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Historia magistra vitae (Aforisma o apoftègma?

)
La storia è maestra di prudenza, non di princìpi Edmund Burke
 
1. Il tema
Francis Fukujana ha scritto La fine della storia per affermare che dopo la caduta del
muro di Berlino tutto il mondo è destinato ad abbracciare il sistema di governo
liberal-democratico.
Questa lettura della storia non è diversa da quella che fece Polibio dopo la battaglia di
Pidna (168 a. C.). La Tuke (o dea Fortuna) - a partire da quel momento - aveva dato
alla storia un orientamento (o fine) e cioè la instauratio della romanitas, nel mondo
conosciuto. Questo dimostra che la storia è, e non è, magistra vitae; visto che, in gran
parte, è una produzione dello "spirito". (1)
A nostro giudizio la caduta del "muro" è soltanto la fine di un incubo, paragonabile a
Waterloo; che, per altro, nel sorriso hegeliano, è un momento della storia universale.
Napoleone, infatti, è volta a volta "uomo cosmico" e "guscio vuoto", a servizio dello
"Spirito".
Il marxismo-comunismo fu pericoloso non perché aveva come fine una proposta
sociale - superamento del capitalismo - ma perché aveva come programma primario la
socialistizzazione di tutto il mondo. Con la buona intenzione di sanare la malattia più
profonda dell'homo sapiens (e cioè la lotta di classe).
Breve: l'ipoteca della storia da parte di un gruppo fu il vero pericolo. Ma questo fu, ed
è, anche il pericolo dell'integrismo religioso (fondamentalismo) e comunque degli
etnocentrismi di qualsiasi estrazione, rimessisi in buona salute dopo la caduta del
"muro". La segreta aspirazione delle "religioni" - e tra queste, ahimè, dobbiamo
mettere anche il cristianesimo reale che a quel rango si è ridotto per avere smarrito la
connotazione originaria di "novità esistenziale" - non è quella di risolvere i problemi
che affliggono l'uomo, proponendo modelli pratici e luminosi; ma di imporre se stesse
per risolverli. E questo è cartesianesimo etico, filosofico, teologico. Il mezzo, cioè,
con cui si conosce, vale più dell'oggetto da conoscere. La mia religione, la mia
ideologia, la mia storia, anziché essere il medium quo conosco la realtà (risolvo il
problema) diventa il medium quod io conosco direttamente, bloccandomi così
l'accesso alla soluzione del problema.
In questo senso furono pericolose tutte le rivoluzioni e tutti gli imperialismi protesi
alla conquista di tutto lo spazio storico conosciuto, con la buona intenzione di avere la
pace, la giustizia, l'eguaglianza dentro alla monocultura vincente. Senza, per questo,
diventare formalmente intolleranti con i vinti. Tutti i paesi europei - quei medesimi
che oggi segnano il passo alla loro unione - hanno tentato, a turno, l'avventura del
"colpo grosso". Recentemente uno storico tedesco ha descritto Troia impegnata in una
guerra di conquista che la portò a un soffio dal dominio sul mondo; "finché la
coalizione nemica...".
Senza citare le due ultime guerre mondiali, dove fu tentato il colpo di reni per
unificare l'Europa (cervello del mondo), citeremo, per scrupolo didattico, la lezione
che Campanella aveva appreso dalla storia della sua epoca. Nei Discorsi (in Opere
scelte, ordinate e annotate da A. D'Ancona, 1854, vol. Il) ai Principi d'Italia egli dice
che "per bene loro e del cristianesimo, non debbono contraddire alla Monarchia di
Spagna, ma favorirla". La Spagna, infatti, era la potenza destinata a riunire, con la
forza, le nazioni del mondo, per poi consegnarle alla Chiesa che le governasse con
amore. La Spagna altro non era che un "braccio del cristianesimo". Per Campanella
"fu promesso ai Cristiani che aveano a dominar tutte le nazioni perché sono del ceppo
di David. Dunque si vede che questa Monarchia di Spagnoli, che tutte le nazioni
abbraccia e cinge il mondo, è quella stessa del Messia nella quale si mostra erede
dell'universo; et fiet unum ovile et unus Pastor". (Discorso IV).
E adesso? Adesso - come educatori e come pedagogisti gettiamo l'allarme - continua
la vecchia storia; la storia di sempre, già descritta da Tucidide nel famoso dialogo
Meli-Ateniesi (L. V), per decidere chi deve comandare. In quella vecchia storia si
annida il virus che ci spingerà verso altre avventure omnicomprensive e il virus è
l'eterno etnocentrismo che si rivela nel nazionalismo e nell'idea di nazione. Gide ha
detto che i nazionalismi hanno "un grande odio e un piccolo amore"; mentre
Feuerbach aveva precisato che "il politeismo esisterà fintanto che vi sarà più di un
popolo. Il reale Dio di un popolo è il point d'honneur della sua nazionalità" (Essenza
del cristianesimo). (2)
Per mettere un diserbante dentro alla virtuale vegetazione del sottobosco nazionalista-
etnocentrico - e cioè a fenomeni come i naziskin, le faide etniche, i razzismi, gli
antisemitismi, e simili - si dice che la scuola è lo strumento primario e più utile per
un'educazione, più diffusa e approfondita, ai valori del pluralismo e alla pacifica
convivenza di etnie e gruppi linguistici e razziali e religiosi diversi. E' ciò possibile?
Procediamo con ordine e vediamo com'è fatta la bocca del cavallo.
2. I lontani semantemi
Nel libro II del De Oratore, Cicerone parla della memoria come fattore dell'eloquenza;
ma anche come tesoro o cumulo dei fatti e dei pensieri della tradizione storica. In
questo caso la storia è la memoria del genere umano. Custodisce ciò che abbiamo
scoperto ed è lo strumento per ritenere ciò che abbiamo inteso. Senza di essa, infatti,
ogni nostra conoscenza andrebbe perduta.(3) Ogni cosa può essere oggetto di
eloquenza; ma la vita passata degli uomini (il passato umano) è un campo più esteso
del presente, appartiene perciò alla facoltà oratoria. Il documento, infatti, è sì cosa in
sé preso, ma è pur sempre opera di "spirito".
Dunque: se la storia è "fedele testimonio dei tempi e delle età, luce della verità"(4)
vita della memoria, maestra della vita, (5) messaggera dell'antichità, da chi viene essa
resa immortale se non dalla voce dell'oratore? Lo storico, quindi, vale solo in quanto è
eloquente e cioè persuade con la forza dei fatti, espressi dalla sua pienezza parlante
(Historia opus oratorium maxime). E' dunque la storia una "parte importante della
retorica". (6) Come si vede, non viene approfondito il concetto di storia. Il passato,
con i suoi vizi e le sue virtù, per imprimersi in noi e per piacerci, deve essere espresso
con belle parole persuasive. E intanto la signora storia è già ridotta a strumento di ciò
che "storico" non è.
