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Maurizio Blondet

Che cos’era il katechon


03 Marzo 2013

Nella seconda lettera ai fedeli di Tessalonica, che sono sotto persecuzione, l’apostolo
Paolo li esorta a non credere... «che il giorno del Signore sia imminente. Nessuno vi
inganni in alcun modo! Prima infatti dovrà avvenire l’apostasia e dovrà essere
rivelato l’uomo iniquo, il figlio della perdizione, colui che si contrappone e s’innalza
sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di
Dio, additando se stesso come Dio».

E poi aggiunge: «Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, venivo dicendo
queste cose? E ora sapete ciò che impedisce (katechon) la sua manifestazione, che
avverrà nella sua ora. Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia
tolto di mezzo chi finora lo trattiene. Solo allora sarà rivelato l’empio e il Signore
Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà». 

Il «mistero», l’enigma del Katechon comincia qui. Il contesto apocalittico in cui Paolo
lo inserisce, il fatto che ne parli una volta al neutro («qualcosa» che trattiene) e poco
sotto come una persona («chi» lo trattiene), hanno fatto versare fiumi d’inchiostro
nei secoli, suscitato fiumi di fertili riflessioni, di interpretazioni, di ipotesi e di
elucubrazioni: da ultimo quelle ricorrenti di Massimo Cacciari, anche nel suo ultimo
saggetto, «Il potere che frena». Dal risvolto di copertina recita «Chi, o cosa, è questa
forza che frena al contempo lo scatenamento del male e la vittoria del bene? E come,
tale funzione, va interpretata – come espressione diabolica o come forza spirituale?».
Per Tomaso d’Aquino, il katechon è il Romanum Imperium, e per estensione
analogica ogni Stato che rispetti il diritto romano, ossia il diritto naturale – non leggi
inventate dai potenti, bensì la giustizia iscritta nel cuore umano; Carl Schmitt, il
grande filosofo della politica, cattolico, ne fa il centro delle sue riflessioni sullo Stato.
L’insinuazione di Cacciari, che il katechon trattenga con la sua forza legale anche il
trionfo finale del Bene, è parte di una secolare tradizione gnostica anti-romana, e
anticristiana. Che nei nostri tempi ha trovato espressione rilevante nel rabbino Jacob
Taubes (1923-1987), interlocutore ostile di Carl Schmitt. Nel suo studio «La Teologia
politica di San Paolo» (adelphi ovviamente), Taubes deride la Chiesa cattolica che
«prega per la salvaguardia dello Stato perché – Dio ne scampi – se esso non tiene si
deve fare i conti con il caos o, peggio ancora, con il Regno di Dio». S’intende che
Taubes intende invece accelerare quel «regno di Dio» che si rivelerà come liberazione
da ogni legge, come caos, come «forze che non siamo in grado di controllare». E sul
katechon dice: «colui-che-trattiene, che impedisce al caos di emergere... non è questa
la mia concezione del mondo. Come apocalittico, direi: che vada pure a fondo. Non ho
alcun investimento spirituale nel mondo com’è». Perenne posizione gnostica ed
ebraica. In Taubes, l’ebraismo si conferma come l’anti-Katechon per essenza, ossia la
forza dissolutrice in essenza, quella che vuole e prepara avidamente l’avvento di Colui
che porterà (per dirla con Cacciari) «la libertà dalla Legge come libertà assoluta», e
che è l’Anomos, il Filius Perditionis, il vero ed ultimo «liberatore», superiore al
Figlio. L’odio al katechon è dunque radicalmente anti-cristiano: Cristo è venuto a dire
che della Legge non è stato abolito «nemmeno uno jota».

Ma tutto questo rischia di farci dimenticare la domanda che si deve porre lo storico:
che cosa intendeva Paolo con il katechon? Che significato gli dava lui, ai suoi tempi,
verso l’anno 51 dopo Cristo quando scrive la seconda lettera ai Tessalonicesi? E
perché ne parla per allusioni e non chiaramente? Concretamente, a cosa di preciso si
riferiva? È possibile sciogliere l’enigma, il mistero che ha travagliato i secoli?

