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Non furono gli evangelisti, e nemmeno gli altri apostoli, a testimoniare con forza e con chiarezza inaudita la
realtà, il nucleo profondo e folgorante, della Buona Novella. Il mistero sconvolgente dell’Incarnazione e della
presenza reale di Dio tra gli uomini; la vittoria sulla morte; il messaggio del Signore dell’Universo non al solo
eletto popolo d’Israele, bensì a tutta le terra e a tutti gli esseri umani e tutti i tempi. Verrebbe da pensare – e
non so quanti teologi e quanti storici del primo cristianesimo sarebbero d’accordo – che quel che della
Buona Novella non era passato dal magistero del Salvatore ai suoi discepoli o ai loro immediati seguaci,
insomma agli evangelisti, passò attraverso quel dialogo fulminante, davvero rapido come la folgore, là sulla
via che da Gerusalemme conduce a Damasco. Quel lampo abbagliante, e il cavallo che s’impenna, e il
tuono della Voce, e le tenebre subito dopo... Vorremmo penetrare i lunghi istanti che seguirono, i giorni
immediatamente successivi, il mistero di quell’intenso, meraviglioso e terribile lungo momento teso tra la
visione e la scelta tra la comunità dei credenti nel Dio di Giacobbe che ancora attendevano l’arrivo del
Messia e gli happy fews che avevano compreso com’Egli fosse già arrivato. Tra chi aspettava ancora il
compimento dei Tempi e chi aveva compreso ch’essi già s’erano compiuti. Lì sta, almeno per noi, la chiave
di tutto. “...E, scacciatolo fuori della città, presero a lapidarlo. I testimoni deposero i manti ai piedi di un
giovane chiamato Saulo” (At 7,58). È così che facciamo la conoscenza con lui. Il quadro è quello della
testimonianza del diacono Stefano che, convocato – o a meglio dire trascinato a forza – dinanzi al sinedrio
dai componenti di alcune sinagoghe di “ellenizzati” (gli ebrei nati in seguito all’inizio della diaspora fuori da
Eretz Israel, ed ellenofoni, ma residenti in Gerusalemme), aveva testimoniato la sua visione: “Ecco, io vedo i
cieli aperti e il Figlio dell’Uomo che sta alla destra di Dio” (At 7,58). I lapidatori avevano agito rispettando la
Legge (Lv 24,14; Dt 17,10). E colui che evidentemente aveva ispirato e guidato i loro gesti era un “ellenista”
appartenente alla sinagoga di Cilicia e originario del suo capoluogo, Tarso. Un giovane fariseo tessitore di
tende, dottissimo nella Legge e ardente nel tutelarla.
Venero e ammiro Paolo, grazie al quale anch’io – che non ho ricevuto per nascita l’onore di appartenere al
popolo Eletto – sono a mia volta, in quanto cristiano, partecipe dell’eredità d’Israele. Confesso di non riuscire
ad amarlo. Forse perché sono troppo profondamente immerso nel mio “mestiere di storico”: quando penso a
lui, l’analogia storica mi conduce sempre a coloro che, imperfettamente o magari empiamente, hanno
comunque seguito il suo modello. E penso a Robespierre, a Lenin: ai grandi convertiti, ai grandi rivoluzionari.
Confesso di non amare granché nemmeno i convertiti. Come cattolico tradizionalista, sono conscio della
profondità della Tradizione alla quale appartengo; e non sono ignaro nemmeno dell’altezza delle tradizioni
“altre” rispetto alla mia, a cominciare da quelle ebraiche e musulmane rispetto alle quali, proprio in quanto
cattolico e quindi cristiano, non riesco a sentirmi del tutto estraneo. Anzi, so di non esserlo affatto: e ne sono
felice, e me ne vanto. Ma mi chiedo sempre in forza di quale specialissima grazia, o nel nome di quale
innominabile atto di superbia, chiunque di noi può essere convinto di conoscere così a fondo e sul serio sia
la propria tradizione, sia qualcun’altra, da poter senza timore e tremore profondi far il passo tremendo che
consiste nell’abbandonare quella per abbracciare questa. So bene che non c’è convertito (che in quanto tale
diventa il fratello privilegiato della comunità che lo ospita) che non sia anche un apostata, un traditore, un
rèprobo per quella che egli ha abbandonato: è del resto perfettamente comprensibile che gli ebrei
chiedessero con insistenza tanto accanita all’autorità romana giustizia contro quel Saul divenuto Paolo.
Astraggo bensì da chi si converte alla fede del vincitore, magari all’ultimo istante: la storia è piena di questi
personaggi infami. Semmai, posso ammirare uomini come Nicola Bombacci: comunista nel ’25, fascista
vent’anni dopo, in totale controtendenza con milioni di suoi concittadini – il popolo più abile del mondo a
correre in aiuto al vincitore -, e morto per questo. È difficile negargli se non altro onestà e buona fede: per
quanto qualcuno, comodamente assiso alla sua scrivania di giornalista o di storico o di sedicente tale, ci
abbia provato. Ma dall’ammirazione all’amore il passo è spesso lunghissimo. Nei confronti di Paolo di Tarso,
tessitore e fariseo, epistolografo sommo e Doctor Gentium, confesso di non avercela fatta.