Il discorso sulla "storia" è ripreso da Cicerone nel I libro del De Legibus per
accentuarne la diversità dalla poesia. L'interlocutore (Attico) inizia la conversazione
con un ricordo: "Ah, la quercia degli Arpinati" di cui parla Quinto (fratello di
Cicerone) nel poema su Mario! Quella quercia, infatti, fu seminata "con l'ingegno": è
una creazione dello spirito e non cadrà mai come invece cadono le querce piantate dai
contadini. La domanda di Attico a Quinto si fa precisa: "I tuoi versi seminarono
codesta quercia, ovvero hai udito da altri averlo fatto lo stesso Mario?". In altre
parole: quella quercia appartiene alla storia o alla poesia? è prodotto dello spirito
umano o celebrazione di un fatto umano, dove poesia e storia si confondono?
Cicerone stesso risponderà ad Attico, ma dopo avergli fatto, a sua volta, una
domanda: "Pensi sia cosa vera che Romolo, dopo la sua morte, passeggiando non
lungi dalla tua casa, dicesse a Giulio Proculo essere stato fatto Dio, voler essere
chiamato Quirino e prescrivere che gli fosse dedicato un tempio in quel medesimo
luogo?".
Come dire: siamo di fronte a un prodotto dello spirito umano (concetto che si
trasforma in un racconto) o siamo di fronte alla celebrazione che lo spirito umano fa
di un dato reale? Quel Romolo (2°) appartiene alla storia o alla poesia? O appartiene a
tutte e due insieme? Attico chiede qual è lo scopo e il fine della domanda
Cicerone risponde: "perché non ti arresti molto a ricercare di tali cose, che ci sono
tramandate dalle antiche memorie". Quasi a dire che la tradizione, spesso, più che
riferire, crea la verità. E Attico precisa: "Intorno a Mario si ricercano tante cose per
sapere se siano finte o vere". Che ne pensa Cicerone? "Questi ricercatori - osserva -
mi paiono indiscreti se esigono il vero da me, come testimone oculare e non come
poeta" (si pensi al vero inventato di cui parlerà il Manzoni). Il testimone oculare,
infatti, descrive ciò che ha visto con gli occhi (e con la mente); ma nel descrivere è
storico o poeta? Il poeta, invece, descrive ciò che potrebbe accadere o può essere
accaduto.
Questi ricercatori, comunque, "non credo che prestino fede alle altre storie, cioè che
Numa parlasse con la Ninfa Egeria e un'aquila ponesse la corona in capo a Tarquinio".
Per Cicerone, nella storia, "le cose servono alla verità (anche se in Erodoto, padre
della storia, come anche in Teopompo, vi sono molti racconti favolosi); nel poema la
più parte ha diletto". Si racconta non per far conoscere e quindi per soddisfare la
libido sciendi, ma per dilettare e allora si possono costruire favole (7). A questo
punto, Cicerone è richiesto e pregato di scrivere una "storia romana"; ma fra lui e il
fratello Quinto vi è una discrepanza. Cominciare dai "più riposti tempi" o da quelli
"attuali"? Cicerone preferisce "gittarsi alla memoria dei tempi nostri per comprendervi
quelle cose delle quali egli è stato gran parte".
Attico è del parere di Cicerone perché "massime sono le cose avvenute nella presente
età, degne di commemorazione (per es. le gesta di Pompeo), che Attico amerebbe
sentir raccontare dallo stesso Pompeo, più che la storia di Romolo e Remo". Tucidide,
a sua volta, aveva trattato i problemi della sua età, pur intendendo scrivere una "storia
per sempre". Breve: Cicerone non si fida del lontano passato e noi dobbiamo fidarci di
lui o di Tucidide? Chi ci dice che le loro storie siano storia e non poesia? Tucidide,
per esempio, ignora Socrate perché "ragionava", ma non guidava eserciti; Cicerone, a
sua volta, si opporrà all'elogio funebre della madre dei Gracchi e non amava la
democrazia "perché è la forma più ingiusta di governo, nel senso che eguagliando i
diritti di tutti non accorda potere e onori a seconda dei meriti e della capacità di
ciascuno"; vorrebbe narrate le gesta di Pompeo e non quelle di Cesare. Il suo punto di
osservazione e di lettura, come si vede, è già orientato.
Voltaire (Enciclopedia, voce Histoire, tomo IV, Ed.Lucca, V. Giuntini, 1748) dirà che
"i primi annali di tutte le nostre nazioni moderne non sono meno favolosi (di quelli
dei Greci e dei Latini); le cose prodigiose e improbabili devono essere riferite, ma
come prove della credulità umana; esse entrano nella storia delle opinioni".
Schopenhauer, parlando del rapporto storia-arte rincara la dose: "In tutte le storie v'è
più di falso che di vero (...). Igrandi storici antichi, in quei punti dove trascurano i dati
di fatto (per es. nei discorsi dei loro eroi) sono perciò poeti; anzi tutta la loro
trattazione della materia si avvicina all'epica; ed è appunto ciò che conferisce unità
alle loro trattazioni e fa che queste contengano una intima verità anche dove la verità
esteriore non era possibile agli storici, o addirittura era falsata". (Mondo I, 51).
Poiché siamo alla ricerca dei semantemi, non possiamo ignorare, in tema di storia e di
poesia, l'analisi di Aristotele. Nella Poetica,(c.IX) egli distingue l'attività poetica ("ciò
che potrebbe accadere") dall'attività storiografica ("ciò che è realmente accaduto"). Ne
segue che la poesia è più filosofica e più nobile della storia, in quanto narra
l'universale; mentre la storia il particolare. La storia, anzi, come studio sistematico,
come disciplina, non ha senso, mentre le testimonianze del passato (o il passato) come
fonte di paradigmi, sono un'altra cosa. La storia cioè non ha sufficiente peso (o
valore) filosofico, perché non può essere analizzata, ridotta a princìpi, resa
sistematica. (8) Ci dice semplicemente che cosa Alcibiade fece o patì, ma non
stabilisce verità. Non ha uno scopo serio, collocata com'è nel puro divenire. Gli
storici, infatti, si rassegneranno a dover contendere il campo alla poesia, scrivendo
opere che Polibio chiamerà "storia tragica", dalla quale si apprendevano moralità e
regole di vita. Non a caso Virgilio, seguace dell'epicureismo colto, qualifica di "pio" il
Troiano- Enea, forse nella speranza di sottrarlo, per questa via, all'oblio del divenire.
