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David Bohm
Friedrich Nietzsche
INDICE
1. Introduzione. p. 4
Nulla sapevo,
sono entrato,
ed ho veduto le cose segrete.
Introduzione
«Osare, volere, tacere» è un celebre motto alchemico che fa riflettere sul
senso della sfida che si è chiamati a intraprendere in relazione al cosiddetto
«lavoro su di sé» e non è casuale del resto che a proposito di certi percorsi
iniziatici si parli di proprio di «Via del Guerriero». Innanzitutto il coraggio, il
grande coraggio di spingersi oltre l’ignoto (il non ancora noto) sfidando così
una delle più grandi paure dell’essere umano, poi la volontà tetragona di
riuscire davvero a conoscere (integralmente e non solo intellettualmente) e
infine… il Silenzio. Perché il silenzio? Perché questo tipo di conoscenza non
è dicibile, non è più raccontabile. Di qui la sua secolare segregazione ma allo
stesso tempo il suo estremo fascino. Filosofia iniziatica: «amore per il sapere
non dicibile». Si rimembri il celebre monito del barcaiolo a Siddharta: «Un
dotto può trasmettere agli altri la propria scienza, ma un saggio non può fare
la stessa cosa con la propria saggezza. Essa va vissuta in prima persona».
L’oggetto della scienza (come anche della filosofia comunemente intesa) è la
verità comunicabile e dimostrabile, la religione si occupa invece di una
verità comunicabile ma non dimostrabile, la filosofia iniziatica ha a che fare
infine con una verità non dimostrabile[1] e non comunicabile: un compito
assai arduo, folle, quasi impossibile. Così fosse infatti senza l’apporto della
categoria dell’«esperienza» cioè della sperimentazione personale, che agisce
da matrice operativa nel milieu di tali «filosofie» poste sempre, nel corso
della storia, in un perpetuo dialeghestai caratterizzante e fondante.
Si tratta di esperire verità segrete che hanno da sempre viaggiato nel corso
della storia, dai tempi di Bruno (e finanche molto prima) ad oggi, ed è
proprio l’esperienza che «espone tali verità in evidenza» come direbbe Zolla:
sono verità relative a differenti contesti storici e a differenti tradizioni
filosofiche, mistiche e iniziatiche che però sono incessantemente risuonate
all’unisono nel silenzio che le divideva, insensibili alle distanze
spaziotemporali.
«Quando la mente è imperturbata il mondo è il mio mondo. Non c’è né giusto
né sbagliato, né preferenze né avversioni, né l’attaccamento ai fenomeni.
Quanto è compreso tra dolore e piacere o perdita e profitto è creato dalla mia
mente. E sebbene diciamo che il cielo e la terra siano immensi, non c’è nulla
da cercare fuori della nostra mente». E ancora: «E’ la natura del principio che
quando la forma cambia, la mente e il ki cambiano con essa. Il principio è
senza forma, ma esiste nel ki»[2]. Sono le parole del Samurai giapponese
Issai Chozanshi del feudo di Sekiyado, vissuto tra il XVII e il XVIII secolo.
Purtuttavia questo tipo di consapevolezza è possibile riscontrarla in un testo
di alchimia occidentale o in un testo di Bruno, così come nel Taoismo,
nell’Induismo o nello Sciamanesimo troveremmo la stessa identica idea di un
mondo fenomenico costruito nella mente - interessante come la stessa fisica
dei quanti dica oggi praticamente la stessa cosa[3]: tale sincretismo è
determinante in quanto è proprio esso che avvalora le filosofie iniziatiche.
Il sincretismo e la continuità sono paradigmi precipui di tali filosofie che a
livello accademico vengono definite «perenni»[4]: «Sono perfettamente
sovrapponibili il bramino praticante e il maestro platonico»[5], come
affermava Zolla.
Le convergenze (conformationes) tra autori e metafisiche differenti
costituiscono e caratterizzano ciò che prende il nome di «Tradizione», ossia
l’insieme delle filosofie iniziatiche o «perenni»[6], inabissate su di un ritorno
ciclico delle stesse verità che rimanevano celate per il volgo ma non per
l’iniziato che le cercava, le trovava e infine le incarnava. Egli attraverso la
koiné di tali differenti tradizioni sapienziali adempieva un percorso che
innanzitutto vede, in interiore homine, un fondamento divino da espletare ai
fini di un miglioramento, un’evoluzione incessante di sé. Tale percorso si è
sempre scontrato con i vari contesti storico-sociali: dal potere intollerante,
violento e inquisitorio della Chiesa ai tempi di Bruno alla società materialista
del mondo moderno che ha dato vita a un unico modello di spiegazione del
reale: quello positivista-meccanicista.
Gli iniziati hanno sempre dovuto trascendere il loro specifico Zeitgeist, con
un atto di grande sforzo, Evola diceva che dovevano alzarsi dalle vere e
proprie «rovine»[7] nelle quali erano (siamo) immersi, tanto drammatica era
(è) la situazione, un terremoto che ha raso al suolo le fibre nuomenali
dell’essere.
E’ il cammino del Risveglio (risveglio dal sogno che le visioni del mondo
dogmatiche e materialiste chiamano realtà), del ricostruire il mondo a partire
da se stessi. Il mondo che esiste fuori infatti, per le filosofie iniziatiche, non è
altro che il riflesso del castello interiore, ambula ab intra come evoca il
V.I.T.R.I.O.L.[8], in quanto solo lì è ubicata la «pietra filosofale» che può
trasmutare il Tutto in quanto «Tutto è Uno»: «Dalla trasmutazione
dell’interiorità umana tutto dipende? Dall’ordine dentro di me dipende quello
del mondo attorno a me? Se io divento pura e infinita luce, la materia attorno
a me sarà del pari trasmutata: dal mio carattere dipende il mio destino, dal
mio cuore il mio ambiente. I miei peccati sono lo spessore e l’asperità del
reale. Ardua, esoterica verità!»[9].
Ardua ed esoterica appunto. E per essa bisogna osare.
Bruno l’ha fatto, rendendo sacra (sacrificando) la propria vita ma Bruno era
un moderno, un uomo che, conscio dell’infinito valore del sapere che
custodiva, osava proporlo a chi quel sapere lo condannava tout court. Bruno
ha percorso il suo viaggio fino in fondo, per tutta l’Europa e al limite della
follia. E come Bruno anche gli altri iniziati saranno dei fuggiaschi e dei reietti
per la società. Folle e psichicamente instabile può apparire il giovane Evola e
la sua emarginazione, sull’orlo del suicidio già a vent’anni ma redento,
illuminato dall’arte dadaista e salvato dai testi buddisti. Folli possono
apparire per il volgo gli esperimenti artistico-esistenziali dell’avanguardia
colta del primo Battiato, pensiamo a Fetus o L’Egitto prima delle sabbie.
Sul tema follia-sanità si sono ampiamente soffermati sia Zolla che Assagioli:
è il tema senza tempo (perenne) del saggio scambiato per pazzo dalla società
che lo crede pazzo perché essa stessa, in primis, malata – il Mito della
Caverna non smetterà mai di essere attuale.
Bruno, anche se distante storicamente da tutti gli altri autori analizzati che
appartengono al mondo contemporaneo, agisce quasi da archetipo e salda il
profondissimo legame tra microcosmo e macrocosmo, come anche gli altri
autori a lui postumi faranno. Il loro è un sapere che non può non risolversi
nel fare, nel voler cambiare il mondo percorrendo la propria strada «al di là
del bene e del male», nell’unione inscindibile di conoscenza e reduplicazione
del sapere, theoria cum praxi, mente et malleo nella consapevolezza che il
mondo esteriore va cambiato da dentro. Il sapere diventa così «individuale»,
intimo, meditativo e silenzioso poiché figlio di un’esperienza che tale è - da
qui inoltre le provocatorie critiche di Zolla, Assagioli e Evola al concetto di
«uguaglianza»: non il progresso sociale ma la salvezza dell’iniziato,
dell’uomo superiore, di colui che ha osato: l’eletto, lui merita di essere
tutelato, non la moltitudine o come direbbe Dostoevskij l’«omnitudine»,
malata poiché istruita da una società malata, violenta, falsa, ipocrita e
massificante (proprio come ai tempi Bruno).
Per distanza «qualitativa», ad essa si oppongono gli iniziati, guerrieri senza
tempo. Un musicista che accorpa all’arte l’arte regia di una Via Iniziatica,
Battiato per oltre dieci anni alla scuola di Gurdjieff; un Bruno cultore di
un’enciclopedia mentale dai poteri sovraumani che sogna un’Europa,
dilaniata dalle guerre del Cristianesimo, unita sotto la bandiera di un
sofisticatissimo sapere perenne, intimo e di fatto non cristiano; un Assagioli
ideatore di un metodo di «sviluppo della sanità» in un mondo, quello della
psicologia del primo Novecento, concentrato solo sulla malattia; un erudito,
Zolla, che viaggia tra i siti di sciamani e mondi indegni di mezzo mondo e si
divora i saperi di tutti i tempi; un pittore, filosofo, esoterista, Evola, che
costruisce una fenomenologia dell’Individuo assoluto dalle ceneri della
sublimazione della contraddizione dadaista; sono distanti solo in apparenza:
come le onde-particelle della meccanica quantistica che screditando lo
spazio-tempo, si bilocano in continuazione raggiungendosi a velocità che
trascendono l’occhio meccanicista.
Dal punto di vista della volontà di scendere negli abissi della psiche, per
conoscerla ed evolverla, questi celebri autori palesano notevoli affinità.
Da qui credo bisogni partire per comprendere il fil rouge che li lega: se è vero
che non si dà una caratterizzazione diacronica di ciò che è perenne, éternelle
é soprattutto il fenomeno etico, fuori dal tempo, che assegna all’uomo il fine
ultimo di conoscere se stessi secondo il celebre monito delfico, e infine
contemplare il Fondamento di tutto ciò che è; un compito che di fatto è un
miglioramento, un oltrepassamento dei propri limiti, pratica questa tanto
antica quanto ancora in fieri ma che, grazie anche al contributo di questi
Autori, pur rimanendo «per tutti e per nessuno», è un gradino più vicina.
I saggi che compongono tale volume nascono dalla volontà di conoscere e,
per usare termini gurdjeviani, di accordarsi all’ottava della triade «coraggio-
volontà-silenzio» in limine alla quale deflagra proteiforme una rutilante
pienezza esistenziale, pienezza di vertigine, di meraviglia che, al di là delle
varie definizioni accademiche, riporta la filosofia al suo stadio primigenio in
quanto come ebbe a dire Platone: «è proprio del filosofo essere pieno di
meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare che questo essere pieno di
meraviglia».
Lucio Giuliodori
Tra magia e follia: l’alchimia di vita e
psiche in Giordano Bruno.
Indice:
ABSTRACT
Courage at the limit of madness and total identification with the magical act
heighten an intent that broadly transcended the contingencies of the real. This
essay on Bruno, by means of a brief excursus into the facts of his biography,
is meant to indicate, along with the Weltanschauung, the aspects of his
personality that will have been determinant and fundamental in the bold
cultural revolution foreseen by Nolan and which he attempted to bring about
with all his physical and psychic strength.
Coraggio al limite della follia e totale immedesimazione nell’atto magico
alimentarono un intento che trascendeva ampiamente la contingenza del
reale. Questo saggio su Bruno, attraverso un breve excursus della sua vicenda
biografica, intende evidenziare, come accanto alla Weltanschauung, gli
aspetti della sua personalità risultarono determinanti e fondanti nell’ardita
rivoluzione culturale che aveva in mente il Nolano e che provò ad attuare con
tutte le sue forze, fisiche e psichiche.
L'idea che la verità fosse dalla parte contro cui si schieravano solidalmente
tutti, in un certo senso per me rispondeva a una determinata legge
sovrasensibile.
Massimo Scaligero
Se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee o le sue
idee non valgono nulla o non vale niente lui.
