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PAOLO di TARSO

di Franco Cardini e Maria Paolo Forlani

Socrate è il fondatore dell’Occidente moderno: o, almeno, è così che lo si è inteso dal


XV secolo in poi. Ma di lui non ci è giunta nemmeno una parola che non sia passata attraverso le
labbra e il calamo di Platone. Il cristianesimo è la fede in un Uomo, così come l’ebraismo è la fede in una
Legge e l’Islam la fede in un Libro. Ma la Legge e il Libro ci parlano direttamente, con il loro testo rispettivo.
Gesù tace. Quando parla, lo fa attraverso i quattro evangelisti canonici; e chissà che non ci dica anche molte
cose attraverso gli apocrifi. ma noi non siamo in grado di cogliere la Sua voce. Gli stessi evangelisti –
nemmeno Giovanni, l’Aquila, con quel suo vertiginoso Prologo – non ci dicono di Gesù di Nazareth quanto
vorremmo, quel che vorremmo sapere. Tra quelle pagine il Signore, il Figlio dell’Uomo, resta enigmatico,
nascosto; nelle Sue parole balena talora, troppo spesso, la luce abbagliante del paradosso. Al apri dei
Maestri hassiditi, o di quelli zen, Egli – o le parole che gli evangelisti Gli mettono sulle labbra – ci stupiscono
e ci disorientano: al punto che esiste un Gesù – se non proprio ignorato – quanto meno “nascosto”, del quale
si parla poco, quello delle frustate ai mercanti nel Tempio, dell’elogio del fattore infedele, del “non sono
venuto a portare la pace, ma la spada”, della maledizione al fico avaro dei suoi frutti. Dal disorientamento
che talora ci coglie considerando la Sua figura secondo il testo evangelico, ci strappa, ma ci lascia come
abbagliati, quel Giovanni 20,28, in cui l’incredulo Tommaso, veduto e toccato, prorompe in quel “Signore mio
e Dio mio!” che avrebbe fatto rabbrividire qualunque ebreo, e che forse fece rabbrividire anche i suoi
compagni, i poveri pescatori di Galilea. Può esservi qualcosa di più empio – nell’ebraismo come nell’Islam –
che chiamare Dio un uomo, che attribuire nome e funzione del Creatore a una creatura? Ma Giovanni stesso,
pochi versetti dopo, nell’Epilogo, esorta: “Ancora molti miracoli, che non sono scritti in questo libro, operò
Gesù in presenza dei discepoli. Questi poi sono stati scritti, affinché crediate che Gesù è il Messia, il Figlio di
Dio, e affinché credendo abbiate la vita nel Suo Nome”. Nemmeno lui, il Prediletto, osa seguire lo scettico
Tommaso nella sua estrema dichiarazione di fede. Chi è Figlio di Dio, che cosa significa essere Figlio di Dio?
Nemmeno Giovanni osa chiamare Gesù come ha pur testimoniato di averLo sentito chiamare da Tommaso.

Non furono gli evangelisti, e nemmeno gli altri apostoli, a testimoniare con forza e con chiarezza inaudita la
realtà, il nucleo profondo e folgorante, della Buona Novella. Il mistero sconvolgente dell’Incarnazione e della
presenza reale di Dio tra gli uomini; la vittoria sulla morte; il messaggio del Signore dell’Universo non al solo
eletto popolo d’Israele, bensì a tutta le terra e a tutti gli esseri umani e tutti i tempi. Verrebbe da pensare – e
non so quanti teologi e quanti storici del primo cristianesimo sarebbero d’accordo – che quel che della
Buona Novella non era passato dal magistero del Salvatore ai suoi discepoli o ai loro immediati seguaci,
insomma agli evangelisti, passò attraverso quel dialogo fulminante, davvero rapido come la folgore, là sulla
via che da Gerusalemme conduce a Damasco. Quel lampo abbagliante, e il cavallo che s’impenna, e il
tuono della Voce, e le tenebre subito dopo... Vorremmo penetrare i lunghi istanti che seguirono, i giorni
immediatamente successivi, il mistero di quell’intenso, meraviglioso e terribile lungo momento teso tra la
visione e la scelta tra la comunità dei credenti nel Dio di Giacobbe che ancora attendevano l’arrivo del
Messia e gli happy fews che avevano compreso com’Egli fosse già arrivato. Tra chi aspettava ancora il
compimento dei Tempi e chi aveva compreso ch’essi già s’erano compiuti. Lì sta, almeno per noi, la chiave
di tutto. “...E, scacciatolo fuori della città, presero a lapidarlo. I testimoni deposero i manti ai piedi di un
giovane chiamato Saulo” (At 7,58). È così che facciamo la conoscenza con lui. Il quadro è quello della
testimonianza del diacono Stefano che, convocato – o a meglio dire trascinato a forza – dinanzi al sinedrio
dai componenti di alcune sinagoghe di “ellenizzati” (gli ebrei nati in seguito all’inizio della diaspora fuori da
Eretz Israel, ed ellenofoni, ma residenti in Gerusalemme), aveva testimoniato la sua visione: “Ecco, io vedo i
cieli aperti e il Figlio dell’Uomo che sta alla destra di Dio” (At 7,58). I lapidatori avevano agito rispettando la
Legge (Lv 24,14; Dt 17,10). E colui che evidentemente aveva ispirato e guidato i loro gesti era un “ellenista”
appartenente alla sinagoga di Cilicia e originario del suo capoluogo, Tarso. Un giovane fariseo tessitore di
tende, dottissimo nella Legge e ardente nel tutelarla.

