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Un cambiamento di significato è un cambiamento dell’essere.

David Bohm

Fare della propria vita un esperimento, questa divenne in seguito la mia


filosofia.

Friedrich Nietzsche

INDICE

1. Introduzione. p. 4

2. Tra magia e follia: l’alchimia di vita e psiche in Giordano


Bruno. p. 4
3. Dall’uomo medio all’uomo superiore: la psicologia iniziatica di
Roberto Assagioli. p. 23

4. L’oltre dell’arte: Julius Evola e il superamento del Dadaismo. p


38

5. Il pensare nell’assenza del Sacro: Elémire Zolla tra filosofia


perenne e modernità. p. 54

6. L’Arte come Via Iniziatica: Battiato attraverso Gurdjieff. p. 71

Nulla sapevo,
sono entrato,
ed ho veduto le cose segrete.

Papiro di Nu, Canto 116 – sec. XV a. C.

Introduzione
«Osare, volere, tacere» è un celebre motto alchemico che fa riflettere sul
senso della sfida che si è chiamati a intraprendere in relazione al cosiddetto
«lavoro su di sé» e non è casuale del resto che a proposito di certi percorsi
iniziatici si parli di proprio di «Via del Guerriero». Innanzitutto il coraggio, il
grande coraggio di spingersi oltre l’ignoto (il non ancora noto) sfidando così
una delle più grandi paure dell’essere umano, poi la volontà tetragona di
riuscire davvero a conoscere (integralmente e non solo intellettualmente) e
infine… il Silenzio. Perché il silenzio? Perché questo tipo di conoscenza non
è dicibile, non è più raccontabile. Di qui la sua secolare segregazione ma allo
stesso tempo il suo estremo fascino. Filosofia iniziatica: «amore per il sapere
non dicibile». Si rimembri il celebre monito del barcaiolo a Siddharta: «Un
dotto può trasmettere agli altri la propria scienza, ma un saggio non può fare
la stessa cosa con la propria saggezza. Essa va vissuta in prima persona».
L’oggetto della scienza (come anche della filosofia comunemente intesa) è la
verità comunicabile e dimostrabile, la religione si occupa invece di una
verità comunicabile ma non dimostrabile, la filosofia iniziatica ha a che fare
infine con una verità non dimostrabile[1] e non comunicabile: un compito
assai arduo, folle, quasi impossibile. Così fosse infatti senza l’apporto della
categoria dell’«esperienza» cioè della sperimentazione personale, che agisce
da matrice operativa nel milieu di tali «filosofie» poste sempre, nel corso
della storia, in un perpetuo dialeghestai caratterizzante e fondante.
Si tratta di esperire verità segrete che hanno da sempre viaggiato nel corso
della storia, dai tempi di Bruno (e finanche molto prima) ad oggi, ed è
proprio l’esperienza che «espone tali verità in evidenza» come direbbe Zolla:
sono verità relative a differenti contesti storici e a differenti tradizioni
filosofiche, mistiche e iniziatiche che però sono incessantemente risuonate
all’unisono nel silenzio che le divideva, insensibili alle distanze
spaziotemporali.
«Quando la mente è imperturbata il mondo è il mio mondo. Non c’è né giusto
né sbagliato, né preferenze né avversioni, né l’attaccamento ai fenomeni.
Quanto è compreso tra dolore e piacere o perdita e profitto è creato dalla mia
mente. E sebbene diciamo che il cielo e la terra siano immensi, non c’è nulla
da cercare fuori della nostra mente». E ancora: «E’ la natura del principio che
quando la forma cambia, la mente e il ki cambiano con essa. Il principio è
senza forma, ma esiste nel ki»[2]. Sono le parole del Samurai giapponese
Issai Chozanshi del feudo di Sekiyado, vissuto tra il XVII e il XVIII secolo.
Purtuttavia questo tipo di consapevolezza è possibile riscontrarla in un testo
di alchimia occidentale o in un testo di Bruno, così come nel Taoismo,
nell’Induismo o nello Sciamanesimo troveremmo la stessa identica idea di un
mondo fenomenico costruito nella mente - interessante come la stessa fisica
dei quanti dica oggi praticamente la stessa cosa[3]: tale sincretismo è
determinante in quanto è proprio esso che avvalora le filosofie iniziatiche.
Il sincretismo e la continuità sono paradigmi precipui di tali filosofie che a
livello accademico vengono definite «perenni»[4]: «Sono perfettamente
sovrapponibili il bramino praticante e il maestro platonico»[5], come
affermava Zolla.
Le convergenze (conformationes) tra autori e metafisiche differenti
costituiscono e caratterizzano ciò che prende il nome di «Tradizione», ossia
l’insieme delle filosofie iniziatiche o «perenni»[6], inabissate su di un ritorno
ciclico delle stesse verità che rimanevano celate per il volgo ma non per
l’iniziato che le cercava, le trovava e infine le incarnava. Egli attraverso la
koiné di tali differenti tradizioni sapienziali adempieva un percorso che
innanzitutto vede, in interiore homine, un fondamento divino da espletare ai
fini di un miglioramento, un’evoluzione incessante di sé. Tale percorso si è
sempre scontrato con i vari contesti storico-sociali: dal potere intollerante,
violento e inquisitorio della Chiesa ai tempi di Bruno alla società materialista
del mondo moderno che ha dato vita a un unico modello di spiegazione del
reale: quello positivista-meccanicista.
Gli iniziati hanno sempre dovuto trascendere il loro specifico Zeitgeist, con
un atto di grande sforzo, Evola diceva che dovevano alzarsi dalle vere e
proprie «rovine»[7] nelle quali erano (siamo) immersi, tanto drammatica era
(è) la situazione, un terremoto che ha raso al suolo le fibre nuomenali
dell’essere.
E’ il cammino del Risveglio (risveglio dal sogno che le visioni del mondo
dogmatiche e materialiste chiamano realtà), del ricostruire il mondo a partire
da se stessi. Il mondo che esiste fuori infatti, per le filosofie iniziatiche, non è
altro che il riflesso del castello interiore, ambula ab intra come evoca il
V.I.T.R.I.O.L.[8], in quanto solo lì è ubicata la «pietra filosofale» che può
trasmutare il Tutto in quanto «Tutto è Uno»: «Dalla trasmutazione
dell’interiorità umana tutto dipende? Dall’ordine dentro di me dipende quello
del mondo attorno a me? Se io divento pura e infinita luce, la materia attorno
a me sarà del pari trasmutata: dal mio carattere dipende il mio destino, dal
mio cuore il mio ambiente. I miei peccati sono lo spessore e l’asperità del
reale. Ardua, esoterica verità!»[9].
Ardua ed esoterica appunto. E per essa bisogna osare.
Bruno l’ha fatto, rendendo sacra (sacrificando) la propria vita ma Bruno era
un moderno, un uomo che, conscio dell’infinito valore del sapere che
custodiva, osava proporlo a chi quel sapere lo condannava tout court. Bruno
ha percorso il suo viaggio fino in fondo, per tutta l’Europa e al limite della
follia. E come Bruno anche gli altri iniziati saranno dei fuggiaschi e dei reietti
per la società. Folle e psichicamente instabile può apparire il giovane Evola e
la sua emarginazione, sull’orlo del suicidio già a vent’anni ma redento,
illuminato dall’arte dadaista e salvato dai testi buddisti. Folli possono
apparire per il volgo gli esperimenti artistico-esistenziali dell’avanguardia
colta del primo Battiato, pensiamo a Fetus o L’Egitto prima delle sabbie.
Sul tema follia-sanità si sono ampiamente soffermati sia Zolla che Assagioli:
è il tema senza tempo (perenne) del saggio scambiato per pazzo dalla società
che lo crede pazzo perché essa stessa, in primis, malata – il Mito della
Caverna non smetterà mai di essere attuale.
Bruno, anche se distante storicamente da tutti gli altri autori analizzati che
appartengono al mondo contemporaneo, agisce quasi da archetipo e salda il
profondissimo legame tra microcosmo e macrocosmo, come anche gli altri
autori a lui postumi faranno. Il loro è un sapere che non può non risolversi
nel fare, nel voler cambiare il mondo percorrendo la propria strada «al di là
del bene e del male», nell’unione inscindibile di conoscenza e reduplicazione
del sapere, theoria cum praxi, mente et malleo nella consapevolezza che il
mondo esteriore va cambiato da dentro. Il sapere diventa così «individuale»,
intimo, meditativo e silenzioso poiché figlio di un’esperienza che tale è - da
qui inoltre le provocatorie critiche di Zolla, Assagioli e Evola al concetto di
«uguaglianza»: non il progresso sociale ma la salvezza dell’iniziato,
dell’uomo superiore, di colui che ha osato: l’eletto, lui merita di essere
tutelato, non la moltitudine o come direbbe Dostoevskij l’«omnitudine»,
malata poiché istruita da una società malata, violenta, falsa, ipocrita e
massificante (proprio come ai tempi Bruno).
Per distanza «qualitativa», ad essa si oppongono gli iniziati, guerrieri senza
tempo. Un musicista che accorpa all’arte l’arte regia di una Via Iniziatica,
Battiato per oltre dieci anni alla scuola di Gurdjieff; un Bruno cultore di
un’enciclopedia mentale dai poteri sovraumani che sogna un’Europa,
dilaniata dalle guerre del Cristianesimo, unita sotto la bandiera di un
sofisticatissimo sapere perenne, intimo e di fatto non cristiano; un Assagioli
ideatore di un metodo di «sviluppo della sanità» in un mondo, quello della
psicologia del primo Novecento, concentrato solo sulla malattia; un erudito,
Zolla, che viaggia tra i siti di sciamani e mondi indegni di mezzo mondo e si
divora i saperi di tutti i tempi; un pittore, filosofo, esoterista, Evola, che
costruisce una fenomenologia dell’Individuo assoluto dalle ceneri della
sublimazione della contraddizione dadaista; sono distanti solo in apparenza:
come le onde-particelle della meccanica quantistica che screditando lo
spazio-tempo, si bilocano in continuazione raggiungendosi a velocità che
trascendono l’occhio meccanicista.
Dal punto di vista della volontà di scendere negli abissi della psiche, per
conoscerla ed evolverla, questi celebri autori palesano notevoli affinità.
Da qui credo bisogni partire per comprendere il fil rouge che li lega: se è vero
che non si dà una caratterizzazione diacronica di ciò che è perenne, éternelle
é soprattutto il fenomeno etico, fuori dal tempo, che assegna all’uomo il fine
ultimo di conoscere se stessi secondo il celebre monito delfico, e infine
contemplare il Fondamento di tutto ciò che è; un compito che di fatto è un
miglioramento, un oltrepassamento dei propri limiti, pratica questa tanto
antica quanto ancora in fieri ma che, grazie anche al contributo di questi
Autori, pur rimanendo «per tutti e per nessuno», è un gradino più vicina.
I saggi che compongono tale volume nascono dalla volontà di conoscere e,
per usare termini gurdjeviani, di accordarsi all’ottava della triade «coraggio-
volontà-silenzio» in limine alla quale deflagra proteiforme una rutilante
pienezza esistenziale, pienezza di vertigine, di meraviglia che, al di là delle
varie definizioni accademiche, riporta la filosofia al suo stadio primigenio in
quanto come ebbe a dire Platone: «è proprio del filosofo essere pieno di
meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare che questo essere pieno di
meraviglia».

Lucio Giuliodori
Tra magia e follia: l’alchimia di vita e
psiche in Giordano Bruno.

Indice:

1. La magia in Bruno e nel Rinascimento.


2. Vita e pensiero: una fuga in verticale.
3. Ginevra, Parigi, Londra: filosofia e spionaggio.
4. Dalla Germania a Praga, da Venezia alla morte.

ABSTRACT

Courage at the limit of madness and total identification with the magical act
heighten an intent that broadly transcended the contingencies of the real. This
essay on Bruno, by means of a brief excursus into the facts of his biography,
is meant to indicate, along with the Weltanschauung, the aspects of his
personality that will have been determinant and fundamental in the bold
cultural revolution foreseen by Nolan and which he attempted to bring about
with all his physical and psychic strength.
Coraggio al limite della follia e totale immedesimazione nell’atto magico
alimentarono un intento che trascendeva ampiamente la contingenza del
reale. Questo saggio su Bruno, attraverso un breve excursus della sua vicenda
biografica, intende evidenziare, come accanto alla Weltanschauung, gli
aspetti della sua personalità risultarono determinanti e fondanti nell’ardita
rivoluzione culturale che aveva in mente il Nolano e che provò ad attuare con
tutte le sue forze, fisiche e psichiche.

L'idea che la verità fosse dalla parte contro cui si schieravano solidalmente
tutti, in un certo senso per me rispondeva a una determinata legge
sovrasensibile.

Massimo Scaligero

Se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee o le sue
idee non valgono nulla o non vale niente lui.

Ezra Pound

Togliete a un cristiano la paura dell'inferno e gli avrete tolto la fede.

Denis Diderot
1. La magia in Bruno e nel Rinascimento

Percependosi al centro dell’universo, l’uomo rinascimentale vuole decifrare


la sua posizione ma il dogmatismo non gli basta più, ora vuole capire e vuole
farlo tramite strumenti pratici, operativi. Le prospettive gnoseologiche che di
fronte ai suoi occhi si amalgamano tra loro, solo agli occhi di un sapere
«moderno» e settorializzato sono dissimili: astrologia, alchimia, religione,
magia, filosofia e scienza compongono quel mirabile mosaico[10] che nella
ricchezza culturale rinascimentale riusciva a nascere, a vivere e a convivere
in un armonioso divenire in cui l’io rifletteva il mondo, il macrocosmo
esisteva pervadendo il microcosmo e il mago era colui in grado di tradurre i
simboli che specchiavano i due mondi[11]. In pochi anni vennero resi
disponibili, tutti insieme, mirabili tesori culturali, opere indispensabili per
spiegare la profonda trasformazione, interiore prima di tutto, avvenuta in quei
grandi individui che del Rinascimento divennero i protagonisti. Cosimo de’
Medici commissiona a Ficino la traduzione del Corpus Hermeticum e dei
testi di Platone, opere fondamentali per la formazione della «visione olistica»
rinascimentale[12]. Ficino non crede ai suoi occhi quando scopre che amore e
brama diventano strumenti conoscitivi, che grazie all’amore, anche sessuale,
si può giungere alla contemplazione del bello in sé[13]. Vengono tradotti
anche Proclo, Porfirio, Giamblico e Dionigi l’Areopagita. Con la fondazione
dell’Accademia Platonica chiesta da Ficino e patrocinata da Lorenzo il
Magnifico, si convogliano a Firenze tutti i testi dell’antichità fino a quel
momento sconosciuti: il sussulto culturale è enorme, i dotti del tempo ne
vennero influenzati e modificati in un modo per noi probabilmente
inimmaginabile. E soprattutto, fattore decisamente rilevante, «tutta la grande
tradizione magica del più lontano o più recente passato viene inserita in un
nuovo orizzonte, i cui confini sono definiti da una cornice platonico-ermetica,
che non viene più intesa in antitesi alla grande tradizione cristiana»[14].
Platone dunque è ciò che lega, miracolosamente, il cristianesimo alla magia, a
questa magia. Platone subentra ad Aristotele e tutti i più celebri filosofi,
artisti e scienziati del tempo come Pico, Ficino, Cusano, Poliziano, Alberti,
Galilei, Lorenzo il Magnifico e ovviamente Bruno, considerano la magia una
sapienza totale ed esclusiva. Indicativo è che perfino Pomponazzi, noto
aristotelico, sembra addirittura voler spiegare tutto il fenomeno religioso in
termini di magia pratica:

«La si chiami magia perché solamente i più sapienti tra gli uomini la
capiscono, e le cose più segrete appartengono ai sapienti e il termine mago
in persiano significa sapiente. È per il popolo che si sono introdotti angeli e
demoni, ma quelli che li hanno introdotti sapevano bene che non potevano
affatto esistere. Ma gli uomini volgari che non sono filosofi, in realtà sono
come bestie […]. Il linguaggio delle religioni come dice Averroé nella sua
poetica, è simile a quello dei poeti […]. Tali favole servono a condurci alla
verità e ad istruire il volgo rozzo che è necessario condurre al bene e
ritrarre dal male, come si fa con i bambini con la speranza del premio e la
paura della pena»[15].

Conforme a questa visione era la concezione della magia che aveva Bruno, il
quale non vedeva certo nella figura del mago «un qualunque balordo
scellerato, che dal rapporto, o addirittura dal patto, con un demone malvagio
è messo in grado di danneggiare o giovare» come avviene «nell’uso
improprio che di tale appellativo viene fatto da quei bardocuculli quale fu
l’autore del libro intitolato Il martello delle streghe; e così oggi esso viene
usato a sproposito da tutti gli scrittori di tal fatta, come è possibile leggere
nelle postille e nei catechismi di preti ignoranti e vaneggianti»[16].
Al contrario la magia di Bruno si collocava su un piano superiore, elitario,
puro, nobile.
Per capire cosa potesse significare «magia» al tempo di Bruno, ci si può
riferire all’arte, all’attività creativa propria dell’artista. La magia era infatti
un’arte, un’Ars Regia per l‘appunto[17]. Nella nolana filosofia quest’arte
oltre che regale, assume anche una caratura divina: «Un’ansia di sapere che
accomuna l’uomo a Dio, perché anche nella divinità esisterebbe (secondo il
Nolano) l’inappagata sete di sapere ascendente progressivamente a nuovi
vertici. Simile alla creatività dell’artista che traendo la propria forza
direttamente dall’assoluto, aspira ad opere sempre più sublimi. Un artista con
simile energia, che l’assimila addirittura alla divinità è in realtà un «homo
liberales atque humanus», un sapiente. Esattamente come sostiene
Dürer»[18].
Il tema della magia, è centrale tanto in Bruno quanto nella cultura
rinascimentale in generale, la Yates addirittura sostiene che esso sia stato
determinante anche per ciò che è scaturito in seguito alla Rinascenza; la
studiosa è perentoria al riguardo ritenendolo «un tema di importanza
assolutamente fondamentale per la storia del pensiero: la rilevanza, cioè, della
magia rinascimentale quale fattore responsabile di mutamenti decisivi nelle
concezioni degli uomini»[19]. La magia «deflagra» presso gli Egizi per poi
implodere coi Greci i quali consideravano l’attività pratica una vile
degenerazione di quella veramente degna e cioè la pura speculazione
razionale. Col Cristianesimo invece la magia non solo rimase implosa ma fu
addirittura condannata: la teologia spodestò il trono della filosofia e molto
spesso le attività pratiche da essa dissenti venivano semplicemente bollate
come demoniache[20]. Il Rinascimento dunque, proprio attraverso la ripresa
(pratica) della magia, intesa quale forma di gnosi operativa, si proietta
nell’epoca moderna attraverso una specificità per molti aspetti rivoluzionaria.
Solo nel Rinascimento abbiamo questo picco alchemico di sapienza
«integrale», pratica e al contempo spirituale; sarà poi la stessa modernità a
recidere tale splendida creatura ereditata dalla cultura ermetica esasperando
l’aspetto pratico, avulso però stavolta, fatalmente, da quello «religioso»; la
separazione cartesiana di res cogitans e res extensa decreterà poi il definitivo
distacco dallo spirito e da una concezione magica della gnosi e ciò
provocherà il trionfo del meccanicismo e l’ascesa del positivismo che
traghetterà il pensiero scientifico e filosofico in «acque sicure» sino alle
soglie dell’età contemporanea quando il Quantismo, inaspettatamente,
provocherà quell’inimmaginabile maremoto meta-fisico che ricatapulterà
platealmente la storia laddove Bruno l’aveva lasciata, o cominciata.
Per addentrarsi dunque nella vicenda bio-bibliografica di tale colossale
protagonista del pensiero, il «conoscere operativo» va considerato come
l’aspetto a priori che ne regola la psicologia: l’abilità magica è propedeutica
ad un élan vital che permea il lebens Welt nelle sue ramificazioni sia interiori
che esteriori. Tale slancio è sì vigoroso in Bruno da assumere sovente aspetti
folli in cui l’eroico furore traccia le linee, sempre imprevedibili e spesso
incomprensibili, di un esistente in divenire, tracciato e scavato di continuo,
pensato e ripensato, attuato e cancellato, finito e ricominciato, sospeso a volte
dall’inadeguatezza del mondo esterno al suo intento, due mondi paralleli
sebbene opposti, che in fine confluiranno ineluttabilmente nell’abisso della
morte. E lo faranno per via della totale estraneità del filosofo al reale
circostante: un nemico da sfidare, da sfidare in quanto sproporzionato alla sua
filosofia, al suo progetto di rinnovamento del mondo, un mondo per lui,
filosofo dell’infinito, rimasto ingabbiato in un passato che trascende il tempo
stesso. L’estraneità che provava Bruno al cospetto del suo tempo è
paragonabile alla distanza del nostro sguardo su di esso, questo perché Bruno
era un inattuale, pensava, parlava e agiva da moderno, da contemporaneo, da
uomo che tutt’ora non è ancora arrivato.

2. Vita e pensiero: una fuga in verticale.

Bruno era avido di sapere, la sua sete di conoscenza doveva essere appagata e
nel tardo Cinquecento l’unica strada percorribile per adempiere tale desiderio
era la carriera ecclesiastica. Entrando in convento, Bruno entra in una sorta di
«laboratorio spirituale»: non solo si immerge nello studio, approfondendo
particolarmente Tommaso e Aristotele (di cui diverrà il maggior conoscitore
del suo tempo, sapendolo praticamente a memoria), ma comincia ad affinare
e potenziare quello che sarà uno degli strumenti precipui della sua magia,
l’arte della memoria appunto, la capacità di immagazzinare quantità enormi
di dati[21]: Bruno era praticamente un’enciclopedia vivente. Come si vedrà
più avanti però questa arte non si attiene esclusivamente alla straordinaria
capacità di ricordare, essa piuttosto si eleva a vera e propria abilità magica,
strumento di trasmutazione dell’essere, reale autosuperamento: «Quest’arte
non serve soltanto ad acquisire una semplice tecnica mnemonica, ma apre
anche la via e introduce alla scoperta di numerose facoltà»[22].
Ma quali esattamente gli studi di Bruno? Oltre ad Aristotele, al quale ogni
pensatore del tempo doveva rigidamente attenersi, il suo apprezzamento si
concentrava su Tommaso, Alberto Magno, Lullo, Plotino, Proclo, Giamblico,
Porfirio, Erasmo, Epicuro, ovviamente Platone (del quale ricorda a memoria
vastissimi passi) e ovviamente Cusano, che considerò precursore di
Copernico. Dal Corpus Hermeticum infine, Bruno trasse forse il più grande
giovamento intellettuale[23].
Bruno, pur essendo pienamente un pensatore e un uomo rinascimentale era a
tutti gli effetti un inattuale. Fu anticipatore di temi relativi all’esistenzialismo
in ambito filosofico e al quantismo in ambito scientifico[24], ma non va
scordato che Bruno fu anche il primo illuminista. Come afferma Franco
Cardini: «Giordano Bruno è senza dubbio uno dei grandi pensatori
dell’Europa moderna; è un filosofo penetrante, che anticipa non solo temi e
argomenti della grande cultura libertina e illuministica, ma, che addirittura
precorre alcune tesi scientifiche affermatesi in tempi a noi molto vicini»[25].
Il giudizio di D’Amico conferma e approfondisce: «Dopo Ginevra egli si
avvia a diventare il primo «illuminista», il primo pensatore oltre il
cristianesimo, il primo maestro del sospetto veramente moderno: inizia il
cammino segreto verso la sua nuova religione egizia»[26]. In seguito verrà
spiegata la genesi e lo sviluppo di questo occulto cammino. Oltre e solo oltre
tutto questo, Bruno fu un eminente rinascimentale, per nulla epigono di
un’epoca al tramonto quanto piuttosto:

«L’annunciatore di una nuova era, e il Rinascimento in lui, come in fondo


in Campanella, si fa profezia, si carica di una componente apocalittica,
ovvero diviene dis-velamento di un futuro carico di inaudite possibilità
esistenziali per l’uomo. In nessuno come in lui, con l’eccezione forse di
Lutero in campo religioso, il Rinascimento mostra il suo volto
rivoluzionario e innovativo, e la cultura, i tanto declamati classici, vengono
davvero letti, ovvero attualizzati come forze vive, capaci di modificare
l’oggi e di fornire gli elementi per progettare un futuro radicalmente altro.
Il resto, tutto il resto, è pedanteria»[27].

Come giustamente sottolinea Massimo Donà: «L’uomo non è in sé unico e


irripetibile, ma può solo diventarlo, facendosi «eroe», ossia attivando un vero
processo di purificazione interiore, che nulla ha in comune con i doni gratuiti
della divinità o i destini naturali. Tutto per Bruno è in perenne
trasformazione; ognuno può contribuire, liberamente o responsabilmente, a
modificare l’ordine dato, diventando in tal modo «mago» poiché in grado di
un agire sapiente»[28]. L’elaborazione filosofica del Nolano consta dunque
di «una straordinaria potenza speculativa e immaginativa, una ricchissima
ontologia, una rigorosa gnoseologia e una raffinata antropologia»[29]. Ma
oltre tutto ciò sta l’agire, il sapiente agire, in quanto la magia è pratica.
Ciò che interessa Bruno non è un sapere puramente intellettuale o tanto meno
dogmatico, ciò che egli cerca è una conoscenza realmente in grado di
trasformare l’uomo, di plasmarlo da dentro, di trasmutarlo in quanto la vera
filosofia è quella che brucia, si ha verità solo quando si ha trasmutazione[30].
In questi termini Bruno risulta essere una colonna fondamentale di tutta la
tradizione esoterica occidentale, quella che riconosce l’esperienza quale
garante del vero e l’iniziato quale sperimentatore di esso: soggetto e oggetto
ineluttabilmente entangled. Ancora D’Amico precisa al riguardo:
«Pienamente uomo del Rinascimento, qui del tutto vicino alla grande scuola
platonica e neoplatonica e agli insegnamenti della tradizione ermetica, Bruno
cerca e si fa banditore di un sapere che intanto è vero, in quanto capace di
trasformare compiutamente l’uomo stesso. Conoscere significa morire e
rinascere, lasciarsi completamente trasformare dal fuoco divino dell’unica
verità, dell’unica sapienza»[31].
Questa verità venne cercata e cercata di proporre incessantemente,
impavidamente, frattalicamente in tutta Europa. Ma si tratta di una verità
difficilissima da accettare, perfino oggi, e il coraggio di Bruno tuttavia, che
trascende se stesso rasentando la follia, cercò di innescarla come una mina
esplosiva in ogni contesto in cui il suo genio erompeva. Bruno era destinato a
vagare, alla ricerca dell’approvazione della sua portata umana e filosofica (lui
e la sua verità insieme) in un mondo che però era estremamente chiuso e
intollerante. In quest’ottica il motivo del viaggio diventa centrale nell’analisi
anche psicologica del suo transito terrestre. Difficile immaginare quanto
pericoloso potesse essere nel Cinquecento viaggiare in tutta Europa come
faceva lui: le vie di comunicazione erano impraticabili o per lo meno incerte,
soprattutto in inverno e le foreste erano infestate da banditi, soldati,
mercenari e sbandati di vario genere. Viaggiare per centinaia di chilometri da
soli e disarmati significava sfidare la morte di continuo, significava essere
folli o semplicemente significava avere un’estrema sicurezza nei propri
mezzi, un coraggio da vendere. Ebbene, tutte caratteristiche incredibilmente
amalgamate insieme nella personalità del Nolano.
Ma in sostanza perché sfidare la morte costantemente? Quale l’enorme
guadagno che brama il filosofo? Tutto converge nel tema centrale della sua
esistenza: l’attuazione di quel progetto ardito sognato per tutta una vita.
Bruno vuole trasformare l’uomo, l’Europa, il mondo: vuole sostituire il falso
e corrotto Cristianesimo con una nuova religione di derivazione egizia, vuole
convincere papi e sovrani, vuole scardinare i vertici del potere di mezza
Europa e infine, vuole essere lui il sacerdote supremo di questa «nuova»
visione del mondo. «La superiorità degli Egizi consiste ai suoi occhi nell’aver
compreso che tra Dio e uomo non c’è frattura, scarto incolmabile, ma al
contrario comunicazione, relazione, continuità.
Perciò sia pure «per ombre», all’uomo è dato conoscere, come in uno
specchio, e in virtù di una originaria similitudine, la verità di Dio, e quindi la
giustizia che tutto infine compone»[32].
Per realizzare questo suo ambizioso progetto, Bruno visse una vita da
fuggiasco, costretto a scappare di continuo, con l’Inquisizione sempre in
agguato, praticamente visse come un criminale e per un periodo lavorò anche
come spia.
Il rischio che corse era costantemente altissimo, la protezione dei mecenati e
dei potenti non sempre era costante e tra uno spostamento e l’altro talvolta
era costretto a vivere di stenti o comunque umiliandosi con dei lavori
ampiamente al di sotto del suo spessore intellettuale. Ma mai demorse,
sempre solo contro tutti, contro la Chiesa, contro i poteri politici, contro muri
invalicabili per i comuni mortali, da lui incessantemente scalati, scavalcati, a
volte abbattuti perfino con l’impeto del suo intento.
La domanda da porsi è: dove trova Bruno la sicurezza estrema che lo porta ad
inseguire quel folle sogno irrealizzabile? Goethe asserisce che «per tutte le
azioni di iniziativa e di creazione esiste una sola regola elementare... che nel
momento in cui ci si impegna senza riserve allora anche la provvidenza si
muove. Un'infinità di cose accadono in favore di qualcosa che altrimenti non
si sarebbe mai verificato. L'audacia ha in sé genio, potere e magia».
La studiosa Nicoletta Tirinnanzi sottolinea come il filosofo abbia
esplicitamente additato all’esigenza della conquista di una dignità e un
primato esistenziale che si concreti proprio nel coraggio e nell’eroismo:

«Questo può accadere, secondo Bruno, solo se l’uomo affina al massimo


grado la propria umanità, con uno sforzo che lo trascina oltre il limite
naturale e che attraverso la ricerca intellettuale lo trasforma in «sapiente» ed
«eroe». E’ questa scrive il Nolano, la quinta e ultima classe dei viventi: oltre
al piano degli esseri dotati di ragione e intelletto sta infatti la dimensione
eroica, cui si accede non per destino naturale, né per beneficio divino, ma
solo attraverso una scelta consapevole e a costo di un lungo, faticoso
travaglio. […] L’ordine gerarchico delle realtà può essere sovvertito
dall’azione responsabile dell’uomo, che nel momento in cui impara a
conoscere e plasmare la natura impara anche a plasmare il proprio destino,
cosi da sottrarsi alla condizione ferina e diventare sapiente e divino. Dalla
speculazione svolta nella Lampas emerge pertanto il primato della ricerca e
della praxis, strumenti essenziali per il conoscere e modificare la natura: ed è
alla luce di questa consapevolezza che Bruno decide di confrontarsi,
programmaticamente con la magia»[33].

Giordano Bruno, prima che essere un sacerdote domenicano, un filosofo e un


letterato, era un mago, la cui dirompente personalità era saldata dallo slancio
dell’eroico furore, animata e pervasa dal rapporto erotico con la verità: osata,
voluta, vissuta, fino alla morte. La magia alimentava costantemente lo
slancio, la sicurezza interiore, l’«illusione» di vedere un obiettivo
lontanissimo, come fosse davanti ai suoi occhi. La spropositata sicurezza nei
suoi mezzi e nelle sue possibilità si rivelava a volte quasi come una sorta di
strumento «allucinatorio» che alterava la percezione della realtà, una realtà
per altro già «provocata» con l’atteggiamento irruento, irriverente,
dissacrante, oltraggioso e talvolta ingenuo del pensatore nolano. La fuga dal
Convento è una fuga dal mondo, dal mondo interiore prima di tutto, è un atto
di superamento, l’abdicare ai limiti imposti dall’esteriorità, l’impossibilità di
rimanere nei confini dati, prescritti, ordinati e condivisi.
Quello della fuga dal Convento dei Domenicani di Napoli nel 1576, è il
primo dei tanti atti folli compiuti dal celebre mago; le posizioni filosofiche di
Bruno, che a stento riesce a trattenere, ineluttabilmente divengono note e un
primo processo sta per essergli intentato. La decisione di Bruno è bruciante e
del tutto inimmaginabile: scappare!
Questa decisione è folle per diversi aspetti: innanzitutto è come
un’ammissione di colpevolezza, in secondo luogo la possibilità di essere
arrestato implicherebbe una pena che sarebbe sicuramente maggiore al
processo in sé, in terzo luogo lascia quello che per certi versi è un nido
sicuro, garanzia di pace, sicurezza economica, protezione da parte del più
potente ordine monastico europeo e, ovviamente, possibilità di studiare in
tutta tranquillità. Ma è proprio questo il punto: studiare che cosa?
Il rifiuto del Cristianesimo è pressoché già totale e il filosofo preferisce
votarsi ad una vita di stenti, pericolosissima e sempre sull’orlo della
catastrofe piuttosto che rimanere fisicamente al sicuro ma mentalmente
imprigionato dentro le anguste mura dei dogmi ecclesiastici. Bruno «evade».
La sua visione dell’uomo, della cultura e del fenomeno religioso sono
inconciliabili con la violenza e l’intolleranza della Chiesa cattolica[34]. Egli
non fugge per paura ma anzi la stessa fuga denota un folle coraggio. Via da
Napoli verso Roma, Savona, Torino, Venezia, Padova e infine a Chambery
ospite di un convento domenicano. Qui Bruno racconta del processo a suo
carico a un confratello esponendosi ancora di più nella sua già delicatissima
posizione. Perché? Ecco uno dei tratti fondamentali della personalità del
Nolano: egli non riesce a nascondere le sue idee, vuole anzi renderle
pubbliche, essere conosciuto a tutti i costi, non solo, ma vuole essere
conosciuto per quello che è: un eretico. Un filosofo che propone una visione
nuova dell’uomo e del cosmo, una visione che è in aperto contrasto con
quella consentita, quella della Chiesa.
Si sposta alla ricerca di luoghi che gli consentono di esporre il suo pensiero,
in ogni luogo si espone più o meno maggiormente a seconda delle circostanze
e non appena valuta pericolosa la situazione creatasi, non appena capisce che
il relativo nido di pace che si è costruito abilmente possa cedere, lascia
immediatamente il luogo in cerca di uno migliore nella consapevolezza che:
«Al vero filosofo ogni terreno è patria»[35]. Sembra di risentire la sua eco in
Cioran – «Un uomo che si rispetti non ha patria»[36]. Questo suo slancio
costante verso l’ignoto, questa assenza di nostalgie o rimpianti per il passato,
questo anelare al futuro incessantemente, inseguirlo, anticiparlo perfino,
l’essere gioiosamente apolide è un tratto del tutto moderno della personalità
del Nolano. Più che come una condanna vive il suo esilio come un
affascinante opportunità per diffondere la sua filosofia, per stringere contatti
con personalità importanti, influenti politicamente, per cercare di proporsi e
lavorare come professore nelle migliori Università del tempo, altro sogno
incessantemente inseguito ma mai raggiunto: il mondo accademico era sotto
il controllo culturale della Chiesa cattolica, impossibile per un pensatore
come Bruno inserirvisi con successo e approvazione. Tuttavia egli tenta e
ritenta incessantemente.
Si è accennato all’affinità del pensiero bruniano con l’esistenzialismo, tesi
che trova riscontro nel concetto di responsabilità che l’individuo introietta
una volta divenuto lo specchio di un cosmo infinito che proprio dentro di lui
scorre e scorrendo aziona quelle potenze magiche che di divino possiedono
l’essenza più che la giurisdizione: è l’uomo che sprigiona potenza, potenza in
libertà.

«Bruno è il primo filosofo a considerare il valore dell’umano in quanto


tale, al di là di qualunque riferimento alla trascendenza: infine il senso
ultimo della sua figura è questo. In lui la modernità si annuncia come
ateismo e come la solitudine gioiosa e ubriacante dell’uomo in un cosmo
che è al tempo stesso divino e disabitato da Dio. La vertigine dell’infinito
in Bruno è in realtà una vertigine tutta interiore, dalle tinte morali,
spirituali, esistenziali più che realmente cosmologiche»[37].

Bruno vede prima di molti altri che la morte di Dio, quel Dio, è essenziale per
un recupero della dignità umana, quella dignità già decantata da Pico che
presenta l’uomo quale creatore del proprio destino, responsabile e non vittima
di esso, protagonista della vicenda terrena in completa libertà[38]. Il rifiuto
del Cristianesimo è la pars destruens della nolana filosofia:

«La magia, l’ermetismo, il recupero della religiosità egizia esprimono il


suo sforzo di dire l’indicibile, sono gli strumenti utilizzati per forgiare un
nuovo alfabeto e una nuova grammatica dello spirito: come esprimere
infatti l’idea che l’uomo è solo nel cosmo, ma che questa solitudine è piena
di un’accecante luminosità? Come dire che la libertà è assoluta, tutta la
tradizione menzogna, il cristianesimo favola, l’uomo il lucido occhio pieno
di stupore con cui una natura tutta divina e animata, ma cieca, può
contemplare il proprio volto?»[39]

La via che porta al superamento della tradizione criticata è dunque quella di


una gnosi inclusiva dell’operatività quale a priori della magica filosofia,
dimensione, come già detto, assente nella speculazione greca, interamente
avviluppata al lato esclusivamente noetico del sapere, ed espulsa da quella
cristiana.

3. Ginevra, Parigi, Londra: filosofia e spionaggio.

Nel 1579 Bruno è a Ginevra, allora nota per la sua tolleranza culturale e
diversità religiosa, cosmopolita e aperta agli intellettuali di tutta Europa,
insomma un luogo indubbiamente invitante per uno come Bruno che vi ci si
precipita subito dopo Chambéry.
Qui il pensatore segue i corsi di filosofia di Antoine Le Faye, uno dei
personaggi più noti e politicamente influenti della città, il quale però
filosoficamente non sembra raggiungere alti livelli di competenza, di questo
Bruno se ne accorge subito e siccome nelle aule ginevrine non è consentito
manifestare liberamente il proprio pensiero, Bruno che non può tollerare la
bassa competenza del suddetto professore e che al contempo non vede l’ora
di mettersi in mostra nella nuova città, pubblica un opuscolo nel quale
denuncia ben venti errori in una sola lezione da parte di Le Faye.
Bruno viene arrestato, dovrà umiliarsi di fronte ai giudici, pentirsi e chiedere
pubblicamente scusa. È la prima di una lunga serie di umiliazioni che il
filosofo dovrà tristemente subire, e con difficoltà estrema considerando il
carattere orgoglioso del Nolano, fiero delle sue idee, cui tiene più della vita
stessa.
Oltre all’umiliazione si aggiunge la fine del sogno di entrare nel mondo
accademico, l’Università infatti lo espelle. Sarà un cliché che si ripeterà
costantemente al quale Bruno alla fine, tristemente, si abituerà. Ma è
significativo poiché è il primo. È qui che nasce concretamente il dissidio,
insanabile, tra Bruno e il Cristianesimo, un dissidio che lo vede protagonista
non solo sul piano intellettuale ma umano ed esistenziale in primis. E proprio
per il fatto che tutto ciò abbia avuto luogo nella Ginevra calvinista è ancora
più significativo: d’ora in avanti il Cristianesimo al di là delle sue
confessioni, sarà visto come veicolo di oscurantismo e intolleranza e se prima
di Ginevra era anche pensabile un riavvicinamento di Bruno a questa
religione, d’ora in poi tutto il suo pensiero e le future opere saranno intrise di
una dura polemica anticristiana, basti pensare allo Spaccio de la bestia
trionfante pubblicato a Londra 1584 [40].
Non è solo la guerra tra Giordano Bruno e la Chiesa, è la guerra tra la
ricchezza dello spirito dell’Umanesimo e l’Europa ormai solcata dalle
divisioni religiose che scateneranno la Riforma protestante.
Dopo Ginevra, Tolosa per un breve periodo poi l’importantissimo approdo a
Parigi, alla corte di Enrico III[41].
Personalità fondamentalmente laica, amante di tutto ciò che proviene
dall’Italia, Enrico III concesse finanziamenti a quasi centocinquanta
intellettuali e artisti italiani. Egli non poté dunque non prestare attenzione a
Giordano Bruno, l’ormai celebre fenomeno emergente della cultura europea,
al quale, per lo meno ufficialmente, il re di Valois si rivolge per essere edotto
sull’arte della memoria, di cui Bruno è maestro indiscusso.
Tuttavia, considerando la visione fortemente unitaria del sapere che
caratterizza tutto il Cinquecento, nella quale politica, filosofia e religione
vengono spesso intrecciate insieme in un afflato tipicamente rinascimentale, è
facile pensare che il re abbia in mente fini politici e infatti cosi è: nel 1583
Giordano Bruno parte per l’Inghilterra con una lettera di accompagnamento
del re al seguito dell’ambasciatore di Francia Michel de Castelnau. Questo
fatto è fondamentale per capire la magnetica personalità del Nolano, il quale
non è semplicemente un «filosofo» (né tanto meno un filosofo «con la testa
tra le nuvole»), è un individuo al quale un re può affidare un’importantissima
e delicatissima missione politica in un altro paese. Bruno ovviamente ne è
lusingato e ricambia con la dedica della sua prima opera stampata a Parigi: Le
ombre delle idee[42]. Una costante questa: Bruno dedicherà sempre le sue
opere a re e personalità di rilievo, per riconoscenza e per ricevere protezione,
quella protezione di cui aveva estremo bisogno muovendosi come un
fuggiasco ricercato dall’Inquisizione in un’Europa dilaniata dalle guerre del
Cristianesimo.
Il rapporto di stima tra Bruno e Enrico III è profondo e reciproco e va
ampiamente al di là del mero aspetto culturale:

«Ora è difficile immaginare che il re di uno degli stati più importanti


d’Europa concede lettere di accompagnamento e la protezione del suo
ambasciatore a un filosofo in base a semplici motivi di interesse culturale!
[…] Enrico intuisce che questo mago dalla memoria straordinaria e dalle
idee cosi ricche e imprevedibili può rientrare in una più vasta trama di
azione politica in Europa: Bruno va protetto, va aiutato, ma va anche
inviato là dove più utile può rivelarsi la sua presenza, in quella delicata
partita a scacchi che si svolge sul continente, insanguinato dalle guerre di
religione»[43].