3. Nella selva dei logoi
La riflessione sull'insegnamento della storia e sulla sua definizione, è provocata, in
Italia, dall'iniziativa assunta qualche anno fa dal Ministro della Pubblica Istruzione
Rosa Russo Jervolino, la quale proponeva una trasformazione dei programmi
scolastici che tenesse conto dei fenomeni migratori, dell'esistenza di stati multirazziali
e della diffusione di nuove etnie e religioni in paesi abbastanza omogenei come
l'Italia. Da qui l'esigenza di dare maggiore spazio allo studio del periodo storico in cui
sono nate e si sono sviluppate le ideologie totalitarie (di destra e di sinistra), le
chiusure nazionaliste, razziste, xenofobe. Perché questa esigenza? Perché nei Licei
italiani l'analisi delle vicende del nostro secolo si ferma, di solito, agli anni Trenta, o
anche non oltre le cause della prima guerra mondiale. Sembra quasi che un istinto
antropologico ci fermi a quelle date, perché passare oltre vorrebbe dire entrare nel
territorio dei veleni ideologici e introdurre nella scuola le nevrosi politiche. Si cerca
così di navigare nelle acque più tranquille di un consolidato etnocentrismo, dove
l'insegnamento storico è utilizzato per qualcosa d'altro che non sia "conoscenza". (9)
Da qui si parte per aprire il velo sulle vicende del nostro secolo, convinti di introdurre,
eo ipso, l'antidoto culturale al diffondersi e al crescere della xenofobia, del razzismo,
ecc. Non è questo un modo soft per fare della storia una magistra vitae? Qualcuno
insinua: non è questa una visione eccessivamente sociale e poco psicologica delle
vicende storiche? Ma l'insegnamento storico, con tale funzione, da Polibio in avanti,
ha trovato la sua sistematizzazione nella cosiddetta "storia pragmatica". Forse è
ingenuo moralismo o scarsa conoscenza della psiche umana, puntare il dito su ciò che
accade, poniamo, nella ex Jugoslavia, per condannare razzismo, xenofobia, pulizia
etnica, antisemitismo, ritorno di barbarie, quando le parti sono in conflitto proprio per
combattere questi "mali", mediante strumenti già previsti da Tucidide: pace per
vittoria, egemonia del più forte.
E anche chi è fuori da questa spirale è già schierato e farebbe le stesse cose se, per
qualche "accidente", dovesse rompersi l'equilibrio che tutti convengono di chiamare
"democratico". Non dimentichiamo che i cosiddetti xenofobi, razzisti, nazionalisti,
usano, a loro volta, l'insegnamento della storia per contrastare ideologie
omnicomprensive e colonialiste.
Il rapporto di Bruges del 9-12 dicembre 1991 del Consiglio d'Europa (per la
cooperazione culturale) si apriva con queste parole: "La storia e l'insegnamento della
storia hanno sempre occupato un posto privilegiato nei programmi di lavoro del
Consiglio d'Europa, data la loro importanza per la formazione degli atteggiamenti dei
giovani nei confronti degli altri paesi, culture o razze". Il Convegno aveva per tema
« l'enseignement de l'histoire dans la nouvelle Europe ». Come si vede fanno scandalo
gli , "atteggiamenti" ma non fa scandalo il concetto di "paese altro".
D'accordo, occorre procedere alla formazione di particolari atteggiamenti nell'alunno,
considerato come il cittadino della società futura. Ma la società futura sarà una
confederazione che porterà a uno Stato Planetario? D'accordo, occorre ricavare dalla
storia elementi utili, per costruire un avvenire di convivenza pacifica. Ma la selezione
degli elementi utili sarà fatta in nome della "ragione"? D'accordo, bisogna cercare le
cause delle situazioni conflittuali. Ma le troveremo umilmente là dove le aveva
individuate Kant, e cioè nella molteplicità degli Stati, delle religioni, delle lingue?
(10)
Il nostro modo di vivere la storia continua a dar ragione, in parte a Vico, in parte a
Tucidide, ma non al progressismo della cultura del secondo dopo guerra. E' il valore
filosofico dell'insegnamento della storia che va approfondito. La belva nazista non è
diversa da Mosè che fa uccidere migliaia di idolatri (vitello d'oro) o da Sparta che
sopprime in una sola notte duemila Iloti e da un certo cattolicesimo che programma la
notte di san Bartolomeo o dalle democrazie europee che, a turno, in nome del
colonialismo, hanno compiuto i loro olocausti. Fusis e religio debbono essere
severamente indagate dalla conoscenza storica.
Si dice che il positivismo e lo storicismo marxista caddero in crisi perché pensavano
che le vicende umane dovessero avere uno sviluppo necessario nel continuum
presente-passato. Da un lato avremmo avuto una civiltà scientifica (ordine razionale
del mondo), dall'altro lato una società senza classi. D'accordo, eppure ci sono
vocazioni ricorrenti. (11)
Oggi la conoscenza del passato non è più un modo per scoprire il cammino della
storia e prevedere il futuro. Questo legame - si dice - non è più accettabile, nemmeno
nella forma di Tucidide: "I fatti passati, essendo la natura umana non modificabile,
torneranno prima o poi a ripetersi con modalità simili". D'accordo, ma anche qui
attenti alle vocazioni. (12)
Qualcuno si domanda che rilevanza può avere sulla nostra vita odierna la conoscenza
del passato prossimo, remoto, remotissimo? Forse ha la rilevanza che ha per
l'ammalato l'anamnesi ma resta da sapere quale è il virus che ha originato l'oggi.
L'Ancien régime o la Rivoluzione? Il fascismo o il comunismo? Il fondamentalismo o
il colonialismo? D'accordo, la storia ha valore essenzialmente conoscitivo, di
strumento che ci consente di capire meglio l'oggi. Bloch insegna: "L'incomprensione
del presente nasce fatalmente dall'ignoranza del passato". Ma, per altri, lo studio della
storia rimane una pura attività intellettuale per conoscere "razionalmente" tutto
l'accaduto (bene o male che sia), senza illuderci di poter meglio prevedere il futuro. E,
d'altra parte, sembra che la cultura storica sia una condizione per poter svolgere
un'attività politica che abbia un senso.
D'accordo, non è sufficiente ad evitare la ripetizione degli errori, ma può essere più
attenta nel prendere decisioni per la vita di una nazione (finché c'è la nazione). (13)
Circa il peso del vicino e del lontano, sì, è vero, per conoscermi a diciotto anni devo
conoscermi a sedici; ma può darsi che su ciò che sono oggi abbiano inciso i miei
primi sei anni di vita. Per capire, per esempio, i rapporti attuali fra mondo arabo e
Occidente devo spingermi almeno fino al VII secolo dopo Cristo. Eppure la
suggestione di Cicerone ha sempre nuove vocazioni: meglio le gesta di Pompeo che la
storia di Romolo e Remo. I giovani, infatti, vogliono conoscere gli avvenimenti più
recenti per diventarne i protagonisti. Ciò fu vero all'epoca di Napoleone e di Garibaldi
e sarà vero finché sarà vivo il dualismo noi/loro (Stati Nazionali)
Qualcuno afferma che il valore educativo della storia è zero, se in essa si cerca il
riflesso e la conferma delle proprie convinzioni. Il passato è presentato con la voce
dello storico e tale voce è di parte.
Dunque, si deve produrre insegnamento senza diventare moralisti sterili o cinici
espositori di fatti. Ma poi, conoscere la storia ci aiuta a scegliere i nostri valori
esistenziali e politici? E' possibile mettere in evidenza le "malattie" umane, così come
fa la scienza medica col corpo fisico? Per i più pessimisti la storia non insegna niente
a nessuno. Anche le visite ai campi di sterminio servono più per far conoscere il
passato che a scongiurare la ripetizione di errori già compiuti. Breve: è dubbio che la
storiografia abbia virtù pedagogiche. Le virtù pedagogiche sono, semmai, nella
ragionevolezza dell'essere umano. La storia non può darci certezze morali, perché è
piuttosto maestra di dubbio. La storia ci immunizza dagli errori solo se già abbiamo il
concetto di errore. Per Popper gli storicismi sono finiti.
