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Q
ua l è i l m o d o m i g l i o r e d i v i v e r e ? D i c o s a è fat ta
l’eccellenza umana? Sono domande che gli uomini si pongono da sempre.
Nell’antichità la ricerca di un significato della vita trovava una risposta
grazie alla capacità di essere ricettivi a forze divine che ci trascinavano dando ai
momenti ordinari della vita un tocco di meraviglia e di gratitudine.
Da quando la civiltà occidentale ha cominciato ad affidarsi al potere della volontà
indipendente, è andata perduta la facoltà di collegarsi con il sacro. Con la
secolarizzazione è tramontato un sistema di valori chiaro e indiscutibile, ma non è
detto sia venuta meno la necessità di trovare una risposta, un senso piú grande che
trascenda il limite dell’esistenza individuale.
Prendendo in esame alcune delle opere piú importanti del canone occidentale,
dall’Odissea a Moby Dick, da Agostino a Cartesio a Kant, da Dante a David Foster
Wallace, i due filosofi americani ci spiegano in che modo abbiamo perduto il
coinvolgimento entusiastico con l’essenza fondamentale della nostra vita e ci
dimostrano che, rileggendo da capo i classici, possiamo ritrovare un’aderenza
appassionata all’intimo splendore e alla bellezza del mondo. Magari per accorgerci
di poter fare piú facilmente esperienza dell’universale dentro uno stadio sportivo
che non in una cattedrale.
Un libro ricco di spunti, spesso sorprendente, che illumina di una luce diversa la
cultura, la storia, le pratiche del sacro e noi stessi.
Sommario:
Prefazione di Gianni Vattimo. – I. Il nichilismo contemporaneo. II. Il nichilismo di
David Foster Wallace. III. Il politeismo di Omero. IV. Da Eschilo ad Agostino: l’ascesa
del monoteismo. V. Da Dante a Kant: attrazione e pericoli dell’autonomia. VI.
Fanatismo, politeismo e l’«arte maledetta» di Melville. – Conclusione. Vite degne di
essere vissute nella nostra epoca secolarizzata. – Epilogo. – Indice dei nomi di
persona e dei personaggi di fiction.
L’autore
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stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al
fruitore successivo.
www.einaudi.it
1
Armando, Roma 1988 (ed. or. What Computers Can’t Do. The Limits of Artificial Intelligence,
Harper & Row, New York 1972 e 1979).
2
H. DREYFUS e P. RABINOW , La ricerca di Michel Foucault: analitica della verità e storia del
presente, Ponte alle Grazie, Firenze 1989 (ed. or. Michel Foucault, Beyond Structuralism and
Hermeneutics, University of Chicago Press, Chicago 1982 e 1983).
3
The Relevance of Phenomenology to the Philosophy of Language and Mind, Garland, New York
2001.
Nota per il lettore
Oggi non ci interessa piú il mondo com’era un tempo. Le vite dei Greci
all’epoca di Omero, intense e piene di significato, e la maestosa gerarchia
che strutturava l’universo cristiano medievale di Dante sono radicalmente
diverse dalla nostra epoca secolarizzata. In passato, il mondo, nelle sue
varie forme, era costituito da un insieme di elementi sacri e splendenti.
Abbiamo da tempo lasciato alle spalle questa luminosa realtà, e ora
vorremmo farla rivivere con questo libro.
Le questioni alla base del nostro saggio sono filosofiche e letterarie e le
abbiamo abbordate partendo dalla nostra formazione in entrambe le
discipline. Ma Ogni cosa risplende si rivolge a un pubblico di non specialisti
e ci auguriamo che possa essere letto dalle persone piú diverse. Chiunque
viva nel mondo contemporaneo possiede le basi che gli permettono di
leggerlo e chiunque speri di arricchire la propria vita riflettendo sui
classici della filosofia e della letteratura può trovarvi un utile spunto. È
rivolto a chi vuole guardare indietro alla realtà splendente dell’antichità
per capire il senso di stupore con cui un tempo eravamo capaci di vivere e
per scoprire che, a volte, il mondo di oggi riecheggia ancora di questa luce;
a chi si strugga nell’indecisione o nell’attesa, a chi prova il vuoto
dell’assenza di significato, oppure smarrimento, tristezza o angoscia; a chi
è curioso di sapere che cosa verrà dopo; a chi prova speranza invece che
disperazione e a chi è assillato dallo sconforto per ciò che potrà lasciarsi
alle spalle: tutti possono trovare qualcosa di utile in queste pagine. O
almeno è quello che ci auguriamo.
H. D. S. D. K.
a Geneviève,
il cui modo di stare al mondo
è la mia risposta francese
al nichilismo
HUBERT
Certo, si tratta di una parodia, eppure questi versi hanno avuto una
grande popolarità proprio perché contengono innegabili elementi di
verità. Grazie al cielo, noi non siamo continuamente paralizzati di fronte al
ventaglio di scelte che ci troviamo davanti, eppure siamo consapevoli della
loro sconvolgente varietà, e a volte ci chiediamo su quale base prendiamo
una decisione piuttosto che un’altra.
Tutti sono in grado di riconoscere le scelte a cui ci troviamo di fronte e
alcune sembrano davvero banali. La mattina dobbiamo interrompere
ancora una volta la suoneria della sveglia? La camicia che stiamo per
indossare è per caso troppo stropicciata? A pranzo mangiamo insalata o
patate fritte? E via di questo passo. Altre scelte su cui dobbiamo
pronunciarci, anche con una certa frequenza, toccano tuttavia questioni
piú importanti e piú problematiche. A volte vanno addirittura a toccare la
nostra identità piú profonda. Per esempio: è il momento di troncare una
relazione? E a livello professionale, devo cogliere al volo l’opportunità che
mi offrono oppure scegliere un’altra strada? Oppure devo evitare qualsiasi
decisione? Devo schierarmi con il tal candidato, il tal collaboratore, il tal
gruppo sociale? Devo privilegiare un ramo della famiglia rispetto ad altri
famigliari? Le nostre vite sono piene di interrogativi e di scelte di questo
genere: ci chiediamo su quali basi prendere una decisione, e poi la
rimpiangiamo, oppure ci pentiamo o continuiamo a vantarcene.
Molti sostengono che la libertà di scelta è una delle maggiori conquiste
del progresso nella vita moderna e in questo c’è indubbiamente una parte
di verità. Coloro che vivono in estrema povertà non si preoccupano affatto
di quale cibo mangiare, proprio perché non hanno nessuna scelta. La
libertà di scegliere un indirizzo professionale piuttosto che un altro non è
possibile se un’economia in recessione ha creato sacche di disoccupazione
in un certo settore. Ciò che caratterizza il mondo moderno, tuttavia, non è
soltanto il fatto che molti di noi si trovano di fronte a una gamma di scelte
ben superiore a qualsiasi altra epoca – scelte sul proprio divenire
personale, sulle possibilità d’azione, sugli schieramenti politici e collettivi.
Il problema è che, quando ci troviamo di fronte a tali scelte esistenziali, ci
manca una vera e propria motivazione che ci aiuti a dare la preferenza a
una delle possibili alternative. Detto in altri termini, nella vita e nelle
azioni che ogni giorno intraprendiamo, è assai raro trovare quella certezza
che ha provato Wesley Autrey quando si è trovato di fronte a una persona
in pericolo.
Ci sono almeno due tipi di persone che fanno di tutto per evitare il
fardello contemporaneo della scelta, entrambi in modo sbagliato.
Innanzitutto c’è chi ha una gran fiducia in se stesso (di solito si tratta di un
uomo) e si lancia a capofitto in ogni azione che intraprende. Considera
ovvio il mondo intorno a sé, si meraviglia che qualcuno si interroghi sulla
difficoltà di fare una scelta e la sicurezza che emana, in genere, ha sugli
altri un effetto trascinante.
L’uomo sicuro di sé spesso è qualcuno capace di convincere. Iperattivo,
vincente e concentrato sui propri obiettivi, fa di tutto perché sia il mondo
esterno a essere in sintonia con la sua visione delle cose. È possibile che
sia sinceramente convinto che la sua interpretazione sia superiore alle
altre, che il mondo sarebbe davvero un posto migliore se potesse
plasmarlo secondo la sua volontà e a volte è davvero in grado di operare
cambiamenti positivi. Tuttavia, questo atteggiamento comporta dei rischi.
Troppo spesso succede che questa roboante fiducia in se stessi celi delle
ragioni nascoste: potrebbe trattarsi di arroganza, associata a un’ambizione
sfrenata oppure, peggio ancora, di un’irrealistica concezione di sé. Di
conseguenza, quando i suoi progetti falliscono, come talvolta succede, chi
è troppo sicuro di sé spesso è incapace di riconoscere il proprio insuccesso.
Aggrappato con ostinazione e pervicacia alla sua idea di come dovrebbe
essere il mondo, non è capace di affrontarlo per quello che è realmente.
L’uomo sicuro di sé crede che la fiducia che ripone in se stesso sia una sua
personale virtú; se portato all’eccesso, questo lato del carattere può
condurre al fanatismo, o alla monomania, come vedremo nel capitano
Achab che Melville descrive in Moby Dick.
Si può trovare un ottimo esempio di una personalità tanto ostinata nel
ritratto che Orson Welles fa del magnate della stampa Charles Foster Kane
in Quarto potere. Il Kane di Welles è un uomo affascinante, con una forte
personalità, ed esige dagli altri lealtà e obbedienza assolute. Ha uno
straordinario successo, gode di perfetta salute e, grazie all’influenza
esercitata dal giornale di sua proprietà, pretende addirittura di essere in
grado di influire sul corso dell’universo. Come dice in una battuta famosa
del film, «Invii pure poema in prosa, io procurerò la guerra». Kane è un
uomo che non si sofferma mai a guardare al passato, che non si
sognerebbe mai un solo attimo di défaillance e che disprezza coloro che
sono incapaci di agire con la sollecitudine e la presenza di spirito necessari
a respingere i suoi continui attacchi. Alla fine, tuttavia, l’arroganza e la
brama di potere sono all’origine della sua rovina. Quando uno scandalo
amoroso gli rovina il matrimonio e la carriera politica, Kane non riesce piú
a controllare la sua vita. La parola pronunciata in punto di morte,
«Rosebud» («Rosabella»), non è altro che un richiamo nostalgico all’unico
periodo della sua vita in cui era povero, e non ancora un vincente capace
di soddisfare ogni minimo desiderio.
La sicurezza gli permette di evitare il fardello della scelta. Kane è
perfettamente consapevole dei suoi desideri e non arretra davanti a niente
per poterli realizzare. Ma la presunzione su cui poggia la sua vita alla fine
si rivela vuota, priva di una base reale che non sia la brama di potere, del
tutto insufficiente, si vedrà, per ispirare una vita degna di essere vissuta.
Al contrario, la fiducia in sé, misurata e realistica, che ha animato il
comportamento di Autrey non scaturisce da pensieri e desideri spontanei
né è calcolata in base a principî e prese di posizione, ma viene vissuta
come la conseguenza di un evento esterno. È un atteggiamento che trova
la sua giustificazione nella realtà, non in una sua interpretazione piú o
meno opportunistica da parte di chi è troppo sicuro di sé. Chi ha
veramente fiducia in se stesso non se la costruisce da solo, ma la ricava
dalle circostanze.
Che cosa significa agire d’impulso come ha fatto il signor Autrey, cioè
entrare in azione senza considerarsi protagonisti, avere la sensazione di
essere spinti dalle circostanze senza esserne travolti? Anche se non ci
facciamo caso, questi comportamenti non sono poi cosí rari nella vita di
ogni giorno, seppur in una versione piú leggera. Il pendolare al mattino
che a un certo punto si rende conto di essere sull’autobus, ma non si
ricorda nemmeno la sequenza di azioni che lo hanno portato lí. L’autista di
tir che improvvisamente si accorge di guidare da ore senza «averci fatto
caso». L’impiegata che, arrivata a casa stravolta dopo una giornata di
lavoro, si ritrova sprofondata nella sua poltrona preferita senza aver preso
la decisione di sedersi. Questi comportamenti di routine avvengono
automaticamente, offline si potrebbe dire, senza che il protagonista si sia
reso conto di averli compiuti. Anzi fa parte del normale pattern
comportamentale il fatto che a un certo punto il soggetto protesti o resista.
In un certo senso, il soggetto di azioni di routine, proprio come l’eroe, non
è né un protagonista animato dalla volontà né uno schiavo inconsapevole.
L’azione di routine tuttavia non è un gesto eroico. La differenza
consiste nel fatto che, mentre il soggetto delle azioni di routine manca
della consapevolezza non solo di sé, ma anche dell’ambiente intorno, l’eroe
ha invece un’acuta coscienza di quello che la situazione richiede.
La coscienza di quello che la situazione richiede non è affatto una
consapevolezza oggettiva delle circostanze. Anche gli altri che si
trovavano sulla piattaforma della metropolitana molto probabilmente si
erano accorti che Hollopeter era in pericolo; in questi termini, sono stati
testimoni attendibili e obiettivi dell’avvenimento. Inoltre, è probabile che
molti di loro si fossero resi conto che la situazione necessitava un
intervento immediato. Forse molti hanno sentito il bisogno di agire in
prima persona, ma non erano abbastanza motivati per andare in soccorso
del malcapitato. Nella loro esperienza c’è posto per l’esitazione, ma non in
quella di Autrey.
È difficile biasimare chi, trovandosi in simili frangenti, non reagisce con
eroismo: molti hanno sicuramente vissuto un’esperienza del genere. Forse
hanno pensato in preda al panico: «Mio Dio! Questo poveretto è caduto
sulle rotaie. Qualcuno deve fare qualcosa!» Non è che fossero privi di
empatia nei confronti della vittima, anzi probabilmente erano convinti che
fosse urgente intervenire. Se dobbiamo prendere alla lettera le parole di
Autrey, egli non ha pensato a nulla di simile e quindi non ha mai deciso di
agire in conseguenza dei suoi ragionamenti. Piuttosto, è stata la situazione
disperata in cui si trovava Hollopeter a spingerlo ad agire senza esitare. È
in questo che la sua esperienza è diversa da quella degli altri, i quali in
genere si comportano senza una reale coscienza di quel che sta
succedendo intorno. Si distingue dagli altri spettatori anche perché
l’esperienza che hanno avuto della situazione ha dato loro il tempo di
domandarsi che cosa fare. Autrey è in una posizione ben diversa da due
punti di vista: non solo ha avuto consapevolezza dell’ambiente intorno, ma
lo ha percepito in un modo che gli ha permesso di reagire.
Può sembrare un fenomeno strano e siamo costretti ad ammettere che è
molto raro. Nella sua forma estrema, si tratta di un atto eroico e non
comune. Ma se facciamo attenzione, troviamo situazioni analoghe anche
nella vita di tutti i giorni. I casi piú eclatanti probabilmente si trovano in
campo sportivo. Le espressioni del linguaggio quotidiano li mettono in
rilievo: per esempio, in inglese per dire che una squadra gioca al meglio, si
utilizza l’espressione play out of their head 10, che implica l’idea di aver
abbandonato il dominio della razionalità per seguire in modo istintivo il
flusso del gioco. Un atleta, nel momento clou della partita, percepisce
acutamente tutto quel che avviene intorno a lui, un po’ come Autrey.
Una delle piú efficaci descrizioni della bravura degli atleti si trova nel
libro di John McPhee A Sense of Where You Are 11, che descrive la carriera
nella squadra universitaria di basket di Bill Bradley, considerato
dall’autore il miglior giocatore di sempre della categoria. Bradley
naturalmente non si limitò alle competizioni universitarie e ottenne una
borsa di studio Rhodes 12, entrò nella Hall of Fame con i New York Knicks,
poi diventò senatore e si candidò alle presidenziali degli Stati Uniti. Il libro
di McPhee si concentra sul periodo in cui Bradley fu attivo come giocatore
universitario ed è in questo contesto che affronta il fenomeno di cui
stiamo parlando.
Uno degli aspetti piú sorprendenti nel gioco di Bradley, secondo
McPhee, era la sua capacità di essere immediatamente consapevole di tutto
ciò che stava succedendo sul campo. Possedeva questa lucida
consapevolezza senza neppure aver bisogno di guardarsi intorno, come nel
tiro qui descritto:
Il tiro sopra la spalla non aveva un nome vero e proprio. Senza guardare, lanciò la
palla da sopra la testa dritto nel canestro. Non c’era bisogno di guardare, spiegò poi,
perché «aveva affinato un senso ben preciso, quello di sapere esattamente dov’era» 13.
Il suo dono naturale piú straordinario era costituito dalla capacità di vedere.
Durante una partita, gli occhi di Bradley sembravano il guizzo di una visione
panottica: un giocatore di basket deve poter vedere tutto senza mai focalizzarsi sui
dettagli, fino all’ultimo istante della partita 14.
Michigan scelse di non raddoppiarlo, e lui gliela fece pagare … Rubò la palla, tagliò
dietro la difesa a ripetizione e distribuí passaggi eccezionali. Con le virate riuscí a
battere i migliori difensori della Big Ten Conference. Tenne il suo uomo a un solo
punto segnato. Giocò sul perimetro, in post basso e negli angoli. In un’occasione si
trovò in un angolo del campo contro due avversari, ambedue piú alti, che lo
raddoppiavano spalla contro spalla. Li divise con due rapide finte – muovendo sia la
palla sia la testa – e saltò oltre per insaccare un tiro in sospensione da sei metri. Gli
stessi due difensori tornarono a raddoppiarlo. Stavolta le finte furono differenti, ma il
risultato identico. Fece un passo lungo tra i due e saltò in avanti lasciandoseli dietro.
Mentre i due collidevano, lui segnava un tiro pulitissimo nonostante si stesse
spostando in avanti nel salto. Quando uscí per falli, dovette guardare il resto della gara
dalla panchina. Appena andò a sedersi, ventimila spettatori gli tributarono
un’ovazione in piedi di tre minuti. Stando a giornalisti e addetti ai lavori del Madison
Squadre Garden, la piú clamorosa ovazione mai tributata a un cestista, dilettante o
professionista, al Madison … Durante il lungo applauso, lo speaker istintivamente alzò
il volume dell’altoparlante e disse: «Bill Bradley, uno dei piú grandi giocatori che
abbiano mai giocato al Madison Square Garden, ha ottenuto quarantun punti» 15.
Friedrich Nietzsche, il grande filosofo tedesco della fine del XIX secolo,
ha notoriamente affermato che Dio è morto. Intendeva dire che noi,
nell’Occidente moderno, non viviamo piú in una cultura in cui le domande
fondamentali dell’esistenza hanno già una risposta. Il Dio del Medioevo
aveva la funzione di rispondere alle domande esistenziali ancora prima che
venissero poste, ma oggi un simile ruolo non è piú concepibile. Ciò vale
per i credenti come per gli scettici, come dice il filosofo contemporaneo
Charles Taylor 18. Anche se, come molti sostengono, negli Stati Uniti
assistiamo a un Terzo risveglio religioso, il tipo di credenza religiosa oggi
accessibile non basta a placare l’assillo delle scelte esistenziali. Nessuno è
piú convinto che i non credenti siano da bandire dalla comunità degli
uomini. Questo era vero nel Medioevo: essere un non credente significava
stare automaticamente dalla parte del male e opporsi alle meraviglie del
creato, a tutto ciò che era meritevole e degno. Forse esistono tuttora
alcune sottoculture di fanatici che caldeggiano una concezione tanto
fondamentalista. Se è legittimo che un credente ammetta che i non
credenti possono essere persone ammirevoli, come spesso succede nel
mondo occidentale, la fede religiosa non può pretendere di impedire i
dubbi e i quesiti esistenziali. Infatti, se ci si convince che un non credente
non è per forza un essere ripugnante, ne consegue che la scelta di non
credere deve essere presa sul serio anche dai credenti. Affermare che,
nell’Occidente moderno, viviamo in un’epoca secolarizzata implica che
anche i credenti si trovano quotidianamente di fronte a quesiti esistenziali.
Porsi quesiti esistenziali non è affatto negativo, se si hanno le risorse
per rispondervi ed è possibile che, nell’Occidente moderno, alcuni credenti
abbiano ancora queste risorse. L’opera piú recente di Taylor nasce proprio
da questo presupposto. Egli pensa che la proliferazione di correnti
religiose e di spiritualità – una vera e propria esplosione – sia un tratto
fondamentale della contemporaneità. L’idea che non esista nessuna
ragione per dare la preferenza a una risposta anziché a un’altra, tuttavia, è
definita nichilismo, e Nietzsche lo considerava il modo migliore per
connotare la nostra condizione di uomini dopo la morte di Dio.
Nietzsche pensava che il nichilismo fosse fonte di gioia, poiché ci
permette di vivere la vita che scegliamo, eppure per molti è
un’aberrazione. Come ha detto Dostoevskij, «Se non esiste Dio, tutto è
permesso». Quello che noi crediamo è che il nichilismo sia una visione
unilaterale e limitata, come lo è il fanatismo, e che nessuna delle due
costituisca una base sufficiente su cui poggiare le nostre vite. Siamo quindi
piú scettici di Taylor sul fatto che il monoteismo giudeo-cristiano possa
costituire una risposta culturalmente soddisfacente all’epoca
contemporanea. Anche se cosí fosse, ci sono altre tradizioni religiose nella
storia dell’Occidente che permettono all’individuo di vivere una vita
all’insegna della trascendenza. Nel capitolo III prenderemo in
considerazione soltanto una tradizione, quella del politeismo greco come è
stata tramandata da Omero. Ma prima di affrontare questo tema,
vorremmo descrivere l’autore contemporaneo che piú efficacemente ha
rappresentato il senso di sconforto che attanaglia la nostra epoca.
1
Early Blooms in Brooklyn, in «The New York Sun», 3 gennaio 2007.
2
L’episodio descritto è ripreso dall’articolo di Cara Buckley apparso in «The New York Times»
del 3 gennaio 2007 con il titolo Man Is Rescued by Stranger on Subway Tracks, e da altri articoli del
«Times» usciti nei giorni successivi all’incidente.
3
State of the Union, in «The New York Times», 24 gennaio 2007. Vedi anche Subway Rescuer
Receives the City’s Highest Award, ivi, 5 gennaio 2007.
4
Why Our Hero Leapt onto the Tracks and We Might not, ivi, 7 gennaio 2007.
5
A Big Hero in the Big City, ivi, 4 gennaio 2007.
6
Heroes Rush in, but What Would Average Joe Do?, ivi, 7 gennaio 2007.
7
Why Our Hero Leapt cit.
8
Heroes Rush in cit.
9
T. S. ELIOT , Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock, in ID ., Poesie, Garzanti, Milano 1975, p. 53.
10
In italiano si traduce «con la massima facilità», «a occhi chiusi», anche se letteralmente
significa «fuori di testa» [N.d.T.].
11
J. MCPHEE , A Sense of Where You Are: A Profile of Bill Bradley at Princeton, Farrar, Straus and
Giroux, New York 1999. L’edizione originale è del 1965.