È possibile. Lo è grazie agli studi, indagini e geniali interpretazioni delle fonti di


Marta Sordi, la compianta romanista della Cattolica, e del suo gruppo di studio. La
chiave principale per capire è Tertulliano, l’apologista cristiano vissuto tra il 150 e il
230 circa dopo Cristo. Tutto è chiaramente scritto, se lo si vuol capire.

Nel suo trattato «Apologeticum» a difesa del diritto dei cristiani di professare la loro
fede, idealmente pronunciato davanti a magistrati romani, Tertulliano racconta che
«al tempo in cui il Cristianesimo entrò nel mondo, Tiberio(imperatore) sottopose al
Senato i fatti annunziatigli dalla Palestina, dove si era rivelata la Divinità stessa, e
votò egli per primo a favore. Il Senato votò contro, perché quei fatti non aveva esso
approvati. Cesare (Tiberio) restò del suo parere, minacciando gli accusatori dei
cristiani. Consultate le vostre memorie», conclude; ossia i vostri archivi, e vedrete
che è andata così.

Tertulliano sta spiegando come nacque il fatale senatoconsulto (ossia il decreto


senatoriale, avente forza di legge) che recitava: «Non licet esse christianos», e
formava la base legale per la loro persecuzione. Tiberio, meglio informato della nuova
fede che stava tumultuosamente conquistando gli ebrei in Palestina, quasi certamente
da un rapporto di Pilato, aveva proposto che essa venisse riconosciuta (religio licita);
il Senato aveva votato contro per ripicca, in quanto il riconoscimento di nuove
religioni era di sua competenza, non del princeps; sentendosi scavalcato, aveva votato
il cristianesimo «religio illicita». A quel punto, Tiberio non aveva potuto far altro che
porre il veto imperiale, ossia sospendere l’esecuzione del senatocosulto finché lui
regnava. Una tipica situazione politica del tempo: è noto che Tiberio e il Senato si
detestavano reciprocamente, e che il potere di Cesare (princeps) era lungi dall’essere
illimitato.

Questo passo cruciale di Tertulliano è noto da sempre, ma gli storici (iper-critici,


quando si tratta di testimonianze cristiane) l’hanno considerato un’invenzione
apologetica del cartaginese, che non poteva aver conoscenza dei fatti avvenuti quasi
due secoli prima. Ma perché mai Tertulliano avrebbe dovuto inventarsi una cosa
simile? Nemmeno avrebbe potuto: si rivolge a magistrati che esercitano la giustizia
nelle provincie (Romani imperii antistites), e dunque sono esperti. Il suo discorso è
tecnicamente una orazione forense (Tertulliano era avvocato), e vuol dimostrare che i
processi contro i cristiani non hanno fondamento giuridico. Se avesse potuto, avrebbe
dimostrato che non esisteva il fatale senatoconsulto; non potendo negarlo, perché era
ben noto ai giudici, dimostra che l’imperatore dell’epoca vi era contrario. Si inventava
la storia del veto di Tiberio? Ma se è lui stesso che sfida i giudici a «consultare gli
archivi», dove troveranno la conferma delle sue asserzioni!

Tanto più che Marta Sordi ha raccolto indizi e fonti indipendenti a conferma. Di una
relazione di Pilato a Tiberio scrivono autori cristiani, come al solito non creduti dagli
storici; ma che il procuratore abbia dovuto fare una relazione a Roma, non è solo è
plausibile, ma assai realistico: dopo la crocifissione di Gesù, la Palestina – sempre
sediziosa – ribolliva, e mentre la nuova fede si spargeva come un fuoco nella steppa, il
sinedrio aveva avviato processi ed esecuzioni abusive – come quella di Stefano,
protomartire, per lapidazione, tipica esecuzione giudaica. Cosa che Roma non poteva
tollerare: nelle provincie, i processi capitali e la pena di morte erano prerogativa che i
romani si riservavano in esclusiva.

