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n. 12
FRANCESCA VAGLIENTI
SQUARCI
NEL MEDIOEVO
Tradizione e sperimentazioni
MIMESIS
Airesis
© 2012 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)
Collana Airesis, n. 12
ISBN 9788857508375
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INDICE
L’IDEA DI MEDIOEVO p. 15
MEDIOEVO E PERIODIZZAZIONE p. 43
SINCRETISMO DISCIPLINARE p. 95
CAPITOLO 1
UNA DISCIPLINA IN DIVENIRE
M. BLOCH, Apologia della storia o Mestiere di storico, a cura di G. Arnaldi, trad it.
G. Pischedda, Einaudi, Torino 19818.
15
CAPITOLO 2
L’IDEA DI MEDIOEVO
tendere, dell’ “età di mezzo”. Peraltro, nel latino del Bussi, “medio” poteva
significare tanto “intermedio”, quanto “meno antico”.
Anche altre espressioni, come “media antiquitas”, “media aetas” e, suc-
cessivamente, “medium aevum”, che ricorrono nel XV e XVI secolo riferi-
te a fatti, testi e autori letterari, ebbero tanto il senso di “intermedio” quanto
quello di “tardivo”, di “più recente” rispetto all’età classica.
Più pericoloso ancora l’equivoco che affonda le radici nell’abusato uti-
lizzo del termine “Rinascimento”. Da Giorgio Vasari (1511-1574) in avanti
il vocabolo «stette a significare la rinascita dell’arte, fu in sostanza un con-
cetto kulturgeschichtlich» (Franco Gaeta) e utilizzarlo in ambito diverso da
quello artistico-letterario genera fraintendimenti e falsi problemi. Secondo
Federico Chabod (1901-1960), la percezione di un’epoca nuova, raccolta
dal Rinascimento, è da ricondurre alla consapevolezza che i coevi avevano
delle strutture economiche, sociali e politiche del tempo e che si manifesta-
va nelle forme letterarie e artistiche, ossia nell’Umanesimo come espres-
sione culturale del Rinascimento.
Il concetto di Rinascimento nasce dunque in correlazione con il concetto
di Medioevo in una contrapposizione che diventa palese principalmente, se
non esclusivamente, quando si prendono in considerazione l’arte e le sue
manifestazioni.
Una più netta percezione dell’età di mezzo come periodo storico definito
e concluso maturò lentamente nel corso del Seicento, quando le monarchie
assolute affermatesi in Europa favorirono l’erudizione, utilizzata per esal-
tare le antichità della Chiesa, dell’istituzione monarchica e delle nazioni e
sostenuta da una matura sensibilità filologica, ispirata a criteri metodologi-
ci analoghi a quelli adottati nelle scienze matematiche e fisiche.
1 C.M. CIPOLLA, Allegro ma non troppo. Pepe, vino (e lana) come elementi deter-
minanti dello sviluppo economico dell’età di mezzo. Le leggi fondamentali della
stupidità umana, il Mulino, Bologna 1988, p. 14.
18 Squarci nel Medioevo
essenziale, del suo sviluppo, la cui evocazione serviva non solo a confer-
mare i vantaggi dell’evoluzione dei costumi e del pensiero, ma anche a
ricordare l’origine e i pericoli dell’oscurantismo.
L’opera di Voltaire ebbe grandissima eco e influenzò largamente il giu-
dizio comune sull’epoca; in parallelo, tuttavia, il Medioevo venne indivi-
duato come epoca di formazione della società europea anche in toni meno
polemici.
William Robertson (1721-1793), pastore protestante cultore di storia,
nella View of the Progress of Society in Europe from the Subversion of the
Roman Empire to the Beginning of the XVIth Century (1771), mostrò come
nel Medioevo si fossero potuti superare il disordine e la barbarie provocati
dalle invasioni e porre le basi della superiore organizzazione politica, eco-
nomica e civile dell’età moderna. Dalla barbarie si erano create situazioni
che avevano portato al suo superamento: così, le Crociate, se da un lato
erano state il prodotto del fanatismo e della violenza della società feudale,
dall’altro avevano determinato il contatto dell’Occidente con le superiori
civiltà orientali; le lotte tra il papato e l’impero avevano favorito l’emerge-
re delle libertà cittadine in Italia; il predominio culturale e sociale del clero
aveva prodotto la correzione del diritto barbarico attraverso quello eccle-
siastico. Anche per questa via, l’epoca medievale veniva interpretata non
solo come momento negativo della storia europea, in un’opposizione con-
flittuale di civiltà e barbarie, ma come fase genetica del mondo moderno.