Ezra Pound
Denis Diderot
1. La magia in Bruno e nel Rinascimento
«La si chiami magia perché solamente i più sapienti tra gli uomini la
capiscono, e le cose più segrete appartengono ai sapienti e il termine mago
in persiano significa sapiente. È per il popolo che si sono introdotti angeli e
demoni, ma quelli che li hanno introdotti sapevano bene che non potevano
affatto esistere. Ma gli uomini volgari che non sono filosofi, in realtà sono
come bestie […]. Il linguaggio delle religioni come dice Averroé nella sua
poetica, è simile a quello dei poeti […]. Tali favole servono a condurci alla
verità e ad istruire il volgo rozzo che è necessario condurre al bene e
ritrarre dal male, come si fa con i bambini con la speranza del premio e la
paura della pena»[15].
Conforme a questa visione era la concezione della magia che aveva Bruno, il
quale non vedeva certo nella figura del mago «un qualunque balordo
scellerato, che dal rapporto, o addirittura dal patto, con un demone malvagio
è messo in grado di danneggiare o giovare» come avviene «nell’uso
improprio che di tale appellativo viene fatto da quei bardocuculli quale fu
l’autore del libro intitolato Il martello delle streghe; e così oggi esso viene
usato a sproposito da tutti gli scrittori di tal fatta, come è possibile leggere
nelle postille e nei catechismi di preti ignoranti e vaneggianti»[16].
Al contrario la magia di Bruno si collocava su un piano superiore, elitario,
puro, nobile.
Per capire cosa potesse significare «magia» al tempo di Bruno, ci si può
riferire all’arte, all’attività creativa propria dell’artista. La magia era infatti
un’arte, un’Ars Regia per l‘appunto[17]. Nella nolana filosofia quest’arte
oltre che regale, assume anche una caratura divina: «Un’ansia di sapere che
accomuna l’uomo a Dio, perché anche nella divinità esisterebbe (secondo il
Nolano) l’inappagata sete di sapere ascendente progressivamente a nuovi
vertici. Simile alla creatività dell’artista che traendo la propria forza
direttamente dall’assoluto, aspira ad opere sempre più sublimi. Un artista con
simile energia, che l’assimila addirittura alla divinità è in realtà un «homo
liberales atque humanus», un sapiente. Esattamente come sostiene
Dürer»[18].
Il tema della magia, è centrale tanto in Bruno quanto nella cultura
rinascimentale in generale, la Yates addirittura sostiene che esso sia stato
determinante anche per ciò che è scaturito in seguito alla Rinascenza; la
studiosa è perentoria al riguardo ritenendolo «un tema di importanza
assolutamente fondamentale per la storia del pensiero: la rilevanza, cioè, della
magia rinascimentale quale fattore responsabile di mutamenti decisivi nelle
concezioni degli uomini»[19]. La magia «deflagra» presso gli Egizi per poi
implodere coi Greci i quali consideravano l’attività pratica una vile
degenerazione di quella veramente degna e cioè la pura speculazione
razionale. Col Cristianesimo invece la magia non solo rimase implosa ma fu
addirittura condannata: la teologia spodestò il trono della filosofia e molto
spesso le attività pratiche da essa dissenti venivano semplicemente bollate
come demoniache[20]. Il Rinascimento dunque, proprio attraverso la ripresa
(pratica) della magia, intesa quale forma di gnosi operativa, si proietta
nell’epoca moderna attraverso una specificità per molti aspetti rivoluzionaria.
Solo nel Rinascimento abbiamo questo picco alchemico di sapienza
«integrale», pratica e al contempo spirituale; sarà poi la stessa modernità a
recidere tale splendida creatura ereditata dalla cultura ermetica esasperando
l’aspetto pratico, avulso però stavolta, fatalmente, da quello «religioso»; la
separazione cartesiana di res cogitans e res extensa decreterà poi il definitivo
distacco dallo spirito e da una concezione magica della gnosi e ciò
provocherà il trionfo del meccanicismo e l’ascesa del positivismo che
traghetterà il pensiero scientifico e filosofico in «acque sicure» sino alle
soglie dell’età contemporanea quando il Quantismo, inaspettatamente,
provocherà quell’inimmaginabile maremoto meta-fisico che ricatapulterà
platealmente la storia laddove Bruno l’aveva lasciata, o cominciata.
Per addentrarsi dunque nella vicenda bio-bibliografica di tale colossale
protagonista del pensiero, il «conoscere operativo» va considerato come
l’aspetto a priori che ne regola la psicologia: l’abilità magica è propedeutica
ad un élan vital che permea il lebens Welt nelle sue ramificazioni sia interiori
che esteriori. Tale slancio è sì vigoroso in Bruno da assumere sovente aspetti
folli in cui l’eroico furore traccia le linee, sempre imprevedibili e spesso
incomprensibili, di un esistente in divenire, tracciato e scavato di continuo,
pensato e ripensato, attuato e cancellato, finito e ricominciato, sospeso a volte
dall’inadeguatezza del mondo esterno al suo intento, due mondi paralleli
sebbene opposti, che in fine confluiranno ineluttabilmente nell’abisso della
morte. E lo faranno per via della totale estraneità del filosofo al reale
circostante: un nemico da sfidare, da sfidare in quanto sproporzionato alla sua
filosofia, al suo progetto di rinnovamento del mondo, un mondo per lui,
filosofo dell’infinito, rimasto ingabbiato in un passato che trascende il tempo
stesso. L’estraneità che provava Bruno al cospetto del suo tempo è
paragonabile alla distanza del nostro sguardo su di esso, questo perché Bruno
era un inattuale, pensava, parlava e agiva da moderno, da contemporaneo, da
uomo che tutt’ora non è ancora arrivato.
Bruno era avido di sapere, la sua sete di conoscenza doveva essere appagata e
nel tardo Cinquecento l’unica strada percorribile per adempiere tale desiderio
era la carriera ecclesiastica. Entrando in convento, Bruno entra in una sorta di
«laboratorio spirituale»: non solo si immerge nello studio, approfondendo
particolarmente Tommaso e Aristotele (di cui diverrà il maggior conoscitore
del suo tempo, sapendolo praticamente a memoria), ma comincia ad affinare
e potenziare quello che sarà uno degli strumenti precipui della sua magia,
l’arte della memoria appunto, la capacità di immagazzinare quantità enormi
di dati[21]: Bruno era praticamente un’enciclopedia vivente. Come si vedrà
più avanti però questa arte non si attiene esclusivamente alla straordinaria
capacità di ricordare, essa piuttosto si eleva a vera e propria abilità magica,
strumento di trasmutazione dell’essere, reale autosuperamento: «Quest’arte
non serve soltanto ad acquisire una semplice tecnica mnemonica, ma apre
anche la via e introduce alla scoperta di numerose facoltà»[22].
Ma quali esattamente gli studi di Bruno? Oltre ad Aristotele, al quale ogni
pensatore del tempo doveva rigidamente attenersi, il suo apprezzamento si
concentrava su Tommaso, Alberto Magno, Lullo, Plotino, Proclo, Giamblico,
Porfirio, Erasmo, Epicuro, ovviamente Platone (del quale ricorda a memoria
vastissimi passi) e ovviamente Cusano, che considerò precursore di
Copernico. Dal Corpus Hermeticum infine, Bruno trasse forse il più grande
giovamento intellettuale[23].
Bruno, pur essendo pienamente un pensatore e un uomo rinascimentale era a
tutti gli effetti un inattuale. Fu anticipatore di temi relativi all’esistenzialismo
in ambito filosofico e al quantismo in ambito scientifico[24], ma non va
scordato che Bruno fu anche il primo illuminista. Come afferma Franco
Cardini: «Giordano Bruno è senza dubbio uno dei grandi pensatori
dell’Europa moderna; è un filosofo penetrante, che anticipa non solo temi e
argomenti della grande cultura libertina e illuministica, ma, che addirittura
precorre alcune tesi scientifiche affermatesi in tempi a noi molto vicini»[25].
Il giudizio di D’Amico conferma e approfondisce: «Dopo Ginevra egli si
avvia a diventare il primo «illuminista», il primo pensatore oltre il
cristianesimo, il primo maestro del sospetto veramente moderno: inizia il
cammino segreto verso la sua nuova religione egizia»[26]. In seguito verrà
spiegata la genesi e lo sviluppo di questo occulto cammino. Oltre e solo oltre
tutto questo, Bruno fu un eminente rinascimentale, per nulla epigono di
un’epoca al tramonto quanto piuttosto:
Bruno vede prima di molti altri che la morte di Dio, quel Dio, è essenziale per
un recupero della dignità umana, quella dignità già decantata da Pico che
presenta l’uomo quale creatore del proprio destino, responsabile e non vittima
di esso, protagonista della vicenda terrena in completa libertà[38]. Il rifiuto
del Cristianesimo è la pars destruens della nolana filosofia:
Nel 1579 Bruno è a Ginevra, allora nota per la sua tolleranza culturale e
diversità religiosa, cosmopolita e aperta agli intellettuali di tutta Europa,
insomma un luogo indubbiamente invitante per uno come Bruno che vi ci si
precipita subito dopo Chambéry.
Qui il pensatore segue i corsi di filosofia di Antoine Le Faye, uno dei
personaggi più noti e politicamente influenti della città, il quale però
filosoficamente non sembra raggiungere alti livelli di competenza, di questo
Bruno se ne accorge subito e siccome nelle aule ginevrine non è consentito
manifestare liberamente il proprio pensiero, Bruno che non può tollerare la
bassa competenza del suddetto professore e che al contempo non vede l’ora
di mettersi in mostra nella nuova città, pubblica un opuscolo nel quale
denuncia ben venti errori in una sola lezione da parte di Le Faye.
Bruno viene arrestato, dovrà umiliarsi di fronte ai giudici, pentirsi e chiedere
pubblicamente scusa. È la prima di una lunga serie di umiliazioni che il
filosofo dovrà tristemente subire, e con difficoltà estrema considerando il
carattere orgoglioso del Nolano, fiero delle sue idee, cui tiene più della vita
stessa.
Oltre all’umiliazione si aggiunge la fine del sogno di entrare nel mondo
accademico, l’Università infatti lo espelle. Sarà un cliché che si ripeterà
costantemente al quale Bruno alla fine, tristemente, si abituerà. Ma è
significativo poiché è il primo. È qui che nasce concretamente il dissidio,
insanabile, tra Bruno e il Cristianesimo, un dissidio che lo vede protagonista
non solo sul piano intellettuale ma umano ed esistenziale in primis. E proprio
per il fatto che tutto ciò abbia avuto luogo nella Ginevra calvinista è ancora
più significativo: d’ora in avanti il Cristianesimo al di là delle sue
confessioni, sarà visto come veicolo di oscurantismo e intolleranza e se prima
di Ginevra era anche pensabile un riavvicinamento di Bruno a questa
religione, d’ora in poi tutto il suo pensiero e le future opere saranno intrise di
una dura polemica anticristiana, basti pensare allo Spaccio de la bestia
trionfante pubblicato a Londra 1584 [40].
Non è solo la guerra tra Giordano Bruno e la Chiesa, è la guerra tra la
ricchezza dello spirito dell’Umanesimo e l’Europa ormai solcata dalle
divisioni religiose che scateneranno la Riforma protestante.
Dopo Ginevra, Tolosa per un breve periodo poi l’importantissimo approdo a
Parigi, alla corte di Enrico III[41].
Personalità fondamentalmente laica, amante di tutto ciò che proviene
dall’Italia, Enrico III concesse finanziamenti a quasi centocinquanta
intellettuali e artisti italiani. Egli non poté dunque non prestare attenzione a
Giordano Bruno, l’ormai celebre fenomeno emergente della cultura europea,
al quale, per lo meno ufficialmente, il re di Valois si rivolge per essere edotto
sull’arte della memoria, di cui Bruno è maestro indiscusso.