E c’è prova indipendente di tutto ciò. È noto da Giuseppe Flavio che Tiberio nominò
un suo plenipotenziario e inviato speciale, L. Vitellio, per risolvere diverse questioni
aperte in Medio Oriente, fra cui quella giudaica. Piombato a Gerusalemme nel 36 o 37
d.C., Vitellio prende due provvedimenti immediati: primo, solleva Pilato e lo
sostituisce con un suo amico ed accompagnatore di nome Marcello; secondo,
destituisce il gran sacerdote Caifa, quello stesso che condannato Gesù nel processo
notturno al sinedrio, attestato dai Vangeli. Vitellio non lo destituì per questo, perché
l’esecuzione di Cristo era stata la crocifissione romana, ordinata da Pilato quindi
«legale», ma sicuramente come mandante delle esecuzioni illegali di Stefano e di
Giacomo per lapidazione; con ciò, ponendo temporaneamente fine alle persecuzioni
dei giudei. Il diritto, per i romani, era una cosa seria. Lo facevano rispettare.

Ma come poteva sapere questi dettagli Flavio Giuseppe, scrittore ebreo che scrive al
tempo di Tito, ossia 50 anni dopo? Probabilmente dai «Commentarii» che Vitellio
stesso scrisse sulla sua missione in Oriente, praticamente un diario politico. Attestati
da vari autori, i Commentarii di Vitellio non sono giunti fino a noi; ma è sicuro che
un così importante uomo di Stato, incaricato di una missione così delicata, avesse
tenuto un diario dei fatti sia per il rapporto finale che sicuramente fece a Tiberio, sia
per coprirsi le spalle – come suole – per pararsi le spalle da critici e nemici, fossero di
corte o senatorii o di una nota lobby. Occorre ricordare che i capi giudei spaventarono
Pilato, forzandolo a crocifiggere il «Re dei giudei», minacciando allusivamente di far
avere un rapporto contro di lui «a Cesare». Quei Commentarii dovevano essere negli
archivi di Stato, ed accessibili agli storici. Lo stesso Tertulliano sembra averli letti.

Tanto più necessario tenere un diario delle sue azioni, per Vitellio, in quanto
l’imprevisto senatoconsulto che rendeva illicita la nuova religione, intervenuto
probabilmente proprio mentre era in missione, lo rendeva passibile, in pratica, di
essersi fatto protettore di una fede «vietata». Il veto (e la protezione) di Tiberio per il
momento lo copriva. Ma Vitellio era un potente in carriera in uno dei periodi più
complicati, instabili e pericolosi della politica romana. Infatti nel 43, un cinque anni
dopo il suo invio a Gerusalemme, lo troviamo console a Roma: e con poteri
straordinari. Glieli aveva conferiti Claudio, imperatore, durante la sua assenza – una
spedizione in Britannia. Del resto, la sua famiglia – gens Vitellia – era d’alto rango; il
figlio di L. Vitellio si farà acclamare imperatore dalle truppe e sarà imperatore per
pochi mesi nel 69 d.C.

Curiosamente, è proprio mentre Vitellio-padre è console con pieni poteri nella


capitale, che Pietro – sottratto al carcere in Gerusalemme e alle persecuzioni
ebraiche, come raccontano gli Atti degli Apostoli – trova rifugio a Roma, e (secondo
Eusebio) predica, avendo Marco (futuro evangelista) come interprete simultaneo, «di
fronte a certi cesariani», ossia esponenti della casa imperiale; anzi, secondo un
apocrifo del II secolo (Atti di Pietro), l’apostolo sarebbe stato ospitato da importanti
personaggi di rango senatorio, e in particolare da un tale Marcello: nome nobiliare. E
sarà stato quello stesso Marcello che sostituì Pilato a Gerusalemme?

Nulla ce lo conferma. Ma tutto quel che abbiamo visto fin qui ci suggerisce che i
potenti circoli dei fiduciari di Tiberio (e Claudio), personaggi molto addentro al
potere, stendono la loro mano protettrice sulla «nuova setta» e senza troppo parere,
sotto aspetto di neutralità, la difendono dall’odio giudaico. Ciò non è nient’affatto
strano, anzi una costante della dominazione romana: appena creata la provincia
giudaica, essi avevano «riconosciuto» legalmente i Samaritani, sottraendoli alle
angherie della tutela religiosa giudaica (e così assicurandosene la fedeltà).

