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Il libro

Q
ua l è i l m o d o m i g l i o r e d i v i v e r e ? D i c o s a è fat ta
l’eccellenza umana? Sono domande che gli uomini si pongono da sempre.
Nell’antichità la ricerca di un significato della vita trovava una risposta
grazie alla capacità di essere ricettivi a forze divine che ci trascinavano dando ai
momenti ordinari della vita un tocco di meraviglia e di gratitudine.
Da quando la civiltà occidentale ha cominciato ad affidarsi al potere della volontà
indipendente, è andata perduta la facoltà di collegarsi con il sacro. Con la
secolarizzazione è tramontato un sistema di valori chiaro e indiscutibile, ma non è
detto sia venuta meno la necessità di trovare una risposta, un senso piú grande che
trascenda il limite dell’esistenza individuale.
Prendendo in esame alcune delle opere piú importanti del canone occidentale,
dall’Odissea a Moby Dick, da Agostino a Cartesio a Kant, da Dante a David Foster
Wallace, i due filosofi americani ci spiegano in che modo abbiamo perduto il
coinvolgimento entusiastico con l’essenza fondamentale della nostra vita e ci
dimostrano che, rileggendo da capo i classici, possiamo ritrovare un’aderenza
appassionata all’intimo splendore e alla bellezza del mondo. Magari per accorgerci
di poter fare piú facilmente esperienza dell’universale dentro uno stadio sportivo
che non in una cattedrale.
Un libro ricco di spunti, spesso sorprendente, che illumina di una luce diversa la
cultura, la storia, le pratiche del sacro e noi stessi.

Sommario:
Prefazione di Gianni Vattimo. – I. Il nichilismo contemporaneo. II. Il nichilismo di
David Foster Wallace. III. Il politeismo di Omero. IV. Da Eschilo ad Agostino: l’ascesa
del monoteismo. V. Da Dante a Kant: attrazione e pericoli dell’autonomia. VI.
Fanatismo, politeismo e l’«arte maledetta» di Melville. – Conclusione. Vite degne di
essere vissute nella nostra epoca secolarizzata. – Epilogo. – Indice dei nomi di
persona e dei personaggi di fiction.
L’autore

Hubert Dreyfus ha insegnato per piú di quarant’anni Filosofia all’Università di


Berkeley, California. Si è occupato in special modo di Heidegger, Foucault,
ermeneutica e dei problemi filosofici legati allo sviluppo dell’intelligenza
artificiale.
Sean Dorrance Kelly insegna Filosofia ad Harvard.
Hubert Dreyfus
Sean Dorrance Kelly

Ogni cosa risplende


I classici e il senso dell’esistenza

Prefazione di Gianni Vattimo


Traduzione di Cristina Spinoglio

Piccola Biblioteca Einaudi


Filosofia
Titolo originale All Things Shining.
Reading the Western Classics to Find Meaning in a Secular Age
© 2011 Hubert Dreyfus and Sean Dorrance Kelly. All rights reserved

© 2012 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino


In copertina: foto Christina Veit / iStock Vectors / Getty Images.

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fruitore successivo.

www.einaudi.it

Ebook ISBN 9788858405710


Prefazione

«Nur zu Zeiten erträgt göttliche Fülle der Mensch…» Anche se


Hölderlin (i versi vengono dall’elegia Brot und Wein) non è tra gli autori
citati e commentati da Hubert Dreyfus e Sean Dorrance Kelly, non è
infondato pensare che sia tra i loro segreti ispiratori. Del resto, Dreyfus, il
piú noto, non solo in Italia, tra i due autori, è un filosofo che ha studiato a
lungo il pensiero tedesco, Heidegger anzitutto, e Hölderlin è un poeta che
Heidegger cita e commenta continuamente. «Solo a momenti l’uomo fa
esperienza di una pienezza divina, dopo la vita è sogno di essi». Mi pare si
possa applicare al discorso di questo libro anche la seconda parte della
citazione; certo, quello che gli autori hanno di mira qui è proprio quello
stato di grazia, il momento di illuminazione a cui pensa il poeta tedesco.
Ma il sogno che viene dopo e si nutre del ricordo e della traccia di quei
momenti potrebbe ben essere tutto ciò che costituisce la sostanza del libro:
l’epopea omerica, la tragedia greca, le grandi opere letterarie fino a Dante,
a Melville, a David Foster Wallace. Il sogno che nutre, dopo, la vita non è
tanto altro dalla realtà dei momenti di grazia, anzi è difficile pensare a
questi momenti fuori dal mito che li racconta e ce li rende presenti. Anche
se il libro si apre con un fatto di cronaca, la storia di un «eroe»
newyorchese che si lancia sui binari della metropolitana per salvare una
persona che ci è caduta e che lui non conosce affatto, dunque per un
impulso «irrazionale», perché contrario a ogni principio di
autoconservazione dato il rischio di morte quasi sicura che l’impresa
implicava, l’incipit lascia poi il posto all’illustrazione di grandi testi
letterari della tradizione occidentale, e cioè ai «sogni» che riportano i
momenti di pienezza, gli eroismi simili a quello della metropolitana di
New York, e che, per gli autori, possono aiutarci a dare un senso alla
nostra vita salvandoci dal «nichilismo» entro cui ci troviamo nel mondo
contemporaneo.
Si tratta di un libro che, nel senso migliore, potremmo chiamare
edificante, e che ha quel tanto di «americano» necessario per affrontare
senza troppo timore reverenziale, accademico e scientifico, la tradizione
occidentale che intende attivare «utilizzandola» a scopi educativi. Non è
un libro di divulgazione, anche se funziona come tale perché riprende e
illustra molti testi che non sono tra i contenuti della nostra cultura
comune (e di quella americana assai meno che della nostra: noi leggiamo
nelle medie i poemi omerici, talvolta nell’originale) e che spesso restano
patrimonio di saperi specialistici. Non è comunicazione di un certo sapere,
ma invito a condividere delle esperienze. Non per nulla parla di «eroi»,
come con l’intenzione di farceli incontrare personalmente in modo che
l’incontro costituisca un’esperienza – un’esperienza di verità in quanto
«vera esperienza», di quelle che ci segnano e mettono in moto un
cambiamento.
Gli autori si possono permettere questo approccio disinvolto alla
grande tradizione della cultura occidentale anzitutto perché hanno,
accademicamente, le carte in regola. Dreyfus è professore di filosofia a
Berkeley, Kelly a Harvard. Dreyfus, il piú anziano e conosciuto dei due, è
uno dei massimi conoscitori americani di Husserl, Heidegger, in genere
dell’esistenzialismo e della filosofia che là chiamano «continentale». Ha
scritto un testo che è diventato un bestseller, Che cosa non possono fare i
computer 1, ha contribuito, insieme all’antropologo Paul Rabinow, a far
conoscere agli americani il pensiero di Foucault 2. Kelly ha studiato
dapprima informatica (computer science) e poi filosofia a Berkeley. Ma
anche lui in filosofia ha un percorso «continentale» e fenomenologico-
esistenzialistico: prima di questo scritto con Dreyfus, Kelly ha pubblicato
un importante lavoro sul significato della fenomenologia per la filosofia
del linguaggio e della mente 3 , che si muove nello stesso orizzonte
esistenzialistico di Dreyfus.
Il «nichilismo» che i due autori rimproverano alla condizione
contemporanea dell’uomo (occidentale, immaginiamo) è descritto proprio
a partire da una prospettiva esistenzialistica. Nichilista è l’uomo di oggi
che si sottrae al peso della scelta – piú o meno ciò che evoca
immediatamente il famoso titolo Aut aut di Kierkegaard. Del resto è
soprattutto all’esistenzialismo e alla problematica dell’autenticità che
pensa la cultura americana anche quando parla di «fenomenologia».
Ricordiamo che si chiama Society for Phenomenology and Existential
Philosophy l’associazione statunitense (con importanti e frequentatissimi
congressi annuali) che riunisce gli studiosi di filosofia «continentale».
Esistenzialistica è anche, anzitutto, l’ispirazione del lavoro di Dreyfus sui
limiti dell’intelligenza artificiale che, anticipando i temi di Ogni cosa
risplende, oppone alla razionalità del calcolatore l’intuizione vissuta. Ciò
che manca all’uomo del nichilismo contemporaneo è, in fondo,
l’esperienza del sacro, l’incontro con un’illuminazione che certo non
dipende tutta dalla volontà del soggetto, e per questo parliamo di sacro,
ma che ha bisogno di essere ascoltata. Non sentirla significa essere nella
condizione del Prufrock di Eliot che contempla le proprie indecisioni e
aspetta solo l’ora del tè per dimenticarsene. Noi parleremmo di una specie
di estetismo di massa, la consapevolezza della molteplicità di possibilità
che proprio la modernità ci pone di fronte e che finiscono per
immobilizzarci. C’è qui forse una eco di un altro autore che certamente
Dreyfus e Kelly hanno presente e spesso ricordano, il Nietzsche del saggio
Sull’utilità e il danno della storia per la vita. La modernità ha sviluppato
una vastissima conoscenza della storia, con questo però anche un’acuta
consapevolezza dell’inesorabile destino di tutte le opere umane. L’uomo
moderno è come il discepolo di Eraclito, anche piú radicale di lui: quello
sapeva di non poter scendere due volte nello stesso fiume, la cui acqua
scorre sempre; noi, acutamente consapevoli di questo scorrere, non
abbiamo neanche la forza di muoverci per scendere una sola volta in
quell’acqua. L’eccesso di consapevolezza storica, scrive là Nietzsche, ci
rende impossibile fare nuova storia.
Contro ogni apparenza, e probabilmente anche a loro stessa insaputa,
ciò che propongono gli autori di questo libro come rimedio al nichilismo
non è molto lontano da quello che proprio il Nietzsche di quel saggio
aveva in mente: una specie di ritorno al mito, e infine una ripresa del
politeismo, ancora una volta seguendo una indicazione nietzscheana: Dio
è morto, ora vogliamo che vivano molti dèi. Diversamente da Nietzsche, e
da Heidegger che lo riprende (anche lui con il proposito di superarlo),
Dreyfus e Kelly non riconoscono nel nichilismo un destino epocale, lo
vedono piuttosto come una condizione psicologica, che non si identifica
con una patologia individuale ma non si lascia ricondurre neppure a una
condizione socio-storica. Del resto, il loro libro persegue un’utilità in
senso largo terapeutica. Si rivolge alle persone che vivono una condizione
di vacuità e di angoscia perché hanno perso la capacità di fare esperienza
dell’illuminazione, del sacro insomma. E cerca di risuscitare questa
capacità attraverso la rivisitazione della grande tradizione religioso-
letteraria-mitologica dell’Occidente quale si rispecchia nei testi di questa
tradizione.
Il libro, come abbiamo detto, non è un’opera di divulgazione. Non è
dunque una storia sistematica della letteratura, tantomeno della letteratura
universale. Come accade agli eroi che ne sono protagonisti – sia come
personaggi letterari, sia come autori – procede per illuminazioni
relativamente arbitrarie. Comincia con Omero e i tragici greci, ma poi
passa subito a un autore come David Foster Wallace, un giovane scrittore
americano già considerato un classico – morto suicida nel 2008, all’età di
quarantasei anni –, per aver vissuto fino in fondo, in termini «eroici», il
nichilismo caratteristico della sua generazione ma in generale della nostra
epoca. Il libro si snoda poi attraverso una lunga rivisitazione di Omero e
del politeismo greco, di Eschilo, di sant’Agostino e Dante, con l’avventura
del monoteismo giudeo-cristiano che, nella prospettiva dei due autori,
culmina, per dir cosí, nell’ossessione del capitano Achab di Melville come
esempio «eroico» ma negativo, di fanatismo. Sebbene gli exempla che
Dreyfus e Kelly scelgono di presentare non vogliano essere articolazioni di
uno schema evolutivo o involutivo di qualche genere, un filo conduttore
tra di essi risulta abbastanza evidente. Ciò di cui si tratta è la storia del
monoteismo moderno (o post-antico) e dei suoi effetti disumanizzanti,
tanto che la pagina conclusiva del libro celebra il fatto che le molteplici
pratiche di esistenza che l’Occidente ha sviluppato, pur sempre con
l’ombra incombente del fanatismo, ci hanno posti in condizione di
liberarci dal monoteismo. Perché il politeismo, poi? È la tesi piú
scandalosa del libro, ovviamente. Che spiega il titolo su ogni cosa che
risplende. Il nichilismo a cui crede di reagire la fede fanatica di un Achab è
in realtà la perdita di ogni senso del sacro – una sorta di riduzione al
minimo del divino che invece è possibile incontrare in tutte le forme
autentiche (possiamo forse dire cosí) di esperienza, e a cui siamo diventati
sordi e ciechi. È vero che tra le forme di esistenza che l’Occidente ha
inventato e moltiplicato per noi c’è anche tutto l’ambito delle tecnologie,
dunque la tecnica non è forse il nemico fatale del sacro, anche se questo
rimane uno dei punti meno univocamente chiariti del libro. Da buoni
fenomenologi (viene qui in mente un esempio italiano, quello di Pier Aldo
Rovatti, anche lui formatosi sui testi della fenomenologia, da Husserl a
Paci) Dreyfus e Kelly cercano il significato autentico dell’esperienza anche
e soprattutto nei margini, anche negli eventi minimi che tendiamo a vivere
senza l’attenzione dovuta, perdendo la ricchezza di colori della vita. Ciò
che risplende, per loro, in tutte le cose è per l’appunto il darsi di una
presenza che non si lascia ridurre all’iniziativa del soggetto. Ciò che in
inglese gli autori chiamano skill – un’abilità, un talento, un dono speciale
(Heidegger e Gadamer in tedesco lo chiamano Schick, che risuona ancora
nel francese avoir du chic, e nell’italiano «chic»), si può anche chiamare
«grazia», proprio nel senso che implica un intervento trascendente. Da
buoni americani, oltre che fenomenologi, Dreyfus e Kelly pensano alle
grandi prestazioni sportive del loro sport nazionale, il baseball. Noi
pensiamo ovviamente al calcio – Roberto Baggio, per esempio, era
soprannominato «il Divin codino»; e il divismo che, anche in modo
deteriore, si sviluppa intorno a campioni come questi non è
un’usurpazione del nome. Se non cogliamo la presenza del sacro in simili
personaggi, o in certi momenti splendenti della loro vita («Solo a
momenti…») è perché, come accade nel calcio, siamo ormai troppo
consapevoli del mercato che vi si agita intorno. Non proprio e soltanto
della tecnica che ha disincantato il mondo, ma di quella rete di rapporti
che (anche qui da buoni americani?) i due autori non chiamano
capitalismo moderno come forse dovrebbero. Una questione che resta
aperta per tutto il corso delle loro pagine spesso bellissime e commoventi.
Perché il nichilismo? Non è un fatto fisiologico che colpisca comunque
ogni uomo – per esempio in una certa età della vita – tanto che, come ci
hanno insegnato i romantici, a cominciare da Winckelmann, da Hegel, da
Nietzsche, i Greci dell’epoca omerica non ne soffrivano. Solo «colpa» del
cristianesimo e del monoteismo? Si noti che nel libro di Dreyfus e Kelly
Gesú non è affatto una figura dimenticata o marginale, anche se, collocata
nell’orizzonte politeistico che li ispira, perde fatalmente la sua esclusività;
è un po’ come il Gesú di Hölderlin, che è l’ultimo degli dèi antichi e con la
sua ascensione al cielo chiude tutta un’epoca, proprio quella a cui i nostri
due autori guardano come all’esempio da riprendere e imitare. Certo
neanche per Dreyfus e Kelly si può immaginare un ritorno alla Grecia
omerica, ai suoi eroi e ai suoi dèi. Come per i grandi romantici, quello
stato di ingenuità che vediamo in loro e nella loro poesia non può che
essere da noi rievocato con la nostalgia di chi lo vive come un tesoro
perduto. «Sogno di essi è, dopo, la vita». Frequentare i testi che questo
libro richiama, commenta e, in un certo senso almeno, raccomanda, è
come un esercizio di affinamento della capacità di ascoltare. Un po’ come
quando uno che ha visto molta pittura di paesaggio diventa anche piú
sensibile a colori, sfumature, forme a cui altrimenti non farebbe
attenzione.
Ma Gesú da un lato, e il capitalismo dall’altro, le due «assenze» (per
Gesú solo parziale) che fanno problema quando tentiamo un bilancio della
lettura di questo libro, restano come domande aperte, che l’opera ha il
merito di suscitare anche se non le risolve del tutto. Del resto sarebbe assai
contraddittorio con il loro professato politeismo se gli autori ci
raccomandassero una qualche via di uscita determinata dal nichilismo
dominante. Fine del monoteismo significa apertura al sacro che si
annuncia dovunque nella nostra esperienza, se solo sappiamo farvi
attenzione e ascoltarla. Dunque niente chiusure o vie pregiudizialmente
preferite, solo uno sguardo piú attento e un orecchio piú vigile. Ma come
un cristiano credente non sarebbe contento di considerare Gesú «solo»
come un dio tra gli dèi, cosí uno che voglia uscire dal nichilismo – che,
ricordiamolo, consiste nel sottrarsi all’onere delle scelte – può nutrire il
dubbio che questa apertura politeistica alla molteplicità dello splendore del
sacro sia un modo per rimanere appunto nello stato d’animo inerte di
mister Prufrock. Frequentare i grandi spiriti di tutte le epoche, leggere i
classici e cogliere anche nelle minime esperienze di ogni giorno la
presenza del divino è quello che possiamo fare – ci direbbero i nostri due
autori. Ed è certo qualcosa che ci attira e che sentiamo come una possibile
via di emancipazione. Ma il sacro che si annuncia nelle esperienze
autentiche che riusciamo a fare contiene anche sempre un elemento di
ulteriorità, richiama a guardare oltre. Dunque, anche a restare ancora
sempre assetati di altro.

GIANNI VAT TIMO

1
Armando, Roma 1988 (ed. or. What Computers Can’t Do. The Limits of Artificial Intelligence,
Harper & Row, New York 1972 e 1979).
2
H. DREYFUS e P. RABINOW , La ricerca di Michel Foucault: analitica della verità e storia del
presente, Ponte alle Grazie, Firenze 1989 (ed. or. Michel Foucault, Beyond Structuralism and
Hermeneutics, University of Chicago Press, Chicago 1982 e 1983).
3
The Relevance of Phenomenology to the Philosophy of Language and Mind, Garland, New York
2001.
Nota per il lettore

Oggi non ci interessa piú il mondo com’era un tempo. Le vite dei Greci
all’epoca di Omero, intense e piene di significato, e la maestosa gerarchia
che strutturava l’universo cristiano medievale di Dante sono radicalmente
diverse dalla nostra epoca secolarizzata. In passato, il mondo, nelle sue
varie forme, era costituito da un insieme di elementi sacri e splendenti.
Abbiamo da tempo lasciato alle spalle questa luminosa realtà, e ora
vorremmo farla rivivere con questo libro.
Le questioni alla base del nostro saggio sono filosofiche e letterarie e le
abbiamo abbordate partendo dalla nostra formazione in entrambe le
discipline. Ma Ogni cosa risplende si rivolge a un pubblico di non specialisti
e ci auguriamo che possa essere letto dalle persone piú diverse. Chiunque
viva nel mondo contemporaneo possiede le basi che gli permettono di
leggerlo e chiunque speri di arricchire la propria vita riflettendo sui
classici della filosofia e della letteratura può trovarvi un utile spunto. È
rivolto a chi vuole guardare indietro alla realtà splendente dell’antichità
per capire il senso di stupore con cui un tempo eravamo capaci di vivere e
per scoprire che, a volte, il mondo di oggi riecheggia ancora di questa luce;
a chi si strugga nell’indecisione o nell’attesa, a chi prova il vuoto
dell’assenza di significato, oppure smarrimento, tristezza o angoscia; a chi
è curioso di sapere che cosa verrà dopo; a chi prova speranza invece che
disperazione e a chi è assillato dallo sconforto per ciò che potrà lasciarsi
alle spalle: tutti possono trovare qualcosa di utile in queste pagine. O
almeno è quello che ci auguriamo.

H. D. S. D. K.
a Geneviève,
il cui modo di stare al mondo
è la mia risposta francese
al nichilismo
HUBERT

per Dorrance, Dorothy,


Bryan e Cheryl,
Benjamin, Nathaniel

a coloro che splendono,


illuminando il presente
e rischiarando il cammino
verso il futuro
SEAN
OGNI COSA RISPLENDE

Se in futuro qualche erudito e poetico


popolo richiamerà, allettandoli, ai loro diritti
di nascita gli antichi allegri dèi del
Calendimaggio, e li rimetterà vivi e veri sul
trono del cielo ora tanto egoistico, sulla
collina ora deserta; state certi allora che,
sollevato all’alto seggio di Giove, il grande
capodoglio sarà il re.

H. MELVILLE , Moby Dick.


Capitolo primo
Il nichilismo contemporaneo

Faceva caldo, il 2 gennaio 2007. I giornali riportarono che, all’Orto


botanico di Brooklyn, un ciliegio molto ottimista si era ricoperto di
migliaia di boccioli. In tutta la città, la gente si raccoglieva
spontaneamente all’aperto, attratta dalla gioiosa atmosfera primaverile 1.
Ma a Manhattan, su una piattaforma della metropolitana tra la
Centotrentasettesima strada e la Broadway, subito dopo l’ora di pranzo,
l’accenno primaverile svaní in un attimo. Cameron Hollopeter, uno
studente di cinema di vent’anni, crollò a terra, sopraffatto dalle
convulsioni. A quanto raccontarono poi i giornali, un uomo e due donne si
precipitarono a soccorrerlo. Mentre si adoperavano per aiutarlo, il giovane
provò a rialzarsi, ma incespicò e precipitò sui binari 2.
Quello che accadde dopo folgorò la comunità newyorchese, allettata
anzitempo dalla primavera. Wesley Autrey, il muratore cinquantenne che
era corso in aiuto del giovane, aveva lasciato le figliolette, Syshe di quattro
anni e Shuqui di sei, da sole sulla piattaforma. Quando apparvero da
lontano i fanali anteriori del treno della linea 1, diretto a sud, non esitò.
Saltò sui binari e piombò su Hollopeter, obbligandolo con il peso del
proprio corpo a incunearsi in uno spazio profondo poco piú di trenta
centimetri. I freni stridettero sopra le loro teste, ma il treno non riuscí a
fermarsi in tempo: cinque vagoni sfrecciarono cigolando sopra i due
uomini, mancandoli di pochi centimetri, prima che il convoglio potesse
infine arrestarsi. Mentre giacevano immobili nell’esiguo spazio sotto il
treno, Autrey sentí le grida dei passeggeri in sosta sul marciapiede.
«Stiamo bene», urlò a sua volta, «ma le mie bambine sono lí sole sulla
piattaforma. Dite loro che il papà non s’è fatto niente». Ci fu allora
un’esplosione di esclamazioni incredule e di applausi. In seguito, quando
l’elettricità venne interrotta, gli addetti riuscirono a estrarre i due uomini
dal loro rifugio sotto il treno. A parte il grasso che aveva sporcato il
berretto di lana di Autrey, qualche livido e qualche graffio, i due erano
illesi.
Wesley Autrey fu definito dai giornali l’«Eroe della Metropolitana» e
godette di una meritata popolarità mediatica. I politici fecero a gara per
farsi fotografare con lui 3 e gli editorialisti aprirono un dibattito per sapere
se Autrey era «davvero piú incline all’eroismo» 4 di noi comuni mortali o
se invece New York aveva gli stessi valori altruistici che ci si sarebbe
potuti aspettare in una cittadina di provincia come Dubuque 5. Tutti erano
pronti a scommettere che avrebbero agito esattamente come Autrey e un
funzionario di polizia disse solennemente che i newyorchesi lo avevano
preso come modello: se un concittadino si fosse trovato in difficoltà, non
avrebbero esitato a salvarlo 6. Tuttavia Autrey continuava a ribadire di non
essere affatto un eroe e di non aver compiuto nulla di straordinario. «Non
mi sembra di aver fatto qualcosa di spettacolare», disse, «ho
semplicemente visto qualcuno che aveva bisogno di aiuto» 7.
Non soltanto è un eroe, si potrebbe pensare, ma è persino modesto!
Indubbiamente l’impresa di Autrey è stata eroica ed esemplare, ma può
anche darsi che quella che sembra modestia non sia stata altro che una
valutazione oggettiva e onesta della propria esperienza. Infatti, anche se
azioni di questo tipo ovviamente sono poco comuni, non è raro che i
protagonisti affermino di essersi comportati come chiunque altro. Cosí
disse all’epoca dei fatti Charles Goodstein, professore di psichiatria alla
New York University School of Medicine:
Se si analizzano i racconti fatti da coloro che vengono definiti eroi, in contesto
militare o in altro ambito, il piú delle volte essi sostengono che la loro azione è stata
compiuta senza alcuna preparazione mentale. Si trattava di un gesto spontaneo che
non teneva conto dei particolari né della situazione oggettiva. Sono convinto che sono
sinceri quando dicono di non considerarsi degli eroi e sostengono di aver
semplicemente reagito a una situazione di emergenza 8.

Non intendiamo con questo affermare che in una situazione analoga


tutti avrebbero agito nello stesso modo, anzi c’è piú di una prova che
dimostra il contrario. Forse quello che Autrey e altri tentano onestamente
di comunicarci è che, quando si sono trovati nella situazione che li ha resi
eroi, non si consideravano affatto i veri responsabili del loro
comportamento. Sembrava piuttosto che fosse il contesto ad averli spinti
all’azione, non lasciando spazio né all’esitazione né all’incertezza. Lo ha
detto lo stesso Autrey: «Ho semplicemente visto qualcuno che aveva
bisogno d’aiuto».

Questo senso di assoluta certezza è raro nel mondo contemporaneo.


Anzi la vita moderna sembra essere connotata in senso opposto. Ci
troviamo continuamente di fronte a un tale ventaglio di scelte che quasi
tutti ammettiamo di essere incerti o titubanti, perlomeno in alcune
occasioni. Lungi dall’essere sicure e prive di incertezze, le nostre esistenze
possono essere piene di esitazione e di tentennamenti; alla fine, le
decisioni vengono prese senza una base precisa.
Portata all’eccesso, evidentemente, questa tendenza è paradossale. Per
fortuna non tutti subiscono l’effetto paralizzante della nevrosi come
succede ai personaggi di Woody Allen. Anche T. S. Eliot ha
magistralmente descritto questa tendenza caratteriale estrema. J. Alfred
Prufrock è cosí indeciso che persino i brevi momenti prima del tè si
trasformano in una serie infinita di piccole incertezze:

Tempo per te e tempo per me,


E tempo anche per cento indecisioni,
E per cento visioni e revisioni,
Prima di prendere un tè col pane abbrustolito 9.

Certo, si tratta di una parodia, eppure questi versi hanno avuto una
grande popolarità proprio perché contengono innegabili elementi di
verità. Grazie al cielo, noi non siamo continuamente paralizzati di fronte al
ventaglio di scelte che ci troviamo davanti, eppure siamo consapevoli della
loro sconvolgente varietà, e a volte ci chiediamo su quale base prendiamo
una decisione piuttosto che un’altra.
Tutti sono in grado di riconoscere le scelte a cui ci troviamo di fronte e
alcune sembrano davvero banali. La mattina dobbiamo interrompere
ancora una volta la suoneria della sveglia? La camicia che stiamo per
indossare è per caso troppo stropicciata? A pranzo mangiamo insalata o
patate fritte? E via di questo passo. Altre scelte su cui dobbiamo
pronunciarci, anche con una certa frequenza, toccano tuttavia questioni
piú importanti e piú problematiche. A volte vanno addirittura a toccare la
nostra identità piú profonda. Per esempio: è il momento di troncare una
relazione? E a livello professionale, devo cogliere al volo l’opportunità che
mi offrono oppure scegliere un’altra strada? Oppure devo evitare qualsiasi
decisione? Devo schierarmi con il tal candidato, il tal collaboratore, il tal
gruppo sociale? Devo privilegiare un ramo della famiglia rispetto ad altri
famigliari? Le nostre vite sono piene di interrogativi e di scelte di questo
genere: ci chiediamo su quali basi prendere una decisione, e poi la
rimpiangiamo, oppure ci pentiamo o continuiamo a vantarcene.
Molti sostengono che la libertà di scelta è una delle maggiori conquiste
del progresso nella vita moderna e in questo c’è indubbiamente una parte
di verità. Coloro che vivono in estrema povertà non si preoccupano affatto
di quale cibo mangiare, proprio perché non hanno nessuna scelta. La
libertà di scegliere un indirizzo professionale piuttosto che un altro non è
possibile se un’economia in recessione ha creato sacche di disoccupazione
in un certo settore. Ciò che caratterizza il mondo moderno, tuttavia, non è
soltanto il fatto che molti di noi si trovano di fronte a una gamma di scelte
ben superiore a qualsiasi altra epoca – scelte sul proprio divenire
personale, sulle possibilità d’azione, sugli schieramenti politici e collettivi.
Il problema è che, quando ci troviamo di fronte a tali scelte esistenziali, ci
manca una vera e propria motivazione che ci aiuti a dare la preferenza a
una delle possibili alternative. Detto in altri termini, nella vita e nelle
azioni che ogni giorno intraprendiamo, è assai raro trovare quella certezza
che ha provato Wesley Autrey quando si è trovato di fronte a una persona
in pericolo.

Ci sono almeno due tipi di persone che fanno di tutto per evitare il
fardello contemporaneo della scelta, entrambi in modo sbagliato.
Innanzitutto c’è chi ha una gran fiducia in se stesso (di solito si tratta di un
uomo) e si lancia a capofitto in ogni azione che intraprende. Considera
ovvio il mondo intorno a sé, si meraviglia che qualcuno si interroghi sulla
difficoltà di fare una scelta e la sicurezza che emana, in genere, ha sugli
altri un effetto trascinante.
L’uomo sicuro di sé spesso è qualcuno capace di convincere. Iperattivo,
vincente e concentrato sui propri obiettivi, fa di tutto perché sia il mondo
esterno a essere in sintonia con la sua visione delle cose. È possibile che
sia sinceramente convinto che la sua interpretazione sia superiore alle
altre, che il mondo sarebbe davvero un posto migliore se potesse
plasmarlo secondo la sua volontà e a volte è davvero in grado di operare
cambiamenti positivi. Tuttavia, questo atteggiamento comporta dei rischi.
Troppo spesso succede che questa roboante fiducia in se stessi celi delle
ragioni nascoste: potrebbe trattarsi di arroganza, associata a un’ambizione
sfrenata oppure, peggio ancora, di un’irrealistica concezione di sé. Di
conseguenza, quando i suoi progetti falliscono, come talvolta succede, chi
è troppo sicuro di sé spesso è incapace di riconoscere il proprio insuccesso.
Aggrappato con ostinazione e pervicacia alla sua idea di come dovrebbe
essere il mondo, non è capace di affrontarlo per quello che è realmente.
L’uomo sicuro di sé crede che la fiducia che ripone in se stesso sia una sua
personale virtú; se portato all’eccesso, questo lato del carattere può
condurre al fanatismo, o alla monomania, come vedremo nel capitano
Achab che Melville descrive in Moby Dick.
Si può trovare un ottimo esempio di una personalità tanto ostinata nel
ritratto che Orson Welles fa del magnate della stampa Charles Foster Kane
in Quarto potere. Il Kane di Welles è un uomo affascinante, con una forte
personalità, ed esige dagli altri lealtà e obbedienza assolute. Ha uno
straordinario successo, gode di perfetta salute e, grazie all’influenza
esercitata dal giornale di sua proprietà, pretende addirittura di essere in
grado di influire sul corso dell’universo. Come dice in una battuta famosa
del film, «Invii pure poema in prosa, io procurerò la guerra». Kane è un
uomo che non si sofferma mai a guardare al passato, che non si
sognerebbe mai un solo attimo di défaillance e che disprezza coloro che
sono incapaci di agire con la sollecitudine e la presenza di spirito necessari
a respingere i suoi continui attacchi. Alla fine, tuttavia, l’arroganza e la
brama di potere sono all’origine della sua rovina. Quando uno scandalo
amoroso gli rovina il matrimonio e la carriera politica, Kane non riesce piú
a controllare la sua vita. La parola pronunciata in punto di morte,
«Rosebud» («Rosabella»), non è altro che un richiamo nostalgico all’unico
periodo della sua vita in cui era povero, e non ancora un vincente capace
di soddisfare ogni minimo desiderio.
La sicurezza gli permette di evitare il fardello della scelta. Kane è
perfettamente consapevole dei suoi desideri e non arretra davanti a niente
per poterli realizzare. Ma la presunzione su cui poggia la sua vita alla fine
si rivela vuota, priva di una base reale che non sia la brama di potere, del
tutto insufficiente, si vedrà, per ispirare una vita degna di essere vissuta.
Al contrario, la fiducia in sé, misurata e realistica, che ha animato il
comportamento di Autrey non scaturisce da pensieri e desideri spontanei
né è calcolata in base a principî e prese di posizione, ma viene vissuta
come la conseguenza di un evento esterno. È un atteggiamento che trova
la sua giustificazione nella realtà, non in una sua interpretazione piú o
meno opportunistica da parte di chi è troppo sicuro di sé. Chi ha
veramente fiducia in se stesso non se la costruisce da solo, ma la ricava
dalle circostanze.

Esiste un altro modo per evitare il tormento contemporaneo davanti


alla scelta, ma non è migliore di una sicurezza di sé costruita
artificiosamente. Ci riferiamo a chi non sceglie affatto, perché è
prigioniero di ossessioni, infatuazioni o dipendenze. Anche costui è
trascinato da qualcosa di esterno, ma un abisso lo separa dall’eroico
Autrey.
Oggi tutti sanno che cos’è la dipendenza ed è superfluo citare le varie
forme che può assumere. Ci sono le droghe, i divertimenti e le
innumerevoli altre tentazioni di fronte a cui si può smarrire il senso di se
stessi. Il fenomeno della dipendenza oggi assume anche una forma
particolare, sconosciuta prima dell’era della tecnologia: i blog e i social
network, di cui molti hanno subito l’attrazione. In un primo tempo prevale
la curiosità e l’eccitazione: quando si scopre l’universo dei blog, per
esempio, si ha la sensazione elettrizzante di essere aggiornatissimi su
qualsiasi avvenimento di rilievo nella scena internazionale. Prendiamo la
politica, per esempio. In un attimo è possibile sapere quello che sta
succedendo nella sede del Congresso degli Stati Uniti, non soltanto nella
settimana in corso o il giorno stesso, ma proprio in questo momento, in
tempo reale. Lo stesso avviene con i social network. Siamo
immediatamente in contatto con tutti gli amici che per anni, senza
neppure sapere il perché, abbiamo smesso di frequentare.
Una volta stregati da una di queste passioni, ci si può lasciar prendere
la mano e si diventa ossessivamente dipendenti dai post piú recenti, alla
spasmodica ricerca dell’ultimo scoop, ansiosi di sapere, per esempio, qual
è stata l’ultima crisi politica o desiderosi di conoscere la posizione degli
osservatori. Si naviga freneticamente da un sito all’altro e da un amico
all’altro in attesa dell’ultimo aggiornamento, per poi rendersi conto che,
quando si ottiene l’informazione tanto attesa, si è costretti a ricominciare
da capo, alla ricerca di nuovi post e di informazioni esclusive. Il desiderio
convulso per la novità diventa costante e continuo e l’ultimo post in rete è
solo un pretesto per cercarne altri ancora. Alla base di questo tipo di
dipendenza, c’è il bisogno generico di agire, che non è soddisfatto neanche
eseguendo tutto quanto è necessario. Al contrario, l’eroe prova un senso di
pienezza e di gioia perché a spingerlo all’azione è stata una causa nobile e
coraggiosa.
Il peso della scelta è un fenomeno contemporaneo. È tipico di un
mondo che non ha piú Dio né dèi e che, per farci capire chi siamo, non
può ricorrere neppure al senso di ciò che è sacro e inviolabile. Come
abbiamo appena visto, di fronte alla paralisi della scelta, non tutti gli
approcci sono equivalenti. Da una parte, la fiducia in sé che sfiora
l’arroganza e, dall’altra, la mancanza di controllo che deriva dalle
dipendenze sono entrambi modi per eludere il problema, o rifiutando di
tener conto delle alternative o non vedendole neppure: non sono certo
queste le condizioni che caratterizzano l’eroe che agisce senza neppure
pensarci.

Che cosa significa agire d’impulso come ha fatto il signor Autrey, cioè
entrare in azione senza considerarsi protagonisti, avere la sensazione di
essere spinti dalle circostanze senza esserne travolti? Anche se non ci
facciamo caso, questi comportamenti non sono poi cosí rari nella vita di
ogni giorno, seppur in una versione piú leggera. Il pendolare al mattino
che a un certo punto si rende conto di essere sull’autobus, ma non si
ricorda nemmeno la sequenza di azioni che lo hanno portato lí. L’autista di
tir che improvvisamente si accorge di guidare da ore senza «averci fatto
caso». L’impiegata che, arrivata a casa stravolta dopo una giornata di
lavoro, si ritrova sprofondata nella sua poltrona preferita senza aver preso
la decisione di sedersi. Questi comportamenti di routine avvengono
automaticamente, offline si potrebbe dire, senza che il protagonista si sia
reso conto di averli compiuti. Anzi fa parte del normale pattern
comportamentale il fatto che a un certo punto il soggetto protesti o resista.
In un certo senso, il soggetto di azioni di routine, proprio come l’eroe, non
è né un protagonista animato dalla volontà né uno schiavo inconsapevole.
L’azione di routine tuttavia non è un gesto eroico. La differenza
consiste nel fatto che, mentre il soggetto delle azioni di routine manca
della consapevolezza non solo di sé, ma anche dell’ambiente intorno, l’eroe
ha invece un’acuta coscienza di quello che la situazione richiede.
La coscienza di quello che la situazione richiede non è affatto una
consapevolezza oggettiva delle circostanze. Anche gli altri che si
trovavano sulla piattaforma della metropolitana molto probabilmente si
erano accorti che Hollopeter era in pericolo; in questi termini, sono stati
testimoni attendibili e obiettivi dell’avvenimento. Inoltre, è probabile che
molti di loro si fossero resi conto che la situazione necessitava un
intervento immediato. Forse molti hanno sentito il bisogno di agire in
prima persona, ma non erano abbastanza motivati per andare in soccorso
del malcapitato. Nella loro esperienza c’è posto per l’esitazione, ma non in
quella di Autrey.
È difficile biasimare chi, trovandosi in simili frangenti, non reagisce con
eroismo: molti hanno sicuramente vissuto un’esperienza del genere. Forse
hanno pensato in preda al panico: «Mio Dio! Questo poveretto è caduto
sulle rotaie. Qualcuno deve fare qualcosa!» Non è che fossero privi di
empatia nei confronti della vittima, anzi probabilmente erano convinti che
fosse urgente intervenire. Se dobbiamo prendere alla lettera le parole di
Autrey, egli non ha pensato a nulla di simile e quindi non ha mai deciso di
agire in conseguenza dei suoi ragionamenti. Piuttosto, è stata la situazione
disperata in cui si trovava Hollopeter a spingerlo ad agire senza esitare. È
in questo che la sua esperienza è diversa da quella degli altri, i quali in
genere si comportano senza una reale coscienza di quel che sta
succedendo intorno. Si distingue dagli altri spettatori anche perché
l’esperienza che hanno avuto della situazione ha dato loro il tempo di
domandarsi che cosa fare. Autrey è in una posizione ben diversa da due
punti di vista: non solo ha avuto consapevolezza dell’ambiente intorno, ma
lo ha percepito in un modo che gli ha permesso di reagire.
Può sembrare un fenomeno strano e siamo costretti ad ammettere che è
molto raro. Nella sua forma estrema, si tratta di un atto eroico e non
comune. Ma se facciamo attenzione, troviamo situazioni analoghe anche
nella vita di tutti i giorni. I casi piú eclatanti probabilmente si trovano in
campo sportivo. Le espressioni del linguaggio quotidiano li mettono in
rilievo: per esempio, in inglese per dire che una squadra gioca al meglio, si
utilizza l’espressione play out of their head 10, che implica l’idea di aver
abbandonato il dominio della razionalità per seguire in modo istintivo il
flusso del gioco. Un atleta, nel momento clou della partita, percepisce
acutamente tutto quel che avviene intorno a lui, un po’ come Autrey.
Una delle piú efficaci descrizioni della bravura degli atleti si trova nel
libro di John McPhee A Sense of Where You Are 11, che descrive la carriera
nella squadra universitaria di basket di Bill Bradley, considerato
dall’autore il miglior giocatore di sempre della categoria. Bradley
naturalmente non si limitò alle competizioni universitarie e ottenne una
borsa di studio Rhodes 12, entrò nella Hall of Fame con i New York Knicks,
poi diventò senatore e si candidò alle presidenziali degli Stati Uniti. Il libro
di McPhee si concentra sul periodo in cui Bradley fu attivo come giocatore
universitario ed è in questo contesto che affronta il fenomeno di cui
stiamo parlando.
Uno degli aspetti piú sorprendenti nel gioco di Bradley, secondo
McPhee, era la sua capacità di essere immediatamente consapevole di tutto
ciò che stava succedendo sul campo. Possedeva questa lucida
consapevolezza senza neppure aver bisogno di guardarsi intorno, come nel
tiro qui descritto:

Il tiro sopra la spalla non aveva un nome vero e proprio. Senza guardare, lanciò la
palla da sopra la testa dritto nel canestro. Non c’era bisogno di guardare, spiegò poi,
perché «aveva affinato un senso ben preciso, quello di sapere esattamente dov’era» 13.

Questo tipo di visione sul campo permetteva a Bradley di sapere che


cosa succedeva intorno a lui fino a quando si accorgeva che era il
momento adatto per cogliere un’opportunità di gioco. McPhee lo descrive
cosí:

Il suo dono naturale piú straordinario era costituito dalla capacità di vedere.
Durante una partita, gli occhi di Bradley sembravano il guizzo di una visione
panottica: un giocatore di basket deve poter vedere tutto senza mai focalizzarsi sui
dettagli, fino all’ultimo istante della partita 14.

Lo sguardo di Bradley, «il guizzo di una visione panottica» nella bella


immagine di McPhee, è proprio il contrario dello sguardo consapevole di
un testimone oculare. L’atleta è attento alle possibilità di entrare in azione,
non ai dettagli della scena. È stato questo sguardo a permettere a un
campione come Bradley di dare il meglio di sé nella partita piú
sensazionale della sua carriera contro la squadra in cima alla classifica del
campionato americano, di fronte a migliaia di spettatori al Madison Square
Garden:

Michigan scelse di non raddoppiarlo, e lui gliela fece pagare … Rubò la palla, tagliò
dietro la difesa a ripetizione e distribuí passaggi eccezionali. Con le virate riuscí a
battere i migliori difensori della Big Ten Conference. Tenne il suo uomo a un solo
punto segnato. Giocò sul perimetro, in post basso e negli angoli. In un’occasione si
trovò in un angolo del campo contro due avversari, ambedue piú alti, che lo
raddoppiavano spalla contro spalla. Li divise con due rapide finte – muovendo sia la
palla sia la testa – e saltò oltre per insaccare un tiro in sospensione da sei metri. Gli
stessi due difensori tornarono a raddoppiarlo. Stavolta le finte furono differenti, ma il
risultato identico. Fece un passo lungo tra i due e saltò in avanti lasciandoseli dietro.
Mentre i due collidevano, lui segnava un tiro pulitissimo nonostante si stesse
spostando in avanti nel salto. Quando uscí per falli, dovette guardare il resto della gara
dalla panchina. Appena andò a sedersi, ventimila spettatori gli tributarono
un’ovazione in piedi di tre minuti. Stando a giornalisti e addetti ai lavori del Madison
Squadre Garden, la piú clamorosa ovazione mai tributata a un cestista, dilettante o
professionista, al Madison … Durante il lungo applauso, lo speaker istintivamente alzò
il volume dell’altoparlante e disse: «Bill Bradley, uno dei piú grandi giocatori che
abbiano mai giocato al Madison Square Garden, ha ottenuto quarantun punti» 15.

Exploit di questo genere si raggiungono solo eccezionalmente, in


circostanze che hanno un che di mistico, di ineffabile. Si tratta di momenti
in cui la reazione è in totale sintonia con le esigenze della situazione,
proprio come nel caso dell’Eroe della Metropolitana che si è gettato sui
binari. Si tratta di un gesto istintivo, che non conosce esitazioni né
tentennamenti: l’azione sembra aver origine non nel protagonista, ma per
suo tramite. Di fronte a un gesto di eroismo, si ha la sensazione di essere
testimoni di una manifestazione dell’ineluttabile, che va ben oltre
l’impulso individuale e che sembra decisa da una forza superiore. Un altro
segno che accomuna i due eroi, Bradley e Autrey, è l’applauso scrosciante
che entrambi ricevono dagli spettatori. Per tutti i presenti, non c’era
dubbio che si era compiuto qualcosa di sovrumano.
Uno dei termini che possediamo per indicare qualcosa di sovrumano è
la parola «eroico», e c’è un senso nel considerare sia Bradley sia Autrey
degli eroi, anche se tra di loro c’è una notevole differenza. Le azioni di
Bradley, che indubbiamente vanno oltre la sfera della normale attività
umana, avvengono nel contesto limitato del basket, mentre l’ambito del
gesto di Autrey è la vita. Soffermiamoci tuttavia per ora sulle analogie tra i
due casi: entrambi i comportamenti sono manifestazioni di assoluta
eccellenza, perché non lasciano spazio a quell’indecisione e a quella
mancanza di risolutezza che affligge tutti noi.

Il tormento della scelta, come lo abbiamo chiamato, sembra un tratto


obbligato dell’esistenza umana. Anche se occasionalmente eroi come
Bradley e Autrey riescono a eluderlo, la continua necessità di fare una
scelta ha su tutti noi pesanti conseguenze. Nella maggioranza dei casi, ci
pone di fronte a vere e proprie domande esistenziali. Tenuto conto della
nostra realtà di esseri umani, come possiamo vivere una vita piena di
significato? O, piú specificatamente, come possiamo capire quali sono le
differenze significative tra questo o quel comportamento da adottare?
Sono proprio queste differenze, infatti, a costituire la base per prendere
una decisione che influirà sul nostro divenire. In momenti particolari della
vita, si tratta di domande inevitabili. Gli studenti universitari che seguono
i nostri corsi di filosofia, per esempio, non possono fare a meno di porsele.
Si chiedono se vogliono diventare avvocati o medici, analisti finanziari o
filosofi, devono decidere quale indirizzo scegliere nel curriculum
universitario, meditano se schierarsi con i liberali o con i conservatori, si
interrogano sul credo religioso o non sanno se vale la pena rimanere fedeli
al ragazzo o alla ragazza dei tempi del liceo. Tutte queste domande in
definitiva si riconducono a una sola: su quali basi dobbiamo fare una
scelta?
Non è soltanto un giovane adulto a trovarsi di fronte a queste scelte
esistenziali. Anche se ci riconosciamo saldamente nei nostri ruoli – di
madre o di padre, di manager o di informatico – e abbiamo già fatto le
scelte politiche o religiose di prammatica, ottime ragioni potrebbero
indurci a cambiare idea. E se anche fossimo impermeabili a tutte le ottime
ragioni di questo mondo, il problema dell’identità rimane aperto.
Riconoscermi nell’identità di padre di mio figlio non mi garantisce di
riuscire a mantenere correttamente questo ruolo in futuro. La domanda
fondamentale continua a essere: su quale base devo fare una scelta? Nelle
scelte esistenziali, siamo ben lontani dal senso di certezza che ha animato i
comportamenti eroici di Bradley o di Autrey.
Il tormento della scelta, che ci sembra ineluttabile, in realtà è un
prodotto della vita contemporanea. Non è solo perché in passato si sapeva
bene su quale base compiere le proprie scelte fondamentali, il problema è
che le domande esistenziali non avevano alcun senso.
Si consideri per esempio il Medioevo. Nell’Occidente cristiano,
l’identità della persona era determinata da Dio. Con questo non
intendiamo prendere una posizione sull’esistenza di Dio nel Medioevo.
Qui non ci interessano le argomentazioni metafisiche classiche
sull’esistenza di Dio né le enumerazioni dei suoi attributi. Quel che ci
preme invece è che, nel Medioevo, gli individui non potevano far altro se
non vivere se stessi come esseri determinati o creati da Dio. Questo
atteggiamento faceva parte del modo in cui era concepito il mondo ed era
talmente ovvio da dare senso a tutte le cose del creato: il solo pensiero che
l’identità potesse essere determinata in un altro modo era inconcepibile.
Naturalmente ciò si applicava ai re e alle regine. Affermare che
governavano per diritto divino, come si pensava comunemente, equivaleva
a dire che erano stati scelti da Dio per occupare la loro posizione di potere.
La scelta, tuttavia, non interessava solo i sovrani: tutti occupavano un
posto nella società secondo l’ordine divino. Nella Grande catena
dell’essere, non erano solo gli esseri umani a trovare la loro collocazione,
ma ogni oggetto della creazione, in una gerarchia piramidale costituita da
re, nobili, borghesi, servi e cosí via. Gli esseri umani erano al di sopra degli
altri animali, gli oggetti inanimati venivano dopo gli animali e tutti erano
subordinati agli angeli. La totalità degli esseri era situata al di sotto di Dio.
L’ordine universale non era una convinzione da condividere o meno,
oppure una visione del mondo proposta a titolo individuale: tutti lo
davano per scontato. Su questo semplice assioma, gli uomini nella società
medievale davano un senso al mondo: per esempio, la vittoria in una
battaglia o una tempesta improvvisa venivano spiegate con l’intervento di
Dio, e l’idea che tutti avessero un proprio posto nel piano divino non era
una convinzione che si potesse accettare o rifiutare: era un modus vivendi.
Il modus vivendi di una cultura non è un semplice elenco di certezze a
cui i suoi membri aderiscono in modo esplicito. È qualcosa di molto piú
profondo. Un individuo educato in una data cultura ne assorbe il modus
vivendi nello stesso modo in cui impara a parlare nella lingua e con la
cadenza dei famigliari e dei coetanei. Tuttavia, un modus vivendi è
qualcosa di piú complesso di una lingua, e implica la capacità di discernere
i comportamenti giusti o sbagliati nelle varie situazioni sociali;
l’assorbimento della molteplicità dei significati nei diversi momenti della
vita quotidiana; piú in generale, uno stile, che sia basato sull’aggressività
vincente o sull’accudimento e la cura, ma che sappia indirizzare
istintivamente le azioni e le decisioni degli individui. Lo possiamo definire
come una sorta di substrato culturale in grado di plasmare i
comportamenti, ma destinato a rimanere in sottofondo, discreto, mai
esplicito, eppure reale e sempre presente. Nella società medievale, poiché
tale implicito substrato culturale comportava la certezza dell’esistenza di
un progetto divino, non era necessario chiedersi su quale base scegliere
che cosa fare o chi diventare. Era semplicemente inconcepibile che
l’individuo potesse scegliere la propria identità o il proprio posto nel
mondo.
Questo non significa che nel Medioevo la gente non facesse scelte. Si
poteva decidere volontariamente di non aderire al piano divino e condurre
una vita che si discostava dai Suoi desideri. Oppure si poteva seguire la
retta via, ma non avere successo. Nella terminologia del cristianesimo
medievale, non c’erano soltanto i santi, ma anche i peccatori, non solo
coloro che vivevano una vita virtuosa, ma quelli che soccombevano alle
diaboliche tentazioni del Vizio. L’Inferno di Dante, di cui parleremo piú
diffusamente nel capitolo V 16, permette di avere ampie informazioni sui
diversi modi in cui, nel Medioevo, ci si condannava alla dannazione (Dante
scrisse nel Trecento, al culmine del tardo Medioevo). Malgrado la loro
straordinaria varietà, i dannati nella Divina Commedia hanno un comune
denominatore: le loro azioni comportano una deviazione (oppure una
perversione) dal percorso normale stabilito da Dio.
Facciamo un esempio tipico. Nel secondo cerchio dell’Inferno, Dante
vede Paolo e Francesca, i due amanti che in vita erano stati travolti dal
divorante desiderio che avevano l’uno per l’altra. Dopo essere stati
sorpresi e uccisi dal marito di Francesca, che era anche il fratello di Paolo,
i due amanti furono condannati a trascorrere l’eternità sospinti dal vento
incessante della loro passione incontrollabile. Analizzeremo di nuovo
questo esempio quando parleremo di Dante nel capitolo a lui dedicato, ma,
per il momento, quel che ci interessa è la concezione medievale del
peccato come appare nella Divina Commedia. Il modo in cui il Poeta ci
presenta il caso di Paolo e Francesca esprime con chiarezza, da una parte,
che c’era una sola strada che i due amanti avrebbero potuto scegliere per
evitare di macchiarsi della colpa di adulterio e, dall’altra, che il peccato da
loro commesso era quello di essersi lasciati sopraffare dalle tentazioni del
Vizio. È sempre stato difficile, in certe situazioni, agire in sintonia con le
norme «del buon vivere» – i filosofi greci chiamavano questa difficoltà
akrasia, ovvero debolezza della volontà; si tratta dell’incapacità di fare
quello che sappiamo essere la cosa giusta. I peccatori di Dante, perlomeno
alcuni, sono vittime di questo tipo di incontinenza intellettuale.
Nel mondo contemporaneo, siamo di fronte a un problema di piú vaste
dimensioni. Non si tratta tanto di sapere qual è la cosa giusta da fare e non
farla, il problema è che spesso non si possiede neppure la percezione di
quelle che sono le norme collettive per vivere bene. Detto in altri termini,
abbiamo l’impressione di non avere nessuna base che possa guidare le
nostre scelte.
Prendiamo un altro esempio, assai diverso da quello di Paolo e
Francesca e molto piú moderno, il personaggio ottocentesco di Emma
Bovary. In Madame Bovary, Flaubert ci narra la storia di Emma, sposata
con Charles, medico di provincia noioso e privo di talento. Per sfuggire
alla sua vita superficiale, banale e vuota, Emma intreccia numerose
relazioni adulterine e vive ben al di sopra dei suoi mezzi. L’epilogo è
ovviamente drammatico, ma neppure a questo punto si ha la sensazione
che siano i tradimenti di Emma a essere immorali. Il lettore in parte si
identifica con il suo desiderio di volere di piú dalla vita, prova poca
simpatia per Charles e per la sua scialba esistenza e comprende, e
addirittura sostiene, la decisione di Emma di fare di tutto per sfuggire a
quella vita. Il desiderio di vivere che la donna sprigiona è fonte di
ammirazione e un legittimo elemento compensatore alla strada senza
uscita rappresentata dal suo matrimonio.
Per quanto ci sia molto in comune tra gli affaires adulterini di Emma e
la relazione tra Paolo e Francesca, il modo in cui Flaubert interpreta il
tema non potrebbe essere piú diverso da quello di Dante. Emma infatti è
tormentata da un interrogativo esistenziale, che la coppia di Paolo e
Francesca non si pone affatto. Questi ultimi sanno che è sbagliato avere
una relazione adulterina: non c’è nulla da discutere. Purtroppo non hanno
potuto resistere alla passione colpevole rappresentata dalla lussuria. La
situazione di Emma è molto piú complessa. Siamo davvero convinti che sia
giusto per lei rimanere con il marito? Oppure, non solo capiamo il suo
desiderio di lasciarlo, ma ci sembra che sarebbe la strada migliore. Lo
stesso Charles riconosce che il comportamento della moglie è degno di
ammirazione: anche dopo la sua morte, continua a venerarla, senza mai
muoverle la minima critica e tenta addirittura di seguire il suo modello di
vita. Che il comportamento di Emma sia degno o meno di stima è una
questione molto discussa e ben conosciamo lo stato di confusione che la
giovane donna ha provato in conseguenza delle sue stesse azioni. Emma
vive il dilemma della scelta, che opprime ciascuno di noi.

Come siamo giunti dall’universo immobile di Dante all’incertezza


esistenziale che ci appartiene? Si tratta di una storia lunga e complessa:
questo libro si propone di delinearne gli aspetti principali. Può essere utile
tentare di analizzare uno dei piú importanti periodi di transizione, che ha
avuto luogo nel XVII secolo, comunemente indicato come inizio dell’età
moderna.
Intorno al Seicento, il mondo medievale andava lentamente
sgretolandosi. In particolare, non era piú possibile dare per scontata
l’affermazione che il volere di Dio fosse l’origine della creazione.
Pochissimi ormai professavano apertamente questa convinzione. È
estremamente difficile individuare le pratiche e i comportamenti che una
cultura dà per scontati, ma la letteratura e la filosofia di un’epoca ci danno
al riguardo indizi sufficienti. Prendiamo due esempi.
Innanzitutto lo stesso Shakespeare era ossessionato dall’idea che
l’ordine divino non era piú tale. Che ne fosse o meno consapevole, le sue
opere sono pervase da questo implicito dilemma. Artista sublime capace di
esprimere in sommo grado la sensibilità della sua epoca, Shakespeare
aveva intuitivamente percepito che il crollo dell’ordine divino era uno dei
punti chiave del periodo in cui viveva. Molti dei suoi personaggi piú
importanti, in un modo o nell’altro, si sono dovuti confrontare con questo
tema. Prendiamo per esempio Macbeth. Eccoci di fronte a un individuo
che, in virtú della sua sola «ambizione divorante», spera di riuscire a
superare la posizione che gli è stata accordata dall’ordine divino e a
diventare re. L’idea che si possa trasformare l’ordine divino dell’universo
solo con la volontà e il desiderio sarebbe stata impensabile ai tempi di
Dante. Anzi, come vedremo, il personaggio che il Poeta piú spesso associa
a questo tipo di ambizione centrata sull’Io è Satana in persona, che tenta
di sostituire la propria volontà a quella di Dio e proprio per questo è
cacciato al fondo dell’Inferno. Lungi dal condannare l’ambizione di
Macbeth, Shakespeare sembra invece affascinato dal modo in cui questa
situazione ci spinge a esplorare campi e valori diversi. Da una parte,
Macbeth è un personaggio con cui ci si può identificare: l’ambizione per
migliorare la sua posizione mondana è comprensibile, anche se la strategia
da lui utilizzata appare discutibile. Non si tratta tuttavia di discutere se
Macbeth sia o meno un personaggio che riscuote la nostra simpatia: il
successo del dramma shakespeariano dipende dal fatto che noi ci
identifichiamo davvero con lui. Infatti, la vicenda messa in scena da una
tragedia può riuscire ad avvincerci solo se ci schieriamo dalla parte del
protagonista e speriamo nel suo trionfo: non esiste dramma se il cattivo
semplicemente ha quello che si merita. Anche se, in un certo senso, si
attira le simpatie del pubblico, Macbeth è destinato all’insuccesso. Nel
bene e nel male, l’ordine divino si oppone tenacemente all’ascesa
dell’ambizione individuale. In un certo senso, Shakespeare considerava
lodevole tale aspirazione, anche se il mondo in cui viveva non era ancora
pronto ad accettarla. In altre opere, come Troilo e Cressida, il tema
dell’incrinarsi dell’ordine divino è letto in chiave comica, o addirittura
apertamente condannato. In generale, a Shakespeare l’idea che la vita
umana fosse inserita in un piano divino sembra superata, ma non riesce
ancora a immaginare come valutare esattamente questa transizione di
valori.
Prendiamo ora il caso di Amleto. Il celebre soliloquio dell’atto III, scena
I , «essere o non essere, questo è il problema» affronta una tematica
universale, scegliere di vivere oppure di morire. Il fatto stesso che ad
Amleto si ponesse un’alternativa indica che la cultura in cui viveva non
dava piú per scontato che Dio determinasse i fatti essenziali della vita.
Questo non significa, ovviamente, che nessuno abbia pensato al suicidio
prima di Amleto. Ma è radicalmente diversa l’interpretazione culturale di
quel che Amleto poteva provare di fronte al suicidio, rispetto a un
personaggio del Medioevo. Nella tradizione medievale, il suicidio è
considerato un atto di ribellione contro Dio, un tentativo di sostituirlo in
una decisione che spetterebbe a Lui di diritto (difatti, Dante colloca i
suicidi nel settimo dei nove gironi dell’Inferno, di fianco ai blasfemi contro
Dio). Ci troviamo di nuovo di fronte a un atto di ribellione simile a quello
compiuto da Satana, quando aveva cercato di organizzare una rivolta degli
angeli contro il Signore. Amleto invece non è mai sfiorato dal pensiero che
il suicidio possa essere un affronto a Dio. Il problema è semplice:

È piú da coraggiosi seppellire


nel profondo dell’anima le frecce
e i sassi che la vita scaglia contro,
o piantare la spada, e a viso aperto
a un oceano di orrori opporsi e dire:
no, finiamola? 17.

In altre parole, la questione non è sapere se il suicidio è un affronto a


Dio e come tale non deve essere compiuto. Il problema è capire se la
decisione migliore, «piú nobile», è quella di continuare a soffrire oppure
porre fine alla propria vita. Dio, o meglio il fatto di concepirlo come il
creatore divino dell’universo, non offre in merito alcun aiuto ad Amleto.
Per dirla in altri termini, la rottura dell’ordine divino tipico del Medioevo
permette di cominciare a interrogarsi in modo autentico sulla propria
condizione esistenziale.
La libertà di scegliere chi siamo, tuttavia, è anche un pesante fardello.
Infatti, senza un piano divino che ci sorregga, non sappiamo su quali basi
fare le nostre scelte esistenziali. L’umano bisogno di possedere una solida
base e di avere convinzioni incrollabili su cui costruire la propria identità
si ritrova principalmente nella tradizione filosofica.
Cartesio, sicuramente il filosofo piú importante dell’era moderna, fu
attivo in Francia circa una generazione dopo che Shakespeare aveva
concepito in Inghilterra la sua arte teatrale (le opere piú importanti di
Cartesio furono scritte verso il 1630). Uno dei suoi principali progetti
filosofici fu quello di dimostrare che era possibile conoscere con certezza e
senza possibile dubbio gli oggetti di base della percezione. Per esempio, non
si può negare che esistano un mondo esterno e individui diversi da noi,
anche se è difficile dimostrarlo con assoluta certezza. I personaggi del film
Matrix, per esempio, sembrano vivere delle vite proprio come le nostre, ma
poi ci si rende conto che, nonostante abbiano lo stesso genere di
esperienze di tutti noi, il mondo cosí come lo sperimentano non esiste.
L’idea che il mondo sia davvero quello che sembra essere è fondamentale.
Tuttavia Cartesio dimostrò, trecentocinquant’anni prima di Hollywood,
che è difficile essere certi senza possibili dubbi di questo semplice fatto.
L’idea che sia questo il tipo di cose di cui potremmo dubitare, e anche
quella, piú radicale, che dovremmo cercare di scoprire se siamo davvero in
grado di sapere con certezza queste cose fondamentali, non avrebbero mai
sfiorato gli uomini che vivevano in un’epoca in cui questo genere di
domande non aveva alcun senso. Lo stesso progetto filosofico cartesiano
nel Medioevo sarebbe stato considerato come un atto di orgoglio
arrogante. L’idea di dover dimostrare a noi stessi che Dio non ci sta
ingannando è accompagnata dall’implicita premessa che, per quel che ne
sappiamo, Dio potrebbe davvero ingannarci. Questo presupposto non ha
alcun senso in un mondo in cui Dio, da sempre, è concepito come l’artefice
eccelso dell’intero universo. Il fatto che Cartesio non solo si ponga in una
posizione di scetticismo, ma che sia anche preso sul serio dai suoi
contemporanei (che sia addirittura considerato un modello paradigmatico
del pensiero filosofico), dimostra che, nel mondo in cui scriveva, cioè
all’inizio del XVII secolo, gli assiomi medievali non erano piú tali. E se
qualcosa di cosí basilare come l’esistenza del mondo esterno deve essere
dimostrato su una base filosofica, allora che cosa dobbiamo pensare delle
nostre scelte esistenziali, assai meno fondamentali?

Friedrich Nietzsche, il grande filosofo tedesco della fine del XIX secolo,
ha notoriamente affermato che Dio è morto. Intendeva dire che noi,
nell’Occidente moderno, non viviamo piú in una cultura in cui le domande
fondamentali dell’esistenza hanno già una risposta. Il Dio del Medioevo
aveva la funzione di rispondere alle domande esistenziali ancora prima che
venissero poste, ma oggi un simile ruolo non è piú concepibile. Ciò vale
per i credenti come per gli scettici, come dice il filosofo contemporaneo
Charles Taylor 18. Anche se, come molti sostengono, negli Stati Uniti
assistiamo a un Terzo risveglio religioso, il tipo di credenza religiosa oggi
accessibile non basta a placare l’assillo delle scelte esistenziali. Nessuno è
piú convinto che i non credenti siano da bandire dalla comunità degli
uomini. Questo era vero nel Medioevo: essere un non credente significava
stare automaticamente dalla parte del male e opporsi alle meraviglie del
creato, a tutto ciò che era meritevole e degno. Forse esistono tuttora
alcune sottoculture di fanatici che caldeggiano una concezione tanto
fondamentalista. Se è legittimo che un credente ammetta che i non
credenti possono essere persone ammirevoli, come spesso succede nel
mondo occidentale, la fede religiosa non può pretendere di impedire i
dubbi e i quesiti esistenziali. Infatti, se ci si convince che un non credente
non è per forza un essere ripugnante, ne consegue che la scelta di non
credere deve essere presa sul serio anche dai credenti. Affermare che,
nell’Occidente moderno, viviamo in un’epoca secolarizzata implica che
anche i credenti si trovano quotidianamente di fronte a quesiti esistenziali.
Porsi quesiti esistenziali non è affatto negativo, se si hanno le risorse
per rispondervi ed è possibile che, nell’Occidente moderno, alcuni credenti
abbiano ancora queste risorse. L’opera piú recente di Taylor nasce proprio
da questo presupposto. Egli pensa che la proliferazione di correnti
religiose e di spiritualità – una vera e propria esplosione – sia un tratto
fondamentale della contemporaneità. L’idea che non esista nessuna
ragione per dare la preferenza a una risposta anziché a un’altra, tuttavia, è
definita nichilismo, e Nietzsche lo considerava il modo migliore per
connotare la nostra condizione di uomini dopo la morte di Dio.
Nietzsche pensava che il nichilismo fosse fonte di gioia, poiché ci
permette di vivere la vita che scegliamo, eppure per molti è
un’aberrazione. Come ha detto Dostoevskij, «Se non esiste Dio, tutto è
permesso». Quello che noi crediamo è che il nichilismo sia una visione
unilaterale e limitata, come lo è il fanatismo, e che nessuna delle due
costituisca una base sufficiente su cui poggiare le nostre vite. Siamo quindi
piú scettici di Taylor sul fatto che il monoteismo giudeo-cristiano possa
costituire una risposta culturalmente soddisfacente all’epoca
contemporanea. Anche se cosí fosse, ci sono altre tradizioni religiose nella
storia dell’Occidente che permettono all’individuo di vivere una vita
all’insegna della trascendenza. Nel capitolo III prenderemo in
considerazione soltanto una tradizione, quella del politeismo greco come è
stata tramandata da Omero. Ma prima di affrontare questo tema,
vorremmo descrivere l’autore contemporaneo che piú efficacemente ha
rappresentato il senso di sconforto che attanaglia la nostra epoca.

1
Early Blooms in Brooklyn, in «The New York Sun», 3 gennaio 2007.
2
L’episodio descritto è ripreso dall’articolo di Cara Buckley apparso in «The New York Times»
del 3 gennaio 2007 con il titolo Man Is Rescued by Stranger on Subway Tracks, e da altri articoli del
«Times» usciti nei giorni successivi all’incidente.
3
State of the Union, in «The New York Times», 24 gennaio 2007. Vedi anche Subway Rescuer
Receives the City’s Highest Award, ivi, 5 gennaio 2007.
4
Why Our Hero Leapt onto the Tracks and We Might not, ivi, 7 gennaio 2007.
5
A Big Hero in the Big City, ivi, 4 gennaio 2007.
6
Heroes Rush in, but What Would Average Joe Do?, ivi, 7 gennaio 2007.
7
Why Our Hero Leapt cit.
8
Heroes Rush in cit.
9
T. S. ELIOT , Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock, in ID ., Poesie, Garzanti, Milano 1975, p. 53.
10
In italiano si traduce «con la massima facilità», «a occhi chiusi», anche se letteralmente
significa «fuori di testa» [N.d.T.].
11
J. MCPHEE , A Sense of Where You Are: A Profile of Bill Bradley at Princeton, Farrar, Straus and
Giroux, New York 1999. L’edizione originale è del 1965.
12
La Rhodes Scholarship è una delle piú prestigiose istituzioni di borse di studio del mondo
anglosassone [N.d.T.].
13
MCPHEE , A Sense of Where You Are cit., p. 156.
14
Ibid., p. 61.
15
Ibid., pp. 86-88.
16
Vedremo nel capitolo dedicato a Dante che quest’interpretazione è un po’ eccessiva. A rigor
di termini, per Dante non era inconcepibile che un individuo scegliesse liberamente la propria
identità. Lungi tuttavia dall’essere la condizione necessaria o naturale dell’uomo, come pensiamo
noi oggi, per Dante questa scelta volontaria era il peggior tipo di ribellione possibile contro Dio. A
chi si è macchiato di tale colpa, egli riserva infatti i gironi piú bassi dell’Inferno.
17
W. SHAKESPEARE , Amleto, atto III, scena i (trad. it. di C. Garboli, Einaudi, Torino 2009, p. 84).
18
Vedi la sua opera monumentale L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009 (ed. or. A Secular Age,
Harvard University Press, Cambridge [Mass.] 2007). Vedi anche C. M. BLOW , Heaven for the Godless?,
in «The New York Times», 27 dicembre 2008, basato su un’inchiesta del Pew Forum on Religion
and Public Life. Lo studio dimostra che il 70 per cento degli americani crede che anche le persone
con fedi diverse dalla loro possano raggiungere la vita eterna.
Capitolo secondo
Il nichilismo di David Foster Wallace

Lo stupore è lo stato d’animo del filosofo


e la filosofia nasce nello stupore.