12
La Rhodes Scholarship è una delle piú prestigiose istituzioni di borse di studio del mondo
anglosassone [N.d.T.].
13
MCPHEE , A Sense of Where You Are cit., p. 156.
14
Ibid., p. 61.
15
Ibid., pp. 86-88.
16
Vedremo nel capitolo dedicato a Dante che quest’interpretazione è un po’ eccessiva. A rigor
di termini, per Dante non era inconcepibile che un individuo scegliesse liberamente la propria
identità. Lungi tuttavia dall’essere la condizione necessaria o naturale dell’uomo, come pensiamo
noi oggi, per Dante questa scelta volontaria era il peggior tipo di ribellione possibile contro Dio. A
chi si è macchiato di tale colpa, egli riserva infatti i gironi piú bassi dell’Inferno.
17
W. SHAKESPEARE , Amleto, atto III, scena i (trad. it. di C. Garboli, Einaudi, Torino 2009, p. 84).
18
Vedi la sua opera monumentale L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009 (ed. or. A Secular Age,
Harvard University Press, Cambridge [Mass.] 2007). Vedi anche C. M. BLOW , Heaven for the Godless?,
in «The New York Times», 27 dicembre 2008, basato su un’inchiesta del Pew Forum on Religion
and Public Life. Lo studio dimostra che il 70 per cento degli americani crede che anche le persone
con fedi diverse dalla loro possano raggiungere la vita eterna.
Capitolo secondo
Il nichilismo di David Foster Wallace
PLATONE
… qualcosa che non c’entra con le contingenze materiali, o con l’economia, o con
nessuna delle questioni di cui solitamente si parla sui giornali. È una tristezza
viscerale. Lo vedo in me e nei miei amici in molti modi diversi. Si manifesta come uno
smarrimento.
Lo sconforto di cui parla questo libro, e che io stesso ho attraversato, è una forma di
sconforto tipicamente americana. Io ero bianco, di classe medio-alta, con
un’educazione sfacciatamente sofisticata e ho avuto successo nel mio lavoro ben di piú
di quanto avrei mai potuto sperare, eppure in un certo senso ero un disadattato. Lo
stesso è successo a molti dei miei amici. Alcuni si drogavano, altri erano totalmente
dipendenti dal lavoro. Altri ancora tutte le sere si imbucavano in locali per single.
Questo scenario potrebbe avere venti varianti diverse, ma rimarrebbe immutato 7.
Non riuscivo a smettere di pensare a quello che mi aveva detto una volta mia
sorella, mentre allattava il suo primogenito: «Avere un figlio è come farsi un tatuaggio
in faccia. Devi essere maledettamente sicura di volerlo davvero» 11.
È probabile che noi tutti pensiamo che la nostra sia un’epoca buia, e stupida, ma è
davvero indispensabile che la letteratura si limiti a mettere in scena quanto sia buia e
stupida? Nei tempi bui, la buona arte dovrebbe essere quella che individua e applica il
defibrillatore alle particelle di magia e di umanità che ancora esistono nel mondo e che
brillano nonostante la fitta oscurità della nostra epoca. La buona letteratura continui
pure a dare una visione catastrofica del mondo, ma trovi anche il modo non solo di
rappresentarlo, ma di illuminare le strade che ci permettono di rimanere vivi e umani
su questa terra 12.
Questo è il motivo per cui Wallace e Gilbert sono due esempi molto
azzeccati per la tesi espressa in questo libro: non solo perché percepiscono
il senso di sconforto tipico della nostra epoca – questa visione cupa
esisteva già nella Terra desolata di Eliot e in Finale di partita di Beckett, e
in innumerevoli altre testimonianze dei primi decenni del XX secolo. Al
contrario, quello che rende i nostri due autori contemporanei degni di
essere letti è il fatto che cercano un modo per «riemergere nella luce».
Quando ci rendiamo conto che non sempre ci riescono, siamo noi stessi
invogliati a metterci alla ricerca dei momenti in cui il sacro si rivela anche
nel mondo di oggi.
Tutta questa faccenda è come un tornado, che non durerà abbastanza perché io
possa capire cosa è utile e cosa non lo è. Non ho fatto altro che rimuginare sul
problema, finché la mia capacità di rimuginare si è paralizzata 14.
L’attaché medico, nel loro appartamento, sta ancora guardando la cartuccia priva di
etichetta, che ha riavvolto fino all’inizio numerose volte e poi programmato per
vederla sempre di seguito in un loop interminabile. È seduto là, attaccato a una cena
congelata, a guardare la cartuccia, alle 0020h, coi pantaloni bagnati sulla poltrona
bagnata 20.
Lane Dean Jr. … fece altre due dichiarazioni dei redditi, poi un’altra, poi contrasse le
natiche contando fino a dieci e immaginò una bella spiaggia calda con i morbidi
frangenti come gli avevano insegnato al corso di orientamento il mese prima. Poi fece
altre due dichiarazioni dei redditi, controllò velocissimamente l’orologio, poi altre due,
poi si mise d’impegno e ne fece tre di fila, poi contrasse, visualizzò, si mise ancora piú
d’impegno e ne fece quattro senza alzare gli occhi nemmeno una volta … Dopo appena
un’ora la spiaggia era una spiaggia invernale, fredda e grigia con le alghe morte che
sembravano i capelli di un annegato, e cosí rimase malgrado tutti gli sforzi 26.
Non ci sono allusioni al fatto che Wallace fosse annoiato dal processo di
scrittura, ma sicuramente aveva lottato per rimanere motivato dal suo
lavoro e per attenervisi senza essere sviato dalle distrazioni. Anche lui
svolgeva con dedizione il suo compito e non ci è difficile immaginare che
vi mettesse un grande impegno, forse a contare le righe o le pagine – al
posto dei moduli delle dichiarazioni dei redditi – già riempite. C’è forse
lotta piú grande di quella degli eroici personaggi che combattono per otto
ore al giorno con un compito cosí noioso da desiderare ogni momento una
piccola distrazione? Prendiamo Lane Dean Jr., piú tardi in quella stessa
mattinata:
Aveva le natiche già indolenzite a furia di contrarle e la sola idea di visualizzare la
spiaggia deserta lo avviliva. Chiuse gli occhi ma … quando aprí gli occhi la pila nel
vassoio delle pratiche da evadere sembrò alta piú o meno come alle 7:14, quando aveva
firmato il registro del capounità … e si rifiutò ancora una volta di alzarsi e controllare
quante fossero perché sapeva che avrebbe solo peggiorato le cose. Aveva la sensazione
che un buco o un vuoto di proporzioni colossali sprofondasse dentro di lui
continuando a sprofondare senza mai toccare il fondo. Finora non aveva mai pensato
al suicidio in vita sua 27.
Una gabbia del Penitenziario di Revere per 92 giorni. Sentire il dolore di ogni
secondo che passava. Vivere un secondo alla volta. Suddividere il tempo in tante
microunità. L’astinenza. Ogni secondo: si ricordava: il pensiero di sentirsi come si
sentiva in questo secondo per altri 60 di questi secondi – non poteva farcela. Non
poteva farcela. Doveva costruire un muro intorno a ogni secondo per sopportarlo. Le
prime due settimane sono ridotte telescopicamente nella sua memoria a un secondo –
anzi meno: lo spazio tra due battiti del cuore. Un respiro e un secondo, la pausa tra le
contrazioni. Un’Ora senza fine che allunga le sue ali di gabbiano dentro il battito del
suo cuore. E prima di quel momento non si era mai sentito cosí dolorosamente vivo, e
neanche dopo. Vivere nel Presente tra due battiti 31.
Forse la beatitudine che prova Drinion nella sua noia è come il sentirsi
vivo che Gately sperimenta quando si costringe a vivere nel momento
presente. Il malessere conseguente alla disintossicazione, come pure
l’inferno della noia, possono essere sopportati soltanto se si costruisce una
sorta di muro che circonda ogni singolo istante. Agendo in questo modo si
accorda a ciascun momento un’intensità, una vivacità e una luce
particolari – cioè una «costante sensazione di gioia e gratitudine per il
semplice dono di essere vivi e consapevoli» – che non si sperimenterebbe
affatto se si tralasciasse di vivere l’attimo. Si tratta di un’esperienza cosí
ardua, che le persone normali sopportano solo quando non ne possono
fare a meno, per pura sopravvivenza:
Ma questo Presente intrabattito, questo senso di un’Ora senza fine – era sparito nel
Penitenziario di Revere con i conati di vomito e i brividi di freddo. Era ritornato in sé,
si era seduto sul bordo del letto, e aveva smesso di Resistere perché non ce n’era piú
bisogno 32.
Poteva fare la stessa cosa con il dolore destrorso: Resistere. Nessun singolo istante
di quel dolore era insopportabile. Eccolo qua un secondo: lo aveva sopportato.
Insopportabile era il pensiero di tutti gli istanti in fila, uno dietro l’altro, splendenti… È
troppo. Non riesce a Resistere. Ma niente di tutto questo è vero, ora … Poteva
accovacciarsi nello spazio tra due battiti di cuore e fare di ogni battito un muro e
vivere là dentro. Non permettere alla sua testa di guardare sopra il muro 33.
Nel 2005 Wallace ha ricevuto una laurea honoris causa dal Kenyon
College e nello stesso anno fece anche il discorso d’apertura in occasione
della cerimonia dei diplomi. L’intervento fu pubblicato postumo con un
titolo appena piú breve del discorso stesso: Questa è acqua: alcuni pensieri,
espressi in un’occasione significativa, sul modo di vivere una vita piena di
compassione.
Il discorso, come molti dei lavori successivi di Wallace, parte dal
presupposto che i cliché, apparentemente privi d’interesse, spesso
nascondono una profonda verità. Secondo Wallace, questo fatto è stato
occultato dalla tendenza postmoderna a favorire principî intellettuali
sofisticati, complessi ed estetizzanti rispetto ad altri piú semplici ed
esteticamente privi di interesse, eppure profondamente veri. L’avversione
postmoderna per la semplicità è «una delle cose che piú ha contribuito a
svuotare di significato la nostra generazione» 35.
Si potrebbe dire che l’obiettivo principale di Wallace come scrittore sia
stato quello di resuscitare le verità che si nascondono all’interno di tali
cliché, di rivitalizzarle e di dar loro nuova energia. L’esperienza con cui
Gately costruisce un muro intorno a ogni istante, per esempio, è una
versione piú elaborata di un famoso slogan degli Alcolisti Anonimi:
Qualcosa di tanto banale e riduttivo come «Un giorno alla volta» permette a queste
persone di attraversare l’inferno che, per quanto ne so, è rappresentato dai primi sei
mesi di disintossicazione. È una cosa che mi ha molto colpito 36.
… che gli adulti che si suicidano con armi da fuoco si sparino quasi sempre… alla testa.
E la verità è che erano quasi tutti già morti da un pezzo quando hanno premuto il
grilletto 37.
Sono passati vent’anni da quando mi sono laureato e nel frattempo ho capito poco
alla volta che il cliché secondo il quale le scienze umanistiche «insegnano a pensare»
in realtà sintetizza una verità molto profonda e importante. «Imparare a pensare» di
fatto significa imparare a esercitare un certo controllo su come e su cosa pensare.
Significa avere quel minimo di consapevolezza che permette di scegliere a cosa prestare
attenzione e di scegliere come attribuire un significato all’esperienza. Perché se non
sapete o non volete esercitare questo tipo di scelta nella vita da adulti, siete fregati 38.
… forse è stata sveglia tre notti di seguito a stringere la mano al marito che sta
morendo di cancro alle ossa. O forse è quella stessa impiegata assunta alla
Motorizzazione col minimo salariale che soltanto ieri ha aiutato vostra moglie a
risolvere un problema burocratico da incubo facendole una piccola gentilezza di ordine
amministrativo. Non è molto verosimile, d’accordo, ma non è nemmeno da escludere:
dipende solo da cosa volete prendere in considerazione 41.
Forse ciò che piú ci rattrista nella storia di Wallace è che le qualità
umane a cui tanto aspirava, le capacità dello spirito che invidiava e che
ammirava, sono un miraggio. Anzi è tutto il suo modo di vivere, in cui si
rimproverava continuamente di non essere abbastanza in gamba da
raggiungere i suoi obiettivi, che alla fin fine è un miraggio, invece di
incarnare una possibilità di salvezza per la nostra cultura. L’incapacità di
Wallace di raggiungere i suoi obiettivi non è debolezza, ma rispecchia la
qualità umana profonda della sua anima.
Lo capiamo meglio se ripensiamo a Martin Lutero. La lotta spirituale,
probabilmente autobiografica, che Wallace descrive in Lane Dean Jr., dal
punto di vista formale è simile alla battaglia interiore di Lutero, che lo
portò a rivedere completamente la rappresentazione metafisica medievale
di Dio e dell’uomo.
Soffermiamoci sul giovane Lutero, un monaco devoto ed estremamente
pio. Era talmente assorbito dal desiderio di sradicare ogni traccia di
peccato dalla propria anima, che tutte le sue azioni erano costantemente
rivolte a purificare se stesso. L’identificazione di ogni suo singolo peccato
e la conseguente confessione diventarono un’ossessione. I racconti
agiografici tradizionali sulla vita del giovane Lutero risultano quasi
sempre inventati, ma sono comunque molto significativi. Descrivono
Lutero come un innocente fraticello molto pio, talmente ossessionato dalla
purezza della sua anima che, una volta, sequestrò letteralmente il suo
confessore per sei ore per obbligarlo ad ascoltare la lista completa dei suoi
peccati. In un’altra occasione, dopo una confessione lunga e scrupolosa,
ritornò precipitosamente al confessionale per raccontare la sensazione di
orgoglio che la sua zelante confessione gli aveva procurato! I racconti
agiografici esistenti ci descrivono un frustratissimo Johann von Staupitz, il
saggio e paziente confessore di Lutero, che finisce per rimproverare il
giovane per le sue continue visite al confessionale e cosí lo ammonisce:
«Devi mantenere il controllo su te stesso, Martin. Non è possibile che tu
corra a confessarti ogni volta che fai una scoreggia!» Alla fine Staupitz si
spazientí: «Smettila di venire da me per fare queste confessioni da quattro
soldi, Lutero», gridò. «Vai a uccidere tuo padre e cosí avremo davvero una
colpa di cui parlare!»
La battaglia che Lutero condusse per sradicare il peccato dalla propria
anima rispecchia la crociata contro la noia dilagante, la rabbia, la
frustrazione e la distrazione che hanno condizionato l’intera vita di
Wallace. Il Wallace scrittore non era molto dissimile dal giovane Lutero: lo
immaginiamo mentre si autoanalizza perché non si dedica alla scrittura, si
rimprovera per la sua debolezza, ritorna al suo compito con rinnovato
vigore e nuova energia, per un attimo è soddisfatto della sua
concentrazione, si stizzisce contro se stesso per tale momentanea
soddisfazione, è addirittura disgustato dalla sua mancanza di
determinazione e infine si abbandona alla disperazione. Le otto ore al
giorno che Wallace trascorreva a preoccuparsi di non aver scritto sono
paragonabili alle otto ore che trascorreva Lutero a preoccuparsi di non
essere abbastanza puro: piú ci si accanisce nel proprio intento, piú
l’obiettivo sembra lontano e irraggiungibile.
Fu proprio san Paolo, uno degli autori che Wallace preferiva, a fare una
diagnosi del conflitto psicologico che sta alla base di questo problema.
Nella Lettera ai Romani, Paolo descrive la relazione inversa che esiste tra
l’attenzione verso il comandamento di non concupire e la capacità di
raggiungere tale obiettivo. «Anzi io non avrei conosciuto il peccato se non
per mezzo della legge», scrive Paolo.
Poiché io non avrei conosciuto la concupiscenza se la legge non avesse detto: non
concupire. Ma il peccato, colta l’occasione, per mezzo del comandamento produsse in
me ogni concupiscenza … Venuto il comandamento, il peccato prese vita e io morii. E il
comandamento che era inteso a darmi la vita risultò che mi dava la morte [Rm 7.7-10].
Osservai con cordiale reverenza e timore, quell’uomo che, nel cuore dell’inverno,
sceso da un viaggio di quattro anni pieno di pericoli, poteva con tanta irrequietezza di
nuovo cacciarsi in rotta per un altro periodo di tempeste 53.
Il porto sarebbe disposto a darle riparo, il porto è misericordioso, nel porto c’è
sicurezza, comodità, focolare, cena, coperte calde, amici, tutto ciò che è benevolo al
nostro stato mortale 56.
Ma siccome nell’assenza della terra soltanto sta la suprema verità senza rive,
infinita come Dio, cosí meglio è perire in quell’abisso ululante che venire
vergognosamente sbattuto a sottovento, anche se in questo fosse la salvezza. Poiché,
allora, oh! chi vorrebbe come un verme strisciare vilmente a terra? Terrore dei terrori!
È cosí vana tutta quest’angoscia? Tienti ferocemente, semidio! Su dagli spruzzi della
tua morte oceanica, su in alto, balza la tua apoteosi! 57.
Wallace viveva come un peso il fatto che il suo genio fosse riconosciuto
da tutti. Quando ricevette la MacArthur Fellowship 58 nel 1997, il suo
amico Jonathan Franzen disse:
Non penso che [il premio] per lui sia fonte di piacere. Gli conferisce lo status di
«genio» ed è un’onorificenza che naturalmente ha molto desiderato, che ha sperato di
ottenere e che ha pensato gli fosse dovuta. Ma temo che ora stia arrovellandosi:
«Adesso devo essere ancora piú intelligente di prima» 59.
L’idea centrale era: mettiamo l’essere umano al centro della creazione, al di sopra
degli dèi e dei misteri dell’universo … Questo è l’inizio dell’umanesimo razionale,
quando la gente cominciò a credere che la creatività scaturisse completamente dall’Io.
E, per la prima volta nella storia, si è cominciato a sentire parlare di questo artista o di
quell’autore come di un genio 62.
L’idea della poesia come una forza esterna, un qualcosa che vaga per il
mondo in cerca di un ricettacolo, di un luogo dove prendere dimora, ci
rimanda a Lutero; è quanto, secondo Gilbert, può salvare i grandi artisti
dalla forza distruttiva e dai tempi bui in cui viviamo, e dalla tentazione di
mettersi a bere gin alle nove del mattino. Come nel caso di Lutero, per
raggiungere questa conoscenza dell’essere umano, lo scrittore ha bisogno
di un cambiamento di Gestalt, un cambiamento che trasformi ciò che era
un compito gravoso, oggetto di pressioni e probabilmente irraggiungibile,
in qualcosa che non dipende dalla responsabilità dell’artista. È un motivo
che forse non basta a confermare questa visione delle cose, ma Gilbert lo
adotta come ragione strumentale. Sull’approccio nietzscheano di Wallace,
prosegue:
The Best Mind of His Generation, in «The New York Times», 21 settembre 2008, per la seconda.
2
Vedi il saggio di D. T. MAX , The Unfinished, in «The New Yorker», 9 marzo 2009, che cita
l’intervista originale di Larry McCaffery del 1991, disponibile sul sito
http://www.dalkeyarchive.com/interviews/show/21
3
LIPSKY , The Lost Years cit.
4
Vedi l’articolo di Bruce Weber che commentava la morte di David Foster Wallace: David Foster
Wallace, Influential Writer, Dies at 46, in «The New York Times», 15 settembre 2008.
5
Vedi M. KARR , Lit: A Memoir, Harper, New York 2009.
6
L’espressione è difficilmente traducibile in italiano e si rifà alle fiabe, ai proverbi e agli
aneddoti che hanno un contenuto ammonitorio e/o premonitore [N.d.T.].
7
L. MILLER , David Foster Wallace: The Salon Interview, in «Salon», 8 marzo 1996. Vedi il sito
http://www1.salon.com/09/features/wallace1.xhtml
8
MAX , The Unfinished cit., p. 54.
9
Con l’espressione chick lit si intende un genere letterario nato nel mondo anglosassone negli
anni Novanta e rivolto soprattutto alle donne giovani, single e in carriera, con volumi che spesso
sono nella toplist dei bestseller; in Italia è nota soprattutto Sophie Kinsella [N.d.T.].
10
Vedi il sito http://www.bookreporter.com/authors/elizabeth-gilbert#view060324
11
E. GILBERT , Mangia, prega, ama, Rizzoli, Milano 2007, p. 21 (ed. or. Eat, Pray, Love: One
Woman’s Search for Everything Across Italy, India and Indonesia, Penguin Books, New York 2006).
12
Vedi il sito http://www.dalkeyarchive.com/interviews/show/21
13
MAX , The Unfinished cit., p. 58.
14
Ibid., p. 60.
15
Ibid., p. 57.
16
Intervista disponibile sul sito http://www.charlierose.com/view/interview/5639; il passaggio
citato inizia al minuto 3:16 (il riferimento al celebre brano della Bibbia non è intenzionale).
17
D. F. WALLACE , Infinite Jest, Einaudi, Torino 2006, p. 275 (ed. or. Little, Brown, Boston 1996).
18
Ibid., p. 1130.
19
Uno dei personaggi del romanzo, consulente del medico personale del Principe Q—, il
Ministro saudita dell’Home Entertainment [N.d.T.].
20
Ibid., p. 65.
21
W. SHAKESPEARE , Amleto, atto V, scena III , trad. mia [N.d.T.].
22
Quando l’intero mondo di Hank Hoyne è crollato dopo aver visto per caso questo film. Vedi
WALLACE , Infinite Jest cit., p. 608.
23
Wallace si rammaricava continuamente che i critici – anche coloro che apprezzavano il libro
– non cogliessero lo sconforto che lo permeava. Vedi per esempio l’intervista rilasciata a «Salon»
nel 1996 e quella di Charlie Rose dell’anno seguente.
24
MAX , The Unfinished cit., p. 57.
25
Ovvero Good People, in «The New Yorker», 5 febbraio 2007; The Compliance Branch, in
«Harper’s Magazine», febbraio 2008; Wiggle Room, in «The New Yorker», 9 marzo 2009. Altri brani
del manoscritto sono citati nell’articolo di D. T. Max.
26
D. F. WALLACE , Il re pallido, Einaudi, Torino 2011, p. 487 (ed. or. The Pale King, Little, Brown,
New York 2011).
27
Ibid., pp. 489-90.
28
Ibid., p. 376.
29
Vedi MAX , The Unfinished cit.
30
WALLACE , Infinite Jest cit., p. 1033.
31
Ibid., pp. 1033-34.
32
Ibid., p. 1034.
33
Ibid.
34
Ibid., p. 1035.
35
MILLER , David Foster Wallace cit.
36
Ibid.
37
D. F. WALLACE , Questa è l’acqua, Einaudi, Torino 2009, p. 148. Si tratta di un volume postumo
uscito soltanto in Italia, che riunisce, oltre al discorso del Kenyon College, cinque racconti
pubblicati su rivista tra il 1984 e il 1991 e inediti nel nostro Paese [N.d.T.].
38
Ibid., p. 147.
39
Ibid., pp. 149-50.