Tuttavia, considerando la visione fortemente unitaria del sapere che
caratterizza tutto il Cinquecento, nella quale politica, filosofia e religione
vengono spesso intrecciate insieme in un afflato tipicamente rinascimentale, è
facile pensare che il re abbia in mente fini politici e infatti cosi è: nel 1583
Giordano Bruno parte per l’Inghilterra con una lettera di accompagnamento
del re al seguito dell’ambasciatore di Francia Michel de Castelnau. Questo
fatto è fondamentale per capire la magnetica personalità del Nolano, il quale
non è semplicemente un «filosofo» (né tanto meno un filosofo «con la testa
tra le nuvole»), è un individuo al quale un re può affidare un’importantissima
e delicatissima missione politica in un altro paese. Bruno ovviamente ne è
lusingato e ricambia con la dedica della sua prima opera stampata a Parigi: Le
ombre delle idee[42]. Una costante questa: Bruno dedicherà sempre le sue
opere a re e personalità di rilievo, per riconoscenza e per ricevere protezione,
quella protezione di cui aveva estremo bisogno muovendosi come un
fuggiasco ricercato dall’Inquisizione in un’Europa dilaniata dalle guerre del
Cristianesimo.
Il rapporto di stima tra Bruno e Enrico III è profondo e reciproco e va
ampiamente al di là del mero aspetto culturale:
Bruno dunque si presenta a Londra nell’aprile del 1583 a Salisbury Court, fra
Flee Street e il Tamigi dove risiede Castelnau, agisce al servizio di Sir
Francis Walsingham sotto il falso nome di Henry Fagot per svolgere un
segreto lavoro di spionaggio contro lo stesso Castelnau che lo ospita,
trafugando documenti e informazioni importanti[44]. In sintesi: «Fagot era un
sacerdote italiano di convinzioni antipapiste, che scriveva sotto falso nome ed
era venuto ad abitare a Salisbury Court poco prima della metà dell’aprile
1583»[45].
Al di là dell’appurata identità, ciò che interessa ai fini dell’indagine
psicologica dell’uomo Bruno, è come egli visse questa missione. Interessante
è l’episodio in cui Bruno scrive di suo pugno alla Regina Elisabetta riguardo
al mercante Pedro de Zubiar, al quale estorse notizie sotto confessione –
Bruno-Fagot infatti operava in ambasciata in qualità di sacerdote cattolico.
Fagot rivela alla Regina che il suddetto mercante aveva ricevuto l’incarico di
ucciderla ma Bossy sostiene che questo sia un falso colossale. In sostanza
Bruno vuole acquistare meriti agli occhi della sovrana e ciò rivela ancora una
volta l’arditezza ma anche l’ingenuità di Bruno che gioca pericolosamente
con i fili di un potere che potrebbe ritorcerglisi contro in ogni momento ma
che lui usa e abusa fin quanto può, come nel suo stile, per poi lasciarlo e
cercarne un altro. Un altro paese, un’altra Università, un’altra sua opera con
una dedica diversa a un altro personaggio potente che possa proteggerlo e che
possa appoggiarlo e comprenderlo nel suo progetto di instaurare la nuova
religione-filosofia di matrice egizia che soppianti definitivamente il
Cristianesimo per il quale nutre ormai un disprezzo dichiarato, riscontrabile
ad esempio nel Candelaio, il dialogo di grande successo pubblicato a Parigi
nel 1582 [46].
In Inghilterra comunque Bruno non si limita solo a fare la spia, vuole fare il
professore universitario ovviamente, la strada che tenta in ogni paese in cui
mette piede e che poi lo costringe ad andarsene.
A Oxford si presenta con una lettera che definire autocelebrativa è un
eufemismo e comunque rivelatrice di quella grande considerazione che il
Nolano ha di sé, quella smisurata sicurezza, alimentata per altro da anni di
pratiche magiche che rendono Bruno sempre più consapevole delle proprie
possibilità, al di là dell’ordinario, almeno secondo lui:
«Siamo qui di fronte a quello che forse è il più grande limite umano e
psicologico di Bruno: questa incapacità politica di aprire lentamente la
strada alla propria dottrina; questa convinzione assoluta nei propri mezzi,
che a volte rasenta la presunzione e la superbia e che ferisce l’avversario;
questo suo naturale e inevitabile mettersi in urto contro gli ambienti dai
quali pure cerca di farsi accettare, come se solo da uno scontro irriducibile
gli giungesse la convinzione della bontà, novità e verità delle sue
dottrine»[51].
«Bruno ha perso il controllo di sé, vive una realtà allucinata e ai limiti della
follia: una follia fatta di esaltazioni fissate, di manie di grandezza, di
assurde convinzioni di onnipotenza e invulnerabilità. […] Il Bruno delle
denunce dei suoi compagni di cella, se non è un indemoniato nel senso
tecnico del termine come pensa il Mocenigo, è un uomo che ha tutti i tratti
esteriori di una persona profondamente scossa: incapace di controllare gesti
e parole, dominato da pulsioni distruttive e autodistruttive che lo
sovrastano, del tutto chiuso in sé, incapace di riconoscere i pericoli di cui
lui stesso sta disseminando per la sua strada. La cosa certa in ogni caso è
che non è più una persona pienamente padrona di sé»[60].
Bruno poteva abiurare, e come Galileo poteva salvarsi, poteva perfino uscire
dal carcere ma questo avrebbe significato ripudiare le sue idee e dare maggior
valore a quelle della Chiesa. Bruno optò ovviamente per la scelta più folle,
più coraggiosa: la morte.
Come afferma Cardini: «Va da sé che la Chiesa romana non desiderasse
l’esecuzione del Bruno ch’era personaggio troppo noto addirittura in molte
corti d’Europa: essa ne voleva il pentimento e la sottomissione, che ne
avrebbe fatalmente compromesso l’immagine e il pensiero. Bruno si accorse
forse troppo tardi di non poter sfuggire a questo tragico bivio: o salvare la
vita compromettendo per sempre la sua opera e il senso della sua
testimonianza, o mantenerli alti affrontando la condanna»[65].
L’eroico coraggio di Bruno svelò l’intolleranza di un’istituzione in nome
della quale solo nel Cinquecento vennero commessi in Europa più genocidi
che in tutti gli altri anni fino ai giorni nostri, naturalmente in nome dell’amore
divino. Aver bruciato Bruno più che un gravissimo disonore, per la Chiesa
Cattolica è una sconfitta.
Nella sua personale guerra con essa, Bruno, attraverso la morte, le sferrò il
colpo fatale: alla fine vinse lui, per questo continua a vivere, vive come
Maestro del pensiero, al di là dei tempi, dei poteri e degli inferni. Vive oltre
la morte e oltre la vita ordinaria, la vita di quegli individui, pedanti,
«religiosi» e intolleranti, incapaci di comprendere e di ascendere
all’immortalità: «Le cose ordinarie e facili son per il volgo e ordinaria gente;
gli uomini rari, eroichi e divini passano per questo camino de la difficoltà, a
fine che si costretta la necessità a concedergli la palma de la
immortalità»[66].
Le scelte, folli, che hanno costellato il percorso terrestre di questo colossale
pensatore, rappresentano gli artigli con cui la veemenza del suo eroico furore
si faceva strada nel percorso lacerando ogni ostacolo.
La magia, il genio, il coraggio e la follia saldano e vivificano l’alchimia di
vita e psiche in un filosofo che, a differenza di molti altri, ha preferito lottare
col corpo oltre che con le idee, quel corpo che nella battaglia venne torturato
e bruciato, ucciso per la Chiesa, trasmutato per lui e per tutti coloro che
leggono nella scelta della morte, l’ultima, determinante e ancora operativa,
operazione alchemica[67].
La magica filosofia era il bene più prezioso che Bruno possedesse, prezioso
perché in grado di mutare la natura delle cose e il corso degli eventi (per
questo magica). Bruno comprese che era essa a dover sopravvivere più che il
suo corpo transeunte: lo spirito rimane al di là del tempo, non la persona.
Capire e mettere in pratica questo insegnamento presuppone coraggio, follia e
magia, presuppone una profondissima alchimia di morte e psiche.
STUDI SU BRUNO
Atti del processo di Giordano Bruno, a cura di Davide Dei, Sellerio, Palermo
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Dall’uomo medio all’uomo superiore: la
psicologia iniziatica di Roberto Assagioli.
Indice
ABSTRACT
Upanishad
L’uomo normale è la meta ideale per i falliti della vita, per tutti coloro che
sono al di sotto del livello generale di adattamento; ma per coloro che hanno
possibilità molto maggiori di quelle dell’uomo medio, l’idea o la costrizione
morale di essere soltanto normali costituisce la tortura di un letto di
Procuste, una noia insopportabile, una noia senza speranza.
Gustav Jung
Con queste parole Jung ben descrive il fine dell’uomo: guardarsi dentro,
cercare se stesso e cercare ancora secondo il monito delfico, fino a trovare…
Dio. Questo il cammino a cui l’essere umano è chiamato secondo quelle
filosofie cha vanno sotto il nome di «tradizionali» o «perenni», secondo la già
citata definizione di Agostino Steuco, canonico lateranense eugubino del
‘500.
Fino a pochi decenni fa la principale scuola in psicologia, la
comportamentista, si occupava della parte esteriore dell’uomo con risultati
che al di là di qualsiasi migliore scientifica previsione, non potevano che
essere e rimanere superficiali.
Come affermano gli studiosi Baigent e Leigh nel loro approfondito saggio
L’elisir e la pietra:
«Esso secondo i mistici e gli esoteristi, è unirsi nella coscienza con Dio. Lo
sviluppo spirituale, quindi, è al di là dello sviluppo personale; è questo il
punto di vista di Jung e dello psichiatra italiano Roberto Assagioli.
Quest’ultimo fu il fondatore della scuola della psicosintesi, rivolta allo
sviluppo e alla terapia personale e spirituale; […] La psicosintesi è una
concezione della vita psicologica, un metodo di sviluppo psicologico, una
filosofia e un trattamento per disturbi psicologici e psicosomatici e, infine,
una filosofia e un metodo di educazione integrale (personale e
spirituale)»[74]. In sintesi: «I metodi della psicosintesi combinano tecniche
di psicoterapia, educazione e disciplina spirituale»[75].
Che cos’è la psicosintesi? Qualcuno l’ha accostata ad una vera e propria Via
Iniziatica, altri ad una filosofia, in realtà essa è uno strumento che permette
all’essere umano di scoprire, attivare e quindi usare molteplici potenzialità
intrinseche che consentono di conoscersi ed apportare un livello qualitativo
superiore alla propria esistenza la quale va a configurarsi come possibilità
concreta e costante di evoluzione, di scoperta e, non in ultimo, di meraviglia.
«Fare della propria vita un esperimento» diceva Nietzsche, «questa divenne
in seguito la mia filosofia». Keyserling afferma che «in ognuno di noi ci sono
sviluppati ed attivi, in varia misura, tutti gli istinti e tutte le passioni, tutti i
vizi e tutte le virtù, tutte le tendenze e tutte le aspirazioni, tutte le facoltà e
tutte le doti dell’umanità»[94]. Potremmo dire che la psicosintesi si occupa di
potenziare le doti disattivando i vizi al contempo, nell’orizzonte di un
processo onnicomprensivo e circolare.
Nella topica assagioliana il Sé superiore, pur essendo nel punto più alto,
occupa una posizione anfibia toccando sia l’interno che l’esterno del celebre
uovo col quale lo psichiatra veneziano descrive la psiche dell’uomo, che
comprende l’inconscio inferiore, quello medio e quello superiore, tutti
imprescindibilmente collegati e interferenti in quel processo di sintesi che li
armonizza e li potenzia.
La psicosintesi ha un valore essenzialmente pratico, essa è un’esperienza. Pur
attingendo a piene mani da varie tradizioni filosofiche, la psicosintesi non è
essa stessa una filosofia:
«Troppo spesso la psicosintesi è stata accusata di essere una speculazione
metafisica, essa non si interroga direttamente sui problemi ultimi, non tenta di
dare risposta ad interrogativi filosofici e religiosi quali “Che cos’è lo
Spirito?”, “Dio esiste?”. Come amava dire il suo fondatore, essa si limita a
condurre l’uomo alle soglie del mistero per poi lasciarlo libero di trovare da
sé le proprie risposte»[95].
Portare l’uomo alle soglie del mistero significa innalzarlo da uno stato
inferiore ad uno superiore (psicologicamente e psichicamente e di
conseguenza filosoficamente ed esistenzialmente), in quanto tali soglie
abitano dimore elevate o «finestre sull’eternità» per dirla con Florenskij.