Certo il senatoconsulto che dichiarava illicita la nuova setta (quella ebraica invece era
«licita»), metteva questi potenti protettori in una posizione delicata. Ma perché allora
non se ne lavano le mani e se ne tengono alla larga, ma sono apparentemente
interessati ad ascoltare i loro missionari e capi e forse addirittura ad ospitarli nelle
loro case? Perché questo interesse è indubbio. Luca dedica il suo Vangelo a un
personaggio che chiama Teofilo, e già dà il titolo di «kratistos», corrispondente
all’appellativo di ossequio con cui ci si rivolgeva agli esponenti di classe equestre
(egregius). Paolo, nella Lettera ai Romani, parla di fedeli «nella casa di Narcisso»,
potentissimo liberto imperiale di Claudio, di fatto un ministro. Ci fu sicuramente
qualche conversione eccellente: fu processata, dice Tacito, per adesione a una
«superstitio externa», un culto importato (e vietato: non poteva essere che
cristianesimo) la gran dama Pomponia Graecina: nientemeno la moglie di Aulo
Plauzio, il generale che appunto nel 43 accompagnò Claudio nella spedizione in
Briutannia. La dama aveva suscitato sospetti perché aveva cessato di apparire agli
spettacoli del circo e alle cene fastose del suo ambiente, conducendo invece una vita
ritiratissima: imperdonabile per i romani, che bollavano lo straniarsi dalla vita
pubblica come una colpa spregevole, contemptissima inertia.
Ma proprio questo ci suggerisce il motivo profondo per cui Tiberio può aver voluto
favorire la religione nuova, e i suoi delegati l’hanno protetta e hanno voluto
conoscerne i fondamenti dalla viva voce dei missionari. Ovviamente, la speranza che
questa fede in grande avanzata in Palestina, non sediziosa, capace di tramutare il
messianismo ebraico in uno spirito meno anti-romano, aveva la sua parte in questo.
Ma più fondamentalmente, questi gruppi stavano lottando, nelle alte sfere del potere,
contro una concezione politica dell’impero che stava prendendo forza, che aveva
potenti fautori nella famiglia stessa di Augusto, e che essi giudicavano indegna del
nome romano: la riduzione dell’impero in dispotismo orientale, faraonico, asiatico.
Dall’Asia o dall’Egitto infatti venivano le sole esperienze di successo di questa forma
di governo, nuova per Roma, e dunque si imponevano da sé. Ma il gruppo tiberiano –
sostanzialmente nutrito di filosofia stoica – voleva restaurare le virtù romane
tradizionali: pietas, verecundia, frugalità, spirito civico e abnegazione, e farle servire
da solida base all’impero; ovviamente, vedeva che era un tentativo quasi disperato,
data la corruzione dilagante dei costumi, gli scandali e i lussi che avevano rammollito
e corrotto la tempra della classe dominante, e non da ultimo a causa dei riti orgiastici,
dionisiaci, isiaci o cibelici ed altre «superstitiones externae», a cui le grandi dame si
abbandonavano.

Questi uomini di Stato restauratori videro probabilmente nel cristianesimo una setta
«orientale» che però, fatto interessante, predicava ed ordinava castità e frugalità,
laboriosità, onestà, rispetto all’autorità; quei giudei pacifici sembrarono loro,
probabilmente, molto simili a degli stoici. Che per di più annunciavano imminenti
«tempi ultimi», apocalittiche rivelazioni e rivolgimenti, che sempre inquietano ed
interessano spasmodicamente i potenti che cercano di scrutare ansiosamente nel
futuro, per indovinare il loro.

Sì, davvero Tiberio era ben informato del nuovo movimento, e nulla di più facile che
volesse farlo fiorire e favorirlo non solo contro le trame persecutorie ebraiche (come
aveva Roma già fatto coi Samaritani), ma anche come parte di un vasto progetto
politico di restaurazione «romana» dell’impero; progetto che lo stolido rifiuto del
Senato (Senatus mala bestia) intaccò.

