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I libri di Airesis

Collana diretta da Paolo Aldo Rossi e Massimo Marra

n. 12
FRANCESCA VAGLIENTI

SQUARCI
NEL MEDIOEVO
Tradizione e sperimentazioni

MIMESIS
Airesis
© 2012 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)
Collana Airesis, n. 12
ISBN 9788857508375
www.mimesisedizioni. it / www.mimesisbookshop.com
Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI)
Telefono +39 02 24861657 / 24416383
Fax: +39 02 89403935
Via Chiamparis, 94 – 33013 Gemona del Friuli (UD)
E-mail: mimesis@mimesisedizioni.it
INDICE

UNA DISCIPLINA IN DIVENIRE p. 7

L’IDEA DI MEDIOEVO p. 15

INTERPRETAZIONI DEL MEDIOEVO p. 25

MEDIOEVO E PERIODIZZAZIONE p. 43

ANTROPOSTORIA: ANTROPOLOGIA FISICA E RICERCA STORICA p. 55

LE FONTI VISIVE TARDO MEDIEVALI:


DA STRUMENTO DI PROPAGANDA A STRUMENTO DI RICERCA p. 75

SINCRETISMO DISCIPLINARE p. 95

LE FONTI STORICHE p. 115

POTERE DELLA PAROLA, POTERE DELL’IMMAGINE p. 141

TERZO POTERE: IL SAPERE p. 157

UN MONDO DI CORRISPONDENZE p. 171

PIETRE CHE GRIDANO p. 193

STRUMENTI DI RICERCA p. 217


7

CAPITOLO 1
UNA DISCIPLINA IN DIVENIRE

1.1 A che serve la Storia?

Marc Bloch (Lione 1886-Lione 1944) esordisce così nell’introduzione


della sua Apologia della Storia o il mestiere di storico, edita postuma da
Lucien Febvre nel 19491.
Nella domanda è riassunto per intero il senso della nostra civiltà occi-
dentale e mediterranea che, a differenza di altri tipi di civiltà, si è sempre
confrontata con la propria memoria. Tutto ve la induceva: la tradizione
ebraico-cristiana al pari di quella classica. Egizi, Greci, Latini, i primi no-
stri maestri, erano popoli storiografi. Il Cristianesimo è una religione di
storici. Di più, per il Cristianesimo si svolge nella durata, e perciò nella
storia, il grande dramma del Peccato e della Redenzione.
La nostra arte è ricca di echi del passato, i nostri leader hanno continua-
mente sulle labbra i suoi insegnamenti, veri o presunti. Ogni volta che le
nostre anguste società, in continua crisi evolutiva, iniziano a dubitare di se
stesse, si domandano se abbiano avuto ragione di interrogare il loro passa-
to, oppure se lo abbiano interrogato bene.
Di certo, anche se la storia si ritenesse non servire ad altro, resterebbe
a suo favore il suscitare curiosità, come dimostra il costante moltiplicarsi
degli editoriali e dei programmi a essa dedicati, sino a interi canali televisi-
vi, seppur talvolta con esiti discutibili. La storia, è indubbio, ha godimenti
estetici propri, dissimili da quelli di ogni altra disciplina, perché lo spetta-
colo delle attività umane, suo oggetto peculiare, è il più idoneo a sedurre
l’immaginazione degli uomini, soprattutto poi quando, lontane nel tempo e
nello spazio, il loro dispiegarsi si adorna delle sottili seduzioni del “diver-
so” e dell’ “altrove”.
Togliere alla scienza il suo soffio di poesia e credere che la storia sia
meno capace di soddisfare la nostra intelligenza per il fatto che esercita un

1 M. BLOCH, Apologia della storia o il mestiere di storico, introduzione di L. Febvre,


a cura di G. Arnaldi, trad it. G. Pischedda, Einaudi, Torino 19818.
8 Squarci nel Medioevo

possente richiamo anche sulla sensibilità è una straordinaria sciocchezza.


Nessuno oggi oserebbe più dire, con i positivisti ortodossi, che il valore
di un’indagine è determinato interamente dalla sua capacità aprioristica di
servire all’azione.
Vero è che il nostro intelletto tende, per sua natura, assai più a voler
comprendere che a voler sapere. Ne consegue che esso giudica autentiche
solo quelle scienze che giungono a stabilire nessi esplicativi tra i fenome-
ni. La storia, dunque, anche indipendentemente da qualsiasi applicazione
alla condotta pratica, ha il diritto di rivendicare il suo posto tra le forme
di conoscenza veramente degne di sforzo soltanto se promette una classi-
ficazione razionale e una progressiva intelligibilità, anziché una semplice
enumerazione senza nessi e quasi senza limiti.
Pure, non si può negare che una scienza la quale, prima o poi, non ci aiuti a
vivere meglio ci parrà sempre incompleta, tanto più per una materia destinata
a giovare all’uomo in quanto ha per oggetto l’uomo stesso e le sue azioni.
«La storia – affermava Albert Camus (Actuelles I) – non è altro che lo
sforzo disperato degli uomini di dar corpo ai più chiaroveggenti fra i loro
sogni».
Il problema dell’utilità della storia, nel ristretto significato pragmatico
del termine “utile”, non deve però essere confuso con quello della sua le-
gittimità, più propriamente intellettuale. Oltre a una scienza in cammino, la
storia è una scienza nell’infanzia, al pari di tutte quelle che hanno come og-
getto lo spirito umano, giunto tardi nella sfera della conoscenza razionale.
La storia, vecchia nella forma embrionale del racconto, per lungo tempo
intrisa di finzioni, ancora più a lungo vincolata ai soli avvenimenti afferra-
bili con immediatezza, è giovanissima se interpretata come lavoro ragio-
nato di analisi. Stenta a penetrare al di sotto dei fatti esteriori, a respingere,
dopo le lusinghe della leggenda o della retorica, i veleni, oggi più pericolo-
si, della pratica erudita e dell’improvvisazione pressapochistica, camuffata
da senso comune. Per questo è ancora considerata «la più difficile di tutte
le scienze». E per questo, a favore della storia, si ha diritto di chiedere
l’indulgenza dovuta a tutti gli esordienti: «L’incompiuto, che eternamente
tenda a superarsi, irradia, su ogni spirito un po’ ardente, un fascino pari a
quello del risultato più perfetto».

1.2 Storia di uomini

Il vocabolo «storia» (dal greco historìa, ricerca, indagine, cognizione)


è antichissimo, tanto vecchio che in più occasioni se ne è avvertita la stan-
Una disciplina in divenire 9

chezza. Il termine non preclude, a priori, alcuna direzione di indagine, sia


che ci si volga di preferenza all’individuo o piuttosto alla società, alla de-
scrizione delle crisi temporanee o alla continuità degli elementi più costan-
ti; non contiene in sé alcun credo e, coerentemente alla sua etimologia, non
impegna che alla ricerca.
Ancora oggi si sente dire che «la storia è la scienza del passato»: tutta-
via, a ben rifletterci, è assurda l’idea che il passato, come tale, possa essere
oggetto di scienza, o meglio rendere oggetto di conoscenza razionale fe-
nomeni non aventi altri caratteri in comune fuorché quello di non essere
a noi coevi. Certo, agli albori della storiografia, gli antichi annalisti non
avevano scrupoli e narravano alla rinfusa avvenimenti il cui solo legame
era d’essere accaduti nel medesimo momento: eclissi, grandinate, parti mo-
struosi, insieme a battaglie, morte di eroi e sovrani, epidemie, saccheggi. È
altresì vero che il linguaggio, sostanzialmente tradizionalista, conserva la
denominazione di «storia» a qualsiasi studio di un mutamento nel tempo;
ma queste storie (del sistema solare, delle eruzioni vulcaniche ecc.) non
appartengono alla storia degli storici.
«L’oggetto della storia è, per sua natura, l’uomo. O meglio: gli uomini.
La storia – sostiene Bloch – vuol cogliere le società umane al di là delle
forme sensibili del paesaggio, degli arnesi o delle macchine, degli scritti in
apparenza più freddi e delle istituzioni in apparenza più lontane da coloro
che le hanno create e subite. Chi non vi riesce non sarà, nel migliore dei
casi, che un manovale dell’erudizione. Il buono storico somiglia all’orco
della fiaba: là dove fiuta carne umana, là sa che è la sua preda».
La storia è scienza degli uomini nel tempo. L’aria in cui il pensiero dello
storico respira è la categoria della durata. Il tempo della storia, realtà con-
creta e viva restituita all’irreversibilità del suo corso, è il plasma in cui si
collocano i fenomeni, è il luogo della loro intelligibilità. Il tempo è, per sua
natura, continuità, ma è anche perpetuo mutamento. Dall’antitesi tra questi
due attributi derivano i grandi temi della ricerca storica. E prima di ogni
altro, in quale misura, nel ritagliare due periodi successivi nell’ininterrotto
susseguirsi delle età, la conoscenza del periodo più antico va considerata
necessaria o superflua all’intelligenza della più recente.
Nell’evoluzione del pensiero storico l’ossessione delle origini (idolum
tribus) ha dominato spesso sino all’ipnosi, tanto da trasformare, nel vo-
cabolario comune, le «origini» in un inizio che spiega, o peggio, che è
sufficiente a spiegare, ingenerando un altro diabolico nemico della storia
genuina: la mania del giudizio. Qualunque sia l’attività umana studiata, il
medesimo errore attende al varco i ricercatori di «origini», ossia confon-
dere una filiazione con una spiegazione (la quercia nasce dalla ghianda,
10 Squarci nel Medioevo

ma questa diventa e resta quercia soltanto mediante condizioni ambientali


favorevoli che non dipendono più dall’embriologia). Questo fondamentale
principio nella metodologia della ricerca è stato di recente recepito anche
da una delle più innovative e moderne branche della scienza, la genetica,
che, con l’epigenetica, indaga le modalità con cui i geni interagiscono con
l’ambiente, nel tempo, ammettendo quindi un’interferenza di entrambi i
fattori sui caratteri ereditari.

1.3 Ambiguità della storia

Si è dibattuto a lungo sulle «origini del sistema feudale». In passato, sono


state alternativamente individuate nel mondo romano e nelle consuetudini
delle popolazioni germaniche. La causa di questi miraggi è evidente: in
entrambi i contesti, infatti, vigevano determinate usanze – rapporti di clien-
tela, abitudine del capo militare di circondarsi di fedeli compagni d’arme,
funzione della tenure come compenso di servizi -, che le generazioni eu-
ropee successive, nell’epoca cosiddetta “feudale “, avrebbero perpetuato.
Tuttavia, non senza profonde modifiche. In entrambi i mondi, soprattutto,
erano utilizzate parole – beneficio dai latini, feudo dai germani – che queste
generazioni avrebbero continuato a usare, pur conferendo loro, progressi-
vamente e pressoché inconsapevolmente, un significato nuovo.
Gli uomini, per la disperazione degli storici, non hanno infatti l’abitu-
dine di mutare il vocabolario ogni volta che mutano abitudini, soprattutto
allorquando il linguaggio è riferito a un contesto istituzionale, quasi l’unico
a esserci pervenuto dai secoli alti del Medioevo. Come avviene per qual-
siasi altra scienza, occorre porre molta attenzione nell’uso di determinati
vocaboli, in rapporto al loro specifico significato in un momento dato (es.
terra e territorio).
Ne consegue, peraltro, che un fenomeno storico non è mai compiutamen-
te spiegato se si prescinde dallo studio del momento in cui si verifica e, nel
contempo, non si considera la forza d’inerzia di molte creazioni sociali. A
motivo di ciò, l’erudito che non ama osservare intorno a sé né gli uomini, né
le cose, né gli eventi, merita – come sosteneva lo storico belga Henri Pirenne
– il nome di «utile antiquario», ma farà bene a rinunciare a quello di storico.
Lo storico si trova, per definizione, nell’assoluta impossibilità di osser-
vare personalmente i fatti che studia. Nel sentire comune, poiché la cono-
scenza del passato è necessariamente “indiretta”, la stessa è meno atten-
dibile dello studio di fenomeni presenti. In realtà, si tratta di un’illusione:
qualsiasi raccolta di eventi analizzati comprende un’ampia percentuale di
Una disciplina in divenire 11

fenomeni osservati da altri. Gli economisti si servono delle statistiche, i


sociologi dei sondaggi, gli scienziati degli esperimenti condotti in labora-
torio, il cittadino dei mass-media.
Poiché nell’immenso tessuto di eventi, di gesti e di parole che compon-
gono il destino di un gruppo umano, l’individuo non scorge mai più di una
porzione, angustamente limitata dai suoi sensi, dalla sue facoltà intellet-
tive e dalla sua possibilità di accesso alle informazioni, ogni conoscenza
dell’umanità, qualunque sia nel tempo il punto su cui verta, deriverà gran
parte della propria sostanza dalle testimonianze altrui. Su questo punto l’in-
vestigatore del presente non è affatto più favorito dello storico del passato.
La conoscenza di tutti i fatti umani nel passato e della maggior parte
di essi nel presente ha come sua prima caratteristica quella di essere una
conoscenza per via di tracce: spesso, già poche ore dopo l’accadimento di
un evento, risulta impossibile determinare le modalità del suo svolgimento,
talvolta di importanza anche capitale. Ne consegue che, se il passato è per
definizione un dato non modificabile, la conoscenza del passato è un pro-
cesso in fieri, che si trasforma e si perfeziona incessantemente.

1.4 Storia e satira

La satira, nelle sue molteplici forme espressive (arti figurative, teatro,


musica, televisione, cinema) è sovente ricorsa a un’ambientazione storica
medievale per collocare in un tempo lontano e artificiosamente diverso
fenomeni, soprattutto politici, e consuetudini sociali che si proponeva di
stigmatizzare, evitando rischi di censura (non sempre con successo) e, tal-
volta, raggiungendo risultati pregevoli.
Nel campo del fumetto, merita una particolare menzione Il mago Wiz (tito-
lo originale Wizard of Id) fortunata serie di strisce statunitensi creata nel 1954
da Johnny Hart e disegnata da Brant Parker, ambientata in un castello medie-
vale popolato da personaggi comici e sarcastici che esprimono un modo di
pensare e di affrontano problemi quotidiani tipici dei tempi odierni.
Nell’ambito del cinema di animazione, l’epoca medievale è servita da
contesto alla serie Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda (titolo originale
Arthur and the Square Kinghts of the Round Table), parodia della saga
bretone caratterizzata da personaggi e storie fortemente influenzati dalla
striscia Il mago Wiz. Prodotta dall’autore australiano Alex Buzo e dal co-
mico di origine britannica Rod Hull, per la Air Programs International, la
serie comprende 26 episodi della durata di 30’, trasmessi in Italia dalla RAI
in bianco e nero (1966-1968).
Una disciplina in divenire 13

La musica popolare nostrana, con il cantautore e poeta Fabrizio De An-


dré, ha prodotto un esempio alto di satira colta, servendosi della figura
di Carlo Martello nella canzone Carlo Martello ritorna dalla battaglia di
Poitiers (1963)2. In un linguaggio volutamente aulico, sottolineato da una
musica ironicamente solenne, De André e Paolo Villaggio si sono ispirati
alla tradizione medievale e cristiana delle Crociate, dell’onore e della caval-
leria, narrando a modo loro le vicende di Carlo Martello, figlio illegittimo
di Pipino II, che, di ritorno dalla gloriosa impresa di Poitiers contro i Mori,
manifesta la sua umana piccolezza di “maschio cialtrone” approfittandosi
di una povera ragazza del popolo per soddisfare i suoi appetiti sessuali, per
poi fuggire innanzi alla richiesta della fanciulla di un compenso in denaro
per le sue prestazioni.
Il brano si rifà a un antico genere popolare francese diffuso all’epoca dei
trovatori, la “pastorella”, che trattava appunto degli incontri amorosi tra ca-
valieri e popolane, che avvenivano in un’ambientazione bucolica, perlopiù
vicino a ruscelli e specchi d’acqua (nella canzone si tratta di una «chiara
fontanella»). Vi è, inoltre, una citazione dantesca: «Poscia più che ‘l dolor,
poté ‘l digiuno» (Divina Commedia, Inferno, Canto XXXIII, in riferimento
al conte Ugolino), trasformata in «Ma più dell’onor, poté il digiuno».
In un’intervista rilasciata ad Andrea Monda del settimanale “Railibro”
(De André nel ricordo di Paolo Villaggio) Villaggio ha poi dichiarato che
«la scelta dell’ambientazione medioevale fu tutta farina del mio sacco. […]
Fabrizio con la chitarra mi fece ascoltare una melodia, una specie di inno
da corno inglese e io, che sono di una cultura immensa, cioè in realtà sono
maniaco di storia, ho pensato subito di scrivere le parole ispirandomi a
Carlo Martello re dei Franchi che torna dalla battaglia di Poitiers, un epi-
sodio dell’VIII secolo d.C., tra i più importanti della storia europea visto
che quella battaglia servì a fermare l’avanzata, fino ad allora inarrestabile,
dell’Islam. Erano arrivati fino a Parigi, senza Carlo Martello sarebbe stata
diversa la storia dell’Europa. Comunque mi piaceva quella vicenda e la vol-
li raccontare, ovviamente parodiandola. In una settimana scrissi le parole di
questa presa in giro del povero Carlo Martello. La canzone passò abbastan-
za inosservata […]. Qualcuno però notò questa strana filastrocca che sbef-
feggiava il potente Re dei Franchi: fu un pretore, mi pare di Catania, che ci
querelò perché la considerava immorale […]. E pensare che noi eravamo
già stati censurati e avevamo dovuto trasformare il verso finale […]».

2 Il testo è di Paolo Villaggio e Fabrizio De André, la musica di Fabrizio De André.


Ideata nel 1962, venne diffusa l’anno seguente, passando quasi totalmente inos-
servata, per poi essere ripresentata, con successo, nell’album Volume I del 1967.
14 Squarci nel Medioevo

Meno rilevanti, considerato il carattere chiaramente parodistico della


canzone, sono le numerose “licenze poetiche”: per evidenziarne solo alcu-
ne, Carlo Martello non fu mai re, ma solo maestro di palazzo dei sovrani
Merovingi e la battaglia di Poitiers si svolse nel mese di ottobre, non «nella
calda primavera».

Re Carlo tornava dalla guerra lo accoglie la sua terra cingendolo d’allor.


Al sol della calda primavera lampeggia l’armatura del sire vincitor: il sangue
del principe e del Moro arrossano il cimiero d’identico color; ma più che del
corpo le ferite da Carlo son sentite le bramosie d’amor: “se ansia di gloria e
sete d’onore spegne, la guerra al vincitore non ti concede un momento per fare
all’amore; chi poi impone alla sposa soave di castità la cintura ahimè grave
in battaglia può correre il rischio di perder la chiave”. Così si lamenta il re
cristiano, s’inchina intorno il grano, gli son corona i fior, lo specchio di chiara
fontanella riflette fiero in sella dei Mori il vincitor. Quand’ecco, nell’acqua si
compone, mirabile visione, il simbolo d’amor; nel folto di lunghe trecce bionde
il seno si confonde ignudo in pieno sol: “Mai non fu vista cosa più bella, mai
io non colsi siffatta pulzella” disse re Carlo scendendo veloce di sella. “De’
cavaliere non v’accostate, già d’altri è gaudio quel che cercate, ad altra più
facile fonte la sete calmate”. Sorpreso da un dire sì deciso, sentendosi deriso, re
Carlo s’arrestò; ma più dell’onor poté il digiuno, fremente l’elmo bruno il sire
si levò: codesta era l’arma sua segreta, da Carlo spesso usata in gran difficoltà.
Alla donna apparve un gran nasone e un volto da caprone, ma era sua maestà
“Se voi non foste il mio sovrano” Carlo si sfila il pesante spadone “non celerei
il disio di fuggirvi lontano, ma poiché siete il mio signore”
Carlo si toglie l’intero gabbione “debbo concedermi spoglia ad ogni pudore”.
Cavaliere egli era assai valente ed anche in quel frangente d’onor si ricoprì
e giunto alla fin della tenzone, incerto sull’arcione, tentò di risalir; veloce lo
arpiona la pulzella, repente la parcella presenta al suo signor: “Beh proprio
perché voi siete il sire fan cinquemila lire è un prezzo di favor”. “È mai possi-
bile, o porco di un cane, che le avventure, in codesto reame, debban risolversi
tutte con grandi puttane! Anche sul prezzo c’è poi da ridire: ben mi ricordo che
pria di partire v’eran tariffe inferiori alle tremila lire!” Ciò detto, agì da gran
cialtrone, con balzo da leone in sella si lanciò, frustando il cavallo come un
ciuco fra i glicini e il sambuco il re si dileguò. Re Carlo tornava dalla guerra, lo
accoglie la sua terra, cingendolo d’allor. Al sol della calda primavera, lampeg-
gia l’armatura del sire vincitor.

Principali opere citate

M. BLOCH, Apologia della storia o Mestiere di storico, a cura di G. Arnaldi, trad it.
G. Pischedda, Einaudi, Torino 19818.
15

CAPITOLO 2
L’IDEA DI MEDIOEVO

2.1 L’età di mezzo degli umanisti italiani

L’umanesimo italiano è caratterizzato dal recupero della letteratura e,


ancor più, dello spirito dell’antichità classica, concepiti come modelli ide-
ali di stile e di umanità. In parallelo, artisti e artigiani ritennero, in quello
stesso periodo, di aver recuperato, insieme all’abilità tecnica, i valori este-
tici e morali insiti nell’arte antica.
Letterati e artisti, più o meno consapevolmente, delinearono dunque
un itinerario della civiltà: l’epoca intermedia, compresa tra l’età classica
e la loro età, veniva fatta iniziare con le invasioni barbariche e concludere
con la rinascita delle lettere e delle arti, corrispondente cronologicamente
a quello che è riconosciuto comunemente oggi come “Medioevo”, e i ca-
ratteri con cui venne connotata, rozzezza e oscurità, sono quelli che ancora
attualmente sono sovente attribuiti al periodo.
Per gli umanisti italiani, le manifestazioni del pensiero non esaurivano
però tutto il contenuto della storia. Scrittori di storia come Leonardo Bruni
(1370 ca.-1444) o Flavio Biondo (1392-1463), pur partecipi della cultura
umanistica per quanto attinente ai valori letterari, consideravano il corso
della storia diviso tra un’età antica, fino alla caduta dell’impero romano, e
una successiva età “moderna”, che giungeva fino ai loro tempi, durante la
quale si erano formate le istituzioni caratteristiche del mondo in cui viveva-
no: città, comuni, principati, Chiesa. Una concezione la cui matura formu-
lazione si trova nell’opera storica di Niccolò Machiavelli (1469-1527), che
delineò la storia d’Italia come uno svolgimento continuo dalle invasioni
barbariche in poi.
Pare che la prima designazione specifica di “età di mezzo” vada fatta
risalire al 1469, contenuta in uno scritto del vescovo umanista Giovan-
ni Andrea Bussi (1414 ca.-1475) che, riferendosi a un altro più celebre
umanista, Nicolò Cusano, lodò la sua eccezionale conoscenza delle storie
latine, sia antiche sia della “media tempestas”, ossia, come parrebbe di in-
16 Squarci nel Medioevo

tendere, dell’ “età di mezzo”. Peraltro, nel latino del Bussi, “medio” poteva
significare tanto “intermedio”, quanto “meno antico”.
Anche altre espressioni, come “media antiquitas”, “media aetas” e, suc-
cessivamente, “medium aevum”, che ricorrono nel XV e XVI secolo riferi-
te a fatti, testi e autori letterari, ebbero tanto il senso di “intermedio” quanto
quello di “tardivo”, di “più recente” rispetto all’età classica.
Più pericoloso ancora l’equivoco che affonda le radici nell’abusato uti-
lizzo del termine “Rinascimento”. Da Giorgio Vasari (1511-1574) in avanti
il vocabolo «stette a significare la rinascita dell’arte, fu in sostanza un con-
cetto kulturgeschichtlich» (Franco Gaeta) e utilizzarlo in ambito diverso da
quello artistico-letterario genera fraintendimenti e falsi problemi. Secondo
Federico Chabod (1901-1960), la percezione di un’epoca nuova, raccolta
dal Rinascimento, è da ricondurre alla consapevolezza che i coevi avevano
delle strutture economiche, sociali e politiche del tempo e che si manifesta-
va nelle forme letterarie e artistiche, ossia nell’Umanesimo come espres-
sione culturale del Rinascimento.
Il concetto di Rinascimento nasce dunque in correlazione con il concetto
di Medioevo in una contrapposizione che diventa palese principalmente, se
non esclusivamente, quando si prendono in considerazione l’arte e le sue
manifestazioni.

2.2 Arrivano i “barbari”

Gli umanisti francesi e tedeschi del Cinquecento condividevano con gli


italiani la consapevolezza e l’orgoglio di stare vivendo un’epoca di grande
progresso intellettuale, espressa soprattutto nell’affinata comprensione cri-
tica degli autori antichi e delle Sacre Scritture, ma il richiamo all’antichità
classica non aveva per loro quel valore di riferimento culturale nobilitante
che aveva assunto per i colleghi italiani. Nell’età barbarica individuavano
infatti l’origine delle loro istituzioni politiche nazionali, soprattutto della
monarchia, e proiettavano su quell’epoca i loro sentimenti patriottici.
In Germania, la riforma religiosa di Martin Lutero consolidò la coscienza
nazionale e la rivalutazione del passato tedesco faceva parte del program-
ma educativo dei Riformatori che, anche nella storia, cercavano sostegno
alle proprie istanze. Filippo Melantone (1497-1560), collaboratore diretto
di Lutero, e altri seguaci composero storie universali nelle quali rivendica-
vano la funzione dell’impero tedesco nel mondo cristiano e accusavano la
Chiesa romana di averne provocato la rovina, riducendo il popolo germa-
nico in un deprecabile stato di frazionamento e di marginalità politica. Per i
L’idea di medioevo 17

protestanti la causa della decadenza era da individuarsi non nelle invasioni


barbariche, ma nella mondanizzazione della Chiesa, iniziata, a loro dire, al
tempo dell’imperatore Costantino (312-337).
Queste idee furono sistematicamente sviluppate nella Historia Eccle-
siastica dell’umanista istriano Mathias Vlacic (1520-1575), più noto con il
nome latinizzato di Flacius Illyricus. L’opera doveva illustrare la progressi-
va degenerazione della Chiesa dalle origini apostoliche fino al XIII secolo,
quando il Papato si sarebbe trasformato, secondo la polemica protestante,
nella incarnazione dell’Anticristo. Alla sua stesura collaborarono diversi
autori che effettuarono ricerche originali, sebbene non sistematiche, di te-
sti e documenti. L’esposizione era suddivisa per secoli, o centurie, motivo
per cui l’opera viene chiamata anche Centurie di Magdeburgo, dal nome
della città in un fu progettata. Pubblicata tra il 1559 e il 1574, ebbe grande
diffusione nel mondo protestante e contribuì a divulgare l’interpretazione
negativa di un periodo della storia della Chiesa che, a grandi linee, corri-
spondeva a quello individuato dagli umanisti in riferimento alle arti e alle
lettere.
Il grande rinnovamento culturale prodottosi in Europa tra Quattro e Cin-
quecento fece dunque avvertire che tra l’antichità classica, o quella delle
origini cristiane, e il presente si stendeva un’epoca in cui si erano prodotti
consistenti fenomeni negativi.
Per dirla con Carlo Cipolla «Ebbe così inizio il Medioevo i cui primi se-
coli, nella lingua inglese, vengono chiamati “secoli bui” (dark ages). Uno
studioso fece notare, non molto tempo fa, che quei tempi “non erano così
bui per i barbari”. Poiché noi non siamo i “barbari”, i primi secoli del Me-
dioevo restano per noi un’epoca buia. Nel buio avvengono cose strane»1.

2.3 Il Medioevo degli eruditi

Una più netta percezione dell’età di mezzo come periodo storico definito
e concluso maturò lentamente nel corso del Seicento, quando le monarchie
assolute affermatesi in Europa favorirono l’erudizione, utilizzata per esal-
tare le antichità della Chiesa, dell’istituzione monarchica e delle nazioni e
sostenuta da una matura sensibilità filologica, ispirata a criteri metodologi-
ci analoghi a quelli adottati nelle scienze matematiche e fisiche.

1 C.M. CIPOLLA, Allegro ma non troppo. Pepe, vino (e lana) come elementi deter-
minanti dello sviluppo economico dell’età di mezzo. Le leggi fondamentali della
stupidità umana, il Mulino, Bologna 1988, p. 14.
18 Squarci nel Medioevo

Nel 1627, l’erudito olandese Johan Gerard Voss (1577-1449), o Vos-


sius, nella forma latinizzata del cognome, pubblicò in latino una disser-
tazione sugli scrittori di storia divisa in tre sezioni: la prima dedicata agli
autori antichi sino al II secolo d.C.; la seconda a quelli dal III secolo d.C.
sino all’epoca del Petrarca (1304-1374); la terza agli storici più recenti.
L’età di mezzo era identificata come un periodo autonomo della storia
letteraria.
In parallelo, l’esigenza di un vocabolario specializzato per il latino più
tardo, ripetutamente espressa in quel periodo, trovò risposta nella pub-
blicazione del Glossarium ad scriptores mediae et infimae latinitatis, di
Charles Du Fresne Du Cange (1610-1688): un repertorio enciclopedico di
termini relativi a concetti, istituzioni, usanze, oggetti della tarda antichità
e dell’età di mezzo (il termine “infimo” designava una collocazione tardi-
va rispetto all’antichità classica), desunti dalla documentazione giuridica,
cronistica, archivistica che la cresciuta ricerca sulle fonti metteva a dispo-
sizione degli studiosi. Attraverso il lessico venivano definite le istituzioni,
i costumi, le concezioni di un passato, quello medievale, sempre più lon-
tano nel tempo.
In relazione alle polemiche protestanti nacquero gli Annales Ecclesiasti-
ci del cardinale Cesare Baronio (1538-1607), una ricostruzione della storia
della Chiesa dalla nascita di Cristo al 1198, esposta cronologicamente sulla
base di una ricca documentazione, spesso originale, tratta dalla Biblioteca
Vaticana, e gli Acta Sanctorum, opera di un gruppo di gesuiti di Anversa,
animati da Jean Bolland (1596-1665), che si prefissero di raccogliere e di
pubblicare a stampa le testimonianze scritte sulle vite dei santi della Chiesa
cattolica, secondo l’ordine del calendario liturgico, esaminate con lo stesso
metodo critico-filologico impiegato per i testi letterari e storiografici.
Un altro centro di erudizione sacra fu la congregazione dei monaci be-
nedettini di St.Germain des Prés a Parigi, chiamati Maurini in memoria di
san Mauro, uno dei primi compagni di san Benedetto. La loro regola attri-
buiva grande importanza allo studio della storia ecclesiastica e soprattutto
monastica.
Nella pratica della ricerca storico-erudita si distinse Jean Mabillon
(1632-1010), autore di una sistematica identificazione delle caratteristi-
che formali e materiali dei documenti medievali (scrittura, stile, forma
esteriore, consuetudini di datazione e sottoscrizione, sigilli), che ideò un
sistema organico di riferimento per l’accertamento della loro genuinità.
L’opera, intitolata De re diplomatica, pubblicata nel 1681, è alla base
della moderna scienza dei documenti medievali che conserva il nome di
“diplomatica”.
L’idea di medioevo 19

2.4 Nasce il “Medioevo”

Essenziale perché l’età di mezzo venisse considerata conclusa, perciò


distinta e autonoma, fu la consapevolezza, divenuta matura nel corso del
Seicento, che l’età moderna era decisamente originale rispetto a tutto il
passato, tanto classico che medievale.
George Horn (1620-1670), professore di storia dell’Università di Leida,
nel trattato intitolato Arca Noae, sive historia imperiorum et regnorum a
condito orbe ad nostra tempora (1666), propose una nuova periodizzazio-
ne, separando la storia antica (vetus) da quella più recente (recentior) e,
all’interno di questa, distinguendo due periodi: il medium aevum e l’aevum
recentius, divisi dall’invenzione delle armi da fuoco e della stampa, dalle
scoperte geografiche, dalla nuova organizzazione degli Stati, oltre che dalla
rinascita delle lettere. In un’altra opera, l’Historia ecclesiastica et politica,
Horn fissò i termini cronologici dell’età di mezzo tra la caduta dell’impero
romano, nel 476, e la conquista turca di Costantinopoli, nel 1453.
La scansione della storia universale in tre epoche venne poi consacrata
nell’uso accademico da Christophorus Keller (1638-1707), o Cellarius alla
latina, professore dell’Università di Halle, che pubblicò una Storia del Me-
dioevo dai tempi di Costantino il Grande fino alla presa di Costantinopoli
da parte dei Turchi (1688) e, nel 1696, una Historia nova, comprendente i
secoli XVI e XVII. La Storia del Medioevo di Keller può essere considera-
ta il primo manuale scolastico di storia medievale.
Nel Settecento l’età medievale divenne oggetto di una nuova riflessione.
Un ruolo importante, in questo processo di approfondimento, ebbe Ludo-
vico Antonio Muratori (1672-1750), considerato il fondatore della ricerca
critica sul Medioevo italiano. Ecclesiastico, bibliotecario dell’Ambrosiana
di Milano e dell’Estense di Modena, il Muratori sviluppò la metodologia
erudita dei Maurini per dotare l’Italia di una raccolta di fonti storiche simi-
le a quelle che già possedevano, o andavano costituendo, le altre nazioni
europee, dopo aver constatato, attraverso le sue ricerche erudite, che molte
situazioni istituzionali e giurisdizionali del suo tempo risalivano diretta-
mente al Medioevo.
Mosso dall’idea della funzione civile dell’erudizione, Muratori raccolse
un gran numero di cronache relative alla storia d’Italia dal 500 al 1500,
pubblicandole in una collezione intitolata Rerum Italicarum Scriptores,
edita in 25 volumi tra il 1723 e il 1751. L’impresa fu resa possibile grazie
a una rete di corrispondenti eruditi che collaborarono alla ricerca dei te-
sti nelle biblioteche d’Italia. Contemporaneamente, il Muratori si dedicò a
studiare e a ricostruire le consuetudini, le istituzioni, la cultura, la religione
20 Squarci nel Medioevo

della società medievale, servendosi non solo delle cronache, ma anche di


documentazione di altra natura (diplomi, testi normativi, memorie lette-
rarie ecc.). Compose così 75 dissertazioni, pubblicate in 6 volumi con il
titolo Antiquitates Italicae Medii Aevii (11738-1742), che, nel loro insie-
me, rappresentano una vasta e originale indagine sulla civiltà del Medio-
evo italiano, arricchita da documenti inseriti nel testo. Ci si accorse così
che il Medioevo non era un’epoca uniforme: la civiltà aveva compiuto un
progresso notevole dopo il Mille e uno ancora più accentuato dopo il XIII
secolo.

2.5 Processo al Medioevo

Nel Settecento l’indagine su Medioevo coinvolse anche filosofi politici


e critici sociali dell’Illuminismo francese, chiamati a confrontarsi con quel
periodo storico nella loro polemica contro le istituzioni vigenti e i superstiti
arbitrii di origine feudale. In questo contesto, emersero il pensiero e l’ope-
ra di Voltaire (pseudonimo di François Marie Arouet, 1694-1778), autore
dell’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations et sur les principaux faits
de l’histoire depuis Charlemagne jusqu’à Louis XIII (1758).
Obiettivo primario della storia, per Voltaire, doveva essere la conoscen-
za «dello spirito, dei costumi, degli usi delle principali nazioni», utile nella
misura in cui rendeva edotti degli errori compiuti dal genere umano e con-
tribuiva così a facilitarne il progresso. Secondo Voltaire, con le invasioni
barbariche e con l’affermazione del potere politico della Chiesa era cessata
l’antica civiltà classica ed era iniziata un’epoca di rozzezza e violenza,
di povertà e di superstizione, di cui era stata vittima la società europea,
mentre le antiche civiltà cinese e indiana, e per molti versi anche quella
islamica, avevano conservato una lodevole saggezza nel governo della so-
cietà. La Chiesa cattolica aveva avuto una responsabilità di primo piano
nel determinare la crisi della civiltà antica e la depressione della società,
trasformando la religione in strumento di oppressione e di dominio: condi-
zioni protrattesi ben oltre l’epoca medievale.
Scopo dell’Essai non era la ricostruzione obiettiva del passato, ma la
creazione di un bersaglio polemico che doveva dimostrare la necessità di
una riforma razionale dei governi e dei costumi contemporanei all’autore.
Manca perciò in Voltaire ogni interesse a comprendere la natura e la fun-
zione delle istituzioni e del sentire degli uomini delle epoche precedenti.
Attraverso la polemica innescata da Voltaire, il Medioevo veniva salda-
mente acquisito alla storia dell’Europa moderna come fase negativa, ma
L’idea di medioevo 21

essenziale, del suo sviluppo, la cui evocazione serviva non solo a confer-
mare i vantaggi dell’evoluzione dei costumi e del pensiero, ma anche a
ricordare l’origine e i pericoli dell’oscurantismo.
L’opera di Voltaire ebbe grandissima eco e influenzò largamente il giu-
dizio comune sull’epoca; in parallelo, tuttavia, il Medioevo venne indivi-
duato come epoca di formazione della società europea anche in toni meno
polemici.
William Robertson (1721-1793), pastore protestante cultore di storia,
nella View of the Progress of Society in Europe from the Subversion of the
Roman Empire to the Beginning of the XVIth Century (1771), mostrò come
nel Medioevo si fossero potuti superare il disordine e la barbarie provocati
dalle invasioni e porre le basi della superiore organizzazione politica, eco-
nomica e civile dell’età moderna. Dalla barbarie si erano create situazioni
che avevano portato al suo superamento: così, le Crociate, se da un lato
erano state il prodotto del fanatismo e della violenza della società feudale,
dall’altro avevano determinato il contatto dell’Occidente con le superiori
civiltà orientali; le lotte tra il papato e l’impero avevano favorito l’emerge-
re delle libertà cittadine in Italia; il predominio culturale e sociale del clero
aveva prodotto la correzione del diritto barbarico attraverso quello eccle-
siastico. Anche per questa via, l’epoca medievale veniva interpretata non
solo come momento negativo della storia europea, in un’opposizione con-
flittuale di civiltà e barbarie, ma come fase genetica del mondo moderno.
Una considerazione originale dell’epoca medievale si trova nella Histo-
ry of the Decline and Fall of the Roman Empire di Edward Gibbon (1737-
1794), nobile inglese che, durante il suo Grand Tour nel Continente (1764),
fu colpito dal contrasto tra la grandezza dell’impero romano antico e le
rovine dell’Urbe e concepì il progetto di indagarne e narrarne la decadenza
in una prospettiva diversa: accogliendo una concezione già presente nella
storiografia seicentesca, Gibbon considerava l’impero bizantino come la
prosecuzione di quello romano e, pertanto, la sua narrazione si estese dal
II secolo d.C., apice della civiltà politica e morale dell’impero, fino alla
conquista di Costantinopoli da parte dei turchi nel 1453. L’epoca medieva-
le perde nuovamente il carattere autonomo e diventa parte di un più vasto
processo costituito dalla millenaria decadenza dell’impero romano; al pari,
decadono la prospettiva eurocentrica, dato che la maggior parte delle vi-
cende narrate si svolge in Oriente, e l’idea di un progresso, essendovi al
contrario descritta la lenta estinzione di un impero.
L’opera di Gibbon contiene quindi suggestioni nuove: originale l’idea
di indagare sulla decadenza di una civiltà, che implicitamente incrinava
la fiducia illuministica nel progresso storico; originale il risalto conferito
22 Squarci nel Medioevo

a fenomeni quali l’affermazione di nuovi popoli con peculiari concezioni


di vita (germani, arabi, turchi) o i sommovimenti rivoluzionari insiti in fe-
nomeni politico-sociali consolidati (invasioni, Crociate, riforme religiose)
che Gibbon descrive con una marcata sensibilità per le civiltà diverse, per i
sistemi di valori primitivi e con grande talento di narratore.

2.6 Mille e un harem

L’apertura della visione storica al mondo orientale ha comportato, come


già era avvenuto per l’interpretazione dell’epoca medievale, non poche
distorsioni interpretative di lunga durata. Così, ad esempio, ancora oggi,
nell’immaginario occidentale, l’harem è sinonimo di festino orgiastico in
cui gli uomini sperimentano un autentico miracolo: «ottenere il piacere
sessuale senza resistenze da parte di donne da loro ridotte in schiavitù. In
realtà, negli harem musulmani gli uomini si aspettano dalle loro donne
schiavizzate una feroce resistenza e la volontà di sabotare tutti i loro pro-
getti orgiastici»2.
Ad harem costruiti in pietra e mura di cemento (hāram significa illecito
e peccaminoso, nel senso di contrario alle leggi religiose, e si traduce, dal
punto di vista istituzionale e architettonico in un vero e proprio luogo di
reclusione) l’occidentale associa invece immagini letterarie o visive create
dai grandi artisti (Ingres, Delacroix, Matisse o Picasso) o dai mediocri sce-
neggiatori hollywoodiani, con donne ridotte a odalische (parola turca che
indica le “schiave”) che, tra una danza del ventre e l’altra, sono ben liete di
servire i loro padroni.
Innanzi a questo immaginario, come sostiene Fatema Mernissi, che in
un harem ci è nata, «non si può che sorridere, perché imprigionare le donne
e poi aspettarsi divertimento è un’idea bislacca!»3. Manca invece del tutto
la dimensione tragica, così presente negli harem musulmani, che è paura
delle donne e dubbio di sé da parte del maschio. Il paradiso pornografico
descritto in Harum Scarum (1965) con Elvis Presley, nelle versioni di Alì
Babà (1917, 1918), Kismet, il Ladro di Baghdad (1924, 1940), Lo Sceicco
(1921) appaiono un’aspettativa totalmente insensata in un harem musul-
mano: «anche ammazzandosi di fatica e imbottendosi di afrodisiaci, gli
amanti più stregati riuscivano a superare se stessi solo con la donna che

2 F. MERNISSI, L’Harem e l’Occidente, trad. it. R.R. D’Acquarica, Giunti, Firenze


2000, p. 16.
3 F. MERNISSI, L’Harem e l’Occidente cit., p. 18.
L’idea di medioevo 23

amavano, mentre tutte le altre, mogli e concubine, spettatrici dell’incontro


in un serraglio densamente popolato e del tutto privo di privacy, dovevano
tenersi le loro frustrazioni»4.

Principali opere citate

C.M. CIPOLLA, Allegro ma non troppo. Pepe, vino (e lana) come elementi determi-
nanti dello sviluppo economico dell’età di mezzo. Le leggi fondamentali della
stupidità umana, il Mulino, Bologna 1988.
P. DELOGU, Introduzione alla storia medievale, Milano 2003.
F. MERNISSI, L’Harem e l’Occidente, trad. it. R.R. D’Acquarica, Giunti, Firenze
2000.
S. TRAMONTANA, Capire il Medioevo. Le fonti e i temi, Carocci, Roma 2005.

4 F. MERNISSI, L’Harem e l’Occidente cit., p. 20.


25

CAPITOLO 3
INTERPRETAZIONI DEL MEDIOEVO

3.1 Il mito del Medioevo

Fu soprattutto in Germania che, alla fine del Settecento, la concezione


illuministica del Medioevo venne apertamente criticata e sostituita da una
diversa e originale interpretazione del periodo e del suo significato nella
storia dei popoli europei, in ragione di un rinnovato interesse per l’identi-
ficazione delle peculiarità culturali e morali di un popolo, quello tedesco,
sulle quali si voleva costruire una coscienza nazionale quale surrogato di
un’inesistente unità statale.
Espressione di questa tendenza fu l’opera di Justus Möser (1720-1794),
che rievocò la storia del popolo tedesco dalle più antiche testimonianze rin-
tracciabili nelle opere di Cesare e Tacito fino a tutta l’età medievale. Contro
l’Illuminismo francese, secondo il quale le differenze tra i vari popoli non
erano altro che il prodotto del clima e dei sistemi giuridici, Möser sostenne
che ogni popolo possedeva un’individualità storica peculiare, caratterizzata
da un patrimonio spirituale espresso nella lingua, nei costumi, nel diritto.
L’indagine sulle peculiarità del popolo tedesco non aveva ancora assun-
to implicazioni nazionalistiche e spesso si accompagnava a una convinta
rivendicazione dell’inserimento della Germania nella civiltà europea; ma
anche per definire quest’ultima si fece riferimento a valori diversi da quelli
illuministici, ricercandone le radici soprattutto nel Medioevo.
Il poeta e drammaturgo Johann Christoph Friedrich von Schiller (1759-
1805), nel discorso inaugurale che tenne all’Università di Jena nel 1789, inti-
tolato Cosa significa la storia universale e per quale scopo la si studia?, pre-
sentò il Medioevo come un’epoca in cui la libertà era stata, sia pure in forme
tumultuose e disordinate, il fondamento della società e della civiltà, in con-
trasto con il dispotismo e lo schiavismo dell’impero romano. Molti dei suoi
capolavori sono di ispirazione storica e alcuni sono ambientati nel Medioevo:
così I masnadieri (Die Räuber, 1781), Fiesco o La congiura di Fiesco a Ge-
nova (Die Verschwörung des Fiesco zu Genua, 1782), La pulzella di Orléans
(Die Jungfrau von Orléans, 1801) e Guglielmo Tell (Wilhelm Tell, 1804).
26 Squarci nel Medioevo

Il melodramma e la musica sinfonica ne trassero ispirazione: Giusep-


pe Verdi musicò La Pulzella d’Orléans (con il titolo di Giovanna d’Arco,
1845), I masnadieri (1847), Intrigo e Amore (con il titolo di Luisa Miller,
1849) e il Don Carlos (1867), mentre il coro dell’Inno alla gioia della
Nona sinfonia in Re minore (Op. 125, ultimo movimento del IV tempo) di
Beethoven è ripreso da alcune strofe dell’ode di Schiller “An die Freude”
(Alla Gioia, 1785).
La trasposizione in melodramma di numerose opere di Schiller a metà
Ottocento contribuì peraltro alla larga diffusione negli strati borghesi e
popolari italiani della sua interpretazione del Medioevo e, nel contempo,
all’utilizzo della rievocazione storica come strumento di rivendicazione di
un’identità nazionale e di un’autonomia di governo liberata, nel presente,
dall’oppressione straniera.
La percezione storica ottocentesca del Medioevo si esercitò però anche
su altri campi di indagine. Il filosofo sociale ginevrino Simon de Sismondi
(1773-1842) intraprese lo studio delle manifestazioni della libertà politi-
ca dei popoli nel Medioevo come espressione della loro energia morale,
ravvisando l’esempio più significativo nella vicenda dei comuni italia-
ni, cui dedicò la vasta Histoire des républiques italiennes du Moyen Age
(1807-1818) a dimostrazione di come l’ordinamento istituzionale, nato
dall’esigenza di libertà e di autogoverno, si fosse accompagnato alla gran-
de espansione economica, sociale, politica dell’Italia medievale, mentre
l’affermazione delle tirannidi, insieme all’influenza della Chiesa nella vita
politica, avevano depresso le energie morali della nazione e causato la sua
decadenza.
Pienamente romantica invece l’opera del francese Augustin Thierry
(1795-1856) che si rivolse al Medioevo per suggestione dei romanzi di
Walter Scott (autore, fra l’altro di Ivanhoe del 1820, Rob Roy del 1818 e La
dama del Lago del 1810), da cui trasse, oltre al tono letterario ed evocativo,
il senso del carattere drammatico dell’epoca. Fra i temi che predilesse, i
conflitti di gruppi nazionali opposti, che intese come scontri di razze messe
a contatto da una conquista: un’epoca di origini, ma non certo di valori
positivi.

3.2 Il Medioevo del diritto e del documento

L’intuizione del carattere complesso della civiltà medievale anima an-


che le grandi indagini sulla storia del diritto compiute nella prima metà
dell’Ottocento, che costituiscono l’espressione di una nuova pratica sto-
Interpretazioni del medioevo 27

rica. Friedrich Karl von Savigny (1779-1861), professore alla Università


di Berlino, applicò la concezione della natura organica, non artificiale, del
diritto nella sua Geschichte des römischen Rechts im Mittelalter (Storia del
diritto romano nel Medioevo, 6 volumi, 1816-1831), sostenendo che la tra-
dizione del diritto romano, appunto perché radicata nella vita e nel costume
dei popoli, non fu cancellata dalle invasioni germaniche, ma sopravvisse
nelle consuetudini popolari, entrando in fecondo rapporto con le tradizioni
degli invasori e producendo una nuova civiltà giuridica dell’Europa.
Queste riflessioni produssero l’esigenza di approfondire la conoscen-
za del periodo medievale attraverso un più sicuro ed esteso ricorso alla
documentazione. Così, nel 1818, venne fondata una «Società per la do-
cumentazione dell’antica storia tedesca» promossa dal barone Karl von
Stein allo scopo di pubblicare sistematicamente, e in forma critica, le fonti
della storia medievale tedesca. La collana, diretta da Georg Heinrich Pertz
(1795-1876), prese il nome di Monumenta Germaniae Historica e venne
articolata in 5 sezioni dedicate ciascuna a un diverso tipo di documenti:
Scriptores, Leges, Diplomata, Epistolae e Antiquitates. I Monumenta si ca-
ratterizzarono subito per la grande sistematicità nella ricerca dei testi e per
il progredito metodo critico, fondato sulla ricerca esaustiva e sul confronto
dei codici in cui i testi medievali erano trascritti. Un’opera fondamentale,
per precisione e completezza, non solo limitatamente alla storia tedesca
strettamente intesa.
Negli stessi decenni si rinnovarono anche la teoria e la pratica dell’uti-
lizzazione critica del documento, fissando quelle che divennero le regole
di metodo storico caratteristiche di gran parte dell’Ottocento. Fondamen-
tale l’apporto di Leopold Ranke (1795-1886), professore dell’Università
di Berlino, che affermò il principio che solo attraverso l’uso diretto delle
testimonianze coeve si potevano ottenere conoscenze storiche oggettive,
mentre ricostruzioni e giudizi fondati su informazioni di seconda mano
mancavano di attendibilità.
Ranke istituì una gerarchia di valori tra le fonti, attribuendo per esempio
maggiore attendibilità ai documenti ufficiali emessi da organismi istituzio-
nali, rispetto ai testi cronistici e ai documenti letterari. A lui si deve la con-
sacrazione di un’idea, già espressa da alcuni pensatori precedenti, che ebbe
largo seguito nella cultura storica e cioè che l’universalismo cristiano del
Medioevo aveva preparato e forgiato l’unità della civiltà europea moderna.
Anche in Francia, nel periodo della Restaurazione, si diffuse l’idea di un
Medioevo come età di fede religiosa rassicurante e pacificatrice, soprattutto
per reazione all’instabilità e al disorientamento del periodo rivoluzionario
e napoleonico e come sostegno al legittimismo politico. Un ruolo fonda-
28 Squarci nel Medioevo

mentale, nel creare e divulgare questa ideologia detenne François René de


Chateaubriand (1768-1848).

3.3 Medioevo, contrapposizione “razziale” e ruolo della Chiesa

Il Medioevo venne avvertito come epoca di conflitti di gruppi nazionali


opposti, intesi come razze messe a contatto da una conquista, anche dal
politico François Guizot (1787-1874), che si dedicò allo studio della for-
mazione della civiltà europea. Lo studioso francese considerava la civiltà
non come concetto astratto, ma come realtà storicamente e geograficamen-
te individuata che, nel Medioevo, era in piena formazione. Nell’Essai sur
l’histoire de France (1858), contro l’idea del conflitto inconciliabile fra le
razze, sostenuta da Thierry, ravvisò la genesi della civiltà moderna nella
fusione delle popolazioni germaniche con quelle romanze, avvenuta nel
corso del Medioevo sotto l’influenza della Chiesa.
Ministro degli interni del governo orleanista, Guizot propose al re Luigi
Filippo l’istituzione di un ispettore generale dei monumenti storici della
Francia, avviando il censimento e la tutela di un patrimonio che in gran
parte risaliva all’epoca medievale. Promosse inoltre la costituzione della
Societé de l’histoire de France, con il compito di pubblicare documenti
storici inediti. Nel 1847, il successore di Guizot al ministero degli interni, il
conte di Salvandy, riorganizzò e diede nuovo impulso all’Ecole des Char-
tes, fondata nel 1821 con il compito di formare specialisti paleografi per
l’esplorazione del vasto patrimonio documentario nazionale, sino ad allora
poco attiva soprattutto per problemi organizzativi e finanziari, e ancora
oggi uno degli istituti specialistici più validi a livello internazionale.
Jules Michelet (1789-1874) riteneva che lo storico dovesse mirare alla
resurrezione integrale del passato e che potesse conseguirla attraverso
l’evocazione organica delle manifestazioni politiche, economiche, arti-
stiche, religiose di un’epoca e la presentazione delle grandi personalità
espressioni della stessa: un programma in cui fu aiutato da un’acuta sen-
sibilità psicologica e da un grande talento letterario. In seguito a una forte
crisi personale, Michelet assunse atteggiamenti polemici nei confronti del-
la tradizione cristiana e della Chiesa, influenzato dai contemporanei movi-
menti della cultura cattolica francese che si opponevano al laicismo della
monarchia orleanista, rivalutavano la vita religiosa e chiedevano maggiore
attenzione al ruolo della fede cristiana nella storia europea, sottolineando
la connotazione religiosa della civiltà medievale.
Interpretazioni del medioevo 29

La risposta giunse dall’abate Jean Paul Migne (1800-1875), realizza-


tore di una grandiosa collezione di opere degli autori ecclesiastici latini e
greci, il Patrologiae cursus completus, che andava dai Padri della Chiesa
sino a Innocenzo III nella serie latina (217 volumi, 1844-1855) e fino al
1439 nella serie greca (162 volumi, 1857-1866). Obiettivo di questa co-
spicua impresa editoriale era rendere accessibile, grazie anche a un prezzo
contenuto, il patrimonio della cultura cristiana antica e medievale. Migne
fondò una casa editrice e allestì una tipografia, nelle vicinanze di Parigi,
realizzando pressoché da solo la pubblicazione. La Patrologia rappresen-
tò un prezioso strumento per la divulgazione della produzione dottrinale,
letteraria, storiografica del Medioevo ed è ancora utilizzata, almeno come
primo accesso a opere altrimenti difficilmente reperibili.

3.4 Il dibattito in Italia

In Italia, la riflessione sul Medioevo nel primo Ottocento ebbe il suo


campione in Alessandro Manzoni. Le due tragedie che egli compose, il
Conte di Carmagnola (1819) e l’Adelchi (1820-1822) erano ambientate
in momenti altamente drammatici della storia medievale italiana, espres-
sione di quelle che sembravano costanti della storia nazionale: la disu-
nione politica e la soggezione a dominazioni straniere, peraltro legate al
problema morale del peso della violenza e dell’ingiustizia nelle vicende
umane.
Esemplare di questo sentire, il celeberrimo Coro del II atto de Il conte
di Carmagnola:

S’ode a destra uno squillo di tromba; a sinistra risponde uno squillo: d’ambo
i lati calpesto rimbomba da cavalli e da fanti il terren.
Quinci spunta per l’aria un vessillo; quindi un altro s’avanza spiegato: ecco
appare un drappello schierato;
ecco un altro che incontro gli vien.
Già di mezzo sparito è il terreno;
già le spade respingon le spade;
l’un dell’altro le immerge nel seno;
gronda il sangue; raddoppia il ferir.
- Chi son essi? Alle belle contrade qual ne venne straniero a far guerra; qual
è quei che ha giurato la terra dove nacque far salva, o morir?
- D’una terra son tutti: un linguaggio parlan tutti: fratelli li dice lo straniero:
il comune lignaggio a ognun d’essi dal volto traspar.
Questa terra fu a tutti nudrice
questa terra di sangue ora intrisa,
30 Squarci nel Medioevo

che natura dall’altre ha divisa,


e ricinta con l’alpe e col mar.
- Ahi! Qual d’essi il sacrilego brando trasse il primo il fratello a ferire?
Oh terror! Del conflitto esecrando la cagione esecranda qual è?
- Non la sanno: a dar morte, a morire qui senz’ira ognun d’essi è venuto; e
venduto ad un duce venduto, con lui pugna, e non chiede il perché.
- Ahi sventura! Ma spose non hanno, non han madri gli stolti guerrieri?
Perché tutte i lor cari non vanno
dall’ignobile campo a strappar?
E i vegliardi che ai casti pensieri
della tomba già schiudon la mente, ché non tentan la turba furente con pru-
denti parole placar?
- Come assiso talvolta il villano
sulla porta del cheto abituro
segna il nembo che scende lontano sopra i campi che arati ei non ha; così
udresti ciascun che sicuro
vede lungi le armate coorti,
raccontar le migliaia de’ morti,
e la piéta dell’arse città (…).

I problemi sollevati da Manzoni suscitarono discussioni vivaci e nuove


ricerche. L’erudito napoletano Carlo Troya (1784-1858) si dedicò allo stu-
dio dell’età longobarda e nel suo saggio Sulla condizione dei romani vinti
sotto i longobardi (1842) suffragò le idee del Manzoni, ricostruendo in un
insieme coerente l’ordinamento del regno, il carattere barbarico e militare
del dominio, il destino dei romani, ridotti in stato di semi-servitù o costretti
ad assimilare i costumi dei vinti per conservare un ruolo sociale.
Il tema della fine del mondo romano e dell’incidenza delle dominazio-
ni barbariche in Italia era centrale nella cultura dell’epoca, che aveva ri-
nunciato a considerare gli italiani moderni come discendenti diretti degli
antichi romani ma voleva comprendere quanto della civiltà antica era so-
pravvissuto. In questa prospettiva la dominazione dei Longobardi segnava
dunque una cesura nella storia d’Italia.
Nella concezione di Troya, la sopravvivenza dell’eredità romana, con-
giunta alla fede cristiana, era stata assunta dal papato che poi, con l’evan-
gelizzazione, l’aveva diffusa in tutta Europa. Dopo il Mille, la rinascita
della vita cittadina e delle attività commerciali aveva determinato un ulte-
riore recupero dell’eredità romana e un passo decisivo verso il superamen-
to degli ordinamenti e dei costumi barbarici. Poiché il frazionamento poli-
tico della Penisola e il lungo periodo del predominio straniero costituivano
gli aspetti più problematici e inquietanti della storia d’Italia, protagonista
venne resa la “nazione italiana”, entità etnica e morale nella cui esistenza i
Interpretazioni del medioevo 31

padri del Risorgimento nutrivano una fede profonda. In questo programma


ideologico, il Medioevo assunse un ruolo essenziale perché è nella grande
espansione dell’età dei Comuni che la “nazione italiana” assunse un ruolo
di avanguardia nel contesto europeo, nei commerci, nelle lettere, nelle arti,
sperimentando forme di governo locale fondate sulla libertà e sulla parte-
cipazione dei cittadini.
Di contro, il Rinascimento perse, nel pensiero Risorgimentale, il carat-
tere di grande epoca della storia italiana, perché nonostante le straordinarie
realizzazioni artistiche e letterarie, proprio allora difetti morali e debolezze
politiche aprirono la strada alle dominazioni straniere.
L’impresa di realizzare una storia generale d’Italia fu compiuta dal pa-
trizio torinese Cesare Balbo (1789-1853) nel suo Sommario della storia
d’Italia (1846). Balbo ripartì l’opera nelle «quattro condizioni principali
in cui visse la nazione italiana»: governo dei barbari; regno feudale (da
Carlo Magno all’XI secolo); età dei Comuni (fine XI secolo – 1494); età
dei domini stranieri (fino al 1814). Quattro forme istituzionali contrasse-
gnate da una sostanziale incapacità di governarsi autonomamente, mentre
proprio l’indipendenza doveva essere il motore del riscatto della nazione
italiana.
Nell’età dei Comuni, le città italiane – secondo Balbo - avevano rag-
giunto il più alto grado di autogoverno, avevano agito con grande origina-
lità e creatività in tutti i settori, dal commercio alle arti, ponendosi all’avan-
guardia in Europa. I governi comunali non avevano tuttavia perseguito con
determinazione l’indipendenza dai poteri signorili e soprattutto dall’impe-
ro tedesco. I particolarismi locali e l’assenza di una monarchia nazionale
capace di coordinarli erano stati causa di debolezza e di corruzione dei
costumi politici.
I rari episodi di unione e di difesa dell’indipendenza italiana erano stati
promossi dal papato, in cui Balbo riponeva perciò la speranza di un nuovo
sostegno al movimento risorgimentale, così come vedeva nell’ispirazio-
ne cristiana la caratteristica fondamentale della civiltà europea formatasi
nel Medioevo. Con Manzoni e Troya, Balbo, che assegnava un’esplicita
funzione etica e pedagogica alla storia, costituì una scuola di pensiero de-
nominata “cattolico-liberale” o “neoguelfa”, per l’importanza attribuita al
papato nella storia d’Italia e nella prefigurazione di un nuovo ordine poli-
tico della Penisola.
L’esigenza di sostenere l’indagine sulla storia italiana si manifestò con
iniziative di vario genere. Nel 1842, venne fondato a Firenze un periodico,
l’«Archivio storico italiano», che doveva promuovere lo studio della storia
nazionale, liberandola da provincialismi e municipalismi; nel 1844, Carlo
32 Squarci nel Medioevo

Troya fondò a Napoli la «Società di Storia patria»; nel 1846, il re di Sarde-


gna Carlo Alberto istituì a Torino una cattedra di storia d’Italia.
Di un’esasperata partecipazione sentimentale e morale alle sorti della nazio-
ne italiana è intrisa la Storia della lega lombarda (1848) del monaco cassinese
Luigi Tosti (1811-1897), anch’egli esponente della scuola cattolico-liberale,
che pubblicò un’opera pressoché manifesto storiografico delle sollevazioni
che in quell’anno vi furono in Lombardia contro il governo austriaco.
Una vistosa eccezione al tema della storia nazionale è rappresentata
dalla Storia del Vespro siciliano (1842) del palermitano Michele Amari
(1806-1889), ispirata da una forte rivendicazione dell’identità regionale,
non tanto in rapporto all’ideale dell’unità italiano, quanto addirittura con-
tro il predominio di Napoli nel regno borbonico delle Due Sicilie.
Dopo il fallimento dei moti del 1848 e la perdita della speranza di un
ruolo nazionale del papato, l’indagine sulla storia d’Italia si dedicò all’in-
dividuazione delle caratteristiche intrinseche e permanenti della società
nostrana, cercando nuove possibilità di definirne l’identità.