40
Ibid., p. 152.
41
Ibid.
42
Ibid.
43
Ibid.
44
MAX , The Unfinished cit.
45
Ibid.
46
WALLACE , Infinite Jest cit., p. 245.
47
F. NIETZSCHE , La gaia scienza, § 108 (ed. it. in ID ., Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari,
trad. it. di F. Masini, vol. V, tomo II, p. 136).
48
Nel libro, sorprendentemente, non si parla molto dell’esistenza di Dio. Tutt’altro, è molto
sbrigativo al riguardo. In un primo tempo per esempio si lascia intendere che Mario, talvolta
chiamato Boo, chieda spesso al fratello Hal se crede in Dio. Hal detesta questa domanda e la evita a
tutti i costi. A un certo punto, tuttavia, quando è costretto a prendere una posizione, dice che, se
Dio esiste, non deve essere venerato: «E allora stanotte, per farti star zitto, ti dirò che con Dio ho
due o tre conti in sospeso, Boo. Mi sembra che Dio abbia un modo piuttosto disinvolto di gestire le
cose, e questo non mi piace per nulla. Io sono decisamente antimorte. Dio sembra essere sotto ogni
profilo promorte. Non vedo come potremmo andare d’accordo sulla questione, lui e io, Boo»
(WALLACE , Infinite Jest cit., p. 48).
49
ID ., Questa è l’acqua cit., p. 152.
50
Quest’interpretazione nietzscheana di Wallace è contraddetta da alcuni passaggi di Infinite
Jest. Non c’è da sorprendersi: la posizione di Wallace non è affatto una concezione filosofica
esauriente, si tratta piuttosto di una sorta di pastiche costituito da diverse osservazioni spesso
conflittuali, ma mai del tutto contraddittorie. Ricorda l’idea che lo stesso Nietzsche aveva della
verità. In ogni caso, un passaggio importante del libro a questo proposito è a p. 348. Il narratore
racconta che: «Una delle cose banali ma giuste che insegnano gli Aa di Boston è che sia i baci del
destino sia i suoi manrovesci illustrano la fondamentale impotenza personale di ogni individuo
sugli eventi veramente significativi della sua vita: cioè, quasi nessuna delle cose importanti ti
accade perché l’hai progettata cosí. Il destino non ti avverte; il destino sbuca sempre da un vicolo e,
avvolto nell’impermeabile, ti chiama con un Psss che di solito non riesci neppure a sentire perché
stai correndo da o verso qualcosa di importante che hai cercato di pianificare». Il contrasto tra
questa posizione e quella, per esempio, espressa da Gately può effettivamente dar luogo alla sua
personale esperienza del dolore, quasi estatica, affrontandola nel modo giusto, facendo appello alla
volontà – questo conflitto, ovvio in sé, può essere spiegato sottolineando la differenza tra destino ed
eterno presente. Ma potrebbe anche non essere cosí.
51
DANTE , Paradiso, XXXIII.142-45.
52
NIETZSCHE , La gaia scienza, § 124 (ed. it. cit., p. 150).
53
H. MELVILLE , Moby Dick, o la Balena, trad. it. di C. Pavese, Adelphi, Milano 1994, p. 138 (ed. or.
Moby Dick; or The Whale, Harper & Brothers, New York 1851).
54
Ibid., p. 51.
55
Ibid., p. 139.
56
Ibid.
57
Ibid., p. 139.
58
La MacArthur Fellowship è una prestigiosa borsa di studio, o meglio un premio in denaro,
attribuita ogni anno dalla MacArthur Foundation un numero compreso tra i venti e i quaranta
cittadini americani, che si siano distinti in modo eccelso in un qualche campo del sapere [N.d.T.].
59
LIPSKY , The Lost Years cit.
60
Technology Entertainment and Design: un ciclo di conferenze annuali organizzato, a partire
dal 1984, dalla Sapling Foundation, un’organizzazione no profit, al fine di diffondere idee
particolarmente interessanti [N.d.T.].
61
Elizabeth Gilbert on Nurturing Creativity, disponibile sul sito
http://www.ted.com/talks/lang/en/elizabeth_gilbert_on_genius.xhtml
62
Ibid.
63
Ibid.
64
Ibid.
65
NIETZSCHE , La gaia scienza, § 125 (ed. it. cit., p. 151).
66
L’idea secondo cui abbiamo un ruolo irrilevante e passivo per la nostra salvezza è
probabilmente piú chiaro in Calvino, il successore di Lutero, che nello stesso Lutero. Nel
calvinismo, la strada per la salvezza è predestinata da Dio. Secondo la dottrina di Calvino sulla
predestinazione, noi non abbiamo nessun impatto sul risultato finale della nostra vita.
Capitolo terzo
Il politeismo di Omero
Chi disse: «Preferisco avere fortuna che talento» percepí l’essenza della vita. La
gente ha paura di ammettere quanto conta la fortuna nella vita. Terrorizza pensare che
sia cosí fuori controllo. A volte, in una partita, la palla colpisce il nastro e per un
attimo può andare oltre, o tornare indietro. Con un po’ di fortuna va oltre, e allora si
vince. Oppure no. E allora si perde.
JULES (tra sé) Adesso dovremmo essere morti stecchiti. (Pausa). Hai visto quella pistola
con cui ci ha sparato? Era piú grande di lui … Dovremmo essere morti stecchiti!
VINCENT Sí, abbiamo avuto fortuna.
Nel mondo omerico, uno dei segni piú eloquenti che mostra i difetti di
un personaggio è la sua mancanza di gratitudine. Come abbiamo visto,
Omero spiega la morte di Aiace come conseguenza della sua presunzione e
della sua assenza di riconoscenza, ma è un tema ricorrente nell’opera del
poeta. Forse l’esempio piú significativo si trova nel comportamento dei
pretendenti di Penelope.
Mentre Odisseo è lontano dalla patria, alcuni nobili di Itaca si mettono
in testa di sposare Penelope per impossessarsi delle proprietà del marito.
All’inizio dell’Odissea, alcuni di loro, che Omero chiama i proci, irrompono
nella sua dimora per corteggiarla. Omero li descrive in termini poco
lusinghieri, sottolineando che agiscono senza alcun rispetto per gli usi e i
costumi dell’isola. Ospiti abusivi a casa di Odisseo, divorano senza ritegno
le sue pietanze, tracannano il vino e creano scompiglio e confusione. Cosí
facendo, tentano di usurparne il regno, di lusingarne e corromperne i
servitori… e di portargli via la moglie. I proci non sono affatto persone
rispettabili.
Se nel mondo omerico Odisseo è un modello di eccellenza, i proci sono
quindi all’opposto. Per questa ragione, è interessante vedere come Omero
descrive i loro difetti. Eumeo, il porcaro di Odisseo, racconta:
Omero descrive molti casi in cui una forza al di là del nostro controllo
suscita – o dovrebbe suscitare – una sorta di stupore e di immensa
gratitudine negli uomini. Per esempio, quando uno straniero offre il suo
aiuto al protagonista, nelle descrizioni di Omero questi è quasi sempre un
dio o una dea, che appare sotto false spoglie 26; anche in altri momenti
critici, per esempio se un oratore con le sue parole spinge la folla a
schierarsi dalla parte del protagonista, si tratta ancora una volta
dell’intervento di un dio o di una dea che indirettamente vegliano su di
lui 27. Persino in una riunione pubblica – se si tratta di un evento davvero
importante, in cui bisogna mettersi in mostra – Omero, per risolvere la
situazione, ancora una volta ci fa entrare lo zampino di un dio 28. Ciò non
implica necessariamente una spiegazione metafisica: in questi esempi
infatti c’è sempre una persona reale – lo straniero, l’oratore, il nunzio. Ma
affermare che dietro a ogni avvenimento umano c’è la presenza di un dio
significa sottolineare l’adeguatezza di reazioni come la gratitudine e lo
stupore.
Gli dèi hanno anche altri ruoli. A volte, in Omero la presenza di un dio
serve a mettere in risalto il fatto che si è raggiunto il massimo
dell’eccellenza. Abbiamo già visto azioni di eroismo, ma ci sono casi piú
semplici. A volte il dio interviene quando un personaggio emerge –
splende, diremo noi – in un modo che rivela il suo carisma. Ecco la scena
in cui Odisseo si prepara a far visita al re dei Feaci:
La parola greca per grazia è charis, che è la radice dei nostri «carisma»
e «carismatico». Una persona carismatica ha ricevuto in dono dagli dèi
grazia e talento. In una stanza, colui che possiede il carisma brilla tra tutti i
presenti, come per esempio si racconta del grande ballerino russo Rudolf
Nureev. Descrivendo una scena avvenuta alla Factory di Andy Warhol,
Stephen Holden descrive l’effetto che Nureev fece sui presenti:
Non si deve pensare, a partire dall’idea di sacro in Omero, che gli dèi
greci esistano in funzione di quel che possono far ottenere di importante e
significativo. Ma sarebbe anche utile accantonare la concezione odierna
secondo cui l’agente umano è l’unica fonte delle proprie azioni. Questa
nozione moderna di libertà d’azione da parte dell’uomo è cosí diffusa, che
il nostro comportamento finisce per nasconderci i fenomeni a cui era
sensibile Omero. Per capirli meglio, analizziamo brevemente il modo di
pensare dei moderni.
Per noi, è normale pensare che chi non si assume la responsabilità delle
proprie azioni sarà oggetto delle critiche altrui – anzi si tratta quasi di una
verità assiomatica. Le azioni dell’uomo sono comportamenti per i quali è
responsabile solo l’agente umano. Verso la metà del XX secolo, il filosofo
francese Jean-Paul Sartre, con l’esistenzialismo, elaborò una teoria che, dal
punto di vista logico, ampliava questa concezione. «Il primo passo
dell’esistenzialismo», scrive Sartre, «è di mettere ogni uomo in possesso di
quello che è e di far cadere su di lui la responsabilità totale della sua
esistenza» 31.
La concezione secondo cui siamo interamente responsabili della nostra
esistenza è in totale contrasto con l’idea omerica che agiamo nel migliore
dei modi quando ci apriamo al mondo, permettendo a una forza esterna di
guidarci. Una volta che ci rendiamo conto dell’intensità di questo
contrasto, diventa ovvio il motivo per il quale oggi è molto difficile vedere
i fenomeni fondamentali del mondo omerico. Quello che Omero
considerava il paradigma dell’eccellenza difficilmente può essere applicato
alle azioni dell’uomo.
… Odisseo
aveva pietà in cuor suo della sua donna piangente,
ma gli occhi erano immobili come il corno o il ferro
sotto le palpebre, tratteneva a forza le lacrime 35.
Elena è bella, certo. Ma ciò che piú conta, è che permette a chiunque
intorno di capire che cosa sia la bellezza. Quindi valutare il
comportamento di Elena con la norma della responsabilità morale non
solo è sbagliato, ma, nel mondo omerico, è inconcepibile. Ridurrebbe la sua
bellezza a un semplice attributo, superfluo in confronto al valore morale
delle sue azioni. Se nell’universo omerico la fuga d’amore di Elena con
Paride è in sintonia con l’eros, la si dovrebbe intendere come un gesto
sacro della massima eccellenza, in cui i protagonisti sono disponibili a
rispondere al richiamo di Afrodite.
È chiaro che i Greci intendevano il problema proprio in questi termini.
Anche se la fuga con Paride provocò la guerra di Troia, nel mondo
omerico non si trattava di qualcosa di deplorevole, bensí di uno dei
molteplici aspetti della vita. Anzi creò l’occasione perché si manifestassero
altri atti di eccellenza e di eroismo. Il piú grande guerriero greco, Achille,
per esempio, era cosí eroico in battaglia che persino «da vivo noi Greci ti
onoravamo come gli dèi» 41. Le sue gesta eroiche erano cosí straordinarie
che stabilirono il criterio di eccellenza per quel che riguarda il modello di
eroe, un’altra dimensione sacra nella Grecia di Omero. E anche se morí
giovane, le sue gesta fecero della sua vita il simbolo stesso dell’eccellenza.
Odisseo, quando lo incontrò nell’oltretomba, lo apostrofò dicendo: «Di te,
Achille, nessuno è piú felice, in passato o in futuro» 42. Le vicissitudini
dell’esistenza, nel mondo omerico, hanno il loro significato proprio per il
tipo di eccellenza che sono in grado di portare alla luce. Odisseo stesso –
un eroe della sua epoca – è uno degli uomini «piú oppressi dai mali» 43. E
il grande re dei Feaci, Alcinoo, a proposito delle sorti avverse di Odisseo,
disse: «Tutto ciò hanno fatto gli dèi, filando la rovina degli uomini, |
perché fosse anche per i posteri materia di canto» 44.
Per concludere, la fuga di Elena con Paride, sicuramente deplorevole,
non può essere considerata come un atto di irresponsabilità morale. Anzi
si tratta di un comportamento che non rientra nella sfera della morale.
Rientra invece nella sfera dell’eros, nell’accezione sacra che diamo alla
parola, un eros che intreccia in modo indissolubile stupore e dolore,
creando una storia da cui possono attingere gli uomini a venire per trovare
argomenti su cui fondare i loro canti.
Editing 2017: nick2nick www.dasolo.co
1
OMERO , Odissea, IV.26 (ed. it. a cura di G. Paduano, Einaudi, Torino 2010, p. 85).
2
Ibid., IV.305 (ed. it. cit., p. 87).
3
Vedi per esempio R. E. BELL , Women of Classical Mythology: A Biographical Dictionary, Oxford
University Press, New York 1991. Anche nella versione del testo comunemente accettata, c’è un
passaggio che suggerisce un’interpretazione di questo tipo: «Penso che Elena argiva, la figlia di
Zeus, | non si sarebbe unita a un altro uomo nell’amore e nel letto, | se avesse saputo che un’altra
volta i prodi figli dei Greci | l’avrebbero riportata a casa, nella sua patria. | Ma fu un dio che la
spinse a compiere l’azione indegna…» (OMERO , Odissea, XXIII.218-24 [ed. it. cit., p. 575]). Questo
brano conferma la nostra interpretazione, poiché secondo noi Omero ammira Elena, invece di
pensare che è colpevole di un’avventatezza per la quale dovrebbe essere punita. Siamo quindi stati
molto compiaciuti di scoprire che, anche in passato, i commentatori si sono resi conto che questo
passaggio è un’aggiunta posteriore al testo, per ragioni che non hanno nulla a che vedere con la
rispettabilità di Elena.
4
Vedi il classico di B. SNELL , Die Entdeckung des Geistes. Studien zur Entstehung des europäischen
Denkens bei den Griechen, Claassen & Goverts, Hamburg 1946 (trad. it. La cultura greca e le origini
del pensiero europeo, Einaudi, Torino 2002); la risposta di E. R. DODDS , The Greeks and the Irrational,
University of California Press, Berkeley 1951 (trad. it. I greci e l’irrazionale, La Nuova Italia, Firenze
1978); e il piú recente saggio di B. WILLIAMS , Shame and Necessity, University of California Press,
Berkeley 1993 (trad. it. Vergogna e necessità, il Mulino, Bologna 2007).
5
M. HEIDEGGER , Parmenide, trad. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 1999, p. 204.
6
I principali testi di Omero, l’Iliade e l’Odissea, costituiscono le basi della cultura occidentale.
Come nel caso della Bibbia, tuttavia, poco si sa della loro stesura e ancora meno dell’autore, o degli
autori. Secondo la tradizione, Omero era un poeta cieco, che si pensava provenisse dall’antica città
ionica di Smirne o dalla vicina isola di Chio. Che un individuo con queste caratteristiche sia
davvero esistito o che sia stato l’unico autore dei poemi epici è oggetto di controversia fin
dall’antichità (per una disamina piú approfondita, vedi R. FOWLER , The Homeric Question, in ID ., The
Cambridge Companion to Homer, Cambridge University Press, Cambridge 2004). Se Omero è
esistito, si pensa sia vissuto nell’VIII secolo a.C.; sicuramente i testi che abbiamo oggi furono
trascritti per la prima volta in quell’epoca. Gli avvenimenti descritti nei poemi, tuttavia, sempre che
abbiano una base reale, probabilmente si svolsero circa un millennio prima. L’Iliade, il primo dal
punto di vista cronologico, racconta un’importante serie di eventi accaduti nei dieci anni di assedio
di Troia. Tradizionalmente, la guerra di Troia è datata tra il 1194 e il 1184 a.C., periodo che mostra
una certa coerenza con i reperti archeologici ritrovati in quello che fu probabilmente il luogo dove
si svolse la guerra. L’Odissea descrive le avventure di Odisseo durante il viaggio di dieci anni per
ritornare nella natia Itaca, alla fine della guerra. Oltre a essere narrazioni paradigmatiche di guerra
e avventura, i canti dell’aedo avevano un ruolo essenziale nel mondo greco dell’VIII secolo, poiché
chiarivano alla popolazione ciò che veramente contava nella loro cultura. Ancora tre secoli dopo,
gli ateniesi dell’epoca di Eschilo e Platone sapevano a memoria lunghi passaggi dei poemi e
facevano ricorso all’opera di Omero per questioni morali, legali e diplomatiche. Secondo gli autori
della Grecia classica, non era inusuale che la gente citasse a memoria interi brani di Omero in tutte
le possibili occasioni, un po’ come si fa oggi – o almeno fino a qualche tempo fa – quando si usano
passi della Bibbia per commentare una situazione.
7
Le teorie pedagogiche del XIX secolo spesso furono preda di tale tentazione anacronistica. In
quel periodo, il vero scopo dell’educazione umanistica era ovvio: formare il cittadino cristiano. In
quest’ottica, i classici greci e latini erano letti per formare il gusto individuale e il senso della
bellezza (vedi, per esempio, la storia della teoria generale dell’educazione discussa nella relazione
del 1945 dell’Università di Harvard, intitolata General Education in a Free Society). Era difficile
immaginare, in epoca vittoriana, che la principale dote della donna piú bella del mondo consistesse
nell’essere sensibile all’aspetto erotico dell’esistenza, che i Greci consideravano sacro. Eppure, come
abbiamo già detto, Omero stesso ammirava Elena.
8
F. NIETZSCHE , Genealogia della morale, Einaudi, Torino 2012.
9
Vedi l’introduzione di Knox alla traduzione inglese di Robert Fagles dell’Odissea (Penguin
Classics, London 1996). Knox esamina il rapporto tra aretè e araomai, nella sua nota a VII.62, che
parla di un personaggio di nome Arete. Il rapporto è chiaro se si considera anche la parola aretè, da
cui il personaggio prende il nome.
10
OMERO , Odissea, III.47-48 (ed. it. cit., p. 49).
11
Cfr. sopra, cap. II , p. 23, nota 6 [N.d.T.].
12
OMERO , Odissea, IV.499-504 (ed. it. cit., p. 97).
13
Prima di allora, nella cultura greca tyche era a volte considerata una forza che, se mai esiste,
esclude la fede negli dèi. Vedi, per esempio, la tragedia di Euripide Il ciclope, V . 606: «Se no, noi
crederemo il Caso [tyche] un dio, e da meno del Caso i nostri dèi» (trad. it. di F. M. Pontani, in
EURIPIDE , Tragedie, Einaudi, Torino 2002, p. 1074).
14
OMERO , Odissea, XXII.255-56 (ed. it. cit., p. 551).
15
Ibid., XXII.274-80 (ed. it. cit., p. 551).
16
Q. TARANTINO , Pulp Fiction, trad. it. di F. Saba Sardi, revisione e note di I. Cotroneo, Bompiani,
Milano 1994, pp. 112-13.
17
OMERO , Odissea, XIV.90-96 (ed. it. cit., p. 341).
18
Ibid., XIV.89-90 (ed. it. cit., p. 341).
19
Ibid., XIV.83-84 (ed. it. cit., p. 341).
20
OMERO , Iliade, XIV.233 (trad. it. di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 2005, p. 491). Vedi
anche la Teogonia di Esiodo, soprattutto il V . 759. Qui il Sonno e suo fratello la Morte sono descritti
come «terribili dèi» – probabilmente nel senso che ispirano timore.
21
OMERO , Odissea, I.363 (ed. it. cit., p. 19).
22
Ibid., V.47-48 (ed. it. cit., p. 117).
23
Ibid., V.404-6 (ed. it. cit., p. 133).
24
Ibid., V.425-30 (ed. it. cit., p. 135).
25
Questo fenomeno era cosí importante per i Greci ai tempi di Omero che sembra essersi
impresso nella grammatica stessa del loro linguaggio. Nella lingua greca si trova una forma verbale
piuttosto insolita, il medio-passivo. Questa forma verbale non ci è familiare e gli studiosi non
concordano sui motivi del suo uso. I fatti, tuttavia, parlano chiaro. Quasi tutte le lingue moderne
hanno solo due forme verbali, l’attivo e il passivo. Quando il verbo è usato nella forma attiva, allora
il soggetto è l’agente dell’azione, per esempio «John lanciò la palla». Invece, quando il verbo è nella
forma passiva, allora il soggetto diventa un po’ come se fosse un recipiente passivo dell’azione, per
esempio «John fu lanciato». Ma i Greci ai tempi di Omero hanno una terza opzione: il medio-
passivo. Qualunque sia il suo significato, il medio-passivo deve essere inteso per situazioni in cui la
persona in questione non è né del tutto attiva né del tutto passiva. Si tratta proprio del fenomeno
che descriviamo quando parliamo del fatto di essere abitati o istruiti dagli dèi. Per sapere come
funziona, è utile tener conto che, nell’esempio sopra, il verbo che abbiamo tradotto nella forma
attiva «afferrare di slancio» in realtà nel testo originale è reso in medio-passivo. E ha davvero
senso. Omero sembra suggerire che Odisseo non era stato spinto da Atena ad allungare le mani –
come se lo avesse costretto contro la sua volontà. Il fenomeno indica chiaramente che, in un certo
senso, Odisseo è coinvolto personalmente nell’azione. Il suo coinvolgimento, tuttavia, non è
propriamente attivo: il fatto di aver invocato la dea significa che Odisseo non ha fatto tutto da solo.
Il medio-passivo è la voce grammaticale perfetta per indicare questo fenomeno. E probabilmente
non è un caso che Omero ne sia il grande specialista; la forma era poi caduta quasi del tutto in
disuso all’epoca degli autori della Grecia classica del V secolo a.C.
26
Vedi, tra gli altri, OMERO , Odissea, VII.18 sgg. (ed. it. cit., p. 157); e XIII.221 sgg. (ed. it. cit., p.
325).
27
Vedi, per esempio, la descrizione di Atena della vittoria di Odisseo nella gara di lancio del
disco, ibid., VIII.195 sgg. (ed. it. cit., p. 183).
28
Vedi, per esempio, ibid., VIII.7 sgg. (ed. it. cit., p. 175).
29
Ibid., VI.229-37 (ed. it. cit., p. 149).
30
S. HOLDEN , Film View; Adrift, Fleetingly, in Warhol’s World, in «The New York Times», 28
aprile 1996.