Nella versione delle vicende compositive delle Scritture neotestamentarie


comunemente accettata, e formalmente legittimata dalla Chiesa di Roma, l’autore degli Atti degli Apostoli è il
medesimo identificabile in colui che ha steso il Vangelo detto “di Luca”: a sua volta un “ellenista”, un ebreo
nato nella città siriaca di Antiochia, che si associò a Paolo verso il 50 d.C. e lo accompagnò nel viaggio a
Gerusalemme, a cesarea e poi a Roma del 57-58. Non sono né molte, né sicure le notizie che abbiamo su
questi uomini e questi scritti, che pure stanno alla base della nostra tradizione, della nostra cultura e – per
quanti di noi sono credenti – della nostra fede. È Luca ad aver scritto per noi il “romanzo” di Sh’aul, nato a
Tarso tra il 5 e il 15 d.C., cittadino romano che quindi, in quanto tale, aveva scelto il nome di Paulus non solo
per assonanza con il suo nome ebraico, ma quasi per equilibrare in una scelta d’umiltà – lui, che si chiamava
come il primo re d’Israele – il destino che, secondo una diffusa credenza, sta racchiuso nei nomi. Paulus: “il
Piccolo”, “l’uomo dappoco”. Invece era un gigante. Nessun rivoluzionario ha mai avuto la sua forza, la sua
energia, il suo coraggio. Eppure, non c’è rivoluzionario che non si sia ispirato a lui, che non abbia desiderato
imitarlo, che non si sia sentito schiacciato dall’altezza di un modello inarrivabile in coerenza e in rigore.
Ricevuta in Gerusalemme un’educazione farisaica e rabbinica di alto livello come discepolo di Gamaliele il
Vecchio, incaricato dal Sommo sacerdote di reprimere il nascente cristianesimo in Siria, la visione che
spaventò il suo cavallo e che cambiò la sua vita, sulla strada di Damasco, va situata nel 38: non era poi così
giovane come potremmo pensarlo leggendo alla lettera – e in traduzione italiana – il testo degli Atti, dal
momento che nella migliore delle ipotesi aveva ormai passato la trentina, un’età già decisamente matura
per gli standard del tempo. Ma era, giuridicamente parlando, iuvenis secondo la consuetudine romana:
uomo nel pieno delle forze e perfettamente padrone di sé. Dagli Atti e dalle sue stesse Lettere sappiamo
quel che fece e quel che dobbiamo alla sua instancabilità di apostolo e di viaggiatore. È lui il testimone
definitivo di Gesù, il Figlio di Dio, il Vincitore della Morte. È lui ad aver affermato con forza che Dio vuole che
l’uomo sia libero, e che solo la fede giustifica. È lui ad aver lucidamente affermato il paradosso cristiano: la
legge uccide e lo spirito vivifica, e quindi nel Cristo qualunque legge è abolita, il che significa che ciascuno
deve seguire la propria legge con gioiosa adesione ad essa, nella libertà dell’amore. Non vi sono più né
uomini né donne, né schiavi né padroni, ma tutti sono liberati e fratelli nel grande Liberatore: ed è in Lui che
l’uomo deve amare la sua donna e questa essergli fedele, e che il padrone deve comandare allo schiavo
secondo giustizia e lo schiavo servigli in letizia, e che “ogni persona sia soggetta alle autorità costituite:
perché non vi è autorità se non da Dio, e quelle che di fatto esistono sono ordinate da Dio (Rm 13,1). È
grazie a Paolo, ebreo e fariseo, che i non-ebrei sono entrati nella casa del padre, che sono stati fatti
compartecipare all’eredità d’Israele e che esso, facendo ingresso nel tempo dello Spirito ch’è supreema
Libertà, si è liberato dal segno impresso sulla sua carne e dai divieti rituali che segnavano il tempo della
Legge.
Il medioevo lo volle “cavaliere delle Due Spade”, come lo si vede nel ritratto di Luca Cranach il Vecchio oggi
conservato al museo di Moulins. La prima spada è quelle che fu lo strumento del suo martirio,
probabilmente verso il 67, alle Acquae Salviae di Roma: il luogo ch’è oggi “delle Tre Fontane” a ricordo della
sua triplice invocazione di Gesù all’atto del martirio e dei tre punti dai quali la sua testa, rimbalzando sul
terreno, fece sgorgare tre fonti d’acqua purissima. Quella “spada”, che gli dette una morte onorevole, con
spargimento di sangue, com’era suo diritto in quanto cittadino romano, era nella realtà storica, giuridica e
archeologica la scure littoria. L’altra spada, quella più propriamente “sua”, che gli appartiene come le chiavi
del Regno appartengono al suo amico e fraterno rivale Simone detto Pietro, è il “Gladio dello Spirito, che è
la parola di Dio” (Ef, 6,16).

