esigenze e le
peculiarità istituzionali. In questo capitolo prenderemo in esame la struttura di questo flusso com¶plesso,
concatenato
che è l’interazione in classe, cercando di esaminarlo «al microscopio». In questo capitolo, attraverso
l’analisi di un frammento conversazionale metteremo in evidenza la struttura dell’interazione tipica del
contesto scolastico.
Tutti sanno che in una classe scolastica si «parla» in un modo molto diverso da quanto avviene in una
normale
conversazione. Se si riflette meglio su questa osservazione di senso comune, se si fa oggetto di attenzione
analitica questo semplice fatto, possiamo scoprire alcune caratteristiche molto peculiari dell’interazione in
classe che possono fornire strumenti concreti di orientamento per le stesse insegnanti[1]. È stato osservato
come il meccanismo della conversazione ordinaria si basa anzitutto su un vero e proprio «sistema» della
presa del turno [Sacks, Schegloff e Jefferson 1974], per mezzo del quale le persone si preparano a parlare e
si alternano a farlo: altrimenti non di una conversazione si tratterebbe, ma di un monologo. Ebbene, questo
sistema è gestito in genere in modo paritario da tutti i partecipanti alla conversazione: in qualche modo, la
responsabilità per l’allocazione dei turni (chi deve parlare), l’ordine dei turni (quando si deve parlare), la
lunghezza dei turni (quanto si deve parlare) e il contenuto dei turni (cosa si deve dire) è condivisa tra tutti i
partecipanti. Sono i partecipanti che, secondo procedure di autoselezione ed eteroselezione, cominciano
personalmente a parlare oppure scelgono qualcuno che deve parlare, per esempio facendo una domanda.
Quando la presa del turno non rispetta queste caratteristiche descritte siamo in grado di poter affermare
che ciò che sta avvenendo in quel momento non è una conversazione ordinaria, ma una qualche variazione
di essa. Analizzando dettagliatamente gli scostamenti da come si prende il turno normalmente in vari
contesti e in diverse situazioni, è stato possibile descrivere l’organizzazione caratteristica della
conversazione in contesti istituzionali [Boden e Zimmer¶man 1991; Drew e Heritage 1992]. In questo modo,
è stato dato un nuovo impulso alla comprensione degli elementi di strutturazione sociale delle istituzioni,
cioè sono state descritte concrete routine conversazionali che «costituiscono» il contesto istituzionale
attraverso l’individuazione di modalità tipiche di relazione tra le persone in concrete organizzazioni
istituzionali. Tali studi mostrano come le relazioni sociali locali, cioè nel loro svolgersi qui e ora,
costituiscano e ricostituiscano incessantemente e riflessivamente il contesto istituzionale di cui fanno parte.
La classe scolastica rientra in questi contesti particolari e speciali. Il contesto scolastico è quindi definito in
primo luogo dalle specifiche modalità di interazione alunno/insegnante, inizialmente descritte negli studi di
Mehan [1978; 1979a; 1979b; 1985] e McHoul [1978], e costituiscono ora un ben definito campo di indagine
[Baker 1997; Cazden 1988; Hester e Francis 2000]. In che cosa consiste la peculiarità di quello che avviene
in una classe scolastica? Sostanzialmente sono due gli aspetti interessanti di diversità rispetto ad una
conversazione ordinaria. In primo luogo, mentre nella conversazione ordinaria l’allocazione, l’ordine, la
lunghezza e il contenuto dei turni di parola sono liberamente gestiti dai partecipanti, in ambito scolastico
generalmente è l’insegnante a decidere l’alunno che dovrà parlare, a scegliere quando dovrà intervenire,
l’argomento che dovrà essere discusso e la durata della sua trattazione [Edwards 1981]. In secondo luogo,
mentre l’interazione tra pari prevede l’alternanza a parlare tra due (o più persone) come fosse una «partita
di tennis», sul modello del «prima a te, poi a me, poi di nuovo a te, poi di nuovo a me», e così via, nella
classe scolastica in genere è come se l’insegnante «conservasse la palla» dopo che l’ha ricevuta dallo
studente e prima di restituirla a qualcun altro: ciò che caratterizza l’interazione in classe è la valutazione da
parte dell’insegnante al terzo turno.¶
Naturalmente tutto questo non vuol dire che, dopo la risposta di un alunno, ci sia sempre la valutazione
esplicita dell’insegnante al terzo posto. Ma anche lì dove non c’è una valutazione esplicita è comunque
sempre implicata. L’assenza del commento da parte dell’insegnante può essere un fatto rimarchevole,
degno di nota, un’assenza non banale: come afferma McHoul: «un non-commento è in sé una forma di
commento che indica, per esempio, che una risposta non è soddisfacente, sebbene non scorretta» [1978,
190, nota 9]. Anche se l’insegnante «sta zitto», questo silenzio ¶non è neutro, ma ha un forte valore
valutativo. Gli stessi studenti sentono che «manca qualcosa», che la risposta che hanno dato è incompleta,
oppure scorretta oppure fuori luogo. Si potrebbe dire che dietro ogni intervento da parte di un alunno ci sia
sempre l’«ombra giudicante» dell’insegnante. La valutazione costituisce un vero e proprio frame che
inquadra tutta l’attività in classe, tutte le mosse che fanno gli studenti. Sembra che non ci sia nulla che
sfugga a questo implicito controllo da parte dell’insegnante sulla correttezza di quello che si dice o si fa in
classe.