3.5 Il federalismo di Cattaneo

Il milanese Carlo Cattaneo (1801-1869) esprime una cultura nuova,


influenzata dall’illuminismo e dal liberalismo inglese, ispiratrice di un
approccio positivo e scientifico che privilegiava l’analisi delle strutture
insediative, demografiche ed economiche, in stretta connessione con il fun-
zionamento delle istituzioni civili.
Cattaneo riteneva che la dimensione regionale fosse il prodotto consoli-
dato della storia d’Italia e che ogni programma di riforme amministrative
ed economiche dovesse svolgersi all’interno di essa. Caldeggiò quindi un
tipo di unione federale che avrebbe dovuto potenziare e integrare le risorse
materiali e morali proprie delle diverse regioni d’Italia.
Nel 1844, progettò un’indagine ad ampio raggio sulla Lombardia che
doveva trattare di geologia e di geografia, di flora e di fauna, di popola-
mento e di salute pubblica, di agricoltura, di industria e di commercio, di
istituzioni civili ed ecclesiastiche, di lingua, di legislazione, di istruzione
e di sviluppo intellettuale e artistico della regione. La storia vi deteneva
un ruolo fondamentale. Cattaneo faceva infatti risalire all’età preromana e
romana la costituzione della struttura insediativa, elemento caratterizzante
della società lombarda: preminenza delle città, dove risiedevano i proprie-
tari fondiari e si svolgeva l’attività politica; stretta integrazione tra città e
contado; federazioni di città fondate su interessi comuni.
Interpretazioni del medioevo 33

Nel Medioevo questi aspetti si erano rinnovati e consolidati. Secondo


Cattaneo, in questo periodo si era imposta la partecipazione dei cittadini
al governo dei comuni; l’autonomia comunale era stata esaltata e difesa
con le armi; si erano sviluppate le virtù civiche; la produzione agraria e
commerciale aveva avuto uno strepitoso rilancio; erano state create le in-
frastrutture (bonifiche, canali, strade) per sostenere lo sviluppo economico.
Si era così affermata una civiltà fondata su industriosità, qualità morali e
controllo dei governi da parte dei cittadini, che si presentava già come un
sistema moderno. Queste conquiste erano state soffocate nel XVI e XVII
secolo dalla dominazione spagnola, che aveva depresso partecipazione po-
litica e iniziativa economica, ma erano state recuperate e aggiornate nel
XVIII secolo dall’illuminismo lombardo, appoggiato al governo riforma-
tore degli Asburgo.
Nel suo saggio La città considerata come principio ideale delle istorie
italiane (1858), Cattaneo sostituisce un criterio geografico e sociologico a
quello politico e ideologico nell’identificazione dei caratteri originali della
storia d’Italia. Il Medioevo permaneva al centro dell’indagine perché, dopo il
collasso delle invasioni barbariche e la preminenza assunta dalle campagne,
legata all’ordinamento feudale dell’età carolingia, solo in Italia si era pre-
cocemente ricostituita una civiltà cittadina che aveva promosso il benessere
economico e il progresso morale, tecnico e scientifico in termini moderni.

3.6 La svolta positivista di metà Ottocento

Nella seconda metà dell’Ottocento, si accentuò in tutta Europa l’inte-


resse per l’acquisizione e la critica delle fonti, nonché per la ricostruzione
puntuale degli avvenimenti e delle istituzioni. La storiografia si prefisse la
conoscenza oggettiva del passato, sperando di poter conseguire le stesse
certezze che si attribuivano alle scienze della natura.
In Germania, la storiografia accademica accentuò l’orientamento eru-
dito, puntando a sempre più minuziose ricostruzioni critiche delle vicende
relative soprattutto al settore della storia politico-diplomatica. Gli storici
del diritto si concentrarono sull’analisi dell’ordinamento istituzionale te-
desco, dagli antichi germani alle formazioni politiche medievali, sulla base
di una larga e sistematica conoscenza delle fonti. Si impegnarono a defi-
nire la natura e le caratteristiche delle libertà personali, discussero a lungo
sull’esistenza o meno di una nobiltà come classe giuridicamente distinta;
studiarono la genesi del potere regio in relazione alla società; analizzarono
il sistema feudale e l’origine dei poteri privati di comando.
34 Squarci nel Medioevo

Verso la metà del secolo, si svilupparono in Germania anche gli studi


sulla storia dell’attività economica. Lo studio dell’economia medievale si
inquadrava nella ricerca teorica sui tipi fondamentali e gli stadi evolutivi
dell’attività economica. Bruno Hildebrand (1812-1878) teorizzò tre stadi
della vita economica corrispondenti ai fondamentali modi di distribuzione
dei beni che si dovrebbero rintracciare nell’evoluzione economica di tutte le
nazioni: economia naturale, economia monetaria ed economia creditizia.
Ponendo l’accento sul rapporto tra strutture sociali e organizzazione della
produzione e del consumo dei beni, Karl Bucher (1847-1930) distinse, in
ordine crescente di complessità, economia domestica, economia di villaggio
o di “marca”, economia cittadina ed economia di popolo. L’età medievale
venne caratterizzata dal prevalere successivo di alcuni di questi tipi di eco-
nomia e studiata per individuare le modalità di passaggio dall’una all’altra.
È evidente l’affinità di queste riflessioni con le teorizzazioni di Karl
Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895), anch’esse fondate su
una tipizzazione delle forme fondamentali dell’attività economica. Marx
individuò quattro modi di produzione: asiatico, schiavistico, feudale e ca-
pitalistico-borghese. Il modo di produzione feudale e i prodromi di quello
borghese trovavano la loro attuazione nel Medioevo europeo come sistemi
economici coerenti e di lunga durata, sebbene non fossero escluse sfasature
e coesistenze.
La dottrina marxista intendeva promuovere il superamento rivoluziona-
rio del modo di produzione capitalistico in favore di una società socialista.
Marx concepì una sorta di necessità interna che governa la trasformazione
e il superamento dei modi di produzione attraverso il conflitto di classe, ma
contemporaneamente rivendicò la volontarietà dei movimenti di lotta, salva-
guardando il ruolo dell’iniziativa umana canalizzata nell’azione delle classi.
In opposizione alla concezione deterministica dell’agire umano, vin-
colato da fattori costanti quali razza, ambiente naturale, relazioni sociali,
caratteristico del positivismo, un altro orientamento storiografico tipico del
periodo fu la Kulturgeschichte, o storia della cultura, che si proponeva di
ricostruire l’unità organica delle diverse manifestazioni della vita di un po-
polo (letteratura, istituzioni, attività politica, organizzazione economica,
espressione artistica, religione) nelle successive fasi della sua esistenza.
Campione di questo nuovo sentire fu Jacob Burckhardt (1818-1897) in
riferimento all’Italia del Rinascimento, intesa come momento di totalità
spirituale significativa per i valori espressi, ma estranea a ogni gerarchia o
sequenza evolutiva.
Storia dell’economia, della società e della cultura si combinano inve-
ce nell’opera di Karl Lamprecht (1856-1915). In piena consonanza con gli
Interpretazioni del medioevo 35

orientamenti del positivismo sociologico, Lamprecht cercò di identificare le


leggi oggettive che governano l’evoluzione delle culture, individuando stadi
culturali ben delineati e determinati non da situazioni economiche, ma da
atteggiamenti psicologici collettivi, che si succedono in un ordine costante.
Divise pertanto la storia tedesca in epoca animistica (pre-medievale), sim-
bolica (fino al X secolo), tipologica (tra X e XIII secolo), convenzionale
(XIII-XV secolo), individualista (XV-XVIII secolo), soggettivistica (XIX
secolo). Un ciclo evolutivo che, estremizzato da Oswald Spengler (1880-
1936), portò alla teorizzazione di una vita biologica delle culture, caratteriz-
zata da un ciclo fisso di formazione, splendore, declino ed estinzione.
Nella Francia di fine Ottocento, la ricerca storica fu caratterizzata da un
forte orientamento positivista. Nel 1876 venne fondata la «Revue Histori-
que» con il programma di favorire il carattere personalistico e ideologico
degli studi della storiografia precedente. Lo storico doveva lavorare rigoro-
samente sui dati tratti dall’esame diretto delle fonti, documentare ogni sua
affermazione con una citazione, essere completamente immune da pregiu-
diziali filosofiche e politiche per assumere, nei confronti di personaggi ed
eventi, l’atteggiamento del giudice imparziale. L’obiettivo era di pervenire
alla ricostruzione della verità storica intesa come sequenza di dati di fatto.
Momenti fondamentali del lavoro dello storico dovevano essere: repe-
rimento della documentazione, limitata alle sole fonti scritte; vaglio della
loro genuinità e qualità; selezione, ordinamento e confronto delle informa-
zioni in vista dell’accertamento dei fatti. Successivamente questi potevano
essere messi in relazione fra loro per ricostruire contesti più generali, come
le condizioni naturali, le relazioni sociali, le istituzioni politiche. Valutazio-
ne e interpretazione dei risultati, ricerca dei significati generali delle situa-
zioni storiche erano guardate con diffidenza, come elementi di turbamento
dell’attendibilità della conoscenza.
Sotto l’influenza della contemporanea storiografia tedesca, in Italia as-
sunse importanza crescente lo studio delle istituzioni giuridiche. Antonio
Pertile (1830-1895) indagò la genesi e l’evoluzione della società medievale
italiana attraverso le istituzioni del diritto pubblico e privato, prestando
grande attenzione al ruolo esercitato dalle tradizioni germaniche e da quel-
le romane nella formazione della nuova civiltà.
Altro esponente di valore della storiografia positivistica fu Pasquale
Villari (1826-1917) che tuttavia si risolse ad abbandonare la tradizionale
interpretazione dei conflitti medievali come eredità dell’irrisolto dualismo
tra romani e germani per dare risalto, accogliendo le istanze della storia
economica e sociale, allo scontro di classe. Il riferimento al marxismo fu
esplicito e consapevole nel suo allievo, Gaetano Salvemini (1873-1957)
36 Squarci nel Medioevo

che, nel saggio Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295 (1899),
fece della lotta di classe la chiave di lettura della complessa vicenda costi-
tuzionale e sociale del comune fiorentino duecentesco.
Ancora oltre andò Gioacchino Volpe (1876-1971) che, nel suo volume
Medioevo italiano (1923), abbandonò le tesi marxiste per realizzare una
vasta e suggestiva ricostruzione della vita della società medievale italia-
na, basata su una personalissima capacità di intuire, soprattutto attraverso
l’esame della documentazione d’archivio, i grandi processi che avevano
come protagoniste le masse.

3.7 Fuori dal coro

Numa-Denis Fustel de Coulanges (1830-1889) si distaccò dalla prevalen-


te impostazione formalistica per interpretare le istituzioni come espressione
dell’organizzazione e dei bisogni della società. Nella sua vasta ricerca, in-
titolata Histoire des institutions politiques de l’ancienne France (3 volumi,
1875-1889), Fustel formulò una tesi originale: le invasioni non avevano se-
gnato l’inizio di una nuova epoca, caratterizzata dal conflitto etnico e cultu-
rale tra germani e romani, perché il regime della proprietà fondiaria non era
mutato e, di conseguenza, si era conservata l’organizzazione della società
che era fondata su di esso. Le istituzioni, per Fustel, mutano solo lentamente
con il mutare dei bisogni e delle concezioni profonde della società.
Sollecitazioni a sperimentare orientamenti nuovi venivano agli storici
francesi anche dalle scienze sociali. Emile Durkheim (1858-1917) riven-
dicò la stretta affinità tra sociologia e storia, invitando gli storici a studiare
le organizzazioni sociali del passato per identificare, attraverso la genera-
lizzazione e la comparazione, forme diffuse e ricorrenti di comportamento
e di funzionamento della società. Altre originali suggestioni vennero alla
ricerca storica dal geografo Paul Vidal de la Blanche (1845-1918) che av-
vicinò la geografia alle scienze umane ponendo in primo piano lo studio
del rapporto tra l’uomo e l’ambiente e che sostenne, di conseguenza, come
geografia e storia dovessero collaborare nell’analisi del territorio, inteso
come prodotto storico e non solo come formazione naturale.
Lo storico belga Henri Pirenne (1826-1935) esordì affrontando il tema
dell’origine delle città medievali, viste, in contrasto con le teorie prevalen-
ti, come strutture originali, diverse dalle città antiche in quanto caratteriz-
zate dalla presenza di un ceto sociale ed economico nuovo, costituito dai
mercanti, che si era stabilito nei punti nodali del territorio dando origine a
insediamenti permanenti in cui si localizzò l’attività commerciale. Pirenne
Interpretazioni del medioevo 37

considerava i mercanti una realtà sociale rivoluzionaria. Inoltre, individuò


una vera cesura tra mondo classico ed epoca medievale non nelle invasioni
barbariche che, sostanzialmente, non mutarono il sistema economico pre-
vigente, ma nelle conseguenze dell’espansione islamica nel Mediterraneo
che, interrompendo i collegamenti commerciali tra la parte orientale e la
parte occidentale dell’impero romano, isolò l’Occidente accentuando la ri-
levanza che già l’economia agraria vi aveva assunto, fino a farne l’unica
attività economica, e maturando l’idea d’Europa come altro dalle civiltà
del Mediterraneo (Maometto e Carlomagno, 1937).
Pirenne imputò i mutamenti economici non a meccanismi determinati
dall’organizzazione sociale della produzione, ma all’iniziativa di gruppi
e di individui mossi da spontanei ideali, religiosi e morali, che in alcuni
momenti della storia poterono produrre cambiamenti rivoluzionari ed ebbe
il merito di proporre un’interpretazione della genesi dell’economia medie-
vale che trascendeva presunte vocazioni innate dei popoli germanici.

3.8 Storiografia del Novecento

L’impostazione positivistica venne combattuta e rifiutata, già sul finire


dell’Ottocento, dallo storicismo, un orientamento filosofico e storiografico
che rivendicava la netta distinzione tra scienze della natura e scienze dello
spirito, destinate a impiegare metodi conoscitivi non assimilabili in quanto
riferite a realtà completamente diverse. Rifiutando la possibilità di indivi-
duare costanti nella storia, lo storicismo diede rilievo ai contesti morali,
politici, religiosi e sviluppò lo studio delle idee come elemento importante
di comprensione e di connotazione del passato.
Dopo la prima guerra mondiale, molti studiosi risentirono dell’irrazio-
nalismo che si diffuse nella cultura europea accompagnato a un’estesa crisi
di valori. Esemplare di questa storiografia è l’opera Autunno del Medioevo
(1919) dello storico olandese Johan Huizinga (1872-1945) che descrisse la
civiltà tardo-medievale nelle Fiandre e nella Francia settentrionale come
espressione di uno stato d’animo, ancor più che di un atteggiamento psico-
logico, unitario e costante, rappresentato con la metafora dell’autunno, nel
senso di star vivendo un’epoca di crepuscolo, rispetto al quale si sarebbe
cercato conforto nel cerimoniale e nei rituali sociali, nel gioco, inteso da
Huizinga, come suprema manifestazione di cultura.
Il tedesco Ernst Kantorowicz (1895-1964) nel suo Federico II (1927)
costruì una biografia dell’imperatore medievale presentandolo come in-
carnazione storica dell’uomo del fato, dotato di un’innata capacità di cre-
38 Squarci nel Medioevo

azione e di dominio. Un’interpretazione ispirata dagli ideali aristocratici


ed esoterici perseguiti negli ambiente letterari e di cui la cultura nazista
avrebbe poi tentato di impossessarsi.
Il modernismo sorse invece come movimento caratterizzato dall’aspira-
zione a una lettura dei testi sacri del cristianesimo più rispondente alle co-
noscenze filologiche e storiche maturate nell’Ottocento e da una moderata
critica della centralizzazione e della burocratizzazione della Chiesa cattoli-
ca. Tra i suoi esponenti di maggior rilievo, Giorgio Falco che, nel volume
Santa romana repubblica (1942), raffigurò il Medioevo come l’epoca in
cui si era sviluppata l’aspirazione a organizzare l’intera società in un’unica
entità politica e spirituale volta alla realizzazione degli ideali cristiani sotto
la guida di grandi istituzioni universali: l’impero e il papato.
Tra le due guerre si svilupparono anche gli studi di storia costituzionale,
che si prefiggevano di contrastare l’impostazione formalistica della storia
delle istituzioni germaniche e medievali. L’esponente principale di questa
Nueu Lehre (nuova dottrina) è l’austriaco Otto Brunner (1898-1982) che
sostenne l’inadeguatezza di ogni interpretazione delle istituzioni medievali
attraverso le categorie del pensiero giuridico moderno. Brunner evidenziò
l’originalità del pensiero giuridico medievale e ritenne necessario definire
la natura e le funzioni delle istituzioni in rapporto con lo sviluppo com-
plesso e spontaneo delle forze sociali in lotta per il potere e in riferimento a
orizzonti mentali e culturali peculiari al Medioevo che non sempre richie-
devano la formalizzazione giuridica dei rapporti.

3.9 «Annales» e nuove frontiere

Lucien Febvre (1878-1956) e Marc Bloch (1886-1944) nel 1929 fonda-


rono una rivista intitolata «Annales d’histoire économique et sociale» con
l’intento di promuovere lo studio della società, della sua organizzazione in
rapporto ai sistemi economici e agli atteggiamenti mentali come campo di
una storiografia concreta e impegnata.
Nel suo primo lavoro di ampio respiro, Les rois thaumaturges (1923),
Bloch studiò il carattere sacrale attribuito ai sovrani nel Medioevo, non
nella direzione della mistica del potere cui era sensibile la storiografia te-
desca, ma come espressione di un atteggiamento psicologico collettivo che
poteva essere compreso e spiegato con riferimenti tratti dall’etnologia, dal
folklore, oltre che con le circostanze e le convenienze politiche del tempo.
L’influenza della Scuola delle «Annales» divenne consistente solo nel
secondo dopoguerra, quando la storiografia europea concepì un crescente
Interpretazioni del medioevo 39

fastidio per la storia politica, abbandonò le teorie storicistiche, espresse


diffidenza per certi orientamenti della storiografia della spiritualità e del
potere e si volse nuovamente alla storia della società, come già il positivi-
smo, ma con criteri nuovi di ricerca. Grande influenza in questo orienta-
mento degli studi ha avuto un altro francese, Fernand Braudel (1902-1985),
studioso dei rapporti tra quadri ambientali e vita storica delle società, delle
strutture socio-culturali, delle relazioni tra le economie regionali nei siste-
mi mondiali, indagati nelle situazioni del passato.
Recentemente nuovi orientamenti teorici, diffusi soprattutto negli Stati
Uniti, hanno avuto ripercussioni anche sulla ricerca storica: si tratta del
cosiddetto decostruttivismo, che nega la possibilità di una ricostruzione
oggettiva del passato in base alla considerazione che le fonti, le quali do-
vrebbero informare sull’accaduto, sono in realtà discorsi costruiti secondo
codici linguistici e comunicativi del tutto svincolati dalla realtà dei fatti.
Pertanto, tali discorsi hanno significato in se stessi, ma nessuna verificabile
relazione con gli eventi o i processi che apparentemente descrivono. La
funzione dello storico si arresta dunque alla lettura del testo, di cui può
mettere in luce la costruzione intima e, parzialmente, il rapporto con il
contesto culturale in cui ha avuto origine, senza proporsi di risalire da esso
alla realtà degli accadimenti che stanno al di là del testo.

3.10 Documenti umani e antropostoria

A partire dal 1880, con una serie di saggi (Il romanzo sperimentale; I
romanzieri naturalisti, 1881; Il naturalismo in teatro, 1881), Emile Zola
(1840-1902) definì la volontà del Naturalismo di produrre una letteratura
sperimentale.
Il significato della sperimentalità letteraria risiede in una più precisa ana-
logia colla sperimentazione scientifica. Giacché la scienza (la fisiologia),
per evidenti ragioni etiche, non può sperimentare sull’uomo, la letteratura,
secondo Zola, doveva supplire, almeno in un senso più o meno metafori-
co. Così Zola avrebbe voluto trasformare il romanzo realista in romanzo
sperimentale: «Le roman naturaliste [...] est une expérience véritable que
le romancier fait sur l’homme» (Le Roman expérimental). Riferendosi alla
metodologia sperimentale sviluppata da Claude Bernard, che consisteva in
un processo triadico composto da «sentiment», «raison» e «expérience»,
Zola attribuiva alla letteratura la competenza specifica del primo passo,
cioè del mondo ipotetico del «sentimento». O, detto in altre parole: il ro-
manziere che pretende di essere uno sperimentatore come il fisiologo deve
40 Squarci nel Medioevo

sempre partire da certezze scientifiche per sviluppare sulla loro base delle
ipotesi che saranno poi verificate o falsificate da nuove sperimentazioni
scientifiche.
Zola riteneva dunque che la funzione principale della letteratura doves-
se consistere in una sorta di cooperazione alla fisiologia sperimentale: in
un certo senso il suo aiuto alla scienza avrebbe significato l’anticipazione
fantastica di ipotesi che avrebbero poi potuto guidare il lavoro più lento e
certo più serio della sperimentazione vera e propria: «[...] dans notre roman
expérimental, nous pourrons très bien risquer des hypothèses sur les que-
stions d’hérédité et sur l’influence des milieux, après avoir respecté tout ce
que la science sait aujourd’hui sur la matière. Nous préparerons les voies,
nous fournirons des faits d’observation, des documents humains qui pour-
ront devenir très utiles» (Oeuvres critiques).
Il ruolo profetico che Zola reclamava per la letteratura si salva anche di
fronte alla scienza: la letteratura appare, in una nuova divisione del lavoro
intellettuale, ormai responsabile delle ipotesi da formulare e, di conseguen-
za, anche della direzione a cui il lavoro più specificamente scientifico viene
destinato. Un ruolo che, epurato dall’elemento fantastico, sentimentale, e
ricondotto sul piano razionale legato all’analisi degli accadimenti del pas-
sato, studiati con rigore scientifico e con l’apertura metodologica suggerita
dalla Scuola delle Annales, è opportuno che sia finalmente rivendicato dal-
la storia, una nuova «storia sperimentale» o “antropostoria”.
Le discipline correlate alla bioantropologia consentono infatti lo studio
della interazione complessa tra uomo e ambiente (naturale e artificiale) in
cui ogni società, nel passato come nel presente, si trova immersa. L’analisi
delle condizioni materiali in cui vivevano le società del passato, oltre a
favorire una migliore comprensione dei fenomeni storici, soprattutto eco-
nomici, sociali e culturali, ricostruendo alimentazione, patocenosi (insieme
delle malattie che caratterizzano un gruppo di individui), attività occupa-
zionali, gruppi razziali e familiari, apporta dati di fondamentale interesse
per il settore della moderna ricerca epigenetica, che esamina le modalità
con cui i geni interagiscono con l’ambiente, e biomedica, orientata ad ana-
lizzare l’epoca di insorgenza e le modalità di diffusione e di evoluzione di
alcune importanti malattie, ancora attuali, come quelle infettive, articolari
o il cancro.
La Sezione di Antropologia fisica e Ricerca storica del Centro Inter-
dipartimentale di Ricerca e Servizi per i Beni Culturali dell’Università
degli Studi di Milano, coordinata dalla professoressa Cristina Cattaneo e
dall’Autrice, si propone lo studio l’analisi e la comparazione di fonti di
natura biologica, storica e artistica (www.antropostoria.unimi.it).
Interpretazioni del medioevo 41

Le discipline chiamate a confronto sono quindi volutamente molteplici


e, sinora, solo marginalmente inclini all’interazione, considerata la loro
plurisecolare afferenza a settori di indagine, quello scientifico e quello
umanistico, diversi e spesso concettualmente e metodologicamente con-
trapposti. Un limite, più ideologico che reale, che i coordinatori della Se-
zione si propongono di superare favorendo lo studio e la divulgazione dei
fenomeni storici nella loro complessità, materiale, concettuale e sociale.
A partire dall’interazione tra l’antropologia fisica, e discipline connes-
se, e la storia, nelle sue innumerevoli declinazioni, si intende affrontare lo
studio del passato ricorrendo a tutti gli strumenti di indagine che l’oggetto
della ricerca, ossia fondamentalmente l’uomo, rende di volta in volta op-
portuni e perseguibili.

Principali opere citate

P. DELOGU, Introduzione alla storia medievale, Milano 2003.


S. TRAMONTANA, Capire il Medioevo. Le fonti e i temi, Carocci, Roma 2005.
43

CAPITOLO 4
MEDIOEVO E PERIODIZZAZIONE

4.1 Deformazioni prospettiche

«È più difficile disintegrare i pregiudizi che disintegrare gli atomi» (Al-


bert Einstein). Così Giuseppe Sergi introduce alla riedizione del suo L’idea
di Medioevo. Fra storia e senso comune1, evidenziando come la cultura
contemporanea continui a usare il Medioevo alla stregua di un contenitore
di luoghi comuni, nonostante le smentite degli studi; un «altrove», lontano
e comodo, di origini, radici, comportamenti sociali che si avverte la neces-
sità di formalizzare, per quanto sommariamente, in un «prima» distante,
che ottiene un grande riscontro presso il largo pubblico proprio perché cor-
risponde alla cultura comune e a ciò che quel largo pubblico si aspetta.
Si sedimenta e cristallizza, di conseguenza, la deformazione prospettica
di un’altra idea, parimenti perversa e persuasiva: quella di un progresso
lineare e permanente della storia, istintiva quanto politicamente strumenta-
lizzata, ma sempre falsificante e dannosa, che Sergi, nel definirla «l’errore
affascinante», esorta gli specialisti a impegnarsi con energia a correggere.
Immaginando lo svolgersi del passato come un continuum spazio–tem-
porale senza inversioni di rotta, senza possibilità del verificarsi di momenti
di frattura specifici per un determinato luogo in un tempo dato, la cultura
diffusa fa del Medioevo l’ambito di origine e di provenienza delle forme di
vita sociale più estranee alla contemporaneità, perché non ha bisogno del
Medioevo qual è realmente stato, ma di un Medioevo inventato, consolida-
tosi attraverso i secoli nell’immaginario collettivo.
Il Medioevo dell’odierna cultura diffusa risente assai poco delle ricerche
degli storici e risponde invece a esigenze tenaci della psicologia collettiva,
variamente confermate e alimentate dalla grande informazione. Si pensi ai
titoli dei giornali, in cui sono definiti «medievali» i comportamenti retro-
gradi o brutali, «medievali» le pratiche magiche, «medievali» le forme più
estreme di oppressione. È un Medioevo essenzialmente Tre-Quattrocente-

1 G. SERGI, L’idea di Medioevo. Fra storia e senso comune, Donzelli, Roma 2005.
44 Squarci nel Medioevo

sco («finale», dunque), «cupo o luccicante a seconda dell’orientamento ide-


ologico di chi lo evoca» e che l’odierna ricerca storica fa fatica a intaccare.
Altrettanto radicata, perché nella sua semplicità perfettamente riuscita,
l’operazione culturale di «periodizzare» per dare ordine alla comprensione
della storia, nell’impossibilità, per la memoria collettiva degli uomini, di
entrare nel magma del passato senza boe di riferimento. Un’impossibilità
che ha cristallizzato un concetto di Medioevo talmente diffuso nell’uso
comune da rendere ormai impensabile abolirlo, anche se i mille anni che
ricomprende sono tutt’altro che omogenei.

4.2 Definire un periodo storico

La consuetudine di articolare in periodi distinti il flusso continuo degli


accadimenti umani e di considerare i periodi come quadri di riferimento
della conoscenza storica non è un procedimento puramente arbitrario, né
riposa soltanto su necessità di ordine pratico.
La periodizzazione presuppone la formulazione di un giudizio storico,
ossia l’identificazione di alcune caratteristiche essenziali nell’organizza-
zione e nella vita delle società del passato che possono essere riscontrate in
modo durevole per periodi di tempo abbastanza lunghi, con un rilievo tale
da diventare fattore distintivo rispetto ad altri periodi in cui quelle stesse
caratteristiche sono assenti o meno significative.
Non esistono regole per procedere a operazioni di periodizzazione stori-
ca, ma in qualsiasi caso occorre individuare i criteri in base ai quali identi-
ficare gli aspetti significativi di un tratto del tempo storico e le ragioni del
loro manifestarsi e perdurare. Peraltro, la periodizzazione non è un fine
primario o necessario della riflessione storica.
Di fatto, la realtà non conosce interruzioni temporali e i ritmi con cui
evolvono le diverse attività e funzioni delle società non necessariamen-
te coincidono. Istituzioni politiche e sistemi economici, espressioni della
cultura, e forme di insediamento possono seguire ritmi diversi e suggerire
diverse periodizzazioni settoriali che potrebbe essere impossibile armoniz-
zare in un paradigma generale e unitario. Vi sono aspetti della fenome-
nologia sociale condizionati dall’ambiente, naturale e biologico, che fino
all’avvento delle tecnologie moderne sono mutati con estrema lentezza,
così come possono permanere a lungo certi condizionamenti culturali. Il
divenire storico non è uniforme, ma conosce cicli e crisi, in rapporto ai
quali può essere distinto in fasi caratterizzate ciascuna da situazioni dure-
voli e coerenti.
Medioevo e periodizzazione 45

Per il Medioevo non si tratta di inventare una periodizzazione nuova, ma


di verificare se quella prodotta dalla riflessione storica a partire dal Quat-
trocento in Europa può ancora essere utile per interpretare il corso della
storia, a incominciare dai limiti cronologici del periodo. In realtà, non è più
possibile indicare una data precisa per l’inizio e per la fine del Medioevo,
né privilegiare una categoria di fenomeni come più significativa di altre.
Oggi, l’emergere di un’epoca e la sua conclusione vengono ravvisati in
fasce cronologiche ampie, estese su più secoli, nelle quali si intensificano
i sintomi di trasformazioni sostanziali in più campi della fenomenologia
storica.
L’inizio del Medioevo si può collocare in un periodo di almeno tre seco-
li, dal IV al VII, in cui si verificarono: l’istituzionalizzazione del cristiane-
simo, con la sua integrazione nell’impero romano e l’organizzazione di una
Chiesa ufficiale; le invasioni barbariche, con la costituzione di una società
multi-etnica germanico-romana nei territori dell’impero; la fine del sistema
economico imperiale, caratterizzato dal controllo statale sulla produzione e
dall’integrazione tra le diverse province affacciate sul Mediterraneo.
Questo periodo rientra in gran parte nella “tarda antichità”, termine che
ha sostituito quello di “basso impero” in cui si ravvisava un implicito giu-
dizio negativo. Con il progressivo dissolversi delle istituzioni romane della
tarda antichità germoglia il Medioevo.

4.3 Inizio e fine del Medioevo

L’anno 476, termine a quo che tradizionalmente segna la fine del mon-
do antico, perde in questa nuova prospettiva di significato. La deposizione
dell’ultimo imperatore romano d’Occidente concludeva l’esperienza istitu-
zionale creata, quasi due secoli innanzi, da Diocleziano e Costantino, ma non
ebbe particolare risonanza tra i contemporanei, che caso mai avvertirono una
cesura storica negli anni intorno alla metà del V secolo, quando si consumò
la separazione politica della parte orientale dell’impero da quella occidentale
e divenne concreta l’evidenza dell’inarrestabile dilagare dei barbari, con il
sacco di Roma del 410 compiuto dai Goti e con quello del 455 dai Vandali.
Come argutamente riassume Cipolla: «una delle più gravi tragedie vis-
sute dall’Europa nei secoli dei secoli fu la caduta dell’Impero Romano. A
quei tempi, come spesso accade nelle vicende umane, molti non ne avver-
tirono la gravità. Buona parte dei cittadini di Cartagine si stava godendo i
giochi nell’anfiteatro, quando la città fu attaccata dai Vandali, e i nobili di
Colonia erano a banchetto, quando i barbari arrivarono alle porte. Altri, in-
46 Squarci nel Medioevo

vece, si resero perfettamente conto della gravità degli avvenimenti: quan-


do l’esercito dei Goti guidato da Alarico saccheggiò Roma nell’estate del
410 A.D., san Gerolamo – che allora viveva a Betlemme e non era ancora
santo – scrisse “Si è spenta la luce più viva del mondo” e con profonda
angoscia e con le gambe che gli tremavano ebbe la forza di aggiungere:
“se Roma può perire, cos’altro ci resta?” Con poche eccezioni, gli storici
concordano sulla portata storica del disfacimento dell’Impero Romano»2.
Tra le eccezioni, quegli autori cristiani che videro nella fine dell’Impero un
tempestivo intervento divino per salvare l’umanità dal paganesimo e uno
storico economico inglese che, sensibilizzato dal gravoso sistema fiscale
oggi vigente nel Regno Unito, ritiene che la caduta di Roma «liberò milioni
di Europei dal pagamento di tributi insostenibili»3.
Per decine di generazioni, soprattutto in Italia, si è considerato termine
ad quem del Medioevo il 1492, più precisamente il 12 ottobre, quando
Rodrigo de Triana, membro dell’equipaggio di Cristoforo Colombo, scor-
se in lontananza le coste del Nuovo Mondo. Una data non scevra da echi
di orgoglio nazionalistico legati alla patria di provenienza del navigatore,
oltre che a secoli di dominazione spagnola nella Penisola.
Per delineare la fine del Medioevo, ancor prima delle invenzioni tecnolo-
giche e delle scoperte geografiche, occorre considerare i prolungati squilibri
socioeconomici determinati nel contesto europeo da una crisi demografica
avviata già nei primi decenni del Trecento e durata sino al Quattrocento inol-
trato, e da una lunga serie di crisi economiche, anch’essa protrattasi per oltre
un secolo e mezzo, che depresse le condizioni di vita e la produttività in
tutte le regioni europee. A questi aspetti si devono aggiungere la perdita di
prestigio delle istituzioni su cui si erano fondate l’organizzazione politica e
la coesione sociale – il papato, l’impero, la nobiltà cavalleresca – e la diffusa
aspirazione a nuovi valori religiosi ed etici e a nuovi criteri di verità.
La trasformazione fu tuttavia assai meno radicale di quella che diede
avvio al Medioevo. Il sistema sociale e quello culturale mutarono, ma non
furono sovvertiti. Molti aspetti economici e politici progredirono con con-
tinuità tra Medioevo e prima Età Moderna: le istituzioni statali mostrano
uno sviluppo costante tra Duecento e Cinquecento; il sistema economico,
fondato sull’equilibrio tra attività agraria e capitalismo commerciale ali-
mentato da una produzione manifatturiera concentrata in aree geografiche

2 C.M. CIPOLLA, Allegro ma non troppo. Pepe, vino (e lana) come elemeti deter-
minanti dello sviluppo economico dell’età di mezzo. Le leggi fondamentali della
stupidità umana, il Mulino, Bologna 1988, p. 11.
3 Ivi, pp. 11-12 n.
Medioevo e periodizzazione 47

ristrette, mantiene fondamentalmente immutati i suoi caratteri, anche in


questo caso fra Due e Cinquecento, nonostante le ripetute crisi settoriali, e
talvolta li razionalizza e ristruttura.

4.4 Il Nuovo Mondo: scoperto o riscoperto?

La mappa di Vinland (28x40 cm.), inizialmente datata al 1440, è stata


considerata la più antica rappresentazione del Nuovo Mondo e avrebbe do-
vuto confermare l’ipotesi della scoperta dell’America prima di Colombo.
La rappresentazione del mondo è eurocentrica e, oltre a includere Eu-
ropa, Asia e Africa, raffigura l’Islanda, la Groenlandia e, più a ovest, una
terra denominata Vinlanda Insula, con un’iscrizione che riferisce della sua
scoperta da parte dei vichinghi. Trovata nel 1957 all’interno del resoconto
della spedizione in Mongolia del frate francescano Giovanni da Pian del
Carpine, oggi è conservata nella biblioteca della Yale University, Connec-
ticut, USA.
Per verificare l’autenticità della Mappa di Vinland furono condotti diversi
esami. Sulla pergamena sono presenti linee nere e gialle sovrapposte. Nel
1974 e nel 1991, le analisi spettroscopiche rivelarono la presenza di un par-
ticolare minerale, l’anatasio, una sostanza nota in campo pittorico perché
forma il Bianco Titanio, ma utilizzata solo a partire dal 1920, in quanto pri-
ma non era possibile raffinarlo. Pareva dunque trattarsi di un falso realizzato
utilizzando inchiostro nero per tracciare le linee e inchiostro contenente ana-
tasio per creare l’effetto di ingiallimento e riprodurre l’aspetto antico.
48 Squarci nel Medioevo

Alcuni studiosi, tuttavia, sostennero che le concentrazioni di titanio


erano talmente basse da poter essere considerate contaminazioni di altri
inchiostri, mentre la datazione della pergamena al radiocarbonio aveva sta-
bilito che il supporto documentario risale al 1434+/-11.
La spettroscopia effettuata con laser rosso, mise allora in rilievo l’esi-
stenza di due colori sulla pergamena: righe gialle e righe nere sovrapposte
alle prime, ma in gran parte svanite. L’analisi delle righe nere condusse a
un inchiostro a base di carbone. L’analisi delle righe gialle confermò la
presenza di anatasio che, concentrato solo in determinati punti della perga-
mena, portò alla conclusione di una sua stesura volontaria e non dovuta a
casuali contaminazioni ambientali.
L’ipotesi attuale è che un falsario abbia creato l’effetto di deterioramen-
to sulla pergamena, ricorrendo a inchiostro gallotannato e che, pertanto, la
mappa è attribuibile al XX secolo, forse opera di Joseph Fisher, un gesuita
austriaco che avrebbe prodotto il documento in preda a una profonda de-
pressione dopo che, nel 1934, le sue credenziali accademiche erano state
messe pubblicamente in discussione. A ragione, parrebbe.
La falsità del documento, tuttavia, non implica necessariamente la falsi-
tà dell’avvenimento. Vinland, “Terra del vino”, è il nome che i norreni at-
tribuirono a una terra che scoprirono nel corso di una spedizione: una terra
ricca di viti selvatiche, di piante e di animali sconosciuti. Il primo autore
che narra della scoperta è Adamo di Brema nel suo Gesta Hammaburgen-
sis Ecclesiae Pontificum (1075), ma la stessa viene ricordata anche nella
Saga dei Groenlandesi. Al tempo delle esplorazioni vichinghe verso Nord
Ovest le condizioni climatiche erano diverse dalle attuali, caratterizzate da
temperature miti protrattesi sino al 1450 circa che spiegano anche l’etimo
di Groenlandia, “Terra verde”.
L’Anse aux Meadows, corruzione del francese l’Anse aux Méduses, os-
sia “la baia delle meduse”, è un sito archeologico che si trova nella parte
più settentrionale dell’isola di Terranova, in Canada, dove nel 1969 ven-
nero scoperti i resti di un antico villaggio vichingo, l’unico ufficialmente
accreditato tale in Nord America, al di fuori della Groenlandia. La ricerca
archeologica ha riportato alla luce otto edifici, tra cui una fucina e una se-
gheria, destinata a rifornire un cantiere navale, oggetti e utensili tipici della
civiltà norrena.
Inserito nell’elenco dei Patrimoni dell’umanità dell’UNESCO, l’inse-
diamento è considerato da molti il leggendario Vinland fondato dal vichin-
go Leif Ericsson verso la metà dell’XI secolo. Di sicuro, un gruppo di
colonizzatori norvegesi vi si stabilì, anche se solo per pochi anni. Si ritiene,
in base a evidenze sia archeologiche sia letterarie, che l’abbandono del sito
Medioevo e periodizzazione 49

sia stato determinato dalle pessime relazioni con i nativi americani, da con-
flitti relativi alle donne (15 in rapporto a un gruppo di 135 uomini) e dagli
inverni comunque particolarmente rigidi.

4.5 Declinare il Medioevo

Se un periodo storico si individua come durata entro la quale permango-


no evidenti e significative componenti peculiari della vita storica (strutture
economiche, orizzonti mentali, sistemi politici ecc.) che definiscono l’unità
e l’identità del periodo, l’epoca considerata tradizionalmente “Medioevo”
non è unitaria.
Non ci sono analogie, se non molto labili, tra i regni tribali degli inizi
e le monarchie della fine del Medioevo; non esiste alcuna parentela tra il
sistema economico basato sulla grande proprietà fondiaria dei primi secoli
e il capitalismo commerciale del Medioevo avanzato. L’identità storica del
Medioevo è quanto meno cangiante, anche perché frutto più di una pole-
mica che di indagine sui caratteri propri dell’epoca. Il Medioevo è stato
definito periodo unitario, da umanisti e illuministi, in relazione al presun-
to imbarbarimento della cultura letteraria, dei costumi e delle istituzioni.
Anche quando la valutazione negativa del periodo venne capovolta, per
esaltare l’ispirazione cristiana della società e i valori solidaristici del siste-
ma economico medievale, si adottò una chiave interpretativa generica, e in
sostanza mitica, che consentì di immaginare caratteri uniformi ricorrenti
in tutta un’epoca.
Il progredire degli studi e il passaggio da una sommaria valutazione
ideologica alla precisazione di situazioni concrete e del loro sviluppo nel
tempo mise in evidenza che i mille e più anni identificati come medievali
non sono affatto caratterizzabili in modo uniforme.
Fu Robertson il primo studioso a dividere il Medioevo in due periodi: il
primo dominato dalla barbarie, sia nella vita culturale sia nelle istituzioni
civili ed economiche; il secondo in cui la società europea avviò la costru-
zione di istituzioni, pratiche giuridiche e attività economiche nuove, che
rappresentano le premesse all’Età Moderna.
La prima parte del periodo, caratterizzata dall’insediamento dei germani
nel territorio dell’impero romano, dal predominio dei ceti militari, dall’eco-
nomia signorile e dalle prime sintesi istituzionali fra tradizioni germaniche,
cristiane e romane, parve segnata da una sua coerenza che, pur non sepa-
randola dal complesso del Medioevo, in cui molti di questi aspetti anche
trasformandosi conservarono attualità, la definiva però come un momento
50 Squarci nel Medioevo

con caratteri propri. Questo complesso di secoli venne perciò globalmente


indicato come “primo Medioevo” o “alto Medioevo”.
Specularmente, e quasi per contrasto, si misero in evidenza anche i ca-
ratteri specifici degli ultimi secoli del Medioevo, individuati nella com-
plessa articolazione della società, distinta ormai in ordini e ceti diversi e
spesso contrapposti, nella crisi dell’unità cattolica, sia sotto il profilo poli-
tico sia culturale, nella depressione economica. Caratteristiche che si mani-
festarono a partire dalla seconda metà del Duecento fino al Quattrocento e
che favorirono l’individuazione di un periodo coerente denominato “tardo
Medioevo” o “basso Medioevo”.
Restavano privi di definizione i secoli centrali del Medioevo, dall’XI
fino alla metà del XIII, contrassegnati da manifestazioni storiche che non
potevano essere completamente assimilate né a quelle dell’alto né a quelle
del basso Medioevo. Situazioni che nell’alto Medioevo erano ancora intri-
se di primitivismi e rozzezze derivanti dalla matrice barbarica giungono
a un alto grado di complessità e articolazione, grazie all’affermazione di
attività economiche e di valori umani più vari .
Nei secoli centrali del Medioevo compaiono nuove figure sociali, il
chierico e il mercante; la spiritualità cristiana viene assorbita nelle forme
della vita laica; si procede alla modernizzazione della sapienza antica tra-
smessa dalle lettere classiche; si crea una maggior ricchezza economica
distribuita nei vari ceti. Nel cuore del periodo, il XII secolo si presenta
come il momento in cui il Medioevo esprime una civiltà originale, armo-
nica e consapevole in tutti gli aspetti della vita sociale – governi, mercati,
scuole – così come nella letteratura e nell’arte. Non a caso il XII secolo è
stato considerato il primo “rinascimento” nella storia europea.
I secoli centrali del Medioevo presentano dunque un’autonoma coerenza
pari a quella riconosciuta ai due blocchi di secoli tra i quali si collocano. È
invalsa pertanto la consuetudine di considerare il corso del Medioevo artico-
lato in tre fasi. Nella storiografia tedesca e inglese esse vengono abitualmen-
te indicate come: “primo Medioevo” (Frühmittelalter, early Middle Ages);
“alto Medioevo” (Hochmittelalter, high Middle Ages); “tardo Medioevo”
(Spätmittelalter, late Middle Ages). In questa periodizzazione la qualifica di
“alto” è stata quindi attribuita ai secoli centrali, mutandone il valore: anziché
la parte iniziale dell’epoca, essa ne designa la parte “alta”, ossia l’apogeo.
In italiano si sono conservate le indicazioni “alto” e “basso” Medioevo
per i due periodi estremi, mentre per la parte centrale non si è ancora affer-
mata una designazione sintetica, anche se in prevalenza si ricorre all’ag-
gettivo “pieno”. La mancanza di una terminologia storica corrispondente
a quella tedesca e inglese determina talvolta grossolani equivoci nella tra-
Medioevo e periodizzazione 51

duzione di testi scritti in quelle lingue che impiegano la definizione “alto


Medioevo” per indicare la parte centrale del periodo.

4.6 L’unità del Medioevo

Le tre fasi – iniziale, centrale, finale – in cui è stato diviso il Medioevo,


pur configurandosi come momenti specifici e ben identificabili, possono
essere considerate rispettivamente come i tempi della formazione, della
piena esplicazione e della dissoluzione di una stessa realtà, costituita da un
fascio di componenti sociali, risorse economiche e creazioni culturali che
si modificarono con processi interni fino al sopravvenire di nuove e più
incisive condizioni di trasformazione con l’età moderna.
L’unità del Medioevo deve essere ravvisata non tanto nella permanen-
za invariata di alcuni caratteri fondamentali, quanto nella coerenza della
loro evoluzione, secondo un andamento che può essere considerato come
una curva che parte molto in basso tra VI e VII secolo, tende verso l’alto
e raggiunge il culmine tra XII e XIII secolo, per poi cambiare direzione
volgendo verso il basso, senza però tornare ai livelli di partenza e anzi
predisponendosi per un nuovo cambiamento di direzione verso la fine del
Quattrocento. Una curva che non disegna un semicerchio, poiché le sue
estremità si collocano lungo una retta in salita. E ciò spiega perché il rap-
porto del Medioevo con l’Età moderna, quando quella retta continua a sali-
re, possa per molti aspetti configurarsi come rapporto di continuità.

L’epoca medievale può essere conclusa e remota, repulsiva o affascinan-


te a seconda della sensibilità, delle aspettative, della formazione culturale
o ideologica dell’osservatore, ma comunque significativa in se stessa per i
valori e le esperienze di vita che vi si sono realizzate.
In questa prospettiva, il Medioevo è considerato alla stregua di una ci-
viltà, ponendo l’accento sull’attività creativa degli uomini in campo eco-
nomico, politico e soprattutto letterario, artistico e religioso, di cui restano
testimonianze imponenti che ancora oggi suscitano partecipazione emoti-
va. Secondo questa interpretazione, però, non ha senso porre il Medioevo
in relazione comparativa o evolutiva con altre epoche della storia, perché
52 Squarci nel Medioevo

ciascun sistema di valori e di raffigurazioni ha significato autonomo. La


civiltà medievale è compiuta in se stessa e non deve essere giustificata in
quanto premessa di altre più mature esperienze.
Una forma attenuata e aggiornata di questa concezione è l’analisi del
Medioevo in chiave di antropologia culturale. In quest’ottica il Medioevo
è studiato non nelle manifestazioni creative dell’intelletto, ma in quelle
ripetitive e irriflesse della mentalità collettiva e della cultura sociale, os-
sia nelle convenzioni e nei rituali attraverso i quali le società regolano i
bisogni e i comportamenti a base biologica degli individui e assicurano la
propria perpetuazione.
Si può anche, tuttavia, considerare il Medioevo come parte integrante
di un divenire più lungo attraverso il quale si sono modellati realtà e ideali
che sono ancora operanti e costituiscono l’identità storica dell’Europa, per
la quale il continente si distingue dal resto del mondo.
Il considerare il Medioevo componente ancora vivente della civiltà
dell’Europa contemporanea nasce dall’esigenza di decifrare la cultura at-
tuale nelle sue premesse e nelle sue implicazioni. Il rischio evidente è tut-
tavia di apprezzare il Medioevo essenzialmente in quanto epoca di origini,
in cui caratteri e situazioni anche fondamentali hanno una configurazione
primitiva e di interesse genetico, di testimonianza dell’antichità e della no-
biltà di situazioni e concezioni che trovano però maturità e reale capacità
di coinvolgimento solo successivamente.
Di certo, il Medioevo è un periodo storico che ha senso solo se riferito
alle vicende storiche dell’Europa. L’estensione del concetto di Medioevo
ad altre società di altre parti del mondo si fonda su un criterio di pura
contemporaneità con il Medioevo europeo e non su una somiglianza di
esperienze storiche. L’idea conserva qualche legittimità soltanto quando
applicato a società, come quella araba, che furono in rapporto di scambio
reciproco con quella europea nel periodo medievale, fermo restando che
in quel mondo le esperienze vissute nei secoli corrispondenti al Medioevo
europeo ebbero caratteri propri e configurarono una società diversa.
È proprio questa pertinenza esclusiva alla storia europea che impedisce
di considerare il Medioevo come una sezione di passato neutra. Il Medio-
evo è certamente la fase iniziale della formazione dell’Europa, ma rappre-
senta anche una realizzazione compiuta e significativa di quella esperienza,
una prospettiva di civiltà che non è andata completamente perduta e, anzi,
ha continuato ha esercitare influenza sia nella vita della società europea, sia
nella sua coscienza culturale. Il Medioevo è contemporaneamente un sot-
tosistema chiuso e una componente dinamica dell’altro più grande sistema
aperto che è la fisionomia storica dell’Europa.
Medioevo e periodizzazione 53

Principali opere citate

C.M. CIPOLLA, Allegro ma non troppo. Pepe, vino (e lana) come elementi determi-
nanti dello sviluppo economico dell’età di mezzo. Le leggi fondamentali della
stupidità umana, il Mulino, Bologna 1988.
P. DELOGU, Introduzione alla storia medievale, Milano 2003.
G. SERGI, L’idea di Medioevo. Fra storia e senso comune, Donzelli, Roma 2005.
S. TRAMONTANA, Capire il Medioevo. Le fonti e i temi, Carocci, Roma 2005.
55

CAPITOLO 5
ANTROPOSTORIA:
ANTROPOLOGIA FISICA E RICERCA STORICA

«On doit des égards aux vivants,


on ne doit aux morts que la verité»
(Voltaire)

5.1 Fatti e ricerca scientifica

Nel 1985 si è costituita a Melzo l’Associazione «Amici di Sant’Andrea»


con il fine di realizzare il recupero architettonico e il restauro degli affre-
schi dell’antica chiesa sconsacrata di Sant’Andrea. I componenti dell’As-
sociazione ritrovarono, durante gli scavi condotti nella pavimentazione
della zona absidale dell’edificio, un teschio che, per l’isolata e singolare
deposizione, fece loro pensare alla possibilità di avere scoperto i resti di un
personaggio di una qualche rilevanza storica1.

1 F.M. VAGLIENTI, Anatomia di una congiura. Sulle tracce dell’assassinio del duca
Galeazzo Maria Sforza tra scienza e storia e C. CATTANEO, D. PORTA, Indagini antro-
pologico-forensi effettuate sul cranio, in «Atti dell’Istituto Lombardo. Accademia di
Scienze e Lettere di Milano», vol. 136 (2002), fasc. 2, Milano 2004, pp. 237-273.
56 Squarci nel Medioevo

Gli «Amici di Sant’Andrea» fecero pertanto eseguire sui reperti una


prima serie di perizie dagli esperti del Museo Civico «Giovio» di Como
e dell’Istituto di medicina Legale dell’Università degli Studi di Milano.
Le analisi, condotte dalla professoressa Cristina Cattaneo, fornirono dati
importanti per la successiva identificazione del teschio, sebbene il reperto
risulti mutilo di tutta la sezione sinistra e gravemente danneggiato da fattori
post-deposizionali: la datazione al C14 colloca il reperto nel 1451 con un
range temporale del 2%, compreso tra 1430 e 1480; il cranio appartiene a
un esemplare di sesso maschile (con una percentuale di approssimazione
del 97%), di razza caucasica e di età compresa tra i 32 e i 39 anni.
L’Associazione melzese, sapendo che sul finire del Quattrocento la loca-
lità era stata infeudata dal duca Galeazzo Maria Sforza alla sua amante, Lu-
cia Marliani e che il signore di Lombardia era stato brutalmente assassinato
nel 1476, ritenne possibile che i reperti potessero appartenergli.
A questo punto, affinché le supposizioni trovassero maggiore concre-
tezza, sia scientifica, con la conduzione di nuovi esami, sia storica con il
reperimento di documentazione di confronto con le analisi condotte, gli
«Amici di Sant’Andrea» decisero, nel 1996, di rivolgersi all’allora Istituto
di Storia medioevale e moderna dell’Università degli Studi di Milano (oggi
Dipartimento di Scienze Storiche e della Documentazione Storica).
All’inizio dell’indagine storica sulla possibilità che i resti trovati a Mel-
zo fossero effettivamente attribuibili al duca Galeazzo Maria Sforza esi-
stevano solo poche certezze: il signore di Milano era nato il 14 gennaio
1444 e morì, a 32 anni, il 26 dicembre 1476. I parametri di base forniti
dalle prime analisi antropologiche erano pertanto compatibili con l’ipo-
tesi avanzata dai membri dell’Associazione. Occorreva tuttavia condurre
ricerche assai più approfondite che supportassero, con adeguata documen-
tazione, le ulteriori analisi di laboratorio in corso sui denti, sulle lesioni
del cranio, sulla ricostruzione facciale e sul patrimonio genetico dei reper-
ti, onde procedere a una identificazione il più possibile scientificamente
corretta e oggettiva.
Sino alla recente pubblicazione di una voce dedicata allo Sforza nel Di-
zionario Biografico degli Italiani2, le notizie che le enciclopedie italiane
e straniere avevano dedicato al personaggio provocavano, per laconicità,
un indubbio senso di sconforto: «Galeazzo Maria primo tra i figli legittimi
di Francesco, ereditò dal padre il ducato di Milano. Quando egli fu ucciso
(26 dicembre 1476) rimase il titolo ducale al figliuolo minorenne Gian Ga-

2 F. VAGLIENTI, v. Galeazzo Maria Sforza, in Dizionario Biografico degli Italiani,


vol. 51, Roma 1998, pp. 399-409.
Antropostoria: antropologia fisica e ricerca storica 57

leazzo (...)»3. Come sostenere che, al di là del merito - non suo - di essere
stato messo al mondo, e del demerito - questo sì tutto suo - di essersi fatto
uccidere, niente di quanto da lui compiuto in oltre trent’anni di vita valesse
la pena o fosse opportuno ricordare: una sconcertante reticenza, durata gli
stessi cinque secoli di anonimato dei reperti di Sant’Andrea di Melzo. Chi
era, dunque, Galeazzo Maria?

5.2 Anamnesi di un duca defunto

Di sana costituzione fisica, Galeazzo Maria era estremamente attento


all’igiene del corpo tanto da depilarsi completamente, all’uso romano, e di
pretendere che tutti coloro che entravano a contatto fisico con lui praticas-
sero il medesimo, con grande scandalo dei contemporanei a giudicare dalla
testimonianza resa dal Corio: «usava i bagni e con artificio si faceva cavare
i peli della persona e similmente, a quelli che usavano seco, i capelli donde
si faceva tagliare; oltre modo si dilettava ad avere bella mano»4. È molto
probabile che alla particolare cura dimostrata per mani e capelli Galeazzo
Maria accompagnasse anche un’attenzione maniacale alla salute dei pro-
pri denti che perseguiva - come scientificamente dimostrato per Isabella
d’Aragona, duchessa di Milano sul volgere del Quattrocento - tramite l’uti-
lizzo di stuzzicadenti in metallo e di “netezadori”, una sorta di spazzolini
da denti, associati a paste fortemente abrasive di composizione quanto mai
varia e fantasiosa (pomice, osso di seppia, corallo, carbone di legna, mar-
mo, salnitro, salgemma, cheratina, sali o limatura d’argento ecc.)5.
Di certo, l’esame dei denti condotto sul teschio rinvenuto a Melzo ci
attesta uno stato pressoché perfetto dei numerosi esemplari rimasti, che
risultano privi di carie, con modesti depositi di tartaro, ma con significative
abrasioni regolari dello smalto, a testimoniare l’uso volontario e regolare
di strumenti rigidi per la pulizia dentaria. Uno stato dei denti eccellente
che conferma una posizione sociale di rango elevato del soggetto, tale da

3 G.B. PICOTTI, v. Sforza, in Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani,


vol. XXXI, Roma 1950. Qualche accenno, peraltro estremamente sintetico, sul-
la sua opera di governo si trova ora in v. Sforza Family, in Britannica Concise
Encyclopedia, 2003 e in v. Sforza, in The Columbia Encyclopedia, Sixth Edition
2001.
4 BERNARDINO CORIO, Storia di Milano, a cura di A. Morisi Guerra, II, Torino 1978,
parte VI, pp. 1410-1413.
5 F. D’ERRICO – G. VILLA, Il sorriso di Isabella, in “Storia & Dossier”, 1989, pp.
64-68.
58 Squarci nel Medioevo

consentirgli – nella seconda metà del XV secolo - il possesso di oggetti di


igiene personale rari e raffinati e la possibilità, riservata ai soli ceti più ab-
bienti, di nutrirsi con regolarità, varietà e abbondanza di alimenti6.
L’analisi dello smalto dentario del reperto mostra poi la presenza di inte-
ressanti ipoplasie specifiche, dovute a sofferenze fisiologiche patite dall’or-
ganismo tra il settimo e il decimo anno di età. Dalle vicende storiche si può
supporre che, durante la prima infanzia, Galeazzo Maria dovette subire pri-
vazioni alimentari e forti stress emotivi, coinvolto nel bellicoso peregrinare
del padre Francesco Sforza alla conquista armata del ducato di Milano7.
Di sicuro, dalla testimonianza dei documenti conservati presso l’Archivio
di Stato di Milano8, risulta accertato che il giovane principe, a nove anni,
soffrì di un violento episodio di piressia, protrattasi dal 28 giugno al 18
luglio 1453, accompagnata da sudorazione abbondante e da fenomeni di
epistassi con perdite di oltre 2 centilitri di sangue per evento, diagnosticata
dai proto fisici ducali9 come febbre terzana doppia, malattia ciclica di cui
avrebbe manifestato i sintomi ricorrenti, nel corso degli anni10, e di cui del
resto risentirono anche la madre e i fratelli.
Tra l’autunno 1469 e la primavera del 1470, Galeazzo Maria si sarebbe
poi ammalato gravemente, tanto da giungere a far redigere un primo te-
stamento: piegato da una pesante tensione psicologica, manifestava forti
dolori di stomaco, frequenti emicranie e svenimenti, provocati – come già
asserito dai medici che l’ebbero in cura – dai ritmi frenetici impostigli dalle
vicende politiche di quel periodo11.

6 Sul tema, cfr. R. GRAND – G. DELATOUCHE, Storia agraria del Medioevo, Milano
1968, in particolare alle pp. 491-548; M. MONTANARI, La fame e l’abbondanza.
Storia dell’alimentazione in Europa, Laterza, Roma-Bari 1993; Storia dell’ali-
mentazione, a cura di M. Montanari, J.L. Flandrin, vol. I, Laterza, Roma-Bari
1997; B. BARTOLI, A. BACCI, Regime alimentare nei gruppi umani del passato, in
Non omnis moriar, a cura di F. Mallegni, B. Lippi, Roma 2009, pp. 201-219.
7 F.M. VAGLIENTI, Abbiategrasso, culla di stirpe ducale, in Abbiategrasso, a cura di
P. De Vecchi e G. Bora, Le vetrine del sapere n. 4, Skira, Milano 2007, pp. 233-
262.
8 Un dettagliato carteggio, relativo allo stato di salute di Galeazzo Maria e dei
fratelli, è conservato in Archivio di Stato di Milano, Archivio ducale visconteo-
sforzesco, Potenze Sovrane, cart. 1459.
9 Sul ruolo dei protofisici ducali nel monitorare continuamente la salute degli eredi
Sforza, cfr. M. FERRARI, “Per non manchare in tuto del debito mio”. L’educazione
dei bambini Sforza nel Quattrocento, Milano 2000, pp. 105-107.
10 Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, Carteggio degli Inviati e diver-
si, cart. 1623 (anni 1467-1470).
11 Archivio di Stato di Milano, Archivio ducale visconteo-sforzesco, Potenze Estere,
cart. 218 e, ivi, Potenze Sovrane, cart. 1461.
Antropostoria: antropologia fisica e ricerca storica 59

Forse proprio per liberarsi dallo stato di ansia perenne che lo opprimeva
nell’esercizio del potere politico, lo Sforza amava cimentarsi fisicamente,
talvolta con i fratelli, in tenzoni neanche troppo simulate, stando agli spo-
radici resoconti coevi che citano contusioni e ferite più o meno superficiali
riportate dai contendenti, nonostante le raccomandazioni del padre France-
sco di «non schirzare con ferri, sarizi o bastoni»12.
Sul cranio ritrovato a Melzo, si è riscontrata una serie di lesioni che, esiti di
traumi pregressi la morte, con successivo rimodellamento della ferita, è impu-
tabile ad armi da asta e da botta, inducendo a ritenere come il soggetto, in vita,
fosse avvezzo a praticare l’esercizio delle armi, per svago o per mestiere.