Una considerazione originale dell’epoca medievale si trova nella Histo-
ry of the Decline and Fall of the Roman Empire di Edward Gibbon (1737-
1794), nobile inglese che, durante il suo Grand Tour nel Continente (1764),
fu colpito dal contrasto tra la grandezza dell’impero romano antico e le
rovine dell’Urbe e concepì il progetto di indagarne e narrarne la decadenza
in una prospettiva diversa: accogliendo una concezione già presente nella
storiografia seicentesca, Gibbon considerava l’impero bizantino come la
prosecuzione di quello romano e, pertanto, la sua narrazione si estese dal
II secolo d.C., apice della civiltà politica e morale dell’impero, fino alla
conquista di Costantinopoli da parte dei turchi nel 1453. L’epoca medieva-
le perde nuovamente il carattere autonomo e diventa parte di un più vasto
processo costituito dalla millenaria decadenza dell’impero romano; al pari,
decadono la prospettiva eurocentrica, dato che la maggior parte delle vi-
cende narrate si svolge in Oriente, e l’idea di un progresso, essendovi al
contrario descritta la lenta estinzione di un impero.
L’opera di Gibbon contiene quindi suggestioni nuove: originale l’idea
di indagare sulla decadenza di una civiltà, che implicitamente incrinava
la fiducia illuministica nel progresso storico; originale il risalto conferito
22 Squarci nel Medioevo
C.M. CIPOLLA, Allegro ma non troppo. Pepe, vino (e lana) come elementi determi-
nanti dello sviluppo economico dell’età di mezzo. Le leggi fondamentali della
stupidità umana, il Mulino, Bologna 1988.
P. DELOGU, Introduzione alla storia medievale, Milano 2003.
F. MERNISSI, L’Harem e l’Occidente, trad. it. R.R. D’Acquarica, Giunti, Firenze
2000.
S. TRAMONTANA, Capire il Medioevo. Le fonti e i temi, Carocci, Roma 2005.
CAPITOLO 3
INTERPRETAZIONI DEL MEDIOEVO
S’ode a destra uno squillo di tromba; a sinistra risponde uno squillo: d’ambo
i lati calpesto rimbomba da cavalli e da fanti il terren.
Quinci spunta per l’aria un vessillo; quindi un altro s’avanza spiegato: ecco
appare un drappello schierato;
ecco un altro che incontro gli vien.
Già di mezzo sparito è il terreno;
già le spade respingon le spade;
l’un dell’altro le immerge nel seno;
gronda il sangue; raddoppia il ferir.
- Chi son essi? Alle belle contrade qual ne venne straniero a far guerra; qual
è quei che ha giurato la terra dove nacque far salva, o morir?
- D’una terra son tutti: un linguaggio parlan tutti: fratelli li dice lo straniero:
il comune lignaggio a ognun d’essi dal volto traspar.
Questa terra fu a tutti nudrice
questa terra di sangue ora intrisa,
30 Squarci nel Medioevo
che, nel saggio Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295 (1899),
fece della lotta di classe la chiave di lettura della complessa vicenda costi-
tuzionale e sociale del comune fiorentino duecentesco.
Ancora oltre andò Gioacchino Volpe (1876-1971) che, nel suo volume
Medioevo italiano (1923), abbandonò le tesi marxiste per realizzare una
vasta e suggestiva ricostruzione della vita della società medievale italia-
na, basata su una personalissima capacità di intuire, soprattutto attraverso
l’esame della documentazione d’archivio, i grandi processi che avevano
come protagoniste le masse.