PLATONE

David Foster Wallace è stato lo scrittore piú interessante e forse anche


la mente piú geniale della sua generazione 1. Ha scritto lunghi romanzi
ambiziosi, racconti e saggi che intendevano dimostrare ai lettori come
vivere una vita piena di significato. «Un romanzo narra che cosa vuol dire
essere un fottutissimo essere umano», ha detto una volta. La buona
letteratura dovrebbe aiutare i lettori a «sentirsi meno soli dentro» 2.
David Foster Wallace si è impiccato il 12 settembre 2008. Aveva
quarantasei anni.
Che cosa ci può insegnare il suicidio di Wallace? Forse non molto. È
noto che lo scrittore da decenni soffriva di depressione e che, per quasi
vent’anni, aveva assunto il Nardil, un potente farmaco antidepressivo;
inoltre, si sottoponeva spesso a sedute di terapia elettroconvulsiva, una
dozzina delle quali proprio nei mesi precedenti alla morte 3. Si sa anche che
la fase conclusiva della sua malattia ha coinciso con il tentativo di
disassuefarsi al Nardil, il farmaco che, secondo James Wallace, «aveva
permesso al figlio di essere produttivo» 4. In una depressione grave non si
possono negare gli aspetti neurofisiologici e neurochimici e sembra
naturale concludere che, alla fine, Wallace sia stato sopraffatto dalla
malattia come condizione biologica.
Certo.
E non è neanche sbagliato affermare che l’opera di Wallace catturi
l’esprit du temps dell’America contemporanea, che l’autore stesso
incarnava perfettamente. Il suo capolavoro, Infinite Jest, un romanzo
monumentale, è la manifestazione stilistica dell’autocoscienza moderna. È
zeppo di frasi che occupano un intero paragrafo e si contraddicono
continuamente, mettendo in discussione le premesse iniziali e poi
ricominciando da capo, come un serpente che si morde la coda. Molte di
queste frasi sono completate da interminabili note, che riprendono lo
stesso modello, quasi a suggerire che è questo il modo in cui oggi si forma
la coscienza di ciò che siamo: facciamo un’affermazione, ci interroghiamo
in proposito, la confutiamo, ci interroghiamo di nuovo, la consideriamo da
una sfaccettatura diversa, azzardiamo una prima definizione per poi
negarla immediatamente, e cosí via, mettendo note a piè di pagina alle
note finali e viceversa, all’infinito. Si conclude poi, se mai si conclude
davvero, con un nulla di fatto.
Anche i rapporti che Wallace ha intrattenuto con i suoi simili
ricalcavano il medesimo modello. A quarantadue anni, si decise a sposare
un’artista, Karen Green, e, fino all’ultimo anno della vita dello scrittore, il
loro fu un matrimonio felice. In passato, invece, Wallace aveva avuto una
serie di relazioni insoddisfacenti, compresa una lunga storia altalenante
con la poetessa e memorialista Mary Karr 5. Malgrado la sua volubilità, o
forse proprio per questo, Mary Karr fu molto importante per Wallace, il
quale si era fatto tatuare un cuore sul braccio con il suo nome inciso.
Quando, anni dopo, lui e Karen Green si innamorarono, questo segno
indelebile del trascorso amore con Mary fu probabilmente una fonte di
imbarazzo. Infatti egli fece tatuare una sbarra sul nome di Mary e un
asterisco accanto al cuore. Sulla porzione di braccio sotto il vecchio
tatuaggio, aggiunse un altro asterisco e il nome di Karen, «trasformando il
suo braccio», scrisse D. T. Max, «in una nota vivente».
Forse è troppo banale ricordare Quiqueg, l’indigeno completamente
tatuato che è uno dei personaggi di Melville. Se tuttavia, come vedremo,
Melville aveva ragione quando diceva che ci tatuiamo sul corpo le pratiche
sacre della nostra cultura allora la vita di Wallace potrebbe essere stata
una cautionary tale 6. Ciò che consideriamo sacro, sembra dire Wallace, è la
capacità di mettere una nota a piè di pagina per tutti i nostri impegni – per
definirli, cambiarli, riadottarli di nuovo. Il nostro impegno piú sacro, in
altre parole, è la libertà di poter scegliere la nostra strada. E anche la
libertà di abbandonarla, quando decidiamo che è venuto il momento.
Infinite Jest è un’opera di 1280 pagine, di cui almeno cento di note assai
consistenti. Oggi è considerato tra le opere piú significative della
letteratura della fine del XX secolo e dell’inizio del XXI . Il romanzo parla di
dipendenza, di depressione, di consumismo, di terrorismo e di scuole di
tennis, oltre a dibattere altri problemi tipici della fine del XX secolo. Sia dal
punto di vista dello stile sia da quello del contenuto, è un tentativo
meticoloso e geniale di definire quello che è un «fottutissimo essere
umano» in America alla svolta del millennio.
E com’è, esattamente? «Ha in sé un’infinita tristezza», ha detto Wallace
in un’intervista del 1996 alla rivista online «Salon»:

… qualcosa che non c’entra con le contingenze materiali, o con l’economia, o con
nessuna delle questioni di cui solitamente si parla sui giornali. È una tristezza
viscerale. Lo vedo in me e nei miei amici in molti modi diversi. Si manifesta come uno
smarrimento.

Questo senso di smarrimento potrebbe semplicemente essere ascritto


alla depressione contro cui Wallace aveva combattuto per tutta la sua vita
di adulto. Ma c’è anche un’altra possibilità. Forse Wallace non intendeva
tanto descrivere la sua depressione, quanto gli aspetti della cultura a cui il
suo stato lo aveva reso sensibile, aspetti che forse altri non avrebbero
notato, oppure avrebbero fatto finta di non vedere o evitato – quei tratti
dell’esistenza moderna in cui noi tutti siamo immersi, ma che non
riusciamo a focalizzare. In altri termini, la depressione lo aveva reso
particolarmente sensibile a quel «qualcosa» che permea la società, che non
è personale o particolare, ma collettivo e condiviso da tutti: forse il suo
compito di scrittore era proprio quello di rivelarcelo. In ogni caso, questa
sembra essere l’interpretazione di Wallace:

Lo sconforto di cui parla questo libro, e che io stesso ho attraversato, è una forma di
sconforto tipicamente americana. Io ero bianco, di classe medio-alta, con
un’educazione sfacciatamente sofisticata e ho avuto successo nel mio lavoro ben di piú
di quanto avrei mai potuto sperare, eppure in un certo senso ero un disadattato. Lo
stesso è successo a molti dei miei amici. Alcuni si drogavano, altri erano totalmente
dipendenti dal lavoro. Altri ancora tutte le sere si imbucavano in locali per single.
Questo scenario potrebbe avere venti varianti diverse, ma rimarrebbe immutato 7.

In questa stessa intervista, Wallace parla del senso di sconforto e di


smarrimento come di uno stato d’animo collettivo – tipicamente
americano – che risulta dall’incapacità della nostra cultura, o di alcuni
suoi settori, di porsi la domanda fondamentale della vita: chi siamo?

Ho l’impressione che molti di noi, americani privilegiati, una volta superata la


trentina, ci sentiamo costretti a trovare il modo di mettere da parte i vezzi infantili con
cui ci siamo fino ad allora gingillati e di imparare ad affrontare temi quali la
spiritualità e i valori etici.

Non c’è dubbio che la condizione eminentemente fisiologica ebbe un


ruolo importante nella grave depressione di Wallace e infine nella
decisione di togliersi la vita. Poiché la sua opera, tuttavia, cattura l’esprit
du temps, come è confermato dal suo successo, è possibile che la capacità
di cogliere l’atmosfera del mondo intorno fosse qualcosa di piú del
semplice risultato dal suo stato psicofisico. Sembra piuttosto un segno
delle condizioni metafisiche della cultura, del modo in cui la nostra epoca
non ci permette di fare una narrazione coerente sul significato vero delle
nostre vite. Come ha detto Wallace nel 1993 alla rivista letteraria
«Whiskey Island»: «La nostra è una generazione che, quanto a valori
significativi dell’esistenza, non ha avuto in eredità assolutamente nulla» 8.
Se Wallace ha ragione e se è questo il fenomeno culturale da cui si
sentiva coinvolto, allora il suo suicidio per noi rappresenta molto di piú
della perdita di un solo uomo, per quanto eccezionale. La sua morte
diventa un avvertimento, al quale dobbiamo prestare la massima
attenzione. Un po’ come il canarino nella miniera di carbone che
preannuncia il pericolo imminente.

Nell’ondata di recensioni e commenti che l’opera di Wallace ha


suscitato, non sorprende che nessun critico serio abbia preso in
considerazione il rapporto tra la sua opera e un’altra corrente letteraria
della cultura americana, il chick lit 9. Si può dire che la reginetta di questo
filone è la scrittrice Elizabeth Gilbert. Il suo memoir Mangia, prega, ama ha
venduto piú di cinque milioni di copie ed è stato per piú di un anno in
cima alle classifiche dei tascabili di non-fiction del «New York Times». Il
successo di Gilbert ha portato alla ribalta i personaggi reali della sua
storia, che peraltro lei aveva indicato con uno pseudonimo. Per esempio
Richard, il dinoccolato ex tossico originario del Texas, che la protagonista
aveva incontrato in un ashram in India, è già stato ospite del noto show
televisivo di Oprah Winfrey, per ben due volte.
Elizabeth Gilbert accetta lo scettro di reginetta del chick lit con una
certa ambivalenza. Magari neanche lei saprebbe definire con esattezza
questo genere letterario, ma sa perfettamente che farne parte non è un
complimento. Anche se l’idea di essere definita tale la infastidisce,
ammette che c’è qualcosa di vero in questa collocazione.
Per quanto ci sia un abisso tra chick lit e avanguardia, è pur vero che
l’approccio alla scrittura di Gilbert nasce dalla stessa ambizione che ha
motivato Wallace: «La scrittura è il modo con cui, da sempre, ho tentato di
trasporre sulla carta la mia vita», spiega lei, «di estrapolare le esperienze
dall’effimero, per poterle elaborare e assimilare, rendendole pienamente
reali» 10. Anche se l’opera di Wallace è all’avanguardia, se lo stile e il
contenuto della sua scrittura sono postmoderni, sperimentali e
perfettamente calati nella contemporaneità, il suo obiettivo non è diverso.
Come Gilbert, Wallace intende descrivere il mondo com’è in realtà. «Mi
sono sempre considerato un realista», ha detto nell’intervista rilasciata
alla rivista «Salon»:

Il mondo in cui vivo è fatto di duecentocinquanta annunci pubblicitari al giorno e di


un numero infinito di opzioni di intrattenimento … Nei miei romanzi attingo dalla
cultura popolare, ma non intendo con ciò nulla di diverso da quel che intendono gli
altri scrittori, quando parlano di alberi e di parchi oppure descrivono come, cent’anni
fa, si andava al fiume per prendere l’acqua. È semplicemente la materia di cui è fatto il
mondo in cui vivo.

L’universo di Elizabeth Gilbert è indubbiamente diverso da quello di


Wallace, ma non perché sia privo di tematiche quali l’ansia, la depressione
e quel senso dilagante di sconforto che Wallace ha magistralmente
descritto nei suoi libri. Mangia, prega, ama esordisce con una descrizione
della protagonista che singhiozza disperata sul pavimento del bagno della
sua grande casa nei sobborghi di New York.
Inoltre, l’infelicità di Gilbert è dovuta allo stesso tipo di smarrimento
che Wallace percepisce ovunque intorno a sé. La sua è l’espressione
personale di tale smarrimento, certo, è il suo modo peculiare di sentirsi
una disadattata nel mondo contemporaneo, ma è pur sempre una
manifestazione di un fenomeno che possiamo definire «wallacismo».
Come ha detto lo stesso Wallace: «Questo scenario potrebbe avere venti
varianti diverse, ma rimarrebbe immutato». Liz Gilbert che singhiozza sul
pavimento del bagno di casa sua avrebbe potuto benissimo essere il
personaggio di un romanzo di Wallace.
Bisogna anche aggiungere che le tematiche di fondo di Gilbert si
adattano di piú al pubblico femminile che non a quello maschile.
Dopotutto, si trova a dover affrontare un problema che la accomuna a
molte donne americane: l’aspettativa culturale che lei dovrebbe volere un
figlio, e la consapevolezza che la maternità non faccia per lei. È vero che
oggi la tensione tra l’impegno in famiglia e quello professionale, e tra
questi ultimi e la felicità individuale è sentita anche dai maschi, piú di
quanto lo fosse in passato. Ma non si può negare che Gilbert si riferisce
alla sua esperienza di donna e, in tal senso, forse è giusto dire che scrive
per un pubblico femminile. Tuttavia, a prescindere dai dettagli del suo
caso, ritroviamo in lei la tematica generale che appare nell’opera di
Wallace – cioè la tensione tra impegno e scelta. Come afferma la scrittrice,
sintetizzando cosí il suo disagio personale:

Non riuscivo a smettere di pensare a quello che mi aveva detto una volta mia
sorella, mentre allattava il suo primogenito: «Avere un figlio è come farsi un tatuaggio
in faccia. Devi essere maledettamente sicura di volerlo davvero» 11.

Oltre a un rapporto ambivalente con i tatuaggi, Wallace e Gilbert hanno


in comune un altro aspetto. Anche se entrambi percepiscono il senso di
sconforto e confusione e sono consapevoli che lo smarrimento vissuto da
chi si sente disadattato è un aspetto centrale del nostro tempo, tutti e due
sono convinti che lo scrittore abbia la responsabilità di mostrare la strada
per uscirne, di proporre un quadro delle possibilità, disponibili nel mondo
moderno, di avere speranza. Colpisce il fatto, per esempio, che anche se
Mangia, prega, ama inizia con la rottura del suo matrimonio, Gilbert rifiuti
di entrare nei dettagli che caratterizzano questo momento particolarmente
cupo. Il suo memoir parte dal presupposto che noi tutti sappiamo che cosa
significa attraversare un periodo nero – ma per lei non solo è giusto, ma
indispensabile descriverlo in senso generale, per sommi capi. La funzione
del suo memoir non è descrivere, ma mostrarci come si può uscire dai
tempi bui, raccontarci quel che bisogna fare per riemergere nella luce.
Lo stesso vale per Wallace. All’inizio della sua carriera di scrittore, era
convinto che il suo obiettivo fosse quello di indicare una via d’uscita
all’infelicità, non di enfatizzarne il disagio. Come ha detto in un’intervista
a Larry McCaffery nel 1991:

È probabile che noi tutti pensiamo che la nostra sia un’epoca buia, e stupida, ma è
davvero indispensabile che la letteratura si limiti a mettere in scena quanto sia buia e
stupida? Nei tempi bui, la buona arte dovrebbe essere quella che individua e applica il
defibrillatore alle particelle di magia e di umanità che ancora esistono nel mondo e che
brillano nonostante la fitta oscurità della nostra epoca. La buona letteratura continui
pure a dare una visione catastrofica del mondo, ma trovi anche il modo non solo di
rappresentarlo, ma di illuminare le strade che ci permettono di rimanere vivi e umani
su questa terra 12.

Questo è il motivo per cui Wallace e Gilbert sono due esempi molto
azzeccati per la tesi espressa in questo libro: non solo perché percepiscono
il senso di sconforto tipico della nostra epoca – questa visione cupa
esisteva già nella Terra desolata di Eliot e in Finale di partita di Beckett, e
in innumerevoli altre testimonianze dei primi decenni del XX secolo. Al
contrario, quello che rende i nostri due autori contemporanei degni di
essere letti è il fatto che cercano un modo per «riemergere nella luce».
Quando ci rendiamo conto che non sempre ci riescono, siamo noi stessi
invogliati a metterci alla ricerca dei momenti in cui il sacro si rivela anche
nel mondo di oggi.

L’ultimo capolavoro di Wallace, incompiuto, analizza il profondo


conflitto spirituale che travaglia un gruppo quasi monastico di infervorati
funzionari dell’Agenzia delle Entrate. Intitolato Il re pallido, il progetto era
rapidamente diventato incontenibile, poiché aveva raggiunto dimensioni
mastodontiche. Wallace deplorava di non essere in grado di tenere sotto
controllo la sua lussureggiante narrativa e si lamentava dicendo che il suo
compito era un po’ come «tentare di trasportare un foglio di compensato
durante la bufera» 13. In un’e-mail inviata nel gennaio 2006 al suo amico, il
romanziere Jonathan Franzen, Wallace accennava alle «enormi quantità di
pagine scritte, e poi buttate o stipate in una scatola».

Tutta questa faccenda è come un tornado, che non durerà abbastanza perché io
possa capire cosa è utile e cosa non lo è. Non ho fatto altro che rimuginare sul
problema, finché la mia capacità di rimuginare si è paralizzata 14.

Uno dei problemi dell’opera è di tipo strutturale. Wallace si è


deliberatamente autorepresso, scegliendo i personaggi piú noiosi che si
possa immaginare: persone che stanno alla scrivania otto ore al giorno per
controllare le dichiarazioni dei redditi dei loro concittadini. Come ha
osservato Michael Pietsch, amico e editor di Wallace, l’autore «si è dato un
compito che è praticamente l’opposto del modo in cui normalmente
funziona la letteratura» 15. Mentre in genere la regola è quella di tenersi
lontano dagli aspetti piú noiosi dell’esistenza, Wallace al contrario si è
imposto di concentrarsi su di essi.
Questo problema strutturale, però, non è arbitrario; anzi, secondo
Wallace, è assolutamente essenziale. La lotta che combattono gli esattori
dell’Agenzia delle Entrate è la stessa che ha attanagliato Wallace con la
scrittura ed è la stessa che secondo lui è al centro dell’esistenza moderna.
Nel suo caso, si tratta in parte della lotta per rimanere concentrati sul
proprio compito, malgrado le distrazioni onnipresenti e sempre stuzzicanti
provenienti da quello che costituisce il mondo sociale in cui viviamo. Cosí
ha detto lo scrittore in un’intervista rilasciata nel 1997 a Charlie Rose a
proposito del suo anno sabbatico:

CR Allora, come ha intenzione di trascorrere quest’anno?


DFW Se mi baso sulle passate esperienze, credo che scriverò un’ora al giorno e ne
passerò otto a girarmi i pollici e a preoccuparmi del fatto che non scrivo.
CR Preoccuparsi che non scrive… Non sarebbe meglio invece preoccuparsi di cosa
scrivere?
DFW No, no, intendo proprio preoccuparmi che non scrivo 16.
Secondo Wallace, allora, il vero problema del mondo contemporaneo
non è soltanto non sapere come vivere una vita piena di significato: è che
su questo punto non siamo neppure in grado di rimanere concentrati per il
tempo necessario.

Infinite Jest è anche un tentativo di esplorare il culto dei divertimenti


sempre piú perfetti e stuzzicanti, tipico della società odierna. Al centro del
romanzo, c’è un film cosí «fatalmente appassionante» 17 e «appassionante
a livello terminale» 18che coloro che lo guardano sono ridotti a uno stato di
estatica apatia. Uno di questi malcapitati, l’«attaché medico», 19 una sera
guarda per caso la «cartuccia d’intrattenimento». Dopo alcune ore:

L’attaché medico, nel loro appartamento, sta ancora guardando la cartuccia priva di
etichetta, che ha riavvolto fino all’inizio numerose volte e poi programmato per
vederla sempre di seguito in un loop interminabile. È seduto là, attaccato a una cena
congelata, a guardare la cartuccia, alle 0020h, coi pantaloni bagnati sulla poltrona
bagnata 20.

Il film, come il libro in cui compare, è intitolato Infinite Jest.


Il titolo del libro e del film si riferisce a una notissima scena dell’Amleto
di Shakespeare. In un cimitero dietro a una chiesa, Amleto scopre il
teschio di Yorick, il giullare di corte dell’epoca della sua giovinezza.
Sollevandolo, esclama: «Ahimè, povero Yorick! Lo conoscevo, Orazio: un
tipo di infinita arguzia [a fellow of infinite jest], di straordinaria fantasia:
mi ha portato sulla schiena migliaia di volte» 21.
Nella descrizione shakespeariana del compagno di «infinita arguzia»,
Yorick è apertamente contrapposto al malinconico danese.
L’interpretazione contemporanea data da Wallace apre uno scorcio su
un’intera cultura, la nostra, pervasa dalla malinconia di Amleto. Oggi,
però, l’evasione nel divertimento non si risolve piú tra le braccia
dell’esilarante giullare di corte, capace di portarti a cavalluccio sulle spalle
e di inebriarti. Al contrario, l’«infinita arguzia» ha un effetto sedativo, ti
lascia annichilito sul divano con le mutande bagnate. L’intrattenimento
perfetto ci aliena dalla nostra umanità invece di ravvivarla.
Proprio perché la sensazione ingannevole di felicità che si ottiene con
l’intrattenimento perfetto è un’astuzia, perché l’incessante ricerca dello
svago ci esaurisce e trasforma il nostro universo «in un puntino
luminoso» 22 e perché è impossibile resistergli nella sua versione perfetta,
il secondo romanzo di Wallace in realtà è triste 23. Descrive un mondo
ossessionato dalla ricerca spasmodica della perfezione
dell’intrattenimento, di fronte alla quale non abbiamo altra scelta se non
quella di annullarci.
L’obiettivo del Re pallido, come si può ben immaginare, è quello di
indicarci la strada per sfuggire a questo destino.
La noia mortale diventa la chiave. In una nota dattiloscritta trovata tra
le carte che ha lasciato alla sua morte, Wallace descrive la premessa del
libro:

La beatitudine – cioè la costante sensazione di gioia e gratitudine per il semplice


dono di essere vivi e consapevoli – si trova all’opposto della noia mortale. Provate un
po’ a dedicarvi alla cosa piú noiosa di questa terra (la dichiarazione dei redditi, le
partite di golf trasmesse in tv) e una noia come non avete mai provato in vita vostra vi
travolgerà e praticamente vi ucciderà. Uscitene indenni e sarà come passare da una
visione in bianco e nero a una a colori. Come trovare l’acqua dopo giorni trascorsi nel
deserto. Un’immediata beatitudine che si sprigiona da ogni atomo 24.

Alla morte di Wallace, Il re pallido era incompiuto, anche se diversi


estratti erano già stati pubblicati su varie riviste 25. La casa editrice Little,
Brown ha reso noto il suo intento di pubblicare comunque il manoscritto.
Dagli estratti già apparsi in stampa o in rete, tuttavia, è chiaro che Wallace
era andato oltre le sue preoccupazioni iniziali. Il nuovo romanzo non si
interessa tanto alla trasformazione dei nostri svaghi e al modo in cui ci
danno sollievo e addirittura ci istupidiscono, invece di riportarci al centro
del nostro Io. Il romanzo si focalizza sugli stati di coscienza che precedono
l’evasione verso gli svaghi e che la determinano: la noia, l’ansia, la
frustrazione e la rabbia, che ci proiettano in un intrattenimento qualsiasi,
basta che sia capace di distrarci e procurarci sollievo. Il viaggio spirituale
dei funzionari dell’Agenzia delle Entrate consiste nell’imparare a vivere in
questi stati preesistenti – soprattutto la noia – e di trovare in essi una
possibile redenzione e valori spirituali adeguati.
Non è cosa da poco. Per uno dei funzionari, Lane Dean Jr., il lavoro era
particolarmente difficile da sopportare. La descrizione del suo conflitto
nasce da un’esperienza personale intensa e non si può fare a meno di
rammentare la battaglia che Wallace condusse personalmente con la
scrittura:

Lane Dean Jr. … fece altre due dichiarazioni dei redditi, poi un’altra, poi contrasse le
natiche contando fino a dieci e immaginò una bella spiaggia calda con i morbidi
frangenti come gli avevano insegnato al corso di orientamento il mese prima. Poi fece
altre due dichiarazioni dei redditi, controllò velocissimamente l’orologio, poi altre due,
poi si mise d’impegno e ne fece tre di fila, poi contrasse, visualizzò, si mise ancora piú
d’impegno e ne fece quattro senza alzare gli occhi nemmeno una volta … Dopo appena
un’ora la spiaggia era una spiaggia invernale, fredda e grigia con le alghe morte che
sembravano i capelli di un annegato, e cosí rimase malgrado tutti gli sforzi 26.

Non ci sono allusioni al fatto che Wallace fosse annoiato dal processo di
scrittura, ma sicuramente aveva lottato per rimanere motivato dal suo
lavoro e per attenervisi senza essere sviato dalle distrazioni. Anche lui
svolgeva con dedizione il suo compito e non ci è difficile immaginare che
vi mettesse un grande impegno, forse a contare le righe o le pagine – al
posto dei moduli delle dichiarazioni dei redditi – già riempite. C’è forse
lotta piú grande di quella degli eroici personaggi che combattono per otto
ore al giorno con un compito cosí noioso da desiderare ogni momento una
piccola distrazione? Prendiamo Lane Dean Jr., piú tardi in quella stessa
mattinata:
Aveva le natiche già indolenzite a furia di contrarle e la sola idea di visualizzare la
spiaggia deserta lo avviliva. Chiuse gli occhi ma … quando aprí gli occhi la pila nel
vassoio delle pratiche da evadere sembrò alta piú o meno come alle 7:14, quando aveva
firmato il registro del capounità … e si rifiutò ancora una volta di alzarsi e controllare
quante fossero perché sapeva che avrebbe solo peggiorato le cose. Aveva la sensazione
che un buco o un vuoto di proporzioni colossali sprofondasse dentro di lui
continuando a sprofondare senza mai toccare il fondo. Finora non aveva mai pensato
al suicidio in vita sua 27.

La lotta di Dean è una lotta spirituale, una battaglia contro l’inferno


della noia mortale, anche se il suo punto di vista non è affatto estremo e la
sua battaglia è comune a molti, è familiare – noi tutti ci riconosciamo in
essa. Secondo Wallace, tuttavia, con il giusto approccio, è una battaglia che
può essere vinta. Lo suggerisce l’universo ovattato e pacificato dagli adepti
dell’Ufficio tasse dell’Agenzia delle Entrate spiritualmente piú avanzati.
Una delle loro stanze è descritta da Wallace come una sorta di monastero:
«… ogni liquidatore dell’Agenzia delle Entrate lavorava in un piccolo
cerchio ristretto di luce in fondo a quello che sembrava un buco
unilaterale» 28. E in questo monastero troviamo adepti spiritualmente
avanzati. Atkins, che siede vicino a Dean, è uno di loro. Non si fa mai
prendere dall’ansia e non si muove nervosamente quando riempie i
moduli, anzi emana una forza quasi magica mentre controlla e compila
addirittura due cartelle per volta. Recitando una sequenza di numeri come
se si trattasse di un mantra, un altro funzionario entra in uno stato di
concentrazione esaltata. E poi c’è Mitchell Drinion. «Drinion è Felice», ha
scritto Wallace in uno dei suoi quaderni d’appunti 29. È cosí centrato su di
sé e cosí calmo, cosí in pace, malgrado la noia del suo compito, che giunge
alla beatitudine. Mentre lavora, Drinion letteralmente levita.
Come si raggiunge, secondo Wallace, questo stato di beatitudine?
Troviamo forse un indizio nell’esperienza di Don Gately, che sembra il
vero protagonista di Infinite Jest: in passato Demerol-dipendente, è poi
diventato counselor residente alla Ennet House, il centro per la
riabilitazione di tossicodipendenti e alcolisti che si trova ai piedi della
collina della Enfield Tennis Academy. Il comportamento eroico di Gately è
in parte incarnato dalla sua lotta per resistere alle svariate tentazioni e
distrazioni della vita moderna – la televisione, la ricerca della solitudine e
soprattutto le droghe. La descrizione che ci fa Wallace delle sofferenze
dell’astinenza, e poi del dolore fisico conseguente a una ferita d’arma da
fuoco, ci introduce al modo in cui Drinion sperimenterà la noia. Secondo
Gately, il segreto è vivere nel momento presente. Verso la fine del
romanzo, ricorda «certe sue maligne disintossicazioni personali del
cazzo» 30, tra cui il tacchino freddo, il tutto reso piú efficace dall’obbligo di
rimanere reclusi nel centro di disintossicazione:

Una gabbia del Penitenziario di Revere per 92 giorni. Sentire il dolore di ogni
secondo che passava. Vivere un secondo alla volta. Suddividere il tempo in tante
microunità. L’astinenza. Ogni secondo: si ricordava: il pensiero di sentirsi come si
sentiva in questo secondo per altri 60 di questi secondi – non poteva farcela. Non
poteva farcela. Doveva costruire un muro intorno a ogni secondo per sopportarlo. Le
prime due settimane sono ridotte telescopicamente nella sua memoria a un secondo –
anzi meno: lo spazio tra due battiti del cuore. Un respiro e un secondo, la pausa tra le
contrazioni. Un’Ora senza fine che allunga le sue ali di gabbiano dentro il battito del
suo cuore. E prima di quel momento non si era mai sentito cosí dolorosamente vivo, e
neanche dopo. Vivere nel Presente tra due battiti 31.

Forse la beatitudine che prova Drinion nella sua noia è come il sentirsi
vivo che Gately sperimenta quando si costringe a vivere nel momento
presente. Il malessere conseguente alla disintossicazione, come pure
l’inferno della noia, possono essere sopportati soltanto se si costruisce una
sorta di muro che circonda ogni singolo istante. Agendo in questo modo si
accorda a ciascun momento un’intensità, una vivacità e una luce
particolari – cioè una «costante sensazione di gioia e gratitudine per il
semplice dono di essere vivi e consapevoli» – che non si sperimenterebbe
affatto se si tralasciasse di vivere l’attimo. Si tratta di un’esperienza cosí
ardua, che le persone normali sopportano solo quando non ne possono
fare a meno, per pura sopravvivenza:

Ma questo Presente intrabattito, questo senso di un’Ora senza fine – era sparito nel
Penitenziario di Revere con i conati di vomito e i brividi di freddo. Era ritornato in sé,
si era seduto sul bordo del letto, e aveva smesso di Resistere perché non ce n’era piú
bisogno 32.

L’esperienza di disintossicazione affrontata da Gately gli sarà d’aiuto


verso la fine del romanzo, quando dovrà sopportare la sofferenza fisica
provocata da una ferita d’arma da fuoco alla spalla destra. Anche se il
dolore è lancinante, tanto piú che l’ex tossicodipendente ormai in via di
guarigione rifiuta la somministrazione di antidolorifici con effetto
narcotico, il fatto di aver sopportato un analogo malessere con la
disintossicazione gli serve da linea di condotta:

Poteva fare la stessa cosa con il dolore destrorso: Resistere. Nessun singolo istante
di quel dolore era insopportabile. Eccolo qua un secondo: lo aveva sopportato.
Insopportabile era il pensiero di tutti gli istanti in fila, uno dietro l’altro, splendenti… È
troppo. Non riesce a Resistere. Ma niente di tutto questo è vero, ora … Poteva
accovacciarsi nello spazio tra due battiti di cuore e fare di ogni battito un muro e
vivere là dentro. Non permettere alla sua testa di guardare sopra il muro 33.

La lotta di Gately, che si sforza di non guardare al di là del muro eretto


intorno a ogni singolo momento, ricorda quella di Dean, il quale si impone
di non andare a scartabellare la sua pila di documenti. Entrambi ci
rammentano le otto ore al giorno che Wallace trascorreva ad arrovellarsi
perché non scriveva, a tormentarsi perché si arrendeva alla tentazione di
non concentrarsi sull’istante in cui stava scrivendo e di pensare ad altro.
Bisognerebbe invece erigere un muro intorno a quell’istante per far tacere
ogni distrazione e ogni possibile tentazione. Dean non ha ancora imparato
a costruirlo, ma gli adepti ci sono riusciti. Questo è il motivo per cui Dean
vive la noia come un inferno insopportabile, mentre Drinion prova una
beatitudine eterna. «La cosa insopportabile», ci dice Gately,

… è cosa ne penserebbe la sua testa. Cosa potrebbe raccontargli la sua testa se


guardasse al di là del muro. Ma potrebbe scegliere di non ascoltarla … tutto ciò che era
insopportabile era nella testa, era la testa che non Resisteva al Presente e saltava il
muro e faceva una ricognizione e poi tornava con delle notizie insopportabili a cui
credevi subito 34.

Il sentirsi vivo di Gately e la beatitudine di Drinion possono essere


raggiunti solo partendo dall’esperienza dell’intollerabile. Quando il dolore
o la noia o la rabbia o l’angoscia ti annientano al punto che hai la
sensazione di non poter sopravvivere neppure un secondo di piú, quando
sono cosí insopportabili che sembra si siano letteralmente trasformati in
un inferno vivente, allora non si ha altra scelta se non quella di costruire
un muro intorno al presente e vivere interamente nel Qui e Ora. Ecco
perché la noia mortale è la chiave. Infatti, per riuscire a farcela, è
necessaria una scelta: secondo Wallace, si tratta di scegliere tra la
desolazione totale e la capacità di far tacere tutte le distrazioni e rimanere
nella gioia e nella gratitudine dell’eterno presente.

Nel 2005 Wallace ha ricevuto una laurea honoris causa dal Kenyon
College e nello stesso anno fece anche il discorso d’apertura in occasione
della cerimonia dei diplomi. L’intervento fu pubblicato postumo con un
titolo appena piú breve del discorso stesso: Questa è acqua: alcuni pensieri,
espressi in un’occasione significativa, sul modo di vivere una vita piena di
compassione.
Il discorso, come molti dei lavori successivi di Wallace, parte dal
presupposto che i cliché, apparentemente privi d’interesse, spesso
nascondono una profonda verità. Secondo Wallace, questo fatto è stato
occultato dalla tendenza postmoderna a favorire principî intellettuali
sofisticati, complessi ed estetizzanti rispetto ad altri piú semplici ed
esteticamente privi di interesse, eppure profondamente veri. L’avversione
postmoderna per la semplicità è «una delle cose che piú ha contribuito a
svuotare di significato la nostra generazione» 35.
Si potrebbe dire che l’obiettivo principale di Wallace come scrittore sia
stato quello di resuscitare le verità che si nascondono all’interno di tali
cliché, di rivitalizzarle e di dar loro nuova energia. L’esperienza con cui
Gately costruisce un muro intorno a ogni istante, per esempio, è una
versione piú elaborata di un famoso slogan degli Alcolisti Anonimi:

Qualcosa di tanto banale e riduttivo come «Un giorno alla volta» permette a queste
persone di attraversare l’inferno che, per quanto ne so, è rappresentato dai primi sei
mesi di disintossicazione. È una cosa che mi ha molto colpito 36.

Wallace intende dimostrare perché un simile cliché contiene una verità


essenziale. «Le realtà piú ovvie, onnipresenti e importanti», ha detto nel
discorso al Kenyon College, «sono spesso le piú difficili da capire e da
discutere».
Il discorso è diventato celebre per tre frasi, piuttosto macabre a dire il
vero, che si trovano piú o meno a metà. «Non è certo un caso», ha
affermato Wallace davanti alla folla di neolaureati zelanti e rasati di fresco
e di famigliari orgogliosi e sorridenti, riuniti per celebrare il coronamento
degli studi dei loro rampolli,

… che gli adulti che si suicidano con armi da fuoco si sparino quasi sempre… alla testa.
E la verità è che erano quasi tutti già morti da un pezzo quando hanno premuto il
grilletto 37.

Non è certo la frase piú adatta a un discorso formale in occasione della


cerimonia dei diplomi!
Naturalmente, queste poche frasi sono poi diventate famose perché
contenevano una sorta di presagio della morte imminente di Wallace. E
non c’è dubbio che, anche in quel frangente, lo scrittore parlasse partendo
da un’esperienza personale. Aveva già tentato il suicidio almeno una volta,
ci avrebbe riprovato poco meno di tre anni dopo e nel giro di sei mesi
sarebbe riuscito nei suoi sforzi.
Ma non vogliamo soffermarci sull’emozione suscitata da queste parole.
Quello che ci interessa nel brano citato, e nel discorso in generale, è un
indizio che ci permette di capire che cos’era insostenibile nella posizione
che Wallace aveva assunto. In altri termini, un indizio che spieghi perché
la noia mortale non è la chiave. Perlomeno non la chiave che Wallace
pensava.

Nel discorso di Kenyon, Wallace tenta di ridar vita al vecchio cliché


pedagogico secondo cui l’educazione umanistico-liberale insegna a
pensare.

Sono passati vent’anni da quando mi sono laureato e nel frattempo ho capito poco
alla volta che il cliché secondo il quale le scienze umanistiche «insegnano a pensare»
in realtà sintetizza una verità molto profonda e importante. «Imparare a pensare» di
fatto significa imparare a esercitare un certo controllo su come e su cosa pensare.
Significa avere quel minimo di consapevolezza che permette di scegliere a cosa prestare
attenzione e di scegliere come attribuire un significato all’esperienza. Perché se non
sapete o non volete esercitare questo tipo di scelta nella vita da adulti, siete fregati 38.

La capacità di esercitare controllo sulle modalità e sull’oggetto del


proprio pensiero è appunto quella che Lane Dean Jr. sta applicando per
riuscire a diventare padrone di se stesso; è la capacità di scegliere di
pensare alla dichiarazione dei redditi che sta completando – e solo a
questo – invece di perdere il controllo e di saltare al di là del muro.
L’aspetto geniale del discorso consiste nel fatto che coglie tensioni di
questo tipo in ogni momento della vita: nel traffico e nei supermercati
affollati; nella muzak che uccide l’anima e nel pop commerciale; nei volti
«con l’occhio smorto e niente di umano» che vi si parano davanti come
ostacoli in occasione delle normali incombenze quotidiane; persino la
formula di cortesia della cassiera, «buona giornata», è pronunciata «con
una voce che è esattamente la voce della morte». Anzi, secondo Wallace, la
lotta contro la banalità, la noia, la rabbia e la frustrazione si ritrova in tutte
le «squallide, fastidiose routine apparentemente inutili» che costituiscono
le nostre vite «giorno dopo settimana dopo mese dopo anno» 39. Wallace ci
offre una scappatoia proprio da questo tipo di esistenza.
Probabilmente si tratta di una caricatura. Abbiamo avuto tutti giornate
di questo tipo, naturalmente, ma di certo è eccessivo affermare, come ha
fatto Wallace, che queste esperienze squallide sono l’essenza del mondo
contemporaneo; è esagerato dire che crescere e giungere a conoscere «le
trincee quotidiane della vita da adulti», come faranno questi innocenti
neolaureati, significa soprattutto scoprire che l’esistenza è insopportabile.
Ma che queste frustrazioni siano onnipresenti oppure soltanto
sporadiche; che ci tormentino senza tregua, come sembrano aver
tormentato Wallace, o ci attanaglino soltanto in qualche momento di
solitudine; che si tratti di nemici familiari e consueti, oppure di antagonisti
saltuari ed esotici, noi tutti le abbiamo sperimentate. Sono momenti
infelici della nostra vita, di cui faremmo volentieri a meno; ce ne
rammarichiamo, li deploriamo e addirittura li screditiamo. E vorremmo
davvero poterli superare felicemente.
La chiave, pensa Wallace, sta nel controllare i nostri pensieri. Certo,
«quella signora grassa con l’occhio smorto e il trucco pesante» 40, davanti
a me in coda alla cassa, sgrida senza ritegno il suo bambino e io mi sento
ribollire di rabbia. Ma non è cosí che ci si comporta. Secondo Wallace, si
può solo tentare di esercitare controllo su quel che pensiamo di lei e dare
un significato diverso e piú positivo all’esperienza interiore che ne risulta.

… forse è stata sveglia tre notti di seguito a stringere la mano al marito che sta
morendo di cancro alle ossa. O forse è quella stessa impiegata assunta alla
Motorizzazione col minimo salariale che soltanto ieri ha aiutato vostra moglie a
risolvere un problema burocratico da incubo facendole una piccola gentilezza di ordine
amministrativo. Non è molto verosimile, d’accordo, ma non è nemmeno da escludere:
dipende solo da cosa volete prendere in considerazione 41.

Non è una cosa facile, naturalmente, e Wallace ribadisce che non


intende dare un consiglio morale. È difficile controllare i pensieri sugli
altri che nascono spontanei in tutte le circostanze sgradevoli, qualunque
ne sia il motivo di sconforto o di fastidio. Richiede una forte volontà e
notevoli sforzi e a volte proprio non ci riusciamo.
Secondo Wallace, tuttavia, è possibile. Non è solo una possibilità, ma la
possibilità; la possibilità che costituisce la vera salvezza della vita
moderna. «Se siete abbastanza consapevoli da offrirvi una scelta, potrete
scegliere di guardare in modo diverso» 42, ci suggerisce Wallace.

Ma se avrete davvero imparato a prestare attenzione, allora saprete che le


alternative non mancano. Avrete davvero la facoltà di affrontare una situazione
caotica, chiassosa, lenta, iperconsumistica, trovandola non solo significativa ma sacra,
incendiata dalla stessa forza che ha acceso le stelle: compassione, amore, l’unità sottesa
a tutte le cose 43.

Questa è la lezione che vuole impartirci Wallace: è in nostro potere


compiere la scelta di vivere il mondo come se fosse sacro e pieno di
significato – e possiamo riuscirci con l’esercizio della volontà e con
notevoli sacrifici. È una scelta che naturalmente richiede forza, coraggio,
perseveranza e forse anche un certo eroismo. Non solo è possibile, pensa
Wallace, ma addirittura necessario al mondo contemporaneo.

Wallace si angustiava perché «non era il tipo di persona in grado di


scrivere i romanzi che avrebbe voluto» 44. Forse, pensava, non era
abbastanza perseverante, ostinato o volenteroso. «Forse la risposta»,
scrisse in una lettera a Franzen, «è semplicemente che fare ciò che vorrei
richiede uno sforzo maggiore di quanto io sia disposto a fare».
Tuttavia non si tratta soltanto di un’osservazione sulla scrittura di
Wallace – è un’osservazione sulla vita in generale. Per descrivere il
personaggio di Mitchell Drinion – un personaggio che è «Felice» –,
Wallace avrebbe dovuto imparare il trucco di Drinion. E il trucco, a quanto
pare, non serviva soltanto a essere perseveranti nella scrittura, ma a
trasformare l’infelicità in felicità in tutti i settori della vita. Il trucco
consiste nel prendere atto di una situazione vissuta istintivamente con
fastidio e avversione e trovare comunque il modo di controllare i pensieri
che suscita, sforzarsi di vederla sotto un’altra luce, attribuirle cioè un
significato piú positivo con la semplice forza della volontà individuale. Se
Wallace non fosse stato in grado di farlo personalmente, non sarebbe stato
capace di descrivere il suo personaggio. E se non avesse potuto descrivere
il personaggio di Drinion, non avrebbe potuto essere lo scrittore che
incarna la nostra epoca.
Ovviamente si tratta di pura speculazione da parte nostra. Nel
momento in cui scriviamo, digitando su Google il nome «Mitchell
Drinion», si trovano esattamente quattro risultati, ognuno dei quali
corrisponde a una ristampa dell’articolo di D. T. Max su Wallace, apparso
il 9 marzo 2009 su «The New Yorker». In realtà, in vita, Wallace non
pubblicò nulla su Drinion e, secondo Max, eliminò addirittura la vicenda
del personaggio capace di levitare dai fogli del manoscritto del Re pallido
inviati all’editore nel 2007. Se Max non avesse avuto accesso alla proprietà
letteraria di Wallace e se non avesse poi scritto quell’articolo dettagliato e
illuminante, di Drinion noi non sapremmo nulla.
Certo, si tratta di pura speculazione, ma non gratuita. A nostro avviso,
per Wallace, Drinion è stato il personaggio la cui elaborazione è risultata
piú difficile e che, alla fine, lo ha lasciato insoddisfatto, perché non era
sicuro di aver saputo descrivere nel modo giusto la sua Felicità. Il progetto
di Wallace non era affatto quello di aderire alla tendenza postmoderna,
secondo cui bisogna sovvertire le convenzioni letterarie esistenti. Il suo è
un progetto tradizionale – alcuni lo definirebbero esistenziale –, che
consiste nel costruire i personaggi al fine di poter indagare sulle possibilità
(e le impossibilità) di vivere bene nel mondo contemporaneo. Nella sua
ultima intervista importante, rilasciata a «Le Nouvel Observateur»
nell’agosto 2007, Wallace ha parlato degli scrittori che piú ammirava e di
ciò che piú lo affascinava in loro. La sua lista di preferenze contemplava,
tra gli altri, san Paolo, Rousseau e Dostoevskij. «Ciò che suscita invidia e
ammirazione in questi scrittori», ha detto Wallace, «secondo me sono le
qualità dell’essere umano – le capacità dello spirito – e non tanto le abilità
tecniche o i talenti specifici» 45.
Wallace pensava di aver individuato le qualità dello spirito necessarie al
mondo contemporaneo – le aveva trovate nella lotta di Dean, nel successo
di Gately e soprattutto nel personaggio di Mitchell Drinion. Purtroppo ha
dovuto poi arrendersi una volta per tutte al fatto di non possederle. Era
riuscito a vedere le «particelle di magia e di umanità che ancora esistono
nel mondo e che brillano nonostante la fitta oscurità della nostra epoca» e
aveva cercato disperatamente di applicarvi il defibrillatore. Ma ormai
Wallace stesso era morto dentro.

Forse ciò che piú ci rattrista nella storia di Wallace è che le qualità
umane a cui tanto aspirava, le capacità dello spirito che invidiava e che
ammirava, sono un miraggio. Anzi è tutto il suo modo di vivere, in cui si
rimproverava continuamente di non essere abbastanza in gamba da
raggiungere i suoi obiettivi, che alla fin fine è un miraggio, invece di
incarnare una possibilità di salvezza per la nostra cultura. L’incapacità di
Wallace di raggiungere i suoi obiettivi non è debolezza, ma rispecchia la
qualità umana profonda della sua anima.
Lo capiamo meglio se ripensiamo a Martin Lutero. La lotta spirituale,
probabilmente autobiografica, che Wallace descrive in Lane Dean Jr., dal
punto di vista formale è simile alla battaglia interiore di Lutero, che lo
portò a rivedere completamente la rappresentazione metafisica medievale
di Dio e dell’uomo.
Soffermiamoci sul giovane Lutero, un monaco devoto ed estremamente
pio. Era talmente assorbito dal desiderio di sradicare ogni traccia di
peccato dalla propria anima, che tutte le sue azioni erano costantemente
rivolte a purificare se stesso. L’identificazione di ogni suo singolo peccato
e la conseguente confessione diventarono un’ossessione. I racconti
agiografici tradizionali sulla vita del giovane Lutero risultano quasi
sempre inventati, ma sono comunque molto significativi. Descrivono
Lutero come un innocente fraticello molto pio, talmente ossessionato dalla
purezza della sua anima che, una volta, sequestrò letteralmente il suo
confessore per sei ore per obbligarlo ad ascoltare la lista completa dei suoi
peccati. In un’altra occasione, dopo una confessione lunga e scrupolosa,
ritornò precipitosamente al confessionale per raccontare la sensazione di
orgoglio che la sua zelante confessione gli aveva procurato! I racconti
agiografici esistenti ci descrivono un frustratissimo Johann von Staupitz, il
saggio e paziente confessore di Lutero, che finisce per rimproverare il
giovane per le sue continue visite al confessionale e cosí lo ammonisce:
«Devi mantenere il controllo su te stesso, Martin. Non è possibile che tu
corra a confessarti ogni volta che fai una scoreggia!» Alla fine Staupitz si
spazientí: «Smettila di venire da me per fare queste confessioni da quattro
soldi, Lutero», gridò. «Vai a uccidere tuo padre e cosí avremo davvero una
colpa di cui parlare!»
La battaglia che Lutero condusse per sradicare il peccato dalla propria
anima rispecchia la crociata contro la noia dilagante, la rabbia, la
frustrazione e la distrazione che hanno condizionato l’intera vita di
Wallace. Il Wallace scrittore non era molto dissimile dal giovane Lutero: lo
immaginiamo mentre si autoanalizza perché non si dedica alla scrittura, si
rimprovera per la sua debolezza, ritorna al suo compito con rinnovato
vigore e nuova energia, per un attimo è soddisfatto della sua
concentrazione, si stizzisce contro se stesso per tale momentanea
soddisfazione, è addirittura disgustato dalla sua mancanza di
determinazione e infine si abbandona alla disperazione. Le otto ore al
giorno che Wallace trascorreva a preoccuparsi di non aver scritto sono
paragonabili alle otto ore che trascorreva Lutero a preoccuparsi di non
essere abbastanza puro: piú ci si accanisce nel proprio intento, piú
l’obiettivo sembra lontano e irraggiungibile.
Fu proprio san Paolo, uno degli autori che Wallace preferiva, a fare una
diagnosi del conflitto psicologico che sta alla base di questo problema.
Nella Lettera ai Romani, Paolo descrive la relazione inversa che esiste tra
l’attenzione verso il comandamento di non concupire e la capacità di
raggiungere tale obiettivo. «Anzi io non avrei conosciuto il peccato se non
per mezzo della legge», scrive Paolo.

Poiché io non avrei conosciuto la concupiscenza se la legge non avesse detto: non
concupire. Ma il peccato, colta l’occasione, per mezzo del comandamento produsse in
me ogni concupiscenza … Venuto il comandamento, il peccato prese vita e io morii. E il
comandamento che era inteso a darmi la vita risultò che mi dava la morte [Rm 7.7-10].

È come la battuta che si fa alle feste: qualcuno ci dice di non pensare al


fenicottero rosa che se ne sta bello bello in cima alla nostra Chevrolet del
’57, intento a scrutare la tartaruga rossa gigante dall’altra parte della
strada.
Di sicuro non lo faremo.
La vicenda di Lutero ci ricorda che non tutte le realizzazioni
intellettuali, spirituali o psicologiche possono essere raggiunte grazie a un
duro lavoro e a un forte controllo di sé. Prendiamo il semplice fatto di
addormentarsi: come altre, è un’attività della mente che richiede
spontaneità e naturalezza. Ma Wallace non è l’unico a vedere
nell’autocontrollo la chiave per tutte le cose.
La cultura occidentale del XX secolo può essere in parte letta come una
serie di risposte alla morte di Dio – in altri termini, alla progressiva
perdita di significato di una serie di valori specifici e indiscutibili, perlopiú
giudeo-cristiani, da tutti riconosciuti e condivisi, seguendo i quali si
conduce una vita giusta. Quando la premessa di fondo dell’esistenza di Dio
cominciò a vacillare e l’ateismo e l’agnosticismo diventarono sempre piú
comuni, l’aderenza ai principî giudeo-cristiani fu sempre meno ovvia.
Come ha suggerito Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, se Dio non esiste,
tutto è permesso.
Nietzsche accolse con entusiasmo queste libertà, mentre altri
consideravano la morte di Dio come una grave perdita. Il dramma teatrale
Aspettando Godot di Beckett, per esempio, può essere letto come una
vicenda incentrata sulla speranza, continuamente frustrata, del ritorno di
Dio. Un’opera teatrale successiva, Finale di partita, rappresenta uno stadio
ancora piú avanzato nella storia dell’Occidente: la cultura qui si è ormai
rassegnata alla perdita di ogni significato, all’assenza di Dio continua e
permanente. I personaggi di Finale di partita non sono tormentati dal
problema di riuscire a farcela in tempi tanto disperati, si chiedono
piuttosto come porre termine alla loro vita.
Siamo già di fronte a una condizione di disperazione, ma la visione di
Wallace va ancora oltre. Infatti non si trova in lui né la speranza di
salvezza tramite Dio, né la rassegnazione alla perdita di questa speranza.
Anzi mancano del tutto speranza e rassegnazione. Egli ha perso la
memoria del sacro, nella sua accezione tradizionale, cioè l’idea di una
fonte esterna portatrice di significato, nel cui ritorno si possa
legittimamente sperare o alla cui perdita ci si possa rassegnare. Wallace ha
scritto: «Dio – a meno che non siate Charlton Heston, o fuori di testa, o
entrambe le cose – parla e agisce interamente tramite degli esseri umani,
ammesso poi che ci sia un Dio» 46. L’unica possibilità di significato,
secondo Wallace, si trova nella forza di volontà dell’individuo.
In questo senso la visione del mondo di Wallace è nietzscheana.
Naturalmente Nietzsche, come Beckett, è apparso in uno stadio precedente
della storia occidentale. Credeva, per esempio, che sarebbe trascorso molto
tempo prima che il ruolo fondante di Dio nella cultura smettesse di essere
ovvio o dato per scontato. «Dio è morto», scrisse Nietzsche, «… ci saranno
forse ancora per millenni caverne nelle quali si additerà la sua ombra» 47.
Di queste metaforiche caverne, nella sua opera Wallace non fa cenno.
Dio non getta ombra alcuna nell’universo di Infinite Jest 48.
Il mondo come lo intendeva Nietzsche non è declinato fino a questo
punto. La cultura europea del XIX secolo, nel suo complesso, dava ancora
per scontato che i valori giudeo-cristiani fossero non solo giusti, ma
sanciti da Dio. Nietzsche si era accorto che questa tendenza stava
cambiando, che le pratiche di base della cultura stavano per essere
scardinate, ma era convinto che la piena trasformazione della cultura
sarebbe avvenuta molto in là nel tempo. Anche cosí, condivideva con
Wallace l’idea nichilista secondo cui, una volta compiuta questa
trasformazione – come avviene nel mondo di Wallace –, l’unica fonte di
significato dell’esistenza sarebbe stata la volontà degli uomini forti e
coraggiosi.
«Spirito libero» è il nome che Nietzsche dà a colui che, anche dopo la
morte di Dio, continua a vivere nel migliore dei modi. Lo spirito libero non
è piú intrappolato da alcuna norma esterna che stabilisca ciò che è giusto e
ciò che è permesso. Per lo spirito libero vale proprio quel che temeva
Dostoevskij: poiché Dio non esiste piú, tutto è lecito. Per Nietzsche invece
– forse desideroso di svincolarsi dall’ingombrante presenza di un padre e
due nonni che avevano ricoperto cariche importanti nella Chiesa luterana
– questa è una strada piena di gioia.
Nel mondo di Wallace, invece, non c’è gioia. Tutto avviene come se il
fardello di questa schiacciante responsabilità – la responsabilità di sfuggire
all’assenza di significato e all’immane fatica di vivere in un mondo senza
Dio costruendo un significato nuovo e piú felice proprio partendo dal
nulla, letteralmente ex nihilo, come Dio fece all’inizio dei tempi – fosse
troppo gravoso perché un essere umano riuscisse a portarlo. Si tratta di
una strada percorribile solo se diventiamo dèi noi stessi.

Wallace ha capito, perlomeno a livello subliminale, quanto gli sarebbe


costata la sua scelta. Riprendiamo un passaggio chiave del discorso di
apertura alla cerimonia dei diplomi. Ciò che viene richiesto, ha scritto
Wallace, è estremamente difficile e, per di piú, non c’è nessuno da
biasimare se non si riesce nel proprio intento. Si tratta di scegliere di porre
uno sguardo diverso sui momenti squallidi, fastidiosi e frustranti della
vita, scegliere di poterli vivere, nonostante tutto, come se fossero dei
momenti felici, significativi, sacri e forse persino intrisi di beatitudine: è
questo che dobbiamo imparare a fare.

Ma se avrete davvero imparato a prestare attenzione, allora saprete che le


alternative non mancano. Avrete davvero la facoltà di affrontare una situazione
caotica, chiassosa, lenta, iperconsumistica, trovandola non solo significativa ma sacra,
incendiata dalla stessa forza che ha acceso le stelle: compassione, amore, l’unità sottesa
a tutte le cose 49.

Non solo significativa, afferma nel suo discorso, ma sacra. Incendiata


dalla stessa forza che ha acceso le stelle. Anche se dal contesto non si
capisce se Wallace ne fosse o meno a conoscenza, si tratta di un
riferimento preciso, come vedremo. È una reminiscenza dell’ultima strofa
della Divina Commedia, in cui Dante descrive cosa significa provare una
beatitudine estatica nell’unione mistica con Dio, rinunciare alla propria
persona e subordinarla al sacro potere dell’amore divino, «l’amor che
move il sole e l’altre stelle». Wallace vuole questo e nient’altro.
Quindi, l’esperienza del sacro in cui egli ripone le sue speranze subisce
una trasformazione talmente radicale dal suo stato originario, è cosí
sradicata dal suo habitat, che difficilmente può essere considerata sacra nel
senso letterale del termine. Il momento sacro dell’esistenza non è piú un
dono di Dio com’era nella civiltà medievale cristiana, come vedremo; non
è piú qualcosa che dobbiamo nutrire, coltivare e salvaguardare con riti e
sacrifici, come facevano i Greci politeisti. Il sacro non si ritrova piú
neppure nell’empatia umorale di una normale stretta di mano, come
talvolta avviene in Melville. Il sacro di Wallace invece – se mai si è in
grado di percepire il fenomeno – è qualcosa che imponiamo all’esperienza,
non c’è nulla che è già dato in partenza. Per Wallace qualsiasi cosa, anche
«una situazione caotica, chiassosa, lenta, iperconsumistica», può essere
sperimentata come sacra, se decidiamo di viverla cosí.
La strada per la salvezza proposta da Wallace, quindi, è la piú
impegnativa e nello stesso tempo la piú scarna di tutte. È la piú
impegnativa per almeno due ragioni. Innanzitutto, sull’idea di felicità ha
alzato molto la posta. Come vedremo, questo tipo di esperienza è possibile
solo nella somma beatitudine contemplata da Dante – una beatitudine cosí
perfetta che trascende completamente l’impegno degli uomini, la loro
dedizione e i loro progetti, una beatitudine cosí grandiosa da far sembrare
insignificanti la terra e tutti i beni terreni, cosí estatica da trascinare
l’uomo fuori dal mondo per condurlo in un altro, infinitamente migliore.
Se questo è l’obiettivo che insegue Wallace, allora non può essere
realizzato da nulla di quanto esiste sulla terra. La gioia della folla che si
alza come un solo uomo per applaudire spontaneamente a un gesto di
eroismo, il calore invitante del caminetto, l’atmosfera conviviale e
traboccante di gratitudine di un pasto in famiglia – nessuno di questi
diversi stati di felicità lo può realizzare. La salvezza sta solo nella
beatitudine estatica di un Mitchell Drinion, che levita mentre lavora.
La concezione di Wallace è impegnativa anche in un altro senso:
richiede infatti che lo stato di beatitudine sia raggiunto di continuo, senza
interruzione, anche nei momenti dell’esistenza piú banali, frustranti,
dolorosi e squallidi. Anzi esige che l’Inferno stesso sia vissuto come una
beatitudine paradisiaca.
C’è da chiedersi se davvero possa esercitare fascino un’immagine della
salvezza tanto esigente, che finisce per mettere sullo stesso piano tutte le
possibili esperienze, senza lasciare spazio all’idea che una possa essere
migliore di un’altra. Ci si può chiedere se è davvero auspicabile una
beatitudine di questo tipo. La beatitudine – quando non esiste nulla che la
controbilancia – è davvero una condizione ottimale per gli essere umani?
O invece è necessaria l’intera gamma delle emozioni umane perché una di
esse possa acquisire significato? Vedremo che questo è il punto di vista di
Melville: l’aquila dei Catskill, che egli ammira, può librarsi verso le somme
altitudini e precipitare nei burroni piú oscuri e, proprio grazie a questa
molteplicità, scorge un significato autentico in tutte le nostre condizioni.
La visione di Wallace del sacro invece è davvero scarna. Come abbiamo
visto, in Wallace non c’è alcuna allusione al fatto che i momenti «sacri»
dell’esistenza possano essere dei doni e quindi non c’è posto per la
gratitudine. La beatitudine che Wallace ricerca non è soltanto estatica e
ultraterrena – una visione radicale che, in un certo senso, è plausibile solo
nel monoteismo medievale di Dante –, ma è generata soltanto dalla
volontà individuale 50. La concezione di Wallace toglie al sacro il suo
supporto tradizionale, che implica una nozione di divino esterna all’uomo.
Nell’universo di Dante, invece, la beatitudine estatica è possibile solo
quando l’individuo rinuncia completamente alla volontà individuale e la
ingloba in quella divina. Cosí scrisse il Poeta, nei versi poi ripresi da
Wallace:

A l’alta fantasia qui mancò possa;


ma già volgea il mio disio e ’l velle,
sí come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle 51.

Non c’è da stupirsi che Wallace si preoccupasse di non essere


abbastanza perseverante per scrivere il romanzo che desiderava. Solo una
forza non umana avrebbe potuto realizzare un simile compito.
Nietzsche pensava che siamo abbastanza audaci per un progetto come
questo, che i veri spiriti liberi sono in grado di vivere con questa gioia nel
cuore. Anzi era convinto che l’unica strada possibile nella vita sia quella di
diventare dèi a nostra volta. È questo tipo di libertà infinita che intendeva
quando descriveva gli spiriti liberi che vivono per sempre sopra il mare
aperto mentre la terraferma stabile, ma opprimente, deve essere
abbandonata, proprio come si getta via una stampella. «Abbiamo lasciato
la terra e ci siamo imbarcati sulla nave!» scrive. «Abbiamo tagliato i ponti
alle nostre spalle – e non è tutto … Guai se ti coglie la nostalgia della terra,
come se là ci fosse stata piú libertà – e non esiste piú “terra” alcuna» 52.
In altre parole, chi sente nostalgia della terraferma, chi desidera un
terreno stabile su cui poggiare i piedi e vuole regole imposte dall’esterno
che lo guidino nelle scelte, costui semplicemente non è abbastanza audace,
secondo la concezione nietzscheana, per gustare la gioia dell’infinita
libertà.
Per capire tuttavia la forza straordinaria che tale atteggiamento
richiede, dobbiamo pensare alla libertà radicale a cui aspira Wallace. È una
libertà della volontà cosí completa che permette di provare sia il dolore
devastante sia la piú pura delle gioie; la noia mortale si trasforma in
beatitudine immediata, l’Inferno stesso è sacro, e ci si immerge nell’unione
mistica di tutte le cose. Non ci sono letteralmente limitazioni di sorta al
significato che possiamo dare alle nostre esperienze. In seno a tale infinita
libertà, ogni possibile limitazione – anche il terreno sotto i piedi – è
dolorosa e spiacevole; a forza dei suoi continui sfregamenti, anche il
terreno finisce per bruciare.
E se tutto ciò per gli uomini fosse impossibile? Se il fatto stesso di
essere uomini stabilisse dei limiti al modo in cui possiamo sperimentare
noi stessi e il mondo? Se non fosse possibile creare significato o trovare un
senso del sacro ex nihilo, senza una costrizione di un qualche tipo? Nel
nostro mondo, come ha intuito Melville, l’ostinata perseveranza è possibile
per un breve lasso di tempo, ma alla fine il suicidio è l’unica scelta.
Anche Melville prende in considerazione un personaggio – il suo nome
è Bulkington – che si trova a suo agio soltanto nello spazio infinito del
mare e per il quale la terra «pareva scottargli sotto i piedi». Secondo lui, in
questo personaggio c’è qualcosa di grave, terribile e meraviglioso.

Osservai con cordiale reverenza e timore, quell’uomo che, nel cuore dell’inverno,
sceso da un viaggio di quattro anni pieno di pericoli, poteva con tanta irrequietezza di
nuovo cacciarsi in rotta per un altro periodo di tempeste 53.

Non c’è felicità nel Bulkington di Melville, «mentre, nelle ombre


profonde degli occhi, gli fluttuava un qualche ricordo che non pareva
rallegrarlo troppo» 54. Anzi, in contrasto con il gioioso spirito libero di
Nietzsche, Melville considera la vita di Bulkington dura e pericolosa – che
certo incute rispetto, è meravigliosa e aspira alla verità assoluta – ma,
proprio per questo, non è vivibile dall’uomo mortale. Lo stesso Bulkington
afferra «barlumi di quella verità intollerabile ai mortali» 55.
Bulkington incarna una profonda contraddizione, se non addirittura un
paradosso, dell’esistenza umana. In quanto uomo, deve lavorare
duramente per mantenere la sua libertà; la seduzione rappresentata dalla
terraferma come possibilità di salvezza è un pericolo costante. E anche se
tali lusinghe e debolezze non sono realtà palpabili, ma soltanto illusorie,
anche se non sono solide come sembrano e non si fondano su Dio, e anche
se è lo stesso Bulkington a riconoscerlo, ciononostante esse attraggono
tutti gli uomini.

Il porto sarebbe disposto a darle riparo, il porto è misericordioso, nel porto c’è
sicurezza, comodità, focolare, cena, coperte calde, amici, tutto ciò che è benevolo al
nostro stato mortale 56.

Secondo Bulkington, bisogna resistere a queste lusinghe e debolezze.


Certo, la felicità dell’amicizia è una gioia per la gente normale, ma
Bulkington sa che questa gioia non è sancita da nessun Dio e quindi in
essa non vi è nessuna verità eterna; egli sa che la noia e la rabbia e la
frustrazione e la malinconia – sí, perfino «il novembre umido e
piovigginoso» dell’anima, di cui parleremo piú tardi, è fondamentale per il
protagonista di Moby Dick, Ismaele – sono tutti miraggi, sono il nulla e
possono benissimo non avere alcun effetto. Egli non è attratto dal mare
dalla malinconia, come Ismaele: per lui la «schiavitú» esercitata dalla
terraferma può solo essere controbilanciata dalla totale assenza di
costrizioni, tipica del mare aperto. In Wallace, libertà significa considerare
la malinconia come un momento felice, la noia come una beatitudine;
significa trovare conforto perfino nelle acque piú burrascose.
Questo tipo di libertà infinita, secondo Melville, non è affatto umana. La
libertà di osservare il caos eterno dell’universo e imporgli un significato
arbitrario, di vivere perennemente sul mare aperto: questa è la libertà di
un dio, che nessuna vita mortale è in grado di assumersi. Quindi, leggendo
la descrizione dell’ultima ora di vita di Bulkington, forse potremmo
pensare a Wallace. Quando, una mattina, non lo si vede piú a bordo perché
presumibilmente si è buttato in acqua, Melville lo descrive come un
semidio.

Ma siccome nell’assenza della terra soltanto sta la suprema verità senza rive,
infinita come Dio, cosí meglio è perire in quell’abisso ululante che venire
vergognosamente sbattuto a sottovento, anche se in questo fosse la salvezza. Poiché,
allora, oh! chi vorrebbe come un verme strisciare vilmente a terra? Terrore dei terrori!
È cosí vana tutta quest’angoscia? Tienti ferocemente, semidio! Su dagli spruzzi della
tua morte oceanica, su in alto, balza la tua apoteosi! 57.

Tienti ferocemente, semidio!

Wallace viveva come un peso il fatto che il suo genio fosse riconosciuto
da tutti. Quando ricevette la MacArthur Fellowship 58 nel 1997, il suo
amico Jonathan Franzen disse:

Non penso che [il premio] per lui sia fonte di piacere. Gli conferisce lo status di
«genio» ed è un’onorificenza che naturalmente ha molto desiderato, che ha sperato di
ottenere e che ha pensato gli fosse dovuta. Ma temo che ora stia arrovellandosi:
«Adesso devo essere ancora piú intelligente di prima» 59.

Quest’effetto è noto nei suoi vari meccanismi: la pressione creata dal


successo, che spinge ad avere ancora piú successo in futuro. È la pressione
su un amministratore delegato perché mantenga e aumenti gli utili, su un
atleta affinché batta il suo primato. È la pressione su Michael Phelps
affinché vincesse le sue otto medaglie d’oro alle Olimpiadi del 2008. Fare
qualcosa che innalza allo statuto di genio può comportare un aumento
significativo delle pressioni – e quindi delle difficoltà –, perché induce a
verificare ancora una volta la genialità della persona in questione. Il peso
di questa pressione, che obbliga a fornire ulteriori prestazioni eccezionali,
è un altro aspetto che accomuna Elizabeth Gilbert e David Foster Wallace.
L’ultima volta che ne abbiamo parlato, Gilbert stava singhiozzando nel
bagno della sua grande casa alle porte di New York, sconvolta dal pensiero
dei tatuaggi sul viso. Eppure si trattava di Elizabeth Gilbert, la celebrità
che avrebbe presto divorziato, il modello di donna moderna dell’America
intera. Il personaggio a cui ci riferiamo adesso è alquanto diverso – o
perlomeno prima ne consideravamo altri aspetti. Elizabeth Gilbert, la
scrittrice di successo: questa è la persona che ci interessa ora; in
particolare, la scrittrice che, di recente, ha avuto un grandissimo successo
con un libro e che, come ha detto lei stessa, sarà poi giudicata in base a
questo parametro per qualsiasi cosa scriverà in futuro.
Durante la conferenza organizzata nel febbraio 2009 dal Ted 60, Gilbert
ha parlato della particolare difficoltà che il successo le ha provocato. «Il
tipo di interesse risvegliato nel pubblico suscita nell’autore un’enorme
pressione», dice. «Sapete, è il tipo di situazione che potrebbe benissimo
indurre una persona a bere gin alle nove del mattino» 61.
Gilbert si oppone con tutte le forze a tale eventualità. «Non voglio
arrivare a questo punto», dichiara. Ma il problema è: come può evitarlo?
Come deve pensare a se stessa e al compito dello scrittore, in modo da non
essere costretta a cominciare a bere gin? E quale idea dello scrittore e della
missione della scrittura è necessario rifiutare, proprio per evitare che ci
faccia scivolare giú per questa china?
Gilbert, senza pensarci due volte, passa a Wallace questa patata
bollente. Be’, non è molto gentile da parte sua – naturalmente non lo cita
in modo esplicito e anzi è molto improbabile che abbia pensato
effettivamente a lui quando ha fatto queste affermazioni. Per lei lo scrittore
è personalmente e individualmente responsabile del suo lavoro e, grazie a
un estremo sforzo e a un grande autocontrollo, è in grado di determinare i
risultati della sua creazione – ma quest’idea, prettamente rinascimentale,
dello scrittore come genio, per lei è una premessa sbagliata.
Non è sempre stato cosí, ci ricorda: anzi i Greci avevano una
concezione molto diversa del rapporto tra scrittori e scrittura. Poi «è
giunto il Rinascimento e ogni cosa è cambiata e abbiamo ereditato questo
pessimo modello», continua.

L’idea centrale era: mettiamo l’essere umano al centro della creazione, al di sopra
degli dèi e dei misteri dell’universo … Questo è l’inizio dell’umanesimo razionale,
quando la gente cominciò a credere che la creatività scaturisse completamente dall’Io.
E, per la prima volta nella storia, si è cominciato a sentire parlare di questo artista o di
quell’autore come di un genio 62.

Secondo lei, è questo il vero problema. Infatti, se è il genio individuale


dello scrittore a essere pienamente responsabile delle caratteristiche
dell’opera, allora la pressione a superarsi è fortissima e costante. Non solo
nell’eventuale successo futuro sono in gioco il valore e l’identità
dell’autore, ma nessuna prestazione individuale potrà mai garantirli: è
sempre possibile che il prossimo libro dimostri che il successo è stato solo
un colpo di fortuna.
Questa concezione dello scrittore come genio incoraggia gli autori
appartenenti a una certa tipologia psicologica a concentrarsi sempre di piú
sulla fama. È un po’ come il giovane Lutero, che si precipitava ogni volta a
confessare l’orgoglio colpevole suscitato dalla sua ultima confessione. La
purezza di cuore, cosí come la purezza della missione dello scrittore,
secondo Gilbert non si trova cercando di reprimere con tutte le forze ogni
pensiero impuro.
Elizabeth Gilbert ha una visione luterana del genio. Non il giovane
Lutero, che pensava di poter purificare la sua anima confessandosi nel
modo giusto e molto di frequente, ma il Lutero dopo la rivelazione, quello
convinto che le buone opere sono irrilevanti, perché si può raggiungere la
salvezza soltanto con la grazia di Dio. È la stessa cosa che Gilbert pensa
della scrittura. Per lei, in particolare, questa visione non implica il Dio
cristiano, naturalmente, e c’è una differenza ovvia tra lei e Lutero. Ma la
nostra autrice pensa che si possa scrivere bene solo quando il dio della
scrittura brilla sullo scrittore. Si scrive bene solo tramite la grazia dello
spirito – del genio – che suggerisce cosa scrivere.
Possiamo intuire il fascino esercitato da questa concezione; attenua
considerevolmente la pressione esercitata sull’atto creativo, ponendo la
responsabilità del successo al di là dello scrittore stesso. Riduce anche
notevolmente lo stress che nasce dall’esigenza di raggiungere la purezza,
come era successo al giovane Lutero. Se ci si convince della verità di
questa visione, propriamente luterana, e si riesce davvero a viverla, forse
si può evitare il destino di Wallace.
La rivelazione di Lutero – l’intuizione che gli permise di smettere di
focalizzarsi sulle opere per concentrarsi invece sulla fede e che gli consentí
di abbandonare l’idea secondo cui la salvezza scaturiva da una confessione
fatta bene e da altri «rivelatori» di purezza altrettanto impegnativi, per
convincersi che soltanto la grazia di Dio ci permette di salvarci – è spesso
letta alla luce di un passaggio della Bibbia che riguarda la «giustizia di
Dio». Dio non è giusto nel senso che scruta all’interno della nostra anima
e dà su di noi il giudizio appropriato, dopo aver valutato il livello di
purezza a cui siamo giunti, come nella concezione cattolica medievale.
Dio, invece, è giusto secondo la concezione raggiunta da Lutero nella
maturità, nel senso che la nostra esistenza è giustificata dal Suo amore, un
amore che Egli elargisce indipendentemente dai peccati che abbiamo
commesso. In questa visione, la grazia di Dio è qualcosa sulla quale l’uomo
non ha alcun controllo. Siamo semplici ricettacoli passivi, proprio nel
modo in cui Gilbert si raffigura: lo scrittore è un semplice ricettacolo
passivo dell’ispirazione del genio.
Gilbert dà un esempio di questo genio creativo in un episodio tratto
dalla vita della poetessa americana Ruth Stone. Racconta Gilbert che la
donna, oggi ultranovantenne, parlando della sua infanzia, ricorda
nitidamente i suoi primi incontri con la forza della poesia:
Quando era bambina nella Virginia rurale, [Stone] uscí a lavorare nei campi e …
sentí e udí una poesia che letteralmente le andava incontro scaturendo per cosí dire
dal paesaggio intorno … Era come una sorta di fragoroso spostamento d’aria. E la
investí … Lei corse a gran carriera fino a casa e si sentí come braccata dalla poesia:
tutto ciò che poté fare fu prendere il piú in fretta possibile un foglio e una matita, in
modo che quando la poesia l’avesse investita di nuovo, avrebbe potuto accoglierla e
stenderla sulla pagina 63.