Una volta ancora, la documentazione archivistica fornisce un prezioso


indizio per la possibile identificazione del teschio: nell’agosto 1468, infatti,
il ventiquattrenne duca di Milano aveva organizzato per divertimento una
finta battaglia, in pieno assetto di guerra, nel parco del castello di Pavia,
dove si scontrò con i fratelli Sforza Maria e Ludovico il Moro, con i quali
«se apizarono talmente insieme con le lanze13 et mazade14 che durò la sca-

12 D. ORANO, I “Suggerimenti di buon vivere” dettati da Francesco I Sforza pel


figliuolo Galeazzo Maria, Roma s.d. (1901). Sul contenuto e gli obiettivi dei Sug-
gerimenti, cfr. M. FERRARI, “Per non manchare in tuto del debito mio”cit., pp.
47-49.
13 La lancia, arma nobile da asta, era più piccola dell’alabarda sia nel ferro sia nel le-
gno; terminava con una punta semplice e breve di varia forma, ma senza aggiunte
laterali. Veniva portata soltanto da un uomo a cavallo, per colpire di punta. Cfr. G.
DE FLORENTIIS, Storia delle armi bianche, De Vecchi, Milano 1974, p. 106.
14 Le “mazzate”, nella seconda metà del XV secolo, potevano essere inferte con la
mazza d’arme, l’azza o il martello d’arme. La mazza d’arme era riservata ai nobili
ed era costituita da un manico di ferro vuoto e da una testa con sei oppure otto
60 Squarci nel Medioevo

ramuza fin le IIII° hore de nocte [circa le 22.00] et non altramente che se
la fosse stata una vera scaramuza»15. È probabile come in questa, e forse
decine di altre occasioni consimili, i contendenti abbiano riportato traumi
anche rilevanti, sebbene non mortali.

Un’altra lesione si trova sull’osso frontale; questa è tondeggiante, con


diametro di 26 mm. circa e con segni di proliferazione ossea di vecchia
data, a indicare la pregressa infiammazione dell’osso traumatizzato e la
sicura sopravvivenza del soggetto all’evento traumatico.
La copia di una lettera del duca Galeazzo Maria al castellano di Milano
Gio.Pietro Bergamino, datata Abbiate 12 marzo 1473, attesta, per testimo-
nianza diretta dello Sforza stesso, che quel giorno «stando […] a vedere zo-
care a la balla, ne cascò uno saso sopra la testa e ne l’ha rotta un pocho»16.
Infine, l’esame del cranio trovato in Sant’Andrea ha rivelato agli esperti
un altro indizio: l’assenza totale del versante sinistro del cranio presenta

coste, piastre in ferro triangolari dotate talora di una punta acuminata. L’azza era
un’arma da botta e da punta, infissa in un manico lungo poco più di un metro, con
all’estremità un ferro trasversale foggiato a martello da un lato e a punta dall’altro.
Il martello d’arme era un’arma da botta infissa in un manico di legno o di ferro,
simile all’analogo moderno utensile. Cfr. G. DE FLORENTIIS, Storia delle armi bian-
che cit., p. 106.
15 Archivio di Stato di Milano, Archivio ducale visconteo-sforzesco, Potenze Sovra-
ne, cart. 1461.
16 Archivio di Stato di Milano, Archivio ducale visconteo-sforzesco, Registri delle
Missive, cart. 113, ff. 4-6.
Antropostoria: antropologia fisica e ricerca storica 61

infatti una configurazione tale da attestare che la frattura non è stata pro-
vocata da fattori post-mortem. La grave lesione ha pertanto determinato,
forse insieme ad altre, il decesso del soggetto.

5.3 L’assassinio del duca

Per interpretare questo peculiare e significativo indizio, soccorre il detta-


gliato resoconto rilasciato da Orfeo Cenni da Ricavo17, consigliere e amico
fidato del giovane duca, tramite il quale è possibile rivivere, insieme all’io
narrante, i gesti materiali in cui si tradusse la congiura di Santo Stefano
che spezzò la vita di Galeazzo Maria, il 26 dicembre 1476, e – con tutta
probabilità – ne fracassò il cranio:

Essendo nel mezo della chiesa […] quello traditore di Giovanni Andrea
[Lampugnani] li misse [al duca] tutto il pugnale nel corpo18. El povero signore
si li misse le mani19 e disse: io son morto! Illo ed eodem stante, lui [il Lampu-
gnani] reprichò l’altro cholpo nello stomacho; li altri dua [congiurati, Gero-
lamo Olgiati e Carlo Visconti] li dierono quatro cholpi: primo nella ghola dal
canto stancho20, l’altro sopra la testa21 stancha, l’altro sopra al ciglio nel polso22,

17 E. CASANOVA, L’uccisione di Galeazzo Maria Sforza e alcuni documenti fiorentini,


in “Archivio Storico Lombardo”, XXVI (1899), pp. 299-332.
18 Il primo colpo di pugnale viene inferto, dal basso verso l’alto, nell’inguine del
duca, recidendo presumibilmente l’arteria femorale sul lato sinistro, poiché sap-
piamo che il Lampugnani si trovava inginocchiato di fronte alla vittima e che,
probabilmente, utilizzò la destra.
19 Il duca, sorpreso, portò istintivamente le mani alla ferita.
20 Il termine stanco, nel volgare italiano del Quattrocento, significa, riferito a parti
del corpo, “sinistro”, in contrapposizione con la sezione destra, la cui mano era
tradizionalmente deputata al lavoro, cfr. G. DEVOTO – G.C. OLI, Il dizionario della
lingua italiana, Le Monnier, Firenze 1990. Il colpo di pugnale nella gola, por-
tato a braccio teso dall’alto verso il basso sul lato sinistro, di cui riferisce anche
l’oratore mantovano, ha probabilmente reciso la carotide: le testimonianze sono
unanimi nel ricordare con orrore un notevole spargimento di sangue.
21 Probabilmente il colpo di pugnale, inferto a braccio teso dall’alto verso il basso,
colpì una zona imprecisata del cranio tra osso frontale e parietale.
22 Questo colpo risulta di particolare interesse. Nel Medioevo, con il termine “polso”
si indicavano, infatti, le arterie (dal latino “pulsus-us”, ossia “battito”, derivato di
“pulsus” participio passato di “pellere”, ossia “battere, urtare, spingere”), cfr. G.
DEVOTO – G.C. OLI, Il dizionario della lingua italiana cit. La pugnalata, dunque,
venne inferta in una zona, compresa tra l’arcata orbitale sinistra e l’arteria tem-
porale, corrispondente alla piccola ala sfenoidale e con tale violenza che, per la
lunghezza della lama (oltre 20 cm.), dovette provocare una profonda lesione del
62 Squarci nel Medioevo

el quarto nel fiancho di drieto23, e tutti di pugnali. E questo fu inn un baleno e


uno alzare d’occhi, e chosì venne rinchulando indrieto, tanto che quasi mi diè
di petto. E veniva trabocchando, e io lo volsi sostenere, ma non fui chosì pre-
sto che ‘l cascò a sedere e poi rinverso in tutto. E dua di quelli traditori non lo
abandonaron mai per insino24 che fu in terra.

Ritenendo che il duca, sotto i vestiti, indossasse una “corazzina” protet-


tiva, è presumibile che per colpire i congiurati abbiano utilizzato lo sfon-
dagiaco, un pugnale a due tagli con lama molto robusta e punta rinforzata,
spesso a brocco (lunga e acuminata). L’arma era appositamente ideata per
penetrare, con un micidiale colpo di stocco, il giaco, cioè la camicia di
maglia di ferro indossata sotto la sopravveste o l’armatura.

seno sfenoidale e delle fosse nasali, favorendo probabilmente anche il distacco tra
osso frontale e zigomatico.
23 Il termine “fianco” (dal francese antico “flanc”, ala esterna di un esercito) è di
interpretazione ambigua, potendo ugualmente indicare sia il “lato” posteriore (di
drieto) del cranio, coincidente con la zona occipitale, sia la parte laterale dell’ad-
dome (nel senso odierno attribuito al termine), cfr. A.J. GREIMAS – T.M. KEANE,
Dictionnaire du moyen français. La Renaissance, Larousse, Paris 1992. Tuttavia,
poiché i due congiurati, che agivano all’unisono infierendo sul lato sinistro del
corpo del duca, continuarono a colpire la vittima anche quando la stessa cadde
a terra in posizione seduta, come affermato oltre, è molto probabile che anche
questa ferita mortale, l’ultima in ordine temporale, sia stata portata al cranio, in
quanto maggiormente esposto rispetto al resto del corpo ormai accasciato; inol-
tre, se si trattasse del lato dell’addome, risulterebbe incongruente specificare “di
dietro”.
24 per insino, ossia “anche quando”.
Antropostoria: antropologia fisica e ricerca storica 63

Poi si scatenò il panico e tutti, spettatori innocenti e congiurati, si die-


dero alla fuga. Soltanto Orfeo pare abbia mostrato sincera pietà per lo
Sforza: «el povero signore rimase lì morto e, invero, io volevo rimanere
per non abbandonarlo, ma Pietro Visconti mi chiamò e disse: a questo
non si può rimediare, monta a cavallo e andiamo in castello». A notte
inoltrata, il cadavere straziato del duca venne portato nella sacrestia della
chiesa, spogliato, lavato e ricomposto: gli vennero riscontrate 14 ferite di
cui 8 mortali.

5.4 Risultanze antropologiche

CONNOTATI CRANIO GALEAZZO


MARKER

Epoca della morte 1430-1480 1476

Sesso maschile maschile


Razza caucasica caucasica
Età 32-39 33
Contrassegni Esiti di frattura della teca cra- Partecipazione a tornei vio-
nica, anni prima del decesso, lenti con strumenti idonei a
in regione frontale e parietale, provocare le lesioni formate
quest’ultima «formata» rilevate sul capo.
Incidente documentato

Malattie Ai denti, ipoplasia dello Episodio prolungato di feb-


smalto, indice di una patolo- bre terzana doppia all’età di
gia sofferta durante l’infan- 9 anni
zia, probabilmente tra i 6 e i
9 anni

I dati comparativi riportati in tabella mostrano una forte concordanza tra


i caratteri di Galeazzo Maria e quelli desunti dal cranio. Se si operasse in
un vero scenario forense moderno, si procederebbe infatti alla seconda fase
identificativa, vale a dire quella della comparazione dei dati genetici, den-
tari o fisiognomici dello Sforza con quelli del cranio. In altre parole, al fine
di arrivare a una identità certa, senza alcuna ombra di dubbio, si dovrebbe
procedere a una delle seguenti indagini:
1. esame del DNA, vale a dire comparare l’assetto genetico del cranio in
oggetto con quello della madre, del padre e/o dei figli del soggetto;
64 Squarci nel Medioevo

2. esami odontologici, vale a dire richiedere la cartella clinica dell’ipo-


tetico odontoiatra del soggetto e confrontare i restauri dentari registrati dal
dentista con quelli eventualmente visibili sul cranio;
3. esami antropologici, vale a dire effettuare un confronto tra la morfo-
logia di strutture ossee visibili su eventuali radiografie effettuate in vita al
soggetto con la morfologia delle stesse strutture studiabili sul cranio (ad
esempio, la forma dei seni frontali: ipotesi altrettanto impossibile da porre
in atto); oppure effettuare un confronto fisiognomico.
Nel caso di soggetti storici, ovviamente privi di documentazione sanita-
ria, le uniche vie plausibili sono quelle del confronto genetico e fisiogno-
mico.
Nel corso degli anni di studio dei reperti melzesi, numerosi sono stati i
tentativi effettuati in diversi laboratori europei (prevalentemente italiani e
inglesi) di estrarre DNA utile dalle ossa e dai denti del cranio e di amplifi-
carlo tramite le tecniche biomolecolari più nuove quali la PCR (Polymera-
se Chain Reaction).
L’estrazione di materiale genetico ben conservato permetterebbe infat-
ti di confrontare l’assetto genetico di Galeazzo con quello, ad esempio,
della figlia Bianca Maria (i cui resti ossei sono sepolti nella zona absidale
dell’abbazia di Stams, in Austria), al fine di giungere a un giudizio più sicu-
ro di identità. Tuttavia la pessima conservazione di alcuni resti scheletrici
spesso ostacola la fattibilità di questa indagine.
L’estrazione di DNA da materiale antico, pur essendo documentato in
letteratura, è comunque un’impresa spesso impossibile e, nel migliore dei
casi, ardua, per i problemi inerenti alla degradazione dello stesso DNA.
Il DNA è una molecola infatti che si degenera nel tempo, rendendosi di
frequente inadatta allo studio. Altro grande problema riguardante l’appli-
cazione di metodiche genetiche su materiale scheletrico antico è quello del
tropismo della molecola del DNA per i cristalli di idrossapatite che si tro-
vano nei tessuti ossei e dentari. Il materiale genetico si lega spesso irrever-
sibilmente alla struttura inorganica delle ossa, rendendo così impossibile la
sua estrazione da tali tessuti e il suo conseguente studio.
Allo stato attuale le indagini genetiche non hanno dato esito positivo:
vi è la presenza di DNA nelle ossa del cranio, ma risulta troppo degradato
per poter fungere da substrato utile a una indagine comparativa di tipo
genetico.
Nei casi di identificazione di vittime di omicidio di epoca moderna, vi
sono diversi modi per effettuare confronti “fisiognomici”. È possibile ef-
fettuare un confronto tra i caratteri morfologici e metrici di un cranio e di
un volto, così come è possibile effettuare un confronto diretto tra due volti.
Antropostoria: antropologia fisica e ricerca storica 65

Ciò tuttavia presuppone che vi sia a monte un’immagine più reale possibile
della persona in vita, cui si sospetta appartenga il cranio.
Nel caso di soggetti storici, non è possibile applicare in maniera scienti-
fica e precisa tale metodica, dal momento che, non essendovi a disposizione
immagini fotografiche bensì ritratti alquanto soggettivi, è impossibile ave-
re la certezza sulla veridicità di uno specifico tratto. È tuttavia plausibile
effettuare un confronto più grossolano, ma scientificamente più onesto, tra
la fisiognomia del volto del soggetto storico con quella del volto ricostruito
dal cranio. Per fare ciò, è necessario procedere alla ricostruzione facciale.

5.5 La ricostruzione facciale

La tecnica della ricostruzione facciale non è una metodica che permetta


di identificare con certezza un soggetto. Ciò significa che se la ricostru-
zione del volto dal cranio, una volta terminata, assomiglia alla persona cui
si sospetta appartenesse in vita il cranio, ciò non è prova inconfutabile di
identità. È tuttavia una tecnica che, seppur grossolana, serve per ricordare
la fisiognomia di un soggetto, quasi come una caricatura, al fine di poter, al
massimo, rafforzare delle ipotesi di identità.
In questo caso la ricostruzione facciale del volto dal cranio è stata effet-
tuata secondo le più moderne direttive dell’antropologia forense, a partire
dai resti ossei del cranio.
Effettuata la copia del cranio e della mandibola originali è stato neces-
sario ricostruire le parti mancanti (il cranio era infatti incompleto). Per la
volta cranica e per la mandibola è stato sufficiente riprodurre specularmen-
te la parte presente, mentre i mascellari, essendo completamente assenti,
sono stati ricostruiti in base alla morfologia del cranio e soprattutto alla
conformazione della dentizione, del tutto particolare, della mandibola. Sul
cranio completo è stata quindi portata avanti la ricostruzione facciale.
Questa si effettua in due fasi: la prima consiste nella ricostruzione in due
dimensioni del probabile profilo del soggetto; la seconda fase è la vera e
propria ricostruzione in tre dimensioni dal cranio.
La ricostruzione in due dimensioni consente la costruzione del profilo
dal cranio secondo calcoli matematici basati su valori craniometrici del
soggetto in esame; ciò si rivela particolarmente utile soprattutto nella co-
struzione dei distretti cefalici, quali il naso e le labbra che, non essendo
sostenuti da tessuto osseo, sono di difficile interpretazione. La ricostruzio-
ne in due dimensioni guida la fase successiva, che porta alla ricostruzione
tridimensionale dal cranio.
66 Squarci nel Medioevo

Il punto di partenza sono gli spessori tissutali; ognuno di questi rap-


presenta lo spessore di tessuto molle che separa la superficie del volto dal
sottostante cranio in un determinato punto. Esiste una banca dati di valori
misurati in trentadue specifici punti del cranio. Si tagliano quindi trentadue
pezzetti di legno dello spessore desiderato, che vengono fissati nei rispetti-
vi punti del cranio. Sono queste misurazioni che forniscono un’indicazione
relativa al limite esterno del volto.
Utilizzando del materiale plasmabile, come creta o plastilina, si iniziano
a ricostruire le strutture muscolari: dalle più profonde alle più superficiali.
Si parte dai grossi muscoli della masticazione, quali i masseteri e i tem-
porali, e si prosegue con i muscoli dell’espressione facciale. Per quanto
riguarda le strutture ghiandolari, soltanto la parotide viene riprodotta, dal
momento che è l’unica ghiandola che ha un effetto sulla forma del volto; il
suo margine anteriore è di solito a metà massetere.
Per quanto riguarda gli occhi il loro colore è stato suggerito da analisi
antropologiche e razziali sul cranio; il loro posizionamento si effettua siste-
mando i bulbi oculari riprodotti in resina, all’interno delle orbite, avendo
cura di far combaciare le pupille con il punto di intersezione di due ipote-
tiche rette perpendicolari tra loro, la prima che congiunge il punto medio
del margine superiore e il punto medio del margine inferiore dell’orbita, la
seconda che congiunge il punto medio del margine laterale dell’orbita con
la sutura fronto-mascellare.
Il naso è, insieme alle labbra, la zona del volto più difficile da ricostrui-
re, non esistendo una struttura rigida che possa guidarne la ricostruzione. In
norma frontale, la larghezza dei tessuti molli del naso generalmente supera
di un terzo la larghezza dell’apertura nasale bilateralmente. In norma late-
rale la ricostruzione in due dimensioni guida quella in tre dimensioni. L’an-
golo del terzo inferiore delle ossa nasali fornisce informazioni riguardo alla
curvatura del naso: in linea di massima più sono orizzontali le ossa nasali
più questo sarà “spezzato” (gobba); più le ossa nasali saranno verticali e
più il naso si presenterà simile a quello dei pugili.
La larghezza della bocca corrisponde alla distanza tra i canini e alla
distanza tra le pupille mentre per quel che riguarda il profilo, anche
in questo caso la ricostruzione in due dimensioni fornisce un’ottima
guida.
Terminata la costruzione degli strati sottocutanei si procede alla model-
lazione degli strati superficiali. Per questa operazione è fondamentale sia
il contributo dell’analisi antropologica, che fornisce dati sull’età del sog-
getto, sulla razza, sulla costituzione e sul suo stato di salute, sia dell’analisi
storica che guida il tipo di acconciatura.
Antropostoria: antropologia fisica e ricerca storica 67

A questo punto si completa la ricostruzione facciale con l’ausilio di


tecniche computerizzate che consentono di “ritoccare” il prodotto grezzo
applicando una corretta tonalità della pelle, rughe, sopracciglia e capelli
fornendo un prodotto molto più simile a una fotografia piuttosto che a una
scultura.
68 Squarci nel Medioevo

Diventa allora possibile effettuare un cauto confronto tra la morfologia


del volto, soprattutto del profilo della ricostruzione, con il profilo di Gale-
azzo. Si possono osservare notevoli somiglianze tra Galeazzo e il volto ri-
costruito, in particolare nella forma del naso (arcuato in basso), della bocca
(che mostra un lieve prognatismo), del mento (un poco sfuggente), nonché
nelle proporzioni del volto.

Particolare della Rappresentazione della Corte di Galeazzo Maria Sforza, miniatura


di arte lombarda tratta dal Codice dell’Opusculum super declarationem arboris
consanguinitatis et affinitatis di Gerolamo Mangiaria, Parigi, Bibliothèque Nationale,
ms. lat. 4586
Antropostoria: antropologia fisica e ricerca storica 69

In primo piano, a destra, il ritratto di Bianca Maria Visconti Sforza, di maestro


lombardo (già attribuito a Bonifacio Bembo), 1460 ca., Milano, Pinacoteca di Brera.

Tali somiglianze non sono tuttavia da intendersi come prova di identità.


La cautela scientifica non permette di spingersi a un giudizio che risul-
terebbe “forzato”. Non è possibile pretendere dalle indagini scientifiche
effettuate in campo archeologico la medesima accuratezza e il medesimo
potenziale delle stesse indagini applicate in casi moderni. Gli elementi tec-
nici a disposizione non permettono infatti di ottenere prove inconfutabili.
Consci dei limiti del potenziale della tecnologia in ambito archeologico,
è comunque possibile affermare che esistono fortissime concordanze di
connotati, di contrassegni e di fisiognomia tali da rendere molto probabile
l’ipotesi che il cranio in oggetto sia effettivamente quello di Galeazzo. I
limiti delle applicazioni tecniche su questo tipo di materiale, così come il
dovere dell’onestà scientifica, anche in un campo in cui la prova difficil-
mente potrebbe essere contestata, impone di non spingersi oltre.

5.6 Cause e modalità di morte

Val la pena, commentare brevemente, da un punto di vista patologico-


forense, quel che riguarda le cause e le modalità di morte del soggetto
cui apparteneva il cranio. Lo svantaggio di dover studiare uno scheletro,
in confronto al cadavere ben conservato, è quello di spesso perdere, con
la scomparsa dei tessuti molli, le prove della causa di decesso, anche in
70 Squarci nel Medioevo

casi di morti violente dovute ad arma bianca, ai colpi d’arma da fuoco e


a modalità lesive di tipo contusivo. L’arma deve aver intaccato in qual-
che modo l’osso affinché possa lasciare all’antropologo traccia di una
possibile causa di morte e l’antropologo si trova spesso nelle condizioni
di dover interpretare anche le più piccole scalfitture sull’osso come po-
tenziali tracce riconducibili al mezzo lesivo che ha causato la morte. Nel
caso in oggetto, il tutto è reso più difficile dal fatto che si dispone soltanto
del cranio.
Le fonti storiche testimoniano che Galeazzo venne attinto ripetutamen-
te da una o più armi bianche (verosimilmente pugnali) che possono aver
provocato lesioni da punta, da taglio (per il solo effetto del passaggio della
lama sulla superficie cutanea), o da punta e taglio (con parziale o completo
affondamento della punta e della lama). Le sedi colpite sono addome e/o
inguine, collo e capo. Poiché è stato rinvenuto solamente il cranio, ci si può
soffermare esclusivamente su quelli che sono i possibili esiti di un accani-
mento con lo strumento sul capo del soggetto.
Le lesioni da punta, da taglio e da punta e taglio lasciano, quando col-
piscono l’osso, un piccolo foro nel primo caso, una stria o scalfittura nel
secondo, e una breccia più o meno profonda che riproduce la sezione del
tagliente nel terzo. Nessuno di questi tipi di lesione è stata rinvenuta su
quel che resta del cranio. Va tuttavia ricordato che un complesso lesivo
formato da numerosi lesioni da punta e taglio sull’osso potrebbe avere pro-
vocato una frammentazione dei distretti colpiti; inoltre, la forza viva inferta
dal pugnale sul cranio potrebbe aver avuto un effetto anche contusivo, pro-
vocando fratture craniche indipendenti dalle lesioni da taglio. Ciò avrebbe
portato a una formazione di tasselli ossei che, con la decomposizione dei
tessuti molli, si sarebbero distaccati dal resto del cranio integro e che po-
trebbero essere andati persi, se non meticolosamente raccolti nella trasla-
zione dei resti. Il cranio esaminato mostra vaste perdite di sostanza ossea
nel versante sinistro. Le fonti storiche riferiscono che il capo di Galeazzo è
stato ripetutamente attinto sul lato sinistro. Pertanto la perdita di sostanza
del massiccio facciale di sinistra e di gran parte della calotta cranica di si-
nistra troverebbe ampia giustificazione in una modalità lesiva come quella
descritta dai cronisti.
Pur essendo vero che, considerato il pessimo stato di conservazione
del tessuto osseo, risulta difficile distinguere con assoluta certezza brecce
ossee riconducibili all’effetto degli insulti ambientali subiti dal cranio in
epoca post-deposizionale (post-mortem) da quelle da ricondursi alle lesioni
mortali (peri-mortem), le caratteristiche delle fratture ossee a sinistra non
contrastano con l’ipotesi di un trauma contusivo.
Antropostoria: antropologia fisica e ricerca storica 71

È poi difficile stabilire se quelle al capo siano state le lesioni mortali.


Un colpo all’inguine avrebbe potuto recidere l’arteria o la vena femorale;
un colpo all’addome un viscere importante quale milza o fegato; quello
al collo vasi importanti quali l’arteria carotide e la vena giugulare. La rei-
terazione di colpi al capo tuttavia, se penetranti o comunque comportanti
lesioni anche di tipo contusivo, avrebbero provocato lesioni encefaliche
potenzialmente mortali.
In conclusione, come se volesse aggiungere prova a tenue prova, il cra-
nio presenta lesioni ossee che ben si accordano con la modalità lesiva mor-
tale descritta dai testimoni. Ciò rafforza ulteriormente l’ipotesi che si tratti
in effetti del cranio di Galeazzo.

5.7 Un cadavere è scomparso

Nelle Memorie storiche della diocesi di Milano è riportata la narrazione


di un cronista di metà Cinquecento, Urbano Monti, che riferisce dell’ope-
razione, intrapresa dal cardinale Carlo Borromeo, di far inumare le spoglie
dei laici conservate nelle chiese lombarde, in risposta a specifico invito
mosso nel Concilio di Trento. L’arcivescovo ambrosiano decise di iniziare
dalle tombe dei duchi di Milano «fra i quali – narra il Monti – furono tro-
vati poco meno che intieri [ossia ben conservati] i corpi de Filippo Maria,
ultimo duca de Visconti, di sua figliola Bianca Maria, moglie del primo
Francesco Sforza, et di Giovanni Galeazzi, lor figliolo, ucciso già a Milano
l’anno 1477, vestito di brocato “ala ducale”, nelle cui mani furono trovati
due anella d’oro, cioè una turchina, di valore di circa quindeci ducati, et un
robino, stimato apresso a ducento, di bellissima ligatura, mostrandosi tal
robino fuori d’alcuni frutti et foglie nascenti da due corna di dovicia, che
facevano il giusto tondo dell’anello»25. A fronte di una testimonianza tanto
precisa, sorgono alcune perplessità.
In primo luogo, il sacello ducale, con tutta evidenza, era una cassa in le-
gno, magari anche riccamente decorata, ma non un sacello in pietra, chiuso
ermeticamente. Infatti, dichiara il Monti «quelli che in pietra erano ben
chiusi […] furono lasciati»26. Il Cognasso, del resto, nel descrivere le mo-
deste onoranze funebri riservate a Filippo Maria Visconti nell’agosto 1447,
cita un’arca lignea, posta dietro all’altare maggiore, tra i due piloni medi

25 Memorie storiche della diocesi di Milano, vol. VIII, Milano 1961, p. 324.
26 Ibidem.
72 Squarci nel Medioevo

del retro coro, vicino a quella del fratello Giovanni Maria27. Nel marzo
1466, quando Francesco Sforza morì improvvisamente, le gravi circostan-
ze politiche che minacciavano la successione al ducato del giovane Gale-
azzo Maria, impegnato militarmente in Francia e poi oggetto di un agguato
e di un prolungato assedio nell’abbazia della Novalesa28, consentirono sì
alla duchessa reggente Bianca Maria Visconti di seppellire il coniuge con
grande pompa in duomo, ma anche in tutta fretta, rinviando a tempi più
sereni la realizzazione di un sepolcro marmoreo che, in realtà, nessuno
dei successori del condottiero sarebbe mai riuscito a far realizzare29. Ne
discende che, con tutta probabilità, le spoglie di Francesco Sforza vennero
tumulate nel sarcofago del suocero. Bianca Maria, morta nel 1468, venne a
sua volta sepolta insieme al padre, Filippo Maria, e al marito. Tutti, come
testimonia il buono stato di conservazione dei cadaveri a cent’anni dalla
sepoltura, subirono un qualche processo di imbalsamazione: una pratica
tornata in auge a partire dal XIII secolo presso le dinastie regnanti e legata
al cerimoniale del doppio funerale e al passaggio dei poteri sovrani30.
Ora, a prescindere dall’errore nel nome attribuito al terzo corpo, identi-
ficato come Gian Galeazzo e non, eventualmente, come Galeazzo Maria, e
nella data della sua morte (confusione forse dovuta allo stile di datazione
detto della “Natività”, in uso a Milano sin dall’XI secolo e che faceva coin-
cidere l’inizio dell’anno con il 25 dicembre e non con la data della Circon-
cisione), è assodato che tra la morte e la sepoltura di Galeazzo Maria Sfor-
za non vi furono i tempi tecnici, oltre che la volontà politica, di procedere
all’imbalsamazione del cadavere, peraltro pesantemente danneggiato dalle
ferite infertegli nel corso dell’assassinio. Un primo problema, dunque, di
portata non indifferente, nasce dall’eccellente stato di conservazione delle
salme, constatato, da testimoni oculari, al momento dell’apertura dell’arca
ducale.

27 F. COGNASSO, I Visconti, Milano 1966, p. 502.


28 F.M. VAGLIENTI, Galeazzo Maria Sforza cit., p. 400.
29 Mentre pare che Bianca Maria avesse l’idea di far eseguire un sepolcro marmoreo
per onorare le spoglie del marito, Galeazzo Maria optò per un monumento com-
memorativo equestre in bronzo: nel 1472 aveva cercato inutilmente di assicurarsi
i servigi dei fratelli Mantegazza e di Antonio Pollaiolo. Come noto, neanche Lu-
dovico il Moro ebbe miglior fortuna con Leonardo. P. GHINZONI, Statua equestre
in bronzo di Francesco Sforza, in “Archivio Storico Lombardo”, a. V (1878), pp.
140-144; V. BUSH, Leonardo’s Sforza Monument and Cinquecento Sculpture, in
“Arte Lombarda”, a. L (1978), pp. 47-68; M. KEMP, Leonardo da Vinci. Le mira-
bili operazioni della natura e dell’uomo, Mondadori, Milano 1982, pp. 186-190.
30 G. RICCI, Il principe e la morte, Il Mulino, Bologna 1998.
Antropostoria: antropologia fisica e ricerca storica 73

Secondariamente, seppure come elemento a corollario del sopralluogo


cinquecentesco, viene narrato del ritrovamento di due preziosi anelli: un
turchese e un rubino. Anche in questo caso si dispone di una testimonianza
precisa in merito agli anelli che furono fatti indossare a Galeazzo Maria
quando venne ricomposta la salma. Si tratta in effetti di un turchese, di un
rubino e del sigillo ducale. Bernardino Corio, uomo di corte e osservato-
re privilegiato del cerimoniale funebre, dichiarò infatti che «La mogliera
[Bona di Savoia] vi mandò tre anelle, cioè una turchesa, un robino et uno
sigillo de valore de trecento ducati» 31. Allora, così come sono stati ritrovati
l’anello con turchese, del valore di 15 ducati, e quello con uno splendido
rubino incastonato del valore di 200 ducati, viene da domandarsi perché
non è stato parimenti rinvenuto l’anello con sigillo, di valore sicuramente
inferiore al secondo e, se eventualmente trafugato, il più difficile da riven-
dere sul mercato dei preziosi rubati. Forse, nella traslazione successiva dei
resti della salma di Galeazzo Maria i due anelli sono stati lasciati «nelle»
mani, e non “alle” mani, di uno dei cadaveri rimanenti, conservando al de-
funto duca, di cui era nota l’ossessione araldica32, solo il suo sigillo; oppure
era già uso dei duchi Visconti farsi seppellire con indosso un anello con
turchese e uno con rubino, ricordando l’uno l’azzurro dell’impresa, l’altro
il morello della divisa: una tradizione viscontea che lo Sforza avrebbe di
sicuro accolto.
Infine, e soprattutto, se Francesco Sforza è stato sepolto nel sacello di
Filippo Maria Visconti e, di seguito, la moglie con lui, a loro volta raggiun-
ti da Galeazzo Maria, come ci è dettagliatamente testimoniato dall’onni-
presente Zaccaria de’ Saggi: «[…] El corpo del quondam Duca Galeazo,
la notte sequente del Zobia, dì nel quale el fu morto, circha le VII hore fue
portato in Duomo senza altra pompa: et è stato posto ne la cassa medesi-
ma del signor suo patre [Francesco Sforza], ne la quale haverà a rimanere
per non fare altra dimostratione ove el si sia et acciò che in posterum non
se possi mostrare a dito. Lì è posto el Duca Galeazo»33 e comprovato da
Bernardino Corio, altro osservatore privilegiato: «Venuta la sera, si accese
gran numero de doppieri e dal clero, suoi famigliari e molti provixionati, il

31 BERNARDINO CORIO, Storia di Milano cit., p. 1410.


32 M. ALBERTARIO, Documenti per la decorazione del Castello di Milano nell’età di
Galeazzo Maria Sforza (1466-1476), in “Solchi”, a. VII, n. 1-2 (Settembre 2003),
p. 20.
33 Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, Carteggio degli inviati e diver-
si, cart. 1625, c. 341. Lettera di Zaccaria de’ Saggi da Pisa, oratore mantovano
presso la corte sforzesca di Milano, al marchese Ludovico Gonzaga, Milano, 28
dicembre 1476.
74 Squarci nel Medioevo

morto corpo dil principe fu portato nel magior templo de Maria Vergine e
tumulato in mezo de due colonne, levato da terra ad alto, ne l’ordine de li
altri antecessori suoi»34, ebbene all’appello manca un cadavere.
In ragione dei termini precisi utilizzati dai due testimoni oculari alla
cerimonia di sepoltura di Galeazzo Maria Sforza, sono infatti pochi i dubbi
sulla sede della sua tumulazione iniziale: da Zaccaria de’ Saggi viene espli-
citamente citata «la cassa medesima del signor suo patre», ossia un’arca
lignea che, tramite le osservazioni del Monti e le parole del Corio – «tu-
mulato in mezo de due colonne, levato da terra ad alto, ne l’ordine de li
altri antecessori suoi» -, sappiamo costruita per Filippo Maria Visconti e
poi destinata ad accogliere le spoglie del genero, della figlia e del nipote
assassinato. Quattro salme nel 1476, che sono diventate tre nel 1565.
Così, mentre sarebbe risultato politicamente ingiustificato per i succes-
sori del quinto duca di Milano pensare alla traslazione del corpo dell’ul-
timo Visconti, garante della legittimità della nuova dinastia sforzesca, op-
pure del duca Francesco, fondatore della stessa, o tanto meno di Bianca
Maria Visconti, vincolo istituzionale tra le due casate, l’unico personaggio,
ospite scomodo dell’arca ducale e la cui assenza non solo non sarebbe stata
notata, ma avrebbe favorito i piani di chi voleva fosse dimenticato al più
presto, è proprio Galeazzo Maria «per non fare altra dimostratione ove el si
sia et acciò che in posterum non se possi mostrare a dito».
Ipotizzare dunque che le spoglie del defunto duca di Milano siano state
trasportate a Melzo, nel feudo comitale della potente e ricca Lucia Marlia-
ni, sua privilegiatissima amante35, per offrirgli una degna, anche se discreta
sepoltura, non è del tutto privo di legittimità.

34 BERNARDINO CORIO, Storia di Milano cit., p. 1410.


35 F.M. VAGLIENTI, v. Marliani Lucia, in Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana fondata da G. Treccani, vol. 70, Roma 2008, pp. 611-
613.
75

CAPITOLO 6
LE FONTI VISIVE TARDO MEDIEVALI:
DA STRUMENTO DI PROPAGANDA
A STRUMENTO DI RICERCA

6.1 La fonti visive: maneggiare con cautela

Dal punto di vista di uno studioso di storia, in particolare medievale,


l’utilizzo delle fonti visive implica la consapevolezza di alcuni limiti me-
todologici di base ai quali, sebbene noti, forse vale la pena accennare bre-
vemente.
È indubbio che la produzione artistica rappresenta una fonte preziosa
per la ricostruzione storica, non tanto nel suo valore formale, che è oggetto
di studio e valutazione specialistica, quanto nei programmi che hanno gui-
dato l’ideazione dell’opera d’arte e per i significati concettuali da essa tra-
smessi. Anche quando non considerabile come una fonte volontaria, l’ope-
ra d’arte, soprattutto pittorica, testimonia di ambienti, costumi, arredi che
possono documentare la realtà quotidiana o, per converso, l’immaginario
dell’epoca in cui venne realizzata.
Già la sinodo di Arras del 1025 aveva sancito, per la popolazione,
l’apprendimento attraverso le figure e Onorio di Autun, enciclopedista
dell’epoca, ascrisse, fra i compiti della pittura, quello di istruire gli incolti:
«pictura est laicorum litteratura»1, cui fece eco il contemporaneo Valfrido
Strabone: «pictura est litteratura illitterato»2. La lettura iconografica, che
identifica i contenuti concettuali e le convenzioni illustrative delle opere
d’arte, può dunque legittimamente consentire l’utilizzazione della docu-
mentazione artistica ai fini della ricostruzione storica.
La lettura iconografica ha però alcune sue regole. Da studiosa di storia,
e dunque non specialista, confesso di nutrire una predilezione per la clas-
sificazione, un po’ datata ma reputo sempre efficace e soprattutto molto

1 A. GIALLONGO, L’avventura dello sguardo. Educazione e comunicazione visiva nel


Medioevo, ed. Dedalo, Bari 1995, p. 45.
2 VALFRIDO STRABONE, De imaginibus et picturis, PL 114, col. 929.
76 Squarci nel Medioevo

semplice, fornita dal semiologo tedesco Erwin Panofsky nel suo saggio del
1955, poi tradotto in italiano con il titolo Il significato nelle arti visive3.
Sinteticamente, lo studioso individua tre livelli di lettura:
1. il livello preiconografico, in cui si riconosce il soggetto primario o natu-
rale, che si applica «identificando pure forme cioè: certe configurazioni
di linee e colori o certi blocchi di bronzo o pietra modellati in un modo
particolare, come rappresentazioni di oggetti naturali, esseri umani, ani-
mali, piante, case, utensili, ecc.»4. Il mondo delle pure forme che così
riconosciamo è il mondo dei motivi artistici.
Questa attività di riconoscimento si basa essenzialmente sulla nostra espe-
rienza pratica, ma può accadere che un certo tipo di rappresentazione
(per esempio, un oggetto staccato dal suolo) sia stato utilizzato in un
certa epoca per indicare non quello che si potrebbe definire il suo “signi-
ficato letterale” (in questo caso un oggetto che si libra in aria), ma, piut-
tosto, un’apparizione. È allora necessario, per non cadere nell’inganno
dell’interpretazione “letterale” che la nostra esperienza ci propone, ri-
correre a una storia degli stili, che funga da fattore di controllo della
descrizione preiconografica.
2. Il passo successivo è quello dell’analisi iconografica, che permette, per
esempio, di riconoscere in un uomo nudo, con una mela in mano, non un
maniaco sessuale che insidia i bambini in un parco, ma Adamo. «I moti-
vi riconosciuti per questa via come portatori di un significato secondario
o convenzionale possono essere chiamati immagini e le combinazioni
di immagini sono ciò che gli antichi chiamavano invenzioni; noi siamo
portati a chiamarle ‘storie’ e ‘allegorie’»5.
La base dell’analisi iconografica si fonda sulla conoscenza delle fonti
sulle quali si basano le raffigurazioni pittoriche e, quindi, sui testi docu-
mentari, letterari e sulla tradizione orale. La conoscenza delle fonti non
è tuttavia sufficiente. Ci sono dei casi, infatti, in cui la rappresentazione
non è stata fedele al testo e, ad esempio, elementi di un tipo sono stati
inseriti nella raffigurazione di un altro tipo. È necessaria dunque una
storia dei tipi, una storia cioè dei differenti modi in cui, col tempo, «temi
specifici o concetti sono stati espressi in oggetti ed eventi»6.
3. Si arriva così all’ultimo livello, quello iconologico, in cui viene inda-
gato il significato intrinseco o il contenuto. «Lo si apprende indivi-

3 E. PANOFSKY, Il significato nelle arti visive, introduzione di E. Castelnuovo e M.


Ghelardi, Einaudi, Torino 1996 (Trad. di R. Federici. Prima ed. 1962).
4 E. PANOFSKY, Il significato nelle arti visive cit., p. 33.
5 Ivi, p. 34.
6 Ivi, p. 41.
Le fonti visive tardo medievali: da strumento di propaganda a strumento di ricerca 77

duando quei principi di fondo che rivelano l’atteggiamento fondamen-


tale di una nazione, un periodo, una classe, una concezione religiosa
o filosofica, qualificato da una personalità e condensato in un’opera»7.
L’analisi iconologica si fonda sull’intuizione sintetica, che Panofsky so-
stiene poter essere sviluppata più in un «profano di talento che in un
erudito specialista»8. Considerata la sua natura “irrazionale” e “sogget-
tiva”, l’intuizione sintetica deve però essere corretta «da uno studio del
modo in cui, mutando le condizioni storiche, muta anche la maniera in
cui le tendenze generali ed essenziali dello spirito umano sono espresse
attraverso temi e concetti specifici»9.

ATTO CORREDO NECESSARIO PRINCIPIO CORRETTIVO


INTERPRETA- PER L’INTERPRETAZIONE DELL’INTERPRETAZIONE
TIVO (storia della tradizione)

Descrizione Esperienza pratica (familiarità Storia dello stile (studio


preiconografica con oggetti e eventi) del modo in cui in diverse
(e analisi condizioni storiche gli
pseudoformale) oggetti e gli eventi sono
espressi mediante forme)

Analisi Conoscenza delle fonti Storia dei tipi (studio del


iconografica letterarie (familiarità con temi modo in cui in diverse
e concetti specifici) condizioni storiche i temi
e i concetti specifici sono
espressi mediante oggetti e
eventi)

Interpretazione Intuizione sintetica Storia dei sintomi culturali


iconologica (familiarità con le tendenze o simboli in generale
essenziali dello spirito (studio del modo in cui in
umano), condizionata dalla diverse condizioni storiche
psicologia e dal vissuto le tendenze essenziali dello
personali spirito umano sono espresse
mediante temi e concetti
specifici)

A questo punto dovrebbe rivelarsi chiara la differenza esistente fra ico-


nografia e iconologia. La prima è una pura descrizione e catalogazione di
immagini, mentre la seconda rappresenta, per lo più, un’interpretazione

7 E. PANOFSKY, Il significato nelle arti visive cit., p. 35.


8 Ivi, p. 42.
9 Ivi, p. 43.
78 Squarci nel Medioevo

dell’arte che può interagire con le altre scienze umane. Per uno studioso di
storia muoversi nell’ambito iconologico è però sovente come navigare in
un insidioso oceano popolato da mostri marini.
Tra i secondi, si deve annoverare il diverso significato che uno stesso
termine può aver assunto nel corso della sua secolare evoluzione linguisti-
ca, talvolta sino a finire per esprimere un concetto opposto all’originario. E
in queste trappole possono cadere anche i grandi studiosi: così, si confon-
de Adriano Prosperi quando attribuisce a Cennino Cennini l’aver intuito
l’importanza dell’osservazione anatomica nell’insegnamento impartito dal
pittore ai suoi discepoli che «la più perfetta guida che possa avere e miglior
timone sia la trionfal porta del ritrarre al naturale»10, perché l’espressio-
ne, come molto ben evidenziato da Marco Albertario, non presupponeva
all’epoca alcun apprezzamento per il verismo, quanto piuttosto l’adegua-
mento a modelli consolidati dalla tradizione artistica11.
Nella Milano di fine Quattrocento, era nel riferimento a un modello uni-
forme alla ritrattistica ufficiale che si riconosceva il significato dell’espres-
sione «retracto al naturale» (con le varianti «tracto dal naturale» o «cavato
dal naturale») che ricorre spesso nei documenti del periodo. Nulla pertanto
garantisce che l’espressione «retracto al naturale» implicasse, secondo la ter-
minologia entrata poi in uso nella critica d’arte del Cinquecento, la presenza
del soggetto ritratto: si trattava, più semplicemente, del ritratto somigliante
a un modello, fosse questo una persona, un dipinto, un disegno o un altro
oggetto d’arte». Il suo opposto era la pittura basata sull’«invenzione»12.

6.2 La ritrattistica come fonte

La contemporaneità di una fonte all’evento non la rende necessariamente


veritiera. Ciò vale tanto per le fonti narrative (annali, cronache, storie, biogra-
fie, memoriali, panegirici), letterarie (poemi, romanzi e novelle) quanto per
quelle iconografiche. La tendenza ad accentuare virtù e vizi di un personag-
gio a seconda del dettato ideologico dominante, condiviso o meno che fosse
dall’autore del documento, è fenomeno assai antico che deve rendere sempre

10 A. PROSPERI, Prefazione, in A. CARLINO, La fabbrica del corpo. Libri e dissezione


nel Rinascimento, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1994, p. XII.
11 M. ALBERTARIO, Galeazzo Maria Sforza (1466-1476) “…tracto dal naturale…”:
la circolazione dei modelli tra la corte e la Zecca Milanese, in “Quaderni del
Centro Culturale Numismatico Milanese”, fascicolo 8, 2002, pp. 3-29.
12 M. ALBERTARIO, Galeazzo Maria Sforza (1466-1476) “…tracto dal naturale…”
cit., p. 3, 5.
Le fonti visive tardo medievali: da strumento di propaganda a strumento di ricerca 79

molto cauti nell’utilizzo delle fonti, soprattutto intenzionali. L’idea poi che
nell’aspetto fisico si riflettesse l’indole fulgida o perversa di un personaggio
e che alla bontà sia associata la bellezza (kalokagathìa) affonda le proprie
radici nella concezione estetica della Grecia classica e talvolta ha talmente
ben attecchito da condizionare ancora oggi l’immaginario collettivo.
Più affidabili, in genere, i documenti indiretti, soprattutto i carteggi di-
plomatici e privati, che, quando prodotti con finalità diverse da quelle ce-
lebrative o denigratorie, riportano notizie attendibili sull’aspetto fisico, le
condizioni di salute e il carattere di personaggi storici.
Tra i primi a fornire una descrizione fisica di Riccardo III fu John Rous,
al servizio della casata di Warwick, che nella sua Historia Regum Angliae,
composta tra il 1489 e il 1491, instillava nei lettori il dubbio sulla mostruo-
sità fisica, oltre che morale, del sovrano usurpatore dando avvio al fenome-
no che Kendall ha definito “Tudor myth”: «nato dopo una gestazione di due
anni, con una chiostra di denti completa, i capelli lunghi fino alla schiena e
la spalla destra più alta della sinistra»13. Non così il ritratto che di Riccardo
III diedero due suoi contemporanei: l’ambasciatore tedesco Nicolas von
Poppelau, che lo descrisse «alto e snello, con braccia lunghe e sottili», e la
contessa Caterina di Desmond, che ebbe occasione di ballare con il princi-
pe, all’epoca ancora duca di Gloucester, e lo definì «il più bell’uomo della
sala, fatta eccezione per il fratello Edoardo»14.
A canonizzare l’immagine mostruosa dell’ultimo monarca York contri-
buì per converso, nella sua History of King Richard III, considerata pietra
miliare nella storia della prosa inglese, Thomas More, fedele consigliere
della nuova dinastia Tudor ascesa al trono in seguito alla vittoria di Bo-
sworth, fornendo un ritratto “fisico-morale” del sovrano sconfitto che,
ribadito dall’opera drammaturgica di Shakespeare, condiziona tutt’oggi
l’immaginario collettivo sul potente personaggio: «piccolo di statura, dagli
arti deformi, gobbo, con la spalla sinistra più alta della destra, dai linea-
menti duri e bellicosi a livelli estremi. Era malvagio, collerico, invidioso
da prima della nascita alla morte. […] Era introverso e pieno di segreti, un
grande ipocrita, privo di autocontrollo, dal cuore arrogante, esteriormente
amichevole mentre nell’intimo odiava, non esitava a baciare chi intendeva
uccidere, spietato e crudele, non solo per il male che sempre perseguiva ma
anche per ambizione e soprattutto per accrescere il proprio prestigio»15.

13 Storia del mondo medievale, a cura di Z.N. Brooke, Ch.E. Previté-Orton, J. Rob-
son Tanner, VII, Cambridge University Press, Garzanti, Milano 1981, p. 532.
14 J. HARVEY, I Plantageneti, trad. it. M. Vassalle, Dall’Oglio, Varese 1965, p. 272.
15 THOMAS MORE, The History of King Richard the Third, in P.M. Kendall, Richard
III. The great debate, New York-London 1965, p. 35; C. CAPPELLETTI, Riccardo
80 Squarci nel Medioevo

Da raffinato umanista, rivitalizzando il dettato estetico della Grecia clas-


sica, More distorce la realtà e condiziona alla sua interpretazione del perso-
naggio, resa la più autorevole dalle vicende politiche a lui contemporanee,
tutta la successiva produzione artistica, pittorica, teatrale e, ora, anche fil-
mica (Ian McKellen in Riccardo III, regia di Richard Loncraine, 1995 e Al
Pacino in Looking for Richard, 1996).
Nessuno dei ritratti pittorici di Riccardo III a noi pervenuti è coevo, ma
ne esistono due che sono considerati fra i più antichi e che risalgono alla
prima metà del Cinquecento, agli esordi del regno di Enrico VIII: uno si
conserva nella Royal Collection sin dal 1542, come testimoniato da inven-
tario; l’altro appartiene alla Society of Antiquaries of London dal 1828, cui
pervenne dalla collezione privata dei Paston di Oxnead, nel Norfolk.
In entrambi i casi, è stato evidenziato che i particolari dell’abbigliamento
e dei gioielli fanno presumere si tratti di copie di opere realizzate all’epoca
di Riccardo e oggi perdute.

Nella versione della Royal Collection, di fattura indubbiamente più pre-


gevole, sono state apportate alcune significative e deliberate modifiche:
così, la spalla destra del sovrano risulta macroscopicamente più alta della
sinistra con un’opportuna aggiunta di maglie alla lunghezza originale del
collare e ampliando la veste. L’analisi del dipinto ai raggi X ha conferma-
to chiaramente la portata degli interventi e ne ha rivelati altri: gli occhi di
Riccardo, inizialmente, non erano così stretti, né le sue labbra così sottili,

III fra storia e teatro shakespeariano, Tesi di laurea in Scienze dei Beni Culturali,
Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Milano, a.a. 2007-2008,
relatore F. Vaglienti, p. 25.
Le fonti visive tardo medievali: da strumento di propaganda a strumento di ricerca 81

o il suo setto nasale tanto allargato e incavato alla radice; anche la guancia
sinistra ha subìto un affinamento, a rendere il volto più affilato. Tutta una
serie di piccoli ritocchi strategici, volti ad affermare la teoria della deformità
fisica e caratteriale di Riccardo, sostenuta dai Tudor per delegittimare l’av-
versario e i suoi fautori e consolidare il trono di recente conquistato; ritocchi
cui, molto probabilmente, si piegò lo stesso artista esecutore originale della
copia, per soddisfare le aspettative della nuova dinastia committente.
Perfino il ritratto del sovrano conservato dalla Society of Antiquaries,
di fattura molto più modesta del precedente, presenta ritocchi successivi,
che il recente restauro ha evidenziato: la linea orizzontale tra le labbra,
infatti, era stata lievemente alzata, per conferire al volto un aspetto più
determinato, mentre la linea tra spalla e capigliatura forniva l’impressione
di un’inclinazione innaturale non presente nell’originale.

Occorre quindi procedere con estrema cautela nell’attribuire a un perso-


naggio storico determinate caratteristiche fisiche sulla sola scorta delle sue
rappresentazioni visive perché, come avviene per le fonti scritte, anche le
espressioni pittoriche erano talvolta fortemente condizionate dall’ideologia
dominante o dalla volontà propagandistica della committenza.
Altro esempio eclatante di questo assunto è la differente rappresentazio-
ne che uno stesso artista, Giotto, diede del medesimo personaggio, san Fran-
cesco, ritratto nello stesso momento, ossia nell’atto di ricevere le stigmate.
Non esiste alcun santo stigmatizzato prima di Francesco e rappresentare il
miracolo in modo da rispettare il dettato delle fonti (frate Elia, Tommaso da
Celano, san Bonaventura) e nel contempo salvaguardare la sensibilità dei fe-
deli e la suscettibilità della Chiesa va considerato, al di là dell’esecuzione arti-
stica, il vero capolavoro del maestro toscano. Purtroppo, proprio la scena XIX
è l’unica di tutto il del ciclo della Basilica Superiore di Assisi nella quale si
siano persi quasi completamente gli incarnati delle figure. Comunque, il santo
82 Squarci nel Medioevo

vi compare ritratto con la barba. Anche nella tavola, conservata al Louvre dal
1814 (inv. 309) ma realizzata per la chiesa di San Francesco di Pisa tra il 1295
e il 1300, di poco posteriore all’opera assisiate, il santo è raffigurato con la
barba, emaciato, reso serissimo dalla piena consapevolezza delle conseguen-
ze, sia dottrinarie sia fisiche, che il dono delle stigmate avrebbe comportato:
un ritratto che, oltre a risentire, nella fattezza dei volti, dell’eredità bizantina,
rispecchia la descrizione del santo fornita dai suoi seguaci e contemporanei,
testimoniata da una ininterrotta serie di immagini duecentesche.

L’iconografia del personaggio, del resto, segue pedissequamente il dettato della


Legenda maior (XIII,3) composta da san Bonaventura tra il 1260 e il 1263, a pochi
decenni di distanza dalla morte di Francesco.
Le fonti visive tardo medievali: da strumento di propaganda a strumento di ricerca 83

Nel ciclo di affreschi della Cappella Bardi (1325-1330), considerato il


testamento artistico del grande pittore, nel quale si trova una summa della
sua opera, il santo è invece sorprendentemente raffigurato glabro, giovane,
in salute e più sorpreso che preoccupato del dono che sta ricevendo.

Questa irregolarità iconografica, segnalata già nel 1981 da Luciano Bel-


losi, è tutt’altro che casuale: nasce piuttosto dalla volontà revisionistica
del francescanesimo, rappresentata dai Conventuali committenti dell’ope-
ra, nel tentativo di spogliare l’immaginario del santo più popolare della
cristianità del Trecento non solo dei significati pauperistici, cui implicita-
mente alludeva la sua figura, ma anche del suo aspetto fisico. In un’epoca
in cui le persone civili si radevano accuratamente e consideravano «uomo
di pessima ragione» chi si lasciava crescere la barba, è evidente l’intento
ideologico sotteso a questa libertà iconografica, concertata con gli ambienti
della Curia pontificia16. La Chiesa, del resto, già aveva faticato ad accoglie-
re e a far accettare ai fedeli il miracolo delle stigmate, come acutamente
evidenziato dagli studi di Chiara Frugoni17, e all’epoca non intendeva aval-
lare oltre misura le aspirazioni pauperistiche degli Spirituali e soprattutto
della sua frangia più estremista, i Fraticelli.

16 L. BELLOSI, Giotto, Firenze 1981, p. 73.


17 C. FRUGONI, Francesco e l’invenzione delle stimmate. Una storia per immagini e
parole fino a Bonaventura e Giotto, Einaudi, Torino 1993.
84 Squarci nel Medioevo

6.3 Propaganda massmediatica

Dalla metà del XIV secolo, dopo la repressione delle frange estreme
del movimento Spirituale, i Minori che pretendevano di difendere l’inter-
pretazione autentica della Regola, pur senza scontri diretti con l’autorità
ecclesiastica, assunsero il nome di Osservanti. Al movimento dell’Osser-
vanza diedero grande prestigio e diffusione frate Bernardino da Siena e i
frati Giovanni da Capestrano, Giacomo della Marca e Alberto da Sartea-
no, noti sin dalla seconda metà del Quattrocento come “le quattro colonne
dell’Osservanza”, in grado di orientare le scelte del pontefice in favore del
movimento a discapito dei Conventuali18.
Bernardino da Siena (al secolo Bernardo Albizzeschi, nato a Massa Ma-
rittima l’8 settembre 1380 e deceduto all’Aquila il 20 maggio 1444) è con-
siderato il tramite più rappresentativo del passaggio dall’eremo alla città da
parte degli Osservanti dell’Italia centrale. Le innovazioni retoriche da lui
introdotte provocarono un afflusso straordinario di pubblico: per ascoltare
le sue prediche i fedeli dovevano radunarsi in piazza, non essendo le chiese
sufficientemente capienti, e, non disponendo di mezzi adeguati di ampli-
ficazione della voce, venivano issati palchi da cui farlo parlare, studiando
con banderuole la direzione del vento, per poter così collocare le strutture
in luoghi atti a favorirne l’ascolto.
Gli argomenti trattati toccavano questioni molto sentite nella società,
come il tema dell’usura, e affrontavano aspetti della vita economica cittadi-
na di grande attualità: venivano difesi la proprietà privata, l’etica del com-
mercio, la determinazione del valore e del prezzo e l’operato dei mercanti
onesti. L’attivismo pastorale del predicatore senese era rivolto decisamente
alla società civile, considerata l’oggetto primo di un messaggio etico-re-
ligioso di stampo conservatore, destinato a restaurare ordine e disciplina
attraverso messaggi diretti all’imposizione di una dura legge morale di im-
mediata efficacia nella quotidiana convivenza tra individui.
Il rinnovamento introdotto da frate Bernardino «consistette – come so-
stiene Grado Merlo - soprattutto nell’elaborazione di un linguaggio capace
di coinvolgere le folle e di soddisfare alle esigenze (anche religiose) del
potere, oltre che nell’elaborazione di simboli salvifici e taumaturgici inno-
vativi e concorrenti. Nel culto del nome di Gesù e nel suo segno – il famoso
trigramma – frate Bernardino da Siena riesce a immettere un valore autono-
mo da imporre ai fedeli in sostituzione e correzione di altri simboli consoli-

18 G.G. MERLO, Nel nome di san Francesco. Storia del frati minori e del francesca-
nesimo sino agli inizi del XVI secolo, EFR, Padova 2003.
Le fonti visive tardo medievali: da strumento di propaganda a strumento di ricerca 85

dati nella pratica devozionale, istituzionale o popolare. (…) La necessità di


conformismo sociale e culturale delle costituzioni statali quattrocentesche
della penisola italiana (non meno che delle formazioni politico-territoriali
al di là delle Alpi) trovarono nella presenza e nella predicazione dei Minori
Osservanti un supporto non secondario. Esercizio di egemonie sociali e di
dominio politico ed esercizio della parola etico-religiosa non furono affatto
estranei. D’altronde gli Osservanti si servirono ampiamente dei detentori
del potere, ai vari livelli, per trovare sostegno alla propria continuità e, al
tempo stesso, furono al servizio dei detentori del potere in funzione della
celebrazione sacrale di organismi politici antichi e recenti». Operazioni di
promozione del consenso più pieno della popolazione verso l’autorità costi-
tuita, incanalando la vita collettiva all’interno dei dettami di rigide e intran-
sigenti leggi morali, di cui il maestro più eccelso fu proprio il frate senese.
Comprensibile, allora, il successo di cui frate Bernardino godette quan-
do, nel 1417, iniziò a predicare nelle città e nei borghi del nord Italia, trava-
gliati dalle lotte di fazione e dall’instabilità politica di regimi vecchi e nuo-
vi, e quanto mai mirata la decisione di esporre alla venerazione dei fedeli,
proprio a Milano per la prima volta, la tavoletta con il trigramma “IHS”.
Il trigramma “IHS” è l’errata trasposizione in alfabeto latino dell’ab-
breviazione del nome greco di Gesù, o, secondo un’altra interpretazione,
l’acronimo di “In Hoc Signo” in rapporto con la visione, riferita da Lattan-
zio, che Costantino avrebbe avuto prima della battaglia di Ponte Milvio
(312 d.C.) contro il rivale Massenzio, quando un angelo l’avrebbe esortato
a osservare il cielo dove il segno della croce campeggiava circonfuso di
luce e al di sopra fiammeggiavano le parole “in hoc signo vinces” (sotto
questo stendardo vincerai).
La diffusione del trigramma19, ispirato al simbolo già elaborato da Uber-
tino da Casale, venne fortemente sostenuta da Bernardino, che intende-
va promuovere, attraverso questa immagine, la venerazione del nome di
Gesù. Con profondo intuito psicologico, il frate francescano si proponeva
di riassumere il senso della sua predicazione nel nome di Cristo, inventan-
do un simbolo dai colori vivaci, adottato in locali pubblici e privati, che si
sostituisse ai blasoni e agli stemmi delle famiglie e delle varie corporazio-
ni, sovente in lotta fra loro.