Si può osservare come le due possibili mosse dell’insegnante dopo un turno di un alunno, valutare in modo
esplicito o non dir nulla, abbiano due conseguenze diverse sul piano della prosecuzione dell’interazione. Se
l’insegnante valuta in modo positivo quell’interscambio, allora la valutazione ha valore conclusivo: in
genere si passa a una nuova domanda. Se l’insegnante rinuncia al suo «terzo turno di valutazione», in
genere si osserva che l’interscambio resta aperto: o l’alunno cerca di aggiungere qualcosa a quello che ha
appena detto, oppure qualche altro alunno si propone per offrire un’altra risposta, e così via. In generale,
una valutazione positiva chiude la sequenza; una valutazione negativa o l’assenza di valutazione lascia
aperto l’interscambio. L’insegnante può usare delle strategie per ottenere la risposta corretta, cioè
suggerendo la risposta fornendo degli spunti, ripetendo o semplificando la domanda, selezionando un
diverso studente, ecc., per poi chiudere la stringa di interazione col commento e la valutazione.
È questa la base per l’esistenza di concatenazioni sequenziali tematiche piuttosto lunghe, come potremo
anche osservare tra breve, nel brano che presenteremo in questo capitolo. Il modello dell’interazione in
classe che viene delineato nella letteratura è quello di un sistema asimmetrico di allocazione dei diritti e dei
doveri conversazionali, in cui una figura guida esercita fondamentalmente delle prerogative rispetto agli
altri parlanti: sceglie il parlante successivo, sceglie l’organizzazione tematica del discorso, ne definisce la
durata, ecc. In realtà, l’insegnante è costantemente impegnato a trovare un difficile equilibrio tra due
esigenze con¶trapposte: quella di mantenere il controllo e l’ordinato svolgimento delle attività e quella di
sollecitare l’attiva partecipazione e lo sviluppo dell’autonomia degli alunni, come vedremo attraverso
l’analisi del seguente trascritto.
3.2. Il fraintendimento
Attraverso la richiesta di chiarimento (linea 11: ma un’avvertenza, che cosa significa un’avvertenza)
l’insegnante esercita, e segnala nel contempo, la sua prerogativa conversazionale di stabilire l’argomento di
cui si parla e che va sviluppato [Edwards 1980; 1981; Heyman 1986]. Alla linea 11 inizia il secondo episodio
del brano, caratterizzato conversazionalmente dal prodursi di un fraintendimento. Per fraintendimento
intendiamo l’episodio conversazionale che viene segnalato come tale dagli interlocutori; come afferma
Bilmes: «è compito dei membri localizzare e correggere o negoziare un fraintendimento. L’analista della
conversazione non dovrebbe dire normalmente che in una frase è presente un fraintendimento a meno che
i membri non l’abbiano trattato come tale» [1992, 96]. Ripercorriamo quello che avviene nel nostro brano,
cercando di capire momento dopo momento lo sviluppo degli interventi. Come si vedrà, osservare al
rallentatore un momento anche breve di interazione comporta molta pazienza da parte del ricercatore,
perché occorre dipanare dei passaggi molto densi e complessi dal punto di vista delle relazioni.
Nel nostro brano due studenti rispondono contemporaneamente alla richiesta di chiarimento
dell’insegnante, Carlo (che l’uomo ha provato) e Dino (cioè, che adesso), ma è Dino che mantiene il turno e
sviluppa il tema introdotto da Carlo e produce l’affermazione: hanno provato e hanno visto come::, reagisce
(linea 13). L’intervento successivo dello studente Elio (linea 14) è degno di nota. Si tratta infatti di una
domanda posta da un alunno a un compagno, una situazione poco frequente nella conversazione
scolastica. Elio sollecita un chiarimento riguardo all’intervento del compagno: hanno provato a fare, cosa?
Abbiamo un esempio interessante, solo un momento, di conversazione alunno-alunno; infatti Dino
interviene subito di nuovo: perché loro non si immaginavano neanche che poteva esplodere (linea 15).