L’idea della poesia come una forza esterna, un qualcosa che vaga per il
mondo in cerca di un ricettacolo, di un luogo dove prendere dimora, ci
rimanda a Lutero; è quanto, secondo Gilbert, può salvare i grandi artisti
dalla forza distruttiva e dai tempi bui in cui viviamo, e dalla tentazione di
mettersi a bere gin alle nove del mattino. Come nel caso di Lutero, per
raggiungere questa conoscenza dell’essere umano, lo scrittore ha bisogno
di un cambiamento di Gestalt, un cambiamento che trasformi ciò che era
un compito gravoso, oggetto di pressioni e probabilmente irraggiungibile,
in qualcosa che non dipende dalla responsabilità dell’artista. È un motivo
che forse non basta a confermare questa visione delle cose, ma Gilbert lo
adotta come ragione strumentale. Sull’approccio nietzscheano di Wallace,
prosegue:

Vi dirò: penso sia un errore madornale. Sapete, il fatto di permettere a qualcuno… di


credere che lui o lei sia … la fonte di tutto il mistero divino, creativo, inconoscibile,
eterno significa mettere una responsabilità eccessiva su una sola, fragile psiche umana.
È come chiedere a qualcuno di ingoiare il sole. È un processo che altera e distorce l’Io e
genera aspettative irrealistiche sulla prestazione creativa. Credo che negli ultimi
cinquecento anni questo tipo di pressione abbia completamente esaurito i nostri
artisti 64.

L’idea che «dobbiamo anche noi diventare dèi», come affermava


Nietzsche 65, che siamo l’unica fonte «di tutto il mistero divino, creativo,
inconoscibile, eterno», questa nozione esageratamente centrata sull’Io, era
già stata prefigurata dal concetto di genio proprio del Rinascimento – e,
piú in generale, dall’umanesimo razionale. Pensiamo che Gilbert abbia
ragione nell’opporre resistenza a questa tendenza. Non solo pone una
responsabilità eccessiva sulla psiche umana, come fa notare la scrittrice,
ma nega le possibili fonti di conforto e di felicità per gli uomini, come
abbiamo visto in Melville. A questo proposito, quindi, a noi non resta che
schierarci con Elizabeth Gilbert e contro Wallace.
Ci sono tuttavia inconvenienti anche nella concezione proposta da
Gilbert di una pura ricettività. Infatti, se la poesia è semplicemente una
forza esterna che riecheggia dentro di noi – se il sacro e il divino e il
significativo non possono essere guadagnati, ma dipendono dalla grazia
imperscrutabile di Dio –, allora questa concezione ricettiva è paralizzante
quanto il nichilismo nietzscheano di Wallace. Wallace ci propone un
compito irrealizzabile, Gilbert non ce ne propone nessuno. Possiamo
pregare per avere l’ispirazione del genio, naturalmente, proprio come
Lutero, giunto alla maturità, pregava per avere la grazia di Dio. Ma ciò che
davvero importa, in definitiva, non ha nulla a che vedere con il modo in
cui viviamo le nostre vite 66. Ciò che importa è se ci capita di avere una
matita a disposizione quando la poesia riecheggia dentro di noi. Forse è
una buona notizia per le ditte che producono matite, ma tutti gli altri non
possono rallegrarsi granché.
Resta il problema di sapere se sono sufficienti le posizioni di Gilbert e di
Wallace. Secondo la visione nietzscheana di Wallace, siamo gli unici agenti
attivi nell’universo, responsabili della creazione ex nihilo di qualsiasi
concetto di sacro e di divino mai esistito. Gilbert, invece, assume una
posizione simile a quella del Lutero della maturità. Secondo lei, siamo
ricettacoli passivi della volontà di Dio, null’altro che recipienti di quella
grazia che Egli sceglie di elargire. Ci sono forse delle posizioni intermedie?
Noi crediamo di sí e cercheremo di approfondirlo nell’ultimo capitolo di
questo libro.
1
Vedi, per esempio, l’articolo di D. LIPSKY , The Lost Years and Last Days of David Foster Wallace,
in «Rolling Stone», 30 ottobre 2008, che dà questa prima definizione. Vedi l’articolo di A. O. SCOT T ,

The Best Mind of His Generation, in «The New York Times», 21 settembre 2008, per la seconda.
2
Vedi il saggio di D. T. MAX , The Unfinished, in «The New Yorker», 9 marzo 2009, che cita
l’intervista originale di Larry McCaffery del 1991, disponibile sul sito
http://www.dalkeyarchive.com/interviews/show/21
3
LIPSKY , The Lost Years cit.
4
Vedi l’articolo di Bruce Weber che commentava la morte di David Foster Wallace: David Foster
Wallace, Influential Writer, Dies at 46, in «The New York Times», 15 settembre 2008.
5
Vedi M. KARR , Lit: A Memoir, Harper, New York 2009.
6
L’espressione è difficilmente traducibile in italiano e si rifà alle fiabe, ai proverbi e agli
aneddoti che hanno un contenuto ammonitorio e/o premonitore [N.d.T.].
7
L. MILLER , David Foster Wallace: The Salon Interview, in «Salon», 8 marzo 1996. Vedi il sito
http://www1.salon.com/09/features/wallace1.xhtml
8
MAX , The Unfinished cit., p. 54.
9
Con l’espressione chick lit si intende un genere letterario nato nel mondo anglosassone negli
anni Novanta e rivolto soprattutto alle donne giovani, single e in carriera, con volumi che spesso
sono nella toplist dei bestseller; in Italia è nota soprattutto Sophie Kinsella [N.d.T.].
10
Vedi il sito http://www.bookreporter.com/authors/elizabeth-gilbert#view060324
11
E. GILBERT , Mangia, prega, ama, Rizzoli, Milano 2007, p. 21 (ed. or. Eat, Pray, Love: One
Woman’s Search for Everything Across Italy, India and Indonesia, Penguin Books, New York 2006).
12
Vedi il sito http://www.dalkeyarchive.com/interviews/show/21
13
MAX , The Unfinished cit., p. 58.
14
Ibid., p. 60.
15
Ibid., p. 57.
16
Intervista disponibile sul sito http://www.charlierose.com/view/interview/5639; il passaggio
citato inizia al minuto 3:16 (il riferimento al celebre brano della Bibbia non è intenzionale).
17
D. F. WALLACE , Infinite Jest, Einaudi, Torino 2006, p. 275 (ed. or. Little, Brown, Boston 1996).
18
Ibid., p. 1130.
19
Uno dei personaggi del romanzo, consulente del medico personale del Principe Q—, il
Ministro saudita dell’Home Entertainment [N.d.T.].
20
Ibid., p. 65.
21
W. SHAKESPEARE , Amleto, atto V, scena III , trad. mia [N.d.T.].
22
Quando l’intero mondo di Hank Hoyne è crollato dopo aver visto per caso questo film. Vedi
WALLACE , Infinite Jest cit., p. 608.
23
Wallace si rammaricava continuamente che i critici – anche coloro che apprezzavano il libro
– non cogliessero lo sconforto che lo permeava. Vedi per esempio l’intervista rilasciata a «Salon»
nel 1996 e quella di Charlie Rose dell’anno seguente.
24
MAX , The Unfinished cit., p. 57.
25
Ovvero Good People, in «The New Yorker», 5 febbraio 2007; The Compliance Branch, in
«Harper’s Magazine», febbraio 2008; Wiggle Room, in «The New Yorker», 9 marzo 2009. Altri brani
del manoscritto sono citati nell’articolo di D. T. Max.
26
D. F. WALLACE , Il re pallido, Einaudi, Torino 2011, p. 487 (ed. or. The Pale King, Little, Brown,
New York 2011).
27
Ibid., pp. 489-90.
28
Ibid., p. 376.
29
Vedi MAX , The Unfinished cit.
30
WALLACE , Infinite Jest cit., p. 1033.
31
Ibid., pp. 1033-34.
32
Ibid., p. 1034.
33
Ibid.
34
Ibid., p. 1035.
35
MILLER , David Foster Wallace cit.
36
Ibid.
37
D. F. WALLACE , Questa è l’acqua, Einaudi, Torino 2009, p. 148. Si tratta di un volume postumo
uscito soltanto in Italia, che riunisce, oltre al discorso del Kenyon College, cinque racconti
pubblicati su rivista tra il 1984 e il 1991 e inediti nel nostro Paese [N.d.T.].
38
Ibid., p. 147.
39
Ibid., pp. 149-50.
40
Ibid., p. 152.
41
Ibid.
42
Ibid.
43
Ibid.
44
MAX , The Unfinished cit.
45
Ibid.
46
WALLACE , Infinite Jest cit., p. 245.
47
F. NIETZSCHE , La gaia scienza, § 108 (ed. it. in ID ., Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari,
trad. it. di F. Masini, vol. V, tomo II, p. 136).
48
Nel libro, sorprendentemente, non si parla molto dell’esistenza di Dio. Tutt’altro, è molto
sbrigativo al riguardo. In un primo tempo per esempio si lascia intendere che Mario, talvolta
chiamato Boo, chieda spesso al fratello Hal se crede in Dio. Hal detesta questa domanda e la evita a
tutti i costi. A un certo punto, tuttavia, quando è costretto a prendere una posizione, dice che, se
Dio esiste, non deve essere venerato: «E allora stanotte, per farti star zitto, ti dirò che con Dio ho
due o tre conti in sospeso, Boo. Mi sembra che Dio abbia un modo piuttosto disinvolto di gestire le
cose, e questo non mi piace per nulla. Io sono decisamente antimorte. Dio sembra essere sotto ogni
profilo promorte. Non vedo come potremmo andare d’accordo sulla questione, lui e io, Boo»
(WALLACE , Infinite Jest cit., p. 48).
49
ID ., Questa è l’acqua cit., p. 152.
50
Quest’interpretazione nietzscheana di Wallace è contraddetta da alcuni passaggi di Infinite
Jest. Non c’è da sorprendersi: la posizione di Wallace non è affatto una concezione filosofica
esauriente, si tratta piuttosto di una sorta di pastiche costituito da diverse osservazioni spesso
conflittuali, ma mai del tutto contraddittorie. Ricorda l’idea che lo stesso Nietzsche aveva della
verità. In ogni caso, un passaggio importante del libro a questo proposito è a p. 348. Il narratore
racconta che: «Una delle cose banali ma giuste che insegnano gli Aa di Boston è che sia i baci del
destino sia i suoi manrovesci illustrano la fondamentale impotenza personale di ogni individuo
sugli eventi veramente significativi della sua vita: cioè, quasi nessuna delle cose importanti ti
accade perché l’hai progettata cosí. Il destino non ti avverte; il destino sbuca sempre da un vicolo e,
avvolto nell’impermeabile, ti chiama con un Psss che di solito non riesci neppure a sentire perché
stai correndo da o verso qualcosa di importante che hai cercato di pianificare». Il contrasto tra
questa posizione e quella, per esempio, espressa da Gately può effettivamente dar luogo alla sua
personale esperienza del dolore, quasi estatica, affrontandola nel modo giusto, facendo appello alla
volontà – questo conflitto, ovvio in sé, può essere spiegato sottolineando la differenza tra destino ed
eterno presente. Ma potrebbe anche non essere cosí.
51
DANTE , Paradiso, XXXIII.142-45.
52
NIETZSCHE , La gaia scienza, § 124 (ed. it. cit., p. 150).
53
H. MELVILLE , Moby Dick, o la Balena, trad. it. di C. Pavese, Adelphi, Milano 1994, p. 138 (ed. or.
Moby Dick; or The Whale, Harper & Brothers, New York 1851).
54
Ibid., p. 51.
55
Ibid., p. 139.
56
Ibid.
57
Ibid., p. 139.
58
La MacArthur Fellowship è una prestigiosa borsa di studio, o meglio un premio in denaro,
attribuita ogni anno dalla MacArthur Foundation un numero compreso tra i venti e i quaranta
cittadini americani, che si siano distinti in modo eccelso in un qualche campo del sapere [N.d.T.].
59
LIPSKY , The Lost Years cit.
60
Technology Entertainment and Design: un ciclo di conferenze annuali organizzato, a partire
dal 1984, dalla Sapling Foundation, un’organizzazione no profit, al fine di diffondere idee
particolarmente interessanti [N.d.T.].
61
Elizabeth Gilbert on Nurturing Creativity, disponibile sul sito
http://www.ted.com/talks/lang/en/elizabeth_gilbert_on_genius.xhtml
62
Ibid.
63
Ibid.
64
Ibid.
65
NIETZSCHE , La gaia scienza, § 125 (ed. it. cit., p. 151).
66
L’idea secondo cui abbiamo un ruolo irrilevante e passivo per la nostra salvezza è
probabilmente piú chiaro in Calvino, il successore di Lutero, che nello stesso Lutero. Nel
calvinismo, la strada per la salvezza è predestinata da Dio. Secondo la dottrina di Calvino sulla
predestinazione, noi non abbiamo nessun impatto sul risultato finale della nostra vita.
Capitolo terzo
Il politeismo di Omero

ALICE (a suo marito) Una sera nella sala da


pranzo c’era un giovane ufficiale di
marina seduto al tavolo vicino al nostro …
Io non pensavo che a lui, continuamente.
Non riuscivo a togliermelo dalla mente.
Ero sicura che se lui mi avesse voluta, mi
dicevo anche soltanto per una notte, sarei
stata pronta a mandare all’aria ogni cosa,
a sacrificare te, Elena, il mio fottutissimo
avvenire. Tutto quanto.

Eyes Wide Shut (Stanley Kubrick, 1999).

A un sontuoso banchetto in onore del loro ospite Telemaco, davanti al


re Menelao suo marito e a un nutrito gruppo di aristocratici spartani,
Elena racconta una storia straordinaria. La piú incantevole donna del
mondo non narra gesta di eroi, bensí un episodio della sua vita, e cioè di
quando, anni prima, aveva lasciato Menelao e il figlioletto per fuggire con
Paride, il loro irresistibile ospite. Sí, proprio quel Paride, la cui tresca
amorosa con la bella Elena diede inizio alla guerra di Troia.
Una scelta bizzarra, penserete voi, per una conversazione durante un
banchetto offerto proprio da Menelao.
Forse l’aspetto piú sorprendente della scena – almeno per noi moderni
– è il fatto che nessuno dei presenti al banchetto sia rimasto scioccato, il
che dimostra una vera e propria assenza di indignazione morale. Inoltre,
appare con evidenza la sconcertante ammirazione di Omero nei confronti
di Elena. Nella sua versione dell’episodio, non soltanto Elena, ormai
ritornata all’alcova coniugale, fa la parte della padrona di casa e della
moglie perfetta, ma addirittura lo stesso Menelao si congratula con lei:
«Tutto questo, donna, l’hai detto a proposito» 1.
Simili triangoli amorosi capitano anche oggi, ma il modo in cui Stanley
Kubrick analizza la reazione indignata del marito non potrebbe essere piú
diversa. Come spiegare l’approccio omerico? Si potrebbe tentare di
attribuire le cause dello sconcertante episodio al fatto che Elena aveva
aggiunto di nascosto una pozione nelle bevande degli astanti (cosa che di
fatto fece). Ciò potrebbe spiegare l’effetto magico che Elena ebbe sui suoi
ospiti, pur permettendo loro di essere considerati moralmente ineccepibili.
Ma questa interpretazione non ci permette di capire il successivo
commento di Omero sull’accaduto. Quella notte Menelao andò a letto,
secondo Omero, «e assieme a lui Elena dal lungo peplo, l’illustre donna» 2.
La descrizione lusinghiera e ammirata che Omero ci dà di Elena, figlia
di Zeus, suggerisce un approccio alle azioni degli uomini e alla vita in
generale radicalmente diverso dal nostro. Da qui nasce la necessità di
un’analisi piú approfondita della concezione omerica dell’essere umano.
Invece di far propria l’ammirazione del poeta per Elena, i lettori e i
commentatori delle epoche successive hanno colto l’occasione per
evidenziare in lui una carenza nel concetto di morale e di responsabilità.
Elena, con il suo comportamento, smentisce la colpa insita
nell’abbandonare la famiglia per fuggire con Paride e rifiuta di prendersi la
responsabilità del suo agire, insinuando che è stata indotta da Afrodite, la
dea dell’attrazione erotica. Intrigati dall’ambiguità di un simile
atteggiamento, perfino i lettori dell’antichità a volte si sono sentiti
obbligati a «correggere» la descrizione omerica del ruolo di Elena nella
guerra di Troia. In una versione alternativa della storia, per esempio, Elena
deve pagare il suo debito alla società 3.
Anche gli studiosi contemporanei non hanno apprezzato il modo in cui
Omero rappresenta Elena. O semplicemente evitano di occuparsi della
questione oppure la considerano un’ulteriore prova della concezione della
morale assai primitiva di Omero. Anzi forse i tre suoi piú autorevoli
interpreti del XX secolo – Bruno Snell, Eric Robertson Dodds e Bernard
Williams – sostengono che Omero non è stato in grado di affrontare la
questione morale che, secondo gli autori, si ritrova, rispettivamente, in
Kant, Hume e Nietzsche 4. E se si sbagliassero? Se il modo in cui Omero
interpreta la vita degli uomini fosse invece piú, e non meno, complesso del
nostro? E se l’ammirazione di Omero per Elena fosse il tassello che ci
consente di penetrare in un universo articolato e molteplice, lo spunto che,
inteso correttamente, ci permette di comprendere l’idea di sacro in Omero
e la sua importanza per la vita umana?
Il mondo omerico non dovrebbe essere riduttivamente liquidato come
primitivo, sulla base delle moderne nozioni psicologiche e filosofiche
d’azione morale, ma neppure celebrato, come se fosse l’origine della nostra
cultura occidentale, ora pienamente dispiegata. Dovremmo piuttosto
riconoscere che l’atteggiamento moderno e le teorie filosofiche hanno
messo in ombra quello che costituiva il fascino della visione omerica del
mondo. Invece di accostarci a questo mondo con compiacimento,
utilizzando la concezione moderna dell’essere umano, dovremmo leggerlo
come farebbe un artista sensibile, capace di vedere fenomeni positivi
dell’esistenza che non siamo piú in grado di individuare.
I Greci omerici erano aperti al mondo in un modo che noi, abituati
all’introspezione e convinti che gli stati d’animo appartengano alla sfera
del privato, difficilmente possiamo capire. Invece di comprendere se stessi
in termini di esperienze interiori e di convinzioni personali, essi avevano
emozioni pubbliche, condivisibili da tutti. Per Omero, gli stati d’animo
sono importanti perché illuminano una situazione che tutti sono in grado
di condividere: mettono a fuoco le cose che piú contano in una data
circostanza e incoraggiano gesta eroiche e appassionate. Gli dèi sono
fondamentali per sancire questi stati d’animo e dèi diversi illuminano
aspetti diversi, perfino contraddittori, di una stessa situazione. La dea con
cui Elena era piú in sintonia era Afrodite, che mette in risalto le possibilità
erotiche e induce l’individuo a svilupparle al meglio. Achille, invece, era
sensibile agli umori di Ares – piuttosto aggressivi, che valorizzano le virtú
di guerriero invincibile. Altri dèi richiamano ancora altre tendenze. Il
modo migliore di condurre la propria vita nel mondo di Omero è quello di
essere in sintonia con loro. Come dice Heidegger: «chiamando gli dèi greci
“coloro che dispongono”, pensiamo già la loro essenza in modo piú
iniziale» 5.
Al centro dell’universo omerico, vi è la certezza che tutto ciò che conta
davvero è già stato stabilito per noi: la vita migliore è quella vissuta in
armonia con questa visione. Si tratta di una concezione che può suscitare
risonanze profonde in noi moderni, con le nostre esigenze. Gli dèi olimpici
di Omero offrono ai Greci un senso del sacro che permea ogni cosa, gioie e
dolori. Dopo la morte di Dio ripensare agli dèi omerici può essere
un’opportunità di salvezza: ci permetterebbe di sopravvivere alla fine del
monoteismo, senza peraltro essere tentati di sprofondare in un’esistenza
completamente nichilista.
I poemi epici di Omero sono incentrati sull’idea di aretè, «eccellenza»,
una nozione fondamentale per l’interpretazione greca dell’essere umano 6.
Molti ammiratori della cultura greca hanno tentato di definire il concetto,
ma in questo contesto ci potremmo riuscire solo evitando due premesse
fondamentali, che a prima vista appaiono lusinghiere. Da una parte c’è la
tentazione di svalutare il mondo omerico, come abbiamo già visto, ma c’è
anche quella di illuderci di trovarvi una sensibilità moderna. Una delle
traduzioni accreditate del termine aretè, la nostra «virtú», rischia di
incorrere in una simile lettura retroattiva: qualsiasi interpretazione della
nozione di eccellenza in termini di virtú – soprattutto se in questa parola
rimane il retaggio cristiano, o anche solo romano – è destinata a portarci
fuori strada. L’eccellenza nel senso greco non contempla né la nozione
cristiana di umiltà e amore, né l’ideale romano di aderenza stoica al
proprio dovere 7. L’eccellenza in Omero si basa soprattutto sul senso di
gratitudine e di meraviglia che alberga nell’uomo.
Nietzsche fu uno dei primi a capire che l’eccellenza omerica è assai
distante dall’idea moderna d’azione morale. Secondo lui, l’universo
omerico intendeva la nobiltà nei termini della forza schiacciante dei nobili
guerrieri. L’effetto che ebbe la successiva tradizione giudeo-cristiana,
secondo questa rilettura nietzscheana, fu quello di togliere valore all’idea
omerica di eccellenza, sostituendo la forza e il potere del nobile guerriero
con l’immagine di sottomissione dell’agnello 8.
Nietzsche non si sbagliava dicendo che la tradizione omerica valorizza
l’eroe nobile e forte e affermando che, sotto certi aspetti, l’idea di
eccellenza è estranea alle nostre tesi moralizzanti di fondo. Tuttavia alla
lettura nietzscheana manca qualcosa. Come ci fa notare Bernard Knox, la
parola greca aretè è collegata, dal punto di vista etimologico, al verbo
greco araomai, che significa «pregare» 9. Ne consegue che la concezione
omerica dell’eccellenza umana comporta la necessità di porsi in un
rapporto adeguato con quello che, nella cultura data, è da considerare
sacro. La grandezza di Elena, secondo questa interpretazione, non viene
valutata nel modo giusto, se si pensa che sia moralmente responsabile
delle sue azioni.
Ciò che rende grande Elena nel mondo omerico è la sua capacità di
vivere una vita costantemente ispirata dalla dorata Afrodite, che illumina
la dimensione sacra ed erotica dell’esistenza. Analogamente Achille ha
una sensibilità particolare per Ares e per la sua concezione guerriera;
Odisseo si aspetta invece che sia Atena a prendersi cura di lui, con la sua
saggezza e la sua capacità di adattamento culturale. È molto probabile che
i maestri artigiani del mondo omerico lavorassero guidati dall’esempio
illuminante di Efesto. Sulla scia di questa lettura dell’eccellenza, dobbiamo
tentare di capire il modo in cui i Greci intendevano se stessi. Perché era
particolarmente importante considerare la vita in stretto rapporto con la
presenza o l’assenza degli dèi?
Da qui nascono molti interrogativi. A quale fenomeno pensa Omero
quando dice che un dio interviene o, in qualche modo, prende parte a
un’azione o a un evento? Siamo ancora in grado di capire questo
fenomeno, perlomeno marginalmente? E se il riferimento di Omero agli
dèi fosse qualcosa di diverso dal semplice tentativo di scaricare su di loro
la responsabilità morale delle azioni umane, come potremmo allora
definirlo esattamente? Solo tenendo conto di questi interrogativi,
possiamo capire se è possibile – e auspicabile – ritornare al politeismo di
Omero.
Gli dèi sono essenziali per comprendere che cos’è l’uomo per i Greci al
tempo di Omero. Cosí dice Pisistrato, il figlio del vecchio saggio Nestore,
all’inizio dell’Odissea: «… gli dèi | immortali, di cui tutti gli uomini hanno
bisogno» 10. I Greci sapevano bene che successo e sconfitta – cioè tutte le
nostre azioni – non sono mai del tutto sotto il nostro controllo. Per queste
azioni mai completamente di competenza umana, sentivano stupore e
profonda gratitudine: andare a dormire, svegliarsi, essere in sintonia con il
mondo, distinguersi, riuscire ad attrarre le folle, essere in grado di
catturarne l’attenzione con un discorso, cambiare il loro atteggiamento o
invece essere abitati dalla brama, dal desiderio o animati dal coraggio e
dalla saggezza, e cosí via. Omero considera tutte le nostre imprese come
particolari doni degli dèi. Dire che tutti gli uomini hanno bisogno degli dèi
significa affermare, in parte o totalmente, che diamo il meglio di noi stessi
solo quando non ce ne attribuiamo il merito – e non pretendiamo di farlo.
Ci sono molte cautionary tales 11 in Omero, in cui i personaggi cercano
di attribuirsi il merito di eventi positivi, che invece dovrebbero essere
intesi fuori dal loro controllo. Prendiamo l’esempio di Aiace. Dopo aver
valorosamente combattuto per i Greci durante la guerra troiana, nel
viaggio verso casa incontra numerose difficoltà. In un mare in burrasca, le
sue navi si sfracellano contro gli scogli giganti di Gira, anche se lui riesce
a sfuggire a questo nefasto destino:
Aiace è morto sopra le navi dai lunghi remi;
prima Poseidone lo fece accostare agli scogli
immensi di Gira, e lo salvò dal mare; sarebbe sfuggito
alla morte, per quanto odioso ad Atena,
se non avesse detto una parola superba, gravemente accecato 12.

Come possiamo interpretare questo episodio? Non tanto sottolineando


che un’entità divina, chiamata Poseidone, è la causa della morte di Aiace.
Non è questa la lezione che ci auguriamo di ricavare dai Greci. È
verosimile invece che Aiace, dopo il naufragio della nave e l’inutile ricerca
della salvezza gettandosi su un enorme sperone roccioso, sia morto a causa
di un terremoto che ha spaccato in due la roccia. Ma qualunque
insegnamento vogliamo trarne, deve essere coerente con la nostra
conoscenza della composizione fisica dell’universo.
La posizione dei Greci è affascinante non quando si pone come
un’alternativa alla nostra spiegazione causale degli eventi, ma quando
offre un punto di vista nuovo sull’eccellenza umana. Magistralmente
descritto nella storia di Aiace, affiora uno stile di vita a cui potremmo
attenerci anche noi in quanto esseri umani. Si ha la sensazione che, nel suo
atteggiamento, ci sia qualcosa di profondamente sbagliato rispetto alla
situazione che vive – non è solo uno sbaglio, ma un vero e proprio
affronto, che vanifica il modo in cui l’uomo dovrebbe concepire se stesso, e
quindi spiega e giustifica la sua morte. Invece di prendersi tutto il merito
per essere riuscito a sfuggire alla sua sorte, con egocentrismo e totale
miopia, Aiace avrebbe dovuto essere grato che gli avvenimenti si fossero
rivelati favorevoli. La riconoscenza, non la millanteria, è la risposta giusta
a un avvenimento fausto.
Nell’universo omerico, la gratitudine è qualcosa di piú di una semplice
risposta appropriata: è essenziale a una vita ben condotta. D’altronde,
spiegare la morte di Aiace nei termini della sua presunzione, come fa
Omero, significa insistere sul fatto che la sua reazione è un vero e proprio
affronto a quello che i Greci considerano sacro. Questo si intende dicendo
che Poseidone lo distrugge: per Omero la morte di Aiace ha senso solo nel
contesto del suo sprezzante rifiuto del sacro.
La gratitudine è una delle componenti essenziali per una vita ben
condotta. In un certo senso allora, gli dèi stanno al di sopra di noi ed
esigono la nostra gratitudine. Nel mondo moderno, invece, la riconoscenza
è un aspetto piuttosto marginale, anche se siamo in grado di identificare le
ragioni che la giustificano. Immaginiamo un personaggio modellato su
Aiace, che sopravviva al naufragio del Titanic: nel fatto di essere salvato
da una scialuppa, vedrebbe soltanto la prova della sua individuale
grandezza. Il comportamento sconsiderato di Aiace ci lascia ancora oggi
con un malcelato imbarazzo.

Seppure non fondamentali per l’idea che abbiamo di noi stessi, la


riconoscenza e la gratitudine per gli eventi favorevoli non sono del tutto
estranee al nostro mondo. I Greci le percepivano con ben altra acutezza.
Non che si sentissero fortunati quando qualcosa oltre il loro controllo
finiva per rivelarsi fausto: vivevano piuttosto questi avvenimenti
favorevoli come se rivestissero un significato particolare, rivolto proprio a
loro.
Per capire meglio questo aspetto, si consideri la differenza tra i Greci al
tempo di Omero e i Romani del II e I secolo a.C. I Romani davano molta
importanza all’idea di fortuna e la personificavano appunto nella dea
Fortuna. Rappresentata spesso con le sembianze di una donna cieca – per
indicare che la sua scelta era indifferente a quelli su cui ricadeva – la dea
Fortuna non ha un precursore nell’universo omerico. La dea Tyche, che
tradizionalmente è considerata la sua equivalente, non ebbe un ruolo di
rilievo nella mitologia greca fino all’età ellenistica, almeno cinquecento
anni dopo Omero 13.
La distinzione tra la dea Fortuna e gli dèi omerici è importante: se la
Fortuna illumina l’esistenza di un cittadino romano, il sentimento
adeguato non è la gratitudine, poiché la Fortuna non lo ha scelto con
intenzione. Vivere la propria vita come se fosse guidata dalla Fortuna
significa, nella migliore delle ipotesi, coltivare una sorta di stoicismo e di
riserbo. Gli stoici romani sopportavano coraggiosamente le vicissitudini
della vita, premunendosi sia contro gli eventi fausti sia contro quelli
infausti. Questo tipo di distacco raggiunto grazie all’esercizio della volontà
non derivava dall’idea omerica di eccellenza. Lo ritroviamo ancora nella
nostra epoca secolarizzata. La nozione che la fortuna cieca determini il
corso delle nostre vite approda rapidamente all’idea nichilista che le
nostre esistenze non hanno alcun significato. Lo stoicismo romano è
l’antenato del nichilismo tipico della nostra epoca.
Il rapporto tra fortuna e assenza di significato è un tema che ben si
adatta al mondo contemporaneo. Woody Allen lo ha esplorato nel suo film
del 2005, Match Point. Chris Wilton è un allenatore di tennis in un club
esclusivo di Londra che vuole tentare la scalata sociale. La scena di
apertura mostra l’immagine statica di una palla da tennis sospesa proprio
sopra la rete, mentre la voce fuoricampo di Wilton spiega la sua filosofia:

Chi disse: «Preferisco avere fortuna che talento» percepí l’essenza della vita. La
gente ha paura di ammettere quanto conta la fortuna nella vita. Terrorizza pensare che
sia cosí fuori controllo. A volte, in una partita, la palla colpisce il nastro e per un
attimo può andare oltre, o tornare indietro. Con un po’ di fortuna va oltre, e allora si
vince. Oppure no. E allora si perde.

Man mano che il film procede, Wilton viene coinvolto in un triangolo


amoroso, da cui riesce a liberarsi uccidendo la donna che piú lo ostacola
nella sua riuscita sociale. La premessa su cui si basa la storia è la
possibilità di venire scoperto. Wilton stesso riconosce la posta in gioco:

Sarebbe appropriato se io venissi preso… e punito. Almeno ci sarebbe un qualche


piccolo segno di giustizia, una qualche piccola quantità di speranza di un possibile
significato.
La possibilità di trovare un significato si dilegua rapidamente. Per pura
e semplice fortuna – simile a quella dell’esempio della palla da tennis
sospesa all’altezza della rete – per il crimine commesso da Wilton viene
arrestato un altro uomo. Con l’evidenza di un sillogismo, ne consegue che
non c’è speranza di dare un significato alla nostra esistenza. Sottolineando
il ruolo della fortuna nella vita, Woody Allen si avvicina al nichilismo.
Essere fortunati ed essere prescelti sono due fenomeni radicalmente
diversi. Se pensiamo che la cieca fortuna sia la causa di qualsiasi cosa che
va oltre il nostro controllo, come pensavano i Romani, non ha alcun senso
provare gratitudine per gli avvenimenti favorevoli che ci succedono; il
prezzo da pagare è un certo distacco dal mondo, il che ci impedisce di dare
un significato alla nostra vita. I Greci, invece, provavano verso il mondo
un senso costante di meraviglia. Non potevano fare a meno di essere
stupiti e riconoscenti per tutto ciò che succedeva loro di favorevole.
Questa sorta di stupore, e la gratitudine che spontaneamente ne derivava,
è la chiave per capire il senso del sacro nel mondo greco.

Per meglio comprendere il senso del sacro dei Greci, facciamo un


esempio, in Omero, in cui appare naturale invocare l’intervento degli dèi.
In una scena significativa che si trova verso la fine dell’Odissea, i proci
lanciano da brevissima distanza le aste appuntite contro Odisseo. Ecco
come Omero descrive l’episodio:

Cosí disse, e tutti tirarono secondo il suo ordine,


con furia, ma tutti i colpi Atena li mandò a vuoto 14.

A Odisseo il fatto che i suoi nemici avessero mancato il bersaglio non


era sicuramente sembrato un evento dovuto alla fortuna né tantomeno
arbitrario. Aveva probabilmente avuto la sensazione che l’episodio celasse
un suo significato o addirittura uno scopo e che, in fin dei conti, era stato
lui a essere prescelto. Omero lo esprime insistendo sul fatto che le aste
appuntite non avevano colpito Odisseo perché Atena lo proteggeva
dall’attacco nemico.
Possiamo far tesoro di alcuni elementi di questa descrizione, e di altri
no. Ovviamente non possiamo credere che una qualche entità
sovrannaturale di nome Atena abbia davvero fatto in modo che la
traiettoria delle aste appuntite deviasse intenzionalmente. Anche se
sostituiamo Atena con il Dio giudeo-cristiano, la nostra epoca
secolarizzata rifiuta questo pensiero (anche se alcuni naturalmente
credono ancora in questa possibilità). Indipendentemente dai fatti di
natura teologica o metafisica, concentriamoci invece sulla fenomenologia
della situazione. Immaginate per un istante di essere al posto di Odisseo.
Sei dei vostri peggiori nemici si trovano davanti a voi a distanza
ravvicinata; ognuno imbraccia una lancia e tutti insieme le scagliano verso
di voi. Come ogni grande guerriero, vi aspettate una morte imminente, da
eroe. Invece:

Uno colpí un pilastro della solida sala,


un altro la porta saldamente connessa,
la lancia di un terzo cadde addosso al muro.
Anfimedonte colpí Telemaco al polso
in superficie, il bronzo graffiò appena la pelle.
Ctesippo sfiorò Eumeo alla spalla con la lunga lancia
sopra lo scudo; la lancia passò alta e cadde per terra 15.

Che sollievo, che stupore, che gratitudine provereste allora! Potrebbe


essere davvero un colpo della cieca fortuna? Se l’evento avesse seguito il
suo corso naturale, deve aver pensato Odisseo, le cose sarebbero andate
diversamente. Quello che è successo non è semplicemente un colpo di
fortuna – o perlomeno cosí lo vive il personaggio di Omero –, ma un
avvenimento che gli comunica che è favorito dalla sorte. Cioè, dall’operato
di Atena.
Anche se noi oggi non siamo inclini ad attribuire eventi di questo tipo
all’intervento di un dio, c’è qualcosa di familiare nel modo in cui Odisseo
vive l’episodio. Coloro che sopravvivono a un disastro naturale o ad altre
situazioni estreme, per esempio, spesso hanno la sensazione che non si
sono salvati per puro caso. Anzi, quando si è la vittima di un avvenimento
statisticamente improbabile, a volte è difficile pensare diversamente.
Prendiamo una scena del film Pulp Fiction, che ci dà una versione
contemporanea dell’episodio accaduto a Odisseo. Jules e Vincent,
interpretati da Samuel L. Jackson e da John Travolta, sono dei killer
mandati a recuperare una valigetta per il loro capo. In un appartamento,
trovano tre degli uomini che hanno sottratto la valigetta, ma vengono
sorpresi da un quarto nascosto nel bagno. Questo «si precipita fuori,
impugnando la Magnum argentea, sparando sei colpi assordanti».
Sorprendentemente, nessuno dei proiettili raggiunge il bersaglio. Jules,
comprensibilmente scosso dall’evento, sprofonda in una poltrona.

JULES (tra sé) Adesso dovremmo essere morti stecchiti. (Pausa). Hai visto quella pistola
con cui ci ha sparato? Era piú grande di lui … Dovremmo essere morti stecchiti!
VINCENT Sí, abbiamo avuto fortuna.

Jules si alza, dirigendosi verso Vincent.

JULES Non è stata fortuna. È stato qualcos’altro.

Vincent si accinge ad andarsene.

VINCENT Ma, forse sí.


JULES È stato… un intervento divino. Sai cos’è un intervento divino?
VINCENT Sí, penso di sí. Significa che Dio è sceso dal Cielo e ha fermato le pallottole.
JULES Proprio cosí, è questo che significa. Esattamente questo! Dio è sceso dal Cielo e
ha fermato le pallottole.
VINCENT Penso che adesso dovremmo andare.
JULES Neanche per idea! Non puoi farlo! Non buttare tutto all’aria! Quello che è
accaduto un momento fa è stato un cazzo di miracolo.
VINCENT Piantala con ’ste storie, Jules, queste cazzo di cose succedono.
JULES Sbagliato, sbagliato, le cose non succedono cosí.
VINCENT Vuoi continuare questa discussione teologica in auto, oppure in carcere con i
piedipiatti?
JULES Dovremmo essere morti stecchiti a quest’ora, amico mio! Abbiamo assistito a un
miracolo, e voglio che tu lo riconosca, cazzo!
VINCENT Okay, era un miracolo, e adesso possiamo andarcene? 16.

Gli avvenimenti di questa scena sono sorprendentemente simili a quelli


di Omero, addirittura per il numero di proiettili. E il modo in cui Jules
interpreta la situazione è molto simile a quello di Odisseo: non può
impedirsi di considerare il fatto di essere sopravvissuto come qualcosa di
piú complesso di una semplice aberrazione statistica. Eppure ci sono delle
differenze. Nella versione contemporanea della scena, c’è un’altra possibile
spiegazione, almeno in un particolare. Vincent è la controparte in chiave
moderna della storia, e considera l’episodio come un colpo di fortuna,
nulla piú. «Piantala con ’ste storie, Jules, queste cazzo di cose succedono».
Come il cittadino romano che invoca la dea Fortuna, Vincent non riesce a
vedere nessun motivo per la gratitudine di Jules. Potrebbe pensare che,
dopotutto, il lancio dei dadi non ha nessun prescelto. A volte le cose vanno
cosí.
Probabilmente è corretto dire che il modo in cui Vincent vive la
situazione è tipico della nostra epoca secolarizzata. Dopo aver rifiutato il
concetto metafisico secondo cui un essere sovrannaturale può avere
qualche tipo di effetto causale, per il protagonista del mondo di oggi è
ovvio che, in questi casi, la gratitudine è superflua. Anzi il senso di
riconoscenza può persino apparire irresponsabile dal punto di vista
metafisico. Ciononostante, a volte anche nella nostra società secolarizzata
succede che ci si senta traboccanti di gratitudine. Quando avviene, come è
successo a Jules, appare un’altra differenza tra noi e i Greci. Per lui, è una
sorta di rivelazione, che cambia il modo in cui comprende se stesso e il
mondo. Per Odisseo, invece, questa è la sola spiegazione possibile. Altri
tentativi di interpretazione sono perfettamente inutili; basta dire: «È opera
di Atena».

Se la nostra epoca ha due diversi modi di leggere questo episodio, per


noi è naturale voler sapere quale dei due è giusto. Vogliamo capire perché
i proiettili hanno mancato il bersaglio. Ha ragione Vincent quando dice
che si è trattato di una semplice aberrazione statistica, oppure Jules
quando afferma che è un’azione della grazia divina? La risposta a questa
domanda è fondamentale per decidere se è davvero utile rifarsi al mondo
di Omero.
Uno dei modi di intendere la domanda è metafisico: esiste davvero
un’entità che è la fonte di un atto provvidenziale come questo, come il Dio
giudeo-cristiano? Se esiste, è giusto che Jules abbia questa sua reazione; se
non esiste, è Vincent ad avere la meglio. Impostare le cose in questo modo,
tuttavia, ci allontana dalla questione fondamentale. Infatti il problema
reale non è principalmente metafisico – in altri termini, non si tratta tanto
di sapere se Dio o gli dèi esistono come entità sovrannaturali né quali
sono le loro caratteristiche. Il vero problema è fenomenologico: si tratta di
sapere in che modo presupposti metafisici o teologici di questo tipo
incidono sulla nostra esperienza del mondo e di noi stessi. Ciò che
veramente conta, in altre parole, non è se Dio è l’agente causale, ma se la
gratitudine è una risposta adeguata.
Perché è questa la domanda importante? Perché aiuta a non
dimenticare il problema da cui siamo partiti. Il nichilismo della nostra
epoca secolarizzata ci lascia con la sensazione terribile che nulla al mondo
conti veramente. Se niente importa, non c’è alcuna base su cui poter
scegliere se fare una cosa piuttosto che un’altra e il peso della scelta, tipico
della contemporaneità, diventa ancora piú grave. Il problema piú urgente
di oggi è come poter alleviare questo fardello. Odisseo viveva in un mondo
in cui tale dilemma non esisteva. La concezione omerica di uomo – e
soprattutto quella di eccellenza – non ne teneva conto. Il vero problema è
quindi sapere a cosa corrisponde il concetto di eccellenza e se oggi è
possibile farlo rivivere in una sua variante.
Potrebbe sembrare un facile espediente. Abbiamo già detto che il
concetto greco di aretè comporta il fatto di relazionarsi con gli dèi nel
modo adeguato. Tale presupposto non poggia forse sulla credenza che gli
dèi esistono? Non esattamente. Dire che i Greci credevano negli dèi è una
banalità: è un fenomeno appurato storicamente, sul quale non abbiamo da
prendere posizione. Ma ciò che conta è che, per i Greci, il raggiungimento
dell’eccellenza era collegato a un elemento essenziale: nella vita si
verificano sempre eventi straordinari che vanno al di là del nostro
controllo. È proprio questo atteggiamento di fondo a giustificare e a
rinforzare la sensazione di gratitudine cosí importante per il modo in cui i
Greci al tempo di Omero giudicavano l’eccellenza. È irrilevante che la
gratitudine sia rivolta ad Atena, Gesú, Vishnu o a nessuno di questi.
Ritorniamo a Vincent e Jules. Entrambi sono sfuggiti alla morte in un
modo che ha del miracoloso. Il problema è sapere qual è la risposta piú
adeguata a un evento tanto stupefacente. Vincent rimane impassibile e
afferma che si tratta di un’aberrazione statistica. Jules, invece, scorge un
significato in questo episodio e si sente sopraffatto dalla gratitudine. Quale
delle due reazioni è piú degna di nota, piú in sintonia con le aspirazioni del
genere umano? Se la poniamo in questo modo, ci accorgiamo subito che si
tratta di una domanda tendenziosa. Corrisponde a dire qualcosa come:
quando gli eventi della vita prendono una piega positiva, è forse meglio
rimanere completamente indifferenti? Oppure la gratitudine, che molti
provano spontaneamente in simili circostanze, non solo è adeguata, ma
deve essere valorizzata? Quale idea di noi stessi è meglio coltivare?
Noi pensiamo che sia la gratitudine a dover essere stimolata.

Nel mondo omerico, uno dei segni piú eloquenti che mostra i difetti di
un personaggio è la sua mancanza di gratitudine. Come abbiamo visto,
Omero spiega la morte di Aiace come conseguenza della sua presunzione e
della sua assenza di riconoscenza, ma è un tema ricorrente nell’opera del
poeta. Forse l’esempio piú significativo si trova nel comportamento dei
pretendenti di Penelope.
Mentre Odisseo è lontano dalla patria, alcuni nobili di Itaca si mettono
in testa di sposare Penelope per impossessarsi delle proprietà del marito.
All’inizio dell’Odissea, alcuni di loro, che Omero chiama i proci, irrompono
nella sua dimora per corteggiarla. Omero li descrive in termini poco
lusinghieri, sottolineando che agiscono senza alcun rispetto per gli usi e i
costumi dell’isola. Ospiti abusivi a casa di Odisseo, divorano senza ritegno
le sue pietanze, tracannano il vino e creano scompiglio e confusione. Cosí
facendo, tentano di usurparne il regno, di lusingarne e corromperne i
servitori… e di portargli via la moglie. I proci non sono affatto persone
rispettabili.
Se nel mondo omerico Odisseo è un modello di eccellenza, i proci sono
quindi all’opposto. Per questa ragione, è interessante vedere come Omero
descrive i loro difetti. Eumeo, il porcaro di Odisseo, racconta:

… ma non vogliono condurre il loro


corteggiamento secondo le regole e neanche tornarsene a casa,
ma con tranquilla arroganza divorano i beni senza risparmio.
Tutti i giorni e le notti che vengono da Zeus,
non sacrificano mai soltanto una bestia o due,
e consumano il vino attingendone senza ritegno.
Immenso era il suo patrimonio 17.

Eumeo è indignato con i proci e anche noi riconosciamo che il loro


comportamento è scandaloso. Ci sembra scandaloso perché è rozzo e
immorale, e non rispetta la proprietà altrui, ma anche per altri motivi. Ma
non è tanto questo aspetto a giustificare la concezione omerica. Il
comportamento dei proci è oltraggioso perché non rispetta gli dèi. Nella
descrizione di Eumeo, si dice che «Loro conoscono, avendo sentito la voce
di un dio, | la triste morte di lui» 18.
Una caratteristica della mancanza di rispetto dei proci si ritrova nelle
parole «arroganza» e «senza risparmio». «Gli dèi beati non amano le
azioni crudeli, | onorano la giustizia e le rette azioni degli uomini» 19. Il
fatto stesso di essere incapaci di agire in conformità «degli usi e costumi»
di Itaca, come fanno i proci con la loro arroganza, è di per sé un affronto
agli dèi.
Un altro segno della loro mancanza di rispetto è il fatto che i proci non
fanno mai sacrifici agli dèi. A livello psicologico, l’atto rituale di offrire in
sacrificio la mucca piú grassa o la capra piú prelibata era probabilmente
motivato dall’idea che uno o piú esseri sovrannaturali avrebbero
partecipato al banchetto. È possibile che ci fosse anche un sentimento piú
materialistico, del tipo do ut des: se ti diamo questa bella mucca, caro
essere divino, ci tratterai bene? Naturalmente oggi non ritroviamo
nessuna di queste motivazioni psicologiche, ma il sacrificio rituale ha
anche un significato piú profondo, associato al senso di stupore e di
gratitudine nel mondo omerico. È possibile che i Greci stessi non
cogliessero a livello profondo questa relazione, anche se si manifestava
nelle pratiche culturali del mondo in cui vivevano.
Il sacrificio rituale è importante nell’universo di Omero perché non solo
è un modo in cui si comunica il senso di riconoscenza che gli individui
migliori già provano in tutta naturalezza e con grande profondità, ma è
anche un mezzo con cui, rafforzandolo, lo si condivide con chi non lo prova
o non lo sente con abbastanza intensità. In altri termini, se compiuto
correttamente e con regolarità, il sacrificio rituale non solo esprime la
gratitudine, ma la induce. La giusta esecuzione del rito, quindi, ha alla base
l’adesione profonda al senso del sacro tipico del mondo omerico, e nello
stesso tempo lo rinvigorisce e lo consolida: con il rito, riconoscendo le
forze che spingono l’uomo ad agire nel modo migliore ed esprimendo
stupore e meraviglia, si manifesta la forma piú alta dell’eccellenza umana.
Nell’universo di Omero, naturalmente, il sacrificio rituale era il
sacrificio di qualcosa, nel senso piú letterale del termine: di solito
comportava il fatto di sgozzare o bruciare uno o, nei casi estremi, piú
animali pregiati (il sacrificio di un’«ecatombe», che Omero cita una decina
di volte nell’Odissea, significa «sacrificio di cento buoi»). Quel che piú
conta, tuttavia, è il fatto che l’uccisione rituale fosse un sacrificio per i
partecipanti: con esso, offrono qualcosa che per loro ha molto valore. La
corretta esecuzione del rito, compiuto in modo cosciente e motivati
dall’idea che si tratta di un atto nobile e giusto, non è una semplice buona
azione; nel mondo omerico, è essenziale per rivelare l’eccellenza degli
uomini. Possiamo cogliere meglio questo senso di profonda gratitudine
quando è assente, ed è il motivo perché l’esempio dei proci è calzante. La
riconoscenza che anima l’atto rituale del sacrificio, e che ne viene
consolidata, non è compatibile con l’arroganza e la presunzione dei proci.

I fenomeni della gratitudine e dello stupore formano il retroterra che


permea la concezione dell’uomo in Omero: il poeta trova mille motivi di
cui stupirsi e di cui essere grato, che le nostre teorie moderne passano
inevitabilmente sotto silenzio. Prendiamo uno degli esempi piú semplici: il
sonno. Nell’Iliade, il Sonno è un dio – un dio a cui ci si rivolge come il
«signore degli dèi tutti, degli uomini tutti» 20. Nell’Odissea invece, come
abbiamo visto, il sonno è soprattutto un potere che gli altri dèi devono
elargire. Nel libro di apertura, Penelope piange senza sosta «il suo sposo,
finché Atena, la dea dagli occhi splendenti, | le versò sulle palpebre il
sonno soave» 21. In un passaggio successivo, Hermes, il messaggero degli
dèi, «prese la verga con cui incanta gli occhi degli uomini, | come vuole, e
a sua volta sveglia quelli che dormono» 22.
Anche quando gli dèi non sono esplicitamente responsabili del sonno
degli esseri umani, il modo in cui Omero descrive il fenomeno è permeato
dalla sua concezione dell’uomo, il quale secondo lui non controlla
totalmente gli aspetti fondamentali della propria vita. Abbiamo visto la
ricchezza e la varietà con cui Omero ha descritto la manifestazione
fisiologica dell’addormentarsi e dello svegliarsi. Nei suoi poemi, l’uomo
non si addormenta come se fosse qualcosa che vuole fare: il sonno stesso è
un dono sacro.
Le numerose circostanze in cui Omero descrive il sonno ci
suggeriscono che avesse un ruolo importante nel suo modo di concepire
l’esistenza umana. Per noi, il sonno è un episodio di vuoto, che separa i
momenti di attività; quando dormiamo non siamo piú veramente noi
stessi. Invece, nell’universo omerico, il sonno è un evento che simboleggia
la condizione umana. È spesso durante il sonno che gli dèi fanno visita agli
uomini, indicano loro la strada da compiere o lo scopo verso cui
indirizzarsi, formulano i progetti che hanno fatto per loro, placano l’ansia
e ravvivano il desiderio. Il sonno è un fenomeno tipico in Omero, perché è
il modello di un’attività in cui non si può riuscire con la sola forza di
volontà. Tuttavia, l’uomo non è completamente inerme di fronte al sonno.
Ci si può preparare a dormire, essere grati quando finalmente ci coglie,
meravigliarsi delle trasformazioni che porta con sé. E queste, per Omero,
sono manifestazioni della nostra eccellenza.
Il poeta individua questa forma di perfezione in quasi tutti i settori della
vita, per esempio quando vengono compiute azioni eroiche. In un dato
episodio, dopo un naufragio, Odisseo è disperso in mare e per due giorni e
due notti vaga in mezzo ai flutti aggrappato a un pezzo di legno. Vede
infine la costa in lontananza, ma si tratta di un possibile pericolo:

… non c’erano porti per navi, non c’erano seni,


ma promontori sporgenti, e scogli e rocce.
A Odisseo allora si sciolsero le ginocchia e il cuore… 23.

Non è difficile immaginare lo sconforto che si può provare in simili


circostanze. Essere dispersi in mare significa morire: annegati, per fame o
per la troppa esposizione al sole. Ma avvistare la terraferma vuol dire
rischiare di andare a sfracellarsi su scogli acuminati. Non c’è da
meravigliarsi se Odisseo si interroghi sul da farsi «nel cuore e nell’animo».
E mentre è ancora assorbito dai suoi pensieri:

… una grande onda lo scagliò sulla riva rocciosa.


E qui si sarebbe strappata la pelle e rotte le ossa,
se Atena, la dea dagli occhi splendenti, non gli avesse ispirato
l’idea di afferrare di slancio con ambo le mani
la roccia: la tenne piangendo finché fu passata
la grande onda, e si salvò… 24.

Omero ci offre un quadro molto efficace di quel che significa trovarsi in


una situazione del genere. Il suo Odisseo, come gli eroi moderni che
abbiamo visto all’inizio del capitolo 1, rifiuta di prendersi il merito
dell’azione compiuta. Dopotutto, era occupato a riflettere «nel cuore e
nell’animo» e temeva per la sua sorte: con le mani tentò poi di aggrapparsi
alla roccia e ci riuscí. Ma dal suo punto di vista era «ispirato», motivato da
una forza esterna a lui, Atena dagli occhi splendenti 25.

Omero descrive molti casi in cui una forza al di là del nostro controllo
suscita – o dovrebbe suscitare – una sorta di stupore e di immensa
gratitudine negli uomini. Per esempio, quando uno straniero offre il suo
aiuto al protagonista, nelle descrizioni di Omero questi è quasi sempre un
dio o una dea, che appare sotto false spoglie 26; anche in altri momenti
critici, per esempio se un oratore con le sue parole spinge la folla a
schierarsi dalla parte del protagonista, si tratta ancora una volta
dell’intervento di un dio o di una dea che indirettamente vegliano su di
lui 27. Persino in una riunione pubblica – se si tratta di un evento davvero
importante, in cui bisogna mettersi in mostra – Omero, per risolvere la
situazione, ancora una volta ci fa entrare lo zampino di un dio 28. Ciò non
implica necessariamente una spiegazione metafisica: in questi esempi
infatti c’è sempre una persona reale – lo straniero, l’oratore, il nunzio. Ma
affermare che dietro a ogni avvenimento umano c’è la presenza di un dio
significa sottolineare l’adeguatezza di reazioni come la gratitudine e lo
stupore.
Gli dèi hanno anche altri ruoli. A volte, in Omero la presenza di un dio
serve a mettere in risalto il fatto che si è raggiunto il massimo
dell’eccellenza. Abbiamo già visto azioni di eroismo, ma ci sono casi piú
semplici. A volte il dio interviene quando un personaggio emerge –
splende, diremo noi – in un modo che rivela il suo carisma. Ecco la scena
in cui Odisseo si prepara a far visita al re dei Feaci:

… Atena, la figlia di Zeus, lo rese piú alto


e piú forte all’aspetto, sí che dal capo
i capelli caddero folti, e simili a giacinti. Come
quando un uomo abile, istruito da Efesto
e da Pallade Atena in tutte le arti,
riveste d’oro l’argento e compie splendide opere,
cosí la dea gli infuse grazia sul capo e sulle spalle;
e lui sedette in disparte sulla riva del mare,
splendente di grazia e bellezza… 29.

La parola greca per grazia è charis, che è la radice dei nostri «carisma»
e «carismatico». Una persona carismatica ha ricevuto in dono dagli dèi
grazia e talento. In una stanza, colui che possiede il carisma brilla tra tutti i
presenti, come per esempio si racconta del grande ballerino russo Rudolf
Nureev. Descrivendo una scena avvenuta alla Factory di Andy Warhol,
Stephen Holden descrive l’effetto che Nureev fece sui presenti:

Ricordo di aver visto il ballerino uscire altezzosamente dall’ascensore, con


l’espressione inequivocabile di un principe, circondato dal suo entourage di giovanotti.
Stregati dal suo carisma, le altre star presenti al ricevimento – Montgomery Clift, Judy
Garland e Tennessee Williams –, mentre si stringevano sul divano per fargli posto, al
suo confronto davano l’impressione di essere piccoli piccoli e sembravano intimiditi e
sperduti 30.
I tre ospiti citati non erano di certo gli ultimi arrivati: altrettanto belli e
famosi, all’apice di una carriera sfolgorante nel firmamento dei divi, in
un’altra situazione avrebbero potuto senza problemi brillare anche loro.
Come Odisseo baciato dai favori di Atena, Nureev possedeva un carisma
palpabile: era piú alto, profumava divinamente, si muoveva con
un’andatura piú fiera. Insomma, al suo cospetto gli altri impallidivano
tutti. Se fosse stato Omero a descrivere la scena, i fatti sarebbero stati gli
stessi: ma per sottolineare il fascino che Nureyev esercitava senza alcuno
sforzo – un dono piuttosto che una prestazione –, il poeta indubbiamente
avrebbe scritto che la grazia ricadeva su di lui per dono degli dèi.
La descrizione mette in risalto qualcosa di fondamentale. Ciò che gli
esempi citati hanno in comune, è il fatto che non si raggiunge il risultato
con lo sforzo. Colui che cerca di essere carismatico fa la figura dello
sciocco, goffo e vanaglorioso: chi tenta deliberatamente di brillare alle luci
della ribalta non potrà che risultare ridicolo; come chi cerca
disperatamente di addormentarsi, andrà incontro a una notte di insonnia.
Omero scrive che Atena ha accordato a Odisseo una grazia naturale,
perché da solo non ce l’avrebbe mai fatta.

Non si deve pensare, a partire dall’idea di sacro in Omero, che gli dèi
greci esistano in funzione di quel che possono far ottenere di importante e
significativo. Ma sarebbe anche utile accantonare la concezione odierna
secondo cui l’agente umano è l’unica fonte delle proprie azioni. Questa
nozione moderna di libertà d’azione da parte dell’uomo è cosí diffusa, che
il nostro comportamento finisce per nasconderci i fenomeni a cui era
sensibile Omero. Per capirli meglio, analizziamo brevemente il modo di
pensare dei moderni.
Per noi, è normale pensare che chi non si assume la responsabilità delle
proprie azioni sarà oggetto delle critiche altrui – anzi si tratta quasi di una
verità assiomatica. Le azioni dell’uomo sono comportamenti per i quali è
responsabile solo l’agente umano. Verso la metà del XX secolo, il filosofo
francese Jean-Paul Sartre, con l’esistenzialismo, elaborò una teoria che, dal
punto di vista logico, ampliava questa concezione. «Il primo passo
dell’esistenzialismo», scrive Sartre, «è di mettere ogni uomo in possesso di
quello che è e di far cadere su di lui la responsabilità totale della sua
esistenza» 31.
La concezione secondo cui siamo interamente responsabili della nostra
esistenza è in totale contrasto con l’idea omerica che agiamo nel migliore
dei modi quando ci apriamo al mondo, permettendo a una forza esterna di
guidarci. Una volta che ci rendiamo conto dell’intensità di questo
contrasto, diventa ovvio il motivo per il quale oggi è molto difficile vedere
i fenomeni fondamentali del mondo omerico. Quello che Omero
considerava il paradigma dell’eccellenza difficilmente può essere applicato
alle azioni dell’uomo.

Se prendiamo sul serio il concetto omerico di eccellenza, allora


dobbiamo rinunciare all’idea moderna secondo la quale siamo pienamente
responsabili delle nostre azioni. Ci sono molte buone ragioni per credere
che sia un’idea sensata.
Ecco l’esempio di Chuck Knoblauch, la celeberrima seconda base dei
New York Yankees. Considerato tra i migliori esterni del campionato
americano di baseball, nel 1999 Knoblauch inaspettatamente iniziò a fare
degli errori grossolani, davvero inspiegabili, nel modo di lanciare la palla.
Si rivelò incapace di compiere un tiro corto dalla seconda base alla prima;
una volta, un lancio sbagliato mandò la palla oltre le transenne, colpendo
in pieno viso la madre del cronista sportivo Keith Olbermann. Knoblauch
tentò con tutte le forze di migliorare questa défaillance nel tiro, ma piú si
concentrava, peggiore era il risultato. Nella terminologia di Omero, come
vedremo, Knoblauch interferiva con il volere degli dèi.
Il fenomeno è piú comune di quanto crediate – si verifica in sport come
il baseball, il golf, il tennis; nel football americano i quarterbacks non sono
immuni da questo problema – in gergo viene definito the yips. La
spiegazione piú diffusa è che l’atleta, per agire in sintonia con se stesso, a
un certo punto comincia a essere d’intralcio al suo stesso corpo, le cui
abilità sono altamente specializzate. Invece di permettere all’azione di
guidarlo, Knoblauch aveva tentato di compiere intenzionalmente il tiro. Il
dottor Shawn Harvey, uno psichiatra che aveva lavorato con atleti
professionisti ed è tutt’oggi considerato un esperto in psicologia dello
sport, ha cosí commentato il fenomeno:

Cominciano a concentrarsi su qualcosa che dovrebbe invece essere spontaneo.


Impiegano troppo tempo a tenere conto di tutte le macchinose riflessioni che ne
derivano. Questo processo distrugge la capacità di fare quello che, per moltissimo
tempo, avevano compiuto in tutta naturalezza 32.

Cioè, quando si possiede un’abilità altamente specializzata, quando si è


immersi in quel che si fa, quando i movimenti richiesti dallo sport in
questione fluiscono dal soggetto invece di essere determinati da lui,
quando si compie una performance ottimale, la cosa peggiore che si può
fare è appunto tentare di intralciare questo flusso.
Se consideriamo noi stessi la fonte unica e autosufficiente della nostra
attività, come succede nel mondo contemporaneo, è difficile immaginare
una reazione alla situazione di Knoblauch diversa da quella che ha scelto
lui: concentrarsi con lucidità e determinazione sull’azione che sta facendo
per eseguirla nel migliore dei modi. Anzi l’analisi dello psichiatra citato,
secondo cui un simile comportamento tende a un’eccessiva cogitazione,
può sembrare addirittura paradossale: non è forse vero che piú si pensa a
una cosa, piú si riesce a migliorare? Se si crede invece, come fa Omero, che
l’impresa piú eccelsa dell’uomo in realtà fa parte del dominio degli dèi –
un dominio che necessariamente va al di là della nostra comprensione –,
allora sembra ovvio che ragionare ostinatamente sulla situazione non può
portare che a risultati mediocri.
È questo il fenomeno su cui Omero si concentra. Ritorniamo alla sua
versione della storia di Odisseo. Quando egli infine fa ritorno a Itaca, la
sua isola natale, ritrova il figlio Telemaco. Insieme, con l’aiuto di Atena,
escogitano un piano per annientare i proci: togliere tutte le armi dal salone
principale e nasconderle in una stanza chiusa a chiave alla quale soltanto
loro possono accedere. Nell’oscurità della notte, Odisseo e Telemaco si
accingono a mettere in atto il loro piano:

… Odisseo e il suo illustre figlio balzarono in piedi


e riposero gli elmi, gli scudi convessi,
le lance di faggio: davanti a loro Pallade Atena
teneva una lucerna dorata e faceva una bellissima luce.
Allora Telemaco disse a suo padre:
«Padre, è un grande prodigio quello che vedo con i miei occhi:
le pareti, gli architravi della sala, le travi
d’abete e le colonne altissime appaiono ai miei
occhi come se fosse stato acceso il fuoco.
In casa c’è un dio di quelli che possiedono il vasto cielo».
Gli disse in risposta l’astutissimo Odisseo:
«Taci, tieni a freno la mente e non chiedere:
è questo il costume degli dèi dell’Olimpo…» 33.

Ora siamo probabilmente in grado di apprezzare questa lezione sul


sacro: quando le cose raggiungono la perfezione, quando diamo il meglio
di noi stessi, quando per esempio siamo in grado di lavorare con gli altri in
totale armonia, quello che stiamo facendo sembra guidato da una forza
esterna. Si tratta di momenti splendidi della nostra vita, attimi meravigliosi
che esigono la nostra gratitudine. Negli episodi in cui si manifesta
l’eccellenza, l’ambito non conta molto. Nella nostra mente dovrebbero
continuare a riecheggiare le parole di Omero: «Taci, tieni a freno la mente
e non chiedere: | è questo il costume degli dèi dell’Olimpo» 34.

I Greci al tempo di Omero si aprivano al mondo in un modo che non


siamo piú in grado di comprendere. Con tutte le moderne tecniche di
introspezione per capire il nostro stato interiore, abbiamo la tendenza a
pensare che le attività umane piú eccellenti siano raggiunte grazie a una
riflessione profonda, esauriente e completa. Abbiamo anche l’abitudine a
considerare le nostre emozioni come un fatto privato, esperienze interiori
alle quali gli altri non devono accedere. I Greci invece vivevano se stessi
come una tabula rasa aperta alle suggestioni che venivano dal mondo.
L’idea di esperienza interiore per loro sarebbe stata bizzarra e
incomprensibile. Omero, per esempio, era stupefatto che Odisseo potesse
dissimulare agli altri i suoi sentimenti. In un passaggio dell’Odissea, egli
torna a casa a Itaca e incontra la moglie Penelope. Poiché non è ancora
pronto a rivelarle la sua identità, finge di essere un vecchio amico di
Odisseo e le racconta l’ultimo incontro avuto con lui. Venendo a sapere
episodi che riguardano il marito, Penelope scoppia a piangere. Per lui è
doloroso vedere la moglie in quello stato senza poterle mostrare la sua
commozione, per paura di dover rivelare la sua vera identità. Omero si
meraviglia della sua capacità di nascondere la tristezza in questo
frangente. Parla con ammirazione del «signore delle invenzioni» che ha la
capacità di emozionarsi interiormente, mentre i suoi occhi non versano
una lacrima:

… Odisseo
aveva pietà in cuor suo della sua donna piangente,
ma gli occhi erano immobili come il corno o il ferro
sotto le palpebre, tratteneva a forza le lacrime 35.

I Greci consideravano in questo modo l’esperienza interiore e vivevano


persino i sogni come se fossero contaminati dal mondo esterno. La visita
di una divinità durante un sogno, per esempio, viene vissuta come se la
dea si infilasse in una fessura della porta, scivolasse nella stanza, si
mettesse di fianco al letto di chi sta sognando e gli parlasse 36. In linea
generale, i Greci del tempo di Omero non hanno una concezione di vita
interiore come la intendiamo noi. I sogni, i sentimenti e soprattutto gli
stati d’animo, per loro, non sono affatto vissuti come se accadessero a
menti individuali. Gli stati d’animo sono pubblici e condivisi da tutti e le
persone si sentono plasmate nell’umore collettivo come gocce d’acqua nella
tempesta.
Per Omero, gli stati d’animo hanno una grande importanza, perché
fanno luce su una situazione condivisa; cioè manifestano quello che conta
davvero spingendo cosí gli uomini a compiere gesta appassionate ed
eroiche. Afrodite, come abbiamo visto, creava uno stato d’animo che, in
una situazione collettiva, «sintonizzava» le persone esclusivamente sulle
potenzialità erotiche. Altri dèi stabilivano tonalità affettive diverse. Dire
che gli dèi sono dei «sintonizzatori» significa affermare che, qualunque
cosa sia alla base della loro esistenza, essi servono a enfatizzare ciò che già
ci sta a cuore e a indurci a entrarne in sintonia, indipendentemente dalla
sua natura.
Se gli dèi sono dei «sintonizzatori», allora l’essenza della grandezza
umana per Omero consisteva nel lasciarsi sintonizzare sull’umore del dio
che presiedeva a un dato settore della vita. Ma gli stati d’animo non
durano per sempre: scaturiscono come dal nulla, mantengono la presa per
un po’ e infine svaniscono. Physis è la parola greca che indica il carattere
effimero degli stati d’animo e delle faccende che stanno a cuore agli
uomini, e l’idea che si tratti di qualcosa di effimero è fondamentale per il
politeismo cosí come lo intende Omero. Forse l’elemento piú notevole
dell’universo omerico è il fatto che comprenda un intero pantheon.
Ognuno di loro veglia su un particolare settore della vita e su una serie di
pratiche che vi si collegano, e incarna il sommo esempio di uno stile di
vita eccellente, naturalmente nel suo campo. Gli esseri umani, quando si
esprimono al meglio delle loro possibilità, sono disposti a lasciarsi
investire e trascinare da uno o da un altro di questi stati d’animo che
impregnano il mondo. Il fatto che ci sia un pantheon, e non un unico dio,
ci dimostra che non esisteva un principio soggiacente che unificasse questi
diversi modi di vita. L’eccellenza in campo erotico propria di Afrodite, per
esempio, non può essere paragonata all’eccellenza di Era nelle questioni
domestiche. Poiché i Greci consideravano la perfezione umana in base alla
capacità di sintonizzarsi con gli stati d’animo degli dèi e poiché questi
ultimi sono mutevoli, i Greci non intendono conciliare i diversi significati
che gli dèi incarnano. La pluralità politeistica di divinità non paragonabili
tra loro può spiegare la capacità di Elena di muoversi senza scosse tra la
vita domestica con Menelao e la passione erotica per Paride. Non prova il
bisogno di far combaciare questi diversi aspetti di se stessa o di disporli
gerarchicamente, e rimane aperta alla possibilità di farsi assorbire da
ciascuno di essi. In questo, scrive Omero, splende tra tutte le donne.

Abbiamo iniziato il capitolo con Elena che, durante un banchetto,


racconta la sua fuga d’amore con Paride. Anche se a noi moderni può
sembrare scioccante l’idea di raccontare un episodio del genere, perfino
Menelao lo trovò affascinante. La totale disparità tra la nostra reazione e
quella di Omero mette in luce che gli antichi Greci erano sensibili a una
pluralità di dèi incompatibili tra loro. Ci dobbiamo chiedere allora a quale
fenomeno Omero si sta riferendo quando dice che un dio prende parte a
un’azione o a un avvenimento. Indubbiamente le risposte possibili sono
tante e comunque, in molti casi, non c’è nessun particolare fenomeno in
gioco. Per esempio, sull’Olimpo avvengono numerosi episodi da soap
opera che non hanno alcun rapporto con quel che noi moderni vorremmo
prendere a prestito dai poemi di Omero 37. È chiaro che Omero fa
intervenire gli dèi partendo dalla considerazione che la perfezione umana,
nella sua essenza, è indotta da una forza esterna. Un dio, nella
terminologia di Omero, è uno stato d’animo che ci mette in sintonia con
quel che piú preme in una data situazione, permettendoci di reagire
istintivamente, senza pensare.
Il modo in cui Omero concepisce gli dèi induce a interrogarsi
ulteriormente sul significato di una vita ben condotta. Infatti, se una vita
eccellente richiede la presenza degli dèi, allora gli esseri umani migliori
dovrebbero indurre gli dèi a manifestarsi, esprimendo loro stupore e
gratitudine. Una vita ben riuscita, quindi, richiede anche la capacità di
valutare i momenti in cui avvengono eventi favorevoli che non dipendono
da noi e quella di saper coltivare lo stupore e la gratitudine di fronte a essi.
Quando sappiamo coltivare dentro di noi la capacità di provare stupore e
gratitudine, allora siamo in grado di invocare la presenza degli dèi.
Tenendo conto di questa idea di eccellenza, ritorniamo al problema del
perché Elena è considerata con tale reverenza nei testi omerici.
Quando si trovavano al cospetto della bellezza, i Greci al tempo di
Omero provavano uno stato di timore reverenziale. Anche il semplice fatto
di trovarsi di fronte a oggetti belli e creati con perizia instillava in loro un
sacro senso di meraviglia. Consideriamo l’esempio della descrizione che fa
Telemaco del meraviglioso palazzo di Menelao:

«Guarda, figlio di Nestore, caro al mio cuore,


lo splendore del bronzo nella sala sonora,
e l’oro, l’elettro, l’argento, l’avorio!
Cosí deve essere dentro la reggia di Zeus,
con tanta immensa ricchezza: mi prende stupore a guardarla!» 38.