Lo stesso Assagioli chiarifica la sua posizione al riguardo: «(La psicosintesi)
non è una posizione filosofica, teologica o metafisica; ma è il riconoscimento
che tutte le manifestazioni della psiche umana, quali l’immaginazione
creativa, l’intuizione, la genialità, i sentimenti superiori, gli impulsi ad azioni
altruistiche ed eroiche sono fatti; fatti non meno reali delle pulsioni istintive,
dei riflessi spontanei o condizionati e che esse si presentano ad essere
studiate scientificamente e ad essere attivate, sviluppate ed utilizzate»[96]. La
distanza dalla psicologia comportamentista è palesemente evidente.
L’allieva diretta di Assagioli Angela Maria La Sala Batà a tale proposito
puntualizza: «Tali elementi psichici sono anche energie perché hanno una
forza vitale, dinamica, propulsiva e sono in continuo movimento e vibrazione
e inoltre producono degli effetti reali e concreti.
Il mondo psichico in altre parole, non è un’astrazione psicologica ma è una
cosa reale e viva: un serbatoio di energie che costituisce la ricchezza interiore
dell’uomo»[97]. «L’inconscio è reale perché agisce» come ebbe a dire Jung.
Tale ricchezza va anche a configurarsi quale potenzialità che sovente supera
le comuni facoltà ordinarie per classificarsi quale vera e propria capacità
«magica» o appunto transpersonale, nel già menzionato senso letterale del
termine: «oltre la persona», oltre l’uomo, oltre la maschera ordinaria. Questo
è possibile in virtù del «server» dal quale l’uomo che si supera attinge, mi
riferisco a quello che Jung chiamava l’inconscio collettivo.
In una prospettiva di totale unione e connessione tra mondo esteriore e
mondo interiore, in uno stato di entanglement, come direbbero i fisici
quantistici che a tali considerazioni sono giunti grazie allo studio della non
località nell’ infinitamente piccolo, l’accesso ad energie di cospicua potenza
presenti in natura, non dovrebbe più stupire. La Sala Batà è perentoria al
riguardo:
La Sala Batà riferisce dunque di alcuni individui, non tutti, nello stesso
tempo la studiosa definisce «normali» queste facoltà umane.
La sottile riflessione che qui naturalmente va ad innescarsi è quella relativa
alla differenza tra la malattia e la normalità. In quale misura realmente sono
diverse tali classificazioni nei vari livelli dell’inconscio? E soprattutto chi
decide i parametri di queste differenze? Chi li impone?
Nell’orizzonte di una società malata e profondamente squilibrata e sofferente
che non produce valori se non quelli superficiali, che crea insicurezze e paure
tramite i mass media, che subliminalmente modella esseri medi e mediocri,
massificati e massificanti, addomesticati al mero consumismo e nulla più, una
società che in quelli che dovrebbero essere i suoi punti di riferimento, come
storicamente lo erano e cioè il potere politico e quello religioso, trova ormai
massima corruzione e vergogna[99], l’uomo piomba inevitabilmente nei
meandri delle crisi interiori, delle depressioni addirittura e perfino delle
nevrosi. Ma attenzione, avverte Assagioli, in tale contesto la crisi interiore
non è sinonimo di malattia ma di sanità!
Chi è più malato infatti, la società e la sua becera veste ipocrita e maligna
(Zolla parlava a chiare lettere di civitas diaboli[100]) o l’individuo che,
inevitabilmente, ne soffre le conseguenze?
Lo stesso Jung aveva notato come la società moderna inducesse alla malattia:
«Circa un terzo dei miei pazienti non soffrono di nevrosi definibili in termini
clinici ma piuttosto della mancanza di senso e del vuoto delle proprie vite. Mi
sembra […] che questa possa essere vista come la nevrosi collettiva del
nostro tempo»[101]. Quale il rimedio allora? «Riflettere individualmente su
di sé, ritornare al fondamento dell’umana natura […] questo è l’inizio della
cura per la cecità che in questo momento regna»[102].
L’uomo che perde se stesso in questa palude e che si mette dunque alla sua
ricerca è tutto meno che patologico, è anzi lodevole e, inconsciamente
iniziato al cammino verso il Sé.
«Si considera generalmente «normale» l’uomo medio, ossequiente alle norme
sociali dell’ambiente in cui vive, in altre parole il «conformista»; ma la
normalità intesa in questo modo è una concezione poco soddisfacente; essa è
statica ed esclusiva. Questa normalità è una «mediocrità» che non ammette o
condanna tutto quello che è fuori dalla norma, e che quindi è considerato
«anormale», senza tener conto del fatto che molte delle cosiddette
«anormalità» sono in realtà inizi o tentativi di superare la mediocrità»[103].
La normalità viene dunque a delinearsi come uno stato di sviluppo bloccato,
da cui la calzante definizione di «patologia della norma»: la società tende a
spingere le persone verso un livello da lei premeditato, un livello appiattente
ma conforme al suo obiettivo di «sviluppo» (regresso) attraverso il quale essa
gestisce tale massa di individui non più liberi. In quanto premeditati, pre
progettati. Più che veri e propri «individui» essi sono dei modelli su scala,
ovviamente tutti totalmente ignoranti e inconsapevoli del processo che li vede
«protagonisti». Se l’individuo è «ciò che non si può dividere», l’individuo
prodotto dalla società moderna non è più tale poiché già diviso a priori: egli
nasce diviso. Se il diavolo è ciò che divide - tornando all’appropriata
definizione zolliana - questo individuo è ciò che il suddetto diavolo è riuscito
a frammentare: è il suo esatto prodotto, la sua «opera d’arte».
A questo si aggiunga, sempre rimanendo in tema «diavolo», il potere politico
di uno stato quale il Vaticano il quale, attraverso la visione del mondo che
propone, tende a spaventare l’individuo con la paura dell’inferno, di fatto una
minaccia reale e costante - in tale aut-aut il libero arbitrio non può infatti
sussistere: o si assecondano i dogmi di Dio o si va all’inferno. All’interno di
tale processo la massa oltre che ignorante e inconsapevole diventa anche
impaurita, a questo punto il potere temporale e quello «spirituale», che
purtroppo per l’uomo (medio) non hanno mai smesso di andare a braccetto,
hanno la meglio nell’imporre modelli culturali a loro conformi, i quali recano
vantaggio solo al mantenimento del loro potere politico, economico, culturale
e psicologico (la «religione» di fatto, nel senso primigenio del termine, non
rientra nemmeno più in questo processo, come invece il Pontefice vorrebbe
far credere. Una religione che è al tempo stesso uno stato è una
contraddizione tout court). Non va dimenticato che la paura è un sentimento
fondamentale, per chi vuole addormentare e addomesticare l’uomo, come
fondamentale è la sua sconfitta per chi vuole svegliarlo e liberarlo: «soltanto
chi si è liberato dalla paura è veramente libero»[104]. Sembra di sentire l’eco
di Nikos kazantzakis: «Sono privo di speranza. Sono privo di paura. Sono
libero».
Il problema che a questo punto nasce da sé è relativo ai termini che fissano il
livello evolutivo della società in relazione a quello dei singoli individui[105].
In questa ottica vengono stravolti i termini stessi di salute e malattia, per lo
meno nell’accezione secondo la quale essere malati significa accusare dei
sintomi e non esserlo significa non accusarne. Abram Maslow a tale
proposito è al quanto chiarificatore:
«Essere ammalati significa forse accusare sintomi? […] E la salute significa
esser privi di sintomi? Lo nego. Quale dei nazisti ad Auschwitz o a Dachau
era in buona salute? Quelli con la coscienza tormentata, o quelli la cui
coscienza appariva loro chiara, limpida, serena?»[106].
La psicologia di Roberto Assagioli non è una terapia dell’uomo malato ma un
potenziamento dell’uomo sano: non si cura nel senso consueto del termine,
piuttosto si invita a guardarsi dentro per scovare le potenzialità latenti e fino a
quel momento sconosciute per dunque attivarle, risvegliarle, accrescerle, ai
fini di un’esistenza più armoniosa, più felice e, nello stesso tempo tale
processo si delinea quale continua ed affascinante scoperta di sé.
Secondo questa nuova psicologia, termini quali «malattia» e «terapia» sono
sostituiti dai meno atavici «crescita personale» ed «autoesplorazione»: «In
una visione olistica che non divide più rigidamente la parte sana dell’essere
umano da quella malata, in cui l’uomo non è visto attraverso la lente
deformante della patologia, ma come totalità in costante crescita e proiettata
verso l’avvenire, il concetto di terapia si amplia per arrivare a toccare gli
ambiti dell’educazione, dell’autoformazione»[107].
E’ in questo senso che la psicologia di Assagioli è inevitabilmente accostata
all’alchimia, ma ascoltiamo lo stesso psichiatra veneziano a questo proposito:
«Quando si parla di alchimia si pensa ai tentativi di «fare l’oro» (cosa che
pareva incredibile, ma che ora sembra meno fantastica da quando l’uomo
manipola gli atomi trasformando un elemento in un altro); ma in realtà i libri
di alchimia araba e medievale usavano spesso un linguaggio simbolico per
esprimere l’alchimia psico-spirituale, cioè la trasmutazione stessa dell’uomo.
Ciò è stato riconosciuto da vari studiosi moderni, soprattutto dallo Jung, il
quale negli ultimi anni della sua vita ha dedicato molto tempo e vari scritti al
simbolismo alchemico»[108].
L’uomo sano dunque è l’uomo in cammino verso sé, l’uomo che trasmuta,
che si esplora e si modifica, scoprendo le sue infinite potenzialità, le
meraviglie che gli abitano dentro, vere e proprie ricchezze, per tornare al
simbolismo dei metalli preziosi.
Questo tipo d’uomo superiore, soppianta l’ormai obsoleto uomo medio,
ridicolo perfino agli occhi di chi ha intrapreso la Via, una via senza ritorno, in
quanto come afferma il padre della psicosintesi, una volta iniziato il percorso
è impossibile tornare indietro: «Ricordiamo che una volta stabiliti i rapporti
tra la personalità e lo Spirito, una volta iniziata l’opera di unificazione, questa
non può più arrestarsi, neppure se tentiamo di ribellarci, poiché le energie
spirituali sono più potenti delle forze puramente psicologiche»[109].
La psicosintesi è un addio all’uomo comunemente inteso, il passo di non
ritorno verso una coscienza superiore, che forse ancora incute troppo sospetto
per via dell’ombra inquietante e imponente che riflette la normalità, costruita
ad arte dalla società moderna e dai suoi strumenti di potere politico e
culturale. In tale orizzonte regredente, essa tutto sovrasta, spesso anche la
capacità di discernere.
«Però, ora si è cominciato a reagire contro questo meschino culto della
«normalità»; pensatori e scienziati del nostro tempo vi sono opposti con
decisione. Tra i più autorevoli si può citare Jung, il quale non ha esitato a dire
che: «L’uomo normale è la meta ideale per i falliti della vita, per tutti coloro
che sono al di sotto del livello generale di adattamento; ma per coloro che
hanno possibilità molto maggiori di quelle dell’uomo medio, l’idea o la
costrizione morale di essere soltanto normali costituisce la tortura di un letto
di Procuste, una noia insopportabile, una noia senza speranza»[110].
Una delle peculiarità dell’uomo normale è l’estroversione, egli deve sempre
fare qualcosa che lo proietta fuori di sé, che lo distragga e lo tenga lontano
dal suo mondo interiore. Se l’uomo normale è lasciato a se stesso,
semplicemente si annoia. Se non ha i passatempi preconfezionatigli dalla
società, se non dispone di intrattenimento televisivo, sportivo o qualsivoglia
specifico passatempo del momento, quello più condiviso, egli si deprime.
Non sa di possedere un mondo interiore, nessuno glielo ha mai detto, la
società ha fatto di tutto per convincerlo del contrario educandolo solo ai
modelli superficiali e massificanti da essa proposti.