Per questo ho cercato Saul-Paolo, l’uomo della penna e della spada, nel tratto della mia amica artista, Maria
Paola Forlani, una pittrice che ammiro da anni e alla quale sono profondamente debitore per quattro ragioni:
soprattutto perché mi richiama alla “mia” dolce adorata Ferrara; poi perché custodisce la cara e fedele
memoria d’un grande intellettuale ch’era anche un grande uomo di Dio, Franco Patruno; quindi per le
opere con le quali ha illustrato alcuni miei scritti, per una deliziosa “Madonna del Gatto” azzurra e oro che ha
dipinto appositamente per me (che ho la Vergine Maria e i piccoli felini al vertice dei miei più appassionati
amori, e giuro che l’accostamento non è blasfemo, e maranatha su chi pensa il contrario: c’è qualcosa più di
un gattino che somigli al Bambino Gesù?); infine perché mi vizia regalandomi di tanto in tanto un
panpepato o una “salama da sugo” che mi riconducono magicamente, con gli occhi della mente e con quelli
(acutissimi) del palato, a quando ventiseienne mi aggiravo, col bavero del mio cappotto grigiazzurro di
sottotenente d’aeronautica rialzato, tra le nebbie del fossato di Castello e i portici adiacenti Casa Cini. Ho per
molte tempo immaginato Paolo appoggiandomi alle Scritture neotestamentarie e alle sue immagini
tradizionali, specie quelle delle icone bizantine che lo ritraggono alto, austero, stempiato. Lo confronto
adesso con le immagini violentemente cromatiche, immerse in un Oriente onirico, a tratti sensuali che invece
Maria Paola ce ne offre e che sono il frutto di un altro approccio, di una diversa lettura. Ho qui dinanzi a me
due disegni che Maria Paola mi dedica, nel suo prediletto monocromo azzurro che lei sa quanto mi piaccia.
Un Paolo caduto da cavallo, un Paolo intento a scrivere sotto la custodia attenta, severa ma anche assorta e
benevola d’un legionario romano. È Saul, tessitore di Tarso, il vero fondatore dell’impero romano cristiano:
tre secoli prima del grande Teodosio. Ma quel che mi sorprende di più e quasi mi sconvolge, in questa
rilettura artistica degli Atti e delle Lettere, è la dolce e delicata figura di Lidia, la venditrice di porpora di Filippi
di Macedonia: Lidia, che poi forse no si chiamava così, ma così l’avevano soprannominata in quanto
proveniente dal capoluogo appunto della Lidia, Tiatira. Quanto spesso il destino dei grandi s’intreccia con
quello di persone che, a distanza, la nostra ignoranza e la nostra insensibilità ci fa sentire come secondarie”,
minori”, magari insignificanti. Mi sono immaginato il battesimo di questa ragazza o donna, non se ne sa di
più, anch’essa “adoratrice di Dio”, quindi un’ebrea “ellenizzata”. Chissà com’era, chissà quanto forti e
appassionate dovettero essere le sue insistenze, se “costrinse” Paolo ad accettare l’ospitalità sua e della
sua famiglia. Sappiamo bene che Paolo avvertiva il pungiglione della carne, per quanto avesse scelto
l’astinenza. Chissà che Lidia non abbia, con quel pudore un po’ malizioso delle brave ragazze, utilizzato
anche un po’ delle sue grazie, del suo fascino, per convincere l’austero servitore del Risorto. A volte basta
poco: uno sguardo, uno sfiorar di mano, un sorriso che scopre denti candidi e disegna due fossette sulle
guance. Ho sempre pensato che anche Gesù, al pozzo di Sichem, deve aver provato qualcosa del genere
per la samaritana che gli porgeva da bere: e che magari non sarà stata granché come brava ragazza, ma
era forse bella comunque, e Gesù, Vero Dio e Vero Uomo, come tale non poteva non apprezzare la bellezza
muliebre per quanto praticasse la castità. la storia, forse anche quella sacra, cammina anche per queste vie:
ed è sacrosantamente vero che la storia sarebbe stata diversa se il naso di Cleopatra fosse stato più lungo.
È grazie alle immagini create da Paola, così piene di colore e di movimento violenti – ma la Damasco
notturna del silenzioso viaggio di Paolo calato nel cesto non si dimentica facilmente – che ho imparato a
legger meglio gli Atti. Lidia, che ricorda tanto la Marta evangelica, mi è era, lo confesso, sfuggita. Ora la
sento come una vecchia amica: come se anch’io fossi entrato nella sua casa modesta, avessi riposato le
gambe stanche sulla stoia che essa mi offriva, avessi goduto della frescura della sua acqua e del suo vino.
Grazie per il tuo Apostolo delle Genti, Maria Paola. Mi accorgo solo ora ch’è anche il tuo patrono. Non mi
stupirei se ti avesse suggerito qualcosa di sé che non sta nella Scrittura. Chissà: magari qualcosa su Lidia.