La parola tradotta con «stupore» – sebas in greco – evoca i fenomeni


sacri della reverenza, dell’adorazione e dell’onore. In Omero è utilizzata
per indicare che non si può fare a meno di provare rispetto di fronte alle
manifestazioni del sacro.
Il nostro termine «bello», quindi, non trasmette adeguatamente il
sentimento del sacro che i Greci provavano di fronte alle manifestazioni
della bellezza. Anche soltanto dire che Elena era la piú bella donna del
mondo risulta banale. Anzi, l’epiteto che è associato a lei di solito è dia
gunaikon, che letteralmente significa «dea tra le donne». Dovremmo dire
qualcosa di piú: Elena è la personificazione dell’eros. In questo ambito
sacro, è talmente superiore alle altre che è considerata alla stregua di una
figlia di Zeus.
Dire che la dimensione erotica è sacra nel mondo di Omero significa
dire che evoca immediatamente gratitudine e meraviglia in tutti gli esseri
umani piú nobili. Nella Grecia di Omero, l’eros non è soltanto il piacere
fisico o sessuale, ma un modo di essere piú generale che spinge in tutta
naturalezza gli esseri umani verso gli altri: un modo di essere su cui veglia
la dorata Afrodite. Elena è l’epitome di questa dimensione sacra della vita.
In questo campo, tutte le altre donne descritte da Omero sono paragonate
a lei 39.
Elena incarna l’erotismo raggiunto senza alcuno sforzo come Nureev
rappresenta la forza carismatica. Gli esseri piú nobili sono spinti
inesorabilmente verso di lei, le cose belle le si riuniscono spontaneamente
intorno e tutto in lei esprime l’eccellenza al suo piú alto grado in campo
erotico – dal modo di parlare al portamento e all’interazione con gli altri.
Questa è Elena che «splende tra le altre donne».
Omero lo esprime ai piú alti livelli. Prendiamo la descrizione
dell’apparizione di Elena nel libro IV dell’Odissea. Omero sottolinea la
bellezza non solo di Elena, ma anche degli oggetti che la circondano; i doni
straordinari che provengono da luoghi misteriosi e che altri, ispirati dal
suo fascino, le hanno offerto, sembrano brillare ed emanare una luce
dorata. Come Nureyev, Elena è circondata dal suo seguito composto di
giovani donne bellissime tra le quali essa brilla, irradiando la potente luce
dell’eros. Si osservi l’attenzione per i dettagli nella descrizione di Omero:

Mentre cosí meditava nel cuore


e nell’animo, uscí dall’alta stanza odorosa Elena,
simile nell’aspetto ad Artemide dalla conocchia d’oro,
e insieme a lei Adreste, che le dispose il seggio;
Alcippe portò un tappeto di morbida lana,
Filò il canestro d’argento che le donò Alcandra,
moglie di Polibo, che abitava in Tebe egizia,
dove nelle case ci sono grandi tesori.
Lui diede a Menelao due vasche d’argento,
due tripodi e dieci talenti d’oro;
a parte, sua moglie offrí a Elena doni bellissimi:
una conocchia d’oro e un cesto d’argento, con le rotelle,
ma che aveva gli orli cesellati d’oro.
Questo portò e le porse l’ancella Filò,
pieno di filo ritorto, e sopra era appoggiata
la conocchia piena di lana di colore viola.
Sedette sul trono, che aveva sotto lo sgabello per i piedi,
e subito chiese al marito ogni cosa… 40.

Elena è bella, certo. Ma ciò che piú conta, è che permette a chiunque
intorno di capire che cosa sia la bellezza. Quindi valutare il
comportamento di Elena con la norma della responsabilità morale non
solo è sbagliato, ma, nel mondo omerico, è inconcepibile. Ridurrebbe la sua
bellezza a un semplice attributo, superfluo in confronto al valore morale
delle sue azioni. Se nell’universo omerico la fuga d’amore di Elena con
Paride è in sintonia con l’eros, la si dovrebbe intendere come un gesto
sacro della massima eccellenza, in cui i protagonisti sono disponibili a
rispondere al richiamo di Afrodite.
È chiaro che i Greci intendevano il problema proprio in questi termini.
Anche se la fuga con Paride provocò la guerra di Troia, nel mondo
omerico non si trattava di qualcosa di deplorevole, bensí di uno dei
molteplici aspetti della vita. Anzi creò l’occasione perché si manifestassero
altri atti di eccellenza e di eroismo. Il piú grande guerriero greco, Achille,
per esempio, era cosí eroico in battaglia che persino «da vivo noi Greci ti
onoravamo come gli dèi» 41. Le sue gesta eroiche erano cosí straordinarie
che stabilirono il criterio di eccellenza per quel che riguarda il modello di
eroe, un’altra dimensione sacra nella Grecia di Omero. E anche se morí
giovane, le sue gesta fecero della sua vita il simbolo stesso dell’eccellenza.
Odisseo, quando lo incontrò nell’oltretomba, lo apostrofò dicendo: «Di te,
Achille, nessuno è piú felice, in passato o in futuro» 42. Le vicissitudini
dell’esistenza, nel mondo omerico, hanno il loro significato proprio per il
tipo di eccellenza che sono in grado di portare alla luce. Odisseo stesso –
un eroe della sua epoca – è uno degli uomini «piú oppressi dai mali» 43. E
il grande re dei Feaci, Alcinoo, a proposito delle sorti avverse di Odisseo,
disse: «Tutto ciò hanno fatto gli dèi, filando la rovina degli uomini, |
perché fosse anche per i posteri materia di canto» 44.
Per concludere, la fuga di Elena con Paride, sicuramente deplorevole,
non può essere considerata come un atto di irresponsabilità morale. Anzi
si tratta di un comportamento che non rientra nella sfera della morale.
Rientra invece nella sfera dell’eros, nell’accezione sacra che diamo alla
parola, un eros che intreccia in modo indissolubile stupore e dolore,
creando una storia da cui possono attingere gli uomini a venire per trovare
argomenti su cui fondare i loro canti.
Editing 2017: nick2nick www.dasolo.co

1
OMERO , Odissea, IV.26 (ed. it. a cura di G. Paduano, Einaudi, Torino 2010, p. 85).
2
Ibid., IV.305 (ed. it. cit., p. 87).
3
Vedi per esempio R. E. BELL , Women of Classical Mythology: A Biographical Dictionary, Oxford
University Press, New York 1991. Anche nella versione del testo comunemente accettata, c’è un
passaggio che suggerisce un’interpretazione di questo tipo: «Penso che Elena argiva, la figlia di
Zeus, | non si sarebbe unita a un altro uomo nell’amore e nel letto, | se avesse saputo che un’altra
volta i prodi figli dei Greci | l’avrebbero riportata a casa, nella sua patria. | Ma fu un dio che la
spinse a compiere l’azione indegna…» (OMERO , Odissea, XXIII.218-24 [ed. it. cit., p. 575]). Questo
brano conferma la nostra interpretazione, poiché secondo noi Omero ammira Elena, invece di
pensare che è colpevole di un’avventatezza per la quale dovrebbe essere punita. Siamo quindi stati
molto compiaciuti di scoprire che, anche in passato, i commentatori si sono resi conto che questo
passaggio è un’aggiunta posteriore al testo, per ragioni che non hanno nulla a che vedere con la
rispettabilità di Elena.
4
Vedi il classico di B. SNELL , Die Entdeckung des Geistes. Studien zur Entstehung des europäischen
Denkens bei den Griechen, Claassen & Goverts, Hamburg 1946 (trad. it. La cultura greca e le origini
del pensiero europeo, Einaudi, Torino 2002); la risposta di E. R. DODDS , The Greeks and the Irrational,
University of California Press, Berkeley 1951 (trad. it. I greci e l’irrazionale, La Nuova Italia, Firenze
1978); e il piú recente saggio di B. WILLIAMS , Shame and Necessity, University of California Press,
Berkeley 1993 (trad. it. Vergogna e necessità, il Mulino, Bologna 2007).
5
M. HEIDEGGER , Parmenide, trad. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 1999, p. 204.
6
I principali testi di Omero, l’Iliade e l’Odissea, costituiscono le basi della cultura occidentale.
Come nel caso della Bibbia, tuttavia, poco si sa della loro stesura e ancora meno dell’autore, o degli
autori. Secondo la tradizione, Omero era un poeta cieco, che si pensava provenisse dall’antica città
ionica di Smirne o dalla vicina isola di Chio. Che un individuo con queste caratteristiche sia
davvero esistito o che sia stato l’unico autore dei poemi epici è oggetto di controversia fin
dall’antichità (per una disamina piú approfondita, vedi R. FOWLER , The Homeric Question, in ID ., The
Cambridge Companion to Homer, Cambridge University Press, Cambridge 2004). Se Omero è
esistito, si pensa sia vissuto nell’VIII secolo a.C.; sicuramente i testi che abbiamo oggi furono
trascritti per la prima volta in quell’epoca. Gli avvenimenti descritti nei poemi, tuttavia, sempre che
abbiano una base reale, probabilmente si svolsero circa un millennio prima. L’Iliade, il primo dal
punto di vista cronologico, racconta un’importante serie di eventi accaduti nei dieci anni di assedio
di Troia. Tradizionalmente, la guerra di Troia è datata tra il 1194 e il 1184 a.C., periodo che mostra
una certa coerenza con i reperti archeologici ritrovati in quello che fu probabilmente il luogo dove
si svolse la guerra. L’Odissea descrive le avventure di Odisseo durante il viaggio di dieci anni per
ritornare nella natia Itaca, alla fine della guerra. Oltre a essere narrazioni paradigmatiche di guerra
e avventura, i canti dell’aedo avevano un ruolo essenziale nel mondo greco dell’VIII secolo, poiché
chiarivano alla popolazione ciò che veramente contava nella loro cultura. Ancora tre secoli dopo,
gli ateniesi dell’epoca di Eschilo e Platone sapevano a memoria lunghi passaggi dei poemi e
facevano ricorso all’opera di Omero per questioni morali, legali e diplomatiche. Secondo gli autori
della Grecia classica, non era inusuale che la gente citasse a memoria interi brani di Omero in tutte
le possibili occasioni, un po’ come si fa oggi – o almeno fino a qualche tempo fa – quando si usano
passi della Bibbia per commentare una situazione.
7
Le teorie pedagogiche del XIX secolo spesso furono preda di tale tentazione anacronistica. In
quel periodo, il vero scopo dell’educazione umanistica era ovvio: formare il cittadino cristiano. In
quest’ottica, i classici greci e latini erano letti per formare il gusto individuale e il senso della
bellezza (vedi, per esempio, la storia della teoria generale dell’educazione discussa nella relazione
del 1945 dell’Università di Harvard, intitolata General Education in a Free Society). Era difficile
immaginare, in epoca vittoriana, che la principale dote della donna piú bella del mondo consistesse
nell’essere sensibile all’aspetto erotico dell’esistenza, che i Greci consideravano sacro. Eppure, come
abbiamo già detto, Omero stesso ammirava Elena.
8
F. NIETZSCHE , Genealogia della morale, Einaudi, Torino 2012.
9
Vedi l’introduzione di Knox alla traduzione inglese di Robert Fagles dell’Odissea (Penguin
Classics, London 1996). Knox esamina il rapporto tra aretè e araomai, nella sua nota a VII.62, che
parla di un personaggio di nome Arete. Il rapporto è chiaro se si considera anche la parola aretè, da
cui il personaggio prende il nome.
10
OMERO , Odissea, III.47-48 (ed. it. cit., p. 49).
11
Cfr. sopra, cap. II , p. 23, nota 6 [N.d.T.].
12
OMERO , Odissea, IV.499-504 (ed. it. cit., p. 97).
13
Prima di allora, nella cultura greca tyche era a volte considerata una forza che, se mai esiste,
esclude la fede negli dèi. Vedi, per esempio, la tragedia di Euripide Il ciclope, V . 606: «Se no, noi
crederemo il Caso [tyche] un dio, e da meno del Caso i nostri dèi» (trad. it. di F. M. Pontani, in
EURIPIDE , Tragedie, Einaudi, Torino 2002, p. 1074).
14
OMERO , Odissea, XXII.255-56 (ed. it. cit., p. 551).
15
Ibid., XXII.274-80 (ed. it. cit., p. 551).
16
Q. TARANTINO , Pulp Fiction, trad. it. di F. Saba Sardi, revisione e note di I. Cotroneo, Bompiani,
Milano 1994, pp. 112-13.
17
OMERO , Odissea, XIV.90-96 (ed. it. cit., p. 341).
18
Ibid., XIV.89-90 (ed. it. cit., p. 341).
19
Ibid., XIV.83-84 (ed. it. cit., p. 341).
20
OMERO , Iliade, XIV.233 (trad. it. di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 2005, p. 491). Vedi
anche la Teogonia di Esiodo, soprattutto il V . 759. Qui il Sonno e suo fratello la Morte sono descritti
come «terribili dèi» – probabilmente nel senso che ispirano timore.
21
OMERO , Odissea, I.363 (ed. it. cit., p. 19).
22
Ibid., V.47-48 (ed. it. cit., p. 117).
23
Ibid., V.404-6 (ed. it. cit., p. 133).
24
Ibid., V.425-30 (ed. it. cit., p. 135).
25
Questo fenomeno era cosí importante per i Greci ai tempi di Omero che sembra essersi
impresso nella grammatica stessa del loro linguaggio. Nella lingua greca si trova una forma verbale
piuttosto insolita, il medio-passivo. Questa forma verbale non ci è familiare e gli studiosi non
concordano sui motivi del suo uso. I fatti, tuttavia, parlano chiaro. Quasi tutte le lingue moderne
hanno solo due forme verbali, l’attivo e il passivo. Quando il verbo è usato nella forma attiva, allora
il soggetto è l’agente dell’azione, per esempio «John lanciò la palla». Invece, quando il verbo è nella
forma passiva, allora il soggetto diventa un po’ come se fosse un recipiente passivo dell’azione, per
esempio «John fu lanciato». Ma i Greci ai tempi di Omero hanno una terza opzione: il medio-
passivo. Qualunque sia il suo significato, il medio-passivo deve essere inteso per situazioni in cui la
persona in questione non è né del tutto attiva né del tutto passiva. Si tratta proprio del fenomeno
che descriviamo quando parliamo del fatto di essere abitati o istruiti dagli dèi. Per sapere come
funziona, è utile tener conto che, nell’esempio sopra, il verbo che abbiamo tradotto nella forma
attiva «afferrare di slancio» in realtà nel testo originale è reso in medio-passivo. E ha davvero
senso. Omero sembra suggerire che Odisseo non era stato spinto da Atena ad allungare le mani –
come se lo avesse costretto contro la sua volontà. Il fenomeno indica chiaramente che, in un certo
senso, Odisseo è coinvolto personalmente nell’azione. Il suo coinvolgimento, tuttavia, non è
propriamente attivo: il fatto di aver invocato la dea significa che Odisseo non ha fatto tutto da solo.
Il medio-passivo è la voce grammaticale perfetta per indicare questo fenomeno. E probabilmente
non è un caso che Omero ne sia il grande specialista; la forma era poi caduta quasi del tutto in
disuso all’epoca degli autori della Grecia classica del V secolo a.C.
26
Vedi, tra gli altri, OMERO , Odissea, VII.18 sgg. (ed. it. cit., p. 157); e XIII.221 sgg. (ed. it. cit., p.
325).
27
Vedi, per esempio, la descrizione di Atena della vittoria di Odisseo nella gara di lancio del
disco, ibid., VIII.195 sgg. (ed. it. cit., p. 183).
28
Vedi, per esempio, ibid., VIII.7 sgg. (ed. it. cit., p. 175).
29
Ibid., VI.229-37 (ed. it. cit., p. 149).
30
S. HOLDEN , Film View; Adrift, Fleetingly, in Warhol’s World, in «The New York Times», 28
aprile 1996.
31
J.-P. SARTRE , L’esistenzialismo è un umanismo, Armando, Roma 2006, p. 48 (ed. or.
L’existentialisme est un humanisme, Nagel, Paris 1946).
32
J. DONOVAN , Head Games: Ankiel, Knoblauch Struggle to Rediscover Their Arms, «Cnn Sports
Illustrated», 23 marzo 2001. Vedi il sito
http://sportsillustrated.cnn.com/baseball/mlb/2001/spring_training/news/2001/03/23/ankiel_knob
33
OMERO , Odissea, XIX.31-43 (ed. it. cit., p. 469).
34
Naturalmente, Omero riconosce che, per raggiungere l’eccellenza in qualunque campo si
voglia, si deve sottostare a un processo di apprendimento delle competenze, delle pratiche e degli
usi e costumi propri di quel campo. Sarebbe sciocco pensare che Chuck Knoblauch sarebbe
diventato il giocatore che era – almeno per un certo periodo – senza l’allenamento e l’esperienza
adeguati. Tuttavia, allenamento ed esperienza non bastano. Una volta raggiunta l’eccellenza in un
dato ambito, si è pronti a essere aperti agli dèi. Prendiamo l’esempio di Telemaco. Atena ha un
ruolo cruciale nell’aiutarlo a passare dal suo mondo di fanciullo impotente che gioca in mezzo ai
proci, a quello della vita adulta. Il passaggio dalla fanciullezza alla vita adulta, secondo Omero, è
sotto l’influsso degli dèi, poiché nessuno è in grado di compiere da solo questa transizione.
Naturalmente, ciò che conta è un’educazione adatta e non è un caso che Atena aiuti Telemaco
prendendo le sembianze di un importante personaggio della famiglia, Mentore. La capacità di
considerare diversamente le esigenze del mondo a Telemaco tuttavia non basta. Ha anche bisogno
dell’esperienza, per essere capace di fare discorsi in grado di convincere gli altri e per essere
autorevole. Omero riconosce che Telemaco manca della competenza necessaria per fare bene queste
cose e l’episodio cruciale è quello in cui l’appassionata eloquenza del giovane non riesce ad avere
gli effetti desiderati (vedi OMERO , Odissea, II.270 sgg.). Per esempio quando, come un tipico ragazzo
della sua età, non sembra rendersi conto dell’importanza dell’esperienza. In un punto fondamentale
di un discorso importante, egli regredisce all’infanzia, butta a terra lo scettro e scoppia in lacrime
(ibid., II.80 sgg.). Non è tanto il fatto che gli dèi possano sostituire magicamente il nostro bisogno di
diventare competenti in un certo campo: piuttosto, una volta raggiunte le migliori competenze
possibili, abbiamo bisogno che ci aiutino a esprimerle al meglio.
35
OMERO , Odissea, XIX.209-12 (ed. it. cit., p. 477).
36
Vedi Odissea: «Si slanciò come un soffio di vento sul letto della fanciulla, | si fermò sopra il
suo capo e le parlò, | prendendo l’aspetto della figlia di Dimante, navigatore famoso, | che era sua
coetanea e cara al suo cuore» (VI.20-23; ed. it. cit., p. 139). E anche: «Ciò detto sparí passando
accanto al chiavistello, | nel soffio del vento; e allora la figlia di Icario | balzò dal sonno, e il cuore le
si scaldò dalla letizia, | perché un sogno chiaro le era venuto nel cuore | della notte…» (IV.838-42;
ed. it. cit., p. 113).
37
Un complicato episodio di questa soap opera si vede nel libro VIII dell’Odissea. Racconta la
relazione adulterina tra Afrodite e Ares, con il marito geloso Efesto nel ruolo del cornuto.
38
OMERO , Odissea, IV.71-75 (ed. it. cit., pp. 75-77).
39
Il che non significa che sono valutate solo considerando lei. In Omero ci sono altri personaggi
femminili eccelsi. Elena è il modello per quanto riguarda l’eros, ma la saggezza di Penelope, per
esempio, si distingue in modo inconciliabile con l’eccellenza di Elena. La fedeltà e la lealtà che
dimostra Penelope – la quale rimane fedele a Odisseo per vent’anni – è in contrasto con le
disposizioni erotiche di Elena. Il politeismo di Omero gli permette di avvalersi di queste due forme
di eccellenza senza sentire il bisogno di metterle a confronto o farne una classifica.
40
OMERO , Odissea, IV.120-37 (ed. it. cit., p. 79).
41
Ibid., XI.484 (ed. it. cit., p. 283).
42
Ibid., XI.483 (ed. it. cit., p. 283).
43
Ibid., VII.212 (ed. it. cit., p. 167). Uno degli epiteti di Odisseo è «uomo dai molti dispiaceri».
44
Ibid., VIII.579-80 (ed. it. cit., p. 203).
Capitolo quarto
Da Eschilo ad Agostino: l’ascesa del monoteismo

Al tempo di Omero, i Greci vivevano vite intense e piene di significato,


sempre aperti alla possibilità di venire emotivamente travolti dalla
presenza illuminante degli dèi dell’Olimpo. Il loro universo felicemente
politeistico era l’opposto della nostra epoca nichilista. Come è riuscito
l’Occidente a passare dal mondo incantato di Omero, permeato da un
senso di stupore e meraviglia, al mondo che abitiamo noi, completamente
disincantato?
Porre la domanda in questo modo significa confutare l’interpretazione
tradizionale della storia dell’Occidente. Almeno a partire da Hegel,
all’inizio del XIX secolo, il modo di leggere la storia occidentale era stato
guidato dall’idea di progresso. Siamo abituati a pensare all’Illuminismo, o
anche a periodi piú recenti, come a momenti culminanti di un percorso in
costante sviluppo. L’ottimismo della libertà, la lucidità della ragione e le
certezze di un mondo che aveva sempre una spiegazione e un controllo:
sono tutti fattori che indicano un’idea di progresso della storia.
Esiste naturalmente anche una versione alternativa, che considera la
nostra attuale situazione di disincanto come il risultato di un declino e di
una perdita progressivi. Una sorta di nostalgia permea questa concezione,
che disdegna il mondo contemporaneo disincantato a favore dell’epoca
incantata che lo aveva preceduto. Il dovere di rimanere saldi sulla propria
posizione, che è stata liberamente scelta e non dettata da una norma, il
modo di procedere arido e privo di compassione della Ragione che avanza,
la triste inerzia di un universo di cui si ha sempre una spiegazione e su cui
si possiede il controllo: sono tutti fattori che indicano un’idea di declino
della storia.
E se nessuna delle due versioni fosse vera? Se l’idea alla base delle due
interpretazioni – la meraviglia e l’incanto che ci siamo lasciati alle spalle –
dipendesse dal fatto che abbiamo frainteso il mondo contemporaneo? Se,
in realtà, noi non avessimo perduto gli dèi – e la loro sacralità e il loro
splendore –, ma avessimo semplicemente perso il contatto con i molteplici
significati che essi ci potrebbero indicare?
Sia la celebrazione compiaciuta del progresso sia il rimpianto nostalgico
per la perdita subita ci portano fuori strada. La tendenza nichilista tipica
della nostra epoca secolarizzata ha affossato l’idea di progresso; nello
stesso tempo, ai margini di questo mondo, fioriscono tendenze alternative
che propongono nuovi significati e mettono in dubbio l’idea stessa di
perdita.
La storia del modo in cui abbiamo perso il contatto con le pratiche
sacre non è altro che la storia nascosta dell’Occidente. Invece di una lista
di fatti non riconosciuti, questa storia può essere descritta come un
susseguirsi di stadi, in cui abbiamo a poco a poco smesso di vedere le
meraviglie terrene che gli uomini al tempo di Omero scorgevano ovunque.
È una storia che ci permette di capire che gli dèi sono stati ignorati, piú
che perduti, e noi abbiamo chiuso la nostra anima al loro allettante
richiamo. Capire questa storia nascosta significa renderci conto che,
ancora oggi, possiamo metterci in rapporto con il mondo sviluppando un
atteggiamento di questo tipo. Si tratta di una modalità che, nella nostra
cultura, è stata marginalizzata, certo, ma continua a esistere, in attesa di
essere coltivata e rinvigorita. La storia nascosta dell’Occidente sarà il filo
conduttore per riscoprire quelle pratiche capaci di rivelare le suggestioni
sacre che ancora esistono nel mondo.
Scrivere un resoconto di questa storia nascosta esula dagli obiettivi del
nostro libro: quanto segue si limiterà a una serie di scorci, ognuno dei
quali si concentrerà su un momento essenziale della letteratura
occidentale. Da Eschilo al Vangelo di san Giovanni, da Paolo e Agostino a
Dante e Lutero e infine a Cartesio e Kant, proprio grazie alla forza di
coesione di queste grandi opere del pensiero, capaci di mettere a fuoco gli
aspetti pregnanti della nostra cultura, vedremo quale significato fu
represso e soffocato e quale invece emerse progressivamente. I due capitoli
seguenti quindi ci porteranno a rotta di collo dalla cultura classica ateniese
di Eschilo nel V secolo a.C. alla modernità cosí come è stata interpretata da
Kant alla fine del XVIII secolo.
Il lettore potrà ribellarsi al nostro fermo rifiuto di spiegare i periodi di
transizione da un’epoca alla successiva. Mentre ogni sosta sulle opere
citate è una scelta narrativa, la nostra incapacità di spiegare la transizione
tra le diverse epoche è imposta dall’esterno. È vero, nelle interpretazioni
tradizionali che parlano sia di progresso sia di perdita, ci si aspetta una
lettura razionale del processo della storia. Secondo Hegel, per esempio, i
momenti di transizione della storia non sono eventi accidentali, ma
razionali: ogni cambiamento è una soluzione alle contraddizioni proprie
del periodo precedente. Ma il percorso che va dalla concezione omerica
dell’eccellenza umana a quella di Eschilo non è piú razionale del percorso
che va dalla concezione aristotelica della scienza a quella di Galileo. Come
sostiene Thomas Kuhn, la transizione da un paradigma scientifico al
seguente è rappresentata da un complesso cambiamento di Gestalt, che
rimane inspiegabile proprio perché non lascia nulla con cui poterlo
spiegare. Non esiste un rapporto di razionalità tra il concetto di
movimento in Aristotele e quello di Galileo; sono semplicemente
incommensurabili. Lo stesso avviene con Omero ed Eschilo. Possiamo dire
quello che uno dei due possiede e l’altro no, ma non spiegare perché e
come nella storia è stata possibile la transizione dall’uno all’altro.
Inoltre, il fatto che ogni opera qui analizzata faccia parte della nostra
storia, la storia dell’Occidente, è fondamentale per l’epoca contemporanea.
Significa infatti che qualcosa delle pratiche del passato ancora si conserva
ai margini del nostro mondo. Se tentiamo di metterci all’ascolto del senso
del sacro che permea ciascuna delle grandi opere di cui parleremo, saremo
in grado di riconoscere e di riportare in vita le pratiche che tuttora
possono valorizzare la sacralità nella vita.

Eschilo, vissuto ad Atene nel V secolo a.C., è considerato il padre della


tragedia. Nelle sue opere, trasmette emozioni forti, che vanno
dall’esaltazione gioiosa al terrore. In alcuni punti, le sue tragedie facevano
davvero paura al pubblico e si racconta che le donne incinte che avevano
assistito a una rappresentazione partorivano prematuramente. Perfino
l’atmosfera gioiosa, tuttavia, è altrettanto intensa: anche solo guardando la
sua trilogia, l’Orestea, si ha l’elettrizzante impressione di partecipare alla
grandezza dell’età d’oro di Atene.
Eschilo scrisse parecchie centinaia di anni dopo Omero, all’inizio del
periodo classico della Grecia antica, e i suoi dèi, anche se mantenevano lo
stesso nome, non corrispondevano all’incarnazione di stati d’animo diversi
attribuiti loro da Omero. Gli dèi di Eschilo sono radicalmente differenti: si
sono trasformati in vere e proprie forze, che sono alla base della vita della
polis. Nelle opere di Eschilo, sono gli dèi a regolare le questioni salienti e a
stabilire ciò che è opportuno fare nelle diverse situazioni. Esigono dai
protagonisti un’unità d’azione: sicuramente non ammetterebbero mai la
diversità gioiosa e disordinata che Omero consentiva.
Malgrado l’esigenza di un’unità, all’epoca di Eschilo gli dèi erano
spesso in competizione tra loro, mentre nell’Odissea costituivano una
famiglia eterogenea, ma assai tollerante. Nel loro ruolo di guide e
protettori degli uomini mortali in patria, in guerra e nell’alcova, avevano
sempre un atteggiamento collaborativo. Eppure Omero e coloro che
adoravano gli dèi dell’Olimpo avevano raggiunto questa condizione
idilliaca soltanto perché erano riusciti a eliminare altri dèi piú antichi – gli
dèi della lealtà alla famiglia, che presiedevano alla fertilità, ai legami di
sangue e alla vendetta. Questi spiriti antichi della vendetta e della fedeltà
ai vincoli di sangue semplicemente non facevano parte del mondo omerico
– ed è sbalorditivo! Secondo Eschilo, era stato necessario pagare un prezzo
per metterli a tacere. Quel che emerge nella tragedia eschilea, non è
l’allegra molteplicità degli dèi olimpici descritti da Omero, ma
l’opposizione tra due interpretazioni opposte e incompatibili della
giustizia: i nuovi dèi olimpici rappresentano un orientamento, le antiche
Erinni primitive un altro.
Anche se alle due tendenze appartengono molti dèi diversi, nessuna
delle due si distingue dall’altra in modo sostanziale. Le antiche divinità,
nell’Orestea, per esempio, sono rappresentate in modo monolitico come
vecchie streghe che propongono un unico modello di vita: proteggono le
famiglie e i gruppi di notabili locali e bevono il sangue di chi non osa
attuare le spietate vendette che esse bramano. Gli dèi della nuova epoca,
invece, è in Apollo che trovano l’incarnazione ottimale. La sua fiducia
ossessiva ed esclusiva nella disincantata ragione universale ha preso il
posto della molteplicità di umori tipica degli dèi di Omero. Inoltre, non
solo ogni singolo gruppo di dèi costituisce un’unità, ma ognuno pretende
di incarnare una ragione universale. Detto in altri termini, sia gli dèi
antichi sia quelli nuovi pretendono di detenere la giustizia e di avere il
privilegio di punire coloro che trasgrediscono le norme da loro dettate.
Il dramma dell’Orestea nasce dall’opposizione radicale tra la vecchia
concezione di giustizia e quella nuova. Le antiche dee della vendetta, le
Erinni, che sono tutte donne, mettono la famiglia in testa alla lista dei
valori; i nuovi dèi, perlopiú uomini, inseguono un’idea di legge universale
che non fa eccezione per i singoli, le famiglie o le polis. Apollo formula la
sua nuova concezione della giustizia, completamente distaccata, dicendo:

Dai miei seggi profetici non pronunzio alcun oracolo


né su uomo, né su donna, né su città,
se non comandato da Zeus, padre degli Olimpi.
Vi esorto a soppesare quanto valga la sua giustizia
e ad attenervi al volere del Padre.
Infatti nessun giuramento ha piú forza di Zeus 1.
Al contrario, le Erinni si preoccupano solo della famiglia: giustizia
significa esigere vendetta su chi ha offeso un consanguineo: «Noi
cacciamo gli assassini dai loro tetti» 2.
La concezione delle Erinni, non dissimile da quella della mafia, non
aveva spazio nell’universo omerico: a quei tempi, la cultura tentava di
reprimere la naturale tendenza alla fedeltà di sangue. Secondo Eschilo, le
Erinni sono offese per aver ricevuto un simile trattamento e sono
indignate per essere state «messe da parte» e «scacciate nell’oltretomba»
dagli dèi del cielo dell’Olimpo. Cosí rispondono:

memori e destre a compiere


vendetta delle colpe,
riverite, inflessibili a umane perorazioni 3.

Il conflitto tra dèi vecchi e nuovi è centrale nel concetto di Eschilo di


cultura classica ateniese e si manifesta in crescendo, mostrando sottili
sfumature. Emerge la prima volta, nel piú diretto ed evidente dei modi,
nell’Agamennone, la prima tragedia della trilogia.
Agamennone è il valoroso generale che conduce i Greci nella decennale
campagna contro la città di Troia. Suo fratello Menelao è il marito tradito,
per riscattare il quale è stata intrapresa la guerra. L’antefatto dell’Orestea è
un episodio tragico avvenuto all’inizio del conflitto. Sulla strada per Troia,
per placare gli dèi, Agamennone offre in sacrificio la sua adorata figlia
Ifigenia. Il coro ci rammenta questo episodio nella scena d’apertura.
Raccontano la disperazione di Agamennone di fronte alla sconvolgente
richiesta del profeta:

Grave destino se non ti obbedisco;


ma grave pure se ucciderò
mia figlia, luce della mia casa,
intridendo presso l’altare
queste mani di padre
nel sangue della fanciulla sgozzata.
C’è, tra queste due, una via priva di mali? 4.

In tal modo, il conflitto interiore di Agamennone evidenzia la lotta tra


vecchi e nuovi dèi. Padre di Ifigenia e re del suo popolo, Agamennone si
sente intrappolato tra due esigenze contraddittorie ed è proprio questo
tremendo conflitto a costituire lo spunto per il dramma. Pensiamo invece
al modo, completamente opposto, con cui Omero ci presenta Odisseo.
Anche lui è padre, re e avventuriero, ma esplica questi suoi ruoli in
momenti diversi. Non si trova mai in una situazione in cui deve scegliere
un mondo a detrimento dell’altro. Il politeismo di Omero permette a questi
ruoli multipli di coesistere in un unico individuo, senza pensare che i
conflitti debbano essere risolti. La tendenza monoteistica di Eschilo, che lo
spinge a cercare un’unità, sottolinea invece il dissidio che può essere
generato da ruoli multipli ed esige che si risolvano in modo culturalmente
soddisfacente.
La morte di Ifigenia viene raccontata attraverso un flashback, ma gli
eventi dell’Orestea in realtà iniziano con il ritorno a casa di Agamennone
dopo la guerra di Troia. Sua moglie Clitennestra è adirata con lui:
ovviamente è furibonda per la perdita della loro figlia Ifigenia. Ma ci sono
anche altre ragioni che spiegano la sua ira contro il marito. È gelosa
perché è tornato a casa con una bella schiava troiana di nome Cassandra;
questa gelosia, però, è fuori luogo, perché Clitennestra, da parte sua,
durante la lunga assenza del marito, ha iniziato una relazione con Egisto, il
cugino di Agamennone. Come sempre, la tragedia è ricca di avvenimenti
complicati e di dettagli incestuosi e salaci; in questo caso, riveste grande
importanza una maledizione trasmessa per generazioni, che tuttavia qui
esula dal nostro argomento. Quello che ci interessa è il fatto che, quando
Agamennone torna a casa dalla guerra, Clitennestra a sangue freddo
uccide lui e la sua amante, proprio all’interno delle mura del palazzo.
L’azione di Clitennestra è sproporzionata rispetto alla situazione.
Tuttavia essa si rende conto che la cultura giustifica il suo gesto, se è
compiuto in nome delle Erinni di Ifigenia. Si difende in questo modo:

Non mi pare affatto che a costui sia toccata


un’ignobile fine.
Non fu lui infatti a introdurre in questa casa
sciagure insidiose?
Anzi, del mio rampollo, che, avuto da lui, allevai,
Ifigenia, la tanto pianta,
fatto strazio, degno strazio soffrí 5.

Il problema è che, oltre ad aver vendicato l’assassino della figlia, fatto


che le Erinni considerano legittimo, Clitennestra ha ucciso il suo re,
trasgredendo cosí alla legge universale, fatto che i nuovi dèi non
intendono tollerare. Il coro, che incarna il buon senso degli ateniesi, è
esitante tra le due interpretazioni dell’evento. Da una parte, è giusto che
una madre vendichi la figlia:

Quest’oltraggio deriva da oltraggio,


e giudicare è impresa difficile.
Chi preda, è predato, chi uccide paga il fio 6.

Ma, dall’altra, è stata compiuta un’azione inaccettabile, un regicidio:

Ohi ohi, re, re,


come devo piangerti?
Che parole deve inviarti questo cuore che ti ama?
Qui, steso nella rete di un ragno,
spiri il soffio della vita in una squallida morte.
Ohimè me, un destino perfido
ti domò in questo ignobile letto
per mano di moglie armata di scure a due tagli 7.
Che il gesto di Clitennestra sia o meno accettabile, dipende dal modo di
interpretarlo: un atto di vendetta diretto all’assassino di sua figlia oppure
un regicidio perpetrato contro il legittimo re. È in nome degli antichi dèi o
di quelli nuovi che è stato compiuto il delitto?
Il problema dell’interpretazione dell’omicidio di Agamennone diventa
centrale nella seconda parte della trilogia, Le coefore. La tragedia si
focalizza sul ritorno di Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra e
fratello di Ifigenia. Il ragazzo pensa che debba essere fatta giustizia per la
morte del padre, suo re. Il dilemma di fronte a cui si trova è il seguente:
deve vendicarsi di Clitennestra in nome delle Erinni o compiere un atto di
giustizia in sintonia con i nuovi dèi e la loro legge universale? Deve
uccidere la donna con un gesto di spietata vendetta per la morte
dell’amato padre o deve abbatterla freddamente e senza passione, in
quanto omicida del legittimo re?
Il coro riconosce che il concetto di spietata vendetta delle Erinni, dando
origine a un ciclo senza fine di altre vendette, finirà per distruggere
l’intera civiltà che a esso si ispira:

Resta fermo, finché Zeus dura sul trono,


che il malfattore ha da soffrire: è la legge.
Chi mai potrebbe estirpare il germe delle maledizioni
da queste case? La stirpe è saldata alla sventura 8.

Per metter fine a questo ciclo, quindi, Oreste deve uccidere sua madre
nel nome di Apollo e della giustizia universale, non in nome delle Erinni e
della loro sanguinaria vendetta. In altri termini, deve uccidere con
freddezza, razionalmente e in modo deliberato, come se si trattasse della
conseguenza necessaria di una norma indiscutibile. È questo l’unico modo
per porre fine alla violenza che minaccia la società, mettendola sull’orlo di
una guerra civile.
Il problema è che non si può tagliare la gola alla propria madre solo
perché lo esige un’argomentazione razionale. Le Erinni rappresentano una
forza istintiva. Hanno il potere di suscitare negli individui uno stato di
esaltazione e di spingerli a compiere atti che altrimenti non farebbero; è
difficile tuttavia immaginare che la pura ragione, senza la passione, possa
indurre il singolo ad agire. Come ha detto David Hume molti secoli dopo,
la ragione è schiava delle passioni.
Alla fine, Eschilo escogita una soluzione ingegnosa. Leggete l’Orestea e
la scoprirete. Ma anche se Oreste alla fine riesce a compiere l’omicidio
freddamente e senza passione, nel nome dell’adesione degli dèi
dell’Olimpo alla ragione e alla legge, la civiltà non viene salvata dal suo
ragionevole gesto. Le Erinni di Clitennestra perseguitano Oreste, esigendo
che la donna sia vendicata. Un conflitto culturale non si svolge a livello
individuale, sembra dirci Eschilo, e nessun gesto di un singolo può
risolverlo. È tutta la cultura ateniese che deve mettere in atto una serie di
pratiche per trovare il modo di riconciliare i vecchi e i nuovi dèi.
Questa è la raffinata soluzione che Eschilo inventa nell’ultima parte
della trilogia, ma all’inizio delle Eumenidi la situazione appare senza
speranza: la società sembra avviata verso la guerra civile. È a questo punto
che compare Atena, con un piano ben preciso. Atena è una delle nuove
dee dell’Olimpo. In quanto donna, tuttavia, è favorevole alle forme locali
che vorrebbero adottare sia la ragione universale di Apollo sia la violenza
tipica delle Erinni. Atena comprende che, quando le Erinni protestano,
diventando «fedeli a ufficio spregiato e disonorevole, | lontane dagli dèi» 9,
hanno ragione. Omero reprime le dee della terra e del sangue e privilegia
gli dèi olimpici. In questo modo, il lato pericoloso delle emozioni umane
viene messo a tacere e non lo si affronta. Omero definisce le Erinni
«odiose» e le nomina soltanto cinque volte in tutta l’Odissea 10.
Atena si rende conto che le Erinni sono cupe e pericolose a causa della
repressione subita. Come farebbe un terapeuta, suggerisce alla società
ateniese di riconoscerle e di accordare loro uno spazio. Eschilo pensa che
passioni come l’oltraggio alla morale siano in grado di consolidare la
morale stessa e che forze come la sessualità siano necessarie per poter
dare all’azione le giuste motivazioni. Motivazioni di questo tipo sono piú
universali della fedeltà di sangue alla famiglia e al clan sostenuti dalle
Erinni, pur non essendo cosí generiche da risultare inefficaci, come le
astratte leggi universali a cui aderiscono Apollo e gli dèi dell’Olimpo.
Atena convince le vecchie dee che, incarnando il ruolo primario delle
passioni fondamentali, possono ottenere rispetto dai nuovi dèi e possono
riuscire a capovolgere la situazione di repressione e di esclusione di cui
tanto hanno sofferto. Grazie al riconoscimento di Atena di questo
legittimo ruolo, l’ira delle Erinni si trasforma in buona volontà.
Rinunciano alla vendetta tra consanguinei e diventano le Eumenidi, le dee
gentili, che, invece di istigare i dissidi in famiglia, promettono di servirsi
delle passioni in modo costruttivo, vegliando su Atene e controllando lo
stile di vita degli ateniesi. Cosí dice Atena:

La guerra rimanga all’esterno, e sia generosa


a chi infiamma la brama di gloria
– non parlo di zuffe d’uccelli della medesima stia – 11.

Oltre alle Erinni, Atena trasforma gli dèi olimpici. In particolare, al loro
atteggiamento astratto – la tendenza a seguire leggi universali improntate
sul distacco e a svalutare le emozioni –, sostituisce un sistema giuridico
reattivo alle sensibilità locali dei cittadini ateniesi impegnati nella vita
della polis. Questo sistema a sua volta diventa il perno intorno a cui si
muove la vita della polis, creando una serie di procedure e di rituali su cui
le Eumenidi eserciteranno il loro favorevole influsso. Atena trasforma cosí
i vecchi e i nuovi dèi e li riconcilia in una città-stato ideale, della quale
tutti gli ateniesi sono fieri.
Alla fine della tragedia, Atena proclama il nuovo modo di vivere che ha
stabilito ad Atene. «Le mie [cure] non tollerare», dice, «che nelle guerre
insigni il trionfo non colga | questa città vittoriosa nel mondo» 12. Le
Erinni, ora diventate le Dee Gentili, insieme agli dèi olimpici, escono fuori
dal teatro celebrando tutti insieme la gloria di Atene e invitando il
pubblico – cioè i cittadini della stessa Atene – a unirsi a loro dicendo:
«alto ululate di gioia al nostro canto» 13. I due gruppi di dèi, insieme ai
cittadini, dal teatro vanno direttamente per le strade della città cantando
un inno che la celebra.
Con questi rituali che sanciscono l’emergere di un atteggiamento nuovo
– l’amore per Atene –, rinforzato dalla partecipazione attiva allo
spettacolo teatrale, gli ateniesi capiscono di essersi lasciati alle spalle il
politeismo omerico. Sono orgogliosi perché il nuovo modus vivendi
suggerito dagli dèi permette di unificarli tutti all’insegna del patriottismo.
La tragedia si trasforma cosí in un esempio eclatante di quanto gli ateniesi
hanno creato e di cui, giustamente, vanno fieri – e diventa un paradigma
nel vero senso del termine. Dimostra che, sensibili al nuovo atteggiamento
dell’amore per la patria, essi sono giunti a riconciliare vecchi dèi –
simbolo di emozioni dettate dall’ira che generano violenza e vendetta – e
nuovi dèi, che tendono verso il distacco e un estremo rigore morale.
La tragedia assume cosí la stessa funzione di un dio. Non si tratta di un
dio legato a una situazione specifica, come quelli che troviamo in Omero,
ma un dio che incita gli uomini ad agire nel qui e ora. È universale, quasi
monoteistico: svela alla cultura ateniese il livello collettivo a cui si può
giungere in quanto popolo. L’Orestea incita gli ateniesi a partecipare allo
svolgimento degli eventi del nuovo mondo splendente, coinvolgendoli in
rituali che celebrano lo stile di vita ateniese e incoraggiando un forte
senso dell’orgoglio. L’importanza di questa tragedia di Eschilo, sacra e
paradigmatica, era evidente persino agli ateniesi. Ogni anno,
selezionavano l’opera teatrale migliore, che veniva rappresentata a spese
della città per l’anno in corso. L’Orestea fu l’unica tragedia a venir allestita
a spese della città per diversi anni consecutivi.
Basata sull’orgoglio civile come emozione sociale prevalente, e su
Atene come locus di questa totale devozione, la concezione di Eschilo del
sacro si distacca dal politeismo di Omero e si avvicina a un’idea di
universo piú unitaria, e già sostanzialmente monoteistica. Ciò che quindi
può apparire problematico è il modo in cui Eschilo concepisce gli dèi
olimpici. Senza il politeismo di Omero, non c’è posto per Zeus nell’Atene
di Eschilo; in altre parole, non c’è posto per il padre della famiglia
politeistica degli dèi dell’Olimpo. Eschilo ne è consapevole e propone una
soluzione sorprendente, anche se poco elaborata.
Per Eschilo, Zeus non è piú un dio personificato che presiede il
pantheon. Non rappresenta neppure una forza culturale come le Erinni o
gli altri dèi olimpici dell’Orestea. Zeus invece è l’incarnazione di una
modalità ormai data per scontata e che sorregge l’insieme delle varie forze
divine. È onnipresente sullo sfondo e in quanto tale non può essere
descritto, anche se rimane alla base di tutti gli eventi significativi. Il coro,
per esempio, si riferisce a Zeus dicendo «chiunque egli sia» 14 e aggiunge:
«cosa mai fra gli uomini si conclude senza Zeus?» 15.
In altre parole, Zeus rappresenta lo sfondo nascosto e non rappresentabile
alla base di tutte le pratiche significative della cultura. È un’idea di sacro
talmente profonda ed efficace che permetterà di elaborare il concetto di
«Dio padre» nella religione giudeo-cristiana, ma non verrà riconosciuta
come sommo compimento poetico fino a Moby Dick di Melville.
L’Orestea di Eschilo non solo descrive la soluzione alle tensioni esistenti
nella cultura ateniese, ma ha un ruolo fondamentale nel trovarla. Quando
gli ateniesi marciano tutti insieme fuori dal teatro, cantando l’inno in
celebrazione di Atene, si accorgono della grandezza della loro città, ma è
proprio il canto collettivo a innescare il sentimento di orgoglio e
commozione. Eschilo ha anche la lungimiranza di intravedere i pericoli
insiti nel patriottismo. In particolare, capisce che emozioni sconvolgenti
come quelle suscitate dall’amore per la patria non possono essere
facilmente rese costruttive. Una volta coinvolti, sotto la guida di Atena, a
condividere un senso di appartenenza che sfocia nel piú esasperato dei
patriottismi, i cittadini ne vengono travolti e non sono piú disposti a
rinunciarvi. Tale desiderio è tuttavia contrario alla natura transeunte della
physis. Omero ben sapeva che gli stati d’animo, nella loro funzione di dare
significato alle cose intorno, nascono, si impongono e poi sono destinati a
scomparire. Eschilo lo poté constatare con il patriottismo. Quando le
Erinni chiedono con ansia: «E me ne offri garanzia per tutta l’eternità?»,
Atena risponde in tutta franchezza: «Nessuno mi costringe a promesse che
non manterrei» 16. Il desiderio di permanenza, tuttavia, faceva parte dello
spirito patriottico tipico della cultura ateniese. E fu cosí che venne
piantato il seme del declino di Atene.
Negli anni che seguirono questa celebre tragedia di Eschilo, gli ateniesi
tentarono di stabilire con la forza l’universalità e la permanenza di Atene.
Per poter garantire alla loro città una durata eterna, cercarono di annettere
tutti gli stati vicini, creando una sorta di impero ateniese. Furono distrutte
le colonie che non riconoscevano gli dèi ateniesi e che non pagavano un
tributo annuale alla città – gli uomini uccisi e le donne e i bambini ridotti
in schiavitú. Invece di dar vita a un impero, questo governo spietato
provocò la ribellione delle colonie e, in patria, la divisione in fazioni
politiche e perfino la guerra civile. In definitiva, l’età d’oro di Atene durò
soltanto cinquant’anni.

L’Orestea espresse e sottolineò a tutti i cittadini che cosa significava


essere ateniesi. Heidegger chiama «opera d’arte» tutto ciò che è in grado
di svolgere questa funzione catalizzatrice. Il tempio greco, secondo lui, è
l’esempio piú calzante. Il tempio, dice Heidegger, rimanda i Greci del V
secolo a.C. a quanto c’è di piú prezioso e significativo nel loro mondo. Cosí
scrive:

Il tempio, in quanto opera, dispone e raccoglie intorno a sé l’unità di quelle vie e di


quei rapporti in cui nascita e morte, infelicità e fortuna, vittoria e sconfitta,
sopravvivenza e rovina delineano la forma e il caso dell’essere umano nel suo
destino 17.

Come il tempio, l’Odissea per i Greci dell’epoca di Omero era un’opera


d’arte. Era un’opera sacra, in altre parole, che esprimeva e metteva a fuoco
le pratiche paradigmatiche tipiche del mondo omerico. L’Odissea ha
dischiuso lo spazio esistenziale in cui eroi splendenti, Odisseo e Achille tra
gli altri, e brillanti esempi nella sfera dell’erotismo, come Elena, e anche
personaggi che incarnano il male quali i proci, si pongono come possibili
modi di vita. Celebrati nel poema, questi personaggi indicano una
direzione e un significato alla vita della gente comune nella Grecia di
Omero. La cattedrale medievale e la Divina Commedia di Dante hanno
avuto un ruolo analogo nel Medioevo: hanno rivelato ai cristiani la sfera
della dannazione e quella della salvezza, rendendo quindi possibile una
scelta di vita, peccatore o santo 18. Lo stesso è avvenuto in altre epoche
della storia dell’Occidente: grazie a opere d’arte paradigmatiche per una
data epoca, si sa su che terreno si poggia e che cosa si deve fare.
I paradigmi di epoche diverse non sono commensurabili, nel senso di
un criterio comune grazie al quale li si può mettere a confronto. Ciò che in
un dato periodo sembra una vita densa di significato, in un altro appare
sprovvisto di senso. Nella Grecia di Omero, per esempio, non c’era posto
per i santi: nella migliore delle ipotesi, si sarebbe trattato di individui
deboli e muti che si lasciavano calpestare dagli altri. Analogamente, nel
Medioevo non avrebbero potuto esistere eroi di stampo greco: sarebbero
stati considerati peccatori impulsivi e irresponsabili. Essere un santo o un
eroe non significa soltanto comportarsi in un certo modo, significa
ricevere l’altrui considerazione per le proprie azioni. Le opere d’arte
paradigmatiche di un’epoca illuminano alcuni percorsi di vita ma, nello
stesso tempo, mettono in ombra quel che potrebbe essere valido e
meritevole in altre scelte esistenziali, radicalmente diverse.
Templi, cattedrali, poemi epici, drammi teatrali: questi e altri generi
artistici hanno il potere di sottolineare e di confermare che cosa è
veramente importante, in una data cultura, per condurre una vita degna di
questo nome. Le opere d’arte in questo senso non rappresentano
qualcos’altro – come per esempio una fotografia dei propri figli
rappresenta proprio loro. Anzi Heidegger afferma esplicitamente che il
tempio «non riproduce nulla» 19. Si può dire invece che le opere d’arte
funzionano: permettono di elaborare le pratiche che indicano e mettono a
fuoco un possibile modo di vivere. Quando un’opera risplende, significa
che rischiara un certo percorso di vita e tutto si illumina nella sua luce.
Un’opera d’arte incarna la verità del mondo in cui è stata creata.
Naturalmente, il tempio o la tragedia possono brillare con tale forza
solo quando esistono nel contesto di una comunità reale che si organizza
intorno a loro. Il tempio greco oggi, in rovina in una valle desolata
costellata di picchi rocciosi, non può costituire l’elemento organizzatore di
una cultura; non è in grado di mettere a fuoco, né di rendere stabile e
appetibile, una concezione globale dell’essere per coloro che organizzano
la loro vita intorno a esso. Non è piú qualcosa che «conferisce alle cose il
loro aspetto e agli uomini la visione di se stessi» 20. Oggi naturalmente il
tempio può essere oggetto di una valutazione estetica: per esempio, può
suscitare esclamazioni ammirate nei turisti in visita. Ma anche se il tempio
greco o la cattedrale medievale rivestono questo ruolo, non «funzionano»
piú come opere d’arte.
Il compito di un’opera d’arte è quello di rivelare un mondo, di dare
significato e di svelare la verità. In questo senso, il ruolo delle opere d’arte
può essere considerato sacro. Apportano significato alle nostre vite e,
ispirandoci, orientano il nostro cammino: per questo le consideriamo
divine. Gli uomini le venerano come dèi e costruiscono santuari a loro
dedicati. È quanto è successo all’Odissea, all’Orestea e alla Divina
Commedia: chi aveva visto il proprio mondo illuminarsi grazie a queste
opere le considera oggetto di devozione. È in tal senso che le opere d’arte
assumono il ruolo tradizionale di un dio. Costituiscono un’autorità non
umana che dà significato e scopo.
Rivelare una cultura sotto la sua luce migliore significa formulare
chiaramente 21 la cultura in questione. Un poeta come Eschilo fu in grado
di riformulare il mondo ateniese in cui viveva. Non solo i poeti, tuttavia,
assumono questo ruolo. Uomini politici come Pericle ad Atene, Lincoln a
Gettysburg e Martin Luther King jr al Lincoln Memorial hanno saputo
riformulare gli elementi fondamentali della loro cultura. Anche di un
filosofo come Kant o di un teologo come Tommaso d’Aquino si può dire
che hanno riformulato gli aspetti della cultura in cui vivevano. I
riformulatori hanno la funzione di mettere a fuoco ciò che è piú
significativo e, nel contempo, lo fanno rivivere sotto una veste nuova;
rivelano un retroterra culturale che stabilisce quello che conta e che dà un
senso a ciò che si fa.
Poiché i riformulatori sono in grado di far risaltare un terreno comune,
il pubblico li comprende immediatamente. Sicuramente avvenne cosí per
Eschilo, come per Dante, Lincoln e Martin Luther King. Ma la
riformulazione, per un dio, è un ruolo secondario. Un dio nella sua forma
migliore non si limita a rinnovare il mondo con il solo fatto di rivelarlo e
di metterne in risalto gli aspetti salienti; gli dèi piú potenti trasformano il
mondo, sostituendo il vecchio con il nuovo. La possiamo definire una
trasformazione (ciò di piú straordinario che un dio possa compiere) che
riconfigura la cultura, anziché semplicemente riformularla 22.
I riconfiguratori trasformano una cultura in modo cosí radicale che, per
risultare comprensibili, non possono piú basarsi su un linguaggio esistente
e su pratiche condivise. Di conseguenza spesso non vengono capiti dalla
gente della loro stessa cultura. Anzi, a volte, risultano chiari a malapena a
loro stessi.
I riconfiguratori sono o degli dèi o dei pazzi, ma soltanto
retrospettivamente si capisce a quale delle due categorie appartenevano.
Se il nuovo dio ha davvero il potere di riconfigurare il mondo e se si
organizzano nuove pratiche di vita intorno al suo stile, allora diventa il
modello di una concezione completamente diversa in tutte le questioni
fondamentali e nel modo di agire. Questo accade raramente. In una
cultura, sono sempre in atto potenti forze conservatrici, che tendono a
distruggere la concezione nuova, oppure a neutralizzarla e a mobilitarsi
per ristabilire l’ordine. Se il nuovo mondo fallisce, necessariamente sarà
valutato in base ai criteri correnti, secondo i quali potrà sembrare ridicolo.
Un esempio di quello che avrebbe potuto essere un paradigma
riconfigurante è la musica degli anni Sessanta, quando Bob Dylan, i Beatles
e altri musicisti imposero uno stile radicalmente nuovo. Il nuovo modo di
intendere la musica si trasformò in paradigma culturale, che ebbe il suo
momento culminante con il festival di Woodstock del 1969. I giovani che
qui si riunirono vissero per alcuni giorni fedeli a un’idea di vita che
rompeva con le regole dominanti del periodo, improntate sulla volontà,
l’ordine, la sobrietà e un efficace controllo di se stessi e degli altri; fu
proposto un modello ispirato a una maggiore apertura, al godimento della
natura, alla danza e all’estasi dionisiaca. Non che si volesse mandare in
frantumi la tecnologia e neppure svalutarla: anzi la forza della
comunicazione elettronica era messa al servizio della musica, la quale
trasmetteva un atteggiamento completamente trasformato.
Se un numero sufficiente di persone avesse riconosciuto in Woodstock i
nuovi valori e se ci si fosse accorti che molti altri li condividevano,
avrebbe potuto nascere un mondo completamente nuovo. Woodstock
invece non riuscí a trasformarsi in un nuovo dio. Con il senno di poi, a noi
che ancora subiamo il peso del mondo cosí com’è, sembra che gli interessi
della generazione di Woodstock non fossero poi cosí diffusi né abbastanza
seri da essere in grado di riconfigurare la cultura; peggio ancora,
potrebbero essere il risultato di una sperimentazione giovanile un po’
folle. Qualcosa tuttavia ci è rimasto: il processo con cui dovrebbe
funzionare un paradigma culturale riconfigurante.
Un’opera riconfigurante, che propone un mondo nuovo, possiede una
triplice struttura.
Innanzitutto, sullo sfondo continuano ad agire le normali pratiche
culturali che danno significato a comportamenti e situazioni, e che
illuminano la sfera del sacro. Per poter svolgere la loro funzione di rivelare
il mondo, devono appunto rimanere sullo sfondo, come la luce emanata da
Atena sulle azioni concertate di Odisseo e di Telemaco, quando nascosero
le armi nel magazzino, o come la presenza di Zeus in Eschilo, «chiunque
egli sia». Queste normali pratiche culturali sono comprensibili da tutti i
cittadini, i quali semplicemente le assorbono, le applicano e le trasmettono
di generazione in generazione attraverso la socializzazione. Simili pratiche
sono importantissime: senza di esse, non ci sarebbe nulla da riconfigurare
– nulla in grado di mettere in risalto qualcos’altro.
In secondo luogo, una persona, una cosa o un evento riconfiguranti
devono essere qualcosa di piú di un’opera d’arte riformulante come
l’Orestea. L’Orestea aveva messo in risalto le pratiche e le atmosfere
culturali del suo tempo, in modo che sembrassero chiare e coerenti; aveva
invogliato la gente ad apprezzare lo splendore della cultura in cui già
erano immersi. Il riconfiguratore, invece, deve introdurre pratiche e
un’atmosfera nuove, che suggeriscano un modo di vivere diverso, capace
di trasformare la comprensione di sé e del mondo.
Infine, l’opera del riconfiguratore dovrebbe essere cosí radicale che il
pubblico potrebbe addirittura non capire quel che gli si richiede e potrebbe
aver bisogno di un riformulatore – qualcosa e qualcuno che dia senso a ciò
che intende e lo renda comprensibile come paradigma capace di
rappresentare il mondo nuovo.
Nella storia dell’Occidente, ci sono state soltanto due figure che hanno
ricoperto questa triplice funzione riconfigurante: Gesú e Cartesio. Nei
Vangeli, Gesú ci viene presentato come un riconfiguratore che riuscí nel
suo intento: fondare il Mondo cristiano, in cui c’è un salvatore e ci sono
santi e peccatori. Cartesio, a sua volta, fondò il Mondo moderno, in cui
persone e cose diventano soggetti e oggetti. Per vedere come funziona una
riconfigurazione, è necessario considerare l’esempio piú autentico e
riuscito: l’operato attribuito a Gesú.

Che sia esistita o meno una persona di nome Gesú – e che abbia
realizzato davvero quanto gli si attribuisce – è una questione storica tra le
piú affascinanti, che tuttavia qui non ci riguarda. Ci interessa invece il
fenomeno della riconfigurazione in sé. I Vangeli descrivono Gesú come
colui che ha trasformato completamente l’interpretazione di essere umano,
in un modo che ha del sovrannaturale: il Gesú biblico, come un vero e
proprio dio, ha rivelato il nuovo Mondo cristiano. Quindi, la sua impresa
di riconfiguratore deve avere una triplice struttura.
Innanzitutto, erano in atto normali pratiche culturali, in questo caso la
concezione ebraica dell’essere. Queste pratiche di sottofondo erano
implicite e, affinché ci si potesse organizzare intorno a esse, non dovevano
essere troppo apparenti. Gli Ebrei infatti credevano che Dio, per svolgere
la sua funzione, cioè essere alla base di tutta l’intelligibilità, dovesse essere
irrappresentabile. Prima di poter spiegare a chiare lettere ciò che si intende
per irrappresentabile, dobbiamo aspettare di affrontare le tematiche di
Moby Dick.
In secondo luogo, deve esserci un modello che delinea il nuovo modo di
vivere – la nuova concezione dell’essere – e che gli permetta di farlo
risplendere. Nel Vangelo di Giovanni, Gesú lo esprime con queste parole:
«Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14.9). In altri termini, Gesú si
considera come il modello illuminante di un nuovo modo di concepire
l’essere. Il filosofo Søren Kierkegaard lo definisce «Il Paradigma» e lo
spiega affermando che, dopo l’incarnazione di Gesú, ogni accesso diretto a
Dio Padre diventa impossibile.
Il paradigma è qualcosa di piú di uno sfondo, poiché dà visibilità alle
pratiche soggiacenti. Esso dipende tuttavia dallo sfondo invisibile che
rivela. Cosí dice Gesú: «Il padre è maggiore di me» (Gv 14.28), ma anche:
«Io e il Padre siamo uno» (Gv 10.30). Aggiunge: «riconoscete che il Padre
è in me e io sono nel Padre» (Gv 10.38). Naturalmente, gli apostoli non
sono ancora in grado di capirlo: si limitano ad annotare quello che dice.
Quasi cento anni dopo, san Giovanni è ancora alla ricerca delle parole
giuste per dare un significato al fenomeno di paradigma. Uno dei concetti
piú difficili da lui espressi su Gesú è: «Egli era nel mondo e il mondo fu
fatto per mezzo di lui» (Gv 1.10). Sembra una formulazione assurda, ma in
realtà non esiste modo migliore di descrivere il fenomeno: la nozione
stessa di paradigma può venire spiegata soltanto in questo modo
paradossale. Il riconfiguratore è qualcosa o qualcuno che è nel nuovo
mondo e di conseguenza ne dipende; nello stesso tempo, tuttavia, rivela il
mondo ed è quindi il mondo stesso a dipendere da lui.
Infine, il messaggio di Gesú è cosí radicale da risultare praticamente
inintelligibile a coloro in mezzo ai quali vive. Questo è il paradosso di ogni
riconfiguratore. Se il modo di vivere di Gesú è radicalmente diverso da
quello dei suoi contemporanei, allora egli è indecifrabile e sembra matto
da legare. Se invece non appare poi cosí pazzo, vuol dire che il suo modo
di vivere non è poi cosí diverso da quello degli altri. Per riconfigurare la
cultura in senso autentico, è necessario trovare una strada tra queste
alternative. Vedremo che Gesú, a un certo punto, riesce a farlo. Ribadiamo
tuttavia che i Vangeli ce lo presentano come un riconfiguratore, dotato
appunto di queste caratteristiche.
Il Vangelo di Giovanni dice con chiarezza che la vita di Gesú trasforma
completamente la concezione ebraica di vita degna di essere vissuta. Gesú
tuttavia non possiede i concetti per esprimere la sua nuova visione e parla
per mezzo di parabole – parabole che i suoi seguaci non sono in grado di
comprendere neppure quando tenta di spiegarle. A quanto scrive
Giovanni, non è neppure chiaro se Gesú sia in grado di capire le sue stesse
azioni e le sue parabole. Come potrebbe, d’altronde, visto che l’unico
modo di pensare e agire disponibile nella sua epoca è quello che lui stesso
è chiamato a capovolgere?
Inoltre, secondo il Vangelo di Giovanni, Gesú sa di essere un
riconfiguratore e di aver bisogno di riformulatori che trasmettano il suo
messaggio. Dice:

… ma quando sia venuto lui, lo Spirito della Verità, egli vi guiderà in tutta la verità,
perché non parlerà di suo, ma dirà tutto quello che avrà udito, e vi annunzierà le cose a
venire… [Gv 16.13].

In altri termini, dopo che Gesú avrà lasciato questa terra, dovranno
venire i suoi riformulatori a dare senso a quello che ha detto e fatto. Lo
Spirito Santo, che risplende per mezzo dei riformulatori, permetterà di
rendere manifesto il clima di gioia e amore instaurato da Gesú, di
ricordare quel che Egli ha detto e di esplicitarlo in rapporto alle specifiche
situazioni, rivelando alla gente come agire alla luce della vita e delle
parabole di Gesú. Egli ha detto:
Queste cose vi ho detto stando ancora con voi; ma il Consolatore, lo Spirito Santo,
che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa, e vi rammenterà tutto
quello che v’ho detto [Gv 14.25-26].

Gesú stesso, quindi, si rende conto che la sua attività di riconfigurazione


richiede la triplice struttura che abbiamo spiegato prima. Per situare il
fenomeno in termini cristiani, possiamo dire: Dio Padre, con le sue
modalità di giustizia, rappresenta le pratiche ebraiche di fondo grazie alle
quali ogni cosa acquista senso; il Figlio è il paradigma, che indica una vita
capace di assimilare in modo nuovo le pratiche esistenti e che manifesta
un nuovo tipo d’amore, l’agape 23; e lo Spirito Santo è il nuovo stile di vita,
risplendente, che spinse Giovanni e Paolo, tra gli altri, a elaborare il modo
di vita cristiano. Le tendenze fondamentali assunte in quasi duemila anni
di storia dell’Occidente possono essere intese come una serie di tentativi
per dar voce alla concezione di Gesú della vita degli uomini.

Il primo e piú importante dei riformulatori del cristianesimo è san Paolo


che, prima ancora che gli evangelisti narrassero le loro memorie, scrive
delle lettere alle prime comunità cristiane, spiegando loro come agire. A
differenza di Giovanni e dei teologi successivi, Paolo non cerca di
appropriarsi di concetti filosofici per formulare il messaggio di Gesú.
Teologi come sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino hanno spiegato gli
insegnamenti di Gesú utilizzando concetti greci, i quali tuttavia, come
vedremo, spesso sono stati d’intralcio. Invece san Paolo, raccontando
semplicemente la sua esperienza, riesce a spiegare meglio dei teologi in
che modo deve vivere un cristiano. Rielaborazioni successive come quella
di Martin Lutero hanno messo da parte i teologi canonici, riprendendo dal
punto lasciato in sospeso da Paolo.
Il Gesú descritto nei Vangeli non offre un’esposizione dettagliata del
modo in cui bisogna vivere: ponendosi come modello riconfigurante, dà
numerosi esempi, senza fare una formulazione vera e propria, ma
lasciando tracce illuminanti del nuovo modo di vita. Paolo, al contrario,
convogliando lo Spirito Santo, formula ciò che Gesú si era limitato a
indicare. Mette in chiaro in che modo gli Ebrei devono cambiare
radicalmente il loro comportamento, alla luce del nuovo Paradigma.
In che modo lo Spirito Santo è riuscito a rendere intelligibile Gesú?
Come abbiamo appena visto, anche se Gesú aveva davvero rivelato un
modo di vita nuovo, non esisteva nessun linguaggio corrente in grado di
esprimerlo. Se si tentava di farlo, o non si era compresi e si rischiava di
sembrare pazzi, oppure si cercava di trovare un significato e quindi la
trasformazione non risultava radicale. Come trovare una strada
intermedia? Nel Nuovo Testamento, grazie a Paolo, abbiamo davanti agli
occhi un esempio di come riuscire in questo compito apparentemente
impossibile.
Innanzitutto, dobbiamo tornare indietro e considerare il mondo ebraico
che Gesú fu chiamato a trasformare. Le pratiche culturali e religiose degli
Ebrei si concentravano sulla Legge. I Dieci Comandamenti e il libro del
Levitico si occupano perlopiú del comportamento – cosa fare e cosa non
fare –, per un totale di seicentotredici leggi. Spiegano che cosa bisogna
fare il sabato, cosa bisogna mangiare e cosa è necessario evitare, e cosí via.
Secondo gli Ebrei, se si seguono i Dieci Comandamenti e la Legge con
tutte le sue norme dettagliate, si conduce una vita giusta; altrimenti, si
vive una vita moralmente sbagliata.
Gesú trasforma completamente la concezione ebraica di essere umano e
l’idea di una vita degna di essere vissuta. Invece di basarsi sulle azioni
pubbliche, ritiene che una vita degna si debba fondare su pensieri e
desideri privati, personali, interiori. Nel Discorso della Montagna, per
esempio, dice: «Voi avete udito che fu detto: non commettete adulterio. Ma
io vi dico: che chiunque guarda una donna per appetirla, ha già commesso
adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5.27-28). In questo modo, gli intimi
desideri del cuore diventano piú importanti delle azioni pubbliche. Dal
punto di vista ebraico, è un’idea insensata: i miei desideri sono privati, la
legge non può proibirmi di guardare una donna con desiderio. Nessuno
potrebbe testimoniare in tribunale di aver sorpreso qualcun altro a
desiderare carnalmente una donna. I desideri non si possono controllare, e
perché mai si dovrebbe? Non fanno del male a nessuno.
In linea generale, quindi, agli Ebrei doveva sembrare assurda l’idea di
essere colpevoli a causa dei propri desideri. Perché Gesú riuscisse a
renderla accettabile, era necessario che la cultura cominciasse a
comprendere, almeno a grandi linee, che cosa significavano i desideri
privati e perché alcuni di essi erano condannabili. Altrimenti non è
possibile capire perché Gesú condannasse uno sguardo concupiscente.
Proviamo a immaginare, nella Grecia di Omero, qualcuno che si metta a
sentenziare: «Chi desidera in cuor suo una donna, commette adulterio».
Nessuno sarebbe in grado di capirlo. Se nemmeno il pianto o il sogno sono
comportamenti privati, come lo può essere il desiderio? Anche se
ovviamente gli Ebrei provavano desideri privati, la loro cultura basata
sulla Legge non vi attribuiva nessuna importanza. Come potevano gli
Ebrei capire la proibizione di provare desideri all’interno del proprio
cuore?
La risposta dovrebbe essere che gli Ebrei comprendevano e
condannavano solo pochi desideri, perché in generale non li
consideravano importanti. In effetti è cosí. Nei Dieci Comandamenti,
soltanto uno proibisce un intimo desiderio. Il decimo e ultimo proibisce di
desiderare la roba d’altri, compresi gli schiavi, gli asini, la casa e la moglie.
Paolo coglie il rapporto tra la condanna dell’adulterio da parte di Gesú e il
comandamento che proibisce di desiderare la roba d’altri. Dice:

Io non avrei conosciuto il peccato se non per mezzo della legge; poiché io non avrei
conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: non concupire [Rm 7.7].

Per gli Ebrei, la repressione della concupiscenza era un aspetto


marginale della vita. Viene contemplata solo da uno dei Dieci
Comandamenti, l’ultimo peraltro. Gesú invece accorda una speciale
attenzione all’esperienza interiore e le attribuisce una posizione centrale.
Possiamo ricorrere ai Dieci Comandamenti per quantificare la differenza
tra gli aspetti marginali e quelli invece fondamentali. Il desiderio nel
mondo ebraico aveva un’importanza pari al dieci per cento tra le cose di
cui era necessario preoccuparsi; per Gesú e per Paolo passa a una
percentuale del cento per cento.
Gesú allarga il divieto di tutte le azioni pubbliche menzionate nella
Legge ebraica, condannando anche i desideri intimi a esse collegati. Paolo
enfatizza quanto era stato scritto da Matteo: «Poiché dal cuore vengono
pensieri malvagi, omicidi, adulteri, fornicazione, furti, false testimonianze,
diffamazione. Queste sono le cose che contaminano l’uomo» (Mt 15.19).
Cosí facendo, sposta i sentimenti interiori da una posizione marginale a
una centrale tra le preoccupazioni degli uomini.
Che cosa dire poi della Legge? Per gli Ebrei, onorare il sabato era una
pratica della massima importanza. Da quel che scrivono gli evangelisti,
sembra che il popolo ebraico fosse talmente preoccupato di non infrangere
la Legge e talmente assorbito a perseguire i trasgressori e denunciarli ai
rabbini, che non si accorgevano neppure dei miracoli compiuti da Gesú.
Prendiamo l’esempio del paralitico che ritrovò l’uso delle gambe. Quando
Gesú gli disse di alzarsi, l’uomo guarí immediatamente:

… e in quell’istante l’uomo fu risanato; e preso il suo lettuccio, si mise a camminare. Or


quel giorno era un sabato; perciò i Giudei dissero all’uomo guarito: è sabato e non ti è
lecito portare il tuo lettuccio [Gv 5.8-10].

Poi continua:

E per questo i Giudei perseguitavano Gesú e cercavan di ucciderlo; perché facea


quelle cose di sabato. Gesú rispose loro: il Padre mio opera fino a ora e anche io opero.
Perciò dunque i Giudei piú che mai cercavan di ucciderlo [Gv 5.16-18].