A partire dal 1880, con una serie di saggi (Il romanzo sperimentale; I
romanzieri naturalisti, 1881; Il naturalismo in teatro, 1881), Emile Zola
(1840-1902) definì la volontà del Naturalismo di produrre una letteratura
sperimentale.
Il significato della sperimentalità letteraria risiede in una più precisa ana-
logia colla sperimentazione scientifica. Giacché la scienza (la fisiologia),
per evidenti ragioni etiche, non può sperimentare sull’uomo, la letteratura,
secondo Zola, doveva supplire, almeno in un senso più o meno metafori-
co. Così Zola avrebbe voluto trasformare il romanzo realista in romanzo
sperimentale: «Le roman naturaliste [...] est une expérience véritable que
le romancier fait sur l’homme» (Le Roman expérimental). Riferendosi alla
metodologia sperimentale sviluppata da Claude Bernard, che consisteva in
un processo triadico composto da «sentiment», «raison» e «expérience»,
Zola attribuiva alla letteratura la competenza specifica del primo passo,
cioè del mondo ipotetico del «sentimento». O, detto in altre parole: il ro-
manziere che pretende di essere uno sperimentatore come il fisiologo deve
40 Squarci nel Medioevo
sempre partire da certezze scientifiche per sviluppare sulla loro base delle
ipotesi che saranno poi verificate o falsificate da nuove sperimentazioni
scientifiche.
Zola riteneva dunque che la funzione principale della letteratura doves-
se consistere in una sorta di cooperazione alla fisiologia sperimentale: in
un certo senso il suo aiuto alla scienza avrebbe significato l’anticipazione
fantastica di ipotesi che avrebbero poi potuto guidare il lavoro più lento e
certo più serio della sperimentazione vera e propria: «[...] dans notre roman
expérimental, nous pourrons très bien risquer des hypothèses sur les que-
stions d’hérédité et sur l’influence des milieux, après avoir respecté tout ce
que la science sait aujourd’hui sur la matière. Nous préparerons les voies,
nous fournirons des faits d’observation, des documents humains qui pour-
ront devenir très utiles» (Oeuvres critiques).
Il ruolo profetico che Zola reclamava per la letteratura si salva anche di
fronte alla scienza: la letteratura appare, in una nuova divisione del lavoro
intellettuale, ormai responsabile delle ipotesi da formulare e, di conseguen-
za, anche della direzione a cui il lavoro più specificamente scientifico viene
destinato. Un ruolo che, epurato dall’elemento fantastico, sentimentale, e
ricondotto sul piano razionale legato all’analisi degli accadimenti del pas-
sato, studiati con rigore scientifico e con l’apertura metodologica suggerita
dalla Scuola delle Annales, è opportuno che sia finalmente rivendicato dal-
la storia, una nuova «storia sperimentale» o “antropostoria”.
Le discipline correlate alla bioantropologia consentono infatti lo studio
della interazione complessa tra uomo e ambiente (naturale e artificiale) in
cui ogni società, nel passato come nel presente, si trova immersa. L’analisi
delle condizioni materiali in cui vivevano le società del passato, oltre a
favorire una migliore comprensione dei fenomeni storici, soprattutto eco-
nomici, sociali e culturali, ricostruendo alimentazione, patocenosi (insieme
delle malattie che caratterizzano un gruppo di individui), attività occupa-
zionali, gruppi razziali e familiari, apporta dati di fondamentale interesse
per il settore della moderna ricerca epigenetica, che esamina le modalità
con cui i geni interagiscono con l’ambiente, e biomedica, orientata ad ana-
lizzare l’epoca di insorgenza e le modalità di diffusione e di evoluzione di
alcune importanti malattie, ancora attuali, come quelle infettive, articolari
o il cancro.
La Sezione di Antropologia fisica e Ricerca storica del Centro Inter-
dipartimentale di Ricerca e Servizi per i Beni Culturali dell’Università
degli Studi di Milano, coordinata dalla professoressa Cristina Cattaneo e
dall’Autrice, si propone lo studio l’analisi e la comparazione di fonti di
natura biologica, storica e artistica (www.antropostoria.unimi.it).