Dopo di cui viene subito interrotto dall’insegnante (momento, linea 16), e si inserisce Carlo (ma no, han
sbagliato a fare i conti, linea
17) rivolgendosi sempre a Dino ed esprimendo ¶disaccordo. Quindi sia l’intervento di Elio, che richiede
bruscamente una correzione a Dino, sia quello di Carlo che esplicita il proprio disaccordo, rappresentano
turni in una conversazione tra alunni. A questo punto l’insegnante riassume il controllo della conversazione,
ignora il contributo di Carlo, supera l’argomento di Dino, avalla la richiesta di chiarificazione formulata da
Elio (hanno provato a fare, cosa?) come argomento di discussione della classe, e chiede alla fine ad Elio di
spiegare la sua obiezione: cos’è che volevi dire (linea 18). Che traffico in queste poche battute, verrebbe da
dire! L’insegnante agisce come un vero e proprio vigile urbano, o meglio, un direttore d’orchestra, per
fermare o favorire, precludere o permettere, la prosecuzione degli interventi dei vari studenti.
Dopo la richiesta dell’insegnante Elio prende il turno, interpretando la domanda dell’insegnante non come
un invito a elaborare la sua obiezione a Dino, ma come un invito semplicemente a ripeterla, come se nel
trambusto della classe non si fosse udita bene. Nel riproporre la sua obiezione, Elio indica con ancora più
enfasi l’oggetto del contendere nella sua specifica formulazione, quello che secondo lui non va bene nella
risposta di Dino: cioè, «hanno provato», a far cosa? lui ha detto «hanno provato» (linea 19). Elio in questo
modo segnala all’insegnante quello che potrebbe essere rimproverato a Dino, quello che nella risposta di
Dino non sembra funzionare, ma non fornisce una correzione. L’insegnante immediatamente dopo esplicita
il contenuto dell’obiezione di Elio: abbiamo (appena) sostenuto che è stato un incidente, e quindi non
hanno provato a farlo scoppiare apposta (linee 20-23). Da questa frase dell’insegnante si capisce
esplicitamente che il contributo di Dino non è corretto: nessuno «ha provato» a fare scoppiare apposta il
reattore di Chernobyl. Ma Dino voleva veramente dire questo?
Dopo un attimo di perplessità (si veda il piccolo «buco» conversazionale alla linea 24) Dino prova a dire
qualcosa (ma:::, linea 25), ma senza andare troppo avanti. Dato che non continua speditamente per conto
suo, l’insegnante a questo punto chiede esplicitamente a Dino un chiarimento sul suo precedente
intervento: allora, cos’è che volevi dire ¶(linea 26). Dino ci prova pure ad abbozzare un tentativo di
spiegazione, ma rimane solo un tentativo (che::, linea 27). Dato il tentennamento di Dino, un altro studente
si autoseleziona subito per parlare: Franco cerca di conquistare il turno inserendosi impropriamente (e:h io
volevo dire-, linea
28), ma è prontamente fermato dall’insegnante (un attimo, linea 29). L’insegnante ripete di nuovo la
domanda con la sollecitazione del chiarimento rivolta a Dino.
Dino, a questo punto, declina l’invito a rispondere: niente, niente (linea 31). In che pasticcio si dev’essere
cacciato! All’inizio aveva cercato di abbozzare un discorso: probabilmente qualcosa che aveva a che fare col
fatto che con Chernobyl tutti «avevano provato» per la prima volta (sulla loro pelle) cosa poteva succedere
quando scoppia una centrale nucleare; non certo che qualcuno «aveva provato» a farla scoppiare. Ma che
difficile potere avere lo spazio per dirlo, specialmente quando è difficile dirlo bene, quando anche gli altri
compagni non capiscono, quando l’insegnante stessa non dà il tempo giusto e sufficiente per poterlo dire,
quando ci sono altri compagni che non aspettano altro che una piccola esitazione per intervenire subito a
dire la loro. Troppo difficile: meglio declinare l’invito dell’insegnante a chiarire meglio il proprio pensiero,
magari ci si caccia in altri guai.
L’insegnante insiste ancora, prova ad ottenere ancora una risposta da parte di Dino (ma, «niente», non è
vero, probabilmente avevi in mente qualcosa, linea 32), ma oramai è troppo tardi. Come in un’orchestra
occorre rispettare i tempi e una battuta può trovare il suo spazio appropriato solo in un certo momento e
non dopo, così sembra che accada anche in una classe scolastica. Passato il momento opportuno, sembra
difficile riuscire a tornare indietro e a ottenere dagli studenti quello che si desidera che essi facciano.
Intanto il lavoro in classe deve andare avanti. Gli studenti sono ancora impegnati a trovare una risposta
soddisfacente. Il giudizio negativo dell’insegnante produce la ricerca della formula giusta. È così che si
inserisce Carlo (linee 33-34). Carlo sembra suggerire una possibile interpretazione dell’intervento di Dino, è
come se cercasse di venire ¶in suo aiuto: forse, con questo incidente, hanno visto anche, la potenza che
possono avere, queste centrali. In qualche modo il contributo di Carlo cerca di restaurare il senso autentico
della prima espressione infelice di Dino: è come se dicesse, lasciamo perdere l’ambiguità di «provare», di
sicuro tutti hanno «visto» la potenza che si può sviluppare dall’esplosione di una centrale nucleare. Una
lezione per l’umanità che deve imparare a stare molto attenta con queste cose. Ma invece di chiarire la
questione e di chiuderla una volta per tutte, il suo intervento dà luogo ad un ulteriore fraintendimento con
l’insegnante.