31
J.-P. SARTRE , L’esistenzialismo è un umanismo, Armando, Roma 2006, p. 48 (ed. or.
L’existentialisme est un humanisme, Nagel, Paris 1946).
32
J. DONOVAN , Head Games: Ankiel, Knoblauch Struggle to Rediscover Their Arms, «Cnn Sports
Illustrated», 23 marzo 2001. Vedi il sito
http://sportsillustrated.cnn.com/baseball/mlb/2001/spring_training/news/2001/03/23/ankiel_knob
33
OMERO , Odissea, XIX.31-43 (ed. it. cit., p. 469).
34
Naturalmente, Omero riconosce che, per raggiungere l’eccellenza in qualunque campo si
voglia, si deve sottostare a un processo di apprendimento delle competenze, delle pratiche e degli
usi e costumi propri di quel campo. Sarebbe sciocco pensare che Chuck Knoblauch sarebbe
diventato il giocatore che era – almeno per un certo periodo – senza l’allenamento e l’esperienza
adeguati. Tuttavia, allenamento ed esperienza non bastano. Una volta raggiunta l’eccellenza in un
dato ambito, si è pronti a essere aperti agli dèi. Prendiamo l’esempio di Telemaco. Atena ha un
ruolo cruciale nell’aiutarlo a passare dal suo mondo di fanciullo impotente che gioca in mezzo ai
proci, a quello della vita adulta. Il passaggio dalla fanciullezza alla vita adulta, secondo Omero, è
sotto l’influsso degli dèi, poiché nessuno è in grado di compiere da solo questa transizione.
Naturalmente, ciò che conta è un’educazione adatta e non è un caso che Atena aiuti Telemaco
prendendo le sembianze di un importante personaggio della famiglia, Mentore. La capacità di
considerare diversamente le esigenze del mondo a Telemaco tuttavia non basta. Ha anche bisogno
dell’esperienza, per essere capace di fare discorsi in grado di convincere gli altri e per essere
autorevole. Omero riconosce che Telemaco manca della competenza necessaria per fare bene queste
cose e l’episodio cruciale è quello in cui l’appassionata eloquenza del giovane non riesce ad avere
gli effetti desiderati (vedi OMERO , Odissea, II.270 sgg.). Per esempio quando, come un tipico ragazzo
della sua età, non sembra rendersi conto dell’importanza dell’esperienza. In un punto fondamentale
di un discorso importante, egli regredisce all’infanzia, butta a terra lo scettro e scoppia in lacrime
(ibid., II.80 sgg.). Non è tanto il fatto che gli dèi possano sostituire magicamente il nostro bisogno di
diventare competenti in un certo campo: piuttosto, una volta raggiunte le migliori competenze
possibili, abbiamo bisogno che ci aiutino a esprimerle al meglio.
35
OMERO , Odissea, XIX.209-12 (ed. it. cit., p. 477).
36
Vedi Odissea: «Si slanciò come un soffio di vento sul letto della fanciulla, | si fermò sopra il
suo capo e le parlò, | prendendo l’aspetto della figlia di Dimante, navigatore famoso, | che era sua
coetanea e cara al suo cuore» (VI.20-23; ed. it. cit., p. 139). E anche: «Ciò detto sparí passando
accanto al chiavistello, | nel soffio del vento; e allora la figlia di Icario | balzò dal sonno, e il cuore le
si scaldò dalla letizia, | perché un sogno chiaro le era venuto nel cuore | della notte…» (IV.838-42;
ed. it. cit., p. 113).
37
Un complicato episodio di questa soap opera si vede nel libro VIII dell’Odissea. Racconta la
relazione adulterina tra Afrodite e Ares, con il marito geloso Efesto nel ruolo del cornuto.
38
OMERO , Odissea, IV.71-75 (ed. it. cit., pp. 75-77).
39
Il che non significa che sono valutate solo considerando lei. In Omero ci sono altri personaggi
femminili eccelsi. Elena è il modello per quanto riguarda l’eros, ma la saggezza di Penelope, per
esempio, si distingue in modo inconciliabile con l’eccellenza di Elena. La fedeltà e la lealtà che
dimostra Penelope – la quale rimane fedele a Odisseo per vent’anni – è in contrasto con le
disposizioni erotiche di Elena. Il politeismo di Omero gli permette di avvalersi di queste due forme
di eccellenza senza sentire il bisogno di metterle a confronto o farne una classifica.
40
OMERO , Odissea, IV.120-37 (ed. it. cit., p. 79).
41
Ibid., XI.484 (ed. it. cit., p. 283).
42
Ibid., XI.483 (ed. it. cit., p. 283).
43
Ibid., VII.212 (ed. it. cit., p. 167). Uno degli epiteti di Odisseo è «uomo dai molti dispiaceri».
44
Ibid., VIII.579-80 (ed. it. cit., p. 203).
Capitolo quarto
Da Eschilo ad Agostino: l’ascesa del monoteismo
Per metter fine a questo ciclo, quindi, Oreste deve uccidere sua madre
nel nome di Apollo e della giustizia universale, non in nome delle Erinni e
della loro sanguinaria vendetta. In altri termini, deve uccidere con
freddezza, razionalmente e in modo deliberato, come se si trattasse della
conseguenza necessaria di una norma indiscutibile. È questo l’unico modo
per porre fine alla violenza che minaccia la società, mettendola sull’orlo di
una guerra civile.
Il problema è che non si può tagliare la gola alla propria madre solo
perché lo esige un’argomentazione razionale. Le Erinni rappresentano una
forza istintiva. Hanno il potere di suscitare negli individui uno stato di
esaltazione e di spingerli a compiere atti che altrimenti non farebbero; è
difficile tuttavia immaginare che la pura ragione, senza la passione, possa
indurre il singolo ad agire. Come ha detto David Hume molti secoli dopo,
la ragione è schiava delle passioni.
Alla fine, Eschilo escogita una soluzione ingegnosa. Leggete l’Orestea e
la scoprirete. Ma anche se Oreste alla fine riesce a compiere l’omicidio
freddamente e senza passione, nel nome dell’adesione degli dèi
dell’Olimpo alla ragione e alla legge, la civiltà non viene salvata dal suo
ragionevole gesto. Le Erinni di Clitennestra perseguitano Oreste, esigendo
che la donna sia vendicata. Un conflitto culturale non si svolge a livello
individuale, sembra dirci Eschilo, e nessun gesto di un singolo può
risolverlo. È tutta la cultura ateniese che deve mettere in atto una serie di
pratiche per trovare il modo di riconciliare i vecchi e i nuovi dèi.
Questa è la raffinata soluzione che Eschilo inventa nell’ultima parte
della trilogia, ma all’inizio delle Eumenidi la situazione appare senza
speranza: la società sembra avviata verso la guerra civile. È a questo punto
che compare Atena, con un piano ben preciso. Atena è una delle nuove
dee dell’Olimpo. In quanto donna, tuttavia, è favorevole alle forme locali
che vorrebbero adottare sia la ragione universale di Apollo sia la violenza
tipica delle Erinni. Atena comprende che, quando le Erinni protestano,
diventando «fedeli a ufficio spregiato e disonorevole, | lontane dagli dèi» 9,
hanno ragione. Omero reprime le dee della terra e del sangue e privilegia
gli dèi olimpici. In questo modo, il lato pericoloso delle emozioni umane
viene messo a tacere e non lo si affronta. Omero definisce le Erinni
«odiose» e le nomina soltanto cinque volte in tutta l’Odissea 10.
Atena si rende conto che le Erinni sono cupe e pericolose a causa della
repressione subita. Come farebbe un terapeuta, suggerisce alla società
ateniese di riconoscerle e di accordare loro uno spazio. Eschilo pensa che
passioni come l’oltraggio alla morale siano in grado di consolidare la
morale stessa e che forze come la sessualità siano necessarie per poter
dare all’azione le giuste motivazioni. Motivazioni di questo tipo sono piú
universali della fedeltà di sangue alla famiglia e al clan sostenuti dalle
Erinni, pur non essendo cosí generiche da risultare inefficaci, come le
astratte leggi universali a cui aderiscono Apollo e gli dèi dell’Olimpo.
Atena convince le vecchie dee che, incarnando il ruolo primario delle
passioni fondamentali, possono ottenere rispetto dai nuovi dèi e possono
riuscire a capovolgere la situazione di repressione e di esclusione di cui
tanto hanno sofferto. Grazie al riconoscimento di Atena di questo
legittimo ruolo, l’ira delle Erinni si trasforma in buona volontà.
Rinunciano alla vendetta tra consanguinei e diventano le Eumenidi, le dee
gentili, che, invece di istigare i dissidi in famiglia, promettono di servirsi
delle passioni in modo costruttivo, vegliando su Atene e controllando lo
stile di vita degli ateniesi. Cosí dice Atena:
Oltre alle Erinni, Atena trasforma gli dèi olimpici. In particolare, al loro
atteggiamento astratto – la tendenza a seguire leggi universali improntate
sul distacco e a svalutare le emozioni –, sostituisce un sistema giuridico
reattivo alle sensibilità locali dei cittadini ateniesi impegnati nella vita
della polis. Questo sistema a sua volta diventa il perno intorno a cui si
muove la vita della polis, creando una serie di procedure e di rituali su cui
le Eumenidi eserciteranno il loro favorevole influsso. Atena trasforma cosí
i vecchi e i nuovi dèi e li riconcilia in una città-stato ideale, della quale
tutti gli ateniesi sono fieri.
Alla fine della tragedia, Atena proclama il nuovo modo di vivere che ha
stabilito ad Atene. «Le mie [cure] non tollerare», dice, «che nelle guerre
insigni il trionfo non colga | questa città vittoriosa nel mondo» 12. Le
Erinni, ora diventate le Dee Gentili, insieme agli dèi olimpici, escono fuori
dal teatro celebrando tutti insieme la gloria di Atene e invitando il
pubblico – cioè i cittadini della stessa Atene – a unirsi a loro dicendo:
«alto ululate di gioia al nostro canto» 13. I due gruppi di dèi, insieme ai
cittadini, dal teatro vanno direttamente per le strade della città cantando
un inno che la celebra.
Con questi rituali che sanciscono l’emergere di un atteggiamento nuovo
– l’amore per Atene –, rinforzato dalla partecipazione attiva allo
spettacolo teatrale, gli ateniesi capiscono di essersi lasciati alle spalle il
politeismo omerico. Sono orgogliosi perché il nuovo modus vivendi
suggerito dagli dèi permette di unificarli tutti all’insegna del patriottismo.
La tragedia si trasforma cosí in un esempio eclatante di quanto gli ateniesi
hanno creato e di cui, giustamente, vanno fieri – e diventa un paradigma
nel vero senso del termine. Dimostra che, sensibili al nuovo atteggiamento
dell’amore per la patria, essi sono giunti a riconciliare vecchi dèi –
simbolo di emozioni dettate dall’ira che generano violenza e vendetta – e
nuovi dèi, che tendono verso il distacco e un estremo rigore morale.
La tragedia assume cosí la stessa funzione di un dio. Non si tratta di un
dio legato a una situazione specifica, come quelli che troviamo in Omero,
ma un dio che incita gli uomini ad agire nel qui e ora. È universale, quasi
monoteistico: svela alla cultura ateniese il livello collettivo a cui si può
giungere in quanto popolo. L’Orestea incita gli ateniesi a partecipare allo
svolgimento degli eventi del nuovo mondo splendente, coinvolgendoli in
rituali che celebrano lo stile di vita ateniese e incoraggiando un forte
senso dell’orgoglio. L’importanza di questa tragedia di Eschilo, sacra e
paradigmatica, era evidente persino agli ateniesi. Ogni anno,
selezionavano l’opera teatrale migliore, che veniva rappresentata a spese
della città per l’anno in corso. L’Orestea fu l’unica tragedia a venir allestita
a spese della città per diversi anni consecutivi.
Basata sull’orgoglio civile come emozione sociale prevalente, e su
Atene come locus di questa totale devozione, la concezione di Eschilo del
sacro si distacca dal politeismo di Omero e si avvicina a un’idea di
universo piú unitaria, e già sostanzialmente monoteistica. Ciò che quindi
può apparire problematico è il modo in cui Eschilo concepisce gli dèi
olimpici. Senza il politeismo di Omero, non c’è posto per Zeus nell’Atene
di Eschilo; in altre parole, non c’è posto per il padre della famiglia
politeistica degli dèi dell’Olimpo. Eschilo ne è consapevole e propone una
soluzione sorprendente, anche se poco elaborata.
Per Eschilo, Zeus non è piú un dio personificato che presiede il
pantheon. Non rappresenta neppure una forza culturale come le Erinni o
gli altri dèi olimpici dell’Orestea. Zeus invece è l’incarnazione di una
modalità ormai data per scontata e che sorregge l’insieme delle varie forze
divine. È onnipresente sullo sfondo e in quanto tale non può essere
descritto, anche se rimane alla base di tutti gli eventi significativi. Il coro,
per esempio, si riferisce a Zeus dicendo «chiunque egli sia» 14 e aggiunge:
«cosa mai fra gli uomini si conclude senza Zeus?» 15.
In altre parole, Zeus rappresenta lo sfondo nascosto e non rappresentabile
alla base di tutte le pratiche significative della cultura. È un’idea di sacro
talmente profonda ed efficace che permetterà di elaborare il concetto di
«Dio padre» nella religione giudeo-cristiana, ma non verrà riconosciuta
come sommo compimento poetico fino a Moby Dick di Melville.
L’Orestea di Eschilo non solo descrive la soluzione alle tensioni esistenti
nella cultura ateniese, ma ha un ruolo fondamentale nel trovarla. Quando
gli ateniesi marciano tutti insieme fuori dal teatro, cantando l’inno in
celebrazione di Atene, si accorgono della grandezza della loro città, ma è
proprio il canto collettivo a innescare il sentimento di orgoglio e
commozione. Eschilo ha anche la lungimiranza di intravedere i pericoli
insiti nel patriottismo. In particolare, capisce che emozioni sconvolgenti
come quelle suscitate dall’amore per la patria non possono essere
facilmente rese costruttive. Una volta coinvolti, sotto la guida di Atena, a
condividere un senso di appartenenza che sfocia nel piú esasperato dei
patriottismi, i cittadini ne vengono travolti e non sono piú disposti a
rinunciarvi. Tale desiderio è tuttavia contrario alla natura transeunte della
physis. Omero ben sapeva che gli stati d’animo, nella loro funzione di dare
significato alle cose intorno, nascono, si impongono e poi sono destinati a
scomparire. Eschilo lo poté constatare con il patriottismo. Quando le
Erinni chiedono con ansia: «E me ne offri garanzia per tutta l’eternità?»,
Atena risponde in tutta franchezza: «Nessuno mi costringe a promesse che
non manterrei» 16. Il desiderio di permanenza, tuttavia, faceva parte dello
spirito patriottico tipico della cultura ateniese. E fu cosí che venne
piantato il seme del declino di Atene.
Negli anni che seguirono questa celebre tragedia di Eschilo, gli ateniesi
tentarono di stabilire con la forza l’universalità e la permanenza di Atene.
Per poter garantire alla loro città una durata eterna, cercarono di annettere
tutti gli stati vicini, creando una sorta di impero ateniese. Furono distrutte
le colonie che non riconoscevano gli dèi ateniesi e che non pagavano un
tributo annuale alla città – gli uomini uccisi e le donne e i bambini ridotti
in schiavitú. Invece di dar vita a un impero, questo governo spietato
provocò la ribellione delle colonie e, in patria, la divisione in fazioni
politiche e perfino la guerra civile. In definitiva, l’età d’oro di Atene durò
soltanto cinquant’anni.
Che sia esistita o meno una persona di nome Gesú – e che abbia
realizzato davvero quanto gli si attribuisce – è una questione storica tra le
piú affascinanti, che tuttavia qui non ci riguarda. Ci interessa invece il
fenomeno della riconfigurazione in sé. I Vangeli descrivono Gesú come
colui che ha trasformato completamente l’interpretazione di essere umano,
in un modo che ha del sovrannaturale: il Gesú biblico, come un vero e
proprio dio, ha rivelato il nuovo Mondo cristiano. Quindi, la sua impresa
di riconfiguratore deve avere una triplice struttura.
Innanzitutto, erano in atto normali pratiche culturali, in questo caso la
concezione ebraica dell’essere. Queste pratiche di sottofondo erano
implicite e, affinché ci si potesse organizzare intorno a esse, non dovevano
essere troppo apparenti. Gli Ebrei infatti credevano che Dio, per svolgere
la sua funzione, cioè essere alla base di tutta l’intelligibilità, dovesse essere
irrappresentabile. Prima di poter spiegare a chiare lettere ciò che si intende
per irrappresentabile, dobbiamo aspettare di affrontare le tematiche di
Moby Dick.
In secondo luogo, deve esserci un modello che delinea il nuovo modo di
vivere – la nuova concezione dell’essere – e che gli permetta di farlo
risplendere. Nel Vangelo di Giovanni, Gesú lo esprime con queste parole:
«Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14.9). In altri termini, Gesú si
considera come il modello illuminante di un nuovo modo di concepire
l’essere. Il filosofo Søren Kierkegaard lo definisce «Il Paradigma» e lo
spiega affermando che, dopo l’incarnazione di Gesú, ogni accesso diretto a
Dio Padre diventa impossibile.
Il paradigma è qualcosa di piú di uno sfondo, poiché dà visibilità alle
pratiche soggiacenti. Esso dipende tuttavia dallo sfondo invisibile che
rivela. Cosí dice Gesú: «Il padre è maggiore di me» (Gv 14.28), ma anche:
«Io e il Padre siamo uno» (Gv 10.30). Aggiunge: «riconoscete che il Padre
è in me e io sono nel Padre» (Gv 10.38). Naturalmente, gli apostoli non
sono ancora in grado di capirlo: si limitano ad annotare quello che dice.
Quasi cento anni dopo, san Giovanni è ancora alla ricerca delle parole
giuste per dare un significato al fenomeno di paradigma. Uno dei concetti
piú difficili da lui espressi su Gesú è: «Egli era nel mondo e il mondo fu
fatto per mezzo di lui» (Gv 1.10). Sembra una formulazione assurda, ma in
realtà non esiste modo migliore di descrivere il fenomeno: la nozione
stessa di paradigma può venire spiegata soltanto in questo modo
paradossale. Il riconfiguratore è qualcosa o qualcuno che è nel nuovo
mondo e di conseguenza ne dipende; nello stesso tempo, tuttavia, rivela il
mondo ed è quindi il mondo stesso a dipendere da lui.
Infine, il messaggio di Gesú è cosí radicale da risultare praticamente
inintelligibile a coloro in mezzo ai quali vive. Questo è il paradosso di ogni
riconfiguratore. Se il modo di vivere di Gesú è radicalmente diverso da
quello dei suoi contemporanei, allora egli è indecifrabile e sembra matto
da legare. Se invece non appare poi cosí pazzo, vuol dire che il suo modo
di vivere non è poi cosí diverso da quello degli altri. Per riconfigurare la
cultura in senso autentico, è necessario trovare una strada tra queste
alternative. Vedremo che Gesú, a un certo punto, riesce a farlo. Ribadiamo
tuttavia che i Vangeli ce lo presentano come un riconfiguratore, dotato
appunto di queste caratteristiche.
Il Vangelo di Giovanni dice con chiarezza che la vita di Gesú trasforma
completamente la concezione ebraica di vita degna di essere vissuta. Gesú
tuttavia non possiede i concetti per esprimere la sua nuova visione e parla
per mezzo di parabole – parabole che i suoi seguaci non sono in grado di
comprendere neppure quando tenta di spiegarle. A quanto scrive
Giovanni, non è neppure chiaro se Gesú sia in grado di capire le sue stesse
azioni e le sue parabole. Come potrebbe, d’altronde, visto che l’unico
modo di pensare e agire disponibile nella sua epoca è quello che lui stesso
è chiamato a capovolgere?
Inoltre, secondo il Vangelo di Giovanni, Gesú sa di essere un
riconfiguratore e di aver bisogno di riformulatori che trasmettano il suo
messaggio. Dice:
… ma quando sia venuto lui, lo Spirito della Verità, egli vi guiderà in tutta la verità,
perché non parlerà di suo, ma dirà tutto quello che avrà udito, e vi annunzierà le cose a
venire… [Gv 16.13].
In altri termini, dopo che Gesú avrà lasciato questa terra, dovranno
venire i suoi riformulatori a dare senso a quello che ha detto e fatto. Lo
Spirito Santo, che risplende per mezzo dei riformulatori, permetterà di
rendere manifesto il clima di gioia e amore instaurato da Gesú, di
ricordare quel che Egli ha detto e di esplicitarlo in rapporto alle specifiche
situazioni, rivelando alla gente come agire alla luce della vita e delle
parabole di Gesú. Egli ha detto:
Queste cose vi ho detto stando ancora con voi; ma il Consolatore, lo Spirito Santo,
che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa, e vi rammenterà tutto
quello che v’ho detto [Gv 14.25-26].
Io non avrei conosciuto il peccato se non per mezzo della legge; poiché io non avrei
conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: non concupire [Rm 7.7].
Poi continua:
Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell’amare il mio
Dio: la luce, la voce, l’odore, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me 31.
1
ESCHILO , Eumenidi, VV . 614-21 (trad. it. di C. Carena, in SOFOCLE, ESCHILO, EURIPIDE , Tragici
greci, Einaudi, Torino 2007, p. 159).
2
Ibid., V . 421 (ed. it. cit., p. 151).
3
Ibid., VV . 382-84 (ed. it. cit., p. 149).
4
ID ., Agamennone, VV . 206-12 (trad. it. di C. Carena, in SOFOCLE, ESCHILO, EURIPIDE , Tragici greci
cit., p. 16).
5
Ibid., VV . 1522-27 (ed. it. cit., p. 67).
6
Ibid., VV . 1560-62 (ed. it. cit., p. 68).
7
Ibid., VV . 1489-96 (ed. it. cit., pp. 66-67).
8
Ibid., VV . 1563-66 (ed. it. cit., p. 68).
9
ID ., Eumenidi, VV . 385-86 (ed. it. cit., p. 149).
10
OMERO , Odissea. Telemaco: «perché mia madre, cacciata di casa, | invocherebbe le Erinni
odiose» (II.135-36; ed. it. cit., p. 31); «Vidi la madre di Edipo, la bella Epicasta | ... | attaccando un
laccio in alto al soffitto, | posseduta dal suo dolore; a lui lasciò molte | angosce, quali ne danno le
Erinni materne» (XI.271-80; ed. it. cit., p. 273); «Era un indovino ... | ... | era incatenato in casa di
Filaco, | in dura prigionia, soffrendo aspri dolori, | a causa della figlia di Neleo e della follia | che gli
ispirò in cuore l’Erinni tremenda» (XV.225-34; ed. it. cit., p. 373); «Se esistono per i mendicanti dèi
ed Erinni, | possa la morte raggiungere Antinoo prima delle nozze» (XVII.475-76; ed. it. cit., p. 437);
«quando la tempesta rapí le figlie di Pandareo ... allora le Arpie le portarono via e le diedero | in
consegna alle Erinni odiose» (XX.66-78; ed .it. cit., pp. 499-501).