19 F. VAGLIENTI, I frati minori dell’Osservanza, san Bernardino da Siena e il trigram-


ma IHS, in Rinascimento ritrovato. Nell’età di Bramante e Leonardo tra i Navigli
e il Ticino, a cura di P. De Vecchi e G. Bora, Le vetrine del sapere n. 3, Skira,
Milano 2007, pp. 81-82.
86 Squarci nel Medioevo

Quando giungeva in una nuova città, il santo francescano faceva posare


le tavolette con il trigramma sull’altare dove avrebbe celebrato la Messa e,
al termine dell’omelia, con la tavoletta benediceva la folla dei fedeli. Nei
luoghi di culto francescani e in quelli commissionati dai suoi tanti fedeli,
l’immagine di san Bernardino che regge la tavoletta con il trigramma è
seconda solo a quella del fondatore dell’Ordine.

Il trigramma ideato da san Bernardino (a motivo di ciò considerato oggi


patrono dei pubblicitari) consisteva in un sole raggiante in campo azzurro,
con al centro l’abbreviazione IHS in lettere gotiche. A ogni elemento del
simbolo Bernardino legò un significato specifico: il sole allude a Cristo,
dispensatore di vita, ma anche richiamo all’immortalità e alla resurrezione
(Cristo cronocratore) che l’astro celeste manifesta nell’alternanza perpetua
del giorno e della notte e dei cicli stagionali. Il calore del sole è diffuso dai
raggi ed ecco allora i dodici raggi serpeggianti che ricordano i dodici Apo-
stoli e i raggi diretti che rappresentano le beatitudini, suggerendo inoltre
l’idea dell’irradiarsi della Carità; la fascia che circonda il sole richiama la
felicità dei beati che non ha fine; il celeste dello sfondo la fede; l’oro delle
iniziali l’amore. Il significato mistico dei raggi serpeggianti era addirittura
espresso in una litania a facilitarne la memorizzazione: rifugio dei peniten-
ti, vessillo dei combattenti, rimedio degli infermi, conforto dei sofferenti,
onore dei credenti, gioia dei predicanti, merito degli operanti, aiuto dei
deficienti, sospiro dei meditanti, suffragio degli oranti, gusto dei contem-
planti e gloria dei trionfanti.
La campagna mediatica inaugurata da frate Bernardino ottenne un suc-
cesso strepitoso in tutta Europa, spingendo i suoi fedeli uditori a dipingere
Le fonti visive tardo medievali: da strumento di propaganda a strumento di ricerca 87

o scolpire il trigramma un po’ dappertutto e i suoi detrattori ad accusare il


predicatore di culto superstizioso ed eretico. Tra i suoi avversari Poggio
Bracciolini, Manfredi da Vercelli e l’agostiniano Andrea da Cascia.
Dopo il primo processo (Roma, nel 1427), per fugare ogni sospetto di
idolatria nei confronti della tavoletta IHS e per meglio indicare il lega-
me con il mistero della redenzione, papa Martino V ordinò di aggiungervi
l’immagine della croce, che venne posta sul trattino trasversale della “H”
maiuscola oppure formata aggiungendo un trattino orizzontale sull’asta
della “h” minuscola.
Il potere laico, a sua volta, seppe abilmente cavalcare la moda e volgere a
proprio vantaggio le contrapposizioni interne all’Ordine: in cambio dell’al-
leanza con i vertici dell’ala osservante, principi e governi cittadini pretese-
ro infatti dai predicatori più illustri, durante i lunghi periodi dell’Avvento e
della Quaresima, che convincessero i sudditi ad accettare religiosamente le
decisioni dell’autorità in campo socio-politico ed etico-economico.

6.4 Iconografia di un delitto

Produrre iconografie efficaci non fu però prerogativa dei soli Francesca-


ni. I loro più diretti concorrenti nell’accattivarsi i favori dei principi, italia-
ni e stranieri, furono come ben noto i Domenicani che, nella Milano di fine
Quattrocento, poterono avvantaggiarsi dell’appoggio fornito all’Ordine da
alcuni dei più potenti esponenti di fazione, tra i quali Pigello Portinari.
Il patrizio fiorentino, agente del Banco Mediceo a Milano e finanziatore,
per conto dei suoi padroni, di molte delle iniziative politiche sforzesche,
fece erigere nella basilica milanese di Sant’Eustorgio una cappella, «finita
di tutto ponto l’anno 1468», destinata a custodire una delle più preziose
reliquie in possesso dell’Ordine Domenicano, la testa di san Pietro Martire,
conservata per decenni nella preziosa teca donata dall’arcivescovo Giovan-
ni Visconti e poi sostituita da Ludovico il Moro con un tabernacolo d’ar-
gento dorato e cristalli di rocca, già destinato al sultano20. La critica, che in
assenza di testimonianze certe ha lungamente dibattuto il problema della
bottega cui venne affidata la decorazione della cappella, è ormai incline
a riconoscere a Vincenzo Foppa, responsabile negli stessi anni di tutte le
maggiori imprese pittoriche di iniziativa ducale a Milano, il solo artista cui

20 M. DALAI EMILIANI, Il ciclo del Foppa nella Cappella Portinari, in La Basilica di


Sant’Eustorgio in Milano, a cura di G.A. Dell’Acqua, Banca Popolare di Milano,
Milano 1984, pp. 155-171.
88 Squarci nel Medioevo

Pigello avrebbe potuto rivolgersi per l’ideazione e la direzione dei lavori di


un progetto così armoniosamente unitario. Il che non esclude l’intervento
di collaboratori di fiducia, come il cognato Bartolomeo Cailina, o il ricorso
a una équipe affiatata, come quella composta da Zanetto Bugatto, Costan-
tino da Vaprio, Bonifacio Bembo e Giacomo Vismara, legati da contratto
collettivo per varie altre commissioni (ad esempio, l’àncora della Cappella
delle Reliquie nel castello di Pavia).

Di certo però l’impianto iconografico delle scene risulta fortemente im-


prontato alle forme della predicazione domenicana, alle regole della co-
siddetta “arte della memoria” elaborata già nel XIII secolo da Tommaso
d’Aquino e da Alberto Magno e messa in pratica nell’oratoria didascalica
dell’Ordine, tradotte nell’icasticità dello stile narrativo degli affreschi, nel-
la semplicità e chiarezza di articolazione delle scene, nella scelta stessa
degli episodi biografici del santo illustrati sulle pareti. Tra questi, l’assassi-
nio nel bosco di Farga, dove il Credo, mormorato dal santo agonizzante di-
venta parola, scritta con il sangue che sgorga dalla ferita mortale, secondo
un’iconografia già consolidata.
Foppa appare dunque l’interprete di una strategia delle immagini cui
si chiedeva di orientare verso forme rigorosamente ortodosse la pietà po-
polare, insieme confermando nel ruolo di garanti dell’ordine religioso e
sociale i Domenicani di S.Eustorgio, estranei, anzi ostili alle tensioni verso
Le fonti visive tardo medievali: da strumento di propaganda a strumento di ricerca 89

la riforma osservante. A loro volta però, i Predicatori dovettero conciliare


le loro istanze con quelle del committente Pigello, che il Filarete testimonia
mecenate assai determinato nel far valere tutto il peso della sua cultura e
delle sue preferenze di gusto e di rango, come aveva già fatto per la decora-
zione del Banco Mediceo. Il risultato raggiunto fu comunque straordinario,
come magistralmente espresso da Roberto Longhi: «Il ‘fatto di sangue da
Barlassina’, come si potrebbe questa volta definire l’uccisione del famo-
so inquisitore domenicano, non altera la calma di questo paesaggio che,
non fosse dipinto dal Foppa, parrebbe descritto dal Manzoni. Potreste can-
cellare queste figure… e resterebbero ancora immobili e veri quel terreno
calpesto, quel viottolo fra i tronchi, fatto per tutti, ma a quest’ora deserto,
quel cascinale anonimo, quei monti declinati sul cielo tenero, sul lago im-
brunito: insomma una passeggiata in Lombardia»21.
Il ‘fatto di sangue da Barlassina’ dovette rimanere però talmente im-
presso nell’immaginario collettivo della popolazione milanese da ispirare
iconografie ben diverse nella tecnica realizzativa e nella destinazione dagli
obiettivi dell’opera originale.
La congiura di Santo Stefano (1476) aveva suscitato grande impressione
nell’opinione pubblica del tempo. Di fatto fu una delle concause che, se
non determinato, avrebbero quanto meno favorito, pochi decenni dopo, la
calata dell’esercito di Carlo VIII in Italia e la lunga guerra tra Francia e
Asburgo per la conquista della nostra Penisola. Quando, a un trentennio di
distanza, il ducato di Milano era divenuto ormai terreno di conquista delle
potenze straniere, non è da escludere che il partito filo sforzesco, ancora
vigoroso in Lombardia, abbia intrapreso una sottile ed efficace azione di
propaganda, verbale e per immagini, destinata a fomentare e a indirizza-
re l’emotività popolare verso l’aperto consenso a un ritorno politico della
dinastia, innalzando a una dimensione mitica gli episodi più drammatici
della storia di questa famiglia principesca. Tra questi, non poteva mancare
l’assassinio del quinto duca di Milano, Galeazzo Maria.
L’evento, però, nelle numerose testimonianze dirette che si sono tra-
mandate, si era ispirato, in realtà, al modello della congiura cesaricida e
trasporlo in immagine avrebbe rischiato di rievocare troppo apertamente il
tirannicidio, legittimando per una certa parte politica l’operato dei congiu-
rati. Occorreva di contro adottare modelli iconografici molto noti e molto
cari ai cittadini milanesi e lombardi, in grado di suscitare empatia al di là
degli schieramenti interni di fazione. Potrebbe forse spiegarsi così la curio-

21 Vincenzo Foppa, a cura di G. Agosti, M. Natale, G. Romano, Skira, Milano


2003.
90 Squarci nel Medioevo

sa assonanza compositiva tra la lunetta del Foppa, nella Cappella Portinari,


e la disposizione scenica dei personaggi principali riprodotti nella xilogra-
fia del frontespizio a stampa del Lamento del duca Galeazo Maria, duca di
Milano, quando fu morto nella Chiesa di Santo Stefano da Giovan’Andrea
da Lampognano, esemplare edito nel 1505, oggi conservato presso l’Ar-
chivio Civico e Biblioteca Trivulziana di Milano (cod. Triv H 314/1).

w
Le fonti visive tardo medievali: da strumento di propaganda a strumento di ricerca 91

6.5 Il quarto cavaliere

Per concludere, anche quando si tratta di analizzare le fonti visive che


parrebbero testimoniare di un evento relativamente ben documentato e ma-
gari di portata generale, qual è stato ad esempio la ricomparsa in Europa
delle grandi epidemie di peste a partire dalla metà del Trecento, occorre
prestare massima attenzione nel valutare l’aspetto, formale, iconografico e
soprattutto iconologico delle immagini pervenute sino a noi.
Le Annales di Gilles Le Muisit, priore dell’abbazia benedettina di Saint-
Martin di Tournai, città natale dell’autore, composte tra il 1345 e il 1351,
sono accompagnate, nel codice conservato a Bruxelles, nella Bibliothèque
Royal du Belgique, da una toccante miniatura che raffigura le vittime della
peste del 1348-1349.
È un’immagine corale, che mostra affastellati, nel disordine provocato
dall’elevata mortalità della malattia, i corpi dei superstiti che reggono le
casse dei defunti portati alla sepoltura. Dal punto di vista emotivo, la resa
è pregevole e la semplicità dell’espressione figurativa induce a una lettura
formale e iconologica superficiale. Tutta la popolazione è coinvolta dai lut-
ti provocati dalla malattia e i seppellitori non riescono a inumare una cassa
che già devono scavare altre fosse, comunque insufficienti a contenere i
feretri di tutte le vittime della peste.

Se la miniatura si rivela molto efficace nel descrivere la psicosi crea-


ta dal diffondersi dell’epidemia, risulta però estremamente fuorviante dal
punto di vista storico, perché i morti di peste non venivano seppelliti in
92 Squarci nel Medioevo

casse di legno, né tanto meno individualmente, così come – del resto – la


stragrande maggioranza delle persone.
Per tutto il periodo medievale e per gran parte dell’età moderna la se-
poltura ordinaria avveniva con l’inumazione diretta della salma nuda, o av-
volta in un semplice sudario, in fosse comuni, talvolta ripetutamente svuo-
tate e riutilizzate, mentre le ossa erano tumulate altrove, generalmente in
campo aperto o negli ossari delle chiese. Nel caso di epidemie, alle fosse,
che potevano contenere fino a una dozzina di cadaveri, se ne sostituivano
di più grandi, rigorosamente fuori dal recinto urbano, chiamate a Milano
“fopponi” e profonde dodici palmi, che potevano contenerne il doppio e
anche più, probabilmente in rapporto al carico dei carrettoni deputati alla
raccolta e al trasporto delle salme. Le vittime erano sepolte nude, fra due
strati di calce viva, il tutto ricoperto di terra compressa. Se si trattava di
sepoltura che non doveva essere più riaperta vi si scolpivano all’esterno le
parole “ob pestem”.
La tumulazione in tombe, nicchie, colombari, corrispondente alla sepol-
tura in senso stretto, era riservata invece ai grandi, ai beati, ai ricchi che
venivano deposti vestiti di indumenti sontuosi, con emblemi onorifici, o
avvolti in sacco o in cilicio di penitenza. In una grida del 20 giugno 1448,
promulgata a Milano dal governo provvisorio della Comunitas Ambrosia-
na, si cita la cassa da morto come se fosse abitualmente usata, ma in realtà
era di proprietà delle compagnie di seppellitori o delle confraternite e ve-
niva utilizzata solo per il trasporto del cadavere a destinazione: era stato il
duca Filippo Maria Visconti il primo a stabilire che ne venisse realizzata
una per la traslazione delle salme dei meno abbienti. Sino al XIX secolo
furono pochi coloro che poterono permettersi una cassa individuale22. Nei
sotterranei delle chiese, gettati da una bocca aperta nel suolo, i cadaveri
giacevano ammonticchiati alla rinfusa. I parti abortivi, i morti senza batte-
simo e i neonati si interravano senza cura, anche fuori dal foppone, a poca
profondità (solo un braccio e mezzo, contro i due regolamentari).
Ne consegue che, dal punto di vista iconologico, la lettura da dare alla
miniatura delle Annales potrebbe risultare assai diversa da quella formale
e i singoli personaggi, che trasportano una cassa, non celebrano tanto le
esequie di un proprio congiunto, ma evidenziano piuttosto la precarietà
della loro stessa esistenza terrena, ancor più ipotecata dal diffondersi indi-
scriminato e apparentemente casuale del morbo pestilenziale.

22 C. TEDESCHI, Origine e vicende dei cimiteri di Milano e del servizio mortuario.


Studio storico, Milano 1899, pp. 115-116.
Le fonti visive tardo medievali: da strumento di propaganda a strumento di ricerca 93

In definitiva, le fonti artistiche, per lo studio della storia medievale, val-


gono alla stregua della tecnica della ricostruzione facciale per l’antropo-
logia fisica che, per quanto raffinata, non è comunque una metodica che
permetta di identificare con certezza un soggetto o di ricostruire con sicu-
rezza un evento. Si tratta in entrambi i casi di strumenti che servono più
che altro a evocare un ricordo, utili al fine di potere, al massimo, rafforzare
ipotesi che maturano dall’analisi concomitante e necessaria di altri tipi di
fonte. Il dovere dell’onestà scientifica ci impone, anche in questo caso, di
non spingerci oltre.
95

CAPITOLO 7
SINCRETISMO DISCIPLINARE

7.1 A caccia di un volto

Nel tentativo di ricostruire i tratti somatici del duca Galeazzo Maria


Sforza, sufficienti a istituire un confronto con la ricostruzione facciale re-
alizzata dal Labanof1 sulla base dei reperti antropologici melzesi, è stato
d’obbligo rivolgersi all’arte2 e, nello specifico, a un’opera che, nell’ampia
galleria di ritratti raffiguranti principi e signori di metà Quattrocento, si
ritiene possa conservare memoria dell’aspetto fisico del signore di Milano
in età giovanile.
Nel 1459, Cosimo il Vecchio de Medici dispose che il pittore Benoz-
zo Gozzoli dipingesse, nella cappella privata del nuovo palazzo familiare
di via Larga, la Storia dei Magi. Gli studiosi sono concordi nel collocare
l’esecuzione del ciclo pittorico gozzoliano a partire dall’estate 1459 sino al
1462, quando il ciclo venne completato3.
Una scelta iconografica determinata in parte dalla volontà di commemo-
rare il Concilio di Firenze (1439-1442), cui avevano preso parte Giuseppe,
patriarca di Costantinopoli, l’imperatore d’Oriente Giovanni VIII Paleologo
e molti pittoreschi esponenti delle Chiese ortodosse, e in parte dal profondo
legame della famiglia Medici con la Compagnia dei Magi, una delle confra-

1 Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Università degli Studi di


Milano.
2 F.M. Vaglienti, Benozzo Gozzoli e il cavaliere misterioso. Ipotesi per una nuova
identificazione di Galeazzo Maria Sforza nel Corteo dei Magi, in Arte e Storia
di Lombardia. Scritti in memoria di Grazioso Sironi, Biblioteca della «Nuova
Rivista Storica», n. 40, Società Editrice Dante Alighieri, Città di Castello 2006,
pp. 37-54.
3 G.M. BOCCABIANCA, Gli affreschi di Benozzo Gozzoli nella cappella di Palazzo
Medici Riccardi di Firenze, Milano 1957; F. CARDINI, I re Magi di Benozzo Goz-
zoli a Palazzo Medici, Firenze 2001, pp. 13-15; C. ACIDINI LUCHINAT, La Cappella
medicea attraverso cinque secoli, in Il Palazzo Medici Riccardi di Firenze, a cura
di G. Cherubini e G. Fanelli, Firenze 1990, p. 85.
96 Squarci nel Medioevo

ternite devozionali laiche più importanti della Firenze del Quattrocento, che
aveva sede nel vicino convento di San Marco e il compito di organizzare con
grande sontuosità, ogni tre anni, la festa dell’Epifania alla quale partecipava,
con un contributo finanziario, anche il governo cittadino.

Presupposti essenziali dell’attendibilità di questa fonte iconografica sono


l’abilità ritrattistica di Benozzo Gozzoli di Lese nel rendere la fisionomia
delle persone, la sua curiosità verso la descrizione analitica del reale e la sua
capacità di riprodurre i particolari più minuti, segni tangibili dell’influenza
che la contemporanea pittura fiamminga di Van Eyck, Van der Weyden,
Fouquet operò sull’artista, di ritorno dalla Curia pontificia4, ma anche della
sua esperienza di apprendista nella bottega orafa del Ghiberti5.
Alla naturale vocazione di Benozzo di riprodurre minuziosamente i det-
tagli, si affiancò, talvolta prepotente6, la committenza medicea: Piero di
Cosimo intrattenne infatti rapporti strettissimi con il pittore, sorvegliando
pressoché quotidianamente l’esecuzione dei lavori, sia direttamente, sia
interposta persona7 o per via epistolare8.

4 C. ACIDINI LUCHINAT, La Cappella medicea cit., p. 88; A. PADOA RIZZO, Benozzo


Gozzoli. Un pittore insigne, “pratico di grandissima invenzione”, Milano 2003,
p. 111, 121, 122.
5 G.M. BOCCABIANCA, Gli affreschi di Benozzo Gozzoli cit.
6 È noto l’episodio che vide Piero de Medici ordinare all’artista di cancellare dei
cherubini di sfondo, evidentemente poco graditi al committente e, pertanto, sag-
giamente trasformati dal Gozzoli in nuvole anonime. G.M. BOCCABIANCA, Gli af-
freschi di Benozzo Gozzoli cit.; A. PADOA RIZZO, Benozzo Gozzoli cit., p. 122.
7 Referente principale di Piero era Roberto Martelli, colto protettore di Donatello.
C. ACIDINI LUCHINAT, La Cappella medicea cit., p.85.
8 G.M. BOCCABIANCA, Gli affreschi di Benozzo Gozzoli cit.
Sincretismo disciplinare 97

È nelle fogge dei vestiti e dei copricapo, nei sopraricci dei broccati d’oro
e d’argento, nel contro cangiante dei damaschi, nello spessore e nella mor-
bidezza dei velluti controtagliati, nella pastosità dei panni felpati, nella lu-
minosità dei rasi che si disvela la maestria pittorica di Benozzo Gozzoli,
ma è nella posizione gerarchica dei personaggi raffigurati in corteo, nei
colori e nella fattura delle loro vesti e dei loro cappelli, nella descrizione
delle loro cavalcature, nella decorazione delle bardature e dei finimenti la
chiave di lettura politica dell’affresco, l’unica che interessasse realmente la
committenza, a tal punto da giustificare un suo coinvolgimento così diretto
nella fase di esecuzione dell’opera.
Dei numerosi personaggi illustri ritratti nel ciclo pittorico, alcuni sono
stati identificati con un ragionevole grado di attendibilità. Così il mago
in età virile, Baldassarre, sarebbe il ritratto dell’imperatore Giovanni VIII
Paleologo (1390-1448), i cui tratti sono noti grazie a una medaglia, ope-
ra di Pisanello, conservata presso il Cabinet des Médailles della Biblio-
thèque Nationale di Parigi; nella figura del mago anziano, Melchiorre, si
riconoscono invece tradizionalmente le fattezze di Giuseppe, patriarca di
Costantinopoli, morto a Firenze durante il Concilio. Secondo un’interpre-
tazione più recente, potrebbe trattarsi però dell’imperatore Sigismondo di
Lussemburgo, come suggeriscono i tratti del volto e il copricapo, simili a
quelli raffigurati, ancora una volta, da Pisanello.
98 Squarci nel Medioevo

In base a una suggestiva ipotesi, Benozzo avrebbe poi rappresentato il


giovane Lorenzo de Medici, con sembianze ampiamente idealizzate, tra
l’imperatore d’Oriente e quello d’Occidente. L’identificazione del mago
giovane con il nipote di Cosimo si fonda principalmente sul particolare
dell’arbusto di lauro, che ne incornicia il volto, ma anche sul corteo di
familiari e sostenitori del casato, che accompagna il cavaliere. Nella folla
che segue la famiglia Medici si riconosce però anche un secondo ritratto di
Lorenzo, assai più aderente alla realtà, considerata la peculiarità dei suoi
irregolari tratti somatici.

Alla sinistra del gruppo di famiglia mediceo al seguito di Gaspare, si è


ritenuto sinora cavalcassero, come sostenuto da Franco Cardini, «un fiero
e severo Sigismondo Pandolfo Malatesta, ritratto quasi di profilo, a capo
scoperto, su un superbo sauro, e il bell’adolescente Galeazzo Maria Sforza,
dallo sguardo trasognato e dal cavallo bianco sulla fronte del quale pende
un gioiello azzurro e oro»9. Sempre secondo Cardini, lo staffiere nero rap-
presenterebbe invece un esplicito richiamo all’Oriente: «il famiglio negro
dalle calze a divisa bianche e vermiglie, dal verde gonnellino (ancora i
colori fatidici!) e dall’arco soriano che si vede in primo piano sulla parete
di destra guardando l’altare»10.

9 F. CARDINI, I re Magi di Benozzo Gozzoli cit., p.43.


10 Ivi, p. 39.
Sincretismo disciplinare 99

Nel tentativo di identificare Galeazzo Maria che, all’epoca della rea-


lizzazione del ciclo pittorico gozzoliano aveva tra i 16 e i 17 anni ed era
ancora conte di Pavia, titolo riservato sin dai primi del Quattrocento al
primogenito erede del ducato di Milano, ho tuttavia potuto riscontrare una
serie di dettagli discordanti con l’identificazione ufficiale del personaggio.

7.3 I colori del potere

Nell’Italia delle corti principesche, il colore delle vesti è uno degli


elementi tassonomici destinati a definire con esattezza, universalmen-
te leggibile, lo stato sociale, l’appartenenza politica, l’affinità di sangue
di una persona all’interno di un gruppo «e di un gruppo all’interno della
collettività»11.
Il linguaggio cromatico e il pregio delle vesti erano immediatamente ri-
conoscibili, tanto da valere di per sé alla stregua di un documento di identi-
ficazione, di un lasciapassare universale, in grado di consentire automatico
accesso anche ai luoghi più riservati del potere. Una prassi talmente diffusa
che, a Milano, per contrastarla, l’anziano Filippo Maria Visconti decretò
la dismissione del color cremisi a corte, essendosi accorto che non pochi
cittadini ne abusavano per aggirare il divieto di presentarsi a palazzo senza
esplicito invito12. L’ultimo dei Visconti era peraltro molto attento anche alla
simbologia dei colori; amava le tonalità vivaci e, soprattutto, il bianco e il
morello che portava indossando calzari differenti, al piede destro il bianco,
al sinistro il morello13. Un binomio di colori che erano obbligati a indossare

11 L. RICCIARDI, Simboli medicei: “palle” e imprese nel Quattrocento, in F. CARDINI,


I re Magi cit., p. 75.
12 PIER CANDIDO DECEMBRIO, Vita di Filippo Maria Visconti, a cura di E. Bartolini,
Adelphi, Milano 1983, cap. LI, p. 99.
13 A introdurre il binomio cromatico bianco e morello, come elemento distintivo di
appartenenza al casato visconteo, pare sia stato Gian Galeazzo che, in occasione
della sua incoronazione ducale, nel settembre 1395, fece giostrare 300 cavalieri
divisi in due squadre, l’una vestita di bianco, l’altra di rosso. Le calze solate “alla
divisa”, con la gamba destra calzata di bianco e la sinistra di rosso, erano peraltro
indossate dal duca Giovanni Maria anche il giorno del suo assassinio, il 16 mag-
gio 1412. P. VENTURELLI, Gioielli in smalto (principalmente en ronde bosse) per
i Visconti. Spunti e riflessioni anche in direzione Borromeo (intorno al 1400), in
Gioielli in Italia. Il gioiello e l’artefice. Materiali, opere, committenze, Marsilio,
Venezia 2005, p. 17, 20.
100 Squarci nel Medioevo

tanto i suoi magistrati quanto tutti i suoi subalterni, sino a diventare tratto
distintivo, “divisa” della dinastia ducale milanese14.
Abiti e colorazione delle vesti continuarono a mantenere una forte
connotazione politica anche alla corte sforzesca. L’abbigliamento forni-
va la visione immediata della posizione sociale e del rango ufficiale del
personaggio, declinandone età, carriera, provenienza. Con Galeazzo Ma-
ria Sforza, estremamente attento a riproporre sin nei minimi particolari i
cerimoniali dell’avo Filippo Maria, come ulteriore forma di legittimazio-
ne del suo potere, tornò in auge il binomio di colori bianco e morello, in
particolare nelle calze solate “alla divisa” che il duca stesso amava sfog-
giare, e si giunse a certificare individualmente l’autorizzazione a indos-
sare determinati capi di abbigliamento. Così, mentre il personale di corte
era dotato di un’assegnazione nominale di abiti, forniti dal guardaroba
ducale al momento della presa di servizio e poi periodicamente rinnovati,
le calze solate “alla divisa” – con la gamba destra bianca e l’altra morella
-, simbolo di uno speciale rapporto di familiarità con la dinastia, poteva-
no essere indossate soltanto da coloro cui era stata conferita una licenza
scritta, concessa raramente e soggetta a severi ordini restrittivi, segno
tangibile della preziosità del favore ducale. E l’attenzione sull’osservan-
za delle disposizioni ducali in materia doveva essere alta se la stessa
Bona di Savoia, quando giunse a Milano sposa di Galeazzo Maria, venne
immediatamente invitata a sostituire il proprio guardaroba con abiti in
stile lombardo15, oltre che omaggiata di una collana araldica «biancha et
morella», formata da sessanta anelli16.

14 Nel guardaroba del Castello di Porta Giovia, a inizi Quattrocento, erano conserva-
te “circha peze VIII de rosato biancho et morello di grana di divisa”. PIER CANDIDO
DECEMBRIO, Vita di Filippo Maria cit., capp. XLVIII e LI, p. 95, 99; L. BELTRAMI, Il
castello di Milano, Hoepli, Milano 1894, p. 48; F. COGNASSO, I Visconti, dall’Oglio
Editore, Milano 1966, p. 475; P. VENTURELLI, Gioielli in smalto cit., p. 34 n.
15 G. LUBKIN, A Renaissance Court. Milan under Galeazzo Maria Sforza, University
of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1994, p. 33, 36, 38, 67, 129,
323.
16 P. VENTURELLI, Gioielli in smalto cit., p. 34 n.
Sincretismo disciplinare 101

La Corte di Galeazzo Maria Sforza nella pagina miniata di arte lombarda tratta
dal Codice dell’Opusculum super declarationem arboris consanguinitatis et affinitatis
di Gerolamo Mangiaria, Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 4586

Ora, nella scena gozzoliana dedicata a Gaspare si vede rappresentato


un servitore di colore, in prospettiva all’altezza della staffa del cavaliere
all’estrema sinistra. Gli storici dell’arte sembrano concordi nell’attribuire
all’artista di Lese il merito di avere ritratto fedelmente tanto i personaggi
illustri quanto le persone di più umili condizioni17.
Ne consegue che il bianco e il morello delle calze solate “alla divisa” -
seppure a colori invertiti, forse a sottolineare la diversa condizione giuridi-
ca (e probabilmente anche etnica) del personaggio18 – non sono frutto della
fantasia simbolica dell’artista, né tanto meno indice di appartenenza del
servitore all’ambiente mediceo19, quanto piuttosto la perfetta declinazione

17 G.M. BOCCABIANCA, Gli affreschi di Benozzo Gozzoli cit.


18 Nel Reliquiario di Montalto, di probabile provenienza viscontea, sono rappresen-
tati due “Judei cum flagellis”, così definiti dall’inventario delle collezioni papa-
li di Palazzo San Marco (1457-1460), che indossano calze solate con la gamba
destra rossa e la sinistra bianca. P. VENTURELLI, Gioielli in smalto cit., pp. 15,
21-22. Potrebbe quindi trattarsi di una sorta di marcatore giuridico, di tipo etnico
o religioso più che sociale, perché, nella parte inferiore del Goldene Rössl (opera
orafa anch’essa di probabile origine viscontea), il giovane palafreniere, che tiene
fermo il cavallo, porta le calze solate nel medesimo ordine di quelle indossate dai
duchi di Milano.
19 Di questo parere sembrano invece Cardini e Ricciardi, quando ascrivono il rosso,
il verde e il bianco ai colori delle virtù teologali e a un più generale contesto aral-
102 Squarci nel Medioevo

di un linguaggio cromatico che esprime con precisione uno stretto rapporto


di dipendenza dal principe di casa Sforza. Di più: il famiglio moro soltan-
to casualmente fornisce a Benozzo l’occasione di un ulteriore richiamo
all’Oriente nel contesto dell’opera20, perché abbiamo prova che Galeazzo
Maria annoverava effettivamente fra i suoi più fedeli servitori uno staffie-
re di colore. Era chiamato alternativamente Moro o Moretto, è raffigura-
to anche sul celebre cassone nuziale, detto “Cassone dei Tre Duchi” oggi
conservato nelle Civiche Raccolte d’Arte applicata del Castello sforzesco
a Milano21 e, poiché si trattava di un ragazzo «nero e brutto», viene ricor-
dato dal Poliziano nei suoi Detti piacevoli accompagnarsi costantemente al
duca, suscitando stupore nei contemporanei che si domandavano «perché
il padrone lo tenessi, se non avessi già qualche virtù segreta». Nel Lamento
del duca Galeazzo, duca di Milano, lo qual fu morto da Ioanne Andrea
da Lampognano, componimento in terza rima redatto da un anonimo su
commissione del fiorentino Lorenzo della Rotta, il Moretto meritò, per il
suo coraggioso, tempestivo e isolato intervento in difesa dello Sforza as-
sassinato, un’intera terzina: «Un mio Moro, staffiere, correndo / fu addosso
a Ioanandrea in parte armato / et un colpo gli dié di gran virtue»22.
Sia il cavaliere all’estrema sinistra della rappresentazione gozzoliana,
sia il famiglio moro che lo affianca indossano poi abiti di colore verde, in
stile tipicamente lombardo23. Il servitore veste uno zuppone, mentre il ca-
valiere porta uno zupparello verde su uno zuppone cremisi. Così, se è vero
che il verde è uno dei colori araldici del casato mediceo, come di tanti altri,
tra i quali la corona di Francia, se è vero che il verde richiama nel linguag-
gio simbolico medievale una delle virtù teologali, ebbene l’abbinamento di

dico legato prevalentemente a casa Medici. F. CARDINI, I re Magi cit., p. 35, 74,
pp. 76-78.
20 F. CARDINI, I re Magi cit., p. 39.
21 Sebbene il cassone abbia probabilmente subito rimaneggiamenti ottocenteschi,
rimane una significativa testimonianza della consuetudine della corte milanese di
annoverare personale di colore tra i propri servitori, per lo più africani che, ridotti
in schiavitù, giungevano in Italia per la via di Venezia. E. MCGRATH, Ludovico il
Moro and his Moors, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, LXV
(2002), pp. 67-94 e, in particolare, p. 70, 71.
22 G. D’ADDA, La morte di Galeazzo Maria Sforza, in “Archivio Storico Lombardo”,
II (1975), pp. 284-294, e in particolare p. 290; F.M. VAGLIENTI, Anatomia di una
congiura. Sulle tracce dell’assassinio del duca Galeazzo Maria Sforza tra scienza
e storia, in «Atti dell’Istituto Lombardo. Accademia di Scienze e Lettere di Mila-
no», vol. 136 (2002), fasc. 2, Milano 2004, p. 256.
23 Si veda l’affresco del 1473 che raffigura san Bernardino con alcuni giovani, Lodi,
Chiesa di San Francesco. W. TERNI DE GREGORY, Pittura artigiana lombarda del
Rinascimento, Garzanti, Milano 1981, p. 117.
Sincretismo disciplinare 103

rosso e di cremisi si ascrive a una tassonomia dei colori molto più specifica,
peraltro documentata.
Scorrendo l’inventario degli abiti da cerimonia dati a pegno nel 1442, ap-
prendiamo infatti che l’abbinamento distintivo del conte Francesco Sforza,
prima di conquistare il dominio di Milano, erano appunto il verde scuro e il
cremisi, colori con cui era tinta la maggior parte delle sue vesti24. E ancora,
se si opera un confronto tra i particolari dell’abito del cavaliere all’estre-
ma sinistra del corteo di Gaspare e quelli della veste indossata dal conte
Francesco Sforza il giorno delle sue nozze con Bianca Maria Visconti25, la
somiglianza dei due zupponi, nel damascato oltre che nel colore, risulta per
lo meno sconcertante, tanto da far supporre un rimaneggiamento sommario
della medesima veste, forse opportunamente riadattata per il primogenito:
operazione affatto estranea alla naturale parsimonia del condottiero, oltre
che dettata dalle drammatiche condizioni finanziarie in cui versava il duca-
to di Milano negli anni ’50 del Quattrocento26. Del resto, proprio il colore
verde della “mezza turcha”, impreziosita da gigli di Francia ricamati in oro
e da inserti di pelliccia, avrebbe caratterizzato il ritratto più rappresentati-

24 Ben sette sulle undici elencate; le restanti sono viola scuro o azzurre. Inventario
de vestimenti et argenti dello illustre signor conte Francesco Sforza impegnati in
Ancona per ducati 2.000 d’oro, a raxone de 14 per cento l’anno, Ancona 1442, in
Archivio di Stato di Milano, Archivio ducale visconteo-sforzesco, Carteggio del
conte, cart. 23. Ora anche in F.M. VAGLIENTI, Sunt enim duo populi. Esercizio del
potere ed esperimenti di fiscalità straordinaria nella prima età sforzesca (1450-
1476), CUEM, Milano 1997, p. 68.
25 Si veda la miniatura quattrocentesca delle nozze di Francesco Sforza e di Bianca
Maria Visconti prodotta da anonimo maestro lombardo nell’atto di donazione della
chiesa di San Sigismondo a Cremona, conservata nell’archivio parrocchiale della
chiesa medesima. Vale notare come, nell’occasione, lo Sforza indossasse calze
solate a tre colori: completamente rossa la sinistra e bianca e azzurra la destra, a
significare l’appartenenza al casato dei Visconti (il bianco e il rosso dello stemma
di Milano, unito all’azzurro dell’araldica viscontea), al pari di alcuni personaggi
di corte ritratti nella miniatura dell’Opusculum super declarationem arboris con-
sanguinitatis et affinitatis di Gerolamo Mangiaria, Parigi, Bibliothèque Nationale,
ms. lat. 4586.
26 A fronte di una bibliografia vastissima sull’argomento, si rimanda a F. CATALANO,
Il ducato di Milano nella politica dell’equilibrio, in Storia di Milano. Fondazione
Treccani degli Alfieri, vol. VII, Milano 1956, pp. 255-414, a D. ORANO, I “Sugge-
rimenti di buon vivere” dettati da Francesco Sforza pel figliolo Galeazzo Maria,
Roma 1901 e alle opere citate in F.M. VAGLIENTI, Sunt enim duo populi cit., pp.
51-85.
104 Squarci nel Medioevo

vo, sino a noi pervenuto, del duca Galeazzo Maria Sforza, in età matura e
all’apice della sua ascesa politica27.
Per converso, sostenere, come si è fatto sinora, che il giovane biondo sul
destriero bianco corrisponda a Galeazzo Maria adolescente comporterebbe
la soluzione di non poche incongruità, a partire dai colori delle sue vesti,
che non trovano riscontro alcuno nella ritrattistica sforzesca, per finire alla
tipologia stessa del tessuto damascato del suo zuppone, del tutto simile,
per il motivo a fiore di cardo o di pigna e per la preziosità degli intrecci
di fili d’oro, a quello indossato, con provocatoria ostentazione, da Piero il
Gottoso28 e riprodotto fedelmente da Benozzo Gozzoli grazie al sapiente
utilizzo della tecnica mista ad affresco e olio su muro, per una miglior resa
dei particolari29.

27 Il ritratto venne commissionato da Lorenzo il Magnifico a Piero del Pollaiolo e


realizzato nel 1471, all’indomani della visita del duca di Milano a Firenze, per cui
è lecito ritenere i dati relativi all’abbigliamento veritieri. P. VENTURELLI, Smalti,
oro e preziosi. Oreficeria e arti suntuarie nel Ducato di Milano tra Visconti e Sfor-
za, Marsilio, Venezia 2003, p. 143 n. 18. M. ALBERTARIO, Galeazzo Maria Sforza
(1466-1476) “…tracto dal naturale…”: la circolazione dei modelli tra la corte
e la Zecca Milanese, in “Quaderni del Centro Culturale Numismatico Milanese”,
fascicolo 8, 2002, p. 9.
28 Piero di Cosimo doveva essere molto orgoglioso di poter sfoggiare un abbiglia-
mento sontuoso se, in una lettera dell’11 settembre 1459, Benozzo Gozzoli gli
assicurava che avrebbe riprodotto fedelmente “el brochato e ll’altre cose”. C. ACI-
DINI LUCHINAT, La Cappella medicea cit., p. 87. Sui tessuti fiorentini tra Quattro e
Cinquecento, Palazzo Vecchio: committenza e collezionismo medicei. 1537-1610,
in Firenze e la Toscana dei Medici nell’Europa del Cinquecento, Firenze 1980,
pp. 355-357.
29 A. PADOA RIZZO, Benozzo Gozzoli cit., p. 122.
Sincretismo disciplinare 105

Sussiste poi una questione di cappello: in primo piano, l’unico perso-


naggio di rango (esclusi quindi servi, staffieri e famigli d’arme) privo di
copricapo è proprio il cavaliere all’estrema sinistra. Poiché nelle corti pa-
dane tardo quattrocentesche era ancora in uso la consuetudine, contraria
all’odierna, che, in presenza di una persona ritenuta di grado superiore,
ci si dovesse coprire il capo in segno di rispetto, e non viceversa, essere
il solo soggetto che non porta un cappello poneva automaticamente tale
figura gerarchicamente al di sopra di tutti i presenti, se si esclude il per-
sonaggio di Gaspare, incoronato di alloro. Un prestigio che difficilmente
il casato mediceo avrebbe riconosciuto a Sigismondo Pandolfo Malatesta,
in ragione del profondo dissidio, politico e personale, maturato proprio
in quel volgere di anni con il signore di Rimini, oggetto di un’analisi più
approfondita nelle pagine che seguono.
In riferimento al giovane biondo sul cavallo bianco, è opportuno osser-
vare come anche la foggia della sua berretta rossa sia in stile fiorentino,
anzi assolutamente identica a quella di un altro esponente della famiglia
Medici, il più illustre di tutti, Cosimo il Vecchio30. Difficile credere, a mio
parere, che la corte milanese avrebbe accettato di veder rappresentato Ga-
leazzo Maria, per quanto giovane e abbacinato dall’ammaliante personali-
tà di Cosimo, nonché dall’opulenza dell’ospitalità riservatagli a Firenze31,
con indosso ben due capi di abbigliamento (zuppone e berretta) che, nella
fattura, potessero alludere in qualunque modo a un rapporto di dipendenza
degli Sforza dal casato mediceo, tanto più in una raffigurazione pittorica
destinata a essere mostrata ad altri principi, o ai loro emissari, e dunque
pensata in base a un protocollo di cui, se si ignorano ancora le sottigliezze,
se ne può immaginare l’estremo rigore gerarchico32.

30 Nel 1559, quando fu operata una prima riesumazione del corpo di Lorenzo il Ma-
gnifico per trasferirlo nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo, i testimoni riferirono
che il corpo indossava ancora in testa il suo berrettino “di scarlatto, che pareva
nuovo”, segno evidente del forte contenuto simbolico e araldico rappresentato per
i Medici da questo capo di abbigliamento, mentre Galeazzo Maria Sforza era stato
sepolto a capo scoperto. M. SFRAMELI, I gioielli nell’età di Lorenzo il Magnifico, in
I gioielli dei Medici dal vero e in ritratto, a cura di M. Sframeli, Sillabe, Firenze
2003, p. 21; F.M. VAGLIENTI, Anatomia di una congiura cit., p. 249.
31 M. SIMONETTA, Il duca alla Dieta: Francesco Sforza e Pio II, e A. CALZONA, Mantova
in attesa della Dieta, in Il sogno di Pio II e il viaggio da Roma a Mantova, Atti
del Convegno internazionale, Mantova 13-15 aprile 2000, a cura di A. Calzona, F.P.
Fiore, A. Tenenti, C. Vasoli, Leo S. Olschki, Città di Castello 2003, pp. 258-260, 269-
285, 576-577; M. SFRAMELI, I gioielli nell’età di Lorenzo il Magnifico cit., p. 14.
32 Sull’ordine della sfilata, regolata sulla base di una precisa gerarchia dei poteri,
C. ACIDINI LUCHINAT, La Cappella medicea cit., p.86; F. CARDINI, I re Magi cit., p.
106 Squarci nel Medioevo

6.4 Particolari significativi

Se molte delle proposte per il riconoscimento dei personaggi rimango-


no discutibili, quando non addirittura infondate33, l’impegno di Benozzo
Gozzoli nel riprodurre le fattezze delle cavalcature e gli ornamenti delle
bardature è ampiamente testimoniato dalla registrazione puntuale della sua
attività artistica: la sola mezza figura del cavallo di Piero il Gottoso richie-
se infatti un’intera giornata di lavoro34. Così, mentre la sua antica abilità
di orafo poteva dispiegarsi nel ricamare con allucinante minuzia i fregi
metallici dei finimenti e delle gualdrappe delle cavalcature35, la sua solida
formazione artistica gli consentiva di riprodurre l’anatomia equina sino al
più minuzioso particolare della castagna anteriore sulle zampe dei cavalli.
Nel linguaggio araldico quattrocentesco anche il colore e la tipologia
delle cavalcature assumeva precise valenze politiche e gerarchiche. Si è
spesso insistito, per quanto attiene al ciclo pittorico gozzoliano della cap-
pella medicea, destinato a celebrare i fasti della cripto signoria medicea,
sul significato dell’originale scelta operata da Cosimo il Vecchio di farsi
ritrarre a dorso di mulo36, non necessariamente da leggersi, a nostro avviso,
come atto di umiltà, considerato l’ovvio riferimento evangelico.
Per quanto concerne il personaggio comunemente identificato con lo
Sforza, anche sulla sua cavalcatura sorgono non poche perplessità. Il gio-
vane Galeazzo Maria nutriva infatti una predilezione spiccata per i cavalli
balzani (ossia con una o più balze bianche al di sopra dello zoccolo) e
quello che montava di preferenza era chiamato «Leardo»37. Proprio del-
la cavalcatura montata nel corso della missione diplomatica destinata alla
Dieta di Mantova, lo Sforza tratta diffusamente in una lettera indirizzata al
padre datata Firenze 19 aprile 1459: pare infatti che, nell’occasione, il duca
avesse concesso al primogenito di comprarsi un altro cavallo «per scontro
del mio Leardello»38.

53; E. WAKAYAMA, La corte di re Sigismondo e l’arte italiana del Quattrocento, in


“Arte Lombarda”, 139 (2003), p. 60.
33 C. ACIDINI LUCHINAT, La Cappella medicea cit., p.86.
34 Ivi, p. 87.
35 G.M. BOCCABIANCA, Gli affreschi di Benozzo Gozzoli cit.
36 C. ACIDINI LUCHINAT, La Cappella medicea cit., p. 86; F. CARDINI, I re Magi cit., p.
26, 39; A. PADOA RIZZO, Benozzo Gozzoli cit., p. 106.
37 Talvolta citato anche come ‘Leandro’, forse in ricordo dell’amante appassionato
della sacerdotessa Ero.
38 M. SIMONETTA, Il duca alla Dieta cit., p. 272.
Sincretismo disciplinare 107

Il piacere di cavalcare animali difficili, quali notoriamente i balzani, è


poi testimoniato da una delle dieci raccomandazioni paterne contenute nei
Suggerimenti di buon vivere, dettati nel 1457: «perché tu te delecti de ca-
valli et hay ad operarli, guardate non cavalchare may cavallo duro de bocha,
né che habia cattivi piedi, né che se levi dritto»39. Per converso, il cavallo
bianco era invece riservato, a Milano, esclusivamente alla cerimonia di in-
coronazione ducale, ovvero alle celebrazioni ufficiali in cui il principe era
chiamato a sfilare in pubblico40. Così, mentre dal canto milanese sarebbe
risultato impensabile far montare un cavallo bianco a Galeazzo Maria, che
nel 1459 era ancora conte di Pavia e avrebbe potuto indossare le insegne
ducali solo alla morte del padre Francesco, dal canto fiorentino sarebbe ap-
parso politicamente sconveniente e diplomaticamente inopportuno ritrarre
lo Sforza su una simile cavalcatura41. Più probabile, invece, che anche il
bianco destriero, simile a quello montato da Lorenzo e perfettamente in
linea con quelli di Gaspare e di Piero il Gottoso, segnali, come l’opulento
abbigliamento e altri indizi, l’appartenenza del suo giovane cavaliere alla
ricca consorteria dei committenti.
Tra i dettagli che possono aiutare a una corretta identificazione dei per-
sonaggi principali del ciclo pittorico gozzoliano si dimostrano elementi
tutt’altro che trascurabili i finimenti dei cavalli. È già stato evidenziato
come, ad esempio, la bardatura rossa del cavallo montato da Piero il Got-
toso porti ricamate in oro le insegne familiari: sulle falseredini le tre piume
alternate alle palle racchiuse nell’anello, sul pettorale una serie di anelli con
diamante intrecciati che reca al suo interno il motto ‘Semper’ e nelle larghe
frappe sottostanti il ricamo stilizzato in oro delle piume di pavone, animale
considerato simbolo di immortalità e molto caro al figlio di Cosimo42.
Osservando la bardatura del cavallo montato dal giovane biondo si può
constatare che oltre a essere di colore rosso, come quelle delle cavalcatu-
re di Piero e di Gaspare, il pettorale mostra ricamato in oro il medesimo
motivo ornamentale delle falseredini del Gottoso, con l’unica differenza

39 D. ORANO, I “Suggerimenti di buon vivere” cit.


40 Dell’ampia bibliografia di riferimento si vedano, a titolo esemplificativo, le de-
scrizioni delle cerimonie ufficiali milanesi in BERNARDINO CORIO, Storia di Milano,
a cura di A. Morisi Guerra, vol. II, Torino 1978, ad annum; F. COGNASSO, I Visconti
cit., passim e C. SANTORO, Gli Sforza, dall’Oglio, Milano 1968, passim.
41 Ancora nel 1470, quando Galeazzo Maria era all’apice del potere ducale e disponeva
per un suo ritratto che lo immortalasse nelle sale del castello di Pavia, eletta a sua
residenza dinastica, lo Sforza manifestava la precisa volontà di vedersi raffigurato in
sella a un cavallo baio. M. ALBERTARIO, Galeazzo Maria Sforza cit., p. 4.
42 C. ACIDINI LUCHINAT, La Cappella medicea cit., p.87; L. RICCIARDI, Simboli medi-
cei cit., p. 79.
108 Squarci nel Medioevo

che il fregio delle tre piume è riprodotto in senso orizzontale e non in ver-
ticale, mentre il riferimento araldico alle palle è limitato, per quanto è dato
vedere, alla parte centrale del finimento, secondo uno stile decorativo che
richiama quello della bardatura della mula di Cosimo il Vecchio.

Completamente diversi i finimenti del cavallo all’estrema sinistra del-


la raffigurazione pittorica: a un esame attento, la bardatura mostra segni
voluti ed evidenti di usura nella lieve arricciatura dei bordi in cuoio del
pettorale, nel colore ossidato delle decorazioni in metallo non prezioso e,
mentre le falseredini portano un ornato del tutto peculiare, la singolarità
del pettorale è accresciuta dalla presenza di un’iscrizione realizzata con
intrecci di lettere misteriose, sinora completamente trascurata oltre che a
tutt’oggi indecifrata. Eppure, la compresenza di linguaggi diversi, come
quello gestuale, nel ciclo pittorico della cappella medicea è stata da tempo
segnalata43, così come è tipico il gioco della società cortese di utilizzare
emblemi e monogrammi per citare in modo criptico i committenti e i desti-
natari delle opere dove essi figuravano44 - anche nelle bardature dei cavalli,
come nel monumento funebre di Bernabò Visconti45 - ed è noto il vezzo di

43 C. ACIDINI LUCHINAT, La Cappella medicea cit., p. 89 e n.


44 P. VENTURELLI, Gioielli in smalto cit., p. 27.
45 Una tradizione inaugurata a Milano con le lettere che figurano sulle vesti delle
statue del monumento a Bernabò Visconti: Giustizia e Fortezza hanno abiti con fi-
niture che imitano i ricami delle stoffe litterate, con la “S” e la “O” in disposizione
alternata per la Fortezza e il gruppo “HB” per la Giustizia, le prime forse ricon-
ducibili al termine greco sofron (saggio, prudente) con cui si apriva la divisa di
Bernabò, le altre decodificabili come “Honor Bernabovis”. G. A. VERGANI, L’arca
di Bernabò Visconti al Castello Sforzesco di Milano, Cinisello Balsamo 2001,
pp. 156-163; P. VENTURELLI, Gioielli in smalto cit., p. 27. L’impresa si era diffusa
inizialmente proprio nel ricamo, rappresentando l’elemento base di un linguaggio
nato e sviluppatosi all’interno delle corti signorili e utilizzato da tutti coloro che
vi vivevano. L. RICCIARDI, Simboli medicei cit., p. 70.
Sincretismo disciplinare 109

alcuni artisti rinascimentali di anagrammare il proprio nome o di trasfor-


marlo in un rebus di facile lettura46.
Risulta tuttavia quanto meno curioso, se non – come a mio parere – al-
tamente significativo, che questo gioco enigmistico caratterizzi proprio la
bardatura del cavallo montato da quel personaggio che, il lettore attento lo
avrà già indovinato, tendo a identificare con il giovane Sforza, a dispetto
di una tradizione che lo riconosce come il signore di Rimini. Curioso e
significativo perché, nel Castello sforzesco, in mezzo a una gran varietà
di targhe e di emblemi, appare qua e là, sui capitelli di portici e di logge,
sulle serraglie delle volte e sui capitelli pensili delle sale ducali, sempre in
corrispondenza degli interventi architettonici disposti da Galeazzo Maria,
una targa recante, in senso diagonale, l’iscrizione in un alfabeto arcano47, a
lettere intrecciate, il cui senso rimane a tutt’oggi ignoto, sebbene condivi-
sibile risulti l’interpretazione del Beltrami che la riteneva celare un qualche
motto prediletto da questo duca48.

46 È il caso di Antonio Averlino detto il Filarete che, nel suo Trattato d’Architettu-
ra, si compiacque di anagrammare il proprio nome in “ONITOAN NOLIAVERE
NOTIRENFLO” (An-to-ni-o Avere-li-no flo-ren-ti-no), e di Fermo Stella che, nella
seconda cappella della chiesa dell’Osservanza di Caravaggio, sotto il dipinto ad
affresco della Madonna fra san Bernardino e san Rocco, ha rappresentato il suo
nome con un ferro di cavallo (fer), un topo (mus), una stella. L. BELTRAMI, Il castello
di Milano cit., p. 725; I. PI BRILLAS, San Bernardino di Caravaggio. Storia e arte in
un convento francescano, Brescia 1987; Dizionario degli artisti di Caravaggio e di
Treviglio, a cura di E. De Pascale e M. Olivari, Treviglio-Bergamo 1994.
47 La prima lettera dall’alto verso il basso parrebbe il lambda greco, con all’interno il
tau e al vertice superiore un occhiello che richiama la simbologia ermetica del com-
passo; altre lettere sembrano invece ispirarsi all’alfabeto isiaco e a quello zodiacale.
A decretare la fortuna delle imprese, del resto, aveva contribuito la cultura neopla-
tonica che riscopriva i testi tardo ellenistici e il linguaggio di alcuni scritti ermetici
riconducibili all’Egitto di età alessandrina. L. RICCIARDI, Simboli medicei cit., p. 71.
48 L. BELTRAMI, Il castello di Milano cit., pp. 724-725.
110 Squarci nel Medioevo

6.5. Squarci di antropologia tra ritrattistica ideologica e ‘al naturale’

Non è certo questa la sede per addentrarsi nel dibattito sulla natura della
ritrattistica quattrocentesca, tra ritratto di ‘invenzione’ o dal vero e ritratto
‘al naturale’ o ideologico, peraltro oggetto di ampia trattatistica, prodotta
da studiosi qualificati, anche per quanto concerne l’esperienza artistica del
Gozzoli49 e le usanze della corte milanese50.
Preme qui sottolineare, invece, la presenza di alcuni tratti antropologi-
ci che a un’attenta analisi, data per accertata l’effettiva somiglianza della
raffigurazione pittorica dei personaggi con i soggetti che si intendeva rap-
presentare, conducono, insieme a tanti altri indizi, a una diversa identifi-
cazione del cavaliere dipinto da Benozzo all’estremità sinistra del corteo
di Gaspare.
Sigismondo Pandolfo Malatesta, che si è presunto sinora corrispondere
al predetto personaggio, all’epoca della stesura della Storia dei Magi su-
perava la quarantina, essendo nato il 19 giugno 1417. Entrambe le celebri
opere di Piero della Francesca che lo ritraggono51, collocabili intorno al
1451, mostrano un uomo maturo caratterizzato da una singolare rettilineiz-
zazione della normale curvatura cervicale, quasi a far supporre un trauma
pregresso del tutto simile, per gli effetti posturali, al moderno “colpo di
frusta”52. Di contro, il presunto ritratto del Gozzoli raffigura un uomo inne-
gabilmente giovane e con una postura del collo assolutamente regolare.
Oltre alle più generiche considerazioni sul diverso colore e sulla dif-
ferente acconciatura dei capelli (la moda della piega verso l’esterno era
diffusa tra i giovani della Milano di metà Quattrocento), che non possono
assumere un valore tipicizzante assoluto nella definizione dei modelli di
riferimento sulla base dei quali si trovavano a operare gli artisti dell’epo-
ca, altri sono gli indizi anatomo-antropologici che rendono quanto meno
improbabile l’identicità dei soggetti rappresentati, ben oltre i margini di
invenzione concessi normalmente ai ritrattisti.

49 Si veda, per tutti, E. WAKAYAMA, La corte di re Sigismondo cit., pp. 56-63.


50 Sulla ritrattistica di corte in voga a Milano ai tempi del duca Galeazzo Maria Sfor-
za, basata su un modello “fosse questo una persona, un dipinto, un disegno o altro
oggetto d’arte”, si veda M. ALBERTARIO, Galeazzo Maria Sforza cit., pp. 3-29.
51 Si fa riferimento al ritratto di Sigismondo eseguito da Piero della Francesca per il
Tempio Malatestiano di Rimini e a quello ora conservato a Parigi nel Museo del
Louvre.
52 Per questa e per le successive indicazioni anatomo-antropologiche si ringrazia
sentitamente la professoressa Cristina Catteneo, antropologa forense e medico del
LABANOF, ma soprattutto esperta interlocutrice e amica paziente.
Sincretismo disciplinare 111

Innanzi tutto, la figura del cavaliere gozzoliano presenta un’accentua-


zione del dosso, al passaggio tra ossa nasali e adiacenti cartilagini, diffor-
me rispetto a quella, pur presente, caratteristica di Sigismondo, ma invece
molto simile, per ampiezza e posizione, a quella riprodotta nella medaglia
del 1457, opera del ferrarese Ercole Marescotti, raffigurante il giovanissi-
mo Galeazzo Maria Sforza53. Questo esemplare numismatico consente poi
altri utili raffronti con il cavaliere della Storia dei Magi: tra le due figure
si notano la similitudine, per posizione e ampiezza, del padiglione auri-
colare, un filtro nasale ugualmente marcato e, soprattutto, l’aggetto delle
ossa mascellari, che è un tratto fisiognomico peculiare che accomuna tutta
la ritrattistica dello Sforza. Concordanze di connotati, di contrassegni e di
fisiognomia che rendono peraltro molto probabile l’ipotesi che il cranio
rinvenuto a Melzo sia quello di Galeazzo Maria54, a sua volta altamente
compatibile con il ritratto gozzoliano del cavaliere bruno.

53 Ercole Marescotti, Galeazzo Maria Sforza, medaglia, 1457, Milano, Civiche Rac-
colte Numismatiche. M. ALBERTARIO, Galeazzo Maria Sforza cit., p. 11.
54 C. CATTANEO, D. PORTA, Indagini antropologico-forensi effettuate sul cranio, in
F.M. VAGLIENTI, Anatomia di una congiura cit., p. 271.
112 Squarci nel Medioevo

Nessuna di queste caratteristiche è presente né nel giovane con berretta


rossa sulla cavalcatura bianca, in cui di norma è riconosciuto lo Sforza,
né nei ritratti di Sigismondo Malatesta, suscitando palese disagio anche
nei moderni studiosi che, pur non essendosi mai soffermati sui particolari,
hanno istintivamente avvertito note discordanti tra il personaggio del cava-
liere bruno e la sua tradizionale identificazione con il signore di Rimini55.
Un’identificazione che risulta ancora più improponibile se si considera il
contesto storico in cui venne realizzato il ciclo pittorico della cappella me-
dicea.