Bruno dunque si presenta a Londra nell’aprile del 1583 a Salisbury Court, fra
Flee Street e il Tamigi dove risiede Castelnau, agisce al servizio di Sir
Francis Walsingham sotto il falso nome di Henry Fagot per svolgere un
segreto lavoro di spionaggio contro lo stesso Castelnau che lo ospita,
trafugando documenti e informazioni importanti[44]. In sintesi: «Fagot era un
sacerdote italiano di convinzioni antipapiste, che scriveva sotto falso nome ed
era venuto ad abitare a Salisbury Court poco prima della metà dell’aprile
1583»[45].
Al di là dell’appurata identità, ciò che interessa ai fini dell’indagine
psicologica dell’uomo Bruno, è come egli visse questa missione. Interessante
è l’episodio in cui Bruno scrive di suo pugno alla Regina Elisabetta riguardo
al mercante Pedro de Zubiar, al quale estorse notizie sotto confessione –
Bruno-Fagot infatti operava in ambasciata in qualità di sacerdote cattolico.
Fagot rivela alla Regina che il suddetto mercante aveva ricevuto l’incarico di
ucciderla ma Bossy sostiene che questo sia un falso colossale. In sostanza
Bruno vuole acquistare meriti agli occhi della sovrana e ciò rivela ancora una
volta l’arditezza ma anche l’ingenuità di Bruno che gioca pericolosamente
con i fili di un potere che potrebbe ritorcerglisi contro in ogni momento ma
che lui usa e abusa fin quanto può, come nel suo stile, per poi lasciarlo e
cercarne un altro. Un altro paese, un’altra Università, un’altra sua opera con
una dedica diversa a un altro personaggio potente che possa proteggerlo e che
possa appoggiarlo e comprenderlo nel suo progetto di instaurare la nuova
religione-filosofia di matrice egizia che soppianti definitivamente il
Cristianesimo per il quale nutre ormai un disprezzo dichiarato, riscontrabile
ad esempio nel Candelaio, il dialogo di grande successo pubblicato a Parigi
nel 1582 [46].
In Inghilterra comunque Bruno non si limita solo a fare la spia, vuole fare il
professore universitario ovviamente, la strada che tenta in ogni paese in cui
mette piede e che poi lo costringe ad andarsene.
A Oxford si presenta con una lettera che definire autocelebrativa è un
eufemismo e comunque rivelatrice di quella grande considerazione che il
Nolano ha di sé, quella smisurata sicurezza, alimentata per altro da anni di
pratiche magiche che rendono Bruno sempre più consapevole delle proprie
possibilità, al di là dell’ordinario, almeno secondo lui:

«Philoteus Jordanus Brunus Nolanus, dottore di una più astrusa teologia,


professore di una sapienza più pura e innocua, noto nelle migliori
accademie europee, filosofo di gran seguito, ricevuto onorevolmente
ovunque, straniero in nessun luogo, se non tra i barbari e gli ignobili,
risvegliatore delle anime dormienti, domatore dell’ignoranza presuntuosa e
recalcitrante, proclamatore di una filantropia universale, che non preferisce
gli Italiani ai Britanni, i maschi alle femmine, le teste mitrate a quelle
incoronate, gli uomini di toga a quelli d’arme […] Che è odiato dai
propagatori di idiozie e dagli ipocriti, ma ricercato dagli onesti e dagli
studiosi, e il cui genio è applaudito dai più nobili»[47].
Purtroppo si ripete il consueto cliché: gli oxoniensi agli occhi di Bruno sono
solo pedanti e lui non riesce a convincerli della sua superiorità intellettuale,
saranno tratteggiati negativamente ne La Cena de le ceneri[48], bollati come
«porci».
E’ come se Bruno non riuscisse a relazionarsi col prossimo se non nell’ottica
della sfida, della battaglia, dell’umiliazione certa dell’avversario, un
avversario che però troppo spesso è più forte di lui, politicamente s’intende
mai filosoficamente, e allora ecco che l’umiliazione torna indietro, come
fosse quello che in magia viene definito «colpo di coda»[49].
Questo tipico tratta della sua personalità è sottolineato anche da Ciliberto:

«In determinate situazioni specie quando si tratta di affermare o di


rivendicare, in qualche modo la propria funzione – e soprattutto la propria
dignità di filosofo, se la vedeva insidiata o villipesa – Bruno si lascia
trascinare dall’ira, dal risentimento, si ribella, non usa mezzi termini, fino al
punto di creare situazioni di cui era poi il primo a pagare, pesantemente, tutti
i prezzi»[50].

Bruno è solo, straniero, eccentrico, collerico e anti accademico ma il suo più


grande difetto sul piano psicologico sembra essere quello di non accorgersi
minimamente di tutto questo. Chiuso nella sua turris eburnea fatta di magia,
coraggio e sapere, Bruno, che non può non confrontarsi con l’interlocutore se
non ferendolo, non sa «estraniarsi» dalle situazioni in cui si trova, leggendole
sempre a suo sfavore: lui sembra essere il più saggio, gli altri i pedanti, gli
inquisitori, gli ipocriti. Se ciò in parte è vero, nella sua psiche diventa
esasperato, una sorta di ossessione perfino:

«Siamo qui di fronte a quello che forse è il più grande limite umano e
psicologico di Bruno: questa incapacità politica di aprire lentamente la
strada alla propria dottrina; questa convinzione assoluta nei propri mezzi,
che a volte rasenta la presunzione e la superbia e che ferisce l’avversario;
questo suo naturale e inevitabile mettersi in urto contro gli ambienti dai
quali pure cerca di farsi accettare, come se solo da uno scontro irriducibile
gli giungesse la convinzione della bontà, novità e verità delle sue
dottrine»[51].

Per questo la sua è una battaglia senza fine e, tristemente, destinata ad un


esito drammatico, Bruno è totalmente staccato dal reale, sembra vivere
unicamente nelle ali del suo intento, addirittura non riesce a non farsi rifiutare
perfino da chi lo apprezza, come nel caso di Enrico III che dopo il dichiarato
apprezzamento iniziale, non esita a far di tutto per liberarsene:

«Egli ci appare in realtà molto spesso estraniato rispetto all’ambiente in cui


opera chiuso in una solitudine e in una sordità che gli impedisce di vedere
come viene percepita la sua azione e la sua parola, se non quando la
situazione è ormai precipitata nello scontro aperto, in un modo che gli
permette poi di rileggere paranoicamente tutto l’incontro come
manifestazione di inciviltà e scortesia nei suoi confronti»[52].

4. Dalla Germania a Praga, da Venezia alla morte.

È proprio il senso spropositato di superiorità che lo porterà, nella successiva


tappa tedesca, ad avere un altro scontro durissimo con il Rettore
dell’Università di Marburgo Petrus Nigidius che, dopo averlo assunto come
Professore, lo sospende dall’insegnamento per motivi non ben dichiarati
specificatamente ma ritenuti «gravi».
In seguito, dopo due anni di, tutto sommato felice, permanenza a Wittenberg,
Bruno si reca a Praga[53].
La scelta di Praga è scontata: nel Cinquecento era la capitale dell’occultismo
e della magia e lo stesso Rodolfo II, a cui Bruno dedica un suo saggio appena
arriva[54], era un noto mecenate e occultista la cui Wunderkammer era la più
grande d’Europa[55].
Dopo il breve soggiorno a Praga, nel 1575 riesce ad immatricolarsi
nell’Università di Helmstadt dove è probabile che ottenga un ruolo di libera
docenza. Anche qui in seguito ad una sua pubblica orazione in cui attaccava
il papato, Bruno riceve una scomunica collezionando un piccolo record
perfino per l’Europa intollerante del tempo: è scomunicato dalla chiesa
cattolica, calvinista e protestante. Il dissidio con il Cristianesimo nella sua
integralità è ormai totale e irreversibile.
Bruno continua i suoi spostamenti tornando a Zurigo e poi a Francoforte,
dove riceve una fatidica lettera d’invito che gli farà prendere l’avventata
decisione di tornare in Italia, dopo turbolenti anni di peregrinazioni europee.
L’esito è tristemente noto.
In ogni modo per Bruno tale decisione non è per nulla avventata, la prende
con estrema sicurezza, non solo torna in Italia ma accetta di vivere da uno
sconosciuto, un nobile veneziano che vuole imparare l’arte della memoria.
Bruno considera il Mocenigo una nullità, uno stupido ignorante che non potrà
mai imparare niente, per questo il filosofo trascura il suo lavoro e sembra
insegnargli ben poco, lo sbeffeggia spesso semmai e, pericolosamente,
brunianamente, sfoga il suo disprezzo anticristiano anche con linguaggio
volgare e scurrile, bestemmiando sovente. Col Mocenigo si vanta inoltre
della sua attiva vita sessuale, («piacevol compagnietto, epicuro per la vita»
come lo definiva il Corbinelli)[56], insomma sbaglia tutto. Ma stavolta non si
salva.
È a volte destino dei grandi uomini di imbattersi nel loro cammino in
individui infimi, insignificanti, specularmente opposti sul piano della
saggezza e della personalità. È forse davvero un beffardo gioco del fato che
proprio queste nullità debbano a volte sconfiggere gli uomini superiori:
Giordano Bruno, probabilmente il più grande mago e filosofo del suo tempo
viene incastrato da Giovanni Mocenigo, mediocre e ottusa figura che lo
denuncia all’Inquisizione perché adirato con lo stesso Nolano, a cui ha
offerto denaro e ospitalità pur non ricevendo nulla in cambio[57].
Il nobile veneziano in realtà si aspettava di diventare mago anche lui, e in
tempi brevi, da parte sua Bruno vide chiaramente che non aveva le benché
minime capacità neppure per avvicinarsi alla nobilissima «nolana filosofia»,
alla magia, a quell’astrusa e meticolosamente elaborata arte della memoria
che spaventerebbe chiunque per elaborazione ed applicabilità operativa[58].
Ma le domande che dunque vanno poste sono: perché Bruno si rivela così
ingenuamente col Mocenigo? Perché non gli insegna niente? E quindi infine,
perché accetta la sua offerta? Perché torna in Italia?
I perché sono molteplici ma tutti intrecciati insieme a formare quel dubbio
che avvolge la personalità di un occultista debole proprio sul piano della
strategia, della previsione, vittima proprio di un potere magico, il suo,
probabilmente cresciuto a dismisura, annebbiante il reale, il mondo visibile
della concretezza, tangibile, a volte contundente perfino.
Come giustamente sottolinea D’Amico, Bruno si presentava come un nuovo
«Mercurio» che aveva con sé non solo una nuova visione del mondo ma
anche una nuova possibilità di esistenza da essa irrimediabilmente derivante,
il filosofo però la presentava con quell’inevitabile e dirompente aggressività
che la rendeva gli occhi degli interlocutori, più una rivoluzione che un’
innovazione:

«Il paradosso del resto è insanabile e sarà confermato dall’esito del


processo inquisitoriale: Bruno chiede di essere capito e riconosciuto
proprio da quell’ordine che intende sovvertire, chiede ai suoi avversari di
compiere un suicidio intellettuale. Forse non può fare altrimenti, ma resta il
fatto che sul piano psicologico egli ci appaia come sottoposto a una
continua e insopportabile tensione: quella fra l’altissimo – quasi esaltato –
senso del suo valore e dell’importanza della sua missione da un lato; e le
innumerevoli incomprensioni e frustrazioni, quando non persecuzioni, di
cui è costellato il suo cammino»[59].

Bruno vuole tornare in Italia con l’intento di influenzare il papa, vuole


soggiogarlo, anche attraverso l’ausilio della magia, per piegarlo
all’accettazione del progetto dell’affermazione della sua nuova religione
ermetico-egizia. Un tentativo inequivocabilmente folle, soprattutto se si
considera la pars destruens del suo progetto, cioè il disprezzo e il rifiuto del
cristianesimo: non si può diventare giordanisti se prima non si è eliminata
quella «piaga» dell’umanità.
Durante l’arresto a Roma, Bruno assume il solito atteggiamento provocatorio
e arrogante con i suoi compagni di cella, di fronte ai quali bestemmia e si
abbandona sovente a giudizi sprezzanti nei confronti della Chiesa. Le
testimonianze di questi detenuti costituiranno un ulteriore elemento di accusa,
decisivo, in quanto sommato agli altri, per la condanna finale, una condanna
tentata di evitare in tutti i modi sul piano dialettico dove Bruno, tenendo testa
ai suoi pur dotti accusatori, ha mostrato una lucidità e una preparazione
sbalorditive. La condanna però fu quasi «cercata» sul piano
dell’atteggiamento ingenuo e irrisorio tenuto con i suoi vari interlocutori nei
lunghi anni dell’arresto, ben sette. Nel periodo precedente all’arresto e in
tutto quello successivo

«Bruno ha perso il controllo di sé, vive una realtà allucinata e ai limiti della
follia: una follia fatta di esaltazioni fissate, di manie di grandezza, di
assurde convinzioni di onnipotenza e invulnerabilità. […] Il Bruno delle
denunce dei suoi compagni di cella, se non è un indemoniato nel senso
tecnico del termine come pensa il Mocenigo, è un uomo che ha tutti i tratti
esteriori di una persona profondamente scossa: incapace di controllare gesti
e parole, dominato da pulsioni distruttive e autodistruttive che lo
sovrastano, del tutto chiuso in sé, incapace di riconoscere i pericoli di cui
lui stesso sta disseminando per la sua strada. La cosa certa in ogni caso è
che non è più una persona pienamente padrona di sé»[60].

Bruno sembra aspettarsi continuamente un riconoscimento del suo valore che


invece puntualmente mai arriva e semmai viene negato; egli vive uno stato di
eccitazione perenne vedendo il traguardo dei suoi obiettivi sempre più vicino
quando invece condanne, scomuniche, processi e arresti lo riportano ad
un’altra triste realtà, quella realtà che lui, sulle ali della sua magia vuol
trascendere di continuo; la Yates è precisa al riguardo: «Gli uomini come
Giordano Bruno sono immunizzati contro ogni percezione del pericolo dal
senso di missione che li pervade, o dalla loro megalomania, per non dire dallo
stato di euforia ai limiti della pazzia in cui essi continuamente vivono»[61].
Dalle parole di uno dei testimoni del processo: «Egli dice che sa più che non
sapevano li Apostoli, et che gli bastava l’animo de far, se avesse voluto, che
tutto il mondo sarebbe stato d’una religione»[62]. Alla vigilia della Guerra
dei trent’anni, scomunicato da tutte le Chiese e arrestato, Bruno crede di poter
convincere il papa ad approvare il suo progetto di unificare il mondo in
un’unica religione anti cristiana di matrice egizia ed ermetica! [63]
Ma Bruno amava sognare, volare perfino:

«Alla mente che ha ispirato il mio cuore con arditezza d’immaginazione,


piacque dotarmi le spalle di ali e condurre il mio cuore verso una meta
stabilita da un ordine eccelso: in nome del quale è possibile disprezzare la
fortuna e la morte. Si aprono arcane porte e si spezzano le catene che solo
pochi elusero e da cui solo pochi si sciolsero. […] Così io sorgo impavido
a solcare con l’ali l’immensità dello spazio, senza che il pregiudizio mi
faccia arrestare contro le sfere celesti, la cui esistenza fu erroneamente
dedotta da un falso principio, affinché fossimo come rinchiusi in un fittizio
carcere e il tutto fosse costretto entro adamantine muraglie. Ma per me
migliore è la mente che ha disperso ovunque quelle nubi e ha distrutto
l’Olimpo, che accomuna gli altri in un’unica prigione dal momento che ne
ha dissolto l’immagine, per cui da ogni parte si espande il sottile aere. Ma
mentre mi incammino sicuro, felicemente innalzato da uno studio
appassionato, divengo Guida, Legge, Luce, Vate, Padre, Autore e Via:
mentre mi sollevo da questo mondo verso altri mondi lucenti e percorso da
ogni parte l’etereo spazio, lascio dietro le spalle, lontano, lo stupore degli
attoniti»[64].

Bruno poteva abiurare, e come Galileo poteva salvarsi, poteva perfino uscire
dal carcere ma questo avrebbe significato ripudiare le sue idee e dare maggior
valore a quelle della Chiesa. Bruno optò ovviamente per la scelta più folle,
più coraggiosa: la morte.
Come afferma Cardini: «Va da sé che la Chiesa romana non desiderasse
l’esecuzione del Bruno ch’era personaggio troppo noto addirittura in molte
corti d’Europa: essa ne voleva il pentimento e la sottomissione, che ne
avrebbe fatalmente compromesso l’immagine e il pensiero. Bruno si accorse
forse troppo tardi di non poter sfuggire a questo tragico bivio: o salvare la
vita compromettendo per sempre la sua opera e il senso della sua
testimonianza, o mantenerli alti affrontando la condanna»[65].
L’eroico coraggio di Bruno svelò l’intolleranza di un’istituzione in nome
della quale solo nel Cinquecento vennero commessi in Europa più genocidi
che in tutti gli altri anni fino ai giorni nostri, naturalmente in nome dell’amore
divino. Aver bruciato Bruno più che un gravissimo disonore, per la Chiesa
Cattolica è una sconfitta.
Nella sua personale guerra con essa, Bruno, attraverso la morte, le sferrò il
colpo fatale: alla fine vinse lui, per questo continua a vivere, vive come
Maestro del pensiero, al di là dei tempi, dei poteri e degli inferni. Vive oltre
la morte e oltre la vita ordinaria, la vita di quegli individui, pedanti,
«religiosi» e intolleranti, incapaci di comprendere e di ascendere
all’immortalità: «Le cose ordinarie e facili son per il volgo e ordinaria gente;
gli uomini rari, eroichi e divini passano per questo camino de la difficoltà, a
fine che si costretta la necessità a concedergli la palma de la
immortalità»[66].
Le scelte, folli, che hanno costellato il percorso terrestre di questo colossale
pensatore, rappresentano gli artigli con cui la veemenza del suo eroico furore
si faceva strada nel percorso lacerando ogni ostacolo.
La magia, il genio, il coraggio e la follia saldano e vivificano l’alchimia di
vita e psiche in un filosofo che, a differenza di molti altri, ha preferito lottare
col corpo oltre che con le idee, quel corpo che nella battaglia venne torturato
e bruciato, ucciso per la Chiesa, trasmutato per lui e per tutti coloro che
leggono nella scelta della morte, l’ultima, determinante e ancora operativa,
operazione alchemica[67].
La magica filosofia era il bene più prezioso che Bruno possedesse, prezioso
perché in grado di mutare la natura delle cose e il corso degli eventi (per
questo magica). Bruno comprese che era essa a dover sopravvivere più che il
suo corpo transeunte: lo spirito rimane al di là del tempo, non la persona.
Capire e mettere in pratica questo insegnamento presuppone coraggio, follia e
magia, presuppone una profondissima alchimia di morte e psiche.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI CITATI E


CONSULTATI
OPERE DI BRUNO

G. BRUNO, De immenso et innumerabilibus, in Opere latine, a cura di C.


Monti, Utet, Torino 1980.
G. BRUNO, De la causa principio e uno in Opere di Giordano Bruno e
Tommaso Campanella, a cura di A. Guzzo e di R. Amerio, Ricciardi, Milano-
Napoli 1956.
G. BRUNO, De magia naturali, in Opere magiche, Adelphi, Milano 2000.
G. BRUNO, Il Candelaio, a cura di I. Guerini Angrisani, Bur, Milano 1997.
G. BRUNO, Il sigillo dei sigilli – I diagrammi ermetici, a cura di Ubaldo
Nicola, Mimesis, Milano 2005.
G. BRUNO, La Cena de le ceneri, a cura di A. Guzzo, Mondadori, Milano
1995.
G. BRUNO, Le ombre delle idee, tr. it. di N. Tirinnanzi, Bur, Milano, 1997.
G. BRUNO, Lo spaccio de la bestia trionfante, intr. di M. Ciliberto, Bur,
Milano 2001.
G. BRUNO, Oratio Valedictoria in Opere di Giordano Bruno e Tommaso
Campanella, a cura di A. Guzzo e di R. Amerio, Ricciardi, Milano-Napoli
1956.

STUDI SU BRUNO
Atti del processo di Giordano Bruno, a cura di Davide Dei, Sellerio, Palermo
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Dall’uomo medio all’uomo superiore: la
psicologia iniziatica di Roberto Assagioli.
Indice

1. Psicologia e Filosofia perenne.

2. Dall’uomo medio all’uomo superiore.

3. Malattia e normalità: la psicosintesi è per l’uomo sano.

ABSTRACT

The essay demonstrates the way in which Assagioli’s psychology in


«refusing» to be a cure for ailing mankind, offers itself as a method for
perfecting the healthy man by developing the latent faculties of Being. In
proposing this approach, using techniques of sapiential derivation ascribable
to the phenomenology of Philosophia perennis, causing itself to assume the
character of a veritable Via Iniziatica.

Il saggio evidenzia come la psicologia di Assagioli si proponga quale


metodo di perfezionamento dell’uomo sano tramite potenziamento delle
facoltà latenti dell’essere e proponendo tale percorso grazie all’ausilio di
tecniche di derivazione sapienziale, ascrivibili alla fenomenologia della
Perennis Philosophia, essa va a caratterizzarsi quale vera e propria Via
Iniziatica.
Dalla gioia questi esseri sono nati; per la gioia vivono e crescono; alla gioia
ritornano.

Upanishad

L’uomo normale è la meta ideale per i falliti della vita, per tutti coloro che
sono al di sotto del livello generale di adattamento; ma per coloro che hanno
possibilità molto maggiori di quelle dell’uomo medio, l’idea o la costrizione
morale di essere soltanto normali costituisce la tortura di un letto di
Procuste, una noia insopportabile, una noia senza speranza.

Gustav Jung

1. Psicologia e filosofia perenne.

«L’uomo è un varco, attraversandolo passiamo dal mondo esterno degli


dèi, dei demoni, delle anime, al mondo interiore, passiamo dal mondo più
grande al più piccolo. […] A incommensurabile distanza brilla una stella
solitaria, allo zenit. Questo è l’unico Dio. Questo è il suo mondo, il suo
Pléroma, la sua divinità. In questo mondo l’uomo è Abraxas, che dà alla
luce o divora il proprio mondo. Questa stella è il Dio e il fine
dell’uomo»[68].

Con queste parole Jung ben descrive il fine dell’uomo: guardarsi dentro,
cercare se stesso e cercare ancora secondo il monito delfico, fino a trovare…
Dio. Questo il cammino a cui l’essere umano è chiamato secondo quelle
filosofie cha vanno sotto il nome di «tradizionali» o «perenni», secondo la già
citata definizione di Agostino Steuco, canonico lateranense eugubino del
‘500.
Fino a pochi decenni fa la principale scuola in psicologia, la
comportamentista, si occupava della parte esteriore dell’uomo con risultati
che al di là di qualsiasi migliore scientifica previsione, non potevano che
essere e rimanere superficiali.
Come affermano gli studiosi Baigent e Leigh nel loro approfondito saggio
L’elisir e la pietra:

«La moderna psicologia, in particolare nelle università, è scaduta ad una


generale superficialità, a semplici statistiche di riflessi condizionati e di
costanti di comportamento, una ridicola scienza dell’ovvio. Gli studenti
studiano anni per diventare nient’altro che direttori di circhi di poveri
roditori. Vengono spese somme enormi per provare che, se un cane viene
punito quando abbaia e nutrito quando fa una capriola, è più facile che
faccia una capriola piuttosto che abbaiare. E’ così che la realtà riflette la
natura frammentaria della nostra psiche»[69].

Pavlov e la scuola russa andavano dunque superati, non si poteva continuare


a fare esperimenti sul comportamento dei ratti o dei cani per studiare…
l’uomo. Il fatto che i sentimenti, le idee, le immagini, le intuizioni, le
ispirazioni (e in parte anche i sogni)[70] rimanessero invisibili (al
microscopio meccanicista) non smentiva certo la loro esistenza, come non
smentiva nemmeno conseguenze e implicazioni ad esse sottese proprio a
livello di comportamento, il livello del «visibile»[71].
Da Freud in poi dunque, si puntarono i riflettori sull’interiorità, si cominciò
inizialmente ad indagare quella più oscura ed istintuale fino ad arrivare,
attraverso Jung, Assagioli e tutti i transpersonalisti, alla parte superiore, a
tutto ciò che risplende, che trascende, che incarna l’uomo nei suoi
presupposti ontologici. Si è così arrivati a parlare di superamento, di
transpersonale, di «oltre la persona», di sintesi bio-psico-spirituale, di un
individuo migliorabile, si è tornati a parlare di «anima», riportando la
psicologia al suo significato primigenio di scienza (logos) dell’anima
(psiché). Ma soprattutto si è cominciato a studiare l’uomo cosiddetto «sano»:
la psicologia non serve per curare alcuni individui affetti da svariate nevrosi o
fobie, la psicologia come scienza dell’anima mira ad elevare l’uomo ad
un’esistenza più degna in cui l’anima esista, serve a riconnetterlo ad essa
facendogliene fare esperienza. Ogni uomo può cimentarsi nella scienza
dell’anima, non è necessario essere malati, malati tra l’altro lo siamo già tutti
comunque, in quanto cresciuti in una società già malata di per sé.
Questi dunque i temi fondamentali che rimandano di fatto ai presupposti
precipui della Perennis Philosophia. John Holman nel saggio Il ritorno della
filosofia perenne[72] dedica allo psichiatra veneziano un intero paragrafo a
sottolinearne la marcata affinità col Tradizionalismo[73]. Per capire bene tale
affinità dobbiamo domandarci qual è il fine ultimo delle filosofie tradizionali
per scoprire poi che esso coincide con quello degli psicologi che cercano
l’«oltre della persona», spingendola al di là dei suoi limiti - necessari punti di
riferimento di un processo sintetico che li vede protagonisti solo in quanto
trascendibili:

«Esso secondo i mistici e gli esoteristi, è unirsi nella coscienza con Dio. Lo
sviluppo spirituale, quindi, è al di là dello sviluppo personale; è questo il
punto di vista di Jung e dello psichiatra italiano Roberto Assagioli.
Quest’ultimo fu il fondatore della scuola della psicosintesi, rivolta allo
sviluppo e alla terapia personale e spirituale; […] La psicosintesi è una
concezione della vita psicologica, un metodo di sviluppo psicologico, una
filosofia e un trattamento per disturbi psicologici e psicosomatici e, infine,
una filosofia e un metodo di educazione integrale (personale e
spirituale)»[74]. In sintesi: «I metodi della psicosintesi combinano tecniche
di psicoterapia, educazione e disciplina spirituale»[75].

La sintesi dell’uomo a cui Assagioli aspira, sottende e richiede di fatto una


filosofia esoterica, tradizionale o perenne, base fenomenologica di tale psico-
logia sintetizzante che va dunque a delinearsi quale vera e propria Via
Iniziatica:

«Nel cuore delle grandi religioni risiede un nucleo di saggezza conosciuta


nei termini di saggezza eterna, filosofia perenne, unità trascendente di
religioni o discipline della coscienza. Questa saggezza perenne, per essere
compresa, praticata e realizzata nel modo giusto, sembra richiedere una
nuova affermazione e una nuova interpretazione nella lingua e nei concetti
di ogni cultura ed epoca. Uno dei sistemi di concetto predominante oggi
nella cultura occidentale e uno dei più rilevanti per trattare dello sviluppo
transpersonale è la psicologia. […]
In altre parole, la psicologia contemporanea e specialmente quelle scuole
come la psicosintesi e la psicologia transpersonale, possono quindi offrire
una strada con cui la saggezza eterna può fare nuovamente il suo ingresso
per infondere e magari trasformare la cultura occidentale»[76].

Se la filosofia non ha valore pratico, se non ha una portata rivoluzionaria


proprio a partire dall’esistente, essa non assurge a quell’attuabilità intrinseca
che la fonda nella sua significatività primigenia e sostanziale. Nella
consapevolezza che mondo interiore e mondo esteriore siano interconnessi
hanno insistito tutte quelle filosofie che vengono definite tradizionali o
perenni, saggezze che si perdono nel corso dei secoli, echeggiando e a volte
rimbombando perfino alle orecchie attente di chi sa ascoltarle.
Dall’antichità al Rinascimento, dall’era moderna a quella contemporanea, la
Tradizione non ha mai smesso di parlare, di evocare, di simboleggiare e
infine spronare a fare, in quanto è proprio nell’esperienza che risiede la sua
essenzialità e infine la sua attendibilità[77].
La psicosintesi si allinea a questo filo rosso che tetragono segna la sua Via tra
i secoli, impreziosendolo tramite un apporto che il suo ideatore, Roberto
Assagioli, ha costruito meticolosamente nel corso della vita, attraverso quella
serietà e quell’umiltà che marcatamente lo ha contraddistinto. Nello sviluppo
della metodologia psicosintetica, lo psichiatra veneziano, ha da sempre
palesato un approccio prettamente sincretista, assimilando elementi
concettuali ed operativi da tradizioni sapienziali del passato per poi
sintetizzarle, sistematizzando un metodo che, forte della sua matrice
iniziatica, scende dritto nella psiche intera[78] e lì va ad agire.
«La psicosintesi si propone di interagire lo studio della parte cosciente della
personalità e dell’inconscio inferiore e medio con l’indagine del
supercosciente, delle energie superiori latenti in ognuno, e con l’uso dei
metodi per la loro attivazione e la loro integrazione nella personalità
umana»[79].
L’intento non è solo quello di conoscere la psiche - il continuo rimando
assagioliano al monito delfico ne è indicativo al riguardo - ma anche quello di
trasformarla, potenziarla, migliorarla, evolverla, proprio perché ne esistono le
possibilità: esse sono latenti, non assenti.
E’ su questa base essenzialmente pratica che l’eredità della filosofia perenne
mutuata dallo psichiatra veneziano va ad innestarsi e lo fa attraverso una
tesaurizzazione e rielaborazione psicologica e fenomenologica delle dottrine
sapienziali del passato, la quale proprio nell’incontro di tradizioni
(apparentemente) lontane fonda la sua effettualità: «Egli si ispira alla
tradizione classica dei Misteri Orfici ed Eleusini, a quella cristiana dei grandi
mistici e alla cultura indiana che può essere d’aiuto all’uomo contemporaneo
proprio perché in essa manca il dissidio, caratteristico dell’occidente, tra
sentimento e pensiero, fede e ragione»[80].
Assagioli incarnava questa eredità nel senso più autentico, la sua
testimonianza non era meramente intellettuale ma fattuale, operativa,
creativa: «Assagioli non dava insegnamenti diretti: egli era la testimonianza
vivente della sua psicosintesi. Secondo coloro che lo hanno incontrato
incarnava pienamente il suo messaggio, sintetizzava nella sua persona ciò che
di più bello c’è in tutte le religioni e le filosofie. […] Sapeva toccare l’anima
delle persone. Il contatto con lui trasformava psicologicamente e
spiritualmente. […] Dopo averlo conosciuto dicono, non si era più gli stessi ,
non tanto per quello che diceva ma per come era»[81].

2. Dall’uomo medio all’uomo superiore.

La sete di conoscenza che spinge l’uomo ad indagare i confini della sua


psiche, è ciò che lo rende degno come essere umano. La domanda intorno alla
natura di sé dovrebbe accompagnare il cammino terrestre di ogni individuo,
in quanto qualsiasi altra questione da essa prescinde e da essa dipende.
La modernità sembra aver reciso quelle fibre noumenali che garantiscono un
contatto verticale con l’essere, che allineano il soggetto ad una vera
immersione sovracosciente. Per questo Assagioli riteneva «strano e
pericoloso che l’uomo moderno avesse studiato con tanto interesse, coraggio
e sacrificio il mondo esterno e il proprio corpo, trascurando l’esplorazione del
mondo interno, la conoscenza della propria natura di essere umano; che
avesse conosciuto le potenti forze della natura ignorando invece le forze che
esistono e che si agitano nel suo animo, lasciandosene tanto spesso travolgere
e dominare»[82].
Se non siamo noi a dominare le forze interne saranno loro a dominare noi,
Gurdjieff direbbe che dobbiamo essere noi a guidare la carrozza, noi il
cocchiere, in caso contrario la carrozza può andare a caso o addirittura
fermarsi; questo è il caso dell’ uomo comune, ossia dell’individuo che non ha
intrapreso un percorso di consapevolezza, un individuo che ignora chi è e
dove sta andando.
Ma l’uomo, ineluttabilmente, va in qualche direzione, la vita stessa è il
percorso, basta iniziarlo. In caso contrario ci si arena in uno stato
confusionale ben simboleggiato dalla lama numero zero degli Arcani
Maggiori: il Matto, ciò che viene prima di tutto il percorso delle 21 carte
rappresentanti la Via, coronata dal Mondo, l’ultima trionfante lama che
chiude il cerchio, l’evoluzione del viandante, il quale tra l’altro come ebbe a
dire Marcello Salustri è uno con la via e con lo stesso andare: «Tre sono i
temi ricorrenti nell’Opera: la via, il viandante, il viaggio.
Invero i tre sono uno perché non esiste via senza viandante, né viandante
senza viaggio, né viaggio senza via. Così il cerchio si chiude, ed i tre si
ricompongono nell’unità».
Un essere che sapeva dove stava andando e che trascendeva ampiamente
l’uomo medio, era sicuramente Roberto Assagioli, il padre della psicosintesi,
un uomo che perfino in prigione riusciva a sentirsi libero. E’ proprio dagli
appunti inerenti a quel periodo[83] che si evincono le esperienze
transpersonali dello psichiatra, il quale sperimentò di fatto un isolamento
puramente fisico mentre la coscienza esperiva stati di vetta, peak experiences
appunto: «Assagioli è in isolamento: i suoi appunti ci dicono molto poco a
proposito della prigionia in sé ed esaminano piuttosto le esperienze
psicologiche e transpersonali da lui sperimentate nelle quali conosce «un
senso di sconfinatezza, di non separazione da tutto ciò che è, un’unione del sé
col tutto… una spinta verso l’esterno, un riversarsi ed espandersi in tutte le
direzioni, come una sfera in perenne espansione. Un senso di amore
universale… Una meravigliosa unione, senza alcuna separazione; solo aspetti
diversi di un’unica meraviglia»[84].
Sicuramente un uomo comune - e con tale espressione intendo l’uomo medio
massificato ben descritto anche da Elémire Zolla in Volgarità e dolore[85] -
più che esperienze di meraviglia ed estasi, rinchiuso in una cella avrebbe
probabilmente esperito tristezza e afflizione. Lo psichiatra veneziano però era
sicuramente una personalità fuori della norma:

«Certamente non si può definire Assagioli un uomo comune. […]


Viene paragonato ad un saggio, ad un maestro, ad un’anima antica
ritornata per insegnare, ad un illuminato, ad un profeta. Era
sicuramente una figura ieratica, dall’aria ispirata. Sembrava in
continuo dialogo con lo spirito. La sua nota dominante era uno stato
di coscienza diverso. Viene definito una persona superiore che
cercava veramente di aiutare gli altri e che sapeva dare spinte
iniziatiche; una persona molto evoluta in contatto con livelli di
coscienza preclusi ai più»[86].

Alice Bailey, che con lo psichiatra italiano fu in stretto contatto (ricordiamo


che sia la moglie che la madre di Assagioli erano teosofe e lui stesso entrò in
contatto con questo movimento), nella sua autobiografia, in occasione di una
conferenza in Svizzera, così lo descrive:

«Incontrammo colà il dottor Assagioli, nostro rappresentante in Italia per


molti anni, e quel rapporto ed i molti anni di collaborazione furono un
aspetto felice e importante. Era medico specialista del cervello a Roma e,
quando lo conoscemmo, considerato anche come uno psichiatra di fama
europea. E’ un uomo dal carattere di rara bellezza. Quando entrava in una
stanza le sue qualità spirituali ne segnalavano la presenza. Frank D.
Vanderlip nel suo libro What next in Europe ne parla in modo eccellente.
Lo chiama il moderno S. Francesco d’Assisi e afferma che la mattina che
trascorse con lui segnò il massimo livello del suo viaggio europeo. […] I
suoi discorsi erano la parte saliente delle conferenze di Ascona. Parlava
francese, italiano e inglese ed il potere spirituale che emanava stimolava
molti a rinnovare la consacrazione della vita»[87].

Assagioli era un individuo che aveva imparato a trascendersi, aveva


compreso che i limiti esistono solo per essere continuamente sfidati e
superati, di qui il senso dell’espressione «guerriero spirituale» ricorrente in
gran parte della cultura esoterica occidentale, non solo in letteratura
(Castaneda su tutti) ma anche nella pittura surrealista contemporanea (dove
sovente l’elemento esoterico è preponderante), pensiamo a At the foot of the
garden di Madeline Von Foerster, a Argentea di Dino Valls e ad alcuni
dipinti senza titolo del giapponese Shoji Tanaka.
Il vero guerriero non è quello che sa attaccare ma quello che non ha più
bisogno di difendersi, è cioè l’individuo che non si basta, che osa divenire
«oltreumano», che mira ad un orizzonte noetico ed esistenziale più ampio,
che, come direbbe lo stesso Assagioli, mira al Sé Superiore.
«Arriva un momento in cui anche di Shakespeare o di Beethoven ci
chiediamo: è tutto qui?»[88] Le parole di Aldous Huxley non sono per nulla
provocatorie ma strettamente pertinenti alla fenomenologia che «le psicologie
dell’oltre» intendono proporre.
Esse di fatto pongono ed impongono un divario, una scelta, un vero e proprio
«salto all’altro io» per tornare ancora a Castaneda: dall’uomo medio all’uomo
superiore.
Se il salto non si attua allora rimane la diversità, la voragine, l’abisso «senza
la corda tesa».
Del resto lo psichiatra veneziano ha insistito notevolmente sulla realtà e sul
valore della disuguaglianza: «Se consideriamo anche superficialmente i vari
esseri umani che ci attorniano, ci accorgiamo tosto che essi non sono
egualmente sviluppati dal punto di vista psicologico e spirituale. E’ facile
constatare che alcuni di essi sono ancora in uno stadio primitivo e quasi
selvaggio; altri un poco più sviluppati; altri più avanzati; e che infine alcuni,
in piccolo numero, hanno trasceso l’umanità normale e stanno raggiungendo
lo stadio superumano e spirituale. […] tale diversità di sviluppo interiore fra
gli uomini è utile, anzi direi, necessaria»[89].
Sulla falsità e l’ipocrisia implicita al concetto di uguaglianza si esprime
esplicitamente anche Elémire Zolla nell’opera Che cos’è la Tradizione, nella
quale il celebre erudito torinese legge il concetto di uguaglianza quale dogma,
imposto dalla modernità ai fini di appiattire l’individuo impedendogli di
evolvere, bloccandolo nella mediocrità, nell’inferiorità perenne:

«L’Uguaglianza pone sul trono un re di smisurata e disincarnata tirannide:


la formula statistica che serve a stabilire la media. L’uomo medio statistico
diventa il Redentore, la cui imitazione è sollecitata e dovrebbe consentire ai
singoli di espiare il peccato di possedere una fisionomia; guai a chi osi mai
porre una domanda, provare un sentimento, svolgere uno studio, amare
un’idea che a tale Redentore non paia accessibile e consumabile. Per
definizione un uomo medio non può cogliere ciò che è raro, superiore
dunque prezioso;» - non può cogliere ciò che lo trascende dunque, non può
meravigliarsi di fronte alla Filosofia perenne - «dovranno dunque essere
immolati tutti i valori, i quali si giustificano sempre soltanto se imperniati
sul loro vertice (la moralità deve mirare alla santità contemplativa, il
linguaggio ai poemi classici, l’umanità al genio).
Pochi s’avvedono dei disastri recati dal culto dell’uguaglianza, per cui
ognuno si sforza di rappresentare una media fra destini incompatibili»[90].

Riconoscere e rifiutare il dogma dell’uguaglianza risulta necessario ai fini di


una reale evoluzione personale; se si vuole davvero intraprendere un percorso
di autotrascendimento, è necessario svincolarsi dalla media, è necessario
svegliarsi. In caso contrario non saremmo noi a vivere la nostra vita ma
piuttosto essa ci scorrerebbe accanto senza che noi ce ne potremmo
accorgere. Senza la nostra attenzione la vita non è più nostra.
«La psicosintesi propone di considerare la vita di tutti i giorni come un grosso
palcoscenico sul quale ognuno è chiamato a recitare le proprie parti […] solo
che non siamo consapevoli di stare recitando, proprio perché non facciamo
distinzione tra l’io e i ruoli: siamo identificati. Secondo tale ottica, l’uomo
che non abbia intrapreso un percorso di autoconsapevolezza subisce questo
processo»[91]. Il percorso consiste nella disidentificazione, la
spersonalizzazione, il discostarsi dall’ego, dall’importanza personale,
percorso proposto e intrapreso anche da altre figure legate allo sviluppo e il
potenziamento delle possibilità latenti, i già citati Castaneda e Gurdjieff per
esempio ne parlano ampiamente nelle loro opere[92].
Al di là delle varie tecniche proposte dalla psicosintesi, ciò che preme
sottolineare è questa netta differenza qualitativa tra l’uomo medio e l’uomo
trasceso, superato, «divinizzato» perfino:

«Il Professor Gattengo dell’Università di Londra andando oltre ha aggiunto


che egli considera l’uomo medio ordinario quale un essere preumano, e
riserva la parola «Uomo», con la U maiuscola, solo per coloro che hanno
trasceso il livello o stadio comune e che sono, rispetto a questo,
supernormali.
Nel passato il culto degli esseri superiori era diffuso: i geni, i saggi, i santi,
gli eroi, gli iniziati erano riconosciuti come avanguardia dell’umanità,
come la grande promessa di ciò che ogni uomo potrebbe diventare. Ciò è
affermato nei grandi incitamenti del Cristo: «Siate perfetti come è perfetto
il padre vostro nei Cieli» e «Cose più grandi di quelle che io ho fatte, farete
anche voi». Questi esseri superiori, senza disprezzare l’umanità comune,
hanno cercato di suscitare in essa la spinta, l’anelito a trascendere la
«normalità» e mediocrità in cui si trova, a sviluppare le possibilità latenti in
ogni essere umano»[93].