L’insegnante interpreta di nuovo l’espressione di Carlo come se sostenesse che il disastro di Chernobyl sia
stato il prodotto di una mossa intenzionale per verificare («vedere») quale potenza potesse scaturire da
queste centrali. L’insegnante dunque corregge anche Carlo: ma non è stato un fatto voluto, noi non
abbiamo mai sostenuto (questo) (linee 35-36). Carlo di fronte all’obiezione dell’insegnante replica subito,
sovrapponendosi anche all’ultima parte dell’intervento dell’insegnante (appunto, linea 37), mostrando che
il contenuto del proprio intervento non contrasta con quanto detto dall’insegnante e segnalando quindi il
fraintendimento. Elio, che era già intervenuto con l’obiezione a Dino (linee 14 e 19), si allinea subito con
l’intervento dell’insegnante (lo sapevano bene che se scoppiava succedeva questo, linea 38). A questo
punto anche Carlo cerca di chiarire l’equivoco. Ma come aveva fatto prima Dino, riesce solo ad abbozzare
una replica (no, forse-, linea 39): infatti, appena inizia a rispondere l’insegnante ha già ripreso la parola per
assegnare il turno ad un altro alunno, Rossi, che da tempo cercava di inserirsi nella conversazione (nel video
si vede che Rossi ha sempre la mano alzata). Anche in questo caso, come era già successo per Dino in
precedenza, per Carlo si fa tutto più difficile: come riuscire ad esprimere bene la propria posizione se è così
difficile farlo? Se anche l’insegnante non riesce a capire quello che voglio veramente dire, e se per giunta dà
la parola a un altro compagno? Prima che Rossi inizi a rispondere, Carlo dice a voce bassa e velocemente,
non m’avete capito (linea 41), segnalando questa volta espli¶citamente che si è trattato di un
fraintendimento e che il fraintendimento rimane irrisolto.
In questo secondo episodio del brano l’insegnante appare impegnata in due compiti contrastanti: da un lato
si sforza di stimolare la partecipazione attiva degli studenti, cerca di farli parlare e di conoscere quello che
hanno da dire: per ben tre volte chiede a Dino di chiarire il suo intervento; dall’altro è impegnata a
garantire l’ordinato svolgimento della discussione, cercando di dare l’opportunità al maggior numero di
studenti di partecipare, come pure a mantenere il controllo sulla validità dei contenuti che vengono
proposti e a indirizzare la conversazione sugli argomenti che ritiene importante sviluppare. Quando Elio
pone la domanda di chiarimento a proposito dell’intervento di Dino (alla linea 14), è solo quando la
domanda viene in qualche modo ratificata, segnalata dall’insegnante e ripetuta dall’alunno che diventa
realmente parte della discussione in classe. È solo l’insegnante che ha il diritto di legittimare e di autorizzare
un intervento da parte di un alunno.
Tutto questo pone due ordini di problemi, uno di carattere discorsivo e uno di carattere, diremo,
disciplinare. Come abbiamo visto, in questo episodio vengono prodotti due fraintendimenti che rimangono
irrisolti: due studenti segnalano che quello che avevano da dire non è stato capito. Ci possiamo chiedere: se
l’insegnante avesse lasciato rispondere Dino direttamente dopo la domanda del compagno, invece di
fermarlo, sarebbe stato possibile chiarire il fraintendimento? Se Carlo avesse potuto continuare il suo
intervento, sarebbe stato in grado di chiarire il proprio pensiero? Queste domande non sono oziose:
esercitare le capacità logiche, essere in grado di produrre discorsi sensati, dovrebbero essere tra le
principali attività formative in qualsiasi livello scolastico e particolarmente in una scuola media, in cui i
ragazzi stanno conquistando il pensiero astratto. Ma ci chiediamo anche, se l’insegnante avesse lasciato
rispondere Dino e ne fosse nato un dialogo serrato tra Elio e Dino, che ne sarebbe stato del resto della
classe? Quando l’insegnante blocca la replica di Dino e chiede ad Elio di ripetere la domanda, rende la
domanda stessa parte della discussione ¶in classe a cui tutti gli alunni sono tenuti a prestare attenzione,
cioè la rende parte della lezione. Siamo di fronte a un problema di non facile soluzione, ma della cui
consapevolezza le insegnanti potrebbero profittare. Da un lato il controllo conversazionale esercitato
dall’insegnante rende difficile e improbabile una partecipazione degli alunni tale da metterli in grado di
esprimere il proprio pensiero e di esercitare un controllo logico sullo svolgimento della discussione [Paoletti
1990b; Paoletti 2001b]; del resto è difficile riuscire a spiegarci quando ci è impedito il diritto di replica.