7.6 Sigismondo Pandolfo Malatesta, “faex Italiae”

Sigismondo Pandolfo Malatesta, con la dinastia dei Piccinino e Barto-


lomeo Colleoni, ha rappresentato un forte elemento destabilizzatore e di
perturbamento nell’ordinato, ma ancora fragile panorama dell’equilibrio
tra stati che si era andato configurando all’indomani della pace di Lodi del
1454. Nel 1459, quando il pontefice Pio II lo costrinse a seguirlo nel suo
viaggio da Firenze a Mantova56, dove si sarebbe svolta la celebre Dieta, gra-
vavano sul signore di Rimini le accuse più infamanti e poteva essere consi-
derato, a ragione, l’uomo più inviso della Penisola, la “faex Italiae”57.
Detestato dai Fiorentini, non riuscì mai, neanche quando assunse il Ca-
pitanato generale delle truppe della Lega italica, a ottenere da loro aiuti
militari, né il saldo di una sua precedente condotta al servizio della Re-
pubblica, mentre Federico da Montefeltro, conte di Urbino, coglieva ogni
minimo pretesto per compiere scorrerie nelle sue terre, con una determi-
nazione dettata più da avversione personale che da ragioni politiche58. E di
natura personale era la diffidenza che gli Este e gli Sforza59, nonché l’intera

55 Così la Luchinat dichiara che “è norma riconoscere all’esterno Sigismondo Pan-


dolfo Malatesta, somigliante seppur troppo vagamente, al profilo dipinto nel Tem-
pio Malatestiano (1451)”. C. ACIDINI LUCHINAT, La Cappella medicea cit., p. 87.
56 M. SIMONETTA, Il duca alla Dieta cit., pp. 272-273.
57 P.J. JONES, The Malatesta of Rimini and the Papal State, Cambridge 1972, p. 176
e sgg.
58 P. MARGAROLI, Diplomazia e stati rinascimentali. Le ambascerie sforzesche fino
alla conclusione della Lega italica (1450-1455), La Nuova Italia Editrice, Firenze
1992, pp. 204-205.
59 Sulla diffidenza mostrata da Francesco Sforza, ancora nel 1459, nei confronti
dell’affidabilità di Sigismondo Malatesta, palesata a papa Piccolomini in occasio-
ne della trasferta di Pio II da Firenze a Mantova, M. SIMONETTA, Il duca alla Dieta
cit., p. 275.
Sincretismo disciplinare 113

comunità internazionale, nutrivano per un uomo che aveva fatto violentare


una nobildonna tedesca da più di quaranta uomini della sua compagnia ed
era sospettato di avere fatto uccidere entrambe le sue mogli60.
Nei primi anni ’60 del Quattrocento, proprio in concomitanza con la
realizzazione delle Storia dei Magi nella cappella medicea, Sigismondo
era pubblicamente sospettato di voler attirare gli eserciti Turchi in Italia61,
era in guerra aperta con Pio II, che in pubblico concistoro ne denunciò le
nefandezze62, mentre si riattizzava la polemica con il duca di Milano, affat-
to rassegnato al tragico destino toccato in sorte alla figlia Polissena che si
diceva essere stata uccisa per soffocamento, con un asciugamano intorno
al collo, in Castel Sismondo, nel convento della Scolca, per consentire al
Malatesta di sposare l’ultima sua amante, Isotta degli Atti63.
Se l’obiettivo della committenza medicea, nel disporre dettagliate istru-
zioni per la realizzazione del ciclo di affreschi del Corteo dei Magi, era
marcatamente ostentatorio, proiezione dello sfarzo e del potere conquistato
dal casato nella Firenze quattrocentesca, destinato a impressionare positi-
vamente illustri ospiti politici italiani e stranieri, celebrazione dei fasti della
loro cripto-signoria, in una sorta di “Epifania politica e familiare” 64, fissata
nel tempo e nello spazio per i secoli a venire, risulta difficile pensare che
Cosimo il Vecchio abbia anche solo pensato di celebrare a figura intera, in
primo piano, consegnandolo di fatto all’immortalità, un personaggio tanto

60 P.J. JONES, The Malatesta of Rimini cit., pp. 202-203; P. MARGAROLI, Diplomazia e
stati rinascimentali cit., p. 206.
61 M. SPREMIĆ, I Balcani e la Crociata (1455-1464), in Il sogno di Pio II cit., p.
497.
62 G. SORANZO, Malatesta Sigismondo Pandolfo, in Enciclopedia Italiana fondata
da Giovanni Treccani, vol. XXI, Roma 1950, pp. 1004-1005; P.J. JONES, The Ma-
latesta of Rimini cit., pp. 220-239; C. VASOLI, Dal De pace Fidei alla Dieta di
Mantova, in Il sogno di Pio II cit., pp. 476-477.
63 In realtà, è probabile che Polissena, figlia naturale legittimata di Francesco Sforza
e di Giovanna d’Acquapendente, sia morta a causa della peste, all’epoca dilagan-
te in tutta l’Italia centrale. L. FUMI, L’atteggiamento di Francesco Sforza verso
Sigismondo Malatesta in una sua Istruzione del 1462, con particolari sulla mor-
te violenta della figlia Polissena, in “Archivio Storico Lombardo”, XL (1913),
pp.158-180; F.M. VAGLIENTI, Sforza Polissena, in Dizionario biografico delle
donne lombarde. 568-1968, a cura di R. Farina, Baldini & Castoldi, Milano 1995,
pp. 1015-1016. È tuttavia interessante e politicamente significativo notare come
nel 1462, a tredici anni di distanza dal decesso della figlia, il duca di Milano abbia
deciso di ridar vita e credito alle dicerie contro il Malatesta, quasi a segnare il
definitivo distacco dalle sorti dello scellerato signore di Rimini che, a fasi alterne
e fra mille ribaltamenti, era stato suo alleato.
64 F. CARDINI, I re Magi cit., p. 26, pp. 53-58.
114 Squarci nel Medioevo

discusso e ambiguo quale il Malatesta, affiancandolo, per di più, allo Sfor-


za, figlio primogenito del suo principale accusatore. Un errore diplomatico
che male si adatta all’acume e al sensibilissimo intuito politico dimostrati
dal fondatore delle fortune della famiglia di mercanti e banchieri originari
di Cafaggiolo, lungo tutto l’arco della sua avventurosa vita.
Forse il signore di Rimini è effettivamente ritratto in una delle innumere-
voli figure non ancora identificate che costellano l’opera di Benozzo nella
cappella del Palazzo di via Larga, magari sulla parete di sinistra, nel corteo
Melchiorre che annovera illustri e autorevoli personaggi, tutti in qualche
maniera ostili o invisi ai Medici65. Forse né Galeazzo Maria Sforza, né
Sigismondo Pandolfo Malatesta sono rappresentati nel ciclo gozzoliano e
non si può che condividere la prudente affermazione della Luchinat quando
dichiara che «molte delle proposte per il riconoscimento di figure e di teste
restano opinabili, se non addirittura infondate»66.
Di sicuro, però, se per onorare il potente e indispensabile alleato milane-
se67, Cosimo il Vecchio avesse deciso di far rappresentare il giovane Sforza,
il solo personaggio che, nell’opera di Benozzo, risponde perfettamente a
tutti i requisiti – fisiognomici e iconografici – attribuibili a Galeazzo Maria
è, a mio avviso e in ragione di quanto esposto, il cavaliere all’estrema sini-
stra. L’unico, peraltro, il cui modello avrebbe potuto ottenere l’approvazio-
ne del casato sforzesco68 e l’unico che, in un muto ma eloquente incrociarsi
di sguardi, è osservato significativamente da almeno otto delle altre figure,
tra le quali il Gozzoli e lo stesso Cosimo (fig. 32), ma sfugge, con la si-
derale fissità della sua espressione, a una domanda inespressa, destinata a
rimanere sospesa nel tempo e nello spazio.

65 F. CARDINI, I re Magi cit., p. 46.


66 C. ACIDINI LUCHINAT, La Cappella medicea cit., p. 86.
67 Sulla natura e sulla solidità dell’alleanza tra Francesco Sforza e Cosimo de’ Medi-
ci nella seconda metà del Quattrocento, si veda per tutti R. FUBINI, Italia Quattro-
centesca. Politica e diplomazia nell’età di Lorenzo il Magnifico, Franco Angeli,
Milano 1994, pp. 62-86, 185-220.
68 Alla corte milanese, i modelli destinati alla ritrattistica erano soggetti all’approva-
zione ducale, per esercitare un controllo diretto sulla circolazione delle immagini
ufficiali. M. ALBERTARIO, Galeazzo Maria Sforza cit., p. 7.
115

CAPITOLO 8
LE FONTI STORICHE

8.1 Definizione e classificazione

Le fonti si distinguono in mute e orali. Mute sono le fonti che non ripor-
tano, almeno come valenza fondamentale, segni di scrittura e sono riferibili
alle condizioni naturali (clima, paesaggio, stratificazione geologica ecc.) o
agli aspetti materiali di una civiltà (strumenti, attrezzi, materiali ecc.).
Una fonte storica è una testimonianza, in generale tanto più attendibile
quanto più prossima all’evento e riferibile al medesimo. Tutte le fonti, di
qualsiasi genere, sono in grado, se ben interpretate, di offrire informazioni
valide che possono essere intenzionali, quando finalizzate per origine e
natura a trasmettere certi tipi di informazione, o involontarie (preterinten-
zionali), ossia vestigia del passato la cui potenzialità informativa è indi-
pendente dalla funzione e dalla destinazione per cui esse furono realizza-
te, ma che forniscono notizie importanti sulla mentalità dell’autore e del
destinatario, sugli usi e sulle tecniche di produzione, sulle materie prime
utilizzate ecc.
A lungo si è ritenuto che le fonti preterintenzionali avessero un’atten-
dibilità maggiore, perché per loro natura meno soggette a volontarie “so-
fisticazioni”; tuttavia, le fonti intenzionali restano insostituibili nella rico-
struzione della trama dei fatti e necessitano di strumenti esegetici meno
raffinati affinché le loro informazioni possano essere verificate e compiu-
tamente intese.
La fonte storica per eccellenza è il documento scritto. Un documento,
anche quando falso, purché riconosciuto per tale, è comunque una fonte ge-
nuina e attendibile per se stesso, in quanto testimonia come, in circostanze
date, si sia avvertita la necessità di produrre quel tipo di artefatto. La falsi-
ficazione è dunque testimonianza genuina di un evento o di una circostanza
realmente verificatesi, anche se non di ciò che pretende di documentare. Al
pari, una cronaca tendenziosa o fantasiosa è una testimonianza importante
sulle idee e sulle intenzioni del suo compilatore.
116 Squarci nel Medioevo

La fonte scritta non vale solo per il contenuto, ma anche per ciò che tra-
smette involontariamente; perciò l’assimilazione della fonte scritta con la
fonte intenzionale perde molto della sua automaticità. Al pari, non in tutte
le fonti archeologiche l’informazione è involontaria, soprattutto per quanto
attiene ai monumenti.
Il monumento, inteso come fonte, ha un’accezione assai ampia: vi ri-
entrano l’effige celebrativa di un personaggio pubblico, il grande edificio
(cattedrale, palazzo comunale, castello signorile), le semplici commemo-
razioni funerarie dei privati. Anche in assenza di iscrizioni, l’edificio o il
manufatto monumentale comunica idee, valori, credenze ad esso consape-
volmente affidate da un gruppo sociale, rappresentato dal committente e
dai finanziatori (che non automaticamente coincidono), dagli esecutori, dai
destinatari o fruitori dell’opera. Il messaggio non è necessariamente ver-
bale, ma è ugualmente esplicito quando se ne conoscano le regole. I suoi
elementi sono la forma, le dimensioni, i materiali e i colori. Anche le infor-
mazioni trasmesse dal monumento sono dunque intenzionali e, pertanto,
soggette alla critica dell’intenzione e delle circostanze di produzione.
Le fonti scritte, peraltro, hanno una consistenza materiale che per certi
versi le fa rientrare nella categoria dei resti del passato. La fisionomia ma-
teriale è parte integrante del documento: materia scrittoria, impaginazione,
inchiostri, grafia usata per la stesura del testo, eventuali decorazioni o il-
lustrazioni, sigilli, segni di autenticazione rivelano le operazioni - spesso
lunghe e complesse - di redazione e convalida dei testi, le tecniche di com-
posizione, la destinazione sociale, il gusto e la cultura di un’epoca.

8.2 Le fonti scritte

Le fonti scritte possono essere suddivise in:


Fonti narrative. Comprendono tutte le testimonianze che riferiscono di
eventi storici in forma espositiva con l’intenzionale fine di conservarne e
trasmetterne il ricordo (annali, storie, biografie, memoriali, panegirici).
Fonti documentarie. Rientrano in questa categoria i documenti di natura
giuridica destinati a istituire e a testimoniare, in forme legalmente valide,
diritti e obbligazioni di soggetti pubblici e privati (diplomi, privilegi, bolle
emanati da un’autorità pubblica, laica o ecclesiastica; accordi, contratti,
disposizioni di rilevanza giuridica derivanti dalla volontà di privati che
esercitano loro diritti).
Fonti legislative e normative. Comprendono le codificazioni organiche
di leggi promulgate da poteri pubblici laici ed ecclesiastici (capitolari ca-
Le fonti storiche 117

rolingi; decreti imperiali o papali; statuti comunali; deliberati delle diete,


dei parlamenti feudali, dei consigli comunali; atti dei concili; raccolte di
canoni).
Fonti giudiziarie, amministrative e fiscali. Rientrano in questa tipologia
i documenti che riguardano prevalentemente il funzionamento di organi-
smi statali, signorili, feudali ed ecclesiastici (deliberati dei tribunali e delle
corti di giustizia; disposizioni per l’esercizio degli offici e delle magistratu-
re; censimenti fiscali; inventari di beni e di rendite fondiarie; libri matricola
degli iscritti ad arti e confraternite; registri universitari e mortuari).
Corrispondenza privata e ufficiale. Le più antiche sono le raccolte di let-
tere, per lo più inviate da persone di elevato livello sociale e culturale (papa
Gregorio Magno, Carlo Magno). Con il progredire del Medioevo la docu-
mentazione epistolare aumenta e diventa rappresentativa di più ampi strati
sociali (crociati, studenti, mercanti). Assume poi rilievo la corrispondenza
diplomatica tra le autorità statali, da cui si traggono informazioni non solo
politiche, ma anche di ordine ideologico, sociale e culturale.
Fonti liturgiche. Sono costituite da testi in cui erano registrate le pre-
ghiere e le letture, accompagnate da precisi gesti rituali, che gli officianti
dovevano recitare durante le cerimonie religiose. Si tratta di lezionari (an-
tologie di passi biblici ed evangelici); sacramentari (manuali per l’ammi-
nistrazione dei sacramenti); ordines (disposizioni per le cerimonie nelle
solennità dell’anno liturgico); pontificali, contenenti le istruzioni e i testi
per la liturgia celebrata dai vescovi. Esisteva inoltre una liturgia speciale
per i sovrani.
Fonti agiografiche. Comprendono le vite dei santi e, in genere, le testi-
monianze relative alla loro memoria e al loro culto (resoconti di rinveni-
menti di reliquie, traslazioni, miracoli, edificazione di chiese). Spesso si
tratta di narrazioni a metà strada tra la testimonianza storica e la leggenda,
ma comunque preziose per ricostruire gli atteggiamenti sociali nei confron-
ti dei fenomeni religiosi.
Tra gli autori di agiografie più in auge nel Medioevo, è importante ricor-
dare Iacopo da Varagine (Varazze 1228 – Genova 1298) entrato nell’Ordi-
ne domenicano e, nel 1290, diventato arcivescovo di Genova dopo essere
stato priore della provincia di Lombardia. Prima del 1267, scrisse la Legen-
da aurea, 182 aneddoti sacri, relativi a Cristo, alla Vergine e alla vita dei
santi, narrati nell’ordine del calendario liturgico. L’opera ebbe una rapida
e vastissima fortuna, assurgendo a riferimento obbligato dell’iconografia
sacra per committenti e artisti: ne sopravvivono 500 esemplari in codici
manoscritti e se ne conoscono 150 edizioni a stampa in latino e 11 in vol-
gare, pubblicate tra XV e XVI secolo.
118 Squarci nel Medioevo

Fonti letterarie e dottrinali. Le prime comprendono poemi, romanzi e


novelle; le seconde, trattati teologici, giuridici, politici, scientifici ecc. I
testi, più volte copiati, potevano subire modifiche. I diversi manoscritti di
una medesima opera possono presentare errori di lettura o di interpretazio-
ne da parte dei copisti, oppure aggiunte di frasi esplicative (glossa margi-
nale) o interpolazioni, con l’inserimento di brani di altri autori.
Molte opere sono sopravvissute prive della prima o dell’ultima pagina,
utile a individuarne l’autore, oppure si conosce solo il nome del copista. Per
risalire all’autore occorre allora stabilire la migliore e più corretta stesura
dell’opera attraverso la comparazione e lo studio dei codici che riportano
il medesimo testo, costruendo uno stemma codicum, l’albero genealogico
dei codici.

8.3 Archivi e biblioteche

Nel Medioevo non esistevano archivi pubblici: la documentazione era


conservata da coloro che ne avevano originato la produzione e seguiva le
vicende loro e dei loro successori. In epoca moderna, con l’avvento della
stampa, si operò una distinzione tra archivi e biblioteche: i primi deputati
alla conservazione di manoscritti, le seconde di libri e codici, ma non sem-
pre con rigore sistematico.
A partire dal Settecento, la sistemazione degli archivi produsse effetti
positivi, con la creazione di inventari e spogli, ma anche negativi, con il
rimaneggiamento e lo scompaginamento di serie archivistiche, riordinate
magari per argomento e luogo, oppure, come a Milano, sulla base di classi-
ficazioni tematiche che hanno profondamente modificato la catalogazione
originaria.
Con la soppressione degli ordini religiosi e di alcune istituzioni locali
(XVIII-XIX secolo), confluì negli archivi pubblici una grande massa di mate-
riale e si operò un drastico mutamento di collocazione delle carte antiche.
Con le leggi del 1939 e del 1963 il sistema archivistico italiano si model-
lò sull’assetto amministrativo moderno, con un Archivio di Stato in ogni
capoluogo di regione e una quarantina di sezioni nei comuni con importanti
tradizioni. Esistono anche archivi comunali, di enti ospedalieri, archivi pri-
vati e di enti ecclesiastici non soppressi, quali vescovadi e capitoli canoni-
cali delle cattedrali, oppure di ordini, come quello Francescano, o di alcuni
grandi monasteri (Montecassino).
Molti documenti sono andati comunque distrutti in guerre (Napoli), in-
cendi (Venezia), eventi meteorologici. Inoltre, già in passato, quando i do-
Le fonti storiche 119

cumenti erano copiati nei cartulari gli originali venivano di solito distrutti,
così come gli elenchi dei contribuenti una volta che l’imposta era stata
riscossa; le suppliche al papa respinte erano lacerate; gli estimi bruciati
durante le sommosse popolari; i documenti potevano poi essere scartati e
distrutti dagli archivisti, portati a casa dagli eruditi, dispersi, venduti.

8.4 Le fonti mute

Delle fonti iconografiche si è già trattato nei capitoli precedenti, ma esi-


stono altri tipi di fonti mute che possono essere così suddivisi:
Paesaggio. La natura geologica del suolo, i suoi nessi con il clima, le
componenti idriche e minerali, con la vegetazione è una fonte muta rive-
latrice dei rapporti con l’uomo e fondamentale, anche se spesso trascurata
dalla storiografia, nella conoscenza delle varietà, nel tempo e nello spazio,
degli ambienti agrari, delle trasformazioni fondiarie e quindi dell’habitat
e dello sviluppo delle società. Ne fanno parte, a titolo esemplificativo, la
paleoclimatologia, che studia le condizioni climatiche avvicendatesi nelle
diverse epoche, la dendrocronologia, che analizza lo spessore degli anelli
di accrescimento di alberi plurisecolari, la paleobotanica.
Fonti archeologiche. Sono costituite da tutti i manufatti suscettibili di
misurazione, numerazione, valutazione tecnologica e di interpretazione in
riferimento alle necessità della vita di individui e gruppi sociali (corredi
funebri, attrezzature domestiche, residui di attività produttive, abitazioni e
insediamenti, edifici monumentali). Vi rientrano anche i resti osteologici,
umani (antropologia e archeologia funeraria) e animali (paleozoologia).
Reliquie. Rappresentano, letteralmente, tutto quel che rimane di qualsia-
si cosa. Il termine designa però comunemente i resti corporali e gli oggetti
d’uso di personaggi venerati dalla liturgia e dal culto, conservati, con ar-
redi i più vari, in spazi sacri. La loro conservazione è legata alla presunta
capacità di produrre miracoli, motivo per cui le reliquie, fondamentali nel-
la storia dell’architettura liturgica, mantengono valenza religiosa, sociale,
economica e politica.
Fonti numismatiche. Comprendono essenzialmente monete e medaglie
metalliche. Si qualificano per la natura e il peso del metallo, per il valore
intrinseco e per quello nominale (delle monete), per l’iconografia, talvolta
studiata da grandi artisti, per il tipo di coniazione e per le diciture presenti
sulle due facce.
Sigilli e stemmi. Le scienze che li studiano sono rispettivamente la sfra-
gistica e l’araldica. In entrambi i casi si tratta di espressioni figurate e sim-
120 Squarci nel Medioevo

boliche dell’autorità, che costituiscono un repertorio suggestivo dei costu-


mi e dei gesti rituali legati ai titolari di autorità. Iscrizioni, immagini, colori
hanno un preciso significato dimostrativo ideologico, espresso utilizzando
talvolta un complicato linguaggio simbolico.
Epigrafi. In quanto iscrizioni, sono innanzi tutto una forma di comuni-
cazione verbale. Traggono però parte del significato dai caratteri formali
che presentano in quanto oggetto (dimensioni, materia scrittura) e dalla
posizione in cui sono state collocate, attraverso la quale svolgono parte
delle loro funzioni di comunicazione. Nel Medioevo erano frequente-
mente apposte sulle sepolture, per commemorare il defunto, oppure su
edifici monumentali, per celebrarne la costruzione o il patrono. Funzioni
in parte analoghe avevano le scritture dipinte che commentavano imma-
gini religiose o profane esposte al pubblico, spiegandone il soggetto e il
significato.

8.5 Caratteri estrinseci delle fonti scritte

Si può scrivere sugli ostraca (frammenti di ceramica utilizzati da Egizi


e Greci), sul bronzo (sulle porte della cattedrale di Magonza sono incisi i
privilegi ottenuti nel 1135), sulla pietra (carte lapidarie, come a S.Antimo,
dove la donazione del 1108 è stata incisa sui gradini dell’altare) e se ne
occupa l’epigrafia. Per converso, nella pratica quotidiana si prendevano
appunti su tavolette lignee cerate, formate da un’asse in legno scavata, nel
cui incavo era versata cera vergine d’api. Nelle immagini medievali, la
tavoletta è spesso raffigurata composta da due elementi incernierati, così
da poter essere chiusa a protezione del testo. Nell’alto Medioevo il suo
uso è attestato per eseguire semplici disegni, ma in seguito si continuò a
utilizzarla anche per trascrivere testi sotto dettatura, a causa della maggior
velocità dello stilo rispetto alla penna, che doveva essere regolarmente in-
trisa nell’inchiostro.
L’uso della carta di papiro venne diffuso dagli Egizi presso tutti i popoli
dell’antichità per la redazione di documenti e di libri in rotoli, detti volu-
mina; per i documenti, fu utilizzata dai re merovingi fino al 692 e dai papi
sino all’XI secolo. La pianta di papiro presenta una canna triangolare, alta
circa 4 metri, e cresceva abbondante lungo le sponde del Nilo, ma si è poi
estinta per l’uso eccessivo, poiché impiegata anche nella costruzione di im-
barcazioni e nella fabbricazione di cesti, corde, sandali. Il materiale scritto-
rio era ottenuto dalla sostanza midollosa della pianta, tratta dall’interno del
fusto, che veniva tagliato in strisce poi sovrapposte e incrociate. Il tutto era
Le fonti storiche 121

ricoperto di lino, sopra il quale si esercitava una forte pressione con pietre o
mazzuoli. Le strisce si saldavano assieme grazie alla linfa della pianta.
Nel Medioevo ebbe grande diffusione la pergamena. Usati singolarmen-
te nei documenti o cuciti in rotoli (i rolls della cancelleria inglese), nei libri
i fogli di pergamena formano il codice e se ne occupa la codicologia.
Un materiale più economico era la carta, inventata in Cina nel II secolo
d.C. e nota al califfato abasside dopo la battaglia di Thalas del 751, quando
prigionieri cinesi a Samarcanda diedero avvio alla produzione, poi espor-
tata a Baghdad e a Damasco. Di lì raggiunse Bisanzio e, nell’XI secolo,
la Sicilia, la Spagna nel XII e poi la Francia meridionale e l’Italia, dove i
notai la adottarono a partire dal Duecento per i loro registri. La carta era
fabbricata con stracci di lino, canapa e cotone. L’utilizzo della cellulosa
risale solo alla metà dell’Ottocento.

8.7 Il codice miniato

Secondo Isidoro di Siviglia (560-636), autore delle Etimologie, la per-


gamena deve il suo nome alla città ellenistica di Pergamo, nella quale sa-
rebbe stata utilizzata per la prima volta. A partire dal III secolo d.C. venne
adottata progressivamente come supporto per la scrittura in sostituzione
del papiro, che si era rivelato scarsamente resistente all’usura del tempo ed
era sempre più difficile da procurarsi1.
La pergamena è ricavata dalla pelle di diversi tipi di animale: vitelli,
capre, agnelli, montoni. Quella più pregiata è di agnello o di vitello.
Innanzi tutto si privava la pelle del pelo e dei residui di carne. La pelle
veniva quindi immersa in un bagno di acqua e successivamente di latte
di calce (idrossido di calcio in sospensione acquosa) per circa due setti-
mane. Una volta estratta dalla vasca di macerazione, la pelle era lavata e
depilata con il lumellum, caratteristico coltello a lama arcuata, e passata in
un secondo bagno di latte di calce. Di seguito, dopo essere stata risciac-
quata energicamente, la pelle veniva stesa su un apposito telaio (cantiro)
e lasciata asciugare all’aria e, a fasi alterne, nuovamente bagnata, fino a
raggiungere la tensione richiesta. Durante queste operazioni, la pelle era
ulteriormente raschiata con il lumellum sia per eliminarne le asperità, sia
per assottigliarne lo spessore.

1 Hic liber est Sancte Marie de Morimundo, catalogo della Mostra dei codici mi-
niati di Morimondo, a cura di P. Mira, P. Rimoldi, in «Quaderni dell’Abbazia», a.
XV (2008), I-LVIII.
122 Squarci nel Medioevo

Una volta essiccata, la membrana veniva sfregata a lungo con polvere


di pietra pomice, osso di seppia oppure con pietre silicee o calcaree, allo
scopo di renderne la superficie ricettiva alla scrittura (pomiciatura).
Il trattamento di eliminazione dell’untuosità era completato con un ap-
pretto leggero prodotto con creta, gesso, caolino o altra polvere bianca me-
scolata a un collante, come la gomma arabica, la colla di pelle o quella di
pesce, oppure spargendo sulla superficie con le dita il bianco d’osso (ossa
calcinate e macinate) o il gesso in polvere.
La pergamena poteva essere tagliata in un preciso formato. Le due facce
non erano però perfettamente identiche, a causa della differente posizione
nella pelle originale: una, più liscia (interno), era denominata recto, l’altra
(esterno) verso. Era quindi piegata in quattro. Il limite dell’altezza della
pagina per la piegatura in quattro era intorno ai 40 cm. Le pagine erano
organizzate in fascicoli detti quaternioni (quaderni), composti da quattro
coppie di pagine, oppure quinternioni (quinterni). Sovente, per completare
il fascicolo, non essendo possibile ricavare tutte le pagine dalla stessa pelle,
venivano inserite pagine singole. La piegatura era predisposta in modo che
in ogni fascicolo le coppie di pagine fossero inserite le une dentro le altre,
predeterminando anche la posizione della parte del «pelo» e della parte
della «carne», in modo che, a libro aperto, le pagine presentassero la stessa
caratteristica (pelo-pelo, carne-carne).
Il testo organizzato in pagine rilegate sostituì, a partire dal III secolo, il
volumen, o rotolo, utilizzato in epoca classica, anche se il primo ricorso alla
pergamena era destinato a comporre volumina. Nel Medioevo la tipologia
del volumen sopravvisse solamente negli exultet. Quaderni e quinterni era-
no scritti e illustrati prima della rilegatura.
L’uso di tracciare sulla pergamena segni con punte metalliche era noto
già a Plinio il Vecchio (23 ca.-79 d.C.) e al mondo romano, in cui si ricorre-
va a strumenti in piombo. Nel corso del Medioevo, l’eccessiva malleabilità
di questo metallo venne progressivamente corretta con l’aggiunta di stagno
per consentire la realizzazione di piccole verghe sottili e leggere, dotate di
punte resistenti.
Questi strumenti erano utilizzati per tracciare, con l’ausilio di una
riga, le linee guida sui fogli di pergamena, seguendo le quali si dava un
allineamento e un’impaginazione alla scrittura. Talvolta le linee guida
erano tracciate a secco con una lama, oppure con la punta di un utensile
metallico. Nella seconda metà del XII secolo le rigature iniziarono a es-
sere tracciate a inchiostro. Come riferimento erano utilizzati forellini sui
margini del foglio, la cui equidistanza era determinata con l’ausilio di un
compasso.
Le fonti storiche 123

Le penne erano ricavate dalle remiganti delle oche o di altri grossi vo-
latili e sostituirono il calamo, usato in epoca classica, fornendo maggiore
precisione nella scrittura. La preparazione della penna richiedeva una certa
abilità. Dopo aver eliminato le barbe e troncato la parte più sottile della
penna, si praticava dapprima un taglio trasversale, seguito da altri due sim-
metrici all’estremità del primo taglio per dare forma alla punta. Questa era
poi mozzata da un taglio perpendicolare all’asse della penna per eliminare
le irregolarità; infine, era praticato un taglio lungo l’asse di simmetria della
punta stessa, a servire da serbatoio.
La punta della penna d’oca poteva essere usata di taglio, fornendo un
tratto molto sottile, oppure di piatto. Con opportuni movimenti della mano
era possibile alternare tratti grossi a sottili, dando origine alla caratteri-
stica calligrafia medievale. La scrittura più diffusa fino al XII secolo è la
carolina, il prodotto di uno sforzo di regolarizzazione grafica iniziato nel
monastero di Corbie (Francia) agli esordi dell’VIII secolo. La formazione
di questa grafia non è dunque il frutto di un’evoluzione spontanea, ma il
risultato di una ricerca deliberata in relazione al vasto movimento di rina-
scita degli studi promosso al tempo da Carlo Magno, che ne decretò l’uti-
lizzazione ufficiale nel 789.
La carolina fu adottata in Francia, in Germania e in Italia centro-setten-
trionale. Benché frutto del lavoro di numerosi scriptoria, la resa definitiva
si deve al monastero di S.Martino di Tours, sotto la guida del monaco Alcu-
ino di York, e poi del suo successore Fredegiso, che la formalizzò alla fine
del IX secolo. In ragione della sua regolarità, la minuscola carolina risulta
di grande leggibilità e il suo uso perdurò fino al XIII secolo, quando iniziò
ad assumere un tratteggio più angoloso e verticaleggiante, anticipatore del-
la scrittura gotica.
Per la miniatura si addicevano invece pennelli a pelo morbido, cioè fab-
bricati con i peli della coda di vaio o di scoiattolo, martora, puzzola o zi-
bellino. I peli erano innestati in un cannello di penna di avvoltoio, d’oca, di
gallina o di colombo, secondo la grandezza desiderata. Al cannello era poi
applicata un’asticciola di legno affusolata e appuntita all’estremità libera.
I peli, in precedenza riuniti e legati insieme, una volta stretti nel cannello
e bagnati con colla potevano essere mozzati e dotati di lunghezza uniforme
tagliandoli con una forbicina, oppure consumati sfregandoli leggermente su
una pietra ruvida fino a rendere la punta sottile in base alla tipologia voluta.
Per montare a neve l’albume, utilizzato come legante, ci si serviva del
pinzellum situlare, un pennello di setole di maiale, a volte sostituito da uno
scopettino di stecche, o da una cannuccia tagliata a un’estremità, oppure da
una spugna montata su un piccolo manico di legno tornito.
124 Squarci nel Medioevo

Per cancellare i segni dello stilo di piombo era utilizzata la mollica di


pane, mentre scrittura e pittura erano corrette con frammenti di vetro inca-
strati all’estremità di un bastoncello, o con una lama appuntita e affilata, il
moderatorium, spesso rappresentato nelle miniature che raffigurano copisti
o illustratori al lavoro.
Altri tipi di lame erano utilizzati per temperare le penne, rifilare le per-
gamene, tagliare le foglie d’oro e d’argento, raschiare i colori macinati
sulla mola. Una zampa di lepre, rivestita di morbido pelo, era usata per
sostenere la mano affinché non poggiasse sul foglio sporcandolo, ma anche
come spazzola per eliminare i residui della cancellatura.
Svariati recipienti conservavano inchiostri e colori: i cornetti per l’inchio-
stro nero o rosso contenevano sul fondo una spugnetta o un po’ di bambagia
per non spuntare le penne; i colori in polvere erano conservati in sacchetti di
cuoio o in vasetti di terracotta invetriata; i liquidi erano riposti in ampolle di
vetro o di terracotta invetriata, in gusci di conchiglie marine o di tartaruga.
I leganti utilizzati erano i più vari: caseina, sostanze colloidali di origine
animale o vegetale spesso in uso ancora oggi per la pittura a guazzo o ad
acquarello. Usatissime nel Medioevo erano le gomme vegetali e la chiara
d’uovo. Tra le gomme primeggiava quella d’acacia o arabica, più rare la
gomma di ciliegio, di mandorlo o di pruno.
Nella preparazione della chiara d’uovo, l’albume (clarea) era montato
a neve, quindi la spuma era filtrata con una garza e il liquido ottenuto, op-
portunamente diluito con acqua, serviva per stemperare i colori. La colla
di pesce era ottenuta dalla bollitura della vescica natatoria di pesci diversi
e, analogamente, potevano essere bolliti pelli, cartilagini di vari animali
oppure i ritagli della pergamena.
Esistevano differenti qualità di inchiostri e anche nel caso di una me-
desima ricetta potevano mostrarsi diversi in ragione delle materie prime
utilizzate, quasi mai uniformi per qualità e purezza. Erano inoltre fabbricati
con metodi artigianali, se non personali, che ovviamente non garantivano
alcuna omogeneità nella resa.
Alcuni degli inchiostri più antichi erano composti con galla di quercia,
vino bianco, gomma arabica e sali di ferro o di rame. Per accelerare il pro-
cedimento si poteva ricorrere all’utilizzo del fuoco. Non sempre utilizzata,
perché rara e costosa, ma in grado di fornire un nero perfetto era la secre-
zione di vari cefalopodi (nero di seppia). Un altro storico inchiostro era
quello che si otteneva mescolando il nerofumo, ricavato dalla combustione
di una lampada a olio con una soluzione di acqua e gomma arabica. Nel tar-
do Seicento questo inchiostro era definito nero di Cina, perché si riteneva
che il migliore fosse quello importato da quel paese.
Le fonti storiche 125

Per evitare depositi residui, l’inchiostro era ridotto allo stato solido in
piccoli pani e veniva diluito soltanto al momento dell’utilizzo.
Altri tipi di inchiostro, usati sporadicamente, potevano essere ottenuti
con la bollitura di taluni vegetali, in genere ricchi di tannino, come le foglie
di scotano, il mallo secco delle noci, la buccia del melograno.
La miniatura è la tecnica pittorica in cui si utilizzò, nel tempo, il più
grande e svariato numero di pigmenti e coloranti. La protezione dalla luce
e dagli altri agenti atmosferici offerta dalle pagine del libro consentì di usa-
re, oltre ai tradizionali pigmenti, anche numerosi splendidi colori vegetali
altrimenti non resistenti e inapplicabili nelle pitture su altri supporti.
La tavolozza dei colori disponibili ne risultò notevolmente arricchita.
Trasparenti, sfumati e luminosi fino al XII secolo, i colori divennero co-
prenti e intensi a partire dal XIII.
Le ricette per produrre, conservare, utilizzare i colori, assai varie nel
tempo e nei luoghi e raccolte sovente in forma di trattato, rappresentano un
ricco filone documentario che dal Medioevo si estende a tutta l’Età Moder-
na. I colori avevano peraltro origine assai diversa.
Colori di origine animale. Bianco d’osso o d’ostrica (bianco): si otte-
neva dalla calcinazione di ossa di volatili e di conchiglie; cocciniglia o
kermes (rosso): chitina seccata e frantumata di un insetto mediterraneo,
spesso utilizzata come lacca; fiele (giallo-verdastro): fiele raddensato di
alcuni pesci o di testuggini e di altri animali, dal colore dorato e trasparen-
te; porpora (rosso): estratta in antico da un mollusco mediterraneo, venne
impiegata per tingere le pergamene dei codici purpurei tardo-antichi (libri
in cui l’intera pagina era tinta di rosso). Non venne mai impiegata come
colore nelle miniature. Seppia (nero): estratta dalla sacca di alcuni cefalo-
podi, usata anche come inchiostro.
Colori di origine vegetale. Brasile o verzino (rosso): estratto da varie
specie leguminose appartenenti alla famiglia delle Cesalpinacee e ottenuto
bollendo i pezzi di legno e facendo precipitare il colorante con sali di allumi-
nio; curcuma (giallo): specie esotica; robbia (rosso): decotto delle radici della
Rubia Tinctorum, dal quale si ottiene una lacca; iris (azzurro): estratto dai
petali di Iris Germanica; mirtillo e sambuco (azzurro): si utilizzava il succo
estratto dalle bacche; indaco o lulax o blu baccadeo (azzurro): estratto da una
grande varietà di piante del genere Indigofera, in particolare dall’Indigofera
Tintoria. Era utilizzato anche per tingere le stoffe. Zafferano (giallo): estratto
dagli stimmi essiccati del Crocus Sativus L. appartenente alla famiglia delle
Iridacee Crocoidee. Sangue di drago o dragone (rosso): estratto dalla resina
che un tipo di pala secerneva a causa della puntura di un insetto. Spincervino
(giallo-verde): estratto dalle bacche di vanno.
126 Squarci nel Medioevo

Colori di origine minerale. Azzurro della Magna (azzurrite): carbona-


to di rame utilizzato soprattutto dal XIII secolo; era estratto da miniere
d’argento e di rame della Sassonia. Come l’oltremare necessitava di pu-
rificazione. Cinabro (rosso): proveniva principalmente dai giacimenti del
Monte Amiata, di Idria in Istria e di Almaden in Spagna. Nel Medioevo
predominava il cinabro artificiale. Malachite (verde): carbonato di rame.
Oltremare o lapislazzuli (azzurro): veniva estratto da miniere dell’Afgha-
nistan e pertanto risultava molto costoso. Diffuso in Medio-Oriente, il suo
principale centro di commercializzazione era Damasco. La sua disponibili-
tà in Europa coincise con le Crociate. Necessitava di purificazione ottenuta
miscelando la polvere con una pasta composta da cera d’api, resine e oli.
L’impasto, immerso in una soluzione di lisciva, permetteva la migrazio-
ne del pigmento alla soluzione, mentre le impurità restavano nella pasta.
Orpimento (giallo): ha riflessi aurei, ma è molto tossico poiché contiene
arsenico ed è poco stabile. Veniva miscelato all’indaco per ottenere il ver-
de, mentre risulta incompatibile con pigmenti a base di piombo e di rame,
come la biacca e il minio. Poteva essere ottenuto anche artificialmente.
Litargiro (giallo piombo) ed ematite (nero minerale).
Nelle miniature più pregiate si ricorreva poi all’utilizzo della foglia
d’oro, ottenuta battendo l’oro, spesso una moneta, tra due lamine di rame.
La lamina ottenuta veniva ripiegata, tagliata, posta tra strati di pelle molto
sottili e nuovamente battuta fino a ottenere uno spessore impalpabile.
La foglia d’oro era poi applicata su uno strato di colla e terra verde o
bolo armeno, che risucchiava la lamina, favorendone così l’aderenza al
supporto. Il colore intenso del substrato traspariva attraverso il sottile strato
d’oro, rendendolo più vivo. A essicamento completato, si procedeva alla
brunitura, strofinando sopra la foglia d’oro una pietra d’agata, oppure un
dente di cane o di porco, montato su un bastoncino. Eventualmente si ren-
deva più vivace la foglia d’oro con una velatura di zafferano. In alternativa
alla foglia d’oro, i trattati medievali prevedevano numerose ricette, basate
prevalentemente sulla riduzione in polvere dell’oro stesso, oppure sull’or-
pimento.
La preparazione dei colori per l’uso consisteva nel macinare i pigmenti
mescolati con la gomma su una pietra liscia molto dura (porfido o gra-
nito) con l’ausilio di una seconda pietra di foggia rotonda e provvista di
impugnatura (mola o macinello). La pasta così ottenuta era poi stempera-
ta con acqua. L’impasto, inoltre, poteva seccare ed essere sempre ripreso
con l’aggiunta d’acqua, come i moderni acquarelli in godet. In alcuni casi,
come per il verderame, si aggiungeva aceto. Altri colori, quali lo zafferano,
erano stemperati con l’albume e diluiti con l’acqua.
Le fonti storiche 127

I colori di origine vegetale, al momento della loro estrazione, venivano


assorbiti su pezzuole e lasciati seccare. Poiché non erano fissati al suppor-
to, prima di usarli era sufficiente bagnare la stoffa e aggiungere gomma o
un altro legante.
Come recipienti su usavano coppette di ceramica smaltata, di legno o di
pietra torniti, oppure conchiglie o gusci di tartaruga.
Negli scriptoria le fasi della scrittura e della decorazione di un codice
erano rigorosamente programmate.
Si iniziava con la predisposizione delle linee, dei margini e delle colon-
ne. Successivamente i calligrafi o copisti trascrivevano il testo, lasciando
liberi gli spazi destinati alle iniziali e alle altre eventuali illustrazioni. Più
copisti potevano lavorare al medesimo testo, come testimoniano scritture
diverse all’interno di uno stesso codice. Le iniziali venivano poi eseguite
con lo stilo di piombo, a volte con inchiostro o con punta d’argento; i mi-
niatori si aiutavano anche con il righello e con il compasso. Di seguito, era
stesa, qualora prevista, la foglia d’oro sopra un fondo di bolo armeno o di
verde. Infine, si stendevano le campiture dei vari colori e si provvedeva a
ripassare i contorni con penna e inchiostro.
Fino al XII secolo, la legatura praticata era in genere la cosiddetta caro-
lingia. I quaderni erano cuciti a nervature disposte perpendicolari al dorso
dei quaderni stessi, poi fissate alle estremità a due tavole di legno, det-
te quadranti. Il fissaggio delle nervature ai quadranti richiedeva che negli
stessi venissero praticate scanalature, per non farle emergere in rilievo dal
piano della tavola.
Il filo che univa i quaderni fuoriusciva da un foro nel dorso del quaderno,
girava una o due volte intorno alla nervatura, quindi rientrava all’interno del
quaderno per ripetere l’operazione sulla nervatura adiacente. Una volta legato
un quaderno, si passava a quello successivo, formando una catenella.
L’operazione avveniva con l’ausilio di un telaio da cucitura. I quader-
ni venivano successivamente ricoperti di cuoio o di stoffa, la coperta; i
più importanti erano impreziositi da lamine auree oppure argentee, con
bassorilievi in avorio o con gemme. I manoscritti comuni potevano essere
rilegati con semplici coperte in cuoio molto spesso o addirittura in cartone,
ottenuto sovrapponendo diversi starti di pergamena.

8.8 Dal fonema al grafema

L’idea di rappresentare un suono con un simbolo grafico è nata da un


potente salto dell’immaginazione avvenuto oltre 3200 anni a.C. Poco in-
128 Squarci nel Medioevo

nanzi i Sumeri avevano inventato la scrittura, costituita da geroglifici pit-


tografici.
La scrittura nasce dall’esigenza di codificare le proprie esperienze e di
condividerle con i propri simili dandone testimonianza nel tempo. Le trac-
ce più antiche di ricorso alla scrittura sono state rinvenute in Iraq, nella
città-stato di Uruk. Si tratta di 4 tavolette di argilla in caratteri cuneiformi
che il C14 ha datato al 4.000 a.C. circa. A produrle è stata la civiltà sumera,
cui si fa risalire anche l’uso della ruota, la conoscenza dei principi enuncia-
ti poi nel teorema di Pitagora, l’aver suddiviso l’anno in 12 mesi e la sfera
celeste in 360°.
La scrittura servì innanzi tutto da testimonianza oggettiva delle tran-
sazioni: ad Aleppo, in Siria, sono stati rinvenuti piccoli oggetti, chiamati
contatori, contraddistinti da forme e simboli diversi, utilizzati per indicare
merci di scambio (schiavi, olio, legname), risalenti anch’essi al 4.000 a.C.
Per conservare i contatori si iniziò a utilizzare delle sfere di argilla incise
in superficie con i simboli della merce scambiata, cui si sostituirono ben
presto le più pratiche tavolette di argilla incise con il numero e l’immagine
degli oggetti della transazione. Inizialmente, i simboli erano pittogrammi,
richiamando nella forma quella dell’oggetto registrato.
Una prima evoluzione significativa nella scrittura si rintraccia a Ur, la
città caldea che diede i natali ad Abramo, dove è stata rinvenuta una tavolet-
ta, detta di Ku-shim, risalente al 2.600 a.C. ca. Si tratta del primo esempio
di scrittura a rebus, in cui cioè un vocabolo risulta dalla somma di simboli
non in connessione tra loro se non per la parola che esprimono, generan-
done una terza, a sua volta diversa (es. ali+mento=alimento). La scrittura
a rebus si fece sempre più complessa, permettendo però la semplificazione
della scrittura, poiché ridusse il numero dei simboli da memorizzare.
Un’ulteriore evoluzione, ancor più significativa, si verificò in Egitto, nel
1.500 a.C. circa. In un centro minerario del Sinai è stata scoperta, infatti,
una sfinge che, sulla spalla destra, riporta una dedicazione in caratteri ge-
roglifici, mentre su quella sinistra la medesima dedicazione è espressa in
caratteri alfabetici, una trentina di simboli in tutto.
Nella scrittura dell’Antico Egitto permase a lungo la pratica di ricorre-
re indistintamente agli ideogrammi, ai fonogrammi e ai determinativi. Fu
però la prima civiltà che dagli oltre 700 ideogrammi (geroglifici) trasse 66
fonogrammi (gruppi consonantici) per giungere a un sistema alfabetico di
24 caratteri.
La parola geroglifico non è egiziana. Si tratta di un termine greco for-
mato da hieros, sacro, e da glyphein, incidere. I Greci consideravano i ge-
roglifici come una scrittura sacra e incisa, ossia come una rappresentazione
Le fonti storiche 129

incisa del sacro. Prime testimonianze dei geroglifici sono la Tavolozza di


Narmer e la mazza del re Scorpione che commemorano la vittoria sulle
tenebre di questi antichi Faraoni, vissuti intorno al IV Millennio a.C. La
scrittura “sacra” in uso nell’antico Egitto è un sistema pittografico evolu-
to, il più antico del Mediterraneo, tale da consentire l’impiego di singoli
pittogrammi per la rappresentazione di specifici fonemi consonantici. Gli
Egizi ne attribuivano la scoperta al dio-ibis Thoth, inventore del linguaggio
e della magia.
In Mesopotamia, a partire dal IV Millennio a.C., i Sumeri avevano svi-
luppato un sistema parzialmente pittografico per esigenze di amministra-
zione, contabilità, commercio e comunicazione politica, successivamente
evolutosi in un complesso sillabario, fondato sulle diverse combinazioni
di grafi, ottenuti con l’impressione di uno stilo a sezione triangolare su
un supporto morbido (tavolette di argilla). Nacque così la scrittura detta
cuneiforme, ampiamente diffusa nel Vicino Oriente antico, ereditata poi da
Accadi e Assiri.
A modelli affini all’egiziano si rifanno anche il sistema protocananeo,
l’hittita e la scrittura minoica mista (sillabico-ideografica) nota come “line-
are A”, premessa indispensabile dell’alfabeto fonetico inventato dai Fenici:
è a Ugarit, nella moderna Siria, a poca distanza da Biblio, che sono state
rinvenute tavolette di argilla, tutte in caratteri cuneiformi, in ben otto lingue
diverse, tra cui l’ugaritico, espresso in 22 caratteri sistematici e in ordine,
tanto da fornirci il modello dell’antico abecedario, all’origine dell’alfabe-
to2 moderno, comune alle popolazioni arabe, semite e occidentali.
L’enorme semplificazione nelle procedure introdotte dall’alfabeto con-
sentì la larghissima diffusione della pratica scrittoria e con essa delle idee
e della sensibilità democratica.
Lo ieratico è la scrittura corsiva dei geroglifici, utilizzata nella stesura
dei documenti religiosi, amministrativi e letterari, iscritti sulle superfici de-
gli ostraca e sui papiri; nella composizione dei testi relativi alla vita quoti-
diana si utilizzava il demotico, opposto alla ieratico, di cui rappresenta una
forma abbreviata e corrente.
Con questo breve testo un abitante di Deir el-Medina commissionò
all’artigiano Nakthamon quattro finestre di legno. Il committente disegnò
anche il piano quotato delle finestre, in modo da facilitarne la realizzazione:
«A Nakthamon: ti chiedo di fabbricare per me quattro [finestre] seguendo
esattamente questo modello. Sbrigati! Cerca, per favore, di terminarle en-

2 Il vocabolo deriva dalle sue due prima lettere, A da Aleph (mucca), corrispondente
alla lettera greca Alfa, B da Bet (casa) alla Beta.
130 Squarci nel Medioevo

tro domani! Voglio spiegartene il modello: 4 di questo modello. Larghezza:


4 palmi [0,29x4=1,16 m.]. Altezza: 5 palmi e 2 dita [0,29x5=1,45 m. + 4,1
cm. = 1,49 m.]».

Ostracon con ordinazione di finestre, XIX dinastia, seconda metà del Regno
di Ramesse II, 1244-1212 a.C., terracotta rossa con sfondo giallastro, Parigi, Louvre.

«I geroglifici sono tanto delle idee, quanto dei suoni», così ebbe a defi-
nirli lo studioso francese Jean-François Champollion che, nel 1808, aveva
iniziato a lavorare sulla decifrazione della cosiddetta Stele di Rosetta, la
triplice iscrizione in caratteri geroglifici, demotici e greci scoperta nel 1799
dalle truppe napoleoniche nei pressi della cittadina di Rosetta (Rashid).
La sua opera di decifrazione si basò su tre intuizioni geniali: innanzi tut-
to che il copto rappresentava lo stadio ultimo della evoluzione dell’antica
lingua egizia; secondariamente, che i geroglifici avevano un valore misto,
sia ideografico sia fonetico e, infine, che i geroglifici trascritti nei cartigli
rappresentavano foneticamente il nome dei faraoni.
Supponendo che a ogni segno geroglifico corrispondesse un segno al-
fabetico e, apprendendo dal testo greco della Stele, che il faraone cui ci si
riferiva era Tolomeo, riuscì a individuare i segni che componevano il nome
Ptolmys.
Nel 1821, esaminando il testo bilingue (greco e geroglifico) di un obe-
lisco rinvenuto dall’archeologo italiano Belzoni sull’isola di File, Cham-
pollion riuscì a leggere il nome di Cleopatra e a ottenere così il valore
alfabetico di ben dodici segni. Estendendo il metodo ad altri cartigli, scoprì
il valore di molti geroglifici.
Le fonti storiche 131

Non è possibile determinare con esattezza quando furono adottati


nell’Italia centrale l’alfabeto greco e l’uso della scrittura, tuttavia le testi-
monianze archeologiche fanno risalire i primi documenti scritti in Etruria
alla fine dell’VIII secolo a.C. e quelli nel Lazio all’inizio del VII. Sembra
che l’adozione dell’alfabeto greco per esprimere graficamente la lingua la-
tina si sia verificata parallelamente alla civiltà etrusca. Il latino, parlato nel
Lazio, apparteneva al ceppo indoeuropeo e al ramo italico (come il veneti-
co, il falisco, l’umbro, il sabino, l’osco ecc.)
La creazione della scrittura costituisce un atto ufficiale, volontario, pro-
gressivo e ogni comunità, preso a modello un alfabeto, lo adatta alla pro-
pria lingua, elaborando nuovi segni, modificando il valore di altri e soppri-
mendone altri ancora. L’alfabeto latino fu fissato a 21 lettere intorno alla
metà del III a.C., con l’aggiunta della G. Il nuovo grafema, creato secondo
Plutarco (Questioni romane, 54) da Spurio Carvilio Ruga per indicare la
gutturale sonora, derivava dall’apposizione di un trattino al C, che rimase
a indicare soltanto la sorda. La lettera K, presente nell’alfabeto arcaico, fu
usata sempre più raramente sino a rimanere solo nel termine kalendae. La
Q continuò a persistere nel diagramma “qu” davanti a vocale. Verso la fine
dell’età repubblicana entrarono nell’uso corrente la Y e la Z per riprodurre
voci greche. Ennio introdusse l’innovazione, ispirata al modello greco, di
scrivere le doppie consonanti geminate, originariamente indicate con una
consonante semplice. Non ebbe invece seguito l’introduzione di nuovi se-
gni da parte di Claudio (46-48 d.C.): F capovolto a indicare la «u» conso-
nante, H privo dell’asta verticale destra per rappresentare il suono «ü» e un
antisigma (C retroverso), per «bs» o «ps».
Una citazione a parte merita la fibula prenestina per la sua dubbia au-
tenticità. Se l’iscrizione del relativo astuccio fosse autentica sarebbe forse
la più antica testimonianza epigrafica in lingua latina, databile alla prima
metà del VII secolo. Il testo, inciso secondo la formula non inusuale del
testo parlante in prima persona, indica che la fibula fu fatta eseguire da
Manio per Numerio.
MANIOS MED FHE FHAKED NUMASIOI cui corrisponderebbe, in
latino classico: MANIUS ME FECIT NUMERIO, ossia letteralmente «Ma-
nio mi fece per Numerio»
132 Squarci nel Medioevo

Gli argomenti a favore dell’antichità dell’iscrizione sono i seguenti: la


redazione da destra a sinistra; la trascrizione arcaica della consonante latina
f per mezzo di fh; la morfologia arcaica, con un nominativo in –os, un dativo
in –oi, il pronome personale di prima persona all’accusativo med, il perfetto
del verbo facere formato con un raddoppiamento; la forma arcaica delle let-
tere, paragonabili a quelle delle iscrizioni greche di Cuma. Il testo è peraltro
anteriore al “rotacismo”, vale a dire alla trasformazione in -R- di -S- intervo-
calico (numaSioi) e anche agli “indebolimenti” che colpiscono le vocali delle
sillabe successive alla prima (per cui A passerà a E in sillaba chiusa)
Accanto alle iscrizioni di possesso, compaiono documenti ufficiali di
prescrizione o celebrativi. L’iscrizione destinata alla pubblica lettura, inci-
sa su un supporto stabile, offriva la possibilità di riportare alla memoria e
di fissare nel tempo la parola detta e ascoltata. La scienza epigrafica studia
i testi scritti, con funzione di comunicazione non privata, fissati con la tec-
nica dell’incisione su un supporto durevole (epigraphai, da epigraphein
«scrivere su qualcosa», perfettamente corrispondente al latino inscribere).
A Roma si trova la più antica iscrizione lapidea conosciuta, il cippo del
Foro, ancora in loco sotto il Niger Lapis. Il cippo in tufo, di cui rimane la
parte inferiore, risale a circa il 575-550 a.C., inserito in un complesso archi-
tettonico il cui pavimento in marmo nero ha dato il nome del sito. Con ogni
probabilità si trattava di un santuario del dio Vulcano (Volcanal). Il testo, la-
cunoso, è inciso sul cippo, che presenta una forma troncopiramidale, in senso
verticale e con andamento bustrofelico non regolarmente mantenuto.
L’alfabetizzazione delle popolazioni germaniche avvenne inizialmente
in latino, poi le lingue straniere furono trascritte nell’alfabeto latino, non
senza grandi difficoltà di carattere tecnico dovute alla presenza di fonemi
estranei alle sonorità mediterranee, soprattutto allo scopo di riportare due
dei principali filoni della tradizione orale barbarica: la legge e la poesia.

Lapide funeraria di Constantinus Barbarus Germanus, graffito su marmo,


sec. IV d.C., Roma, Catacombe di Domitilla.
Le fonti storiche 133

8.9 Cenni di diplomatica

Nel mondo romano era la documentazione scritta a serbare memoria dei


diritti. Nei regni romano-germanici furono soprattutto le autorità pubbliche
e la Chiesa a ricorrervi. A partire dal Duecento, il ricorso allo scritto si
diffuse e si generalizzò.
Per documento in senso diplomatistico si intende ogni testimonianza
scritta su un fatto di natura giuridica, compilata nell’osservanza di deter-
minate forme destinate a procurarle fede e a darle forza di prova. La di-
plomatica ha per oggetto lo studio critico di queste fonti e, innanzi tutto,
si domanda se gli atti sono veri o falsi a prescindere dalla loro autenticità
storica: un atto può essere falso diplomatisticamente ma vero storicamente,
e viceversa. I documenti d’archivio si suddividono in:
– atti veri e propri;
– lettere (corrispondenze di ogni genere, di solito senza fini giuridici);
– scripturae o scritture (note informi, promemoria, annotazioni ecc.).
L’esistenza di un atto presuppone di solito la presenza di un autore e di
un destinatario. Sovente l’autore non scrive direttamente, ma si affida a un
professionista, detto rogatario.
Gli atti si distinguono in pubblici, prodotti da un’autorità pubblica, e privati.
Gli atti pubblici si dividono in:
– Precetti o privilegi o diplomi, di carattere essenzialmente giuridico e
politico, con valore di lunga durata e forme solenni;
– Lettere o mandati, di carattere amministrativo, con effetto temporaneo
e forme semplici. Le lettere possono essere patenti, se spedite aperte,
oppure chiuse.
Gli atti privati si distinguono in:
– Probatori, che perpetuano solo il ricordo del fatto giuridico (detti noti-
tiae breves);
– Dispositivi o chartae, che sono parte effettiva dell’atto giuridico.
Dal XIII secolo la rinascita del diritto romano produce profondi muta-
menti nella forma e nella struttura del documento, dando origine all’instru-
mentum notarile.
In relazione alla formazione del documento notarile, si distingue l’actio,
ossia il momento in cui si svolge il fatto giuridico, e la conscriptio, ossia il
momento in cui si fornisce testimonianza scritta dello stesso: i due momen-
ti nella charta coincidono, nella notitia brevis no.
Negli atti privati era necessaria la presenza di testimoni, uso che si man-
tenne anche quando il notaio ottenne la fede pubblica e che si estese nel XII
secolo ai diplomi imperiali e pontifici.
134 Squarci nel Medioevo

La redazione dell’atto avveniva sovente in due momenti. Prima il notaio


stendeva la minuta con gli elementi fondamentali dell’atto (attori, oggetto,
testimoni), nell’alto Medioevo sul dorso o ai margini della pergamena su
cui avrebbe scritto il documento, dal XII secolo in appositi registri cartacei:
in questo caso la minuta rappresentava già il contratto nella sua perfezione
giuridica, tanto che non sempre si procedeva nel redigere il documento su
pergamena. La cancelleria pontificia iniziò a predisporre la minuta a partire
dal IX secolo, mentre quella imperiale soltanto dal XIII secolo. La seconda
fase è rappresentata dalla redazione del testo in pulito, il mundum, cui se-
gue la formula di recognitio del notaio o del cancelliere. La terza fase è la
convalida dell’atto con l’apposizione del sigillo. A questo punto si possiede
il documento originale che può essere prodotto in più esemplari.
La copia di un documento può essere di vario tipo:
– Autentica, o exemplar, se autenticata da un notaio e sottoscritta da altri
notai che hanno controllato la conformità con l’originale;
– Figurata, se riproduce anche nell’aspetto esteriore l’originale;
– Conservata nei Registri di cancelleria, dove venivano copiati i docu-
menti inviati;
– Conservata nei Cartulari, dove venivano trascritti i documenti posseduti
da un ente privato o pubblico;
– Semplice.

8.10 Il notariato nel Medioevo

Nell’Alto Medioevo, nei territori bizantini continuarono a operare gli


scrittori pubblici di documenti, detti tabelliones, organizzati in collegi pro-
fessionali che curavano la preparazione tecnica dei propri membri e cer-
cavano di garantire l’autenticità degli atti. Nei territori longobardi, invece,
scomparvero sia le curie municipali sia i collegi di scribi: gli scrittori di
documenti incominciarono a operare individualmente, senza il supporto o
il controllo di un’organizzazione e apprendevano autonomamente le cogni-
zioni necessarie. Talvolta si trattava di ecclesiastici.
In età carolingia, gli estensori degli atti furono sottoposti a maggior con-
trollo da parte dell’autorità pubblica: l’esercizio dell’attività fu subordinato
alla nomina da parte del sovrano e dei suoi funzionari (conti e marchesi)
e si generalizzò il termine di notaio (del sacro palazzo, del re). Gli eccle-
siastici che redigevano gli atti per i loro enti non avevano però bisogno di
nomina pubblica.
Le fonti storiche 135

Tra X e XI secolo, i notai rivendicarono sempre più decisamente la


competenza esclusiva di autenticare e pubblicizzare i documenti privati e
sovente esercitarono anche le funzioni di giudice, cui tradizionalmente ve-
niva riconosciuta la capacità di conferire validità pubblica agli atti privati.
Il processo fu accelerato dalla riscoperta del diritto romano e dall’uso dei
registri notarili (inizi XII secolo) che consentivano il riscontro dei docu-
menti in possesso delle parti con la minuta stesa dal notaio.
Nel XII secolo, il notaio, dopo un adeguato tirocinio professionale e
sulla base di un’autorizzazione conferita dal potere pubblico, ottenne la
publica fides, cioè la capacità di creare atti autentici e validi come prova
legale.