Interpretazioni del medioevo 41
CAPITOLO 4
MEDIOEVO E PERIODIZZAZIONE
1 G. SERGI, L’idea di Medioevo. Fra storia e senso comune, Donzelli, Roma 2005.
44 Squarci nel Medioevo
L’anno 476, termine a quo che tradizionalmente segna la fine del mon-
do antico, perde in questa nuova prospettiva di significato. La deposizione
dell’ultimo imperatore romano d’Occidente concludeva l’esperienza istitu-
zionale creata, quasi due secoli innanzi, da Diocleziano e Costantino, ma non
ebbe particolare risonanza tra i contemporanei, che caso mai avvertirono una
cesura storica negli anni intorno alla metà del V secolo, quando si consumò
la separazione politica della parte orientale dell’impero da quella occidentale
e divenne concreta l’evidenza dell’inarrestabile dilagare dei barbari, con il
sacco di Roma del 410 compiuto dai Goti e con quello del 455 dai Vandali.
Come argutamente riassume Cipolla: «una delle più gravi tragedie vis-
sute dall’Europa nei secoli dei secoli fu la caduta dell’Impero Romano. A
quei tempi, come spesso accade nelle vicende umane, molti non ne avver-
tirono la gravità. Buona parte dei cittadini di Cartagine si stava godendo i
giochi nell’anfiteatro, quando la città fu attaccata dai Vandali, e i nobili di
Colonia erano a banchetto, quando i barbari arrivarono alle porte. Altri, in-
46 Squarci nel Medioevo
2 C.M. CIPOLLA, Allegro ma non troppo. Pepe, vino (e lana) come elemeti deter-
minanti dello sviluppo economico dell’età di mezzo. Le leggi fondamentali della
stupidità umana, il Mulino, Bologna 1988, p. 11.
3 Ivi, pp. 11-12 n.
Medioevo e periodizzazione 47
sia stato determinato dalle pessime relazioni con i nativi americani, da con-
flitti relativi alle donne (15 in rapporto a un gruppo di 135 uomini) e dagli
inverni comunque particolarmente rigidi.
C.M. CIPOLLA, Allegro ma non troppo. Pepe, vino (e lana) come elementi determi-
nanti dello sviluppo economico dell’età di mezzo. Le leggi fondamentali della
stupidità umana, il Mulino, Bologna 1988.
P. DELOGU, Introduzione alla storia medievale, Milano 2003.
G. SERGI, L’idea di Medioevo. Fra storia e senso comune, Donzelli, Roma 2005.
S. TRAMONTANA, Capire il Medioevo. Le fonti e i temi, Carocci, Roma 2005.
55
CAPITOLO 5
ANTROPOSTORIA:
ANTROPOLOGIA FISICA E RICERCA STORICA
1 F.M. VAGLIENTI, Anatomia di una congiura. Sulle tracce dell’assassinio del duca
Galeazzo Maria Sforza tra scienza e storia e C. CATTANEO, D. PORTA, Indagini antro-
pologico-forensi effettuate sul cranio, in «Atti dell’Istituto Lombardo. Accademia di
Scienze e Lettere di Milano», vol. 136 (2002), fasc. 2, Milano 2004, pp. 237-273.
56 Squarci nel Medioevo
leazzo (...)»3. Come sostenere che, al di là del merito - non suo - di essere
stato messo al mondo, e del demerito - questo sì tutto suo - di essersi fatto
uccidere, niente di quanto da lui compiuto in oltre trent’anni di vita valesse
la pena o fosse opportuno ricordare: una sconcertante reticenza, durata gli
stessi cinque secoli di anonimato dei reperti di Sant’Andrea di Melzo. Chi
era, dunque, Galeazzo Maria?
6 Sul tema, cfr. R. GRAND – G. DELATOUCHE, Storia agraria del Medioevo, Milano
1968, in particolare alle pp. 491-548; M. MONTANARI, La fame e l’abbondanza.