Imperturbabile, Gesú liquidò le prescrizioni alimentari del Levitico


dicendo semplicemente: «Non capite voi che tutto quel che entra nella
bocca va nel ventre ed esce nella latrina? Ma quel che esce dalla bocca
viene dal cuore; ed è quello che contamina l’uomo» (Mt 15.18).
Con il suo nuovo vocabolario, Gesú descrive la sua intenzione di
rimanere al margine della Legge, perché, invece di ubbidirle, la «realizza».
Ciò significa che non bisogna prendere la Legge e i suoi divieti alla lettera,
ma agire in un modo che ne manifesti lo spirito. Gesú quindi porta al
centro del credo cristiano il tema della purezza dei desideri che, nella
dottrina ebraica, aveva una posizione marginale; e, viceversa, mette la
Legge in una posizione subordinata, trasformando cosí radicalmente
l’universo concettuale ebraico. Il cristiano non mira piú a essere giusto
anziché ingiusto, ma a diventare santo invece che peccatore. Il suo dovere
nella vita non è la correttezza delle azioni, ma la purezza dei desideri.
Inoltre, la purezza non è qualcosa che si può raggiungere da soli. Per
trasformarci, è necessario un salvatore, dice il Vangelo. Se rinasciamo a
livello spirituale, significa che Gesú vive in noi, che siamo in contatto con
il suo corpo. Che cosa si intende esattamente? Che la salvezza cristiana si
raggiunge assorbendo il nuovo, irresistibile sentimento predicato da Gesú,
l’agape. Il termine agape usato nei Vangeli, di solito tradotto con «carità»,
significa una compassione gioiosa e irrefrenabile per ogni essere umano,
cosí forte da essere disposti a morire per lui. I desideri sono sempre al di
fuori del nostro controllo, ma, una volta assorbito tale sentimento e
raggiunta la capacità di vivere in Gesú e con i suoi discepoli, possiamo
rinascere e diventare uomini nuovi, beati e puri di cuore.
In base alle descrizioni dei Vangeli, Gesú è un riconfiguratore che è
riuscito nel suo compito. Come un dio, ha svelato un mondo nuovo, in cui
gli esseri umani sono ormai definiti dai loro piú intimi desideri e dalle loro
intenzioni e non piú dal comportamento esterno. C’è un cambiamento
straordinario rispetto alla ricettività al potere degli dèi splendenti
dell’Olimpo, che troviamo in Omero, e anche rispetto all’importanza
accordata dagli ateniesi alle pratiche culturali di fondo, sottolineata da
Eschilo. Ora dobbiamo seguire una strada in cui l’enfasi sull’esperienza
interiore, piuttosto che sull’azione pubblica, si combina con la filosofia
greca e conduce progressivamente da sant’Agostino a san Tommaso
d’Aquino, a Lutero, a Cartesio, a Kant, alla morte di Dio e poi al nichilismo
nietzscheano.

Per dare un significato al nuovo mondo, i pensatori cristiani hanno


dovuto concettualizzare l’idea di rivelazione. Per piú di mille anni, hanno
tentato ostinatamente di comprendere l’esperienza religiosa giudeo-
cristiana alla luce di alcuni concetti filosofici greci. A dire il vero, si è
rivelata una pessima idea!
L’inconciliabilità delle due sfere avrebbe dovuto apparire ovvia fin
dall’inizio. Senza soffermarci ora sulla svolta del cristianesimo,
consideriamo il rapporto tra la cultura ebraica tradizionale e la Grecia
classica. Per i Greci dell’epoca di Platone, nel V secolo a.C., l’uomo
possedeva un’unica essenza universale: era un agente dotato di razionalità
in grado di scoprire, con un ragionamento filosofico disinteressato, verità
oggettive, universali ed eterne sulla natura e sulla virtú morale dell’uomo.
In questo modo l’uomo era in grado di contemplare l’Essere supremo che
Platone definiva il Bene.
Per gli Ebrei dell’epoca di Platone, invece, la situazione era assai
diversa. Ciò che dava loro l’essenza e il senso d’identità non era la
razionalità, ma il patto speciale che avevano stipulato con Dio. Tale patto
finiva per essere una caratteristica universale degli esseri umani:
permetteva infatti di distinguere gli Ebrei dagli altri. Inoltre, questo modo
di intendere la loro identità aveva ripercussioni in tutti i campi. Per
esempio, coglievano la verità non attraverso una contemplazione
distaccata del Bene, ma con un impegno totale, mantenendosi sempre
fedeli al loro Dio e rispettando il patto stabilito. Le verità che erano state
loro rivelate, inoltre, avevano una caratteristica diversa: erano locali e
storicamente definite, non immutabili e universali; era quindi necessario
che fossero preservate dalla tradizione, perché non si ponevano all’uomo
come verità oggettive ed eterne.
La nostra è l’unica cultura a essere la risultante di due tendenze
contraddittorie, perché è il prodotto di due grandi tradizioni in conflitto tra
loro. Anche altre civiltà nascono da tradizioni diverse: la Cina è stata
influenzata dal buddhismo e dal confucianesimo, per esempio, ma sono
tradizioni che, in linea generale, sono entrate in un rapporto di
complementarità oppure si sono reciprocamente ignorate. Nessuna
cultura, a parte la nostra, è il risultato di due tendenze cosí totalizzanti e
nello stesso tempo opposte. L’idea greca secondo cui è possibile accedere
in modo distaccato e astratto a verità eterne e universali contraddice
l’atteggiamento degli Ebrei, che hanno un Dio storicamente determinato e
coinvolto nel patto stabilito con loro. Per i Greci, è essenziale la capacità di
pensare, per gli Ebrei il senso del sacro. Per gli eredi monoteistici di questa
tradizione contraddittoria, era naturale cercare di conciliare i due modi di
vita.
Il conflitto è ancora piú evidente se si considera l’importanza
dell’incarnazione nella tradizione cristiana. In quanto paradigma
dell’esistenza, la vita di Gesú non può essere ridotta a una serie di verità
universali. Per la tradizione cristiana è essenziale il fatto che Gesú venne
sulla terra in un momento e in un luogo precisi e illuminò con il suo
esempio le scelte di vita dei suoi seguaci. Ciò che conta è che con la sua
stessa vita indicò il sentimento dell’agape, che gli altri percepivano anche
solo stando accanto a lui. Nei principî universali scaturiti dalla
contemplazione filosofica, un sentimento del genere sarebbe stato
impossibile. L’agape è un modo di entrare in sintonia con ciò che piú
conta e lo possiamo cogliere soltanto entrando in contatto con chi ce lo
indica attraverso l’esempio. Questo aspetto incarnato del cristianesimo è
essenziale per capire la qualità salvifica dell’agape, ed è quindi
fondamentale per il concetto stesso di salvezza. È proprio tale
caratteristica della dottrina cristiana che si oppone alla concettualizzazione
filosofica dei Greci.
Questi problemi non frenarono Agostino. Egli fu il primo pensatore
cristiano a interpretare il cristianesimo servendosi delle categorie della
filosofia greca. Visse dal 354 al 430 e la sua concezione del cristianesimo si
basò ampiamente sull’interpretazione dei concetti platonici di uomo e di
Bene.
Secondo Platone, tutte le anime aspirano al Bene eterno, che trascende
lo spazio e il tempo. Agostino seguí Platone nell’idea di eternità fuori dal
tempo e nel concetto che solo ciò che è eterno è reale. Inoltre, Platone
pensava che l’uomo potesse entrare in contatto con questa realtà
utilizzando l’intelletto per contemplarla. Per comprendere la forma
astratta ed eterna della bellezza, per esempio, si può cominciare a
osservare una persona particolarmente bella, poi ci si può chiedere che
cos’ha in comune con un’altra persona altrettanto bella; ci si interroga poi
sulle anime belle, sulla bellezza delle leggi e della conoscenza e infine sulla
natura della bellezza in sé. Questa ascesa platonica, alla fine, porta alla
contemplazione di verità astratte ed eterne.
Tuttavia, Agostino individuò nella purezza della concezione platonica
una défaillance d’ordine spirituale. Nelle Confessioni scrive che, prima di
convertirsi al cristianesimo, aveva provato a vivere l’ascesa verso la
contemplazione del Bene platonico. Ma il Bene platonico era troppo
astratto per soddisfare la brama di divino che albergava in lui e troppo
immobile per rappresentare una potenza salvifica. Dice:

Allora finalmente scorsi quanto in te è invisibile, comprendendolo attraverso il creato;


ma non fui capace di fissarvi lo sguardo. Quando, rintuzzata la mia debolezza, tornai
fra gli oggetti consueti, non riportavo con me che un ricordo amoroso e il rimpianto,
per cosí dire, dei profumi di una vivanda che non potevo ancora gustare 24.

Ciò che Agostino ama e desidera non è un’entità astratta ed eterna, ma


qualcosa che emana una fragranza deliziosa al punto di aver voglia di
mangiarla. In una parola, questa è la differenza tra astrazione greca e
incarnazione cristiana. Agostino riconosce di aver bisogno non solo della
parola astratta, che si può contemplare razionalmente, ma della «parola
fatta carne»:
Cercavo la via per procurarmi forza sufficiente a goderti, ma non l’avrei trovata,
finché non mi fossi aggrappato al mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesú,
che è sopra tutto Dio benedetto nei secoli 25.

Piú tardi, quando si convertí al cristianesimo, Agostino ebbe


un’esperienza molto piú concreta del divino. Dice a Dio:

Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore


dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e
ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace 26.

È proprio il genere di esperienza sensoriale dell’agape tipico del


cristianesimo delle origini, un’esperienza incentrata sull’incarnazione di
Gesú e sull’importanza della sua presenza fisica per la salvezza
individuale.
D’altra parte, anche se Agostino desidera ardentemente che Dio sia
presente in una forma incarnata che coinvolga i sensi, non riesce a
resistere al richiamo platonico dell’astrazione e a una concezione
dell’universo disincarnata e teorica. Dopo aver raccontato la sete mai
placata per la presenza incarnata di Dio, descrive il Dio incarnato come
un’entità «con la visione della divinità stroncata davanti ai loro piedi per
aver condiviso la nostra tunica di pelle» 27. Prosegue poi dicendo che Dio
ha dato a Gesú un corpo per fortificare la sua umiltà: qui sembra quasi
voler sottoscrivere il concetto platonico secondo cui la realtà ultima e vera
non è quella che abbiamo sulla terra, ma nell’astratto mondo platonico
delle idee 28. Alla fine diventa chiaro che il corpo è stato per Agostino una
fonte di imbarazzo e fastidio. Per esempio, deplora il fatto che i maschi
non siano in grado di controllare l’erezione e ci assicura che questa
sgradevole condizione corporea sarà eliminata nel giorno del Giudizio
universale, quando ogni individuo ritroverà il suo corpo terreno 29. Nel
frattempo, la spinta platonica all’astrazione e alla teoria cancellò quanto
era squisitamente cristiano nell’esperienza di Agostino.
L’annullamento del corpo nell’esperienza agostiniana esisteva già nella
sua opera. Infatti, anche se desidera ardentemente un rapporto di sensi
con Dio, immagina di concepire questa esperienza in modo tale da
escludere la presenza corporea. Riesce in questo suo stupefacente intento
considerando le esperienze sensoriali esclusivamente in rapporto agli stati
interiori che suscitano. Come abbiamo già visto, da Omero fino a Platone,
le esperienze interiori erano state perlopiú ignorate dai Greci e, nella
migliore delle ipotesi, venivano considerate una mera curiosità. Omero si
stupiva della capacità di Odisseo di commuoversi senza mostrare
esteriormente alcuna emozione, ma questo non era per lui un exploit
degno di nota, soltanto un comportamento insolito. Analogamente, per
Platone, il desiderio (in greco eros) non era un’esperienza interiore, ma
l’attrazione che l’anima provava nei confronti di una verità situata fuori
dall’Io.
Fu Gesú, nell’interpretazione elaborata da san Paolo, che per primo
mise in risalto il desiderio individuale come espressione di una verità
interiore. Come abbiamo visto, santi e peccatori si differenziavano non a
causa del comportamento pubblico o della capacità di accedere a una
verità eterna, ma in virtú dei loro impulsi privati. I desideri dovevano
essere puri oppure, come nel caso delle brame adulterine, erano
responsabili del peccato.
All’epoca di Agostino, trecento anni dopo Gesú, non era ancora diffusa
l’idea che si potesse accedere alla verità grazie all’impulso interiore
dell’individuo. Agostino dovette fare in modo che la cultura del suo tempo
accettasse l’importanza della vita interiore. Nelle Confessioni, richiama
l’attenzione sul fatto che la popolazione accorreva per assistere alle letture
pubbliche di sant’Ambrogio. Perché? Perché leggeva a se stesso? Cosí
racconta Agostino: «Nel leggere, i suoi occhi correvano sulle pagine e la
mente ne penetrava il concetto, mentre la voce e la lingua riposavano» 30.
Sembra che, ai tempi di Agostino, la lettura ad alta voce fosse una
pratica comune. Il fatto che sant’Ambrogio potesse accedere direttamente
al significato del testo dimostrava che l’interiorità non era semplicemente
il locus del desiderio, ma serviva a immagazzinare le esperienze che
avrebbero portato alla verità. Ciò che in Agostino rappresenta una novità
– che non si trova nella filosofia di Platone né nel sentimento contagioso e
travolgente dell’agape di Gesú – era il fatto che la verità salvifica si
nascondeva nel cuore di chiunque. Il modo di leggere di sant’Ambrogio
dimostrava che l’interiorità non era semplicemente il locus del desiderio,
ma un ricettacolo, che poteva accogliere la verità sul mondo e su Dio.
Agostino osserva:

Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell’amare il mio
Dio: la luce, la voce, l’odore, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me 31.

Vorremmo concludere il capitolo sottolineando il concetto di interiorità


in Agostino: esiste infatti un rapporto diretto tra l’importanza data da san
Paolo alla necessità di purificarci dai desideri e la concezione agostiniana
che la verità di Dio è già presente nel nostro cuore. Quest’idea, in cui
l’uomo è inteso come interiorità, è rimasta latente per i successivi dodici
secoli. Fu Cartesio a seguire la traccia lasciata da Agostino, e lo fece con
l’autosufficienza del suo cogito 32, le cui esperienze interiori sono separate
dal «mondo esterno». Centocinquant’anni dopo, infine, Kant permise a
questa idea di diffondersi, quando elaborò il suo concetto di uomo come Io
completamente autonomo. Prima di affrontare Cartesio e Kant, vorremmo
però concederci una deviazione e soffermarci su Tommaso d’Aquino e
Dante, i quali, per rendere il cristianesimo intelligibile in termini greci,
attinsero da Aristotele e non da Platone. L’impossibilità di questa impresa
fu poi riattualizzata con forza da Lutero.

1
ESCHILO , Eumenidi, VV . 614-21 (trad. it. di C. Carena, in SOFOCLE, ESCHILO, EURIPIDE , Tragici
greci, Einaudi, Torino 2007, p. 159).
2
Ibid., V . 421 (ed. it. cit., p. 151).
3
Ibid., VV . 382-84 (ed. it. cit., p. 149).
4
ID ., Agamennone, VV . 206-12 (trad. it. di C. Carena, in SOFOCLE, ESCHILO, EURIPIDE , Tragici greci
cit., p. 16).
5
Ibid., VV . 1522-27 (ed. it. cit., p. 67).
6
Ibid., VV . 1560-62 (ed. it. cit., p. 68).
7
Ibid., VV . 1489-96 (ed. it. cit., pp. 66-67).
8
Ibid., VV . 1563-66 (ed. it. cit., p. 68).
9
ID ., Eumenidi, VV . 385-86 (ed. it. cit., p. 149).
10
OMERO , Odissea. Telemaco: «perché mia madre, cacciata di casa, | invocherebbe le Erinni
odiose» (II.135-36; ed. it. cit., p. 31); «Vidi la madre di Edipo, la bella Epicasta | ... | attaccando un
laccio in alto al soffitto, | posseduta dal suo dolore; a lui lasciò molte | angosce, quali ne danno le
Erinni materne» (XI.271-80; ed. it. cit., p. 273); «Era un indovino ... | ... | era incatenato in casa di
Filaco, | in dura prigionia, soffrendo aspri dolori, | a causa della figlia di Neleo e della follia | che gli
ispirò in cuore l’Erinni tremenda» (XV.225-34; ed. it. cit., p. 373); «Se esistono per i mendicanti dèi
ed Erinni, | possa la morte raggiungere Antinoo prima delle nozze» (XVII.475-76; ed. it. cit., p. 437);
«quando la tempesta rapí le figlie di Pandareo ... allora le Arpie le portarono via e le diedero | in
consegna alle Erinni odiose» (XX.66-78; ed .it. cit., pp. 499-501).
11
ESCHILO , Eumenidi, VV . 864-66 (ed. it. cit., p. 168).
12
Ibid., VV . 913-15 (ed. it. cit., p. 170).
13
Ibid., V . 1047 (ed. it. cit., p. 175).
14
ID ., Agamennone, V . 160 (ed. it. cit., p. 14).
15
Ibid., V . 1487 (ed. it. cit., p. 66).
16
ID ., Eumenidi, VV . 898-99 sgg. (ed. it. cit., p. 170).
17
M. HEIDEGGER , L’origine dell’opera d’arte, in ID ., Sentieri interrotti, trad. it. di P. Chiodi, La
Nuova Italia, Firenze 1997, p. 27 (ed. or. Der Ursprung des Kunstwerks, in ID ., Holzwege,
Klostermann, Frankfurt am Main 1950).
18
Per una descrizione delle dimensioni e delle direzioni dello spazio morale vedi C. TAYLOR , Le
radici dell’io: la costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli, Milano 1993 (ed. or. Sources of the Self,
Harvard University Press, Cambridge [Mass.] 1989).
19
HEIDEGGER , L’origine dell’opera d’arte cit., p. 27.
20
Ibid., p. 28.
21
Gli autori usano il verbo articulate, che utilizzeranno poi per il neologismo articulator: lo
traduciamo con «formulare» o «riformulare» e «riformulatori», mettendolo in corsivo [N.d.T.].
22
Omero è un caso unico. Prima della sua opera, c’era soltanto una vaga comprensione dei miti
in conflitto tra di loro. Fu in grado di strutturare la conoscenza, sottolineando ciò che era
importante, come la gratitudine e lo stupore, e accantonando quel che gli ripugnava, come le forze
primitive e oscure della vendetta. In questo modo ha dato origine a un nuovo modo di vita. Lo
possiamo quindi definire un «originatore».
23
Il nuovo sentimento straripante di amore per tutti gli esseri umani, tipico di Gesú, ha come
contrappunto l’eros, o desiderio, che Platone definisce come una mancanza.
24
AGOSTINO , Confessioni, VII.17 (trad. it. di C. Carena, Einaudi, Torino 2005, pp. 235-37).
25
Ibid., VII.18 (ed. it. cit., p. 237).
26
Ibid., X.27 (ed. it. cit., p. 375).
27
Ibid., VII.18 (ed. it. cit., p. 237).
28
Ibid., X.43 (ed. it. cit., p. 409).
29
Vedi d. M. FRIEDMAN , Storia del pene: da Adamo al Viagra, Castelvecchi, Roma 2007 (ed. or. A
Mind of Its Own: A Cultural History of the Penis, Penguin, New York 2003).
30
AGOSTINO , Confessioni, VI.3 (ed. it. cit., p. 169).
31
Ibid., X.6 (ed. it. cit., p. 339).
32
Agostino aveva già studiato le questioni che ricompariranno poi nel cogito di Cartesio. Vedi,
per esempio, ibid., X.11 (ed. it. cit., p. 351).
Capitolo quinto
Da Dante a Kant: attrazione e pericoli dell’autonomia

Una serie di domande ci aiuterebbe a chiarire il filo conduttore di


questo libro. Innanzitutto, quale idea di uomo ha plasmato le diverse
epoche della storia dell’Occidente? Piú specificatamente, in che modo le
diverse interpretazioni di esistenza umana ci hanno spiegato chi siamo in
rapporto a una fonte di significato esterno, cioè in rapporto al sacro nelle
sue diverse accezioni? Secondariamente, in che modo le interpretazioni di
uomo e di sacro hanno tenuto a bada il problema del nichilismo? E infine,
in queste diverse considerazioni su noi stessi, emerge davvero qualcosa
che possa servirci a combattere il nichilismo della nostra epoca?
Si tratta di interrogativi che presuppongono una lettura –
fenomenologica piuttosto che umanistica o hegeliana – della storia
dell’Occidente. Un’interpretazione fenomenologica si concentra sul modo
in cui l’uomo vede se stesso e il sacro, e non sui concetti razionali che egli
ha formulato su di sé e sul mondo. Intravede nella storia non un
cambiamento unidirezionale – né in avanti né indietro –, ma una serie di
paradigmi diversi sulle pratiche culturali, ognuno dei quali sottolinea
aspetti differenti dell’esperienza umana e ne nasconde altri. Nella lettura
dei grandi testi che scandiscono i momenti chiave della storia
dell’Occidente, vorremmo capire che cosa, a seconda delle epoche, ha
permesso di evitare i problemi che abbiamo oggi, anche se alla fin fine ha
contribuito a crearli.
Cominceremo il capitolo con la Divina Commedia di Dante Alighieri,
sommo esempio e paradigma del tardo Medioevo. L’idea alla base della
concezione dantesca è che l’universo è stato creato da Dio e che il suo
significato, morale e spirituale, è quindi impresso a chiare lettere nelle
fattezze del mondo. Detto in altri termini, il cristianesimo medievale era
un mondo in cui ogni cosa aveva il suo posto: si tratta dell’interpretazione
piú antinichilista che si possa immaginare. Invece di essere privo di
significati intrinseci, il mondo medievale ne è pieno. Sarebbe quindi
necessario chiederci: ci sono esperienze che continuano a essere fatte ai
margini della nostra società che riflettono l’aspetto antinichilista della
concezione medievale?
L’idea medievale di creazione non è piú concepibile in Occidente nella
sua forma originaria. Anche i cristiani piú ferventi oggi non sono disposti
a credere a un mondo creato, in cui ogni aspetto abbia un suo significato
manifesto, attribuitogli da Dio. Si rivela invece un’indicazione interessante
per la nostra epoca nichilista il disegno dantesco globale, quello che ci
vede liberi di incanalare i nostri desideri per dirigerli verso l’entità che,
alla fine, sarà in grado di colmarli – in questo modo ogni desiderio potrà
poi corrispondere a un significato al di fuori di esso.
In questo nostro percorso attraverso gli stadi che hanno portato la
cultura a perdere il contatto con gli dèi e quindi con ciò che conta e che ha
significato, Dante ci offre alcuni interessanti spunti di riflessione. Nella sua
opera ci sono: un avvertimento contro l’attrazione esercitata dall’Inferno
di cui oggi converrebbe tenere conto; un’interpretazione del mondo che
permette di dare un significato alla nostra vita terrena, che lo stesso Dante
peraltro non riuscí ad apprezzare pienamente; e la dimostrazione che la
concezione greca della realtà finí per indebolire la rivelazione giudeo-
cristiana anziché riformularla.

Il cristianesimo è stato un approccio molto radicale e si è avvalso, nel


corso del tempo, di numerose elaborazioni successive. Per quasi mille anni,
il mondo occidentale ha cercato invano di formulare la dottrina cristiana
servendosi della teoria platonica. Agostino e altri padri della Chiesa, in
particolare, hanno cercato di accordare una posizione centrale all’idea di
Dio incarnato, pur accettando la venerazione di Platone per un’eternità
astratta e la conseguente denigrazione del corpo. Poi si verificò un
episodio sorprendente che ha permesso di cambiare le sorti della dottrina
cristiana. Un fascio di appunti di lettura, per anni dimenticato in una
cantina, fu casualmente scoperto, tradotto in arabo, poi in latino e infine
diffuso in Occidente.
L’autore si rivelò essere Aristotele, il geniale filosofo che aveva
sottoposto a critica la filosofia platonica. Sosteneva che a essere reali non
erano le idee eterne e astratte di Platone, ma le cose materiali tangibili,
come gli alberi o gli oggetti della vita quotidiana, per esempio i tavoli.
Inoltre pensava che il fatto di essere incarnati non era sminuente o
umiliante, come avevano affermato Platone o Agostino, anzi i corpi
avevano maggior potenza: gli esseri incarnati erano piú perfetti delle
anime disincarnate.
I filosofi e i teologi cristiani ben presto riconobbero che il modello a cui
ispirarsi era Aristotele, non Platone, e si consacrarono all’impresa di
rendere chiara la dottrina cristiana in termini aristotelici. Il piú importante
tra questi riformulatori fu san Tommaso d’Aquino, che visse tra il 1225 e il
1274 e che si accollò l’arduo compito di scrivere la Summa Theologiae, che
tenta una sintesi tra la concezione greca e quella cristiana sin nei minimi
dettagli. Colui che rese possibile una diffusione della teologia di san
Tommaso fu soprattutto Dante Alighieri, che apparteneva alla generazione
successiva.
Dante espose le conclusioni a cui era arrivato san Tommaso nella sua
Divina Commedia, scritta in italiano, la lingua volgare, invece che in
latino, la lingua dei dotti, permettendo cosí ai lettori dell’epoca di riflettere
su questi temi. In tal senso la Divina Commedia fu un’opera d’arte che
ebbe le stesse funzioni di un Dio. Ecco quanto dice Archibald MacAllister
nella sua Introduzione storica all’Inferno: «Prima della morte di Dante, nel
1321, le prime due parti della Divina Commedia avevano già … raggiunto
una reputazione pervasa dal riverenziale rispetto che si accorda al
sovrannaturale» 1.
Non c’è da stupirsi che, nel XVI secolo, il poema di Dante fosse
considerato sacro e da allora chiamato Divina Commedia.
Aristotele pensa che il mondo sia organizzato in senso gerarchico, il
che significa non solo che è unificato, ma anche che ogni oggetto è
classificato al suo interno in base al grado di perfezione raggiunto.
All’apice di questo universo ordinato si colloca un’entità che Aristotele
definisce «Motore immobile» che, nella sua assoluta perfezione, attrae a sé
tutti gli altri esseri.
Secondo il filosofo, l’ordine gerarchico si manifesta soprattutto nel
mondo della natura. Tuttavia, quest’idea di universo ordinato
gerarchicamente, in cui ogni cosa può trovare il suo posto, ben si adatta
alla fede nel Dio creatore della tradizione giudeo-cristiana. Nel mondo
medievale, tutto aveva una sua collocazione piramidale, dal piombo
all’oro, dal topolino all’elefante, dal peccatore al santo. Quando Dante
scende nell’Inferno nel primo libro della Divina Commedia, ogni categoria
di peccatore con cui si trova a contatto è peggiore di quella precedente.
Addirittura i santi vengono classificati! Nella parte conclusiva del poema,
quando Dante ascende in Paradiso, i santi che incontra raggiungono gradi
di santità sempre piú perfetti. Lo si potrebbe chiamare un monoteismo
monolitico: non c’è piú spazio per i mondi poliedrici di Omero né per le
situazioni drammaticamente conflittuali di Eschilo.
Nel suo celebre poema, Dante rese popolari la metafisica e la teologia di
san Tommaso, ma la sua motivazione iniziale era assai piú semplice.
All’età di nove anni aveva incontrato a Firenze una fanciulla di otto
chiamata Beatrice Portinari, di cui si era innamorato «a prima vista». Da
quel momento, Dante destinò a Beatrice il ruolo di Dama e fece il voto di
scrivere un poema su di lei come nessun altro aveva scritto mai per la sua
Dama.
Tenne fede al voto.
La Divina Commedia è ambientata nel 1300, anno in cui Dante aveva
trentacinque anni. Aveva smarrito «la diritta via», scrisse nelle
famosissime strofe iniziali del poema: «mi ritrovai in una selva oscura».
Non sappiamo nulla del modo in cui Dante aveva smarrito la diritta via
nella sua vita, soltanto che si trovava in un simile frangente e che doveva
intraprendere un viaggio, cioè salvare la propria anima. Il viaggio in sé è
di piú chiara comprensione: lo porterà a percorrere l’intero universo
spirituale cristiano. Dapprima Dante dovrà discendere nell’Inferno, dove
assisterà a ogni sorta di peccato stigmatizzato dalla dottrina cristiana, e a
tutte le pene che vi sono associate. Poi salirà sui monti del Purgatorio,
dove vedrà le anime di coloro che hanno peccato ma che si sono pentiti,
assistendo al processo di riabilitazione che hanno intrapreso. Infine, in
Paradiso, contemplerà i diversi tipi di anime sante e lo stato di sempre
crescente beatitudine che riescono a raggiungere. In questo modo Dante
riuscirà a capire in che cosa consiste precisamente una vita degna di
essere vissuta e tutti i modi in cui può venire realizzata.
Durante il suo viaggio, Dante avrà due guide. Nell’Inferno e per gran
parte del Purgatorio, sarà condotto dal grande poeta romano Virgilio. La
scelta di Virgilio per il ruolo di guida attraverso l’universo cristiano si
rivela densa di significato. Dopotutto, era morto prima della nascita di
Cristo e spesso la sua filosofia stoica latina fraintende le questioni vitali
del cristianesimo. Alla fine, la capacità di comprensione di Virgilio si
esaurirà completamente, perché la ragione da sola non è in grado di capire
l’amore cristiano. Questo è evidente soprattutto quando viene sostituito
dalla seconda guida: nell’ascesa attraverso i diversi cieli del Paradiso a
condurlo sarà infatti la sua Dama Beatrice.

Sulla porta dell’Inferno che Dante e Virgilio attraversano vi è


un’epigrafe che termina con il celebre verso: «Lasciate ogne speranza, voi
ch’intrate» (Inf., III.9). L’Inferno non è destinato solo a quelli che hanno
peccato, ma anche a coloro che hanno avuto la sfortuna di vivere prima
della venuta di Cristo o fuori della sfera del cristianesimo. Dei nove gironi
dell’Inferno, il meno rigido è senz’altro il primo, chiamato Limbo,
riservato ai pagani virtuosi e ai bambini non battezzati. Nel Limbo,
Virgilio trova la sua eterna dimora, insieme ad altri grandi personaggi del
mondo classico e dell’epoca dell’Antico Testamento: poeti come Omero e
Ovidio, filosofi come Platone e Aristotele, ebrei come Abramo, Noè e
Davide. I pagani virtuosi non hanno avuto l’opportunità di essere cristiani,
quindi le loro vite sono state le migliori possibili, viste le circostanze. Nel
Limbo continuano a svolgere la loro integerrima esistenza, esercitando la
moderazione e facendo prova di dignità, ma percepiscono che manca loro
qualcosa. Come dice Virgilio, la sofferenza dell’Inferno è loro risparmiata,
a eccezione del tormento «che sanza speme vivemo in disio» (Inf., IV.42).
Nel Limbo, si odono lamenti incessanti, perché i pagani virtuosi
sentono l’assenza di qualcosa che non sono in grado di capire o di
formulare. Nel mondo dantesco, essere un uomo, a prescindere dall’epoca
storica, significa essere stato creato da Dio per provare quel senso di
completezza che solo Lui rende possibile. Ma a tale perfezione si giunge
soltanto se si è in grado di cogliere il sentimento cristiano dell’agape. Il
problema è che nessuno poteva conoscerlo finché Gesú non è sceso sulla
terra e lo ha mostrato: cosí le anime pure del Limbo hanno perso questa
possibilità.
Nei successivi quattro gironi dell’Inferno sono descritti vari tipi di
dannati: i lussuriosi, i golosi, gli avari e gli iracondi, tra gli altri. A
differenza delle anime del Limbo, qui ci sono i cristiani che hanno smarrito
la retta via. Senza addentrarci nei dettagli, vale la pena sottolineare che i
loro peccati hanno un’analogia nella struttura: i peccatori hanno amato
qualcosa che non bastava a soddisfare i loro desideri. I lussuriosi, per
esempio, hanno bramato le delizie del sesso – «i peccator carnali» (Inf.,
V.38). Tra costoro, Dante non solo annovera Paolo e Francesca, di cui
abbiamo già parlato nel primo capitolo, ma Cleopatra, Tristano e,
naturalmente, Elena e Paride (si osservi che l’interpretazione dantesca di
Elena è molto diversa da quella omerica). Il peccato condiviso da tutti è
quello di aver sprecato il loro amore in qualcosa che, alla fine, non era in
grado di offrire alcuna pienezza spirituale.
A meno di non considerare l’alternativa positiva offerta da Dante, non
si capisce che cosa consideri empio nelle loro vite. Secondo il suo giudizio,
sono dipendenti dal sesso e dall’amore (oppure dal cibo, dal denaro,
persino dalla loro stessa rabbia). La struttura delle dipendenze come
questa si rivelerà sempre insoddisfacente. Vi è un’analogia con il fumo:
tutti coloro che ne dipendono andranno in cerca di dosi sempre maggiori
dell’oggetto che credono possa soddisfarli, dar loro piacere o riempire di
significato la loro vita. L’oggetto della dipendenza sembra desiderabile e
possederlo significa soddisfare il desiderio. Ma quando ha finito la
sigaretta, il fumatore ne vuole subito un’altra. Alla fine il peccatore non
ottiene altro se non il desiderio di un oggetto sempre insoddisfacente.
È vero, come pensa Dante, che una vita dedita alla dipendenza
dovrebbe essere rigorosamente evitata. Tuttavia, la concezione aristotelica
accorda alla sua analisi un tono particolare. Secondo lui, la perfezione di
Dio, cosí come quella del Motore immobile in Aristotele, attrae a Lui ogni
cosa. In particolare, gli uomini sono nati per raggiungere la pienezza
grazie all’esperienza diretta di Dio. Permettere che l’amore sia deviato da
Lui e diretto ad altro – perfino a Beatrice – significa vivere una vita
insoddisfacente.
Indipendentemente dalla possibilità o meno di ottenere la pienezza
coinvolgendosi completamente nel rapporto con un’altra persona, le
anime che si trovano nei gironi inferiori dell’Inferno subiscono un altro
tipo di tormento. Nel quinto cerchio, ci sono le mura che separano alto e
basso Inferno. All’interno delle mura, c’è l’Inferno vero e proprio, che
Dante chiama la città di Dite (Dite è il nome romano del dio greco
dell’oltretomba, Ade). Per raggiungere il fondo dell’Inferno e poi salire al
Purgatorio e quindi al Paradiso, Dante e Virgilio dovranno attraversare la
città di Dite.
A questo punto, il retroterra non cristiano di Virgilio diventa uno
svantaggio. Da guida provetta, Virgilio avanza risoluto per chiedere di
poter entrare nella città. «Non temer», dice al suo spaventato compagno.
«E se il passar piú oltre c’è negato | ritroviam l’orme nostre insieme ratto»
(Inf., VIII.101-2).
Quando raggiunge la porta e chiede di entrare in nome di Dio, le
guardie si precipitano al cancello. «Udir non potti quello ch’a lor porse»
(Inf., VIII.112), dice Dante.

Chiuser le porte que’ nostri avversari


nel petto al mio segnor, che fuor rimase
e rivolsesi a me con passi rari [Inf., VIII.115-17].

Virgilio è stupefatto: «Chi m’ha negate le dolenti case!» (Inf., VIII.120).


Non può comprendere il disegno spirituale alla base dell’Inferno. Pensa
che i gironi inferiori siano come una prigione inespugnabile costruita per
incarcerare le anime empie. È questa l’immagine dell’oltretomba che
probabilmente esisteva nel mondo romano. A un certo punto, descrivendo
le anime di Dite, Virgilio dice: «intendi come e perché son costretti» (Inf.,
XI.21). Ma la città di Dite non è una prigione per rinchiudere le anime piú
dannate, è una fortezza per tenere fuori Dio. Dante, il cristiano, lo capisce
subito. Dice: «… io, ch’avea di riguardar disio | la condizione che tal
fortezza serra» (Inf., IX.107-8).
La città di Dite è una fortezza e non una prigione, perché le anime che
vivono al suo interno non solo hanno rivolto il loro amore a qualcosa di
meno perfetto di Dio, ma lo hanno attivamente rinnegato. San Tommaso
distingue tra peccato carnale e peccato spirituale e la distinzione si
rispecchia nella geografia dell’Inferno dantesco. Il peccato carnale
significa amare cose buone, come il cibo, il sesso e i beni materiali, ma
amarle troppo. Questa sopravvalutazione è punita al di fuori delle mura di
Dite. Il peccato spirituale, invece, significa rifiutare la creazione di Dio.
Coloro che si sono macchiati di una colpa spirituale si sono barricati
all’interno delle mura di Dite e usano tutta la loro energia per tenere fuori
Dio.
Perché ci si dovrebbe ribellare a Dio? È il Paradiso perduto di Milton che
ce lo insegna. Lí Satana dice che «vorrebbe governare in Inferno piuttosto
che servire in Paradiso». Prova risentimento per essere stato creato da Dio
e per il fatto che, quindi, pur essendo Satana, può trovare pace e pienezza
solo nel contemplarlo. Vuole poter decidere da solo che cosa adorare.
Analogamente, il Satana dantesco e gli angeli ribelli, che lo seguono e
difendono le mura della città di Dite, vogliono scegliere liberamente ciò
che li soddisfa e rifiutano la creazione di Dio per dare a ogni cosa il valore
deciso da loro stessi. Quindi, i peccatori all’interno della città di Dite alle
normali fonti di godimento ne sostituiscono altre, scelte in modo libero e
attivo. Per esempio, Dante vi trova gli omosessuali, che procedono in
branco: nella sua concezione rappresentano un rifiuto trasgressivo al
naturale desiderio di amore eterosessuale monogamo 2. Un peccato ancora
piú grave è il rifiuto della vita stessa e i suicidi trovano cosí la dannazione
in un settore ancora piú remoto della città di Dite.
Come vedremo, piú Dante si inoltra nell’Inferno, meno le ombre sono
ricettive all’appello delle manifestazioni dell’amore di Dio e piú si
chiudono in loro stesse. Inoltre, piú le ombre sono lontane da Dio, meno
sono mosse dal suo amore. D’altronde, Dio è il Motore immobile e di
conseguenza piú si allontanano, meno possono muoversi verso di lui. In
fondo all’Inferno, coloro che si sono macchiati dei peccati piú gravi sono
letteralmente congelati in una pozza di ghiaccio: poiché nella creazione di
Dio nulla li muove, rimangono immobili.
L’Inferno protestante di Milton è tutto incandescente senza gradazioni,
dall’inizio alla fine. Ci ha abituati a un Satana iperattivo e interventista, a
capo di armate intere di angeli ribelli. Invece il Satana dantesco è cosí
autonomo che nulla lo spinge ad agire. È quasi immobilizzato nel ghiaccio
e tutto ciò che riesce a fare è battere le ali. L’Inferno è un mare di ghiaccio
proprio a causa di questo suo incessante battito d’ali 3.
L’Illuminismo ammirava ogni scelta di vita che si battesse per
l’indipendenza ed esaltava l’autosufficienza, che si procurava da sola le
proprie leggi come segno di autonomia. Per la mentalità medievale, invece,
il fatto di impedire a se stessi di raggiungere la beatitudine eterna per
salvaguardare la propria autonomia era l’essenza del peccato. Si può
quindi interpretare il pensiero di Dante come un insegnamento che mette
in guardia i suoi contemporanei contro i pericoli dell’autonomia. È un
ammonimento che riguarda anche chi, tra i nostri contemporanei, è
tentato dalla volontà di potenza nietzscheana, come David Foster Wallace,
di cui abbiamo già parlato. In un mondo che ci spinge verso ciò che ci
appaga, il tentativo di stabilire i propri valori e di dare un significato
personale alle cose, invece di seguirne il senso tacitamente condiviso, può
condurre a un nichilismo infinitamente triste, in cui nulla ha significato e
nulla ci commuove.

Dante deve trovare una collocazione per il libero arbitrio all’interno del
suo sistema. Se la volontà non incide sulla vita che ci si sceglie – se tutto è
preordinato e non si può far nulla in proposito – allora che senso ha essere
ricompensati o puniti per il modo di condurre la propria esistenza? Se
Dante condanna tutte le manifestazioni di autonomia basata sulla volontà,
come quelle che troviamo nella città di Dite, come possiamo giungere al
concetto di libero arbitrio?
In effetti, Dante gli ha dato un posto nel suo sistema, ma non è il libero
arbitrio a cui siamo abituati. Da una parte, per Dante, la libertà non
consiste nella capacità di scegliere la vita che si vuole vivere o le azioni
che si compiranno, come pensiamo noi. Piú specificatamente, non si tratta
della libertà dalle limitazioni esterne alle proprie azioni. In questo caso si
tratterebbe infatti della libertà che si oppone al concetto di determinismo,
il tipo di libertà che piú sta a cuore a noi contemporanei, ma Dante non la
pensava cosí.
Secondo lui, la libertà consiste nell’essere liberi di limitare i propri
desideri per concentrarci invece su ciò che apporterà pienezza e
perfezione. Secondo l’interpretazione dantesca, esercitare un controllo sui
desideri è compito dello Stato e della Chiesa e il problema del mondo
contemporaneo è che lo Stato e la Chiesa non sono stati in grado di
assolverlo (Purg., XVI.67-87). Se fossimo educati nel migliore dei modi e
avessimo i desideri giusti, ognuno di noi andrebbe direttamente da Dio
come una freccia scoccata dall’arco (Par., I.91-93). Ma perfino nel mondo
dantesco, quando Chiesa e Stato falliscono nel loro intento, abbiamo la
libertà di rieducarci per conto nostro, se lo desideriamo. È il fenomeno che
Dante descrive con dovizia di dettagli nel Purgatorio.
Secondo la concezione dantesca, i sensi e i desideri sono condizionati
da ciò che li ha risvegliati, e noi abbiamo la libertà di addestrarli, con la
volontà e l’intelletto, in modo che possano essere messi in moto solo da
oggetti appropriati. Il goloso ravveduto, per esempio, può dominarsi e non
considerare piú il cibo come l’unico obiettivo degno dei suoi desideri. Nel
Purgatorio, i golosi che si pentono si impegnano in un processo di questo
tipo e acconsentono a sottoporsi al supplizio di Tantalo, una sorta di dieta
forzata. La differenza principale tra Inferno e Purgatorio sta nel fatto che,
nell’Inferno, i peccatori aderiscono ai loro desideri sbagliati, mentre nel
Purgatorio si pentono. Il pentimento è una manifestazione del libero
arbitrio, sulla base del quale si viene poi giudicati, e che mette il peccatore
sulla strada della salvezza. La pena consiste nel sottoporsi liberamente a
un regime di rieducazione dei sensi e dei desideri, in modo da istradarli
sulla retta via.
Secondo Dante, tutte le anime sono spontaneamente attratte dalle cose
di questo mondo. Come possiamo trovare il modo di rivolgere questa
naturale attrazione verso una vita degna di essere vissuta? Si presentano
due possibili alternative. La prima suggerisce di limitare, o addirittura
estinguere, il desiderio. È l’approccio tipico dello stoicismo ed è quello
scelto da Virgilio. «Innata v’è la virtú che consiglia, |e de l’assenso de’
tener la soglia», afferma il poeta latino (Purg., XVIII.62-63). Detto in altri
termini, gli appetiti devono essere controllati e la ragione ha il compito di
non lasciarci dominare dall’imperio dei desideri.
Dante invece ha una visione diversa, cristiana. Secondo lui, l’amore è
giusto nella misura in cui è diretto verso un oggetto adeguato. Si oppone
alla visione stoica di Virgilio, secondo la quale la volontà deve frenare i
desideri, e la sostituisce con quella cristiana, secondo cui il libero arbitrio
deve dirigere l’amore. Dante pensa che dobbiamo coltivare l’amore e
dedicarci a qualunque cosa ci attragga con totale devozione: se poi non ci
soddisfa – come sicuramente accadrà – possiamo imparare dall’errore, per
trovare infine qualcosa degno di una passione totalizzante e di un
coinvolgimento assoluto. Ciò che non dobbiamo assolutamente fare è
frustrare i nostri desideri: il libero arbitrio, al contrario, ci permette di
rieducarli, spingendoli nella giusta direzione.

Si può pensare che Dante ammetta la legittimità di diversi obiettivi, o


almeno cosí sembra. Il problema è sapere se, in questo, egli si dimostra
coerente. In particolare, è necessario chiederci se Dante pensa sia possibile
trovare qualcosa o qualcuno, qui sulla terra, che sia degno di passione e
coinvolgimento assoluti. Se non si è in grado di trovarli, si corre il rischio
di fare lo stesso errore di Agostino, il quale ha dato un’interpretazione del
cristianesimo che non ammette il Cristo incarnato e fatto uomo.
Nel suo poema, Dante non ignora Gesú e cerca il modo di giungere al
Dio eterno disincarnato con l’ausilio della profondità dell’Io, come aveva
fatto Agostino. Egli stesso era attivamente impegnato negli affari politici
della sua città, Firenze, e completamente assorbito dalla donna che aveva
ispirato la Divina Commedia. Fu facilitato dal fatto che l’originario
sentimento cristiano di devozione totale a Gesú aveva indirettamente
influenzato la scuola poetica francese dei troubadours nella loro ricerca di
un concetto nuovo di amore. Non si trattava piú del desiderio erotico dei
Greci, ma non era neppure l’agape cristiana. Era una tendenza nuova, che
si sarebbe chiamata «amor cortese». Questo nuovo modo di intendere
l’amore comportava una devozione assoluta alla persona amata, che
diventava il centro della propria vita. Nella tradizione trovadorica, è la
donna amata a dare all’uomo la sua vera identità. Senza di lei, non si
potrebbe piú esistere, perché si è diventati tali proprio in virtú dell’amore.
In questo senso, l’uomo capisce chi è esclusivamente in rapporto alla
donna amata, e di conseguenza è pronto a morire per lei. In poche parole, i
troubadours hanno inventato l’amore romantico e Dante corrispondeva
alla tipologia dell’innamorato romantico.
La profondità della devozione per Beatrice pervade tutto il poema.
Verso la fine della seconda cantica, in cima al monte del Purgatorio, Dante
assiste a una processione simbolica di libri della Bibbia, che rappresenta la
storia della Chiesa. Nel bel mezzo della sfilata, appare un carro trionfale a
due ruote trainato da un grifone. Il grifone è il simbolo tradizionale di
Gesú: in quanto animale dalla duplice natura, simboleggia la sua essenza
divina e umana. La processione si arresta e il carro si ferma proprio
davanti a Dante: il Poeta nota una figura incappucciata, che
verosimilmente rappresenta il momento culminante della storia della
Chiesa. Gli angeli si librano sopra il convoglio cantando: «Benedictus qui
venis!» Ci aspettiamo che il cappuccio venga abbassato svelando cosí Gesú
Cristo, ma Dante mette a punto un audace colpo di scena. Il personaggio
sul carro non è Gesú, ma Beatrice! Dante ha messo la sua amata al posto di
Gesú! Collocando Beatrice in una simile posizione, ha scritto un poema in
onore della sua amata che la celebra piú di quanto qualunque poeta abbia
mai fatto prima.
Si tratta di una concezione plausibile anche dal punto di vista
fenomenologico. Qui, il fenomeno è l’amore, che spinge l’individuo verso
un altro, in modo da portarlo al centro della sua vita. Se si è
sufficientemente fortunati da essere coinvolti in un amore tanto grande,
ogni cosa acquista significato in relazione a esso e questo senso rende
tutto splendente e appagante. Si giunge a una conoscenza totale di se
stessi e si è felici di un amore capace da solo di definire la vita stessa.
Se questa è effettivamente l’esperienza che ha vissuto Dante, allora non
è insensato che abbia messo Beatrice al posto di Cristo Salvatore, quando
la vede nella processione sul monte del Purgatorio. Il sentimento
dell’amore romantico non è poi cosí distante dalle diverse forme di sacro
che abbiamo visto finora. Innanzitutto, non è un’emozione che si può
scegliere. Proprio come il sentirsi trascinati da Atena o essere coinvolti
collettivamente dall’agape in presenza di Cristo, anche l’amore romantico
è un sentimento che ti colpisce e prende il sopravvento. Richiede un senso
di gratitudine e, inoltre, in base a esso si sa sempre come comportarsi.
L’amore romantico permette di sintonizzarsi su una situazione in cui ciò
che importa sembra perfettamente al suo posto. Se Dante si fosse fermato
con Beatrice in cima al Purgatorio, forse avrebbe potuto descrivere e
indicarci un mondo godibile, capace di apportare gioia e significato alla
vita.
Inoltre, quella che prova per Beatrice è una devozione verso di lei in
quanto essere fisico e incarnato. Celebrandola, ci parla dei suoi bellissimi
occhi verdi, della sua splendida bocca e soprattutto delle sue gambe. In tal
modo, Dante cattura una parte essenziale dell’intuizione cristiana, secondo
cui l’emozione salvifica coinvolge il mondo fisico e incarnato. Se è
totalmente appagato dal suo rapporto con Beatrice, allora è in grado di
trovare un modo per correggere l’errore agostiniano, che cerca di
interpretare il cristianesimo unicamente in termini astratti e disincarnati.
A questo punto, Dante potrebbe dare un’interpretazione del cristianesimo
capace di liberarsi dalle astrazioni del pensiero greco, incompatibili con
esso.
Purtroppo non è questa la strada scelta dal Poeta. L’Occidente dovrà
aspettare ancora cinquecento anni, quando Søren Kierkegaard elaborerà la
fenomenologia dell’amore romantico che Dante aveva iniziato a delineare.
Nel caso del poeta italiano, anche se Beatrice lo conduce attraverso il
Paradiso, non è in virtú del rapporto con lei che trova un significato nella
sua vita. Anzi, dopo aver guidato Dante per i cieli del Paradiso, Beatrice
ritorna a sedersi tra la rosa di anime beate che contemplano Dio.
Mettendola nella posizione del Salvatore, al posto di colui che secondo
Giovanni porta la verità e la vita, Dante la considera un tramite, una sorta
di scala di cui si è servito e che può poi abbandonare una volta che si trova
al cospetto di Dio. Infatti, Beatrice in sé non è l’oggetto ultimo d’amore
nella descrizione finale offerta da Dante (Par., XXXI.73-78; e XXXI.112-17).
Lei è la via, non la verità.
Quando Beatrice ritorna al suo posto, Dante la vede nella rosa dei beati,
proprio sotto san Pietro. Fa a Dante un ultimo sorriso e poi riprende a
contemplare lo splendore di Dio. «A quella luce cotal si diventa, | che
volgersi da lei per altro aspetto | è impossibil che mai si consenta» (Par.,
XXXIII.100-2). Beatrice ha accompagnato Dante perché possa raggiungere
la visione beatifica – una contemplazione diretta di Dio. Ma la benedizione
dell’amore di Dio è cosí sconvolgente che, lungi da diventare elemento
organizzatore della sua vita e costituire il punto focale di tutta la sua
esistenza, lo trascina completamente fuori di sé. Invece di ritornare alla
politica con rinnovato vigore, o di cercare di vivere come gli ha ispirato
Beatrice, Dante sembra smarrire ogni senso di sé come individuo. Secondo
san Tommaso, la beatitudine suscitata dalla contemplazione dello
splendore di Dio costituisce il fine ultimo della vita umana. Si tratta
purtroppo di una beatitudine che travolge l’uomo e rende irrilevanti tutte
le gioie terrene.
Quindi Dante non ritorna piú da Beatrice. Quello che è stato il rapporto
piú intenso della sua vita sulla terra si rivela inconsistente, rispetto alla
pienezza raggiunta. L’unica distinzione veramente importante della sua
vita – la distinzione tra il suo amore per Beatrice e il resto delle cose
terrene –, paragonata a Dio, perde ogni significato.
Analogamente, l’impegno in politica di Dante finisce per apparire
irrilevante. Dall’alto del Paradiso, Dante guarda alla terra e dice: «… e vidi
questo globo | tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante» (Par., XXII.134-35). Si
accorge che sulla terra tutto è triviale, persino la politica, e dice: «L’aiuola
che ci fa tanto feroci, | volgendom’io con li etterni Gemelli, | tutta
m’apparve da’ colli a le foci» (Par., XXII.151-53). Come il suo amore per
Beatrice, le questioni politiche, che tanta importanza rivestivano per lui,
sono state oscurate dallo splendore divino. Una volta trovatosi al cospetto
di Dio, Dante non si è mai allontanato dalla Sua magnificenza, né per
partecipare alla politica né per ammirare Beatrice.
Nella descrizione di Aristotele, il Motore immobile mette in movimento
tutti gli altri esseri in virtú dell’attrazione della sua perfezione. Gli ultimi
versi del Paradiso descrivono la versione cristiana dell’Essere supremo dei
Greci, che esercita un controllo sui desideri e sulla volontà di Dante: «ma
già volgeva il mio disio… | … | l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Par.,
XXXIII.143-45).
Il Dante che, grazie ai troubadours, ha scoperto che l’esperienza piú
importante della sua vita era l’amore per una singola donna, ormai è
attratto nell’orbita del Motore immobile. La sua volontà individuale,
insieme all’amore per Beatrice e alla passione politica, è stata sopraffatta
dalla beatitudine provata nel contemplare Dio. Si potrebbe dire che Dante
sia preda di una totale euforia: come quando l’estasi ti travolge e la gioia
estrema ti fa sperimentare te stesso in modo completamente inedito. Nella
concezione dantesca, ogni gioia perde significato di fronte alla benedizione
della visione beatifica. Parla di «letizia che trascende ogne dolzore» (Par.,
XXX.42). In definitiva, Dante è completamente assorto nell’amore di tutte
le creature per il loro Creatore.
È davvero questa la strada che conduce a una vita soddisfacente?
Semmai, sembra un modo per evitare una vita significativa anziché tentare
di realizzarla. La si potrebbe considerare, anzi, una forma medievale di
nichilismo, poiché sostiene che, in questa vita, non c’è nulla che abbia
senso – persino l’amore salvifico di Beatrice o le profonde motivazioni
politiche di Dante sono banali rispetto all’amore di Dio. A questo punto il
Poeta, seppur involontariamente, ci dimostra che la metafisica greca
rielaborata da san Tommaso in realtà indebolisce l’agape del cristianesimo
delle origini, formulata da Giovanni e da Paolo. Il modello dei primi
cristiani propone una vita calata nel mondo, pur con la fede in Gesú, il che
significa vivere con un atteggiamento gioioso, ma non estatico, per agire
nella realtà della Parola fatta Carne, in modo diretto e puntuale. Il concetto
di amore di Dio quindi è ambiguo. Nell’universo dantesco, finisce per
essere l’amore che ciascuno di noi nutre per l’Essere supremo aristotelico,
mentre nei Vangeli è semplicemente l’amore di Gesú per noi tutti. Nella
fusione mistica finale di Dante non c’è spazio per Gesú come oggetto
incarnato e come paradigma dell’agape. L’esperienza ultima del poeta è
quella dello splendore di Dio che «mi parve pinta de la nostra effige» (Par.,
XXXIII.131). Nella concezione dantesca, Gesú è semplicemente un volto,
privo di un corpo che lo possa sorreggere.
Per concludere, il tentativo medievale di riformulare il cristianesimo in
termini aristotelici è destinato a fallire. Il messaggio negativo dell’Inferno è
fenomenologicamente pertinente: l’autonomia, in realtà, porta a un
nichilismo attivo, poiché se ogni possibile significato ha origine con noi,
nulla ha davvero autorità né ha il potere di farci progredire. Se tentiamo,
tuttavia, di considerare l’amore cristiano di Gesú incarnato in termini
aristotelici, finiamo per avere un Essere supremo e un amore cosí
travolgente e passivo da eliminare l’individualità e tutte le differenze
significative. La passione incondizionata che ha spinto Dante verso
Beatrice e che avrebbe potuto offrire sia a lui sia alla cultura medievale
dell’epoca una fonte nuova di significato personale è cancellata da
un’esperienza mistica impersonale, di stampo greco. Quella che è stata
definita la Sintesi medievale – il modo in cui san Tommaso e Dante hanno
concettualizzato la rivelazione cristiana in termini aristotelici – in ultima
analisi non è la risposta al nichilismo, ma semplicemente un ulteriore
passo in quella direzione.

San Tommaso, in linea con Aristotele, sosteneva che il massimo


obiettivo di un vita era la visione beatifica del Motore immobile –
ribattezzato l’Essere supremo. San Tommaso lo interpretava come la
beatitudine derivata dalla contemplazione diretta di Dio. Ma, come
abbiamo appena visto, nel poema di Dante questa concettualizzazione non
lascia spazio né a Gesú, né all’agape, né a una comunità di cristiani pieni
di gioia e nemmeno a identità individuali.
Martin Lutero, che scrisse due secoli dopo san Tommaso e Dante, era
deciso a riscattare il credo cristiano dall’aristotelismo e a ritornare al
cristianesimo delle origini espresso nelle lettere di san Paolo. Lutero
parlava senza mezzi termini quando esprimeva il disgusto che provava di
fronte alla disastrosa influenza di Aristotele: «Mi strazia nel piú profondo
che un pagano dannato, dissimulatore, furfante abbia illuso tanti
meravigliosi integerrimi e si sia fatto gioco di loro con i suoi scritti
ingannatori. Dio ci ha cosí punito per le nostre colpe» 4.
E aggiunse: «Le università hanno bisogno di una riforma equa e
rigorosa … è mio avviso che questi libri di Aristotele … che fino a ora sono
stati considerati il meglio, vengano eliminati dal programma» 5.
In questo modo Lutero mise fine al tentativo di conciliare la filosofia
greca e l’esperienza giudeo-cristiana. È possibile che volesse criticare
sant’Agostino, san Tommaso e Dante, quando scrisse: «Non è di alcun
giovamento al peccatore riconoscere Dio nella Sua gloria e nella sua
maestà, a meno che non lo riconosca nell’umiltà e nel tormento della
croce» 6. Oppure, in modo piú sintetico: «Il “teologo della gloria” chiama il
male bene e il bene male. Il “teologo della croce” dice di cosa si tratta» 7.
Cioè, i cristiani non sono chiamati a vivere la presenza pura del divino, sul
modello greco, ma si richiede loro di entrare in contatto con Gesú, la
«Parola fatta Carne», descritta da Giovanni e vissuta da Paolo.
In generale, Lutero non apprezzava i monaci e i mistici. Erano entrambi
tagliati fuori dal mondo, quel mondo in cui, secondo lui, la gioia collettiva
– non la contemplazione estatica di Dio – è costituita dal contagioso
amore cristiano. Lutero è inflessibile quando dice: «Dovremmo aiutare
spontaneamente il prossimo con il corpo e le opere, e ognuno dovrebbe
diventare per l’altro come fosse Cristo, cosí che saremmo tutti cristiani gli
uni per gli altri» 8.
Invece di lasciare il mondo per contemplare la verità di Dio nel
profondo della propria anima come ha fatto Agostino, o fondersi
nell’amore che muove la creazione, come ha fatto Dante, è resuscitato «un
uomo nuovo in un mondo nuovo» 9.
Un nuovo mondo era infatti all’orizzonte. Grazie a Lutero, la teologia
aristotelico-tomista-dantesca smise di essere al centro dell’esperienza della
soggettività. I cristiani riformati, che condividono il loro atteggiamento di
vita direttamente con Gesú e con tutti gli altri cristiani, non hanno
bisogno della mediazione del papa e del clero. Secondo Lutero, ogni
cristiano è un papa e «tutti coloro che hanno fede in Cristo sono santi» 10.
Non è un modo per diventare autosufficienti o autonomi, ma almeno
per considerarsi autosufficienti dalla Chiesa – fino ad allora la piú potente
istituzione in Occidente. Nel nuovo mondo dell’Illuminismo introdotto da
Lutero, un simile atteggiamento sembra la quintessenza dell’autonomia,
soprattutto quando dice:

Un uomo cristiano, se lo definisco nel modo giusto, è libero da tutte le leggi, e non è
soggetto a nessuna creatura, né interna né esterna … Perché ha un tale dono, un tale
tesoro che, anche se sembra essere piccolo, addirittura misero, è piú grande del cielo e
della terra, perché Cristo, che è questo dono, è il sommo 11.

La riforma di Lutero e, piú in generale, la riforma protestante hanno


apportato una drastica revisione al nichilismo passivo medievale di
stampo dantesco. L’enfasi posta sulla libertà individuale, tuttavia, ha anche
aperto la strada al nichilismo attivo, associato all’idea della morte di Dio.
La revisione che fece Lutero al nichilismo medievale parte dal presupposto
che l’amore di Dio ci comprenda tutti, malgrado i nostri peccati. Il
sentimento cristiano in Lutero, quindi, è fatto di gioia e gratitudine 12.
Nella sua vita personale, questo atteggiamento gli permise di avere una
grande sicurezza nelle proprie scelte. Questa certezza è evidente nella sua
celebre affermazione alla Dieta di Worms nel 1521: «Mi tengo saldo… Non
posso né voglio revocare alcunché». La certezza delle proprie azioni in
questo mondo – una certezza per la quale si vorrebbe «morire di mille
morti», come dice Lutero nel suo commento alla Lettera ai Romani di san
Paolo – è in stridente contrasto con la speranza che la beatitudine estatica
possa portare l’uomo fuori dal mondo e dai suoi interessi, come nel
nichilismo medievale di Dante.
La revisione luterana, tuttavia, in termini di significato comportava un
suo prezzo. Per spiegare meglio le caratteristiche dell’atteggiamento
cristiano di gioia e gratitudine, Lutero sottolineò che lo si doveva
intendere come un rapporto personale e individuale con Gesú. Anche se
non contempla la stessa esaltazione dell’indipendenza dell’individuo
preconizzata dall’Illuminismo, costituí una prima tappa in tal senso.
L’effetto della Riforma fu quello di enfatizzare l’individuo in quanto essere
definito da pensieri e desideri interiori, a detrimento della gerarchia di
significati mondani extraindividuali stabilita da Dio.
Nella rielaborazione del cristianesimo fatta da Lutero, il mondo politico,
religioso e sociale è completamente disincantato. Abbiamo fatto molta
strada dal concetto medievale di Dante, che contemplava una gerarchia di
significati – in cui il valore di una cosa appariva immediatamente. Ogni
individuo ora è come un re, secondo Lutero, poiché non si seguono piú le
leggi in vigore nello stato. Ci si deve attenere invece al senso di gioia e
gratitudine che Gesú ha instillato in noi ed è questo sentimento che
determina ciò che è legittimo. Cioè, come ha detto Gesú, l’amore è la
pienezza della Legge. Nel proprio rapporto con Dio, non si dipende piú dal
clero e dalla mediazione o dall’intercessione dei suoi membri. Gesú ci
giustifica tutti in quanto individui, accordandoci direttamente la grazia e
l’amore.
Ci stiamo avvicinando alla concezione illuministica dell’Io come fonte
autonoma di significato nell’universo. Ma, a differenza dei pensatori
dell’Illuminismo, soprattutto Cartesio e Kant, Lutero ha ancora un forte
senso della dipendenza dell’individuo dal Salvatore. Secondo lui, le opere
di devozione offerte dalla Chiesa e dai singoli sono prive di valore, atti
ostinati di orgoglio, a meno che non siano sorrette dalla fede e dall’umiltà.
Non possiamo imporci la fede, cosí come non possiamo imporci altri
sentimenti:

La fede è una fiducia viva e incrollabile … ci rende gioiosi, intrepidi, e assidui nella
nostra relazione con Dio e con tutta l’umanità … Un’integrità di questo tipo non può
essere portata dal normale corso della natura, dalla libera volontà o dalle nostre
facoltà. Nessuno può dare a se stesso la fede… 13.
Cartesio fece l’ultimo passo verso il nichilismo, confutando l’idea di un
soggetto inteso come ricettacolo, e concentrandosi esclusivamente su ciò
che si può ottenere con la volontà.

Dobbiamo aspettare la prima metà del XVII secolo per arrivare al


filosofo francese René Descartes, italianizzato in Cartesio, il solo
riconfiguratore dell’Occidente, insieme alla figura di Gesú. Cosí come Gesú
pose le basi del nostro Mondo cristiano, con i suoi santi e i suoi peccatori,
cosí Cartesio pose le basi del Mondo moderno, in cui l’uomo comprende se
stesso come un soggetto autosufficiente che si trova di fronte a oggetti
anch’essi autosufficienti. Il suo percorso si rifà alla profondità dell’anima
di Agostino e all’indipendenza di ogni cristiano di Lutero. Lutero tuttavia,
nella sua elaborazione dei sentimenti – soprattutto l’agape e la gratitudine
–, mantiene l’idea della ricettività del cristiano, sentita come necessaria,
mentre Cartesio, da parte sua, sostiene che il soggetto umano al suo
meglio è completamente autosufficiente, distaccato e autonomo e, lungi
dall’essere passivo, possiede una volontà cosí forte da competere con
quella di Dio:

Non vi è che la volontà o libertà dell’arbitrio che io sperimenti in me cosí grande,


da non concepire l’idea di una maggiore; di modo che è soprattutto in ragione di essa
che io intendo che ho in me una certa immagine e somiglianza di Dio 14.

Uno dei modelli di esperienza del sacro di cui ci siamo serviti nel corso
di questo libro è quello degli stati d’animo. Abbiamo descritto gli dèi di
Omero mettendo a fuoco i potentissimi impulsi che sono in grado di
suscitare e le azioni che fanno compiere agli uomini in virtú di questi
sentimenti. Abbiamo poi incontrato stati d’animo di tipo diverso: il
patriottismo in Eschilo, l’agape in Giovanni e Paolo, l’estasi in Dante, e la
gioia e la gratitudine in Lutero. Un aspetto fondamentale dell’Illuminismo
è che i sentimenti – nel modo in cui sono trattati – vengono spogliati delle
caratteristiche fondamentali che li hanno connotati nelle epoche
precedenti. Prima si trattava di stati d’animo pubblici e condivisibili – per
esempio il coraggio invincibile che si percepisce in presenza di Ares o di
Achille o l’agape in presenza di Gesú. Invece, secondo la concezione
cartesiana dell’individuo come soggetto, di cui ci avvaliamo tuttora, i
sentimenti sono diventati privati, si tratta di stati interiori che rimangono
inaccessibili agli altri. Vedremo ora che la vecchia idea di stati d’animo
collettivi come veicoli del sacro è fondamentale per Melville, il quale
resiste a ogni manifestazione della volontà e a ogni forma di monoteismo.
Da quello che abbiamo già detto, dovrebbe essere chiaro che non si
deve credere che gli dèi greci esistevano per permettere agli uomini di
ottenere qualcosa di importante e grandioso grazie al senso del sacro come
lo dipinge Omero (lo stesso vale per Gesú, esecutore di miracoli
fisicamente impossibili). Eppure è necessario rifiutare l’idea moderna,
secondo cui l’agente umano è l’unica fonte autonoma delle azioni che
compie. Questa concezione di agente umano è cosí insinuante e pervasiva
da nasconderci completamente i fenomeni a cui Omero invece era tanto
sensibile. Per vedere questo, abbiamo bisogno di rintracciare brevemente
le origini della concezione moderna dell’Io.
Non si può certo dire che la cultura, prima di Cartesio, avesse celebrato
l’Io interiore. Come abbiamo visto, sant’Agostino dovette penare per
convincere i suoi contemporanei dell’importanza dell’interiorità nel
percorso che conduce a Dio. Anche dopo Agostino, continuò a essere
valida la concezione dell’uomo come essere fondamentalmente aperto a
ogni sorta di forza esterna. E nell’universo dantesco, l’anima era ricettiva
sia all’amore di Dio sia all’influsso di Satana, che spinge l’uomo
all’autonomia. Tuttavia il mondo omerico e quello medievale hanno in
comune una cosa, e cioè che si raggiunge l’eccellenza se non si permette ai
nostri pensieri e idee di essere d’intralcio al flusso che sembra trascinarci.
Cartesio invece, formatosi su Agostino, portò avanti l’idea che siamo
esseri autosufficienti e autonomi, definiti da pensieri e desideri personali.
Se voglio sapere chi sono, secondo la concezione cartesiana, la cosa
migliore è guardarmi dentro – chiedermi quali sono i pensieri che
riconosco davvero come miei.
Sotto l’influenza di Cartesio, allora, siamo giunti a comprenderci in
quanto soggetti – ricettacoli di pensieri, desideri e decisioni interiori –
mentre il «mondo esterno» non è che un insieme di oggetti privi di
significato posti di fronte all’Io. Prima di Cartesio, l’uomo non si percepiva
come contrapposizione di soggetto e oggetto, ma come una creatura di
Dio. Dopo Cartesio, invece, l’uomo considera se stesso come un essere
capace di attribuire liberamente un significato alle cose: in altri termini,
possiamo dare agli oggetti intorno a noi, privi di significato, il senso che
abbiamo scelto per loro.
Questo atteggiamento capovolge la concezione tradizionale secondo la
quale siamo esseri esposti al mondo e sottoposti alle forze che operano in
esso. Per la prima volta nella storia dell’uomo, si dovette affrontare il
seguente dilemma: se la concezione che abbiamo di noi stessi è quella di
un essere che contiene in sé già tutte le risposte, come dobbiamo condurre
la nostra vita?
Cartesio pensava di avere una soluzione. Era convinto che, grazie alla
ragione e all’esperienza, avrebbe potuto trovare le regole per capire
razionalmente che cosa era giusto fare in ogni situazione. Era determinato
a elaborare un’etica non appena avesse messo a punto la sua trattazione
scientifica e matematica. Cosí scrisse: «mi formai una morale provvisoria,
che consisteva in sole tre o quattro massime di cui voglio mettervi a
parte» 15.
Per dedicarsi meglio alla filosofia, ci dice, si ritirava nel suo
confortevole studio dove era completamente libero dalle passioni.
Tuttavia non trovò il modo di fondare un’etica basata sull’austero
mondo di soggetti e oggetti che aveva concepito: il suo contributo alla
scienza e alla matematica fu fondamentale, ma non riuscí mai a elaborare
una trattazione etica soddisfacente. Fu comunque in grado di riconfigurare
interamente il mondo occidentale, mettendo al centro dell’uomo, come
aspetto che lo accomunava a Dio, quella libera volontà che, in Dante, era il
tratto che definiva il male. Contribuí cosí a compiere un’altra tappa
fondamentale verso il nichilismo.

L’idea di libertà in Cartesio era cosí radicale che aveva bisogno di un


riformulatore: questo fu il grande filosofo tedesco del XVIII secolo
Immanuel Kant. Kant sosteneva che, se siamo esseri auto-sufficienti,
allora, per determinare il nostro comportamento, non esiste una legge al di
fuori di quella che ci diamo da soli.
Nella filosofia di Kant, il soggetto sostituisce Dio come ordinatore del
mondo. È celebre l’affermazione kantiana secondo cui Illuminismo
significa imparare infine a prendersi la responsabilità delle proprie azioni.
In altri termini, la maturità che nasce con l’Illuminismo mi impone di
obbedire al papa o al re soltanto se scelgo liberamente di farlo. Il sommo
bene diventa ora l’autonomia, ovvero la possibilità di stabilire le proprie
leggi e di scegliere di comportarsi in conseguenza – tratto che, per le
anime della città di Dite in Dante, è la quintessenza della colpa.
La concezione kantiana ha un debito con Lutero, ma nello stesso tempo
si allontana dalla sua posizione. Certo, Lutero sottolinea l’importanza
dell’individuo ma, per il suo modo di concepire il cristianesimo, è
essenziale che gioia e gratitudine nascano dall’esperienza di ricevere la
grazia di Dio. È soltanto perché sento di essere in debito con Dio che sono
nella posizione di sapere con certezza che cosa devo fare. Cosí sostiene
Lutero: «Sono qui, non posso far altro. Dio mi aiuti». Per lui, la certezza è
esistenziale: è l’impegno gioioso ad agire come si sa di dover agire.
Ma quando Kant rielaborò questa concezione in una ricetta per l’agire
morale, la trasformò completamente, come riconobbe lui stesso. Mentre in
Lutero la fonte della certezza esistenziale che detta l’azione sta
nell’esperienza dell’amore infallibile di Dio per me, in Kant soltanto io
sono responsabile delle mie azioni. Anzi, secondo lui, questo è il segno
della mia maturità.
Il filosofo tedesco fa una descrizione dettagliata delle caratteristiche che
deve avere questa legge autoimposta: il punto essenziale è che siamo noi a
imporci la legge morale. Nella terminologia kantiana, siamo noi i nostri
legislatori; in quanto agenti «autonomi», dovremmo comportarci in
accordo con i principî da noi stessi stabiliti. Quando tentiamo di agire nel
miglior modo possibile, non c’è nulla al di fuori di noi su cui basare il
nostro comportamento – nessun Dio e nessun’altra forza esterna, nessun
impulso, nessun testo canonico, nessuna imposizione genitoriale, nessuna
tradizione e nessun decreto statale. Tutte le forze esterne sono liquidate da
Kant come «determinazioni eteronime della volontà» 16, ovvero cause delle
nostre azioni determinate da altri. Se permettiamo a queste forze esterne
di influenzare le nostre azioni, non riusciamo a vivere al livello delle
esigenze morali che fanno di noi degli essere liberi e autosufficienti 17.
Anche se la concezione kantiana è formulata in un linguaggio astratto,
il suo impulso fondamentale fa parte del tessuto stesso della modernità.
Quando una persona non si prende la responsabilità delle proprie azioni,
ci viene naturale biasimarla. Secondo i criteri di oggi, le azioni degli
uomini sono comportamenti di cui l’agente umano è completamente
responsabile. Come abbiamo visto, verso la metà del XX secolo il filosofo
francese Jean-Paul Sartre, nella sua filosofia esistenzialista, ha portato
questa idea alla sua estensione logica. L’esistenzialismo, scrive Sartre, fa
«cadere su di lui [l’uomo] la responsabilità totale della sua esistenza» 18.
Abbiamo fatto un lungo cammino da quando Omero approvò la fuga di
Elena con Paride, poiché era stata dettata da Afrodite.
Il concetto moderno secondo cui siamo interamente responsabili della
nostra esistenza è in stridente contrasto con l’idea omerica secondo cui
agiamo nel migliore dei modi quando ci lasciamo trascinare da una forza
esterna. Anzi, quando analizziamo meglio l’enormità di questo contrasto,
ci appare ovvio il motivo per cui nel mondo contemporaneo i fenomeni
omerici sono messi a tacere. Ciò che per Omero è il paradigma
dell’eccellenza, a Kant e a quasi tutti noi non sembra nemmeno un’azione
umana degna di questo nome. L’eccellenza omerica, con gli occhi di oggi, è
considerata alla stregua di una determinazione eteronomica della volontà
– una biasimevole rinuncia alla volontà. La fuga di Elena con Paride ci
sembra un comportamento di dipendenza oppure un’azione compulsiva.
Per noi l’eroina greca ha perso ogni controllo – uno dei tanti casi
deplorevoli di donne che amano troppo.
Il pericolo insito nella posizione kantiana è che, rendendoci
interamente responsabili delle nostre azioni, dobbiamo anche essere in
grado di capire le cose che sono importanti e quelle che non lo sono. La
storia degli ultimi centocinquant’anni, tuttavia, ci suggerisce che non
siamo affatto la fonte piú adatta per assegnare un significato alle cose di
questo mondo. Tra il concetto kantiano dell’uomo come soggetto
completamente autonomo e l’idea nietzscheana dell’uomo inteso come
spirito libero, capace di attribuire al mondo i significati che piú gli
aggradano, il passo è breve. Cosí come i significati possono essere
liberamente attribuiti, infatti, con la stessa facilità possono essere tolti.
Quindi, non hanno autorità alcuna sul loro artefice. Si tratta dello stesso
nichilismo attivo che, per Dante, non poteva assolutamente costituire la
base per una vita piena di significato.
Herman Melville, che scrisse meno di un secolo dopo Kant e una
generazione prima di Nietzsche, già vedeva profilarsi la minaccia di questo
tipo di nichilismo. Addirittura, per superarlo, riuscí a immaginare il modo
di reintrodurre un politeismo simile a quello degli dèi di Omero. Il cerchio
è chiuso: accostandoci a Moby Dick, torniamo ora al punto di partenza.