11
ESCHILO , Eumenidi, VV . 864-66 (ed. it. cit., p. 168).
12
Ibid., VV . 913-15 (ed. it. cit., p. 170).
13
Ibid., V . 1047 (ed. it. cit., p. 175).
14
ID ., Agamennone, V . 160 (ed. it. cit., p. 14).
15
Ibid., V . 1487 (ed. it. cit., p. 66).
16
ID ., Eumenidi, VV . 898-99 sgg. (ed. it. cit., p. 170).
17
M. HEIDEGGER , L’origine dell’opera d’arte, in ID ., Sentieri interrotti, trad. it. di P. Chiodi, La
Nuova Italia, Firenze 1997, p. 27 (ed. or. Der Ursprung des Kunstwerks, in ID ., Holzwege,
Klostermann, Frankfurt am Main 1950).
18
Per una descrizione delle dimensioni e delle direzioni dello spazio morale vedi C. TAYLOR , Le
radici dell’io: la costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli, Milano 1993 (ed. or. Sources of the Self,
Harvard University Press, Cambridge [Mass.] 1989).
19
HEIDEGGER , L’origine dell’opera d’arte cit., p. 27.
20
Ibid., p. 28.
21
Gli autori usano il verbo articulate, che utilizzeranno poi per il neologismo articulator: lo
traduciamo con «formulare» o «riformulare» e «riformulatori», mettendolo in corsivo [N.d.T.].
22
Omero è un caso unico. Prima della sua opera, c’era soltanto una vaga comprensione dei miti
in conflitto tra di loro. Fu in grado di strutturare la conoscenza, sottolineando ciò che era
importante, come la gratitudine e lo stupore, e accantonando quel che gli ripugnava, come le forze
primitive e oscure della vendetta. In questo modo ha dato origine a un nuovo modo di vita. Lo
possiamo quindi definire un «originatore».
23
Il nuovo sentimento straripante di amore per tutti gli esseri umani, tipico di Gesú, ha come
contrappunto l’eros, o desiderio, che Platone definisce come una mancanza.
24
AGOSTINO , Confessioni, VII.17 (trad. it. di C. Carena, Einaudi, Torino 2005, pp. 235-37).
25
Ibid., VII.18 (ed. it. cit., p. 237).
26
Ibid., X.27 (ed. it. cit., p. 375).
27
Ibid., VII.18 (ed. it. cit., p. 237).
28
Ibid., X.43 (ed. it. cit., p. 409).
29
Vedi d. M. FRIEDMAN , Storia del pene: da Adamo al Viagra, Castelvecchi, Roma 2007 (ed. or. A
Mind of Its Own: A Cultural History of the Penis, Penguin, New York 2003).
30
AGOSTINO , Confessioni, VI.3 (ed. it. cit., p. 169).
31
Ibid., X.6 (ed. it. cit., p. 339).
32
Agostino aveva già studiato le questioni che ricompariranno poi nel cogito di Cartesio. Vedi,
per esempio, ibid., X.11 (ed. it. cit., p. 351).
Capitolo quinto
Da Dante a Kant: attrazione e pericoli dell’autonomia
Dante deve trovare una collocazione per il libero arbitrio all’interno del
suo sistema. Se la volontà non incide sulla vita che ci si sceglie – se tutto è
preordinato e non si può far nulla in proposito – allora che senso ha essere
ricompensati o puniti per il modo di condurre la propria esistenza? Se
Dante condanna tutte le manifestazioni di autonomia basata sulla volontà,
come quelle che troviamo nella città di Dite, come possiamo giungere al
concetto di libero arbitrio?
In effetti, Dante gli ha dato un posto nel suo sistema, ma non è il libero
arbitrio a cui siamo abituati. Da una parte, per Dante, la libertà non
consiste nella capacità di scegliere la vita che si vuole vivere o le azioni
che si compiranno, come pensiamo noi. Piú specificatamente, non si tratta
della libertà dalle limitazioni esterne alle proprie azioni. In questo caso si
tratterebbe infatti della libertà che si oppone al concetto di determinismo,
il tipo di libertà che piú sta a cuore a noi contemporanei, ma Dante non la
pensava cosí.
Secondo lui, la libertà consiste nell’essere liberi di limitare i propri
desideri per concentrarci invece su ciò che apporterà pienezza e
perfezione. Secondo l’interpretazione dantesca, esercitare un controllo sui
desideri è compito dello Stato e della Chiesa e il problema del mondo
contemporaneo è che lo Stato e la Chiesa non sono stati in grado di
assolverlo (Purg., XVI.67-87). Se fossimo educati nel migliore dei modi e
avessimo i desideri giusti, ognuno di noi andrebbe direttamente da Dio
come una freccia scoccata dall’arco (Par., I.91-93). Ma perfino nel mondo
dantesco, quando Chiesa e Stato falliscono nel loro intento, abbiamo la
libertà di rieducarci per conto nostro, se lo desideriamo. È il fenomeno che
Dante descrive con dovizia di dettagli nel Purgatorio.
Secondo la concezione dantesca, i sensi e i desideri sono condizionati
da ciò che li ha risvegliati, e noi abbiamo la libertà di addestrarli, con la
volontà e l’intelletto, in modo che possano essere messi in moto solo da
oggetti appropriati. Il goloso ravveduto, per esempio, può dominarsi e non
considerare piú il cibo come l’unico obiettivo degno dei suoi desideri. Nel
Purgatorio, i golosi che si pentono si impegnano in un processo di questo
tipo e acconsentono a sottoporsi al supplizio di Tantalo, una sorta di dieta
forzata. La differenza principale tra Inferno e Purgatorio sta nel fatto che,
nell’Inferno, i peccatori aderiscono ai loro desideri sbagliati, mentre nel
Purgatorio si pentono. Il pentimento è una manifestazione del libero
arbitrio, sulla base del quale si viene poi giudicati, e che mette il peccatore
sulla strada della salvezza. La pena consiste nel sottoporsi liberamente a
un regime di rieducazione dei sensi e dei desideri, in modo da istradarli
sulla retta via.
Secondo Dante, tutte le anime sono spontaneamente attratte dalle cose
di questo mondo. Come possiamo trovare il modo di rivolgere questa
naturale attrazione verso una vita degna di essere vissuta? Si presentano
due possibili alternative. La prima suggerisce di limitare, o addirittura
estinguere, il desiderio. È l’approccio tipico dello stoicismo ed è quello
scelto da Virgilio. «Innata v’è la virtú che consiglia, |e de l’assenso de’
tener la soglia», afferma il poeta latino (Purg., XVIII.62-63). Detto in altri
termini, gli appetiti devono essere controllati e la ragione ha il compito di
non lasciarci dominare dall’imperio dei desideri.
Dante invece ha una visione diversa, cristiana. Secondo lui, l’amore è
giusto nella misura in cui è diretto verso un oggetto adeguato. Si oppone
alla visione stoica di Virgilio, secondo la quale la volontà deve frenare i
desideri, e la sostituisce con quella cristiana, secondo cui il libero arbitrio
deve dirigere l’amore. Dante pensa che dobbiamo coltivare l’amore e
dedicarci a qualunque cosa ci attragga con totale devozione: se poi non ci
soddisfa – come sicuramente accadrà – possiamo imparare dall’errore, per
trovare infine qualcosa degno di una passione totalizzante e di un
coinvolgimento assoluto. Ciò che non dobbiamo assolutamente fare è
frustrare i nostri desideri: il libero arbitrio, al contrario, ci permette di
rieducarli, spingendoli nella giusta direzione.
Un uomo cristiano, se lo definisco nel modo giusto, è libero da tutte le leggi, e non è
soggetto a nessuna creatura, né interna né esterna … Perché ha un tale dono, un tale
tesoro che, anche se sembra essere piccolo, addirittura misero, è piú grande del cielo e
della terra, perché Cristo, che è questo dono, è il sommo 11.
La fede è una fiducia viva e incrollabile … ci rende gioiosi, intrepidi, e assidui nella
nostra relazione con Dio e con tutta l’umanità … Un’integrità di questo tipo non può
essere portata dal normale corso della natura, dalla libera volontà o dalle nostre
facoltà. Nessuno può dare a se stesso la fede… 13.
Cartesio fece l’ultimo passo verso il nichilismo, confutando l’idea di un
soggetto inteso come ricettacolo, e concentrandosi esclusivamente su ciò
che si può ottenere con la volontà.
Uno dei modelli di esperienza del sacro di cui ci siamo serviti nel corso
di questo libro è quello degli stati d’animo. Abbiamo descritto gli dèi di
Omero mettendo a fuoco i potentissimi impulsi che sono in grado di
suscitare e le azioni che fanno compiere agli uomini in virtú di questi
sentimenti. Abbiamo poi incontrato stati d’animo di tipo diverso: il
patriottismo in Eschilo, l’agape in Giovanni e Paolo, l’estasi in Dante, e la
gioia e la gratitudine in Lutero. Un aspetto fondamentale dell’Illuminismo
è che i sentimenti – nel modo in cui sono trattati – vengono spogliati delle
caratteristiche fondamentali che li hanno connotati nelle epoche
precedenti. Prima si trattava di stati d’animo pubblici e condivisibili – per
esempio il coraggio invincibile che si percepisce in presenza di Ares o di
Achille o l’agape in presenza di Gesú. Invece, secondo la concezione
cartesiana dell’individuo come soggetto, di cui ci avvaliamo tuttora, i
sentimenti sono diventati privati, si tratta di stati interiori che rimangono
inaccessibili agli altri. Vedremo ora che la vecchia idea di stati d’animo
collettivi come veicoli del sacro è fondamentale per Melville, il quale
resiste a ogni manifestazione della volontà e a ogni forma di monoteismo.
Da quello che abbiamo già detto, dovrebbe essere chiaro che non si
deve credere che gli dèi greci esistevano per permettere agli uomini di
ottenere qualcosa di importante e grandioso grazie al senso del sacro come
lo dipinge Omero (lo stesso vale per Gesú, esecutore di miracoli
fisicamente impossibili). Eppure è necessario rifiutare l’idea moderna,
secondo cui l’agente umano è l’unica fonte autonoma delle azioni che
compie. Questa concezione di agente umano è cosí insinuante e pervasiva
da nasconderci completamente i fenomeni a cui Omero invece era tanto
sensibile. Per vedere questo, abbiamo bisogno di rintracciare brevemente
le origini della concezione moderna dell’Io.
Non si può certo dire che la cultura, prima di Cartesio, avesse celebrato
l’Io interiore. Come abbiamo visto, sant’Agostino dovette penare per
convincere i suoi contemporanei dell’importanza dell’interiorità nel
percorso che conduce a Dio. Anche dopo Agostino, continuò a essere
valida la concezione dell’uomo come essere fondamentalmente aperto a
ogni sorta di forza esterna. E nell’universo dantesco, l’anima era ricettiva
sia all’amore di Dio sia all’influsso di Satana, che spinge l’uomo
all’autonomia. Tuttavia il mondo omerico e quello medievale hanno in
comune una cosa, e cioè che si raggiunge l’eccellenza se non si permette ai
nostri pensieri e idee di essere d’intralcio al flusso che sembra trascinarci.
Cartesio invece, formatosi su Agostino, portò avanti l’idea che siamo
esseri autosufficienti e autonomi, definiti da pensieri e desideri personali.
Se voglio sapere chi sono, secondo la concezione cartesiana, la cosa
migliore è guardarmi dentro – chiedermi quali sono i pensieri che
riconosco davvero come miei.
Sotto l’influenza di Cartesio, allora, siamo giunti a comprenderci in
quanto soggetti – ricettacoli di pensieri, desideri e decisioni interiori –
mentre il «mondo esterno» non è che un insieme di oggetti privi di
significato posti di fronte all’Io. Prima di Cartesio, l’uomo non si percepiva
come contrapposizione di soggetto e oggetto, ma come una creatura di
Dio. Dopo Cartesio, invece, l’uomo considera se stesso come un essere
capace di attribuire liberamente un significato alle cose: in altri termini,
possiamo dare agli oggetti intorno a noi, privi di significato, il senso che
abbiamo scelto per loro.
Questo atteggiamento capovolge la concezione tradizionale secondo la
quale siamo esseri esposti al mondo e sottoposti alle forze che operano in
esso. Per la prima volta nella storia dell’uomo, si dovette affrontare il
seguente dilemma: se la concezione che abbiamo di noi stessi è quella di
un essere che contiene in sé già tutte le risposte, come dobbiamo condurre
la nostra vita?
Cartesio pensava di avere una soluzione. Era convinto che, grazie alla
ragione e all’esperienza, avrebbe potuto trovare le regole per capire
razionalmente che cosa era giusto fare in ogni situazione. Era determinato
a elaborare un’etica non appena avesse messo a punto la sua trattazione
scientifica e matematica. Cosí scrisse: «mi formai una morale provvisoria,
che consisteva in sole tre o quattro massime di cui voglio mettervi a
parte» 15.
Per dedicarsi meglio alla filosofia, ci dice, si ritirava nel suo
confortevole studio dove era completamente libero dalle passioni.
Tuttavia non trovò il modo di fondare un’etica basata sull’austero
mondo di soggetti e oggetti che aveva concepito: il suo contributo alla
scienza e alla matematica fu fondamentale, ma non riuscí mai a elaborare
una trattazione etica soddisfacente. Fu comunque in grado di riconfigurare
interamente il mondo occidentale, mettendo al centro dell’uomo, come
aspetto che lo accomunava a Dio, quella libera volontà che, in Dante, era il
tratto che definiva il male. Contribuí cosí a compiere un’altra tappa
fondamentale verso il nichilismo.
1
Introduzione di A. T. MacAllister all’edizione inglese dell’Inferno (Penguin, New York 1982, p.
XIII ).
2
Gli amanti omosessuali monogami hanno la pena piú mite. Sono purificati dal fuoco in cima al
Purgatorio. Qui Dante incontra molti dei suoi amici.
3
Dante non lo dice mai esplicitamente, ma la sua descrizione dell’Inferno (XXXIV.76-77) spiega
perfettamente quale parte dell’anatomia di Satana coincide con la fine del mondo materiale.
4
M. LUTHER, Selections from His Writings, a cura di J. Dillenberger, Anchor Books, New York
1962, p. 470.
5
Dalla lista di riforme inviate da Lutero ai nobili tedeschi, in P. SMITH , The Life and Letters of
Martin Luther, Riverside Press, Cambridge 1914.
6
M. LUTHER , Martin Luther’s Basic Theological Writings, a cura di T. Lull, Augsburg Fortress,
Minneapolis 1989, pp. 43-44.
7
ID ., Selections from His Writings cit., p. 78.
8
Ibid., p. 76.
9
Ibid., p. 105.
10
Ibid., p. 160. Kierkegaard capí che l’introduzione, da parte di Gesú, del sentimento dell’agape
implicava che, dopo l’incarnazione, non c’erano piú né il bisogno né il modo di mettersi in rapporto
con Dio. «[Lutero] ha agito nel modo giusto. Ma la sua predica non è sempre chiara, né conforme
alla sua vita: in lui la vita è migliore della dottrina» (S. KIERKEGAARD , Diario, vol. V, 1850, a cura di
C. Fabro, Morcelliana, Brescia 1980, p. 24).
11
LUTHER , Selections from His Writings cit., pp. 112-13.
12
L’amore di Lutero per la musica trovò piena espressione nelle cantate di Bach. Esse non
manifestano né l’esplicarsi di un significato individuale, né un’estasi mistica passiva, ma piuttosto
una comunità di fedeli gioiosi che condividono lo stesso senso del sacro da cui vengono trascinati –
un sentimento che poi imparano a coltivare con gioia. Nella Quarta prefazione alle numerose
edizioni del suo innario, Lutero scrive: «Quando cantiamo dobbiamo essere gioiosi e sereni nel
cuore e nella mente … Infatti Dio ha reso gioiosi il cuore e la mente nostri con il Suo amato Figlio
che ci ha redento dal peccato, dalla morte e dal diavolo. Chi crede in questo con fervore non può far
altro che cantare con gioia, in modo che anche altri possano udire e giungersi a loro».
13
LUTHER , Selections from His Writings cit., pp. 24-25.
14
R. DESCARTES , Meditazioni metafisiche, in ID ., Opere, trad. it. di M. Renzoni, Mondadori,
Milano 1986, p. 241 (ed. or. Meditationes de prima philosophia, in qua Dei existentia et animæ
immortalitas demonstratur, 1641).
15
R. DESCARTES , Discorso sul metodo, in ID ., Opere cit., p. 162 (ed. or. Discours de la méthode pour
bien conduire sa raison…, 1637).
16
Le parole «autonomia» ed «eteronomia» acquistano maggior senso se pensiamo alla loro
origine greca. Nomos in greco significa «legge», mentre i prefissi auto ed etero si riferiscono al sé e
agli altri. Quindi, «autonomia» significa letteralmente legge autoimposta ed «eteronomia» legge
imposta dagli altri.
17
La grande lezione dell’Illuminismo, secondo Kant, è che l’uomo pienamente evoluto si serve
del suo intelletto per decidere come agire. «L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di
minorità che egli deve imputare a lui stesso» è il celebre motto di Kant: si tratta della prima frase di
I. KANT , Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo, in ID ., Scritti politici, parte I, Scritti di filosofia
della storia, Utet, Torino 2010, p. 141 (ed. or. Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, 1784).
18
SARTRE , L’esistenzialismo è un umanismo cit., p. 48.
Capitolo sesto
Fanatismo, politeismo e l’«arte maledetta» di Melville
non c’è nessuna speranza in esso, nessuna disperazione. Appagamento – ecco cos’è; e
irresponsabilità, ma senza inclinazione licenziosa. Parlo ora, del mio senso piú
profondo dell’essere, non di un sentimento accidentale 1.
Non ho dubbi che si tratti di Moby Dick in persona, anche se non c’è notizia della
sua cattura dopo la triste sorte del Pequod circa quattordici anni fa. Sissignore! E che
razza di commentatore è la balena dell’Ann Alexander! Quello che ha da dire è conciso
& stringato & molto appropriato. Mi chiedo se la mia arte maledetta ha risvegliato
questo mostro 6.
Debbo mandarti una pagina della Balena come boccone d’assaggio? La coda non è
ancora cotta – sebbene il fuoco dell’inferno su cui l’intero libro viene arrostito avrebbe
potuto, già prima d’ora, cuocerla tutta. Questo è il motto (quello segreto) del libro, –
Ego non baptiso te in nomine – ma ricavati il resto tu stesso 7.
Che cosa rende Moby Dick un libro malefico? E se davvero emana una
sorta di inquietante perfidia, come è possibile che Melville si sentisse
«innocente come un agnello» per averlo scritto? Quale messaggio occulto
cela il suo motto segreto? E in che cosa consiste esattamente l’«arte
maledetta» di Melville?
Non è ancora il momento di parlare di queste cose. Basti dire, per ora,
che, indipendentemente dalle risposte che possiamo dare a questi
interrogativi, la posta in gioco è molto alta. Il libro non solo è perfido,
come dice Melville, non solo è licenzioso o perfino scellerato, ma è pervaso
da cima a fondo dal fuoco dell’Inferno, è rovente, divorato dalle sue
fiamme. E Melville non solo è innocente, come se fosse stato assolto in un
qualche tribunale, ma è puro e senza peccato in un modo infinitamente piú
profondo. «Innocente», sottolinea, «come l’agnello».
L’agnello di Dio, cioè.
Il Nostro Signore Gesú Cristo.
Il simbolismo religioso a questo punto si complica e, a un’idea di
malvagità segreta, infernale e quindi presumibilmente anticristiana,
combina una sorta di immacolata innocenza, un’innocenza cosí
incontaminata che, in un certo senso, può essere associata alla purezza di
Gesú Cristo. In una qualsiasi interpretazione tradizionale, queste immagini
sono diametralmente opposte e quindi il fatto di fonderle insieme, come fa
Melville, non può che essere significativo.
Le ambiguità sono innumerevoli. Da una parte, viene fuori che il motto
segreto di cui parla Melville nella sua lettera a Hawthorne potrebbe non
essere cosí segreto. Lo stesso capitano Achab – il cacciatore di balene
fanatico, folle e monomaniaco che è al centro del romanzo – pronuncia
una versione di questa formula satanica in un episodio chiave. Quando i
suoi tre ramponieri miscredenti si preparano alla caccia finale, Achab
intona solennemente l’incantesimo sacrilego per tenere a battesimo con il
loro sangue pagano l’arpione che dovrà uccidere la grande balena Moby
Dick.
Tuttavia non si capisce con chiarezza quale sia esattamente il motto
segreto. In un altro scritto, in cui si riferisce esplicitamente alla formula
magica – la lettera a Hawthorne che abbiamo visto prima –, Melville lascia
la frase incompleta: «Ego non baptiso te in nomine…», esordisce
enfaticamente, ma poi rifiuta di dare soddisfazione al suo interlocutore:
«Ma ricavati il resto tu stesso», si limita ad aggiungere. Qual è dunque la
versione completa, se mai ce n’è una, con cui questa frase ci rivela il
segreto del libro? In nome di chi occorre eseguire questa nuova forma di
battesimo?
Anche l’idea di innocenza si presta a fraintendimenti. Melville pensa
forse che l’attrazione anticristiana verso il male, espressa dal libro,
qualunque essa sia, in definitiva non è altro che una forma di salvezza per
la nostra cultura, come quando Gesú, con la sua innocenza, ha promesso la
redenzione ai nostri antenati? Pensa forse che Moby Dick – interpretato
nel modo giusto, ovviamente, secondo il motto segreto – esprime una
nuova forma di speranza, un nuovo tipo di sacro, forse persino una
possibilità salvifica per la cultura in generale?
Una risposta a queste domande si trova in uno dei passaggi forse piú
oscuri del suo penetrante e misterioso romanzo, un passaggio che la
maggior parte degli esegeti ha passato sotto silenzio e che i lettori perlopiú
hanno frainteso. «Se in futuro qualche erudito e poetico popolo», scrive,
richiamerà, allettandoli, ai loro diritti di nascita gli antichi allegri dèi di Calendimaggio
e li rimetterà vivi e veri sul trono del cielo ora tanto egoistico, sulla collina ora deserta;
state certi allora, che, sollevato all’alto seggio di Giove, il grande capodoglio sarà il re 9.
Ogni volta che m’accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell’anima
mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di
fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a
tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte
in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto
in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello della gente, allora decido che è
tempo di mettermi in mare al piú presto 22.
Ma alla fine tutte queste fantasie cedevano a quel portentoso qualcosa nel mezzo
del quadro. Questo, una volta chiarito, tutto il resto sarebbe stato evidente. Ma, fermi:
non ha esso una leggera somiglianza con un pesce gigantesco? Col grande Leviatan in
carne e ossa?