Dall’altro l’insegnante ha il dovere di garantire la partecipazione di tutti gli alunni e l’ordinato svolgimento
delle attività. Si tratta spesso di governare un difficile equilibrio tra queste due esigenze contrapposte.
3.3. La correzione
Esaminiamo ora l’ultimo episodio del brano. Come si ricorderà l’insegnante aveva dato la parola ad un
ragazzo, Franco Rossi, che si era prenotato da tempo, tenendo alzata la mano, e che aveva già provato a
proporre un proprio contributo (eh, io volevo dire-, linea 28) prima di essere interrotto. Franco ora
interviene elaborando una propria risposta, sulla scia della prima iniziale domanda dell’insegnante
(sollecitazione di processo), piuttosto che della seconda (sollecitazione di prodotto): questo fatto di
Cernobil, ci può far capire, quanto sono pericolose queste centrali nucleari (linee 42-43). In questa sua
risposta l’alunno mette in evidenza l’aspetto della «pericolosità» delle centrali nucleari, che era già emerso,
seppure in termini diversi, nell’intervento di Baldo (linea 5).
L’insegnante interviene subito dopo (va bene noi però, linea 44). Come si può vedere, l’intervento
dell’insegnante è composto da due parti: una valutazione positiva (va bene), seguita da un’avversativa
(però). Nel complesso, si tratta di una forma di valutazione negativa, anche se debole, mitigata
dall’espressione positiva iniziale. L’insegnante inoltre intima a Franco di fermarsi (un attimo, linea
46), richiamando
¶l’argomento al centro della discussione, cioè esponendo «i criteri per la risposta» [McHoul 1990, 366]: noi
dobbiamo sempre tener presente questo rapporto uomo-natura (linee 46-47). In questo modo l’insegnante
esplica il suo diritto di definire l’argomento che va trattato e fornisce agli studenti nuovi elementi per
arrivare alla risposta corretta [Edwards 1981, 299]. Inoltre, in modo esplicito l’insegnante ridireziona
l’attenzione degli studenti sulla forma che deve prendere la risposta. L’insegnante inizia una frase da
completare, diretta presumibilmente a Franco: quindi Cernobil rappresenta una alterazione- (linea 47).
Il momento è importante in quanto per la prima volta viene fornito un primo inizio di risposta alla domanda
dell’insegnante (sollecitazione di prodotto). È l’insegnante stessa a farlo. Il formato della risposta rispecchia
quello della vecchia domanda alla linea 3, cioè si presenta come il completamento dello slot finale
dell’enunciato lasciato vuoto (non si dice di cosa Chernobyl costituisca una alterazione). Anche in questo
caso l’enunciato viene solo parzialmente completato, vi rimangono ancora degli elementi sospesi. Si tratta
di un ulteriore tentativo da parte dell’insegnante di sollecitare la risposta assieme agli studenti, una
procedura conversazionale che Lerner [1993] chiama tecnica di produzione congiunta (joint production
technique): l’informazione corretta viene rilasciata passo dopo passo, cercando la chiusura della coppia
domanda/risposta in modo coordinato tra studenti e insegnante.
Sembra che gli alunni siano impegnati nella conduzione di un gioco a quiz, cercando di interpretare i
suggerimenti offerti dall’insegnante al fine di individuare la risposta «giusta», o meglio ciò che l’insegnante
ha in mente. Non c’è spazio per l’articolazione del loro punto di vista, per sostenerlo e per discutere
argomenti che a loro sembrino rilevanti, data questa struttura conversazionale. Gianni fornisce una
soluzione candidata, producendo un ulteriore elemento di completamento dell’enunciato iniziale
dell’insegnante
«rappresenta appunto» (un pericolo, linea 48). Tale risposta era già stata proposta all’inizio
dell’interscambio (alle linee 6 e 7) e sembra ignorare l’intervento dell’insegnante che ha ¶fornito un nuovo
elemento per il completamento della frase. In realtà nell’interazione si è già un passo avanti. Quello che la
classe sta cercando ora non è il completamento dell’enunciato Cernobil rappresenta-, ma dell’enunciato
Cernobil rappresenta un’alterazione-.