Assagioli sottolinea approfonditamente tale problematica:
«E’ noto come la percezione interiore della realtà dello Spirito e della sua
intima compenetrazione con l’anima umana dà a colui che la prova un
senso di grandezza e di allargamento interiore, la convinzione di
partecipare in qualche modo alla natura divina.
Nelle tradizioni religiose e nelle dottrine spirituali d’ogni tempo se ne
possono trovare numerose attestazioni e conferme, espresse non di rado in
forma assai audace.
Nella Bibbia troviamo la frase esplicita e recisa: «Non sapete che siete
Dei?». E Sant’Agostino dice: «Quando l’anima ama qualcosa, diviene a
essa simile; se ama le cose terrene, diventa terrena; ma se ama Dio (si
potrebbe chiedere) diventa essa Dio?»[120].
Va notato che Assagioli, probabilmente per assonanza con le sue radici
ebraiche, cita spesso la Bibbia e addirittura anche S. Paolo. Pur considerando
l’eterogeneità sulla quale poggia fermamente la sua Weltanschauung, rimane
a mio avviso difficile conciliare lo sviluppo armonico della persona che
scopre di essere «magica» e addirittura «divina», che accetta e vive la
sessualità integrandola perfino in tale processo di autosviluppo[121] con la
visione dell’uomo peccatore e costantemente minacciato e punito da Dio,
quale quella presentata nell’Antico Testamento, poi ripresa e acuita ancora di
più da S. Paolo specialmente per ciò che concerne all’aspetto sessuale.
Decisamente più calzanti e idonee alla visione psicosintetica risultano invece
le citazioni riprese dalla tradizione orientale, soprattutto indiana, ascoltiamo
ancora Assagioli al riguardo: «L’espressione più estrema della identità di
natura fra lo spirito umano nella sua pura e reale essenza e lo Spirito Supremo
è contenuta nell’insegnamento centrale della filosofia Vedanta: Tat twam asi
(Tu sei Quello) e Aham evam Brahman (In verità io sono il supremo
Brahman)»[122].
Non solo il Vedanta ma anche il Buddismo viene accostato al Cristianesimo
per delineare quello stato di sovraumanità caratteristico di chi ha raggiunto
l’unità: l’uomo superiore o l’uomo-dio:
«Così si arriva a quella che è stata chiamata «la santa libertà» dei figli di
Dio, alla «vita unitiva».
San Giovanni della Croce afferma arditamente che chi l’ha raggiunta
«sembra il medesimo Dio e ha le stesse proprietà di lui».
E’ lo stato di vittoria, di liberazione che gli orientali chiamano Nirvana. In
esso ogni desiderio, ogni brama personale è consunta, ogni attaccamento
bruciato, ogni paura svanita. Lo spirito così svincolato acquista una sottile
e formidabile potenza: è capace di wu-wei, dell’azione senza azione, cui
nulla può resistere»[123].
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L’oltre dell’arte: Julius Evola e il
superamento del Dadaismo.
INDICE
4. Oltre il Dadaismo.
ABSTRACT
Io, l’investigatore solenne delle cose futili che sarei capace di andare
a vivere in Siberia solo perché non ne sopporto l’idea.
Pessoa
Fëdor Dostoevskij
Julius Evola
1. Il contesto storico e il valore di Evola.
Nel periodo che va dagli anni Dieci agli anni Venti il Futurismo era l’unico
movimento di rottura esistente in Italia e Evola dunque non poteva non
aderirvi. Il suo primo maestro fu Giacomo Balla, anche se bisogna ammettere
che considerando la statura di Evola, già allora, risulta al quanto difficile
pensarlo «allievo». Si potrebbe addirittura essere portati a ritenere che furono
gli stessi interessi esoterici di Evola ad influenzare Balla, per lo meno
relativamente all’opera Trasformazione, forme, spiriti del 1919, anno in cui il
barone partecipa all’Esposizione Nazionale Futurista.
Il periodo che va dal 1918 al 1921, viene definito da Evola «idealismo
sensoriale», il riferimento è ovviamente ai sensi interni, al mondo interiore, in
quanto solo un’arte totalmente astratta può descrivere ciò che sta agli antipodi
del mondo materiale[135]. A questo periodo appartengono opere quali Five
o’ clock tea e Sequenza dinamica, entrambe del 1917. Datati 1918 sono
invece i dipinti Fucina studio di rumori, Mazzo di fiori, Paesaggio interiore
10.30 e Tendenze di idealismo sensoriale.
Interessante la serie dei Paesaggi interiori con la segnalazione dell’ora,
attraverso i quali Evola, come afferma la studiosa Elisabetta Valento vuole
«indicare la capacità di seguire il proprio interno senza per questo perdere i
riferimenti con l’esterno»[136]. L’indissolubile legame tra mondo esteriore e
mondo interiore permea significativamente l’approccio estetico evoliano, il
quale suggella l’adesione e allo stesso tempo l’evasione dal Futurismo
secondo una contradditoria coerenza congenitamente dadaista,
imprescindibilmente ansiosa di costanti e ulteriori fughe e distacchi dal reale.
Se Evola aderisce inizialmente al Futurismo in quanto unico movimento
d’avanguardia esistente allora in Italia, da esso poi bruscamente si distacca
ritenendolo privo di prospettive trascendenti, di varchi interiori.
Il rapporto di Evola col suddetto movimento è un incontro che in nuce è già
un addio; nell’autobiografia Il Cammino del Cinabro, il barone è perentorio:
«In quel periodo giovanile, dato che in Italia come movimento artistico
d'avanguardia praticamente esisteva quasi soltanto il futurismo, ebbi
rapporti personali con esponenti di esso. In particolare, fui amico del
pittore Ignazio Balla, e conobbi Marinetti Anche se il mio interesse
principale era pei problemi dello spirito e della visione della vita, coltivavo
altresì la pittura, una disposizione spontanea al disegno essendosi
manifestata in me già da bambino. Non tardai però a riconoscere che, a
parte il lato rivoluzionario, l’orientamento del futurismo si accordava assai
poco con le mie inclinazioni. In esso mi infastidiva il sensualismo, la
mancanza di interiorità, tutto il lato chiassoso e esibizionistico, una grezza
esaltazione della vita e dell'istinto curiosamente mescolata con quella del
macchinismo e di una specie di americanismo, mentre, per un altro verso,
ci si dava a forme sciovinistiche di nazionalismo»[137].
«Quel che appare invece nella pittura di Evola è lo stato d’animo di chi
sente l’odore di forze occulte trascendentali.
Si era nell’epoca del dinamismo plastico, cioè in un’epoca in cui si esaltava
particolarmente la forza fisica. E si badi bene che il Dinamismo Plastico
venne come reazione al Cubismo statico. Boccioni e Balla spesse volte
uscivano dal Dinamismo Plastico verso espressioni spirituali: si tengano
presenti ad esempio, Gli addii di Boccioni»[139].
«Nel primo dopoguerra fui invece attratto dal movimento dadaista, creato a
Zurigo dal romeno Tristan Tzara: ciò, soprattutto per via del suo
radicalismo. Il Dadaismo non voleva essere semplicemente una nuova
tendenza dell’arte d’avanguardia. Difendeva piuttosto una visione generale
della vita in cui l'impulso verso una liberazione assoluta con lo sconvol-
gimento di tutte le categorie logiche, etiche ed estetiche si manifestava in
forme paradossali e sconcertanti. Per aver conosciuto «il brivido del
risveglio», i dadaisti proclamavano una «necessità severa senza disciplina
né morale», l'«identità dell'ordine e del disordine, dell'Io e del non -Io,
dell'affermazione e della negazione, come radianza di un'arte assoluta», la
«semplicità attiva, l'incapacità di discernere fra i gradi della
chiarezza»[151].
«Esprimere è uccidere.
Dunque non si può ne si deve esprimere.
Valle a dire che l’opera d’arte può essere concepita soltanto come un lusso,
come un capriccio del volere: si sentirà secca e sporca crosta caduta
indifferentemente e senza passione dal vivo tronco.
Far dell’arte così come si prende un te.
E’ evidente che il numero di persone che posso scuotere e convincere colla
mia arte è inversamente proporzionale al grado di purità e di originalità di
quest’arte stessa .
E’ necessario non farsi capire»[154].
«Esteriormente, queste posizioni non erano prive di una certa analogia col
metodo dell'assurdo usato da alcune scuole esoteriche estremo-orientali - il
Ch'an e lo Zen - per far saltare tutte le sovrastrutture del mentale: anche se,
naturalmente, in esse lo sfondo è del tutto diverso. Si sarebbe potuto anche
riandare alle parole di Rimbaud sul metodo della veggenza ottenuto con
uno « sregolamento ragionato di tutti i sensi».
Di rigore, il Dadaismo non poteva condurre a nessun’arte in senso proprio.
Segnava piuttosto l’autodissolversi dell’arte, in un superiore stato di
libertà. Questo a me parve essere il suo significato essenziale; per cui,
interpretando il Dadaismo come il limite di una specie di dialettica
immanente delle varie forme di arte modernissima (nell'appendice ai miei
Saggi sull'idealismo magico), credetti di poterlo elevare al rango di una
vera e propria categoria in una delle mie successive opere filosofiche
(Fenomenologia dell'Individuo assoluto)».[160]
«Vivo in un’atonia, in uno stato di stupore immobile, nel quale si gela ogni
attività ed ogni volontà. E’ terribilmente Dada. Ogni azione mi disgusta:
anche la sensazione la sopporto come una malattia e non ho che il terrore di
passare il tempo che ho davanti a me, e del quale non so che fare (…). Un
tale stato d’animo, anche se con altra intensità, esisteva già in me: come in
uno spettacolo: valle a dire, che c’era qualcuno al di fuori che guardava, e
prendeva appunti sullo strano avvenimento: da cui la mia arte e la mia
filosofia Dada. Attualmente mi accorgo che non c’è più nessuno nel teatro,
che tutto è inutile e ridicolo, che ogni espressione è una malattia»[161].
«Come si legge, Evola dichiara che «i miei quadri li faccio per vanità…».
Egli quindi nega se stesso e tale negazione raggiunge il culmine nel
momento in cui, come estremo gesto Dada, egli smette di dipingere. Butta
alle ostriche sei anni di lavoro e di ricerca pittorica, dopo essere stato
all’avanguardia e dopo essere stato a contatto ed aver combattuto lotte
culturali a fianco di nomi ora considerati i più prestigiosi della nostra
cultura europea come Aragon, Tzara, Picabia, Ernst, Mondrian, Eluard,
ecc. Evola si sente talmente protagonista del Movimento Dada che
inconsciamente sente, quattro anni prima, la stessa necessità che Marcel
Duchamp sentì nel 1925 quando anche lui smise di creare le sue opere dada
per dedicarsi al gioco degli scacchi»[162].
4. Oltre il Dadaismo.
Il Dadaismo dunque, fu troppo poco. Evola non può aspettare, chiude il ciclo
superandolo, arriva cioè dove il Dadaismo stesso non era arrivato forse
perché non poteva e questo il barone lo capì assai presto.
Come sottolinea Bruni, la fine dell’esperienza pittorica è dunque un segno di
estrema lucidità e onestà intellettuale:
«Non è esatto quindi quanto è stato scritto che «la sua esperienza pittorica
è stato solo un passaggio di una sua complessa storia interiore»: per me
invece Evola pittore ha iniziato, percorso e chiuso un intero ciclo; ha fatto
un discorso completo al quale egli non volva aggiungere una parola di più.
In questo suo coerente atteggiamento si può perfino trovare un punto di
incontro tra il pensiero di Evola e quello di Giorgio de Chirico che,
appunto dopo il 1919, chiude il suo discorso metafisico.
Il mondo fino ad oggi non è riuscito a comprendere quanto questi artisti
abbiano veramente vissuto le loro esperienze e per questo motivo essi
hanno sentito la necessità di chiudere il loro discorso.
Era inutile continuare quando ciò che si voleva dire era stato detto. Era
inutile ripetersi ed ognuno ha trovato un altro linguaggio – o il silenzio –
per esprimere le nuove idee maturate con il tempo.