8.11 Il computo del tempo

I Romani calcolavano la data in base all’era del consolato, indicando gli


anni con i nomi dei due consoli eletti annualmente. In Occidente, l’ultimo
console fu Basilio, nel 541. Nei regni romano-germanici, alla formula post
consulatum si unì ben presto l’anno di regno dei sovrani. La Chiesa utilizzò il
computo secondo il post consulatum degli imperatori di Costantinopoli fino
a papa Adriano I che, nel 781, adottò l’anno del pontificato calcolato dal gior-
no della consacrazione. I Carolingi e i loro successori adottarono anch’essi
gli anni di regno, calcolati dalla data di incoronazione del sovrano.
L’era cristiana venne calcolata a Roma nel 525 dal monaco Dionigi il
Piccolo, che fissò la nascita di Cristo al 25 dicembre dell’anno 753 dalla
Fondazione di Roma, per cui l’anno 1 corrisponde al 754. L’anno 0 non
esiste. Il monaco anglosassone Beda, autore della Historia ecclesiastica
gentis Anglorum, adottò il computo degli anni secondo l’era cristiana,
inaugurando il sistema tutt’ora in uso nel mondo occidentale. In Egitto,
invece, si diffuse l’era di Diocleziano o dei Martiri, con inizio il 29 agosto
284, adottata nell’alto Medioevo anche in parte dell’Occidente e ancora in
uso presso i cristiani copti.
L’indizione è un ciclo di 15 anni, inaugurato nel 313 in Egitto per motivi
fiscali: il più antico esempio del suo uso cronologico risale al 556. Comin-
ciava il 1° settembre, inizio dell’anno bizantino, e fu pertanto detta greca
o costantinopolitana. L’indizione, largamente utilizzata in Italia e dai papi,
ma con inizio al 24 settembre, si calcola aggiungendo il fattore numerico
3 all’anno e dividendo il risultato per 15: il resto fornisce l’indizione. Se
il resto è 0 l’indizione è la 15ª. Es. 2011+3=2014:15=134 con il resto di 4;
trascorso il 24 settembre, l’indizione è dunque la 4ª.
136 Squarci nel Medioevo

Poiché erano in uso stili diversi nel fissare il giorno di inizio dell’anno
calcolato secondo l’era cristiana, l’indizione si rivela talvolta fondamentale
per rapportare correttamente l’anno al computo attuale.
Stile della circoncisione, al 1° gennaio. Riprende l’uso romano, adottato
dal 153 a.C., ed è sempre stato considerato l’inizio dell’anno astronomico.
Si diffuse in maniera preponderante solo in età moderna, a partire dal XVI
secolo (in Inghilterra nel 1752).
Stile veneziano o mos venetus, al 1° marzo. In uso a Venezia e nel suo
dominio sino alla caduta della Repubblica nel 1799.
Stile dell’Annunciazione (ab Incarnatione Domini), al 25 marzo. Fu
molto diffuso in Francia, nelle città italiane (Pisa e Firenze) e tedesche, in
Inghilterra (dal 1066 al 1751), in alcuni cantoni svizzeri.
Stile della Natività (a nativitate Domini), al 25 dicembre. Fu adottato
in Germania, Francia e in Italia, in particolare a Milano a partire dai primi
dell’XI secolo. Secondo lo stile della Natività, il nostro 26 dicembre 2011
sarebbe stato indicato come 26 dicembre 2012, ma riportando la 4ª indi-
zione (invece della 5ª, che inizia il 24 settembre 2012) avrebbe automati-
camente segnalato una discrepanza negli stili di datazione e che l’anno di
riferimento corrispondente all’uso attuale è il 2011 e non il 2012.
Stile della Pasqua o mos gallicanus. Comincia con la Pasqua, o con il
Sabato Santo, che sono feste mobili (la domenica successiva al plenilunio
che segue l’equinozio di primavera) e oscilla dal 22 marzo al 25 aprile,
per cui la durata dell’anno si alternava tra gli 11 e i 13 mesi, i 330 e i 440
giorni e le stesse date potevano ricorrere due volte nel medesimo anno. Fu
adottato in Francia dal XII secolo fino al 1564 e anche in Lorena, Belgio
e Olanda.

8.12 Il calendario

Nel Medioevo, i mesi e i giorni venivano indicati come nel calendario


romano. Il mese è scandito da tre date di base che servono per calcolare
tutte le altre: le Calende il 1°, le None nove giorni prima delle Idi, le Idi
normalmente il 13 del mese, il 15 nei mesi di marzo, maggio, luglio e ot-
tobre (marmaluot). Le None, quindi, cadono di solito il 5, il 7 invece nei
mesi predetti. I giorni sono contati all’indietro in riferimento a queste date,
calcolando sia il giorno di partenza sia quello di arrivo, secondo l’uso anti-
co (es. 30 dicembre = terzo giorno ante Kalendas Ianuarii).
In Francia, Svizzera, Germania e anche nelle fonti narrative italiane, i
giorni potevano essere indicati anche secondo l’uso liturgico della Chiesa,
Le fonti storiche 137

con i nomi dei santi o delle feste religiose secondo il calendario liturgico del
luogo, diverso da quello attuale uniformato nel Concilio Vaticano II. Alcune
domeniche venivano indicate con le prime parole dell’introito della S.Messa:
Laetere la quarta di Quaresima; Quasi modo quella dopo Pasqua ecc.
La settimana iniziava la domenica. Gesù infatti risorge il primo giorno
dopo il sabato, che perciò assunse il nome di “giorno del signore” (dies
dominica). I giorni della settimana venivano indicati con il nome latino:
dies lunae, martis, mercurii, iovis, veneris, sabbati; oppure con la formula
liturgica di prima feria (la domenica), secunda feria (il lunedì) ecc.
Durante il Medioevo il calendario in uso era quello riformato da Giulio
Cesare nel 46 a.C., che sulla base dei calcoli degli astronomi egizi aveva
stimato l’anno solare in 365 giorni e 6 ore circa, aggiungendo un giorno ogni
4 anni (anno bisestile). L’anno però era stato calcolato più lungo di 11 minuti
e 4 secondi rispetto all’anno tropico (rivoluzione apparente media del sole),
elemento che, unito alla diminuzione costante dell’anno tropico, produsse
nel corso dei secoli diversi giorni di differenza: ben 11 nel XVI secolo.
Papa Gregorio XIII promosse allora una riforma del calendario. L’anno
civile doveva fornire un numero di giorni intero, mentre l’anno tropico è
frazionario: i calcoli furono condotti da Luigi Giglio, professore di medici-
na all’Università di Perugia. Grazie al piano elaborato dallo studioso, il ca-
lendario avrebbe conservato un margine di errore inferiore a un giorno fino
al 4317: sono bisestili gli anni le cui due ultime cifre sono divisibili per 4,
ma degli anni secolari sono bisestili solo quelli le cui due prime cifre risul-
tano perfettamente divisibili per 4 (1600 e 2000, non 1700, 1800, 1900).
Per passare al nuovo calendario, Gregorio XIII cancellò 11 giorni del
mese di ottobre 1582, passando direttamente dal 4 al 15 ottobre. Il nuovo
calendario fu adottato immediatamente in Italia, Spagna, Portogallo e Da-
nimarca, poi via via dagli altri Paesi, sino alla Russia nel 1923. Il calenda-
rio giuliano è però ancora seguito dalla Chiesa ortodossa, motivo per cui il
Natale ortodosso cade attualmente il 7 gennaio.

8.12 Le ore

Fino al XIV secolo, sull’esempio dell’antico Oriente, le ore erano 12 per


il giorno e 12 per la notte. Quando si voleva indicare la durata totale di una
giornata di 24 ore si precisava “giorno e notte”.
I Greci avevano diviso tanto il giorno che la notte in quattro parti uguali,
ciascuna composta di tre ore. La prima parte del giorno (giorno naturale)
iniziava col levarsi del sole, la seconda tre ore dopo, la terza sei ore dopo
138 Squarci nel Medioevo

(corrispondente a mezzodì) e la quarta nove ore dopo. Al tramonto del sole


aveva fine il giorno e incominciava la notte (notte naturale). L’insieme di
questi intervalli di tempo coincideva con la durata di una rotazione intera
della Terra, detto giorno sidereo o siderale. Le ore comprese negli intervalli
furono denominate ore temporanee o ineguali poiché variavano di lunghez-
za nel corso dell’anno secondo le latitudini e le stagioni.
I Romani adottarono la stessa divisione del giorno e della notte usata dai
Greci (mane l’inizio del giorno, meridies il mezzogiorno, solis occasu il
tramonto e media nox la mezzanotte), trasmettendola al Medioevo. Ancora
durante il periodo rinascimentale era consuetudine in Europa computare
il nuovo giorno dal tramonto del sole. Nell’antico uso italiano, di cui si
trovano ampie tracce in letteratura, le ventiquattro ore si contavano a par-
tire dall’avemaria della sera, donde le locuzioni ancora in uso fino a poco
prima dell’ultima guerra mondiale, “un’ora di notte” e “due ore di notte”.
Questo computo ha con l’attuale una corrispondenza variabile da stagione
a stagione, con uno spostamento medio di sei ore, e fu l’unico in vigore in
Italia dal Medioevo al Settecento, scomparendo definitivamente solo nella
prima metà dell’Ottocento. Le ore così computate furono dette ore italiane
o planetarie ed erano divise in “ore grandi” (da 13 a 24) e “ore piccole”
(da 1 a 12).

Si deve all’Antico Egitto l’aver diviso il giorno in 24 ore uguali (12 ore
del giorno e 12 della notte), da cui deriva il modo attuale di computare
le ore. Il motivo di questa discrasia è da ricercarsi nell’inadeguatezza del
giorno siderale, che pure deve ritenersi unità fondamentale di tempo, ai
bisogni delle società passate, poiché l’umana attività giornaliera si svol-
geva e si regolava prevalentemente in base all’illuminazione solare, cioè
Le fonti storiche 139

secondo quel giorno naturale che varia leggermente, ma continuamente e


periodicamente, nell’arco dell’anno. Pertanto, nella vita quotidiana, fino
al XVII secolo e oltre, si utilizzò quasi sempre il “giorno vero” determi-
nato da due passaggi consecutivi del sole al meridiano – mezzodì –, che si
divide in 24 ore solari, suddivise il 60 minuti di 60 secondi ciascuno, poi
sostituito dal “giorno civile” o “tempo civile”, computato da mezzanotte a
mezzanotte. Le ore contate da mezzanotte a mezzogiorno e poi di nuovo
da mezzogiorno a mezzanotte furono dette “ore galliche”, ossia francesi, o
equinoziali, e si radicarono a partire dal XIV secolo, con la diffusione degli
orologi meccanici, dapprima enormi e pubblici, di seguito sempre più pic-
coli e accessibili al privato. Quasi tutte le nazioni europee vi si adeguarono,
determinando l’attuale uso globale di suddividere il giorno in dodici ore
a.m.(ante meridiem, prima di mezzogiorno) e dodici p.m. (post meridiem,
dopo mezzogiorno).

Principali opere citate

JACOPO DA VARAGINE, Leggenda Aurea, trad. it. a cura di C. Lisi, 2 voll., Libreria
Editrice Fiorentina, Firenze 1990.
P. CAMMAROSANO, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, NIS,
Roma 1991.
A. CAPPELLI, Cronologia, cronografia e calendario perpetuo dal principio dell’era
cristiana ai giorni nostri, Hoepli, Milano 1988.
G. CENCETTI, Paleografia latina, Jouvence, Roma 1978.
Hic liber est Sancte Marie de Morimundo, catalogo della Mostra dei codici miniati
di Morimondo, a cura di P. Mira, P. Rimoldi, in «Quaderni dell’Abbazia», a. XV
(2008), I-LVIII.
A. PRATESI, Genesi e forma del documento medievale, Jouvence, Roma 19993.
La Storia. Dalla Preistoria all’Antico Egitto, a cura della Redazione Grandi Opere
di UTET Cultura, Mondadori, Milano 2007.
S. TRAMONTANA, Capire il Medioevo. Le fonti e i temi, Carocci, Roma 2005.
141

CAPITOLO 9
POTERE DELLA PAROLA,
POTERE DELL’IMMAGINE

9.1 Verbo e immagine

«In principio erat Verbum et Verbum erat apud Deum et Deus erat Ver-
bum. Hoc erat in principio apud Deum. Omnia per ipsum facya sunt et
sine ipso factum est nihil quod factum est; in ipso vita erat et vita erat lux
hominum et lux in tenebris lucet et tenebrae eam non comprehenderunt»1.
Il Cristianesimo è essenzialmente la religione della Parola (Verbo), ma an-
che della parabola (racconto allegorico) e dell’immagine, che ne rendono
immediatamente comprensibile il messaggio.
Nell’Europa medievale, si deve agli autori ecclesiastici l’esaltazione
dell’arte a scopo didascalico. Sul finire del IV secolo, quando il Cristiane-
simo si andava affermando come religione di stato, i Padri della Chiesa in
Cappadocia e Paolino da Nola menzionarono per la prima volta le imma-
gini, in precedenza relegate con disprezzo alle usanze pagane e contadine,
come mezzo per evangelizzare il popolo illetterato.
Nei secoli seguenti, l’immagine invase tutti gli ambiti delle attività so-
ciali, dal conio delle monete all’insegnamento dottrinale. La sua feticizza-
zione, che ha precedenti solo nella storia dell’Antico Egitto, venne favorita
da una nuova assimilazione dell’immagine al linguaggio, in quanto en-
trambi i sistemi risultano regolati da comuni presupposti logici.
La sinodo di Arras del 1025 sancì per la popolazione l’apprendimento
attraverso le figure. Onorio di Autun, enciclopedista dell’epoca, ascrisse,
fra i compiti della pittura, quello di istruire gli incolti: «pictura est laicorum

1 «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e Dio era il Verbo. Egli era
in principio presso Dio. Tutto fu creato per mezzo di lui e, senza di lui, nulla fu
creato di quanto esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini e la luce
risplende fra le tenebre e le tenebre non l’hanno catturata» (Giovanni, 1, 1-5).
Vangeli e Atti degli Apostoli. Interlineare Greco Latino Italiano, a cura di P. Be-
retta, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2005.
142 Squarci nel Medioevo

litteratura»2. Gli fece eco il contemporaneo Valfrido Strabone: «pictura est


litteratura illitterato»3. Secoli dopo la tesi fu ripresa da Guglielmo Duran-
do, da Tommaso d’Aquino e dalla maggioranza dei teologi, che approva-
rono l’uso pedagogico delle immagini, comunemente battezzate la “Bibbia
degli illetterati”. La loro funzione educativa era finalizzata a conservare la
memoria del passato e a consolidare modelli di formazione religiosa.
Nei secoli XIII e XIV, quando lo sviluppo culturale progredì in tutti i
campi del sapere, con scuole libere e con le Università, la maggioranza della
popolazione continuò a istruirsi gratuitamente guardando pitture, affreschi,
sculture e architetture. Mentre è il senso della vista a guidare l’istruzione
di massa, il metodo di insegnamento che trionfò con la Scolastica portava
tuttavia all’esclusione delle arti figurative, puntando sull’apprendimento
delle arti liberali (Grammatica, Dialettica, Retorica, Geometria, Aritmeti-
ca, Astronomia, Musica), apprese tramite l’udito, esercitate tramite la voce,
o direttamente lette nel silenzio assorto di scriptoria e biblioteche.

9.2 Comunicazione didascalica

Pittura, scultura e architettura avevano rappresentato, a partire dall’VIII


secolo, i pilastri della comunicazione didascalica. Le fonti iconografiche
erano le privilegiate depositarie del sistema educativo medievale che co-
stringeva gli illetterati a vedere invece che a leggere.
Per controllare aspirazioni e pulsioni della popolazione analfabeta e istitu-
ire un codice di comportamento universalmente valido, che punisse il vizio
e premiasse la virtù, occorreva appoggiarsi a strumenti quotidianamente e
costantemente sotto gli occhi di tutti. Di qui la costruzione di chiese a forma
di croce, disposte in modo da raffigurare simbolicamente la via della fede:
l’altare rivolto a oriente, circondato spesso da un muro semicircolare, sim-
bolo della volta celeste; il portico, che raffigura il Giudizio Universale o il
Paradiso; la grata, che divide l’altare, simbolo del Calvario; la porta centrale,
che allude alla porta del Cielo; il suono della campanella, che annuncia la
comparsa del diacono con una candela in mano, a ricordare il primo atto
della Creazione; il suono lento e profondo delle campane che accompagna il
defunto nel suo viaggio estremo. Tutto, ambientazione e scenografia, eserci-
tavano una potentissima influenza sull’immaginazione popolare.

2 A. GIALLONGO, L’avventura dello sguardo. Educazione e comunicazione visiva nel


Medioevo, ed. Dedalo, Bari 1995, p. 45
3 VALFRIDO STRABONE, De imaginibus et picturis, PL 114, col. 929.
Potere della parola, potere dell’immagine 143

La comunità dei fedeli assisteva così, quotidianamente, alla rappresen-


tazione dell’eterna lotta tra il bene e il male, applaudiva alla punizione dei
peccatori e al trionfo della virtù. Quando non bastavano i simboli architet-
tonici o figurativi, intervenivano, sin dai primi secoli, le Sacre Rappresen-
tazioni.
Le Sacre Rappresentazioni erano eredi del teatro antico. Davanti alle
porte, sul sagrato, nell’atrio o nelle navate centrali di chiese e cattedrali,
i sacerdoti recitavano e cantavano drammi liturgici in latino, spesso non
compresi dal pubblico che, però, seguiva attentamente con lo sguardo il
ricco apparato scenico, figurazione allegorica di fatti storici, religiosi e di
principi astratti. Il predominio dell’arte figurativa in queste rappresentazio-
ni rimase peraltro intatto anche dopo il XIII secolo, quando i drammi ini-
ziarono a essere rappresentati in lingua volgare. La parola accompagnava,
quando non ne era completamente sostituita, il gesto e l’immagine.
Nella Cena e Passione di Cristo (sec. XIV) un angelo, annunciando
l’evento che sarebbe stato rappresentato, esortava gli spettatori a sfruttare
la potenza della vista: «l’occhio si dice ch’è la prima porta per la quale l’in-
telletto intende e gusta, la seconda è l’udir con voce scorta, che fa la mente
nostra esser robusta: però [perciò] vedrete e udirete in sorta recitare una
storia santa e giusta». Un altro angelo, nel Sant’Ambrogio, aggiungeva che
«rimirar una gentile storia» è il modo migliore per «mettere a memoria»4.
Secondo le regole stabilite dalla cultura ecclesiastica medievale la vista
e l’immagine erano in grado di sedurre il pubblico. Gli spettatori ricono-
scevano nel serpente l’allegoria del peccato originale e sapevano associare
ai colori - delle scene e degli abiti - riferimenti simbolici connessi a eventi
naturali (il blu della notte, il nero del sonno) o alle virtù teologali (il bian-
co della Fede, il verde della Speranza, il rosso della Carità). Nel contempo,
paradossalmente, nelle forme popolari del sentimento devozionale e delle
pratiche cultuali era accettata l’idea che la conquista della virtù (obbedienza,
preghiera, fede) prevedesse di «credere in quel che l’uomo non vede»5.

9.3 Vedere per credere

Nell’XI secolo l’alfabetismo riguardava all’incirca l’1% della popola-


zione ed era quasi completamente limitato a giovani e ad adulti di sesso

4 A.M. GANTONI, Le Sacre Rappresentazioni e l’educazione pubblica nel Medioevo,


Perugia 1889, p. 54, 163.
5 Ivi, p. 175.
144 Squarci nel Medioevo

maschile appartenenti a un qualche ordine religioso. Gli illetterati, per-


tanto, aderivano alla religione del Verbo ricorrendo alla mediazione delle
immagini e ai relativi apprendimenti rituali; la Chiesa necessitava dunque
di segni che rendessero accessibile l’evangelizzazione, ricorrendo al senso
della vista.
Nel XII secolo, Suger, abate di Saint Denis, sostenne apertamente l’arte
a fini didascalici e fu animatore di grandi iniziative figurative e architet-
toniche. Il suo favore nei confronti del largo utilizzo di materiali preziosi
(gemme e ori) negli edifici sacri coincideva con l’idea di suscitare nell’uo-
mo comune, attraverso forti emozioni estetiche, il desiderio di contemplare
le meraviglie celesti.
Di parere opposto san Bernardo, preoccupato dai pericoli che si celano
sotto il fascino dell’immagine: «gli occhi sono colpiti dalle reliquie coperte
d’oro e intanto dalle borse escono i baiocchi. Si mostra qualche immagine
bellissima di santo o di santa e i santi sono creduti tanto più santi quanto
più vivamente sono colorati […] la gente ammira il bello più che venerare
il sacro»6. Se per un verso Bernardo confermava come preciso dovere dei
vescovi quello di istruire gli ignoranti (nella fede) ricorrendo all’uso di og-
getti materiali, considerata l’obiettiva difficoltà di alimentare la fede «delle
popolazioni poco intelligenti con mezzi spirituali», dall’altro rifiutava il
ricorso a questi metodi per chi aveva consacrato la sua vita al mondo spi-
rituale, per il quale unico strumento legittimo di apprendimento restava la
parola scritta. Il diletto visivo rischiava infatti di trascinare ignoranti e dotti
nel regno del piacere estetico, più che in quello delle buone disposizioni
interiori. La “campagna iconoclasta” bandita dal santo era tuttavia destina-
ta alla sconfitta.
Nell’alto Medioevo erano rari i testi riccamente illustrati, tranne che le
opere scientifiche (di astronomia, di agricoltura, o gli erbari) copiate se-
condo antiche tecniche illustrative; ma, a partire dal IX secolo, s’invertì la
tendenza e i monasteri incoraggiarono la moda dei codici illustrati, anche
per le raccolte di leggi: il manoscritto O.I.2 è uno dei più prestigiosi codici
membranacei miniati della Biblioteca Capitolare di Modena, considerato
sin dai tempi di Wiligelmo uno dei tesori della cattedrale.
Il nucleo originario del codice contiene una raccolta delle leggi delle
principali popolazioni presenti nel Sacro Romano Impero, compilata a Ful-
da tra 829 e 832 da Lupo di Ferrières e dedicata al conte del Friuli Everar-
do. Il testo era funzionale all’esercizio dell’amministrazione della giustizia

6 Opere di san Bernardo, I. Trattati, col. 914, trad. it. A cura di F. Castaldelli, Scrip-
torium Claravallense, Milano 1984.
Potere della parola, potere dell’immagine 145

da parte del vescovo conte, ruolo assunto dai presuli di Modena dall’891,
quando il vescovo Leodoino ottenne uno speciale privilegio dal re d’Italia,
Guido di Spoleto, per fortificare la città. L’analisi delle miniature rivela una
precisa volontà di caratterizzare le immagini al fine di consentire al lettore
di comprendere compiutamente il significato del testo. Non solo i diversi
atteggiamenti degli scribi evidenziano i differenti percorsi compiuti dalle
singole leggi prima della loro stesura definitiva in forma scritta, ma anche
la scelta dei temi iconografici testimonia chiaramente le specifiche caratte-
ristiche dei sistemi giuridici raccolti nel Codice.
Analogamente, se il modello tardo-antico è presente nella struttura ge-
nerale delle raffigurazioni, varianti interessanti permettono di cogliere la
volontà di caratterizzare ulteriormente i singoli gruppi etnici, al di là dei
ricorrenti elementi simbolici quali spada e festuca: così la lunga barba ad
attaccatura bassa tipica dei Longobardi, quella pure ad attaccatura bassa,
ma ricciuta, propria degli Alamanni, quella più ordinata dei Franchi; op-
pure dettagli degli abbigliamenti, come i gambali sorretti da bende o giar-
rettiere. La cultura del miniatore si distingue per l’efficacia e l’attenzione
con cui usa le tre tinte (minio arancio, giallo e verde) che risultano d’uso
esclusivo in molti scriptoria tardo-carolingi.
146 Squarci nel Medioevo

Nello schema delle parentele, la scena delle aquile è desunta dalle scene
venatorie con rapaci da riporto, diffuse nei mosaici romani e tardo-antichi,
ma nel caso specifico, una delle prime testimonianze anteriori al Mille,
probabilmente ispirata al motivo degli avori islamici, in cui il tema della
caccia ricorre con grande frequenza e le aquile da riporto vengono raffigu-
rate in posizione araldica, nell’atto di ghermire la preda.
Potere della parola, potere dell’immagine 147

La più antica copia decorata dell’Enciclopedia di Rabano Mauro (842) è


conservata invece nel monastero benedettino di Montecassino, con il titolo
De origine rerum, e risale al 1023. Il manoscritto è accompagnato da 360
immagini. Le conoscenze mondane e religiose dell’epoca sono introdotte
in ogni capitolo da un’illustrazione dominata dai colori rosa, giallo, verde,
rosso, violetto e bruno. In numerose pagine testo e disegno si dividono lo
spazio con l’intento di illustrare i temi trattati. L’espressione illustrativa, ri-
calcata sul modello classico ed egizio, in stretto contatto fisico con il testo,
garantisce la percezione ottica e mentale dell’oggetto descritto.
La stretta relazione fra testo e immagine sottolinea lo sforzo da parte del
miniatore di non limitarsi a illustrare meccanicamente, ma di rendere visibili
nelle figure i concetti e i caratteri specifici del testo corrispondente attraverso
formule figurative deliberatamente tratte sia dal patrimonio iconografico sa-
cro sia da quello profano. Per ironia della sorte, Rabano Mauro, sostenitore
della superiorità della parola scritta, fu l’autore dell’opera che, per cinque
secoli, mantenne il primato assoluto del numero di illustrazioni.

9.4 Il sapere corporativo

Con il passaggio dall’affresco al vetro, avvenuto nel periodo gotico, le


storie e gli exempla raffigurati diventarono meno leggibili: il ricorso al
vetro, pur ingrandendo le immagini, offriva una lettura più frammentaria
e fisicamente distante dall’osservatore. Le scene narrative, racchiuse in ri-
quadri, ostacolavano la lettura delle storie, rispetto agli affreschi e alle pit-
ture murali. Questa inaccessibilità sembra contraddire l’opinione corrente,
secondo cui la cattedrale sarebbe stata la scuola degli illetterati: si eviden-
zia piuttosto una totale indifferenza verso le virtù pedagogiche dell’imma-
gine, rafforzata dalla proibizione, fatta ai laici, di accedere all’interno del
santuario nell’ambone e nel recinto del coro, dove erano concentrati gli
elementi figurativi più significativi, riservati al clero.
Le tracce delle tradizioni popolari e dell’influenza della cultura dotta
sull’immaginario collettivo vanno dunque ricercate altrove, in quegli spazi
marginali degli edifici sacri in cui si esprimeva più liberamente il sapere
tecnico-pratico dei maestri scultori e dei maestri vetrai. Vetrate e sculture
esterne degli edifici religiosi vennero così adornate da scenette lavorative,
quotidiane, familiari, spesso facete e talvolta irriverenti. Questa produzio-
ne di immagini, lasciate sovente alla fantasia degli apprendisti, testimonia
la viva presenza del folklore orale, esprime le credenze della società conta-
dina e veicola determinati valori formativi.
148 Squarci nel Medioevo

I saperi e le esperienze trasmessi per via iconografica aggiravano il si-


lenzio delle fonti scritte dotte ed erudite. Riti iniziatici italiani e francesi
rappresentavano i neofiti con l’abito del folle, o nudi, e i maestri circondati
dai propri strumenti: squadre, compassi e mazzuole. Gli stessi strumenti,
disposti in posizione diversa, indicavano gli apprendisti.

Everwinus, un apprendista del XII secolo, siede esercitandosi nella esecuzione di


decorazioni floreali, mentre il suo maestro, Ildeberto, distoglie improvvisamente lo
sguardo dal suo ben equipaggiato tavolo da lavoro per imprecare contro un topo che
gli ha appena rubato il suo formaggio. Illustrazione tratta da un codice manoscritto del
De Civitate Dei di sant’Agostino, prima metà del XII secolo.

Le corporazioni artigiane si compiacevano spesso di raffigurare Cristo


con i loro utensili. A Firenze, fin dal XIII secolo, molte chiese si fregiarono
dell’emblema dei tintori: l’aquila ad ali spiegate artigliante un torsello.
Il sapere popolare, che si ritagliò uno spazio proprio negli edifici sacri,
si caricò di un simbolismo eterogeneo. Le rappresentazioni, ai nostri oc-
chi talvolta incomprensibili, erano probabilmente decifrate con facilità da
quegli “illetterati” che possedevano, meglio di noi e dei chierici loro con-
temporanei, un sapere gelosamente conservato e pazientemente trasmesso
di generazione in generazione. Queste conoscenze, travasate nel serbatoio
Potere della parola, potere dell’immagine 149

iconografico, non hanno lasciato traccia, se non occasionalmente e casual-


mente, nelle fonti scritte.
Scultori, vetrai, pittori, artigiani tramandavano il loro sapere con segni,
con gesti e con immagini alle nuove generazioni, almeno alla parte pre-
scelta di queste. Il percorso di addestramento e di apprendimento condotto
dalle corporazioni seguiva però percorsi alternativi a quelli del sistema for-
mativo ufficiale. Il sapere tecnico dell’antichità era stato conservato dalle
gilde artigiane, ma attraverso un linguaggio diverso che oggi ci è difficile
interpretare.
Di certo, emerge chiaramente l’impressione che l’illetterato non fosse
solo un passivo e muto consumatore di immagini, ma anche un loro loqua-
ce produttore.

9.5 Il sapere domestico

Quando, a partire dalla fine del XIII secolo, si passò dalla costruzione
delle cattedrali alle cappelle, agli altari, alle statue, alle immagini devo-
zionali, si sviluppò considerevolmente un’arte religiosa privata in ambito
domestico. Il sacro venne personalizzato.
La personalizzazione del sacro si integra con i culti praticati dalle con-
fraternite artigiane e con la diffusione di forme devozionali locali, sparse
in tutto l’Occidente. Il trionfo dell’iniziativa privata esplose negli oratori,
negli altari portatili e nei manuali di preghiera. Le illustrazioni dei Libri
d’ore hanno sensibilizzato gli ambienti secolari elitari medievali nei con-
fronti dell’infanzia.
Nel Medioevo le “Ore” designavano comunemente l’ufficio delle pre-
ghiere devozionali, salmi, inni, versetti e letture da recitare quotidianamen-
te in determinati momenti della giornata.
Il Libro d’Ore è un compendio di testi devozionali a uso dei laici che ha
il suo nucleo centrale nell’Ufficio della Vergine: le Horae Beatae Mariae
Virginis. Improntato sui breviari liturgici, la sua origine risale al secolo XI,
ma comincia a diffondersi solo dalla metà del secolo seguente per raggiun-
gere poi, tra XIV e XV secolo, un successo tale da richiedere una produzio-
ne quasi industriale, eseguita da botteghe specializzate, con procedure di
esecuzione standardizzate che, alla fine del XV secolo, hanno condotto in
tutta Europa a una grande diffusione del Libro d’Ore a stampa.
Caratteristica di questi opuscoli a uso privato era la decorazione miniata
delle sue parti principali, che constavano solitamente, oltre all’Ufficio della
Vergine, del calendario e dell’Ufficio dei defunti. Il calendario compare
150 Squarci nel Medioevo

sempre all’inizio, come nei libri liturgici e, quando è illustrato, presenta


usualmente le immagini dei segni zodiacali e dei “lavori dei mesi”. La
sezione più importante, quella dell’Ufficio della Vergine, risulta sempre il-
lustrata in corrispondenza dell’incipit di ognuna delle otto ore, tendenzial-
mente con iniziali istoriate. Il ciclo di immagini usato più frequentemente
è quello dell’Infanzia di Cristo, per la preponderante presenza di Maria
nelle sue scene. Nel XIV secolo, all’Infanzia di Cristo venne molto spesso
sostituito il ciclo con la Passione di Cristo. In questo modo a ogni “ora
canonica” corrispondeva, nell’immaginario dei credenti che possedevano
il proprio Libro d’Ore, un episodio cristiano visualizzato quotidianamente
nello stesso momento della giornata.

Febbraio, miniatura dal Breviario Grimani, fine sec. XV, Venezia, Biblioteca
Marciana. Febbraio è raffigurato attraverso una tipica giornata lavorativa invernale: si
fila, si riparano gli attrezzi di lavoro, si pasturano gli animali, ci si reca al villaggio per
commerciare… si espletano le proprie funzioni fisiologiche fuori dall’uscio di casa.

9.6 L’arte della memoria

In passato, l’istruzione si fondava prevalentemente sulle capacità mne-


moniche sviluppate e sostenute dal metodo di associazione di immagini vi-
suali. Per dilatare e per rafforzare la memoria, le immagini interiori erano,
per le culture del passato, gli spazi mentali nei quali immagazzinare, nel
Potere della parola, potere dell’immagine 151

corso di tutta una vita, il maggior numero di informazioni: gli adulti istruiti
erano impegnati nella faticosa impresa di non dimenticare alcunché.
La tradizione occidentale attribuisce al poeta greco Simonide (556-468
a.C.) l’invenzione dell’esercizio mnemonico mediante immagini. Questa
abilità di ricordare venne sviluppata nei secoli successivi in un vero e pro-
prio sistema, poi diventato, in epoca medievale, il metodo prevalente di
trasmettere dati di carattere religioso e profano.
In questo sistema il senso della vista risultava preminente. Nel Timéo,
Platone consacrò la vista come causa della ricerca filosofica e della cono-
scenza, il più grande dono fatto dagli dèi agli uomini, e si rifiutò recisamen-
te di trattare degli altri sensi con queste parole: «gli altri sono minori, a che
scopo celebrarli?»7. Anche la teoria della conoscenza aristotelica assegna-
va alla suggestione visiva un ruolo dominante nei processi di formulazione
del pensiero, ritenendo impossibile pensare senza immagini mentali deri-
vate, a loro volta, da impressioni sensoriali.
L’opera Rhetorica ad Herrennium, d’ignoto scrittore latino, offriva istru-
zioni dettagliate per consolidare, attraverso un particolare addestramento,
la memoria naturale. Il testo, che ebbe un’influenza profonda durante tutto
il Medioevo, sosteneva che le immagini dovessero essere particolarmente
attraenti, straordinariamente belle o brutte, anche oscene o ridicole, per
riuscire a sopravvivere più a lungo nel ricordo.
A sua volta, Quintiliano (I secolo d.C.) elaborò per gli studenti un siste-
ma per fissare i contenuti dell’apprendimento, attraverso combinazioni di
immagini ancorate a un determinato luogo e capaci di restituire immedia-
tamente il dato richiesto, grazie all’associazione di idee.
L’apprendimento visivo guidò anche la didattica cristiana, incentrata
sull’enorme prestigio della memoria. La convinzione di propagandare im-
magini capaci di comunicare conoscenza e di influire sul comportamen-
to determinò il trionfo della totale azione formativa della memoria: così,
nell’VIII secolo, il più importante trattato di iconografia cristiana, La dife-
sa delle immagini sacre di Giovanni Damasceno (650 ca.-750), attribuiva
al potere delle immagini e delle parole la fissazione dei ricordi, mentre
per Gregorio Magno il popolo in adorazione di un’immagine sacra dipinta
riduceva al minimo la possibilità di peccare.
Nel XII secolo, in Occidente, si cominciò a preferire alle immagini
interiori quelle dipinte, come testimonia l’opera di Ugo di San Vittore
(1096-1141), magister scolarium e autore del Didascalicon, un manuale di
pedagogia e di didattica di grande successo sino al XV secolo, volto a mi-

7 PLATONE, Timéo, 47a-b.


152 Squarci nel Medioevo

gliorare l’apprendimento mnemonico. Agli studenti delle scuole monasti-


che e cattedrali insegnava l’importanza, durante la lettura, di rafforzare la
memoria imprimendosi con somma cura il numero, l’ordine dei versi, delle
frasi, il loro colore, la loro forma e la collocazione delle lettere, nonché la
posizione delle decorazioni e delle miniature.
Anche l’educazione del principe poggiava sull’esercizio mnemonico: il
Liber Jesus, ad esempio, è un testo ibrido, a metà tra il libro devozionale
e il sussidio didattico, in cui si alternano la tavola dell’alfabeto, le frasi
idiomatiche di cortesia in italiano e in tedesco, o gli insegnamenti moraleg-
gianti alle preghiere in latino che Massimiliano, primogenito ed erede di
Ludovico il Moro, avrebbe dovuto saper recitare a memoria (Padre Nostro,
Ave Maria, Credo, Miserere, Salve Regina). La natura formale del testo è
parimenti composita, poiché alle parole si intrecciano le immagini, opera
della bottega di Cristoforo de Predis, a coadiuvare l’apprendimento mne-
monico del fanciullo e a esemplificare, nel contempo, i modelli educativi
di riferimento.

Bottega di Cristoforo de Predis, Massimiliano Sforza a tavola, assistito dalla balia


e dal medico e astrologo ducale Ambrogio da Rosate, miniatura dal Liber Jesus,
fine sec. XV, Milano, Biblioteca Trivulziana, codice 2163, c. 8r.
Potere della parola, potere dell’immagine 153

Nel XVI secolo, pensatori ed educatori religiosi, come Erasmo e Me-


lantone, avrebbero giudicato queste tecniche residui culturali di antiche
superstizioni monastiche, prive di qualsiasi utilità pratica. Rabelais ricorse
all’ironia per screditare definitivamente le arti mnemoniche: il suo perso-
naggio più celebre, Gargantua, infatti, per quanto in grado di ripetere i libri
imparati a memoria anche «alla rovescia»8, risultava totalmente incapace
di formulare un pensiero intelligente.
Obiettivo primario del sistema educativo popolare medievale, del resto,
non era certo di spingere alla riflessione individuale e la visualizzazione di
vizi e di virtù serviva solo a far rammentare l’indispensabile: come perse-
guire la salvezza ed evitare la dannazione. Inoltre, il fine principale della
didattica cristiana è sempre stato quello di divulgare insegnamenti che col-
pissero la memoria collettiva per dirigere e disciplinare il comportamento
sociale.
Il gioco dei rinvii tra parole e immagini rifletteva peraltro la complessità
del sistema educativo medievale: non solo le parole del sacerdote e del pre-
dicatore interagivano continuamente con esse, ma anche quelle del mae-
stro, dell’enciclopedista, del precettore di corte e dell’intellettuale urbano.
L’iniziativa editoriale fu senza dubbio debitrice al Medioevo e all’im-
pegno profuso in quell’epoca nello scoprire la funzione didattica delle im-
magini, intese da papa Gregorio Magno proprio come «imagines agentes»,
ossia ausili mnemonici.
D’altro canto, le rappresentazioni iconografiche hanno sempre alleviato
nelle scuole la noia dell’imparare. Nel Seicento, Comenio (nome italia-
nizzato del pedagogista ceco Johan Amos Komensky, 1592-1670) riuscì
a rinnovare i metodi didattici inaugurando il manuale illustrato: l’Orbis
sensualium pictus è il primo dizionario enciclopedico per ragazzi ricco di
immagini, appositamente studiate per facilitare l’apprendimento.

8 F. RABELAIS, Gargantua e Pantagruele, I, cap. XIV e cap. XV, Mondadori, Mi-


lano 1977.
154 Squarci nel Medioevo

Manifattura del lino e della canapa, dall’Orbis sensualium pictus di Comenio


Linum et Cannabis macerata aquis (macerazione)rursumque siccata (asciugamento),
1. contunduntur Frangibulo ligneo, 2. ubi Cortices decidunt (stigliatura), 3. tum
carminantur Carmine ferreo (gramolatura), 4. ubi Stupa (stoppa), 5. separatur.
Linum purum alligatur Colo, 6. a Netrice, 7. quae sinistra trahit Filum, 8.dextera,
12. Rhombum (Girgillum), 9. vel Fusum, 10. in quo Verticillus, 11. Volva accipit
Fila (filatura), 13. inde deducuntur in Alabrum, 14. hinc vel Glomi (matasse), 15.
glomerantur, vel Fasciculi, 15. fiunt.

Nel Bestiario d’amore di Richard de Fournival (prima metà del XIII


secolo), il sapere, naturale esigenza umana, è trasmesso alla memoria attra-
verso la vista e l’udito: «L’immagine serve all’occhio. La parola all’udito».
L’idea è raffigurata in uno dei manoscritti dell’opera da una torre con un
portale a due battenti: su quello di destra è dipinto un occhio, sull’altro un
orecchio.

Le porte della memoria, iniziale istoriata di un manoscritto del Bestiario d’amore,


Paris, Bibliothèque Nationale, franc. 412, fol. 228.

L’enunciazione di principio riecheggia la questione dei sensi maxime


cognoscitivi, reputati dal pensiero scolastico, in modo particolare da san
Potere della parola, potere dell’immagine 155

Tommaso, solidali al processo di apprendimento, ma affonda le sue radici


in un passato assai remoto.
L’Occhio è il simbolo più comune del pensiero dell’antico Egitto. È sta-
to dimostrato che la dea della fertilità del mondo neolitico, in Asia come
in Europa, era raffigurata da un occhio, o da occhi. L’antico Egitto rientra
quasi certamente nell’orbita del culto primitivo dell’occhio, ma l’Occhio
Sacro degli Egizi è sempre simbolo della Grande Dea, l’occhio destro del
Sole, ossia di Ra, la divinità per eccellenza «signora del Cielo, sovrana di
tutti gli dei, colei che ascolta le preghiere».
Nella cultura ebraica questo rapporto è esplicitato nella visione di Eze-
chiele (1,10) che descrive i cherubini con le ali coperte di occhi, risultato
dell’ibridazione della divinità egizia di Bes-Horus (VII secolo a.C.) e ipo-
stasi di Jahveh nel suo aspetto solare e onnisciente.
L’orecchio rappresenta la “porta” attraverso cui la sapienza divina entra
nella dimensione umana e, viceversa, le preghiere dei fedeli raggiungono
la divinità «che ascolta».

Occhio di Ra, Cripta della tomba dell’operaio Sennedjem,


Parete ovest, Deir el-Medina.

Coppia di orecchie da preghiera, Nuovo Regno, 1550-1069 a.C., faiance egizia


stampata, Parigi, Musée du Louvre, inv. E 14242.
156 Squarci nel Medioevo

Principali opere citate

Opere di san Bernardo, I. Trattati, col. 914, trad. it. A cura di F. Castaldelli, Scrip-
torium Claravallense, Milano 1984.
A.M. GANTONI, Le Sacre Rappresentazioni e l’educazione pubblica nel Medioevo,
Perugia 1889.
A. GIALLONGO, L’avventura dello sguardo. Educazione e comunicazione visiva nel
Medioevo, ed. Dedalo, Bari 1995.
Grande Enciclopedia illustrata dell’Antico Egitto, a cura di E. Bresciani, De Ago-
stini, Novara 2005.
E. MINGUZZI, La struttura occulta della Divina Commedia, Scheiwiller, Milano
2007.
M. PASTOUREAU, Medioevo simbolico, Editori Laterza, Roma-Bari 2005
Sant’Orso di Aosta. Il Complesso monumentale, a cura di B. Orlandoni, E. Rossetti
Brezzi, 2 voll., Tipografia Valdostana, Aosta 2001.
157

CAPITOLO 10
TERZO POTERE: IL SAPERE

Sapere. Potere. Udire. Tacere


Zoroastro

10.1 Laicizzazione del sapere

Nel corso dell’XI secolo e ancor più nel successivo, divenne eviden-
te l’inadeguatezza del sistema scolastico ereditato dall’alto Medioevo a
fronte delle nuove esigenze di una società in piena trasformazione. Le
grandi scuole monastiche (Cluny, Bec, Montecassino, Fulda, San Gallo
ecc.), isolate e lontane dai centri della vita cittadina, entrarono in una
crisi profonda.
Il recupero da parte delle città di un ruolo di primo piano nel campo
dell’insegnamento e della formazione delle élites culturali svincolò il sape-
re dall’esclusivo monopolio del clero, aprì la cultura verso nuovi interessi,
spesso caratterizzati da un’impostazione spiccatamente pratica, favorì il
costituirsi di un contesto del sapere più profano, in grado di soddisfare
bisogni e aspettative dell’emergente ceto mercantile.
I mercanti, per affermarsi nel campo degli affari, dovevano saper scrivere
e conoscere gli idiomi stranieri per muoversi sulle piazze estere; dovevano
saper fare di conto, per calcolare interessi e cambi; dovevano avere nozioni
giuridiche, per conoscere le norme che regolavano gli scambi commerciali
nei diversi contesti territoriali. Le scuole cattedrali, e ancor meno quelle
parrocchiali votate alla formazione del clero, non rispondevano dunque ai
loro fabbisogni.
Nelle grandi città mercantili del nord Italia, di Francia e delle Fiandre
nacquero allora, a partire dal XII secolo, scuole private, fondate per ini-
ziativa personale dei maestri, spesso dei chierici, che si facevano pagare
dalle famiglie degli allievi per fornire un’istruzione di base; tuttavia, per
la formazione alla mercatura, restava ancora fondamentale il periodo di
apprendistato, presso altri mercanti o presso le scuole delle Arti, dove si
studiava l’abaco.
158 Squarci nel Medioevo

Nelle scuole private, l’insegnamento non si differenziava molto da quel-


lo delle istituzioni scolastiche tradizionali, né per il metodo (lettura e com-
mento da parte del maestro, memorizzazione da parte dell’allievo), né per
l’oggetto degli studi, anche se alcuni spazi erano riservati allo studio della
matematica e delle norme giuridiche.
Una vera rivoluzione nel campo dell’educazione fu rappresentata dalla
redazione, e successiva diffusione e adozione nelle scuole laiche, del Liber
Abaci del pisano Leonardo Fibonacci (1170-1230 ca.), un trattato di matema-
tica in cui, oltre ad argomenti di carattere generale, venivano presentate solu-
zioni per problemi relativi alla compravendita dei beni, al calcolo degli inte-
ressi e alla misurazione degli appezzamenti di terra. Inoltre, con la sua opera,
Fibonacci introdusse in Occidente la numerazione indo-araba1, adottata dai
mercanti perché più facilmente utilizzabile nella registrazione contabile.
I libri d’abaco, compilati sull’esempio di quello di Fibonacci, divennero
rapidamente uno dei cardini del sistema scolastico di base. In parallelo,
le autorità cittadine mostrarono un precoce interesse a disciplinare questo
nuovo sistema, emancipatosi dalle istituzioni ecclesiastiche e fondamenta-
le nella formazione primaria dei laici, i futuri cittadini, destinati a coprire
ruoli di rilievo nella società.
I comuni incominciarono dunque a patrocinare le scuole, scegliendo e
stipendiando gli insegnanti, indirizzandone l’operato, fissando i libri di te-
sto e stabilendo gli argomenti da trattare nelle lezioni, affinché venissero
formati dei buoni cittadini, educati ai principi dell’ordinato vivere civile.
Nella Milano di fine Duecento, Bonvesin da la Riva aveva censito più di
settanta maestri di istruzione elementare e otto professori di grammatica,
ognuno dei quali «tiene sotto la sua bacchetta un gran numero di allievi
e insegna la grammatica con grande impegno e serietà, come ho potuto
chiaramente constatare, ben oltre i professori delle altre città»2. Bonvesin
che era molto ben informato in materia, oltre che parte in causa, essendo

1 L’adozione della numerazione indo-araba ha rappresentato una svolta rivoluzio-


naria nell’evoluzione delle scienze matematiche. I glifi utilizzati nella rappresen-
tazione dei numeri nacquero in India, tra il 400 a.C. e il 400 d.C. e vennero adot-
tati nell’Asia occidentale a partire dal IX secolo, poi in Europa nel X. Poiché la
conoscenza di questi simboli filtrò in Occidente attraverso le opere di matematici
e astronomi arabi, la numerazione venne definita “araba”, ma in arabo i numeri
orientali sono definiti “numeri indiani”. La numerazione attualmente in uso in
Occidente è definita europea. G. IFRAH, Storia universale dei numeri, Mondadori,
Milano 1989.
2 BONVESIN DA LA RIVA, Le meraviglie di Milano (De magnalibus Mediolani), a cura
di P. Chiesa, Fondazione Lorenzo Valla, A. Mondadori Ed., Trebaseleghe 2009, p.
53.
Terzo potere: il sapere 159

uno di quegli otto, ha lasciato un poemetto, Vita scholastica3, che offre un


interessante spaccato sulla scuola milanese di quel periodo e sulle cattive
abitudini degli studenti di tutte le epoche:
«Fa in modo che non ti colga il sonno, quando è tempo di stare sveglio,
e che non ti vinca la pigrizia […]. La lettura sia tutta la gioia della tua
mente, così non perderai tempo prezioso. Tuttavia, quando è necessario,
prenditi un po’ di riposo: l’arco perde forza se sta sempre teso. A tempo
opportuno, concediti qualche onesto svago e, dopo, quando è il momento
torna allo studio. Inverno, estate, autunno, primavera ti trovino attivo: il
tempo perduto non torna più. Se vuoi leggere meglio sii sobrio nel cibo: la
smodatezza nel mangiare e nel bere nuocciono allo studioso. Tieni con cura
i libri: è fastidioso cercare ciò che non si trova. Colui che tiene in ordine
le cose sue, trova facilmente ciò che cerca. Non maneggiare i libri con le
mani sporche: le pagine immacolate esigono mani immacolate»4.
Bonvesin non risparmia però neanche i maestri:
«Attendi allo studio in ogni momento che tu abbia a disposizione, o
insegnando agli altri o leggendo per conto tuo. Fa in modo di essere degno
del compenso che ricevi. La tua professione ti nobiliti e ti arricchisca. Esigi
per questo con fermezza la giusta ricompensa, senza la quale il lavoro è una
dolorosa fatica. Non disprezzare i poveri, anche se non possono pagare: per
loro la ricompensa, abbondante, ti verrà da Dio. Se un tuo alunno si trova
in condizione di povertà grave, induci i condiscepoli a soccorrerlo. Se inse-
gnerai con solerzia, i tuoi scolari ti daranno fra la gente lustro, fama e ono-
re. A questo fine non risparmiare le fatiche e non dormire, quando è tempo
di star ben desti. Non ti assentare quando è il momento dello studio: il topo
ruba e fa danni quando non c’è un cane a fare buona guardia. Il troppo bere
e il troppo mangiare non ti ottenebrino la mente: l’animo si intorpidisce se
si indulge alla gola. E se qualcuno, desideroso di apprendere, ti rivolge una
domanda, dagli soddisfazione con benevolenza»5.

10.2 Lo Studium generale

All’inizio del XIII secolo divenne comune indicare un centro di studi


superiori con il termine di Studium generale. È il periodo in cui alcune

3 BONVESIN DA LA RIVA, Vita scolastica, a cura di E. Franceschini, in Testi e docu-


menti di storia e di letteratura latina medievale, 5, Padova 1943.
4 BONVESIN DA LA RIVA, Vita scolastica cit., vv. 705-736.
5 Ivi, vv. 855-936.
160 Squarci nel Medioevo

città acquistarono sempre maggior capacità di richiamo per gli studenti,


anche provenienti da molto lontano: Parigi per gli studi di teologia e delle
arti liberali, Bologna per il diritto, Salerno per la medicina. Caratteristica
distintiva dello Studio generale è proprio l’estendere la propria importanza
fuori dall’ambito cittadino e del territorio circostante, oltre che l’impartire
un insegnamento superiore in almeno una disciplina e l’avvalersi di una
pluralità di maestri.
Le peculiarità giuridiche dell’istituzione, all’inizio poco definite, si pre-
cisarono progressivamente e, tra queste, assunse importanza preminente
il valore del titolo che lo Studio concedeva. Lo Studium generale divenne
innanzi tutto quello i cui licenziati avevano la possibilità e il diritto di in-
segnare ovunque.

Maestro Bernardo legge i versi della sua Practica, Parigi,


Bibliothèque Nationale de France, ms. 6823

Il riconoscimento del papa o dell’imperatore fu determinante affinché ai


licenziati di uno Studio fosse riconosciuto il jus ubique docendi, la facoltà
di insegnare in altri centri, in un processo di strutturazione burocratica che,
naturalmente, si rivelò meno importante negli Studi di antica tradizione e
di indiscusso prestigio, come Parigi o Bologna, dove ci si poteva permette-
re, contravvenendo a qualsiasi bolla papale, di non accettare maestri prove-
nienti da altri atenei, se non dopo aver sostenuto un esame interno.
Terzo potere: il sapere 161

A partire dal XII secolo, le strade d’Europa, un tempo percorse quasi esclu-
sivamente da pellegrini, mercanti ed eserciti, si andarono dunque affollando
di studenti che si spostavano da una città all’altra per frequentare le lezioni
dei maestri più rinomati: «Percorrono il mondo intero – scriveva Elinando,
abate di Froidmont, ai primi del Duecento – e studiano le arti liberali a Parigi,
gli autori classici a Orléans, la giurisprudenza a Bologna, la medicina a Saler-
no, la magia a Toledo e non imparano i buoni costumi in nessun luogo»6.
In un’epoca in cui le scuole dipendevano prevalentemente dall’autorità ec-
clesiastica, gli studenti appartenevano in maggioranza all’ordo clericales, era-
no cioè chierici. Lo stato clericale non comportava obblighi particolarmente
onerosi: talvolta veniva accettato solo l’abito e la tonsura, con pochi precetti
liturgici. In cambio, si entrava a far parte di un gruppo sociale forte e protetto
dall’autorità ecclesiastica: i chierici godevano infatti del privilegio del tribu-
nale ecclesiastico, erano esenti dal pagamento della maggior parte delle im-
poste civili, fruivano dei vantaggi legati alla dignità ecclesiastica. Non erano
inoltre sottoposti ai rigidi vincoli di castità e potevano anche sposarsi.

Francescano in cattedra, miniatura, XIV secolo, da Nicolas de Lyre, Postillae,


Reims, Bibliothèque Municipale, 178, f. 1.
Si noti come, ancora nel Trecento, l’istruzione universitaria risultasse accessibile
anche alle donne, seppure appartenenti a ordini religiosi.
Nei processi di canonizzazione non è peraltro raro trovare traccia dell’abilità
delle religiose nel maneggiare strumenti chirurgici.

6 Citazione tratta da C. YARZA, LL. MOLES, Cantos de goliardo (Carmina Burana),


Barcellona 1981, p. 13, in Carmina Burana, a cura di P. Rossi, Bompiani, Milano
1989, p. XV.
162 Squarci nel Medioevo

Nel nuovo dinamismo urbano del XII secolo, i chierici studenti divenne-
ro un gruppo autonomo molto attivo, particolarmente aperto ai mutamenti
sociali e culturali. Il sapere rappresentava per loro lo strumento più adatto
per comprendere la rivoluzione storica in atto e per rivelare nuove possi-
bilità di analisi del mondo in cui vivevano. Pertanto, non affrontavano lo
studio solamente come preparazione al mondo del lavoro, ma come dimen-
sione esistenziale. Per anni non svolgevano altra attività che non fosse di
studio e di ricerca. Gran parte di loro vagabondava da una città all’altra,
attirata dalle possibilità di vita spensierata che offriva il tessuto urbano.
Spesso privi di mezzi, gli studenti si riducevano a elemosinare vitto e al-
loggio nei conventi o svolgevano incarichi occasionali presso una corte, o
ancora si esibivano sulle piazze o ai banchetti, confondendosi con i giullari
e confluendo così in quel gruppo di irregolari che la società medievale
emarginava in quanto estranei a una qualsiasi forma di produzione.
Questa schiera composita, formata da ecclesiastici che rifiutavano le
strutture della Chiesa e da monaci fuggiti dal convento, divenne sempre
più numerosa dalla metà del XII secolo, andando a formare una sorta di
“proletariato culturale”. Il numero sempre maggiore di diplomati aveva
infatti colmato rapidamente la domanda di personale istruito e per molti
non rimaneva che abbandonarsi a una nuova forma di vagabondaggio,
alla ricerca di un impiego qualsiasi, di un beneficio o di una prebenda.
L’ordo clericalis finì così per comprendere un alto numero di individui
socialmente inquieti e scontenti della propria condizione. Vagabondi e indi-
sciplinati, i chierici studenti furono senza dubbio perturbatori di un ordine
che si voleva fisso e immutabile, ma non costituirono mai un movimento
di opposizione alle forti istituzioni dell’epoca, se non con la disubbidienza
e il capovolgimento parodico di quel sistema all’interno del quale, in gran
parte, avrebbero voluto integrarsi. Anarchici più per necessità che per vo-
cazione, non furono altro che la frangia più chiassosa e dispersiva di quel
vasto rinnovamento sociale e culturale che il XII secolo stava affrontando.
Ormai incapace di riassorbirli, la Chiesa li condannava inesorabilmen-
te, vietando loro di portare l’abito e la tonsura e privandoli dei benefici
ecclesiastici. Prese di mira anche il maestro, considerato il loro maggior
ispiratore, Pietro Abelardo, accusato da san Bernardo di eresia durante il
Concilio di Sens del 1140: «Ecco, viene avanti Golia (Abelardo) col suo
corpo immenso (gli studenti), forte delle sue formidabili armi (la logica e la
retorica) e preceduto dal suo scudiero, Arnaldo da Brescia»7. Nelle dispute

7 Citazione tratta da P.G. WALSH, “Golias” and Goliardic Poetry, in «Medium Ae-
vum», LII/1 (1983), p. 5, in Carmina Burana cit., p. XXI.
Terzo potere: il sapere 163

che accompagnarono e seguirono la vicenda, l’appellativo di goliardo (so-


stenitore di Golia) si sarebbe esteso a quanti difesero contenuti e metodi
della didattica di Abelardo.

10.3 Le Università

L’università nacque come entità giuridica: il riconoscimento ufficiale


degli studi in essa compiuti era l’aspetto che forse più la contraddistingue-
va dalle istituzioni scolastiche che l’avevano preceduta nell’antichità e nel
Medioevo e che la pose necessariamente in rapporto con le autorità laiche
ed ecclesiastiche del suo tempo.
L’università era anche un fenomeno sociale: sorse infatti come associa-
zione di maestri e di studenti, con un’organizzazione propria che, come
organismi analoghi appartenenti ad altre categorie professionali, presero
il nome di universitates. Questo esito rispecchia, a livello delle istituzioni
scolastiche, quello spirito associativo, quella nuova concezione del potere
che erano tipici di tutta la società del tempo. Da questi organismi composti
di maestri e scolari, che si diedero statuti e strumenti di governo sempre più
perfezionati, dipendeva tutta la vita dello Studio.
Benché l’iniziativa delle autorità costituite, affiancandosi o intervenen-
do su un fenomeno in larga misura spontaneo, si sia rivelata determinante
per la storia successiva dell’università, per il fissarsi delle sue caratteristi-
che formali, dei contenuti e dei fini stessi dell’insegnamento, essa rima-
se sempre espressione di forze non completamente riconducibili al potere
politico, o ecclesiastico, costituito. L’università venne da subito percepita,
accanto alle due tradizionali autorità del Regnum e del Sacerdotium, come
una nuova forma di potere: quello dello Studium.
L’università era poi, ovviamente, un fatto culturale, d’importanza tanto
maggiore quanto più coinvolse tutti i paesi d’Europa, esercitando lunga-
mente, per le sue stesse caratteristiche istituzionali, un monopolio pres-
soché esclusivo sull’istruzione superiore. Nel Medioevo esistevano due
modelli di università, quello di Parigi e quello di Bologna.
L’università di Parigi rappresentava il modello dell’universitas magi-
strorum. Si sviluppò dalla scuola cattedrale di Notre-Dame, il cui cancel-
liere aveva la prerogativa di concedere la licentia docendi, indispensabile
per svolgere con diritto la professione di maestro, e si costituì come asso-
ciazione di maestri proprio in aperta contrapposizione con il cancelliere.
Nel 1200, Filippo Augusto, a seguito di disordini che avevano turbato
la vita scolastica parigina concludendosi con la morte di alcuni studenti,
164 Squarci nel Medioevo

concesse agli stessi un privilegio giudiziario che li sottraeva alla giuri-


sdizione ordinaria, istituendo per loro tribunali propri. Di un decennio
dopo sono gli statuti, redatti dall’universitas magistrorum. A partire da
questo periodo si acuì il contrasto tra il cancelliere vescovile, che non
voleva perdere il controllo sulla vita dello Studio che gli derivava dalla
facoltà di concedere o revocare la licenza di insegnamento, e i maestri,
che si riservavano la facoltà o meno di cooptare un collega nel loro con-
sortium.

Lezione all’Università di Parigi, miniatura, sec. XV, Paris,


Bibliothèque Nationale de France.

Nella lotta, le parti contrapposte ricorsero a tutti gli strumenti di pres-


sione di cui disponevano: da un lato la scomunica, dall’altra la sospensione
delle lezioni e, addirittura, l’abbandono della città. Proprio attraverso lo
scontro con il cancelliere, l’università di Parigi perfezionò quelle strutture
in grado di reggere e di amministrare autonomamente la vita di maestri e
di studenti.
Già prima della metà del XIII secolo, risulta consolidato l’istituto del
rector e dei procuratores, gli organi principali del governo dell’università,
mentre più o meno nello stesso periodo si fissarono i compiti e le preroga-
tive dei bidelli, i funzionari addetti agli studenti.
Terzo potere: il sapere 165

I maestri delle facoltà delle Arti – il gruppo meglio organizzato e più


potente – erano raggruppati, a secondo della provenienza, in quattro na-
zioni: Franchi, Piccardi, Normanni e Inglesi. Attraverso questa organiz-
zazione la Facoltà delle Arti riuscì a esercitare una forma di predominio
sull’intera università, anche sulle pur prestigiose Facoltà di Diritto e di
Teologia.
A questo periodo risale peraltro l’organizzazione del sistema dei Col-
legi, originariamente istituiti al fine di assicurare vitto e alloggio agli stu-
denti, ma destinati a diventare veri e propri centri di insegnamento, tanto
che, nel secolo XV, una buona parte dell’attività didattica dell’università si
sarebbe svolta in essi.
Nell’università di Bologna, universitas scholarium, mentre ai maestri
rimaneva la prerogativa di esaminare il candidato e di conferirgli la licenza
nella cerimonia del conventus, gli studenti conquistarono il predominio su
tutti gli altri aspetti della vita universitaria, dalla scelta dei maestri alla
determinazione dei loro impegni didattici, ai rapporti finanziari tra mae-
stri e scolari, attraverso una struttura sempre meglio definita dagli statuti,
che precisarono via via compiti e competenze dei diversi organi e dei loro
rappresentanti. Crebbe così, all’interno della città emiliana, un centro di
potere autonomo, talvolta in aperto contrasto con l’amministrazione del
Comune: da episodi clamorosi, come la fuga degli studenti verso centri più
ospitali, maturò la concessione di privilegi fiscali e giurisdizionali sempre
più ampi.