Noi crediamo invece, che essi siano in fase di latenza, in torpore come taluni virus.
Tant'è che lo stesso Popper invita a mettersi in difesa nei confronti di chi promette di
realizzare la libertà totale dal potere totale. Noi siamo in allerta ovunque qualcuno
tenta di identificare storia e verità. C'è anche chi pensa che le scienze sociali possono
fare a meno della storia. In questo caso la storia si ridurrebbe a pura filologia. Ma la
rottura del rapporto fra sapere storico e sapere scientifico sembra ad altri un decadere
della conoscenza.
Circa il modo di strutturare l'insegnamento storico nelle scuole, tutto è legittimo
purché si sia d'accordo sul principio che la storia va insegnata, anzitutto, per essere
"conosciuta". E' meglio intenderla in senso universale come storia di cultura politica,
economica, ecc.? o anche come storia del costume, delle idee politi- che, ecc.? E'
meglio studiare in maniera introduttiva lo svolgimento generale degli eventi o
compiere escursioni approfondite su temi specifici? Nulla vieta che si facciano delle
"sperimentazioni". (14)
C'è chi propone di non iniziare da capo ogni corso scolastico; ma di portare
un'attenzione particolare a determinati temi e periodi storici, approfondendone la
conoscenza (cognitio per causas). L'idea gentiliana secondo la quale si deve saper
tutto è idea elitaria, d'accordo. Ma Gentile è idealista e per l'idealismo tutta la storia è
storia contemporanea. Forse converrà utilizzare il concetto galileiano di scienza:
conoscere in profondità un solo evento fino a coglierne la legge. Studiare un solo
periodo (per es. la Rivoluzione francese) in modo approfondito è fare della storia
sostanziale. E' questo un modo per introdurre il metodo universitario nel biennio
superiore? Se giova alla "conoscenza" della storia, nessuno vieta di passare anche qui
alla "sperimentazione".
4. Il prato del cavallo
E tuttavia non prendiamo troppo gusto a sferruzzare attorno alla programmazione
dell'insegnamento storico. Koselleck-Gadamer in Ermeneutica e Istorica (15)
intendono costruire - facendo uso dell'ermeneutica filosofica - una "teoria delle
condizioni di ogni possibile storia". Si tratta di una riflessione che riporta l'attenzione
non tanto sulle res gestae (storia = caos di eventi) quanto su colui che le compie, visto
come portatore di potenziale razionalità.
Volendo paragonare l'uomo a un superbo cavallo, fisicamente libero nella vasta
prateria del mondo, ci si accorge che è pur sempre condizionato "mentalmente" da
cinque "categorie" che gli creano attorno una specie di pentagono necessitante. La
prima categoria è la coppia antitetica "dover morire/poter uccidere". La lotta per la
sopravvivenza è l'obiettivo di tutti gli sforzi degli uomini ed è sempre soggetta alla
minaccia della morte dell'altro o inflitta dall'altro. Senza la capacità di poter
abbreviare con la forza l'intervallo di tempo in cui il prossimo ha la possibilità di
vivere, non esisterebbero le storie che tutti conosciamo.
Si pensi a ciò che la madre Teti dice ad Achille: due destini di morte ti attendono, se
rimani a combattere intorno a Troia, non vi sarà ritorno per te, ma la tua gloria sarà
imperitura, se torni a casa, non vi sarà gloria per te, ma lunga la vita. Il credo
dell'aristocrazia guerriera è questo: morire prima o dopo, giovane o vecchio, non
conta perché un eroe non può sopravvivere a se stesso. E, infatti, un guerriero che
combatte, o un guerriero morto, sono le scene preferite dell'arte greca. Sono le due
"posizioni" dell'ethos della vita eroica.
La seconda categoria è la coppia antitetica amico/nemico presupposta ad ogni
conflitto della storia reale. Si pensi alla lotta fra greci e barbari, fra Europa e Asia, fra
cristiani e pagani, cristiani e saraceni, cristiani e cristiani, per fermarci all'Occidente.
La terza categoria è la coppia antitetica più generica interno/esterno, che costituisce la
spazialità storica: "Non esiste nessuna unità operativa sociale o politica che non si
costituisca delimitando altre unità operative". Si pensi all'uscita degli ebrei dall'Egitto
o all'attuale conflitto Ebrei/Palestinesi o al caso Jugoslavia. Poniamo una domanda: è
la richiesta "federalista" alle unità imposte?
La quarta categoria è quella della "generatività". Il succedersi delle generazioni
"determina sempre nuove esclusioni, definizioni diacroniche di esterno e interno; il
prima o il dopo, rispetto alle esperienze specifiche della rispettiva generazione".
Senza tali esclusioni la storia non è pensabile.
La quinta categoria è quella che lo storico definisce "padrone/schiavo" e che fa
riferimento ai rapporti di dipendenza o di potere. Senza queste relazioni gerarchiche
non sarebbero possibili storie. Si pensi al già citato dialogo Meli-Ateniesi e più
recentemente al rapporto Dubcek-Cremlino.
Vi sono poi avvenimenti che sfuggono a qualsiasi comprensione o interpretazione
linguistica. Prendiamo, ad esempio, il Mein Kampf. Vi si enuncia: "lo sterminio degli
Ebrei sarà un principio d'azione della politica futura". La realtà ha superato, e di
molto, quanto Hitler aveva teorizzato.
Tutto ciò è presente nelle società animali; ma qui, nel mondo umano, va considerato
alla luce del linguaggio. Questo "di più" è espressione di pensiero; ma tale pensiero ha
come metro se stesso. (16) La Istorica di Koselleck - precisa Gadamer - pur offrendo
una dottrina delle categorie della storia, non intende dare un fondamento all'interesse
per il mondo della storia e delle storie. Occorre riflettere su il "di più" dell'uomo
rispetto agli altri esseri naturali e cioè sul linguaggio che custodisce "lo spazio della
storia" e sarebbe, in definitiva, "la possibilità di non prendere posizione di fronte a
qualcosa". Lo stesso Aristotele, definendo l'uomo "animale razionale" metterebbe in
gioco non tanto la ragione, quanto il linguaggio.
Breve: la linguisticità rende umane le cinque categorie. Perché tanta fatica per
conservare e ricercare? Ci riconosciamo nell'altro in ciò che è altro dell'uomo, in ciò
che è altro dell'avvenimento? E tuttavia, abbiamo il dubbio che questa analisi del
prato in cui scalpita il cavallo, diventi supporto "scientifico" per quanti continuano a
vedere la storia come un'opera d'arte di Dio (sant'Agostino, Vico; religioni in genere)
o dello Spirito in divenire (Hegel) e un risultato della Fusis (Tucidide) o un eterno
ritorno (Nietzsche) o una ripetizione di una commedia con personaggi diversi
(Schopenhauer) o il regno dell'Ananke (Tolstoi).
Dal nostro punto di vista, consideriamo l'analisi di Koselleck-Gadamer uno strumento
di lavoro per affrontare seriamente l'insegnamento storico, purché veicoli anche la
persuasione che l'uomo ha davanti a sé il compito di costruire una storia in cui
vengano prosciugate quelle cinque categorie. Ma l'uomo è capace di tanto? Il suo
logos forse sì, ma la sua cultura? Il suo spirito forse sì, ma la sua carne?