Tutta questa porzione della cultura europea, dei primi 25 anni di questo
secolo, dovrà essere dunque riesaminata e forse allora molte cose andranno
a posto e molta ragione verrà data a chi oggi sembra sfuggire ad ogni
tradizionale classificazione. Sono certo che questo avverrà ed in tale
riesame, almeno nella storia dell’arte italiana, Evola pittore dovrà occupare
quel posto che già gli compete»[164].
Va ricordato inoltre che col suo gesto estremo Evola chiuse non solo
l’esperienza pittorica ma anche quella poetica, apprezzata nell’opera Arte
Astratta:
«Nel 1921 smisi del tutto la pittura. Esaurita l'esperienza, andai oltre.
Buona parte dei miei quadri è andata dispersa. Solo dopo circa
quarant’anni, dal 1960 al 1963, qualcuno in Italia e in Francia ha riportato
l’attenzione su quei miei contributi, per il loro valore storico di
anticipazioni. Fu anche proposta una esposizione retrospettiva.
Nel campo della poesia, pubblicai qualcosa in alcune riviste francesi, a
parte i poemi in appendice di Arte Astratta. Più degno di rilievo è forse il
poema in francese La parole obscure du paysage intérieur, uscito nel 1921
per la Collection Dada in sole 99 copie numerate. Apprezzato dai principali
esponenti del Dadaismo, esso chiuse la mia esperienza nel campo dell’arte
d’avanuardia. Ho acconsentito alla sua ri-stampa quattro decenni dopo, per
le edizioni Scheiwiller, anche per significare che io non rinnego affatto le
mie passate esperienze e che sono lungi dal considerarle come dei «peccati
di gioventù»; ho però avuto cura di spiegare la situazione e il periodo in cui
il poema nacque: senza di che, il riapparire di quella composizione avrebbe
costituito motivo di perplessità per coloro che mi conoscono solo per la
mia attività più recente d’orientamento tradizionale»[165].
«Al dadaismo fece seguito il surrealismo, il cui carattere, dal mio punto di
vista, era regressivo, perché esso per un lato coltivò una specie di
automatismo psichico gravitando verso gli strati subconsci e inconsci
dell’essere, tanto da solidarizzare con la stessa psicanalisi, e dall’altro lato
si ridusse a trasmettere sensazioni confuse di un «dietro» inquietante e
inafferrabile della realtà (specie nella cosiddetta «pittura metafisica») senza
nessuna vera apertura verso l’alto»[168].
Tale apertura era invece ciò che interessava Evola e continuò ad interessarlo
per tutta la vita, anche quando, costretto su una sedia a rotelle per aver sfidato
«la mano degli dèi»[169] tra i bombardamenti viennesi, rimane fermo e vigile
nei suoi intenti, come nulla fosse successo – si dice che quando si risvegliò in
ospedale dopo l’incidente si guardò intorno e chiese che fine aveva fatto il
suo monocolo.
Un incidente che stravolgerebbe la vita della maggior parte degli esseri
umani, è accettato dal filosofo con la massima serenità, nella consapevolezza,
in linea con un’antica legge esoterica, che ogni azione che «capita» in realtà è
dall’interno voluta:
«Nulla cambiava, tutto si riduceva ad un impedimento puramente fisico
che, a parte dei fastidi pratici e certe limitazioni della vita profana, non mi
toccava in nulla, la mia attività spirituale e intellettuale non essendone in
alcun modo pregiudicata o modificata. La dottrina tradizionale che nei miei
scritti ho spesso avuto occasione di esporre - quella, secondo la quale non
vi è avvenimento rilevante l’esistenza che non sia stato da noi stessi voluto
in sede prenatale - è anche quella di cui sono intimamente convinto, e tale
dottrina non posso non applicarla anche alla contingenza ora riferita»[170].
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI CITATI E
CONSULTATI
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STUDI SU EVOLA
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T. TZARA, Manifesti del dadaismo e Lampisterie, Einaudi, Torino 1990.
2. I tre dogmi
ABSTRACT
Manlio Sgalambro
Max Muller
«Alla radice dell’Occidente c’è una tradizione spirituale celata, concepita dai
fondatori originari delle nostre scienze, ma poi travisata e scancellata con
cura, sicché ben pochi ne conoscono ormai i nomi stessi, salvo i rarissimi che
sappiano di avere in tasca la storia delle stelle e di poter andare in direzione
del futuro soltanto guardando al passato. Partiamo perciò dagli uomini che
furono gli antenati degli antenati. Il passato siamo noi e perfino il nostro
domani è un passato che si ripete»[171]. Con queste parole, echeggiando
altresì l’eterno ritorno di Nietzsche, Elémire Zolla addita a filosofie di
saggezza che formano il corpus di quella che viene definita Tradizone, da
sempre accuratamente occultata nella storia del pensiero.
«Per indicare la Luna c’è bisogno di un dito, ma una volta che la Luna viene
riconosciuta non si ha più bisogno del dito», così recita un proverbio zen. Il
dito, che racchiude in sé l’unicità delle re-ligioni e filo-sofie senza tempo,
ossia l’anelito alla consapevolezza del sapere e del conoscere che va sotto il
nome di Tradizione, è stato reciso dal mondo moderno, il quale di
conseguenza, non ha nemmeno più cognizione dell’esistenza della luna, cioè
della verità perenne.
I ricercatori della luna, lunatici per la cultura del mondo moderno, solari per
l’antichità – si pensi alla simbologia del sole nel Mito della caverna di
Platone – hanno continuato imperterriti ad indicare, a contemplare, ad
incarnare perfino il perenne incanto del vero, che sfolgora e abbaglia chi
serba in sé lo stupore, l’indole alla meraviglia. La modernità ha reciso ogni
possibile parvenza di tale anelito, qualsiasi suo riflesso. Criticarla, per i
tradizionalisti[172], equivale a denunciare l’assordante assenza del sacro, un
vuoto apparentemente incolmabile, baratro e precipizio addirittura per coloro
che, spesso inconsapevolmente, ne subiscono i nefasti effetti non solo a
livello sociale e culturale ma anche umano, poiché è nell’esperienza
dell’intimità individuale che la presenza – o l’assenza – del sacro, scardina i
fondamenti di una percezione del reale che può configurarsi come
tradizionale o anti tradizionale.
Zolla è uno di quei pensatori, che riflette su tale grave perdita e la questione
concernente il sacro fra Tradizione e mondo moderno, ricorre ampiamente in
tutta l’opera del pensatore torinese dai primi scritti degli anni Sessanta, come
Eclissi dell’intellettuale (1959), Volgarità e dolore (1966) e Le potenze
dell’anima (1968) fino all’ultimo accorato scritto prima della morte: Discesa
all’Ade e resurrezione (2001). Tuttavia l’ opera che affronta la questione in
maniera centrale e dettagliata è Che cos’è la tradizione (1971), nella quale
l’urgenza di un ritorno ai fondamenti tradizionali della filosofia perenne,
emerge in tutta la sua imponenza.
Quest’opera scaturì in seguito ad un eccesso di «stupore» verso le
contraddizioni del mondo moderno che in quegli anni, traboccanti,
premevano negli orizzonti noetici del filosofo torinese. Tangibile lo scalpore
e l’orrore di Zolla nell’analizzarne i riflessi devastanti, che lo stesso pensatore
avrebbe preferito trascendere. Si legge infatti nella prefazione a Che cos’è la
Tradizione: «Pagai un prezzo, oggi me ne dispiace; l’orrore fu maggiore della
volontà di ignorare i dualismi.
Scaturì questo libro»[173].
Tale studio zolliano, nell’analisi delle perdite, sociali e culturali, che il mondo
moderno ha portato con sé, rovesciandole ineluttabilmente nelle capacità
conoscitive di un soggetto ormai solo velatamente consapevole di che cos’è
la Tradizione, rappresenta un’àncora di salvezza e una mappa preziosa
nell’orientamento in un mondo ormai senza direzioni: «Quest’opera che mal
ricordo si ristampa; parla di una possibilità etica, d’una divaricazione artefatta
tra male e bene. E’ un sortilegio, contrario a come penso oggi. Perché lo
tentai?
Ero a quel tempo sfiorato, impensierito dalla depravazione circostante tanto
da volerla fugare; raccattai ciò che nella storia dell’Occidente poteva apparire
limpido e fermo e ne feci il centro di un mandala, nel quale tutto si
rischiarasse e il disordine allentasse la presa»[174].
Tutto si rischiarasse sino a diventare pura luce di conoscenza religiosa, cioè
sacra. La celebre rivista[175] fondata da Zolla nel 1969 sta proprio ad
attestare tale atteggiamento sincretista e aconfessionale del filosofo. Scrive a
tale proposito Grazia Marchianò:
«L’esoterico è ben celato, ma nel senso che sta ben in vista dove nessuno
se l’aspetta. Oggi non si trova certo nelle scuole esoteriche che si dicono
tali, ma sì nei laboratori di fisica o di neurofisiologia. […] E’ ben questo il
tema del libro di Castaneda The eagle’s gift (1981), che tutto sia
reminiscenza. Il libro parla di verità che non si possono comprare ai
giardini, come le droghe di cui Castaneda trattava nei suoi primi libri. Qui
egli è infinitamente più pericoloso: ha raggiunto la libertà di concezioni
della fisica moderna, di cui nessuno osa prendere atto fuori dei laboratori.
[…] Corpuscolo o onda? David Finkelstein talmudicamente risponde con
una domanda: - Perché un’alternativa sola? E osserva: a conti fatti con la
fisica ultima, resta una sola sostanza, il tempo. Non sembra di averlo già
letto nella dedica del Candelaio? “Il tempo tutto toglie e tutto dà… è uno
solo, è eterno e può perseverare eternamente uno simile e medesimo. Con
questa filosofia l’animo mi s’aggrandisce, e me si magnifica l’intelletto”,
gioiva Bruno»[180].
2. I tre dogmi.
Il terzo dogma introduce di fatto quella che viene definita la pars destruens
del pensiero zolliano, quella relativa alla prima fase della sua opera: gli anni
Sessanta. In essa il filosofo, sferra un attacco frontale all’architettura sociale
del mondo moderno, rea di rendere l’uomo vittima inconsapevole del
consumismo e della mercificazione. Pur palesando evidente assonanza con i
principi della Scuola di Francoforte, Zolla in realtà se ne distacca fortemente
nel momento in cui va oltre la critica in sé, proponendo oltre che
distruggendo - in questo senso la pars destruens non è altro che la premessa
alla pars costruens, la quale è in nuce alla critica. Le riflessioni di questo
periodo palesano invece non poche affinità con le critiche di Assagioli già
analizzate in precedenza.
Grazia Marchianò puntualizza:
In sostanza questa società, questa civiltà è per Zolla diabolica, essa scinde
l’uomo, lo spezza, lo deturpa di quella parte spirituale che gli è congenita, e
instilla in lui la repulsione per essa: «Questa virtù contemplativa è propria
non solo dei mistici o di uomini di inclinazioni artistiche […]; piuttosto essa è
nota a chiunque racchiuda in sé un nucleo di quiete e spontaneità
spirituale»[218].
Tale quiete e spontaneità spirituale risulta però di complessa realizzazione nel
mondo della tecnica e del “progresso”: «Se è lasciata a se stessa, l’anima è
esposta al turbamento e a ogni tipo di suggestione, ma diventa capace di
purezza e si acquieta una volta che sia sottomessa allo spirito e questo si
avvalga della mente. Per l’uomo moderno questi rapporti gerarchici tra le
parti di se stesso appaiono incomprensibili perché la sua anima è ridotta a un
luogo dove si scatenano processi psichici artificiosi, alienata alle potenze
sociali che lo circondano»[219]. Tali potenze riescono a imprigionarlo nel
modo più sadico e scientifico: non solo mascherano i loro intenti diabolici ma
addirittura lo convincono della loro funzione edificante, socialmente e
moralmente elevata, a tal punto che egli diventa assuefatto, schiavo e a sua
volta (più o meno inconsapevolmente) schiavizzante con i suoi simili. La
società moderna crea nell’intimità dell’ individuo, attraverso minuziosi
processi subliminali, il bisogno per essa, per i suoi servizi, per le sue leggi di
mercato che modellano comportamenti e attitudini preordinate, dunque più
facilmente controllabili, prevedibili e manovrabili; «quasi» una dittatura
camuffata da democrazia che convince l’uomo della sua libertà creandogli
intorno una schiavitù a lui invisibile e incomprensibile: è la civiltà del
diavolo: «E’ necessario infatti avvedersi (ciò che molti ancora ripugnano a
fare) che la civitas diaboli non si avvale più delle vecchie armi,
dall’oscurantismo reazionario al dogmatismo ecclesiastico all’astrattezza
terroristica rivoluzionaria, ma per la sua persecuzione fanatica della libertà e
dell’umano non ha più bisogno di chiedere soccorso a sofismi plausibili,
ovvero a un’arma infida tra le sue mani, poiché ormai dispone di un apparato
industriale, un’Alcina che quietamente seduce le sue vittime sussurrando: “io
ammazzerò il vostro tempo”»[220] .