Questa ricostruzione sfata alcuni miti, primo fra quelli che il primo cristianesimo
avesse conquistato a Roma le infime plebi, il sottoproletariato promiscuo e
multinazionale che formicolava nell’Urbe; attrasse invece dapprima ambienti d’alto
livello sociale. E mostra un fatto cruciale mai sottolineato, credo, prima di Marta
Sordi: che i primi cristiani si trovarono, forse senza capirlo del tutto, presi nel mezzo
di uno straordinario conflitto fra due ideologie opposte e nemiche, due visioni
inconciliabili della forma da dare all’impero – se una teocrazia orientale o uno Stato
legale – che spaccava la più eccelsa classe dominante.

Quanto fosse dura e pericolosa una simile lotta si vide pochi anni dopo: quando
Nerone, rivoltandosi dai maestri e tutori che la madre Agrippina gli aveva messo
attorno essendo lui troppo giovane e che fecero di fatto da reggenti, se ne liberò con
spiccia brutalità: ordinò il suicidio al suo istitutore, il filosofo stoico Seneca, come
anche a Petronio detto Arbiter Elegantiae, autore delSatyricon ed uomo di polso
sotto l’affettazione di frivolezza, e di Trasea Peto, senatore e stoico; si liberò del
prefetto del pretorio Sesto Afranio Burro, soldato dai severi costumi, che era stato
tribuno militare con Tiberio; e già che c’era fece ammazzare la madre Agrippina,
troppo abile ed intrigante, che pretendeva controllarlo; insomma una epurazione in
piena regola, sanguinosa e sistematica, della vecchia guardia austera, che aveva
protetto i cristiani: ciò, va’ detto, tra gli applausi del popolino, che chiamava questa
vecchia guardia «aerumnosi Solones» (tristi Soloni, sapientoni) e a cui Nerone
annunciò come programma del suo governo la «laetitia»: allegria! Canti, suoni e
circo con l’imperatore in scena. Poi cominciò la persecuzione, la prima e durissima,
dei cristiani: saevos Solones, come recita un graffito inciso sul muro di un’osteria di
Pompei, datato al 64 d.C.

Pietro fu suppliziato. Centinaia di cristiani atrocemente appesi. Paolo decapitato


insieme al suo fedele compagno di viaggi e cronista, Luca; e ciò – si noti – dopo che
Paolo, che s’era appellato a Cesare, e dunque sotto processo, aveva vissuto a Roma
sotto blandissima sorveglianza (custodia libera) per due anni, e nel 57 o 58 era stato
definitivamente prosciolto, probabilmente dallo stesso Afranio Burro.

Ora, dopo questa ricostruzione, provate a rileggere il passo della Seconda


Tessalonicesi dove si parla del Katechon, e l’enigma svanisce. Diventa tutto chiaro.
Perché Paolo usa dapprima il neutro («ciò che trattiene la manifestazione»
dell’Iniquo) e poi il maschile («chi lo trattiene»): allude nel primo caso al veto
imperiale, e nel secondo a Tiberio, che col veto trattiene la persecuzione dallo
scatenarsi. Si intuisce anche il motivo per cui è così reticente, e non scrive nero su
bianco le cose, ma ricorda ai suoi fedeli tessalonicesi di averne parlato loro a voce: si
trattava di arcana imperii, di discorsi assai delicati e tutti interni al potere imperiale;
da non esporre in una lettera che per di più era destinata ad essere letta
pubblicamente davanti a piccole folle, tra cui non mancavano certo delatori. Fosse
stato esplicito, Paolo avrebbe esposto chi, nell’alta cerchia di potere, gli aveva fornito
quelle informazioni, e che nel nuovo clima era in pericolo: fra essi non è da escludere
Seneca in persona.