Il problema che si pone ora è: come diventare esseri superiori? Quale il


metodo per trascendersi e superarsi? Questo metodo, questa psicologia
dell’oltre è ciò a cui lo psichiatra veneziano ha lavorato per tutta la vita: la
psicosintesi.

4. Malattia e normalità: che cos’è la psicosintesi.

Che cos’è la psicosintesi? Qualcuno l’ha accostata ad una vera e propria Via
Iniziatica, altri ad una filosofia, in realtà essa è uno strumento che permette
all’essere umano di scoprire, attivare e quindi usare molteplici potenzialità
intrinseche che consentono di conoscersi ed apportare un livello qualitativo
superiore alla propria esistenza la quale va a configurarsi come possibilità
concreta e costante di evoluzione, di scoperta e, non in ultimo, di meraviglia.
«Fare della propria vita un esperimento» diceva Nietzsche, «questa divenne
in seguito la mia filosofia». Keyserling afferma che «in ognuno di noi ci sono
sviluppati ed attivi, in varia misura, tutti gli istinti e tutte le passioni, tutti i
vizi e tutte le virtù, tutte le tendenze e tutte le aspirazioni, tutte le facoltà e
tutte le doti dell’umanità»[94]. Potremmo dire che la psicosintesi si occupa di
potenziare le doti disattivando i vizi al contempo, nell’orizzonte di un
processo onnicomprensivo e circolare.
Nella topica assagioliana il Sé superiore, pur essendo nel punto più alto,
occupa una posizione anfibia toccando sia l’interno che l’esterno del celebre
uovo col quale lo psichiatra veneziano descrive la psiche dell’uomo, che
comprende l’inconscio inferiore, quello medio e quello superiore, tutti
imprescindibilmente collegati e interferenti in quel processo di sintesi che li
armonizza e li potenzia.
La psicosintesi ha un valore essenzialmente pratico, essa è un’esperienza. Pur
attingendo a piene mani da varie tradizioni filosofiche, la psicosintesi non è
essa stessa una filosofia:
«Troppo spesso la psicosintesi è stata accusata di essere una speculazione
metafisica, essa non si interroga direttamente sui problemi ultimi, non tenta di
dare risposta ad interrogativi filosofici e religiosi quali “Che cos’è lo
Spirito?”, “Dio esiste?”. Come amava dire il suo fondatore, essa si limita a
condurre l’uomo alle soglie del mistero per poi lasciarlo libero di trovare da
sé le proprie risposte»[95].
Portare l’uomo alle soglie del mistero significa innalzarlo da uno stato
inferiore ad uno superiore (psicologicamente e psichicamente e di
conseguenza filosoficamente ed esistenzialmente), in quanto tali soglie
abitano dimore elevate o «finestre sull’eternità» per dirla con Florenskij.
Lo stesso Assagioli chiarifica la sua posizione al riguardo: «(La psicosintesi)
non è una posizione filosofica, teologica o metafisica; ma è il riconoscimento
che tutte le manifestazioni della psiche umana, quali l’immaginazione
creativa, l’intuizione, la genialità, i sentimenti superiori, gli impulsi ad azioni
altruistiche ed eroiche sono fatti; fatti non meno reali delle pulsioni istintive,
dei riflessi spontanei o condizionati e che esse si presentano ad essere
studiate scientificamente e ad essere attivate, sviluppate ed utilizzate»[96]. La
distanza dalla psicologia comportamentista è palesemente evidente.
L’allieva diretta di Assagioli Angela Maria La Sala Batà a tale proposito
puntualizza: «Tali elementi psichici sono anche energie perché hanno una
forza vitale, dinamica, propulsiva e sono in continuo movimento e vibrazione
e inoltre producono degli effetti reali e concreti.
Il mondo psichico in altre parole, non è un’astrazione psicologica ma è una
cosa reale e viva: un serbatoio di energie che costituisce la ricchezza interiore
dell’uomo»[97]. «L’inconscio è reale perché agisce» come ebbe a dire Jung.
Tale ricchezza va anche a configurarsi quale potenzialità che sovente supera
le comuni facoltà ordinarie per classificarsi quale vera e propria capacità
«magica» o appunto transpersonale, nel già menzionato senso letterale del
termine: «oltre la persona», oltre l’uomo, oltre la maschera ordinaria. Questo
è possibile in virtù del «server» dal quale l’uomo che si supera attinge, mi
riferisco a quello che Jung chiamava l’inconscio collettivo.
In una prospettiva di totale unione e connessione tra mondo esteriore e
mondo interiore, in uno stato di entanglement, come direbbero i fisici
quantistici che a tali considerazioni sono giunti grazie allo studio della non
località nell’ infinitamente piccolo, l’accesso ad energie di cospicua potenza
presenti in natura, non dovrebbe più stupire. La Sala Batà è perentoria al
riguardo:

«I nostri elementi psichici (istinti, emozioni, pensieri) sono energie, come


abbiamo detto, e come tali emanano vibrazioni, radiazioni e onde che
probabilmente si comportano come le onde e le radiazioni elettriche e
magnetiche, e hanno delle caratteristiche e delle leggi simili a quelle
fisiche. Inoltre, se è vero che esiste un inconscio collettivo vuol dire che
esiste un substrato, un livello di coscienza comune a tutta l’umanità, che
serve forse da ponte di congiungimento fra tutti gli uomini. Noi crediamo
di essere separati, ma in realtà siamo intercomunicanti e riceviamo
continuamente influssi e radiazioni in egual misura.
Questa capacità dell’uomo sono state chiamate sensibilità extrasensoriali e
per ora soltanto alcuni le hanno sviluppate, ma col tempo tutti le
possiederanno perché non sono capacità soprannaturali, ma facoltà umane
normali. E’ soltanto la nostra ignoranza, incredulità e mancanza di
allenamento che ci impediscono di farle venire alla luce e di
sperimentarle»[98].

La Sala Batà riferisce dunque di alcuni individui, non tutti, nello stesso
tempo la studiosa definisce «normali» queste facoltà umane.
La sottile riflessione che qui naturalmente va ad innescarsi è quella relativa
alla differenza tra la malattia e la normalità. In quale misura realmente sono
diverse tali classificazioni nei vari livelli dell’inconscio? E soprattutto chi
decide i parametri di queste differenze? Chi li impone?
Nell’orizzonte di una società malata e profondamente squilibrata e sofferente
che non produce valori se non quelli superficiali, che crea insicurezze e paure
tramite i mass media, che subliminalmente modella esseri medi e mediocri,
massificati e massificanti, addomesticati al mero consumismo e nulla più, una
società che in quelli che dovrebbero essere i suoi punti di riferimento, come
storicamente lo erano e cioè il potere politico e quello religioso, trova ormai
massima corruzione e vergogna[99], l’uomo piomba inevitabilmente nei
meandri delle crisi interiori, delle depressioni addirittura e perfino delle
nevrosi. Ma attenzione, avverte Assagioli, in tale contesto la crisi interiore
non è sinonimo di malattia ma di sanità!
Chi è più malato infatti, la società e la sua becera veste ipocrita e maligna
(Zolla parlava a chiare lettere di civitas diaboli[100]) o l’individuo che,
inevitabilmente, ne soffre le conseguenze?
Lo stesso Jung aveva notato come la società moderna inducesse alla malattia:
«Circa un terzo dei miei pazienti non soffrono di nevrosi definibili in termini
clinici ma piuttosto della mancanza di senso e del vuoto delle proprie vite. Mi
sembra […] che questa possa essere vista come la nevrosi collettiva del
nostro tempo»[101]. Quale il rimedio allora? «Riflettere individualmente su
di sé, ritornare al fondamento dell’umana natura […] questo è l’inizio della
cura per la cecità che in questo momento regna»[102].
L’uomo che perde se stesso in questa palude e che si mette dunque alla sua
ricerca è tutto meno che patologico, è anzi lodevole e, inconsciamente
iniziato al cammino verso il Sé.
«Si considera generalmente «normale» l’uomo medio, ossequiente alle norme
sociali dell’ambiente in cui vive, in altre parole il «conformista»; ma la
normalità intesa in questo modo è una concezione poco soddisfacente; essa è
statica ed esclusiva. Questa normalità è una «mediocrità» che non ammette o
condanna tutto quello che è fuori dalla norma, e che quindi è considerato
«anormale», senza tener conto del fatto che molte delle cosiddette
«anormalità» sono in realtà inizi o tentativi di superare la mediocrità»[103].
La normalità viene dunque a delinearsi come uno stato di sviluppo bloccato,
da cui la calzante definizione di «patologia della norma»: la società tende a
spingere le persone verso un livello da lei premeditato, un livello appiattente
ma conforme al suo obiettivo di «sviluppo» (regresso) attraverso il quale essa
gestisce tale massa di individui non più liberi. In quanto premeditati, pre
progettati. Più che veri e propri «individui» essi sono dei modelli su scala,
ovviamente tutti totalmente ignoranti e inconsapevoli del processo che li vede
«protagonisti». Se l’individuo è «ciò che non si può dividere», l’individuo
prodotto dalla società moderna non è più tale poiché già diviso a priori: egli
nasce diviso. Se il diavolo è ciò che divide - tornando all’appropriata
definizione zolliana - questo individuo è ciò che il suddetto diavolo è riuscito
a frammentare: è il suo esatto prodotto, la sua «opera d’arte».
A questo si aggiunga, sempre rimanendo in tema «diavolo», il potere politico
di uno stato quale il Vaticano il quale, attraverso la visione del mondo che
propone, tende a spaventare l’individuo con la paura dell’inferno, di fatto una
minaccia reale e costante - in tale aut-aut il libero arbitrio non può infatti
sussistere: o si assecondano i dogmi di Dio o si va all’inferno. All’interno di
tale processo la massa oltre che ignorante e inconsapevole diventa anche
impaurita, a questo punto il potere temporale e quello «spirituale», che
purtroppo per l’uomo (medio) non hanno mai smesso di andare a braccetto,
hanno la meglio nell’imporre modelli culturali a loro conformi, i quali recano
vantaggio solo al mantenimento del loro potere politico, economico, culturale
e psicologico (la «religione» di fatto, nel senso primigenio del termine, non
rientra nemmeno più in questo processo, come invece il Pontefice vorrebbe
far credere. Una religione che è al tempo stesso uno stato è una
contraddizione tout court). Non va dimenticato che la paura è un sentimento
fondamentale, per chi vuole addormentare e addomesticare l’uomo, come
fondamentale è la sua sconfitta per chi vuole svegliarlo e liberarlo: «soltanto
chi si è liberato dalla paura è veramente libero»[104]. Sembra di sentire l’eco
di Nikos kazantzakis: «Sono privo di speranza. Sono privo di paura. Sono
libero».
Il problema che a questo punto nasce da sé è relativo ai termini che fissano il
livello evolutivo della società in relazione a quello dei singoli individui[105].
In questa ottica vengono stravolti i termini stessi di salute e malattia, per lo
meno nell’accezione secondo la quale essere malati significa accusare dei
sintomi e non esserlo significa non accusarne. Abram Maslow a tale
proposito è al quanto chiarificatore:
«Essere ammalati significa forse accusare sintomi? […] E la salute significa
esser privi di sintomi? Lo nego. Quale dei nazisti ad Auschwitz o a Dachau
era in buona salute? Quelli con la coscienza tormentata, o quelli la cui
coscienza appariva loro chiara, limpida, serena?»[106].
La psicologia di Roberto Assagioli non è una terapia dell’uomo malato ma un
potenziamento dell’uomo sano: non si cura nel senso consueto del termine,
piuttosto si invita a guardarsi dentro per scovare le potenzialità latenti e fino a
quel momento sconosciute per dunque attivarle, risvegliarle, accrescerle, ai
fini di un’esistenza più armoniosa, più felice e, nello stesso tempo tale
processo si delinea quale continua ed affascinante scoperta di sé.
Secondo questa nuova psicologia, termini quali «malattia» e «terapia» sono
sostituiti dai meno atavici «crescita personale» ed «autoesplorazione»: «In
una visione olistica che non divide più rigidamente la parte sana dell’essere
umano da quella malata, in cui l’uomo non è visto attraverso la lente
deformante della patologia, ma come totalità in costante crescita e proiettata
verso l’avvenire, il concetto di terapia si amplia per arrivare a toccare gli
ambiti dell’educazione, dell’autoformazione»[107].
E’ in questo senso che la psicologia di Assagioli è inevitabilmente accostata
all’alchimia, ma ascoltiamo lo stesso psichiatra veneziano a questo proposito:
«Quando si parla di alchimia si pensa ai tentativi di «fare l’oro» (cosa che
pareva incredibile, ma che ora sembra meno fantastica da quando l’uomo
manipola gli atomi trasformando un elemento in un altro); ma in realtà i libri
di alchimia araba e medievale usavano spesso un linguaggio simbolico per
esprimere l’alchimia psico-spirituale, cioè la trasmutazione stessa dell’uomo.
Ciò è stato riconosciuto da vari studiosi moderni, soprattutto dallo Jung, il
quale negli ultimi anni della sua vita ha dedicato molto tempo e vari scritti al
simbolismo alchemico»[108].
L’uomo sano dunque è l’uomo in cammino verso sé, l’uomo che trasmuta,
che si esplora e si modifica, scoprendo le sue infinite potenzialità, le
meraviglie che gli abitano dentro, vere e proprie ricchezze, per tornare al
simbolismo dei metalli preziosi.
Questo tipo d’uomo superiore, soppianta l’ormai obsoleto uomo medio,
ridicolo perfino agli occhi di chi ha intrapreso la Via, una via senza ritorno, in
quanto come afferma il padre della psicosintesi, una volta iniziato il percorso
è impossibile tornare indietro: «Ricordiamo che una volta stabiliti i rapporti
tra la personalità e lo Spirito, una volta iniziata l’opera di unificazione, questa
non può più arrestarsi, neppure se tentiamo di ribellarci, poiché le energie
spirituali sono più potenti delle forze puramente psicologiche»[109].
La psicosintesi è un addio all’uomo comunemente inteso, il passo di non
ritorno verso una coscienza superiore, che forse ancora incute troppo sospetto
per via dell’ombra inquietante e imponente che riflette la normalità, costruita
ad arte dalla società moderna e dai suoi strumenti di potere politico e
culturale. In tale orizzonte regredente, essa tutto sovrasta, spesso anche la
capacità di discernere.
«Però, ora si è cominciato a reagire contro questo meschino culto della
«normalità»; pensatori e scienziati del nostro tempo vi sono opposti con
decisione. Tra i più autorevoli si può citare Jung, il quale non ha esitato a dire
che: «L’uomo normale è la meta ideale per i falliti della vita, per tutti coloro
che sono al di sotto del livello generale di adattamento; ma per coloro che
hanno possibilità molto maggiori di quelle dell’uomo medio, l’idea o la
costrizione morale di essere soltanto normali costituisce la tortura di un letto
di Procuste, una noia insopportabile, una noia senza speranza»[110].
Una delle peculiarità dell’uomo normale è l’estroversione, egli deve sempre
fare qualcosa che lo proietta fuori di sé, che lo distragga e lo tenga lontano
dal suo mondo interiore. Se l’uomo normale è lasciato a se stesso,
semplicemente si annoia. Se non ha i passatempi preconfezionatigli dalla
società, se non dispone di intrattenimento televisivo, sportivo o qualsivoglia
specifico passatempo del momento, quello più condiviso, egli si deprime.
Non sa di possedere un mondo interiore, nessuno glielo ha mai detto, la
società ha fatto di tutto per convincerlo del contrario educandolo solo ai
modelli superficiali e massificanti da essa proposti.
Assagioli sottolinea approfonditamente tale problematica:

«L’introversione è una necessità urgente per l’uomo moderno; la nostra


civiltà attuale è così esageratamente estrovertita che l’uomo è preso in una
frenetica ridda di attività che divengono fini a se stesse. Si può dire che
l’uomo «normale» viva oggi psicologicamente e spiritualmente «fuori di
sé»; questa espressione che nel passato veniva usata per i malati di mente, è
oggi adatta per l’uomo moderno! Egli ormai vive dappertutto fuorché
dentro se stesso; egli è in realtà «ec-centrico», cioè vive fuori del proprio
centro interno»[111].

Forte è l’assonanza con il celebre centro di gravità permanente di


gurdjieviana memoria, citato da Battiato nel famoso e omonimo brano degli
anni ’80, appartenente all’album dall’eloquente titolo La voce del padrone -
altra citazione di Gurdjieff.
L’individuo veramente tale, cioè indiviso, deve imporre la propria presenza a
tutto il suo essere, deve fargli sentire la sua voce: è lui il padrone, è lui il
«dio» del centro di gravità che permane al di là della superficialità esteriore.
Un individuo rivolto all’esterno, in francese désaxé, fuori dal suo asse, fuori
dal suo centro, non è e non può essere padrone di se stesso.
«Occorre quindi controbilanciare la vita esterna mediante una adeguata vita
interna. Dobbiamo rientrare in noi stessi. Occorre che l’individuo rinunci alle
sue molteplici continue evasioni, e che si volga invece alla scoperta di quello
che è stato di recente chiamato lo «spazio interno»[112], probabilmente lo
stesso spazio interno che reclamava Ballard nel quale le intime pulsioni
dell’animo si scontrano con le subliminali intromissioni dei mass media,
come ebbe a sottolineare il celebre scrittore britannico[113].
L’ascesa al mondo interiore è indice di salute, chiunque compia il percorso di
discesa si avvia alla sanità - sembra proprio che in tale visione del mondo, di
fatto lontana anni luce dai moniti della Chiesa, il vero «peccato» sia lo star
male, fisicamente o psicologicamente[114]. D’altronde se diamo per vero il
motto alchemico, il tesoro che ci spetta è tutt’altro che insignificante: visita
interiore terrae rectificando invenies occultum lapidem[115]. Già Eckhart
diceva: «Scendi in fondo a te stesso e impara a conoscerti là». «Occorre
riconoscere che non vi è soltanto il mondo esterno, ma che vi sono vari
mondi interni, e che è possibile , anzi doveroso, conoscerli, esplorarli,
conquistarli. Questa è una necessità di equilibrio e di salute»[116]. La salute
risiede nella consapevolezza dell’imprescindibile unione di questi due mondi
apparentemente lontani, non solo ma innanzitutto della centralità del primo
rispetto al secondo. E’ questo uno dei temi di massima importanza per lo
studio comparato dell’esoterismo se non il principale probabilmente. Nella
dettagliatissima opera che Elémire Zolla ha dedicato allo studio dell’alchimia,
il filosofo torinese afferma: «Dalla trasmutazione dell’interiorità umana tutto
dipende? Dall’ordine dentro di me dipende quello del mondo attorno a me?
Se io divento pura e infinita luce, la materia attorno a me sarà del pari
trasmutata: dal mio carattere dipende il mio destino, dal mio cuore il mio
ambiente. I miei peccati sono lo spessore e l’asperità del reale. Ardua,
esoterica verità!»[117]
E’ a partire dal mondo interno che si forma quello esterno, sono io che,
rinascimentalmente, fabbrico il reale, sono i miei pensieri che,
metafisicamente, lo compongono pezzo dopo pezzo: «L’uomo moderno, che
ha dominato la natura e ne sfrutta le energie, non si rende conto che, in realtà,
tutto ciò che egli fa all’esterno ha origine in lui, nel suo animo, è effetto di
desideri, istinti, impulsi, programmi, piani. Queste sono attività psicologiche,
cioè interne: ogni azione esterna è il risultato di moventi interni. Perciò si
dovrebbe anzitutto conoscere, esaminare e regolare questi moventi. Un uomo
superiore, Goethe, che ha saputo recitare bene la parte dell’uomo normale
quando a voluto farlo, ha detto: «Quando abbiamo fatto la nostra parte
all’interno, l’esterno si svolgerà da sé automaticamente»[118].
L’uomo superiore dunque è l’uomo che ha coscientizzato l’interdipendenza
di mondo interiore ed esteriore, che ha esperito la supremazia del primo a
scapito della composizione del secondo. Un tale individuo, secondo le
tradizioni filosofiche perenni, non è più nemmeno un uomo: è un uomo-dio.
Non un uomo che si è fatto Dio, come accade nella religione cristiana quanto
piuttosto un uomo che si scopre Dio, come invece avviene nelle varie
tradizioni iniziatiche sia orientali che occidentali. E’ proprio a tale proposito
che Assagioli ripropone i temi dell’alchimia, dell’arte regale del trasmutarsi,
come inoltre rievoca spesso l’unione di percipiente e percepito, il «Tutto è
Uno» delle filosofie taoiste e indiane e dunque ancora dell’identità di uomo e
Dio, della divinità della natura umana.
Emilio Servadio, l’altra celebre figura di spicco della psicanalisi italiana, a
tale riguardo propone interessanti parallelismi dalle varie tradizioni
d’Oriente:

«Plotino dichiarava che quando l’anima si volge al divino, «contemplerà in


se stessa la subita apparizione di esso in lei. Nulla s’interpone tra i due. Ma
piuttosto i due sono Uno». «Colui che conosce veramente il Brahman
supremo, diviene Brahman lui stesso», troviamo nella Mandukya
Upanishad. Più vicino a noi, ma sempre dall’Oriente, ci giunge il canto di
Jalala-Ud-Din Rumi: «Io divenendo Tutto in Tutto, chiaramente vedo Dio
in ogni cosa, e dall’ardente desiderio di unione, sorge il grido d’Amore…».
Un altro poeta sufi, Jami, postilla: «Fisso lo sguardo, ancora, fino a
divenire Uno con Colui che miro. Esso ed io, e null’altro, ma uniti in un
indivisibile Essere»[119].

Interessante un episodio riportato dal padre della psicosintesi quando


lavorava all’ospedale psichiatrico di Ancona. Assagioli aveva a che fare con
un simpatico vecchietto che con estrema lucidità e convinzione affermava di
essere Dio. Al di là di un’analisi medica ordinaria che avrebbe considerato il
malato come un tipico caso di delirio di grandezza, c’è l’indagine più
profonda apportata da uno psichiatra geniale come Roberto Assagioli il quale
sa di certo che oltre alle etichette puramente descrittive delle classificazioni
cliniche, risiedono indisturbati aprioristici perché, tanto invisibili quanto
determinanti riguardo alla vera natura dei disturbi.
Ecco l’analisi dello psichiatra veneziano in proposito:

«E’ noto come la percezione interiore della realtà dello Spirito e della sua
intima compenetrazione con l’anima umana dà a colui che la prova un
senso di grandezza e di allargamento interiore, la convinzione di
partecipare in qualche modo alla natura divina.
Nelle tradizioni religiose e nelle dottrine spirituali d’ogni tempo se ne
possono trovare numerose attestazioni e conferme, espresse non di rado in
forma assai audace.
Nella Bibbia troviamo la frase esplicita e recisa: «Non sapete che siete
Dei?». E Sant’Agostino dice: «Quando l’anima ama qualcosa, diviene a
essa simile; se ama le cose terrene, diventa terrena; ma se ama Dio (si
potrebbe chiedere) diventa essa Dio?»[120].
Va notato che Assagioli, probabilmente per assonanza con le sue radici
ebraiche, cita spesso la Bibbia e addirittura anche S. Paolo. Pur considerando
l’eterogeneità sulla quale poggia fermamente la sua Weltanschauung, rimane
a mio avviso difficile conciliare lo sviluppo armonico della persona che
scopre di essere «magica» e addirittura «divina», che accetta e vive la
sessualità integrandola perfino in tale processo di autosviluppo[121] con la
visione dell’uomo peccatore e costantemente minacciato e punito da Dio,
quale quella presentata nell’Antico Testamento, poi ripresa e acuita ancora di
più da S. Paolo specialmente per ciò che concerne all’aspetto sessuale.
Decisamente più calzanti e idonee alla visione psicosintetica risultano invece
le citazioni riprese dalla tradizione orientale, soprattutto indiana, ascoltiamo
ancora Assagioli al riguardo: «L’espressione più estrema della identità di
natura fra lo spirito umano nella sua pura e reale essenza e lo Spirito Supremo
è contenuta nell’insegnamento centrale della filosofia Vedanta: Tat twam asi
(Tu sei Quello) e Aham evam Brahman (In verità io sono il supremo
Brahman)»[122].
Non solo il Vedanta ma anche il Buddismo viene accostato al Cristianesimo
per delineare quello stato di sovraumanità caratteristico di chi ha raggiunto
l’unità: l’uomo superiore o l’uomo-dio:

«Così si arriva a quella che è stata chiamata «la santa libertà» dei figli di
Dio, alla «vita unitiva».
San Giovanni della Croce afferma arditamente che chi l’ha raggiunta
«sembra il medesimo Dio e ha le stesse proprietà di lui».
E’ lo stato di vittoria, di liberazione che gli orientali chiamano Nirvana. In
esso ogni desiderio, ogni brama personale è consunta, ogni attaccamento
bruciato, ogni paura svanita. Lo spirito così svincolato acquista una sottile
e formidabile potenza: è capace di wu-wei, dell’azione senza azione, cui
nulla può resistere»[123].

Interessante come l’indagine assagioliana del malato di Ancona finisca per


svelare gli stati mistici inerenti le tradizioni spirituali più disparate. La
domanda che sorge spontanea in relazione a tale esplicito sincretismo è quella
che pone l’allievo di Assagioli Piero Ferrucci nel suo saggio Esperienze delle
vette:
«Come distinguere la vera illuminazione dal deliro? Che differenza c’è fra
la vera visione e un’orgia di circuiti cerebrali impazziti? […] qui basti dire
che la vera illuminazione porta serenità e gioia, mai esaltazione o crudeltà;
che sempre rigenera e mai offende; che aiuta a espandersi oltre i confini del
mondo personale; e che, nella sua manifestazione più completa, è la stessa
per tutti: satori, samādhi, nirvāna, unio mistica, fanā, wu: i termini variano
a seconda della tradizione, l’esperienza è la stessa in tutte le culture.
E’ un’esperienza molto difficile da descrivere»[124].

Le cosiddette peak experiences sono solitamente vissute da persone dotate di


quozienti di salute psicologica eccellenti, la differenza tra ciò che è sano e ciò
che è malato secondo la società, non ha dunque alcun valore dal punto di
vista scientifico – per tornare ancora a Zolla: «dal punto di vista metafisico
non esiste patologia»[125]. Lo stesso Assagioli ha avuto diverse esperienze
culmine durante la sua esistenza, come quella già menzionata durante la
detenzione. Checché ne voglia la visione meccanicista, che reputa reale
solamente lo stato di veglia, difficile screditare le esperienze di un
personaggio di tale levatura quale è Roberto Assagioli.
In ogni modo il dissidio tra una visione calcolante e una metafisica ha da
sempre animato la storia del pensiero fin dall’antichità, pensiamo ad Eraclito
e il contrasto tra gli svegli e i dormienti ad esempio. Lo stato di veglia
opposto a quello di sogno tra l’altro viene ampiamente proposto nelle Vie
Iniziatiche del passato e del presente – la rivisitazione simbolica del film
Matrix ne è un eloquente metafora interpretativa. Quando Morpheus chiede a
Neo di scegliere tra la pillola blu e quella rossa, gli chiede in pratica di
decidere se continuare a vivere da dormiente, da uomo comune o se vuole
compiere il passo di non ritorno, il salto all’altro Io, cioè se vuole diventare
un iniziato, se vuole svegliarsi.

«Gli sciocchi si considerano adesso come svegli – tanto è personale la loro


conoscenza. Siano principi o guardiani di greggi, son sempre così iattanti e
sicuri di sé. (Chuang-Tzu)
Questa metafora dello svegliarsi dal sogno ricorre più volte nelle varie
formulazioni della Filosofia Perenne. In questo contesto la liberazione può
esser definita come processo di risveglio dall’assurdità, dagli incubi e dai
piaceri illusori di quella che generalmente viene chiamata vita reale: un
risveglio nella coscienza dell’eternità»[126].
La Via della psicosintesi, formulata ed esperita da Roberto Assagioli
«dentro» e «fuori» quel mondo che solo ingenuamente continuiamo a
dividere in esteriore e interiore, può certo rappresentare un percorso di
risveglio, un reale percorso iniziatico di non ritorno.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI CITATI E
CONSULTATI

OPERE DI ASSAGIOLI
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STUDI SU ASSAGIOLI
P. GUGGISBERG NOCELLI, La via della psicosintesi, L’Uomo Edizioni,
Firenze 2011.
M. MELEGA, L' itinerario mistico di Angela da Foligno, figlia di san
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Roma 2012.
P. M.BONACINA, Manuale di psicosintesi. Il cuore teorico dell'opera di
Assagioli, Xenia, Milano 2010.
P. GIOVETTI, Roberto Assagioli, Mediterranee, Roma 1995.
G. BARBANERA, Roberto Assagioli. Luce, gioia, Calosci, Arezzo 2003.
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ALTRE FONTI
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E. ZOLLA, Volgarità e dolore, Bompiani, Milano 1966.
L’oltre dell’arte: Julius Evola e il
superamento del Dadaismo.

INDICE

1. Il contesto storico e il valore di Evola.

2. Dal Futurismo al Dadaismo.

3. L’arte come contraddizione.

4. Oltre il Dadaismo.

ABSTRACT

This study intends to demonstrate how Evola, transcending Dada, came to


generate a process of extreme liberation and maximum human and
intellectual abstraction, starting with all that is embodied in his entire
Weltanshcaunng.
The essay shows the birth, development, and triumph, through its negation, of
a journey that is at once artistic, philosophical, and initiatic.
Questo studio vuole evidenziare come Evola, trascendendo il Dadaismo,
abbia generato un processo di liberazione estrema e massima astrazione
umana e intellettuale, a partire dalla quale ha preso corpo la sua intera
Weltanschauung.
Il saggio mostra la nascita, lo sviluppo e il trionfo, attraverso la sua
negazione, di un percorso che è al contempo artistico, filosofico e iniziatico.

Io, l’investigatore solenne delle cose futili che sarei capace di andare
a vivere in Siberia solo perché non ne sopporto l’idea.

Pessoa

«Chiunque voglia la libertà essenziale, deve avere il coraggio d’uccidersi.


Chi ha il coraggio d’uccidersi, ha conosciuto il segreto dell’inganno. Più in
là non c’è libertà; qui è tutto, e più in là non c’è nulla. Chi ha il coraggio
d’uccidersi, quello è Dio».

Fëdor Dostoevskij

Il processo della creazione e quello con cui mediante l’Arte, l’uomo


reintegra
se stesso hanno una stessa via ed hanno uno stesso significato.

Julius Evola
1. Il contesto storico e il valore di Evola.

Nell’introduzione a Superamenti. Critiche al mondo moderno 1928 – 1939


dei Quaderni di testi evoliani, Gianfranco De Turris scrive: «Mi ha sempre
colpito la frase, che in diverse versioni, Julius Evola spesso scrive: «esaurita
l’esperienza andai oltre». Frase che trova una sua espressione concretamente
visiva nel disegno allegato alla lettera inviata a Tristan Tzara alla fine del
1921, dove l’artista ventitreenne afferma che la posizione dadaista dell’
«indifferenza e della virtualità immobile» non deve essere considerata un
punto conclusivo, ma al contrario «essere un punto di partenza»[127].
Il Dadaismo per Evola fu, sin dall’inizio, un superamento, un superamento di
sé innanzitutto, tanto l’esperienza umana era indissolubilmente legata a quella
artistica come ne è prova il progetto del suicidio (quale coronamento
dell’afflato nichilista e distruttivo proprio del Dadaismo stesso). Al contempo
però è sicuramente un punto di partenza: il Dadaismo rappresenta il
fondamento da dove nasce Evola filosofo e Evola iniziato. Per tale motivo
tale breve ma intensissima esperienza merita un doveroso approfondimento.
Come afferma De Turris, Evola nel corso della sua attività saggistica ha
spesso identificato i suoi scritti con il titolo “Superamenti” o simili. L’anelito,
congenito, al superare, al cambiare, al trasmutare o in sostanza all’evolvere
(questo il senso di ogni vera Via spirituale del resto), marca e definisce il
periplo di quel sentiero iniziatico che tetragono deflagra sin dagli anni
giovanili, nei quali proprio un intento astratto, sul piano umano e
intellettuale, asseverato dall’assenza di limiti svettanti in limine al Dadaismo,
plasma il corifeo di una messe di superamenti interiori, che concretandosi
vicendevolmente danno corpo a un’ontologia dell’oltre, incessante e
impetuosa, placatasi solo alle soglie del suicidio. Evola infatti tentò di
superarsi anche sul piano biologico, quello afferente alla precipua matrice
esistenziale, piombando nel presupposto atavico del nichilismo irretito e
avviluppato alle sue estreme conseguenze.
Il Dadaismo poggia sul dittico superamento/contraddizione, esso rappresenta
l’esperienza culmine di un determinato momento storico: «D’altronde, anche
Tzara avrebbe affermato, senza alcun tentennamento, che «Dada si applica a
tutto, eppure non è niente, è il punto in cui il sì e il no si incontrano».
Insomma con l’esplosione del radicale nichilismo dadaista, il Novecento
sembrava giunto ad un vero e proprio punto di non ritorno.
Ma forse si trattava solamente dell’esplicitazione di qualcosa di molto antico,
di archetipico. Qualcosa che nel cuore dell’esperienza estetica occidentale era
cresciuto e maturato sino alla esplicita salita in superficie, e alla sua
enunciazione nello spirito iconoclasta dell’avanguardia dadaista»[128].
Ma andiamo con ordine.
Il Dadaismo si inserisce in un contesto molto difficile, quello della «Grande
guerra», un conflitto che stremò l’Europa e l’Italia e le cui conseguenze
furono letali soprattutto per la popolazione civile, colpita in larga misura.
Grazie allo sviluppo tecnologico e le nuove armi a disposizione il popolo
venne coinvolto come mai prima era successo in una guerra e gli artisti e gli
intellettuali, coloro che descrivono e assorbono le contraddizioni del mondo
circostante, furono stavolta letteralmente travolti da tali sconvolgimenti.
Il distacco dal passato fu drastico: le istituzioni di tradizione ottocentesca si
frantumarono di fronte al nuovo «ordine» imposto che stravolse
repentinamente vita e idee dei cittadini europei.
Il Dadaismo nasce proprio come conseguenza e come risposta al suddetto
stato di cose, una risposta di rifiuto, di estremo disprezzo e disgusto verso la
guerra, sbandierata all’inizio come «sola igiene del mondo». Ma il disprezzo
per la guerra era in realtà, a priori, un disprezzo per la stessa società civile, la
quale non era in grado di vivere e convivere in pace.
Considerando tale contesto è facile capire come la Svizzera, neutrale al
conflitto, diventò la capitale di tuti quegli esuli artisti e dissidenti intellettuali
confluiti da tutta Europa, tra cui lo stesso Tzara. Per avere un’idea della realtà
in questione ascoltiamo lo stesso poeta rumeno: «Per comprendere come è
nato Dada è necessario immaginarsi, da una parte lo stato d’animo di un
gruppo di giovani in quella prigione che era la Svizzera all’epoca della prima
guerra mondiale e, dall’altra, il livello intellettuale dell’arte e della letteratura
del tempo. Certo la guerra doveva aver fine e noi ne avremmo viste delle
altre. Tutto ciò è caduto nel semioblio che l’abitudine chiama storia. Ma
verso il 1916 – 1917, la guerra sembrava non dovesse più finire. Di qui il
disgusto e la rivolta. Noi eravamo risolutamente contro la guerra, senza
perciò cadere nelle facili pieghe del pacifismo utopistico»[129].
Il Dadaismo era formato e guidato da questo «gruppo di intellettuali di tutta
Europa che fuggivano la guerra, che intesero portare alle estreme
conseguenze di radicale negativismo ciò che il futurismo e le correnti
d’avanguardia francesi avevano già in parte formulato: negando la società e il
suo ipocrita razionalismo, si voleva rispondere alla assurda strage della
guerra. Applicando alle arti anarchia, nichilismo e sarcasmo, si voleva
esprimere ciò che si provava nei confronti della situazione del momento. Il
nome dadà (che significa “cavallo” nel linguaggio infantile) fu scelto a caso
aprendo il dizionario Larousse»[130].
Il contesto storico fu quello più propizio per un movimento artistico
estremamente sovversivo, distruttivo e provocatorio: le difficili condizioni
contingenti diedero vita ad uno dei movimenti artistici più contraddittori della
storia.
Per quanto riguarda specificamente l’Italia bisogna dire che essere dadaisti
nel nostro paese, era davvero assai difficile, l’Italia era la nazione in cui era
nato ed operava il Futurismo, imporsi quale rappresentante di un altro
movimento artistico, tra l’altro appena sorto, era realmente un’ardua impresa.
Il barone Julius Evola però, non solo ci riuscì ma ne divenne addirittura il
massimo rappresentante, donando ad esso una caratterizzazione
profondamente filosofica non riscontrabile altrove, né in Italia né
all’estero[131].
L’Italia, nonostante la guerra, si mantenne un centro culturale di notevole
spessore e vivacità, tanto da spingere lo stesso Tzara a voler stringere
costantemente rapporti con i più autorevoli artisti del tempo tra i quali
Prampolini, Govoni, De Chirico e Marinetti. Tra gli anni Dieci e i primi anni
Venti il contesto dell’avanguardia romana era in costante fervore anche
grazie alla fervente attività della Casa d’Arte di Anton Giulio Bragalia (dove
lo stesso Evola espose), del teatro Sperimentale degli Artisti e della stessa
casa Balla. In conseguenza di ciò, non è azzardato affermare che nell’anno tra
il 1916 e il 1917, il Dadaismo fu un’avanguardia svizzero-italiana; i più
numerosi autori della rivista Dada pubblicata da Tzara a Zurigo erano proprio
italiani.
Nel suo primo periodo di vita il Dadaismo veniva da molti considerato come
un’ imitazione del Futurismo, differendo da esso solo su questioni artistiche
più che ideologiche, le quali erano inizialmente conformi in entrambi i
movimenti. Fu solo con la pubblicazione del Manifesto Dada ad opera di
Tzara nel 1918 che la rottura ideologica fu palese ed ufficiale: il Dadaismo si
presentò quale movimento dichiaratamente nichilista e distruttivo, alla cui
base pose la sovversione di tutti i valori tradizionali. Da questo momento i
futuristi si staccarono in maniera netta e decisa e Tzara si presentò quale
principale ideatore ed esponente del movimento, un movimento che si
differenziava dal Futurismo anche per l’esaltazione del riso e dell’umorismo:
prendersi gioco di tutti i valori, inclusi i propri, da cui la costante tendenza
all’autodistruzione, «categoria» fondamentale ampiamente proposta tanto da
Tzara quanto da Evola.
L’autorità evoliana in ambito dadaista si impose velocemente, l’indiscusso
valore dell’opera pittorica del barone fu confermato anche dallo strano
episodio relativo al dipinto Composizione dada n. 3. La moglie di Picabia
tentò di cancellare il nome di Evola in alto a sinistra nell’intento di attribuire
la paternità dell’opera al marito, per poi metterla sul mercato con una
maggiore valutazione. Tale episodio è eloquente sulla qualità dell’arte
evoliana.
Evola dunque deve essere considerato ed apprezzato anche in ambito
pittorico, tuttavia la critica, spiazzata dalle sue posizioni politiche, non gli ha
ancora tributato l’onore che merita. Alla domanda di Gianfranco De Turris se
Evola debba essere considerato un «minore» nell’ambito della cultura
italiana ed europea, Massimo Cacciari così risponde:

«Evola è senz’altro un «minore» – ma visto nell’ambito europeo. Allora sì


è un minore rispetto ai nomi già citati. E ancor più rispetto ai Guénon e ai
Cooramaswamy – o ad altri saggisti «tradizionali». […] Ma rimane un
autore che deve essere collocato a pieno titolo nell’ambito del pensiero
tradizionalista europeo di questo secolo. E rimane anche quel personaggio
che permette di scoprire, con la massima chiarezza, gli intrinseci rapporti
tra questo pensiero e certe correnti delle cosiddette avanguardie. In questo
senso, l’esperienza di Evola è rivelatrice, e nient’affatto «minore». Evola
va studiato a fondo a partire dagli anni «dada». Allora, sì, la sua avventura
assume aspetti emblematici, e una statura europea. Un lavoro ancora tutto
da fare»[132].