L’insegnante ignora la risposta di Gianni e sollecita di nuovo i contributi degli alunni riproponendo la prima
domanda aperta, che cosa rappresenta? (linea 49), che contrasta con la domanda precedente in cui si
chiedeva agli alunni di dare una risposta del tipo: Chernobyl rappresenta appunto una alterazione di
qualcosa. Franco inizia a rispondere, sovrapponendosi alla continuazione dell’intervento dell’insegnante,
riproponendo il tema del pericolo (rappresenta un pericolo per l’uomo, linea 50). Nonostante l’insegnante
tenti di fermarlo (linea 53), Franco continua imperterrito a sviluppare il tema del pericolo: perché finora è
scoppiato solo uno, di reattore, ha fatto solo questo disastro, se pensiamo ne scoppino altri, o magari in
Francia, che ne scoppi qualcuno (linee 52, 54, 55). In questo caso la joint production technique fallisce
perché prima di tutto la strategia di sollecitazione dell’insegnante rimane ambigua: infatti dopo la terza
domanda a risposta chiusa l’insegnante ripropone la prima domanda a risposta aperta. Le due domande
iniziali, di processo e di prodotto, rimangono di fatto attive per tutto l’episodio conversazionale. Franco
fornisce una soluzione candidata al completamento dell’enunciato, ma al contempo fornisce le ragioni per
sostenere la propria posizione. Tale strategia si connota come risposta a una sollecitazione di processo,
richiede un’elaborazione più complessa della semplice produzione di un elemento che soddisfi il
completamento di un enunciato già quasi formato. Ma l’insegnante ha modificato il formato della domanda
e ha quindi dato spazio al cambiamento di strategia di ricerca della risposta da parte degli studenti.
L’insegnante prova nuovamente a dirigere la ricerca della risposta giusta da parte degli studenti: cerchiamo
di tenere l’argomento base, eh?, che è il rapporto uomo-natura (linee 57-58), rifiutando implicitamente la
risposta offerta da Franco e riproponendo la frase da completare, quindi Cernobil ha ¶rappresentato
un’alterazione, (linea 58). La sollecitazione dell’insegnante questa volta induce la risposta di Franco nel
formato richiesto, cioè la produzione di un elemento lessicale che costituisca il completamento
dell’enunciato dell’insegnante, dell’uomo (linea 59). Da notare che l’elemento lessicale di risposta è stato
scelto da Franco tra le due possibilità offerte dalla glossa dell’insegnante (il rapporto uomo-natura). Franco
si è trovato di fronte ad un bivio: aveva a portata di mano l’asso, cioè riuscire a dare finalmente la risposta
corretta alla domanda dell’insegnante, che già da parecchio impegnava la ricerca dei suoi compagni;
bastava scegliere tra una di queste due possibilità che l’insegnante gli aveva fatto balenare davanti.
L’alterazione sarà stata dell’uomo o della natura? Franco si butta: dell’uomo. Purtroppo, però, non ha scelto
quella che l’insegnante si attendeva, quella «corretta». Infatti l’insegnante non riprende positivamente il
contributo di Franco, ma fa una domanda: dell’uomo? (linea 60). La domanda dell’insegnante non viene
considerata da Franco come una richiesta di ripetizione tale e quale, come quando non capiamo bene
quello che qualcuno ha detto; qui Franco, come tipicamente tutti gli studenti fanno di fronte a domande del
genere da parte degli insegnanti, la considera come un etero-inizio di riparazione [Drew 1997; McHoul
1990], cioè come una sollecitazione a produrre subito una correzione della risposta, un cambiamento. Nel
turno immediatamente successivo l’alunno effettivamente provvede a fornire una correzione: no, della
natura (linea 61). La riparazione consiste nella riformulazione della risposta scegliendo l’elemento
alternativo a quello designato in precedenza, tra la coppia proposta dall’insegnante. Ma Franco ancora una
volta non si limita a fornire l’elemento mancante: produce anche una risposta più elaborata in cui
argomenta la sua posizione (perché l’ha distrutta, linea 61) e recupera in parte la risposta che aveva
prodotto in precedenza (anche l’uomo ha distrutto, in gran parte, insomma, linee 63-64). La risposta di
Franco (linea 61) è finalmente quella corretta, ma non è considerata valutabile positivamente
dall’insegnante per il modo in cui è stata portata alla luce. L’insegnante blocca l’intervento di Franco
(momento, linea 65), e interviene per la terza volta: è finalmente solo a questo punto che la domanda 2
trova il suo completamento definitivo. È l’insegnante a dare la risposta: Chernobyl ha provocato una
alterazione della natura (linea 65). In questo modo termina la ricerca del completamento del primo
enunciato incompleto, si chiude un lungo giro di contributi, la domanda trova finalmente la sua risposta
corretta. Che sia l’insegnante a fornire la risposta «giusta» non è certo un’evenienza inconsueta [MacKay
1974].
In questa ultima parte del trascritto possiamo osservare un serrato contraddittorio tra insegnante e alunni
che appare alquanto frustrante per entrambi: l’insegnante non riesce ad ottenere la risposta giusta, ma gli
alunni avevano gli elementi necessari per poter produrre la risposta giusta? Questo aspetto non è un
problema peculiare di questa classe, ma è una caratteristica comune a qualsiasi classe scolastica e che è
facilmente rilevabile attraverso l’analisi delle conversazioni in ambito scolastico. Mehan [1974a, 126] nota a
proposito del lavoro interpretativo richiesto agli alunni per comprendere le richieste dell’insegnante:
Dal momento che le formulazioni dell’insegnante sono essenzialmente incomplete, tutte le informazioni
necessarie di cui il bambino ha bisogno per seguire le istruzioni dell’insegnante non sono reperibili in
queste stesse istruzioni. Il bambino deve localizzare le informazioni necessarie attraverso le connotazioni
contestuali quali il comportamento non-verbale dell’insegnante, i materiali di insegnamento, lo
svolgimento precedente della lezione in corso, le sue esperienze passate.