Sì, proprio Seneca: il filosofo, ricchissimo, potentissimo personaggio di corte. Non è


affatto impossibile. Gli Atti degli Apostoli (18, 12-17) narrano di come Paolo, a
Corinto, fu salvato dal linciaggio degli ebrei dal proconsole di Acaia, Giunio Gallione.
Orbene, Gallione era il fratello di Seneca. Niente di più facile che avesse dotato Paolo
di una lettera di raccomandazione. E quindi, una mattina, il prigioniero semi-libero
Paolo sarà apparso nella fastosa anticamera di Seneca, confuso tra la folla
di clientes venuti per il consueto ossequio al loro potente protettore, si sarà fatto
conoscere; può darsi ne sia diventato cliente, dunque protetto; e ne abbia attratto
l’attenzione con il suo vivace ingegno, la nobile intellettualità e il disinteresse
(quel cliens non chiedeva favori...), e forse la confidenza. Esistono, tramandate,
persino 14 lettere che si sarebbero scambiate Seneca e Paolo; ovviamente considerate
apocrife, comportano però dettagli che un falsario non poteva inventare – in una ad
esempio Seneca allude alla Domina, la quale è «indignata» con Paolo perché ha
abbandonato la sua vecchia fede: allusione a Poppea, moglie di Nerone, che sappiamo
sotto influenza dei circoli ebraici nella capitale , e che a Paolo volevano far la pelle.
Ma la questione se siano vere o false, ci porterebbe troppo lontano dal nostro
argomento.

Che è quello del katechon. Adesso, vediamo meglio che cosa intendeva Paolo: sapeva
che sui suoi convertiti pendeva una bufera di sangue e di morte; che si sarebbe
scatenata appena un princeps avesse avuto convenienza a dare applicazione al
senatoconsulto fatale. Questa era la spada di Damocle che pendeva su tutti loro: la
illiceità della fede cristiana sul piano giuridico. Sentiva, Paolo, che i tempi stavano
diventando ogni giorno più pericolosi, e prendeva il sopravvento l’ideologia teocratica
per cui un imperatore «si sarebbe fatto Dio, fino a sedere sul trono di Dio». Sapeva
che la protezione offerta, prima dal veto di Tiberio ed ora (morto Tiberio) da una
sorta di volonterosa e tacita disapplicazione dei cesariani amici, non era affatto
permanente né solida. Che presto sarebbe stato «tolto di mezzo» chi reggeva quel
fragile scudo: evento che egli, e la comunità, vedevano come apocalittica fine dei
tempi, avvento dell’Anticristo e tremenda necessaria tribolazione, quando « sarà
rivelato l’empio e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo
annienterà». E infatti poco mancò che fosse estinto il nome cristiano. 

***

L’indagine storica di cui sopra ha precisato il soggetto e il significato di katechon, gli


ha restituito una precisa e circostanziata identità; l’ha ricondotto alla situazione
specifica – e ai limiti – della politica dell’anno 50 d. C. Ciò vuol dire che l’ha
«relativizzato»? Che il katechon è per così dire «secolarizzato»? In altre parole: è
stata obliterata la sua potente evocazione metapolitica? 

No. Lo stesso Paolo, mentre scriveva le sue epistole per istruire i suoi convertiti, era
abitato dalla convinzione che l’attualità politica profana non è che l’eco della storia
sacra, e in definitiva un episodio della immane Battaglia in Cielo svolta «ab initio»,
che vide precipitare come stella cadente lo spirito chiamato Lucifer, e da allora «Non
Serviam». Le lettere paoline, come l’Apocalisse e gli Evangeli, sono Sacra Scrittura:
sono ispirate, e sempre lo Spirito, quando parla, lo fa per immagini ed archetipi
perenni. Il Figlio di Perdizione che s’innalza sopra ogni Dio può essere il Nerone che
allora infuriava, ma è anche figura dell’Anticristo finale, e di tutti gli anticristi
provvisori e parziali nel tempo di mezzo. Parimenti nei Vangeli: quando evoca
«l’abominio della desolazione sul luogo sacro», Gesù profetizza la distruzione del
Tempio del 70 d.C., ma simultaneamente la profanazione estrema e finale, che noi
non abbiamo ancora veduta. 

Nell’Apocalisse, la Bestia e il falso Agnello che governa in suo nome sono per
Giovanni la cerchia ebraica istigatrice attorno a Nerone, ma non cessano di essere
uno schema permanente e ricorrente, che vediamo all’opera ai nostri giorni nelle
stanze di comando dell’ultima superpotenza rimasta. Così lo Spirito ci ammaestra a
riconoscere il segni dei tempi dal germogliare del fico; un evento che torna ogni
primavera, è tornato e tornerà.