Sulla prospettiva di questo «lavoro ancora tutto da fare», si inserisce questo


breve saggio che intende mettere in luce ciò che forse troppo frettolosamente
è stato ingiustamente oscurato. Il personaggio Julius Evola merita
sicuramente di essere letto e studiato maggiormente; tale poliedrica e
complessa figura non può essere snobbata. Al di là della spinosa questione
politica della sua Weltanschauung, il barone è e rimane uno dei grandi nomi
del Novecento italiano ed europeo anche e soprattutto sul piano filosofico ed
esoterico, un uomo che non è mai sceso a compromessi ma ha sempre seguito
il suo percorso artistico, intellettuale ed iniziatico con rigorosissima serietà e
indubitabile competenza. Al tempo stesso tale sentiero «poetico» è stato
vissuto con libertà estrema, senza preoccuparsi di piacere o di non piacere,
senza preoccuparsi di titoli accademici o accademici poteri[133]. Il potere
che interessava ad Evola era quello dell’Io. Lontano da tutto e da tutti, nella
solitudine della sua personalissima visone delle vette, ha pitturato un
orizzonte filosofico che proprio nell’astrazione e nella concezione dada, trova
il suo a priori ontologico: la libertà di contraddirsi è libertà assoluta dell’Io,
potenza ed egoismo massimo che, solo successivamente, diventa categoria
filosofica. E’ proprio a partire dalla pittura che nasce l’Evola filosofo e
l’Evola iniziato in quanto senza le contraddizioni dell’astrattismo non sarebbe
mai nato l’«Individuo assoluto»[134]. Negli anni della pittura nasce e si
sviluppa quel senso di estraneità per la realtà, quel desiderio di evasione, quel
congenito anelare all’interiore, all’indescrivibile, al necessariamente astratto
che nei decenni successivi si concretizzerà nell’impalcatura di una
Weltanschauung che nel tradizionalismo, nell’alchimia, nel superamento
dell’idealismo e nell’anticristianesimo fonderà i suoi presupposti teorici (e di
fatto anche magico-operativi considerando le attività del «Gruppo di Ur»).
Il presente saggio intende esporre le categorie dell’estetica evoliana, la sua
nascita, il suo sviluppo e la sua fine, chiarificando come tale breve ma
intensissimo e coerente percorso, sia sì artistico ma di fatto anche filosofico
ed esoterico proprio nel suo a priori, nella ragion d’essere della sua
impellente ed ineluttabile manifestazione – rigorosamente astratta.

2. Dal Futurismo al Dadaismo.

Nel periodo che va dagli anni Dieci agli anni Venti il Futurismo era l’unico
movimento di rottura esistente in Italia e Evola dunque non poteva non
aderirvi. Il suo primo maestro fu Giacomo Balla, anche se bisogna ammettere
che considerando la statura di Evola, già allora, risulta al quanto difficile
pensarlo «allievo». Si potrebbe addirittura essere portati a ritenere che furono
gli stessi interessi esoterici di Evola ad influenzare Balla, per lo meno
relativamente all’opera Trasformazione, forme, spiriti del 1919, anno in cui il
barone partecipa all’Esposizione Nazionale Futurista.
Il periodo che va dal 1918 al 1921, viene definito da Evola «idealismo
sensoriale», il riferimento è ovviamente ai sensi interni, al mondo interiore, in
quanto solo un’arte totalmente astratta può descrivere ciò che sta agli antipodi
del mondo materiale[135]. A questo periodo appartengono opere quali Five
o’ clock tea e Sequenza dinamica, entrambe del 1917. Datati 1918 sono
invece i dipinti Fucina studio di rumori, Mazzo di fiori, Paesaggio interiore
10.30 e Tendenze di idealismo sensoriale.
Interessante la serie dei Paesaggi interiori con la segnalazione dell’ora,
attraverso i quali Evola, come afferma la studiosa Elisabetta Valento vuole
«indicare la capacità di seguire il proprio interno senza per questo perdere i
riferimenti con l’esterno»[136]. L’indissolubile legame tra mondo esteriore e
mondo interiore permea significativamente l’approccio estetico evoliano, il
quale suggella l’adesione e allo stesso tempo l’evasione dal Futurismo
secondo una contradditoria coerenza congenitamente dadaista,
imprescindibilmente ansiosa di costanti e ulteriori fughe e distacchi dal reale.
Se Evola aderisce inizialmente al Futurismo in quanto unico movimento
d’avanguardia esistente allora in Italia, da esso poi bruscamente si distacca
ritenendolo privo di prospettive trascendenti, di varchi interiori.
Il rapporto di Evola col suddetto movimento è un incontro che in nuce è già
un addio; nell’autobiografia Il Cammino del Cinabro, il barone è perentorio:

«In quel periodo giovanile, dato che in Italia come movimento artistico
d'avanguardia praticamente esisteva quasi soltanto il futurismo, ebbi
rapporti personali con esponenti di esso. In particolare, fui amico del
pittore Ignazio Balla, e conobbi Marinetti Anche se il mio interesse
principale era pei problemi dello spirito e della visione della vita, coltivavo
altresì la pittura, una disposizione spontanea al disegno essendosi
manifestata in me già da bambino. Non tardai però a riconoscere che, a
parte il lato rivoluzionario, l’orientamento del futurismo si accordava assai
poco con le mie inclinazioni. In esso mi infastidiva il sensualismo, la
mancanza di interiorità, tutto il lato chiassoso e esibizionistico, una grezza
esaltazione della vita e dell'istinto curiosamente mescolata con quella del
macchinismo e di una specie di americanismo, mentre, per un altro verso,
ci si dava a forme sciovinistiche di nazionalismo»[137].

La concezione estetica evoliana trascende ampiamente le categorie generali


del Futurismo per inserire in esso tutto il sostrato esoterico di cui l’artista era
pregno.
Interessanti a tale proposito le parole del pittore futurista Arnaldo Ginna che
conobbe Evola a casa di Balla: «Evola dipingeva un astrattismo di stato
d’animo molto vicino a quello che facevo io, con quel pizzico di sentimento
profondo animico occulto. Ciò veniva dal fatto che Evola, come me, si
interessava di occultismo traendone, s’intende ognuno secondo la propria
inclinazione, un succo personale»[138]. Tra i due tuttavia c’era una
divergenza che Ginna situava tra l’ «uomo minimo» inseguito dal pittore
ravennate e il «superuomo» auspicato dal barone. Continua Ginna:

«Quel che appare invece nella pittura di Evola è lo stato d’animo di chi
sente l’odore di forze occulte trascendentali.
Si era nell’epoca del dinamismo plastico, cioè in un’epoca in cui si esaltava
particolarmente la forza fisica. E si badi bene che il Dinamismo Plastico
venne come reazione al Cubismo statico. Boccioni e Balla spesse volte
uscivano dal Dinamismo Plastico verso espressioni spirituali: si tengano
presenti ad esempio, Gli addii di Boccioni»[139].

Evola stesso, cosciente delle tensioni interne al movimento, distingue due


periodi nel Futurismo: il primo quello dello «Sturm und drang», è un periodo
affannoso, di ricerca e sperimentazione, ad esso si accosta il nome di
Umberto Boccioni, è lui il suo massimo rappresentante. Il secondo è quello
della forma nuova di Giacomo Balla, quello che coincide con la concezione
estetica evoliana dell’astrattismo e dello spiritualismo[140]. Esattamente
come in filosofia, l’idealismo viene superato nella magia al cui vertice agisce
solo l’Io escludendo la materialità della realtà oggettiva in quanto
nell’esperienza artistica Evola ritiene necessario escludere qualsiasi
riferimento all’esteriorità, alla figuratività alla naturalità. La natura non è che
un ostacolo all’arte pura che racconta l’interiorità. E’ un itinerario necessario
e senza ritorno: prima di superare il Dadaismo Evola supera l’idealismo e lo
fa attraverso la pittura futurista in quanto solo una forma astratta può
descrivere l’interiorità, l’antipodo della concretezza.
Ma andiamo con ordine. L’artista propone il suo idealismo pittorico connesso
alle attività dei sensi interni nel 1919 partecipando all’Esposizione Nazionale
Futurista. In tale occasione il barone poté presentare la sua pittura composta
da ritmi cromatici, linee ed immagini che connesse formano il corpus della
soggettività pura, libera nella sua potenza espressiva, libera perché astratta,
agli antipodi del tangibile. La stessa pittura futurista «deve differenziarsi da
ogni altra esclusivamente in quanto esclude l’oggetto, in quanto è
l’estrinsecazione di forme puramente astratte e psicologiche, in quanto noi
stessi quale spirito siamo gli unici soggetti dei nostri quadri»[141].
Si tratta di esprimere costruzioni cromatiche che non hanno nulla di concreto
e lo stesso spettatore non deve recepire nulla ma lasciarsi avvolgere da tali
ritmi scaturenti dalla stessa interiorità: non si propongono idee, né tanto meno
oggetti (altrimenti si ricadrebbe nell’esteriorità), ma si restituisce uno stato
d’animo, lo si trasla nell’al di qua[142]. Non si tratta di riprodurre la realtà
ma di generarla[143].
Il Futurismo dunque pone le basi di una pittura più psicologica e spirituale
che continuerà ad «individuarsi» con Dada e in seguito col Surrealismo.
Claudio Bruni, impegnato in una ricerca sui pittori futuristi per il suo volume
Dopo Boccioni, visitò Evola più di una volta, rimanendo particolarmente
colpito dalla portata qualitativa del lavoro del barone:

«Durante quella prima visita, la mia attenzione veniva polarizzata


soprattutto dalle opere del primo ciclo perché esse erano più vicine alle
tendenze che erano state enunciate da Marinetti nella grande esposizione
futurista del 1919 del «dinamismo plastico» e degli «stati d’animo».
Fu così che quel giorno vidi per la prima volta dipinti come Five o’clock
tea del 1917 ove «l’idealismo sensoriale» di Evola si fonde perfettamente
con il «dinamismo futurista» ed il dipinto sembra essere in bilico tra la
dinamica e la cromaticità di Balla e la tematica dei cabarets e delle
ballerine di Severini; Fucina studio di rumori del 1918 ove è chiara
l’impostazione del dinamismo futurista anche se nell’opera affiorano delle
ascendenti mitteleuropee tra il secessionismo viennese e lo spiritualismo
del Blaue Reiter; Truppe di rincalzo sotto la pioggia del 1919 ove il
parallelismo con Balla è forse ancora più evidente.
Quel giorno, come ho già detto, cercavo le opere che avevano avuto
un’attinenza con il movimento futurista e così scorsi con una certa
superficialità quelle che da tale movimento si distaccavano per inserirsi in
un discorso Dada. Comunque mi parve subito evidente che il momento
dell’Evola pittore era di altissima importanza, sia per la cultura italiana che
per un più ampio discorso a livello europeo»[144].

L’esperienza futurista proietta Evola in quella dada; si tratta di un’


evoluzione silenziosa, intima, potente.
All’inaugurazione della Mostra del Movimento Italiano Dada presso la casa
d’Arte Bragaglia nell’aprile del ’21, Evola tiene una conferenza la sera del
vernissage durante la quale proclama la morte del Futurismo, un gesto
irriverente per i futuristi presenti in sala che ovviamente non apprezzarono.
Di fatto però, con tale gesto, il barone ufficializza la sua uscita dal
movimento.

3. L’arte come contraddizione.

«Dadaismo e Futurismo sono due tendenze assolutamente agli antipodi: l’una


è assoluta interiorità, l’altra assoluta esteriorità»[145]. Queste parole di Evola
confermano la determinazione della scelta, il barone non può che optare per
l’interiorità. Non solo, egli vuole teorizzare questa interiorità, tracciare le
linee di una (im)possibile posizione estetica in un movimento artistico che di
fatto ne nega qualsiasi a priori. Ecco che nasce quella che potremmo definire
«un’estetica della contraddizione», primo perché Dada stessa è
contraddizione in atto, secondo perché l’intenzione medesima di contenerla
entro i limiti di una rappresentazione linguistica, è ancora più contraddittorio
e improponibile – se non nei termini di un’assoluta libertà egoistica dell’Io
appunto. Tale intento viene concretizzato nell’opera Arte astratta del
1920[146], in essa Evola espone, teoricamente e poeticamente, la sua
concezione estetica eloquentemente descritta e «interpretata» nell’uscita
stessa dal movimento, cioè nella sua negazione - momento massimo della
contraddizione evoliana, vetta raggiunta nella coerenza dell’esperienza
artistica e poetica del filosofo.
In questo periodo Evola ha ventitré anni, fa uso di sostanze stupefacenti per
raggiungere stati di coscienza diversificati e immergersi sempre più in una
dimensione completamente staccata dai sensi fisici. L’attrazione per una
dimensione totalmente spirituale (e al contempo il rinnegamento dell’arte e
della poesia) è così forte che Evola è deciso a seguire la strada di due dei suoi
autori di riferimento, Weininger e Michaelstaedter, i quali, entrambi a
ventitré anni optarono per il suicidio. Evola si è convinto a portare la
contraddizione agli estremi più alti, quella della sua stessa esistenza.
Il barone si salva grazie alla illuminante lettura di un testo buddista delle
origini nel quale il concetto di «estinzione» colpisce il giovane artista, tanto
da farlo riflettere e leggere il suicidio quale atto di ignoranza, contrapposto
invece ad una possibilità estrema di libertà, quella di ribaltare la
contraddizione del suicidio e liberarsi nell’autrachia dell’Io gettando le basi
di quella che sarà poi la Fenomenologia dell’Individuo assoluto[147].
A proposito di tale esperienza così scrive nella sua autobiografia: «Questa
soluzione [...] fu evitata grazie a qualcosa di simile ad una illuminazione, che
io ebbi nel leggere un testo del buddhismo delle origini. Fu per me una luce
improvvisa: in quel momento deve essersi prodotto in me un mutamento, e il
sorgere di una fermezza capace di resistere a qualsiasi crisi»[148].
Siamo nel 1920 e il barone, appena scampato al suicidio, scoprirà di lì a poco
di essere il maggior rappresentante del Dadaismo in Italia[149]. Seppur
ancora gravato interiormente dalla profonda crisi interiore il pittore trova in
sé le forze per calarsi di nuovo nella materialità della vita quotidiana. E’ in
questo frangente che Evola comincia ad allinearsi alla visione di Tristan
Tzara col quale intrattiene un profondo scambio epistolare, in cui emerge
tutta la stima del filosofo per il poeta rumeno nel quale, in quegli anni, vede
una guida a cui tendere e con cui confidarsi[150]. Tale episodio è
estremamente importante se consideriamo un personaggio dalla personalità
così spiccata: Evola non ebbe mai maestri, semmai lui stesso fu un Maestro,
quella per Tzara tuttavia fu una dichiarazione di stima e ammirazione totale.
Questa seconda fase della produzione artistica evoliana viene definita
astrattismo mistico, e tale espressione indica una reinterpretazione dadaista
dell’idealismo magico evoliano. Lo stesso barone descrive quest’incontro tra
avanguardie:

«Nel primo dopoguerra fui invece attratto dal movimento dadaista, creato a
Zurigo dal romeno Tristan Tzara: ciò, soprattutto per via del suo
radicalismo. Il Dadaismo non voleva essere semplicemente una nuova
tendenza dell’arte d’avanguardia. Difendeva piuttosto una visione generale
della vita in cui l'impulso verso una liberazione assoluta con lo sconvol-
gimento di tutte le categorie logiche, etiche ed estetiche si manifestava in
forme paradossali e sconcertanti. Per aver conosciuto «il brivido del
risveglio», i dadaisti proclamavano una «necessità severa senza disciplina
né morale», l'«identità dell'ordine e del disordine, dell'Io e del non -Io,
dell'affermazione e della negazione, come radianza di un'arte assoluta», la
«semplicità attiva, l'incapacità di discernere fra i gradi della
chiarezza»[151].

E’ il radicalismo infatti il tratto centrale caratterizzante il Dadaismo, un


movimento che si suicida nel momento in cui si impone, la cui creazione è di
fatto un’aprioristica autodistruzione consapevole e certa, voluta e
determinata.

«Ciò che vi è di divino in noi - affermava Tristan Tzara - è il risveglio


dell'azione antiumana». «Che ognuno gridi: vi è un gran lavoro distruttivo,
negativo, da compiere. Spazzar via, ripulire. La purezza dell’individuo si
afferma dopo uno stato di follia, di follia aggressiva e completa, di un
mondo lasciato fra le mani di banditi che si lacerano e distruggono i secoli.
Senza scopo né disegno, senza organizzazione, la follia indomabile, la
decomposizione». E ancora: «Dada è il microbo vergine». «Cerchiamo la
forza dritta, pura, sobria, unica, non cerchiamo nulla». Il tratto più
caratteristico nel dadaismo era anche la sdrammatizzazione di coteste
negazioni, cui si voleva togliere ogni pathos traducendole nelle forme del
paradosso freddo e della pura contradizione. «Dada non è serio - diceva
ancora lo stesso Tzara. - Non si commuove per le disfatte dell'intelligenza.
Con tutte le forze, lavora per l’introduzione. dappertutto, dell’idiozia». «Il
vero dadaismo è contro il dadaismo, si trasforma, afferma, dice nello stesso
istante il contrario, senza darvi importanza»[152].

La contraddizione era l’anima del Dadaismo, l’impulso all’autodistruzione


permanente e costante quale categoria fondante e forgiante uno stile che non
era solo artistico ma anche esistenziale, ribadendo e strillando un disincanto
imperante. Ascoltiamo ancora Evola a tale riguardo:

«Noi sappiamo quel che facciamo, ché possediamo la distruzione, e non la


distruzione, e la distruzione possiede noi: lo sappiamo freddamente,
chirurgicamente mentre dall’altro lato tutto quel che facciamo è per noi
stessi assolutamente incomprensibile non vogliamo nulla. Io sono in mala
fede: i miei poemi non mi importano come lo smalto per le unghie: i miei
quadri li faccio per vanità, scrivo perché non ho nulla da fare e per
réclame, sono un rastaqueuère dello spirito e ripongo la mia cosa nella
forma senza vita, ripongo la mia cosa nel nulla: Ich habe meine Sache auf
nichts gestellt»[153].

E ancora, stavolta in Arte astratta:

«Esprimere è uccidere.
Dunque non si può ne si deve esprimere.
Valle a dire che l’opera d’arte può essere concepita soltanto come un lusso,
come un capriccio del volere: si sentirà secca e sporca crosta caduta
indifferentemente e senza passione dal vivo tronco.
Far dell’arte così come si prende un te.
E’ evidente che il numero di persone che posso scuotere e convincere colla
mia arte è inversamente proporzionale al grado di purità e di originalità di
quest’arte stessa .
E’ necessario non farsi capire»[154].

L’intento è chiaro, tanto spietato quanto lucido, consapevole, autocosciente.


Più l’arte è contraddittoria più ribadisce un intrinseco carattere di onestà
«intellettuale», di purezza «spirituale». Più l’atto artistico è un gesto tra i tanti
o addirittura capriccio, più esso conferma ed avvalora l’egoismo, inteso come
libertà (secondo l’estetica evoliana) dell’artista stesso:
«L’artista sincero che naufragante nel “divino” istante dell’ispirazione quasi
in preda ad una febbre indomabile, crea la “vera” opera d’arte, ed il cane che
salta sulla cagna e la monta sono la stessa cosa»[155]. Tale equazione, tale
paradossale parità di livelli, è proprio ciò che garantisce la superiorità di
coscienza estetica: è nell’egoismo che si attualizza il primato dadaista
secondo Evola. «Oltre l’uomo, creare il senso dell’Unico. Là dove l’arte può
salvarsi, e lasciar vedere – come per silenziosi lampi notturni, immense e
bianche città insospettate – il fluire della coscienza superiore, è là dove l’arte
è al di sopra della naturalezza, del sentimento, dell’umanità: au dessus de la
melée: là dove è fatto egoistico ed espressione coscientemente arbitraria ed,
in uno, freddamente voluta, in uno stato di estraneità, di morte vivente»[156].
Ecco il senso della distruzione e dell’autodistruzione: una morte che vive,
vive perché è morta, confermando tutta l’operosità della categoria della
contraddizione, in atto nella concezione dadaista. Un’arte salvata, un’arte
che, in quanto morta, non vede: «ma occorre invece saper non vedere, non
trovare, non avere: porsi nel nulla, freddamente, sotto una volontà
lucidissima e chirurgica.
E questo è per la prima volta creazione: egoismo e libertà!»[157].
In Arte astratta il barone rafforza ancora la sua posizione:

«Arte è egoismo e libertà.


Sento l’arte come una elaborazione disinteressata, posta da una coscienza
superiore dell’individuo, trascendente ed estranea perciò alle
cristallizzazioni passionali e di esperienza volgare.
Il sentimento estetico va posseduto come ombra mistica; dall’altro lato,
come una vitale Weltanschauung: filosofia, arte, morale, esperienza
volgare, scienza, tutto ciò deve esser fuso ed in uno risolto nella proprietà
indeterminata del momento estetico.
Esso si baserà sul volere fondamentale / pura volontà di vivere / anziché
sulla forma e sull’agitazione fenomenica»[158].

Questa estetica come visione del mondo è il preambolo di un nuovo inizio, un


percorso di sviluppo filosofico ed esistenziale che lo porterà dalle soglie del
suicidio alla formulazione dell’uomo come potenza. «Non è pessimismo: si
tratta di aver veduto. Nella conoscenza squallida abbiamo ritrovata la nostra
realtà, l’io che è al di fuori della vita di tutti i giorni, l’illusione e la malattia e
tutto il resto: e l’estraneità, la brutalità e la non proprietà di tutte le cose che si
chiamano spirituali: pensiero, sentimento, fede»[159].
Riguardo alla «spiritualità», Evola scovò in Dada interessanti analogie con
alcuni insegnamenti dell’esoterismo orientale, ma ciò che spinse Evola ad
immergersi nell’esperienza dada fu soprattutto la possibilità di superamento
palesemente offerta, intrinseca a questa forma d’avanguardia. Evola vedeva
in dada un processo che annullava il tempo proiettandolo in un infinito
presente: sviluppo nascita e morte nello stesso istante; una morte che di fatto
era dunque resurrezione, trasmutazione da arte a arte pura, categoria
filosofica pensata dal barone in Fenomenologia dell’Individuo assoluto, nella
quale appunto l’esperienza dada venne distillata, trasmutata, risorta:

«Esteriormente, queste posizioni non erano prive di una certa analogia col
metodo dell'assurdo usato da alcune scuole esoteriche estremo-orientali - il
Ch'an e lo Zen - per far saltare tutte le sovrastrutture del mentale: anche se,
naturalmente, in esse lo sfondo è del tutto diverso. Si sarebbe potuto anche
riandare alle parole di Rimbaud sul metodo della veggenza ottenuto con
uno « sregolamento ragionato di tutti i sensi».
Di rigore, il Dadaismo non poteva condurre a nessun’arte in senso proprio.
Segnava piuttosto l’autodissolversi dell’arte, in un superiore stato di
libertà. Questo a me parve essere il suo significato essenziale; per cui,
interpretando il Dadaismo come il limite di una specie di dialettica
immanente delle varie forme di arte modernissima (nell'appendice ai miei
Saggi sull'idealismo magico), credetti di poterlo elevare al rango di una
vera e propria categoria in una delle mie successive opere filosofiche
(Fenomenologia dell'Individuo assoluto)».[160]

Dada è ciò che garantisce ad Evola un’astrazione totale. La libertà interiore


che il barone finalmente trova in dada è sicuramento un approdo felice,
purtuttavia l’ insofferenza del filosofo è costante e sempre in procinto di
erompere. La libertà assoluta reclamata costantemente e congenitamente
dall’egoismo assoluto dell’Io padrone della realtà trascende la stessa realtà
dada, come se tale esperienza, pur nella sua massima libertà di contraddizione
offerta, non fosse più sufficiente. In altre parole, la massima libertà di
contraddizione contraddice se stessa nell’assolvere la sua funzione: «le vrai
dada est contre dada». In una lettera a Tzara, suo intimo confidente, l’unica
persona a cui Evola espone i suoi moti interiori, il filosofo svela i tasselli di
uno sgretolamento interiore ormai irreversibile:

«Vivo in un’atonia, in uno stato di stupore immobile, nel quale si gela ogni
attività ed ogni volontà. E’ terribilmente Dada. Ogni azione mi disgusta:
anche la sensazione la sopporto come una malattia e non ho che il terrore di
passare il tempo che ho davanti a me, e del quale non so che fare (…). Un
tale stato d’animo, anche se con altra intensità, esisteva già in me: come in
uno spettacolo: valle a dire, che c’era qualcuno al di fuori che guardava, e
prendeva appunti sullo strano avvenimento: da cui la mia arte e la mia
filosofia Dada. Attualmente mi accorgo che non c’è più nessuno nel teatro,
che tutto è inutile e ridicolo, che ogni espressione è una malattia»[161].

La malattia va superata però, se l’uomo è davvero potenza. Ecco che allora la


si supera recidendo il male stesso: l’esperienza dada viene uccisa, svanisce
nell’astratto l’Evola pittore, straripa «alchemicamente» l’Evola filosofo,
quello che scalpitava dal sottofondo, reclamando disperatamente e
ardentemente una presenza totale, concreta, autarchica.
Dopo il 1922 Evola si immerge nella filosofia e abbandona per sempre la
pittura, pur non rinnegandola mai ma vedendo semmai in essa un importante,
se non il fondamentale, momento di sviluppo, di evoluzione artistica e
filosofico-esistenziale.
A tale proposito Caludio Bruni afferma:

«Come si legge, Evola dichiara che «i miei quadri li faccio per vanità…».
Egli quindi nega se stesso e tale negazione raggiunge il culmine nel
momento in cui, come estremo gesto Dada, egli smette di dipingere. Butta
alle ostriche sei anni di lavoro e di ricerca pittorica, dopo essere stato
all’avanguardia e dopo essere stato a contatto ed aver combattuto lotte
culturali a fianco di nomi ora considerati i più prestigiosi della nostra
cultura europea come Aragon, Tzara, Picabia, Ernst, Mondrian, Eluard,
ecc. Evola si sente talmente protagonista del Movimento Dada che
inconsciamente sente, quattro anni prima, la stessa necessità che Marcel
Duchamp sentì nel 1925 quando anche lui smise di creare le sue opere dada
per dedicarsi al gioco degli scacchi»[162].

4. Oltre il Dadaismo.

Annullare Dada è il più perfetto gesto dada. La migliore opera dadaista


evoliana è il suo abbandono. Uscendo dal Dadaismo conferma di esserne
stato un grandissimo rappresentante, in Italia il maggiore:

«Al dadaismo facevo il rimprovero di non essere pervenuto sino alla


dimensione più profonda (avrei dovuto usare l’aggettivo «metafisica»);
attraverso la distruzione, il sovvertimento, l’incoerenza, la contradizione e
l’astrazione esso pensava di liberare la «Vita» (quasi come in un esasperato
bergsonismo), mentre per me si trattava di qualcosa di altro, di diverso
dalla vita.
In realtà il movimento a cui mi ero associato, tenendo Tristan Tzara in alta
stima, doveva realizzare ben poco di ciò che io in esso avevo visto. Se
rappresentò di certo il limite estremo e insuperato di tutte le correnti
d’avanguardia, tuttavia esso non si autoconsumò nell'esperienza di una
effettiva «rottura di livello» di là da ogni arte e di ogni consimile
espressione»[163].

Il Dadaismo dunque, fu troppo poco. Evola non può aspettare, chiude il ciclo
superandolo, arriva cioè dove il Dadaismo stesso non era arrivato forse
perché non poteva e questo il barone lo capì assai presto.
Come sottolinea Bruni, la fine dell’esperienza pittorica è dunque un segno di
estrema lucidità e onestà intellettuale:

«Non è esatto quindi quanto è stato scritto che «la sua esperienza pittorica
è stato solo un passaggio di una sua complessa storia interiore»: per me
invece Evola pittore ha iniziato, percorso e chiuso un intero ciclo; ha fatto
un discorso completo al quale egli non volva aggiungere una parola di più.
In questo suo coerente atteggiamento si può perfino trovare un punto di
incontro tra il pensiero di Evola e quello di Giorgio de Chirico che,
appunto dopo il 1919, chiude il suo discorso metafisico.
Il mondo fino ad oggi non è riuscito a comprendere quanto questi artisti
abbiano veramente vissuto le loro esperienze e per questo motivo essi
hanno sentito la necessità di chiudere il loro discorso.
Era inutile continuare quando ciò che si voleva dire era stato detto. Era
inutile ripetersi ed ognuno ha trovato un altro linguaggio – o il silenzio –
per esprimere le nuove idee maturate con il tempo.
Tutta questa porzione della cultura europea, dei primi 25 anni di questo
secolo, dovrà essere dunque riesaminata e forse allora molte cose andranno
a posto e molta ragione verrà data a chi oggi sembra sfuggire ad ogni
tradizionale classificazione. Sono certo che questo avverrà ed in tale
riesame, almeno nella storia dell’arte italiana, Evola pittore dovrà occupare
quel posto che già gli compete»[164].

Va ricordato inoltre che col suo gesto estremo Evola chiuse non solo
l’esperienza pittorica ma anche quella poetica, apprezzata nell’opera Arte
Astratta:

«Nel 1921 smisi del tutto la pittura. Esaurita l'esperienza, andai oltre.
Buona parte dei miei quadri è andata dispersa. Solo dopo circa
quarant’anni, dal 1960 al 1963, qualcuno in Italia e in Francia ha riportato
l’attenzione su quei miei contributi, per il loro valore storico di
anticipazioni. Fu anche proposta una esposizione retrospettiva.
Nel campo della poesia, pubblicai qualcosa in alcune riviste francesi, a
parte i poemi in appendice di Arte Astratta. Più degno di rilievo è forse il
poema in francese La parole obscure du paysage intérieur, uscito nel 1921
per la Collection Dada in sole 99 copie numerate. Apprezzato dai principali
esponenti del Dadaismo, esso chiuse la mia esperienza nel campo dell’arte
d’avanuardia. Ho acconsentito alla sua ri-stampa quattro decenni dopo, per
le edizioni Scheiwiller, anche per significare che io non rinnego affatto le
mie passate esperienze e che sono lungi dal considerarle come dei «peccati
di gioventù»; ho però avuto cura di spiegare la situazione e il periodo in cui
il poema nacque: senza di che, il riapparire di quella composizione avrebbe
costituito motivo di perplessità per coloro che mi conoscono solo per la
mia attività più recente d’orientamento tradizionale»[165].

Un’ultima considerazione va formulata in relazione al Surrealismo. Questo


movimento ebbe una rapida e ampia diffusione europea, va notato infatti che
in Germania molti dadaisti renani aderirono ad esso in quanto Dada, con
l’ascesa di Hitler venne bandito, poiché considerato un movimento depravato.
Il Surrealismo invece, sebbene pur sempre essenzialmente e volutamente
provocatorio, risultava più costruttivo e propositivo rispetto al distruttivismo
e autodistruttivismo dadaista.
Evola non accetta il passaggio al Surrealismo, non concependo quest’ultimo
come una naturale conseguenza o peggio un’evoluzione del Dadaismo. Il
Surrealismo è visto dal Nostro più come una sconfitta che come una
conquista: l’abdicare in toto all’inconscio e all’irrazionale, anche e soprattutto
dal punto di vista creativo e non solo teorico, è per Evola inaccettabile. Le
varie tecniche usate dai surrealisti come ad esempio la scrittura automatica, il
cadavre exquis, il frottage e il grattage[166], hanno il merito di far emergere
i lati più oscuri, inaccessibili e dunque non ancora investigati dell’inconscio,
permettendo all’artista di impossessarsi della realtà del sogno in questa realtà
di veglia, una realtà dunque nella quale i limiti possono sgretolarsi a volontà.
Tuttavia, anche se questo sembra essere un segno di libertà per l’artista, una
sorta di vittoria sulla malsana azione livellante e omologante della società,
dalla quale è difficile evadere per via della sua azione subliminale[167], il
Surrealismo non è in grado secondo il barone di aprire dei reali varchi
metafisici.
Le tecniche surrealiste trascendono le barriere della stessa realtà di veglia per
accedere a quelle del sogno. Di fronte alle opere, lo spettatore prova un
effetto di spaesamento e si immedesima in un processo che diviene dunque
partecipativo, circolare.
Per quanto tutto ciò possa risultare affascinante, per la prospettiva filosofica
evoliana risulta inammissibile. Esso è infatti, per certi versi, quasi l’opposto
di quello spasmodico e consapevole possesso estremo dell’Io mutuato dai
vari Stirner, Michelstaedter, Weininger e Nietzsche, il quale aveva dato via
all’Idealismo magico e all’Individuo assoluto. Il corrispettivo artistico di
questo possesso era dunque l’esperienza dada – e il suo superamento. Al suo
cospetto il surrealismo, più che una conquista, quale invece sembrava a molti,
a partire da Breton, appariva al filosofo romano quale caduta, uno
stordimento, un confuso sbaglio, come si legge nel Cammino del Cinabro:

«Al dadaismo fece seguito il surrealismo, il cui carattere, dal mio punto di
vista, era regressivo, perché esso per un lato coltivò una specie di
automatismo psichico gravitando verso gli strati subconsci e inconsci
dell’essere, tanto da solidarizzare con la stessa psicanalisi, e dall’altro lato
si ridusse a trasmettere sensazioni confuse di un «dietro» inquietante e
inafferrabile della realtà (specie nella cosiddetta «pittura metafisica») senza
nessuna vera apertura verso l’alto»[168].

Tale apertura era invece ciò che interessava Evola e continuò ad interessarlo
per tutta la vita, anche quando, costretto su una sedia a rotelle per aver sfidato
«la mano degli dèi»[169] tra i bombardamenti viennesi, rimane fermo e vigile
nei suoi intenti, come nulla fosse successo – si dice che quando si risvegliò in
ospedale dopo l’incidente si guardò intorno e chiese che fine aveva fatto il
suo monocolo.
Un incidente che stravolgerebbe la vita della maggior parte degli esseri
umani, è accettato dal filosofo con la massima serenità, nella consapevolezza,
in linea con un’antica legge esoterica, che ogni azione che «capita» in realtà è
dall’interno voluta:
«Nulla cambiava, tutto si riduceva ad un impedimento puramente fisico
che, a parte dei fastidi pratici e certe limitazioni della vita profana, non mi
toccava in nulla, la mia attività spirituale e intellettuale non essendone in
alcun modo pregiudicata o modificata. La dottrina tradizionale che nei miei
scritti ho spesso avuto occasione di esporre - quella, secondo la quale non
vi è avvenimento rilevante l’esistenza che non sia stato da noi stessi voluto
in sede prenatale - è anche quella di cui sono intimamente convinto, e tale
dottrina non posso non applicarla anche alla contingenza ora riferita»[170].
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI CITATI E
CONSULTATI

OPERE DI EVOLA
J. EVOLA, Arte astratta. Posizione teorica, dieci poemi, quattro
composizioni, Maglione e Strini, Roma 1920
J. EVOLA, Il Cammino del Cinabro, Vanni Scheiwiller, Milano 1963
J. EVOLA, Fenomenologia dell’individuo assoluto, Mediterranee, Roma
2007.
J. EVOLA, Superamenti. Critiche al mondo moderno 1928 – 1939, in
Quaderni di testi evoliani n. 41, Controcorrente, Napoli 2005.

STUDI SU EVOLA
P. GIOVETTI, Julius Evola in I grandi Iniziati del nostro tempo. I Maestri
del cammino interiore, Mediterranee, Roma 2006
S. BENVENUTO, Dada e la filosofia. Evola e l’essenza del dadaismo, in
AA.VV., Cinquant’anni a Dada: Dada in Italia 1916-1966, Milano, Galleria
Schwarz, 1966
Testimonianze su Evola, a cura di G. De Turris, Mediterranee, Roma 1985.
Julius Evola e l’arte dell’avanguardia tra Futurismo, Dada e Alchimia,
Fondazione Julius Evola, Roma 1998
E. VALENTO, Homo faber. Julius Evola fra arte e alchimia, Fondazione
Julius Evola, Roma 1994
- (a cura di), Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara (1919 – 1923), Edizioni
Fondazione Julius Evola, Roma 1991.
P. C. STUTTE, Julius Evola. Dal dadaismo alla rivoluzione conservatrice
(1919-1940), Aracne, Roma 2002.

ALTRE FONTI
G. BACHELARD, Le droit de rêver (1970) tr. it. di M. Bianchi, Il diritto di
sognare, Dedalo, Bari 1974.
M. DONA’, Arte e filosofia, Bompiani, Milano 2007, p. 307.
G. LISTA, Tristan Tzara et le dadaisme italien, in Europe, 555-556,
luglio/agosto 1975
- Dada libertin et libertaire, L’Insolite, Paris 2005
R. MOTHERWELL, The Dada painters: The documents of Modern Art N. 8,
New York, George Wittenborn Inc., 1967
W. VERKAUF, Dada monographie einer Bewegung, Teufen 1957.
T. TZARA, Manifesti del dadaismo e Lampisterie, Einaudi, Torino 1990.

Il pensare nell’assenza del Sacro:


Elémire Zolla tra filosofia perenne e
modernità.
Indice

1. La Tradizione della filosofia perenne.

2. I tre dogmi

3. Massificazione, psicanalisi, misticismo.

ABSTRACT

This paper is intended as a reflection on the concept of the sacred in the


works of Elémire Zolla. An analysis of his works suggests that sacrality is
concealed throughout the history of mankind. The responsibility for such
occultation lies with modern life and its triumphant embrace of materialism,
of equality; of quantity over quality; of the mass-produced average man
incapable of rising to metaphysical heights: the Tradition of that Perennial
Philosophy which provides true contact with the numinous ciphers of being.

Con questo articolo si intende proporre una riflessione inerente al concetto di


«sacro» nell’opera di Elémire Zolla. Analizzando quest’ultima emerge come
esso sia rimasto ineluttabilmente celato lungo i secoli della storia .
Responsabile di tale occultamento è la modernità fautrice del trionfo
materialista, dell’uguaglianza, della quantità a scapito della qualità,
dell’uomo medio massificato incapace di elevarsi a ciò che è metafisicamente
superiore: la Tradizione di quella Filosofia Perenne che garantisce un contatto
reale con le cifre noumenali dell’essere.
Ai teologi del totalmente Altro: Dio è il totalmente questo.

Manlio Sgalambro

Chi conosce una sola religione non ne conosce nessuna.

Max Muller

1. La Tradizione della filosofia perenne.

«Alla radice dell’Occidente c’è una tradizione spirituale celata, concepita dai
fondatori originari delle nostre scienze, ma poi travisata e scancellata con
cura, sicché ben pochi ne conoscono ormai i nomi stessi, salvo i rarissimi che
sappiano di avere in tasca la storia delle stelle e di poter andare in direzione
del futuro soltanto guardando al passato. Partiamo perciò dagli uomini che
furono gli antenati degli antenati. Il passato siamo noi e perfino il nostro
domani è un passato che si ripete»[171]. Con queste parole, echeggiando
altresì l’eterno ritorno di Nietzsche, Elémire Zolla addita a filosofie di
saggezza che formano il corpus di quella che viene definita Tradizone, da
sempre accuratamente occultata nella storia del pensiero.
«Per indicare la Luna c’è bisogno di un dito, ma una volta che la Luna viene
riconosciuta non si ha più bisogno del dito», così recita un proverbio zen. Il
dito, che racchiude in sé l’unicità delle re-ligioni e filo-sofie senza tempo,
ossia l’anelito alla consapevolezza del sapere e del conoscere che va sotto il
nome di Tradizione, è stato reciso dal mondo moderno, il quale di
conseguenza, non ha nemmeno più cognizione dell’esistenza della luna, cioè
della verità perenne.
I ricercatori della luna, lunatici per la cultura del mondo moderno, solari per
l’antichità – si pensi alla simbologia del sole nel Mito della caverna di
Platone – hanno continuato imperterriti ad indicare, a contemplare, ad
incarnare perfino il perenne incanto del vero, che sfolgora e abbaglia chi
serba in sé lo stupore, l’indole alla meraviglia. La modernità ha reciso ogni
possibile parvenza di tale anelito, qualsiasi suo riflesso. Criticarla, per i
tradizionalisti[172], equivale a denunciare l’assordante assenza del sacro, un
vuoto apparentemente incolmabile, baratro e precipizio addirittura per coloro
che, spesso inconsapevolmente, ne subiscono i nefasti effetti non solo a
livello sociale e culturale ma anche umano, poiché è nell’esperienza
dell’intimità individuale che la presenza – o l’assenza – del sacro, scardina i
fondamenti di una percezione del reale che può configurarsi come
tradizionale o anti tradizionale.
Zolla è uno di quei pensatori, che riflette su tale grave perdita e la questione
concernente il sacro fra Tradizione e mondo moderno, ricorre ampiamente in
tutta l’opera del pensatore torinese dai primi scritti degli anni Sessanta, come
Eclissi dell’intellettuale (1959), Volgarità e dolore (1966) e Le potenze
dell’anima (1968) fino all’ultimo accorato scritto prima della morte: Discesa
all’Ade e resurrezione (2001). Tuttavia l’ opera che affronta la questione in
maniera centrale e dettagliata è Che cos’è la tradizione (1971), nella quale
l’urgenza di un ritorno ai fondamenti tradizionali della filosofia perenne,
emerge in tutta la sua imponenza.
Quest’opera scaturì in seguito ad un eccesso di «stupore» verso le
contraddizioni del mondo moderno che in quegli anni, traboccanti,
premevano negli orizzonti noetici del filosofo torinese. Tangibile lo scalpore
e l’orrore di Zolla nell’analizzarne i riflessi devastanti, che lo stesso pensatore
avrebbe preferito trascendere. Si legge infatti nella prefazione a Che cos’è la
Tradizione: «Pagai un prezzo, oggi me ne dispiace; l’orrore fu maggiore della
volontà di ignorare i dualismi.
Scaturì questo libro»[173].
Tale studio zolliano, nell’analisi delle perdite, sociali e culturali, che il mondo
moderno ha portato con sé, rovesciandole ineluttabilmente nelle capacità
conoscitive di un soggetto ormai solo velatamente consapevole di che cos’è
la Tradizione, rappresenta un’àncora di salvezza e una mappa preziosa
nell’orientamento in un mondo ormai senza direzioni: «Quest’opera che mal
ricordo si ristampa; parla di una possibilità etica, d’una divaricazione artefatta
tra male e bene. E’ un sortilegio, contrario a come penso oggi. Perché lo
tentai?
Ero a quel tempo sfiorato, impensierito dalla depravazione circostante tanto
da volerla fugare; raccattai ciò che nella storia dell’Occidente poteva apparire
limpido e fermo e ne feci il centro di un mandala, nel quale tutto si
rischiarasse e il disordine allentasse la presa»[174].
Tutto si rischiarasse sino a diventare pura luce di conoscenza religiosa, cioè
sacra. La celebre rivista[175] fondata da Zolla nel 1969 sta proprio ad
attestare tale atteggiamento sincretista e aconfessionale del filosofo. Scrive a
tale proposito Grazia Marchianò:

«Non erano stati in pochi a chiedersi e a chiedergli: se la conoscenza


impartita nella rivista non è confessionale, in che senso allora è religiosa?
In quegli anni e da allora in poi, Zolla non risparmiò occasione per
stigmatizzare la distanza tra un’adesione confessionale e l’apertura a una
dimensione e a un’esperienza del sacro che si pone al di là delle barriere tra
i singoli credo. In questo senso è necessario chiarire che Zolla fu e rimase
un intellettuale laico. Laico nel senso che il fenomeno religioso, la
presenza di un senso del divino impresso come uno stampo nella mente
umana, fu indagato come un problema epistemologico prima che
esistenziale, e il perno attorno al quale ruotò fu la natura profonda del
credere, quali che siano le individuazioni dell’atto di fede nella storia dei
processi culturali»[176].