Storia dell’alimentazione in Europa, Laterza, Roma-Bari 1993; Storia dell’ali-
mentazione, a cura di M. Montanari, J.L. Flandrin, vol. I, Laterza, Roma-Bari
1997; B. BARTOLI, A. BACCI, Regime alimentare nei gruppi umani del passato, in
Non omnis moriar, a cura di F. Mallegni, B. Lippi, Roma 2009, pp. 201-219.
7 F.M. VAGLIENTI, Abbiategrasso, culla di stirpe ducale, in Abbiategrasso, a cura di
P. De Vecchi e G. Bora, Le vetrine del sapere n. 4, Skira, Milano 2007, pp. 233-
262.
8 Un dettagliato carteggio, relativo allo stato di salute di Galeazzo Maria e dei
fratelli, è conservato in Archivio di Stato di Milano, Archivio ducale visconteo-
sforzesco, Potenze Sovrane, cart. 1459.
9 Sul ruolo dei protofisici ducali nel monitorare continuamente la salute degli eredi
Sforza, cfr. M. FERRARI, “Per non manchare in tuto del debito mio”. L’educazione
dei bambini Sforza nel Quattrocento, Milano 2000, pp. 105-107.
10 Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, Carteggio degli Inviati e diver-
si, cart. 1623 (anni 1467-1470).
11 Archivio di Stato di Milano, Archivio ducale visconteo-sforzesco, Potenze Estere,
cart. 218 e, ivi, Potenze Sovrane, cart. 1461.
Antropostoria: antropologia fisica e ricerca storica 59
Forse proprio per liberarsi dallo stato di ansia perenne che lo opprimeva
nell’esercizio del potere politico, lo Sforza amava cimentarsi fisicamente,
talvolta con i fratelli, in tenzoni neanche troppo simulate, stando agli spo-
radici resoconti coevi che citano contusioni e ferite più o meno superficiali
riportate dai contendenti, nonostante le raccomandazioni del padre France-
sco di «non schirzare con ferri, sarizi o bastoni»12.
Sul cranio ritrovato a Melzo, si è riscontrata una serie di lesioni che, esiti di
traumi pregressi la morte, con successivo rimodellamento della ferita, è impu-
tabile ad armi da asta e da botta, inducendo a ritenere come il soggetto, in vita,
fosse avvezzo a praticare l’esercizio delle armi, per svago o per mestiere.
ramuza fin le IIII° hore de nocte [circa le 22.00] et non altramente che se
la fosse stata una vera scaramuza»15. È probabile come in questa, e forse
decine di altre occasioni consimili, i contendenti abbiano riportato traumi
anche rilevanti, sebbene non mortali.
coste, piastre in ferro triangolari dotate talora di una punta acuminata. L’azza era
un’arma da botta e da punta, infissa in un manico lungo poco più di un metro, con
all’estremità un ferro trasversale foggiato a martello da un lato e a punta dall’altro.
Il martello d’arme era un’arma da botta infissa in un manico di legno o di ferro,
simile all’analogo moderno utensile. Cfr. G. DE FLORENTIIS, Storia delle armi bian-
che cit., p. 106.
15 Archivio di Stato di Milano, Archivio ducale visconteo-sforzesco, Potenze Sovra-
ne, cart. 1461.
16 Archivio di Stato di Milano, Archivio ducale visconteo-sforzesco, Registri delle
Missive, cart. 113, ff. 4-6.
Antropostoria: antropologia fisica e ricerca storica 61
infatti una configurazione tale da attestare che la frattura non è stata pro-
vocata da fattori post-mortem. La grave lesione ha pertanto determinato,
forse insieme ad altre, il decesso del soggetto.
Essendo nel mezo della chiesa […] quello traditore di Giovanni Andrea
[Lampugnani] li misse [al duca] tutto il pugnale nel corpo18. El povero signore
si li misse le mani19 e disse: io son morto! Illo ed eodem stante, lui [il Lampu-
gnani] reprichò l’altro cholpo nello stomacho; li altri dua [congiurati, Gero-
lamo Olgiati e Carlo Visconti] li dierono quatro cholpi: primo nella ghola dal
canto stancho20, l’altro sopra la testa21 stancha, l’altro sopra al ciglio nel polso22,
seno sfenoidale e delle fosse nasali, favorendo probabilmente anche il distacco tra
osso frontale e zigomatico.