Di fatto, il disegno d’artista pareva questo … Il quadro rappresenta un bastimento
australe in un grande uragano: la nave, a metà sommersa, che rotola con visibili
soltanto i suoi tre alberi sguarniti, e una balena infuriata che si propone di balzare
dritto sul legno, nell’atto immane di impalarsi sulle tre teste d’albero 27.
Una balena allora, trafitta dai tre alberi sguarniti che svettano dalla
nave semiaffondata, viene inghiottita dalle onde in tempesta del mare
senza confini.
Un’interpretazione commovente, che parla dritta al cuore del baleniere.
Si capisce allora perché Ismaele vuol mettere fine a tutto ciò.
… è stato detto all’inizio che questa classifica non verrebbe qui e subito portata a
termine. Vedete come ho mantenuta chiaramente la parola. Ma io lascio ora non finito
il mio sistema cetologico, come venne lasciata la grande cattedrale di Colonia con la
grua ancor ritta in cima alla torre incompleta. Poiché sono le costruzioni piccole che
possono venir terminate dai loro primi architetti; le grandiose, le vere lasciano sempre
il soffitto dell’avvenire. Che Dio mi guardi dal completare qualcosa; tutto questo libro è
soltanto l’abbozzo di un abbozzo. Oh! Tempo, Forza, Denaro e Pazienza! 31.
Le maniere dei balenieri lo convinsero presto che anche i cristiani potevano essere
miserabili e malvagi, infinitamente di piú che non tutti i pagani di suo padre … Il
mondo è brutto sotto tutti i meridiani, e morirò pagano 43.
A cenni gli chiesi se non si proponeva di tornare e di farsi incoronare, dato che
poteva considerare suo padre come ormai morto e sepolto, essendo questi già
vecchissimo e debole al tempo delle ultime notizie. Egli rispose no, non ancora; e
aggiunse che temeva che il Cristianesimo, o piuttosto i cristiani, l’avessero reso
indegno di salire al trono puro e immacolato dei trenta re pagani che l’avevano
preceduto 44.
Come deperí e deperí in quei pochi lentissimi giorni, finché non parve restar di lui
molto piú dello scheletro e dei tatuaggi! Ma mentre tutto il resto in lui s’assottigliava e
le mascelle s’affilavano, gli occhi nondimeno parevano crescere sempre piú grandi,
acquistavano una strana morbidezza di splendore e vi guardavano dolci, ma profondi,
dal seno del male: meravigliosa testimonianza di quella sanità immortale che non
poteva in lui morire né affievolirsi 45.
Io, Ismaele, ero uno di quest’equipaggio: le mie grida s’erano levate con quelle degli
altri, il mio giuramento s’era confuso col loro, e, piú forte gridavo, piú ribadivo e
allacciavo questo giuramento, per il terrore che sentivo nell’anima. Un mistico,
sfrenato sentimento di simpatia era in me; l’odio inestinguibile di Achab pareva fatto
mio. Con avide orecchie ascoltai la storia del mostro assassino contro il quale io e tutti
gli altri avevamo prestato giuramento di violenza e di vendetta 55.
… farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il tuo nome, Signore,
davanti a te. A chi vorrò far grazia e di chi vorrò aver misericordia, avrò misericordia.
Soggiunse, ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e
restare vivo [Es 33.18-20].
Nel momento in cui propone la balena come nuovo tipo di Dio, Melville
sta evidentemente pensando alla tradizione ebraica e intende andare oltre
la concezione della Bibbia. Il potere sacro e straordinario della Balena
Bianca di Melville non consiste nel fatto che non mostra il suo volto
all’uomo, ma addirittura che non ha affatto un volto:
Sin dalla pubblicazione, nel 1949, del libro di Karl Jaspers Origine e
senso della storia, gli storici e i sociologi hanno sottolineato la svolta
interculturale verificatasi nel primo millennio a.C. e definita da Jaspers
«rivoluzione assiale» 63. Questa rivoluzione, con la filosofia metafisica di
Platone, il concetto di Nirvana del Buddha e le diverse concezioni sulla
Vita eterna, aveva familiarizzato gli uomini con l’idea che esiste un Bene
al di là di quanto si trova nelle loro imprese; che esiste, cioè, un bene
trascendente che ha la stessa natura del divino.
Come scrive Charles Taylor:
Dopo la rivoluzione assiale il divino è stato tendenzialmente collocato dalla parte
del sommo bene, il quale peraltro aveva subito a sua volta una ridefinizione ed era
concepito ora come qualcosa che oltrepassa l’ordinaria prosperità umana: il Nirvana, la
Vita eterna 64.
Ch’io potessi continuare a spremere quello spermaceti per sempre! … Nei pensieri
delle visioni notturne ho veduto in paradiso lunghe schiere d’angeli, ognuno con le
mani in una giara di spermaceti 73.
Era la bianchezza della balena che sopra ogni cosa mi atterriva. Ma come posso
sperare di spiegarmi qui? Eppure, in qualche modo oscuro e approssimativo devo
spiegarmi, altrimenti tutti questi capitoli potrebbero riuscire in nulla 75.
Il capitolo sulla bianchezza della balena, assai impervio e spesso non
letto, costituisce un tentativo di spiegare la caratteristica fondamentale di
Moby Dick. È composto quasi esclusivamente da citazioni ed esempi che
illustrano l’immensa varietà di significati che il colore bianco riveste nella
nostra cultura. Dopo una pagina fitta di esempi che dimostrano il modo in
cui la bianchezza «accresca raffinatamente la bellezza, quasi le impartisse
una sua speciale virtú» 76, Melville conclude che la sua caratteristica
principale è lo sbigottimento che provoca:
… malgrado tutte queste accumulate associazioni con tutto ciò che è dolce e venerabile
e sublime, sempre cova nell’intima idea di questo colore qualcosa di elusivo che incute
piú panico dell’anima di quel rosso che atterrisce nel sangue 77.
… il gran principio della luce, che produce ciascuno dei suoi colori, rimane in se stesso
sempre bianco o incolore e, se operasse sulle cose senza un mezzo, vestirebbe ogni
oggetto, persino le rose e i tulipani, con la sua tinta vacua 81.
Piú considero questa coda poderosa, piú devo deplorare la mia insufficienza ad
esprimerla … Ma se non conosco nemmeno la coda di questa balena, come ne
comprenderò la testa? e, quel che è piú, come ne comprenderò la faccia, dacché non ha
faccia? Tu potrai vedermi le parti posteriori, la coda – sembra dire la balena – ma la
faccia non me la vedrai. Ma le parti posteriori non posso vederle bene e, insinui ciò che
vuole della sua faccia, io ripeto che la balena non ha faccia 82.
Aggiunse il Signore: ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe e quando
passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché
non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si
può vedere [Es 33.21-23].
… venni invitato a trascorrere parte delle vacanze arsacidee col signore di Tranque
nella sua privata villa delle palme, a Pupella, una valletta costiera non molto distante
da quella che i nostri marinai chiamano Città del Bambú, la capitale 85.
Tra le cose che osservò, c’era una lunga lista di «portenti» collezionati
da Tranquo, il re dell’isola. In cima alla lista, c’era lo scheletro di una
balena che si era arenata sulla spiaggia molti anni prima ed era morta.
Dopo che i locali lo avevano «spogliato delle sue spesse coperture»,
avevano trasportato lo scheletro in una valletta vicino al mare e lo
avevano disposto sotto un tempio fatto di palme. A un certo punto Ismaele
vide che i rami carichi, i cespugli, le felci e le erbe avevano creato un
ordito intorno allo scheletro che formava uno sfarzoso tappeto. Inizia
quindi una descrizione di Dio inteso come tessitore – che riprende le
diverse versioni date dagli antichi del Dio chino sul suo telaio – e del
suono del suo operato che assorda Ismaele al punto che non sente piú
alcuna voce mortale. Se mai prestassimo attenzione a questo ronzio, ci
ammonisce Ismaele, saremmo assordati anche noi. È solo quando ci si
allontana che si odono chiaramente dall’esterno «migliaia di voci che
parlano attraverso».
Il dio-tessitore tesse, e da questo tessere è tanto assordato che non sente piú voce
mortale, e da questo ronzio siamo assordati noi pure che guardiamo il telaio, e
solamente quando ne fuggiremo ne potremmo udire le migliaia di voci che parlano
attraverso 86.
Il nero piccolo Pip … Povero ragazzo dell’Alabama! Lo vedremo tra poco sul truce
castello di prora del Pequod battere il tamburello, preludio dell’ora eterna quando,
chiamatolo sul grande cassero dei cieli, gli fu ordinato di intonare con gli angeli e di
battere a gloria quel suo tamburello: chiamatolo qui vigliacco e salutato lassú eroe! 91.
Stubb gli voltava la schiena inesorabile, e la balena era ferita. In tre minuti fra Pip e
Stubb si aperse un miglio intero di oceano sconfinato. Su dal centro dell’oceano, il
povero Pip rivolgeva la testa crespa, ricciuta e nera, al sole altro reietto solitario,
benché altissimo e splendido 92.
Pip ha perduto ogni contatto con i suoi compagni e con il Pequod, che è
il centro della sua vita. La nave rappresenta una condizione stabile, umana,
che permette di avere una base nel mare senza confini. È la perdita di tutto
ciò che c’entra con questa condizione umana che Pip trova intollerabile:
Ora, nel tempo calmo, nuotare in mare è altrettanto facile per un buon nuotatore
che viaggiare, a terra, su una carrozza ben molleggiata. Ma la solitudine tremenda è
intollerabile. L’intenso concentrarsi dell’Io in mezzo a una simile spietata immensità,
mio Dio, chi può esprimerlo? 93.
Poiché ha perso la sua identità, e non ha piú una sua prospettiva, Pip è
in grado di capire che tutti i significati nel mondo sono ricavati da un
punto di vista o da un altro. È in grado di scorgere l’egoismo insito
nell’idea che ci sia un significato ultimo e definitivo: ogni significato
infatti è una semplice visione prospettica di un tutto privo di una verità
piú profonda. Lo splendido capitolo sul doblone è ancora piú esplicito su
questo tema 97.
In un punto precedente del libro, Achab aveva inchiodato un doblone
sull’albero maestro della nave, dicendo all’equipaggio che chi fosse
riuscito ad avvistare la balena lo avrebbe ottenuto in premio 98. In un
passaggio successivo, diversi personaggi ispezionano il doblone per capire
che cosa significano le sue bizzarre incisioni. Ben presto si intuisce che
ogni marinaio individua nei misteriosi segni qualcosa in rapporto a se
stesso e alla propria visione del mondo. Achab non trova altro che se
stesso: «C’è sempre qualcosa di egoistico nelle vette e nelle torri e in tutte
le cose grandiose e sublimi». Starbuck, il primo ufficiale di fede quacchera,
vede una rappresentazione della Trinità (oltre a qualche vago simbolo
terreno). Stubb, «un uomo cosí facile e senza paure» 99, non vi trova altro
che il ciclo naturale della vita; il robusto e pratico terzo ufficiale, Flask,
pensa che il doblone sull’albero maestro valga sedici dollari e osserva che
«a due cents il sigaro, sono novecento e sessanta sigari» (gli impassibili
redattori della Norton Critical Edition osservano che «l’aritmetica in
questo caso è vacillante»). Anche altri personaggi fanno la loro
interpretazione 100. Veniamo cosí a sapere qualcosa di importante su molti
dei protagonisti del romanzo.
Ai nostri fini conta ciò che Pip comprende. Egli non vede solo il
doblone, ma anche le persone che lo stanno osservando. La sua
conclusione è che viene rivelato qualcosa di diverso sul doblone a seconda
di chi lo guarda.
Quindi, il doblone in sé non è piú profondo delle diverse percezioni che
le persone ne ricavano. Questo è il motivo per cui, quando finalmente è il
suo turno, Pip non dà nessuna interpretazione sostanziale come se fosse
una possibile verità ultima. Si limita a coniugare il verbo «guardare»:
Io guardo, tu guardi, egli guarda; noi guardiamo, voi guardate, essi guardano … E io,
tu, egli, e noi, voi, essi siamo tutti pipistrelli, e io sono un corvo, specialmente quando
sto in punta a questo pino qui. Co, co, co-o! co, co, co-o! Non sono un corvo? … Questo
doblone è l’ombelico della nave, e tutti fanno fuoco e fiamme per staccarlo. Ma
staccatevi l’ombelico e che cosa succede? 101.
In un certo senso Pip si è staccato l’ombelico: ha visto il significato
ultimo dell’universo, ha visto il piede di Dio sopra il pedale del telaio. Ha
imparato che non esiste una verità profonda e implicita. Ci sono solo le
pratiche della cultura in cui si è immersi. Considerarle tuttavia come
portatrici di una verità unica, come il segno di un fondamento ultimo e
definitivo – in altre parole fare quello che fanno tutti gli altri marinai –, è
pura follia. Chi lo fa è cieco come un pipistrello, pazzo come un
pipistrello 102 e, se cerca di aggrapparsi al suo punto di vista particolare
come se si trattasse di una verità ultima, impazzirà.
Pip, invece, è un corvo. È nero come un corvo, naturalmente, e gracchia
in modo inarticolato come un uccello. Ma è anche un corvo perché, dal
suo nido in cima all’albero maestro di pino, vede che tutte le
interpretazioni sono soltanto interpretazioni e lui stesso non ne possiede
piú.
C’è un aspetto in cui Pip e Achab sono davvero la controparte l’uno
dell’altro. Pip pensa che esistano soltanto percezioni del mondo e che non
ci sia una risposta definitiva; è aperto a tutte le prospettive, senza aderire a
nessuna di esse. Dal punto di vista delle cose di questo mondo, è una
situazione che lo rende pazzo, poiché non ha un’identità a cui aderire.
Achab, al contrario, possiede un’identità fortissima. Anzi: «C’era tutto un
infinito di fortezza sicura, di volontà determinata e indomabile nella
dedizione fissa e intrepida e pronta di quello sguardo» 103.
Ma l’ostinazione di Achab si accanisce sull’universo, lo spinge a rivelare
la sua verità ultima. Questa situazione lo rende folle in un modo
radicalmente diverso. Infatti, è deciso a vedere quel che Pip già possiede e
nello stesso tempo vuole fare qualcos’altro. Melville mette insieme questi
due tipi di follia, quando descrive il rapporto sorprendente tra il capitano e
il suo mozzo. Dopo l’incidente di Pip, Achab prende il ragazzo sotto la sua
ala. Una volta, mentre si dirigono insieme verso la cabina del capitano, un
vecchio marinaio di Man fa la seguente, fondamentale osservazione:
Ecco là due teste vuote che vanno … Una vuota per la forza e l’altra vuota per la
debolezza. Ma ecco la punta della sagola rotta… tutta bagnata anche. Ripararla, eh?
Credo che faremo meglio a pigliarne senz’altro una nuova 104.
Secondo l’intuizione assiale in base a cui esiste una verità ultima dietro
a ogni cosa esistente, Pip e Achab sono l’incarnazione delle due diverse
possibilità lasciate all’umanità. O diventiamo pazzi quando siamo costretti
ad ammettere che la verità non esiste, oppure siamo colti da follia nel
tentativo di dimostrare che la verità esiste. La punta della sagola è rotta, ci
fa notare l’uomo di Man. Forse sarebbe meglio procurarcene una nuova.
… e ogni volta che un remo alla deriva, un pezzo di tavola, una minima briciola delle
lance le toccava la pelle, la coda si ritraeva fulminea e sbatteva un colpo obliquo sul
mare 109.
Il rampone venne scagliato; la balena colpita filò innanzi, e con velocità da far
faville la lenza scorse nella scanalatura: s’imbrogliò. Achab si piegò a disimpegnarla, la
disimpegnò; ma la volta volante lo prese intorno al collo e, senza una parola, come i
Muti turchi strangolano la vittima, venne strappato dalla lancia prima che l’equipaggio
si accorgesse che non c’era piú 113.
Una gioia serena, una gagliarda dolcezza di riposo nella rapidità, rivestiva la balena
nuotante. Nemmeno il toro bianco che era Giove, allontanandosi in mare con la rapita
Europa afferrata alle corna leggiadre, coi maliziosi occhi d’amore fissi di sbieco sulla
fanciulla, e con scorrevole e affascinante velocità filando dritto al rifugio nuziale in
Creta; nemmeno Giove, quella grande Maestà suprema, superò la gloriosa Balena
Bianca, mentre questa nuotava tanto divinamente 114.
Quiqueg non appartiene alla stirpe dei reietti e sfoggia una salute
perfetta e inalterata. La sua cultura pagana, inoltre, è troppo diversa dalla
nostra per rappresentare la possibilità salvifica a cui allude il vecchio e
saggio uomo di Man, anche se indubbiamente il suo stile di vita può essere
per noi un prezioso insegnamento. Infatti, la sua salute immortale di
guerriero invincibile nasce dall’ammissione che è necessario aderire alle
verità della propria cultura, anche se non ne capisce mai veramente il
senso. Lo si vede soprattutto nella storia degli straordinari tatuaggi che
esibisce.
Piú che incarnare la sua concezione del mondo e di se stesso, i tatuaggi
che ricoprono il corpo di Quiqueg hanno un’origine mistica. Come il capo
maori Te Pehi Kupe che, quasi sicuramente, è servito da modello al suo
personaggio 115, Quiqueg pone la sua firma copiando sulla carta parte di
una figura che aveva tatuata sul corpo 116. Presi in senso generale, questi
marchi sulla pelle rappresentano l’idea di realtà nella sua cultura ed
esprimono l’interpretazione dell’essere della civiltà Kokovokan. Sono
peraltro assolutamente indecifrabili. Sembra quasi che il commento di
Quiqueg sia un antesignano del celebre detto di Yeats. In una delle sue
ultime lettere, scritta poche settimane prima di morire, Yeats nega ogni
possibile aspirazione alla conoscenza astratta di verità ultime. «L’uomo
può incarnare la verità», scrisse, «ma non può conoscerla» 117. Nello stesso
modo, Quiqueg incarna la verità della sua cultura:
Questo tatuaggio era stato opera di un defunto profeta e veggente della sua isola,
che per mezzo di questi segni geroglifici gli aveva tracciato addosso una teoria
completa dei cieli e della terra e un mistico trattato sull’arte di conseguire la Verità,
cosicché Quiqueg era nella sua persona stessa un enigma da spiegare, un’opera
meravigliosa in un volume, i misteri della quale però neanche lui sapeva leggere
benché sotto vi pulsasse il suo cuore vivo: questi misteri erano quindi destinati a perire
alla fine insieme alla pergamena vivente dov’erano tracciati e cosí restare insoluti fino
all’ultimo 118.
Anche se lo stile di vita di Quiqueg è sano, alla fine affonda con la nave
e con l’intero equipaggio quando Moby Dick si scontra con l’«avversario
piú grande e piú nobile» 119. E il Pequod è davvero grande e nobile, al punto
che in uno degli ultimi tour de force di Melville il suo inabissarsi sembra
rappresentare l’inabissarsi dell’intera storia dell’Occidente. In
un’immagine che ricorda il quadro esposto nella Locanda del Baleniere,
all’inizio del romanzo, la trinità rappresentata dagli alberi della nave
affonda lentamente nelle acque profonde spinta dalla forza della testa
poderosa della Balena Bianca. A differenza del quadro, tuttavia, sull’albero
piú alto si erge Tashtego, un altro dei ramponieri pagani dell’equipaggio, il
quale coraggiosamente inchioda la bandiera rosso sangue all’albero
maestro, finché ne restano visibili fuori dall’acqua soltanto alcuni pollici. Il
braccio rosso di Tashtego martella tanto piú velocemente quanto piú
appare ineluttabile il suo imminente destino. Con un colpo finale, trafigge
un falco tra l’albero e il martello e il suo anelito di morte lo inchioda,
trascinandolo dal cielo alle profondità dell’abisso marino. Cosí scrisse
Melville:
Un falco del cielo che aveva beffardamente seguito il pomo di maestra giú dalla sua
naturale dimora tra le stelle, dando beccate alla bandiera e molestando Tashtego,
cacciò per caso ora la sua larga ala palpitante tra il legno e il martello; e
contemporaneamente sentendo quel brivido etereo, il selvaggio sommerso là sotto,
tenne, nel suo anelito di morte, il martello rigidamente piantato; in modo che l’uccello
celeste, con strida d’arcangelo, col rostro imperiale teso in alto e tutto il corpo
prigioniero avvolto nella bandiera di Achab, andò a fondo con la nave, che, come
Satana, non volle scendere all’inferno, finché non ebbe trascinata con sé, per farsene
elmo, una parte vivente del cielo 120.
Sostenuto da quella bara, per quasi un giorno intero e una notte andai alla deriva su
un mare morbido, funereo. I pescecani disarmati mi guizzavano accanto come se
avessero lucchetti alla bocca; i selvaggi falchi marini passavano coi becchi
inguainati 122.
Cosa si può dire, alla fine, sul motto segreto del libro di Melville? A
questo punto dobbiamo rivelare un ultimo trucchetto. Non sapremo mai se
Melville ne fosse stato o meno a conoscenza. Come ogni scrittore, è
sicuramente felice che il significato metaforico del suo libro vada oltre la
sua stessa comprensione 123. In ogni caso, le sue intuizioni sono azzeccate.
Per esempio, aveva certamente ragione a trovare che nel Moby Dick ci
fosse un lato malvagio e un lato che lo lascia innocente come un agnello.
Ma se il motto segreto del libro non è altro che la formula del battesimo di
Achab, allora non è questa che mette Melville al posto di Achab? E la sua
non è forse una posizione scomoda e imbarazzante? Infatti, Achab non ha
nulla a che spartire con il futuro politeistico profetizzato da Ismaele.
Il trucchetto sta in quello che non viene detto nel libro. Quando
Melville scrive a Hawthorne parlandogli del motto segreto del romanzo,
lascia il motto stesso misteriosamente incompleto. «Ego non baptiso te in
nomine», scrive, «ma ricavati il resto tu stesso». Non si tratta forse della
differenza cruciale tra Melville e Achab? Achab completa questa formula
diabolica, prendendo lui stesso una posizione conforme alla malvagità del
diavolo che affonda il mondo romano-cristiano. Ma Melville sembra
intenzionato a non completare la frase. Al suo posto, è Hawthorne che la
deve completare e, presumibilmente, anche tutti coloro che leggeranno il
libro. «Non ti battezzo in nome…», in nome di nessuna religione
totalizzante e limitata chiusa alle verità di superficie, sembra dire. Vi lascio
scoprire da soli le verità politeistiche dell’universo; vivete alla luce di tali
verità, scoprite la gioia grazie a loro, e perfino il dolore. Ma nelle gioie e
nei dolori, rimanete con animo lieto, certi che apportino davvero un
significato alla vostra vita.
1
Lettera a Hawthorne del 17 novembre 1851, in H. MELVILLE , Lettere a Hawthorne, a cura di G.
Nori, Liberilibri, Macerata 1994, p. 33.
2
Vedi il dibattito nel saggio di H. PARKER , International Controversy over Melville, nella Norton
Critical Edition di Moby Dick (Norton, New York 2002, p. 468).