Del Sacro interessa la natura intrinseca non i fraintendimenti, le


degenerazioni o gli antipodi addirittura, provocati anche dall’azione
premeditata di occultamento da parte di ciò che sacro non è (pensiamo alle
istituzioni politiche o a quelle religiose connesse ad esse, oggi come in
passato).
Tale messa in ombra del Sacro però, che collima paradossalmente con i suoi
stessi fondamenti – il Sacro è un fenomeno esoterico tout court - ne implicò
di riflesso, nel corso della storia, il distintivo carattere di elitarietà,
marcatamente e, dunque, volutamente offuscato, velato e celato ad una
comprensione ovvia, razionale, oggettiva e potremmo perfino dire, banale
della sua fenomenologia.
Il Sacro in Zolla è il lato esoterico, noumenico e verticale del reale,
contemplato e non visto, dall’alto di una prospettiva quadrimensionale, in
grado di svelarne il carattere adamantino, l’atavico sfondo che ne affastella il
periplo dell’aura, il corollario dei suoi fondamenti ontologici.
Il termine esoterico, oggi ampiamente abusato più che usato, indica in Zolla
la dimensione interiore, specchio abissale di un’esteriorità la quale non ne è
che il riflesso ibridato, frattalica proiezione immanente: «La natura naturata
implica un’invisibile natura naturante esoterica e l’aggettivo in greco vuol
semplicemente dire: “interna”, “intima” »[177]. A proposito del legame tra
esoterismo e intimità, è stupenda l’affermazione di Zolla nell’ambito della
riflessione sul daimon socratico: «Paradigma del pericolo pubblico è Socrate,
che osò nutrir fede nel suo daimon (nel non è tanto locativo quanto innessivo,
complemento di intimità, di esotericità)»[178].
Parlare al daimon è un atto sacro, in quanto tale villipeso, temuto addirittura
dai poteri politici, che tendono ad isolare chi lo compie; come si è visto però
l’occultamento e l’isolamento sono paradossalmente anche caratteri
collimanti con l’intenzionalità stessa, intrinseca del Sacro e infatti Zolla
continua: «Riverire il daimon significa chiudersi nella torre d’avorio. Turris
eburnea, sedes sapientiae: simbolo di scampata socialità, emblema di
conoscenza religiosa che non subisce ma illumina ogni fede, massimo
pericolo per ogni forza politica che miri alla totalità»[179]. L’isolamento, ieri
come oggi, scaturisce anche da un’impossibilità di comprensione su larga
scala, nell’ambito della modernità massificata, educata e cresciuta nel solo
mondo dei mass media. A tale mondo l’esoterico è strettamente precluso.
Esso pulsa invece in tradizioni sapienziali le quali, nonostante le diversità di
contesto storico e culturale, in virtù del principio sincretistico a cui si ispira la
Weltanschauung zolliana, miracolosamente si incontrano, raccontando verità
della stessa tonalità, seppur a ottave diverse. Non apparrà dunque discordante
veder associato l’esoterismo al quantismo, Castaneda al quantismo, Bruno al
quantismo:

«L’esoterico è ben celato, ma nel senso che sta ben in vista dove nessuno
se l’aspetta. Oggi non si trova certo nelle scuole esoteriche che si dicono
tali, ma sì nei laboratori di fisica o di neurofisiologia. […] E’ ben questo il
tema del libro di Castaneda The eagle’s gift (1981), che tutto sia
reminiscenza. Il libro parla di verità che non si possono comprare ai
giardini, come le droghe di cui Castaneda trattava nei suoi primi libri. Qui
egli è infinitamente più pericoloso: ha raggiunto la libertà di concezioni
della fisica moderna, di cui nessuno osa prendere atto fuori dei laboratori.
[…] Corpuscolo o onda? David Finkelstein talmudicamente risponde con
una domanda: - Perché un’alternativa sola? E osserva: a conti fatti con la
fisica ultima, resta una sola sostanza, il tempo. Non sembra di averlo già
letto nella dedica del Candelaio? “Il tempo tutto toglie e tutto dà… è uno
solo, è eterno e può perseverare eternamente uno simile e medesimo. Con
questa filosofia l’animo mi s’aggrandisce, e me si magnifica l’intelletto”,
gioiva Bruno»[180].

Di connessioni tra esoterismo e quantismo, misticismo e quantismo, l’opera


zolliana è prodiga. Importanti riflessioni al riguardo, oltre che in Verità
segrete esposte in evidenza, si trovano anche ne Gli arcani del potere e Le
potenze dell’anima.
Tornando invece al concetto di esoterisimo in sé, Zolla, ne Il Dio
dell’ebbrezza, afferma: «Per esoterico si intende il pensiero che ignori ogni
barriera dell’interesse sociale o personale, che si estenda liberamente al di là
di dove leggi e consuetudini, istinti conservatori o rivoluzionari sbarrino il
cammino»[181]. A questo riguardo, il filosofo Hervé Cavallera puntualizza:
«Per il fatto che la realtà non è quella contingente, il discorso di Zolla non
può essere che esoterico, riservato a pochi, e trova più facilità di riferimento
in quella filosofia orientale che non ha mai voluto tradursi in architettonica
sistematica o nella narrazione di testi appartenenti a culture in
estinzione»[182].
Se il carattere asistematico e oscuro è già intrinseco al sacro stesso, in quanto
l’eterno esistere del vero, di cui il sacro non ne è che manifestazione
precipua, è inafferrabile concettualmente, di fronte ad esso fallisce ogni
filosofia. Tranne quella perenne: la Tradizione.
«La tradizione», scrive Zolla, «è la trasmissione dell’idea dell’essere nella
sua perfezione massima, dunque di una gerarchia tra gli esseri relativi e
storici fondata sul loro grado di distanza da quel punto o unità. Essa è talvolta
trasmessa non da uomo a uomo, bensì dall’alto; è una teofania. Essa si
concreta in una serie di mezzi: sacramenti, simboli, riti, definizioni discorsive
il cui fine è di sviluppare nell’uomo quella parte o facoltà o potenza o
vocazione che si voglia dire, la quale pone in contatto il massimo di essere
che gli sia consentito, ponendo in cima alla sua costituzione corporea o
psichica lo spirito o intuizione intellettuale»[183]. Siffatta unione con lo
spirito, ossia con le fibre noumenali dell’essere, è ciò che di più lontano possa
esistere dalla concezione del mondo della modernità, seppur paradossalmente
ciò che di più prossimo all’uomo stesso, alla sua interiorità misconosciuta. A
tale proposito, in Archetipi, Zolla afferma: «L’esperienza metafisica è più
prossima all’uomo della sua giugulare. Si può paragonare all’aria, all’aura,
antichissima similitudine, che i Cabalisti e Petrarca e il Tasso spinsero fino
alle più intime applicazioni.
L’aria ci avvolge ma è sfuggente, così tutti sono retti dall’esperienza
metafisica, ma pochi la sanno far propria»[184].
La consapevolezza di tale immersione in quella che è, di fatto, un’esperienza
– e non un atto intellettuale – è il segreto celato, evocato e tramandato dalla
Filosofia perenne [185].
Sacro, Tradizione, philosophia perennis, risuonano all’unisono, diventando,
nell’intricato e affascinante mosaico del pensiero zolliano, specchi (magici)
di una stessa realtà.
«Nella sezione che accoglie gli scritti sull’India e Bali, si ha la misura e la
prova di dove Zolla attinse l’acqua di vita che dissetò il suo spirito assetato di
infinito, pilotando la mente a ruotare in modo imperterrito attorno a una
pietra che assunse nei suoi scritti nomi diversi: ‘tradizione’, ‘esperienza
metafisica’, ‘filosofia perenne’, ‘liberazione’, ‘elisir’, ma che pietra rimase
nel suo incorporare un grappolo di valori immanenti al divenire storico e
perciò extrastorici e metafisici»[186].
Il filosofo torinese chiarifica ulteriormente: «Questa filosofia perenne fu
formulata sin dai primordi delle civiltà occidentali nel pitagorismo e via via
nei secoli è affiorata in modo compiuto o parziale, sempre comunque
costretta a mascherarsi dietro le persuasioni dominanti»[187], sempre
obbligata a celarsi, oltre le sue implicazioni. Una Tradizione di preziosa e
velata saggezza viaggia dunque tetragona dalla notte dei tempi: saggi,
alchimisti, guru e filosofi ne sono stati consapevoli in differenti periodi
storici e in altrettanto differenti contesti sociali e culturali – si pensi ad
Alessandria d’Egitto o Careggi nella Firenze rinascimentale o i vari siti dei
pellirossa americani, degli Aborigeni australiani, degli sciamani coreani, si
pensi ai Maestri taoisti, sufisti, induisti e buddhisti, incontrati nel sentiero
intellettuale e umano del filosofo torinese, che da secoli padroneggiano i
tesori di ciò che egli chiama Tradizione.
«Il piano comune a ogni tradizione, universale, è l’uguale idea dell’uomo
come essere che si completa soltanto, di là dal proprio corpo e dalla propria
psiche, nell’intelletto attivo, nella beatitudine»[188]. A tale riguardo Grazia
Marchianò afferma: «Non appena ci si avvede che la percezione della
distanza è amministrata dalle norme dell’ottica mentale e che ciò vale
nondimeno nei riguardi delle filosofie e delle fedi, la via è aperta a scorgere
nei sistemi di pensiero e nelle religioni attecchite in ogni civiltà della terra,
altrettanti e individuali veicoli di una verità originaria, universalmente
comune»[189]. E inoltre, ne Il conoscitore di segreti puntualizza: «Nella fase
conclusiva del pensiero zolliano i concetti di tradizione, esperienza metafisica
e mente naturale trovarono stabile terreno di accoglienza nel contesto del
sincretismo, visto da Elémire Zolla come l’orizzonte filosofico nel quale
s’annodano e al quale affluiscono tutti quegli insegnamenti e quelle correnti
di pensiero che nonostante le diversità culturali intrinseche a una civiltà
planetaria fanno capo a una soggiacente e unanime metafisica unitaria»[190].
«La metafisica unitaria a cui si addita si potrà chiamare altresì “filosofia
perenne”. Filosofie equivalenti sorte in paesi diversi possono chiamarsi infatti
così, con un’espressione di Leibniz e, ancor prima, di Bacone ma inventata da
Agostino Steuco, canonico lateranense nato a Gubbio nel 1497, pervaso
dall'idea di pia filosofia enunciata da Marsilio Ficino e dal Pico»[191].
Al di là dei riferimenti o delle definizioni tuttavia, la sostanza della filosofia
perenne è metalinguistica, come essa stessa è metastorica e metafisica. A tale
proposito Zolla scrive: «Ci si trova dinanzi a un dilemma che sorge soltanto
dall'incapacità di concepire la radice della realtà fisica il piano fondativo,
metafisico, dove non sussistono né spazio né decorso di tempo e che
costituisce la premessa metafisica dove tutte le religioni e tutte le filosofie
possono unificarsi: soltanto la filosofia perenne lo convalida, avvertendo però
che l'espressione verbale non può sperare di tradurlo in linguaggio»[192].
In quanto epifania, in quanto percipiente ed esprimente l’indicibile, la
Tradizione o Philosophia perennis trascende tanto le categorie concettuali
quanto quelle descrittive: «Stranamente amputato, alienato dall’essere pieno è
colui il quale s’illuda di trovare tutta espressa la Tradizione in discorsi parlati
o scritti: essa incomincia a brillare soltanto quando il discorso viene sentito
come un velo che copre e perciò indica sì, ma celando»[193]. La luna è
oscura per antonomasia - nella simbologia dei Tarocchi rappresenta
mancanza di chiarezza, confusione, intrighi addirittura[194] - e il dito pur
indicandola, non la vede pienamente, in quanto nella sua vera realtà essa è
invisibile, se per visibile intendiamo ciò che forma un’oggettualità empirica
ad essa totalmente difforme.
Ne Gli arcani del potere, descrivendo la pratica del buddhismo tibetano,
Zolla mette in guardia da una possibile descrizione di ciò che ne consegue,
come se al linguaggio non fosse permesso di addentrarsi in tale antro atavico:
«Si scorgono capacità intellettive fino a prima ignote, capacità dianzi
insospettate. […] Il mondo che si svela dopo questi esercizi preliminari è
descritto dai grandi maestri tibetani, ma parlarne è pressoché vietato, può
essere frainteso, non giova all’ingenuo»[195].
In Che cos’è la Tradizione Zolla compie un atto metalinguistico, descrivendo
e dando voce a ciò che congenitamente è indescrittibile e incomprensibile:
«Ma la tradizione per eccellenza, cui compete per l’esattezza e non per
accoglimento rettorico la maiuscola, è la trasmissione dell’oggetto ottimo e
massimo, la conoscenza dell’essere perfettissimo.
Questa la Tradizione superiore ad ogni altra perché logicamente anteriore,
implicita anzi nello strumento stesso d’ogni trasmissione, il
linguaggio»[196]. Grazia Marchianò definisce la Tradizione, quale Zolla la
intese, come «un insieme di conoscenze, di simboli presenti in ogni popolo e
in ogni tempo, nel sogno e nella veglia dell'uomo: solo grazie ad essa si può
vincere i limiti dello spazio e del tempo e si può giudicare la storia, la quale
altro non è che un affiorare o un celarsi della Tradizione. Essa è l’unico punto
d'appoggio per chi voglia sottrarsi al progresso verso l'inquinamento totale o
la pianificazione totalitaria»[197].
La riflessione zolliana scorre su due antipodi: da un lato la critica alla
patologica società mercificante e all’uomo-massa, dall’altro l’esperienza
mistica e metafisica tramandata dalla Tradizione quale stato naturale, sano
dell’uomo, l’uomo non ancora corrotto e degradato dalla cultura e dalla
società del mondo moderno.
A questo riguardo Cavallera puntualizza: «Nel momento in cui Zolla si
distacca dal suo tempo emerge la comunicazione come discorso sapienziale.
Non c’è più ragione di conservare aspetti quasi didattici, come è ancora sino a
Le potenze dell’anima. Se la conoscenza, è intuizione è inutile sforzarsi di
spiegare a chi non vuole intendere: basta mostrare a chi vuol capire»[198]. In
questo senso il discorso zolliano, dai toni esplicitamente mistici e iniziatici,
risulta ancora più elitario a cavallo degli anni della contestazione, contesto
nel quale la sua voce era in netto contrasto con i valori marxisti e materialisti
del tempo. A tale proposito la Professoressa Marchianò puntualizza: «Com’è
noto la critica zolliana del moderno nei toni al diapason negli anni che
preludono al Sessantotto, nasceva dall’esame circostanziato di ciò che nella
sua visione del divenire storico si staglia come l’immagine capovolta della
modernità: la Tradizione. Per lui la tradizione con la T maiuscola è da
intendersi alla maniera di Clemente Alessandrino come una trasmissione
conoscitiva di verità sofianiche (paradosis gnostikè), da assorbire e praticare
metodicamente in vista di una purificazione interiore»[199].

2. I tre dogmi.

Tale purificazione è possibile esclusivamente al di là delle categorie del


moderno, nell’orizzonte del loro superamento, nell’ambito del quale rientra
l’individuazione dei tre dogmi che inchiodano l’uomo moderno
all’inconsapevolezza. Zolla ne parla specificatamente in Che cos’è la
Tradizione, l’opera fondamentale che esce nel 1971.
Il primo dogma è quello che sancisce la celebrazione della quantità a scapito
della qualità, è quello che nasconde l’elemento immutabile ed eterno
adombrato nella natura, è quello che impedisce all’uomo un rapporto
armonioso e dunque qualitativo con essa. Zolla afferma:

«Mentre la Tradizione tenta di individuare, sia pure senza pretendere ad


una meccanica rigidezza, i caratteri della natura - un diritto naturale,
un’arte naturale -, la tradizione dell’antitradizione o si appella ad una
natura puramente distruttiva o ad una natura assolutamente buona o ad una
distruzione della natura: mente in ognuno dei tre casi, perché la natura non
è maligna, essendo la vita che essa promuove la causa materiale di ogni
gioia spirituale; la natura non è assolutamente buona ma soltanto
relativamente tale e va sentita come sorella e non madre dell’uomo, la
natura infine non può essere distrutta poiché la vita del distruttore ne
deriva, e perfino il puro bruto ha pur bisogno di vivere in pace naturale se
non altro con se stesso»[200].

Tra le varie nefaste conseguenze del dogma annoverate da Zolla risalta


l’incapacità di meravigliarsi da parte dell’uomo moderno il quale ormai ha
del tutto «smarrito il senso dell’opera d’arte come porta spalancata sulla
realtà perenne»[201]. E’ insomma il dogma della storicità che distrugge il
senso dell’eterno con il rinvio al futuro, un futuro che però scorda il passato,
scancellando la portata metafisica dell’antichità: «Nel mondo antico il tempo
era incentrato su un fatto che lo spezzava e ricapitolava: l’incarnazione
dell’eternità» [202].
Sul rapporto qualità-quantità si sofferma anche Holman, il quale, in
assonanza con la visione zolliana, asserisce:

«Simbolicamente, la quantità corrisponde all’asse orizzontale del piano


bidimensionale, la qualità al piano verticale. In prospettiva sociologica, la
quantità va in direzione della democrazia e dell’essere medio, mentre la
qualità corrisponde alla gerarchizzazione dell’ordine sociale, basata sul
locus del conoscitore (risvegliatosi dal sogno). Il quantitativo non
costituisce dei per sé un nemico, il nemico è la negazione del qualitativo,
diffusa nel pensiero e nella cultura moderna occidentale (che rapidamente
sta diventando globale). Abbiamo bisogno di riscoprire, sul piano
individuale e culturale, la dimensione qualitativa; la chiave è rappresentata,
secondo Coomaraswamy, da una forma di educazione tradizionale»[203].

La riflessione di Holman è importante poiché approfondendo il primo dogma,


implicitamente anticipa il secondo. Quest’ultimo infatti proclama
l’uguaglianza degli uomini, i quali invece, secondo Zolla sono uguali solo da
un punto di vista fisiologico. La dea Uguaglianza è una dea falsa e bugiarda
che si spaccia tra l’altro per una manifestazione della carità. La conseguenza
pericolosa scaturita da tale dogma, ciecamente accettato dalla modernità, è la
creazione dell’uomo-medio, un tentativo contro natura. Come già sottolineato
riguardo alla psicologia del superamento di Assagioli «L’Uguaglianza pone
sul trono un re di smisurata e disincarnata tirannide: la formula statistica che
serve a stabilire la media. L’uomo medio statistico diventa il Redentore, la
cui imitazione è sollecitata e dovrebbe consentire ai singoli di espiare il
peccato di possedere una fisionomia; guai a chi osi mai porre una domanda,
provare un sentimento, svolgere uno studio, amare un’idea che a tale
Redentore non paia accessibile e consumabile. Per definizione un uomo
medio non può cogliere ciò che è raro, superiore dunque prezioso;» - non può
cogliere ciò che è Tradizione dunque, non può meravigliarsi di fronte alla
Filosofia perenne - «dovranno dunque essere immolati tutti i valori, i quali si
giustificano sempre soltanto se imperniati sul loro vertice (la moralità deve
mirare alla santità contemplativa, il linguaggio ai poemi classici, l’umanità al
genio).
Pochi s’avvedono dei disastri recati dal culto dell’uguaglianza, per cui
ognuno si sforza di rappresentare una media fra destini incompatibili»[204].
Sul concetto di disuguaglianza ha abbondantemente insistito anche lo stesso
Julius Evola, il quale afferma che:

«Il concetto di «molti» è logicamente contraddittorio col concetto di «molti


uguali».
Lo vuole, in primo luogo, il principio leibniziano degli indiscernibili che si
esprime così: Un essere che fosse assolutamente identico ad un altro
sarebbe una sola e medesima cosa con esso. Kant cercò di confutare tale
principio riferendosi allo spazio, in cui, secondo lui, vi possono essere cose
eguali eppure distinte: ma la moderna nozione scientifica dello spazio
respinge l’obbiezione giacché per esse nozione ogni punto diviene un
valore diverso assunto dalla funzione del continuo quadrimensionale del
Minkowsky. Nel concetto di «molti» è dunque implicito quello di una loro
diversità fondamentale: dei «molti uguali», assolutamente uguali, non
sarebbero molti, ma uno. Voler l’uguaglianza dei molti è contraddizione in
termini»[205].

Il terzo e ultimo dogma è quello dell’attivismo perenne, smanioso e


insensato, dell’uomo moderno che, bramoso di tradurre tutto in azione, si
smarrisce poi di fronte alla domanda: «che fare?»
L’azione infatti, come antipodo della contemplazione, rappresenta lo status
perennis dell’uomo medio, il quale viene scaraventato nell’insensatezza
condivisa di un attivismo che nullifica l’individualità. L’uomo è costretto e
immerso nelle sabbie mobili di una modernità, dalla quale non sa uscirne
perché non sa comprenderla:

«Dinanzi alle iatture e agli impedimenti che inibiscono l’acceso ai valori


perenni, la reazione coatta è: “allora cosa dobbiamo fare?” […] La
domanda : “che fare?” esclude il fondamento stesso d’ogni possibile
risposta specifica e fruttifera: l’idea di vocazione, dell’unica cosa che
ciascuno debba e possa attuare. Chi sia strettamente fasciato dalle illusioni
moderne, ha una cosa da fare: sciogliersene, ma proprio per impedirlo lo
spirito della Modernità suggerisce la domanda dilatatoria e affaticante:
“che cosa dobbiamo fare?” omettendo di precisare il soggetto stesso
dell’interrogazione»[206].

Continua ancora Zolla: «Chi è quel noi se non un io assetato di potenza e di


filantropia? Un io che si proietta in una figura collettiva, in una statua
simbolica coperta di nebbie, un’allegoria non sai se del municipio o della
nazione o dell’umanità intera (rappresentata non si sa da quale suo organo
deliberativo»[207].

3. Massificazione, psicanalisi, misticismo.

Il terzo dogma introduce di fatto quella che viene definita la pars destruens
del pensiero zolliano, quella relativa alla prima fase della sua opera: gli anni
Sessanta. In essa il filosofo, sferra un attacco frontale all’architettura sociale
del mondo moderno, rea di rendere l’uomo vittima inconsapevole del
consumismo e della mercificazione. Pur palesando evidente assonanza con i
principi della Scuola di Francoforte, Zolla in realtà se ne distacca fortemente
nel momento in cui va oltre la critica in sé, proponendo oltre che
distruggendo - in questo senso la pars destruens non è altro che la premessa
alla pars costruens, la quale è in nuce alla critica. Le riflessioni di questo
periodo palesano invece non poche affinità con le critiche di Assagioli già
analizzate in precedenza.
Grazia Marchianò puntualizza:

«Forse non è sbagliato congetturare che la «cattiveria» profusa da Zolla


negli scritti di critica sociale del primo periodo romano fosse una tattica
attinta al metodo che Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969)
propugnava ne La dialettica negativa dopo averlo messo in pratica nelle
opere precedenti. Opere che Zolla conobbe e commentò assai prima che
divenissero testi di culto in Italia. Quel che Horkheimer e Adorno dal loro
esilio in America avevano stigmatizzato nel maggio del 1944, cioè che
esiste un totalitarismo nascosto sia nel fascismo sia nel capitalismo, fu per
il giovane Zolla una istigazione a battere la strada della dialettica negativa,
in vista però di raggiungere un obiettivo che dalla filosofia della scuola di
Francoforte si allontanava a perdita d'occhio. In un saggio sulla rivista
romana «Elsinore» uscito nella primavera 1964, Elémire Zolla denunciava
il carattere parassitario della filosofìa di Adorno in termini che non lasciano
dubbi sulla propria presa di distanza dalla dialettica negativa pur essendo
persuaso che una critica radicale della società di massa e, a monte di essa,
dell'ideologia illuminista, fosse l'unica tattica efficace date le circostanze».
[208]

La dialettica di Adorno è per Zolla negativa in quanto il filosofo tedesco non


propone mai un personale punto di vista limitandosi, parassitariamente, a
demolire quello diverso dal suo. Adorno si ferma alla critica non concependo
una possibilità spirituale nell’uomo, Zolla invece, basandosi tradizionalmente
proprio su essa, riesce a costruire la Via di fuga in verticale, l’apertura al
qualitativo, la possibilità di trascendere la vita «nullificata» e massificata del
mondo moderno. La Professoressa Marchianò chiarifica ulteriormente:
«Persuaso che la spiritualità non sia altro che un tipo di merce e dunque
un’arma di intontimento e dominio, Adorno disconosce l’anelito a scavalcare
la contingenza storica, il bisogno nell'uomo di darsi un fine soprannaturale,
esclude che ci siano istanze che si sottraggono a patteggiamenti e
compromessi suggeriti dalla ragione calcolante»[209].
Ne Le potenze dell’anima Zolla afferma: «Adorno ha perfino asserito, in
polemica con Husserl, che i principi sovrarazionali sarebbero una coercizione
esercitata dalla classe sociale interessata a promuovere l’incivilimento»[210].
Dove l’analisi della società di massa è invece collimante al pensiero di
Adorno è riguardo a Sade.
Entrambi i filosofi infatti vedono nel divin marchese la massima
realizzazione ed estremizzazione dell’Illuminismo, la sua conseguenza più
logica e inevitabile[211].
La società del consumismo ha prodotto l’uomo-massa, l’uomo medio,
incapace di un pensiero suo, perfino inconsapevole di essere individuo, tale la
sua partecipazione, più o meno inconscia, al modello «umano» che incarna:
un ingranaggio programmato a condividere, a desiderare addirittura ciò che la
società richiede, alimentandone in siffatta maniera i fondamenti precipui: «La
spersonalizzazione è il riflesso individuale della civiltà di massa; è su una
spersonalizzazione del pubblico che fa assegnamento l’industria culturale
[…]»[212].
La miglior virtù di tale automa è l’efficienza, la produttività e soprattutto il
silenzio: la mancanza di critica nei confronti di una macchina industriale che
lo tiene in vita, fornendogli interessi, svaghi e modellandone il tempo
«libero». La macchina di appiattimento umano funziona così efficientemente
che, a livello sociale, si sono perfino abolite le differenze: «Il conformismo
[…]- scrive Zolla - si ottiene soltanto castigandosi fieramente» e «il tempo
libero sarà un’appendice di questa ascesi mostruosa: i sobborghi uniformi
che accoglieranno l’impiegato o il dirigente ripetono nelle strutture
architettoniche, nei ritrovi e nei divertimenti, il credo delle grandi
organizzazioni: adattatevi alle cose come stanno, non giudicate, non
disprezzate, ringraziate la organizzazione che vi dà una sicurezza, una
pensione; imparate ad apprezzare chi vi fornisce sin da vivi la vostra funeral
home»[213].
In Eclissi dell’intellettuale, del 1959, Zolla afferma: «La nuova società
accentua il processo di mercificazione della vita e non apre l’orizzonte ad
altro fine se non l’accrescimento della produzione; il suo ideale umano è lo
specialista efficiente e consumatore cospicuo, che non ha una sua gamma di
predilezioni differenziate, ma si adegua docilmente alle tendenze della
produzione»[214].
Come ogni vera e propria dittatura, esplicita o camuffata, l’aspetto culturale è
di estrema importanza: (de)formare le menti sin dalle fondamenta diventa
necessario e determinante per tale macchina diabolica: «Si infierisce contro
la cultura umanistica in nome dell’abolizione d’ogni privilegio di classe
proprio allorquando a tutte le classi sociali dovrebbe poter diventare
accessibile […]. A tutti verrà elargita l’istruzione ma alla vigilia di
concederla la si sarà spogliata d’ogni sua ricchezza e indipendenza, affinché
le masse tali restino»[215]. L’obiettivo infatti è la creazione e il
mantenimento di un’omnitudine salda e infallibile, incline ai divertimenti
condivisi e alienanti e avversa a tutto ciò che è arricchimento interiore,
artistico, filosofico o più in generale umanistico e culturale. A tale proposito
Zolla asserisce: «Perciò si parla di scuole che educhino a due sole cose, il
servizio nell’industria e la collaborazione ad un tempo libero pianificato,
quanto a dire ad una schiavitù che diversamente dall’antica non avrà
nemmeno la giustificazione del bisogno di manodopera. Si salveranno così
soltanto le professioni reputate proficue, che contribuiscano cioè o agli
sterminii o ai consumi o ai divertimenti di massa, e soppresse come asociali
le professioni umanistiche»[216]. Ne Gli arcani del potere, Zolla non è meno
sarcastico e causidico nell’affermare:

«Forse una certa parte di umanità è destinata a un infantilismo perpetuo e


levarle la speranza sarebbe crudele: cadrebbe nella disperazione se non
sentisse lo sfruttatore che le batte sulla spalla e la esorta a sperare.
Oggigiorno poi non ci vuole nemmeno una speranza dettagliata, non ha
bisogno di una pittura precisa del paese di cuccagna, e nemmeno esige
apocalissi anabattiste: basta un sussurro, un fischio, uno schiocco come
quello che si fa alle galline. Come filastrocche farfugliate dagli ubriachi
rincasando alla mezzanotte: “il progresso, la scienza, l’umanità,
l’evoluzione, il Punto Omega” eccetera sono più efficaci d’ogni sensata
riflessione»[217].

In sostanza questa società, questa civiltà è per Zolla diabolica, essa scinde
l’uomo, lo spezza, lo deturpa di quella parte spirituale che gli è congenita, e
instilla in lui la repulsione per essa: «Questa virtù contemplativa è propria
non solo dei mistici o di uomini di inclinazioni artistiche […]; piuttosto essa è
nota a chiunque racchiuda in sé un nucleo di quiete e spontaneità
spirituale»[218].
Tale quiete e spontaneità spirituale risulta però di complessa realizzazione nel
mondo della tecnica e del “progresso”: «Se è lasciata a se stessa, l’anima è
esposta al turbamento e a ogni tipo di suggestione, ma diventa capace di
purezza e si acquieta una volta che sia sottomessa allo spirito e questo si
avvalga della mente. Per l’uomo moderno questi rapporti gerarchici tra le
parti di se stesso appaiono incomprensibili perché la sua anima è ridotta a un
luogo dove si scatenano processi psichici artificiosi, alienata alle potenze
sociali che lo circondano»[219]. Tali potenze riescono a imprigionarlo nel
modo più sadico e scientifico: non solo mascherano i loro intenti diabolici ma
addirittura lo convincono della loro funzione edificante, socialmente e
moralmente elevata, a tal punto che egli diventa assuefatto, schiavo e a sua
volta (più o meno inconsapevolmente) schiavizzante con i suoi simili. La
società moderna crea nell’intimità dell’ individuo, attraverso minuziosi
processi subliminali, il bisogno per essa, per i suoi servizi, per le sue leggi di
mercato che modellano comportamenti e attitudini preordinate, dunque più
facilmente controllabili, prevedibili e manovrabili; «quasi» una dittatura
camuffata da democrazia che convince l’uomo della sua libertà creandogli
intorno una schiavitù a lui invisibile e incomprensibile: è la civiltà del
diavolo: «E’ necessario infatti avvedersi (ciò che molti ancora ripugnano a
fare) che la civitas diaboli non si avvale più delle vecchie armi,
dall’oscurantismo reazionario al dogmatismo ecclesiastico all’astrattezza
terroristica rivoluzionaria, ma per la sua persecuzione fanatica della libertà e
dell’umano non ha più bisogno di chiedere soccorso a sofismi plausibili,
ovvero a un’arma infida tra le sue mani, poiché ormai dispone di un apparato
industriale, un’Alcina che quietamente seduce le sue vittime sussurrando: “io
ammazzerò il vostro tempo”»[220] .
E’ un’agonia lenta e inesorabile quella di cui è vittima inconsapevole l’uomo
moderno, sottoposto a costanti esperimenti nullificanti le sue facoltà mentali.
L’analisi zolliana dei danni provocati dai mass media è inesorabile:

«Alle sciagure che hanno gravato da sempre sulla vita dell’uomo, la morte,
la malattia, la vecchiaia, la fame, s’è aggiunta in questo secolo una
disgrazia meno vistosa ma forse proprio per questo più disperante: la
riduzione dell’uomo a strumento passivo di accorte manipolazioni. Le
dittature hanno tentato di plasmare artificiosamente i giovani, la tecnica
dell’imbottimento dei crani ha tentato di spegnere nelle masse ogni
spontaneità, ma ora la nuova tecnica pubblicitaria e in particolare la
pubblicità subliminale, si sono imposte in modo indiscreto e letale»[221].

A conferma di ciò Zolla prende in esame gli studi del neurologo viennese
Poetzi, il quale nel 1917, dimostrò attraverso un esperimento che gli oggetti
che cadono nel campo visivo possono anche situarsi in una posizione
periferica in modo del tutto incosciente sebbene efficace. Attraverso il
tachitoscopio, uno strumento che proietta le immagini per una frazione di
secondo, Poetzi rivelò quanto reali e determinanti fossero le conseguenze di
questa efficacia:

«Le persone sottoposte all’esperimento disegnavano le immagini che si


erano resi conto di vedere, e il giorno dopo Poetzi le invitava a disegnare
quelle viste sognando la notte, e risultò che le immagini non notate durante
la proiezione erano state colte dal subconscio e avevano agito. Le
deduzioni erano chiare, e la scienza applicata doveva impadronirsene: era
possibile influire il subconscio e quindi il comportamento senza che
l’uomo potesse difendersi»[222].

A questo punto, asserisce Zolla: «Non resta che rispondere ai gesti


d’incantesimo con gesti disincantati, alla formule diaboliche con quelle
celesti»[223]. E infatti Zolla promuove la contemplazione come somma virtù:
è la volta della pars costruens: «La contemplazione è il sommo valore, perciò
chi la conosce possiede finalmente il criterio per valutare qualsiasi cosa
[…]»[224].
Se la contemplazione è la massima virtù, la mistica è lo «stato naturale
dell’essere»: questa la risposta alla civitas diaboli, la quale risposta si avvale
anche di un’interessante critica a certo modo di intendere la piscanalisi. La
funzione di quest’ultima infatti sembra pleonastica: non ha senso reintegrare
nei paradigmi della società un individuo alienatosi dalla stessa se è la società
per prima ad essere alienata in sè nella misura più morbosa. Curare sarebbe
come danneggiare ulteriormente: è la società ad essere malata. Zolla, acuendo
ed approfondendo la riflessione critica già proposta da Assagioli, afferma:
«Morbosa è anzitutto nella psicanalisi volgare, la mancanza di un’idea
dell’uomo normale, l’assenza, cioè, d’un centro, e ancor più morbosa la rude
teoria che vuole sano colui che non abbia atteggiamenti critici verso la
società in cui si trova a vivere». La vera sanità corrisponde alla purezza
dell’anima di cui lo stesso filosofo torinese parlava ne Gli arcani del potere
mentre secondo i canoni della società moderna essa sembrerebbe implicare
appiattimento e modellamento sociale, atrofizzazione culturale, recisione
della capacità-necessità critica; in una parola: analizzare la società appare
strano, non appare normale: «E’ singolare come tutto ciò che se ne possa mai
dire è condensato nell’osservazione di Ròzanov: “la modernità contagia
soltanto la gente vuota. Ecco perché lamentarsene suona vuoto”»[225]. Non
resta constatare che: «Esotericamente tutto fila: complemento oggetto e
soggetto si ribaltano l’uno nell’altro»[226].
Hervé Cavallera approfondisce la questione: «Il problema è allora rendersi
conto che proprio la riduzione della normalità ad accettazione acritica del
presente è ciò che dev’essere contestato, laddove invece l’individuo, sia come
singolo, sia come massa, è esposto alle leggi dell’industria culturale, alle
leggi del mercato, ossia è un soggetto falsamente pensante, preda di un
sistema che, volendo essere liberatorio, lo soffoca consegnandolo totalmente
ai condizionamenti di quello che si sta manifestando come mercato globale,
in cui le stesse emozioni vengono suggerite, indotte, dirette»[227].
E se Assagioli, in piena assonanza con la critica zolliana, non esitava ad
affermare:

«Si considera generalmente “normale” l’uomo medio, ossequiente alle


norme sociali dell’ambiente in cui vive, in altre parole il “conformista”; ma
la normalità intesa in questo modo è una concezione poco soddisfacente;
essa è statica ed esclusiva. Questa normalità è una “mediocrità” che non
ammette o condanna tutto quello che è fuori dalla norma, e che quindi è
considerato “anormale”, senza tener conto del fatto che molte delle
cosiddette “anormalità” sono in realtà inizi o tentativi di superare la
mediocrità»[228].

Julius Evola approfondisce e conlcude: «Ora, ciò che troviamo in ogni


dottrina spirituale e tradizionale è qualcosa di ben diverso. L’uomo sano e
normale non è qui un punto di arrivo bensì il punto di partenza e vengono
forniti quei mezzi con cui, colui che lo vuole, se ha una vera vocazione, può
tentare l’avventura dell’effettivo superamento della condizione umana: o di
un uomo sano se ne fa uno malato, ammalato della malattia
dell’infinito»[229].
E’ a tale «malattia» che volge lo sguardo Zolla quando si sofferma sulle
riflessioni riguardanti la mistica. L’originale posizione del pensatore torinese,
nella sua icastica incisività, non lascia alternative: «Dal punto di vista
metafisico non c’è patologia»[230], lo stato mistico è lo stato naturale
dell’uomo, uno stato quasi del tutto assente che però, alla luce delle tesi
zolliane, reclama ostinatamente la sua imprescindibile presenza ai fini di una
sanità mentale che ridoni all’individuo la sua umana dignità.
Flavio Cuniberto, si sofferma sul problema: «Ma la forza di quell’enunciato
stava nel prendere a contropelo il senso comune e soprattutto l’idea
patologica dello stato mistico avanzata dalla psicanalisi. Perché è patologica
se mai la caduta dallo stato mistico, l’incapacità di ripristinarlo. E’ patologica
in altre parole quella condizione moderna in cui lo stato mistico appare come
patologico»[231] . E infatti: «Lo stato mistico come norma dell’uomo è
riconosciuto come la pietra di volta di un sistema che d'ora in poi si
richiamerà ai valori perenni della tradizione»[232]. Se ne I misitici
dell’Occidente, il filosofo riconferma la sua tesi sul misticismo: «Il
misticismo è la ripetizione in una civiltà non più corale, dell’esperienza
iniziatica: è un ritorno alla tradizione in senso proprio, ricordo involontario di
cosa sepolta. […] Il misticismo distacca dalla fonte stessa delle civiltà
moderne: dal desiderio di accumulare ricchezza e prestigio sociale»[233]; ne
Le meraviglie della natura, accosta ad esso l’alchimia: «Sicché purificando e
plasmando un metallo si sta perfezionando se medesimi. Il linguaggio
alchemico e quello mistico infatti coincidono punto per punto […]. Alla fin
fine, in una civiltà assetata dell’eterno ritorno, lo scopo delle arti alchemiche
è la liberazione. […] Il fine della trasmutazione interiore fu certamente
l’ultimo e il primo dei fini, ed è l’unico che spieghi la differenza tra alchimia
e chimica. Le invenzioni chimiche nel corso dell’opera sono eventuali,
secondarie. La stessa trasmutazione del mercurio in oro è secondaria rispetto
alla morte in vita»[234].
Quando nel 1968, all’apice dell’esaltazione materialista, esce Le potenze
dell’anima, il discorso zolliano, sapienziale e iniziatico, stona e stride nel
«palcoscenico» della contestazione. In tale opera il filosofo distingue le tre
parti fondative, generalmente riconosciute, dell’essere umano: corpo, ragione
e anima. Zolla afferma che esse sono fonte di infelicità per l’uomo medio, il
quale non è in grado di armonizzarle tra loro, esse infatti vengono separate
marcatamente. Ad ognuna di esse viene addirittura tributato un culto: il
materialismo, lo scientismo e il sentimentalismo. «I riflessi dell’uomo
moderno sono stati condizionati al punto “da trasformare la sua interiorità in
una replica fedele di quel triangolo carcerario”: una condanna a vita» .
In sostanza: «Nei giorni in cui le folle studentesche, operaie o quant’altro,
ideologicamente dirette, inneggiavano a Mao, Marx e Marcuse quali profeti
dell’imminente mondo venturo, la voce di Zolla appare tremendamente
aristocratica nel momento in cui dice a chiare lettere che il senso della vita e
il suo significato non hanno un fine pratico.
E’ veramente un uscire dal mondo, da un certo mondo almeno, ricordando
che la molla dell’utile non è altro che opera diabolica, ultimo momento di una
tragedia che ha già avuto i suoi effetti nella ghigliottina illuministica. In
questo particolare momento Zolla appare come un filosofo che rincontra ciò
che è sempre stato: la tradizione»
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI CITATI E
CONSULTATI

OPERE DI ZOLLA
E. ZOLLA, Archetipi, Marsilio, Venezia 1998.
E. ZOLLA, Che cos’è la tradizione, Adelphi, Milano 1998.
E. ZOLLA, Conoscenza Religiosa. Scritti 1969-1983, Intr. e cura di G.
Marchianò, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2006.
E. ZOLLA, Conoscenza religiosa. Scritti 1969-1983, Edizioni di Storia e
letteratura, Roma 2006.
E. ZOLLA, Discesa all’Ade e resurrezione, Adelphi, Milano 2002.
E. ZOLLA, Eclissi dell’intellettuale, Bompiani, Milano 1959.
E. ZOLLA, Gli arcani del potere, Rizzoli, Milano 2009.
E. ZOLLA, Il Dio dell’ebbrezza. Antologia dei moderni dionisiaci, Einaudi,
Torino 1998.
E. ZOLLA, La filosofia perenne, Adelphi, Milano 1999.
E. ZOLLA, Le meraviglie della natura. Introduzione all’alchimia, Marsilio,
Venezia 1991.
E. ZOLLA, Le potenze dell’anima, Rizzoli, Milano 2008.
E. ZOLLA, Verità segrete esposte in evidenza, Marsilio, Venezia 1990.
E. ZOLLA, Volgarità e dolore, Bompiani, Milano 1966.