1
Introduzione di A. T. MacAllister all’edizione inglese dell’Inferno (Penguin, New York 1982, p.
XIII ).
2
Gli amanti omosessuali monogami hanno la pena piú mite. Sono purificati dal fuoco in cima al
Purgatorio. Qui Dante incontra molti dei suoi amici.
3
Dante non lo dice mai esplicitamente, ma la sua descrizione dell’Inferno (XXXIV.76-77) spiega
perfettamente quale parte dell’anatomia di Satana coincide con la fine del mondo materiale.
4
M. LUTHER, Selections from His Writings, a cura di J. Dillenberger, Anchor Books, New York
1962, p. 470.
5
Dalla lista di riforme inviate da Lutero ai nobili tedeschi, in P. SMITH , The Life and Letters of
Martin Luther, Riverside Press, Cambridge 1914.
6
M. LUTHER , Martin Luther’s Basic Theological Writings, a cura di T. Lull, Augsburg Fortress,
Minneapolis 1989, pp. 43-44.
7
ID ., Selections from His Writings cit., p. 78.
8
Ibid., p. 76.
9
Ibid., p. 105.
10
Ibid., p. 160. Kierkegaard capí che l’introduzione, da parte di Gesú, del sentimento dell’agape
implicava che, dopo l’incarnazione, non c’erano piú né il bisogno né il modo di mettersi in rapporto
con Dio. «[Lutero] ha agito nel modo giusto. Ma la sua predica non è sempre chiara, né conforme
alla sua vita: in lui la vita è migliore della dottrina» (S. KIERKEGAARD , Diario, vol. V, 1850, a cura di
C. Fabro, Morcelliana, Brescia 1980, p. 24).
11
LUTHER , Selections from His Writings cit., pp. 112-13.
12
L’amore di Lutero per la musica trovò piena espressione nelle cantate di Bach. Esse non
manifestano né l’esplicarsi di un significato individuale, né un’estasi mistica passiva, ma piuttosto
una comunità di fedeli gioiosi che condividono lo stesso senso del sacro da cui vengono trascinati –
un sentimento che poi imparano a coltivare con gioia. Nella Quarta prefazione alle numerose
edizioni del suo innario, Lutero scrive: «Quando cantiamo dobbiamo essere gioiosi e sereni nel
cuore e nella mente … Infatti Dio ha reso gioiosi il cuore e la mente nostri con il Suo amato Figlio
che ci ha redento dal peccato, dalla morte e dal diavolo. Chi crede in questo con fervore non può far
altro che cantare con gioia, in modo che anche altri possano udire e giungersi a loro».
13
LUTHER , Selections from His Writings cit., pp. 24-25.
14
R. DESCARTES , Meditazioni metafisiche, in ID ., Opere, trad. it. di M. Renzoni, Mondadori,
Milano 1986, p. 241 (ed. or. Meditationes de prima philosophia, in qua Dei existentia et animæ
immortalitas demonstratur, 1641).
15
R. DESCARTES , Discorso sul metodo, in ID ., Opere cit., p. 162 (ed. or. Discours de la méthode pour
bien conduire sa raison…, 1637).
16
Le parole «autonomia» ed «eteronomia» acquistano maggior senso se pensiamo alla loro
origine greca. Nomos in greco significa «legge», mentre i prefissi auto ed etero si riferiscono al sé e
agli altri. Quindi, «autonomia» significa letteralmente legge autoimposta ed «eteronomia» legge
imposta dagli altri.
17
La grande lezione dell’Illuminismo, secondo Kant, è che l’uomo pienamente evoluto si serve
del suo intelletto per decidere come agire. «L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di
minorità che egli deve imputare a lui stesso» è il celebre motto di Kant: si tratta della prima frase di
I. KANT , Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo, in ID ., Scritti politici, parte I, Scritti di filosofia
della storia, Utet, Torino 2010, p. 141 (ed. or. Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, 1784).
18
SARTRE , L’esistenzialismo è un umanismo cit., p. 48.
Capitolo sesto
Fanatismo, politeismo e l’«arte maledetta» di Melville

«Ho scritto un libro perfido», disse Herman Melville. «Eppure mi sento


innocente come un agnello».
Era il novembre 1851 e Melville aveva scritto al suo amico e vicino di
casa Nathaniel Hawthorne. L’edizione inglese di Moby Dick era stata
pubblicata un mese prima e quella americana era appena uscita. «È un
sentimento strano», scriveva,

non c’è nessuna speranza in esso, nessuna disperazione. Appagamento – ecco cos’è; e
irresponsabilità, ma senza inclinazione licenziosa. Parlo ora, del mio senso piú
profondo dell’essere, non di un sentimento accidentale 1.

Melville giudicava il suo Moby Dick assai piú misterioso e inquietante –


in una parola piú perfido – delle scandalose descrizioni di scene di
cannibalismo e di sesso esplicito e primitivo dei suoi primi romanzi, che
gli avevano valso la reputazione di primo sex symbol della storia della
letteratura americana 2. I suoi primi cinque romanzi – avventure di mare
pubblicate a un ritmo frenetico tra il 1846 e il 1850 – avevano creato
polemiche, scalpore e la pretesa di un’edizione censurata. Ecco quanto
scrisse il «Times» di Londra in una recensione al primo romanzo di
Melville, Taipi, che narra la sua esperienza di naufrago su un’isola della
Polinesia nel Pacifico del Sud e descrive la sua capanna, gli espedienti per
vivere e le attenzioni entusiaste ricevute dagli indigeni: «Invidiabile
Herman! È impossibile immaginare un tipo piú felice di Herman nella
valle di Taipi» 3. Il suo matrimonio con Elizabeth Shaw, nel 1847, non poté
venir celebrato in chiesa, racconta una fonte, «per paura che i suoi
ammiratori vi si precipitassero in massa» 4.
Il senso del male che sprigiona da Moby Dick, che, sotto certi aspetti, è
ancora un’avventura di mare come i primi romanzi, ha un carattere piú
fosco e scabroso. Quando, alla fine di agosto del 1851, al largo della costa
cilena, la baleniera Ann Alexander fu speronata e affondata da una balena 5,
Melville si chiese se non era stata la sua operazione di magia nera
letteraria a provocare l’animale.

Non ho dubbi che si tratti di Moby Dick in persona, anche se non c’è notizia della
sua cattura dopo la triste sorte del Pequod circa quattordici anni fa. Sissignore! E che
razza di commentatore è la balena dell’Ann Alexander! Quello che ha da dire è conciso
& stringato & molto appropriato. Mi chiedo se la mia arte maledetta ha risvegliato
questo mostro 6.

La tragedia dell’Ann Alexander aveva sicuramente dato risalto agli


oscuri poteri del suo nuovo romanzo, ma già da qualche tempo era venuta
alla luce la tendenza di fondo dell’opera. Alla fine di giugno del 1851,
mentre era occupato a dare gli ultimi ritocchi a Moby Dick, Melville
propose di mandare una copia del manoscritto al suo amico Hawthorne:

Debbo mandarti una pagina della Balena come boccone d’assaggio? La coda non è
ancora cotta – sebbene il fuoco dell’inferno su cui l’intero libro viene arrostito avrebbe
potuto, già prima d’ora, cuocerla tutta. Questo è il motto (quello segreto) del libro, –
Ego non baptiso te in nomine – ma ricavati il resto tu stesso 7.

La citazione latina che Melville lascia incompiuta, il motto segreto di


Moby Dick, secondo la tradizione si conclude cosí: Ego non baptiso te in
nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti – sed in nomine Diaboli. «Io ti
battezzo non in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo – ma in
nome del Diavolo» 8.

Che cosa rende Moby Dick un libro malefico? E se davvero emana una
sorta di inquietante perfidia, come è possibile che Melville si sentisse
«innocente come un agnello» per averlo scritto? Quale messaggio occulto
cela il suo motto segreto? E in che cosa consiste esattamente l’«arte
maledetta» di Melville?
Non è ancora il momento di parlare di queste cose. Basti dire, per ora,
che, indipendentemente dalle risposte che possiamo dare a questi
interrogativi, la posta in gioco è molto alta. Il libro non solo è perfido,
come dice Melville, non solo è licenzioso o perfino scellerato, ma è pervaso
da cima a fondo dal fuoco dell’Inferno, è rovente, divorato dalle sue
fiamme. E Melville non solo è innocente, come se fosse stato assolto in un
qualche tribunale, ma è puro e senza peccato in un modo infinitamente piú
profondo. «Innocente», sottolinea, «come l’agnello».
L’agnello di Dio, cioè.
Il Nostro Signore Gesú Cristo.
Il simbolismo religioso a questo punto si complica e, a un’idea di
malvagità segreta, infernale e quindi presumibilmente anticristiana,
combina una sorta di immacolata innocenza, un’innocenza cosí
incontaminata che, in un certo senso, può essere associata alla purezza di
Gesú Cristo. In una qualsiasi interpretazione tradizionale, queste immagini
sono diametralmente opposte e quindi il fatto di fonderle insieme, come fa
Melville, non può che essere significativo.
Le ambiguità sono innumerevoli. Da una parte, viene fuori che il motto
segreto di cui parla Melville nella sua lettera a Hawthorne potrebbe non
essere cosí segreto. Lo stesso capitano Achab – il cacciatore di balene
fanatico, folle e monomaniaco che è al centro del romanzo – pronuncia
una versione di questa formula satanica in un episodio chiave. Quando i
suoi tre ramponieri miscredenti si preparano alla caccia finale, Achab
intona solennemente l’incantesimo sacrilego per tenere a battesimo con il
loro sangue pagano l’arpione che dovrà uccidere la grande balena Moby
Dick.
Tuttavia non si capisce con chiarezza quale sia esattamente il motto
segreto. In un altro scritto, in cui si riferisce esplicitamente alla formula
magica – la lettera a Hawthorne che abbiamo visto prima –, Melville lascia
la frase incompleta: «Ego non baptiso te in nomine…», esordisce
enfaticamente, ma poi rifiuta di dare soddisfazione al suo interlocutore:
«Ma ricavati il resto tu stesso», si limita ad aggiungere. Qual è dunque la
versione completa, se mai ce n’è una, con cui questa frase ci rivela il
segreto del libro? In nome di chi occorre eseguire questa nuova forma di
battesimo?
Anche l’idea di innocenza si presta a fraintendimenti. Melville pensa
forse che l’attrazione anticristiana verso il male, espressa dal libro,
qualunque essa sia, in definitiva non è altro che una forma di salvezza per
la nostra cultura, come quando Gesú, con la sua innocenza, ha promesso la
redenzione ai nostri antenati? Pensa forse che Moby Dick – interpretato
nel modo giusto, ovviamente, secondo il motto segreto – esprime una
nuova forma di speranza, un nuovo tipo di sacro, forse persino una
possibilità salvifica per la cultura in generale?
Una risposta a queste domande si trova in uno dei passaggi forse piú
oscuri del suo penetrante e misterioso romanzo, un passaggio che la
maggior parte degli esegeti ha passato sotto silenzio e che i lettori perlopiú
hanno frainteso. «Se in futuro qualche erudito e poetico popolo», scrive,

richiamerà, allettandoli, ai loro diritti di nascita gli antichi allegri dèi di Calendimaggio
e li rimetterà vivi e veri sul trono del cielo ora tanto egoistico, sulla collina ora deserta;
state certi allora, che, sollevato all’alto seggio di Giove, il grande capodoglio sarà il re 9.

Provate a concentrarvi con attenzione su queste parole.

Moby Dick, naturalmente, è la storia dell’inseguimento della Balena


Bianca. È la storia della ricerca condotta dal folle e monomaniacale
capitano Achab, ma anche da tutti coloro che ha arruolato per il viaggio
della sua baleniera, il Pequod, con base a Nantucket.
Ma la balena assume significati diversi a seconda delle persone.
Probabilmente lo si coglie già dal caotico assortimento di estratti che
costituisce il preludio del libro: estratti presi, come ci viene detto, da un
«laboriosissimo topo e talpa d’un povero diavolo d’un Vice-Vice» 10. Il
disordinato insieme di brani iniziali comprende anche «ogni sparsa
allusione alle balene che ha potuto in qualunque modo trovare in qualsiasi
libro, sacro o profano» 11.
Gli accostamenti alla rinfusa e gli eccentrici collage che si trovano tra
gli Estratti sono in gran parte comici. Quando la descrizione dell’alito della
balena – «è sovente accompagnato da un tale fetore insopportabile che
genera disturbi al cervello» – è seguita da quella, satirica, che Pope fa della
sottana – «a cerchi ed a balene» 12 – a stento si trattiene una risata. E lo
strampalato non sequitur che sembra privo di qualsiasi logica, ogni tanto ci
sorprende per la sua acutezza, come ci sorprenderebbe un evento naturale
inspiegabile. Un brano della Vita di Samuel Comstock dice a chiare lettere:
«“Se voi mi fate, per Satanasso, il piú piccolo rumore”, replicò Samuel, “vi
mando all’inferno”» 13.
Non si capisce bene che cosa abbia a che fare con le balene.
Malgrado la vena umoristica di quasi tutte le citazioni, si ha tuttavia la
sensazione che obbediscano a un disegno di piú ampia portata. Infatti,
anche se non lo dimostrano davvero, suggeriscono gli innumerevoli
significati che è possibile attribuire alla balena. Come dice una vecchia
canzone, la balena è «la Regina del mare» 14, che governa sull’infinito come
Dio. Ma è anche il Leviatano, che nell’antica tradizione almeno, era il
nemico giurato di Dio – noto anche come Satana – come dimostra un
versetto di Isaia 15. La balena ha inghiottito Giona, le sue fauci sono il
regno del caos, ma re Enrico (citato da Melville) ci dice che lo spermaceti
che si trova nella sua testa è «il rimedio sovrano al mondo per una lesione
interna», mentre Lord Bacon scrive che «il grande Leviatan … fa bollire i
mari come pentole» 16.
Ciò che l’autore vuole esprimere in questo contesto, e che sarà
sviluppato in dettaglio nel corso del romanzo, è che la balena è un mistero,
oggetto di significati tanto diversi da culminare nell’insensatezza, cosí
piena di interpretazioni da venire messa in ombra. Ecco le qualità della
grande balena che, come vedremo, suscitano ammirazione pur rimanendo
inafferrabili: il fatto di essere invisibile, il «silenzio da sfinge» che impone,
ma anche l’impressione di trovarsi davanti alla «Divinità e le potenze
tremende piú prepotenti», che si intuisce dalla sua fronte e che viene
amplificata a dismisura: è il mistero che sta al centro dell’universo, che
mai si placa e di cui comunque non troviamo la chiave: «Io non faccio che
mettervela innanzi questa fronte. Voi leggetela, se potete» 17.
Il problema del romanzo, probabilmente il suo problema filosofico di
fondo, non è tanto la natura del mistero, ma anche il modo in cui
comprendiamo noi stessi alla luce di questo mistero. Troviamo
un’indicazione preliminare nei passaggi iniziali del libro.
Ismaele è il nome della voce narrante, o perlomeno il suo pseudonimo.
«Chiamatemi Ismaele», dice il celebre incipit. Alla fine, sarà l’unico
sopravvissuto dello sventurato viaggio del Pequod e, in un certo senso, è
l’eroe del romanzo. È un eroe davvero inconsueto, nell’equipaggio non
riveste un ruolo di rilievo e ha un carattere molto lunatico e ipersensibile,
eppure impareremo ad apprezzare il suo punto di vista. Il romanzo offre
molteplici visioni del mondo e Ismaele, con lo stesso nome del fuoricasta
della Bibbia destinato a una vita peregrina, è un personaggio che non fa
proprie soltanto le bellezze del mondo, ma anche gli orrori: «Non
ignorante di ciò che è bene, sono lesto nel percepire un orrore, ma non per
questo, se ci riesco, gli volto le spalle» 18.
Ismaele ci ricorda lo stesso Melville, il quale, nei numerosi viaggi su
baleniere e fregate e durante il soggiorno di tre settimane tra i cannibali
della valle di Taipi, teneva nella massima considerazione la capacità di
fraternizzare con gli altri popoli – si può addirittura affermare che ne
abbia fatto una professione! Come Melville, Ismaele ha trascorso un certo
periodo della sua vita a capo di una classe «in qualità di maestro di scuola
di campagna, dove i ragazzi piú grandi vi stavano innanzi come al
nume» 19. È un altro spunto biografico il fatto di credere che la vita
vagabonda, senza una casa fissa, sia il miglior modo per affrontare i
problemi – una vita in cui si lasciano le sicurezze della civiltà e ci si apre
alle bellezze e agli orrori del mondo. «Meditare sotto le costellazioni
dell’emisfero sud, mi rende ricettivo a idee nuove», pare abbia detto
Melville, come racconta un commentatore 20.
Ecco Ismaele, quindi: ora ci mettiamo nelle sue mani. Un personaggio
lunatico e socievole come lui, un fuoricasta, un vagabondo senza una casa
può forse raccontarci qualcosa sul mistero della balena? Può dirci come
possiamo capire chi siamo al suo cospetto?
Ismaele è deciso a darsi «alla navigazione e vedere la parte acquea del
mondo» 21 e in tutta questa storia è la sua ipersensibilità a metterlo sulla
strada giusta. Vagare nel mare senza confini, ci spiega, è un modo «di
cacciare la malinconia e di regolare la circolazione»:

Ogni volta che m’accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell’anima
mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di
fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a
tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte
in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto
in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello della gente, allora decido che è
tempo di mettermi in mare al piú presto 22.

La determinazione di Ismaele di partire per mare e il suo istinto di


lottare contro la malinconia che si impossessa di lui sono essenziali per
capire la scena in cui si trova nella Locanda del Baleniere. Un immenso
quadro domina il vestibolo, illuminato fiocamente, ed è «cosí affumicato e
in tutti i modi cancellato» che è molto difficile interpretarlo. È una
«portentosa pittura» che richiede l’attenzione di chi la guarda, ma sembra
resistere a ogni tentativo di interpretazione di piú profondi significati. «Di
tratto in tratto un’idea chiara, ma, ahimè, ingannevole, vi lampeggiava nel
cervello», ci dice Ismaele:

«È il Mar Nero in una burrasca notturna». «È l’innaturale combattimento dei


quattro elementi primordiali». «È una brughiera maledetta». «È una scena invernale
iperborea». «È lo spezzarsi della fiumana agghiacciata del tempo» 23.

O forse, come gli viene in mente in un altro punto, «qualche giovane


artista ambizioso avesse al tempo delle streghe della Nuova Inghilterra
tentato di tracciare il caos maledetto» 24.
Il quadro è il mistero impressionante che sta all’ingresso della Locanda
del Baleniere, «un vasto, basso e irregolare vestibolo» le cui «antiquate
impiallacciature» ricordavano «le murate di un qualche vecchio legno
condannato» 25. Questa vecchia fregata in una taverna, quindi, questo
antico vascello, è il punto da cui inizia la caccia alla balena di Ismaele;
proprio all’esordio, ecco l’insidioso mistero di una rappresentazione
pittorica, un mistero antico, fumoso e assillante, che esige una soluzione e
nello stesso tempo vi si oppone.
Immerso senza volerlo nell’atmosfera sublime di questo quadro
misterioso, Ismaele decide di sondarne le profondità:

Eppure c’era in esso una specie di indefinita, semiraggiunta e inimmaginabile


sublimità, che senz’altro vi ci inchiodava, finché voi involontariamente giuravate a voi
stessi di riuscire a scoprire che cosa significasse quella portentosa pittura 26.

Si può pensare che la gamma potenzialmente infinita dei possibili


significati del quadro alla fine portino Ismaele alla disperazione, che il suo
indecifrabile mistero gli risulti intollerabile. C’è un precedente a questo
genere di reazione – che tuttavia avviene molte generazioni dopo – nella
letteratura della disperazione del XX secolo, che va dal Prufrock di Eliot
fino all’Urlo di Allen Ginsberg e oltre. Lo stesso Achab, come vedremo,
non può sopportare l’idea che tale pensiero possa contagiare il mondo. Ma
Ismaele non è un uomo nervoso come Achab e il suo è un viaggio per
fuggire una malinconia temporanea, non per dilettarsi nella poesia del
viaggio stesso o per pretendere che esso diventi il sollievo eterno della sua
vita. Dopo molte conversazioni con «molte persone d’età», quindi, «a
forza di molte e severe contemplazioni, di meditazioni spesso ripetute»,
alla fine Ismaele è soddisfatto di un’ultima interpretazione del quadro della
Locanda del Baleniere. Forse non si tratta della verità in senso profondo,
riconosce; è soltanto «una mia teoria conclusiva»:

Ma alla fine tutte queste fantasie cedevano a quel portentoso qualcosa nel mezzo
del quadro. Questo, una volta chiarito, tutto il resto sarebbe stato evidente. Ma, fermi:
non ha esso una leggera somiglianza con un pesce gigantesco? Col grande Leviatan in
carne e ossa?
Di fatto, il disegno d’artista pareva questo … Il quadro rappresenta un bastimento
australe in un grande uragano: la nave, a metà sommersa, che rotola con visibili
soltanto i suoi tre alberi sguarniti, e una balena infuriata che si propone di balzare
dritto sul legno, nell’atto immane di impalarsi sulle tre teste d’albero 27.

Una balena allora, trafitta dai tre alberi sguarniti che svettano dalla
nave semiaffondata, viene inghiottita dalle onde in tempesta del mare
senza confini.
Un’interpretazione commovente, che parla dritta al cuore del baleniere.
Si capisce allora perché Ismaele vuol mettere fine a tutto ciò.

«Questa è una lunga lettera», scrisse una volta Melville a Hawthorne,

Ma tu non sei affatto obbligato a rispondere.


Forse, se risponderai, e rivolgerai la risposta a Herman Melville, sbaglierai indirizzo
– poiché le stesse dita che ora guidano questa penna non sono esattamente le stesse
che l’hanno appena presa e posata su questa carta. Signore, quando finiremo di
cambiare 28.
La risposta è: mai. Non finiremo mai di cambiare. E lo stesso vale per
Ismaele e per Melville. Infatti Ismaele, come per il suo creatore sempre
mutevole, è ipersensibile ed è sempre condizionato dai suoi umori. È
l’aquila dei monti Catskill, come suggerisce Melville, un nobile rapace che
può librarsi alle altezze piú vertiginose e inabissarsi nelle gole piú
profonde. In questi voli spiccati a seconda dello stato d’animo scaturiscono
sempre verità e significati di tipo divino. In Ismaele, come nello stesso
Melville, «le magnanimità divine sono spontanee e istantanee – afferrale
finché puoi» 29.
Probabilmente, quindi, se fosse un altro stato d’animo a condurre
Ismaele alla Locanda del Baleniere – uno stato d’animo diverso dal
«novembre umido e piovigginoso» dell’anima – allora avrebbe potuto
appagarlo anche un’altra interpretazione del quadro. Ciò che tuttavia
rende il libro di Melville cosí sorprendente, che con tanta forza risuona
anche nel nostro cuore di moderni, è il fatto che l’umore malinconico di
Ismaele è anche il nostro. La sua determinazione a «cacciare la
malinconia» potrebbe essere benissimo la nostra. Anche se a volte non è
cosí.
Se il significato che troviamo negli avvenimenti della nostra vita, nei
quadri, nelle opere d’arte in generale, nella letteratura oppure nelle balene,
in tutte quelle cose appunto che sono importanti, profonde e vere, se
queste interpretazioni fossero filtrate dai nostri stati d’animo, non sarebbe
forse la dimostrazione del fatto che è impossibile giungere al nocciolo
della questione? In altre parole, non ci sarebbero forse dei dubbi sulla
garanzia e sull’affidabilità di giudizi condizionati da uno stato emotivo?
Per esempio, si pensa che la scienza riveli la verità ultima sul mondo e,
come tutti sanno, il presupposto della scienza è un metodo improntato alla
ricerca, calmo, neutro e meditato.
Melville non la pensa cosí. Quando si giunge agli aspetti piú veri e
vitali dell’esistenza – i misteri che ci coinvolgono tutti: chi siamo, che
cos’è l’universo, qual è il significato della balena –, la ricerca scientifica
neutra è impotente. Lo si vede con chiarezza nel famoso capitolo Cetologia,
in cui Melville ci presenta quella che, secondo lui, è una classificazione
scientifica della balena. La classificazione non promette «nulla di
completo», dice Ismaele, «dato che ogni cosa umana creduta completa
deve per questa stessa ragione essere certo difettosa» 30. Lo stesso vale per
la classificazione della balena: non si tratta di una ricerca oggettiva e
incontrovertibile, né può essere portata a termine o venire considerata
definitiva, proprio perché non può mai essere completa. Come dice
Melville nella conclusione del capitolo:

… è stato detto all’inizio che questa classifica non verrebbe qui e subito portata a
termine. Vedete come ho mantenuta chiaramente la parola. Ma io lascio ora non finito
il mio sistema cetologico, come venne lasciata la grande cattedrale di Colonia con la
grua ancor ritta in cima alla torre incompleta. Poiché sono le costruzioni piccole che
possono venir terminate dai loro primi architetti; le grandiose, le vere lasciano sempre
il soffitto dell’avvenire. Che Dio mi guardi dal completare qualcosa; tutto questo libro è
soltanto l’abbozzo di un abbozzo. Oh! Tempo, Forza, Denaro e Pazienza! 31.

Le verità divine, quindi, fino a quando ancora esisteranno, devono


essere mutevoli e mai davvero definitive. La magnanime manifestazioni
del divino, secondo Melville, sono tali proprio perché spontanee e in
continuo cambiamento; in altre parole, sono divine e vere perché sono
incomplete e mai del tutto terminate e perché vengono rivelate solo da
uno stato d’animo improvviso e fugace. Questa è la ragione per cui
l’aquila dei Catskill, simbolo del cambiamento, vola assai piú in alto degli
altri uccelli. Perché «anche ove essa voli per sempre nel burrone», ci dice
Ismaele, «questo burrone è dei monti, e cosí, nella sua piú bassa discesa,
l’aquila montana è sempre piú in alto che gli uccelli della pianura, anche
quando questi salgono» 32.
Prendere sul serio i nostri stati d’animo – sia la sensazione vertiginosa
di gioia sia la discesa nei piú abissali stati depressivi – e vivere in sintonia
con essi, come fa il malinconico Ismaele, significa essere aperti alle verità
molteplici che ci rivelano. Si tratta di verità non risolutive e permanenti
che non hanno una forma definitiva piú di quanto non ne abbia il mistero
della balena. È tuttavia proprio in virtú della loro incompletezza che sono
divine e autentiche.

Ismaele prende sul serio la sua instabilità emotiva e permette a se


stesso di entrare in contatto con modalità di esistenza radicalmente
diverse dalla propria. Prendiamo l’esempio di Quiqueg.
Quiqueg si ricordava di aver sofferto una volta sola di indigestione. Era
stata un’occasione memorabile. Una grande battaglia condotta con
successo: il re suo padre aveva perfino organizzato un sontuoso banchetto.
«Cinquanta nemici erano stati uccisi verso le due del pomeriggio e tutti
cotti e mangiati la sera stessa» 33.
Quiqueg è il cannibale Kokovokan dai colori dell’arcobaleno con il
quale Ismaele è costretto a dividere la stanza – e quindi il letto – durante
la sua prima notte alla Locanda del Baleniere. È appena ritornato da una
lunga giornata trascorsa a portare in giro teste umane raggrinzite, uno
spettacolo davvero terrificante. Il suo corpo è «tutto tatuato d’un
interminabile labirinto cretese, non due tratti del quale erano della stessa
sfumatura» 34; il braccio «pareva in tutto simile a un lembo di quella stessa
trapunta variopinta» 35; la «testa calva e rossastra» 36 e i tatuaggi sul viso
erano cosí intensamente colorati, che le loro sfumature erano «come il
versante occidentale delle Ande» e parevano «riunire in una sola veduta
zone dai climi contrastanti» 37.
Malgrado questo sfortunato inizio, e malgrado un primo incontro
guastato da un malinteso sfociato poi in un battibecco riguardante
un’inopportuna «accetta tra i denti» 38, Ismaele e Quiqueg diventano amici
per la pelle. «Meglio dormire con un cannibale saggio che con un cristiano
ubriaco», confessa il nostro eroe. Quando Ismaele si sveglia la mattina
seguente, trova il braccio variopinto di Quiqueg sopra di lui,
«nell’amplesso piú amorevole e affettuoso». «Si sarebbe potuto pensare
che fossi sua moglie» 39.
Ramponiere pagano della miglior razza, Quiqueg sarà ramponiere capo
sulla nave del capitano Achab. La sua mancanza di carità cristiana è molto
apprezzata tra i vecchi armatori quaccheri del Pequod. «I ramponieri
bigotti non sono mai stati buoni cacciatori», dice uno di loro, «nessun
ramponiere vale una cicca» 40. È con il sangue pagano di Quiqueg che
Achab, perversamente, battezza l’arpione destinato a Moby Dick.
Non c’è dubbio che, ai lettori di Moby Dick della metà dell’Ottocento,
Quiqueg sarà sicuramente sembrato il peggio del peggio di questa terra;
per loro, il fatto che Ismaele si sentisse socialmente appagato nel trovarsi
in sua compagnia non poteva essere che qualcosa di malefico. L’adagio
anticolonialista, secondo cui abbiamo piú da imparare noi dai pagani
cannibali che loro da noi, all’epoca sicuramente suonava perverso, una
perversione simbolizzata dal modo in cui si veste Quiqueg: prima è nudo
come un verme con indosso il suo enorme berretto di castoro, poi viene
colto in un sorprendente gesto di pudore nascondendosi sotto il copriletto
per calzare gli stivali e, solo alla fine, dopo molti imploranti ammonimenti
da parte del suo compagno e dopo essersi dondolato in modo indecoroso
davanti alla finestra aperta, pone fine alla sua indecenza rientrando nei
pantaloni 41. La maggior parte dei lettori vittoriani probabilmente non
colse la lampante allusione erotica dell’intero episodio con Quiqueg, ma a
livello inconscio sicuramente contribuí alla fama di perversione e di
perfidia del libro. Come potete immaginare, è pane per i denti della critica
postmoderna e psicoanalitica di oggi 42.
Alla fin fine è possibile che sia questa l’attrazione verso il male al
centro del libro di Melville. Forse, in altre parole, la forza che guida l’arte
maledetta di Melville sta nella proposta assurda che potremmo preferire la
compagnia di un pagano cannibale piuttosto che di un nostro vicino
cristiano, o addirittura che potremmo abbracciare il cannibalismo pagano
al posto del cristianesimo.
In questa suggestione c’è sicuramente qualcosa di vero. Quiqueg,
dopotutto, dimostra un profondo e serio scetticismo nei confronti della
vita cristiana. Ha intrapreso la caccia alle balene per imparare le basi del
cristianesimo, nella speranza che, praticando questa religione, potesse
aiutare il suo popolo a essere piú felice, e migliore. Dopo aver dimostrato
in materia la massima diligenza, tuttavia, decide che il cristianesimo non
fa altro che peggiorare le cose. «Ahimè», dice Ismaele:

Le maniere dei balenieri lo convinsero presto che anche i cristiani potevano essere
miserabili e malvagi, infinitamente di piú che non tutti i pagani di suo padre … Il
mondo è brutto sotto tutti i meridiani, e morirò pagano 43.

Quiqueg in realtà si preoccupa soprattutto che il suo bazzicare il


cristianesimo, e in particolare i cristiani, lo abbia in un qualche modo
contaminato, che lo abbia reso inadatto a far ritorno alla purezza pagana
della sua terra natia del Kokovoko:

A cenni gli chiesi se non si proponeva di tornare e di farsi incoronare, dato che
poteva considerare suo padre come ormai morto e sepolto, essendo questi già
vecchissimo e debole al tempo delle ultime notizie. Egli rispose no, non ancora; e
aggiunse che temeva che il Cristianesimo, o piuttosto i cristiani, l’avessero reso
indegno di salire al trono puro e immacolato dei trenta re pagani che l’avevano
preceduto 44.

Ismaele ci suggerisce che la vita di Quiqueg non soltanto è meglio di


quella cristiana – come se bastasse superare questo stadio, in realtà molto
basso, per combinare qualcosa –, ma che, perfino in senso assoluto, egli è
degno della massima ammirazione e spiritualmente molto ricco. Per
esempio, a un certo punto, quando Quiqueg si ammala e rischia di morire,
Ismaele ammira la «sanità immortale» che irradia dal suo sguardo:

Come deperí e deperí in quei pochi lentissimi giorni, finché non parve restar di lui
molto piú dello scheletro e dei tatuaggi! Ma mentre tutto il resto in lui s’assottigliava e
le mascelle s’affilavano, gli occhi nondimeno parevano crescere sempre piú grandi,
acquistavano una strana morbidezza di splendore e vi guardavano dolci, ma profondi,
dal seno del male: meravigliosa testimonianza di quella sanità immortale che non
poteva in lui morire né affievolirsi 45.

Anche se Melville vede in Quiqueg qualità degne di nota, non auspica


un ritorno agli usi e costumi pagani e precristiani del suo popolo. Come
riuscirci, dopo duemila anni di cristianesimo? Sembra piuttosto che
Quiqueg e Ismaele si pongano come due pietre miliari della storia
dell’Occidente, uno dei quali (Quiqueg) indica il periodo di transizione che
porta al cristianesimo, l’altro invece (Ismaele) quello che tenta di uscirne 46.
E anche se Quiqueg non muore prima della lotta finale con la balena, non
riuscirà a uscire superstite da questo confronto. La sua esistenza
precristiana pagana non rappresenta quindi la strada giusta.
Anche se c’è quello che potremmo definire un tocco malefico nel modo
in cui Melville dipinge l’esistenza pagana di Quiqueg – e nell’amicizia di
Ismaele per lui, piena di ammirazione – non è qui, ma altrove nel libro, che
possiamo trovare un approccio malefico veramente profondo.

Il fatto che Ismaele si compiaccia del suo modo di interpretare il quadro


all’ingresso della Locanda del Baleniere riflette la soddisfazione che lo
stesso Melville prova per il suo romanzo maledetto. «Non c’è nessuna
speranza in esso», scrisse, «nessuna disperazione. Appagamento – ecco
cos’è». La descrizione è ottima, in ogni caso è un’interpretazione sensata
delle cose come sono. Ma se non vi è speranza che ci sia qualcosa di piú di
quel che c’è, non ha senso aspirare avidamente a una verità ultima,
definitiva; e non c’è neppure disperazione al pensiero che non la si troverà
mai. È tramontato il concetto medievale di un fondamento certo e
definitivo – di Dio come fonte ultima di ogni cosa. Come dice Ismaele: «Mi
sono accorto che, in ogni caso, l’uomo deve ultimamente abbassare o
almeno mutare la sua idea della felicità raggiungibile» 47.
Il capitano Achab non è capace di fare una svolta di questo genere.
Probabilmente, in un modo o nell’altro, era un uomo tormentato, al quale
premevano molto le questioni d’ordine religioso. Ci sono riferimenti
misteriosi, che rimangono senza spiegazione, a un episodio avvenuto
molto tempo prima a largo di Capo Horn, quando «stette come un morto
per tre giorni e tre notti», una connotazione temporale con chiari
significati biblici. C’è anche il «combattimento mortale» scatenatosi con
uno spagnolo, probabilmente cattolico, uno scontro che ha avuto luogo
«davanti all’altare a Santa». E c’è la fiaschetta d’argento a forma di zucca
dentro cui sputa – un misterioso riferimento che rimane privo di
spiegazioni 48. Potrebbe forse essere il calice – la fiaschetta – che racchiude
l’Eucarestia della Chiesa cattolica? Quest’affronto al Dio cattolico potrebbe
essere stato originato, come atto provocatorio, proprio dalla rissa con lo
spagnolo? Tutte queste allusioni sono colme di significati religiosi, ma i
dettagli verranno taciuti per sempre.
Quali fossero i tormenti che da tempo rodevano il capitano Achab,
sicuramente si incentrano sul suo viaggio precedente, quando la grande
Balena Bianca gli lacerò la gamba con un morso. Da questo momento in
poi, la balena diventa il suo vero torturatore. La fissazione di Achab, il suo
«odio inestinguibile» 49, consiste nel volere a tutti i costi un confronto –
faccia a faccia – con quella «cosa imperscrutabile» 50 per guardare al di là
della sua imperscrutabilità e scoprire se l’attacco della balena era
veramente dettato da una studiata malvagità o se, invece, il cetaceo era
semplicemente un bestione muto e senza significato. In un passaggio
degno di nota, Achab espone il quadro metafisico dell’universo che è alla
base del suo odio: ogni azione, ogni oggetto e ogni avvenimento nel
mondo contengono una verità profonda dietro alla superficie, e lo scopo
principale dell’uomo è scoprire queste ultime verità eterne:

… ma in ogni evento, nell’atto vivo, nell’azione indubitata, qualcosa di sconosciuto, ma


sempre ragionevole, sporge le sue fattezze sotto la maschera bruta. E se l’uomo vuol
colpire, colpisca sulla maschera! Come può il prigioniero arrivar fuori se non si caccia
attraverso il muro? Per me la Balena Bianca è questo muro, che mi è stato spinto
accanto. Talvolta penso che di là non ci sia nulla. Ma mi basta. Essa mi occupa, mi
sovraccarica: io vedo in lei una forza atroce innerbata da una malizia imperscrutabile.
Questa cosa imperscrutabile è ciò che odio soprattutto: e sia la Balena Bianca il
dipendente o sia il principale, io sfogherò questo mio odio. Non parlarmi di empietà,
marinaio: colpirei il sole, se mi facesse offesa 51.

Ci troviamo di fronte a un uomo il cui massimo desiderio è trovare il


tipo di certezza che si ottiene grazie a una verità ultima. Piú avanti, nel
libro, parlando con il carpentiere della nave, Achab afferra una morsa dal
suo laboratorio e se la stringe intorno alle dita. «Oh! Signore, rompe le
ossa. State attento, attento!» grida l’attonito carpentiere. «Non temere; mi
piace una buona stretta; mi piace sentire in questo mondo viscido qualcosa
che sappia far presa, marinaio» 52. E cosí fa. Non ci sarà felicità per Achab
finché la maschera di cartone senza volto non gli rivelerà il segreto finale e
definitivo, che, ne è certo, deve rimanere nascosto. L’appagamento, se mai
Achab riuscirà a ottenerlo, non sarà il risultato di una diminuzione del suo
orgoglio.

C’è qualcosa di ammirevole nella caccia di Achab. Ci rammenta quelle


gloriose scene di tenace determinazione tipiche della storia americana,
immortalate in motti come «Non sparate finché non vedrete il bianco degli
occhi del nemico!» 53 oppure «Forza, vincine una per il Gipper» 54. Sono la
grandiosità dell’obiettivo e la forza di volontà che mantengono vivo un
«odio inestinguibile», a dispetto delle circostanze. Non si tratta neppure
della determinazione dell’individuo, ma della capacità di fare da guida, di
portare gli altri nella propria direzione, di riunire le truppe per la buona
causa. Achab, sugli altri, ha un effetto di questo tipo; perfino il lunatico
Ismaele si lascia affascinare dal suo incantesimo:

Io, Ismaele, ero uno di quest’equipaggio: le mie grida s’erano levate con quelle degli
altri, il mio giuramento s’era confuso col loro, e, piú forte gridavo, piú ribadivo e
allacciavo questo giuramento, per il terrore che sentivo nell’anima. Un mistico,
sfrenato sentimento di simpatia era in me; l’odio inestinguibile di Achab pareva fatto
mio. Con avide orecchie ascoltai la storia del mostro assassino contro il quale io e tutti
gli altri avevamo prestato giuramento di violenza e di vendetta 55.

Ma se c’è qualcosa di ammirevole in Achab, se suscita la nostra


simpatia e ci induce a schierarci dalla sua parte, forse è perché si trova qui
la vera malvagità del libro. Infatti, tradizionalmente, i critici di Melville
vedono nel determinato e persuasivo capitano Achab un riflesso del
Satana che possiamo trovare nel Paradiso perduto di Milton. La critica vede
in Melville un talento degno di Milton, una capacità di manifestare
«un’inconscia simpatia per il diavolo» 56. Cinquant’anni fa, per esempio,
Henry A. Murray sostenne che «il Satana di Melville è l’immagine
speculare dell’eroe di Milton… il ribelle ferito, appassionato, indignato e
spesso loquace del Paradiso perduto, il cui ruolo è impersonato da
Achab» 57. Con questa interpretazione, il Moby Dick di Melville prende il
posto del Dio di Milton e la battaglia fiera e appassionata di Achab contro
di lui lo eleva al rango di capo degli angeli ribelli. Se mai abbiamo una
certa simpatia per Achab, allora siamo in combutta anche con il diavolo.
Questa chiave di lettura assume una forza ancora maggiore
interpretando alcuni dei numerosi riferimenti biblici di Moby Dick. Il nome
stesso del capitano Achab, per esempio, si riferisce al re di Israele dal Libro
dei Re dell’Antico Testamento. Marito della scellerata Gezabele, rimarrà
nella storia come il piú malvagio dei sovrani che lo hanno preceduto 58. Il
profeta Elia previde la morte dell’Achab biblico, vedendo il seme della sua
rovina nel comportamento violento e ribelle che aveva contro Dio. Anche
Melville ci presenta un equivalente di Elia, un vecchio marinaio che porta
lo stesso nome e che profetizza che il capitano Achab, ormai, è al di là di
ogni possibile redenzione. «Sentite, quando il capitano Achab sarà dritto»,
dice Elia, «allora sarà dritto anche il mio braccio sinistro, non prima» 59. Il
braccio sinistro naturalmente è quello «sinistro», nel senso di minaccioso,
malvagio. Quando la sinistra sarà destra, in altre parole, quando il male
prenderà il posto del bene, anche la «malattia» di Achab finirà.
C’è qualcosa di molto suggestivo in questi paragoni e concordiamo con
le interpretazioni tradizionali, secondo cui, in un certo senso, Achab è
malefico. Ma crediamo che la sua malvagità non sia la stessa del Satana di
Milton, non fosse altro che Moby Dick non è il Dio di Milton. La forza
malefica di Achab, in un certo senso, è l’opposto di quella di Lucifero,
poiché consiste non nella sua ribellione contro Dio, ma nella
determinazione a cercare se esiste un Dio contro cui ribellarsi. La caccia
intrapresa da Achab contro Moby Dick non è altro che la ricerca
monomaniacale di una verità ultima e definitiva sulla realtà delle cose. «E
se l’uomo vuol colpire, colpisca sulla maschera!» Ma nel mondo di
Melville non ci sono tali verità ultime; dietro la maschera che non ragiona
non c’è un essere che ragiona. La determinazione di Achab a trovare un
fondamento di questo tipo: ecco il nucleo malefico del suo monoteismo
monomaniacale.
Quindi, possiamo capire meglio la malvagità propriamente detta del
libro di Melville quando ne vediamo questo suo capovolgimento. Ciò che
Achab odia di piú è l’idea che l’universo possa essere imperscrutabile fino
all’ultimo; che alla fine possa non esserci «nulla». Si aggrappa quindi
disperatamente e appassionatamente all’idea che esista una verità ultima,
definitiva e universale; in altre parole, che esista una forma tradizionale di
Dio monoteistico. Questa passione mal indirizzata per il monoteismo, ci
rivela il libro, è del tipo piú pericoloso e terribile. L’attrazione per la
malvagità in Melville si ritrova nel modo in cui descrive il monoteismo
monomaniaco di Achab, in quanto incarnazione dell’abominio.
In contrasto con questo aspetto malefico, l’innocenza del libro consiste
nell’alternativa politeistica che propone. Per riuscire a capirla meglio,
analizzeremo con maggiore attenzione la balena, e infine la straordinaria
bianchezza di Moby Dick.

Abbiamo già visto che la balena è un mistero, che le si può attribuire


una gamma senza fine di significati e che, in ultima analisi, non può venire
rappresentata. Lo si intuisce già dai brani che si trovano tra gli Estratti
all’inizio del libro e viene poi ribadito quando Melville affronta la
discussione sul quadro della misteriosa balena alla Locanda del Baleniere.
Il capitolo sulla cetologia rincara la dose, poiché cosí sintetizza: ciò che
vale ed è portatore di verità non potrà mai trovare una forma definitiva. Se
tuttavia la balena è Dio, si tratta allora di un Dio politeistico e il suo è un
mondo di significati e di verità molteplici. Osserviamo la distinzione
straordinaria che fa Melville tra la balena e il Dio biblico.
Per tradizione, il Dio ebraico rifiuta di mostrare il suo volto. Quando
Mosè chiede a Dio di mostrare la sua gloria, il Signore risponde:

… farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il tuo nome, Signore,
davanti a te. A chi vorrò far grazia e di chi vorrò aver misericordia, avrò misericordia.
Soggiunse, ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e
restare vivo [Es 33.18-20].

Nel momento in cui propone la balena come nuovo tipo di Dio, Melville
sta evidentemente pensando alla tradizione ebraica e intende andare oltre
la concezione della Bibbia. Il potere sacro e straordinario della Balena
Bianca di Melville non consiste nel fatto che non mostra il suo volto
all’uomo, ma addirittura che non ha affatto un volto:

Ma nel grande capodoglio quest’eccelsa e poderosa dignità divina inerente alla


fronte è tanto immensamente ampliata che, contemplandolo bene in faccia, voi sentite
qui la Divinità e le potenze tremende piú prepotenti che alla vista di qualunque altro
oggetto della natura vivente. Poiché non vedete nessun punto preciso, non vi rivela
nessun tratto distinto, né naso né occhi né orecchie né bocca; non la faccia (non ne ha
nessuna, il capodoglio, che sia tale), nulla, tranne quel vasto firmamento della fronte,
pieghettato di enigmi… 60.

Dire che la balena non ha volto significa oltrepassare qualsiasi tipo


tradizionale di misticismo religioso. Il problema non è che il suo volto
incute troppo timore per poterlo guardare o è troppo complesso per
poterlo capire. E neppure che supera i limiti della nostra capacità di
capirlo. Il Dio di Melville, piuttosto, e quindi l’intero suo universo, è privo
di una verità nascosta. Il suo volto non è nascosto dietro una maschera di
cartone. Esiste solo la maschera – la pelle, la fronte corrugata.
Al centro del modo di interpretare la balena in Melville, c’è l’idea che
non esiste un significato dell’universo nascosto dietro agli avvenimenti
che hanno luogo in superficie: sono invece gli stessi avvenimenti –
contraddittori, misteriosi e molteplici – a costituire il significato. In un
capitolo successivo, Ismaele dice: «Per analizzarla che io faccia, quindi,
non posso andare oltre la pelle» 61 e la sua straordinaria forza sta nel fatto
che è in grado di vivere con questi significati superficiali e di trovarvi gioie
e consolazioni autentiche, senza desiderare che rappresentino qualcosa di
piú. Questo è ciò che intende con «abbassare o almeno mutare la sua idea
della felicità raggiungibile»: «… non collocandola in qualche regione
dell’intelletto e della fantasia, ma nella moglie, nel cuore, nel letto, nella
tavola, nella sella, nel focolare e nella patria» 62.
Questa capacità di vivere in superficie, di dare agli avvenimenti della
vita quotidiana il significato che offrono sul momento, invece di cercarvi
uno scopo recondito, di trovare gioia e felicità in ciò che già esiste, ha
raggiunto la sua massima espressione nell’epoca precristiana – anzi, non
tanto il periodo storico precristiano, ma quello prebuddhista, preplatonico,
preinduista e preconfuciano.

Sin dalla pubblicazione, nel 1949, del libro di Karl Jaspers Origine e
senso della storia, gli storici e i sociologi hanno sottolineato la svolta
interculturale verificatasi nel primo millennio a.C. e definita da Jaspers
«rivoluzione assiale» 63. Questa rivoluzione, con la filosofia metafisica di
Platone, il concetto di Nirvana del Buddha e le diverse concezioni sulla
Vita eterna, aveva familiarizzato gli uomini con l’idea che esiste un Bene
al di là di quanto si trova nelle loro imprese; che esiste, cioè, un bene
trascendente che ha la stessa natura del divino.
Come scrive Charles Taylor:
Dopo la rivoluzione assiale il divino è stato tendenzialmente collocato dalla parte
del sommo bene, il quale peraltro aveva subito a sua volta una ridefinizione ed era
concepito ora come qualcosa che oltrepassa l’ordinaria prosperità umana: il Nirvana, la
Vita eterna 64.

La balena senza volto di Melville ci incoraggia a opporre resistenza


proprio a quest’idea «dell’andare oltre». Invece di cercare una cosa dotata
di senso dietro alla maschera, come insiste Achab, Ismaele pensa che
dobbiamo alimentare gli stati emotivi della vita quotidiana per i significati
che già ci offrono ­– l’emozione trovata nella moglie, nel cuore, nel letto,
nella tavola, nella sella, nel focolare e nella patria e in tutto ciò che
possiamo imparare o scoprire. Come sottolinea Nietzsche, questo tipo di
vita aveva trovato il massimo splendore nell’atmosfera piena di stupore
tipica dell’età preassiale dei tempi di Omero:

Oh questi Greci! Loro sí sapevano vivere; per vivere occorre arrestarsi


animosamente alla superficie, all’increspatura, alla pelle, adorare la parvenza, credere a
forme, suoni, parole, all’intero Olimpo della parvenza! Questi Greci erano superficiali
– per profondità! 65.

La profondità di una vita condotta per cosí dire in superficie si coglie


non solo se si ha la capacità di trovare un significato genuino per esempio
nei rituali della tavola famigliare, oppure come Elena nelle delizie erotiche
suggerite da Afrodite. Consiste anche nella capacità di vivere nelle
contraddizioni che questi significati presentano. La splendente Elena forse
ne costituisce l’esempio piú estremo, come abbiamo visto: dapprima,
ispirata da Afrodite, fugge con Paride, il bell’ospite pieno di fascino, poi fa
felicemente ritorno alla confortevole vita domestica, sotto la protezione di
Era e lo sguardo benevolo del marito Menelao. Pur tra tutte le possibili
contraddizioni, o forse addirittura grazie a esse, Menelao e persino Omero
tessono le sue lodi.
Anche Ismaele è pieno di contraddizioni, che tuttavia si giocano su un
piano piú squisitamente religioso. Ismaele, per esempio, passa senza
scomporsi dalla gioia che gli provoca l’energico sermone presbiteriano di
padre Mapple alle meraviglie degli strani riti idolatri di Quiqueg. Padre
Mapple, un tempo cacciatore di balene, è diventato ministro della Chiesa e
predica nella Cappella del Baleniere, in fondo alla strada che conduce alla
Locanda del Baleniere. Quando Ismaele, una domenica, entra in chiesa
prima di imbarcarsi sul Pequod, il sermone di Mapple si concentra
(naturalmente) sulla storia biblica di Giona e la balena. A differenza di
Quiqueg, che sgattaiola fuori dalla chiesa prima della benedizione, Ismaele
rimane per tutto il sermone, pensando che ci sia qualcosa di valido nella
concezione presbiteriana dell’universo adottata da Mapple. «Mostrò negli
occhi un grande giubilo» 66, dice alla fine (forse Quiqueg, nel suo totale
rifiuto del cristianesimo, non è in grado di apprezzare questa gioia o
neppure di individuarla). Se lo scopo di Ismaele è quello di scacciare «un
novembre umido e piovigginoso» dalla sua anima, forse questo tipo
spontaneo di gioia cristiana può aiutarlo. Nell’interpretazione di Mapple,
tuttavia, c’è qualcosa che Ismaele non accetta. Infatti il vero obiettivo del
prete non è solo la gioia terrena, ma la somma estasi della delizia
paradisiaca. «Gioia, gioia fino all’alberetto, per colui che non riconosce
legge né signore, se non il Signore suo Dio ed è patriota soltanto del
cielo» 67. Il comportamento successivo di Ismaele contrasta con questo
atteggiamento, cioè il rifiuto delle gioie dell’esistenza quotidiana collettiva
e di tutte le religioni diverse dal cristianesimo – un’idea pervasiva secondo
la quale il Dio cristiano non tollera altre credenze e la gioia cristiana è la
perfetta beatitudine. Infatti, dopo aver lasciato la cappella dove si teneva il
sermone di padre Mapple, Ismaele ritorna alla Locanda del Baleniere per
unirsi al rito idolatrico di Quiqueg.
Il fatto di passare da un rito all’altro indubbiamente disattende il
concetto tradizionale di cristianesimo. Ismaele, tuttavia, che è «un buon
cristiano, nato e cresciuto nel seno dell’infallibile Chiesa Presbiteriana» 68,
offre un esempio eccellente di argomentazione cristiana in conflitto con la
visione rigida e totalizzante del cristianesimo. Con questa argomentazione,
si convince di fermarsi alla superficie e di partecipare al rito di Quiqueg. Il
suo ragionamento si dipana pressappoco cosí:
1. Compiere atti di devozione significa fare la volontà di Dio.
2. La volontà di Dio significa fare agli altri quello che vorresti che
facessero a te.
3. Desidero che Quiqueg si unisca a me nella mia forma di culto
(presbiteriano).

«Di conseguenza, io devo associarmi con lui nella sua [forma di


adorazione]: ergo, devo farmi idolatra» 69.

Questo ragionamento, se preso sul serio, si oppone all’atteggiamento


totalizzante, ripiegato su se stesso e chiuso al mondo, tipico del
cristianesimo fondamentalista di Mapple. Ma contraddice il rifiuto
categorico del cristianesimo da parte di Quiqueg. Secondo questa
concezione, il cristianesimo, nella sua essenza, richiede l’apertura verso gli
altri e la condivisione – anche la disponibilità verso culti diversi (non
cristiani). Il cristianesimo, in altre parole, richiede di nutrire «il piú grande
rispetto verso gli obblighi religiosi di chiunque» 70, e addirittura
condividerli. La critica implicita è che il cristianesimo è fuori strada, non a
causa del suo fervore religioso di base, ma piuttosto per il suo approccio
totalizzante. Se si considera l’unica vera fede, se pretende di essere la
verità assoluta, unica e trascendente, allora porta all’isolamento e alla
perdita di contatto con la collettività. Infatti, nella sua ricerca di una
divinità trascendente, rinuncia ai beni collettivi e molteplici che si trovano
già su questa terra.
La concezione politeistica di Ismaele è alimentata dai riti collettivi della
vita quotidiana, per quanto contraddittori, polisemici e pluralistici, nei
quali trova quel significato che scaccia dalla sua anima il novembre umido
e piovigginoso. Nel celebre capitolo intitolato Una spremuta delle mani, il
fenomeno è ancora piú evidente. A questo punto abbastanza avanzato
della storia, il Pequod si è ormai organizzato per uccidere la balena. La
balena era un capodoglio, cosí chiamata per la sostanza bianca simile alla
cera che si trova nella sua testa e che in un primo tempo era stata
scambiata per sperma o seme. Si trattava di una sostanza molto preziosa,
che veniva estratta dalla balena perché serviva alla fabbricazione delle
candele di cera e anche alla produzione di oli, dolcificanti, unguenti e
altro. Nel capitolo in questione, lo spermaceti è stato raccolto in una
grossa vasca da bagno, dove ha formato dei cristalli bianchi molto
luminosi, duri ma oleosi al contatto. Con molti altri marinai, Ismaele ha il
compito di «spremere questi massi per farli ritornare fluidi» 71. In questa
sua mansione, a volte Ismaele involontariamente spreme le mani dei suoi
aiutanti. La descrizione che Ismaele ci fa di quest’esperienza collettiva,
amichevole e calorosa corrisponde a quanto pensa Melville dell’agape,
l’amore cristiano per gli altri. In quello che avrebbe potuto essere un
compito squallido e tedioso, Ismaele immagina di ritrovare la gioia
cristiana:

Spremere! spremere! spremere! Per tutta la mattina: spremetti quello spermaceti,


finché mi prese una strana sorta d’insania e mi accorsi di spremere inconsciamente in
esso le mani dei colleghi scambiandole per i globuli leggeri. Un cosí traboccante,
affettuoso, amichevole e appassionato sentimento sorgeva da quest’occupazione che,
alla fine, io spremevo loro continuamente le mani e li guardavo negli occhi commosso,
quasi a dire: «Oh! miei diletti compagni di vita, perché continueremo ancora a nutrire
rancori sociali o a sentire il piú leggero malumore di invidia? Su, spremiamoci le mani
in circolo e anzi, spremiamoci l’uno nell’altro: spremiamoci universalmente nel latte e
spermaceti del buon volere» 72.

In questa mansione collettiva e di collaborazione, Ismaele prova un


«traboccante, affettuoso, amichevole e appassionato sentimento», che
corrisponde in tutta evidenza a una sua idea di agape. Perché non ci siano
possibili dubbi, ci racconta questa sua emozione terrena, suscitata da un
rito collettivo compiuto insieme ad altre persone, che secondo lui è il tipo
di sentimento che provano gli angeli in Paradiso:

Ch’io potessi continuare a spremere quello spermaceti per sempre! … Nei pensieri
delle visioni notturne ho veduto in paradiso lunghe schiere d’angeli, ognuno con le
mani in una giara di spermaceti 73.

La sua posizione, quindi, non è tanto un rifiuto del cristianesimo


quanto un modo di appropriarsene. Nella concezione di Ismaele, la gioia
cristiana che possiamo avere il privilegio di provare è già intorno a noi, se
soltanto vi facessimo attenzione. È «nella moglie, nel cuore, nel letto, nella
tavola, nella sella, nel focolare e nella patria». Tutte queste situazioni,
presumibilmente, sono quelle in cui ritroviamo «un traboccante,
affettuoso, amichevole e appassionato sentimento», come quello che ha
provato nel suo compito di spremere lo spermaceti con i compagni di
lavoro: lo stesso tipo di gioia che provano gli angeli in Paradiso. Questa
gioia cristiana, tuttavia, a noi rimane nascosta perché cerchiamo di
guardare oltre, alla ricerca di qualcosa di piú profondo. Tutt’intorno a noi
invece c’è gioia, quel genere di gioia promessa dalla fede cristiana secondo
la concezione di Ismaele: l’unica cosa che dobbiamo fare è prestarvi
attenzione. Quindi, per quanto riguarda la nostra idea di felicità
raggiungibile, è necessario abbassare il livello delle aspettative, o
perlomeno modificarlo. Il monoteismo intransigente di Achab ci occulta le
gioie concrete e politeistiche che sono sempre esistite sulla terra. Se
saprete riconoscere la gioia intorno a voi, anche solo occasionalmente,
capirete che si tratta di un’emozione che già possedete nel qui e ora. Non
per sempre e non sempre. Tuttavia, sarete in grado di apprezzarla quando
si presenterà l’opportunità.
In questi termini, possiamo comprendere la strana profezia di Melville,
la sua esortazione a guardare indietro agli dèi dell’antichità. Il mondo che
vuole rappresentare è quello di Achab, concepito come un insieme di
significati profondi che possiamo tentare di penetrare con l’ostinazione
della volontà. Achab concilia in sé la teoria di Kant, che vede l’uomo come
Io autonomo, e quella di Dante, con la sua speranza religiosa di un’estasi
eterna. Queste due concezioni, già impraticabili di per sé, combinate
insieme rappresentano il peggior esempio di malvagità. Sono responsabili
del «cielo ora tanto egoistico» sotto cui viviamo e della conseguente
incapacità di ammettere un significato che vada oltre ciò che è in grado di
compiere la nostra volontà autonoma. Spiegano il modo in cui abbiamo
scacciato gli dèi dalla terra, lasciando soltanto la «collina ora deserta».
Sarà necessario l’avvento di un «qualche erudito e poetico popolo» capace
di richiamare «gli allegri dèi del Calendimaggio» 74: un paese costituito da
un popolo in grado di trovare un significato nei rituali della vita
quotidiana. Il significato è irrappresentabile, nel senso che non cela nulla
di piú profondo, pur indicandoci una strada capace di portarci oltre. Ecco
perché la grande Balena Bianca prenderà il posto di Zeus nel futuro
pantheon. Lo straordinario mistero del suo volto vuoto e non
rappresentabile fa di ogni rito correttamente compiuto un’occasione di
giubilo, gioia e significato, grazie a cui si allontana il novembre umido e
piovigginoso dell’anima.

Moby Dick non è soltanto una balena. I marinai la riconoscono


immediatamente dalle sue caratteristiche: il modo in cui ondeggia la coda,
lo strano zampillo che è in grado di sprigionare, la quantità di arpioni
rimasti conficcati sul suo dorso. Tuttavia, ciò che piú colpisce in Moby
Dick è il fatto che si tratta di una balena completamente e assolutamente
bianca. Si differenzia in modo inequivocabile dalle altre balene e diventa il
paradigma dei paradigmi, la regina delle «Regine del mare». È la sua
bianchezza che Ismaele trova sorprendente, ma anche essenziale:

Era la bianchezza della balena che sopra ogni cosa mi atterriva. Ma come posso
sperare di spiegarmi qui? Eppure, in qualche modo oscuro e approssimativo devo
spiegarmi, altrimenti tutti questi capitoli potrebbero riuscire in nulla 75.
Il capitolo sulla bianchezza della balena, assai impervio e spesso non
letto, costituisce un tentativo di spiegare la caratteristica fondamentale di
Moby Dick. È composto quasi esclusivamente da citazioni ed esempi che
illustrano l’immensa varietà di significati che il colore bianco riveste nella
nostra cultura. Dopo una pagina fitta di esempi che dimostrano il modo in
cui la bianchezza «accresca raffinatamente la bellezza, quasi le impartisse
una sua speciale virtú» 76, Melville conclude che la sua caratteristica
principale è lo sbigottimento che provoca:

… malgrado tutte queste accumulate associazioni con tutto ciò che è dolce e venerabile
e sublime, sempre cova nell’intima idea di questo colore qualcosa di elusivo che incute
piú panico dell’anima di quel rosso che atterrisce nel sangue 77.

Melville continua per parecchie pagine a fornirci esempi delle


terrificanti associazioni che il colore bianco ci evoca. Dal destriero bianco
delle praterie al pallore dei morti, dall’orso bianco del Polo allo squalo
bianco dei Tropici, il colore bianco ha la capacità di diventare «un
indicibile spavento per la nave» e di accrescere «questo terrore fino
all’estremo limite». La domanda è perché a essere terrificante è il bianco in
se stesso – non la bianchezza dell’orso polare o dello squalo o del cadavere
o del destriero imbizzarrito o addirittura della balena, ma il bianco come
colore. La sorprendente risposta ci aiuta a comprendere il ruolo particolare
del male nel mondo di Melville.
Per Ismaele è fondamentale che lo sgomento che prova sia appunto una
reazione al colore bianco. È cosciente che gli altri lo troveranno strano, ma
è convinto di aver scoperto una verità profonda sulla natura dell’universo.
Anzi dice che questa sua sensibilità è qualcosa che si inscrive nella sua
persona come un istinto, proprio come un puledrino allevato nel Vermont
che, non avendo mai visto un bufalo o altri predatori, sarà terrorizzato
anche soltanto dall’odore.
Allora che cosa c’è nel colore bianco di per sé che Ismaele trova
terrificante? È collegato al modo in cui simbolizza qualcos’altro, da ciò che
è puro e santo al massimo livello a ciò che invece è abietto e terrificante:
«il simbolo piú significativo di cose spirituali, il velo stesso, anzi, della
Divinità Cristiana, e pure è insieme la causa intensificante nelle cose che
piú atterriscono l’uomo!» 78.
Ciò che sgomenta nel colore bianco non è un significato o una
connotazione particolare che possiede. È piuttosto il fatto che sia
estremamente evocativo e, proprio in virtú della proprietà di aderire a una
gamma sconfinata di significati diversi, alla fine non ne possiede piú
nessuno. Diventa, dice Ismaele, una «tale vacuità muta e piena di
significato» 79.
Per capire questo concetto, bisogna pensare alla bianchezza
immaginando di entrare nella cosiddetta «luce bianca». In quanto colore,
la percezione del bianco è evocata dalla luce che stimola a un livello
pressoché analogo tutti e tre i tipi di coni, le cellule sensibili al colore che
si trovano nella retina. In tal senso, il bianco è quello che si percepisce
quando sono mescolati tutti i colori insieme. La luce bianca, tuttavia, in se
stessa è invisibile o priva di colore – non possiamo vederla, ma è essa che
ci permette di vedere tutto il resto. Come ci dice Melville, è l’«assenza
visibile di colore» 80. Nella terminologia utilizzata dal libro, la luce bianca,
o la bianchezza in se stessa, agisce come una pratica culturale di
sottofondo. Il sottofondo – come la luce bianca – è ciò che non possiamo
vedere, ma che ci permette di vedere tutto il resto:

… il gran principio della luce, che produce ciascuno dei suoi colori, rimane in se stesso
sempre bianco o incolore e, se operasse sulle cose senza un mezzo, vestirebbe ogni
oggetto, persino le rose e i tulipani, con la sua tinta vacua 81.

Se cercate di vedere la bianchezza di per sé, se cercate di concentrarvi


sulla luce bianca che opera «sulle cose senza un mezzo», il procedimento è
simile a quello di cercare di individuare le pratiche di sottofondo nella loro
realtà. Non si può dire nulla sul sottofondo in sé, lo si può soltanto definire
quando fa da sfondo a un tulipano o a una rosa. Emerge solo nella misura
in cui permette a qualcos’altro di rivelarsi.
Alla balena si applica perfettamente proprio questo senso della
bianchezza come sfondo, come presenza latente dell’esperienza, che si
rivela solo in virtú di quanto ci permette di vedere. Abbiamo già visto che
la balena non ha volto. Veniamo poi a sapere che neppure la parte
posteriore del suo corpo è visibile. Come le pratiche di sottofondo, la coda
ci appare subito familiare e significativa, ma impossibile da descrivere.
Con un altro riferimento sorprendente al Dio ebraico, Melville parla cosí
della coda della balena:

Piú considero questa coda poderosa, piú devo deplorare la mia insufficienza ad
esprimerla … Ma se non conosco nemmeno la coda di questa balena, come ne
comprenderò la testa? e, quel che è piú, come ne comprenderò la faccia, dacché non ha
faccia? Tu potrai vedermi le parti posteriori, la coda – sembra dire la balena – ma la
faccia non me la vedrai. Ma le parti posteriori non posso vederle bene e, insinui ciò che
vuole della sua faccia, io ripeto che la balena non ha faccia 82.

La penultima linea di questo brano rimanda dettagliatamente al Dio


ebraico. Quando promette di rivelarsi a Mosè, il Signore prepara
attentamente la situazione:

Aggiunse il Signore: ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe e quando
passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché
non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si
può vedere [Es 33.21-23].

Nella tradizione ebraica, quindi, il volto di Dio è sempre nascosto, ma le


sue spalle possono essere rivelate. Nella versione di Melville, invece, il Dio
nuovo non ha volto e il suo dorso non può mai essere visto con chiarezza.
Non ci sono verità profonde o nascoste nell’universo e i significati presenti
non possono essere visti con chiarezza. Il senso che invece possiamo
trarne è accessibile grazie al nostro coinvolgimento nei riti e nei culti della
nostra e di altre culture. Tali pratiche di sottofondo non sono tuttavia quel
genere di cose su cui ci si possa intendere in modo definitivo. Il terrore
ispirato dal colore bianco consiste nel fatto di guardarlo come se fosse un
colore come gli altri – un colore il cui significato risulta comprensibile –,
mentre si tratta di una piatta vacuità. Naturalmente è un fenomeno pregno
di significati, anzi di ogni significato possibile. La sconvolgente
somiglianza tra quest’affermazione sul colore bianco e quella sulla balena
in sé acquisisce ancora maggiore chiarezza in un altro capitolo, che si
trova alla fine del libro.

La bianchezza assume due forme estreme, che sono particolarmente


terrificanti. Ismaele parla di «terrore in quegli spettacoli … specialmente se
presentato sotto una qualsiasi forma che comunque s’avvicini al mutismo
o all’universalità» 83. È chiaro che la forma universale della bianchezza è
quella che combina tutti i colori dello spettro. Ma qual è la forma che piú
si avvicina al «mutismo»? Come riesce Melville a elaborare il concetto di
terrore evocato dal colore bianco servendosi di una metafora di tipo
uditivo?
Troviamo la risposta in un altro capitolo intitolato Una pergola tra gli
Arsacidi 84. Sembra che il capitolo sia stato aggiunto dopo un ripensamento.
Non ha assolutamente nulla a che vedere con la trama del libro e ha la
forma di una reminiscenza di un precedente viaggio compiuto da Ismaele.
Non sappiamo nulla del viaggio in sé o delle circostanze in cui si è svolto.
Sappiamo soltanto che, durante il viaggio, Ismaele era approdato su un
isolotto, da qualche parte a nord-est dell’Australia, in un arcipelago
chiamato Arsacidi e aveva stretto amicizia con gli indigeni. Dice di aver
passato le vacanze sull’isolotto, precisando che era stato invitato ed era
rimasto per assistere alle festività religiose locali:

… venni invitato a trascorrere parte delle vacanze arsacidee col signore di Tranque
nella sua privata villa delle palme, a Pupella, una valletta costiera non molto distante
da quella che i nostri marinai chiamano Città del Bambú, la capitale 85.

Tra le cose che osservò, c’era una lunga lista di «portenti» collezionati
da Tranquo, il re dell’isola. In cima alla lista, c’era lo scheletro di una
balena che si era arenata sulla spiaggia molti anni prima ed era morta.
Dopo che i locali lo avevano «spogliato delle sue spesse coperture»,
avevano trasportato lo scheletro in una valletta vicino al mare e lo
avevano disposto sotto un tempio fatto di palme. A un certo punto Ismaele
vide che i rami carichi, i cespugli, le felci e le erbe avevano creato un
ordito intorno allo scheletro che formava uno sfarzoso tappeto. Inizia
quindi una descrizione di Dio inteso come tessitore – che riprende le
diverse versioni date dagli antichi del Dio chino sul suo telaio – e del
suono del suo operato che assorda Ismaele al punto che non sente piú
alcuna voce mortale. Se mai prestassimo attenzione a questo ronzio, ci
ammonisce Ismaele, saremmo assordati anche noi. È solo quando ci si
allontana che si odono chiaramente dall’esterno «migliaia di voci che
parlano attraverso».