5. Maestra di vita o di nevrosi?
La storia insegna ben poco di sostanziale ai suoi protagonisti, perché è da essi
rapidamente strumentalizzata. (17) La storia può essere maestra di vita solo per chi la
trascende e si è sottratto al suo impero; ma la tendenza è invece quella di dare ad essa
un lustro divino. Ecco, per esempio, il Siracide, 44, profondersi nell'elogio degli
uomini illustri, dei nostri antenati per generazione: "Enoch piacque al Signore e fu
rapito; Noè fu trovato giusto; Abramo entrò in alleanza con Dio; Mosè fu reso grande
da Dio a timore dei nemici; Davide scherzò con leoni come fossero capretti; il Signore
perdonò i suoi peccati". Come si vede, in questo genere di storia, operano almeno due
"categorie" di Koselleck-Gadamer. E' magistra vitae solo quando è ridotta a
messaggio etnocentrico. La storia, insomma, è maestra per coloro che ne conoscono
l'alfabeto o hanno un loro alfabeto.
E tuttavia se si ripetesse un'occasione simile all'impresa di Colombo (per esempio, se
fosse resa possibile la conquista dei pianeti e delle stelle) si ripeterebbe anche la stessa
dinamica di conquista nei gruppi conquistatori. A meno che, prima di una simile
occasione non avvenga, per consenso, l'unità politica del genere umano. La lettura del
passato è fatta per schieramenti ideologici e travolge etníe e religioni; e riesce persino
ad abbassare al rango di "religione" il Cristianesimo che, originariamente, si era
presentato come "salvezza". La storia non è maestra se non di nevrosi perché coloro
che dovrebbero esserne i discepoli "intelligenti", si sono dati da fare per scrivere la
propria storia (etnocentrismo), facendola firmare da qualche divinità indigena.
Voltaire (Enciclopedia, voce Histoire) aveva già parlato dal pulpito illuminista "della
utilità della storia". Essa consiste nel paragone che un uomo di stato, un cittadino, può
fare delle leggi e dei costumi stranieri, con quelli del suo paese. E' ciò che eccita le
nazioni moderne a "rilanciarsi" le une sulle altre in merito alle arti, al commercio,
all'agricoltura. I grandi "errori del passato" servono molto in ogni campo. Non si è
mai finito di "rimettere davanti agli occhi" i crimini e le disgrazie causate da "dispute
assurde".
Una cosa è certa: a furia di "rinnovare la memoria" di tali dispute si impedisce loro di
riprodursi. Per aver letto i dettagli delle battaglie dei Greci, di Poitiers, di Anzicourt,
di San Quintino e di Gravelines, il celebre maresciallo di Saxe si determinava a
cercare, per quanto poteva, ciò che egli chiamava des affaires de poste (degli affari di
posizione). Gli esempi fanno un grande effetto sullo spirito di un Principe che legge
con attenzione (la storia). Vedrà che Enrico IV non avrebbe intrapreso la sua grande
guerra - quella che doveva cambiare l'assetto dell'Europa - se non dopo essersi
assicurato del "nerbo della guerra", per poterla sostenere molti anni senza alcun
soccorso di finanze (senza aumentare le tasse). La Francia, non intaccata sotto Luigi
XIV, dopo nove anni di guerra, la più disgraziata mostrerà con evidenza quanto siano
utili i luoghi di confine, che egli aveva costruito. Invano l'autore delle cause della
caduta dell'Impero romano biasima Giustiniano di aver avuto la stessa politica di
Luigi XIV.
Doveva biasimare soltanto gli imperatori che trascurarono quei luoghi di confine che
aprirono le porte ai barbari. Infine la grande utilità della storia moderna, e il suo
vantaggio sull'antica, è di insegnare a tutti i potentati che a partire dal secolo XV ci si
è sempre riuniti contro una potenza preponderante. Questo sistema di equilibrio è
sempre stato sconosciuto dagli antichi ed è la ragione dei successi del popolo romano,
che, avendo formato una milizia superiore a quella degli altri popoli, li soggiogò uno
dopo l'altro, dal Tevere fino all'Eufrate.
Voltaire dimentica che il "cavallo", per quanto illuminato, è chiuso dentro il
pentagono di Koselleek-Gadamer; e non arriva a ipotizzare il concetto di federazione.
Sarà questo un traguardo raggiunto da Kant. Ma chi si assumerà il compito di spiegare
al cavallo del nostro secolo che gli Stati Nazionali sovrani sono un mito?
Nel mondo della cultura ci sono anche gli storicisti nostalgici che celebrano le radici
per se stesse. Vedono in esse "la forza della nostra civiltà". Il presente ha significato
solo in quanto inteso in un contesto dai nessi molteplici che occorre cogliere e
indagare. Il passato - dicono - non è "un morto viluppo di memorie" (Montale). Esso
fluisce nel presente che è in larga misura una concrezione del passato. Il processo
storico non è un segmento da archiviare. Le permanenze incidono sul futuro. Chi ha
qualche interesse a fissare gli uomini al presente ne infiacchisce la volontà e alla fine
cesseranno di essere "un popolo, una nazione". Diventeranno una mandria tranquilla
"senza culto religioso della propria dignità". Questo modo di concepire la storia non
esce dal quadro tucidideo e, diciamo pure, hegeliano, dove la storia è storia di popoli e
non di persone.
Dobbiamo, a questo punto, stanare il sofisma (o quarto termine) che si nasconde nel
concetto di "liberazione" costruito in Italia e in tutto il mondo occidentale al termine
della seconda guerra mondiale. Procediamo per sintesi. Il fascismo nasce per mettere
ordine al disordine (in Italia) e quindi per opporsi al comunismo già presente, come
talpa, in Europa. Il cristianesimo reale "benedice" e cerca, a fiuto, il proprio
Costantino. Poi ci si accorge - tardi e da parte di pochi - che il nazismo è sì
anticornunista, ma perché è anzitutto razzista ed eleva lo Stato a valore supremo.
Anticomunista circa la struttura socio-politica dello Stato; ma antioccidentale perché
non poteva sopportare la "plutocrazia colonialista" della Francia e dell'Inghilterra,
assetata di egemonia antropologica.
Le cose sono andate come sempre nella storia: vincitori e vinti e di nuovo emergenza
di concezioni omnicomprensive. Caduto il fascismo non si forma una coalizione di
forze democratiche; ma sono già presenti i vecchi anti portatori di schieramenti.
Partigiani sì, ma per introdurre in Italia il comunismo; partigiani sì, ma per salvare i
valori "religiosi"; partigiani sì, ma per affermare la socialdemocrazia; partigiani sì, ma
per proclamare la liberal-democrazia. Ecco dove la parola "liberazione" si carica di
almeno due significati. Non solo. Si plaude all'americano, ma anche al russo; i quali,
uniti, prostrano la Germania. Ma, anche qui, la parola "liberazione" ha radici
equivoche. Con la caduta del comunismo reale, si raffredda l'idea della unificazione
del genere umano di programmazione socialista; ma resta sempre latente la grande
piovra dell'etnocentrismo, tipica di tutte la grandi potenze, per natura colonialiste.
