IL libro “I filosofi e i selvaggi” lo considero un’ opera un po’ anomala nel panorama letterario del
genere, in quanto parte dalla storia personale accademica dell’autore: Sergio Landucci.
Questo libro ebbe una prima pubblicazione nel 1972, ma subito dopo cadde nel dimenticatoio
suscitando un' unica reazione, di stroncatura da parte dello storico Furio Diaz (Rivista storica
italiana), che definì Landucci “un filosofo marxista strutturalista”.
Da parte sua Landucci non si considerò mai in realtà un filosofo, ne tantomeno uno storico della
filosofia, preferendo considerarsi piuttosto uno studioso di storia della filosofia.
Quanto al marxista già allora si può dire per metà, infatti non apprezza di Marx quell’esaltazione
dello sviluppo produttivo, succube della mentalità borghese, preferendo piuttosto un Engels quando
scrive L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato.
Senza dubbio nell’autore vi è sempre stato un forte distacco verso quell’ideologia settecentesca del
progresso.
Così Landucci riprende a riflettere sul suo lavoro finché non gli capitano per le mani due titoli che
lo colpiscono, di Gilbert Chinard, che citerà spesso: L’exotisme américain dans la letterature
française au XVI siècle e L’amérique et le rêve exotique dans la littérature française au XVII et au
XVIII siècle.
Queste due opere trattano il tema del mito del buon selvaggio e della sua funzione di conservazione
sociale, portando, per tacita analogia, a riflettere sulle condizioni di vita dei contadini europei, come
anche loro vicini ancora allo stato-di-natura.
Cresce da qui in lui l’idea di elaborare degli studi che mirassero a concretizzarsi in un libro che non
sarebbe stato di certo una preistoria filosofica dell’antropologia culturale, bensì un lavoro di storia
delle ideologie, nell’accezione marxiana.
Progettava dunque un libro che si sarebbe inserito nel genere alla Giuliano Gliozzi (Adamo e il
nuovo mondo), suo contemporaneo.
Da lui però scelse di prendere un leggero distacco, sarebbe stato uno storico delle idee anziché,
come lui, delle ideologie.
Apprezzando comunque sempre la grande onesta intellettuale di Gliozzi nel portare avanti lo studio
con opere come “Le scoperte scientifiche e la coscienza europea”(1985).
Gliozzi riportava la fioritura degli studi sull’argomento al clima della decolonizzazione.
Fioritura impressionante, estesa in tutto il mondo dove troviamo infatti scritti di grandi autori citati
come Elliot, Duchet, Bitterli, Meek, Todorov, Pagden.
Oggi a distanza di 40 anni Landucci riprende in mano “I filosofi e i selvaggi” riconoscendo una
difficoltà di fondo nella presentazione dei temi nella prima edizioni, e ponendovi una risoluzione
con la nuova, alla quale aggiunge un capitolo di storia semantica -Barbarie e civiltà- .
È chiara dunque la volontà di allargare il pubblico su questi temi, non più quindi per soli accademici
o studiosi del settore, ma potenzialmente per tutti.
È Landucci che ci parla, prendendo in prestito via via la voce dei più grandi filosofi moderni,
ruotando sulle domande: che impatto ebbero le scoperte etnografiche provenienti dal nuovo mondo
su autori quali Hobbes, Montaigne, Locke, Vico, Rousseau? E sulle correnti di pensiero come, nel
Seicento, il libertinismo, e, nel settecento, la scuola scozzese di Ferguson, Adam Smith, Robertson?
Inizia così una ricostruzione, con estrema chiarezza, del panorama intellettuale sulle fondamentali
teorie e scoperte avvenute fino ad oggi: la possibilità di convivenza in assenza di stato, il
radicamento della religione in reazioni emotive profonde, la dipendenza dei modi di vivere dai modi
di soddisfare i bisogni primari, i costi della civilizzazione; in una rete di saperi e riflessioni il cui
centro è quindi la nozione stessa di civiltà, che per forza di cose ci riguarda tutti in quanto uomini.
Il libro è organizzato in sette capitoli, da notare è la volontà di Landucci di escludere le questioni
teologiche, relativamente ai popoli del nuovo mondo, e precisa che non si tratta nemmeno di un
libro sul mito del buon selvaggio, lo si accenna solo un paio di volte quando si parla di Rousseau.
Affronta così le tematiche con due prospettive, o come tema di storia delle ideologie o come un
vero e proprio mito.
Da una parte sarebbe naturale considerare l’impressionante diffusione del mito dei selvaggi, nell’età
moderna, in alternativa allo sviluppo della società mercantile e manifatturiera e di conseguenza le
sue relative ideologie( delle macchine, del lavoro, del progresso…), comunque sia rimane il fatto
che il tema dell’età dell’oro conservò presenza fino al Settecento.
Per quanto riguarda il mito, una delle opere più significative è quella di Freud Il disagio della
civiltà.
Nel libro viene indicato il momento in cui, nella civiltà occidentale, sia giunto ad espressione quello
scontento di fondo che gli uomini si porterebbero dietro nel corso della civilizzazione.