Il processo interazionale insegnante-alunni costruito attraverso la modalità domanda-risposta si connota
proprio come un processo di negoziazione continua, dove gli alunni sono costantemente impegnati
nell’interpretare quale sia, tra le risposte possibili ad una domanda, quella giusta, quella rilevante per
l’occasione. Gli studenti spesso riescono a dare le risposte non tanto attingendo alla loro testa, a quello che
hanno imparato, a quello che hanno studiato: ma lo fanno usando come risorsa tutti gli elementi disponibili
nel contesto. L’insegnante, dal canto suo, è impegnata nell’interpre¶tazione delle prestazioni degli alunni in
senso sequenziale e contestualizzato; come precisa Mehan [1974a, 112]: «la decisione di accettare o
rifiutare una risposta di un ragazzo è influenzata dagli eventi che emergono nel contesto della situazione:
chi è il ragazzo che sta rispondendo alla domanda, in quale punto della lezione la domanda viene fatta, qual
è stata la sua prestazione immediatamente precedente».
Attraverso l’analisi dettagliata del brano abbiamo iniziato a vedere un concatenarsi di scambi verbali che
all’inizio appaiono disordinati, confusi, perfino insensati, ma reali; da essi traspare la noia, la frustrazione
ma anche l’interesse, la sollecitudine, lo sforzo di ottenere un risultato. Pensiamo che chiunque, insegnante
o meno, possa immaginarsi la scena come parte di una lezione in una qualsiasi classe di scuola media. Si
tratta di una scena ordinaria, familiare, comunemente disponibile all’osservazione. L’interazione in classe è
fatta di queste cose. Analizzando questo brano abbiamo potuto osservare la struttura della presa del turno
nella conversazione scolastica.
Nel resto del capitolo cercheremo di offrire alcuni elementi per comprendere la struttura dell’interazione in
classe in modo sistematico, a partire dalle ricerche condotte su quanto avviene regolarmente nelle prime
classi del sistema scolastico [McHoul 1978; Mehan 1979a]. Noteremo come tra la norma e quello che
accade in realtà, come quello che abbiamo osservato nell’analisi del brano precedentemente riportato, ci
possono essere degli elementi di discrepanza.
\\
Dall’esame del brano riportato sopra possiamo considerare l’insegnante come la regolatrice della
conversazione in classe ma, allo stesso tempo, come facilitatrice della partecipazione degli alunni,
sollecitando l’espressione del loro pensiero e dei loro ragionamenti. Questi due ruoli appaiono
sostanzialmente in conflitto. L’elemento di tensione tra due ordini di necessità contrastanti non è rilevabile
nei modelli della struttura della conversazione riportati nella letteratura che abbiamo esaminato. A noi
sembra invece importante evidenziare questo aspetto, perché riteniamo che sia rilevante da un punto di
vista educativo. Abbiamo mostrato che l’asimmetria dei diritti conversazionali tipica della conversazione
nell’aula scolastica non permette agli alunni di esercitare il controllo logico sul flusso della conversazione:
solo l’insegnante ne è garante [Paoletti 1990b; Paoletti 2001b] e la qualità, in termini di esercizio delle
capacità logico-deduttive, degli interventi degli alunni è necessariamente limitata.
Da un punto di vista sociologico e pedagogico, l’esame della struttura della conversazione in classe
evidenzia le limitazioni insite in questo modello interattivo in relazione all’apprendimento. In particolare,
come abbiamo notato in precedenza, questa struttura della conversazione non forni¶sce agli alunni molte
opportunità per esercitare le proprie capacità logico-deduttive. Questa modalità interattiva che in ambito
pedagogico viene definita recitation [Henry 1984, 36] limita le risposte degli alunni a risposte brevi e spesso
poco chiare, senza possibilità di replica. A questo proposito Young [1980, 68] nota:
Abilità di ordine cognitivo superiore (ad esempio sintesi, analisi, capacità di critica) non sono incoraggiate
attraverso la promozione di una pratica attiva da parte degli alunni. Piuttosto è l’insegnante, soprattutto
attraverso la riformulazione, che svolge il compito di generalizzare, specificare, precisare, verificare ipotesi
e simili. Gli studenti, attraverso le loro risposte brevi e incomprensibili, offrono per lo più la ripetizione di
informazioni predefinite dall’insegnante o dal libro di testo che gli sono state somministrate. La scelta di
argomenti, la formazione di concetti, la scelta di teorie, e la loro verifica, sono tutte attività al di fuori delle
attività degli studenti.