Il presidente americano Clinton, a Mosca, ha deprecato che "la guerra fredda abbia
ritardato il nostro grazie senza riserva per il Vostro (russo) contributo alla vittoria
nella seconda guerra mondiale". A sua volta il presidente russo Eltsin dice che "la
memoria della guerra sia fattore di unità" e aggiunge: "Mi appello al popolo russo,
agli altri popoli: non permettete che i velenosi germogli del fascismo appaiano
ancora". E Clinton, di rimando, si appella alla Russia perché si unisca agli altri, come
già fece cinquant'anni fa, "per mettere fine alla barbarie della guerra e della violenza
assurda del terrorismo".
E Major, primo ministro inglese fa eco: "Risparmiamo ai nostri popoli le sofferenze
dei conflitti, all'interno come all'esterno delle nostre frontiere". Ma il neoeletto
presidente francese Chirac dice che la sua nazione riprende gli esperimenti nucleari.
Infine, il Papa - guida spirituale del "popolo di Dio" - grida da Roma: "Auschwitz,
accanto a tanti altri lager, resta il simbolo drammaticamente eloquente delle
conseguenze del totalitarismo" (ma di quale totalitarismo?); e aggiunge: "Ama gli altri
popoli come il tuo". Ma è questo il precetto evangelico? Diciamolo seccamente: il
concetto di popolo è un concetto biblico che Cristo ha demolito col prezzo del suo
sangue, senza che i cristiani se ne siano pienamente accorti. Come si vede, nulla è
cambiato rispetto al passato, se non i nomi dei protagonisti. Sulla scena ci sono
sempre dei "popoli" e delle "nazioni" e delle "religioni" che fanno la predica agli
altrui totalitarismi, senza mai essere "democratici"; perché se tali fossero, dovrebbero
rinunciarsi come Stati Nazionali sovrani e promuovere la costituzione di uno Stato
Planetario (federale) unico, per liberare anzitutto gli uomini dall'incubo perpetuo della
guerra e del terrorismo.
Esistono degli spiritualisti che sanno costruire delle massime formalmente accettabili:
"Due cose - dicono - dobbiamo dare ai nostri figli: la prima sono le radici, la seconda
le ali". D'accordo, le radici!; ma quali? Quelle "originarie" o quelle del gruppo
etnocentrico? D'accordo, le ali!; ma quali? Quelle della gallina da cortile o quelle
dell'oca selvatica di cui parla Kierkegaard? (18)
In una Utopia, scritta da Louis Sébastien Mercier nel 1770 si dice che nel 2440, nelle
scuole, si insegnerà l'algebra piuttosto che la storia "perché questa è la honte de
l'humanitè (la vergogna dell'umanità) et l'égout des forfaits du genre humain (la
cloaca dei misfatti dell'umanità)".
L'utopista voleva forse dire che le radici sono tutte infestate di etnocentrismo, mentre
le ali potrebbero essere date dalla predilezione per una scienza oggettiva e unificante
come il mondo dei numeri. Ma ecco di nuovo l'insidia, nel mondo così com'è. Perché
ci devono essere limiti alle capacità operative della tecnica? I limiti, infatti, non ci
sono perché la tecnica è diventata un fine e rischia di divorare l'uomo diviso in popoli
e nazioni. Heidegger sosteneva che la tecnica, nella sua essenza (intesa questa come
disvelamento o apparire del mondo) non è una cosa di cui l'uomo possa disporre; e
spaventato lanciò un grido: "Oramai solo un Dio ci può salvare". Ma forse
dimenticava, o non aveva capito, che il Messaggio cristiano originario è "salvifico"
proprio perché pone un abisso tra storia e verità. E afferma che la storia non può
essere magistra vitae perché il modello di perfezione è il Padre nei cieli e cioè il
perseguimento di una perfezione mai conclusa; a partire dalla unità politico-
linguistica con successiva divisione delle etiche - del genere umano.

Note
1) A rimettere in questione la tesi di Fukujana c'è subito la ribellione degli indigeni
del Chiapas. Trionfo del capitalismo? Ma il capitalismo ama la guerra, non la
rivoluzione sociale. No, la caduta del muro non è la fine della storia. E' la fine di una
brutta storia; ma potrebbe essere l'inizio di una bella storia e cioè la soluzione dei
problemi che hanno portato alla costruzione del muro. A patto che i fatti del Chiapas -
e i fatti di altri luoghi simili - non siano spiegati come "fatalismo etnico naturale"; per
il quale c'è sì un ritardo, ma che è assunto allegramente dagli stessi indigeni. Solo un
federalismo politico di dimensioni planetarie potrà risolvere il problema delle
esigenze autonomistiche e nello stesso tempo mitigare gradualmente il dislivello
economico Nord-Sud.
2) L. Feuerbach, L'essenza del cristianesimo, Torino, Feltrinelli, 1960. Franco Fornari
ha sostenuto che la Nazione "lega" gli individui più fortemente della classe. La tesi
non piacque né ai marxisti ortodossi né ai cattolici conservatori. L'universalismo dei
primi vuole che il danaro (capitale) sia più forte del solco (confine nazionale);
l'universalismo dei secondi è centrato sul "soglio di Pietro". Per Fornari l'individuo
"cosciente" è una costruzione che emerge con fatica da una comunanza con gli altri
esseri. I legami profondi tra cose e forme si chiamano coinemi (da koinè, lingua
comune). E il nazionalismo ha alla sua base una rete di tali coinemi rispetto ai quali,
vincoli come l'interesse di classe restano secondari e derivati. Questo nucleo duro è
solo un primo passo, poi entrano in scena miti di radice, religione, linguaggio,
tradizioni, leggi. Resta il paradosso: il nazionalismo unisce mentre divide. Forse
perché è portatore di qualche pluralismo di troppo, non cioè assunto consensualmente.
Nella Nazione non c'è pace sociale per colpa del pluralismo spinto ai confini del
contraddittorio; nel mondo non c'è pace per colpa del concetto stesso di Nazione. E'
questo il grande nodo che dovrà sciogliere il prossimo secolo. Crediamo, infatti, che si
debba fare l'unità politica e linguistica sul piano mondiale e poi passare alla
successiva divisione consensuale delle etiche e delle religioni. Solo così il pluralismo
sarà (o potrà diventare) una gara di modelli e non una eterna lotta per imporre il
proprio modello.
3) Per Schopenhauer "la storia è per il genere umano ciò che la ragione è per
l'individuo (). Solo mediante la storia un popolo diviene completamente consapevole
di se stesso. Perciò la storia è da considerarsi come l'autocoscienza ragionevole del
genere umano (...). Ogni lacuna nella storia è come una lacuna nella memore
autocoscienza di un uomo (...). Quel che per la ragione degli individui è la lingua, tale
è, per la qui esposta ragione del genere umano, la scrittura, che serve a riportare
all'unità la coscienza del genere umano, incessantemente interrotta dalla morte" (in
Schopenhauer A., a cura di G. Morra, in Grande Enciclopedia Filosofica, diretta da
M. F. Sciacca, Milano, Marzonati, 197 1, v) XIX). E Droysen (Sommario di Istorica,
a cura di D. Cantinori, Firenze, Biblioteca Sansoni, 1967) andrà più in là: "Per l'uomo
la storia è quel che per le bestie e per le piante è il concetto di genere il luogo dove
partecipano dell'eterno e del divino". L'ultima frase è citata da Aristotele (De anima
II, 4, Bari, Laterza, 1973), dove il filosofo dice esattamente: "La più naturale
operazione dei viventi (...) è di produrre un altro simile a sé, l'ani- male un animale, la
pianta una pianta, onde partecipano, per quanto possono, dell'eterno e del divino".