Venero e ammiro Paolo, grazie al quale anch’io – che non ho ricevuto per nascita l’onore di appartenere al
popolo Eletto – sono a mia volta, in quanto cristiano, partecipe dell’eredità d’Israele. Confesso di non riuscire
ad amarlo. Forse perché sono troppo profondamente immerso nel mio “mestiere di storico”: quando penso a
lui, l’analogia storica mi conduce sempre a coloro che, imperfettamente o magari empiamente, hanno
comunque seguito il suo modello. E penso a Robespierre, a Lenin: ai grandi convertiti, ai grandi rivoluzionari.
Confesso di non amare granché nemmeno i convertiti. Come cattolico tradizionalista, sono conscio della
profondità della Tradizione alla quale appartengo; e non sono ignaro nemmeno dell’altezza delle tradizioni
“altre” rispetto alla mia, a cominciare da quelle ebraiche e musulmane rispetto alle quali, proprio in quanto
cattolico e quindi cristiano, non riesco a sentirmi del tutto estraneo. Anzi, so di non esserlo affatto: e ne sono
felice, e me ne vanto. Ma mi chiedo sempre in forza di quale specialissima grazia, o nel nome di quale
innominabile atto di superbia, chiunque di noi può essere convinto di conoscere così a fondo e sul serio sia
la propria tradizione, sia qualcun’altra, da poter senza timore e tremore profondi far il passo tremendo che
consiste nell’abbandonare quella per abbracciare questa. So bene che non c’è convertito (che in quanto tale
diventa il fratello privilegiato della comunità che lo ospita) che non sia anche un apostata, un traditore, un
rèprobo per quella che egli ha abbandonato: è del resto perfettamente comprensibile che gli ebrei
chiedessero con insistenza tanto accanita all’autorità romana giustizia contro quel Saul divenuto Paolo.
Astraggo bensì da chi si converte alla fede del vincitore, magari all’ultimo istante: la storia è piena di questi
personaggi infami. Semmai, posso ammirare uomini come Nicola Bombacci: comunista nel ’25, fascista
vent’anni dopo, in totale controtendenza con milioni di suoi concittadini – il popolo più abile del mondo a
correre in aiuto al vincitore -, e morto per questo. È difficile negargli se non altro onestà e buona fede: per
quanto qualcuno, comodamente assiso alla sua scrivania di giornalista o di storico o di sedicente tale, ci
abbia provato. Ma dall’ammirazione all’amore il passo è spesso lunghissimo. Nei confronti di Paolo di Tarso,
tessitore e fariseo, epistolografo sommo e Doctor Gentium, confesso di non avercela fatta.
Per questo ho cercato Saul-Paolo, l’uomo della penna e della spada, nel tratto della mia amica artista, Maria
Paola Forlani, una pittrice che ammiro da anni e alla quale sono profondamente debitore per quattro ragioni:
soprattutto perché mi richiama alla “mia” dolce adorata Ferrara; poi perché custodisce la cara e fedele
memoria d’un grande intellettuale ch’era anche un grande uomo di Dio, Franco Patruno; quindi per le
opere con le quali ha illustrato alcuni miei scritti, per una deliziosa “Madonna del Gatto” azzurra e oro che ha
dipinto appositamente per me (che ho la Vergine Maria e i piccoli felini al vertice dei miei più appassionati
amori, e giuro che l’accostamento non è blasfemo, e maranatha su chi pensa il contrario: c’è qualcosa più di
un gattino che somigli al Bambino Gesù?); infine perché mi vizia regalandomi di tanto in tanto un
panpepato o una “salama da sugo” che mi riconducono magicamente, con gli occhi della mente e con quelli
(acutissimi) del palato, a quando ventiseienne mi aggiravo, col bavero del mio cappotto grigiazzurro di