ARTICOLI DI ZOLLA
E. ZOLLA, Spersonalizzazione e civiltà di massa, in «Civiltà delle
macchine», nn.5-6, settembre-dicembre 1973.
E. ZOLLA, Lamento e consolazione, in «Corriere della Sera», 11 marzo
1968.

STUDI SU ZOLLA
H. CAVALLERA, Elémire Zolla, la luce delle idee, Le Lettere, Firenze
2011.
F. CUNIBERTO, Addio all’Occidente. In ricordo di Elémire Zolla, in
“Viátor”, Elémire Zolla dalla morte alla vita. A cura di Grazia Marchianò,
Anno IX 2005/2006.
G. MARCHIANO’, Il conoscitore di segreti, una biografia intellettuale,
Rizzoli, Milano 2006.
G. MARCHAINO’, L’ordine sacro del cosmo: l’imperativo smarrito.
Posizioni a confronto: Eliade-Zolla-Culianu con un’appendice sugli
archetipi nel cielo mentale zolliano. In «Conoscenza religiosa», II 2010,

ALTRE FONTI
R. ASSAGIOLI, Lo sviluppo transpersonale, Astrolabio, Roma 1988.
J. EVOLA, Imperialismo pagano, Mediterranee, Roma 2004.
- Oriente e Occidente, Mediterranee, Roma 1984.
L. GIULIODORI, Tra visibile e invisibile: l’arte come porta regale alla
trascendenza in Pavel Florenskij, in «Per la Filosofia», Anno XXVIII N. 82.
L. TUAN, Il linguaggio segreto dei tarocchi. Simbolismo e interpretazione
degli arcani maggiori e minori, De Vecchi, Roma 2011.

L’arte come Via Iniziatica:


Battiato attraverso Gurdjieff.
Indice

1. Alla ricerca del Centro: Gurdjieff e l’evoluzione interiore.

2. La contraddizione, l’amore, l’universo.

3. Un’immagine divina in un mondo mediocre.

ABSTRACT

The conception of the artist's world, sunken in a reality alien to him because
of its differing qualitative density, emerges from the texts and illustrates the
itinerary of Gurdjieff's Fourth Way.
This essay intends to propose a reflection on the indissolubile union between
the artist's path and the way of initiation, between artistic creation and
creation of the self, indicating how the two itineraries, mutually enriching one
another, becoming better by virtue of their very alchemy.

La concezione del mondo dell’artista, calato in una realtà a lui aliena per
diverso spessore qualitativo, emerge dai testi ed evidenzia il percorso della
Quarta Via di Gurdjieff.
Questo saggio intende proporre una riflessione sull’indissolubile connubio tra
cammino artistico e cammino iniziatico, tra creazione artistica e creazione di
sé, evidenziando come i due percorsi, arricchendosi a vicenda, migliorino
proprio in virtù della loro alchimia.
Le scienze e le religioni pretendono di spiegare l’eterna domanda del senso
dell'esistenza, la profonda dicotomia tra il materiale e lo spirituale.
L'Arte deve unire questa dualità, il suo terreno è lo
spazio tra l'uno e l'altro.

Dino Valls

1. Alla ricerca del Centro: Gurdjieff e l’evoluzione interiore.

«L’intelligenza si acquista. Più studi bene, più studi «a spirale», più diventi
intelligente. L’intelligenza è la comprensione. Più comprendi più sei
intelligente. […] Più spazio invadi con il pensiero, più intelligente sei»[235].
«L’uomo spesso ritiene che i pensieri siano senza vita; egli non si accorge
che essi sono più vivi dei germi fisici e hanno una nascita, infanzia, gioventù,
maturità e morte. Essi agiscono, secondo la loro natura, per il vantaggio o lo
svantaggio dell’uomo. Il sufi li crea, li modella, li controlla. Egli li addestra e
li domina durante tutta la sua vita; essi sono il suo esercito ed eseguono i suoi
desideri»[236].
«La nostra mente, le nostre azioni sono la «causa», gli effetti invece sono il
destino»[237]. «La Mente è qualcosa di stupefacente/un tesoro/che soddisfa il
desiderio/uno scrigno/di ogni possibile cosa»[238].
Non sono le parole di un filosofo o di un educatore (nel senso alto del
termine), sono le parole di Franco Battiato, che definire cantante, con tutto il
rispetto per la nobiltà dell’arte, risulta al quanto riduttivo. Probabilmente egli
è anche un filosofo, è anche un educatore, sicuramente è anche un
regista[239] e anche un pittore[240]. E’ filosofo perché si interroga, si pone
dei quesiti che sono fondamentali e implicitamente li pone a noi, con
delicatezza estrema e al contempo spiazzante, con quello stile indiscusso che
solo all’iperboreità congenita del suo ingegno appartiene. E’ un educatore
poiché insegna, e quale modo migliore che farlo tramite un’arte, un «metodo»
che sembrerebbe difficile ma a lui viene naturale - d’altronde è qui che
riconosciamo il genio, come afferma Bukowski «genio è l’uomo capace di
dire cose profonde in modo semplice», un individuo che svela l’insvelabile,
l’impensato, un individuo anfibio a contatto tra due mondi, visibile e
invisibile. Tali mondi nel momento dell’ispirazione si toccano ed è in questo
momento che l’artista espleta la sua funzione precipua: è lì che egli si trova in
quell’attimo fuori da tempo e spazio: «Ho capito col tempo che l’ispirazione
è soprasensibile. E’ successo anche per La cura. «Senti» che qualcosa di
superiore ti arriva, ti attraversa»[241]. E ancora, in un’altra intervista: «E’
qualcosa che ti arriva. Tu, in questo caso, sei solo un mezzo di
comunicazione tra due mondi»[242].
Il percorso artistico e umano di Battiato[243] è profondamente segnato da
un’incessante anelare al superamento, al perfezionamento, all’evoluzione,
un’evoluzione sapiente, che al contempo è bellezza, di qui la sua forza, il suo
ancestrale potere: l’elemento estetico è saldato a quello conoscitivo in una
spasmodica tensione che riempie e ripropone se medesima incessantemente:
«Credo di essere un po’ monotematico: tutto si riduce sempre alla stessa
questione; non riesco ad allontanarmi dal concetto di evoluzione, per cui una
persona bella è una persona evoluta. […] L’apice di un’evoluzione porta
necessariamente con sé la bellezza. […] Quando vedi una persona entrare in
una stanza, ti accorgi immediatamente del mondo che porta in giro»[244].
Segnali di vita comincia così: «Il tempo cambia molte cose nella vita/Il senso
le amicizie e le opinioni/Che voglia di cambiare che c’è in me/Si sente il
bisogno di una propria evoluzione/Sganciata dalle regole comuni/Da questa
falsa personalità»[245]. Sul tema della personalità riemerge più preciso in
Personalità empirica dove la calda voce di Sgalambro recita in francese dei
versi inequivocabili: «Il faut abandonner la personalitè pour retrouver votre
je/Changer dame, cheval et chevalier /Changer d’habit baton et penseé»[246],
in cui tra le righe echeggia la suddivisone dell’essere secondo Gurdjieff, il
quale scindeva l’essere in corpi distinti simboleggiati da carrozza (corpo
fisico), cavallo (corpo astrale, le emozioni), cocchiere (corpo mentale,
l’intelletto) e infine padrone (corpo causale, il Sé) che deve fare sentire la sua
voce agli altri corpi, per comandarli, (da cui la citazione del titolo dell’album
del 1981 La voce del Padrone, rimasto in classifica per oltre un anno con
milioni di copie vendute) [247].
Sgalambro in questi versi invita appunto a cambiare pensiero radicalmente,
un cambio totale e definitivo (lo stesso filosofo tra l’altro nell’opera Anatol
sentenzia così: «Una filosofia che non fa dimenticare tutte le altre non vale
niente»)[248]. Le parole seguenti, stavolta stupendamente cantate da Natasha
Atlas, corroborano icasticamente la stessa ottava dell’invito sgalambriano:
«Quand l’image que tu as de toi ne coincide plus avec ce que tu es
réellement/quand tu commences à hair les automatismes de ta facon d’agir/et
quand les chagrins prennent le pas sur la joie de vivre/avec les peines que
nous apportent l'existence/et tu vas chercher des espaces inconnus/pour une
nouvelle conscience»[249].
Cambiare pensiero, cambiare se stessi, cambiare tutto e infine allenare la
mente a nuovi stati di coscienza. Perché? Per affinare la machina biologica,
per conoscerla e per renderla meno meccanica, più consapevole, più
autoritaria, più libera: per trascenderla. Perché le potenze congenite dentro di
noi vanno svelate, scoperte, risvegliate, scoprire se stessi equivale a superarsi,
«deificarsi», la stessa parola yoga significa giogo, ossia unione, «unione di
umano e divino». Attivare le potenzialità latenti significa scoprire il divino
che dimora in noi, già Eliade affermava: «Lo Hatayoga torna a vivificare la
concezione arcaica del corpo umano che può essere divinizzato. […] il corpo
non è più «la fonte dei patimenti», ma l’istrumento più sicuro e più completo
di cui l’uomo dispone per «conquistare la morte». […] La forza magnificata
dello Hatayoga non è già quella di un atleta, ma la forza di un mago, di «un
uomo-dio»[250]. Wouter Hanegraaff, Professore di Storia della Filosofia
Ermetica all’Università di Amsterdam, approfondisce ulteriormente:

«As human beings we have an inborn capacity for knowing the divine: we
are not dependent on God revealing Himself to us (as in classic accounts of
monotheism, where the creature is dependent on the Creator’s initiative),
nor is our capacity for knowledge limited to the bodily sense and natural
reason (as in science and rational philosophy), but, in contrast to both
alternatives, the very nature of our souls allows us direct access to the
supreme, eternal substance of Being. According to the alternative
alchemical model, the attainment of supreme knowledge […] is conceived
of as a latent capacity, or human potentiality, that must be developed in
ourselves by our own efforts: it is the telos, or final goal, of the human
quest»[251].

Questo telos che coincide col «deificarsi», presuppone un atto di coraggio


estremo, un atto che oltrepassa lo stato dell’umano e che richiede la sconfitta
della paura, nemico principale di ogni Iniziato e questo Battiato lo sottolinea:
«Siamo all’interno di un corpo di cui accettiamo tutte le schiavitù possibili,
perché è sempre meglio dell’ignoto. Abbiamo paura perché non sappiamo
dove si va a finire. Non è che forse abbiamo dimenticato le immense
possibilità dell’essere? E che cosa sia la gioia fuori dal nostro corpo? […] Ci
sono indiani che si fanno sotterrare (vivi) per due o tre giorni. Uno che è in
grado di far questo è in grado di dominare completamente il suo corpo e
trascenderlo. E’ evidente»[252].
Più che l’India in ogni modo, il viaggio alla scoperta di sé intrapreso da
Battiato inerisce in primis alle conoscenze esoteriche risalenti alla tradizione
sufi[253]. L’ascoltatore attento ritrova tutto quello splendido percorso
gurdjieviano nei testi, nei quali l’intensità poetica emana riflessi di stampo
realista, fusi e confusi con quelli metafisici, esoterici, squisitamente iniziatici.
Tra l’altro la suddetta Personalità empirica è tratta dall’album Ferro battuto,
nella cui copertina un operaio nerboruto batte un incudine[254]: la
simbologia è chiara, «il lavoro su di sé», la trasmutazione, un percorso
difficile, duro quanto l’incudine, il martello deve demolire la spessa crosta
stratificata al di sopra della nostra essenza fino a trovare il tesoro del proprio
sé, una ricerca che, rimandando al celebre monito delfico del «conosci te
stesso», può durare anche più di una vita intera, come confermano i
numerosissimi ed espliciti rimandi alla reincarnazione nell’intera opera
dell’artista, dagli esordi ai giorni nostri. In Vite parallele tratto da
Gommalacca del 1998, Battiato è perentorio: «Credo nella reincarnazione/in
quel lungo percorso che fa vivere vite in quantità/ma temo sempre l’oblio/la
dimenticanza»[255]. E ancora in Testamento, tratto dall’ultimo album Apriti
sesamo (il ventottesimo per l’esattezza): «Cristo nei vangeli parla di
reincarnazione»[256].
Ma come ha iniziato Battiato il suo percorso, la sua personale Via Iniziatica?
Come spesso succede si inizia un percorso del genere in seguito ad una forte
crisi interiore: quando l’individuo non ha più vie d’uscita ordinarie, con un
atto di coraggio, sfida se stesso e cerca quelle stra-ordinarie. Ma ascoltiamo
lui stesso mentre risponde a una domanda di Daniele Bossari: «Ho iniziato a
meditare da autodidatta, non sapendo neanche che cosa fosse e non
conoscevo neanche la parola meditazione. In seguito a una crisi che scoppiò
improvvisa nel 1969-1970. Una situazione totalmente assurda, molto
pericolosa anche dal punto di vista della sanità mentale. […] non mi
riconoscevo in niente. Come uno che vede per la prima volta un mondo e
dice: «ma che è sta roba?»[257]
Fu la crisi che innescò i vari studi sulle filosofie perenni intrapresi e poi
continuati per tutta la vita. Ancora l’artista rispondendo a Bossari:
«Poi, come sai, arrivano tutti i segnali di quello che stai cercando, a catena.
E quindi Yogananda, Aurobindo, subito sono arrivati (ride). Lessi diversi
mistici indiani, fino a quando grazie all’incontro con Henri Thomasson
(allievo di Gurdjieff), che avvenne nel 1977, iniziai a imparare a meditare
con sistema. Per dirti come geneticamente abbiamo già tutte le
conoscenze»[258].
Ecco, arriva Thomasson, arriva Gurdjieff, Battiato ha finalmente trovato la
sua Via, il momento ovviamente è di quelli memorabili, che segnano
indelebili il transito terrestre, momenti in cui la gioia e la meraviglia
riempiono la scena di quel teatro (magico) finalmente svelato, cui
arditamente diamo il nome di «vita»:

«Avevo scritto delle mie elucubrazioni in un opuscoletto di un disco (Clic, uscito nel 1974 [N.d.C.]).
Un anno dopo leggendo Frammenti di un insegnamento sconosciuto su Gurdjieff, ritrovai la stessa
base teorica! Sono stati momenti di gioia irresistibile! Da cieco autodidatta, da sperimentatore
empirico, avevo trovato qualcuno che aveva sistematizzato in maniera perfetta i miei balbettii.
All’inizio degli anni Settanta ho sentito la necessità di coprire le immense lacune che avevo. Una
volta presa la maturità avevo già dimenticato tutto quello che avevo studiato, perché non era una
conoscenza reale»[259].

Tuttavia per fare ordine e per confermare la sua «più grande passione», la
pars nobilior di tutte le religioni, cioè la mistica, ascoltiamo ancora l’eccelso
artista siciliano:

«Se vogliamo usare la cronologia, prima viene l’India, quindi il misticismo indiano, poi il sufismo,
con lo studio della lingua araba, siamo negli anni Settanta, Gurdjieff, buddhismo. Naturalmente non
è che sono tutti così separati, perché all’interno di un periodo approfondivo i mistici cristiani
occidentali. Ho avuto una forte passione insieme al sufismo per l’ortodossia, quindi i Padri del
deserto e Silvano del Monte Athos, Serafino di Sarov ecc. Tutti questi sono stati delle colonne
portanti».
Tale dialeghestai conferma tra l’altro l’impossibilità di un approccio non
sincretista nel milieu esoterico - lo stesso Zolla affermava: «Sono
perfettamente sovrapponibili il bramino praticante e il maestro
platonico»[260].
Battiato dunque, ha intrapreso questo tipo di percorso, scegliendo Gurdjieff:
«Io ho seguito la sua scuola per circa dieci anni e vi sono tutt’ora legato.
Esistono cose per le quali trovo questa scuola assolutamente perfetta. Altre
possono essere sviluppate in altro modo. Ma la scuola gurdjieviana è stata per
me straordinaria»[261].
La scuola di Gurdjieff mira al perfezionamento di sé: «La base di questa
scuola è il centro di gravità permanente. E’ il grado di coscienza di sé. Anche
se sono varie le possibilità di perfezione del proprio Sé. E’ quel grado di
conoscenza che ti porta a una tua verità personale, che, come conseguenza, si
riflette all’esterno in una proiezione di giustizia e precisione»[262].
Trasmutando il mondo interiore, quello esteriore viene parimenti trasmutato
secondo un’antica e profonda verità esoterica, riscontrabile in ogni vera
tradizione iniziatica, come già Elémire Zolla ricordava: «Dalla trasmutazione
dell’interiorità umana tutto dipende? Dall’ordine dentro di me dipende quello
del mondo attorno a me? Se io divento pura e infinita luce, la materia attorno
a me sarà del pari trasmutata: dal mio carattere dipende il mio destino, dal
mio cuore il mio ambiente. I miei peccati sono lo spessore e l’asperità del
reale. Ardua, esoterica verità!»[263]
In questo gioco di specchi magici tra interiorità ed esteriorità, è ovviamente
l’interno che assurge a fondamento precipuo ed essenziale è la
consapevolezza di viverci, di lavorare da lì: ambula ab intra appunto. La
differenza tra essere dentro o fuori dal centro è una questione cruciale:

«Quando diciamo che una persona è fuori centro, che non ha centro,
diciamo che è scentrata. Senti che le manca quella cosa che gli orientali
fanno arrivare sotto il plesso celiaco. E la possiamo determinare con un
esempio di legge fisica: c’è un punto in cui una persona è in equilibrio su
di sé; un altro punto in cui basta un po’ di vento per farti cadere giù. E’ il
centro intorno al quale ruota tutto il mondo della percezione e
dell’impressione: è una posizione dalla quale tutto il resto è periferia, una
posizione dalla quale vedi tutto il mondo. Esiste un collegamento con il
controllo delle emozioni. Si tratta di un’idea di unità portata alle estreme
conseguenze, contro la frammentarietà dell’essere, e per l’Essere Uno. Il
centro perfetto – veramente difficile da raggiungere – è la possibilità di non
avere dubbi su niente perché tutto è chiaro. Da quel punto si vede con
chiarezza e perfezione. Ma ci sono vari livelli».[264]

Già lo stesso Gurdjieff affermava: «In realtà, la coscienza è una proprietà che
cambia continuamente. Ora è presente, altre volte manca. E vi sono diversi
gradi, differenti livelli di coscienza»[265].
La realtà dei vari livelli rimanda al leitmotiv della produzione artistica e
filosofica di Battiato: il perfezionamento, l’evoluzione e, dunque, il
centramento.
Ad una conferenza a Scicli, in Sicilia, nel 1997, Battiato, partendo un celebre
pensiero del Maestro armeno, approfondisce la questione del Centro:

«Mi è arrivata una freccia avvelenata, se mi chiedo chi è stato il veleno avrà tutto il tempo di
mettersi in circolo e di uccidermi. Allora è meglio che intanto mi curi. Gurdjieff riassume la
tensione tipica di tutte le costruzioni del pensiero religioso, volto alla costruzione dell’homo novus,
alla «metanoia» (dal greco: cambiare mente), a quello che il cattolicesimo chiama «pentimento»,
aggiungendo la nozione di colpa a quella dell’evoluzione dell’essenza della persona. Questo
desiderio di crescita, banalizzando, viene sintetizzato da Gurdjieff nella teoria del centro di gravità
permanente come luogo utopico della propria autoconsapevolezza e della massima evoluzione.
Sapere di essere fondamentalmente un assassino e migliorarsi è molto meglio che sentirsi
benefattore e perpetuare i propri errori. Vi risparmio, a questo proposito, il mio giudizio sui politici
che appaiono in televisione»[266].

2. La contraddizione, l’amore, l’universo.

La ricerca del «centro» in Battiato avviene per via estetica: il suo percorso
iniziatico è supportato e al tempo stesso trasceso e trasmutato dall’arte che
sembra essere lo strumento, la nave o meglio «il vascello vagabondo arrivato
da ogni confine per soddisfare i suoi desideri» (parafrasando Invito al
viaggio)[267], i quali sono sempre proiettati alla ricerca, alla conoscenza e
all’acquisizione di sé. Potremmo dire che il Maestro[268] sublima nell’arte i
suoi vari traguardi raggiunti nell’esperienza del viaggio verso la
consapevolezza.
In un’intervista a Rai Educational l’artista è chiarificatore:

«Considero la mia carriera molto omogenea con una permanenza di impulsi e di desideri sempre
uguali, sempre in una direzione. Questo da un certo punto di vista mi piace, perché il desiderio
primario è sempre stato lo stesso, la ricerca, il gusto, la voglia di scoprire il perché di questo viaggio,
questa in sintesi è la mia carriera. Come musicista trasformo le esperienze personali e quello che
considero un modo di intendere un mondo, una filosofia di vita, trasformo questo pensiero in
musica, in comunicazione, facendo questo mestiere come una testimonianza, del mio percorso, delle
mie idee che di volta in volta cambiano, o restano uguali»[269].

Questo elemento è piuttosto denotativo riguardo al livello di libertà


intellettuale di Battiato, il quale molto autoritariamente, si permette di
cambiare idea, di contraddirsi, di essere o sembrare volutamente ambiguo.
Per un iniziato del calibro di Battiato, la facoltà di contraddirsi e di cambiare
idea è rutilante simbolo di libertà interiore raggiunta. Lo stesso concetto non
può ovviamente valere per tipi d’uomini inferiori come ad esempio il tipo
politico, considerato dallo stesso Sgalambro come «quell’ultimo uomo di cui
andava alla caccia Nietzsche»[270]. Per esso infatti il cambiare idea è
ipocrisia in atto, agguantarsi una fetta di potere in più ingannando il popolo
attraverso il mezzo massmediatico[271].
La contraddittorietà di Battiato invece, infinitamente più profonda e più volte
ostentata nei testi durante tutto il repertorio dell’artista nel corso degli anni,
sembra richiamare quella dadaista: «E’ necessario non farsi capire»[272]
diceva Evola in quanto «Il vero dadaismo è contro il dadaismo, si trasforma,
afferma, dice nello stesso istante il contrario, senza darvi importanza»[273] e
questo in virtù della concezione evoliana dell’Io come massima potenza
autarchica di contraddittorietà, forma estrema di egoismo e libertà raggiunta.
E’ sottile dunque il velo che contrappone l’assoluta fermezza del centro di
gravità raggiunto, il «non cambiare idea sulle cose e sulla gente» e la
proteiforme libertà di contraddirsi costantemente, sull’onda di un gioco tutto
iniziatico, verticalmente artistico, elegantemente tale. Citando ancora il
particolarmente arguto Zingales, attentissimo lettore ed interprete di Battiato:
«La ricerca dell’ambiguità come tonalità di un dinamismo pop fattivo non
deve ingannare, così come si è visto, l’ostentazione di segni e figure o
immagini di riferimento, e la resa feticistica di umori primigeni vanno in
Battiato sia oltre un’ingenuità fanciullesca, pascoliana, che al di là di un
disinibito gioco warholiano di decostruzione della forma-vita. Sono un modo
per cercare nel colpo d’occhio dello sbilanciamento quel centro di gravità
permanente mutuato da Gurdjieff, quel distacco dalle tensioni, perché alla
fine l’unica mira è esplodere con più forza possibile un percorso di
fede»[274].
Il termine fede è qui ovviamente inteso non in senso religioso quanto
«esoterico», lo stesso Zolla in Verità segrete esposte in evidenza dirà: «Alla
notizia che la fede è la sostanza del reale non si regge»[275]. La fede è qui la
volontà di cambiarlo il reale, la fede in quanto intenzione, quello che
Castaneda chiamava «intento», la fede come atto «magico», sciamanico.
Il fondamento è in quello sbilanciamento additato da Zingales, dentro il quale
e al di la del quale si scorge l’equilibrio, la saldezza, la fermezza del pensiero
e della coscienza non più scissa.
Tale «risveglio» implica una sorta di rinascita, un vero e proprio
rinascimento interiore, martellando (per tornare a Ferro battuto) e demolendo
la parte più rozza del nostro essere, la superficie, la zavorra, in quanto come
afferma il Maestro «per entrare nel sacro bisogna abbandonare tanta
zavorra»[276] . Questa distruzione o «bruciatura» (per usare un linguaggio
alchemico) di una (grande) parte di noi stessi non è però un atto violento ma
amorevole, è amore verso se stessi, che nell’accezione esoterica citata in
precedenza dell’esterno quale risultato dell’interno, rimanda all’«ama il
prossimo tuo come te stesso». Solo una persona in pace con sé può amare il
mondo esterno a lui, suo prossimo incluso, insegnamento tanto banale quanto
ancora poco recepito.
Uccidere amando, uccidersi amandosi. L’amore e la morte non sono così
distanti e questa verità è impressa nella storia degli Arcani Maggiori,
ovviamente sotto forma simbolica, l’unica capace di raccontare ciò che
all’uomo è più occulto e precluso - il simbolo è nato prima della parola[277].
In tutti gli Arcani Maggiori è riportato il nome in basso tranne che nella lama
della Morte in cui il nome viene riportato con assai minore evidenza nella
parte superiore della figura. Perché? Perché il nome di questa lama può essere
solo pronunciato ma non scritto, ne verrebbe falsato il significato: la
pronuncia francese della parola «morte», la mort, è molto simile alla parola
«amore», l’amour[278]. La morte come alleata dunque, per tornare allo
sciamanesimo, la morte che permette di rinascere come essere amorevole,
l’artista che ama la sua creazione. Ma l’arte più nobile è proprio l’Arte Regia,
quella che permette di ri-crearsi, di ri-plasmarsi, di perfezionarsi, di evolvere.
Questo è l’amore che distilla un nuovo sé, un homo novus.
L’amore è un’energia potente e Battiato lo sottolinea perentoriamente
attraverso un suo brano dal titolo Tutto l’universo obbedisce all’amore[279].
Senza amore non c’è conoscenza, questa verità ermetica è anche il messaggio
di Botticelli nello splendido dipinto Nastagio degli Onesti. In una sala da
pranzo i commensali si alzano in piedi terrorizzati per ciò che stanno
vedendo: di fronte a loro una donna nuda sbranata da due cani, uno bianco e
uno nero, con un cavaliere in armatura a cavallo che si dirige con impeto
verso di lei, con la spada sguainata (tra l’altro per assurdità ed estraneità degli
elementi tra loro, che sembrano quasi onirici, l’opera sembra anticipare
elementi surrealisti). Cosa vuole comunicare il pittore, che già con La
primavera aveva praticamente dipinto un manifesto ermetico? Quella donna
non ricambiò amore e il cavaliere ne morì, da qui la dannazione perpetua: lei
fugge e lui la rincorre per ucciderla, mentre già dei cani la stanno
azzannando. Il messaggio del pittore è chiaro: guai non abbandonarsi
all’amore. Come afferma Gabriele La Porta, citando il dipinto per spiegare il
concetto di «ombra» in Bruno: «E per sempre chi non si abbandona
all’amore, sarà soggetto alla sua ombra che è potente e incessante, il cavaliere
e il cane nero. Per sempre ci perseguiterà, facendo strage di noi. Questo dice
questo dipinto»[280].
L’amore di cui stiamo parlando va letto dal punto di vista esoterico, non si
tratta di porgere l’altra guancia o di fare la carità, ma di un amore iniziatico di
ben più profondo spessore, afferente ad un atto magico di trasmutazione del
reale, un lavoro alchemico, creativo, il cui demiurgo è dotato di fredda e
lucida consapevolezza, un atto che ha ripercussione sull’intero universo in
virtù dell’indissolubile unione di macrocosmo e microcosmo, che Gurdjieff e
i vari Maestri moderni e contemporanei mutuano da Bruno e dallo spirito
ermetico della filosofia rinascimentale italiana:

«Il mistero dell’Amore è quello di scendere alle radici non solo della propria umanità, ma soprattutto
della propria umiltà di esseri: solo così si potrà capire che in fondo, chi prima chi dopo, chi con un
mezzo chi con un altro, chi più lentamente chi più rapidamente, siamo tutti avviati, nell’ambito di un
progetto cosmico, per mezzo di un lungo viaggio di cui Battiato parla in un brano denso di richiami
iniziatici ed esoterici, Via Lattea, partendo dalle porte di Sirio, a portare avanti e concludere una
missione cosmica pensata da una Grande Mente Universale […] E quando prenderemo, finalmente,
coscienza di questa Mente Universale, potremo accorgerci di come essa e la nostra Mente
individuale attuale siano la stessa cosa, nella compresenza ad assoluta unitarietà del Tutto.
Allora capiremo che la “Sua Volontade” in cui è “nostra pace” è la nostra stessa Volontade, per
rifarci ancora una volta al grande Iniziato Dante Alighieri […]»[281].
Tat tvam asi, come recita un celebre mantra sanscrito, letteralmente: «tu sei
quello», cioè tu sei Dio, tu e Dio siete la stessa cosa[282]; Battiato ne
propone una citazione nel brano I’m that[283], «io sono quello» appunto.
Macro e micro cosmo sono uniti attraverso legami ben precisi come anche
insegnava Gurdjieff che vedeva nell’uomo l’intero universo in
miniatura[284]. Tale visione, che come si è sottolineato rimanda alla
concezione rinascimentale dell’uomo, viene splendidamente rievocata da
Battiato proprio nella sua ultima opera dedicata a Bernardino Telesio
presentata sotto forma di ologrammi, in cui il rimando alla meccanica
quantistica e in particolare alla (meta)fisica di David Bohm è oltremodo
palese[285].
L’affinità dell’arista siciliano a filosofie perenni, riproposte più o meno
implicitamente tanto da alcuni coraggiosi scienziati che abbracciano il
modello olografico, come appunto Bohm e Pribram, quanto da tutti quei
filosofi ermetici o tradizionali del passato e del presente, è riscontrabile in
tutta la sua produzione artistica e non mi riferisco solo a quella musicale, ma
anche a quella cinematografica e pittorica[286]. Una conferma in più che il
definire Battiato con l’aggettivo «cantante» o «cantautore» è decisamente
errato. Quando canta, le sue istantanee dal realismo incisivo e spiazzante, che
spesso di colpo scolora nel surreale per poi repentinamente,
incomprensibilmente, tornare «in sé», additano e corroborano l’illusorietà del
tangibile, quel formicolio di particelle che sembra concreto solo perché in
moto perpetuo: «Nell’attimo in cui Battiato ci distrae con le sue cartoline
olografiche tra passato e realismo, le parole non contano, come non contano
mai, sono solo inganni, ed eccolo invece già corpo di musica che esprime, per
dirla con Schopenhauer, «l’elemento metafisico del mondo fisico, l’ in sé di
ogni fenomeno», eccolo sfinge che lampeggia in un non tempo e in un non
luogo»[287].
Credo che uno dei tantissimi meriti del Maestro sia quella capacità sublime di
accostare verità invisibili a sguardi realistici, fotografie concrete sul
quotidiano che appartengono a noi tutti. Fondendo e confondendo l’esoterico
al quotidiano, è riuscito a far arrivare certe verità segrete ad orecchie che non
avrebbero mai immaginato esistessero suoni simili.
Questo il grande merito culturale di Battiato, ciò che per Klee era il compito
stesso dell’arte: rendere visibile l’invisibile. Spetta all’ascoltatore interessato
approfondire, meravigliarsi, interrogarsi, all’artista il merito di solleticare
l’intelletto, la curiosità, la sensibilità di chi ammira l’opera. Come affermava
Platone: «è proprio del filosofo essere pieno di meraviglia; né altro
cominciamento ha il filosofare che questo essere pieno di meraviglia».
Franco Battiato, attraverso la sua opera, ha instillato in quei milioni di italiani
che hanno avuto negli anni l’onore di ascoltarlo, quell’attitudine nobile alla
filo-sofia, all’ «amore per il sapere». Egli squaderna la conoscenza tramite la
bellezza.
Non esageriamo se affermiamo che il Maestro ha contribuito ad innalzare il
livello culturale del paese ovviando alle tragedie e alle catastrofi dei nostri
Ministri dell’«Istruzione», infime fiamme della civitas diaboli.

3. Un’immagine divina in un mondo mediocre[288].

Parlando del percorso artistico ed esoterico di Battiato non possiamo non


accennare agli anni Settanta: «Questo periodo, di cui fa parte L’Egitto prima
delle sabbie, è quello che considero il più alto della mia produzione»[289].
Come giustamente afferma Zingales, Battiato è «un’artista di assoluta
eccezione, uno che se avesse smesso con L’EGITTO PRIMA DELLE
SABBIE sarebbe rimasto un culto, oscuro, per intenditori, ma certo luminoso
di una luce destinata a rimanere nel tempo. La cosa incredibile è che Franco
Battiato non aveva ancora cominciato ad articolare compiutamente il suo
discorso»[290]. L’Egitto prima delle sabbie, il cui brano omonimo vinse nel
1978 il Premio Stockausen, si situa al di là dell’ordinarietà musicale, così
come ci si situa di diritto il suo nobile demiurgo[291], il quale si ipnotizza
con la sua stessa creazione. Alla domanda di Pulcini se quella musica era
davvero qualcosa di vicino all’ipnosi, Battiato risponde: «Sì. E credo di
essere la prima vittima in questo senso. Ricordo che L’Egitto prima delle
sabbie, per almeno un paio di anni, mi aiutava nella meditazione. Quando
finiva, avevo la sensazione che la stanza si riempisse di una certa purezza
sonora, escludendo tutto il resto»[292]. L’arte quale Via Iniziatica: la
creazione che aiuta il creatore a meditare, ad entrare nel proprio mondo
interiore, ad approfondire la conoscenza di sé.
Quel minimalismo tanto astratto quanto profondo, che scardina ogni
possibilità temporale, non è certo alla portata dei «giornalisti», dei «critici»,
dei «direttori artistici» o «degli addetti alla cultura», che il Maestro in Up
patriots to arm vorrebbe legittimamente mandare in pensione.
Battiato, dunque, è calato in un mondo che non è il suo, il contesto della
musica leggera italiana è strettissimo per le sue ampie vedute[293], per i suoi
«voli imprevedibili ed ascese velocissime»[294]; ricordo ancora con disgusto
una delle tante interviste a cui il Maestro si è dovuto sottoporre in questi anni
di squallidissima televisione in cui emerge chiassoso l’irrisolvibile intralcio
di quell’abissale distanza qualitativa che spesso planetaria erompe a freddo
tra l’intervistatore e l’intervistato Battiato.
Un notissimo e stimatissimo volto televisivo italiano, in una altrettanto
notissima trasmissione televisiva, avendo ospite il Maestro, tra svariate
domande che preferisco omettere per rispetto verso il lettore intelligente, alla
fine gli chiese: «Lei in una sua canzone dice che a Beethoven e Sinatra
preferisce l’insalata ma poi ha fatto un film su Beethoven. Non c’è
contraddizione?». Questa domanda mi stordì e quasi mi ferì. Intervistare fa
certamente parte del lavoro del giornalista ma quest’ultimo se tale, dovrebbe
anche considerare il concetto di limite, limite che inerisce in primis alla sua
capacità di comprensione, al suo livello culturale e al rispetto di un grande
Iniziato quale Battiato. Poi, subito dopo, gli chiese: «Ma l’ha trovato questo
centro di gravità permanente?». Battiato abbozzò un sorriso e scherzosamente
disse: «Eh come no?!».
Come giustamente afferma Zingales nel suo splendido saggio: «Battiato non
teme gli equivoci, anzi si dà in pasto volentieri alla stupidità televisiva,
avendo scelto una comunicazione di massa sa che il registro è quello,
nonostante abbia in spregio l’umano mischia volentieri le pulci, un po’ per
avere, e molto per dare. E qui sta la sua grandezza»[295]. Egli si trova di
fronte alla «pochezza di uomini che davanti al dito che indica la luna non
possono fare altro che fissare il dito, senza vedere neanche quello. Nella loro
limitatezza sta la conferma della grandezza di Battiato, il suo stato di grazia
riluce e informa ostacoli e opposizioni, non lo fermi, non lo inganni, non lo
smonti, dentro di lui «segni di fuoco è l’acqua che li spegne / se vuoi farli
bruciare tu lasciali nell’aria /oppure sulla terra»[296].
La pazienza dell’artista di fronte alla pochezza giornalistica con cui deve
scendere a compromessi è talvolta quasi commovente, egli sembra avere un
atteggiamento paterno di fronte ad individui che comunque non saranno mai
grandi. Come con i bambini quando alle loro domande inopportune forniamo
mezze verità, indirizzandoli per lo meno sul tema della risposta ma
occultando la stessa nella sua sostanza, così egli talvolta sembra relazionarsi
con essi.
Il vero problema tuttavia non è l’industria televisiva, quanto la società che la
produce. Un’artista profondo, colto e impegnato in un percorso evolutivo
può non essere avvezzo a denunciare le problematiche sociali, tanto egli ne è
distante, non certo per disinteresse quanto per struttura interiore, sapendo
bene che il mondo esterno lo si costruisce prima in quello interno: «La forza
non serve a niente. Ci vuole una presa di posizione seria dell’individuo uomo
all’interno del suo essere, della sua vita»[297]. Nella canzone New frontiers
invece è lapidario: «L’evoluzione sociale non serve al popolo se non è
preceduta da un’evoluzione di pensiero»[298]. Non possiamo pensare di
riparare la carrozzeria di una macchina (che Gurdjieff chiama «biologica») di
cui non conosciamo nemmeno il motore.
In ogni modo lungo gli anni della sua carriera, l’eccelso musicista si cimenta
anche in una sorta di «critica sociale» e come sostiene Zingales, con Povera
Patria egli piange e sono lacrime d’arte: «Se ho scritto Povera Patria è
perché sono coinvolto. Ogni sera guardare il telegiornale è una sofferenza, a
meno che non si resti indifferenti a questo passare, che so, da Riccardo Muti
ai morti ammazzati»[299]. Lo spessore di Povera Patria evidenzia la ferita
nel cuore di un uomo che dall’alto della poesia ci restituisce l’immagine di un
paese che è sprofondato nel male. Ma la vera viltà è l’indifferenza, ciò che
tiene in gioco questo macabro accadere dei tempi moderni, l’inutilità umana
di quegli individui che inconsapevolmente reggono lo stato di cose
avvallandolo e dando esso energia, è tale «omnitudine» ciò che più spaventa:
l’assassino può sempre redimersi, l’indifferente rimane tale.
Ciò ovviamente non salva ne giustifica chi il male lo compie davvero, chi
garantisce e legalizza questo stato di cose. In un’intervista Battiato ha
dichiarato che questi politici non sono umani: «Credo che siano un po’
diversi dagli esseri umani, sì, perché non c’è rimorso, né pietà. Questa classe
politica ha lasciato la corruzione intatta, com’era vent’anni fa, com’era
trent’anni fa. Come fanno a guardarsi allo specchio? Sono orgogliosi del fatto
che rubano, questo è insopportabile, sono orgogliosi»[300]. E ancora: «La
stessa totale estraneità oggi (e questa volta però c’è solo disgusto) la provo
per certi uomini di «potere». Anche qui il mistero è fitto. Sono uomini o
subumani?»[301].
Da Povera patria a Inneres Auge.
L’impegno politico di Battiato è una questione davvero importante[302]: le
due canzoni sono un termometro del momento sociale che attraversa il paese,
due campanelli d’allarme, un allarme che sa di catastrofe: «A me non piace
scrivere questo tipo di canzoni. […] Lo faccio come cittadino, è un dovere
per me»[303]. E’ davvero singolare che il Maestro sia stato l’unico cantante
italiano che si sia schierato apertamente contro Berlusconi[304], ciò è
indicativo riguardo al livello culturale del panorama musicale italiano.
L’epilogo filosofico di Inneres Auge è icastico ed eloquente: Battiato dopo
aver denunciato la depravazione, l’assenza di pudore sfoggiata e lanciata in
faccia agli italiani, torna in sé: ecco che la sua arte torna alla sua funzione
precipua, torna su quel livello «salvifico», terapeutico e iniziatico che
accompagna il maestro in ogni sua creazione: «Ma quando ritorno in
me/Sulla mia Via/A leggere e studiare/Ascoltando i grandi del passato/Mi
basta una sonata di Corelli/Perché mi meravigli del creato»[305].
Battiato, come afferma nel brano L’ombrello e la macchina da cucire,
dall’omonimo album del 1995[306], a mio avviso il più filosofico, è un
«contemporaneo della fine del mondo», quest’epoca infatti non è
semplicemente deplorevole: è mortifera. Una società che produce morte (la
già citata civitas diaboli zolliana), non può che innescare morte essa stessa,
ed ecco la splendida associazione, sottile, elegante e profonda nel brano
seguente, quasi a concludere un sillogismo, il brano è Breve invito a rinviare
il suicidio. Siccome questa non è più nemmeno una società, allora questa non
è più una vita quanto una parvenza di essa. Già nel 1983, in Orizzonti
perduti[307] Battiato cantava: «ci vuole un’altra vita» ma è con L’ombrello e
la macchina da cucire che l’appello si fa più grave, drammatico ma geniale:
«Questa parvenza di vita ha» perfino «reso antiquato il suicidio/Questa
parvenza di vita Signore, non lo merita/Solo una migliore».
Sembra riecheggiare quella crisi del mondo moderno di guenoniana
memoria[308], d’altronde il filosofo francese non è citato solo in Magic
shop[309], altra perla di genialità altissima, ma, «invisibilmente» - e quindi
visibilmente ad un attento vedere («armonia invisibile della visibile è
migliore» diceva Eraclito) - in gran parte del corpus della produzione
battiatiana.
Tuttavia l’essere consapevole del tramonto occidentale (in questo brano
l’omaggio è rivolto a Spengler)[310], non significa esserne vittima - sarebbe
tale sono se inconsapevoli di tale tramonto. La denuncia della crisi è
propedeutica al risveglio in quanto, come insegnava già Zolla, è proprio nel
suo occultamento che il sacro risplende e inoltre, come afferma in
Ermeneutica: «solo quando il sacro parla l’eccelso prende forma»[311].
Come Zolla che nello svelare che cos’è la Tradizione non può non criticare
l’anti Tradizione[312], così Battiato nel constatare le tenebre della fine del
mondo non può non scorgervi l’ombra della Luce, e perfino la luce stessa:
«Le sento più vicine le sacre sinfonie del tempo/con un’idea: che siamo esseri
immortali/caduti nelle tenebre, destinati ad errare;/nei secoli dei secoli, fino a
completa guarigione»[313].
A volte evoca, a volte parla chiaro, a volte si chiude del tutto in una torre
d’avorio, ma una cosa è certa: il livello è davvero imponente e sproporzionato
per il pubblico della musica leggera italiana. Non va scordato che Battiato
non partecipò mai a San Remo[314] e motivò tale saggia decisione dicendo
che l’arte non può essere messa in gara, non ha senso per un artista
«gareggiare». In un’intervista il Maestro, citando Paul Valéry ricordava che
«il competitivo ha bisogno dell’altro, da solo non è nessuno».
Un artista così elitario, erudito e geniale non ha bisogno di vincere San
Remo, non ha bisogno di competere. Proviamo solo ad immaginarlo
«gareggiare» con Toto Cutugno o Gigi D’Alessio, con Laura Pausini o
Gianluca Grignani, con Vasco Rossi o con Biagio Antonacci…. Non viene la
pelle d’oca?
Il Maestro ha sempre avuto un pubblico di ammiratori vastissimo perché di
fronte alla vera bellezza cede ogni ragione, frana ogni barriera, crolla ogni
incomprensione.
L’album L’ombrello e la macchina da cucire, che nel solo titolo contiene due
citazioni, Lautremont e Max Ernst, raggiunge un livello di intensità poetico-
filosofica difficilmente riscontrabile altrove nel panorama musicale
internazionale. Siamo all’esordio di Sgalambro come coautore dei testi di un
album[315] e il risultato è di una potenza devastante per intensità concettuale
ed eleganza: «In tale disco, per la prima volta, tutti e nove i testi dei brani - ci
si sente in imbarazzo a chiamarli «canzoni» – sono stati scritti da altri,
precisamente dall’infaticabile coscienza critica del collasso dei valori
filosofici e spirituali del pensiero del nostro secolo che è Manlio
Sgalambro»[316].
Inutile soffermarsi sui vari brani, sulle varie poesie, ognuna meriterebbe uno
studio specifico e un elogio apposito, in questa sede vorrei semplicemente
segnalare l’epilogo di quello che probabilmente è il mio album preferito: quei
dieci minuti interminabili di un sinuoso tedesco dal fascino supremo di una
voce femminile, ferma ed austera ma al contempo seducente, invitante e
ispirante che recita un passo tradotto del Trattato dell’empietà di
Sgalambro[317]. Tale epilogo, dopo una brano potentissimo quale
L’esistenza di Dio, in cui la stupenda metafora dell’operazione chirurgico-
teologica apre un sipario su mondi sospesi, provoca nell’ascoltatore sensibile
e attento quello stupore avvolgente che solo le grandi, grandissime e
indiscutibili opere d’arte innescano.
L’esistenza di Dio mi fa pensare a La porta dello spavento supremo, stupendo
brano che va a chiudere un altro sublime album come Dieci stratagemmi.
«Nell’apparenza e nel reale, nel regno fisico o in quello astrale, tutto si
dissolverà»[318], qui Sgalambro e Battiato affrontano il tema della fine, non
tanto della morte quanto proprio della fine dell’essere al di là delle
reincarnazioni, l’idea, difficile da accettare, è di Gurdjieff: «A differenza di
certi sistemi più confortanti, quello gurdjieviano è in fondo allarmante.
Difficile da accettare. La sua idea di fondo è terribile: anche lo spirito ha una
fine. Tutto è destinato a finire, anche lo spirito, che lui considera parte
integrante della materia»[319].
Nonostante l’idea tremenda della fine, Battiato ha amato il suo Maestro che
gli «insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire»[320],
probabilmente la stessa E ti vengo a cercare è dedicata a lui. Difficile però
parlare di Battiato come allievo, lui e Gurdjieff sono due colonne salde,
imponenti, di un tempio antico, senza tempo, il tempio degli eroi dell’arte,
della conoscenza e dello Spirito, due frecce scagliate verso l’infinito, ognuna
dentro un orizzonte diverso e parallelo, nella consapevolezza che le aquile
non volano a stormi[321].