4) Sul tema ancora Droysen: "La storia è quel che l'umanità sa di se stessa, la sua
autocoscienza. Essa non è "la luce e la verità", ma è una ricerca di esse, una predica su
di esse, una consacrazione di esse, come nel detto giovanneo: "non era lui la luce, ma
testimonianza della luce" (ivi).
5) Come sappiamo, Croce sostiene che tutta la storia è storia contemporanea. Ed ecco
la sua argomentazione: "Se la storia contemporanea balza dalla vita così anche la non-
contemporanea, perché è evidente che solo un interesse della vita presente ci può
muovere ad indagare un fatto passato; il quale, dunque, non risponde a un interesse
passato, ma presente (...). Il che è ridetto col trito motto: magistra vitae" (in Il
concetto della storia, antol. a cura di A. Parente, Bari, Laterza, 1996). Per Droysen "la
storia non ammaestra perché dia esempi da imitare o regole da applicare, ma perché la
si rielabora e la si rivive in ispirito"; e cita Federico il Grande di Prussia: "La storia è
un repertorio di idee che fornisce della materia che il giudizio deve passare al
crogiuolo per epurarlo" (ivi).
6) Questa definizione si trova nel L. III del De Oratore. Sant'Isidoro di Siviglia (636
d. C.) - doctor egregius per la Chiesa - nelle Etymologiae - dopo aver accettato
l'elenco di Cassiodoro relativo alle sette arti liberali - grammatica, retorica, dialettica,
aritmetica, musica, geometria e astronomia - dice della storia: "hanc disciplina ad
gramaticam pertinet", e aggiunge che è utile come "maestra della vita". Isidoro scrive
anche una Historia Gotorum che si apre con un fervido "De laude Spaniae", dove
appare chiaro l'interesse nazionalistico. Ma ancora G. Lombardo-Radice, ne" Lezioni
di didattica (Firenze, Remo Sandron, 1917), precisa: "Ciascuna materia di cultura
fornisce elementi alla formazione della coscienza storica, quale più quale meno
esplicitamente, a seconda di chi la insegna (... ). Ma se tutte le materie sono
implicitamente storia, certo è che la storia si insegna anche come tale: con uno
speciale insegnamento, il cui compito è di venir tentando la totale visione dello
svolgimento della vita ".
7) Anche se in Fedro - Il poeta, L. IV (Torino, Einaudi, 1968) - troviamo un esempio
in cui poesia e storia si identificano, secondo un canone storiografico anteriore
all'analisi di Aristotele. Le vere poesie sono pregiate dagli uomini e hanno onore dai
Superi. Ecco la dimostrazione: "Simonide è contrattato per scrivere la gloria di un
vittorioso pugile. Ma l'esiguo argomento gli imbriglia l'entusiasmo e cita a esempio di
una gloria simile i due figli di Leda (i Dioscuri Castore e Polluce). Quando si venne
alla paga, Simonide riceve un terzo del compenso: "Le due parti che mancano - dice il
pugile - ti diano coloro di cui son l'altre due glorie"; e senza congedarlo lo invita a
pranzo. Simonide accetta l'invito. Mentre la festa è al culmine ecco apparire due
giovanotti impolverati e madidi di sudore in aspetto sovrumano. Dicono allo
schiavetto di chiamare Simonide e appena costui è a un passo dalla sala, l'edificio
crolla e tutti travolge. Non ombra di giovani alla porta; ma poi si seppe che al poeta la
celeste apparita venne e dare la vita in pagamento". Dunque il vero poeta è anche
storico, nel senso che canta ciò che è illustre per sé (per luce propria) e non si presta
all'inganno di rendere "illustre" mediante il canto. E cioè di far sì che uno sia "illustre"
perché "cantato", ma senza esserlo realmente. Poi lo stesso Fedro, nel Prologo alle
Favole dice che la favola ispira il vivere. E la storia non è magistra vitae? Come mai
la favola ispira il vivere e la storia non sempre? Perché una è prodotto dello spirito e
afferma valori (o creduti valori) l'altra deve fare i conti con l'oggetto anche se "letto"
da un soggetto. Ecco perché Platone (Rep. L. II) vuole "sorvegliare" i favoleggiatori
maggiori e minori. Omero e Esiodo, infatti, hanno composto "false favole",
presentando gli Dei come maestri di violenza e depravazione. Per educare i bambini
servono le favole prima che le palestre: prima la musica e poi la ginnastica.
8) Schopenhauer puntualizza il rapporto storia-scienza. La storia "è certo un sapere,
ma non una scienza. Mai infatti essa conosce il singolo mediante il generale, ma deve
comprendere immediatamente il singolo, e così quasi strisciare sul suolo
dell'esperienza (...). Le scienze, in quanto sistemi di concetti, parlano sempre di
generi; la storia parla di individui. Essa sarebbe perciò una scienza di individui questo
significa una contraddizione. Ne consegue anche che le scienze parlano tutte di ciò
che sempre è; la storia invece di ciò che è solo una volta e non più" (Mondo II, 38 in
Grande Enciclopedia Filosofica, op. cit.). Da qui l'attacco allo storicismo hegeliano:
"Per quel che concerne la tendenza, sorta specialmente con la filosofastreria
hegeliana, così istupidente e perniciosa per lo spirito, o, come essi dicono, "di
costruirla organicamente"; certo nel suo intimo si trova un rozzo e piatto realismo, il
quale scambia il fenomeno per l'essenza in sé del mondo e crede che tutto si riduca
alle sue forme ed ai suoi eventi - (ivi). Per Schopenhauer "la vera filosofia della storia
consiste dunque nello scorgere che, in tutti questi infiniti cambiamenti e nel loro
guazzabuglio, si trova pur sempre dinanzi lo stesso, uguale e immutabile essere, che
agisce oggi nello stesso modo di ieri e di sempre (...). Questo essere identico, che
persiste fra tutti i mutamenti, consiste nelle proprietà fondamentali del cuore e del
cervello dell'uomo, mente cattive, poche buone" (ivi).
9) Nella Francia del '500, e in Germania tra Sei e Settecento, troviamo - osserva F.
Chabod - "la storia che diviene ancilla del diritto, e deve servire a puntellare
costruzioni giuridiche, aspirazioni politiche, ecc.; la storia concepita come un vasto
arsenale di documenti ai quali si afferra chi vuoi sostenere, o modificare, un
determinato sistema politico-giuridico - (L'idea di nazione, Bari, Univ. Laterza
54,1993). Per quanto riguarda l'Italia si pensi al Muratori che impugnò la tradizione
della "Corona ferrea"; il dominio temporale della Sede Apostolica sopra la città di
Comacchio, tanto che per scrivere le Rerum Italicarum scriptores ebbe difficoltà di
accesso ai documenti perché i governi di Genova, Parma, Lucca, Santa Sede, non
permisero le ricerche nei loro archivi.