Il dio-tessitore tesse, e da questo tessere è tanto assordato che non sente piú voce
mortale, e da questo ronzio siamo assordati noi pure che guardiamo il telaio, e
solamente quando ne fuggiremo ne potremmo udire le migliaia di voci che parlano
attraverso 86.

Se si cercasse di udire tutti i suoni dell’universo in una volta sola, si


resterebbe assordati. I diversi significati si cancellerebbero a vicenda.
Ascoltereste il caos del rumore bianco, invece della sola verità nascosta di
un universo razionale. Lo stesso avverrebbe se si cercasse di vedere tutti i
colori del mondo in una volta sola. Si delinea la possibilità di un significato
e vorreste cercare qual è esattamente, ma è una ricerca spasmodica che
conduce alla follia. L’universale infatti è assordante, è il caos e, anche se il
caos è la natura ultima dell’universo, possiamo penetrarlo solo da una
certa angolatura.
Questo è il motivo, secondo Melville, per cui il fanatismo di Achab, alla
fine, porta alla follia. I significati molteplici dell’universo non conducono
affatto a una verità unica e universale. La nostra sola speranza è quella di
aderire a fondo a ognuno dei diversi significati parziali, di vivere nel
miglior modo possibile, fedeli alle verità che man mano vengono svelate,
senza sentire il bisogno di conciliare tra loro i significati contrastanti.
L’immagine che scaturisce da questo tipo di politeismo pluralistico non è
né il caos assordante del rumore bianco, né la vacuità muta del colore
bianco. È un arcobaleno, piuttosto, che scinde i colori dello spettro e li
rivela uno per uno nella loro splendente tonalità.
Ismaele lo chiarisce quando parla della fontana, lo zampillo che
fuoriesce dallo spiraglio che la grande balena ha sopra la testa. Nel
capitolo sulla fontana 87, lo sfiatatoio della balena crea un arcobaleno
«come se il Cielo stesso avesse impresso su quei pensieri il suo sigillo» 88.
Ognuno dei colori dell’arcobaleno rappresenta una delle prospettive
dell’universo e il massimo che possiamo ottenere è una visione fatta di
punti di vista diversi, tutti egualmente veri, come trova Ismaele nelle sue
emozioni discordanti e nei mutevoli stati d’animo. Se si volesse conciliarle,
queste prospettive cozzerebbero tra loro ed entrerebbero in conflitto,
quindi l’obiettivo non può essere che «abbassare o almeno mutare la sua
idea della felicità raggiungibile». Non cercate di scoprire a cosa
assomigliano i colori quando sono mescolati. Cercate invece di accostarvi
a quante piú emozioni (rivelatrici) e di trovare vie diverse per entrare in
contatto con il sacro: una vita del genere, che risuona costantemente con il
sacro è una forma di appagamento, di felicità, e perfino di gioia. Certo, non
si raggiungerà il significato ultimo e finale della vita, ma si attinge da ogni
possibile significato con uno sguardo imparziale:

E quanto nobilmente rialza la nostra idea del mostro possente e nebuloso


contemplarlo che naviga solenne in un calmo mare tropicale, col capo enorme e dolce
sovrastato da un baldacchino di vapori, originati dalle sue contemplazioni
inesprimibili, e quei vapori, come talvolta accade di vederli, aureolati d’un arcobaleno
come se il Cielo stesso avesse impresso su quei pensieri il suo sigillo. Poiché, vedete,
gli arcobaleni non scendono nell’aria limpida: essi irraggiano soltanto vapori. E cosí,
attraverso le nebbie spesse dei foschi dubbi della mia mente, s’aprono a tratti intuizioni
divine, che accendono tanta foschia con un raggio celeste. E di questo ringrazio il
Signore; poiché tutti hanno dubbi, molti negano, ma, che si dubiti o che si neghi, sono
pochi coloro che insieme hanno pure intuizioni. Dubbi su tutte le cose terrene e
intuizioni di qualcuna delle celesti: questa combinazione non produce né un credente
né un miscredente, ma un uomo che considera insieme credenti e miscredenti con
occhio uguale 89.

C’è un personaggio nel libro che si rende conto di tutto ciò e, in un


primo tempo, è considerato un eroe. Tra i vari protagonisti della caccia
alla balena che si trovano sulla nave, è il piú umile – il «guardanave», la
cui mansione è governare il bastimento mentre le lance inseguono la
balena. Pip è sottile e impacciato, timido e nervoso, scuro come la notte,
un antieroe secondo la concezione omerica:

In generale i guardanave sono tipi altrettanto in gamba che gli uomini


dell’equipaggio. Ma se accade che si trovi a bordo un essere troppo sottile o impacciato
o timido, è sicuro che costui finisce guardanave. Cosí era accaduto sul Pequod al
piccolo negro soprannominato Pippin, per abbreviazione Pip 90.

Malgrado questi inconvenienti – o forse proprio grazie a essi –,


all’inizio Ismaele presenta Pip come una sorta di eroe:

Il nero piccolo Pip … Povero ragazzo dell’Alabama! Lo vedremo tra poco sul truce
castello di prora del Pequod battere il tamburello, preludio dell’ora eterna quando,
chiamatolo sul grande cassero dei cieli, gli fu ordinato di intonare con gli angeli e di
battere a gloria quel suo tamburello: chiamatolo qui vigliacco e salutato lassú eroe! 91.

Che cosa rende Pip un eroe agli occhi di Melville?


Le sue peripezie hanno inizio quando deve sostituire uno dei membri
regolari dell’equipaggio nella caccia alla balena. La prima volta è talmente
spaventato che, quando la coda della balena urta la lancia, il malcapitato
cade fuoribordo imbrogliandosi nella lenza. Gli altri marinai devono
tagliare la lenza per poterlo salvare e di conseguenza si lasciano sfuggire la
balena. Pip è oggetto di scherno da parte dei membri dell’equipaggio ed è
pesantemente redarguito da Stubb, capitano in seconda del Pequod e
comandante della missione, che lo ammonisce di non saltare mai piú
fuoribordo. Ma Pip salta una seconda volta, e in questa occasione viene
lasciato indietro, mentre la lancia di Stubb avanza rapida per raggiungere
la balena. Pip rimane in mezzo al mare e deve affrontare una situazione
che lo cambierà per sempre.
Che cosa gli succede in mezzo al mare? Non è tanto il fatto di rischiare
di annegare, che già di per sé sarebbe motivo di grande spavento. Quello
che Pip è costretto ad affrontare è un tipo di orrore ben peggiore della
semplice paura di rischiare la vita. Nella suggestiva descrizione di Ismaele,
Pip si arrende all’idea di essere abbandonato come un naufrago, di perdere
ogni contatto con i suoi simili, e di rimanere isolato per sempre
nell’immensità dell’oceano. Mentre la lancia scompare davanti ai suoi
occhi Pip vede che

Stubb gli voltava la schiena inesorabile, e la balena era ferita. In tre minuti fra Pip e
Stubb si aperse un miglio intero di oceano sconfinato. Su dal centro dell’oceano, il
povero Pip rivolgeva la testa crespa, ricciuta e nera, al sole altro reietto solitario,
benché altissimo e splendido 92.

Pip ha perduto ogni contatto con i suoi compagni e con il Pequod, che è
il centro della sua vita. La nave rappresenta una condizione stabile, umana,
che permette di avere una base nel mare senza confini. È la perdita di tutto
ciò che c’entra con questa condizione umana che Pip trova intollerabile:
Ora, nel tempo calmo, nuotare in mare è altrettanto facile per un buon nuotatore
che viaggiare, a terra, su una carrozza ben molleggiata. Ma la solitudine tremenda è
intollerabile. L’intenso concentrarsi dell’Io in mezzo a una simile spietata immensità,
mio Dio, chi può esprimerlo? 93.

La sensazione di Pip di essere completamente perduto è


magnificamente espressa quando alza gli occhi al cielo e vede il sole come
se fosse un «altro reietto solitario». Perfino il sole, vuole cosí suggerire
Melville, simbolo del Bene in Platone e di Dio in Dante, ha perso il suo
posto al centro dell’universo. La solitudine di Pip non è soltanto la
solitudine dell’individuo nell’immenso oceano sconfinato; è la solitudine
della nostra cultura quando ci rendiamo conto che ci siamo allontanati da
tutto ciò che poteva costituire un fondamento. È l’orrore della solitudine
che ha provato Pip e che – perlomeno da un certo punto di vista – alla fine
lo ha fatto impazzire.
La follia di Pip tuttavia è anche una forma di verità. Ha visto il vuoto
assoluto dell’universo – l’assenza, che è tutto quel che rimane di Dio.
Come sottolinea Ismaele, ha visto «la spietata immensità». Si è reso conto
che l’universo è il risultato casuale di azioni casuali come quelle compiute
dagli insetti del corallo che, con la loro incessante attività priva di
intelligenza, «su dal cielo delle acque innalzavano le sfere colossali» 94
color dell’arcobaleno. In altri termini, non solo ha visto il colore bianco –
l’assenza ultima di un significato unico, profondo e unificante
dell’universo –, ma anche l’arcobaleno – la presenza cioè di una
molteplicità di interpretazioni. È come se avesse capito che il fondamento
ultimo dell’universo, da una parte, è l’assenza di significato – come gli
insetti del corallo privi di intelligenza – e dall’altra è una pienezza
meravigliosa di significati molteplici – come le sfere colossali color
dell’arcobaleno prodotte dagli insetti del corallo. Queste due suggestioni
sono entrambe vere, secondo Melville, ma non si può vivere accettando
entrambe simultaneamente. Vissute contemporaneamente, hanno portato
il povero, insignificante Pip ai confini della follia:
Per il piú puro dei casi alla fine la nave stessa venne a salvarlo, ma da allora il
moretto girò per la coperta come un idiota, o almeno tale dicevamo che fosse. Il mare
aveva beffardamente sostenuto il suo corpo finito, ma annegato l’infinito del suo
spirito. Non del tutto annegato, però. Trasportato vivo, piuttosto, a meravigliose
profondità, dove forme bizzarre dell’intatto mondo primitivo gli erano sgusciate d’ogni
parte innanzi agli occhi passivi, e l’avara sirena, la Saggezza, gli aveva rivelato i suoi
tesori ammassati, e tra le eterne e gaie realtà, prive di cuore e sempre giovani, Pip
aveva veduto gli infiniti, onnipresenti insetti del corallo che su dal cielo delle acque
innalzavano le sfere colossali. Aveva veduto il piede di Dio sopra la calcola del telaio:
per questo i compagni lo chiamavano pazzo. Cosí la demenza dell’uomo è la sanità del
cielo e, allontanandosi da ogni ragione mortale, l’uomo giunge finalmente a quel
pensiero celeste che per la ragione è un’assurdità e un delirio; e, bene o male, egli si
sente allora irrisoluto e indifferente come il suo Dio 95.

Pip è una sorta di eroe perché non nega l’assenza di un significato


ultimo dell’universo, bensí si apre totalmente a essa. Aver visto Dio sopra
il pedale del telaio e vivere ancora, come riesce a fare Pip, significa essere
assordato, essere ormai incapace di individuare i significati accessibili agli
uomini normali. Anzi, dopo questo episodio, Pip non ha piú un’identità e
diventa aperto a tutte le interpretazioni perché lui stesso non ne possiede
piú nessuna: «Pip? Chi è che chiamate Pip? Pip è saltato dalla lancia. Pip
non c’è» 96.

Poiché ha perso la sua identità, e non ha piú una sua prospettiva, Pip è
in grado di capire che tutti i significati nel mondo sono ricavati da un
punto di vista o da un altro. È in grado di scorgere l’egoismo insito
nell’idea che ci sia un significato ultimo e definitivo: ogni significato
infatti è una semplice visione prospettica di un tutto privo di una verità
piú profonda. Lo splendido capitolo sul doblone è ancora piú esplicito su
questo tema 97.
In un punto precedente del libro, Achab aveva inchiodato un doblone
sull’albero maestro della nave, dicendo all’equipaggio che chi fosse
riuscito ad avvistare la balena lo avrebbe ottenuto in premio 98. In un
passaggio successivo, diversi personaggi ispezionano il doblone per capire
che cosa significano le sue bizzarre incisioni. Ben presto si intuisce che
ogni marinaio individua nei misteriosi segni qualcosa in rapporto a se
stesso e alla propria visione del mondo. Achab non trova altro che se
stesso: «C’è sempre qualcosa di egoistico nelle vette e nelle torri e in tutte
le cose grandiose e sublimi». Starbuck, il primo ufficiale di fede quacchera,
vede una rappresentazione della Trinità (oltre a qualche vago simbolo
terreno). Stubb, «un uomo cosí facile e senza paure» 99, non vi trova altro
che il ciclo naturale della vita; il robusto e pratico terzo ufficiale, Flask,
pensa che il doblone sull’albero maestro valga sedici dollari e osserva che
«a due cents il sigaro, sono novecento e sessanta sigari» (gli impassibili
redattori della Norton Critical Edition osservano che «l’aritmetica in
questo caso è vacillante»). Anche altri personaggi fanno la loro
interpretazione 100. Veniamo cosí a sapere qualcosa di importante su molti
dei protagonisti del romanzo.
Ai nostri fini conta ciò che Pip comprende. Egli non vede solo il
doblone, ma anche le persone che lo stanno osservando. La sua
conclusione è che viene rivelato qualcosa di diverso sul doblone a seconda
di chi lo guarda.
Quindi, il doblone in sé non è piú profondo delle diverse percezioni che
le persone ne ricavano. Questo è il motivo per cui, quando finalmente è il
suo turno, Pip non dà nessuna interpretazione sostanziale come se fosse
una possibile verità ultima. Si limita a coniugare il verbo «guardare»:

Io guardo, tu guardi, egli guarda; noi guardiamo, voi guardate, essi guardano … E io,
tu, egli, e noi, voi, essi siamo tutti pipistrelli, e io sono un corvo, specialmente quando
sto in punta a questo pino qui. Co, co, co-o! co, co, co-o! Non sono un corvo? … Questo
doblone è l’ombelico della nave, e tutti fanno fuoco e fiamme per staccarlo. Ma
staccatevi l’ombelico e che cosa succede? 101.
In un certo senso Pip si è staccato l’ombelico: ha visto il significato
ultimo dell’universo, ha visto il piede di Dio sopra il pedale del telaio. Ha
imparato che non esiste una verità profonda e implicita. Ci sono solo le
pratiche della cultura in cui si è immersi. Considerarle tuttavia come
portatrici di una verità unica, come il segno di un fondamento ultimo e
definitivo – in altre parole fare quello che fanno tutti gli altri marinai –, è
pura follia. Chi lo fa è cieco come un pipistrello, pazzo come un
pipistrello 102 e, se cerca di aggrapparsi al suo punto di vista particolare
come se si trattasse di una verità ultima, impazzirà.
Pip, invece, è un corvo. È nero come un corvo, naturalmente, e gracchia
in modo inarticolato come un uccello. Ma è anche un corvo perché, dal
suo nido in cima all’albero maestro di pino, vede che tutte le
interpretazioni sono soltanto interpretazioni e lui stesso non ne possiede
piú.
C’è un aspetto in cui Pip e Achab sono davvero la controparte l’uno
dell’altro. Pip pensa che esistano soltanto percezioni del mondo e che non
ci sia una risposta definitiva; è aperto a tutte le prospettive, senza aderire a
nessuna di esse. Dal punto di vista delle cose di questo mondo, è una
situazione che lo rende pazzo, poiché non ha un’identità a cui aderire.
Achab, al contrario, possiede un’identità fortissima. Anzi: «C’era tutto un
infinito di fortezza sicura, di volontà determinata e indomabile nella
dedizione fissa e intrepida e pronta di quello sguardo» 103.
Ma l’ostinazione di Achab si accanisce sull’universo, lo spinge a rivelare
la sua verità ultima. Questa situazione lo rende folle in un modo
radicalmente diverso. Infatti, è deciso a vedere quel che Pip già possiede e
nello stesso tempo vuole fare qualcos’altro. Melville mette insieme questi
due tipi di follia, quando descrive il rapporto sorprendente tra il capitano e
il suo mozzo. Dopo l’incidente di Pip, Achab prende il ragazzo sotto la sua
ala. Una volta, mentre si dirigono insieme verso la cabina del capitano, un
vecchio marinaio di Man fa la seguente, fondamentale osservazione:
Ecco là due teste vuote che vanno … Una vuota per la forza e l’altra vuota per la
debolezza. Ma ecco la punta della sagola rotta… tutta bagnata anche. Ripararla, eh?
Credo che faremo meglio a pigliarne senz’altro una nuova 104.

Secondo l’intuizione assiale in base a cui esiste una verità ultima dietro
a ogni cosa esistente, Pip e Achab sono l’incarnazione delle due diverse
possibilità lasciate all’umanità. O diventiamo pazzi quando siamo costretti
ad ammettere che la verità non esiste, oppure siamo colti da follia nel
tentativo di dimostrare che la verità esiste. La punta della sagola è rotta, ci
fa notare l’uomo di Man. Forse sarebbe meglio procurarcene una nuova.

Un conto è dire che la sagola è rotta: Melville cerca di dimostrarlo.


Infatti Achab alla fine ottiene quel che desidera in cuor suo – un confronto
faccia a faccia con il terribile Moby Dick – e, nella lotta, perde la vita. Per
capire la sottile sfumatura della concezione di Melville, i dettagli dello
scontro di Achab con la balena sono molto importanti.
Il libro si conclude con la caccia alla balena, che dura tre giorni.
L’inseguimento incarna la possibilità da parte di Achab di avere una
conversazione senza riserve con gli dèi – non di comunicare tramite
presagi o profezie, ma parlare direttamente con gli artefici dell’universo.
Almeno, è quanto Achab si immagina possa accadere. A un certo punto,
per esempio, si fa gioco della superstizione di Starbuck, in base alla quale
un certo episodio è un presagio nefasto per l’esito della caccia:

Presagio! Presagio? … Il vocabolario! Se gli dèi credono bene di parlare francamente


all’uomo, gli parlano francamente da gentiluomini; e non stanno a scuotere la testa e a
dare accenni misteriosi, come le vecchie comari… 105.

Anzi, proprio il primo giorno, Achab ingaggia uno scontro faccia a


faccia con Moby Dick. Si inerpica verso la prua della sua lancia e, quando
l’imbarcazione fa una giravolta intorno al proprio asse, si trova di fronte la
testa della balena:
Ma, come accorgendosi dello stratagemma, Moby Dick, con quella maligna
intelligenza che gli attribuivano, si spostò fiancheggiando, per cosí dire, in un attimo, e
cacciò per il lungo il capo rugoso sotto la lancia 106.

Mentre stava per ridurre a pezzi l’imbarcazione, «il biancoperla


azzurrino dell’interno della mascella era a cinque pollici dalla testa di
Achab» 107. Quel giorno il confronto rivela un’intelligenza maligna in
Moby Dick. In questo primo combattimento, la balena è descritta in molti
modi: diabolica, scaltra, maligna, crudele, intelligente e vendicativa 108. Si
tratta forse della verità ultima sulla natura dell’universo. Chiaramente
Achab è sotto le sue grinfie e la balena vuole fargli tutto il male possibile.
Nel secondo giorno di caccia, tuttavia, emerge un Moby Dick
completamente diverso. Di nuovo, Achab lo incontra faccia a faccia, in una
manovra che fa parte di una strategia per evitare di farsi spiare dagli occhi
laterali della balena. In quest’occasione, però, non appare alcunché di
diabolico o maligno nella balena, la quale viene descritta come un colosso
brutale e istintivo, il cui corpo reagisce, per pura azione riflessa, al
contatto con qualsiasi oggetto:

… e ogni volta che un remo alla deriva, un pezzo di tavola, una minima briciola delle
lance le toccava la pelle, la coda si ritraeva fulminea e sbatteva un colpo obliquo sul
mare 109.

Moby Dick sfonda anche questa volta la lancia di Achab, ma le sue


intenzioni sembrano meno esplicite: Moby Dick punta non tanto al
capitano Achab, ma alle assi di legno della sua imbarcazione: «la Balena
Bianca parve soltanto intesa ad annientare ciascuna tavola separata di cui
le lance erano fatte» 110.
La balena, in questo faccia a faccia, si trova a trascinare in acqua, per
quanto accidentalmente, un misterioso personaggio di nome Fedallah;
l’episodio può apparire come l’avverarsi parziale di una profezia infausta e
macbethiana, pronunciata un tempo dallo stesso Fedallah. Inoltre, Achab è
piú propenso a prendere sul serio il presagio di quanto non lo fosse stato
in precedenza, come se l’apparente livello intellettivo nella balena fosse
inversamente proporzionale alle sue reali intenzioni di comunicare. Quello
che il primo giorno era apparso come un universo diabolico e malvagio,
ora sembra semplicemente la manifestazione di una forza bruta priva
d’intenzionalità.
Il terzo giorno, viene rivelato uno scenario ancora differente. Quando la
lancia di Achab si allinea lungo il fianco della Balena Bianca, Moby Dick è
ignaro del pericolo e non nota né Achab né la sua imbarcazione. Tutto
sembra dimostrare che ora la balena non sia altro che un colosso brutale
privo di intelligenza. In ogni caso, che sia o meno intelligente, l’esistenza
di Achab per Moby Dick è del tutto irrilevante: «questa parve stranamente
disinteressarsi del suo arrivo – come talvolta la balena usa fare» 111. Questo
incontro privo di qualsiasi significato e la totale indifferenza della balena
nei confronti di Achab ricordano stranamente l’episodio in cui Moby Dick
aveva staccato con un morso la gamba di Achab: «E fu allora che,
passandogli sotto di colpo la sua mandibola falcata, Moby Dick gli aveva
falciato la gamba come un mietitore fa di uno stelo d’erba in un campo» 112.
Essere insignificante come uno stelo d’erba per il mietitore, non avere
nessun tipo di ruolo nell’universo: ecco ciò che piú teme il capitano
Achab. La sua volontà si concentra inesorabilmente sul compito di capire
una volta per tutte qual è il suo posto nel mondo. Il confronto finale di
Achab con la balena si rivela tuttavia cosí rapido e imprevedibile, la sua
morte cosí istantanea e inaspettata, che nessuno ha il tempo neppure di
rendersi conto che è morto. Lanciando il suo ultimo rampone su Moby
Dick, rimane intrappolato nella lenza e va istantaneamente incontro alla
morte, prima che qualcuno – tantomeno lui stesso – possa accorgersi di
questo momento fatale:

Il rampone venne scagliato; la balena colpita filò innanzi, e con velocità da far
faville la lenza scorse nella scanalatura: s’imbrogliò. Achab si piegò a disimpegnarla, la
disimpegnò; ma la volta volante lo prese intorno al collo e, senza una parola, come i
Muti turchi strangolano la vittima, venne strappato dalla lancia prima che l’equipaggio
si accorgesse che non c’era piú 113.

L’indifferenza finale di Moby Dick nei confronti di Achab potrebbe


essere un modo per dire che cosí va il mondo. Forse non esiste nessun
significato, nessuna verità ultima sullo scopo della nostra vita; forse è il
nichilismo la verità definitiva. Il punto di vista di Melville, tuttavia, è ben
piú sofisticato. A volte l’universo è privo di significato, certo, a volte una
morte è insensata oppure del tutto muta. Eppure il mondo ha guizzi di
brutalità che agiscono come riflessi involontari, i quali si alternano a
momenti in cui viene espressa una volontà malvagia, vendicativa e
diabolica. C’è anche però la manifestazione pura della gioia e l’esplicarsi
del senso del divino. Il primo giorno della caccia, per esempio, Ismaele
descrive cosí Moby Dick:

Una gioia serena, una gagliarda dolcezza di riposo nella rapidità, rivestiva la balena
nuotante. Nemmeno il toro bianco che era Giove, allontanandosi in mare con la rapita
Europa afferrata alle corna leggiadre, coi maliziosi occhi d’amore fissi di sbieco sulla
fanciulla, e con scorrevole e affascinante velocità filando dritto al rifugio nuziale in
Creta; nemmeno Giove, quella grande Maestà suprema, superò la gloriosa Balena
Bianca, mentre questa nuotava tanto divinamente 114.

Il senso ultimo dell’universo, quindi, non è la sua totale indifferenza nei


nostri confronti, anche se il dio di Pip e Achab è assolutamente
indifferente. Si rammenti l’ultimo pensiero che coglie Pip quando è
abbandonato in mare aperto come un naufrago, il mondo «indifferente
come il suo Dio». Ci sono dèi di altro genere – malvagi e vendicativi, ma
anche gioiosi e divini – e l’universo è costituito dall’alternarsi di tutti
questi dèi, e non da uno solo. L’universo è un vero e proprio pantheon.

Quiqueg non appartiene alla stirpe dei reietti e sfoggia una salute
perfetta e inalterata. La sua cultura pagana, inoltre, è troppo diversa dalla
nostra per rappresentare la possibilità salvifica a cui allude il vecchio e
saggio uomo di Man, anche se indubbiamente il suo stile di vita può essere
per noi un prezioso insegnamento. Infatti, la sua salute immortale di
guerriero invincibile nasce dall’ammissione che è necessario aderire alle
verità della propria cultura, anche se non ne capisce mai veramente il
senso. Lo si vede soprattutto nella storia degli straordinari tatuaggi che
esibisce.
Piú che incarnare la sua concezione del mondo e di se stesso, i tatuaggi
che ricoprono il corpo di Quiqueg hanno un’origine mistica. Come il capo
maori Te Pehi Kupe che, quasi sicuramente, è servito da modello al suo
personaggio 115, Quiqueg pone la sua firma copiando sulla carta parte di
una figura che aveva tatuata sul corpo 116. Presi in senso generale, questi
marchi sulla pelle rappresentano l’idea di realtà nella sua cultura ed
esprimono l’interpretazione dell’essere della civiltà Kokovokan. Sono
peraltro assolutamente indecifrabili. Sembra quasi che il commento di
Quiqueg sia un antesignano del celebre detto di Yeats. In una delle sue
ultime lettere, scritta poche settimane prima di morire, Yeats nega ogni
possibile aspirazione alla conoscenza astratta di verità ultime. «L’uomo
può incarnare la verità», scrisse, «ma non può conoscerla» 117. Nello stesso
modo, Quiqueg incarna la verità della sua cultura:

Questo tatuaggio era stato opera di un defunto profeta e veggente della sua isola,
che per mezzo di questi segni geroglifici gli aveva tracciato addosso una teoria
completa dei cieli e della terra e un mistico trattato sull’arte di conseguire la Verità,
cosicché Quiqueg era nella sua persona stessa un enigma da spiegare, un’opera
meravigliosa in un volume, i misteri della quale però neanche lui sapeva leggere
benché sotto vi pulsasse il suo cuore vivo: questi misteri erano quindi destinati a perire
alla fine insieme alla pergamena vivente dov’erano tracciati e cosí restare insoluti fino
all’ultimo 118.

Anche se lo stile di vita di Quiqueg è sano, alla fine affonda con la nave
e con l’intero equipaggio quando Moby Dick si scontra con l’«avversario
piú grande e piú nobile» 119. E il Pequod è davvero grande e nobile, al punto
che in uno degli ultimi tour de force di Melville il suo inabissarsi sembra
rappresentare l’inabissarsi dell’intera storia dell’Occidente. In
un’immagine che ricorda il quadro esposto nella Locanda del Baleniere,
all’inizio del romanzo, la trinità rappresentata dagli alberi della nave
affonda lentamente nelle acque profonde spinta dalla forza della testa
poderosa della Balena Bianca. A differenza del quadro, tuttavia, sull’albero
piú alto si erge Tashtego, un altro dei ramponieri pagani dell’equipaggio, il
quale coraggiosamente inchioda la bandiera rosso sangue all’albero
maestro, finché ne restano visibili fuori dall’acqua soltanto alcuni pollici. Il
braccio rosso di Tashtego martella tanto piú velocemente quanto piú
appare ineluttabile il suo imminente destino. Con un colpo finale, trafigge
un falco tra l’albero e il martello e il suo anelito di morte lo inchioda,
trascinandolo dal cielo alle profondità dell’abisso marino. Cosí scrisse
Melville:

Un falco del cielo che aveva beffardamente seguito il pomo di maestra giú dalla sua
naturale dimora tra le stelle, dando beccate alla bandiera e molestando Tashtego,
cacciò per caso ora la sua larga ala palpitante tra il legno e il martello; e
contemporaneamente sentendo quel brivido etereo, il selvaggio sommerso là sotto,
tenne, nel suo anelito di morte, il martello rigidamente piantato; in modo che l’uccello
celeste, con strida d’arcangelo, col rostro imperiale teso in alto e tutto il corpo
prigioniero avvolto nella bandiera di Achab, andò a fondo con la nave, che, come
Satana, non volle scendere all’inferno, finché non ebbe trascinata con sé, per farsene
elmo, una parte vivente del cielo 120.

Simboli e immagini coincidono perfettamente. Le strida d’arcangelo


dell’uccello celeste suggeriscono che è il cristianesimo ad affondare con il
Pequod; il suo rostro imperiale teso in alto rammenta anche la morte della
tradizione romana, e infine è la bandiera ripiegata di Achab a portare la
tradizione fino al fondo dell’abisso marino. In altre parole, alla fine
naufraga la totale adesione di Achab a una verità trascendente capace di
definire la storia dell’Occidente, portando con sé nell’abisso la sua
tradizione storica.
Dove ci portano queste constatazioni? Anche se lo stesso Quiqueg non
sopravvive all’affondamento del Pequod, lui e le pratiche rituali e
simboliche della sua cultura hanno un ruolo importante, che si può
leggere in una chiave di redenzione. Infatti è la bara di Quiqueg, da lui
scrupolosamente intagliata «nella sua rozza maniera» 121 con una copia dei
tatuaggi incisi sul suo corpo, è questa bara pagana coperta di geroglifici
che serve da scialuppa per salvare Ismaele dal naufragio finale della nave.
Quando il Pequod si inabissa in fondo all’oceano, nell’Epilogo del romanzo,
porta con sé tutti i passeggeri tranne uno. La bara di Quiqueg galleggia
oltre il vortice finale provocato dal risucchio della nave affondata. «Balzò
per il lungo, su dal mare, ricadde e mi galleggiò accanto», ci dice Ismaele,

Sostenuto da quella bara, per quasi un giorno intero e una notte andai alla deriva su
un mare morbido, funereo. I pescecani disarmati mi guizzavano accanto come se
avessero lucchetti alla bocca; i selvaggi falchi marini passavano coi becchi
inguainati 122.

Cosa si può dire, alla fine, sul motto segreto del libro di Melville? A
questo punto dobbiamo rivelare un ultimo trucchetto. Non sapremo mai se
Melville ne fosse stato o meno a conoscenza. Come ogni scrittore, è
sicuramente felice che il significato metaforico del suo libro vada oltre la
sua stessa comprensione 123. In ogni caso, le sue intuizioni sono azzeccate.
Per esempio, aveva certamente ragione a trovare che nel Moby Dick ci
fosse un lato malvagio e un lato che lo lascia innocente come un agnello.
Ma se il motto segreto del libro non è altro che la formula del battesimo di
Achab, allora non è questa che mette Melville al posto di Achab? E la sua
non è forse una posizione scomoda e imbarazzante? Infatti, Achab non ha
nulla a che spartire con il futuro politeistico profetizzato da Ismaele.
Il trucchetto sta in quello che non viene detto nel libro. Quando
Melville scrive a Hawthorne parlandogli del motto segreto del romanzo,
lascia il motto stesso misteriosamente incompleto. «Ego non baptiso te in
nomine», scrive, «ma ricavati il resto tu stesso». Non si tratta forse della
differenza cruciale tra Melville e Achab? Achab completa questa formula
diabolica, prendendo lui stesso una posizione conforme alla malvagità del
diavolo che affonda il mondo romano-cristiano. Ma Melville sembra
intenzionato a non completare la frase. Al suo posto, è Hawthorne che la
deve completare e, presumibilmente, anche tutti coloro che leggeranno il
libro. «Non ti battezzo in nome…», in nome di nessuna religione
totalizzante e limitata chiusa alle verità di superficie, sembra dire. Vi lascio
scoprire da soli le verità politeistiche dell’universo; vivete alla luce di tali
verità, scoprite la gioia grazie a loro, e perfino il dolore. Ma nelle gioie e
nei dolori, rimanete con animo lieto, certi che apportino davvero un
significato alla vostra vita.

1
Lettera a Hawthorne del 17 novembre 1851, in H. MELVILLE , Lettere a Hawthorne, a cura di G.
Nori, Liberilibri, Macerata 1994, p. 33.
2
Vedi il dibattito nel saggio di H. PARKER , International Controversy over Melville, nella Norton
Critical Edition di Moby Dick (Norton, New York 2002, p. 468).
3
Recensione del 6 aprile 1846, ibid., pp. 476-77.
4
PARKER , International Controversy over Melville cit.
5
Una descrizione dell’episodio dell’Ann Alexander si trova in A. STARBUCK , History of the
American Whale Fishery from its Earliest Inception to the Year 1876, disponibile sul sito
http://mysite.du.edu/~ttyler/ploughboy/starbuck.htm; vedi in particolare il paragrafo F, intitolato
The Dangers of the Whale Fishery.
6
Lettera a Evert A. Duyckinck del 7 novembre 1851, nella Norton Critical Edition di Moby Dick,
pp. 544-45. Questa era una risposta a una lettera che Melville aveva ricevuto la notte prima
dall’amico Duyckinck e che includeva un articolo sul naufragio dell’Ann Alexander. La lettera,
racconta Melville, «ebbe su di me un effetto sorprendente».
7
Lettera a Hawthorne del 29 giugno 1851, in MELVILLE , Lettere a Hawthorne cit., p. 27.
8
La versione completa di questa formula battesimale fu scoperta per la prima volta dalla
comunità accademica nell’inverno 1933-34. Il poeta americano Charles Olson – che allora era
ancora un dottorando ventitreenne di storia e letteratura americana alla Wesleyan – la trovò nel
risguardo vuoto del settimo e ultimo volume della raccolta completa delle opere di Shakespeare
appartenuta a Melville. Olson tolse dal volume questo e altri documenti che dimostravano
l’importanza della lettura di Shakespeare per la stesura di Moby Dick (vedi il primo libro importante
di Olson, Call me Ishmael). Tuttavia, di recente la comunità accademica ha respinto
l’interpretazione di Olson, soprattutto grazie alla scoperta, fatta nel 1992, che questo e altri estratti
in realtà erano stati copiati da un trattato di stregoneria pubblicato anonimamente da Sir Francis
Palgrave nel numero di luglio 1823 della «Quarterly Review» (vedi l’articolo di g. sanborn, The
Name of the Devil: Melville’s Other «Extracts» for Moby-Dick, in «Nineteenth-Century Literature»,
vol. XLVII, 1992, n. 47, pp. 212-35). Le ultime ipotesi del mondo accademico si sono incentrate su
diversi problemi: in che giorno esattamente Melville ha letto questo fascicolo? In quel periodo stava
leggendo anche le opere dell’inizio del XIX secolo del saggista inglese Leigh Hunt? E, cosa piú
importante, ha poi completato o no la sua attenta lettura di questi volumi mentre se ne stava sul
divano del soggiorno di suo suocero? (Vedi ID ., Lounging on the Sofa with Leigh Hunt: A New Source
for the Notes in Melville’s Shakespeare Volume, in «Nineteenth-Century Literature», vol. LXIII, 2008,
n. 1, pp. 104-15). Lasciamo agli esperti la discussione di questi minuti dettagli.
9
MELVILLE , Moby Dick cit., cap. LXXIX , p. 374.
10
Ibid., p. 22.
11
Ibid.
12
Ibid., p. 27.
13
Ibid., p. 32.
14
Ibid., p. 34.
15
Il fatto di utilizzare il nome «Leviatano» per indicare Satana, seguendo il versetto di Is 27.1, è
entrato nel linguaggio comune per poi cadere in disuso, e oggi è poco comprensibile. L’ultima
citazione che l’Old English Dictionary riporta risale a Barnabe Barnes nel 1595, che supplica il
Signore: «Immobilizza le fauci del vecchio Leviatano, vittorioso conquistatore!»
16
MELVILLE , Moby Dick cit., p. 24.
17
Ibid., cap. LXXIX , p. 374.
18
Ibid., cap. I , p. 42.
19
Ibid., p. 40.
20
PARKER , International Controversy over Melville cit., p. 466. Si veda il rapporto con
l’interpretazione di Hölderlin fatta da Heidegger. Hölderlin dovette andare nella Grecia degli
antichi – o perlomeno nel sud della Francia – per scoprire qualcosa di significativo sulla Germania
contemporanea.
21
MELVILLE , Moby Dick cit., cap. I , p. 37.
22
Ibid.
23
Ibid., cap. III , p. 47.
24
Ibid.
25
Ibid., cap. III , p. 46.
26
Ibid., p. 47.
27
Ibid.
28
Lettera a Hawthorne del 17 novembre 1851, in MELVILLE , Lettere a Hawthorne cit., p. 35.
29
Ibid., p. 34.
30
MELVILLE , Moby Dick cit., cap. XXXII , p. 164.
31
Ibid., cap. XXXII , p. 175.
32
Ibid., cap. XCVI , p. 449.
33
Ibid., cap. XVII , p. 120.
34
Ibid., cap. IV , p. 61.
35
Ibid.
36
Ibid., cap. III , p. 57.
37
Ibid., cap. V , p. 65.
38
Ibid., cap. III , p. 59.
39
Ibid., cap. IV , p. 60.
40
Ibid., cap. XVIII , p. 124.
41
Ibid., cap. IV , p. 64.
42
Vedi, per esempio, la discussione di Andrew Delbanco nella sua biografia Melville: His World
and Work, Vintage, New York 2005, pp. 130-34.
43
MELVILLE , Moby Dick cit., cap. XII , p. 90.
44
Ibid.
45
Ibid., cap. CX , p. 498.
46
Il parallelo è ancora piú chiaro nella prosa di Melville. Quiqueg sta sottoponendosi a un
processo di educazione sulle tradizioni della cultura cristiana. Ma, come dimostrano i suoi abiti, è
ancora in un periodo di transizione, «né bruco né farfalla … La sua educazione non era stata ancora
terminata. Era soltanto uno studente anziano» (ibid., cap. IV , p. 63). In contrasto con l’adattamento
alla civiltà mostrato da Quiqueg, l’educazione di Ismaele avviene in mare. È una transizione per
uscire dalla cultura cristiana civilizzata, non per entrarvi. Come dice alla fine del capitolo «una
baleniera è stata la mia Università di Yale e la mia Harvard» (ibid., cap. XXIV , p. 143).
47
Ibid., cap. XCIV , p. 441.
48
Questi episodi sono raccontati dal profeta Elia, ibid., cap. XIX , p. 126.
49
Ibid., cap. XLI , p. 208.
50
Ibid., cap. XXXVI , p. 194.
51
Ibid., pp. 194-95.
52
Ibid., cap. CVIII , p. 491.
53
Famoso ordine impartito all’attacco durante la battaglia di Bunker Hill, nel 1775, durante la
guerra d’indipendenza americana [N.d.T.].
54
È un motto rimasto nella storia americana; si riferisce a George Gipp, soprannominato
«Gipper», campione di baseball nelle squadre universitarie, che morí a 25 anni in seguito a
un’infezione alla gola. Si racconta che abbia detto questa frase sul letto di morte; diventò famosa
perché Ronald Reagan, nella sua carriera d’attore prima della presidenza, recitò la parte del Gipper
in un film molto popolare [N.d.T.].
55
MELVILLE , Moby Dick cit., cap. XLI , p. 208.
56
Milton era letto dagli interpreti della scuola «romantica» e «satanica», soprattutto da Blake e
da Shelley. Henry F. Pommer sostiene che Melville fu piú influenzato da questa scuola di interpreti
di Milton che dalla lettura del poeta in chiave devota fatta dai contemporanei. Un passaggio
significativo dell’opera di H. F. POMMER , Milton and Melville, Cooper Square Press, New York 1970 è
citato in L. SHELDON , Messianic Power and Satanic Decay: Milton in Moby Dick, in «Leviathan: A
Journal of Melville Studies», vol. IV, 2002, n. 1, pp. 29-50.
57
Ivi.
58
1Re 16.30.
59
MELVILLE , Moby Dick cit., cap. XIX , p. 126. Gioco di parole intraducibile in italiano, basato sul
doppio significato di right, che significa «destro» e «dritto» e sui due modi di dire «sinistro», left e
sinister [N.d.T.].
60
Ibid., cap. LXXIX , p. 373.
61
Ibid., cap. LXXXVI , p. 404.
62
Ibid., cap. XCIV , p. 441.
63
Vedi K. JASPERS , Origine e senso della storia, Edizioni di Comunità, Milano 1965 (ed. or. Vom
Ursprung und Ziel der Geschichte, Piper Verlag, München 1949).
64
TAYLOR , L’età secolare cit., p. 861.
65
NIETZSCHE , La gaia scienza, Prefazione (ed. it. cit., p. 23).
66
MELVILLE , Moby Dick cit., cap. IX , p. 83.
67
Ibid.
68
Ibid., cap. X , p. 86.
69
Ibid.
70
Ibid., cap. XVII , p. 115.
71
Ibid., cap. XCIV , p. 440.
72
Ibid., p. 441.
73
Ibid.
74
Ibid., cap. LXXIX , p. 374.
75
Ibid., cap. XLII , p. 218.
76
Ibid.
77
Ibid., p. 219.
78
Ibid., p. 226.
79
Ibid.
80
Ibid.
81
Ibid.
82
Ibid., cap. LXXXVI , pp. 403-4.
83
Ibid., cap. XLII , p. 224.
84
Ibid., cap. CII , pp. 471-75.
85
Ibid., p. 472.
86
Ibid., p. 473.
87
Ibid., cap. LXXXV , p. 395.
88
Ibid., p. 399.
89
Ibid.
90
Ibid., cap. XCIII , p. 436.
91
Ibid., cap. XXVII , p. 152.
92
Ibid., cap. XCIII , p. 438.
93
Ibid., p. 439.
94
Ibid.
95
Ibid., p. 439.
96
Ibid., cap. CXXV , p. 536.
97
Ibid., cap. XCIX , p. 453.
98
Ibid., cap. XXXVI , p. 192.
99
Ibid., cap. XXVII , p. 48.
100
Le diverse osservazioni si trovano ibid., cap. XCIX , pp. 454-58.
101
Ibid., p. 458.
102
Gioco di parole intraducibile tra batty, «pazzo, folle», e bat, «pipistrello» [N.d.T.].
103
melville, Moby Dick cit., cap. XXVIII , p. 155.
104
Ibid., cap. CXXV , p. 538.
105
Ibid., cap. CXXXIII , p. 567.
106
Ibid., pp. 562-63.
107
Ibid., p. 563.
108
Tutti ibid., cap. CXXXIII .
109
Ibid., cap. CXXXV , p. 573.
110
Ibid., cap. CXXXIV , p. 571.
111
Ibid., cap. CXXXV , p. 583.
112
Ibid., cap. XLI , pp. 213-14.
113
Ibid., cap. CXXXV , p. 586.
114
Ibid., cap. CXXXIII , p. 561.
115
Vedi G. SANBORN , Whence Come You Queequeg?, in «American Literature», vol. LXXVII , 2005,
n. 2, pp. 227-57.
116
MELVILLE , Moby Dick cit., cap. XVIII , p. 123.
117
Lettera del 4 gennaio 1939. Yeats morí il 28 gennaio di quello stesso anno.
118
MELVILLE , Moby Dick cit., cap. CX , p. 502.
119
Ibid., cap. CXXXV , p. 584.
120
Ibid., p. 587.
121
Ibid., cap. CX , p. 502.
122
Ibid., Epilogo, p. 588.
123
Vedi, per esempio, la lettera di Melville a Sophia Peabody Hawthorne dell’8 gennaio 1852,
ristampata a p. 547 della Norton Critical Editon di Moby Dick (cit. sopra).
Conclusione
Vite degne di essere vissute nella nostra epoca secolarizzata

Allo Yankee Stadium, il Quattro Luglio, neppure la sconfitta nel game


d’apertura era riuscita ad attenuare l’euforia della folla. I tifosi
allungavano il collo per poter dare una sbirciatina a Henry Louis Gehrig, il
timido, meraviglioso capitano dei New York Yankees. Soprannominato «il
Cavallo di Ferro», Gehrig aveva di recente battuto il record di 2130 partite
giocate consecutivamente in quattordici stagioni di baseball.
L’esordio risaliva all’inizio della stagione del 1925 e da allora Gehrig
aveva continuato a giocare, malgrado fratture, lombaggini paralizzanti e
persino i postumi di colpi di palla ricevuti in testa. Malgrado la sua
resistenza leggendaria, il 2 maggio il capitano degli Yankees si dimise
volontariamente dalla lineup. Una debolezza muscolare misteriosa e
debilitante lo aveva costretto a un gioco sempre piú irregolare e aveva la
sensazione di diventare un peso per la squadra. Rimase in carica come
capitano e si mise a guardare le partite dagli spalti, ma sui giornali
cominciò a trapelare ogni sorta di congettura sul suo stato di salute. Poi,
alla fine di giugno, dopo ripetute visite dagli specialisti della Mayo Clinic,
gli fu diagnosticata una sclerosi laterale amiotrofica – la malattia
devastante e mortale che attacca i motoneuroni del cervello e del midollo
spinale, che ora porta il suo nome. Anche se nessuno all’epoca lo sapeva
con certezza, la malattia era già a uno stadio relativamente avanzato.
Gehrig morí meno di due anni dopo, a trentasette anni.
Lou Gehrig probabilmente è stato il giocatore di baseball piú osannato
negli Stati Uniti – ammirato non solo per le sue capacità e per il suo
coraggio, ma anche come luminoso esempio di «vita esemplare a livello
sia sportivo sia etico» 1. Malgrado detestasse le luci della ribalta, gli amici, i
tifosi e i compagni di squadra non si lasciarono sfuggire l’occasione per
commemorare la sua vita. In quella che fu definita «la manifestazione
forse piú suggestiva e spettacolare mai organizzata nel mondo del
baseball», il Quattro Luglio una folla immensa si era accalcata allo Yankee
Stadium «ad acclamare a gran voce Henry Lou Gehrig e a dirgli addio» 2.
L’evento non deluse. Nell’intervallo tra un game e l’altro, una miriade
di microfoni spuntò intorno alla casa base e i compagni di squadra di
Gehrig si radunarono dietro di lui per sostenerlo. Una lunga fila di tifosi –
dal sindaco di New York fino all’intera équipe di portieri dello stadio – gli
tributò omaggi e plausi.
Poi fu la volta di Gehrig, che avrebbe dovuto ringraziare, ma era troppo
commosso per poter parlare. Sid Mercer, il conduttore della cerimonia, si
accorse della condizione di fragilità dell’atleta e prese il microfono per
ringraziare a nome suo, prima di concludere l’evento. Mentre Gehrig se ne
andava e i membri dello staff riponevano i microfoni, la folla irruppe in
una sorta di inno: «Vogliamo Lou! Vogliamo Lou!» Dopo un attimo di
esitazione, il campione ritornò al suo posto. Poiché le gambe tremanti gli
impedivano di avvicinarsi al microfono, Joe McCarthy, suo amico e
manager, gli porse il braccio. Poi, parlando a tono bassissimo, con una
voce sempre sul punto di incrinarsi, Lou iniziò il suo breve discorso con
due celebri frasi: «Cari tifosi, nelle due ultime settimane avete letto che ho
dovuto smettere di giocare. Eppure, oggi, mi considero l’uomo piú
fortunato sulla faccia della terra».
Parlò della sua sincera gratitudine per la gentilezza e per gli
incoraggiamenti che aveva ricevuto dai tifosi in tutta la sua carriera, per
l’onore di aver potuto giocare con i compagni di squadra e per gli
allenatori, e per la fortuna di avere una cosí bella famiglia e una moglie
«che è l’incarnazione della forza e del coraggio». Terminò con un’altra
celebre frase: «Vorrei concludere dicendo che, anche se ho dovuto
smettere di giocare, ho trovato un sacco di ragioni per vivere».
Per due minuti buoni, una vera e propria ovazione riempí lo stadio. Con
meno di duecento parole, il discorso d’addio di Lou Gehrig rimane forse
l’esempio piú eloquente di retorica americana mai realizzato fuori dalla
sfera politica 3. I filmati dell’evento mostrano uno stadio gremito, sempre
in bilico tra un religioso silenzio e un boato di applausi scroscianti. I
giornali descrissero la cerimonia come «una delle scene piú toccanti mai
successe su un campo da baseball, uno di quegli episodi che persino i
giocatori e i cronisti sportivi, uomini avvezzi a tutto, fecero fatica a
sopportare senza commuoversi» 4. Una cosa è certa: quel giorno, nello
stadio gremito, nessuno provò neppure il minimo accenno di quei
sentimenti di sconforto di cui abbiamo già parlato: né l’indecisione tipica
di T. S. Eliot, né l’interminabile senso di attesa di Samuel Beckett né la
rabbia e la frustrazione di David Foster Wallace di fronte alla sua
incapacità di dare un significato alla vita. Mentre erano allo stadio tutte
insieme ad ascoltare il discorso di Gehrig, le 62 000 persone presenti
sapevano esattamente cosa stavano facendo. Tra di loro emergeva un
grand’uomo, prossimo alla morte – Henry Lou Gehrig in persona 5.

L’ambito sportivo è il settore della vita contemporanea in cui gli


americani trovano piú facilmente il momento sacro della collettività. Nel
capitolo iniziale, abbiamo già visto che un grande atleta è in grado di
splendere come un dio greco e che, di fronte a lui, il senso di grandezza ed
eroismo diventa palpabile. Anzi si dice comunemente che, negli ultimi
anni, lo sport è diventato una sorta di religione popolare nella società
americana, che sostituisce le forme piú tradizionali di pratiche e
convinzioni religiose. Indipendentemente dal rigore storico e sociologico
di questa tesi sul ruolo quasi religioso dello sport oggi in America, è
difficile contestare il fenomeno che sta alla base. Non esiste una differenza
sostanziale tra il modo in cui ci si sente quando si canta la lode al Signore,
oppure quando ci si alza tutti insieme per entusiasmarsi dopo un Hail
Mary pass 6 oppure per una Immaculate Reception 7 o ancora per fare il tifo
a una delle squadre di football americano piú in voga, che siano gli Angels,
i Saints, i Friars o i Deamon Deacons 8.
Sotto un certo aspetto, l’associazione tra sport e religione nasce
dall’importanza che ha la collettività in entrambi gli ambiti. La sensazione
di essere in sintonia con altri esseri umani per celebrare una situazione
importante rinforza la percezione dell’eccellenza dell’evento. Una cosa è
sedersi da soli sul divano del salotto e guardare alla televisione qualche
exploit sportivo, come faceva qualche volta David Foster Wallace.
Tuttavia, momenti come questi guadagnano in significato se vengono
condivisi con persone altrettanto entusiaste che hanno gli stessi gusti. Che
sia in chiesa o in uno stadio, la passione è rinforzata quando è condivisa
con altri. Quando poi viene condiviso il fatto stesso della condivisione –
cioè la sensazione di spartire con altri la celebrazione di qualcosa di
importante –, allora il fervore che si prova brilla per cosí dire di una luce
particolare. Quando allo stadio vi trovate a «dare il cinque» allo
sconosciuto seduto accanto a voi, non siete di sicuro nello stato d’animo
incerto e tentennante del verso «Avrò il coraggio di mangiare una
pesca?» 9.
Avvenimenti di questo tipo non si limitano a suscitare euforia: rivelano
l’essenza di una situazione e permettono che ogni cosa ne venga
illuminata. Una splendida partita di baseball, per esempio, giocata in uno
stadio moderno capace di esaltare gli aspetti piú belli ed eccitanti di una
città, è in grado di riunire una grande folla e di spingere il singolo a
concentrarsi su quel che c’è di meglio nella stagione sportiva, tra il
pubblico, nella partita e anche in se stesso. Albert Borgmann, il filosofo
della tecnologia, descrive con grande efficacia questa possibilità,
collegandola esplicitamente all’idea della presenza delle divinità. «Per
alimentare il senso di appartenenza a una comunità», dice per esempio, «è
necessaria una realtà nutriente».
Un campo da baseball ben studiato ed elegante sintonizza gli spettatori su un unico
sentimento di armonia. Suscita orgoglio condiviso, piacere, una valutazione della
stagione e del luogo, un’anticipazione collettiva dello spettacolo. In questa situazione
di sintonia, perfetti sconosciuti condividono con naturalezza battute divertenti e risate
e sentono di appartenere a una comunità. Quando la realtà e la comunità coincidono,
si ha la sensazione che una divinità scenda in campo, una sorta di Dio impersonale, ma
non per questo meno potente 10.

Come sostiene Borgmann, le divinità che si calano sul campo da gioco


sono impersonali. Non portano con sé problemi d’ordine metafisico – per
esempio, nessuna soluzione per conciliare le tre persone della Trinità in un
unico Dio o per far danzare una moltitudine di angeli sulla punta di uno
spillo. Gli dèi impersonali del baseball non si pongono il problema
dell’aldilà o della natura dell’anima. Ma proprio questa mancanza di un
elemento personale conduce la nozione di sacro al suo nucleo essenziale.
Nietzsche diceva che il sacro, in una data cultura, è tutto ciò di cui non è
permesso ridere. Certo, si può ridere di uno spettacolo in cui uomini adulti
cercano di colpire una pallina con una mazza di legno, o lanciare uno
sferoide oltre una linea. Non è che gli sport siano sacri in senso assoluto.
Ma ci sono dei momenti – sia nel parteciparvi in prima persona sia
nell’assistervi – in cui avviene qualcosa di talmente straordinario che si ha
la sensazione di una presenza palpabile davanti a noi, che ci trasporta
come un’onda potente. In queste occasioni, non si tratta di prendere una
distanza ironica dall’evento, si tratta di cogliere il raggio di luce del sacro
che lo illumina.

Piú di altri, David Foster Wallace aveva una sensibilità particolarmente


acuta per questo genere di momenti sacri. Forse quest’affermazione può
sorprendere: la tesi cruciale del nostro capitolo su Wallace mirava a
sottolineare la tendenza nichilista del suo pensiero. Anche se sulla sua
opera domina una sorta di tenace nichilismo di stampo nietzscheano, era
uno scrittore straordinariamente ricettivo. Anzi si è fatto portavoce dei
fenomeni piú vari e tra loro incompatibili che esistono nel mondo
contemporaneo. In particolare, si trova nella sua opera una tendenza che
controbilancia il nichilismo e si incentra sui momenti sacri dello sport.
Wallace era un appassionato di tennis e, nel pantheon di giocatori che
ammirava, ha messo al primo posto Roger Federer. Le lodi piú sperticate
che fece su di lui apparvero in un articolo del «New York Times
Magazine», intitolato Federer come esperienza religiosa 11. «Se non avete
mai visto questo ragazzo giocare dal vivo», scrive Wallace,

e poi vi capita di assistere a un suo incontro, di persona, sull’erba sacra di Wimbledon,


nel caldo torrido, letteralmente, poi nel vento e sotto la pioggia dell’edizione 2006,
allora siete nella condizione di avere quella che un autista delle navette per la stampa
ha definito una «bloody near-religious experience», una maledetta esperienza quasi
religiosa. Si potrebbe essere tentati, sulle prime, di giudicare una frase simile come una
delle tante iperboli che le persone usano per descrivere la sensazione di un Momento
Federer. Ma la frase dell’autista risulta vera – letteralmente, per un istante,
estaticamente – anche se ci vuole del tempo e un’attenzione considerevole per vedere
emergere questa verità 12.

L’analisi che Wallace fa di Federer è magistrale. Sostiene che con la


combinazione di potere e bellezza, Federer è riuscito ad avere la meglio in
una partita giocata sulle linee di fondo, che per altri si sarebbe conclusa
con un nulla di fatto. In questo modo, dimostra, Federer «ha dato,
figurativamente e letteralmente, una nuova forma corporea al tennis
maschile» 13. Grazie al modo in cui si fa portatore di questo nuovo stile di
gioco, per la prima volta dopo anni, il tennis ha un futuro diverso,
imprevedibile, libero. Se Wallace non si sbaglia, la sua interpretazione dà
letteralmente significato all’ipotesi che assistere a una partita in cui gioca
Federer equivale ad avere un’esperienza religiosa: in questo modo si va
verso una concezione nuova dell’essere umano e dei suoi obiettivi.
Quest’idea di sacro completamente nuova mette a fuoco una tensione,
forse perfino un conflitto inconciliabile, sia nella scrittura di Wallace sia,
piú in generale, nella nostra cultura. Poiché Wallace attribuisce a Federer
una funzione riscattatoria, la salvezza che egli scorge nell’esperienza della
grazia atletica e della bellezza del tennista non è solo in conflitto, ma
addirittura capovolge, il tipo di beatitudine disincarnata rappresentata da
Mitchell Drinion, l’esattore delle tasse che levita.
Il modo migliore di analizzare la contraddizione esistente tra questi due
concetti di sacro consiste nell’evidenziare il corpo. La maggioranza delle
attività dell’uomo, anche quelle intellettuali e spirituali, in un modo o
nell’altro interessano il corpo. Il dolore dovuto alla ferita d’arma da fuoco
che prova Don Gately, per esempio, è all’origine della sua lunga
fantasticheria alla fine di Infinite Jest. Le rivelazioni suscitate da questa
fantasticheria, invece, danno luogo a un rifiuto del corpo, considerato un
elemento di debolezza. Come Agostino, Gately in definitiva aspira a una
condizione disincarnata – uno stato in cui il corpo e i suoi limiti si
dissolvono e non resta piú nulla oltre alla beatitudine estatica dell’eterno
presente. Wallace scrisse molto rapidamente i brani che riguardano Gately
– forse anche lui era in una sorta di trance di tipo gatelyesco – e si ha la
sensazione che il tema lo toccasse a livello personale. All’epoca disse a un
amico che lavorava con tale sicurezza ed efficacia da «non sentire neppure
il sedere sulla sedia» 14.
Ciò che accomuna l’esperienza di Gately, quella dello stesso Wallace,
che non percepisce piú nemmeno il sedere a contatto con la sedia, e quella
di Mitchell Drinion, che ha imparato a levitare, è il fatto che il corpo è
visto come un ostacolo. In questa tradizionale concezione agostiniana, la
vera beatitudine, la vera liberazione, nasce dalla capacità di staccarsi dal
peso del corpo. Indubbiamente, è una visione del corpo perfettamente
riconoscibile nelle tendenze della società attuale.
La grazia atletica di Federer, tuttavia, rivela un’altra concezione del
ruolo del corpo, molto piú sfumata. Lungi dal ripudiarlo, la maestria di
Federer sul campo da tennis «sembra essere strettamente legata alla
possibilità per un essere umano di riconciliarsi con il fatto di avere un
corpo» 15. Ciò non significa che i corpi siano sempre e interamente
«buoni»:

Ci sono molte cose negative rispetto al fatto di avere un corpo. Se questo non è cosí
ovvio per chiunque da non richiedere alcun esempio, possiamo menzionare
velocemente dolori, piaghe, odori, nausea, vecchiaia, gravità, sepsi, goffaggine,
malattia, limiti – ogni minimo scisma tra la nostra volontà fisica e le nostre attuali
possibilità. C’è davvero chi dubita che abbiamo bisogno d’aiuto per essere riconciliati?
Devo proprio dirlo? In fin dei conti, è il nostro corpo che muore 16.

Ma se ci si concentra soltanto su queste miserie corporali, la salvezza


consiste nel fatto di non avere un corpo: la beatitudine estatica di non
sentire piú la presenza del sedere a contatto con la sedia. La grazia
corporea, atletica di Federer ci spinge invece a esaltare le sacre meraviglie
del corpo:

Ci sono anche cose meravigliose, ovviamente, nell’avere un corpo – soltanto sono


molto piú difficili da percepire e apprezzare in tempo reale. Piú o meno come certe rare
ed elevate epifanie sensoriali («sono cosí felice di avere gli occhi per poter vedere
questo tramonto!», ecc.), i grandi atleti sembrano catalizzare la nostra consapevolezza
di quanto glorioso sia toccare e percepire, muoversi nello spazio, interagire con la
materia. Certo, le cose che i grandi atleti fanno con il proprio corpo il resto di noi può
solo sognarsele. Ma i sogni sono importanti – compensano diverse cose 17.

Detto altrimenti, la grazia atletica di Federer sottintende un concetto di


sacro pienamente incarnato e totalmente di-questo-mondo. Ingloba i limiti
del corpo, perché il fatto stesso di esplorare, ampliare e trasformare le
costrizioni corporali è fonte di esperienze nuove.
Piú ancora, ci permette di trovare una sorta di mistero e di magia
proprio qui, su questa terra: un mistero metafisico, come sottolinea
Wallace, in «quei rari atleti preternaturali» – atleti come Federer, Michael
Jordan e Muhammad Ali ­– «che sembrano dispensati, almeno in parte, da
certe leggi della fisica» 18. Ci permette di trovare qualcosa di divino e di
sacro in Jordan, che come una volta scrisse Wallace, è l’uomo, «sospeso a
mezz’aria come una sposa di Chagall» 19. Ci permette di alzarci in piedi
tutt’insieme in una manifestazione di gioia travolgente e spontanea di
fronte all’impresa eccezionale di Bill Bradley 20 capace di scindere in due la
difesa avversaria, oppure di Wesley Autrey, che si lancia sui binari della
metropolitana. E permette la reazione dello stesso Wallace, il quale guarda
– nientemeno che alla televisione 21 – il tiro impossibile di Federer, simile a
una scena di Matrix:

Non mi ricordo il genere di suoni emessi, ma mia moglie dice che quando è entrata
in stanza il divano era coperto di popcorn e io ero in ginocchio, con i bulbi oculari tipo
quelli dei negozi di scherzi 22.

L’interazione con una prestazione atletica che si esprime con grazia e


che è completamente incarnata – e con altri tipi di gioie anch’esse
completamente incarnate – può procurarci un’autentica esperienza
religiosa. È molto diversa tuttavia dal concetto agostiniano di sacro che
abbiamo analizzato prima. Si tratta di un’esperienza religiosa che, a
differenza dell’eterno Presente di Gately, non può essere vissuta
direttamente, non può essere rivelata né dal controllo né dalla volontà né
dal confronto: «Bisogna arrivarci piú che altro in modo obliquo, girarci
attorno, o … cercare di definirlo tramite ciò che non è» 23.
Questo approccio spontaneo mira alla riconciliazione invece che alla
purificazione. Comporta una nozione di sacro pienamente umana, che non
vive nel rifiuto o nella necessità di trascendere il dolore e la noia, la rabbia
e l’angoscia, ma nella capacità di riconoscere che questi aspetti difficili
dell’esistenza convivono con i momenti sacri, si completano a vicenda e si
danno reciprocamente un significato. Con questa nozione di sacro, si
accetta l’idea che non è possibile che esistano dèi capaci di vegliare su di
noi, senza che contemporaneamente ne esistano altri che invece si
infuriano e si esasperano 24.
Infine, proprio per questa ragione, si tratta di un’esperienza in cui è
necessario riconoscere il bisogno di sottoporsi a pratiche per «propiziare
l’incantesimo divino» 25. Sono pratiche che Wallace non immagina
nemmeno, ma che noi intendiamo mettere a fuoco e descrivere in questa
conclusione. Malgrado tutta la sua sensibilità verso la grazia corporea e
atletica, Wallace rimane profondamente ancorato a un universo
nietzscheano nichilista. Per lui, pratiche di questo genere assomigliano a
ingenue superstizioni 26 e non a riti autenticamente sacri, perché dopotutto
viviamo ancora sotto il «cielo egoista» di Cartesio, accanto alle sue
«colline deserte» 27.
Questo è il motivo per cui Wallace non è stato in grado di guardare agli
dèi del passato. Tuttavia, ciò non gli ha impedito di provare stupore e
reverenziale rispetto per il mondo in cui esiste questo tipo di esperienza
religiosa totalmente umana. «È difficile descriverla», disse,

è un pensiero che è anche una sensazione. Uno non vuole farla troppo grossa, né
fingere che le due cose si bilancino equamente; sarebbe grottesco. Ma la verità è che
qualsiasi divinità, entità, energia o flusso genetico casuale produce bambini malati, ha
prodotto anche Roger Federer, e vi basta guardarlo laggiú in campo. Guardatelo! 28.

Ci sono quattro punti da prendere in considerazione sui momenti sacri


nello sport, punti che permettono di focalizzarsi su ciò che Wallace non è
stato in grado di vedere. Innanzitutto, nei momenti veramente
straordinari, succede qualcosa di travolgente. Scaturisce come d’incanto e
ci trascina nella corrente delle sue potentissime onde. La metafora delle
onde è particolarmente importante. Quando un’onda raggiunge la sua
massima lunghezza, diventa come una base solida in grado di sostenere i
surfisti che la navigano. Piú si espande piú è trascinante. Ma quando
l’onda passa, non rimane null’altro che il suo ricordo. Provate a rimanere
in piedi sull’acqua calma e vi renderete conto che non ha piú alcuna
funzione di sostegno. I momenti culminanti dello sport sono momenti di
questo tipo. Quando vi ci trovate in mezzo, a cavalcare l’onda, vi
trascinano con loro e danno senso alla vita. Come dice Borgmann:

All’inizio di una partita reale, non c’è modo di prevedere o controllare quello che
succederà. Nessuno può provocare o garantire il flusso della partita. Si manifesta e si
rivela durante il gioco. Può suscitare uno stato di grazia oppure di disperazione, è
all’origine di atti di eroismo oppure di totali disfatte, infonde entusiasmo oppure
infligge patimenti e dispiaceri. È sempre piú grandiosa degli individui che tiene
uniti 29.

Il significato che le partite danno alla nostra vita è tuttavia temporaneo.


Ci si rammenta di essersi sentiti coinvolti dall’eccitazione del gioco, di
essere stati trasportati e travolti dalla situazione. Ma il ricordo dell’evento
non ci dice nulla su come comportarci quando tutto è sfumato. Questo
elemento rende il concetto contemporaneo di sacro e di reale radicalmente
diverso da molti altri concetti che ben conosciamo. L’idea su cui fondare la
nostra esistenza, per esempio, non ha piú nulla della certezza e della
sicurezza eterne e definitive che i filosofi, da Platone a Cartesio,
intendevano. E in esso non c’è nulla di simile al tipo di verità monoteistica
e unica a cui ci ha abituati la religione giudeo-cristiana. Anzi questo tipo
di certezza tipica dell’età preassiale è transitoria e molteplice e richiede la
massima attenzione. Come ben sa Omero, vi trasporta per un attimo, ma
non può durare per sempre.
In secondo luogo, questa caratteristica del sacro tipica della nostra
cultura si collega strettamente alla concezione di realtà della Grecia di
Omero. Ai suoi tempi il nome per «natura» era physis, che è un termine da
cui deriva la parola fisica. La fisica oggi è la disciplina che studia il mondo
com’è, ma noi abbiamo una concezione della realtà ben diversa da quella
di Omero. Per noi, gli elementi finali della natura sono i quark e i leptoni e
altre particelle subatomiche che hanno una carica e una massa. O forse i
costituenti ultimi sono le stringhe aperte, minuscole particelle vibranti
multidimensionali. Anzi magari la fisica un giorno ci dirà ancora qualcosa
di diverso. Tuttavia, indipendentemente da quanto la fisica è in grado di
dirci sull’universo, si tratta pur sempre di individuare gli elementi di base
e di tracciare le leggi che governano la loro interazione casuale. Per Omero
questo concetto di realtà non è sbagliato riguardo ai fatti, come se qualche
altra interpretazione causale, fisica potesse essere giusta 30. Invece, per lui,
la spiegazione causale comincia nel punto sbagliato. La parola physis
all’epoca di Omero non corrispondeva agli elementi ultimi dell’universo,
ma al modo in cui la realtà si presentava a noi uomini.
Nel mondo omerico ciò che veramente conta nasce in un attimo e ci
trascina via con lui, ci avvince per qualche tempo e poi ci lascia andare. Se
dovessimo tradurre la parola physis come viene utilizzata da Omero, la
scelta migliore sarebbe whooshing up 31. Tutto ciò che esiste, per Omero,
«passa come una folata di vento»: come lo splendente Achille «è
trascinato» nella mischia della battaglia o si ha l’impressione di «essere
trascinati» da un’emozione amorosa provocata da un meraviglioso
straniero come Paride; uno scoglio si «manifesta sibilando» nel mare in
tempesta, inducendo Odisseo ad allungare una mano per aggrapparsi.
Questi erano i momenti pieni di luce dell’universo omerico. E questa
«folata» è quanto si verifica in occasione delle straordinarie performance
atletiche nel mondo dello sport. Quando qualcosa «passa sibilando» in
questo modo, riesce ad attrarre a sé e a organizzare tutto ciò che ha
intorno. Il grande atleta nel bel mezzo della partita si alza e splende – tutta
l’attenzione si concentra su di lui. E tutti intorno – i giocatori sul campo,
gli allenatori, i tifosi sugli spalti, i commentatori sportivi nelle cabine –
tutti capiscono chi sono e cosa devono fare, in rapporto all’evento sacro
che si sta verificando. Nel mondo di Omero, «passa come una folata di
vento» ciò che splende sul resto del mondo e che davvero conta. È questo
che sentiamo in occasione dei grandi exploit sportivi.
Vale la pena sottolineare che il concetto omerico di realtà non è
compatibile con la nostra attuale conoscenza scientifica – i due approcci
non spiegano lo stesso tipo di fenomeni. Eppure si potrebbe essere
d’accordo con entrambi – e noi pensiamo che si dovrebbe – senza conflitto
alcuno. La concezione scientifica della realtà si concentra sulla causa;
quella di Omero, invece, descrive il modo con cui si manifestano i
momenti piú importanti o significativi dell’esistenza. Certo, gli eventi
significativi – come i grandi exploit sportivi – comportano elementi che
hanno un fondamento causale. Ma la struttura causale dei muscoli di una
gamba nella coscia sinistra di Lou Gehrig non ha nessuna importanza
quando si tratta di capire che cosa significa essere conquistati da una delle
sue straordinarie giocate o commossi dal suo discorso di addio.
Il terzo punto di cui è importante parlare è che il fenomeno physis non
esiste unicamente nello sport. È possibile che nella nostra cultura lo sport
fornisca l’occasione per vedere all’opera questo fenomeno allo stato puro
– infatti, in linea di massima, è in ambito sportivo che gli americani
contemporanei di solito provano un senso di appartenenza alla comunità,
condividono significati e comprendono la portata eccezionale di un
evento, anche se solo per poco tempo. Ciò non significa che non possa
succedere anche in altri contesti. Molte persone, per esempio, hanno avuto
la sensazione di affinare la loro percezione di se stessi e del mondo, mentre
ascoltavano il discorso di Martin Luther King al National Mall di
Washington. Per qualcun altro, invece, potrebbe avvenire durante un
importante pranzo in famiglia in occasione del giorno del ringraziamento.
Forse altri hanno questo tipo di sensazione intensa e collettiva in un’aula
scolastica. Non c’è nulla nella nostra argomentazione che ci obbliga a
limitarci al contesto sportivo: ci sembra soltanto che, nella società
americana contemporanea, il fenomeno sia particolarmente pregnante
nello sport.
L’esempio dello sport è anche importante per un’altra ragione, che ci
porterà al quarto punto che intendiamo analizzare. C’è qualcosa di
potenzialmente pericoloso nel fenomeno che abbiamo appena descritto.
Potenzialmente pericoloso e forse persino repellente. Per capirlo, bisogna
affrontare il punto finale della nostra analisi sulla physis.
Qualche tempo fa, a una cena, uno di noi due stava descrivendo il
fenomeno di cui abbiamo parlato, in cui un evento ci «trascina
letteralmente fuori da noi» (whooshing up). Una risposta immediata ci
venne da un collega – lui stesso uno stimato filosofo, molto affabile, che ha
fatto ricerche su argomenti affini. «So benissimo che cosa significa provare
questa sorta di energia pulsante mentre ci si trova nella folla», disse. «E
ogni volta che mi succede, tento di andarmene il piú in fretta possibile». A
questo punto la discussione si interruppe, come spesso avviene con le
conversazioni mondane, e non riuscimmo a capire qual era la fonte di
inquietudine del nostro collega. È comunque chiaro che cosa si intende
con una simile osservazione, ed è altrettanto chiaro che implica una
preoccupazione reale. Senza attribuire al nostro amico nulla di quanto
segue, vorremmo ora introdurvi ai possibili pericoli dell’«euforia scatenata
da un evento collettivo» (whooshing up).
Innanzitutto, vorremmo osservare che sentirsi travolti da una forza piú
potente di noi significa non riuscire piú ad avere il controllo completo
delle nostre azioni. Quando mi succede di alzarmi in mezzo alla folla
osannante durante una partita, ho la sensazione di non essere davvero
responsabile delle mie azioni. Sono evidentemente i miei muscoli che
generano l’atto motorio – le gambe si tendono, si alzano le braccia, si
emettono suoni inarticolati che significano «Hurrà!» Ma mi pare di
compiere tali movimenti senza averlo davvero deciso. L’attività sfugge al
controllo, nel senso che non si agisce volontariamente. Naturalmente
nessuno mi obbliga a balzare in piedi e mettermi a fare il tifo. Io per
esempio ho sempre scelto un atteggiamento di ironica distanza dalla
situazione e addirittura, come ha suggerito il nostro collega, a volte me ne
sono andato. Ma finché mi sento coinvolto dalla situazione, mi pare di non
essere il vero responsabile del mio agire.
In termini razionali, come la giudicherebbero i pensatori illuministi, si
tratta di una condizione sconcertante. In una sua celebre opera, Kant
affermò che «l’Illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità
che egli deve imputare a lui stesso» 32. Essere immaturi in senso kantiano
significa semplicemente permettere a se stessi di agire in un modo che non
è stato scelto liberamente. Non riuscire a opporsi all’insensatezza della
folla è il caso piú eclatante. La maturità invece significa avere la
determinazione e il coraggio di servirsi del proprio intelletto per scegliere
come agire, senza la guida di nessuno o di nulla esterno a sé. Quindi, un
comportamento maturo – nel senso della maturità kantiana – da adottare
in una partita di baseball consiste nel resistere alla forza della reazione
della folla per decidere come individuo razionale qual è la risposta giusta a
questo genere di situazione. Si potrebbe decidere che un exploit sportivo
merita un applauso e, in questo caso, esprimere la propria approvazione
nel modo piú adeguato. Non sarebbe invece plausibile alzarsi come un solo
uomo con la folla urlante.
È probabilmente un modo di comportarsi assai noioso per una partita
di baseball, ma la prudenza di Kant cela un suo significato profondo.
Brevissima è infatti la distanza tra alzarsi con la folla a una partita di
baseball e alzarsi con la folla a un’adunata hitleriana. Quindi, se si
considera il discorso d’addio di Lou Gehrig una manifestazione di retorica
anziché un comportamento squisitamente sportivo, la distanza diventa
ancora piú esigua. Il fenomeno dell’«essere trascinati via» (whooshing up),
con la sua forza prorompente, ha quindi due facce. Se non siamo in grado
di esprimere la differenza tra il commiato di Lou Gehrig e un discorso
trionfale di Hitler, forse la maturità kantiana, per quanto noiosa, è
l’indicazione piú saggia.