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI,
MUSICALI E CINEMATOGRAFICI
CITATI E CONSULTATI.

SAGGI DI BATTIATO
F. BATTIATO, In fondo sono contento di aver fatto la mia conoscenza,
Bompiani, Milano 2007.
LP DI BATTIATO
F. BATTIATO, Inneres Auge, Universal, 2009.
F. BATTIATO, La voce del padrone, Emi 1981.
F. BATTIATO, L’arca di Noè, Emi 1982.
F. BATTIATO, L’ombrello e la macchina da cucire, Emi 1984.
F. BATTIATO, Orizzonti perduti, Emi 1983.
F. BATTAITO, Personalità empirica, in «Ferro battuto», Sony, 1992.

SINGOLI DI BATTIATO
F. BATTIATO, E ti vengo a cercare in «Fisiognomica», Emi 1988.
F. BATTIATO, Ermeneutica in «Dieci stratagemmi», Sony 2004.
F. BATTIATO, Centro di gravità permanente in «La voce del Padrone», Emi
1981.
F. BATTIATO, Gli uccelli in «La voce del padrone», Emi 1981.
F. BATTIATO, Il silenzio del rumore in «Pollution», Bla Bla 1972.
F. BATTIATO, I’m that, Le aquile non volano a stormi, Tra sesso e castità,
Ermeneutica in «Dieci stratagemmi», Sony 2004.
F. BATTIATO, Invito al viaggio, in «Fleurs», Universal 1999.
E. BATTIATO, Le sacre sinfonie del tempo in «Come un cammello in una
grondaia», Emi 1991.
F. BATTIATO, Magic shop, in «L’era del cinghiale bianco», Emi 1979.
F. BATTIATO, Prospettiva Nevskij in «Patriots», Emi 1980.
F. BATTIATO, Tutto l’universo ubbidisce all’amore, cantata con Carmen
Consoli in «Fleurs 2», Mercury records, 2008.
F. BATTIATO, Testamento, Eri con me, Aurora, in «Apriti sesamo»,
Universal 2012.
F. BATTIATO, Up patriots to arm I «Patriots», Emi 1981.
F. BATTIATO Vite parallele in «Gommalacca», Polygram 1998.

OPERE CINEMATOGRAFICHE DI BATTIATO


F. BATTIATO, Auguri Don Gesualdo, Bompiani 2010.
F. BATTIATO, Musikanten, L’Ottava 2005.
F. BATTIATO, Niente è come sembra, L’Ottava 2007,
F. BATTIATO, Perduto amor, L’Ottava 2002.
STUDI SU BATTIATO
C. ZINGALES, Battiato on the beach, Arcana, Roma 2010.
M. MACALE, Franco Battiato. Una vita in diagonale, Bastogi, Foggia 1994
G. GUERRERA, Franco Battiato, un sufi e la sua musica, Loggia de’ Lanzi,
Firenze 1997.
F. BATTIATO, Io chi sono? Dialoghi sulla musica e sullo spirito con
Daniele Bossari, Mondadori, Milano 2009.
F.BATTIATO, Tecnica mista su tappeto. Conversazioni autobiografiche con
Franco Pulcini, Edt, Torino 1992.

ALTRE FONTI
D. BOHM, Universo, mente, materia, Red edizioni, Como, 1996.
- Wholeness and the Implicate Order,
Routledge, London 1983.
M. ELIADE, Tecniche dello yoga, tr. it. di A. Macchioro, Bollati Boringhieri,
Torino 1984.
J. EVOLA, Arte Astratta. Posizione teorica, dieci poemi, quattro
composizioni, Maglione e Strini, Roma 1920.
- Il Cammino del Cinabro, Vanni Scheiwiller, Milano 1963.
R. GUENON, La crisi del mondo moderno, Mediterranee, Roma 2003.
- L’esoterismo di Dante, Atanòr, Roma 2008.
W. HANEGRAAFF, Western esotericism. A guide for the perplexed,
Bloomsbury, London 2013.
A. JODOROWSKY, Conversazioni sulle vie dei Tarocchi, Feltrinelli, Milano
2007.
- Io e i Tarocchi. La pratica, il pensiero, la poesia, Giunti,
Firenze 2007.
G. LA PORTA, Anima mundi e scienza, in «Testimone dell’infinito.
Giordano Bruno 1600-2000», Atti del Convegno Perugia-Terni, Ali&No
Editrice, Perugia 2004.
G. MALVANI, De Alchimia, Edizioni Penne e Papiri, Latina 1998.
P. D. OUSPENSKY, Frammenti di un insegnamento sconosciuto. La
testimonianza di otto anni di lavoro come discepolo di G. I. Gurdjieff, tr. it. di
H. Thomasson, Astrolabio, Roma 1967.
M. SGALAMBRO, Anatol, Adelphi, Milano 1990.
- Dell'indifferenza in materia di società, Adelphi, Milano
1994
- Trattato dell’empietà, Adelphi 1987.
O. SPENGLER, Il tramonto dell’Occidente, Guanda 1991.
E. ZOLLA, Che cos’è la tradizione, Adelphi, Milano 1998.
E. ZOLLA, Le meraviglie della natura. Introduzione all’alchimia, Marsilio,
Venezia 1991.
E. ZOLLA, Lo stupore infantile, Adelphi, Milano 1994.
E. ZOLLA, Verità segrete esposte in evidenza, Marsilio, Venezia 1990.

Il vero iniziato è chi dopo un assiduo lavoro ed una efficace pratica della
dottrina, perfezionato, evoluto, sorpassa i gradini del più alto visibile mondo
volgare e entra nel mondo delle cause, rinunciando a quello degli effetti.

Giuliano Kremmerz

Ognuno vale quanto ciò che cerca.


Marco Aurelio

Avete più paura voi.