3
Recensione del 6 aprile 1846, ibid., pp. 476-77.
4
PARKER , International Controversy over Melville cit.
5
Una descrizione dell’episodio dell’Ann Alexander si trova in A. STARBUCK , History of the
American Whale Fishery from its Earliest Inception to the Year 1876, disponibile sul sito
http://mysite.du.edu/~ttyler/ploughboy/starbuck.htm; vedi in particolare il paragrafo F, intitolato
The Dangers of the Whale Fishery.
6
Lettera a Evert A. Duyckinck del 7 novembre 1851, nella Norton Critical Edition di Moby Dick,
pp. 544-45. Questa era una risposta a una lettera che Melville aveva ricevuto la notte prima
dall’amico Duyckinck e che includeva un articolo sul naufragio dell’Ann Alexander. La lettera,
racconta Melville, «ebbe su di me un effetto sorprendente».
7
Lettera a Hawthorne del 29 giugno 1851, in MELVILLE , Lettere a Hawthorne cit., p. 27.
8
La versione completa di questa formula battesimale fu scoperta per la prima volta dalla
comunità accademica nell’inverno 1933-34. Il poeta americano Charles Olson – che allora era
ancora un dottorando ventitreenne di storia e letteratura americana alla Wesleyan – la trovò nel
risguardo vuoto del settimo e ultimo volume della raccolta completa delle opere di Shakespeare
appartenuta a Melville. Olson tolse dal volume questo e altri documenti che dimostravano
l’importanza della lettura di Shakespeare per la stesura di Moby Dick (vedi il primo libro importante
di Olson, Call me Ishmael). Tuttavia, di recente la comunità accademica ha respinto
l’interpretazione di Olson, soprattutto grazie alla scoperta, fatta nel 1992, che questo e altri estratti
in realtà erano stati copiati da un trattato di stregoneria pubblicato anonimamente da Sir Francis
Palgrave nel numero di luglio 1823 della «Quarterly Review» (vedi l’articolo di g. sanborn, The
Name of the Devil: Melville’s Other «Extracts» for Moby-Dick, in «Nineteenth-Century Literature»,
vol. XLVII, 1992, n. 47, pp. 212-35). Le ultime ipotesi del mondo accademico si sono incentrate su
diversi problemi: in che giorno esattamente Melville ha letto questo fascicolo? In quel periodo stava
leggendo anche le opere dell’inizio del XIX secolo del saggista inglese Leigh Hunt? E, cosa piú
importante, ha poi completato o no la sua attenta lettura di questi volumi mentre se ne stava sul
divano del soggiorno di suo suocero? (Vedi ID ., Lounging on the Sofa with Leigh Hunt: A New Source
for the Notes in Melville’s Shakespeare Volume, in «Nineteenth-Century Literature», vol. LXIII, 2008,
n. 1, pp. 104-15). Lasciamo agli esperti la discussione di questi minuti dettagli.
9
MELVILLE , Moby Dick cit., cap. LXXIX , p. 374.
10
Ibid., p. 22.
11
Ibid.
12
Ibid., p. 27.
13
Ibid., p. 32.
14
Ibid., p. 34.
15
Il fatto di utilizzare il nome «Leviatano» per indicare Satana, seguendo il versetto di Is 27.1, è
entrato nel linguaggio comune per poi cadere in disuso, e oggi è poco comprensibile. L’ultima
citazione che l’Old English Dictionary riporta risale a Barnabe Barnes nel 1595, che supplica il
Signore: «Immobilizza le fauci del vecchio Leviatano, vittorioso conquistatore!»
16
MELVILLE , Moby Dick cit., p. 24.
17
Ibid., cap. LXXIX , p. 374.
18
Ibid., cap. I , p. 42.
19
Ibid., p. 40.
20
PARKER , International Controversy over Melville cit., p. 466. Si veda il rapporto con
l’interpretazione di Hölderlin fatta da Heidegger. Hölderlin dovette andare nella Grecia degli
antichi – o perlomeno nel sud della Francia – per scoprire qualcosa di significativo sulla Germania
contemporanea.
21
MELVILLE , Moby Dick cit., cap. I , p. 37.
22
Ibid.
23
Ibid., cap. III , p. 47.
24
Ibid.
25
Ibid., cap. III , p. 46.
26
Ibid., p. 47.
27
Ibid.
28
Lettera a Hawthorne del 17 novembre 1851, in MELVILLE , Lettere a Hawthorne cit., p. 35.
29
Ibid., p. 34.
30
MELVILLE , Moby Dick cit., cap. XXXII , p. 164.
31
Ibid., cap. XXXII , p. 175.
32
Ibid., cap. XCVI , p. 449.
33
Ibid., cap. XVII , p. 120.
34
Ibid., cap. IV , p. 61.
35
Ibid.
36
Ibid., cap. III , p. 57.
37
Ibid., cap. V , p. 65.
38
Ibid., cap. III , p. 59.
39
Ibid., cap. IV , p. 60.
40
Ibid., cap. XVIII , p. 124.
41
Ibid., cap. IV , p. 64.
42
Vedi, per esempio, la discussione di Andrew Delbanco nella sua biografia Melville: His World
and Work, Vintage, New York 2005, pp. 130-34.
43
MELVILLE , Moby Dick cit., cap. XII , p. 90.
44
Ibid.
45
Ibid., cap. CX , p. 498.
46
Il parallelo è ancora piú chiaro nella prosa di Melville. Quiqueg sta sottoponendosi a un
processo di educazione sulle tradizioni della cultura cristiana. Ma, come dimostrano i suoi abiti, è
ancora in un periodo di transizione, «né bruco né farfalla … La sua educazione non era stata ancora
terminata. Era soltanto uno studente anziano» (ibid., cap. IV , p. 63). In contrasto con l’adattamento
alla civiltà mostrato da Quiqueg, l’educazione di Ismaele avviene in mare. È una transizione per
uscire dalla cultura cristiana civilizzata, non per entrarvi. Come dice alla fine del capitolo «una
baleniera è stata la mia Università di Yale e la mia Harvard» (ibid., cap. XXIV , p. 143).
47
Ibid., cap. XCIV , p. 441.
48
Questi episodi sono raccontati dal profeta Elia, ibid., cap. XIX , p. 126.
49
Ibid., cap. XLI , p. 208.
50
Ibid., cap. XXXVI , p. 194.
51
Ibid., pp. 194-95.
52
Ibid., cap. CVIII , p. 491.
53
Famoso ordine impartito all’attacco durante la battaglia di Bunker Hill, nel 1775, durante la
guerra d’indipendenza americana [N.d.T.].
54
È un motto rimasto nella storia americana; si riferisce a George Gipp, soprannominato
«Gipper», campione di baseball nelle squadre universitarie, che morí a 25 anni in seguito a
un’infezione alla gola. Si racconta che abbia detto questa frase sul letto di morte; diventò famosa
perché Ronald Reagan, nella sua carriera d’attore prima della presidenza, recitò la parte del Gipper
in un film molto popolare [N.d.T.].
55
MELVILLE , Moby Dick cit., cap. XLI , p. 208.
56
Milton era letto dagli interpreti della scuola «romantica» e «satanica», soprattutto da Blake e
da Shelley. Henry F. Pommer sostiene che Melville fu piú influenzato da questa scuola di interpreti
di Milton che dalla lettura del poeta in chiave devota fatta dai contemporanei. Un passaggio
significativo dell’opera di H. F. POMMER , Milton and Melville, Cooper Square Press, New York 1970 è
citato in L. SHELDON , Messianic Power and Satanic Decay: Milton in Moby Dick, in «Leviathan: A
Journal of Melville Studies», vol. IV, 2002, n. 1, pp. 29-50.
57
Ivi.
58
1Re 16.30.
59
MELVILLE , Moby Dick cit., cap. XIX , p. 126. Gioco di parole intraducibile in italiano, basato sul
doppio significato di right, che significa «destro» e «dritto» e sui due modi di dire «sinistro», left e
sinister [N.d.T.].
60
Ibid., cap. LXXIX , p. 373.
61
Ibid., cap. LXXXVI , p. 404.
62
Ibid., cap. XCIV , p. 441.
63
Vedi K. JASPERS , Origine e senso della storia, Edizioni di Comunità, Milano 1965 (ed. or. Vom
Ursprung und Ziel der Geschichte, Piper Verlag, München 1949).
64
TAYLOR , L’età secolare cit., p. 861.
65
NIETZSCHE , La gaia scienza, Prefazione (ed. it. cit., p. 23).
66
MELVILLE , Moby Dick cit., cap. IX , p. 83.
67
Ibid.
68
Ibid., cap. X , p. 86.
69
Ibid.
70
Ibid., cap. XVII , p. 115.
71
Ibid., cap. XCIV , p. 440.
72
Ibid., p. 441.
73
Ibid.
74
Ibid., cap. LXXIX , p. 374.
75
Ibid., cap. XLII , p. 218.
76
Ibid.
77
Ibid., p. 219.
78
Ibid., p. 226.
79
Ibid.
80
Ibid.
81
Ibid.
82
Ibid., cap. LXXXVI , pp. 403-4.
83
Ibid., cap. XLII , p. 224.
84
Ibid., cap. CII , pp. 471-75.
85
Ibid., p. 472.
86
Ibid., p. 473.
87
Ibid., cap. LXXXV , p. 395.
88
Ibid., p. 399.
89
Ibid.
90
Ibid., cap. XCIII , p. 436.
91
Ibid., cap. XXVII , p. 152.
92
Ibid., cap. XCIII , p. 438.
93
Ibid., p. 439.
94
Ibid.
95
Ibid., p. 439.
96
Ibid., cap. CXXV , p. 536.
97
Ibid., cap. XCIX , p. 453.
98
Ibid., cap. XXXVI , p. 192.
99
Ibid., cap. XXVII , p. 48.
100
Le diverse osservazioni si trovano ibid., cap. XCIX , pp. 454-58.
101
Ibid., p. 458.
102
Gioco di parole intraducibile tra batty, «pazzo, folle», e bat, «pipistrello» [N.d.T.].
103
melville, Moby Dick cit., cap. XXVIII , p. 155.
104
Ibid., cap. CXXV , p. 538.
105
Ibid., cap. CXXXIII , p. 567.
106
Ibid., pp. 562-63.
107
Ibid., p. 563.
108
Tutti ibid., cap. CXXXIII .
109
Ibid., cap. CXXXV , p. 573.
110
Ibid., cap. CXXXIV , p. 571.
111
Ibid., cap. CXXXV , p. 583.
112
Ibid., cap. XLI , pp. 213-14.
113
Ibid., cap. CXXXV , p. 586.
114
Ibid., cap. CXXXIII , p. 561.
115
Vedi G. SANBORN , Whence Come You Queequeg?, in «American Literature», vol. LXXVII , 2005,
n. 2, pp. 227-57.
116
MELVILLE , Moby Dick cit., cap. XVIII , p. 123.
117
Lettera del 4 gennaio 1939. Yeats morí il 28 gennaio di quello stesso anno.
118
MELVILLE , Moby Dick cit., cap. CX , p. 502.
119
Ibid., cap. CXXXV , p. 584.
120
Ibid., p. 587.
121
Ibid., cap. CX , p. 502.
122
Ibid., Epilogo, p. 588.
123
Vedi, per esempio, la lettera di Melville a Sophia Peabody Hawthorne dell’8 gennaio 1852,
ristampata a p. 547 della Norton Critical Editon di Moby Dick (cit. sopra).
Conclusione
Vite degne di essere vissute nella nostra epoca secolarizzata
Ci sono molte cose negative rispetto al fatto di avere un corpo. Se questo non è cosí
ovvio per chiunque da non richiedere alcun esempio, possiamo menzionare
velocemente dolori, piaghe, odori, nausea, vecchiaia, gravità, sepsi, goffaggine,
malattia, limiti – ogni minimo scisma tra la nostra volontà fisica e le nostre attuali
possibilità. C’è davvero chi dubita che abbiamo bisogno d’aiuto per essere riconciliati?
Devo proprio dirlo? In fin dei conti, è il nostro corpo che muore 16.
Non mi ricordo il genere di suoni emessi, ma mia moglie dice che quando è entrata
in stanza il divano era coperto di popcorn e io ero in ginocchio, con i bulbi oculari tipo
quelli dei negozi di scherzi 22.
è un pensiero che è anche una sensazione. Uno non vuole farla troppo grossa, né
fingere che le due cose si bilancino equamente; sarebbe grottesco. Ma la verità è che
qualsiasi divinità, entità, energia o flusso genetico casuale produce bambini malati, ha
prodotto anche Roger Federer, e vi basta guardarlo laggiú in campo. Guardatelo! 28.
All’inizio di una partita reale, non c’è modo di prevedere o controllare quello che
succederà. Nessuno può provocare o garantire il flusso della partita. Si manifesta e si
rivela durante il gioco. Può suscitare uno stato di grazia oppure di disperazione, è
all’origine di atti di eroismo oppure di totali disfatte, infonde entusiasmo oppure
infligge patimenti e dispiaceri. È sempre piú grandiosa degli individui che tiene
uniti 29.
[Il falegname] non ha una sega a nastro (come ora) da manovrare a ogni resistenza
del materiale, con la sua spietata assenza di intelligenza. Il legname è lungi dall’essere
una preda o una vittima impotente della macchina. Porge invece le sue delicate virtú
all’uomo, il quale sa come entrare in contatto con esso: come con un amico
comprensivo, sarà capace di collaborare 35.
C’era, un tempo, una relazione molto stretta tra la campagna ricoperta di alberi e
l’uomo inglese che vi abitava. Ma ora, sono sfumati l’affetto e la reverenza che ne
scaturivano – infatti era davvero con qualcosa di simile alla reverenza che un vero
provinciale si accostava agli alberi natii. Una sorta di avida prostituzione ha
completamente dissacrato le foreste di un tempo. Tutt’intorno a me, scorgo e sento
fare a cuor leggero azioni che a me erano sempre sembrate improntate alla magia –
cose che urtano profondamente i miei sentimenti, come bardare un cavallo da tiro per
attaccarlo a un carro troppo pesante o demolire una cattedrale per trafugare le pietre
da costruzione 36.
Gli alberi che forniscono il materiale poi sottoposto alla perizia del
carraio, quindi, sono qualcosa di molto piú complesso della semplice
enumerazione di proprietà fisiche che li descrive. Come le pietre di una
cattedrale, sono sacri e devono essere trattati con cura e con rispetto.
Agire altrimenti è una profanazione.
La descrizione di Sturt ci offre un quadro ricco e affascinante della
competenza dell’artigiano. Al posto della prestazione tecnica di un
individuo isolato dal contesto e completamente autonomo, l’artigiano di
Sturt esiste interamente in rapporto con il luogo in cui vive. Come in ogni
buona relazione, ciascuno dei due interagisce con l’altro in modo ottimale.
È perché il falegname è un buon osservatore del legno e non una
macchina spietata priva di intelligenza che il legno gli rivela le sue delicate
qualità. Visto che le possiede, l’artigiano è già in grado di coltivare in se
stesso la capacità di differenziarle e in ultima analisi di provare reverenza
e senso di responsabilità per il legno e per il luogo in cui è nato. Si
instaura una sorta di feedback continuo tra l’artigiano e la materia:
ognuno si coltiva a vicenda in uno stato di muta comprensione e di
reciproco rispetto 37. Abbiamo visto il nome che Aristotele dava a questo
reciproco nutrirsi dell’artigiano e della sua arte: la chiamava poiesis.
Purtroppo, la capacità di creare una competenza di tipo artigianale di
per sé non annulla i pericoli della physis. Persino un mastro carraio pieno
di reverenza per la sua terra sarebbe obnubilato dal potere della retorica di
Hitler. Tuttavia, rimane fondamentale il fatto che le competenze di tipo
artigianale sono in grado di rivelare significative differenze del reale. C’è
un altro tipo di attitudine poietica che nessuno ha ancora rilevato, anche se
già agisce nella vita della gente: la raffinata facoltà di reagire alle rilevanti
differenze che esistono tra il modo in cui ci si lascia trascinare senza gravi
conseguenze e quello invece in cui si incorre in un pericolo reale. La
persona che ha acquisito tale capacità sa che non è sempre appropriato
andarsene quando ci si trova immersi nella folla – essere travolti dallo
stato d’animo collettivo evocato dal celeberrimo «I have a dream» e alzarsi
con altre 200 000 persone ad acclamare Martin Luther King è positivo: non
ci sarebbe nessun motivo di orgoglio se invece si abbandonasse la folla. Se
quel giorno invece tutti coloro che erano radunati al National Mall se ne
fossero andati o avessero semplicemente reagito con una fredda
approvazione d’ordine razionale, l’avvenimento non avrebbe potuto avere
la portata e l’effetto che ebbe in realtà e il mondo in cui viviamo ne
sarebbe risultato impoverito.
Riconoscere quando è giusto lasciarsi trascinare da un evento collettivo
o quando invece è ragionevole andarsene presuppone una capacità di
discernimento altamente sviluppata, che è fondamentale per il mondo
contemporaneo. Riuscire ad acquisire questa capacità, come qualunque
altra, comporta il fatto di assumersi dei rischi, come vedremo. Per il
momento basta osservare che questa facoltà ci permette di coltivare una
forma straordinaria di sacro nella nostra cultura. La meta-poiesis, come la
si potrebbe chiamare, deve riuscire a destreggiarsi tra i due pericoli
gemelli della nostra epoca secolarizzata: è in grado di resistere al
nichilismo riappropriandosi del fenomeno sacro della physis, ma coltiva
anche la capacità di resistere alla physis nella sua forma piú fanatica e
amorale. Vivere bene nella nostra società nichilista e secolarizzata richiede
quindi la competenza molto sofisticata di riconoscere quando è il caso di
alzarsi con una folla estatica e quando invece conviene voltare i tacchi e
andarsene in tutta fretta.
Ritorneremo fra poco alla meta-poiesis. Prima, dobbiamo capire che
nell’era tecnologica viene osteggiata anche la conoscenza di noi stessi da
cui la meta-poiesis dipende – cioè la comprensione dell’uomo in quanto
essere capace di individuare differenze significative coltivando le proprie
competenze.
Se la physis selvaggia ed estatica costituisce il regno sacro del
significato evidente ancora oggi, la poiesis con la sua delicatezza e il suo
carattere spiritualmente nutriente, è un’arte in declino. In parte, si tratta
del risultato del nostro stesso successo: i progressi della tecnologia hanno
diminuito l’importanza delle capacità specializzate nella vita
contemporanea. Anzi il principale obiettivo della tecnologia è rendere
accessibile a tutti ogni settore, indipendentemente dal suo livello di
capacità. «Anche un bambino può farlo!» è il mantra dell’era tecnologica.
Per preparare un pranzo basta schiacciare un bottone, per viaggiare per il
mondo basta salire su un aereo. Per fare un percorso in macchina in una
regione che ci è sconosciuta, ci si limita a girare a destra o a sinistra in
base alle indicazioni del GPS . La tecnologia migliora le nostre vite
rendendo facili le cose difficili. Questo è l’assioma di base del mondo
contemporaneo.
Il miglioramento della tecnologia è anche un impoverimento. Il GPS
elimina tutte quelle distinzioni significative che venivano rivelate dall’arte
di saper viaggiare. Nella misura in cui la tecnologia rende inutile la
nozione stessa di capacità, sopprime anche la possibilità di trovare un
significato. Avere una capacità significa sapere quello che è importante o
meritevole di valore in un dato campo. Le capacità ci rivelano differenze
significative e coltivano in noi un senso di responsabilità che ci permette
di esplicitarle al meglio. Poiché annulla la necessità di acquisire le
capacità, la tecnologia appiattisce la vita degli uomini.
Ci sono due aspetti in quest’appiattimento. Innanzitutto, il mondo
stesso comincia a sembrare sempre piú indefinito. Questo è quanto
intende Sturt quando dice che la conoscenza locale del legno è morta: per
la maggior parte della gente oggi non è piú riconoscibile la differenza tra
un frassino «friabile come una carota» o «rozzo come uno sverzino» –
una distinzione splendida, nel significato e nel valore. Miriadi di altre
possibili distinzioni, in passato rivelate dall’arte specializzata di lavorare il
legno, sono scivolate nel buio completo con il declino dell’artigianato
come arte. Poiché la sega a nastro non incontra piú un nodo del legno che
è necessario rifinire, per esempio, non c’è nessun bisogno che si cerchi la
distinzione tra il nodo che rappresenta un ostacolo e quello invece che può
essere sfruttato a proprio vantaggio, per rinforzare il manufatto finito.
L’incapacità di riconoscere questa distinzione diminuisce la qualità del
prodotto: come dice Sturt, i cerchioni delle ruote prodotte da una
macchina possono sembrare, a «qualche teorico che se ne sta in ufficio»,
migliori di quelle fatte a mano, ma l’abile artigiano si accorge che sono
costruite senza la minima intelligenza. Peggio ancora della perdita di
qualità, tuttavia, c’è la perdita della capacità di esprimere la differenza.
Poiché abbiamo perduto la capacità dell’arte di costruire, il mondo sembra
sempre piú sprovvisto di distinzioni di valori.
La conoscenza di noi stessi è a sua volta appiattita da questa perdita
planetaria di significato. I sentimenti di rispetto e di reverenza – scaturiti
da un’attenzione scrupolosa e accorta per le differenze di valore in un
determinato campo – sono quasi del tutto scomparsi. Forse il discorso di
Lou Gehrig era toccante non solo perché era un eroe che stava morendo,
ma perché la reazione della folla dimostrò che queste qualità esistono
ancora. La perdita del senso di reverenza è importante anche per un’altra
ragione, perché ci rivela come esseri capaci di coltivare distinzioni
significative. Riverire il legname, dopotutto, non significa soltanto
considerarlo degno del nostro stupore, ma trattarlo con cura e lavorarlo
nel miglior modo possibile – farlo splendere. Poiché la tecnologia separa il
bisogno dalla capacità, elimina anche questa nobile conoscenza di noi
stessi come coltivatori di significato.
Compresa in questi termini, la marcia della tecnologia presenta un
grave pericolo. Il pericolo non sta tanto in particolari progressi tecnologici
o nei gadget che la tecnologia produce, ma nel modo in cui lo stile di vita
tecnologico condiziona la nostra comprensione di noi stessi e di quello a
cui possiamo aspirare. Aspirare a una vita che per vivere non richiede
alcuna capacità significa aderire al mondo appiattito del nichilismo
contemporaneo. La reazione appropriata a questo pericolo non è rifiutare
la tecnologia di per sé, ma accettare i progressi tecnologici individuali pur
continuando a preservare le pratiche poietiche che oppongono resistenza
al modo di vita tecnologico.
Prendiamo per esempio il GPS . C’è qualcosa di utile in questo
marchingegno grazie al quale è impossibile perdersi. Ogni tanto,
naturalmente, vi consiglia di girare bruscamente a destra quando invece
siete nel bel mezzo di un ponte. Ma questo genere di inconvenienti è ben
presto risolto. Per quelli di noi che hanno difficoltà a orientarsi (ed
entrambi gli autori fanno parte di questa categoria), il GPS offre un
progresso tecnologico notevole.