È la stessa scelta che ci troviamo di fronte tra una vita di attività


tediose, ma ragionevoli ed eticamente corrette, e una vita di azioni
spericolate, perfino potenzialmente offensive, ma elettrizzanti e intense?
No. La posta in gioco è ben piú alta. L’esaltazione dell’individuo, tipica
dell’Illuminismo, non porta soltanto a una vita noiosa: quasi
inevitabilmente ci spinge a condurre una vita invivibile. Già in Dante, per
esempio, l’imposizione della volontà individuale era considerata una
ribellione contro la fonte unica di significato dell’universo. Ed essere una
testa «vuota per la forza» come il capitano Achab di Melville non era
molto dissimile. Secondo la concezione di Melville, si rivelano un tragico
errore sia la sua esigenza di trovare una risposta chiara, articolata e
incontrovertibile alla domanda sul suo ruolo individuale nell’universo, sia
l’ossessione di essere al centro del mondo.
La nostra situazione contemporanea forse è ancora peggiore. Il bisogno
di David Foster Wallace di trovare nell’individuo un significato ex nihilo lo
pone nella posizione tradizionalmente riservata a Dio, una posizione che
anche Nietzsche condivide. Il modo in cui Wallace indaga su questo stato
quasi divino, tuttavia, in ultima analisi lo pone di fronte a un dilemma: da
una parte c’è la necessità assoluta di avere una vita piena di significato,
dall’altra la sensazione di non poterla capire e neppure vivere. Se questi
scrittori hanno colto nel segno, l’autonomia individualista rischia allora di
sconfinare nella malvagità o di risolversi in tragedia, o quantomeno
ispirare il nichilismo o spingere al suicidio. L’esaltazione illuministica
dell’individualismo metafisico ha rappresentato una svolta drammatica
nella storia dell’Occidente. Tuttavia, invece di rappresentare lo stadio
finale e piú avanzato nella storia della conoscenza di sé, questo è l’ultimo
passo verso il declino, un declino che va da Lutero a Kant fino a Nietzsche,
è un’esaltazione dell’Io che annienta ogni possibilità di vivere una vita
valida e significativa.
Come antidoto a questa condizione, abbiamo sostenuto che esiste
ancora nella cultura americana di oggi il fenomeno di base del politeismo
omerico – l’euforia per un «vento collettivo» (whooshing up) che ci prende
nel suo vortice e poi ci lascia andare. Questa fonte di significato,
naturalmente, è in conflitto con gli ideali illuministici dell’individualismo,
per la semplice ragione che il «sentirsi trascinare da un evento esterno»
(whooshing up) nasce all’interno della collettività e non dell’individuo. È in
una comunità di questo tipo, per esempio, che Ismaele vorrebbe spremere
per sempre lo spermaceti. È simile il momento di entusiasmo in una
partita di baseball o di calcio: si vorrebbe che durasse per sempre, pur
sapendo che non è possibile. Questi momenti regalano ciò che l’autonomia
non è in grado di dare: la sensazione di partecipare a qualcosa che
trascende lo status di individuo.
C’è una nota di grande speranza nell’idea che è possibile opporsi
all’assenza di significato della vita, imparando a essere ricettivi al
fenomeno descritto e affinando questa sensibilità. Se fosse cosí facile, non
avremmo piú niente da aggiungere. Ma il prezzo potenziale di questa
ricettività ritrovata è davvero proibitivo. Infatti, uno stile di vita che si
lasci condizionare dalla retorica fascista non è accettabile. Siamo quindi
inchiodati tra Scilla e Cariddi: da una parte una vita nichilista priva di
significato, dall’altra una vita densa di senso, ma potenzialmente amorale.
Purtroppo non possiamo muoverci in mezzo a questi pericoli
semplicemente aderendo al politeismo di Omero. Ci sono cose in Omero
che giustamente ci ripugnano e sarebbe una regressione invocare un
ritorno allo stile di vita da lui raffigurato. Nell’Iliade, per esempio, dopo
aver ucciso Ettore, Achille trascina il suo corpo intorno alla città di Troia
per tre giorni, in una sorta di follia esasperata dal suo status di eroe.
Omero non elogia questo comportamento sconsiderato, ma neppure lo
condanna: si limita a descrivere l’emozione del padre di Ettore, Priamo. Da
parte nostra, dobbiamo essere in grado di prendere una posizione che ci
permetta di condannare un simile gesto anche qualora ci trovassimo tra la
folla che lo applaude. In questo punto fondamentale, Omero ha un
atteggiamento pericolosamente neutrale.

Se non siamo in grado di evitare il pericolo a cui si espone Omero, tutto


ciò che abbiamo detto finora è inutile. La risposta giusta a una minaccia di
questo genere comincia se si capisce che, per fortuna, accanto alla physis
estatica ci sono altre pratiche sacre realizzabili nella nostra cultura.
Compresi ed eseguiti nel modo giusto, questi diversi approcci al sacro
permettono di preservare al massimo la physis, pur impedendo le sue
manifestazioni piú esecrabili. Prima di analizzare questa reazione ai
pericoli della physis, è necessario esaminare una pratica sacra compiuta ai
margini della nostra cultura, che costituisce la base per mantenere la
physis entro i suoi limiti.
Questa pratica culturale educativa era chiamata poiesis. Fino a un
centinaio di anni fa, le pratiche di educazione e di cura della poiesis
costituivano il nucleo intorno a cui si organizzava la vita. Lo stile poietico
si manifestava, tra l’altro, nell’abilità dell’artigiano di creare oggetti il piú
possibile perfetti. Si tratta di un’antica tradizione culturale che era già
consolidata al tempo di Omero, dove Efesto, il dio artigiano, creava
splendidi manufatti, di fronte a cui si inchinavano i cittadini ammirati.
Efesto tuttavia era un personaggio marginale nel pantheon omerico. Fu
soltanto con Eschilo che lo stile poietico di Atena portò la cultura al suo
massimo splendore, cominciando a organizzare il reale. Nel XIX secolo era
ancora viva e solida una concezione poietica, plasmata sul modello
dell’artefice-artigiano capace di esprimere nel modo piú eccelso gli aspetti
significativi dell’esistenza, ma nella nostra epoca tecnologica è in totale
declino.
A dispetto della tendenza generale, estranea alle competenze di tipo
poietico, ci sono dei settori in cui esse sono ancora essenziali. Per imparare
a giocare a baseball, o a tennis oppure per suonare il pianoforte, per
esempio, si fruisce ancora di un insegnamento relativamente tradizionale.
Si assegna all’aspirante atleta o pianista una serie di esercizi che lo
addestrano a reagire in modo automatico ed efficiente a certi tipi di
situazioni – una palla lanciata a terra sulla sinistra, una volata di tre ottave
– e, sulla base di questi esercizi, ci si aspetta che il principiante raggiunga
progressivamente una maestria tecnica in una data disciplina. Eppure
molti considerano questo tipo di apprendimento come una vera corvée e il
tipo di automatismo che permette di attivare sembra troppo banale per la
fatica che c’è a monte.
Le competenze di questo tipo tuttavia sono molto piú sfumate e
complesse di quanto si può dedurre da questa descrizione. Possiamo
constatare che il raggiungimento di una preparazione ottimale comporta
qualcosa di piú di una semplice acquisizione di abilità motorie. Imparare
una disciplina significa imparare a vedere il mondo in modo diverso. Il
chirurgo esperto, per esempio, non vede soltanto una gamba fratturata
coperta di sangue: vede una frattura di un certo tipo che richiede una
tecnica chirurgica particolare per ricomporre l’arto. Analogamente,
sentiamo dire che, nel football americano, un apprezzato running back ha
«una visione d’insieme» straordinaria o che, nel basket, un playmaker ha
un «senso del campo» eccezionale. Nei diversi esempi, significa che
l’abilità dell’individuo in campo chirurgico oppure nel correre e passare la
palla gli permette di cogliere dettagli significativi che gli altri non sono in
grado di capire.
Per comprendere meglio il fenomeno, dobbiamo pensare a qualcosa di
piú ampia portata della semplice abilità fisica. Dobbiamo ritornare a
un’epoca in cui le competenze dell’artigiano erano fondamentali per il
modo in cui la gente viveva la propria vita.
Prendiamo l’esempio del carraio alla fine del XIX secolo. Nella bottega
del carraio si trovavano operai che avevano fatto gli apprendisti da un
mastro artigiano. La nozione di competenza manuale o, in senso lato, di
perizia artigiana, che organizzava la vita del carraio, era molto piú ampia e
complessa della nostra. Laddove concepiamo le competenze soprattutto in
termini di eccellenza tecnica, la concezione del carraio la supera in almeno
tre punti importanti. Quasi cent’anni fa, George Sturt, l’ultimo di una
famiglia di carrai, descrisse il modo in cui era concepita tradizionalmente
la sua arte 33. Possiamo iniziare con il modo in cui il carraio valutava il
legno. Sturt scrive:

Ho conosciuto artigiani all’antica che rifiutavano di servirsi del consueto legname


perché sembrava loro inadatto al lavoro. E ci azzeccavano. L’artigiano esperto era il
giudice ultimo. Con la pialla (oggi la si utilizza poco) o sotto i colpi dell’ascia (che è
tutt’altro che obsoleta), il legname rivelava qualità che difficilmente venivano alla luce
in altre circostanze. Lo so dai miei stessi occhi e dal tocco della mia mano, ma non
posso insegnare a qualcuno che viene da fuori la differenza tra frassino «rozzo come
uno sverzino» e frassino «friabile come una carota» oppure «compatto» o «tenero
come un biscotto». Quercia o faggio, queste differenze sono chiaramente distinguibili,
ma solo a coloro che sono stati iniziati al lavoro pratico 34.

Sturt ribadisce quello che avevamo già detto a proposito di un atleta ai


massimi livelli; come il running back che individua subito il momento
migliore per lanciare la palla, un abile artigiano, con anni di esperienza, ha
imparato come individuare differenze di valore invisibili a occhi meno
esperti. Sturt mette anche in rilievo qualcosa che noi non abbiamo ancora
notato: il legame esatto tra le competenze fisiche del lavoratore e le
differenze che è in grado di individuare. Secondo Sturt, sotto i colpi
dell’ascia o con il movimento della pialla il legname rivela qualità che
altrimenti non si noterebbero. È soltanto perché si percepiscono al tocco
che queste differenze possono poi essere rilevate con lo sguardo. La
capacità di vedere ciò che è importante non può essere insegnata a
qualcuno nuovo del mestiere, poiché non si tratta tanto di distinguere
sfumature di colore o di consistenza o altre qualità visibili del legno. Si
tratta piuttosto di capire immediatamente come il legno reagirà all’ascia o
alla sega o alla pialla, indovinando se sarà in grado di resistere o se si
spezzerà sotto il peso. Individuare queste proprietà nell’ambiente richiede
la capacità di vibrare un colpo, o di segare o di dar di pialla, di costruire le
ruote e di fissarle al carro nel modo che si adatta alle necessità
dell’agricoltore che l’ha commissionato. Questa concezione della
competenza è sostanzialmente pratica ed espressa dal corpo.
Vale la pena notare che, anche se non c’è nulla di misterioso in queste
riflessioni del mastro carraio – non c’è nulla di magico o di sovrannaturale
–, ciononostante il fenomeno è di per sé una rivelazione. Infatti,
considerato opportunamente, ci insegna un modo completamente nuovo
di capire chi siamo. Il carraio vede differenze significative nel legno –
differenze di valore e di qualità – che in nessun modo sono dovute a lui in
quanto individuo. L’abile artigiano non decide di trattare il frassino come
se fosse «friabile come la carota», come fa invece David Foster Wallace,
che decide di trattare la donna in coda alla cassa come se stesse per andare
all’ospedale a trovare il marito. Il problema fa parte del mondo. Il compito
dell’artigiano non è generare significato, ma coltivare in se stesso la
capacità di discernere un significato che è già presente.
Su questo fenomeno avremmo qualcosa da aggiungere. Non si tratta
soltanto del fatto che il carraio è in grado di individuare alcune differenze;
la sua conoscenza del legno è ricca e dettagliata. Su questo punto, Sturt è
molto chiaro, mentre gli esempi tratti dalla vita contemporanea non lo
sono affatto. Un artigiano veramente abile, secondo Sturt, capisce che ogni
pezzo di legno con cui lavora è diverso dall’altro, comprende la sua
personalità, la sua individualità. Ogni pezzo crea difficoltà che il
precedente non aveva contemplato, o suggerisce un approccio che l’altro
pezzo non rendeva necessario. Per essere un vero artigiano del legno,
bisogna essere capace di riconoscere con precisione come deve essere
lavorato:

[Il falegname] non ha una sega a nastro (come ora) da manovrare a ogni resistenza
del materiale, con la sua spietata assenza di intelligenza. Il legname è lungi dall’essere
una preda o una vittima impotente della macchina. Porge invece le sue delicate virtú
all’uomo, il quale sa come entrare in contatto con esso: come con un amico
comprensivo, sarà capace di collaborare 35.

La descrizione di Sturt ci dà un secondo indizio che permette di


arricchire la nozione di competenza. Per l’artigiano del legno, è unico ogni
pezzo con cui lavora e quindi, piú in generale, ogni situazione di
falegnameria in cui si trova. La competenza del mastro artigiano che
lavora con il legno comporta intelligenza e flessibilità, non routine e
automatismi. Questo non significa che egli debba continuamente
pianificare ogni azione; la sua ingegnosità è di tipo pratico, espressa dal
corpo e dal momento. Il mastro artigiano raramente fa due volte la stessa
cosa.
Infine, ciò che forse conta di piú è il fatto che l’unicità di ogni
situazione dà una dimensione sacra al lavoro dell’artigiano. Poiché,
secondo Sturt, ogni pezzo di legno è diverso dagli altri e ha la sua
personalità, l’artigiano ha un rapporto intimo con il materiale che sta
lavorando. Le sue delicate qualità richiedono di essere coltivate e trattate
con riguardo. Il senso di intimità con il legno genera nell’artigiano un
senso di rispetto. Non si tratta tuttavia soltanto del legno che arriva
debitamente tagliato ed essiccato nel laboratorio del falegname. Il legno
proviene da un luogo preciso e l’artigiano deve conoscere il suolo locale, il
terreno e le fonti idriche che lo hanno nutrito. Riesce a conoscere
dettagliatamente il tempo e le stagioni, poiché sono responsabili del modo
in cui il legno reagisce al contatto con la sega: sa per esempio che il
legname tagliato in inverno secca in modo diverso da quello tagliato alla
fine della primavera o in estate e in autunno. Infine, questa conoscenza
pratica infonde nel falegname un legame con la campagna in cui vive e
con la sua terra, che va ben oltre la semplice capacità di manipolare il
legno. Sturt parla della «reverenza dell’artigiano per la terra e la
campagna» in cui vive. Questo rispetto per il proprio paese trascende il
concetto di abilità intesa come competenza tecnica e crea un legame con il
senso del sacro – portandoci alla fine a dare il meglio di noi.
Forse Sturt si dilunga sul senso di rispetto per la propria terra provato
dal carraio, soprattutto quando ne coglie il contrasto con lo sviluppo del
mondo moderno. Poiché l’abilità e l’intuito nel lavorare con la terra ormai
sono sostituiti dalla «spietata mancanza di intelligenza» delle macchine,
questo rispetto per la campagna si perde rapidamente.

C’era, un tempo, una relazione molto stretta tra la campagna ricoperta di alberi e
l’uomo inglese che vi abitava. Ma ora, sono sfumati l’affetto e la reverenza che ne
scaturivano – infatti era davvero con qualcosa di simile alla reverenza che un vero
provinciale si accostava agli alberi natii. Una sorta di avida prostituzione ha
completamente dissacrato le foreste di un tempo. Tutt’intorno a me, scorgo e sento
fare a cuor leggero azioni che a me erano sempre sembrate improntate alla magia –
cose che urtano profondamente i miei sentimenti, come bardare un cavallo da tiro per
attaccarlo a un carro troppo pesante o demolire una cattedrale per trafugare le pietre
da costruzione 36.

Gli alberi che forniscono il materiale poi sottoposto alla perizia del
carraio, quindi, sono qualcosa di molto piú complesso della semplice
enumerazione di proprietà fisiche che li descrive. Come le pietre di una
cattedrale, sono sacri e devono essere trattati con cura e con rispetto.
Agire altrimenti è una profanazione.
La descrizione di Sturt ci offre un quadro ricco e affascinante della
competenza dell’artigiano. Al posto della prestazione tecnica di un
individuo isolato dal contesto e completamente autonomo, l’artigiano di
Sturt esiste interamente in rapporto con il luogo in cui vive. Come in ogni
buona relazione, ciascuno dei due interagisce con l’altro in modo ottimale.
È perché il falegname è un buon osservatore del legno e non una
macchina spietata priva di intelligenza che il legno gli rivela le sue delicate
qualità. Visto che le possiede, l’artigiano è già in grado di coltivare in se
stesso la capacità di differenziarle e in ultima analisi di provare reverenza
e senso di responsabilità per il legno e per il luogo in cui è nato. Si
instaura una sorta di feedback continuo tra l’artigiano e la materia:
ognuno si coltiva a vicenda in uno stato di muta comprensione e di
reciproco rispetto 37. Abbiamo visto il nome che Aristotele dava a questo
reciproco nutrirsi dell’artigiano e della sua arte: la chiamava poiesis.
Purtroppo, la capacità di creare una competenza di tipo artigianale di
per sé non annulla i pericoli della physis. Persino un mastro carraio pieno
di reverenza per la sua terra sarebbe obnubilato dal potere della retorica di
Hitler. Tuttavia, rimane fondamentale il fatto che le competenze di tipo
artigianale sono in grado di rivelare significative differenze del reale. C’è
un altro tipo di attitudine poietica che nessuno ha ancora rilevato, anche se
già agisce nella vita della gente: la raffinata facoltà di reagire alle rilevanti
differenze che esistono tra il modo in cui ci si lascia trascinare senza gravi
conseguenze e quello invece in cui si incorre in un pericolo reale. La
persona che ha acquisito tale capacità sa che non è sempre appropriato
andarsene quando ci si trova immersi nella folla – essere travolti dallo
stato d’animo collettivo evocato dal celeberrimo «I have a dream» e alzarsi
con altre 200 000 persone ad acclamare Martin Luther King è positivo: non
ci sarebbe nessun motivo di orgoglio se invece si abbandonasse la folla. Se
quel giorno invece tutti coloro che erano radunati al National Mall se ne
fossero andati o avessero semplicemente reagito con una fredda
approvazione d’ordine razionale, l’avvenimento non avrebbe potuto avere
la portata e l’effetto che ebbe in realtà e il mondo in cui viviamo ne
sarebbe risultato impoverito.
Riconoscere quando è giusto lasciarsi trascinare da un evento collettivo
o quando invece è ragionevole andarsene presuppone una capacità di
discernimento altamente sviluppata, che è fondamentale per il mondo
contemporaneo. Riuscire ad acquisire questa capacità, come qualunque
altra, comporta il fatto di assumersi dei rischi, come vedremo. Per il
momento basta osservare che questa facoltà ci permette di coltivare una
forma straordinaria di sacro nella nostra cultura. La meta-poiesis, come la
si potrebbe chiamare, deve riuscire a destreggiarsi tra i due pericoli
gemelli della nostra epoca secolarizzata: è in grado di resistere al
nichilismo riappropriandosi del fenomeno sacro della physis, ma coltiva
anche la capacità di resistere alla physis nella sua forma piú fanatica e
amorale. Vivere bene nella nostra società nichilista e secolarizzata richiede
quindi la competenza molto sofisticata di riconoscere quando è il caso di
alzarsi con una folla estatica e quando invece conviene voltare i tacchi e
andarsene in tutta fretta.
Ritorneremo fra poco alla meta-poiesis. Prima, dobbiamo capire che
nell’era tecnologica viene osteggiata anche la conoscenza di noi stessi da
cui la meta-poiesis dipende – cioè la comprensione dell’uomo in quanto
essere capace di individuare differenze significative coltivando le proprie
competenze.
Se la physis selvaggia ed estatica costituisce il regno sacro del
significato evidente ancora oggi, la poiesis con la sua delicatezza e il suo
carattere spiritualmente nutriente, è un’arte in declino. In parte, si tratta
del risultato del nostro stesso successo: i progressi della tecnologia hanno
diminuito l’importanza delle capacità specializzate nella vita
contemporanea. Anzi il principale obiettivo della tecnologia è rendere
accessibile a tutti ogni settore, indipendentemente dal suo livello di
capacità. «Anche un bambino può farlo!» è il mantra dell’era tecnologica.
Per preparare un pranzo basta schiacciare un bottone, per viaggiare per il
mondo basta salire su un aereo. Per fare un percorso in macchina in una
regione che ci è sconosciuta, ci si limita a girare a destra o a sinistra in
base alle indicazioni del GPS . La tecnologia migliora le nostre vite
rendendo facili le cose difficili. Questo è l’assioma di base del mondo
contemporaneo.
Il miglioramento della tecnologia è anche un impoverimento. Il GPS
elimina tutte quelle distinzioni significative che venivano rivelate dall’arte
di saper viaggiare. Nella misura in cui la tecnologia rende inutile la
nozione stessa di capacità, sopprime anche la possibilità di trovare un
significato. Avere una capacità significa sapere quello che è importante o
meritevole di valore in un dato campo. Le capacità ci rivelano differenze
significative e coltivano in noi un senso di responsabilità che ci permette
di esplicitarle al meglio. Poiché annulla la necessità di acquisire le
capacità, la tecnologia appiattisce la vita degli uomini.
Ci sono due aspetti in quest’appiattimento. Innanzitutto, il mondo
stesso comincia a sembrare sempre piú indefinito. Questo è quanto
intende Sturt quando dice che la conoscenza locale del legno è morta: per
la maggior parte della gente oggi non è piú riconoscibile la differenza tra
un frassino «friabile come una carota» o «rozzo come uno sverzino» –
una distinzione splendida, nel significato e nel valore. Miriadi di altre
possibili distinzioni, in passato rivelate dall’arte specializzata di lavorare il
legno, sono scivolate nel buio completo con il declino dell’artigianato
come arte. Poiché la sega a nastro non incontra piú un nodo del legno che
è necessario rifinire, per esempio, non c’è nessun bisogno che si cerchi la
distinzione tra il nodo che rappresenta un ostacolo e quello invece che può
essere sfruttato a proprio vantaggio, per rinforzare il manufatto finito.
L’incapacità di riconoscere questa distinzione diminuisce la qualità del
prodotto: come dice Sturt, i cerchioni delle ruote prodotte da una
macchina possono sembrare, a «qualche teorico che se ne sta in ufficio»,
migliori di quelle fatte a mano, ma l’abile artigiano si accorge che sono
costruite senza la minima intelligenza. Peggio ancora della perdita di
qualità, tuttavia, c’è la perdita della capacità di esprimere la differenza.
Poiché abbiamo perduto la capacità dell’arte di costruire, il mondo sembra
sempre piú sprovvisto di distinzioni di valori.
La conoscenza di noi stessi è a sua volta appiattita da questa perdita
planetaria di significato. I sentimenti di rispetto e di reverenza – scaturiti
da un’attenzione scrupolosa e accorta per le differenze di valore in un
determinato campo – sono quasi del tutto scomparsi. Forse il discorso di
Lou Gehrig era toccante non solo perché era un eroe che stava morendo,
ma perché la reazione della folla dimostrò che queste qualità esistono
ancora. La perdita del senso di reverenza è importante anche per un’altra
ragione, perché ci rivela come esseri capaci di coltivare distinzioni
significative. Riverire il legname, dopotutto, non significa soltanto
considerarlo degno del nostro stupore, ma trattarlo con cura e lavorarlo
nel miglior modo possibile – farlo splendere. Poiché la tecnologia separa il
bisogno dalla capacità, elimina anche questa nobile conoscenza di noi
stessi come coltivatori di significato.
Compresa in questi termini, la marcia della tecnologia presenta un
grave pericolo. Il pericolo non sta tanto in particolari progressi tecnologici
o nei gadget che la tecnologia produce, ma nel modo in cui lo stile di vita
tecnologico condiziona la nostra comprensione di noi stessi e di quello a
cui possiamo aspirare. Aspirare a una vita che per vivere non richiede
alcuna capacità significa aderire al mondo appiattito del nichilismo
contemporaneo. La reazione appropriata a questo pericolo non è rifiutare
la tecnologia di per sé, ma accettare i progressi tecnologici individuali pur
continuando a preservare le pratiche poietiche che oppongono resistenza
al modo di vita tecnologico.
Prendiamo per esempio il GPS . C’è qualcosa di utile in questo
marchingegno grazie al quale è impossibile perdersi. Ogni tanto,
naturalmente, vi consiglia di girare bruscamente a destra quando invece
siete nel bel mezzo di un ponte. Ma questo genere di inconvenienti è ben
presto risolto. Per quelli di noi che hanno difficoltà a orientarsi (ed
entrambi gli autori fanno parte di questa categoria), il GPS offre un
progresso tecnologico notevole.
Ma questo progresso ha un costo di cui non si parla. Quando il GPS
pianifica il viaggio al nostro posto, la conoscenza dell’ambiente è ridotta
all’osso. Consiste nel sapere cose del tipo «dovrei girare a sinistra». Nella
migliore delle ipotesi – e qui vorremmo rimanere ottimisti – questo
metodo di navigazione ci porta a destinazione in modo facile e rapido.
Eppure banalizza completamente la nobile arte del viaggiare, che è l’area
di competenza delle grandi culture, dai Fenici, grandi marinai, ai grandi
esploratori dell’età moderna. Viaggiare con il GPS non richiede nessun
senso di orientamento, nessun senso della direzione e nessuna nozione sul
modo di viaggiare in sé. L’unico vantaggio del GPS è quello di risparmiarci
la seccatura dello stabilire una rotta.
Perdere il senso della conquista significa perdere la sensibilità a tutte le
distinzioni significative che il viaggio comporta (al paesaggio, ai segnali
stradali, alla direzione del vento, al livello in cui si trova il sole, alle stelle).
Viaggiare con il GPS significa sopportare una serie di pause prive di
significato al termine delle quali finiamo con il fare esattamente quello che
ci viene richiesto. In questo c’è qualcosa di estremamente disumanizzante:
è come diventare il personaggio principale di una pièce di Beckett, ma
senza la sua ironia. In un modo fondamentale, quest’esperienza ci
trasforma in un robot automatizzato che il GPS utilizza per portarci a
destinazione. Certo, questo è uno dei modi in cui potrebbe essere il mondo
e a volte è davvero il migliore possibile. Ma aspirare a una condizione del
genere come modo complessivo di vivere significa perdere ogni contatto
con le competenze specifiche e con la capacità di avere cura e rispetto
delle cose, sentimenti che portano l’uomo a esercitare l’eccellenza.
L’attenzione ai beni materiali in un campo particolare e il coltivare le
abilità necessarie per rivelare le distinzioni al suo interno sono qualità
fondamentali per resistere al modo di vivere tecnologico. Ma non
possiamo decidere di interessarci a un determinato settore, proprio come
non possiamo decidere di chi innamorarci. Come possiamo allora
imparare a scoprire che cosa è degno della nostra attenzione?
Che lo sappiamo o no, ci prendiamo già cura di un sacco di cose.
Proprio come il mondo è pregno di significati che aspettano solo di venire
alla luce, gli uomini sono pieni di potenzialità che hanno tenuto nascoste a
loro stessi. È qualcosa che può sembrarci sorprendente. L’idea che la
nostra capacità di prenderci cura del mondo intorno a noi superi la
cognizione che abbiamo di essa sembra un affronto al principio di base
della conoscenza di sé. Certo, se mi prendo cura di qualcosa, sono nella
posizione di sapere quel che faccio. La tradizione illuminista
dell’autonomia ha posto questo principio e la filosofia contemporanea lo
considera come un assioma. Ma essere individui incarnati quali noi siamo,
aperti alle emozioni che ci dirigono e che ci rivelano gli aspetti
significativi del mondo, vuol dire andare al di là di quello che sappiamo di
noi stessi. Il progetto allora non è decidere ciò di cui prenderci cura, ma
scoprire quello di cui già ci stiamo prendendo cura.
Facciamo un esempio semplice. Vi alzate al mattino, con passo
malfermo vi dirigete in cucina e vi fate un caffè: ha importanza la tazza
che scegliete come contenitore della vostra bevanda mattutina? Oppure la
tazza è completamente irrilevante alla routine del caffè? Se qualsiasi
vecchia tazza andasse bene, se una tazza di plastica ha per voi lo stesso
significato di una di porcellana finissima, dobbiamo concludere che ve ne
servite come semplice recipiente. In questo caso state trattando gli oggetti
come se fossero assolutamente intercambiabili.
Osservate lo stridente contrasto tra la banalità di una tazza generica e
l’unicità del legno nella bottega del carraio. L’intimità che caratterizzava il
rapporto dell’artigiano con il suo legno – la sensazione che fosse un amico
comprensivo, che avrebbe rivelato le sue delicate qualità all’individuo
esperto che era in grado di portarle fuori al meglio –, la routine che si
instaurava nella lavorazione del legno quasi fosse un rituale sacro
attraversato da vicinanze, significato e valore, sono completamente assenti
nella routine banalizzata del caffè mattutino. Trattare la tazzina come se
non avesse nessun ruolo rilevante per la funzione che svolge significa
accostarsi al caffè con la spietata mancanza di intelligenza tipica delle
macchine. Significa avvicinarsi a quello che avrebbe potuto essere un
momento degno di valore come se invece fosse qualcosa di completamente
insignificante.
Ma cos’è dunque una tazza, potreste chiedervi, se non un oggetto la cui
generica funzione è quella di contenere un liquido? Qualsiasi oggetto con
la forma adeguata può sicuramente adempiere a questa funzione nello
stesso modo. En passant, vale la pena di ricordare come potrebbe sembrare
stravagante quest’osservazione se fosse applicata a certi tipi di tazza: le
semplici tazzine della cerimonia del tè giapponese, la coppa del Santo
Graal utilizzata da Gesú nell’Ultima Cena ecc. Ma si tratta forse di casi
eccezionali. Non è forse un insulto per la tazza, e per tutta la routine del
caffè mattutino, il fatto che vi si accordi cosí poca importanza?
Il modo noncurante con cui si tratta una tazza e il caffè che contiene
mette in ombra tutte le sue distinzioni significative e diminuisce la qualità
di ciò che stiamo bevendo, poiché un consumatore di caffè del tutto privo
di competenza non è in grado di scegliere il modo migliore per servirlo. La
situazione ci ricorda in maniera misteriosa la recriminazione di Sturt. La
spietata assenza d’intelligenza dell’odiata sega a nastro di Sturt rispecchia
la generica mancanza d’intelligenza della tazza di plastica. La tazza
dozzinale, nella sua stupidità, tratta qualsiasi caffè e qualsiasi momento
per berlo come se fossero tutti uguali.
Se ci accostiamo in questo modo all’argomento «beviamo un caffè»,
rendiamo disumani anche noi stessi. Come il fatto di viaggiare con il GPS ,
la pausa caffè che non riconosce alcuna distinzione di valore è una routine
in cui il consumatore diventa intercambiabile: simile a milioni di altri che
entrano in cucina semiaddormentati per bere un caffè in modo altrettanto
impersonale. Se in questa semplice attività, la tazzina diventa
intercambiabile, allora anche voi siete intercambiabili. Trattare la tazza
come una risorsa insignificante significa trattare anche voi stessi come una
risorsa insignificante, significa diventare disumani perché incapaci di
riconoscere l’attenzione premurosa che si potrebbe accordare a una data
situazione.
Forse in certi casi non c’è nulla di sbagliato in questo. Non ci si può
aspettare che ogni momento della vita sia una celebrazione sacra di
significato e valore. Anzi probabilmente in noi c’è qualcosa che oppone
resistenza a un atteggiamento simile o che addirittura lo rende impossibile.
Ma una cosa è sopportare l’assenza di significato, un’altra aderirvi come
stile di vita. Se siamo davvero esseri umani, dobbiamo saperci distinguere
gli uni dagli altri; ci sono momenti in cui siamo capaci di distinguerci da
tutto ciò che è generico e banale e siamo in grado di impegnarci in
qualcosa di particolare e difficile da compiere. Ma come si fa a sapere se il
rituale del caffè mattutino è uno di questi momenti?
La risposta è che bisogna imparare a capirlo. Il fatto che da sempre
facciamo attenzione a come bere il caffè la mattina potrebbe essere
qualcosa di cui noi stessi siamo all’oscuro. Per capire se è davvero cosí,
chiediamoci se consideriamo effettivamente la routine come se fosse
intercambiabile. Il rituale del mattino è delizioso anche perché ha il potere
di svegliarci. Ma ci è davvero indifferente qualunque modo in cui ci
svegliamo? Un rapido tiro di cocaina è davvero l’equivalente di un
pizzicotto? Oppure, se ciò ci sembra eccessivo, non basterebbe una pillola
di caffeina trangugiata alla bell’e meglio quando siamo già in macchina?
Se queste condizioni intercambiabili ci attraggono davvero, il caffè allora
svolge solo la funzione di svegliarci. In questo caso, qualsiasi stimolante
potrebbe andar bene. Ma se questi sostituti non ci soddisfano affatto,
dobbiamo riconoscere che ci sono aspetti nel rituale del caffè che vanno
oltre la sua funzione, aspetti che, senza saperlo, già ci appartengono.
Se facciamo attenzione al modo in cui beviamo il caffè alla mattina, ci
sono distinzioni significative che vale la pena scoprire. Per riuscire a
individuare queste differenze, è necessario porci alcune semplici domande.
Perché preferiamo una tazza di caffè a una pillola di caffeina o a una tazza
di tè? C’è forse qualcosa nel caffè in se stesso, non solo nel suo potere
stimolante, ma nel suo aroma, nel calore, nel rituale, oppure qualcos’altro
ancora, che ci spinge a compiere questa e non un’altra attività? E di cosa si
tratta esattamente? Della qualità del caffè, del processo con cui viene fatto,
delle persone con cui lo condividiamo, del luogo in cui ci troviamo oppure
del tipo di tazza in cui lo beviamo?
Non sono domande a cui si può rispondere astrattamente. Dobbiamo
rifletterci e cercare di scoprirlo. Se ciò che ci piace è il calore del caffè in
una giornata d’inverno, allora può contribuire a questo rituale il fatto di
berlo in un angolino accogliente della casa, magari accanto al caminetto
con una bella coperta sulle ginocchia, in una tazza capace di trasmetterci
al tatto tutto il calore che desideriamo. Non c’è un’unica risposta alla
domanda di che cosa renda affascinante questo rituale: per scoprire da soli
quali sono le distinzioni significative, c’è bisogno di sperimentazione e
osservazione, con i rischi e le ricompense che questo procedimento
comporta. La volontà di sperimentare e osservare, in ultima analisi, ci
permette di sviluppare la capacità di individuare gli aspetti rilevanti di
questo rituale e di imparare alla fine quello che è necessario per eseguirlo
nel migliore dei modi. Le competenze necessarie sono molteplici: la
capacità di sapere come scegliere esattamente il caffè giusto, la tazzina
giusta e come selezionare con cura le persone con cui condividerlo.
Quando queste capacità sono state acquisite e l’ambiente è stato curato in
modo che si adatti a esse, allora si compie un rituale anziché seguire una
semplice routine: invece di eseguire una funzione meccanica e senza
senso, celebriamo noi stessi e il mondo intorno accordandogli un pieno
significato.
Ci sono molti settori degni della nostra attenzione e non esistono
principî oggettivi e indipendenti dal contesto per stabilire quali siano.
Dobbiamo soltanto fare dei tentativi e cercare di scoprirli. Alcune persone
sono interessate alla matematica, altre alla musica, altre ancora
preferiscono il baseball e alcuni vanno pazzi per le corride. C’è chi
preferisce bere con gli amici un bicchiere di vino locale. Un certo settore è
degno di attenzione, se ci permette di generare un significato e un
impegno sempre maggiori.
Poiché non ci sono regole oggettive sul tema, si deve essere
continuamente aperti alla possibilità che il settore che ci interessa possa
poi rivelarsi troppo violento o troppo banale o fonte di un isolamento
insopportabile oppure troppo sciocco, e comunque inadatto a esprimerci
nel modo migliore possibile. Si deve essere preparati, come lo era Elena, a
rimpiangere di essersi lasciati trascinare in una situazione del genere e
permettere a se stessi di cercarne un’altra piú ricca e piú significativa. Il
rischio del rimpianto è insito in ogni attività significativa, e senza di esso
le nostre vite precipiterebbero nell’insignificanza e nella noia, nella totale
assenza di espressione e nell’angoscia.

Queste considerazioni ci riportano indietro alla meta-poiesis. Oltre alle


competenze di prim’ordine per operare in un certo campo, infatti, noi
contemporanei dobbiamo sviluppare competenze meta-poietiche anch’esse
di prim’ordine, in grado di affinare al massimo la nostra physis. Oltre alle
competenze, delicate e culturalmente nutrienti, nei vari ambiti del sacro
dominio dell’artigiano, la nostra cultura ospita anche una forma selvaggia
ed estatica di sacro. Come sviluppare la capacità di discernere quando è
giusto alzarsi con la folla osannante e quando invece è meglio andarsene?
La posta in gioco è molto alta. Abbiamo già visto che, senza la forma
estatica del sacro, il nostro mondo sarebbe un luogo davvero molto misero.
Dopotutto, le folle possono sollevarsi per cambiare in modo positivo e
creativo l’atteggiamento di una cultura; senza il fenomeno della physis non
avverrebbero mai questi cambiamenti radicali in grado di modificare un
paradigma esistente. Abbiamo quindi bisogno di trovare un modo per
appropriarci adeguatamente del fenomeno della physis e per rivelare la
forma del sacro nel miglior modo possibile. Non possiamo accontentarci
dell’approccio razionale, che rifiuta la physis, e che pur obbedendo al
desiderio di sicurezza, si riposa su un’innegabile pigrizia.
Per compiere questo cammino è necessaria una nuova forma di
coraggio. Al posto del coraggio kantiano che ci impone di resistere alla
pazzia propria della folla, abbiamo la necessità di coinvolgerci e
sperimentare la situazione che ci viene offerta. A volte, come nel caso di
Martin Luther King al Mall, gli avvenimenti prendono un corso
eccezionale: il paradigma esistente cambia e la cultura giungerà a capire se
stessa in un modo completamente nuovo. A volte, invece, si scherza con il
fuoco. Come Ismaele che è trascinato da Achab nello stato emotivo
contagioso della ricerca ossessiva della balena, si può sopravvivere al lato
oscuro e dannato di questa tendenza soltanto imparando a capire con
l’esperienza il mondo minaccioso che è in grado di rivelare. Soltanto se si è
stati trascinati dalla retorica totalizzante di un fanatico leader politico e si
sono vissute le devastanti conseguenze che ha provocato, si è in grado di
discriminare tra i capi degni di essere seguiti e quelli dai quali bisogna
risolutamente dissociarsi.
Mettere a punto le competenze necessarie comporta dei rischi. Che si
tratti delle abilità inerenti al gioco su un campo da baseball o alla capacità
di fare il caffè, o delle meta-abilità di sviluppare al meglio la nostra physis,
non si può diventare un maestro senza prendere dei rischi e senza
imparare dalle conseguenze dei nostri errori. La nostra cultura esige una
capacità particolare. La storia sotterranea dell’Occidente è la storia del
modo in cui le pratiche culturali sono riuscite a rivelare eventi sacri e
splendenti – ci hanno lasciato in eredità non solo una forma di sacro, ma
una molteplicità di tipi diversi, tra essi incompatibili. Physis, poiesis e
tecnologia ci mostrano, rispettivamente, un tipo di sacralità selvaggia ed
estatica che ci travolge come un’onda; uno stile raffinato e capace di
alimentare la tradizione esprimendo al massimo la sacralità degli oggetti; e
un modo di vita meccanico e autosufficiente che deride ogni valore sacro.
Dopo aver preso i rischi che ogni forma di apprendimento comporta,
ciò che ci permette di dare il giusto valore alle diverse modalità di sacro è
la peculiare capacità meta-poietica necessaria in questo stadio della nostra
storia. Colui che avrà imparato a vivere in questo mondo poli-sacro capirà
immediatamente e senza riflettere se una situazione data richiede il
microonde oppure esige una festa grandiosa. Avrà acquisito la capacità di
permettere a se stesso di essere trascinato dagli dèi estatici e selvaggi dello
sport, pur riuscendo a capire quando è necessario ritrarsi dalla retorica di
demagoghi fanatici e pericolosi. Vivrà una vita in perfetta armonia con
tutto ciò che risplende in questo mondo e aprirà uno spiraglio alla
possibilità che gli dèi possano ritornare.
Stiamo forse sostenendo che tutti dovrebbero vivere una vita politeista?
No. Non facciamo un appello moralistico, ma ci interroghiamo su quello
che gli dèi ci chiedono di fare. Avremmo la tentazione di chiederci perché
mai qualcuno dovrebbe udire questo appello o perché dovrebbe tenervi
conto se mai lo sentisse. Ma si tratta di tentazioni moralizzatrici che
bisogna assolutamente evitare. Non c’è nessuna ragione per cui uno sente
un richiamo di questo tipo o perché decide di rispondervi: gli appelli
richiedono ascolto e obbedienza. Nella nostra cultura ci viene richiesto di
coltivarci da soli per diventare sensibili a ciò per cui siamo stati chiamati.
Ecco, l’appello si fa sentire e coloro che sono sufficientemente sensibili a
questo genere di cultura e alla sua complessa eredità, non potranno che
udirlo. La concentrazione su noi stessi come individui isolati, come agenti
autonomi, invece, ha avuto la conseguenza di bandire gli dèi dalla terra –
cioè, di metterli in ombra e di paralizzare la nostra sensibilità al senso del
sacro. Gli dèi hanno continuato a chiamarci, ma noi abbiamo smesso di
ascoltarli. Ci hanno chiesto di coltivare la nostra sensibilità, ma come i
dannati di Dante, ci siamo isolati dicendoci che dovevamo essere
autosufficienti.
In quanto soggetti autonomi, siamo diventati sordi all’appello degli dèi:
in questo senso li abbiamo banditi dalla terra. Eppure nessuno sembra
averlo notato. Martin Buber parla dell’eclissi di Dio, Beckett del fatto che
stiamo aspettando il suo ritorno. Altri parlano dell’assenza di Dio, del suo
ritirarsi oppure della sua morte. Il quadro che invece vi abbiamo offerto
capovolge la visione tradizionale del XX secolo.
Gli dèi non si sono ritirati né ci hanno abbandonato: siamo noi che li
abbiamo mandati via. Ora stanno aspettando sommessamente che noi
udiamo di nuovo il loro appello. Non chiediamoci perché gli dèi ci hanno
abbandonato, chiediamoci perché noi abbiamo abbandonato gli dèi.

Il mondo dei Greci ai tempi di Omero, intenso e pieno di significato,


evidentemente splendeva con una forza straordinaria. Invece il nostro
universo tecnologico sembra piatto e impoverito. Non possiamo ritornare
al mondo omerico né sarebbe auspicabile. Ma possiamo diventare ricettivi
al pantheon degli dèi moderni – al modo in cui brillano Gehrig e Federer,
al modo in cui Marilyn Monroe e Albert Einstein hanno cambiato la faccia
del mondo in cui viviamo. Possiamo anche guardare agli dèi del passato –
alle grandi opere che un tempo erano fonte di venerazione e che ora
possiamo rivalutare nel loro sacro valore. Riuscire a farlo significa
qualcosa di piú che classificare queste creazioni, limitandoci a leggerne
l’elenco o a studiarle su un manuale scolastico. Bisogna sviluppare la
capacità del sacro che ancora indugia, svalutata da tutti, ai margini del
nostro mondo disincantato.
Queste nozioni del sacro sono piú ricche e piú varie di qualunque cosa
Omero abbia mai conosciuto. Infatti i suoi dèi condividevano uno stile
comune; avevano una somiglianza familiare gli uni con gli altri. Che si
trattasse della sfera erotica di Afrodite o del sacro mondo della guerra di
Ares, della saggezza pratica di Atena o dell’universo di Efesto, fatto di
oggetti splendenti e meravigliosamente forgiati, i diversi ambiti sacri degli
dèi omerici avevano tutti qualcosa in comune: essi «passavano» (whoosh
up) come un’onda gigantesca e trascinavano con sé gli uomini per un
poco, per poi perdere progressivamente potenza e lasciarli andare. Questo
senso del sacro come physis esiste ancora oggi ai margini della nostra
cultura, ma non è l’unica forma di sacro a cui possiamo accostarci.
Oltre alla physis, abbiamo anche una concezione poietica del sacro, che
era completamente assente all’epoca di Omero, la sensazione di essere
capaci di coltivare e alimentare le possibilità offerte dal mondo, di
sviluppare la capacità per rivelarle nella loro migliore forma possibile.
Questa concezione poietica del sacro ritorna oggi sotto molte forme. Che
sia nel senso di Gesú, secondo cui il mondo si rivela grazie alla luce del
suo sentimento di agape, oppure la sensibilità di Dante, che ci vuole capaci
di essere ricettivi all’«amor che move il sole e l’altre stelle»; che sia la
concezione di Eschilo, secondo cui dobbiamo esprimere la cultura nel
modo piú eccellente possibile trovando un posto adatto a tutte le forze
emergenti, oppure l’idea di Sturt, secondo cui abitiamo in un mondo
naturale che ha un valore sacro, tutte queste interpretazioni poietiche del
reale sono delicate e spiritualmente nutrienti in un modo che ancora non
esisteva ai tempi di Omero.
Oltre a tutte queste concezioni del sacro, abbiamo anche la visione
tecnologica del mondo, un modo di concepire le cose basato sull’efficienza
e sulla produttività, che ci permette di controllare il reale e di produrre
oggetti. Il mondo può essere tutte queste cose alla volta – non sacro, ma
sprovvisto di valore intrinseco, pronto a essere plasmato in base ai nostri
desideri e alla nostra volontà.
Molteplici pratiche culturali hanno costellato la storia dell’Occidente
per rivelare queste diverse modalità di leggere il mondo. Forse ci sono altri
modi di comprenderlo e altre pratiche ancora. Ma soltanto adesso, ormai
liberati dall’antica tentazione del monoteismo, siamo in grado di trovare
un posto a tutti questi modi di essere, propri del mondo contemporaneo. Il
politeismo che mette in equilibrio ognuna di queste sfaccettature potrà
essere oggi piú ricco e vario di quanto Omero avesse mai potuto
immaginare 38.
Il mondo politeistico contemporaneo sarà un mondo meraviglioso, fatto
di cose sacre e splendenti.

Editing 2017:
nick2nick
www.dasolo.co

1
End of a Career, in «The New York Times», 22 giugno 1939, p. 18.
2
61 808 Fans Roar Tribute to Gehrig: Captain of Yankees Honored at Stadium – Calls Himself
«Luckiest Man Alive», in «The New York Times», 5 luglio 1939, p. 1.
3
Il sito Internet American Rhetoric (www.americanrhetoric.com), per esempio, cita il discorso
d’addio di Gehrig al settantatreesimo posto tra i cento discorsi piú importanti della storia
americana. Quasi tutti sono di natura esplicitamente politica.
4
61 808 Fans Roar Tribute to Gehrig cit.
5
Si possono trovare diversi video dell’evento su YouTube, mentre il testo completo del discorso
è disponibile sulla pagina inglese di Wikipedia dedicata a Lou Gehrig. I dettagli del nostro
resoconto sono stati tratti dagli articoli del «New York Times» pubblicati tra il maggio e il luglio del
1939.
6
Espressione che indica, nel football americano, un tiro azzardato che capovolge la situazione
sfavorevole di una squadra [N.d.T.].
7
È il soprannome dato alla piú famosa partita di football americano, svoltasi a Pittsburgh,
Pennsylvania, il 23 dicembre 1972 [N.d.T.].
8
Vedi, per esempio, j. l. price (a cura di), From Season to Season: Sports as American Religion,
Mercer University Press, Macon 2001.
9
Gli autori si riferiscono ancora una volta alla poesia di T. S. Eliot Il canto d’amore di J. Alfred
Prufrock [N.d.T.].
10
A. BORGMANN , Crossing the Postmodern Divide, University of Chicago Press, Chicago 1992, p.
135.
11
Pubblicato il 2 agosto 2006 e disponibile sul sito
http://www.nytimes.com/2006/08/20/sports/playmagazine/20federer.xhtml (trad. it. D. F. WALLACE ,

Roger Federer come esperienza religiosa, Casagrande, Bellinzona 2010).


12
Ibid., pp. 12-13.
13
Ibid., p. 42.
14
MAX , The Unfinished cit.
15
WALLACE , Roger Federer come esperienza religiosa cit., p. 13.
16
Ibid., p. 45.
17
Ibid., pp. 45-46.
18
Ibid., p. 26.
19
ID ., Come Tracy Austin mi ha spezzato il cuore, in ID ., Considera l’aragosta, Einaudi, Torino
2006, p. 154 (ed. or. Consider the Lobster, Little, Brown, New York 2005).
20
Il giocatore di basket, vedi cap. 1 [N.d.T.].
21
«… e la verità è che il tennis in televisione sta al tennis dal vivo piú o meno come un film
porno sta alla reale sensazione dell’amore umano» (ID ., Roger Federer come esperienza religiosa cit.,
p. 11).
22
Ibid.
23
Ibid., p. 21.
24
I Greci politeistici dell’epoca di Omero lo comprendevano a livello intuitivo. Sapevano che era
rischioso e pericoloso caricare gli dèi di significato profondo. Sapevano che gli dèi avrebbero potuto
abbandonarli (come Atena fece con Odisseo) o adirarsi (come succedeva spesso a Era). Ma sapevano
anche che questo pericolo era parte di ciò che dava agli dèi la loro incredibile forza. Il mare colore
del vino di Poseidone, con la sua forza e la sua maestà, non sarebbe stato cosí impressionante se
fosse stato sempre bello e calmo. Sono proprio il pericolo, la tempesta e la minaccia delle onde, che
ricordano la physis, a rendere grandiosa e divina questa forza.
25
WALLACE , Infinite Jest cit., p. 290.
26
«Non sai niente della vera superstizione atletica fino a quando non arrivi tra i professionisti,
Hallie. Quando entrerai nello Show, allora capirai il senso di primitivo. Le vittorie fanno venire a
galla l’indigeno. C’è chi non lava piú i sospensori fin quando stanno in piedi da soli negli
scompartimenti bagagli sopra i sedili degli aerei. C’è chi si veste, mangia e piscia sempre in un
certo modo bizzarro e rituale» (ibid., p. 291).
27
Si tratta di riferimenti a MELVILLE , Moby Dick cit., cap. LXXIX , p. 374.
28
WALLACE , Roger Federer come esperienza religiosa cit., p. 55.
29
BORGMANN , Crossing the Postmodern Divide cit., p. 234.
30
L’indagine sulla base materiale delle cose, secondo la ricerca storica, nella Grecia antica
cominciò solo nel vi secolo a.C. I libri di testo sostengono che qui avvenne la transizione dalla
spiegazione dell’universo in chiave mitologica a quella in chiave scientifica. Anche se si tratta di
una semplificazione un po’ grossolana, che altera aspetti fondamentali della concezione della realtà
presso i Greci, in questa classificazione c’è qualcosa di verosimile. È sicuramente vero che Omero
non era interessato alla base materiale della realtà e in un certo senso i filosofi presocratici lo erano.
Quando Talete sostiene che tutto è acqua, per esempio, o forse quando Eraclito dice che tutte le
cose hanno origine con il fuoco, si può considerarlo come una sorta di atteggiamento
protoscientifico tipico dei filosofi presocratici.
31
Quello di whooshing up è un concetto utilizzato dagli autori difficile da rendere in italiano. To
whoosh è un verbo onomatopeico che significa «passare sibilando». Secondo gli autori, whooshing
up corrisponde al farsi trasportare, come da una folata di vento. Nelle frasi che seguono,
l’espressione verrà tradotta con sfumature diverse a seconda del contesto e si troverà tra virgolette
[N.d.T.].
32
È la prima frase del saggio di KANT , Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo cit., p. 141.
33
Vedi G. STURT , The Wheelwright’s Shop, Cambridge University Press, Cambridge 1976,
pubblicato per la prima volta nel 1923. Albert Borgmann discute il libro di Sturt nel suo Technology
and the Character of Contemporary Life (University of Chicago Press, Chicago 1984). Prima di
Borgmann, F. R. Leavis fece un’interessante disamina dell’opera di Sturt nel suo Culture and
Environment: The Training of Critical Awareness (Chatto & Windus, London 1933). Anche se la
nostra rielaborazione del pensiero di Sturt si è in parte ispirata a questi scrittori – soprattutto a
Borgmann – la nostra interpretazione della nozione di artigiano in Sturt ha preso un suo corso
indipendente. Il recente libro di M. CRAWFORD , Il lavoro manuale come medicina dell’anima: perché
tornare a riparare le cose da sé può rendere felici, Mondadori, Milano 2010, sviluppa in modo molto
originale il concetto dell’importanza dell’artigianato e attinge anch’esso da Sturt. Inoltre, anche se i
suoi riferimenti a Sturt non sono espliciti, il classico di Robert Pirsig, Lo Zen e l’arte della
manutenzione della motocicletta (Adelphi, Milano 2010; ed. or. Zen and the Art of Motorcycle
Maintenance: An Inquiry into Values, Morrow, New York 1974), attribuisce un ruolo importante alle
capacità manuali nella formazione del significato. Ci troviamo in sintonia con tutti questi autori,
anche se rimangono profondamente ancorati alla tradizione filosofica monoteistica. Pirsig, come
Platone, trova una fonte astratta di significato in quella che definisce «Qualità». Crawford, come
Aristotele, reagisce mettendo in rilievo le fonti di significato manuali, concrete, socialmente
pregnanti. Nel nostro modo di interpretare le competenze poietiche e anche di individuare nella
poiesis una delle possibili scelte di vita odierne, siamo andati oltre le concezioni degli autori citati.
Infine, l’idea che si possa trovare un equilibrio nel modo di essere ricettivi alla physis, alla poiesis e
alla tecnologia – e altre interpretazioni della realtà come vengono vissute ai margini della società,
in attesa di essere rinvigorite e riadattate –, l’idea, insomma, che esista davvero questo tipo di
competenza, non si trova in nessuno dei nostri predecessori e noi siamo convinti che questo sia il
principale contributo positivo del nostro libro.
34
STURT , The Wheelwright’s Shop cit., p. 24.
35
Ibid., pp. 45-46.
36
Ibid., p. 23.
37
Borgmann lo coglie perfettamente, anche se in modo succinto: «Quando l’uomo si adatta alla
terra, la terra si rivela all’uomo» (BORGMANN , Technology and the Character of Contemporary Life
cit., p. 44).
38
Le intuizioni divine di Melville colgono questa possibilità ed è ciò che fa di lui il profeta del
nostro tempo. Ma la sua Balena Bianca, messa al posto del grande Zeus, non è esattamente lo Zeus
di Omero. Poiché non ha volto, la grande Balena Bianca non dà origine alle somiglianze di famiglia
presenti nel suo pantheon. Infatti, la physis, la poiesis e la tecnologia, ben lungi dall’essere modi in
cui il mondo si rivela, non si assomigliano affatto. È davvero un fatto curioso (e meraviglioso) che
Melville abbia intuito questa mancanza di unità fondante, senza essere in grado di individuare come
si manifesta e senza capire di avere ereditato questa concezione dalla nostra storia. Se i maestri del
nostro mondo politeistico sono in grado di apprendere queste pratiche sacre, troveranno un’affinità
con Ismaele il vagabondo – l’unico che si salva –, il quale si apre a una nuova cultura nel tatuare
sul suo corpo la panoplia di significati sacri che incontra nel mondo e tenta di ricavarne un
significato. Un maestro del politeismo come lui sarà in grado di lasciare la sicurezza sulla
terraferma e andarsene in mare, il mare della nostra storia sepolta, per coltivare un luogo che gli
dia la possibilità di guardare indietro agli dèi del passato.
Epilogo

Due studenti avevano frequentato per molti anni un vecchio maestro


molto saggio. Un giorno il maestro disse loro: «Ragazzi, è venuto il
momento che andiate per il mondo. La vostra vita sarà felice se sarete in
grado di trovare in essa tutte le cose splendenti».
Gli studenti si accomiatarono dal maestro con un misto di tristezza ed
eccitazione e presero due strade diverse. Molti anni dopo si ritrovarono
per caso. Erano felici di rivedersi e ognuno era molto curioso di sapere
come l’altro se l’era cavata nella vita.
Il primo disse malinconicamente al secondo: «Ho imparato a vedere
molte cose splendenti in questo mondo, ma purtroppo sono ancora
infelice. Perché ho anche visto moltissime cose spiacevoli e tristi, e ho la
sensazione di non aver prestato la dovuta attenzione agli insegnamenti del
maestro. Forse non mi colmerò mai di gioia e di felicità, semplicemente
perché sono incapace di veder splendere tutte le cose».
Il secondo allora, raggiante di felicità, disse al primo: «Non tutte le cose
sono splendenti, ma tutte le cose splendenti sono».
Ringraziamenti.

È di Newton la celebre frase: «Se ho visto piú lontano dei miei simili, è
perché mi trovavo sulle spalle dei giganti». Incapaci di salire a tali
vertiginose altezze, in questo libro abbiamo dato forma a intuizioni che
sono nate dalla possibilità di salire a turno l’uno sulle spalle dell’altro.
Ognuno di noi, quindi, è soprattutto grato al suo coautore: per le
acrobazie, le digressioni, le proposte, le rielaborazioni, e soprattutto per il
sostegno reciproco, che ha avuto come risultato una splendida
collaborazione professionale.
Inoltre, siamo riconoscenti alle molte persone intorno a noi che hanno
reso possibile questo tour de force intellettuale: Liv Duesund, che ci ha
invitato all’Università di Oslo nel 2006 per elaborare le nostre idee
sull’incarnazione in Omero, allora allo stato embrionale; Michael Sandel e
Charles Taylor, che ci hanno incoraggiato a introdurre la questione del
politeismo a un seminario su un libro di Taylor, L’età secolare,
all’Università di Harvard nel 2009; Joseph Schear e Wayne Martin, che ci
hanno dato la possibilità di discutere una parte del manoscritto definitivo
con i filosofi del Christ Church College, a Oxford, nel 2010; Taylor
Carman, Eugene Chislenko, Stephen Mulhall, George Pattison e Mark
Wrathall, che hanno approfondito i problemi da noi sollevati; Tao Ruspoli,
il cui splendido film Being in the World è stato prodotto
contemporaneamente al nostro libro e le cui acute problematiche hanno
rappresentato l’occasione per esplorare i temi del libro da un altro punto
di vista; Charles Spinosa, il cui feedback è sempre stato illuminante; Jill
Kneerim, la nostra agente, che ci ha aiutato a orientarci nel mondo
sconosciuto, ma affascinante, dell’editoria. Hilary Redmond, la nostra
editor alla Free Press, grazie alla quale abbiamo dato avvio a questo
progetto e la cui presenza paziente, ma ferma, ci ha tenuto in carreggiata
limitando le numerose deviazioni e le molte, piccole follie; e Geneviève
Boissier-Dreyfus e Cheryl Kelly Chen, il cui sostegno – non solo tecnico e
filosofico, ma nella vita – ha reso possibile questo libro e alle quali è in
parte dedicato.
Vorremmo anche ringraziare tutti gli studenti ed ex studenti che ci
hanno fornito utili feedback, pareri di tipo tecnico e in alcuni casi
un’efficiente assistenza durante la fase di ricerca. Julie Rhee ha lavorato
moltissimo sull’editing e non è esagerato dire che il libro non sarebbe
esistito senza il suo contributo; Adam Spinosa, Billy Eck e Céline Leboeuf
hanno tutti partecipato, in un modo o nell’altro, alla ricerca e alla
discussione e ci avrebbero aiutato ancora di piú se soltanto glielo avessimo
chiesto; e naturalmente tutti gli studenti di Filosofia 6, From Gods to God
and Back, all’Università di Berkeley, e di Cultura e credenze 14, The
Experience of the Sacred in the History of the West, a Harvard, che hanno
dovuto sorbirsi le prime versioni, piú rozze, di quello che è diventato il
libro e che hanno contribuito a renderlo piú ricco e piú pertinente.
Infine, grazie agli dèi, che si sono rivelati a poco a poco oppure, a volte,
d’un colpo solo, e che speriamo possano trovare in questo libro un punto
d’attracco sicuro per ritornare infine sulla terra.
Indice dei nomi di persona
e dei personaggi di fiction
Abramo (Divina Commedia)
Achab (Libro dei Re)
Achab, capitano (Moby Dick)
Achille (Iliade)
Achille (Odissea)
Ade, vedi Dite
Adreste (Odissea)
Afrodite (Odissea)
Agamennone (Orestea)
Agostino, Aurelio, santo
Aiace Oileo (Odissea)
Alcandra (Odissea)
Alcinoo (Odissea)
Alcippe (Odissea)
Allen, Woody (pseudonimo di Allan Stewart Konigsberg)
Ambrogio, Aurelio, santo
Amleto (Amleto)
Anfimedonte (Odissea)
Antinoo (Odissea)
Apollo (Orestea)
Ares (Odissea)
Arete (Odissea)
Aristotele
– Divina Commedia
Arpie (Odissea)
Artemide (Odissea)
Atena (Odissea)
– Orestea
Atkins (Il re pallido)
Autrey, Shuqui
Autrey, Syshe
Autrey, Wesley

Bach, Johann Sebastian


Bacon, Lord (Moby Dick)
Balena o Balena Bianca, vedi Moby Dick
Barnes, Barnabe
Beatles
Beatrice, vedi Portinari, Beatrice
Beckett, Samuel Barclay
Bell, Robert E.
Blake, William
Blow, Charles M.
Borgmann, Albert
Bovary, Charles (Madame Bovary)
Bovary, Emma (Madame Bovary)
Bradley, Bill (William Warren, detto)
Buber, Martin Mordechai
Buckley, Cara
Buddha
Bulkington (Moby Dick)

Calvino, Giovanni (Jehan Cauvin)


Calzecchi Onesti, Rosa
Carena, Carlo
Cartesio, vedi René Descartes
Caso (Il ciclope)
Cassandra (Orestea)
Chagall, Marc (Mark Zacharovič Šagalov)
Chiodi, Pietro
Cleopatra (Divina Commedia)
Clift, Edward Montgomery
Clitennestra (Orestea)
Colli, Giorgio
Comstock, Samuel (Moby Dick)
Cotroneo, Ivan
Crawford, Matthew
Cristo, vedi Gesú Cristo
Ctesippo (Odissea)

Dante Alighieri
– Divina Commedia
Da Polenta, Francesca (Divina Commedia)
Davide (Divina Commedia)
Dean, Lane Jr. (Il re pallido)
Dee Gentili, vedi Eumenidi
Delbanco, Andrew
Descartes, René
Dillenberger, John
Dimante (Odissea)
Dite (Divina Commedia)
Dodds, Eric Robertson
Donovan, John
Dostoevskij, Fëdor Michajlovič
Dreyfus, Hubert
Drinion, Mitchell (Il re pallido)
Duyckinck, Evert A.
Dylan, Bob (pseudonimo di Robert Allen Zimmerman)

Edipo (Odissea)
Efesto (Odissea)
Egisto (Orestea)
Einstein, Albert
Elena (Divina Commedia)
– Odissea
Elia
Elia (Moby Dick)
Eliot, Thomas Stearns
Enrico, re (Moby Dick)
Epicasta (Odissea)
Era (Odissea)
Eraclito
Erinni
– Odissea
– Orestea
Eschilo
Esiodo
Ettore (Iliade)
Eumenidi (Orestea)
Eumeo (Odissea)
Euripide

Fabro, Cornelio
Fagles, Robert
Fedallah (Moby Dick)
Federer, Roger
Filaco (Odissea)
Filò (Odissea)
Flask (Moby Dick)
Flaubert, Gustave
Foucault, Michel
Fowler, Robert
Francesca, vedi Da Polenta, Francesca
Franzen, Jonathan
Friedman, David M.

Gadamer, Hans-Georg
Galilei, Galileo
Garboli, Cesare
Garland, Judy (pseudonimo di Frances Ethel Gumm)
Gately, Don (Il re pallido)
Gehrig, Henry Louis (detto Lou)
Gesú Cristo
Gezabele (Libro dei Re)
Gilbert, Elizabeth M.
– Mangia, prega, ama
Ginsberg, Allen
Giovanni evangelista, santo
Gipp, George (detto Gipper)
Goodstein, Charles
Green, Karen
Gurisatti, Giovanni

Harford, Alice (Eyes Wide Shut)


Harford, Elena (Eyes Wide Shut)
Harvey, Shawn
Hawthorne, Nathaniel
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich
Heidegger, Martin
Hermes (Odissea)
Heston, Charlton (pseudonimo di John Charles Carter)
Hitler, Adolf
Holden, Stephen
Hölderlin, Johann Christian Friedrich
Hollopeter, Cameron
Hoyne, Hank (Infinite Jest)
Hume, David
Hunt, Leigh
Husserl, Edmund Gustav Albrecht

Icario (Odissea)
Ifigenia (Orestea)
Incandenza, Hal (Infinite Jest)
Incandenza, Mario (detto Boo) (Infinite Jest)
Isaia
Ismaele (Moby Dick)

Jackson, Samuel Leroy


Jaspers, Karl Theodor
Jordan, Michael Jeffrey

Kane, Charles Foster (Quarto potere)


Kant, Immanuel
Karr, Mary
Kelly, Sean Dorrance
Kierkegaard, Søren Aabye
King, Martin Luther jr (Michael)
Kinsella, Sophie (pseudonimo di Madeleine Wickham)
Knoblauch, Chuck
Knox, Bernard
Kubrick, Stanley
Kuhn, Thomas

Leavis, Frank Raymond («F. R.»)


Leviatan o Leviatano, vedi Satana (Moby Dick)
Lincoln, Abraham
Lipsky, David
Lull, Timothy F.
Lutero, Martin (Martin Luther)

MacAllister, Archibald T.
Macbeth (Macbeth)
Malatesta, Paolo (Divina Commedia)
Mapple, padre (Moby Dick)
Masini, Ferruccio
Matteo (Levi) evangelista, santo
Max, D. T.
McCaffery, Larry
McCarthy, Joe
McPhee, John
Melville, Herman
– Taipi
Menelao
– Odissea
– Orestea
Mentore (Odissea)
Mercer, Sid
Miller, Laura
Milton, John
Moby Dick (Moby Dick)
Monroe, Marilyn (pseudonimo di Norma Jeane Baker)
Montinari, Mazzino
Morte (Teogonia)
Mosè
Muhammad Ali (Cassius Marcellus Clay jr)
Murray, Henry A.

Neleo (Odissea)
Nestore (Odissea)
Nietzsche, Friedrich Wilhelm
Noè (Divina Commedia)
Nori, Giuseppe
Nureev, Rudolf

Odisseo (Odissea)
Olbermann, Keith
Olson, Charles
Omero
– Divina Commedia
Orazio (Amleto)
Oreste (Orestea)
Ovidio Nasone, Publio (Divina Commedia)

Paci, Enzo
Paduano, Guido
Palgrave, Francis
Pallade, vedi Atena (Odissea)
Pandareo (Odissea)
Paolo, vedi Malatesta, Paolo
Paolo di Tarso, santo
Paride
– Divina Commedia
– Odissea
Parker, Hershel
Pavese, Cesare
Peabody Hawthorne, Sophia
Penelope (Odissea)
Pericle
Phelps, Michael Fred
Pietro, santo (Divina Commedia)
Pietsch, Michael
Pip (Pippin, detto) (Moby Dick)
Pirsig, Robert Maynard
Pisistrato (Odissea)
Platone
– Divina Commedia
Polibo (Odissea)
Pommer, Henry F.
Pontani, Filippo Maria
Poe, Alexander
Portinari, Beatrice (Divina Commedia)
Poseidone (Odissea)
Priamo (Iliade)
Price, Joseph L.
Principe Q— (Infinite Jest)
Prufrock, J. Alfred (Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock)

Quiqueg (Moby Dick)

Rabinow, Paul
Reagan, Ronald Wilson
Renzoni, Marcella
Richard (Mangia, prega, ama)
Rose, Charlie
Rousseau, Jean-Jacques
Rovatti, Pier Aldo

Saba Sardi, Francesco


Sanborn, Geoffrey
Sartre, Jean-Paul
Satana
– Divina Commedia
– Moby Dick
– Paradiso perduto
Scott, A. O.
Shakespeare, William
Shaw, Elizabeth
Sheldon, Leslie E.
Shelley, Percy Bysshe
Smith, Preserved
Snell, Brun
Sofocle
Sonno (Teogonia)
Starbuck (Moby Dick)
Starbuck, Alexander
Staupitz, Johann von
Stone, Ruth
Stubb (Moby Dick)
Sturt, George

Talete
Tarantino, Quentin Jerome
Tashtego (Moby Dick)
Taylor, Charles
Telemaco (Odissea)
Te Pehi Kupe
Tommaso d’Aquino, santo
Tranquo (Moby Dick)
Travolta, John Joseph
Tristano (Divina Commedia)

Vega, Vincent (Pulp Fiction)


Virgilio Marone, Publio (Divina Commedia)

Wallace, David Foster


Wallace, James
Warhol, Andy (Andrew Warhola jr)
Weber, Bruce
Welles, George Orson
Williams, Bernard
Williams, Tennessee (Thomas Lanier, detto)
Wilton, Chris (Match Point)
Winckelmann, Johann Joachim
Winfrey, Oprah Gail
Winnfield, Jules (Pulp Fiction)

Yeats, William Butle


Yorick (Amleto)

Zeus
– Odissea
– Orestea

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