Landucci oltretutto è attento a non isolarsi mai nella categoria del primitivismo (inteso nella stessa
accezione di Lovejoy e Boas che avevano battezzato come soft primitivism, in opposizione a quello
che chiamavano hard), liberandosi dunque della contraddizione tra esso e l’idea di progresso.
Sono molti gli scritti che iniziano ad accumularsi da qui sull’ambivalenza tra il benessere civilizzato
della modernità e l’inconsapevolezza felice dei selvaggi.
Ne parla per esempio il teologo Juan de Mariana descrivendo una età dell’oro incredibilmente
liricizzata, o molti annuali gesuitici della nuova Francia (il Canada) che notando nei nativi una
totale assenza d’alcuna organizzazione della vita pubblica riportano frasi come “proprio non so se
forse non abbiano ragione loro a preferire la loro felicità alla nostra[…], perché è vero che non
hanno tutte quelle delizie che ricercano i figli di questo secolo; ma in compenso sono anche liberi
dai mali che lo affliggono”.
Ancora in un Locke tornerà l’ambivalenza, fino a un’altro clamoroso esempio che si avrà con
George Forster nell’assillo del confronto fra lo state of barbarism e lo state of civilization (<<la loro
natura ha un non so che delle bellezze del paradiso terrestre prima che vi entrasse il peccato>>).
Tra i temi ne emerge quindi uno globale: quello della felicità, cui autore centrale è Rousseau che ne
parla a proposito nel bonheur dei selvaggi.
Di seguito le notizie del nuovo mondo venivano ad insinuarsi in un genere dotto quale l’utopia e nel
contempo a consolidarsi nella cultura popolare.
Quanto poi al tema che pur avrebbero in comune le utopie, da una parte, e, dall’altra, le mitizzazioni
dei selvaggi, cioè la comunità dei beni, Landucci riporta la distinzione enunciata da Pufendorf, che
la divide in due tipi: positiva e negativa.
È sarà l’utopia a portare nel 1780 che in più parti d’Europa nascessero nuove parole come
antropologia e etnografia.
Interessante poi è che nello stesso senso si ha il passaggio da selvaggi a primitivi.
Da qui inizia una separazione fra le ricerche etno-antropologiche da una parte e dall’altra la fioritura
dell’esotismo.
Forse, come scrive Diderot, si deve all’ignoranza dei selvaggi la scoperta dei vizi della morale e
della legislazione nella formazione delle nostre società.
Il riflettere su questo, e sul come sia venuta meno la stessa immagine di uomo-di-natura e infine la
nozione stessa dei popoli selvaggi rinnovata nel Settecento è lo sforzo tentando e riuscito, a parer
mio, di Landucci in questo suo libro.
Personalmente mi ha interessato vedere come da un capo all’altro del mondo vi sono sempre state
manifestazioni simili, come se ci fosse una convergenza umana, una comune tendenza a sentire
delle cose nello stesso modo, dove l’anello è la natura dell’uomo, l’anima.
Ecco perché in tutte le culture esistono dei simboli, che siano feticci, croci, manitou, totem, oracoli,
comunque li si chiamino riportano tutti a un comune senso di rimorso, un peccato originale da
espiare nella cultura cristiana, ben fondato e comune. Da qui nasce la mia domanda: perché gli
uomini sono sempre stati deboli e indulgenti verso se stessi?
Questa domanda certo va oltre un Kant e una teoria della destinazione, e rifiuta la convinzione che
nella natura umana ci sia una propensione ad uno stato cultivated, un principio di progresso, più che
altro condivido l’opinione di Hobbes nel dire che purtroppo le società dipendono dalla paura
dell’altro e dall’amor di sé.
Ma dunque se la civilizzazione nasce dalla paura dell’ignoto e dalla foga di imporre all’altro, a
quello che non si conosce, il proprio sentire, la propria cultura, io mi distacco da questo processo e
seguirò unicamente le navi di chi è salpato per la curiosità, per la missione del viaggio, il più nobile
e importante, quello insegue la domanda: chi siamo?
Seguirò quindi chi ha abbandonato le proprie certezze per scoprire quante altre di nuove e diverse
ce ne fossero, scoprendo che la vera umanità, il vero scopo della cultura è guardare in faccia
l’ignoto, il selvaggio, e sentirlo proprio, sentirsi anche noi nel profondo, da qualche parte, sauvages.
Da qui penso infine che la felicità sia solo un fantasma, un'ombra che ognuno si raffigura dentro,
ma che la vera gioia sia la scoperta.
BIBLIOGRAFIA
S. Freud, Il disagio della civiltà, Milano 2010
F. Diaz., I filosofi e i selvaggi, <<Rivista storica italiana>>,1974
A. O. Lovejoy e G. Boas, Primitivism and Related Ideas in antiquity, Baltimora 1935
J. Mariana, De rege et regis institutione, moguntiæ, 1605
Diderot, Supplément au Voyage de Bougainville, Franch 1772
G. Chinard, L’exotisme américain dans la letterature française au XVI siècle e L’amérique et le
rêve exotique dans la littérature française au XVII et au XVIII siècle, Paris 1881-1972
G. Gliozzi, Le scoperte scientifiche e la coscienza europea, Milano 1985
Jean-Jacques Rousseau, Le passeggiate del sognatore solitario, Milano,1996