E’ un’agonia lenta e inesorabile quella di cui è vittima inconsapevole l’uomo
moderno, sottoposto a costanti esperimenti nullificanti le sue facoltà mentali.
L’analisi zolliana dei danni provocati dai mass media è inesorabile:
«Alle sciagure che hanno gravato da sempre sulla vita dell’uomo, la morte,
la malattia, la vecchiaia, la fame, s’è aggiunta in questo secolo una
disgrazia meno vistosa ma forse proprio per questo più disperante: la
riduzione dell’uomo a strumento passivo di accorte manipolazioni. Le
dittature hanno tentato di plasmare artificiosamente i giovani, la tecnica
dell’imbottimento dei crani ha tentato di spegnere nelle masse ogni
spontaneità, ma ora la nuova tecnica pubblicitaria e in particolare la
pubblicità subliminale, si sono imposte in modo indiscreto e letale»[221].
A conferma di ciò Zolla prende in esame gli studi del neurologo viennese
Poetzi, il quale nel 1917, dimostrò attraverso un esperimento che gli oggetti
che cadono nel campo visivo possono anche situarsi in una posizione
periferica in modo del tutto incosciente sebbene efficace. Attraverso il
tachitoscopio, uno strumento che proietta le immagini per una frazione di
secondo, Poetzi rivelò quanto reali e determinanti fossero le conseguenze di
questa efficacia:
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ABSTRACT
The conception of the artist's world, sunken in a reality alien to him because
of its differing qualitative density, emerges from the texts and illustrates the
itinerary of Gurdjieff's Fourth Way.
This essay intends to propose a reflection on the indissolubile union between
the artist's path and the way of initiation, between artistic creation and
creation of the self, indicating how the two itineraries, mutually enriching one
another, becoming better by virtue of their very alchemy.
La concezione del mondo dell’artista, calato in una realtà a lui aliena per
diverso spessore qualitativo, emerge dai testi ed evidenzia il percorso della
Quarta Via di Gurdjieff.
Questo saggio intende proporre una riflessione sull’indissolubile connubio tra
cammino artistico e cammino iniziatico, tra creazione artistica e creazione di
sé, evidenziando come i due percorsi, arricchendosi a vicenda, migliorino
proprio in virtù della loro alchimia.
Le scienze e le religioni pretendono di spiegare l’eterna domanda del senso
dell'esistenza, la profonda dicotomia tra il materiale e lo spirituale.
L'Arte deve unire questa dualità, il suo terreno è lo
spazio tra l'uno e l'altro.
Dino Valls
«L’intelligenza si acquista. Più studi bene, più studi «a spirale», più diventi
intelligente. L’intelligenza è la comprensione. Più comprendi più sei
intelligente. […] Più spazio invadi con il pensiero, più intelligente sei»[235].
«L’uomo spesso ritiene che i pensieri siano senza vita; egli non si accorge
che essi sono più vivi dei germi fisici e hanno una nascita, infanzia, gioventù,
maturità e morte. Essi agiscono, secondo la loro natura, per il vantaggio o lo
svantaggio dell’uomo. Il sufi li crea, li modella, li controlla. Egli li addestra e
li domina durante tutta la sua vita; essi sono il suo esercito ed eseguono i suoi
desideri»[236].
«La nostra mente, le nostre azioni sono la «causa», gli effetti invece sono il
destino»[237]. «La Mente è qualcosa di stupefacente/un tesoro/che soddisfa il
desiderio/uno scrigno/di ogni possibile cosa»[238].
Non sono le parole di un filosofo o di un educatore (nel senso alto del
termine), sono le parole di Franco Battiato, che definire cantante, con tutto il
rispetto per la nobiltà dell’arte, risulta al quanto riduttivo. Probabilmente egli
è anche un filosofo, è anche un educatore, sicuramente è anche un
regista[239] e anche un pittore[240]. E’ filosofo perché si interroga, si pone
dei quesiti che sono fondamentali e implicitamente li pone a noi, con
delicatezza estrema e al contempo spiazzante, con quello stile indiscusso che
solo all’iperboreità congenita del suo ingegno appartiene. E’ un educatore
poiché insegna, e quale modo migliore che farlo tramite un’arte, un «metodo»
che sembrerebbe difficile ma a lui viene naturale - d’altronde è qui che
riconosciamo il genio, come afferma Bukowski «genio è l’uomo capace di
dire cose profonde in modo semplice», un individuo che svela l’insvelabile,
l’impensato, un individuo anfibio a contatto tra due mondi, visibile e
invisibile. Tali mondi nel momento dell’ispirazione si toccano ed è in questo
momento che l’artista espleta la sua funzione precipua: è lì che egli si trova in
quell’attimo fuori da tempo e spazio: «Ho capito col tempo che l’ispirazione
è soprasensibile. E’ successo anche per La cura. «Senti» che qualcosa di
superiore ti arriva, ti attraversa»[241]. E ancora, in un’altra intervista: «E’
qualcosa che ti arriva. Tu, in questo caso, sei solo un mezzo di
comunicazione tra due mondi»[242].
Il percorso artistico e umano di Battiato[243] è profondamente segnato da
un’incessante anelare al superamento, al perfezionamento, all’evoluzione,
un’evoluzione sapiente, che al contempo è bellezza, di qui la sua forza, il suo
ancestrale potere: l’elemento estetico è saldato a quello conoscitivo in una
spasmodica tensione che riempie e ripropone se medesima incessantemente:
«Credo di essere un po’ monotematico: tutto si riduce sempre alla stessa
questione; non riesco ad allontanarmi dal concetto di evoluzione, per cui una
persona bella è una persona evoluta. […] L’apice di un’evoluzione porta
necessariamente con sé la bellezza. […] Quando vedi una persona entrare in
una stanza, ti accorgi immediatamente del mondo che porta in giro»[244].
Segnali di vita comincia così: «Il tempo cambia molte cose nella vita/Il senso
le amicizie e le opinioni/Che voglia di cambiare che c’è in me/Si sente il
bisogno di una propria evoluzione/Sganciata dalle regole comuni/Da questa
falsa personalità»[245]. Sul tema della personalità riemerge più preciso in
Personalità empirica dove la calda voce di Sgalambro recita in francese dei
versi inequivocabili: «Il faut abandonner la personalitè pour retrouver votre
je/Changer dame, cheval et chevalier /Changer d’habit baton et penseé»[246],
in cui tra le righe echeggia la suddivisone dell’essere secondo Gurdjieff, il
quale scindeva l’essere in corpi distinti simboleggiati da carrozza (corpo
fisico), cavallo (corpo astrale, le emozioni), cocchiere (corpo mentale,
l’intelletto) e infine padrone (corpo causale, il Sé) che deve fare sentire la sua
voce agli altri corpi, per comandarli, (da cui la citazione del titolo dell’album
del 1981 La voce del Padrone, rimasto in classifica per oltre un anno con
milioni di copie vendute) [247].
Sgalambro in questi versi invita appunto a cambiare pensiero radicalmente,
un cambio totale e definitivo (lo stesso filosofo tra l’altro nell’opera Anatol
sentenzia così: «Una filosofia che non fa dimenticare tutte le altre non vale
niente»)[248]. Le parole seguenti, stavolta stupendamente cantate da Natasha
Atlas, corroborano icasticamente la stessa ottava dell’invito sgalambriano:
«Quand l’image que tu as de toi ne coincide plus avec ce que tu es
réellement/quand tu commences à hair les automatismes de ta facon d’agir/et
quand les chagrins prennent le pas sur la joie de vivre/avec les peines que
nous apportent l'existence/et tu vas chercher des espaces inconnus/pour une
nouvelle conscience»[249].
Cambiare pensiero, cambiare se stessi, cambiare tutto e infine allenare la
mente a nuovi stati di coscienza. Perché? Per affinare la machina biologica,
per conoscerla e per renderla meno meccanica, più consapevole, più
autoritaria, più libera: per trascenderla. Perché le potenze congenite dentro di
noi vanno svelate, scoperte, risvegliate, scoprire se stessi equivale a superarsi,
«deificarsi», la stessa parola yoga significa giogo, ossia unione, «unione di
umano e divino». Attivare le potenzialità latenti significa scoprire il divino
che dimora in noi, già Eliade affermava: «Lo Hatayoga torna a vivificare la
concezione arcaica del corpo umano che può essere divinizzato. […] il corpo
non è più «la fonte dei patimenti», ma l’istrumento più sicuro e più completo
di cui l’uomo dispone per «conquistare la morte». […] La forza magnificata
dello Hatayoga non è già quella di un atleta, ma la forza di un mago, di «un
uomo-dio»[250]. Wouter Hanegraaff, Professore di Storia della Filosofia
Ermetica all’Università di Amsterdam, approfondisce ulteriormente:
«As human beings we have an inborn capacity for knowing the divine: we
are not dependent on God revealing Himself to us (as in classic accounts of
monotheism, where the creature is dependent on the Creator’s initiative),
nor is our capacity for knowledge limited to the bodily sense and natural
reason (as in science and rational philosophy), but, in contrast to both
alternatives, the very nature of our souls allows us direct access to the
supreme, eternal substance of Being. According to the alternative
alchemical model, the attainment of supreme knowledge […] is conceived
of as a latent capacity, or human potentiality, that must be developed in
ourselves by our own efforts: it is the telos, or final goal, of the human
quest»[251].
«Avevo scritto delle mie elucubrazioni in un opuscoletto di un disco (Clic, uscito nel 1974 [N.d.C.]).
Un anno dopo leggendo Frammenti di un insegnamento sconosciuto su Gurdjieff, ritrovai la stessa
base teorica! Sono stati momenti di gioia irresistibile! Da cieco autodidatta, da sperimentatore
empirico, avevo trovato qualcuno che aveva sistematizzato in maniera perfetta i miei balbettii.
All’inizio degli anni Settanta ho sentito la necessità di coprire le immense lacune che avevo. Una
volta presa la maturità avevo già dimenticato tutto quello che avevo studiato, perché non era una
conoscenza reale»[259].
Tuttavia per fare ordine e per confermare la sua «più grande passione», la
pars nobilior di tutte le religioni, cioè la mistica, ascoltiamo ancora l’eccelso
artista siciliano:
«Se vogliamo usare la cronologia, prima viene l’India, quindi il misticismo indiano, poi il sufismo,
con lo studio della lingua araba, siamo negli anni Settanta, Gurdjieff, buddhismo. Naturalmente non
è che sono tutti così separati, perché all’interno di un periodo approfondivo i mistici cristiani
occidentali. Ho avuto una forte passione insieme al sufismo per l’ortodossia, quindi i Padri del
deserto e Silvano del Monte Athos, Serafino di Sarov ecc. Tutti questi sono stati delle colonne
portanti».
Tale dialeghestai conferma tra l’altro l’impossibilità di un approccio non
sincretista nel milieu esoterico - lo stesso Zolla affermava: «Sono
perfettamente sovrapponibili il bramino praticante e il maestro
platonico»[260].
Battiato dunque, ha intrapreso questo tipo di percorso, scegliendo Gurdjieff:
«Io ho seguito la sua scuola per circa dieci anni e vi sono tutt’ora legato.