10) Per Marrou (La conoscenza storica, Bologna, Il Mulino, 1962) lo studio del
passato è carico di valenze che favoriscono l'apertura all'altro in senso interculturale:
"Non esiteremo a riprendere, sia pure attribuendole un nuovo significato, la vecchia
concezione della historia magistra vitae. E' noto quale risibile e limitata applicazione
ne facessero i vecchi retori: nelle loro mani la storia si riduceva a un repertorio di
aneddoti topici, di esempi utili al moralista, di precedenti per il giurista e per l'uomo
di stato, di accorgimenti già sperimentati, offerti all'azione del tattico e del
diplomatico (...). Ma la formula è suscettibile di un profondo significato: solo
scoprendo e incontrando altri uomini diversi da me, io imparo a conoscere meglio ciò
che è l'uomo; l'uomo che io sono con tutte le sue possibilità, volta a volta splendide e
terrificanti. Anche la storia è incontro con l'altro (...). Essa ci rivela più cose di quante
non ne potremmo scoprire nella nostra esistenza".
11) M. Scheler chiama Schopenhauer "primo disertore dell'Europa" per il suo rifiuto
della comune fede nel progresso; anche se aspira, a sua volta, ad una storia che si
scriva in modo qualificato e personalistico; che non abbia altro fine che essere
"l'affresco monumentale (...) dei più alti esemplari". Per Schopenhauer i protagonisti
al preteso progresso storico - i popoli cioè e le nazioni - non sono per nulla reali. Di
non astratto c'è solo il singolo, che come individuo umano - ossia come illusione di se
medesimo - è capace di emergere dal fenomeno e di raggiungere le eterne sostanze
dell'Idea. Chi si colloca a questa altezza non è né eroe né grande uomo, è
semplicemente un graziato, visibile come alta vetta oltre l'atmosfera dell'umano. Ecco
la vera storia: il permanere di tali vertici della "santità".
12) Nietzsche, sappiamo, ripiega verso l'eterno ritorno, anche se nella "storia
monumentale", opposta all'antiquaria e alla critica, sembra simpatizzare per quella
catena eccelsa di cime che si uniscono attraverso i secoli per sfuggire all'oblio.
Sant'Agostino aveva già respinto l'eterno ritorno dell'eguale, perché avrebbe messo in
crisi il concetto di "salvezza". Nietzsche valorizza l'eterno ritorno contro la tentazione
del "tutto passa", quale condizione unica al manifestarsi di ciò che è, in quanto degno
di non passare.
13) Socrate subordina il rinnovamento politico all'educazione (Atene non ha bisogno
di essere governata così com'è, ha bisogno prima di essere educata). Ma proprio
perché ricava lezioni dalla filosofia e non dalla storia viene espulso dal sistema. Per
Droysen, invece, "l'importanza pratica degli studi storici sta nel fatto che essi - ed essi
soltanto - forniscono allo Stato, al popolo, all'esercito l'immagine di se stessi. Lo
studio delle discipline storiche è il fondamento dell'educazione e della preparazione
politica. L'uomo di Stato è lo storico pratico, lo storico in azione. Vede le cose che
sono, fa le cose che debbono essere". (Sommario di Istorica).
14) Per altri, ecco la risposta dell'educazione ai problemi mondiali: occorre introdurre
lo studio della storia e delle culture del mondo nell'insegnamento secondario. Non si
tratta di infliggere agli alunni una cronaca delle date e degli avvenimenti, ma piuttosto
di presentare loro i grandi movimenti della storia dell'umanità. Per esempio si
potrebbe articolare la storia attorno a tre temi: culture e civiltà nelle diverse epoche e
nelle diverse regioni; emergenza delle grandi idee e dei valori che hanno segnato o
cambiato la faccia del mondo; multiple espressioni nell'arte e nell'estetica. Il principio
fondamentale è che tutte le realizzazioni umane formano un patrimonio comune per
tutta l'umanità, che ogni generazione deve averne la sua parte e apportarvi il suo
contributo. Uno studio della storia mondiale è, per i giovani, una introduzione alla
varietà e alla pluralità delle realizzazioni umane. Superamento dunque del quadro
nazionale. Tutto ciò è commovente, ma non si capisce perché, per ottenerlo senza
forzature pedagogiche, non si pensi alla soluzione più semplice che consiste
nell'introdurre in tutte le scuole del mondo, una lingua comune (per es. l'esperanto)
che porterebbe, eo ipso, ogni uomo sul piano della mondialità, ossia sul piano della
sua vera identità.
15) R. Koselleck, H. G. Gadamer, Ermeneutica e Istoria, trad. P. Biale, Genova, Il
Melangolo, 1990.
16) Per Croce la lotta "privata" tra egoismi e "progetti" (degli Stati degli uomini
d'azione come per es. Mazzini) genera la pace pubblica e questa non è mai ciò che era
dato nel militante progetto, che pure l'ha prodotta. Tale progetto deve dirsi uno
strumento della "universale provvidenza" che opera con gli uomini come con gli
animali (i quali creano una certa pace nella foresta, o nel mare, dopo aver divorato la
preda). Croce loda Vico perché non si scandalizza del male - di quello esistente nella
storia, più di quanto si scandalizzi di quello esistente nella natura - perché il male
suona scandalo allorché "nosmetipsos, non hanc rerum universitatem spectamus";
mentre sarebbe verità l'avvedersi che ogni evento concorre al bene, Poiché concorre
alla costituzione di una comune unità. Solo il Vico - osserva Croce - senza rimpianto
alcuno, avrebbe accolta la ininterrotta fecondità della forza; mentre Machiavelli è
ancora troppo cristiano, perché sopporta a malincuore ciò che pur teorizza. In questo
senso, per Croce, la storia sarebbe Magistra vitae!
17) Lenin, Stalin e C. conoscevano molto bene la Rivoluzione francese e non
volevano che la loro Rivoluzione terminasse con la dittatura di uno solo. Proprio per
evitare tutto ciò caddero nel medesimo errore. Napoleone conosceva benissimo gli
"eroi di Plutarco", ma ne vide solo le aspirazioni non i limiti. Cesare ebbe come
modello solo l'Alessandro conquistatore. Non è che Napoleone e Hitier (fatte le debite
differenze) abbiano meditato sulla fine di Pompeo o di Cesare o di Annibale;
pensavano che a loro fosse toccato in sorte di concludere un'opera incompiuta: l'unità
europea e la fine delle guerre nel suo seno. I nazisti tedeschi chiama- vano
Gleichschaltung l'irregimentazione di tutta la vita nazionale, pubblica e privata, sotto
un unico capo E la "religio" ha tenuto il lume!
18) Non illudiamoci: la lettura del passato prossimo o remoto avrà sempre dei
Tocqueville, dei Beccaria o dei Manzoni, ma anche dei De Bonaldi ,dei De Maistre,
dei Novalis. Ci saranno anche dei Valla e dei Muratori; ma speriamo che restino ben
saldi negli spiriti un Socrate e un Gesù Cristo.

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