Ma questo progresso ha un costo di cui non si parla. Quando il GPS
pianifica il viaggio al nostro posto, la conoscenza dell’ambiente è ridotta
all’osso. Consiste nel sapere cose del tipo «dovrei girare a sinistra». Nella
migliore delle ipotesi – e qui vorremmo rimanere ottimisti – questo
metodo di navigazione ci porta a destinazione in modo facile e rapido.
Eppure banalizza completamente la nobile arte del viaggiare, che è l’area
di competenza delle grandi culture, dai Fenici, grandi marinai, ai grandi
esploratori dell’età moderna. Viaggiare con il GPS non richiede nessun
senso di orientamento, nessun senso della direzione e nessuna nozione sul
modo di viaggiare in sé. L’unico vantaggio del GPS è quello di risparmiarci
la seccatura dello stabilire una rotta.
Perdere il senso della conquista significa perdere la sensibilità a tutte le
distinzioni significative che il viaggio comporta (al paesaggio, ai segnali
stradali, alla direzione del vento, al livello in cui si trova il sole, alle stelle).
Viaggiare con il GPS significa sopportare una serie di pause prive di
significato al termine delle quali finiamo con il fare esattamente quello che
ci viene richiesto. In questo c’è qualcosa di estremamente disumanizzante:
è come diventare il personaggio principale di una pièce di Beckett, ma
senza la sua ironia. In un modo fondamentale, quest’esperienza ci
trasforma in un robot automatizzato che il GPS utilizza per portarci a
destinazione. Certo, questo è uno dei modi in cui potrebbe essere il mondo
e a volte è davvero il migliore possibile. Ma aspirare a una condizione del
genere come modo complessivo di vivere significa perdere ogni contatto
con le competenze specifiche e con la capacità di avere cura e rispetto
delle cose, sentimenti che portano l’uomo a esercitare l’eccellenza.
L’attenzione ai beni materiali in un campo particolare e il coltivare le
abilità necessarie per rivelare le distinzioni al suo interno sono qualità
fondamentali per resistere al modo di vivere tecnologico. Ma non
possiamo decidere di interessarci a un determinato settore, proprio come
non possiamo decidere di chi innamorarci. Come possiamo allora
imparare a scoprire che cosa è degno della nostra attenzione?
Che lo sappiamo o no, ci prendiamo già cura di un sacco di cose.
Proprio come il mondo è pregno di significati che aspettano solo di venire
alla luce, gli uomini sono pieni di potenzialità che hanno tenuto nascoste a
loro stessi. È qualcosa che può sembrarci sorprendente. L’idea che la
nostra capacità di prenderci cura del mondo intorno a noi superi la
cognizione che abbiamo di essa sembra un affronto al principio di base
della conoscenza di sé. Certo, se mi prendo cura di qualcosa, sono nella
posizione di sapere quel che faccio. La tradizione illuminista
dell’autonomia ha posto questo principio e la filosofia contemporanea lo
considera come un assioma. Ma essere individui incarnati quali noi siamo,
aperti alle emozioni che ci dirigono e che ci rivelano gli aspetti
significativi del mondo, vuol dire andare al di là di quello che sappiamo di
noi stessi. Il progetto allora non è decidere ciò di cui prenderci cura, ma
scoprire quello di cui già ci stiamo prendendo cura.
Facciamo un esempio semplice. Vi alzate al mattino, con passo
malfermo vi dirigete in cucina e vi fate un caffè: ha importanza la tazza
che scegliete come contenitore della vostra bevanda mattutina? Oppure la
tazza è completamente irrilevante alla routine del caffè? Se qualsiasi
vecchia tazza andasse bene, se una tazza di plastica ha per voi lo stesso
significato di una di porcellana finissima, dobbiamo concludere che ve ne
servite come semplice recipiente. In questo caso state trattando gli oggetti
come se fossero assolutamente intercambiabili.
Osservate lo stridente contrasto tra la banalità di una tazza generica e
l’unicità del legno nella bottega del carraio. L’intimità che caratterizzava il
rapporto dell’artigiano con il suo legno – la sensazione che fosse un amico
comprensivo, che avrebbe rivelato le sue delicate qualità all’individuo
esperto che era in grado di portarle fuori al meglio –, la routine che si
instaurava nella lavorazione del legno quasi fosse un rituale sacro
attraversato da vicinanze, significato e valore, sono completamente assenti
nella routine banalizzata del caffè mattutino. Trattare la tazzina come se
non avesse nessun ruolo rilevante per la funzione che svolge significa
accostarsi al caffè con la spietata mancanza di intelligenza tipica delle
macchine. Significa avvicinarsi a quello che avrebbe potuto essere un
momento degno di valore come se invece fosse qualcosa di completamente
insignificante.
Ma cos’è dunque una tazza, potreste chiedervi, se non un oggetto la cui
generica funzione è quella di contenere un liquido? Qualsiasi oggetto con
la forma adeguata può sicuramente adempiere a questa funzione nello
stesso modo. En passant, vale la pena di ricordare come potrebbe sembrare
stravagante quest’osservazione se fosse applicata a certi tipi di tazza: le
semplici tazzine della cerimonia del tè giapponese, la coppa del Santo
Graal utilizzata da Gesú nell’Ultima Cena ecc. Ma si tratta forse di casi
eccezionali. Non è forse un insulto per la tazza, e per tutta la routine del
caffè mattutino, il fatto che vi si accordi cosí poca importanza?
Il modo noncurante con cui si tratta una tazza e il caffè che contiene
mette in ombra tutte le sue distinzioni significative e diminuisce la qualità
di ciò che stiamo bevendo, poiché un consumatore di caffè del tutto privo
di competenza non è in grado di scegliere il modo migliore per servirlo. La
situazione ci ricorda in maniera misteriosa la recriminazione di Sturt. La
spietata assenza d’intelligenza dell’odiata sega a nastro di Sturt rispecchia
la generica mancanza d’intelligenza della tazza di plastica. La tazza
dozzinale, nella sua stupidità, tratta qualsiasi caffè e qualsiasi momento
per berlo come se fossero tutti uguali.
Se ci accostiamo in questo modo all’argomento «beviamo un caffè»,
rendiamo disumani anche noi stessi. Come il fatto di viaggiare con il GPS ,
la pausa caffè che non riconosce alcuna distinzione di valore è una routine
in cui il consumatore diventa intercambiabile: simile a milioni di altri che
entrano in cucina semiaddormentati per bere un caffè in modo altrettanto
impersonale. Se in questa semplice attività, la tazzina diventa
intercambiabile, allora anche voi siete intercambiabili. Trattare la tazza
come una risorsa insignificante significa trattare anche voi stessi come una
risorsa insignificante, significa diventare disumani perché incapaci di
riconoscere l’attenzione premurosa che si potrebbe accordare a una data
situazione.
Forse in certi casi non c’è nulla di sbagliato in questo. Non ci si può
aspettare che ogni momento della vita sia una celebrazione sacra di
significato e valore. Anzi probabilmente in noi c’è qualcosa che oppone
resistenza a un atteggiamento simile o che addirittura lo rende impossibile.
Ma una cosa è sopportare l’assenza di significato, un’altra aderirvi come
stile di vita. Se siamo davvero esseri umani, dobbiamo saperci distinguere
gli uni dagli altri; ci sono momenti in cui siamo capaci di distinguerci da
tutto ciò che è generico e banale e siamo in grado di impegnarci in
qualcosa di particolare e difficile da compiere. Ma come si fa a sapere se il
rituale del caffè mattutino è uno di questi momenti?
La risposta è che bisogna imparare a capirlo. Il fatto che da sempre
facciamo attenzione a come bere il caffè la mattina potrebbe essere
qualcosa di cui noi stessi siamo all’oscuro. Per capire se è davvero cosí,
chiediamoci se consideriamo effettivamente la routine come se fosse
intercambiabile. Il rituale del mattino è delizioso anche perché ha il potere
di svegliarci. Ma ci è davvero indifferente qualunque modo in cui ci
svegliamo? Un rapido tiro di cocaina è davvero l’equivalente di un
pizzicotto? Oppure, se ciò ci sembra eccessivo, non basterebbe una pillola
di caffeina trangugiata alla bell’e meglio quando siamo già in macchina?
Se queste condizioni intercambiabili ci attraggono davvero, il caffè allora
svolge solo la funzione di svegliarci. In questo caso, qualsiasi stimolante
potrebbe andar bene. Ma se questi sostituti non ci soddisfano affatto,
dobbiamo riconoscere che ci sono aspetti nel rituale del caffè che vanno
oltre la sua funzione, aspetti che, senza saperlo, già ci appartengono.
Se facciamo attenzione al modo in cui beviamo il caffè alla mattina, ci
sono distinzioni significative che vale la pena scoprire. Per riuscire a
individuare queste differenze, è necessario porci alcune semplici domande.
Perché preferiamo una tazza di caffè a una pillola di caffeina o a una tazza
di tè? C’è forse qualcosa nel caffè in se stesso, non solo nel suo potere
stimolante, ma nel suo aroma, nel calore, nel rituale, oppure qualcos’altro
ancora, che ci spinge a compiere questa e non un’altra attività? E di cosa si
tratta esattamente? Della qualità del caffè, del processo con cui viene fatto,
delle persone con cui lo condividiamo, del luogo in cui ci troviamo oppure
del tipo di tazza in cui lo beviamo?
Non sono domande a cui si può rispondere astrattamente. Dobbiamo
rifletterci e cercare di scoprirlo. Se ciò che ci piace è il calore del caffè in
una giornata d’inverno, allora può contribuire a questo rituale il fatto di
berlo in un angolino accogliente della casa, magari accanto al caminetto
con una bella coperta sulle ginocchia, in una tazza capace di trasmetterci
al tatto tutto il calore che desideriamo. Non c’è un’unica risposta alla
domanda di che cosa renda affascinante questo rituale: per scoprire da soli
quali sono le distinzioni significative, c’è bisogno di sperimentazione e
osservazione, con i rischi e le ricompense che questo procedimento
comporta. La volontà di sperimentare e osservare, in ultima analisi, ci
permette di sviluppare la capacità di individuare gli aspetti rilevanti di
questo rituale e di imparare alla fine quello che è necessario per eseguirlo
nel migliore dei modi. Le competenze necessarie sono molteplici: la
capacità di sapere come scegliere esattamente il caffè giusto, la tazzina
giusta e come selezionare con cura le persone con cui condividerlo.
Quando queste capacità sono state acquisite e l’ambiente è stato curato in
modo che si adatti a esse, allora si compie un rituale anziché seguire una
semplice routine: invece di eseguire una funzione meccanica e senza
senso, celebriamo noi stessi e il mondo intorno accordandogli un pieno
significato.
Ci sono molti settori degni della nostra attenzione e non esistono
principî oggettivi e indipendenti dal contesto per stabilire quali siano.
Dobbiamo soltanto fare dei tentativi e cercare di scoprirli. Alcune persone
sono interessate alla matematica, altre alla musica, altre ancora
preferiscono il baseball e alcuni vanno pazzi per le corride. C’è chi
preferisce bere con gli amici un bicchiere di vino locale. Un certo settore è
degno di attenzione, se ci permette di generare un significato e un
impegno sempre maggiori.
Poiché non ci sono regole oggettive sul tema, si deve essere
continuamente aperti alla possibilità che il settore che ci interessa possa
poi rivelarsi troppo violento o troppo banale o fonte di un isolamento
insopportabile oppure troppo sciocco, e comunque inadatto a esprimerci
nel modo migliore possibile. Si deve essere preparati, come lo era Elena, a
rimpiangere di essersi lasciati trascinare in una situazione del genere e
permettere a se stessi di cercarne un’altra piú ricca e piú significativa. Il
rischio del rimpianto è insito in ogni attività significativa, e senza di esso
le nostre vite precipiterebbero nell’insignificanza e nella noia, nella totale
assenza di espressione e nell’angoscia.
Editing 2017:
nick2nick
www.dasolo.co
1
End of a Career, in «The New York Times», 22 giugno 1939, p. 18.
2
61 808 Fans Roar Tribute to Gehrig: Captain of Yankees Honored at Stadium – Calls Himself
«Luckiest Man Alive», in «The New York Times», 5 luglio 1939, p. 1.
3
Il sito Internet American Rhetoric (www.americanrhetoric.com), per esempio, cita il discorso
d’addio di Gehrig al settantatreesimo posto tra i cento discorsi piú importanti della storia
americana. Quasi tutti sono di natura esplicitamente politica.
4
61 808 Fans Roar Tribute to Gehrig cit.
5
Si possono trovare diversi video dell’evento su YouTube, mentre il testo completo del discorso
è disponibile sulla pagina inglese di Wikipedia dedicata a Lou Gehrig. I dettagli del nostro
resoconto sono stati tratti dagli articoli del «New York Times» pubblicati tra il maggio e il luglio del
1939.
6
Espressione che indica, nel football americano, un tiro azzardato che capovolge la situazione
sfavorevole di una squadra [N.d.T.].
7
È il soprannome dato alla piú famosa partita di football americano, svoltasi a Pittsburgh,
Pennsylvania, il 23 dicembre 1972 [N.d.T.].
8
Vedi, per esempio, j. l. price (a cura di), From Season to Season: Sports as American Religion,
Mercer University Press, Macon 2001.
9
Gli autori si riferiscono ancora una volta alla poesia di T. S. Eliot Il canto d’amore di J. Alfred
Prufrock [N.d.T.].
10
A. BORGMANN , Crossing the Postmodern Divide, University of Chicago Press, Chicago 1992, p.
135.
11
Pubblicato il 2 agosto 2006 e disponibile sul sito
http://www.nytimes.com/2006/08/20/sports/playmagazine/20federer.xhtml (trad. it. D. F. WALLACE ,
È di Newton la celebre frase: «Se ho visto piú lontano dei miei simili, è
perché mi trovavo sulle spalle dei giganti». Incapaci di salire a tali
vertiginose altezze, in questo libro abbiamo dato forma a intuizioni che
sono nate dalla possibilità di salire a turno l’uno sulle spalle dell’altro.
Ognuno di noi, quindi, è soprattutto grato al suo coautore: per le
acrobazie, le digressioni, le proposte, le rielaborazioni, e soprattutto per il
sostegno reciproco, che ha avuto come risultato una splendida
collaborazione professionale.
Inoltre, siamo riconoscenti alle molte persone intorno a noi che hanno
reso possibile questo tour de force intellettuale: Liv Duesund, che ci ha
invitato all’Università di Oslo nel 2006 per elaborare le nostre idee
sull’incarnazione in Omero, allora allo stato embrionale; Michael Sandel e
Charles Taylor, che ci hanno incoraggiato a introdurre la questione del
politeismo a un seminario su un libro di Taylor, L’età secolare,
all’Università di Harvard nel 2009; Joseph Schear e Wayne Martin, che ci
hanno dato la possibilità di discutere una parte del manoscritto definitivo
con i filosofi del Christ Church College, a Oxford, nel 2010; Taylor
Carman, Eugene Chislenko, Stephen Mulhall, George Pattison e Mark
Wrathall, che hanno approfondito i problemi da noi sollevati; Tao Ruspoli,
il cui splendido film Being in the World è stato prodotto
contemporaneamente al nostro libro e le cui acute problematiche hanno
rappresentato l’occasione per esplorare i temi del libro da un altro punto
di vista; Charles Spinosa, il cui feedback è sempre stato illuminante; Jill
Kneerim, la nostra agente, che ci ha aiutato a orientarci nel mondo
sconosciuto, ma affascinante, dell’editoria. Hilary Redmond, la nostra
editor alla Free Press, grazie alla quale abbiamo dato avvio a questo
progetto e la cui presenza paziente, ma ferma, ci ha tenuto in carreggiata
limitando le numerose deviazioni e le molte, piccole follie; e Geneviève
Boissier-Dreyfus e Cheryl Kelly Chen, il cui sostegno – non solo tecnico e
filosofico, ma nella vita – ha reso possibile questo libro e alle quali è in
parte dedicato.
Vorremmo anche ringraziare tutti gli studenti ed ex studenti che ci
hanno fornito utili feedback, pareri di tipo tecnico e in alcuni casi
un’efficiente assistenza durante la fase di ricerca. Julie Rhee ha lavorato
moltissimo sull’editing e non è esagerato dire che il libro non sarebbe
esistito senza il suo contributo; Adam Spinosa, Billy Eck e Céline Leboeuf
hanno tutti partecipato, in un modo o nell’altro, alla ricerca e alla
discussione e ci avrebbero aiutato ancora di piú se soltanto glielo avessimo
chiesto; e naturalmente tutti gli studenti di Filosofia 6, From Gods to God
and Back, all’Università di Berkeley, e di Cultura e credenze 14, The
Experience of the Sacred in the History of the West, a Harvard, che hanno
dovuto sorbirsi le prime versioni, piú rozze, di quello che è diventato il
libro e che hanno contribuito a renderlo piú ricco e piú pertinente.
Infine, grazie agli dèi, che si sono rivelati a poco a poco oppure, a volte,
d’un colpo solo, e che speriamo possano trovare in questo libro un punto
d’attracco sicuro per ritornare infine sulla terra.
Indice dei nomi di persona
e dei personaggi di fiction
Abramo (Divina Commedia)
Achab (Libro dei Re)
Achab, capitano (Moby Dick)
Achille (Iliade)
Achille (Odissea)
Ade, vedi Dite
Adreste (Odissea)
Afrodite (Odissea)
Agamennone (Orestea)
Agostino, Aurelio, santo
Aiace Oileo (Odissea)
Alcandra (Odissea)
Alcinoo (Odissea)
Alcippe (Odissea)
Allen, Woody (pseudonimo di Allan Stewart Konigsberg)
Ambrogio, Aurelio, santo
Amleto (Amleto)
Anfimedonte (Odissea)
Antinoo (Odissea)
Apollo (Orestea)
Ares (Odissea)
Arete (Odissea)
Aristotele
– Divina Commedia
Arpie (Odissea)
Artemide (Odissea)
Atena (Odissea)
– Orestea
Atkins (Il re pallido)
Autrey, Shuqui
Autrey, Syshe
Autrey, Wesley
Dante Alighieri
– Divina Commedia
Da Polenta, Francesca (Divina Commedia)
Davide (Divina Commedia)
Dean, Lane Jr. (Il re pallido)
Dee Gentili, vedi Eumenidi
Delbanco, Andrew
Descartes, René
Dillenberger, John
Dimante (Odissea)
Dite (Divina Commedia)
Dodds, Eric Robertson
Donovan, John
Dostoevskij, Fëdor Michajlovič
Dreyfus, Hubert
Drinion, Mitchell (Il re pallido)
Duyckinck, Evert A.
Dylan, Bob (pseudonimo di Robert Allen Zimmerman)
Edipo (Odissea)
Efesto (Odissea)
Egisto (Orestea)
Einstein, Albert
Elena (Divina Commedia)
– Odissea
Elia
Elia (Moby Dick)
Eliot, Thomas Stearns
Enrico, re (Moby Dick)
Epicasta (Odissea)
Era (Odissea)
Eraclito
Erinni
– Odissea
– Orestea
Eschilo
Esiodo
Ettore (Iliade)
Eumenidi (Orestea)
Eumeo (Odissea)
Euripide
Fabro, Cornelio
Fagles, Robert
Fedallah (Moby Dick)
Federer, Roger
Filaco (Odissea)
Filò (Odissea)
Flask (Moby Dick)
Flaubert, Gustave
Foucault, Michel
Fowler, Robert
Francesca, vedi Da Polenta, Francesca
Franzen, Jonathan
Friedman, David M.
Gadamer, Hans-Georg
Galilei, Galileo
Garboli, Cesare
Garland, Judy (pseudonimo di Frances Ethel Gumm)
Gately, Don (Il re pallido)
Gehrig, Henry Louis (detto Lou)
Gesú Cristo
Gezabele (Libro dei Re)
Gilbert, Elizabeth M.
– Mangia, prega, ama
Ginsberg, Allen
Giovanni evangelista, santo
Gipp, George (detto Gipper)
Goodstein, Charles
Green, Karen
Gurisatti, Giovanni
Icario (Odissea)
Ifigenia (Orestea)
Incandenza, Hal (Infinite Jest)
Incandenza, Mario (detto Boo) (Infinite Jest)
Isaia
Ismaele (Moby Dick)
MacAllister, Archibald T.
Macbeth (Macbeth)
Malatesta, Paolo (Divina Commedia)
Mapple, padre (Moby Dick)
Masini, Ferruccio
Matteo (Levi) evangelista, santo
Max, D. T.
McCaffery, Larry
McCarthy, Joe
McPhee, John
Melville, Herman
– Taipi
Menelao
– Odissea
– Orestea
Mentore (Odissea)
Mercer, Sid
Miller, Laura
Milton, John
Moby Dick (Moby Dick)
Monroe, Marilyn (pseudonimo di Norma Jeane Baker)
Montinari, Mazzino
Morte (Teogonia)
Mosè
Muhammad Ali (Cassius Marcellus Clay jr)
Murray, Henry A.
Neleo (Odissea)
Nestore (Odissea)
Nietzsche, Friedrich Wilhelm
Noè (Divina Commedia)
Nori, Giuseppe
Nureev, Rudolf
Odisseo (Odissea)
Olbermann, Keith
Olson, Charles
Omero
– Divina Commedia
Orazio (Amleto)
Oreste (Orestea)
Ovidio Nasone, Publio (Divina Commedia)
Paci, Enzo
Paduano, Guido
Palgrave, Francis
Pallade, vedi Atena (Odissea)
Pandareo (Odissea)
Paolo, vedi Malatesta, Paolo
Paolo di Tarso, santo
Paride
– Divina Commedia
– Odissea
Parker, Hershel
Pavese, Cesare
Peabody Hawthorne, Sophia
Penelope (Odissea)
Pericle
Phelps, Michael Fred
Pietro, santo (Divina Commedia)
Pietsch, Michael
Pip (Pippin, detto) (Moby Dick)
Pirsig, Robert Maynard
Pisistrato (Odissea)
Platone
– Divina Commedia
Polibo (Odissea)
Pommer, Henry F.
Pontani, Filippo Maria
Poe, Alexander
Portinari, Beatrice (Divina Commedia)
Poseidone (Odissea)
Priamo (Iliade)
Price, Joseph L.
Principe Q— (Infinite Jest)
Prufrock, J. Alfred (Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock)
Rabinow, Paul
Reagan, Ronald Wilson
Renzoni, Marcella
Richard (Mangia, prega, ama)
Rose, Charlie
Rousseau, Jean-Jacques
Rovatti, Pier Aldo
Talete
Tarantino, Quentin Jerome
Tashtego (Moby Dick)
Taylor, Charles
Telemaco (Odissea)
Te Pehi Kupe
Tommaso d’Aquino, santo
Tranquo (Moby Dick)
Travolta, John Joseph
Tristano (Divina Commedia)
Zeus
– Odissea
– Orestea