sottotenente d’aeronautica rialzato, tra le nebbie del fossato di Castello e i portici adiacenti Casa Cini. Ho per
molte tempo immaginato Paolo appoggiandomi alle Scritture neotestamentarie e alle sue immagini
tradizionali, specie quelle delle icone bizantine che lo ritraggono alto, austero, stempiato. Lo confronto
adesso con le immagini violentemente cromatiche, immerse in un Oriente onirico, a tratti sensuali che invece
Maria Paola ce ne offre e che sono il frutto di un altro approccio, di una diversa lettura. Ho qui dinanzi a me
due disegni che Maria Paola mi dedica, nel suo prediletto monocromo azzurro che lei sa quanto mi piaccia.
Un Paolo caduto da cavallo, un Paolo intento a scrivere sotto la custodia attenta, severa ma anche assorta e
benevola d’un legionario romano. È Saul, tessitore di Tarso, il vero fondatore dell’impero romano cristiano:
tre secoli prima del grande Teodosio. Ma quel che mi sorprende di più e quasi mi sconvolge, in questa
rilettura artistica degli Atti e delle Lettere, è la dolce e delicata figura di Lidia, la venditrice di porpora di Filippi
di Macedonia: Lidia, che poi forse no si chiamava così, ma così l’avevano soprannominata in quanto
proveniente dal capoluogo appunto della Lidia, Tiatira. Quanto spesso il destino dei grandi s’intreccia con
quello di persone che, a distanza, la nostra ignoranza e la nostra insensibilità ci fa sentire come secondarie”,
minori”, magari insignificanti. Mi sono immaginato il battesimo di questa ragazza o donna, non se ne sa di
più, anch’essa “adoratrice di Dio”, quindi un’ebrea “ellenizzata”. Chissà com’era, chissà quanto forti e
appassionate dovettero essere le sue insistenze, se “costrinse” Paolo ad accettare l’ospitalità sua e della
sua famiglia. Sappiamo bene che Paolo avvertiva il pungiglione della carne, per quanto avesse scelto
l’astinenza. Chissà che Lidia non abbia, con quel pudore un po’ malizioso delle brave ragazze, utilizzato
anche un po’ delle sue grazie, del suo fascino, per convincere l’austero servitore del Risorto. A volte basta
poco: uno sguardo, uno sfiorar di mano, un sorriso che scopre denti candidi e disegna due fossette sulle
guance. Ho sempre pensato che anche Gesù, al pozzo di Sichem, deve aver provato qualcosa del genere
per la samaritana che gli porgeva da bere: e che magari non sarà stata granché come brava ragazza, ma
era forse bella comunque, e Gesù, Vero Dio e Vero Uomo, come tale non poteva non apprezzare la bellezza
muliebre per quanto praticasse la castità. la storia, forse anche quella sacra, cammina anche per queste vie:
ed è sacrosantamente vero che la storia sarebbe stata diversa se il naso di Cleopatra fosse stato più lungo.
È grazie alle immagini create da Paola, così piene di colore e di movimento violenti – ma la Damasco
notturna del silenzioso viaggio di Paolo calato nel cesto non si dimentica facilmente – che ho imparato a
legger meglio gli Atti. Lidia, che ricorda tanto la Marta evangelica, mi è era, lo confesso, sfuggita. Ora la
sento come una vecchia amica: come se anch’io fossi entrato nella sua casa modesta, avessi riposato le
gambe stanche sulla stoia che essa mi offriva, avessi goduto della frescura della sua acqua e del suo vino.
Grazie per il tuo Apostolo delle Genti, Maria Paola. Mi accorgo solo ora ch’è anche il tuo patrono. Non mi
stupirei se ti avesse suggerito qualcosa di sé che non sta nella Scrittura. Chissà: magari qualcosa su Lidia.

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