Ciò è conseguenza in buona parte del controllo che l’insegnante esercita nell’assegnazione e strutturazione
dei turni a parlare. Gli alunni non possono gestire il controllo sul flusso dei turni: dal momento che non
controllano la presa del turno, non possono né chiedere chiarimenti né darne, a meno che non sia
l’insegnante a sollecitarli. Ora pensiamo sia evidente la difficoltà insita nel promuovere un cambiamento
delle attività scolastiche, in modo che forniscano agli alunni concrete opportunità per esercitare le proprie
capacità logico-deduttive: non si può ignorare la dimensione sociale in cui l’incontro educativo avviene. La
possibilità di lavorare in gruppi sarebbe una soluzione praticabile, ricerche relative alla comunicazione nei
piccoli gruppi hanno evidenziato il valore che l’opportunità di discutere tra pari ha nello sviluppo del
pensiero logico deduttivo [Phillips 1983; Gumperz e Field 1995; Chiari 1997].
In questo capitolo abbiamo evidenziato alcune delle strutture conversazionali che caratterizzano il contesto
scolastico, o meglio, abbiamo mostrato come il contesto scolastico è prodotto e incarnato attraverso
l’interazione tra alunni e insegnanti nelle sue specifiche modalità. Nel corso dell’anali¶si del brano che
abbiamo presentato abbiamo mostrato il concreto materializzarsi di queste strutture conversazionali.
Abbiamo inoltre sollevato alcuni problemi riguardo ai modelli che emergono dalla letteratura sociologica su
questo tema. In particolare abbiamo rilevato che l’insegnante appare tutt’altro che comoda nel suo ruolo di
figura-guida, di vigile del traffico conversazionale scolastico. Abbiamo inoltre evidenziato la tensione, la
difficoltà, lo sforzo di questa insegnante nel riuscire nel contempo a far partecipare i ragazzi e nel condurre
una lezione ordinata e sensata. Da un punto di vista sociologico riteniamo che il modello emergente dalla
letteratura sull’interazione in classe, caratterizzato da una rigida asimmetria di allocazione dei diritti e dei
doveri conversazionali, in cui la figura-guida esercita fondamentalmente delle prerogative rispetto agli altri
parlanti, rispecchi solo in parte quanto succede effettivamente nelle classi scolastiche [Alpert 1987], in cui
l’iniziativa attiva degli studenti è comunque presente, visibile e testimoniabile empiricamente. Riteniamo
importante che l’analisi sociologica dell’interazione in classe non si concentri esclusivamente
sull’identificazione degli elementi strutturali dell’interazione a scapito degli elementi di tensione e di quelli
problematici, identificabili nei dati; in particolare riteniamo importante studiare nel dettaglio proprio gli
elementi discrepanti, che appaiono contraddittori e problematici. Spesso è attraverso queste fenditure che
si insinua il cambiamento. Come dice il sociologo Merton:
Facendo riferimento all’allontanamento dai requisiti istituzionali, ho cercato di chiarire che talune
deviazioni potrebbero anche considerarsi come un nuovo modello di comportamento [...]. Può essere
ingannevole
descrivere un non-conformismo rispetto a istituzioni sociali particolari semplicemente come un
comportamento deviante; esso può rappresentare l’inizio di un modello alternativo nuovo, avente un suo
proprio diritto al riconoscimento morale [Merton 1992, 282-283].
Da un punto di vista pratico, non abbiamo nessuna semplice ricetta da suggerire, ma siamo convinti che la
consapevolezza da parte delle insegnanti della complessità dei pro¶cessi che le impegnano
quotidianamente possa essere loro di aiuto in vario modo: fornendo maggiore chiarezza sul rapporto tra
obiettivi e mezzi per raggiungerli, mostrando nel concreto ciò che avviene a scuola. L’analisi della
conversazione può dotare le insegnanti di una chiave di lettura per interpretare specifici processi
interazionali; può cioè mostrare, nei suoi dettagli costitutivi, come viene prodotta una attività scolastica
attraverso i comportamenti coordinati di insegnante e alunni e può fornire idee per come modificare
specifiche procedure nella conduzione delle attività in classe, aiutando a risolvere problemi del quotidiano.
Inoltre il descrivere minuziosamente ciò che avviene a scuola può fornire una visibilità collettiva della
difficoltà dei compiti a cui le insegnanti si dedicano e del loro valore, ed è forse proprio di quest’ultima cosa
che le insegnanti hanno maggiormente bisogno nella scuola italiana, l’apprezzamento per il duro lavoro che
conducono giornalmente, facendo del loro meglio, nella maggioranza dei casi con passione e dedizione, a
dispetto spesso della mancanza di mezzi e di sostegno istituzionale.
Nel prossimo capitolo affronteremo un particolare aspetto della struttura conversazionale dell’interazione
scolastica: ci occuperemo del rapporto di potere alunno insegnante, esaminandone le basi interazionali.