Giordano Bruno, al processo.
[1] Per lo meno tramite il modello meccanicista: la ragione calcolante non può che abdicare di fronte
ad una lettura esoterica del reale che di fatto lo capovolge. Tuttavia «non dimostrabile» non significa
«non sperimentabile», Fernando Picchi nella sua presentazione a un celebre testo di Kremmerz
dichiara: «Un aspetto peculiare della scienza, come la si intende oggi, è lo sperimentalismo, ma se
vogliamo definire scienza tutto ciò che si realizza attraverso la sperimentazione, non vedo perché si
debba escludere dalla scienza l’esoterismo, quando esso è studiato e trattato con metodo sperimentale,
come mi risulta che fanno le varie Accademie Kremmerziane in Europa. Forse, l’unico motivo di tale
esclusione potrebbe essere quello che ha spinto la scienza ufficiale (ecco che abbiamo di nuovo bisogno
di un aggettivo qualificativo) a negare per tanti secoli l’esistenza dello spirito o di un qualcosa di
imponderabile che sfugge ai suoi strumenti di misurazione e ai suoi metodi di indagine e che
l’esoterismo, invece, pone alla base di tutte le sue ricerche». F. PICCHI, Presentazione a G.
KREMMERZ, Introduzione alla scienza ermetica, Mediterranee, Roma 2000, pp.7,8.
[2] Bushido, la Via del Guerriero, a cura di M. Pantareo e T. Pecunia, Feltrinelli, Milano 2013, p.
136,7.
[3] A tale proposito rimando al mio articolo Un universo interconnesso apparso nel numero di
Febbraio del mensile Scienza e Conoscenza, Macro Edizioni, Cesena 2014.
[4] «Perennialismo» è un termine ripreso nel Novecento dall’espressione Rinascimentale e seicentesca
De perennis philosophia, che era il titolo della fortunata opera del vescovo eugubino Agostino Steuco
(1540) , lavoro nato entro un contesto culturale in gran parte preparato dallo spirito umanistico di
Marsilio Ficino e Pico della Mirandola.
[5] E. ZOLLA, Lo stupore infantile, Adelphi, Milano 1994, p. 37
[6] «Huius operis autem duplex erit ratio ut quoniam ostensum est unam necessario semper fuisse
sapientiam sive successione traditam sive coniecturis et indiciis excerptam, utramque revocare et
conferre cum vera; propterea Conformationes aut de perenni Philosophia sunt appellatae». A.
STEUCO, De perenni philosophia, III, 2 f.
[7] Cfr. J. EVOLA, Gli uomini e le rovine, Mediterranee, Roma 1953.
[8] «Visita interiora terrae, rectificando invenies occultum lapidem».
[9] E. ZOLLA, Le meraviglie della natura. Introduzione all’alchimia, Marsilio, Venezia 1991, p. 387.
«Ma chi riflette comprende che l’Assoluto si scopre nell’interiorità e lo smarrisce chi lo cerchi nel
mondo esteriore». L’esito del processo, precisa Zolla è «la comunione con il proprio sé più intimo, che
coincide con la verità suprema, e che la ragione non può afferrare, perché gioca soltanto con opposti e
contrari, allestendo contrapposizioni dispiegate nel tempo e nello spazio». E. ZOLLA, Le tre vie
(1995), Adelphi Milano 2002, p. 51.
[10] La magia nel Rinascimento «è sempre sul punto di risolversi in arte, in scienza, in psicoterapia,
in religione». P. ROSSI, Introduzione a La magia naturale nel Rinascimento, Utet, Torino 1989, p. 7.
[11] «Tutto parla di Dio; mondo, uomo e Dio costituiscono un unicum attraversato da relazioni
manifeste e relazioni nascoste, di cui il sapiente mago deve conoscere la topologia. Nella sua anima
l’uomo riflette il mondo; ma il mondo è il linguaggio di Dio e le sue diverse manifestazioni (animali,
vegetali, minerali) sono tutte parole di un linguaggio con cui Dio si rivolge a noi. Conoscere tale
linguaggio significa dunque mettersi in relazione con il principio di tutto, con l’unità originaria di cui la
nostra stessa anima è manifestazione. Tutto è connesso con tutto – e il nome di tale vincolo universale è
«amore». Ogni cosa è come la nota di una sinfonia cosmica. Spetta a noi decifrarla ed eseguirla con gli
strumenti di un arte operativa che dobbiamo azionare al modo in cui un direttore d’orchestra aziona la
sua bacchetta». M. DONÀ, Magia e filosofia, Bompiani, Milano 2004, pp. 102-3.
[12] L’olismo è riscontrabile in tutte le sfere del sapere, anche in medicina, dove l’ermetismo era ben
rappresentato da Paracelso: «Partendo dalla fondamentale premessa ermetica che l’uomo non è separato
dalla natura ma ne fa intrinsecamente parte, Paracelso prese a studiare l’organismo umano nel suo
contesto naturale, approccio che oggi verrebbe definito «olistico». Se ogni cosa, in conformità ai
principi ermetici, era interconnessa, l’uomo aveva in sé l’umanità intera e ogni aspetto dell’umanità era
a sua volta un microcosmo dell’intero. Di conseguenza l’uomo doveva essere considerato come un tutto
unico di un universo più vasto, vale a dire un organismo vivente e non un meccanismo composto da
varie parti isolate. Per conoscere l’organismo umano e le sue malattie, Paracelso intuì che si doveva
apprendere l’intero scibile, il contesto cosmico in cui l’organismo era immerso. Per diventare un
medico capace, quindi era necessario evitare la specializzazione, ed essere psicoterapeuta (o il suo
equivalente rinascimentale), erborista, botanico, chimico, fisico, astronomo, astrologo, alchimista,
esperto di minerali e di metalli e praticamente di ogni altra sfera del sapere». M. BAIGENT, R. LEIGH,
L’elisir e la pietra. La grande storia della magia, tr. it. di S. Lalia, Il Saggiatore, Milano 2003, pp. 174-
175. Specificatamente alla visione di Bruno, la Yates sostiene che: «Mediante una interpretazione
ermetica di Copernico e Lucrezio, Bruno perviene alla sua stupefacente visione dell’infinita estensione
del divino, quale si riflette nella natura. La terra si muove perché è un essere vivente che ruota intorno a
un sole magico di tipo egiziano; i pianeti stelle viventi, compiono insieme ad essa il loro corso; altri
mondi innumerevoli, mobili e viventi come grandi animali, popolano un universo infinito». F. YATES,
Giordano Bruno e la tradizione ermetica, tr. it. di R. Pecchioli, Laterza, Roma-Bari, 1981, p. 485.
[13] Cfr. PLATONE, Simposio, a cura di G. Reale, Mondadori 2001; I.P. CULIANU, Eros e magia
nel Rinascimento. La congiunzione astrologica del 1484, tr. it. di G. Ernesti, Bollati Boringhieri,
Torino 2006.
[14] M. DONÀ, op. cit., p. 101. Come esempio, rimando al monumentale sforzo conciliativo di
Agostino Steuco nel De Perenni Philosophia (1540).
[15] Citato in E. GARIN, Lo Zodiaco della vita, Bari, Laterza, 1982, pp. 115-116.
[16] G. BRUNO, De magia naturali, in Opere magiche, Adelphi, Milano 2000, p. 167.
[17] Anche se con la denominazione di Arte Regia si intende solitamente riferirsi in particolare
all’alchimia, la sfaccettata ricchezza culturale del Rinascimento rende ardua a volte la possibilità di
confini netti tra i saperi nei quali invece l’alchimia poteva assimilarsi alla magia e viceversa.
[18] La Porta approfondisce la sua riflessione: «Ancora si salda il parallelo tra la follia e la sapienza,
solo che in questo caso si potrebbe estendere l’equivalenza alla creatività artistica, ovvero: follia-
sapienza-creatività. Si potrebbe addirittura formulare un’ipotesi di interdipendenza tra i tre momenti.
[…] possiamo definire la follia come una sapiente immaginazione creativa, imitante la natura,
accelerandone i tempi evolutivi. Nella mente umana – secondo l’idealità di Bruno e del Dürer – si
possono perciò riprodurre i ritmi della natura, con ritmi più veloci, tramite una immaginazione sapiente
e creativa. Perciò la mente umana ricreerebbe «naturalmente», ma sapientemente, tramite una
immaginazione adeguatamente preparata. Ecco forse la più esatta definizione dell’uomo «furente»
secondo Bruno». G. LA PORTA, Giordano Bruno. Vita e avventure di un pericoloso maestro del
pensiero, Newton Compton, Milano 2001, p. 190.
«Questa corrispondenza tra l’opera d’arte e il creato, fra l’artista e il creatore, assumerà una rilevanza
straordinaria nei secoli XIX e XX, quando la poesia e il romanzo diventeranno probabilmente il mezzo
più efficace per far conoscere l’ermetismo rinascimentale. Gli artisti e il magus si fondono in una sola
figura e i veri eredi di Agrippa e Paracelso sono Goethe e Flaubert, Joyce e Thomas Mann». M.
BAIGENT – R. LEIGH, cit., pp. 234,235.
[19] F. YATES, cit., p. 173.
[20] Un’eccezione autorevole è costituita da S. Tommaso, che lo stesso Bruno considerava mago a
tutti gli effetti.
[21] Cfr. F. YATES, L’arte della memoria, tr. it. di A. Biondi e A. Serafini, Einaudi, Torino 2007.
Sull’origine di quest’arte gli studiosi Baigent e Leigh rimandano alle sue origine celtiche: «L’arte della
memoria di origine mediterranea e celtica, arrivò a fondersi con l’ermetismo e divenne una componente
integrale della tradizione esoterica occidentale. In ragione dell’assenza della scrittura, il druido, il bardo
o l’ollave erano a tutti gli effetti un libro, o meglio una biblioteca vivente. Nella loro memoria erano
custoditi la storia, le leggende, le consuetudini, le regole, l’intero patrimonio che caratterizzava la tribù
o il popolo». M. BAIGENT – R. LEIGH, cit., p. 64.
[22] G. BRUNO, Le ombre delle Idee, tr. it. di N. Tirninnanzi, Bur, Milano 1997, pag. 55.
[23] Più specificatamente riguardo allo stile, le influenze bruniane sono ascrivibili a Lucrezio, Ovidio,
Orazio, Esiodo, Luciano, Epicuro, Virgilio, Saffo, Lucano, Petrarca, Ariosto, tasso, Sannazzaro,
Tansillo, Luigi Pulci, Marcello Palingenio Stellato, Fracastoro, Merlin Cocai, Berni.
[24] A tale proposito Elémire Zolla afferma: «Corpuscolo o onda? David Finkelstein
talmudicamente risponde con una domanda: - Perché un’alternativa sola? E osserva: a conti fatti con
la fisica ultima, resta una sola sostanza, il tempo. Non sembra di averlo già letto nella dedica del
Candelaio? “Il tempo tutto toglie e tutto dà… è uno solo, è eterno e può perseverare eternamente
uno simile e medesimo. Con questa filosofia l’animo mi s’aggrandisce, e me si magnifica
l’intelletto”, gioiva Bruno» E. ZOLLA, Verità segrete esposte in evidenza, Marsilio, Venezia 1990,
p. 169. Cfr. D. BOHM, Universo, mente, materia, Red edizioni, Como, 1996.
[25] F. CARDINI, Giordano Bruno, in Giordano Bruno 1600-2000. Testimone dell’infinito, Atti dei
Convegni di Peurgia e Terni 2000, Alieno Editrice, Perugia 2004, p. 39.
[26] M. D’AMICO, Giordano Bruno, Piemme, Milano 2000, p. 74.
[27] Ivi, p. 46.
[28] M. DONÀ, cit., p. 128.
[29] Ivi, p. 132.
[30] «Credete solo alla verità che vi si imprime come un marchio, alla verità che vi brucia». M.
SGALAMBRO, Del delitto, Adelphi, Milano 2009, p. 138.
[31] Ivi, p. 213.
[32] Ivi, p. 135.
La religione che ha in mente Bruno è una religione della concordia in un mondo dilaniato dalle guerre,
dalle intolleranze e dalle corruzioni proprio in seno alla Chiesa. Come asserisce un autorevole studioso
bruniano quale Michele Ciliberto: «Bruno mira a una «religione» che semplificando al massimo il
proprio apparato dogmatico e dottrinale – e riconoscendosi nei principi evangelici essenziali, al di fuori
di ogni apparato esteriore – si configuri, dal punto di vista civile, come luogo di unità e non di
separazione, di pace e non di guerra, di concordia e non di scissione, di tolleranza e non di
prevaricazione, secondo «l’unica legge dell’Amore»: una religione che si configuri cioè come il
contrario della «difformatissima» religione di Lutero e di Calvino, contro i quali anche in questa
«professione» continua ad essere rivolta, inflessibilmente, la punta della polemica di Bruno». M.
CILIBERTO, Introduzione a Bruno, Laterza, Roma 2006, p. 115.
[33] N. TIRINNANZI, Presentazione della nuova edizione delle opere magiche, in Giordano Bruno
1600-2000. Testimone dell’infinito, cit. p. 33.
[34] Cfr. A. INGEGNO, La sommersa nave della religione, Bibliopolis, Napoli 1985.
[35] G. BRUNO, De la causa principio e uno in Opere di Giordano Bruno e Tommaso Campanella,
a cura di A. Guzzo e di R. Amerio, Ricciardi, Milano-Napoli 1956, p. 310.
[36] Cfr. E. CIORAN, Squartamento, tr. it. di M. A. Rigoni, Adelphi, Milano 1981.
[37] G. D’AMICO, cit., p. 227
[38] «L’uomo non deve essere una vittima inerme delle circostanza o del fato ma può acquistare la
capacità di modellare la realtà che lo circonda e determinare in pinea libertà e responsabilità, il proprio
destino. Pico afferma che l’uomo è stato creato per essere al centro del mondo, fra il cielo e la terra. Da
questa posizione, grazie al libero arbitrio può fare di se stesso ciò che vuole» - come afferma lo stesso
Pico - «Qualunque seme egli coltivi crescerà, maturerà e darà in lui i proprio frutti». M. BAIGENT, R.
LEIGH, op. cit., pp. 141-2. Pico dunque sostiene «la dignità dell’uomo come magus […] avente in sé il
divino potere creativo, e il potere magico di sposare la terra e il cielo». F. YATES, Giordano Bruno,
cit., p. 129. La Yates inoltre asserisce che fu Pico che «per primo, con audace intuizione, concepì una
nuova condizione per l’uomo europeo, l’uomo come magus, che utilizzava la magia e la cabala per
agire sul mondo e controllare il proprio destino per mezzo della scienza». Ivi, p. 135.
[39] G. D’AMICO, cit., p. 227.
[40] G. BRUNO, Lo spaccio de la bestia trionfante, intr. di M. Ciliberto, Bur, Milano 2001.
[41] Figlio di Caterina De Medici ed Enrico III, Enrico, dotato di rara bellezza, possedeva un gusto e
una raffinatezza spiccate, è un re anche nell’aspetto, amante delle arti e delle lettere, cultore di filosofia,
soprattutto neoplatonica e dedito allo studio della magia, è di sicuro il più fiorentino dei suoi quattro
fratelli.
[42] G. BRUNO, Le ombre delle idee, tr. it. di N. Tirinnanzi, Bur, Milano, 1997.
[43] M. D’AMICO, cit. pp. 104-5.
[44] Sull’identità di Bruno-Fagot gli studiosi non hanno dubbi, dalla Yates a Bossy, tutti concordi
nell’identità assoluta. Dall’aprile del 1583 cominciano a partire lettere firmate Fagot, un sacerdote
italiano (perché scrive in italiano e anche quando scrive in francese usa molti italianismi) ed
apertamente antipapista. Quest’ultimo aspetto ci rivela chiaramente la personalità di Bruno,
incontenibile e incapace a trattenere le sue pericolose e compromettenti idee. Sicuramente la freddezza,
auspicabile per ogni spia professionista, non è la migliore dote di Bruno. Cfr. J. BOSSY, Giordano
Bruno e il mistero dell’ambasciata, tr. it. di L. Salerno, Garzanti, Milano 2002.
[45] J. BOSSY, cit., p. 38.
[46] Cfr. G. BRUNO, Il Candelaio, a cura di I. Guerini Angrisani, Bur, Milano 1997.
[47] F. YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, tr. it. di R. Pecchioli, Roma-Bari 2010, p.
228.
[48] Cfr: G. BRUNO, La Cena de le ceneri, a cura di A. Guzzo, Mondadori, Milano 1995.
[49] Se si fa del male tramite atti magici quel male karmicamente, irrimediabilmente, torna indietro.
[50] M. CILIBERTO, cit., p. 21.
[51] G. D’AMICO, cit., p. 194.
[52] Ivi, p. 195.
[53] «Nel qual tempo essendo successo Duca il figliuolo del vecchio, che era calvinista, et il padre
lutherano, cominciò a favori la parte contraria a quelli che me favorivano; onde me partì et ne andai a
Praga». L. FIRPO, Il processo di Giordano Bruno, Salerno Editrice, Roma 1983, p. 162.
[54] Il saggio si intitola Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque
philosophos e critica le concezioni meccaniciste della natura anteponendo la sua matematica
qualitativa, trattazione questa che troverà approfondimento maggiore nel De Minimo. Il saggio inoltre
affronta il tema della tolleranza (contrapposta alla violenza e all’intolleranza religiosa), presente in
quasi tutte le opere bruniane e anticipatore di quella modernità che vedrà una sua più compiuta
elaborazione nel Seicento da filosofi quali Spinoza e Voltaire.
[55] «Presso i Germani non solo troveremo prìncipi cultori dell’astronomia comunemente ricevuta,
quali sento che furono i cesari Carlo V e Massimiliano II, dai quali il vivente Rodolfo non degenera;
[…] ma anche ritrovatori di quella verità, pur a lungo una volta perduta e sepolta, che vigeva presso i
Caldei e Pitagorici». G. BRUNO, Oratio Valedictoria in Opere di Giordano Bruno e Tommaso
Campanella, a cura di A. Guzzo e di R. Amerio, Ricciardi, Milano-Napoli 1956, p. 673.
[56] «Mi disse, che gli piacevano assai le donne, e che non avea ancora arivato al numero di quelle de
Salomone; e che la Chiesa faceva un gran peccato nel far peccato quello con cui si serve così bene alla
natura, e che lui lo aveva per grandissimo merito» racconta Giovanni Mocenigo nella sua prima
denuncia. G. BRUNO, Un’autobiografia, a cura e con un’introduzione di M. Ciliberto, Napoli 1994,
pp. 44-45.
[57]
[58] L’architettura mentale del sistema mnemotecnico bruniano è straordinariamente complesso. Si
articolava in una serie di cinque ruote concentriche, ognuna divisa in trenta parti recanti lettere
dell’alfabeto latino, greco ed ebraico (indice di influssi cabalistici). Nelle ruote andavano poi distribuiti
differenti elenchi di centocinquanta immagini ciascuno tra cui le trentasei immagini dello zodiaco, a
loro volta suddivise attraverso elaborate operazioni mnemoniche che includevano quarantanove
immagini dei pianeti.
L’insieme finale di centocinquanta immagini rappresentava tutta la volta celeste con i relativi influssi
astrologici. Il mago tenendo in sé questo complesso sistema padroneggiava le forze celesti «e il potere
di fare questo dipende dalla filosofia ermetica secondo cui l’uomo, nella sua origine, è divino e
organicamente collegato ai governatori astrali del mondo. Nella tua «primordiale natura» le immagini
archetipe esistono in un chaos confuso; la memoria magica le astrae dal chaos e ristabilisce il loro
ordine, restituendo l’uomo ai sui divini poteri». G. BRUNO, Le ombre delle idee, intr. di M. Ciliberto,
Bur, Milano 1997, p. 200.
«Adattando o manipolando, o utilizzando le immagini astrali si manipolano forme che sono a un livello
più prossimo alla realtà che non gli oggetti del mondo inferiore, i quali dipendono tutti dall’influsso
delle stesse […] Di fatto le immagini astrali sono appunto le «ombre delle idee», ombre di realtà più
prossime alla realtà delle ombre fisiche del mondo inferiore. […] Imprimendo nella memoria le
immagini degli agenti superiori, potremmo conoscere dall’alto le cose che si trovano in basso; le cose
inferiori si sistemeranno nella memoria non appena avremo sistemate in essa le immagini delle cose più
elevate, che contengono le realtà delle cose inferiori in una forma più alta, in una forma più vicina alla
realtà ultima». F. YATES, L’arte della memoria, cit., p. 199.
[59] M. D’AMICO, cit., p. 313.
[60] Ivi, p. 420.
[61] F. YATES, cit., p. 368.
[62] L. FIRPO, cit. p. 153.
[63] Tra l’altro il filosofo si disse contento del trasferimento dal carcere di Venezia a quello di Roma,
in quanto credeva di poter raggiungere un contatto diretto col pontefice (è facile immaginare che se
fosse rimasto a Venezia avrebbe potuto probabilmente salvarsi, l’approdo a Roma, nelle mani
dell’Inquisizione, significava condanna a morte quasi certa).
[64] G. BRUNO, De immenso et innumerabilibus, in Opere latine, a cura di C. Monti, Utet, Torino
1980, p. 417.
[65] F. CARDINI, Giordano Bruno, cit. p. 40.
Gabriele La Porta invita a riflettere su quanto Bruno fosse pericoloso per la Chiesa: «Se il suo pensiero
si diffondesse la fine della Santa Sede sarebbe segnata. Altro che pericolo protestante! Nei suoi scritti
c’è ben di più. La fine dei privilegi, la fine delle guarentige, la fine delle decime, la fine della funzione
stessa del sacerdozio. Perché ogni uomo sarebbe libero di rivolgersi direttamente a Dio. Una follia. […]
Per questo Bruno deve abiurare. In modo tale che le sue opere siano purgate e che perdano forza nei
confronti dei suoi proseliti». G. LA PORTA, Giordano Bruno. Vita e avventure di un pericoloso
maestro del pensiero, Bompiani, Milano 1991, p. 138.
[66] G. BRUNO, La Cena de le ceneri, cit., p. 39.
[67] Tra l’altro c’è anche chi sostiene che Bruno avesse raggiunto un livello di magia che gli
permetteva anche di non soffrire il dolore. Dalla Parta puntualizza: «Ma la perfezione l’ha raggiunta
nelle segrete durante gli interrogatori, i tratti di frusta e lo sradicamento delle ossa. Cosi ha
meravigliato i giudici quando, appeso alla ruota, gli venivano disarticolate le ossa una ad una senza che
smettesse mai un leggero e quasi impercettibile sorriso». G. LA PORTA, cit., p. 141.
[68] C. G. JUNG, cit. in W. J. HANEGRAAFF, New Age Religions and Western Culture:
Esotericism in the Mirror of Secular Thought, E. J. Brill, Leiden, 1996, p. 503.
[69] M. BAIGENT – R. LEIGH, L’elisir e la pietra. La grande storia della magia, tr. it. di S. Lalia,
Il Saggiatore, Milano 2003, p. 286.
[70] Per non parlare degli stati di coscienza diversificati, delle near death experiences o anche perfino
di semplici esperienze di meditazione.
[71] «I sentimenti, le idee, le immagini, le mete e i valori sono dunque considerati dei fatti, dal
momento che esse esercitano un potente effetto sull’uomo e sul suo comportamento e, in quanto fatti,
possono essere studiati scientificamente». P. GUGGISBERG NOCELLI, La via della psicosintesi,
L’Uomo Edizioni, Firenze 2011, p. 101.
Zolla afferma che «l’alchimista afferra l’intreccio degli elementi invisibili per mezzo di
un’immaginazione purificata. Egli saprà con l’esercizio, concentrare le sue immagini, come l’acqua
s’indurisce in ghiaccio. In certi frammenti Paracelso parla di ghiaccioli di immagini sparati nell’altrui
mente, a fin di bene o a fin di male». E. ZOLLA, Gli usi dell’immaginazione e il declino
dell’Occidente, A.I.R.E.Z., 2010, p. 60.
[72] Cfr: J. HOLMAN, La filosofia perenne, tr. it. di E. Farsetti, Artheusa, Torino 2011.
[73] Mi permetto di usare i termini «Tradizionalismo» e «Perennis Philosophia» come sinonimi.
[74] J. HOLMAN, cit. p. 171.
[75] D. RUSSELL, Seven basic constructs of psychosynthesis, in “Psychosynthesis Digest, Vol. 1, n.
2.
[76] R. WALSH, I confini della psicologia in M. Roselli (a cura di), I nuovi paradigmi della
psicologia, Cittadella, Assisi 1992, pp. 76-77.
[77] A tale proposito rimando al mio saggo: Esperienze metafisiche esposte in evidenza: Elémire
Zolla e la Tradizione in “Frammenti di filosofia contemporanea”, Limina Mentis Editore, Villasanta
(MB) 2013.
[78] La psicosintesi non riconosce le separazioni e le limitazioni di indagine presenti nei vari approcci
psicologici antecedenti ad essa come ad esempio il comportamentismo (la cosiddetta “prima forza” in
psicologia), che rimane solo in superficie o la psicanalisi freudiana (seconda forza) che rimane solo
nell’indagine dell’inconscio inferiore.
Essa punta ad indagare e trasformare la psiche nella sua totalità; il celebre grafico dell’ovoide
assagioliano è esplicativo a tal proposito.
[79] R. ASSAGIOLI, Lo sviluppo transpersonale, Astrolabio, Roma 1998, p. 74.
[80] P. GUGGISBERG NOCELLI, La via della psicosintesi, op. cit. , p. 30
[81] Ivi, p. 89.
[82] R. ASSAGIOLI, La conoscenza di sé, in Corso di lezioni sulla psicosintesi, dattiloscritto, 1973,
p. 1.
[83] Assagioli era ebreo e durante il periodo del nazifascismo fu costantemente ricercato, la sua casa
fu incendiata e lui fu costretto a vivere rifugiandosi nelle grotte dei monti della Toscana ma alla fine
purtroppo lo trovarono e per un periodo lo imprigionarono con l’accusa di pacifismo.
[84] P. GUGGISBERG NOCELLI, La via della psicosintesi, L’Uomo Edizioni, Firenze 2011, p. 53
[85] Cfr: E. ZOLLA, Volgarità e dolore, Bompiani, Milano 1966, p. 94.
[86] P. GUGGISBERG NOCELLI, cit. p. 90.
[87] A. BAILEY, Autobiografia incompiuta, Edizioni Nuova Era, Roma 1989, p. 84.
[88] Cit. in H. SMITH, The world’s religions: our great wisdom traditions, Harper Collins, New
York 2001, p. 19.
[89] R. ASSAGIOLI, Lo sviluppo transpersonale, cit., p. 89.
[90] E. ZOLLA, Che cos’è la Tradizione, Adelphi, Milano 1998, p. 105.
[91] P. GUGGISBERG NOCELLI, cit. p. 263.
[92] Cfr: C. CASTANEDA, L’arte di sognare, Bur, Milano 2000; G. I. GURDIJEFF, Vedute sul
mondo reale, Neri Pozza, Torino 2000.
[93] R. ASSAGIOLI, cit., pp. 72-73.
[94] H. KEYSERLING, cit. in R. Assagioli, Psicosintesi – Armonia della vita, Astrolabio, Roma
1993, p. 17.
[95] P. GUGGISBERG NOCELLI, cit. p. 162.
[96] R. ASSAGIOLI, Principi e metodi della psicosintesi terapeutica, astrolabio, Roma 1973, p. 163.
[97] A. M. LA SALA BATA’, Guida alla conoscenza di sé, Edizioni di Armonia e Sintesi, Roma
1999, p. 12.
[98] Ivi, pp. 66-67.
[99] Dai continui contatti dei politici con la mafia agli altrettanto continui casi di pedofilia del clero
cattolico solo per fare un esempio.
[100] «E’ necessario infatti avvedersi (ciò che molti ancora ripugnano a fare) che la civitas diaboli
non si avvale più delle vecchie armi, dall’oscurantismo reazionario al dogmatismo ecclesiastico
all’astrattezza terroristica rivoluzionaria, ma per la sua persecuzione fanatica della libertà e dell’umano
non ha più bisogno di chiedere soccorso a sofismi plausibili, ovvero a un’arma infida tra le sue mani,
poiché ormai dispone di un apparato industriale, un’Alcina che quietamente seduce le sue vittime
sussurrando: «io ammazzerò il vostro tempo». E. ZOLLA, Eclissi dell’intellettuale, Bompiani, Milano
1959, p. 198.
Per Zolla tra l’altro lo stato naturale dell’uomo è lo stato mistico, celebre a tale proposito
l’affermazione: «Dal punto di vista metafisico non c’è patologia». E. ZOLLA, Archetipi, Marsilio,
Venezia 1996, p.36.
[101] Cit. in W. W. QUINN JR, The Only Tradition, State University of New York Press, Albany,
1997, p. 272.
[102] Cit. in G. WEHR, Jung: a biography, Shambhala, London, 2001, p. 203.
[103] R. ASSAGIOLI, Lo sviluppo transpersonale, Astrolabio, Roma 1988, p. 74.
[104] Ivi, p. 83.
Paura e conoscenza di sé, della propria divinità sono d’altronde strettamente interconnesse, come
giustamente fa notare Huxley: «Non ci si può liberare dalla paura con uno sforzo personale, ma solo
con l’assorbimento dell’ego in una causa più grande dei suoi interessi. L’assorbimento in una causa
qualsiasi libererà la mente da alcuni dei suoi terrori; ma solo l’assorbimento nell’amore e nella
conoscenza del divino Fondamento può liberarla da ogni paura». A. HUXLEY, La filosofia perenne
(1945), tr. it. di G. De Angelis, Adelphi, Milano 2008, p. 226.
[105] Cfr: R. WALSH, I confini della psicologia, op. cit.
[106] A. MASLOW, Verso una psicologia dell’essere, Astrolabio Ubaldini, Roma 1971, p. 19
[107] P. GUGGISBERG NOCELLI, cit. p. 132.
[108] R. ASSAGIOLI, Lo sviluppo transpersonale, cit., p. 82.
[109] R. ASSAGIOLI, Psicosintesi, cit., p. 146.
[110] Ivi, p. 72.
[111] Ivi, p. 75.
[112] Ibidem.
[113] Cfr: J. G. BALLARD, Visioni, Shake, Milano 2008.
[114] A tale proposito rimando al mio saggio Il Risveglio, Midgard, Perugia, 2007.
[115] Rimando allo splendido dipinto di Madeline Von Foerster The Chemical Wedding, dove tale
citazione è magistralmente dipinta, ricca di simbologia alchemica raffigurante il Re e la Regina che
fuoriescono dall’uovo cosmico ai piedi di una scacchiera.
[116] R. ASSAGIOLI, cit. p. 75.
[117] E. ZOLLA,Le meraviglie della natura. Introduzione all’alchimia ( 1975), Marsilio, Venezia
2004, p. 387.
[118] R. ASSAGIOLI, cit. p. 75.
[119] E. SERVADIO, Passi sulla Via Iniziatica (1977), Mediterranee, Roma 1988 , p. 178.
[120] R. ASSAGIOLI, Lo sviluppo transpersonale, cit. p. 101.
[121] «In molte tradizioni religiose, filosofiche e spirituali l’unione sponsale è simbolicamente
collegata al divino, e molte sono le pratiche che mirano ad utilizzare l’energia sessuale per elevarla fino
alle vette dell’illuminazione; sembra dunque che l’uomo abbia sempre intuito che la sessualità
racchiude un segreto che la collega strettamente ala dimensione transpersonale». P. GUGGISBERG
NOCELLI , cit., p.112.
Per un approfondimento dettagliato sulla sessualità quale via alla trascendenza si veda J. EVOLA,
Metafisica del sesso, Mediterranee, Roma 1994.
[122] Ibidem. Battiato riprende questo insegnamento nell’omonimo brano I’m that (Tat twam asi), in
Dieci stratagemmi, Sony 2004.
[123] Ivi, p. 94.
[124] P. FERRUCCI, Esperienze delle vette, Astrolabio, Roma 1989, p. 94.
[125] E. ZOLLA, Archetipi, cit., p.36.
[126] A. HUXLEY, cit. p. 225.
[127] G. DE TURRIS, Introduzione a J. EVOLA, Superamenti. Critiche al mondo moderno 1928 –
1939, in Quaderni di testi evoliani n. 41, Controcorrente, Napoli 2005.
[128] M. DONA’, Arte e filosofia, Bompiani, Milano 2007, p. 307.
[129] Estratto di un’intervista concessa alla radio francese nel 1950.
[130] P. GIOVETTI, Julius Evola in I grandi Iniziati del nostro tempo. I Maestri del cammino
interiore, Mediterranee, Roma 2006, p. 168.
[131] «Afin d’affirmer son autonomie à l’interiéur d’une situation culturelle amplement dominée par
le mouvement de Marinetti, le dadaisme italien a été par exemple obligé de pousser pòus loin la
conscience théorique de lui-meme. En effect, grace à Evola, Dada devient en Italie l’object d’une
veritable réflexion philosophique». G. LISTA, Dada libertin et libertaire, L’Insolite, Paris 2005, p.
119.
[132] M. CACCIARI, Un’avventura emblematica, in Testimonianze su Evola, a cura di G. De
Turris, Mediterranee, Roma 1985. p. 223.
[133] Sappiamo che Evola arrivato alle soglie della laurea in ingegneria si rifiutò di terminare gli
studi per disprezzo verso i titoli accademici. Non entrò mai nel mondo universitario anche se la sua
competenza gli avrebbe certamente permesso di esserne un indiscusso protagonista.
[134] Cfr. J. EVOLA, Fenomenologia dell’individuo assoluto, Mediterranee, Roma 2007.
[135] Dei miei quadri, diversi recavano il titolo di « paesaggio interiore » con l'indicazione di una
data ora del giorno. Altri erano pure composizioni lineari o cromatiche. Un gruppo minore risentiva
ancora del «contenutismo» futurista, anche se nella prima esposizione da Bragaglia usai, per esse, la
designazione di «idealismo sensoriale». J. EVOLA, Il Cammino del Cinabro, Vanni Scheiwiller,
Milano 1963, p. 9.
[136] E. VALENTO, Homo faber. Julius Evola fra arte e alchimia, Fondazione Julius Evola, Roma
1994. p. 65.
[137] J. EVOLA, Il Cammino…, cit., p. 6.
[138] A. GINNA, Brevi note su Evola nel tempo futurista, in Testimonianze su Evola, cit. p. 136
[139] Ivi p. 137.
[140] «Il primo fu essenzialmente caotico come per necessità all’inizio di ogni rivoluzione: abbiamo
deformazioni dell’oggetto come studi di personalizzazione spaziale propri del cubismo; simultaneità
come forme plastiche e psicologiche. Il secondo risponde invece al bisogno di qualcosa di più solido, di
un’estetica più precisa come di una tecnica più sintetica, più fresca, più ordinata. E allora si creò la
teoria della forma nuova». Julius Evola e l’arte dell’avanguardia tra Futurismo, Dada e Alchimia,
Fondazione Julius Evola, Roma 1998, p. 23.
[141] Ibi.
[142] Come afferma Sgalambro: «La vera forza di un quadro è quella di restituirci un’assenza».
[143] «Prima di mettersi all’opera, il pittore, come tutti i creatori, conosce il sogno della meditazione,
il sogno che medita sulla natura delle cose. In effetti il pittore vive così vicino al rivelarsi del mondo
mediante la luce, che gli è impossibile non partecipare con tutto il suo essere all’incessante rinascita
dell’universo. La pittura, più che ogni altra arte, è direttamente, palesemente creatrice». G.
BACHELARD, Le droit de rêver (1970) tr. it. di M. Bianchi, Il diritto di sognare, Dedalo, Bari 1974,
p. 48.
[144] C. BRUNI, Evola dada, in Testimonianze su Evola, cit., p. 59
[145] E. VALENTO, Homo faber. Julius Evola fra arte e alchimia, op. cit. p. 65.
[146] J. EVOLA, Arte astratta. Posizione teorica, dieci poemi, quattro composizioni, Maglione e
Strini, Roma 1920
[147]E’ interessante notare la coincidenza con Meyrink, autore che proprio Evola tradusse e fece
conoscere in Italia. Lo scrittore austriaco, proprio come Evola, a ventitré anni stava attraversando una
crisi interiore e faceva uso di sostanze stupefacenti. Al culmine della crisi scelse il suicidio ma con la
pistola puntata alla tempia, un attimo prima di spararsi, si dice che abbia visto un piccolo testo che
spuntava da sotto la sua porta di casa, messo lì non si sa da chi. Lo scrittore, colto da curiosità, lasciò la
pistola e andò a vedere: si trattava di un testo esoterico sulla vita dopo la morte, Meyrink si mise a
leggere avidamente e da quel momento i suoi interessi esoterici aumentarono notevolmente e cominciò
un percorso di letture ed esperienze che lo formarono a livello iniziatico. Quel libro dunque lo salvò dal
suicidio e rappresentò l’inizio di un’altra vita; le analogie con Evola sono incredibili.
[148] J. EVOLA, Il cammino del Cinabro, cit. p. 10. Il passo cui si riferisce Evola è il seguente: «Chi
prende l'estinzione come estinzione e, presa l'estinzione come estinzione, pensa all'estinzione, pensa
sull'estinzione, pensa "Mia è l'estinzione" e si rallegra dell'estinzione, costui, io dico, non conosce
l'estinzione».
[149] Cfr. S. BENVENUTO, Dada e la filosofia. Evola e l’essenza del dadaismo, in AA.VV.,
Cinquant’anni a Dada: Dada in Italia 1916-1966, Milano, Galleria Schwarz, 1966, pp. 145-152; G.
LISTA, Tristan Tzara et le dadaisme italien, in Europe, 555-556, luglio/agosto 1975. Anche all’estero
il nome di Evola era noto, è rintracciabile ad esempio in R. MOTHERWELL, The Dada painters: The
documents of Modern Art N. 8, New York, George Wittenborn Inc., 1967 e in W. VERKAUF, Dada
monographie einer Bewegung, Teufen 1957. Va sottolineato inoltre che all’International Dada Archive,
progetto scientifico dell’Università americana di Iowa, si indica nel proprio archivio digitale come
unico autore italiano proprio Julius Evola.
[150] Solo nel 1989 l’intera corrispondenza Evola-Tzara è stata scovata presso l’archivio della
Fondation Jaques Doucet della Biblioteca Sainte Geneviève di Parigi, tale prezioso svelamento lo si
deve al lavoro della studiosa Elisabetta Valento. Cfr: E. VALENTO, (a cura di), Lettere di Julius Evola
a Tristan Tzara (1919 – 1923), Edizioni Fondazione Julius Evola, Roma 1991.
[151] J. EVOLA, Il Cammino del Cinabro, cit. p. 9.
[152] Ivi, p. 8.
[153] Citato da Claudio Bruni in Evola dada, Testimonianze su Evola, op. cit. p. 61.
[154] J. EVOLA, Arte astratta, cit., p. 9.
[155] Ivi, p. 8.
[156] Ibidem.
[157] Ibidem.
[158] J. EVOLA, Arte astratta, cit. pp. 6, 7.
[159] Ibidem.
[160] J. EVOLA, Il Cammino del Cinabro, cit., p. 8.
[161] E. VALENTO, Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara, cit., p. 40
[162] C. BRUNI, Evola dada in Testimonianze su Evola, cit. p. 61.
[163] J. EVOLA, Il Cammino del Cinabro, cit., p. 9.
[164] C. BRUNI, Evola dada in Testimonianze su Evola, cit. p. 61, 2.
[165] J. EVOLA, Il Cammino del Cinabro, cit., p. 9. Il poema tra l’altro è davvero affascinante, il
barone si servì di una tecnica specifica per la composizione: «Per un cenno, se la tecnica del poema era
quella della poesia astratta e della cosiddetta «alchimia delle parole» (le parole usate soprattutto nelle
combinazioni delle loro frange evocative dissociate dal senso reale), tuttavia esso aveva anche un
contenuto perché vi si descriveva una specie di dramma interiore, la cui chiave era indicata in un detto
d'inspirazione gnostica: «Si ridestò al Grande Giorno e per aver creato le tenebre conobbe la luce». Ivi,
p 10.
[166] Il frottage è una specifica tecnica di scrittura automatica e il grattage è invece un raschiamento
dei colori precedentemente stesi sulla tela. Fu Ernst l’inventore di entrambe le tecniche.
[167] Riguardo tale azione livellante, sono interessanti le riflessioni di Zolla soprattutto ne Gli arcani
del potere, Rizzoli, Milano 2009 e Volgarità e dolore, Bompiani, Milano 1966.
[168] J. EVOLA, Il Cammino del Cinabro, cit. p. 9.
[169] «Per intanto, mi sono adeguato con calma alla situazione, pensando scherzosamente talvolta
che forse si tratta di dèi che han fatto pesare un po' troppo la mano, nello scherzare con loro». Ivi, p.
64.
[170] Ivi, p. 64.
[171] E. ZOLLA, Discesa all’Ade e resurrezione, Adelphi, Milano 2002, p. 96.
[172] Citando i più celebri: Guénon, Evola, Shuré, Coomaraswamy e ovviamente Zolla.
[173] Ivi, p. 15.
[174] E. ZOLLA, Che cos’è la tradizione, Adelphi, Milano 1998, p. 13.
[175] E. ZOLLA, Conoscenza Religiosa. Scritti 1969-1983, Intr. e cura di G. Marchianò, Edizioni di
Storia e Letteratura, Roma, 2006.
[176] G. MARCHIANO’, Il conoscitore di segreti, una biografia intellettuale, Rizzoli, Milano 2006,
p. 85.
[177] E. ZOLLA, Verità segrete esposte in evidenza, Marsilio, Venezia 1990, p. 153.
[178] Ivi, p. 168.
[179] Ibidem. Nella pars destruens del suo pensiero, presa in esame nel seguente paragrafo, si vedrà
in che senso Zolla intende la reciproca “pericolosità” degli antipodi esoterismo e socialità, misticismo
contemplativo e modernità massificante.
[180] Ivi, p. 169.
[181] E. ZOLLA, Il Dio dell’ebbrezza. Antologia dei moderni dionisiaci, Einaudi, Torino 1998, pp.
CVIII – 430.
[182] H. CAVALLERA, Elémire Zolla, la luce delle idee, Le Lettere, Firenze 2011, p. 79.
[183] E.ZOLLA, Che cos’è la Tradizione, op. cit., p. 134-135.
[184] E. ZOLLA, Archetipi, Marsilio, Venezia 1998, p. 21.
[185] A proposito del rapporto fra esperienza e teoria in esoterismo, Holman scrive: «Si può essere
esoteristi o esoteriologi ma, cosa fondamentale, per essere esoteristi non c’è bisogno di essere
esoteriologi. La pratica dell’esoteriologia è completamente diversa dalla pratica dell’esoterismo,
sebbene possa risvegliare in noi il bisogno di “percorrere la Via” non solo a parole. Del resto, è
possibile conseguire un dottorato in scienze motorie senza essere atleti; si possono conoscere tutte le
teorie e i concetti, leggere tutte le descrizioni fatte da atleti dell’ambiente senza avere alcuna esperienza
diretta dello sport in questione; ma è solo attraverso quest’ultima che possiamo davvero conoscerlo e
capire cosa esso sia». J. HOLMAN, Il ritorno della filosofia perenne, Arethusa, Torino 2011, p. 22.
[186] G. MARCHIANO’, Introduzione a E. ZOLLA, Conoscenza religiosa. Scritti 1969-1983,
Edizioni di Storia e letteratura, Roma 2006, p. XVIII
[187] E. ZOLLA, La filosofia perenne, Adelphi, Milano 1999, p. 16.
[188] Ivi, p. 179.
[189] G. MARCHIANO’, cit., p. XIII.
[190] G. MARCHIANO’, Il conoscitore di segreti… cit. p. 94.
[191] E. ZOLLA, La filosofia perenne, cit., p. 18.
[192] Ivi, p. 77.
[193] E. ZOLLA, Che cos’è la Tradizione, cit., p. 137.
Sul concetto di inesprimibilità Zolla si sofferma anche in Verità segrete esposte in evidenza a proposito
della contemplazione, pratica la quale appunto si rapporta all’indicibile: «Il contemplativo usa
naturalmente un linguaggio mitico, che mira cioè alla precisione dell’effetto interiore: il contemplativo
mitografo vuole comunicare un’esperienza inesprimibile e il linguaggio comune perciò non gli serve a
nulla, la realtà descritta dal linguaggio comune va distrutta. Insegnava Dionigi l’Areopagita che lo stato
di suprema contemplazione tocca ciò che si può esprimere soltanto con negazioni: è infinito,
invisibile». E. ZOLLA, Verità segrete esposte in evidenza, cit., p. 125.
[194] Cfr: L. TUAN, Il linguaggio segreto dei tarocchi. Simbolismo e interpretazione degli arcani
maggiori e minori, De Vecchi, Roma 2011.
[195] E. ZOLLA, Gli arcani del potere, Rizzoli, Milano 2009, p. 211.
[196] E. ZOLLA, Che cos’è la Tradizione, cit. p. 134.
[197] G. MARCHIANO’, Il conoscitore di segreti... cit., p. 611
[198] H. CAVALLERA, Elémire Zolla…, cit. p. 72.
[199] G. MARCHAINO’, L’ordine sacro del cosmo: l’imperativo smarrito. Posizioni a confronto:
Eliade-Zolla-Culianu con un’appendice sugli archetipi nel cielo mentale zolliano. In «Conoscenza
religiosa», II 2010, cit., p. 157.
[200] E. ZOLLA, Che cos’è la Tradizione , pp. 166, 7.
[201] Ivi. p. 101. In tale affermazione trapela tutta l’assonanza con l’estetica florenskiana che
concepisce l’arte quale varco quadrimensionale verso l’assoluto. A tale proposito rimando al mio
articolo Tra visibile e invisibile: l’arte come porta regale alla trascendenza in Pavel Florenskij, in «Per
la Filosofia», Anno XXVIII N. 82, 2011/2, pp. 75-88.
[202] E. ZOLLA, Che cos’è la Tradizione, cit., p. 68.
[203] J. HOLMAN, Il ritorno…, cit., 2011, p. 43.
[204] E. ZOLLA, Che cos’è la Tradizione, op. cit., p. 105.
[205] J. EVOLA, Imperialismo pagano, Mediterranee, Roma 2004, p. 100.
Hermann Minkowsky (1864-1909) fu un matematico tedesco che elaborò la teoria quadrimensionale
nel continuum spazio-temporale dell’elettrodinamica.
[206] E. ZOLLA, Che cos’è la Tradizione, cit., pp.109-110.
[207] Ibidem.
[208] G. MARCHIANO’, Il conoscitore di segreti... cit., p. 59.
[209] Ivi, p. 60.
[210] E. ZOLLA, Le potenze dell’anima, Rizzoli, Milano 2008, p. 22.
[211] A tale proposito si veda il paragrafo dedicato specificatamente
a Sade in E. ZOLLA, La
filosofia perenne, Mondadori, Milano 2000.
[212] E. ZOLLA, Spersonalizzazione e civiltà di massa, in «Civiltà delle macchine», nn.5-6,
settembre-dicembre 1973
[213] E. ZOLLA, Volgarità e dolore, Bompiani, Milano 1966, p. 94.
[214] E. ZOLLA, Eclissi dell’intellettuale, Bompiani, Milano 1959, pp. 183-184.
[215] E. ZOLLA, Lamento e consolazione, in «Corriere della Sera», 11 marzo 1968.
Una posizione simile a quella zolliana ma ancora più estrema e provocatoria è rintracciabile nell’opera
Chiudiamo le scuole di Giovanni Papini, Vallecchi Editore, Firenze 1919.
[216] G. MARCHIANO’, Elémire Zolla. Il conoscitore di segreti, Milano, Rizzoli, 2006.
[217] E. ZOLLA, Gli arcani del potere, cit., p. 133.
[218] Ivi, p. 147.
[219] Ivi, p. 146.
[220] E. ZOLLA, Eclissi dell’intellettuale, cit. p. 198
[221] E. ZOLLA, Gli arcani del potere, cit. p. 51.
[222] Ibidem.
[223] E. ZOLLA, Eclissi dell’intellettuale, cit. p. 26.
[224] E. ZOLLA, Gli arcani del potere, cit. p. 150.
[225] E. ZOLLA, Verità segrete…, cit., p. 51
[226] Ivi, p. 166.
[227] H. CAVALLERA, Elèmire Zolla…, cit., p. 100.
[228] R. ASSAGIOLI, Lo sviluppo transpersonale, Astrolabio, Roma 1988, p. 74.
[229] J. EVOLA, Oriente e Occidente, Mediterranee, Roma 1984, p. 74.
[230] E. ZOLLA, Archetipi, Marsilio, Venezia 1996, p.36.
[231] F. CUNIBERTO, Addio all’Occidente. In ricordo di Elémire Zolla, in “Viátor”, Elémire Zolla
dalla morte alla vita. A cura di Grazia Marchianò, Anno IX 2005/2006, p.97.
[232] G. MARCHIANO’, Il conoscitore di segreti…, cit., p. 58.
[233] E. ZOLLA, I Mistici dell’Occidente , Garzanti, Milano 1963, pp. 22-23.
[234] E. ZOLLA, Le meraviglie della natura. Introduzione all’alchimia, Marsilio, Venezia 1991, p.
509.
[235] F.BATTIATO, Tecnica mista su tappeto. Conversazioni autobiografiche con Franco Pulcini,
Edt, Torino 1992, p. 110.
[236] F. BATTIATO, Io chi sono? Dialoghi sulla musica e sullo spirito con Daniele Bossari,
Mondadori, Milano 2009, p. 54.
[237] F. BATTIATO, Eri con me in «Apriti sesamo», L’Ottava 2012.
[238] F. BATTIATO, Aurora in «Apriti sesamo», cit.
[239] I film diretti da Battiato sono: Perduto amor, L’Ottava 2002, Musikanten, L’Ottava 2005,
Niente è come sembra, L’Ottava 2007, infine il film-documentario su Gesualdo Bufalino Auguri Don
Gesualdo prodotto da Fabio Bagnasco e Massimiliano Pollina nel 2010.
[240] Battiato ha cominciato a dipingere nel 1993, diverse le mostre personali tra cui quelle a Roma
Catania, Stoccolma, Miami, Firenze e Goteborg. Nella sezione pittura del sito di Battiato ww.battiato.it,
dove possiamo ammirare diverse opere, leggiamo: «Le opere figurative prodotte sono circa ottanta, tra
tele e tavole dorate. Le tecniche prevalentemente adoperate sono quelle ad olio e mediante uso di terre
o pigmenti puri. Le copertine di Fleurs e Ferro Battuto, e il libretto dell’opera Gilgamesh, sono state
realizzate da Franco. Süphan Barzani è lo pseudonimo col quale Franco Battiato ‘firma’ i suoi dipinti».
Va sottolineato che Battiato cominciò a dipingere per sfida, perché crede fermamente nel concetto di
miglioramento, di evoluzione, tutto può mutare, tutto può e deve evolvere, soprattutto per un’artista e
per le sue possibilità creative, ascoltiamo lui stesso sempre dalla sezione pittura del suo sito: «Io che sto
diventando sabbia del deserto, ringrazio i venti che mi cambiano forma e punto di osservazione, un
ideale perseguo, anacronistico e ridicolo: il miglioramento. Una volta, pensavo che la mia totale
incapacità nel disegno dipendesse dalla mancanza di una naturale predisposizione, come nel caso di
uno stonato che non riesce ad emettere la stessa nota che ha in testa. Col tempo ho scoperto invece che
avevo un’idea astratta, archetipa, dell’oggetto che osservavo: quello che mi mancava era la possibilità
di coglierlo nella sua esatta forma. Per analizzare praticamente questo genere di chiusura iniziai a
dipingere, per pura sfida: questa terapia riabilitativa mi sta privando di quel difetto, pilastro di certa
consacrata pittura moderna». Dal sito www.battiato.it
[241] F. BATTIATO, Io chi sono?, cit., p. 32.
[242] F.BATTIATO, Tecnica mista su tappeto, cit., p. 113.
[243] «Ho percorso il cammino/arrampicandomi/per universi e mondi/con atti di pensiero/e umori
cerebrali», F. BATTIATO-M. SGALAMBRO, L’ombrello e la macchina da cucire, Emi 1984.
[244] F. BATTIATO, Tecnica mista su tappeto, cit., p. 106.
«Le vibrazioni mentali sono molto più forti di quelle delle parole… La stessa atmosfera emanata dalla
presenza di una persona rivela le sue emozioni e i suoi pensieri. Le vibrazioni dell’anima sono le più
potenti ed arrivano lontano, esse fluiscono come una corrente elettrica da un’anima all’altra». F.
BATTIATO, Io chi sono?..., cit. p. 54.
[245] F. BATTIATO, La voce del padrone, Emi 1981.
[246] F. BATTAITO-M. SGALAMBRO, Personalità empirica, in “Ferro battuto”, Sony, 1992.
[247] In realtà tale suddivisione non è opera del Maestro armeno il quale la mutua dalle varie
tradizioni spirituali dell’Oriente e dell’Occidente, riorganizzandola e riproponendola nel suo sistema di
sviluppo interiore. In ogni modo Gurdjieff fa notare che non in tutti gli esseri sono presenti i vari corpi,
la maggior parte possiede solo il corpo fisico: «Ma quasi tutti questi sistemi, mentre ripetono, in forma
più o meno familiare, le divisioni e le definizioni dell’insegnamento antico, hanno dimenticato o
omesso il tratto più importante, ossia che l’uomo non nasce con i corpi sottili e che questi richiedono
una cultura artificiale, possibile solo in determinate condizioni, esteriori e interiori, favorevoli. […]
L’uomo ordinario non possiede questi corpi, né le funzioni corrispondenti. Ma egli crede spesso di
possederle, e riesce a farlo credere agli altri». P. D. OUSPENSKY, Frammenti di un insegnamento
sconosciuto. La testimonianza di otto anni di lavoro come discepolo di G. I. Gurdjieff, tr. it. di H.
Thomasson, Astrolabio, Roma 1967, pp. 50,1.
Tali considerazioni rimandano alle riflessioni critiche di Assagioli, Evola e Zolla sul concetto di
uguaglianza.
[248] M. SGALAMBRO, Anatol, Adelphi, Milano 1990, p. 22.
[249] Ibidem.
[250] M. ELIADE, Tecniche dello yoga, tr. it. di A. Macchioro, Bollati Boringhieri, Torino 1984, pp.
146,7.
[251] W. HANEGRAAFF, Western esotericism. A guide for the perplexed, Bloomsbury, London
2013, pp. 86-7.
[252] F. BATTIATO, Io chi sono?..., cit. pp. 36,7.
[253] Cfr: G. GUERRERA, Franco Battiato, un sufi e la sua musica, Loggia de’ Lanzi, Firenze
1997.
«Gurdjieff è più da accostare al sufismo, specialmente turco, che non all’induismo. E’ diversa
l’abnegazione di un mistico indiano rispetto a quella propugnata da Gurdjieff. E’ diverso il sistema
filosofico, anche se poi in realtà tutto ritorna in un quadro generale. Rajneesh, l’indiano della famosa
scuola degli arancioni» - oggi più conosciuto col nome di Osho - «era gurdjieviano al cento per cento e
i suoi allievi sono cresciuti sotto un influsso senz’altro gurdjieviano». F.BATTIATO, Tecnica mista su
tappeto, cit., p. 57.
[254] Interessante il palese rimando all’ideologia socialista in copertina, oltre all’operaio col grande
martello infatti, svettano i nomi di Franco e dell’album scritti in una sorta di cirillico italianizzato. Ma
dunque qual è il legame tra il lavoro su di sé, prettamente iniziatico, intimo ed esoterico e i richiami alla
distantissima immagine sovietica? Ancora una volta l’artista vuole confondere, spiazzare, contraddire.
Forse per stimolare l’ascoltatore, per farlo pensare e ripensare riguardo a questi dualismi,
probabilmente tali solo ad un superficiale vedere, dall’alto di un raggiunto risveglio infatti «Tutto è
Uno», tutto è armonico, tutto coincide: la materia e lo spirito, l’ascoltatore e la musica stessa, il
percipiente ed il percepito.
[255] F. BATTIATO Vite parallele in «Gommalacca», Polygram 1998.
[256] F. BATTIATO, Testamento in «Apriti sesamo», Universal 2012.
[257] F. BATTIATO, Io chi sono?..., cit., p. 24.
[258] Ivi, p. 25.
[259] Ibidem.
Già Giovanni Papini a inizio Novecento si lamentava del livello dell’istruzione italiana, purtroppo per
noi non è cambiato molto, le scuole sono molto spesso delle prigioni che invece di stimolare la curiosità
dell’alunno fanno nascere in lui l’odio per lo studio: «Ma cosa hanno mai fatto i ragazzi, gli
adolescenti, i giovanetti e i giovanotti che dai sei fino ai dieci , ai quindici, ai venti, ai ventiquattro anni
chiudete tante ore al giorno nelle vostre bianche galere per far patire il loro corpo e magagnare il loro
cervello? […] Con quali traditori pretesti vi permettete di scemare il loro piacere e la loro libertà
nell’età più bella della vita e di compromettere per sempre la freschezza e la sanità della loro
intelligenza?». G. PAPINI, Chiudiamo le scuole, Vallecchi Editore, Firenze 1919, p. 4.
Per ciò che concerne l’attuale istruzione in Italia basti pensare che negli scorsi tre anni essa è stata
affidata ad una persona la quale ha affermato che i neutrini hanno viaggiato in un tunnel che collega
Ginevra al Gran Sasso, orgoglio dell’Italia che ha contribuito alla sua costruzione con lo stanziamento
di 45 milioni di euro. Tutti ovviamente sappiamo che questo tunnel non esiste, tranne il Ministro
dell’«Istruzione».
(Il paese che possiede il settanta per cento del patrimonio artistico mondiale deve davvero meritare tutto
questo?)
[260] E. ZOLLA, Lo stupore infantile, Adelphi, Milano 1994, p. 37
[261] F.BATTIATO, Tecnica mista su tappeto, cit., p. 57.
[262] Ivi, p. 59.
[263] E. ZOLLA, Le meraviglie della natura. Introduzione all’alchimia, Marsilio, Venezia 1991, p.
387.
[264] F.BATTIATO, Tecnica mista su tappeto, cit., p. 57. E infatti tornano alla mente le parole del
celebre brano: «Cerco un centro di gravità permanente che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose e
sulla gente». F. BATTIATO, Centro di gravità permanente in La voce del Padrone, cit.
[265] P. D. OUSPENSKY, cit, p. 132.
[266] Citato in C. ZINGALES, cit. p. 69.
[267] F. BATTIATO, Invito al viaggio, in «Fleurs», Universal 1999.
[268] Così lo chiamano i suoi ammiratori e cosi credo sia opportuno chiamarlo.
[269] C. ZINGALES, Battiato on the beach, Arcana, Roma 2010, p. 69.
[270] «Insomma, se ci fosse una gerarchia, l'uomo politico occuperebbe l'ultimo posto. L'incredibile
gergo, più squallido di quello dei becchini, il linguaggio ridotto a melassa: il politico è quell'ultimo
uomo di cui andava alla caccia Nietzsche » M. SGALAMBRO, Dell'indifferenza in materia di società,
Adelphi, Milano 1994 , p 20.
[271] Più che una condanna sommaria alla classe politica in sé quest’accusa richiama la stessa
concezione sgalambriana della politica riscontrabile a chiare lettere nell’opera Dell’indifferenza in
materia di società, una concezione che è di per sé un attacco: «La politica è la più stupida attività a cui
si siano mai dati gli uomini. [...] Più aumenta la socialità, più aumenta la stupidità. Cresce infatti la
credulità generale (la fede nel futuro, la società migliore...) e la stessa individualità ne risente
profondamente» M. SGALAMBRO, Dell’indifferenza in materia di società, cit., pp.70-1.
E ancora: «La politica è la tutela dei minorati. L'idea dunque che io possa essere governato mi dà un
senso di offesa infinita. Mi sento di accettarla solo per quel tanto che mi assicuri la possibilità di
occuparmi delle mie idee o di seguire le spire della mia sigaretta. Ma così ritengo che debba essere per
qualsiasi uomo indipendente e consapevole di sè». Ibidem, p. 18.
[272] J. EVOLA, Arte Astratta. Posizione teorica, dieci poemi, quattro composizioni, cit., p. 9.
[273] J. EVOLA, Il Cammino del Cinabro, cit., p. 8.
[274] C. ZINGALES, cit. p. 69.
[275] E. ZOLLA, Verità segrete esposte in evidenza, Marsilio, Venezia 1990, p. 161
[276] F. BATTIATO, Io chi sono?..., cit., p. 34.
[277] Parlando di Tarocchi non si può non citare Jodorowsky, il quale compare in ben due film di
Battiato (Niente è come sembra e Musikanten nel ruolo di Beethowen). Il celebre ed eclettico regista,
collaboratore e amico di Battiato, asseriva che «di fronte all’amore e di fronte alla morte falliscono
tutte le filosofie». Cfr: A. JODOROWSKY, Conversazioni sulle vie dei Tarocchi, Feltrinelli, Milano
2007; Io e i Tarocchi. La pratica, il pensiero, la poesia, Giunti, Firenze 2007.
[278] «“La Mort” si è detto ossia “La Morte”… Ma in Provenza (ed i Tarocchi originari, quelli di
Marsiglia, venivano proprio da tale regione), in Provenza, dunque, anche “l’Amore” aveva un suono
analogo, pronunciandosi “L’Amor”.
“La Morte” Filosofale, “la Morte” a noi stessi: ossia – si può anche dire – “l’Amore” che si sviluppa
possente in noi tendendo ad avvolgere, in un unico abbraccio, l’intero creato.
Morite a voi stessi e diverrete immortali; amate e avrete sconfitto la Morte. Per questo Jaques de
Baisieux, Fedele d’Amore provenzale, scriveva che «chi ama più non muore, vive in un altro secolo di
gioia e gloria».
L’Amore, il dono totale di noi stessi, in quanto forza vivificante e trasfigurante è dunque la vera chiave
per conseguire la Morte Filosofale». G. MALVANI, De Alchimia, Edizioni Penne e Papiri, Latina
1998, p. 18.
[279] F. BATTIATO, Tutto l’universo ubbidisce all’amore, cantata con Carmen Consoli in «Fleurs
2», Mercury records, 2008.
[280] G. LA PORTA, Anima mundi e scienza, in «Testimone dell’infinito. Giordano Bruno 1600-
2000», Atti del Convegno Perugia-Terni, Ali&No Editrice, Perugia 2004, p 71.
[281] M. MACALE, Franco Battiato. Una vita in diagonale, Bastogi, Foggia 1994, p. 163. Sul
grande Iniziato Dante Alighieri si veda il celebre saggio di R. GUENON, L’esoterismo di Dante,
Atanòr, Roma 2008.
[282] «Il “tat tvam asi”, tu sei quello, ricorrente non solo nelle Upanishad ma anche in una letteratura
più vasta, indica proprio il raggiungimento della consapevolezza della medesima identità tra essere
individuale ed essere universale. Ma per arrivare a ciò bisogna morire a se stessi, lasciare che il fuoco
possa cuocere le nostre scorie e condurci, in tal modo, verso l’oro filosofale». F. PULLIA, Giordano
Bruno tra Oriente e Occidente in “Testimone dell’infinito. Giordano Bruno 1600-2000”, Atti del
Convegno Perugia-Terni, Ali&No Editrice, Perugia 2004,. p. 76.
[283] Il brano I’m that è la sesta traccia di Dieci stratagemmi, Sony 2004, album dal quale furono
estratti diversi singoli di successi tra cui Le aquile non volano a stormi, Tra sesso e castità,
Ermeneutica.
[284] La teoria gurdjieviana dei cosmi in realtà è molto articolata e prevede non due ma sette cosmi:
«A rigore, voi non avete diritto di parlare di sapere, perché non sapete dove comincia il sapere.
Il sapere comincia con l’insegnamento dei cosmi. […] Ma è essenziale sapere che la dottrina completa
dei cosmi non parla di due ma di sette cosmi contenuti gli uni negli altri». P. D. OUSPENSKY, cit., pp.
226-7.
[285] «La relatività e la teoria quantistica implicano una totalità divisa, in cui l’analisi in parti
distinte ben definite non è più rilevante. C’è uno strumento che riesce – invece – a darci una certa
percezione immediata del significato di questa totalità, così come esperimenti con una lente ci
forniscono dati di un sistema in parti distinte... una percezione del genere è possibile considerando
l’ologramma (il nome deriva dal greco holos, che significa «tutto» o «intero», e gram che significa
«scrivere». L’ologramma è perciò uno strumento che, per così dire, «scrive l’intero»)». D. BOHM,
Universo, mente, materia, Red edizioni, Como, 1996, p. 200.
Si veda inoltre: D. BOHM, Wholeness and the Implicate Order, Routledge, London 1983.
[286] Nel film Niente è come sembra, un personaggio del film, Marcello, afferma: «Non c’è alcun
dubbio che l’universo sia una proiezione della mente», il dialogo continua e Gino, un altro personaggio,
interviene con queste parole: «In effetti secondo la nuova fisica non esiste un mondo «là fuori». La
coscienza crea tutto questo. Non c’è limite ai meccanismi di coscienza che strutturano la realtà. Penso
che il concetto di complementarietà proposto da Böhr, permetta di concepire a fianco del modello
scientifico dell’universo, cioè del principio di obiettività e basta, un punto di vista soggettivo partendo
dalla nostra coscienza, perché dopo tutto la mia coscienza esiste.
La fisica ci insegna anche che la materia può apparire e scomparire: sono i fenomeni per cui la materia
si trasforma in radiazione, in onde elettromagnetiche». F. BATTIATO, Niente è come sembra, cit.
[287] C. ZINGALES, cit., pp. 79-80.
[288]«Questo secolo ormai alla fine/saturo di parassiti senza dignità/mi spinge solo ad essere
migliore/con più volontà.
Emanciparmi dall’incubo delle passioni/cercare l’Uno al di sopra del Bene e del Male/essere
un’immagine divina/di questa realtà». F. BATTIATO, E ti vengo a cercare in «Fisiognomica», Emi
1988.
[289] F. BATTIATO, Tecnica mista su tappeto, cit., p. 26.
[290] C. ZINGALES, cit., p. 125.
[291] Gli anni Settanta rappresentano un periodo tanto particolare quanto qualitativamente proficuo
per l’artista siciliano: «Durante il periodo che va dal1970 al 1978 circa, non ho quasi più sentito musica
leggera. Si è creata una frattura totale e inspiegabile per un tipo come me che comunque provava
curiosità per il mondo della musica. Guardavo soltanto San Remo, che consideravo una passerella
delirante». F. BATTIATO, Tecnica mista su tappeto, cit., p. 18.
[292] Ivi, p. 28.
[293] Ormai celebri i versi di Up patriots to arm («Patriots», Emi 1981) in cui l’artista è perentorio:
«La musica italiana mi butta giù» ed ancora più esplicitamente: «L’Impero della musica è giunto fino a
noi/carico di menzogne/mandiamoli in pensione i direttori artistici/gli addetti alla cultura…/e non è
colpa mia se esistono spettacoli /con fumi e raggi laser se le pedane sono piene/di scemi che si
muovono». Qui deflagra indomita tutta l’estraneità esistenziale ed artistica di Battiato il quale si auto
esclude da questo nauseante spettacolo deplorevole.
[294] F. BATTIATO, Gli uccelli in La voce del Padrone, cit.
[295] C. ZINGALES, cit., p. 74.
[296] Ibidem.
[297] F. BATTIATO, Tecnica mista su tappeto, cit., p. 95.
[298] F. BATTIATO, L’arca di Noè, Emi 1982.
In un orizzonte di pensiero come quello perennialista (a cui credo Battiato si senta vicino, basti pensare
che Fetus è dedicato a Huxley), che promuove la qualità e decreta la disuguaglianza, ciò che conta è la
«salvezza» dell’individuo, del saggio, non della massa - la «salvezza» di quest’ultima è solo un intento
velleitario e demagogico.
[299] Citato in C. ZINGALES, cit., p. 43.
[300] Ivi, p. 62.
[301] F. BATTIATO, In fondo sono contento di aver fatto la mia conoscenza, Bompiani, Milano
2007, p.. 8
[302] D’altronde lo stesso breve ingresso in politica con la nomina ad Assessore fu già di per se un
fatto piuttosto eloquente. L’artista, che rinunciò allo stipendio, diceva comunque che l’appellativo
Assessore lo offendeva e preferiva farsi chiamare Franco.
Spendere parole sull’esito della sua breve parentesi politica non credo sia nemmeno opportuno, semmai
imbarazzante. Che il moralismo abbia condannato Battiato per una parolaccia, proprio lui sublime
paroliere, fa tornare alla mente l’arresto di Bruno ad opera del Mocenigo.
E’ proprio vero che il destino di uomini superiori debba a volte venir umiliato da infime e nulle figure
che nell’economia di quell’universo che risponde all’amore, ci si chiede quale funzione abbiano se non
quella, beffarda appunto, di interferire, inspiegabilmente, platealmente, con i piani superiori.
Potremmo davvero chiedere a chi credette di metterlo in punizione come una maestrina di scuolina di
campagna: «Ti sei mai chiesto quale funzione hai? Quale funzione hai ti sei mai chiesto?». F.
BATTIATO, Il silenzio del rumore in «Pollution», Bla Bla 1972.
[303] Ivi, p. 63.
[304] Il riferimento è diretto e palese: «Uno dice che male c’è/A organizzare feste private con delle
belle ragazze /Per allietare primari e servitori dello Stato/Non ci siamo capiti/E perché mai dovremmo
pagare anche gli extra a dei rincoglioniti?». F. BATTIATO, Inneres Auge, Universal, 2009.
[305] Ibidem.
[306] F. BATTIATO, L’ombrello e la macchina da cucire, Emi 1995.
[307] F. BATTIATO, Orizzonti perduti, Emi 1983.
[308] Cfr: R. GUENON, La crisi del mondo moderno, Mediterranee, Roma 2003.
[309] F. BATTIATO, Magic shop, in «L’era del cinghiale bianco», Emi 1979.
[310] Il brano, in cui viene citato lo stesso Nietzsche, è inserito nell’album dal titolo già indicativo
Orizzonti perduti, cit.
Cfr. O. SPENGLER, Il tramonto dell’Occidente, Guanda 1991.
[311] F. BATTIATO, Ermeneutica in «Dieci stratagemmi», Sony 2004.
[312] Cfr: E. ZOLLA, Che cos’è la tradizione, cit.
Si veda in particolare il paragrafo “Civiltà della critica, civiltà del commento”.
[313] E. BATTIATO, Le sacre sinfonie del tempo in «Come un cammello in una grondaia», Emi
1991.
[314] Nel 2011 accompagnò al pianoforte Luca Madonia col brano L’alieno ma a gareggiare era lo
stesso Madonia non Battiato.
[315] In precedenza solo la collaborazione dell’opera classica Il cavaliere dell’intelletto dedicata a
Federico II, l’Imperatore amante della conoscenza.
[316] M. MACALE, cit., p. 140.
[317] Cfr. M. SGALAMBRO, Trattato dell’empietà, Adelphi 1987.
[318] F. BATTIATO-M.SGALAMBRO, La porta dello spavento supremo in Dieci stratagemmi, cit.
[319] F. BATTIATO, Tecnica mista su tappeto, cit., p. 58.
[320] F. BATTIATO, Prospettiva Nevskij in «Patriots», Emi 1980.
[321] F. BATTIATO-M.SGALAMBRO, le aquile non volano a stormi, in Dieci stratagemmi, cit.

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