10.4 La carriera dello studente

La carriera dello studente era distinta in due fasi molto precise. Nel cor-
so di un primo periodo, della durata di quattro o cinque anni, lo studente,
di età compresa fra i 13 e i 16 anni, doveva ascoltare le lezioni dei diversi
maestri e, al termine, otteneva il titolo di baccelliere. Veniva formato al
sapere di base, ossia alle sette arti liberali che il dotto, per reputarsi tale,
doveva necessariamente conoscere: grammatica, retorica e dialettica, le
arti del Trivio; astronomia, aritmetica, geometria e musica, le arti del
Quadrivio. Nel secondo periodo, di specializzazione, continuando a fre-
quentare i corsi dei maestri lo studente teneva a sua volta delle lezioni su
alcuni argomenti particolari del programma, commentando, in giorni e
momenti stabiliti, un libro o una parte di esso, che costituiva la base del
dibattito. Al termine di questo periodo, che poteva durare tra i cinque e i
sette anni, lo studente conseguiva il titolo di maestro o di dottore.
166 Squarci nel Medioevo

Studenti in aula, miniatura da un salterio di Canterbury,


sec. XII, Cambridge, Trinity College

L’insegnamento si ispirava al “metodo scolastico” o quodlibetario, tra-


mite il quale lo studente veniva avviato a percorrere un cammino intellet-
tuale preciso attraverso la lectio (lettura), la quaestio (individuazione di
problemi), la disputatio (disputa interpretativa) per arrivare alla determina-
tio (conclusione), che rappresentava la sintesi finale. Inoltre, sotto la guida
di un bacelliere o di un maestro, gli studenti svolgevano esercitazioni e si
impegnavano in resumptiones (ripresa da capo), per fissare o ampliare il
contenuto delle lezioni.
Gli studenti delle varie discipline apprendevano soprattutto attraverso
la lettura degli scritti, ma non rimanevano recettori passivi di concetti e
argomentazioni; al contrario, discutevano e integravano le conoscenze ac-
quisite attraverso il confronto diretto con gli altri e con il maestro stesso.
Insomma, una metodologia estremamente stimolante che riusciva a scate-
nare nei discepoli una forte passione per la conoscenza che permetteva loro
di diventare “dotti”.
Molti studenti provenivano ovviamente da famiglie in grado di mante-
nerli agli studi o, se ecclesiastici, erano dotati di un beneficio sufficiente
a rifonderli delle spese sostenute. La presenza di studenti poveri è tuttavia
un dato costante nelle università medievali e, spesso, anche un elemento di
perturbamento, ben attestato anche dalla letteratura coeva.
Per gli studenti poveri erano istituite borse di studio dal governo del pa-
ese d’origine; oppure, ricevevano vitto e alloggio gratuiti in enti fondati a
tal fine da ricchi mercanti o da maestri di successo; talvolta, potevano otte-
nere dai maestri una dilazione nel pagamento delle lezioni, dietro impegno
di saldare il loro debito non appena avessero incominciato a guadagnare.
L’amministrazione delle città che ospitavano gli Studi provvedeva sovente
a fissare le norme e gli istituti destinati ad assicurare prestiti agli studenti.
Terzo potere: il sapere 167

Con atto del 14 marzo 1475, Raimondo Marliani, giureconsulto di


fama internazionale, dispose ad esempio la fondazione in Pavia di un
collegio, destinato a ospitare dodici studenti poveri. Nella Lombardia
di fine Quattrocento, istituire collegi per studenti meritevoli e bisognosi
era una moda diffusa e coinvolse molti dei principali casati milanesi,
fra i quali i Castiglioni, i Griffi, i Bossi e i Borromeo che, nel sostenere
un’iniziativa di carattere assistenziale, contribuivano anche a determi-
nare il successo dello Studium pavese e a richiamare entro i confini del
ducato risorse umane giovani e valide. I residenti sarebbero stati preferi-
bilmente studenti di teologia, diritto canonico, diritto civile e medicina,
nell’ordine; avrebbero ottenuto pane, vino, legna, sale, olio e legumi in
quantità sufficienti all’alimentazione quotidiana e di carne una volta alla
settimana; a loro disposizione avrebbero avuto un domestico, maschio o
femmina, e un cuoco; una volta all’anno avrebbero dovuto presenziare
alla messa annuale di suffragio in memoria del testatore e, tutti i giorni,
alla messa celebrata nella chiesa di S. Maria della Corona, attigua al
collegio8.

10.5 Celebrare la giovinezza

Alle alterne esperienze di vita dei chierici, di cui sono il prodotto intel-
lettuale, appartengono i Carmina Burana, un’antologia di canti medievali
contenuta nel codice latino 4660 della Biblioteca Nazionale di Monaco di
Baviera, noto anche come codex buranus, così chiamato perché, fino al
1803, è stato conservato nella biblioteca dell’abbazia di Benediktbeuren,
l’antica Bura Sancti Benedicti, fondata da san Bonifacio fra il 730 e il 740
sulle Alpi bavaresi.
Si tratta di canti composti in latino e medio-alto tedesco, databili in mas-
sima parte fra il XII secolo e il primo trentennio del XIII, epoca a cui risale
il manoscritto. Alla compilazione attesero tre amanuensi che distribuirono
i canti in tre sezioni, la prima comprendente testi di carattere satirico e
morale, la seconda canti d’amore e la terza canti bacchici e conviviali9.
Generalmente vengono ascoltati nell’orchestrazione moderna, e notissima,
del compositore bavarese Carl Orff (1937).

8 F.M. VAGLIENTI, Marliani Raimondo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Isti-


tuto dell’Enciclopedia Italiana fondata da G. Treccani, vol. 70, Roma 2008, pp.
616-618.
9 Carmina Burana cit., pp. XI-L.
168 Squarci nel Medioevo

In taberna (canto 196)10 Quando siamo all’osteria


In taberna quando sumus non curiamo ciò che è terreno,
non curamus quid sit humus, ma ci immergiamo nel gioco,
sed ad ludum properamus, su cui continuamente sudiamo sopra.
cui semper insudamus. Cosa si faccia all’osteria,
Quid agatur in taberna, dove il denaro fa da coppiere,
ubi nummus est pincerna, questo è opportune che sappiate,
hoc est opus, ut queratur, se ciò che dirò ascoltate.
se quid loquar, audiatur. Certi giocano, certi bevono,
Quidam ludunt, quidam bibunt, certi disordinatamente vivono.
quidam indiscrete vivunt. Ma tra coloro che si accaniscono nel gioco,
Sed in ludo qui morantur, alcuni sono spogliati,
ex his quidam denudantur; altri in quel mentre si rivestono,
quidam ibi vestiuntur, altri si coprono con dei sacchi.
quidam saccis induuntur. Qui nessuno teme la morte,
Ibi nullus timet mortem, ma (tutti) alla salute di Bacco tentano
sed pro Baccho mittunt sortem. la sorte.

Primo pro nummata vini, Primo (brindano) alla ricchezza di vino,


ex hac bibunt libertini. così bevono i dissoluti.
Semel bibunt pro captivis, Una volta brindano ai prigionieri,
post hec bibunt ter pro vivis, dopodiché una terza volta brindano ai vivi,
quater pro Christianis cunctis, una quarta a tutti quanti i cristiani,
quinquies pro fidelibus defunctis, una quinta ai fedeli defunti,
sexies pro sororibus vanis, una sesta alle suore vanitose,
septies pro militibus silvani. una settima ai cavalieri erranti.
Octies pro fratribus perversis, Un’ottava ai frati depravati,
novies pro monachis dispersis, una nona ai monaci fuggiaschi,
decies pro navigantibus, una decima ai naviganti,
undecies pro discordantibus, un’undicesima ai litigant,
duodecies pro penitentibus, una dodicesima ai penitenti,
tredecies pro iter agentibus. una tredicesima ai viaggiatori.
Tam pro papa quam pro rege Tanto al papa quanto al re
bibunt omnes sine lege. brindano tutti senza regola.
Bibit hera, bibit herus, Beve la dama, beve il signore,
bibit miles, bibit clerus, beve il cavaliere, beve il chierico,
bibit ille, bibit illa, beve quello, beve quella,
bibit servus cum ancilla, beve il servo con l’ancella,
bibit velox, bibit piger, beve il lesto, beve il pigro,
bibit albus, bibit niger, beve il bianco, beve il nero,
bibit constans, bibit vagus, beve il deciso, beve l’incostante,
bibit rudis, bibit magus. beve il rozzo, beve il dotto.
Bibit pauper et egrotus, Beve il povero e (beve) il malato,

10 Ivi, pp. 204-207.


Terzo potere: il sapere 169

bibit exul et ignotus, beve l’esule e (beve) l’emarginato,


bibit puer, bibit canus, beve il fanciullo, beve l’anziano,
bibit presul et decanus, beve il vescovo e (beve) il decano,
bibit soror, bibit frater, beve la sorella, beve il fratello,
bibit anus, bibit mater, beve l’anziana, beve la madre,
bibunt centum, bibunt mille. bevono cento, bevono migliaia.
Parum durant sex nummate Durano poco sei denari
ubi ipsi immoderate quando costoro smodatamente
bibunt omnes sine meta, bevono tutti senza misura,
quamvis bibant mente leta. anche se bevono in allegria.
Sic nos rodunt omnes gentes Così tutti ci disprezzano
et sic erimus egentes. e così saremo indigenti.
Qui nos rodunt confundantur Coloro che ci disprezzano
siano rimescolati
et cum iustis non scribantur. e non vengano annoverati tra i giusti.

Principali opere citate

BONVESIN DA LA RIVA, Le meraviglie di Milano (De magnalibus Mediolani), a cura di


P. Chiesa, Fondazione Lorenzo Valla, A. Mondadori Ed., Trebaseleghe 2009.
BONVESIN DA LA RIVA, Vita scolastica, a cura di E. Franceschini, in Testi e documenti
di storia e di letteratura latina medievale, 5, Padova 1943.
Carmina Burana, a cura di P. Rossi, Bompiani, Milano 1989.
Le biblioteche nel mondo antico e medievale, a cura di G. Cavallo, Editori Laterza,
Roma-Bari 20047.
G. DUBY, M. PERROT, Storia delle donne. Il Medioevo, a cura di Ch. Klapisch-
Zuber, Roma-Bari 1990.
G. IFRAH, Storia universale dei numeri, Mondadori, Milano 1989.
Le sedi della cultura nel Medioevo. Monasteri, scuole, università, corti, a cura di
G. Albini, CUEM, Milano 2009.
F.M. VAGLIENTI, Marliani Raimondo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Isti-
tuto dell’Enciclopedia Italiana fondata da G. Treccani, vol. 70, Roma 2008, pp.
616-618.
171

CAPITOLO 11
UN MONDO DI CORRISPONDENZE

11.1 Macrocosmo e microcosmo

Il concetto di macrocosmo è legato alla dottrina aristotelico-tolemaica del-


la centralità della Terra nell’universo e alla credenza che il nostro pianeta sia
concepito a immagine e somiglianza del cielo. Da questi assunti filosofici e
astronomici deriva l’astrologia geografica che tende a tracciare precise corri-
spondenze tra il mondo sublunare, il corpo umano e la volta celeste.

Hieronimus Bosch, Il mondo nel terzo giorno della Creazione,


ante esterne del Trittico delle delizie, 1503-1504, Madrid, Prado.

Nell’antica Grecia, furono i filosofi stoici a determinare una stretta con-


nessione tra i fenomeni astrali e quelli naturali e fisiologici, individuando
nello pneuma, una sostanza sottilissima che permea l’intero universo e si
trova in forma pura nella ragione umana, l’anello di congiunzione tra le
diverse parti della realtà (spirituale, animale e corporea).
172 Squarci nel Medioevo

Questa forma di “simpatia” universale è all’origine di una concezione


fortemente deterministica del cosmo (apocatastasi) e del destino (heimar-
mene) dell’uomo, vincolato al volere degli astri e incapace di sottrarsi al
necessario ripetersi degli eventi.

Microcosmo, XII secolo, Vienna, Österreichische Nationalbibliothek,


ms. lat. 12600, f. 29 r.

Il concetto di microcosmo postula un’analogia tra l’universo creato da


Dio e l’uomo. La relazione, quasi speculare, fra i due termini, è sancita,
oltre che dai testi sacri, dalla riflessione filosofica pitagorica, ermetica, pla-
tonica e neoplatonica che giunge fino al Rinascimento italiano.
Il motivo che ha indotto gli uomini a considerare valida questa relazio-
ne, al di là delle singole credenze religiose e dell’aspirazione a provare
l’eccezionalità dell’essere umano rispetto al resto del creato (antropocen-
trismo), risiede nella constatazione che tanto l’universo quanto il corpo
umano rispondono a criteri di armonia. Nel primo caso, questa si esplica
nella regolarità dei moti planetari, nell’alternanza ordinata delle stagioni,
del giorno e della notte, nella bellezza e maestosità della natura.
Un mondo di corrispondenze 173

Nel secondo caso, è l’armonia delle misure del corpo che suggerisce il
concetto di microcosmo: il fatto che l’altezza di un uomo corrisponda alla
distanza fra l’estremità delle dita a braccia allargate, che la testa rientri
regolarmente nell’altezza totale secondo un modulo fisso, che sia possibile
iscrivere la figura umana nel cerchio o nel quadrato. Confermavano poi
questo assunto la regolarità del battito cardiaco e del ritmo respiratorio, se-
condo una concezione che influì non poco sui massimi esponenti dell’arte
del mondo occidentale, da Policleto (V secolo a.C.) a Leonardo da Vinci,
fino ad Albrecht Dürer e a Michelangelo.
L’immagine del microcosmo deriva dalle dottrine mistiche ed esoteriche
sulla corrispondenza tra le parti del corpo umano e l’universo. Dottrine
che erano alla base della scienza medica dell’antichità, la quale assegnava
a ogni parte del corpo un segno zodiacale e curava le malattie attraverso
la consultazione degli astri e lo studio degli influssi da questi esercitati sul
mondo terrestre (animali, piante, elementi cosmici e temperamento uma-
no). Anche la Bibbia riporta questa concezione, definendo l’uomo «coro-
namento e misura della Creazione».

Fratelli Limbourg, L’uomo zodiacale o uomo anatomico, 1416 ca.,


da Les très riches heures du duc de Berry, Chantilly, Musée Condé.
174 Squarci nel Medioevo

Il microcosmo ha una funzione conoscitiva molto importante, poiché


attraverso l’analisi del corpo e lo studio dell’anima si riteneva di poter
risalire alla comprensione di tutto ciò che esiste in natura, fino a Dio. La
magia naturale e l’alchimia rinascimentale si fondavano anch’esse su que-
sto complesso sistema di corrispondenze.
In ambito artistico, la dottrina dell’uomo microcosmo ha profondamente
influenzato la struttura delle chiese romaniche e, ripresa nel Rinascimento
grazie alle traduzioni dei testi ermetici dal greco al latino operate da Mar-
silio Ficino e alla teoria delle proporzioni di Vitruvio, ha condizionato le
teorie architettoniche di Leon Battista Alberti e di Francesco di Giorgio
Martini.

10.2 A immagine di Dio

«Il sesto giorno Iddio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, se-
condo la nostra somiglianza: domini sopra i pesci del mare e sugli uccelli
del cielo, sugli animali domestici, su tutte le fiere della terra e sopra tutti
i rettili che strisciano sopra la terra”. Iddio creò l’uomo a sua immagine,
a immagine di Dio lo creò; lo creò maschio e femmina» (Genesi, 1,26-
1,28).
«A nostra immagine e somiglianza» sono parole importanti che l’auto-
re ripete. Con il termine immagine utilizzato in rapporto a Dio, distingue
l’uomo dagli animali, perché dotato di intelligenza, volontà e potenza. Il
vocabolo somiglianza attenua soltanto di poco il precedente enunciato,
escludendo la parità dell’uomo con Dio.
Da questo antropocentrismo discende un’arroganza dell’uomo nei con-
fronti della natura, giudicata del tutto subalterna, che ancora oggi è difficile
da sradicare. L’uomo, a differenza di ciò che era per le civiltà antiche e le
religioni preesistenti, in quanto creato a immagine di Dio non è più una
semplice parte della natura, ma la trascende e poiché la natura è stata creata
per l’uomo, va sfruttata senza inibizioni. Soltanto l’incapacità oggettiva
di porsi come dominatore impedì all’uomo, per secoli, di violentare l’am-
biente.
L’idea che il Cosmo abbia un’anima divina e, in definitiva, corrisponda
a un essere antropomorfo (demiurgo), non è certo esclusiva della visione
cristiana. Oltre agli esempi testimoniati in altre culture e religioni, Platone,
in vari passi del Timéo (29a-47a-b), descrive un universo il cui ordine ar-
monico è all’origine dell’idea stessa di cosmo, termine che deriva dal greco
kosmos e significa letteralmente “ordine”.
Un mondo di corrispondenze 175

Il cosmo, miniatura dalla Topografia Cristiana di Cosma Indicopleuste, IX secolo,


Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Gr. 699, f. 89r. Il Cristo-logos
è collocato all’interno di un universo a forma di Arca dell’Alleanza vista in sezione.

La contemplazione della volta celeste, con il moto regolare di astri e


pianeti, è la ragione prima che ha suggerito all’uomo come l’universo sia
espressione di una mente ordinatrice, se non addirittura ordinatore esso
stesso. Non a caso gli stoici ritenevano che un soffio universale, lo pneuma,
pervadesse il cosmo come espressione di una divinità immanente, il logos
in grado di auto ordinarsi.
La speculazione stoica è stata accolta dal pensiero giudaico di Filone di
Alessandria e da certe posizioni patristiche (Origene), con lo sforzo però di
separare l’idea del cosmo da quella di Dio, laddove la contemplazione del-
la bellezza del primo permette di giungere alla conoscenza del secondo.
Con il termine greco Pantokrator si suole indicare il Cristo nell’acce-
zione di sovrano del cosmo, anche se la traduzione letterale è «Signore di
ogni cosa». Il termine è riferito esclusivamente al Cristo e il concetto sorge
già in epoca paleocristiana, anche se è con la cultura artistica di Bisanzio
che si sviluppa.
L’idea del Pantocratore è strettamente connessa a quella di Logos: la
condizione di sovrano delle cose, infatti, deriva da quella di artefice del-
le stesse. Nella sua accezione di Pantocratore, Cristo si pone al vertice
dell’universo.
176 Squarci nel Medioevo

Cristo pantocratore e angeli, 1132-1140, Palermo, Palazzo dei Normanni,


Cappella Palatina, mosaico della cupola.
Al centro, il Cristo Pantocratore benedicente tiene in mano il Vangelo chiuso. Accanto
alla testa le lettere greche di abbreviazione del nome: Isoùs Xristòs.
La croce dell’aureola è gemmata, per alludere alla funzione vivificatrice del Cristo.
La scritta in greco cita un versetto del profeta Isaia (66,1): «Il cielo è il mio trono
e la terra è lo sgabello dei miei piedi» dice il Signore Pantocratore.

Il Cristianesimo rivoluzionò anche l’ordine temporale e cosmico dell’an-


tichità. Cristo divenne il “Sole” della salvezza che illuminava di nuovi si-
gnificati tutti gli eventi passati e futuri della storia dell’uomo.
In questa prospettiva, alla concezione ciclica del tempo, fondata sul per-
petuo rigenerarsi della natura, andò a sostituirsi un processo lineare e irre-
versibile, finalizzato alla salvezza eterna (oikonomìa). Sovrano del tempo
(l’alfa e l’omega: Α Ω / α ω), Cristo diventa anche signore dello zodiaco,
occupando il posto anticamente riservato alle divinità solari (Helios, Apol-
lo, Giove) e presiede all’influsso delle realtà spirituali (gli angeli e santi)
sul destino degli uomini.
La sua funzione ordinatrice si esercita inoltre sulle ore del giorno, l’al-
ternarsi delle stagioni, i momenti dell’anno liturgico. Il sole e la luna, ai
Un mondo di corrispondenze 177

fianchi della figura del Cristo, rappresentavano le due ere del mondo: l’età
dei Vangeli (sole) e l’Antico Testamento (luna).
Nell’opera di Piero di Puccio (Cosmografia teologica, 1390, Pisa, Cam-
posanto monumentale) l’enorme figura del Cristo abbraccia completamen-
te la sfera del cosmo, che sorregge con le mani. Al centro, la Terra, con i
monti, i mari e i fiumi. Il modello cosmologico di riferimento, a prescin-
dere dalle implicazioni cristiane, è quello tolemaico geocentrico. In basso
si trova la citazione del passo del libro veterotestamentario della Sapienza
(11,20) in cui è scritto che Dio ha regolato l’universo «in numero, peso e
misura». Le prime nove sfere, rese come cerchi con piumaggi policromi,
rappresentano i nove cori angelici. Dall’esterno: Serafini, Cherubini, Troni,
Dominazioni, Potestà, Principati, Arcangeli, Angeli. Seguono la fascia del-
le stelle fisse, in chiaro, e quella dei segni zodiacali, in scuro.
Al di sotto del cerchio zodiacale sono rappresentati i cieli dei sette pia-
neti. Dall’esterno: Saturno, Giove, Marte, Sole, Venere, Mercurio, Luna.

10.3 L’uomo-microcosmo

La dottrina dell’uomo-microcosmo, immagine e specchio dell’universo,


esprime la credenza astrologica tardo-antica del legame armonico tra le diver-
se parti della realtà. Creatura privilegiata tra i viventi, in virtù della presenza di
un’anima razionale divina e immortale, l’uomo ha il compito di interpretare il
grande libro della natura al fine di risalire alla comprensione delle leggi che go-
vernano il mondo e dei principi imposti da Dio al momento della Creazione.
Al pari dell’Anthropos ermetico, l’uomo-microcosmo sa ricomporre la
dispersione spirituale causata dall’incontro dell’anima con la materia sen-
sibile e riportare all’unità i fenomeni naturali.
In questo viaggio ermeneutico, giocato sulla corrispondenza tra le mem-
bra, gli organi del corpo e le sfere celesti, la ragione rimane tuttavia indi-
pendente dalle influenze astrali, garantendo il pieno dispiegarsi del libero
arbitrio e rispettando il principio: «Sidera non faciunt acta humana» (le
stelle non determinano le azioni umane).
Secondo la dottrina dell’uomo-microcosmo, anche il corpo della Terra è
associato a quello dell’uomo attraverso un complesso sistema di corrispon-
denze e di analogie: la testa del mondo corrisponde al polo sud, i piedi al
polo nord, mentre il cuore, sede della saggezza e dell’intelligenza, viene
identificato con l’Egitto, patria di origine della sapienza ermetica.
178 Squarci nel Medioevo

Microcosmo, manoscritto databile tra il 1158 e il 1165, Glossarium Salomonis,


Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, Clm. 13002, f. 7v.
Il manoscritto, proveniente dal monastero di Prüfening in Baviera, pone l’accento
sulla congruenza fra il concetto di microcosmo e di Cristo cosmico, dal momento
che attribuisce alla figura umana, definita Microcosmus, il volto di Gesù. Ai quattro
angoli sono indicati i quattro elementi (da sinistra in alto Fuoco, Aria, Acqua, Terra)
che concorrono alla formazione della sostanza umana. Il cerchio che circonda il capo
indica la sfera celeste e i raggi corrispondono ai sette pianeti che presiedono agli
organi della testa: il Sole all’occhio destro, la Luna al sinistro; Giove all’orecchio
destro, Mercurio al sinistro; Marte alla narice destra, Venere alla sinistra; Saturno
alla bocca. La scritta che attraversa il petto paragona il respiro al soffio dei venti e la
tosse al brontolio dei tuoni. La scritta che attraversa il ventre lo associa al mare, dove
confluiscono tutti i fiumi. I piedi sono identificati con la terra, perché come questi
sostengono il corpo, la terra sorregge tutto l’universo.
Un mondo di corrispondenze 179

Antropomorfismo del cosmo, 1230 ca., dal Liber divinorum operum di Ildegarda di
Bingen, Lucca, Biblioteca Governativa, ms. 1942, f. 9r.
La miniatura rappresenta la seconda visione
del Liber divinorum operum scritto da Ildegarda (1098-1179).
Al centro dell’universo è l’uomo con le braccia aperte, iscritto in un cerchio,
considerato che la sua altezza è pari all’apertura degli arti superiori. È questo,
per la religiosa tedesca, un segno dell’armonia che dimostra come «Dio creatore
dell’universo diede forma all’uomo a Sua immagine e somiglianza». L’energia
suprema, ignea, ha acceso ogni scintilla di vita: corrisponde alla volontà che ordina
l’universo nella saggezza. Il cerchio azzurro allude all’aria umida percorsa dai venti,
rappresentati dalle teste ferine di cervi, pesci e orsi. Al centro, aria bianca e traslucida,
dice Ildegarda, come il tendine di un uomo.

11.4 Il sistema proporzionale

Nel contesto geografico del bacino del Mediterraneo, l’unica civiltà del
mondo antico ad aver sviluppato un sistema coerente di rappresentazione
proporzionale della figura umana è stata quella dell’Egitto dei faraoni.
180 Squarci nel Medioevo

Il sistema prevedeva uno schema costituito da caselle quadrate tutte


uguali, il cui numero variò, in verticale, a seconda delle epoche, da 18
a 23 e, in orizzontale, da un minimo di 10 a un massimo di 15 (in con-
siderazione che la figura poteva essere ritratta nell’atto di camminare o
meno, e quindi presentare una maggiore o minore distanza tra i piedi).
Queste caselle servivano da rigido riferimento per la collocazione dei punti
principali del corpo (altezza della caviglia, dito medio della mano ecc.):
contando in una figura di 20 caselle, a 6 caselle dal basso s’incontravano
sempre il ginocchio, all’undicesima le anche, alla dodicesima l’ombelico,
alla quattordicesima le ascelle, alla sedicesima le spalle e così via fino alla
sommità della testa.
Sebbene la suddivisione non risultasse rispettare perfettamente il canone
classico, dimostra la volontà di imporre alla rappresentazione anatomica
uno schema ordinato, dando forma al concetto espresso nel papiro Rind:
«Il numero, la chiave per comprendere tutte le cose». Un ideale di ordine
e di armonia che gli antichi egizi ritenevano fondamento dell’intero uni-
verso.

A Policleto, scultore greco del V secolo, è attribuibile con certezza


un’unica frase: «Il buono e il bello si raggiungono a poco a poco, attraverso
molti numeri». Come noto, nella concezione estetica della Grecia classica
l’idea di bontà comprendeva quella di bellezza: il concetto di kalokagathìa,
Un mondo di corrispondenze 181

ossia “bellezza e bontà”, è da considerarsi infatti la pietra angolare dell’in-


tero pensiero ellenistico, dal punto di vista filosofico come artistico. Per i
Greci, e in definitiva per noi occidentali che ne abbiamo ereditato le radici
culturali, ciò che è bello deve necessariamente essere buono e quel che è
brutto non può non essere cattivo.

Il corpo umano appartiene alla prima categoria e, secondo quanto affer-


ma Policleto, la sua armonia, ossia sintesi di bellezza e di bontà, nasceva
da «molti numeri», cioè dal rapporto proporzionale fra le sue parti. Galeno
(129-201 d.C.) riprese il concetto e lo attribuì a Crisippo (III secolo a.C.)
che affermava come la bellezza della figura umana andasse ricercata nel
giusto rapporto proporzionale delle singole parti. L’elemento numerico ri-
sulta centrale come nella cultura figurativa egizia, ma il suo valore non è
più da ricercare in schemi assoluti, ma in relazioni proporzionali, per esem-
pio, fra la testa e tutta l’altezza della persona1.
L’esperienza artistica del Medioevo dovette confrontarsi con il canone
della figura umana che costituiva il paradigma degli altissimi sviluppi rag-
giunti dalla classicità. L’idea del rapporto proporzionale venne mantenuta,
ma nell’arte bizantina delle icone risulta semplificata: la testa è il modulo

1 Il tipo policleteo per la traduzione vitruviana, dall’Architecture ou art du bien


bâtir de Marc Vitruve Pollion di Jean Martin, Paris 1547, p. 28.
182 Squarci nel Medioevo

di riferimento della figura umana, stante o seduta, che è ricostruita dall’ico-


nografo con il compasso, riportando le misure. Se la dimensione del volto
corrisponde a quella della mano e poi alla lunghezza dell’avambraccio ecc.,
si viene a creare un sistema di proporzioni che aiuta il pittore a costruire la
figura quasi indipendentemente dalla sua struttura organica.

A una semplificazione ancora maggiore giunsero le indicazioni manua-


listiche di Villard de Honnecourt, architetto e ingegnere edile della Piccar-
dia, autore di un taccuino di disegni e note di viaggio giunto fino a noi con
il titolo di Livre de portraiture2.
La costruzione della figura umana è impostata sulla base del pentalfa
salomonico, la stella a cinque punte (da non confondersi con l’esalfa di
Salomone, ossia la stella di David) di cui sono però state variate le propor-
zioni dei bracci, riducendo del tutto quello superiore, in corrispondenza
del collo, considerando quelli inferiori, assai allungati, come guida per le
gambe, e infine utilizzando quelli laterali come supporto per le spalle. Il
cinque, da sempre, è considerato simbolo dell’uomo e numero del mondo:

2 Livre de portraiture di Villard de Honnecourt, 1200-1230, Parigi, Bibliothèque


Nationale, Ms. fr. 19093, f. 18v.
Un mondo di corrispondenze 183

cinque sono i sensi e il quinto giorno della Creazione gli animali popola-
rono la terra.
Il sistema per disegnare la testa e il volto proposto da Villard ha origine
dall’idea che la massima larghezza della testa e la distanza fra il mento e
l’apice del cranio possono essere ricondotte alle diagonali di un quadrato.

Il grande quadrato va poi diviso in quadrati più piccoli: quattro per lato.
Sulla diagonale orizzontale vanno collocati gli occhi, contenuti entro due
quadrati contigui che hanno gli angoli tangenti alla diagonale verticale. Il
naso giace sulla diagonale verticale ed è contenuto entro le dimensioni del
quadrato della griglia i cui lati superiori sono in comune con quelli inferiori
dei quadrati che ospitano gli occhi.
Nonostante l’empirismo che lo ispira, questo metodo garantisce la cor-
retta costruzione della faccia, divisa verticalmente in tre porzioni uguali,
dall’attaccatura dei capelli al mento, nonché il fatto che, virtualmente, la
larghezza, capelli esclusi, corrisponda alla misura di cinque “occhi” posti
uno di seguito all’altro.
Il canone della figura umana nel Rinascimento, coerentemente con lo
sviluppo delle coordinate culturali del Quattrocento e del primo quarto del
Cinquecento, recuperò in termini ormai filologici le radici della classicità,
oppure, in un’altra prospettiva, diede corpo a quell’indirizzo medievale che
mai aveva cessato di vedere il proprio modello nel mondo greco-romano.
La stessa scelta di rifarsi a Vitruvio e al suo De Architectura (III, 3,
23-25) per riproporre, rielaborate in modo originale, le figure canoniche
dell’homo ad quadratum e dell’homo ad circulum (figura umana stante,
184 Squarci nel Medioevo

nuda, inscritta rispettivamente in un quadrato e in un cerchio) restituiva


centralità alla cultura classica, paradigma insostituibile per esprimere que-
gli ideali di bellezza e di armonia ancora considerati un’unità culturale
inscindibile. Emerse perciò una nuova elaborazione estetica che vedeva a
fondamento dell’ideale di bellezza la simmetria e il principio proporziona-
le che si era appannato e semplificato nel corso del Medioevo.
Le proporzioni del corpo umano furono così avvicinate alle frazioni mu-
sicali, come nella riflessione di Francesco Giorgi che, nel 1525, pubblicò a
Venezia il De Harmonia Mundi totius. Architetto e matematico, Giorgi con-
siderava il rapporto tra la testa e l’altezza totale del corpo un tono musicale,
ossia 1:8, la relazione tra torso e gambe un diatessaron, ossia 3:4 ecc.

La genialità del disegno di Leonardo da Vinci risiede nella capacità di


aver sviluppato in un’unica immagine coerente il duplice paradigma pro-
porzionale dell’homo ad quadratum e dell’homo ad circulum3. Facendo
coincidere le teste delle due figure, Leonardo riuscì a superare la difficoltà
di altezze diverse che avrebbero impedito l’unità della figura.
L’homo ad quadratum ha il pube posto a metà dell’altezza, che corri-
sponde all’incrocio delle diagonali del quadrato. Nell’homo ad circulum
è invece l’ombelico che corrisponde al centro del cerchio che lo iscrive.

3 Leonardo da Vinci, Uomo vitruviano, 1492 ca., Venezia, Galleria dell’Ac-


cademia.
Un mondo di corrispondenze 185

La larghezza delle spalle corrisponde alla distanza fra il gomito e la punta


delle dita. Il pollice ripiegato evidenzia il palmo come unità di misura, i
cui sottomultipli sono le attaccature delle dita. La vista laterale del piede
mostra che la sua lunghezza corrisponde a quella della testa e del braccio.
I segmenti che segnano il corpo della figura a gambe unite sono tracciati
per individuare visivamente i rapporti proporzionali. La coscia è un quarto
dell’altezza totale e questa corrisponde al tronco, alla gamba+piede, alla
testa+collo. Il braccio corrisponde all’altezza della testa.
Per avere chiari i passaggi di piano da un volume all’altro nell’analisi
della fisiognomica, Albrecht Dürer ridusse invece la figura umana a un
insieme di “scatole”, opportunamente concepite per mimare gli ingombri
delle diverse membra del corpo4. La linea mediana del corpo e i segmenti
segnati sulle varie “scatole” servono a razionalizzare i complessi volumi
della struttura umana.
ì

La vista anteriore è concepita tenendo conto della medesima posizione


e gli arti superiore sono visibili: il braccio sinistro della figura è disteso e
leggermente abdotto, mentre il destro è abdotto a 90°.
Per agevolare la lettura e dimostrare come la semplificazione stereome-
trica possa facilitare anche gli scorci più arditi, la vista laterale del corpo è
realizzata con l’arto superiore alzato.

4 Riduzione stereometrica dei volumi della figura umana, 1515-1519, dai Disegni
del Taccuino di Dresda di Albrecht Dürer, Dresda, Sächische Landesbibliothek,
R. III, 261, f. 140r.
186 Squarci nel Medioevo

11.5 Il modulor di Le Corbusier

Basato sugli studi di Matila C. Ghyka, autore di un trattato di matema-


tica e di geometria applicata intitolato Le nombre d’or, edito a Parigi nel
1931, il modulor di Le Corbusier considera la proporzione della sezione
aurea per costruire l’immagine anatomica dell’uomo moderno.

In geometria piana, la sezione aurea, o numero d’oro, è la parte di un


segmento AB che si trova nel medesimo rapporto di proporzione (medio
proporzionale) fra tutta la lunghezza del segmento e la parte rimanente.
Così, se AX è la sezione aurea, si avrà che AB:AX=AX:XB.
Individuata nell’ombelico la metà di un uomo alto 1,82 m., per com-
pletarne l’altezza, incluso il braccio alzato, sarà necessario raddoppiare la
prima misura. La distanza fra l’ombelico e l’apice della testa si pone come
segmento aureo rispetto all’altezza che va dai piedi al capo. L’apice del-
la testa, collocato in corrispondenza della sezione aurea di questo secon-
do segmento, è espresso in forma approssimata con il numero irrazionale
1,618033 (moltiplicando la distanza da terra dell’ombelico per 1,62 si ot-
tiene la propria altezza).
La colonna grigio scura e grigio chiara è la visualizzazione dei segmenti
aurei posti in successione dall’alto e dal basso, da intendersi come sot-
tomultipli delle misure principali. Anche la spirale laterale è costruita su
rettangoli aurei. Le Corbusier utilizzò il modulor per scandire gli spazi
dell’unità di abitazione di Marsiglia.
Un mondo di corrispondenze 187

Charles-Edouard Jeanneret, noto con lo pseudonimo di Le Corbusier (La Chaux-


de-Fons, Svizzera 1887 – Roquebrune-Cap-Martin, Francia 1965), con l’Unità di
abitazione (Marsiglia, 1947-1953) realizza una città-edificio per il proletariato alta 18
piani e composta da una successione di 337 appartamenti, progettati come moduli,
costruiti in serie e poi assemblati. La singola unità abitativa, disposta su due livelli
diversi e intesa come cellula di un insieme, esalta al massimo la geometria e le
proporzioni si ricollegano ai principi della sezione aurea.

11.6 La sezione aurea

I rettangoli non sono tutti ugualmente armoniosi e piacevoli alla vista.


Alcuni ci sembrano troppo lunghi e stretti, mentre il quadrato ha un aspetto
troppo massiccio e pesante. Tra i due estremi esiste una forma che è stata
ritenuta a lungo la più armoniosa di tutte: in questo tipo di rettangolo, il
rapporto fra la larghezza e la lunghezza è all’incirca uguale al rapporto fra
la lunghezza e la somma della larghezza e della lunghezza.
Questo rapporto è chiamato numero d’oro (ma anche sezione aurea, co-
stante di Fidia, proporzione divina), indicato per convenzione con la lette-
ra greca φ (Phi, ossia f) e corrispondente al numero:

Graficamente la sezione aurea può essere rappresentata da un segmento


diviso in due parti a e b, tali che il rapporto tra l’intero segmento a+b e la
parte più lunga a sia uguale al rapporto tra la parte più lunga a e la parte
più corta b:
188 Squarci nel Medioevo

Dato un segmento (AC), si ottiene una sezione aurea quando il tratto più
corto (BC) sta al tratto più lungo (AB) come il tratto più lungo (AB) sta al
segmento intero (AC).

In sintesi la proporzione è così espressa:

BC: AB=AB: AC

Costruire geometricamente un segmento aureo è molto semplice.

Dato il segmento AB, dividerlo in due parti uguali con il punto M.


Dall’estremità B tracciare la perpendicolare al segmento fino al ottene-
re CB= MB. Dal punto C, tracciare con il compasso un semicerchio fino
ad incontrare in D il segmento AC. Puntando infine il compasso in A con
raggio AD, si ottiene il punto E che divide il segmento in due parti con
proporzione aurea (AE/EB= 1,618).
Esiste poi uno speciale rettangolo le cui proporzioni corrispondono alla
sezione aurea. Il suo nome è rettangolo aureo. Per costruire il rettangolo
aureo si disegna un quadrato di lato i cui vertici sono chiamati, a partire
dal vertice in alto a sinistra e procedendo in senso orario, AEFD. Quindi
dividere il segmento AE in due chiamando il punto medio A’. Utilizzando
il compasso e puntando in A’ disegnare un arco che da E intersechi il pro-
Un mondo di corrispondenze 189

lungamento del segmento DF in C. Con una squadra disegnare il segmento


CB perpendicolare ad DF, ed il segmento EB, perpendicolare a EF. Il ret-
tangolo ABCD è un rettangolo aureo nel quale il lato AB è diviso dal punto
E esattamente nella sezione aurea:

AE:EB=AB:AE

11.7 La fortuna della sezione aurea

La sezione aurea emergerebbe in natura come risultato della dinamica


di alcuni sistemi: la struttura delle conchiglie, la dimensione delle foglie,
la distribuzione dei rami negli alberi, la disposizione dei semi di girasole,
il corpo umano.
Alcuni studiosi sostengono che è proprio nell’osservazione della natura
che gli antichi (egizi e greci) avevano scoperto il numero d’oro e proprio
in ragione della sua diffusione in natura veniva considerato esteticamente
piacevole e di buon auspicio, perciò era utilizzato anche per le creazioni
umane: edifici, giardini, dipinti e sculture sarebbero stati realizzati secondo
i paradigmi della sezione aurea.
Si ritiene che gli Egizi abbiano ricavato le loro sorprendenti conoscenze
in geometria dalla prassi. Nella loro geometria, occupa un posto di assoluto
rilievo il triangolo rettangolo, tanto da far ritenere che fossero giunti alla
conoscenza e all’applicazione del teorema di Pitagora come risultato dello
studio del rapporto tra verticale, orizzontale e angolo retto e del rapporto al
quadrato. Il numero 4 e il quadrato avevano del resto per gli Egizi un valore
magico. Pitagora, insomma, non avrebbe fatto altro che concettualizzare,
sotto forma di teorema, una conoscenza già sperimentata da millenni (“in
tutti i triangoli rettangoli, la somma dei quadrati dei cateti è uguale al
quadrato dell’ipotenusa”).
190 Squarci nel Medioevo

Dallo studio del triangolo rettangolo, gli Egizi sarebbero giunti anche a
individuare la sezione aurea. Come si è visto, essa consiste nella divisione
di un segmento di retta in due parti disuguali e tali per cui la più picco-
la sta alla più grande come quest’ultima al tutto. Si tratta di una nozione
matematica fondata su un’idea di armonia universale che, nel corso della
storia, si sarebbe poi caricata di carattere mistico. La frequenza di questa
proporzione nell’architettura e nelle arti figurative egizie esclude che il suo
uso sia stato casuale, anche se delle deduzioni logiche che se ne potevano
trarre rimane testimonianza soltanto per quelle formulate da Euclide nel III
secolo a.C.
Come nella costruzione delle piramidi, anche nella costruzione delle cat-
tedrali è probabile che la scienza operativa abbia preceduto la teorizzazio-
ne. Luca Pacioli (1445-1514), allievo di Piero della Francesca, poi entrato
nell’Ordine francescano dei frati Minori Conventuali, si dedicò agli studi
matematici, accogliendo contributi dalle più svariate fonti speculative, da
Euclide a Fibonacci, agli algebristi arabi. Nel 1509, scrisse il De Divina
proportione, dedicato allo studio della sezione aurea e alle sue possibili
applicazioni in campo architettonico. Amico di Leonardo, si avvalse dei
disegni dell’artista per illustrare la sua opera.

Jacopo de’ Barbari (attribuito), Ritratto di fra Luca Pacioli con un allievo (Guidobaldo
da Montefeltro), 1495 ca., olio su tavola, Napoli, Museo di Capodimonte.
Sul tavolo sono raffigurati gli strumenti del matematico: gesso, spugnetta, compasso,
goniometro, penna. Sono poi ritratti, uno sul tavolo sopra il libro e l’altro trasparente
in alto, due poliedri che servivano al matematico per i suoi studi.

In età contemporanea, la sezione aurea è stata sicuramente utilizzata da


artisti quali Mondrian, Escher, Dalì e, come anticipato, da architetti quali
Le Corbusier e, in Italia, da Giuseppe Terragni, nella progettazione di al-
cuni edifici razionalisti. Numerose applicazioni si trovano ancora ai giorni
nostri nel design.
Un mondo di corrispondenze 191

Anche il pentagramma, caro ai pitagorici, contiene la sezione aurea, che


ha avuto applicazioni nella musica, in particolare la struttura di diverse
composizioni di Bach, Claude Debussy e Béla Bartòk.
Recenti studi di psicologia hanno affrontato il modo in cui il rapporto
aureo è inserito negli oggetti, l’influenza del tipo di presentazione dei ret-
tangoli, le preferenze di designer professionisti nel suddividere una linea,
la frequenza dei rapporti altezza/larghezza in dipinti considerati di arte ec-
celsa e di arte popolare, la produzione di disegni di rettangoli, le preferenze
di sagome e il posizionamento di oggetti in contesti particolari.
In nessuno di questi studi è stato possibile dimostrare una preferenza
significativa per il rapporto aureo: al contrario, in alcune ricerche sono stati
scelti più frequentemente altri rapporti. Allora, perché si ritrova il rapporto
aureo nelle opere d’arte? Come fa notare Mario Livio nel suo libro La se-
zione aurea, probabilmente se uno vuole trovare a tutti i costi un rettangolo
aureo in un’opera d’arte gli basterà variare i punti di riferimento. In molti
casi riportati dai sostenitori del rapporto aureo non si capisce bene perché
lati e vertici del rettangolo vengano fatti combaciare con certi punti dei
dipinti e non con altri. Anche per le opere architettoniche vale lo stesso
discorso.
Ad esempio il Partenone, probabilmente l’opera più citata in assoluto
come prova della presunta applicazione del rapporto aureo nei tempi an-
tichi, viene di solito rappresentato con il rettangolo aureo che circoscrive
la facciata, escludendo il basamento. Riprendendo le misure del Partenone
da varie fonti e applicandole al rettangolo così rappresentato non si ottiene
mai il rapporto aureo, ma il valore: 2,25. Se si include il basamento non si
consegue lo stesso il rapporto aureo bensì il rapporto di 1,72.
In conclusione, gli autori moderni sostengono che la sezione aurea, non
possedendo particolari qualità estetiche, non è sistematicamente riferibile
alle espressioni artistiche antiche e contemporanee. Pur tuttavia è innega-
bile l’enorme influenza che questa concezione matematica, filosofica ed
estetica ha esercitato per secoli, se non millenni, sulla creatività umana,
come testimoniano le parole di Johannes Kepler: «La geometria ha due
grandi tesori: uno è il teorema di Pitagora, l’altro è la sezione aurea di un
segmento. Il primo lo possiamo paragonare a un monile d’oro, il secondo
a un prezioso gioiello».
192 Squarci nel Medioevo

Principali opere citate

Per un quadro d’insieme:

G. BORA, G. FIACCADORI, A. NEGRI, A. NOVA, I luoghi dell’arte. Storia opere percor-


si, voll. III-VI, Bruno Mondadori ed., Roma 2003.
Sul periodo medievale:
VILLARD DE HONNECOURT, Disegni dal manoscritto conservato alla Biblioteca Na-
zionale di Parigi, a cura di A. Erlande-Brandenburg, Jaca Book, Milano 1988.
G. FEDERICI VESCOVINI, Medioevo magico. La magia tra religione e scienza nei
secoli XIII e XIV, UTET, Torino 2008.
F. SAXL, La fede negli astri: dall’antichità al rinascimento, Boringhieri, Torino
1985.
R. TERMOLEN, Ildegarda di Bingen. Biografia, Libreria Editrice Vaticana, Roma
2001.
Sul calcolo matematico come valore artistico:
LE CORBUSIER, L’Unité d’habitation de Marseille, Mulhouse 1950 (trad. it. L’Unità
di abitazione di Marsiglia, a cura di A. Alfani, Roma 1960).
LE CORBUSIER, Le Modulor e Le Modulor 2, in «L’Architecture d’Aujourd’hui»,
1950 e 1954 (trad. it. Il modulor + modulor 2, Cappelli, Bologna 2004).
M.C. GHYKA, Le nombre d’or, Gallimard, Paris 1976; A. SCIMONE, La Sezione Au-
rea, Sigma, Palermo 1997.
M. LIVIO, La sezione aurea. Storia di un numero e di un mistero che dura da tremila
anni, Rizzoli, Milano 2003.
C.J. SNIJDERS, La Sezione Aurea, F. Muzzio ed., Padova 1993.
193

CAPITOLO 12
PIETRE CHE GRIDANO

12.1 Valore semantico delle cattedrali

«Vi dico che, se costoro taceranno, grideranno le pietre» (Luca, 19,40).


Così Gesù rispose ai sacerdoti del Tempio di Gerusalemme, quando gli
intimarono di far tacere i suoi discepoli.
Le verità di fede delle religioni rivelate; i disegni della Provvidenza che
trascendono le capacità di comprensione dell’intelletto umano; gli eventi-
chiave della vita di Gesù e della Vergine, eternati nelle stazioni del Rosario
e nelle scene delle Sacre Rappresentazioni; le pratiche e i riti influenzati
dai culti dell’antichità; le conoscenze accessibili agli iniziati: tutti sono
elementi presenti nelle cattedrali, edifici dallo straordinario valore seman-
tico.
Enciclopedie a cielo aperto, le cattedrali offrono vari livelli di lettura ai
visitatori: oltre al significato letterale, i loro elementi costitutivi e decora-
tivi associano un valore simbolico, accessibile in diversi gradi in base al
grado di iniziazione raggiunto, secondo il progetto generale della cultura
medievale di insegnare a decifrare ciò che sta dietro al segno, in un proces-
so che necessita la ricostruzione dei riferimenti storici, ideologici e religio-
si per imparare a guardare, interpretare i codici e quindi confrontarsi con il
messaggio complessivo, peculiarmente rivolto allo spirito.
Un messaggio che non è necessariamente confessionale, nonostante le
cattedrali rappresentino la più elevata realizzazione della cultura occiden-
tale cristiana, ma è tentativo di perseguire la dimensione divina nell’espe-
rienza umana quotidiana.
Il termine cattedrale deriva dal latino cathedra (cattedra) che indica-
va il maestoso sedile destinato ai personaggi di rilievo, in occasione di
riti, cerimonie o assemblee particolarmente significativi per una comunità.
Per traslato, la “cattedra” è diventata simbolo dell’autorità stessa. Così, la
cattedrale è la sede dell’autorità del vescovo, la chiesa principale di una
diocesi, l’edificio sacro dove vengono celebrate solennemente le ricorrenze
dell’anno liturgico.
194 Squarci nel Medioevo

L’erezione di un edificio impegnativo come una cattedrale, sia romanica


sia gotica, comportava la necessità di ricorrere a maestranze specializzate.
L’aggregazione di muratori, carpentieri, lapicidi in corporazioni gelose del-
le proprie competenze e disposte alla migrazione, anche a lungo raggio, è
un fenomeno che precede la stessa arte romanica. Caso tipico è quello dei
cosiddetti maestri comacini, originari del Comasco secondo l’ipotesi più ac-
creditata, oppure così definiti dall’antico tedesco machio, muratore (da cui il
francese maçon, il provenzale maso e lo spagnolo mazon), o dalla locuzione
latina cum machinis, a indicare che si trattava di manodopera specializzata
nella realizzazione e nell’utilizzo di impalcature (in latino machinae).
Indipendentemente dall’origine del loro nome, la loro presenza è attesta-
ta dall’età longobarda in varie parti d’Europa, dalla Svezia alla Dalmazia,
nonché a Bisanzio e in Siria. Queste migrazioni favorivano ovviamente il
sincretismo culturale e lo scambio di tecniche, tipologie, simboli e modelli
decorativi similmente a quanto sarebbe avvenuto in seguito, all’epoca della
costruzione delle cattedrali.

12.2 Lo stile delle cattedrali

L’aggettivo “Romanico”, coniato dagli storici dell’arte del XIX secolo


per definire la produzione dell’XI e del XII secolo, contrapposto a “Gotico”
(secoli XIII e XIV), istituisce arbitrariamente un giudizio tra due modelli
opposti di civiltà, quello latino (positivo) e quello barbarico (negativo). In
realtà, l’area di diffusione dell’arte romanica superò i confini di penetra-
zione dell’Impero, coinvolgendo Inghilterra, Germania, Scandinavia e le
regioni slave. Dal punto di vista cronologico, poi, la distanza tra il Romani-
co e il Gotico è più spaziale che temporale: il Sud Europa, infatti, assimilò
soltanto parzialmente e più tardi il nuovo gusto, mentre il Nord lo coltivò
ben oltre il XIV secolo.
La cattedrale, come edificio totalizzante, comunitario nel senso più am-
pio del termine, che esprime contemporaneamente la concezione di Dio,
della natura, dell’arte, dell’uomo e del suo ruolo e operare nel mondo, è una
realizzazione romanica di cui il Gotico si appropria. La severa concezione
di uno spazio, costruito attraverso un’attenta gerarchia nella distribuzione
delle masse e dei volumi, è la lezione che il Romanico ha diffuso in Euro-
pa, imponendo ovunque la riflessione attenta sull’esigenza di organizzare
le superfici al fine di ottenere effetti di equilibrio e di armonia.
La cattedrale romanica esprime già la ritrovata sicurezza materiale e spi-
rituale da parte dell’Europa all’alba del secondo Millennio, una religiosità
Pietre che gridano 195

austera, l’etica del lavoro e l’avvento della civiltà comunale, caratterizzata


dal rinnovato ruolo di civis, di “cittadino”.
La cattedrale gotica sorge in una fase politico-spirituale più matura, contem-
poraneamente all’affermazione delle monarchie nazionali, legate a una nuova
idea di Stato1; la sua presenza nello spazio urbano è peraltro strettamente con-
nessa alla formazione di una ceto imprenditoriale e funzionariale ricco, alla
grande influenza di potenti ordini monastici (Cistercensi e Templari), all’ideale
religioso di un’elevazione dalla Terra a Dio, per raggiungere il quale la bellezza
e la perfezione dei manufatti artistici possono costituire un potente stimolo.
La fede e la scienza, intesa come conoscenza e applicazione di nuove
tecniche costruttive, si accordano nella progettazione e nell’edificazione
delle cattedrali gotiche e si impongono quali punti di riferimento non solo
spirituale, ma anche spaziale delle nuove realtà urbane.

La ricostruzione del Tempio di Gerusalemme voluta da Ciro, miniatura,


sec. XIII, Parigi, Bibliothèque Sainte-Geneviève, ms. 1185, f. 127v.
La carriola è una dei tanti semplici attrezzi inventati nel Medioevo per alleviare la
fatica del lavoro umano. In basso, un giovane muratore, fiero del suo nuovo attrezzo,
si appoggia in bilico alla carriola, colma di mattoni

1 Nell’accezione brunneriana del termine, inteso come «ogni durevole forma di


convivenza ordinata nell’unità politica», cfr. O. Brunner, Terra e potere, Milano
1983, p. 158.
196 Squarci nel Medioevo

La decorazione assume una propria autonomia rispetto agli elementi


portanti dell’edificio, a dimostrazione di una conquistata maggiore libertà
compositiva. Lo schematismo romanico, ma anche la bizzarra deformità
di certe raffigurazioni dell’alto Medioevo decadono a vantaggio di un più
spiccato realismo: la precisione dei dettagli, in particolare nella raffigura-
zione umana, è il segno di un ritrovato naturalismo.

La Margravia Uta, scultura del Maestro di Naumburg, 1250-1260,


Naumburg, Cattedrale, Coro dei Fondatori.

I progressi dell’industria vetraria offrivano ai progettisti gotici, rispetto


a quelli romanici, la possibilità di alleggerire i muri e di creare ampi pas-
saggi per la luce. L’arte della decorazione delle vetrate si incontrò con la
maggiore esigenza di illuminazione nei paesi nordici, rispetto a quelli più
soleggiati che si affacciano sul Mediterraneo: fattori climatici e ambientali
che contribuiscono in parte a spiegare il persistere del Romanico nel Sud
Europa e la rapida fioritura del Gotico nel Nord.
Prosperità economica, rinascita delle città collocate in posizione favore-
vole all’esercizio dei commerci, ritrovate disponibilità finanziarie, abbon-
danza di manodopera agirono come fattori di stimolo alla costruzione di
edifici grandiosi.
Esemplare il caso della cattedrale di Reims, capoluogo della Champa-
gne, regione nota per la vivacità delle sue fiere internazionali. La città era
poi favorita, oltre che dall’attivismo dell’episcopato locale, dall’essere la
sede prescelta per la consacrazione dei sovrani francesi: la solenne ceri-
monia prevedeva l’utilizzo di un olio speciale, conservato in un’ampolla
oggetto di culto per le qualità miracolose del suo contenuto.
Pietre che gridano 197

Annunciazione e visitazione, 1230 circa,


strombo del portale centrale della cattedrale.di Reims

Lo spazio interno dell’edificio è vasto, atto a contenere una folla; le nu-


merose e colossali statue che decorano i timpani della facciata testimonia-
no le verità della fede con un’immediatezza sconosciuta altrove, un’effica-
cia espressiva derivata dalle Sacre Rappresentazioni che, durante l’anno,
la tradizione liturgica utilizzava quale forma diretta di insegnamento dei
contenuti dottrinari. L’impianto fortemente unitario dell’edificio e la sua
perfetta interpretazione della “liturgia della luce”2, filtrata all’interno dalle
preziose vetrate, rendono la cattedrale di Reims uno dei modelli più signi-
ficativi del Gotico europeo.

12.3 La cattedrale spazio polifunzionale

In molti casi, ancora oggi, le dimensioni della cattedrale, rapportate a


quelle della stessa città su cui troneggia, risultano stupefacenti.

2 La teoria, di cui fu fautore l’abate Suger di Saint-Denis, deriva dall’interpreta-


zione degli scritti del neoplatonico Pseudo-Dionigi secondo il quale l’universo
è propagazione di luce emanata da Dio, il Sole invisibile, verso il mondo e la
materia e la luce può diventare veicolo di ascesa spirituale.
198 Squarci nel Medioevo

Ancora in epoca moderna (la mappa risale al 1760),


la cattedrale di Chartres troneggiava sul tessuto urbano e sul contado circostante,
ben visibile da molto lontano.

Questo essenzialmente per due motivi: innanzi tutto, la cattedrale nasce


come manifestazione fisica del potere spirituale e temporale del vescovo
sulla diocesi e della supremazia sociale ed economica (e sovente anche
politica) della città sulle campagne. In secondo luogo, la cattedrale non
era destinata esclusivamente alle funzioni liturgiche, ma era utilizzata dal-
le stesse autorità civili come sede di assemblee generali per l’assunzione
collettiva delle decisioni più importanti, come spazio di creazione del con-
senso. Viceversa, le mura della cattedrale potevano offrire rifugio in caso
di torbidi o di contese civili. Al pari, il campanile precedette la torre comu-
nale o l’orologio civico, non solo chiamando alle funzioni o indicando le
ore della preghiera, ma ritmando anche il tempo del lavoro, segnalando le
emergenze, convocando la popolazione in assemblea.
La cattedrale medievale recupera il ruolo civico dell’antica basilica ro-
mana, che si apriva sul foro cittadino ed era centro di riunioni e di affari,
nonché sede di amministrazione della giustizia. Nella cattedrale ci si in-
contrava, si conducevano transazioni, si stipulavano contratti o si assume-
va manodopera: era lo spazio privilegiato di mercanti e imprenditori, che
talvolta la utilizzavano per tenervi delle fiere, ad esempio di cavalli, come
nelle moderne halles.
La cattedrale medievale era anche luogo di svago: vi si allestivano spet-
tacoli non solo di contenuto religioso, come le Sacre Rappresentazioni o i
Pietre che gridano 199

Misteri, ma anche di carattere profano. A Laon (Aisne), la cattedrale, edi-


ficata nel 1160, ospitava all’inizio del nuovo anno la Festa dei Folli, men-
tre molte cattedrali europee si aprivano ai chiassosi cortei del carnevale,
festa squisitamente medievale che deriva il suo nome, attestato intorno al
Mille, dalla locuzione latina carnem levare, ossia privarsi di carne nell’ul-
timo giorno che precede la Quaresima. In queste occasioni era consentito
il travestimento, l’inversione dei ruoli, l’uso delle maschere, lo sfogo di
atteggiamenti solitamente repressi in campo alimentare, sessuale e di com-
portamento, fino all’insulto e allo scontro violento delle battagliole.
Nei suoi elementi decorativi, la cattedrale fu il più potente agente dida-
scalico ed educativo del Medioevo: libro di pietra e di vetro, supplì all’anal-
fabetismo di massa, sottoponendo ai fedeli la summa, ossia la totalità del
sapere del tempo sotto forma di immagini scolpite e dipinte. Scultori e
vetrai tradussero le prime enciclopedie medievali (XIII secolo), accessibili
a pochi, in un linguaggio comprensibile da tutti, illustrando la storia sacra,
la varietà delle forme animali e vegetali, il miracolo della Creazione, le
attività umane nella laboriosa attesa del Giudizio Universale.
La materia iconografica, mano a mano che ci si allontana dalla zona del
coro e dell’altare, riservate al clero, non è più di esclusivo contenuto reli-
gioso e la religiosità che vi si esprime non è più esclusivamente ortodossa.
Le fonti cui alle maestranze è concesso liberamente attingere comprendono
infatti temi tratti dai Vangeli apocrifi, che, ad esempio, descrivono la nascita,
l’infanzia e la morte della Vergine, ma anche le leggende che narrano la vita
dei santi. Non mancano mai, soprattutto, riferimenti al lavoro degli uomini,
non più vissuto come condanna divina per il peccato originale, ma come
manifestazione dell’emergente antropocentrismo, della capacità di dominio
dell’uomo sulla natura e della sua partecipazione attiva alla Creazione.
Nelle cattedrali l’uomo tornava così a raffigurare se stesso dotato di vo-
lontà e di strumenti per agire nel mondo: a Chartres ben 45 vetrate sono
riservate alle corporazioni (bottai, incisori, drappieri ecc.) che, con ingenti
donazioni, contribuirono all’immane sforzo economico richiesto dalla rea-
lizzazione della cattedrale. Le finalità promozionali, oltre che devozionali,
di queste vetrate istoriate sono immediatamente percepibili nella posizione
affatto casuale dei riferimenti iconografici riservati ai gruppi professionali,
disposti nelle fasce basse delle pareti, a più diretto contatto con la traietto-
ria visiva dei visitatori.
Le vetrate donate da prelati o nobili erano invece collocate nella parte
più alta del coro, così come erano elevati su colonne i loro sarcofagi, rispet-
to alle tombe, poste a terra, di mercanti e di professionisti, a ribadire una
struttura comunque vincolata a una percezione gerarchizzata della società.
200 Squarci nel Medioevo

Non è infrequente, peraltro, neanche il caso in cui nella proporzione


della figura ritratta si renda merito dell’effettiva generosità dell’offerente:
a un’elargizione più cospicua corrispondevano dimensioni più visibili. In
questo caso, il manufatto artistico testimonia l’entità dell’atto di devozio-
ne. Inoltre, soltanto coloro che contribuivano al finanziamento dei lavori
acquisivano il diritto di collocare nella cattedrale sarcofagi, pietre tomba-
li, iscrizioni, statue commemorative: più ancora del cimitero, queste me-
morie del passato tenevano vivo il ricordo dei cittadini eminenti, devoti e
generosi, costituendo motivo di imperituro orgoglio familiare, in quanto
consentivano l’immediata identificazione del benefattore, contrastando ef-
ficacemente l’inevitabile oblio legato al trascorre dei secoli.