Se qualche cosa oblitera la storicizzazione del katechon, mi pare, sono le


elucubrazioni gnosticheggianti. Quelle che vaneggiano di una Chiesa che,
trattenendolo, terrebbe dentro di sé il male e l’Anticristo. Quelle che incitano a vivere
di «pura» fede, sotto la sola legge dell’Amore, rigettando tutto il potere «impuro» di
Cesare, lo Stato e il diritto.
Avete paura di vivere di puro amore?, ci dicono questi insinuanti, «non avete il
coraggio di affidarvi a Dio solo?». Non sono solo gli gnostici e i paganeggianti, ma
molti cattolici «adulti» a professare questa ostilità a Roma, a proclamare che la
Chiesa ha tradito Gesù da quando Costantino l’ha dichiarata religione di Stato, e ci
incitano a vivere di pura spiritualità, senza appoggi nella legge: dai dossettiani ai neo-
catecumenali, questi integralisti di un certo stampo sono legione.

Spero si colga in questo invito una replica di quello che si sentì fare Gesù: «Se sei
Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: Ai suoi angeli darà ordini a tuo
riguardo, ed essi ti sorreggeranno con le loro mani». E sappiamo da Lui come
dobbiamo rispondere: «Sta scritto: non tentare il Signore Dio tuo». La pretesa
umiltà di questi «puri» (catari) è superbia luciferina. Essa si accorda assai bene con
la fretta ebraica di toglier di mezzo ogni katechon col pretesto accelerare il Regno di
Dio quando, credono loro, si libereranno da ogni legge, e governerà la (loro) licenza.
Una fretta sacrilega, che Isaia maledice: «Guai a coloro che dicono: “si affretti,
acceleri l’opera sua, sicché possiamo vederla!”» (Is.5,19).

Noi che ci sappiamo fragili e peccatori, non presumiamo di poter vivere in una società
da cui Roma sia totalmente cancellata. Non solo ci atteniamo al detto di Gesù: «Date
a Cesare», sappiamo che il katechon è un potere a-cristiano. Sappiamo, come ci ha
mostrato l’indagine storica, che è un potere non religioso ma politico e radicalmente
sovrano: tanto da frenare la «legalità» con la sua mano sovrana, quando la legalità
diventa pericolosa alla vita umana. Sappiamo che è via via tolto di mezzo, sempre
meno solido nel difendere con la forza legittima il diritto; ma insieme sappiamo che il
poco è meno che niente, che non si deve «spezzare la canna fessa» e «spegnere il
lucignolo che fumiga», perché dopo quella non c’è la «liberazione» promessa da Colui
che ci disse «Sarete come dèi», ma lo scatenarsi dell’orgia omicida che «taglia le gole
alle fanciulle» (cito Roberto Calasso, il patron di Adelphi).

Attendiamo e intanto leggiamo con appassionata inquietudine, negli eventi politici, la


presenza del katechon e, col cuore stretto, il suo sinistro indebolimento.

In ciò ci sentiamo vicini a Carl Schmitt, peccatore cristiano, che nel suo Diario, alla
data del 19 dicembre 1947, annotò: «Credo nel katechon: è per me il solo modo di
capire la storia cristiana e trovarne il senso»; per poi aggiungere: «Si deve essere
capaci di identificare il katechon per ciascuna epoca degli ultimi 1948 anni. Quel
seggio non è mai stato vuoto, altrimenti avremmo cessato di esistere».

Al proposito, riporto un passo di Taubes, il suo interlocutore-nemico che andò a


cercare il gran vecchio giurista, a saggiarlo da vicino, a provocarlo sul grande tema:
«Una volta Carl Schmitt mi raccontò di essere stato caricato da Goering su un treno
notturno insieme ad altri consiglieri di Stato e professori tedeschi, fra cui anche
Heidegger, per prendere parte a Roma a un colloquio con Mussolini. E Mussolini gli
disse allora, nel 1934: “Salvi lo Stato dal partito!”».

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