Esistono cose per le quali trovo questa scuola assolutamente perfetta. Altre
possono essere sviluppate in altro modo. Ma la scuola gurdjieviana è stata per
me straordinaria»[261].
La scuola di Gurdjieff mira al perfezionamento di sé: «La base di questa
scuola è il centro di gravità permanente. E’ il grado di coscienza di sé. Anche
se sono varie le possibilità di perfezione del proprio Sé. E’ quel grado di
conoscenza che ti porta a una tua verità personale, che, come conseguenza, si
riflette all’esterno in una proiezione di giustizia e precisione»[262].
Trasmutando il mondo interiore, quello esteriore viene parimenti trasmutato
secondo un’antica e profonda verità esoterica, riscontrabile in ogni vera
tradizione iniziatica, come già Elémire Zolla ricordava: «Dalla trasmutazione
dell’interiorità umana tutto dipende? Dall’ordine dentro di me dipende quello
del mondo attorno a me? Se io divento pura e infinita luce, la materia attorno
a me sarà del pari trasmutata: dal mio carattere dipende il mio destino, dal
mio cuore il mio ambiente. I miei peccati sono lo spessore e l’asperità del
reale. Ardua, esoterica verità!»[263]
In questo gioco di specchi magici tra interiorità ed esteriorità, è ovviamente
l’interno che assurge a fondamento precipuo ed essenziale è la
consapevolezza di viverci, di lavorare da lì: ambula ab intra appunto. La
differenza tra essere dentro o fuori dal centro è una questione cruciale:
«Quando diciamo che una persona è fuori centro, che non ha centro,
diciamo che è scentrata. Senti che le manca quella cosa che gli orientali
fanno arrivare sotto il plesso celiaco. E la possiamo determinare con un
esempio di legge fisica: c’è un punto in cui una persona è in equilibrio su
di sé; un altro punto in cui basta un po’ di vento per farti cadere giù. E’ il
centro intorno al quale ruota tutto il mondo della percezione e
dell’impressione: è una posizione dalla quale tutto il resto è periferia, una
posizione dalla quale vedi tutto il mondo. Esiste un collegamento con il
controllo delle emozioni. Si tratta di un’idea di unità portata alle estreme
conseguenze, contro la frammentarietà dell’essere, e per l’Essere Uno. Il
centro perfetto – veramente difficile da raggiungere – è la possibilità di non
avere dubbi su niente perché tutto è chiaro. Da quel punto si vede con
chiarezza e perfezione. Ma ci sono vari livelli».[264]
Già lo stesso Gurdjieff affermava: «In realtà, la coscienza è una proprietà che
cambia continuamente. Ora è presente, altre volte manca. E vi sono diversi
gradi, differenti livelli di coscienza»[265].
La realtà dei vari livelli rimanda al leitmotiv della produzione artistica e
filosofica di Battiato: il perfezionamento, l’evoluzione e, dunque, il
centramento.
Ad una conferenza a Scicli, in Sicilia, nel 1997, Battiato, partendo un celebre
pensiero del Maestro armeno, approfondisce la questione del Centro:
«Mi è arrivata una freccia avvelenata, se mi chiedo chi è stato il veleno avrà tutto il tempo di
mettersi in circolo e di uccidermi. Allora è meglio che intanto mi curi. Gurdjieff riassume la
tensione tipica di tutte le costruzioni del pensiero religioso, volto alla costruzione dell’homo novus,
alla «metanoia» (dal greco: cambiare mente), a quello che il cattolicesimo chiama «pentimento»,
aggiungendo la nozione di colpa a quella dell’evoluzione dell’essenza della persona. Questo
desiderio di crescita, banalizzando, viene sintetizzato da Gurdjieff nella teoria del centro di gravità
permanente come luogo utopico della propria autoconsapevolezza e della massima evoluzione.
Sapere di essere fondamentalmente un assassino e migliorarsi è molto meglio che sentirsi
benefattore e perpetuare i propri errori. Vi risparmio, a questo proposito, il mio giudizio sui politici
che appaiono in televisione»[266].
La ricerca del «centro» in Battiato avviene per via estetica: il suo percorso
iniziatico è supportato e al tempo stesso trasceso e trasmutato dall’arte che
sembra essere lo strumento, la nave o meglio «il vascello vagabondo arrivato
da ogni confine per soddisfare i suoi desideri» (parafrasando Invito al
viaggio)[267], i quali sono sempre proiettati alla ricerca, alla conoscenza e
all’acquisizione di sé. Potremmo dire che il Maestro[268] sublima nell’arte i
suoi vari traguardi raggiunti nell’esperienza del viaggio verso la
consapevolezza.
In un’intervista a Rai Educational l’artista è chiarificatore:
«Considero la mia carriera molto omogenea con una permanenza di impulsi e di desideri sempre
uguali, sempre in una direzione. Questo da un certo punto di vista mi piace, perché il desiderio
primario è sempre stato lo stesso, la ricerca, il gusto, la voglia di scoprire il perché di questo viaggio,
questa in sintesi è la mia carriera. Come musicista trasformo le esperienze personali e quello che
considero un modo di intendere un mondo, una filosofia di vita, trasformo questo pensiero in
musica, in comunicazione, facendo questo mestiere come una testimonianza, del mio percorso, delle
mie idee che di volta in volta cambiano, o restano uguali»[269].
«Il mistero dell’Amore è quello di scendere alle radici non solo della propria umanità, ma soprattutto
della propria umiltà di esseri: solo così si potrà capire che in fondo, chi prima chi dopo, chi con un
mezzo chi con un altro, chi più lentamente chi più rapidamente, siamo tutti avviati, nell’ambito di un
progetto cosmico, per mezzo di un lungo viaggio di cui Battiato parla in un brano denso di richiami
iniziatici ed esoterici, Via Lattea, partendo dalle porte di Sirio, a portare avanti e concludere una
missione cosmica pensata da una Grande Mente Universale […] E quando prenderemo, finalmente,
coscienza di questa Mente Universale, potremo accorgerci di come essa e la nostra Mente
individuale attuale siano la stessa cosa, nella compresenza ad assoluta unitarietà del Tutto.
Allora capiremo che la “Sua Volontade” in cui è “nostra pace” è la nostra stessa Volontade, per
rifarci ancora una volta al grande Iniziato Dante Alighieri […]»[281].
Tat tvam asi, come recita un celebre mantra sanscrito, letteralmente: «tu sei
quello», cioè tu sei Dio, tu e Dio siete la stessa cosa[282]; Battiato ne
propone una citazione nel brano I’m that[283], «io sono quello» appunto.
Macro e micro cosmo sono uniti attraverso legami ben precisi come anche
insegnava Gurdjieff che vedeva nell’uomo l’intero universo in
miniatura[284]. Tale visione, che come si è sottolineato rimanda alla
concezione rinascimentale dell’uomo, viene splendidamente rievocata da
Battiato proprio nella sua ultima opera dedicata a Bernardino Telesio
presentata sotto forma di ologrammi, in cui il rimando alla meccanica
quantistica e in particolare alla (meta)fisica di David Bohm è oltremodo
palese[285].
L’affinità dell’arista siciliano a filosofie perenni, riproposte più o meno
implicitamente tanto da alcuni coraggiosi scienziati che abbracciano il
modello olografico, come appunto Bohm e Pribram, quanto da tutti quei
filosofi ermetici o tradizionali del passato e del presente, è riscontrabile in
tutta la sua produzione artistica e non mi riferisco solo a quella musicale, ma
anche a quella cinematografica e pittorica[286]. Una conferma in più che il
definire Battiato con l’aggettivo «cantante» o «cantautore» è decisamente
errato. Quando canta, le sue istantanee dal realismo incisivo e spiazzante, che
spesso di colpo scolora nel surreale per poi repentinamente,
incomprensibilmente, tornare «in sé», additano e corroborano l’illusorietà del
tangibile, quel formicolio di particelle che sembra concreto solo perché in
moto perpetuo: «Nell’attimo in cui Battiato ci distrae con le sue cartoline
olografiche tra passato e realismo, le parole non contano, come non contano
mai, sono solo inganni, ed eccolo invece già corpo di musica che esprime, per
dirla con Schopenhauer, «l’elemento metafisico del mondo fisico, l’ in sé di
ogni fenomeno», eccolo sfinge che lampeggia in un non tempo e in un non
luogo»[287].
Credo che uno dei tantissimi meriti del Maestro sia quella capacità sublime di
accostare verità invisibili a sguardi realistici, fotografie concrete sul
quotidiano che appartengono a noi tutti. Fondendo e confondendo l’esoterico
al quotidiano, è riuscito a far arrivare certe verità segrete ad orecchie che non
avrebbero mai immaginato esistessero suoni simili.
Questo il grande merito culturale di Battiato, ciò che per Klee era il compito
stesso dell’arte: rendere visibile l’invisibile. Spetta all’ascoltatore interessato
approfondire, meravigliarsi, interrogarsi, all’artista il merito di solleticare
l’intelletto, la curiosità, la sensibilità di chi ammira l’opera. Come affermava
Platone: «è proprio del filosofo essere pieno di meraviglia; né altro
cominciamento ha il filosofare che questo essere pieno di meraviglia».
Franco Battiato, attraverso la sua opera, ha instillato in quei milioni di italiani
che hanno avuto negli anni l’onore di ascoltarlo, quell’attitudine nobile alla
filo-sofia, all’ «amore per il sapere». Egli squaderna la conoscenza tramite la
bellezza.
Non esageriamo se affermiamo che il Maestro ha contribuito ad innalzare il
livello culturale del paese ovviando alle tragedie e alle catastrofi dei nostri
Ministri dell’«Istruzione», infime fiamme della civitas diaboli.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI,
MUSICALI E CINEMATOGRAFICI
CITATI E CONSULTATI.
SAGGI DI BATTIATO
F. BATTIATO, In fondo sono contento di aver fatto la mia conoscenza,
Bompiani, Milano 2007.
LP DI BATTIATO
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F. BATTIATO, La voce del padrone, Emi 1981.
F. BATTIATO, L’arca di Noè, Emi 1982.
F. BATTIATO, L’ombrello e la macchina da cucire, Emi 1984.
F. BATTIATO, Orizzonti perduti, Emi 1983.
F. BATTAITO, Personalità empirica, in «Ferro battuto», Sony, 1992.
SINGOLI DI BATTIATO
F. BATTIATO, E ti vengo a cercare in «Fisiognomica», Emi 1988.
F. BATTIATO, Ermeneutica in «Dieci stratagemmi», Sony 2004.
F. BATTIATO, Centro di gravità permanente in «La voce del Padrone», Emi
1981.
F. BATTIATO, Gli uccelli in «La voce del padrone», Emi 1981.
F. BATTIATO, Il silenzio del rumore in «Pollution», Bla Bla 1972.
F. BATTIATO, I’m that, Le aquile non volano a stormi, Tra sesso e castità,
Ermeneutica in «Dieci stratagemmi», Sony 2004.
F. BATTIATO, Invito al viaggio, in «Fleurs», Universal 1999.
E. BATTIATO, Le sacre sinfonie del tempo in «Come un cammello in una
grondaia», Emi 1991.
F. BATTIATO, Magic shop, in «L’era del cinghiale bianco», Emi 1979.
F. BATTIATO, Prospettiva Nevskij in «Patriots», Emi 1980.
F. BATTIATO, Tutto l’universo ubbidisce all’amore, cantata con Carmen
Consoli in «Fleurs 2», Mercury records, 2008.
F. BATTIATO, Testamento, Eri con me, Aurora, in «Apriti sesamo»,
Universal 2012.
F. BATTIATO, Up patriots to arm I «Patriots», Emi 1981.
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E. ZOLLA, Lo stupore infantile, Adelphi, Milano 1994.
E. ZOLLA, Verità segrete esposte in evidenza, Marsilio, Venezia 1990.
Il vero iniziato è chi dopo un assiduo lavoro ed una efficace pratica della
dottrina, perfezionato, evoluto, sorpassa i gradini del più alto visibile mondo
volgare e entra nel mondo delle cause, rinunciando a quello degli effetti.
Giuliano Kremmerz