12.4 Il “mistero” delle cattedrali

Per il fedele medievale era naturale leggere le immagini di cui abbondava


la sua cattedrale, proposte da rilievi, statue, pitture e vetrate, perché ribadiva-
no i contenuti delle omelie e delle prediche che ascoltava ogni giorno, davano
corpo alle fantasie dell’immaginario collettivo, illustravano gli aspetti della
vita quotidiana. Avendo perduto nel tempo le chiavi di lettura, l’uomo di oggi
decifra con difficoltà questi temi iconografici, di cui spesso si riesce a cogliere
solo il valore significante, la lettera, riuscendo a penetrare al di sotto della su-
perficie soltanto quando supportati dalle fonti scritte, talvolta illuminanti nel
chiarire il rapporto “nascosto” che collega una forma al suo significato.
Nel pensiero medievale ogni oggetto materiale era peraltro considerato
come la raffigurazione di qualcosa che gli corrispondeva su un piano più ele-
vato, diventandone così il simbolo. Il simbolismo era universale e il pensare
era una continua scoperta di significati nascosti, una costante ierofania (ma-
nifestazione del sacro). Il mondo nascosto era infatti un mondo sacro e il pen-
siero simbolico non era che la forma elaborata, decantata al livello dei dotti,
del pensiero magico, nel quale si immergeva la mentalità comune. Amuleti,
filtri, formule magiche, il cui uso e commercio erano molto diffusi, sono gli
aspetti più grossolani di queste credenze e di queste pratiche; ma le reliquie, i
sacramenti, le preghiere ne erano, per la massa, gli equivalenti autorizzati. Si
trattava in ogni caso di «trovare le chiavi che forzavano quel mondo nascosto,
il mondo vero ed eterno, quello dove ci si poteva salvare» (J. Le Goff).
Una delle fonti più utili per interpretare i simboli di questo “mondo segre-
to” è lo Specchio maggiore del domenicano francese Vincente de Beauvais
(XIII secolo). L’opera si compone di quattro grandi trattati in cui natura,
scienza, morale e storia sono unificate in una visione religiosa del mondo
Pietre che gridano 201

secondo la quale non esiste realtà, sapere o prassi che non debbano essere
ricondotti al provvidenziale disegno divino cui l’universo si adegua.
La Natura esprime la ricchezza della Creazione, a partire dall’imma-
terialità degli Angeli e della luce per definirsi nel mondo sensibile, negli
elementi e nei corpi della terra, tra cui i metalli e le pietre, in ogni specie
animale e vegetale e infine nell’uomo che, dotato di anima, Dio ha voluto
fosse signore della natura. La scienza è il premio del lavoro intellettuale
e manuale, con cui l’uomo glorifica Dio, e la sua più alta espressione è la
teologia. La morale consente di sancire la vittoria delle virtù sui vizi. La
Storia cala il disegno provvidenziale nel tempo.
Le maestranze che materialmente eseguivano le immagini si ispiravano
però a una molteplicità di fonti: per quanto riguarda il mondo animale van-
no ricordati i bestiari, ossia quei trattati, molto diffusi nel Medioevo, che
catalogavano il mondo animale, mischiando indifferentemente descrizioni
realistiche, spunti tratti dal genere letterario della favola e interpretazioni
etico-simboliche.

Turma camelorum, capitello n. 19, 1132 ca., Aosta, Collegiata di sant’Orso, Chiostro,
lato ovest. Bestiari, miniature, stoffe e avori orientali hanno influenzato lo scultore che
ha saputo imprimere senso del movimento ai corpi degli animali.

La volpe e la cicogna, capitello n. 12, 1132 ca., Aosta, Collegiata di sant’Orso,


Chiostro, lato nord. L’opera cita la favola di Esopo, tradotta in versi da Fedro.
202 Squarci nel Medioevo

In parallelo, esistevano e venivano consultati i lapidari, opere dedicate


all’illustrazione delle virtù, spesso terapeutiche, attribuite alle pietre; i florari,
affini agli erbari, nel loro caricare il regno vegetale di significati simbolici in
virtù dei potenti, reali o presunti, effetti benefici o negativi di fiori e piante.
Un indubbio repertorio di modelli iconografici era offerto poi alle mae-
stranze specializzate da un ricco patrimonio di codici miniati che i commit-
tenti, per ottenere immagini corrispondenti alle loro aspettative, mostrava-
no al responsabile del progetto il quale, spesso, le riproduceva su taccuini
di appunti e, talvolta, le riproponeva a una terza committenza.
Esemplare il caso della comunità monastica irlandese che, attraverso
le missioni e la circolazione dei manoscritti, esercitò una profonda azione
sull’Europa continentale, costruendo una solida tradizione decorativa. Una
tradizione in cui «esperienze nordiche e orientali, innestandosi su un antico
fondo celtico, avevano fatto scaturire deformata, snaturata, ricostituita nei suoi
elementi, resa infinitamente più agile, una nuova immagine dell’uomo capace
di piegarsi a tutte le esigenze della scultura monumentale» (Henri Focillon).
Sono tipici della miniatura irlandese, e si ritrovano anche nei rilievi del-
le cattedrali, i motivi simbolici della spirale, del quadrato ornato da una
croce, del reticolo, dell’intreccio e del labirinto: da ornamenti astratti e
geometrici, quali erano nell’arte antica, barbarica e orientale, assumono
l’aspetto di inquietanti forme vitali e queste, a loro volta, possono apparire
schematizzate come motivi astratti.

Libro di Kells, ritratto dell’Evangelista Giovanni, metà dell’VIII secolo, Dublino,


Trinity College. In questo manoscritto si trova inoltre la più antica immagine, a oggi
nota, di Madonna con Bambino miniata in Occidente.
Pietre che gridano 203

Fra i temi più trattati con sicuro riferimento alla pittura miniata sono da anno-
verare quelli ispirati alla visione profetica dell’Apocalisse (Rivelazione) di san
Giovanni, di cui circolano numerosi commenti illustrati. Con un taglio epico-
drammatico, le rappresentazioni della lotta tra il bene e il male dominano l’ico-
nografia romanica.
L’arte figurativa gotica propone, con la stessa insistenza, il tema del Giu-
dizio Universale, ma predilige quello del Cristo in gloria, sovente raffigu-
rato nel tetramorfo3, come se il tempo del mondo si fosse infine compiuto e
il Figlio ne fosse uscito vincitore, chiamando i giusti alla salvezza eterna.
Accanto al Cristo è spesso rappresentata la Vergine in maestà: così, ad
esempio, nel portale più antico di Chartres, in cui il trittico figurativo-sim-
bolico si completa con l’Ascensione. Da qui inizia e prende origine quella
iconografia della Vergine, della Signora, della “Nostra Signora” (Notre-
Dame), protagonista di straordinarie pagine dell’arte europea.
Talvolta, infine, compaiono scene di psicostasia (pesatura dell’anima), os-
sia di giudizio divino individuale dopo la morte. L’immagine della bilancia
che soppesa i peccati e i meriti del defunto veniva spesso utilizzata per rap-
presentare il destino umano dopo la morte, come monito verso il fedele.

Psicostasia, particolare della facciata, Spoleto, chiesa di San Pietro.


Nel riquadro dedicato alla Morte del giusto, la bilancia pende dalla parte di san
Michele arcangelo, nonostante il demonio la trattenga per un piatto.
Nella formella sottostante, il corpo legato del peccatore viene straziato da due demoni,
verso i quali pende la bilancia: l’anima del defunto è gettata in una caldaia, mentre
l’arcangelo si allontana impotente dalla scena.

3 Motivo iconografico di origine orientale, frequente nell’arte bizantina, raffiguran-


te l’insieme dei simboli dei quattro evangelisti
204 Squarci nel Medioevo

Già nell’antico Egitto si credeva che il defunto fosse sottoposto a un


giudizio individuale, reso alla presenza di Osiride e dei quarantadue giudici
dei morti nell’Aula Maaty, ossia della Verità e della Giustizia. Innanzi a
ogni Giudice, l’anima del defunto pronunciava una formula, affermando di
non aver commesso una specifica colpa. L’insieme di queste affermazioni
costituiva la sua dichiarazione d’innocenza. La veridicità della dichiarazio-
ne era controllata da una bilancia, su uno dei cui piatti era posto il cuore
del defunto e sull’altro una piuma, simbolo della dea Maat. Thoth, rappre-
sentato con la testa di ibis, registrava il risultato. In caso di esito negativo
lo spirito del defunto veniva sbranato da un mostro, chiamato Ammit. Al
termine del giudizio, superato favorevolmente, il defunto veniva “giustifi-
cato”, dichiarato cioè giusto di voce, ed era ammesso ai Campi Elisi.

Psicostasia, particolare di una cassetta di legno dipinto,


Nuovo Regno, Parigi, Museo del Louvre.

La tradizione della psicostasia si ritrova peraltro anche nell’antica Gre-


cia: Eschilo, in un’opera oggi smarrita, dichiarava che, secondo Plutarco,
Thetis ed Eos avevano pesato sulla bilancia il “soffio di vita” di Achille.

12.5 Ingegneria creativa

Nel confronto tra il Romanico e il Gotico sono evidenti le differenze di


mezzi, materiali e di soluzioni tecniche adottate in architettura che, a prescin-
dere dagli esiti estetici prefissi, traevano origine da condizionamenti ogget-
tivi che i costruttori dovettero risolvere. La genialità delle soluzioni adottate
rispetto alla frammentarietà delle conoscenze e alla scarsità degli strumenti
scientifici disponibili è a tutt’oggi fonte di generale ammirazione.
L’alleggerimento delle strutture murarie, ai limiti compatibili con la
stabilità della costruzione, fu la risposta creativa del Gotico alla difficoltà
concreta di procurarsi e di trasportare la pietra. Per la massiccia cattedrale
Pietre che gridano 205

romanica ne serviva moltissima, anche perché al peso dei muri dovevano


corrispondere fondamenta adeguate a sorreggerli. Non sempre si trovavano
cave in prossimità e, in tal caso, il trasporto via terra comportava tempi
molto elevati e costi esorbitanti, che raddoppiavano ogni 20 km circa.
La soluzione di realizzare “muri di vetro” fu peraltro resa possibile dai
progressi dell’industria del vetro piatto, bianco o colorato, con il perfezio-
namento di una tecnica già nota ai romani e sopravvissuta proprio nella
ex Gallia romana. Questa scelta si incontrava del resto perfettamente con
il principio religioso, elaborato nel regno franco, secondo cui Dio è luce.
Nella cattedrale gotica, dove il significato simbolico della verticalità era un
evidente tentativo di innalzarsi verso il cielo, la luce filtrata dalle vetrate
squarciava le tenebre terrene e rappresentava fisicamente la progressiva per-
dita di peso della materia a vantaggio della leggerezza eterea dello spirito.
Oltre alle difficoltà di reperimento della materia prima, la pietra, va ricor-
data quella di approvvigionamento del legname, determinatasi a causa della
riduzione delle foreste sacrificate allo sfruttamento agricolo estensivo, non-
ché a soddisfare le crescenti esigenze dello sviluppo demografico e urbano.
La costruzione di un edificio romanico tradizionale richiedeva molto legna-
me per i supporti provvisori o permanenti degli archi e delle volte, in quantità
comunque proporzionale alla forte spinta contraria da sostenere. L’adozione
generalizzata nel Gotico dell’arco a sesto acuto, in sostituzione a quello a
tutto sesto prevalente nel Romanico, fu un modo di risparmiare sul legname
destinato alle strutture provvisorie: a parità di volume e di peso, la spinta ri-
sulta infatti ridotta. Inoltre, consentiva una molto maggiore sopraelevazione
dei muri. Infine, le maestranze impegnate nell’edificazione delle cattedrali
gotiche programmavano il riciclaggio delle strutture lignee di sostegno, uni-
formando gli archi e standardizzando la curvatura delle volte.
Le nervature, che sottolineano le sezioni degli archi e delle volte, nel
Gotico hanno un impiego generalizzato. La loro funzione tecnica, al di là
dell’effetto estetico, era quella di guidare la costruzione delle volte, con-
sentire di utilizzare le centine, strutture provvisorie di sostegno più leggere
e maneggevoli, e di celare le irregolarità delle pietre impiegate nei punti
di congiunzione. È stata invece accantonata dagli studiosi la tesi “organi-
cistica”, in base alla quale si riteneva costituissero l’ossatura dell’edificio:
durante i bombardamenti della Prima guerra mondiale molte volte sono
rimaste intatte nonostante il distacco e il crollo delle relative nervature.
Un’altra innovazione importante si lega all’introduzione del sistema de-
gli archi rampanti in sostituzione dei contrafforti. Il loro impiego è legato
direttamente a quello dell’arco a sesto acuto: dal momento che, per ridurre
le spinte, i costruttori gotici avevano programmato lo slancio delle volte e
206 Squarci nel Medioevo

quindi ne aumentavano notevolmente l’altezza, occorrevano sostegni che


garantissero la stabilità e nel contempo non comportassero un enorme uti-
lizzo di pietre, come invece richiedevano i contrafforti.
Con il sistema degli archi rampanti le forze chiamate al sostegno e alla
stabilità dell’edificio erano divise in due componenti: una seguiva l’asse
dell’arco, mentre l’altra, verticale, l’asse del muro, o del pilastro. Oltre
che risolvere così un problema tecnico, l’adozione degli archi rampanti
permetteva di economizzare notevolmente sul costo delle pietre. Infine,
l’effetto estetico ottenuto è consono all’obiettivo generale della leggerezza,
conseguito attraverso uno sviluppo in altezza prima impensabile.
«Poiché tutte le direttrici di forza tendono all’alto, la cattedrale gotica ap-
pare, all’interno, come un grande spazio molto sviluppato in altezza, percor-
so dagli agili pilastri a fascio, che formano una prospettiva anche verticale, il
cui punto di fuga è la chiave di volta. All’esterno appare come una complessa
struttura ancorata al suolo dai tiranti degli archi rampanti, che formano piani
perpendicolari ai muri perimetrali, a raggiera intorno alle absidi. A questa
espansione in larghezza, corrisponde, in altezza, la selva delle guglie, delle
cuspidi, dei pinnacoli, che raccolgono e scaricano nello spazio aperto le ten-
sioni delle forze ascensionali. La decorazione è generalmente fitta, frastaglia-
ta, collegata con le linee di forza dell’edificio: quasi a suggerire che le grandi
forze del sistema costruttivo, a imitazione delle grandi forze cosmiche, ter-
minano nell’infinita varietà delle forme naturali» (Giulio Carlo Argan).

Cattedrale di Chartres, veduta dall’alto degli archi rampanti. Il senso di smarrimento


prospettico che offre la vista di questa fuga di archi rampanti è perfettamente
interpretato dal disegnatore e incisore olandese Maurits Cornelis Escher
(1898-1972), celebre per la sua rappresentazione di prospettive illusorie e di strutture
tridimensionali impossibili, ma costruite secondo ferrei processi logico-matematici.
Relativity, litografia, 1953 (b).
Pietre che gridano 207

12.6 Erigere una cattedrale

La costruzione di una cattedrale era impresa onerosa che necessitava di


ingenti risorse economiche. Al reddito di cui il vescovo poteva disporre,
mediante la riscossione delle decime dovute al clero o delle rendite dei beni
ecclesiastici, si aggiungevano contributi, donazioni e lasciti straordinari da
parte di singoli cittadini ricchi, nobili, imprenditori o professionisti, e delle
corporazioni; occasionalmente venivano poi organizzate collette, questue,
messe speciali e di suffragio. Data l’irregolare affluenza dei fondi, la dire-
zione amministrativa dei lavori per la costruzione di una cattedrale era affi-
data a organismi denominati Fabbrica o Opera, composti da ecclesiastici e
da laici nominati dal Capitolo, ossia il corpo dei canonici della cattedrale.
Chi non poteva contribuire con donazioni in denaro, spesso si offriva come
forza lavoro per coadiuvare le maestranze.
La cattedrale era prodotto di un’azione collettiva, corale e tendenzial-
mente anonima. Anche le maestranze non puntavano a distinguersi indivi-
dualmente. Con il titolo di magister operis i documenti talvolta designa-
no il direttore dei lavori, ma talaltra il committente, o chi pagava i salari.
Quando i Maestri firmavano la pietra, o venivano nominati nelle iscrizioni,
era in genere in forma discreta. La differenza di retribuzione tra l’architetto
e l’operaio qualificato era spesso irrilevante, salvo un premio annuale.
Per tutti la giornata lavorativa era di dodici ore d’estate e di nove in in-
verno. Il sabato pomeriggio e la domenica erano destinati al riposo, perché
le maestranze potessero unirsi alla popolazione nelle celebrazioni liturgi-
che. I professionisti chiamati a costruire le cattedrali, sovente per la fama
che si erano guadagnati in opere precedenti, prendevano i pasti in comune,
si riparavano dal maltempo e discutevano del lavoro progettuale in barac-
che di legno dette loges (da cui, nel Settecento, la “loggia” intesa come
luogo di riunione della Massoneria).
Ogni lapicida incideva un proprio marchio sul blocco tagliato, in modo
che il capocantiere fosse in grado di verificare il lavoro svolto dai singoli
e di predisporre l’utilizzo di pietre dalle stesse caratteristiche per un muro.
Questi marchi erano spesso lettere dell’alfabeto, oppure la stilizzazione di
un attrezzo di lavoro, come il compasso e la squadra, o una figura geome-
trica elementare, come il triangolo e il quadrato: dalla funzione originaria,
talvolta si trasformarono in vere e proprie griffes che suggellavano il pre-
stigio raggiunto da una famiglia o da un gruppo di artigiani provenienti da
una stessa zona.
Nei cantieri medievali, tra il lavoro intellettuale e quello manuale non
esisteva soluzione di continuità né differenza di prestigio. Il Maestro arri-
208 Squarci nel Medioevo

vava a dirigere un cantiere grazie all’esperienza acquisita per gradi e alle


capacità personali che gli avevano consentito il passaggio da un livello
all’altro. Progettava edifici e macchine per realizzarli, organizzava il can-
tiere, dirigeva e seguiva l’esecuzione dei lavori, si faceva personalmente
carico dell’esecuzione di opere particolari, le più difficoltose e delicate.
Al suo fianco operava un gruppo scelto di collaboratori, tra i quali uno
chiamato apparecchiatore o sagomatore: a sua volta ricco di esperienza, è
spesso raffigurato nelle miniature, nei rilievi e nelle vetrate con in mano un
compasso enorme, al contrario del Maestro che ha un compasso piccolo. Il
primo operava infatti in dimensioni reali sulle pietre, mentre l’altro utiliz-
zava lo strumento per disegnare le piante.
Un altro segno distintivo del Maestro è la verga, di cui si serviva sia
come strumento di misurazione sia per tracciare indicazioni tecniche sup-
pletive a quelle contenute nei disegni, sui modelli o sul terreno. Le pian-
te infatti erano semplici, sia perché, come esemplari unici, non dovevano
creare fraintendimenti al momento di copiarle o di ingrandirle, sia perché
l’analfabetismo degli operai non consentiva il ricorso a note scritte.

Lanfranco dirige i lavori di costruzione della cattedrale di Modena, miniatura da


Relatio translationis corporis Sancti Geminiani, ms. O.II.1 1, Modena,
Biblioteca Capitolare. Nella miniatura, l’architetto è raffigurato paludato e munito
della verga, circondato da assistenti, in atto di dirigere la posa delle fondamenta e,
di seguito, l’apparecchiatura dei muri, dando ordini alle maestranze, distinte in due
categorie fondamentali: operarii e artifices.
Pietre che gridano 209

La coesione pressoché iniziatica del gruppo che operava intorno al Ma-


estro trova spiegazione soprattutto nel linguaggio tecnico che costui impie-
gava nel tracciare i progetti, molto più personale di quanto accada oggi. I
sistemi di misura stessi erano poi estremamente vari e ogni Maestro aveva
le sue abitudini e le sue preferenze.
Gli operai erano addetti alle mansioni più semplici, mentre gli artefici, in
possesso di capacità tecniche avanzate, erano impegnati nella rifinitura del
taglio delle pietre, nella messa in opera delle pietre stesse o dei mattoni, o
in attività specializzate, come quelle di fabbro o di carpentiere.
Tra i collaboratori più stretti dell’architetto, oltre alla già citata figura
dell’apparecchiatore, si trovavano il maestro lapicida e il maestro carpen-
tiere, nonché il direttore delle opere di posa delle coperture (tetti).
Al cantiere architettonico si affiancava spesso quello degli scultori, che
lavoravano il marmo per gli arredi interni (altari, pulpiti, plutei e transen-
ne). Distinti in un primo momento dai lapicidi, cui era affidata la decorazio-
ne delle parti architettoniche (capitelli, cornici, portali ecc.), ne avrebbero
in seguito assunto i compiti, svolgendoli con sempre maggior prestigio e
indipendenza, fino a giungere alla creazione di un vero e proprio secondo
cantiere, con un’organizzazione parallela rispetto a quello architettonico.

Il cantiere degli scultori, sec. XIV, particolare del capitello del portale
meridionale della chiesa di Santa Maria Maggiore a Bergamo.
Il Maestro dirige il lavoro, progetta (tiene in mano il compasso) e sorveglia
l’esecuzione, mentre un primo lapicida inizia a sbozzare un blocco di pietra,
un secondo scultore lavora con martello e scalpello un capitello rovesciato
e un terzo ritocca un capitello già posto in opera.

Al pari, se non più dell’architetto, furono gli scultori a svolgere la fun-


zione di tramite tra la cultura empirica del cantiere e quella dotta della
committenza.
210 Squarci nel Medioevo

In risposta al movimento iconoclasta, la Chiesa, con il Concilio di Nicea


del 787, aveva infatti sancito che: «La composizione delle immagini non
è lasciata all’ispirazione degli esecutori; essa attiene ai princìpi posti dal-
la Chiesa cattolica e dalla tradizione religiosa. La tecnica sola appartiene
al creatore di immagini, mentre la composizione appartiene ai Padri». A
motivo di ciò, lo scultore medievale era tenuto a confrontarsi con teologi,
studiosi e con monaci colti e a consultare i manoscritti miniati conservati
nelle biblioteche abbaziali e capitolari per trarne corretta ispirazione.

12.7 Costruttori di cattedrali e Massoneria

Le società segrete sorte nel XVIII secolo aspiravano a richiamare, sul


piano simbolico, il modello di un’associazione chiusa, intesa a tramandare
conoscenze occulte a beneficio dei soli affiliati, nonché a promuovere fra
questi la più stretta collaborazione, la mutua assistenza e la subordinazione
a una gerarchia interna.
Intorno alle origini della Massoneria si vennero intessendo leggende che
attribuiscono la paternità dell’istituzione e del simbolismo massonico ai
templi biblici (come sostenne James Anderson nella storia premessa a The
Constitutions of the Free-Masons, Londra 1723) o ne volevano dimostrare,
di volta in volta, l’ideale discendenza dai pitagorici, dagli esseni, dai segua-
ci di Zoroastro, dai Caldei, quando non si ricorreva all’antichità cinese o
egiziana. Collegamenti forzati con teorie o istituzioni troppo lontane, nelle
quali, al più, si può riscontrare una comune tendenza al mistero e al simbo-
lismo, non giovano però a spiegare le origini massoniche. Come pure non
giovano l’affermata filiazione dai Templari, la connessione con gli eretici
medievali, con le accademie del Rinascimento, con la cosiddetta carta di
Colonia (1535), con i Rosacroce del sec. XVII, con gli Illuminati (di recente
“riscoperti” anche da Dan Brown): illusoria la discendenza dai primi; spie-
gabile con il riconoscimento di comuni indirizzi simbolici ed esoterici e di
scambievoli influenze l’esistenza di norme e riti simili a quelli massonici ne-
gli altri, alcuni dei quali, come gli Illuminati, sorsero quando la massoneria
già grandeggiava (1776). Risultati più attendibili hanno fornito le ricerche
sulla discendenza da precedenti formazioni di massoneria operativa, corpo-
razioni artigiane, specialmente muratorie, dalle quali nomi e riti sarebbero
poi passati al sodalizio speculativo. Anche qui, però, si è andati talvolta trop-
po lontano, affermando filiazioni sicure dai collegia dei Romani, dai maestri
comacini e dal compagnonnage medievale, istituzioni di mestiere con propri
ordinamenti e gerarchia, i cui aderenti s’impegnavano a mutuo soccorso ed
Pietre che gridano 211

erano forse vincolati dall’obbligo del segreto sui procedimenti tecnici, non-
ché forniti di qualche particolare segno di riconoscimento.
Più sicura la derivazione dalle associazioni muratorie germaniche e in-
glesi, dalle quali le logge massoniche avrebbero poi derivato simboli e riti,
le Bauhütten e le masons guilds, più particolarmente queste ultime, dalle
quali trasse origine, in Inghilterra, la massoneria simbolica. Gli statuti di
queste organizzazioni, i cui soci erano specialmente addetti alla costruzio-
ne di chiese, non riguardavano solo le regole per la tecnica lavorativa, ma
comprendevano norme etiche (rispetto nei confronti di Dio e della Chie-
sa, fedeltà al sovrano, obbligo di vita morigerata e di onestà scrupolosa
nell’esecuzione dei lavori ecc.) e imponevano il vincolo del segreto, che
superò presto la fase di tutela dei procedimenti tecnici per assumere un più
largo significato ritualistico.
Nel Regius Manuscript e nel Cooke Manuscript del sec. XV sono già pre-
cisati i doveri morali dei soci accanto alle norme tecniche. Speciali segni di
riconoscimento e il giuramento prestato sulla Bibbia dovevano contribuire
a legare i soci, che si riconoscevano fraternamente uguali e speculavano su
antiche e illustri origini della propria istituzione. Il contenuto tecnico cedette
però completamente il posto al simbolico solo molto dopo: era infatti il 24
giugno 1717, giorno di san Giovanni, patrono dell’associazione, quando a
Londra si formò la prima grande loggia della Massoneria simbolica. Furono
tra i fondatori il reverendo James Anderson, primo storico dell’organizzazio-
ne, John Desaguliers, filosofo e giurista, e John duca di Montagu.
La Massoneria, per sua stessa definizione, presume dunque di ispirarsi
all’eredità ideale dei costruttori di cattedrali. È certo che l’ampiezza del
mercato e la concorrenza abbiano sviluppato un precoce spirito corporati-
vistico nei vari gruppi di costruttori di cattedrali, rinforzato dai vincoli di
segretezza sulle tecniche e i procedimenti di cantiere; al pari, l’appropria-
zione della simbologia corporativa da parte della Massoneria settecentesca
ha però creato equivoci in merito alla vocazione esoterica dei costruttori
delle cattedrali.
Un’operazione analoga compì la Massoneria ispirandosi al simbolismo
della Qabbalah (tradizione) ebraica, espressione del pensiero mistico ebrai-
co sviluppatosi in Europa a partire dal VII-VIII secolo e alimentato dalla
tradizione trasmessa oralmente in comunità ristrette, dove si reclutavano i
primogeniti, preferibilmente tra i discendenti della tribù di Levi.
Già a partire dalla fine del Trecento, il racconto biblico della discenden-
za di Adamo si era arricchito di particolari, diventando stabile preambolo
di tutti gli Statuti dell’Ordine Muratorio operativo. Secondo la tradizione,
Jubal era ritenuto il fondatore della geometria e dell’arte muratoria, Tu-
212 Squarci nel Medioevo

balcain fondatore di tutte le arti del metallo, Jabal artefice di due colonne
(Jakin e Boaz) incise con i principi delle sette arti liberali, ritrovate intatte
dopo il Diluvio universale da Ermete Trismegisto e da Pitagora.

L’unanime desiderio degli antichi massoni di riconnettere le proprie ra-


dici alla tradizione ebraico-cabalistica si sostanziava poi anche di rituali,
di simboli, di parole considerate sacre e di passo, perdute e ritrovate. Dalla
tradizione cabalistica discende la leggenda della costruzione del Tempio
di Gerusalemme e dei suoi tre genii: Salomone, emblema della Sapienza,
Hiram re di Tiro simbolo della Forza, Hiram Abif della Bellezza (Hiram,
in ebraico, significa “spirito”).
Secondo la tradizione massonica, si deve a Hiram Abif, considerato il
grande architetto, la suddivisione degli operai in tre categorie (apprendisti,
compagni e maestri), dotate ciascuna di specifiche parole di passo per farsi
riconoscere e riscuotere il salario dovuto. La leggenda narra che, un gior-
no, tre compagni invidiosi, ritenendo di meritarsi il compenso dovuto ai
maestri, minacciarono Hiram perché gli fornisse la parola segreta riservata
al livello superiore. Il grande architetto naturalmente non cedette e, prima
di morire per le atroci violenze inferte, così ammonì i compagni: «Lavora,
persevera, impara. Solo così avrai diritto alla maggiore ricompensa!».
Più noti delle sue tradizioni sono però, ancora oggi, i simboli della Mas-
soneria.
La squadra massonica è formata dalla livella, orizzontale, e dal filo a
piombo, verticale, a sottolineare la necessità di equilibrare due elementi
contrastanti e tuttavia positivi se armonizzati tra loro. Inoltre, la squadra
intrecciata al compasso, nel grado di compagno, ricorda per forma e si-
gnificato il Sigillo o Esagramma di Salomone: gli strumenti intrecciati si-
Pietre che gridano 213

gnificano che il compagno massone ha raggiunto l’equilibrio tra materia e


spirito; il Sigillo di Salomone ricorda invece che, senza equilibrio tra forze
cosmiche antagoniste, nessuna manifestazione è possibile. Il pavimento a
mosaico, tra le due colonne Jakin e Boaz, riproduce l’alternanza di luce
e tenebre, tessute insieme, ma separate da tratti virtuali che formano un
cammino rettilineo, avente il bianco e il nero ora a destra ora a sinistra, che
è il cammino degli iniziati, la “via stretta”, più sottile del filo del rasoio.
Un ideale cammino di perfezionamento che ognuno deve percorrere con la
propria pietra sgrossata per costruire il Tempio.

12.8 La ruota della Fortuna

Il rosone, ossia l’elemento circolare con motivi raggianti, in genere di


marmo, collocato al centro della facciata della cattedrale per dare luce alla
navata centrale, è già adottato dall’architettura romanica, ma è solo in quel-
la gotica che ne vengono sfruttate al massimo le potenzialità espressive e
simboliche.
Alla riproduzione della rosa, da cui prende il nome, si associa quelle
della ruota, con riferimento al ciclo solare che segna per l’uomo i tem-
pi della vita e i ritmi della natura, nell’ordine immutabile del cosmo. Un
simbolismo che pare trascendere i confini europei e si ritrova nei mandala
buddhisti che racchiudono il loto, fiore al quale, in Occidente, corrisponde
appunto la rosa.

Il rosone della chiesa di S.Zeno a Verona (fine sec. XII) è decorato da


sei statue in alto rilievo che raffigurano le alterne vicende umane: l’uomo
saldamente seduto in trono che precipita schiacciato dalla sventura e poi
riprende la sua ascesi, creando la ruota della Fortuna. L’interno del rosone
214 Squarci nel Medioevo

ha un mozzo a dodici lobi e un centro diviso a sua volta in dodici settori


da raggi costituiti da coppie di colonne che uniscono il mozzo ai quattro
cerchi esterni, in marmo bianco e azzurro e in tufo. Nel mozzo del rosone
sono scolpiti due distici in latino che, tradotti, recitano: «Ecco, solo io, For-
tuna, governo i mortali; elevo, depongo, dono a tutti i beni e le disgrazie;
vesto chi è nudo, spoglio chi è vestito. Se qualcuno confida in me, rimarrà
deluso».
Al motivo della volubilità della Fortuna è dedicata anche una breve serie
di componimenti all’interno dei già citati Carmina Burana.

O Fortuna (canto 17)4

O Fortuna, O Fortuna
velut luna come la luna
statu variabilis, sei mutevole,
semper crescis senza sosta cresci
aut decrescis; oppure cali;
vita detestabilis la vita odiosa
nunc obdurat (che mi imponi) ora snerva
et tunc curat e ora aguzza
ludo mentis aciem, la (mia) mente con il gioco (alterno) della sorte,
egestatem, povertà
potestatem (e) ricchezza
dissolvit ut glaciem. dissolvi come ghiaccio.
Sors immanis Sorte crudele
et inanis, ed effimera,
rota tu volubilis, tu, ruota che gira,
status malus, condizione dolorosa,
vana salus ingannevole salute
semper dissolubilis, sempre precaria,
obumbratam nascosta
et velatam e velata
michi quoque niteris; incombi su di me
nunc per ludum (che) per il gioco
dorsum nudum il dorso nudo
fero tui sceleris. espongo alla tua malvagità.
Sors salutis La sorte né salute
et virtutis né successo
michi nunc contraria ora mi concede
est affectus indebolito
et defectus e stanco
semper in angaria. (vivo) in perenne schiavitù.

4 Carmina Burana cit., pp. 20-21.


Pietre che gridano 215

Hac in hora Ora


sine mora senza esitare
corde pulsum tangite, fate vibrare l’animo,
quod per sortem poiché a causa della sorte
sternit fortem, il forte è prostrato
mecum omnes plangite! insieme a me piangete!
Fortuna plango (canto 16)5
Fortune plango vulnera Piango per le ferite della Fortuna
stillantibus ocellis, con gli occhi stillanti (lacrime),
quod sua michi munera poiché i suoi doni mi
subtrahit rebellis. sottrae e (mi) è ostile.
Verum est, quod legitur, È vero, come si legge,
fronte capillata, (che la Fortuna) ha i capelli sulla fronte
sed plerumque sequitur ma spesso inseguita
occasio calvata. (ha) la nuca calva.
In Fortune solio Sul trono della Fortuna
sederam elatus, sedevo elevato,
prosperitatis vario dal variopinto fiore
flore coronatus; della felicità incoronato;
quicquid enim florui al colmo di ogni successo
felix et beatus, felice e beato,
nunc a summo corrui ora sono sprofondato in rovina
gloria privatus. privato della gloria.
Fortune rota volvitur: La ruota della Fortuna gira:
descendo minoratus; scendo sminuito;
alter in altum tollitur; un altro viene portato in alto;
nimis exaltatus enormemente innalzato
rex sedet in vertice il (nuovo) re siede al vertice
– caveat ruinam! - tema la rovina!
Nam sub axe legimus Infatti sotto la ruota declamiamo
Hecubam reginam. Ecuba regina6.

5 Carmina Burana cit., p. 20.


6 Nella mitologia greca, Ecuba era la sposa di Priamo, re di Troia, e madre di Ettore,
Paride, Cassandra e di altri sedici figli. Dopo la caduta della città, che segnò la
fine della guerra e la morte del sovrano, Ecuba ormai anziana venne fatta pri-
gioniera dai greci; intorno al suo destino si svilupparono varie vicende narrate
nelle tragedie di Euripide. Ne Le Troiane, venne destinata in schiava a Ulisse e
assistette all’uccisione del nipote Astianatte. Quanto alla sua morte, esistono tre
differenti versioni: fatta prigioniera, per la disperazione si gettò nell’Ellesponto
(odierni Dardanelli); morì per i maltrattamenti dei suoi rapitori; fu trasformata in
una cagna.
216 Squarci nel Medioevo

Principali opere citate

Carmina Burana, a cura di P. Rossi, Bompiani, Milano 1989.


M. BACCI, Investimenti per l’aldilà. Arte e raccomandazione dell’anima nel Me-
dioevo, Editori Laterza, Roma-Bari 2003.
M. BLOCH, Lavoro e tecnica nel Medioevo, trad. it. G. Procacci, Editori Laterza,
Roma-Bari 20044 (1959).
Cattedrali del mistero, a cura di A. Cerinotti, Giunti, Firenze 2005.
C. FRUGONI, Medioevo sul naso. Occhiali bottoni e altre invenzioni medievali, Edi-
tori Laterza, Roma-Bari 2004.
E. GARIN, Ermetismo del Rinascimento, Edizioni della Normale, Pisa 2006.
A.M. GHISALBERTI, Massoneria, voce dell’Enciclopedia Italiana fondata da Gio-
vanni Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. XXII, Roma, 1951, pp.
535-537.
J. LE GOFF, L’immaginario medievale, Editori Laterza, Roma-Bari, 20045.
O. VON SIMSON, La cattedrale gotica. Il concetto medievale di ordine, il Mulino,
Bologna 1997.
217

CAPITOLO 13
STRUMENTI DI RICERCA

13.1 La raccolta dei dati

Internet ha rivoluzionato, per lo più in positivo, il modo di condurre


una ricerca. Consultare indici e cataloghi on line (per l’Università degli
Studi di Milano: www.opac.unimi.it) consente di conoscere il contenuto e
la collocazione esatta di testi e documenti conservati negli archivi e nelle
biblioteche, ottimizzando i tempi della ricerca, ma non può né deve mai
sostituire la consultazione diretta delle fonti, anche bibliografiche.
Frequentare una biblioteca, soprattutto se a scaffali aperti, consente di
ampliare i confini della ricerca su un determinato argomento a quelli cor-
relati, spesso fisicamente contigui e, talvolta, indispensabili alla compren-
sione approfondita di una questione: non sempre, infatti, le opere riportano
nel titolo le parole chiave della nostra indagine e queste, soprattutto nella
fase iniziale, possono risultare ambigue o insufficienti.
Osservare un’opera d’arte, un manufatto, un documento direttamente
è assai differente che vederne la riproduzione, leggerne la descrizione o
scorrerne la trascrizione, quando non la sintesi, su internet. La ricerca, par-
ticolarmente nel settore delle scienze umanistiche, passa anche attraver-
so le sensazioni e le emozioni che solo un confronto con l’originale può
consentire e che non deve esaurirsi in un viaggio virtuale: i protagonisti
della storia e dell’arte erano fatti di carne, ossa, sangue e nel retaggio che
da loro, celebri o anonimi, abbiamo ereditato l’elemento materiale è tanto
importante quanto quello spirituale e intellettuale.
Assuefatti al web, capita poi sovente di trascurare gli strumenti base
di una buona ricerca: i dizionari e le enciclopedie che, invece, ne rappre-
sentano le indispensabili fondamenta. Ne esistono di tutti i tipi e per tut-
ti i settori di ricerca, anche se, per il nostro Paese, imprescindibile è la
consultazione delle voci dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni
Treccani e pubblicata dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, che ne cura
gli aggiornamenti e ha prodotto, dal secondo dopoguerra a oggi, una nu-
218 Squarci nel Medioevo

trita serie di sussidi collaterali: l’Enciclopedia dell’Arte antica classica e


orientale, l’Enciclopedia dell’Arte Medievale, l’Enciclopedia del Cinema,
il Dizionario Biografico degli Italiani e l’Enciclopedia Biografica Univer-
sale, solo per citarne alcuni.
Consultare un saggio scientifico, supportato da note e bibliografia, crea
una catena di rimandi che non va mai trascurata e talvolta occorre riper-
correre pazientemente per approfondire un determinato argomento che, da
inizialmente marginale, può trasformarsi in fondamentale.
Diventa allora essenziale procedere a una corretta e puntuale schedatura
delle fonti e della bibliografia consultate: affidarsi alla memoria per ritro-
vare, anche solo a distanza di pochi giorni, una citazione, un’immagine,
un documento che ricordiamo importanti è un’abitudine che si trasforma,
nel migliore dei casi, in una perdita di tempo e, talvolta, in un’operazione
votata a imperituro fallimento.
Per evitare frustrazioni pluridecennali, è pertanto consigliabile crearsi
uno schedario di lettura che comprenda schede (anche informatiche), pos-
sibilmente di ampio formato, dedicate ai libri, o agli articoli effettivamente
letti: su queste schede si possono riportare sunti, giudizi, citazioni e tutto
ciò che può servire a utilizzarne il contenuto al momento della stesura della
tesi e per la redazione della bibliografia finale.
Diverso è invece lo schedario bibliografico, dove andrebbero registrati
tutti i testi utili all’elaborazione della tesi, da portare con sé ogni volta che
ci si reca in archivio o in biblioteca. Le sue schede registrano solo i dati es-
senziali dei libri e degli articoli di interesse e la loro “collocazione”, magari
desunta tramite web.
Se fatti bene, con precisione e chiarezza, questi schedari possono essere
utilizzati e integrati anche per ricerche successive.
La scheda di un testo conservato in biblioteca deve riportare i seguenti
dati:
1. Biblioteca
2. Collocazione
3. Autore
4. Titolo completo
5. Luogo e anno di edizione.
Per gli articoli pubblicati in riviste, repertori o collezioni occorre inoltre
indicare:
a. Titolo completo della rivista
b. Annata
c. Numero della pagina iniziale e di quella conclusiva.
Strumenti di ricerca 219

13.2 Repertori, collezioni, glossari e trattati

Per l’età medievale si dispone di un repertorio di tutte le fonti narrative


edite e inedite dell’Occidente nella monumentale opera di August Potthast,
Bibliotheca historica Medii Aevi (Berlino 1896), ordinata alfabeticamente
per autore e seguita da un indice cronologico-geografico dei Paesi a cui le
opere citate si riferiscono. Ovviamente, poiché si sono avute nel frattempo
edizioni di nuove fonti inedite e riedizioni di fonti già edite, è in corso un
aggiornamento dell’opera, intitolata Repertorium fontium historiae Medii
Aevi, a cura dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo, correntemente
indicato come il Nuovo Potthast.
Per quanto concerne i diplomi imperiali, è stata avviata nel XIX se-
colo da Mühlbacher e altri studiosi la pubblicazione dei Regesta Imperii,
dall’epoca di Carlo Magno a quella di Massimiliano d’Austria: un’opera
che, non ancora terminata, vede i fascicoli più antichi già oggetto di corre-
zioni e aggiornamenti.
Per le bolle papali si dispone dell’opera curata da Philippus Jaffé, Re-
gesta pontificum romanorum, dall’anno 1 al 1198, e da Potthast, dal 1198
al 1304; mentre, per quanto concerne nello specifico la realtà italiana,
sono consultabili i Regesta pontificum romanorum. Italia pontificia di P.F.
Kher.
I Rerum italicarum scriptores sono 25 volumi in 28 tomi pubblicati tra
il 1723 e il 1751 da Ludovico Antonio Muratori, che raccolse le fonti nar-
rative (cronache e annali) della storia d’Italia dal 500 al 1500, tratte da
altre più antiche edizioni o da trascrizioni di testi inediti, fornitegli da suoi
corrispondenti in Italia e all’estero. Ormai invecchiata a fronte delle nuove
esigenze della moderna critica filologica, la collezione è in corso di ag-
giornamento costante a cura dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo.
Accanto alla riedizione, criticamente condotta, delle opere già pubblicate
dal Muratori, comprende l’edizione di nuovi testi. La nuova collezione si
cita con la sigla RR.II.SS., indicando in numeri romani il volume e in cifre
arabe la parte, mentre la vecchia edizione si cita semplicemente R.I.S., spe-
cificando il volume con numeri romani.
I Regesta chartarum Italiae, pubblicati sempre dall’Istituto storico ita-
liano per il Medio Evo, contengono invece il regesto – ossia il riassunto
preciso con l’indicazione di tutti i nomi di persona e di luogo citati – di atti
e documenti di archivi ecclesiastici e sono muniti di indici molto accurati.
Si citano con l’abbreviazione Reg.ch.It. seguita dal numero del volume.
Le Fonti per la storia d’Italia, pubblicate a partire dal 1887 dall’Istituto
storico italiano per il Medio Evo, comprendono cronache, epistolari, diplo-
220 Squarci nel Medioevo

mi, statuti, necrologi ecc. Si citano con la sigla F.I.S.I., indicando in cifre
arabe il numero del volume seguite dall’anno di edizione.
Di grande importanza per la storia medievale d’Italia è poi la collezione
tedesca dei Monumenta Germaniae Historica (M.G.H.), iniziata nel 1819
da una società privata sotto la direzione di Georg Heinrich Pertz. Nel 1873,
la società si trasformò in Istituto pubblico sovvenzionato dallo Stato. I Mo-
numenta comprendono ormai centinaia di volumi e il metodo di edizione
ha raggiunto con il tempo una perfezione tecnica esemplare.
I registri della cancelleria pontificia, importante fonte di storia non sol-
tanto ecclesiastica, sono in parte editi nei Monumenta Germaniae Histori-
ca, in parte in edizioni isolate e soprattutto nella Bibliothèque des Ecoles
françaises d’Athènes et Rome.
La Patrologie cursus completus. Series latina, pubblicata da Paul Mi-
gne, raccoglie in 217 volumi gli scritti dei Padri della Chiesa, di autori
ecclesiastici, lettere di pontefici, vescovi, abati e monaci. Anche se molti
dei testi sono stati stampati in maniera difettosa, si tratta di una collezione
comunque utile. Si cita come PL, indicando il numero del volume. Alla
Series latina fa riscontro la Series greca che si cita PG, sempre indicando
il numero del volume. Sussidi alla consultazione della PL sono gli Indici
(voll. 218-221 della collana), da integrare con l’Elucidatio.
Le Deputazioni di Storia Patria e le Società di Storia Patria delle varie
regioni d’Italia hanno pubblicato e pubblicano tutt’oggi numerose raccolte
di documenti. Meritano particolare citazione gli Historia Patriae Monu-
menta (H.P.M.), iniziati nel 1836 a Torino per volontà di Carlo Alberto
e curati dalla Deputazione subalpina di Storia Patria, e i Monumenti sto-
rici pubblicati dalla Deputazione veneta di Storia Patria. Per Milano e la
Lombardia si segnala la Società Storica Lombarda che, dal 1873, pubblica
l’Archivio Storico Lombardo: la rivista, ricca di trascrizioni di documenti
e di descrizioni di opere d’arte, nonché dotata di preziosi indici, consente
la consultazione di testimonianze talvolta altrimenti perdute.
Il lessico delle fonti latine medievali non è sempre di immediata com-
prensione, talvolta neanche per chi conosce bene il latino classico. Un utile
sussidio è fornito in tal senso dal Glossarium mediae et infimae latinitatis,
elaborato dall’erudito francese Ch. Du Fresne Du Cange nel XVIII secolo
e aggiornato nelle successive edizioni, l’ultima delle quali, a cura di L.
Favre, in 10 volumi (Niort, 1883-1887, ristampa Graz 1954).
Numerose località venivano poi indicate nel Medio Evo con nomi diffe-
renti dagli attuali. Può pertanto rivelarsi utile consultare P. Dechamps, Dic-
tionnaire de Géographie ancienne et moderne, Paris 1870 e I.G. Grasse,
Orbis latinus, Berlin 1909 (2ª edizione).
Strumenti di ricerca 221

Infine, problemi di corrispondenza fra il nostro sistema metrico e le mi-


sure utilizzate nel Medioevo possono essere risolti consultando A. Martini,
Manuale di metrologia, Torino 1883 e le Tavole di ragguaglio dei pesi e
delle misure, già in uso nelle Provincie del Regno, con il Sistema Metrico
Decimale, Roma 1887.

13.3 Le note al testo

I risultati di una ricerca vanno esposti nell’ordine logico richiesto dall’ar-


gomento. La buona conoscenza del contesto generale è sempre la guida mi-
gliore per rilevare e valutare i dati offerti dalle fonti specifiche. È necessa-
rio procedere con ordine e chiarezza nel condurre le proprie osservazione,
iniziando sempre dall’ipotesi di lavoro dalla quale si è partiti, anche se lo
studio diretto delle fonti conduce a risultati opposti a quelli che ci si atten-
deva, che vanno debitamente registrati e analizzati nelle conclusioni.
La trascrizione integrale o parziale di un manoscritto deve essere pre-
ceduta dalla descrizione del documento, comprendente il nome dell’autore
(se presente), il titolo del testo trascritto, la biblioteca o l’archivio in cui è
conservato, la segnatura, l’indicazione del materiale scrittorio (papiro, per-
gamena, carta), le eventuali illustrazioni e ornamentazioni presenti, la data
accertata o presunta. La trascrizione integrale di un documento isolato deve
essere preceduta dalla data e da un breve regesto che ne indichi il contenuto
e la collocazione archivistica1.
Poiché è opportuno mostrare di essere consapevoli dei limiti del contri-
buto che la propria ricerca reca alla ricostruzione generale di un determina-
to fenomeno risulta essenziale ancorare sempre le proprie argomentazioni
alle fonti e alla bibliografia consultata con note opportune, a fine capitolo o,
meglio, a piè di pagina. Se poi si cita una frase o un periodo, estrapolandolo
direttamente da un libro o da un documento, la nota diventa assolutamente
necessaria.
Le note devono essere numerate incominciando da 1: se poste a piè di
pagina, la numerazione sarà continua sino alla fine del testo; se poste a fine
capitolo, la numerazione può ricominciare da 1 a ogni capitolo. Nel testo
la nota va collocata possibilmente a fine periodo, oppure al termine della
frase o, se riferita a una citazione, immediatamente al termine della stessa.

1 Regole dettagliate sulla trascrizione erudita sono riportate in A. Pratesi, Elementi


di diplomatica generale, Bari s.a., pp. 95-107.
222 Squarci nel Medioevo

La prima citazione deve essere riportata per esteso. In generale, le cita-


zioni successive della medesima opera possono essere abbreviate nel tito-
lo, che deve comunque risultare sempre comprensibile, seguito da “cit.” e
da virgola, nonché dal numero specifico delle pagine cui si fa riferimento
nel testo; tuttavia, questi criteri possono variare in ragione del contesto
specifico di pubblicazione, delle esigenze editoriali o delle preferenze del
relatore.
Per le fonti narrative inedite si deve citare il nome dell’autore, se presen-
te, il titolo dell’opera, il foglio cui ci si riferisce, indicando con r il recto e
con v il verso del foglio, e, per la prima citazione, la collocazione archivi-
stica o bibliotecaria.
Per i documenti d’archivio, dopo la prima citazione per esteso, si abbre-
via il nome dell’Archivio ricorrendo alla sigla delle targhe automobilisti-
che (es. Archivio di Stato di Milano, ASMi), precisando sempre il fondo
archivistico, la busta (o cartella, mazzo, filza), la data del documento e il
suo eventuale numero. Se si tratta di un registro, il numero del registro e
del foglio, con l’indicazione recto o verso.
Se in due note consecutive si indica la stessa pagina della stessa opera, si
annota semplicemente ibidem. Se in due note consecutive si indica la stessa
opera ma una pagina diversa, si può semplicemente annotare ivi, seguito
dal numero di pagina.
Se in una stessa nota si cita più volte e di seguito il medesimo autore per
opere diverse, il nome si abbrevia con il maschile Idem (ID.) e il femminile
Eadem (EAD.), in maiuscolo o maiuscoletto.
Se in un’opera si tratta di un determinato argomento diffusamente e non
in sezioni o pagine specifiche, al posto dell’indicazione dettagliata delle
pagine si può utilizzare il termine passim.

13.4 La bibliografia e le citazioni in nota

La bibliografia, contrariamente a ciò che si sarebbe portati a credere,


riveste grande importanza in una tesi. Collocata in coda all’elaborato, deve
riportare tutte le fonti, edite e inedite, che sono state consultate per la reda-
zione del testo, siano esse referenziate (ossia esplicitamente citate) all’in-
terno della tesi o meno.
La bibliografia, in generale, è ordinata alfabeticamente in base al co-
gnome del primo autore o, nel caso di opere miscellanee, cataloghi o atti
di convegni, in riferimento alla prima parola (che non sia un articolo) del
titolo.
Strumenti di ricerca 223

Ogni citazione deve riportare:


– Autore/i: nome (anche puntato) e cognome
– Titolo completo dell’opera, compreso l’eventuale sottotitolo, in corsivo
– Casa editrice (per i libri): nel caso non ci fosse, ometterla
– Nome della rivista (tra virgolette), titolo in corsivo della miscellanea,
del convegno o del catalogo (per gli articoli), tutti preceduti da “in”
– Numero dell’annata (per le riviste) o del volume (per le opere in più
volumi)
– Luogo di edizione (per i libri, convegni e cataloghi): nel caso non ci
fosse, scrivere s.l. (senza luogo)
– Anno di edizione e numero dell’eventuale riedizione che si è consultata:
nel caso non comparisse, scrivere s.d. (senza data)
– Pagina iniziale e finale (per gli articoli)
– Traduzione: se il titolo era in lingua straniera ed esiste una traduzio-
ne italiana si specifica nome (puntato) e cognome del traduttore, titolo
italiano, luogo di edizione, editore, data di edizione, eventualmente il
numero di pagine.
Per facilitare la comprensione delle convenzioni che regolano una così
ampia casistica, si procede di seguito ad alcune esemplificazioni.

Per i documenti d’archivio, è sufficiente indicare l’Archivio, il fondo


consultato, la cartella e l’eventuale fascicolo o sezione. I riferimenti più
puntuali (mittente e destinatario, o attori e rogatario, nonché la data) ven-
gono forniti nelle note al testo quando si analizzano o utilizzano i docu-
menti:
Archivio di Stato di Milano (ASMi), Archivio ducale visconteo-sforze-
sco, Potenze Sovrane, cart. 1458, aa. 1465-1466.

La citazione di una fonte inedita manoscritta (ms. al singolare, al plu-


rale mss.) deve indicare la città e la biblioteca in cui si trova e fornirne la
segnatura:
PIETRO LAZZERONI, De nuptiis Imperatoriae Maiestatis, Milano, Biblio-
teca Braidense, ms. sec. XV, segn. AM.IX.16.

Citazione di una fonte edita:


JOHANNES SIMONETTA, Rerum gestarum Francisci Sfotiae, mediolanensis du-
cis, Commentarii, RR.II.SS., to. XXI, 2, a cura di G. Soranzo, Bologna 1959.
BONVESIN DA LA RIVA, Le meraviglie di Milano (De magnali bus Medio-
lani), a cura di P. Chiesa, Fondazione Lorenzo Valla, A. Mondadori Ed.,
Trebaseleghe (PD) 2009.
224 Squarci nel Medioevo

Per le collezioni più note non è necessario fornire il titolo per esteso,
ma basta la sigla (es. F.I.S.I., R.I.S., M.G.H., P.L.); per quelle meno note a
livello internazionale, conviene riportare il titolo per esteso e far precedere,
all’elenco delle fonti e delle opere, una legenda delle abbreviazioni utiliz-
zate nella bibliografia e nelle note al testo.

Citazione di una monografia:


L. CHIAPPA MAURI, Terra e uomini nella Lombardia medievale, Laterza,
Roma-Bari 20032.

Citazione di un articolo pubblicato in una rivista:


F. CHABOD, Di alcuni studi recenti sull’età comunale e signorile nell’Ita-
lia settentrionale, in «Rivista Storica Italiana», XLI (1925), fasc. I-II, pp.
19-47.
Invece di citare per esteso il titolo della rivista, si può abbreviarlo in
RSI, se la bibliografia è preceduta da un elenco delle collezioni più citate
e la rivista vi rientra.

Citazione di un articolo pubblicato in un volume miscellaneo del mede-


simo autore:
G. CHITTOLINI, Principe e comunità alpine, in ID., Città, comunità e feudi
negli stati dell’Italia centro-settentrionale (secoli XIV-XVI), Unicopli, Mi-
lano 1996, pp. 127-144.

Citazione di un articolo pubblicato in un volume miscellaneo curato da


un autore diverso:
N. COVINI,Tra patronage e ruolo politico: Bianca Maria Visconti (1450-
1468), in Donne di potere nel Rinascimento, a cura di L. Arcangeli e S.
Peyronel, Viella, Roma 2008, pp. 247-280.

Citazione di un articolo pubblicato nel catalogo di una mostra:


F.M. VAGLIENTI, Leonardo da Vinci e Cesare Borgia, in Il lasciapassa-
re di Cesare Borgia a Vaprio d’Adda e il viaggio di Leonardo in Roma-
gna, Catalogo della mostra, a cura di C. Pedretti, Giunti, Firenze 1993, pp.
9-13.

Citazione di un articolo pubblicato negli atti di un convegno:


C. LA ROCCA, Una prudente maschera «antiqua». La politica edilizia
di Teodorico, in Atti del XIII Congresso Internazionale di studi sull’alto
Medioevo (Milano 1992), Spoleto 1993, pp. 451-515.
Strumenti di ricerca 225

Citazione di una voce di enciclopedia o di dizionario enciclopedico:


D.M. BUENO DE MESQUITA, Bona di Savoia, duchessa di Milano, in Di-
zionario Biografico degli Italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana fonda-
ta da G. Treccani, vol. 11, Roma 1978, pp. 469-483.
Invece di citare per esteso il titolo dell’enciclopedia, si può abbreviarlo
in DBI, se la bibliografia è preceduta da un elenco delle collezioni più cita-
te e il dizionario vi rientra.

13.5 Suggerimenti conclusivi

Sebbene le preferenze varino da docente a docente, esistono alcuni prin-


cipi fondamentali che sarebbe buona prassi applicare nella redazione di un
elaborato triennale e, a maggior ragione, nella stesura di una tesi magistra-
le.
L’introduzione, o prefazione, esattamente come le conclusioni è l’ultima
parte dell’elaborato da redigere. Lontano dal ridursi a una mera elencazio-
ne riassuntiva degli argomenti trattati, la prefazione dovrebbe presentare
una sintesi efficace dell’obiettivo che ha ispirato la stesura dell’elaborato,
delle azioni che sono state intraprese per condurre l’indagine e degli esiti
raggiunti.
Poiché si tratta di elaborati prodotti nell’ambito di facoltà umanistiche,
un corretto utilizzo della lingua italiana non è facoltativo, ma rappresenta
un elemento di grande importanza nella valutazione complessiva del lavo-
ro. Assolutamente sconsigliato, poi, affidarsi alla trascrizione pedissequa di
parti delle opere consultate, in una sorta di operazione “copia incolla” che
non sfugge all’occhio addestrato del docente e contraddice all’obiettivo
finale che si propone un qualsiasi “elaborato”, proprio in quanto tale.
Sarebbe inoltre auspicabile applicare sempre le regole di un rigoroso
metodo, deduttivo o induttivo che sia, a secondo dell’argomento prescelto.
È opportuno infatti rammentare che il fine primario degli studi umanisti-
ci, a prescindere dalle specializzazioni, è di comunicare con un pubblico,
non necessariamente dotto o esperto. Condurre per mano il lettore lungo il
percorso di indagine intrapreso, evitando salti logici e rischiose omissioni,
senza diventare nel contempo pedissequo e ripetitivo, distingue il valore
strutturale di un elaborato ed evita al relatore, per primo, spiacevoli emi-
cranie.
226 Squarci nel Medioevo

Principali opere citate

I manuali pubblicati negli ultimi anni sull’argomento sono numerosi. Tra tutti si
segnala quello di U. ECO, Come si fa una tesi di laurea, Bompiani Milano 2001,
diventato ormai un classico nel suo genere. Utili anche C. CORSETTI, Piccola
guida alla tesi di laurea, Aracne, Roma 1992, e P. MELOGRANI, Guida alla tesi di
laurea, Rizzoli, Milano 1993.
S. TRAMONTANA, Capire il Medioevo. Le fonti e i temi, Carocci, Roma 2005.
AIRESIS
Collana diretta da Paolo Aldo Rossi e Massimo Marra

1. Al-Magriti Maslama, Picatrix. Il fine del saggio


2. Massimo Marra, Il pulicinella filosofo chimico di Severino Scipione (1681)
3. Giovanni Pierini, Venefici. Dalle Questiones medico legales di Paolo
Zacchia
4. Andrea De Pascalis, Massimo Marra (a cura di), Alchimia
5. Massimo Marra, Réné A. Schwaller De Lubicz, La politica, l’esoterismo,
l’egittologia
6. Paolo Aldo Rossi, Li Vigni Ida, Miconi Emanuela (a cura di), Sulle ali del
sogno
7. Ezio Albrile, Ermete e la stirpe dei draghi
8. Gioele Magaldi, Alchimia. Un problema storiografico ed ermeneutico
9. Paolo Aldo Rossi, Li Vigni Ida, Miconi Emanuela (a cura di), E farai in
modo che niuna strega viva
10. Paolo Aldo Rossi, Ida Li Vigni, Davide Arecco (a cura di), Oltre lo sguardo.
La fisiognomica e lo studio della natura umana
11. Massimo Angelini, Le meraviglie della generazione. Voglie materne, nascite
straordinarie e imposture nella storia della cultura e del pensiero medico in
età moderna (secoli XV-XIX)

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