23 Il termine “fianco” (dal francese antico “flanc”, ala esterna di un esercito) è di
interpretazione ambigua, potendo ugualmente indicare sia il “lato” posteriore (di
drieto) del cranio, coincidente con la zona occipitale, sia la parte laterale dell’ad-
dome (nel senso odierno attribuito al termine), cfr. A.J. GREIMAS – T.M. KEANE,
Dictionnaire du moyen français. La Renaissance, Larousse, Paris 1992. Tuttavia,
poiché i due congiurati, che agivano all’unisono infierendo sul lato sinistro del
corpo del duca, continuarono a colpire la vittima anche quando la stessa cadde
a terra in posizione seduta, come affermato oltre, è molto probabile che anche
questa ferita mortale, l’ultima in ordine temporale, sia stata portata al cranio, in
quanto maggiormente esposto rispetto al resto del corpo ormai accasciato; inol-
tre, se si trattasse del lato dell’addome, risulterebbe incongruente specificare “di
dietro”.
24 per insino, ossia “anche quando”.
Antropostoria: antropologia fisica e ricerca storica 63
Ciò tuttavia presuppone che vi sia a monte un’immagine più reale possibile
della persona in vita, cui si sospetta appartenga il cranio.
Nel caso di soggetti storici, non è possibile applicare in maniera scienti-
fica e precisa tale metodica, dal momento che, non essendovi a disposizione
immagini fotografiche bensì ritratti alquanto soggettivi, è impossibile ave-
re la certezza sulla veridicità di uno specifico tratto. È tuttavia plausibile
effettuare un confronto più grossolano, ma scientificamente più onesto, tra
la fisiognomia del volto del soggetto storico con quella del volto ricostruito
dal cranio. Per fare ciò, è necessario procedere alla ricostruzione facciale.
25 Memorie storiche della diocesi di Milano, vol. VIII, Milano 1961, p. 324.
26 Ibidem.
72 Squarci nel Medioevo
del retro coro, vicino a quella del fratello Giovanni Maria27. Nel marzo
1466, quando Francesco Sforza morì improvvisamente, le gravi circostan-
ze politiche che minacciavano la successione al ducato del giovane Gale-
azzo Maria, impegnato militarmente in Francia e poi oggetto di un agguato
e di un prolungato assedio nell’abbazia della Novalesa28, consentirono sì
alla duchessa reggente Bianca Maria Visconti di seppellire il coniuge con
grande pompa in duomo, ma anche in tutta fretta, rinviando a tempi più
sereni la realizzazione di un sepolcro marmoreo che, in realtà, nessuno
dei successori del condottiero sarebbe mai riuscito a far realizzare29. Ne
discende che, con tutta probabilità, le spoglie di Francesco Sforza vennero
tumulate nel sarcofago del suocero. Bianca Maria, morta nel 1468, venne a
sua volta sepolta insieme al padre, Filippo Maria, e al marito. Tutti, come
testimonia il buono stato di conservazione dei cadaveri a cent’anni dalla
sepoltura, subirono un qualche processo di imbalsamazione: una pratica
tornata in auge a partire dal XIII secolo presso le dinastie regnanti e legata
al cerimoniale del doppio funerale e al passaggio dei poteri sovrani30.
Ora, a prescindere dall’errore nel nome attribuito al terzo corpo, identi-
ficato come Gian Galeazzo e non, eventualmente, come Galeazzo Maria, e
nella data della sua morte (confusione forse dovuta allo stile di datazione
detto della “Natività”, in uso a Milano sin dall’XI secolo e che faceva coin-
cidere l’inizio dell’anno con il 25 dicembre e non con la data della Circon-
cisione), è assodato che tra la morte e la sepoltura di Galeazzo Maria Sfor-
za non vi furono i tempi tecnici, oltre che la volontà politica, di procedere
all’imbalsamazione del cadavere, peraltro pesantemente danneggiato dalle
ferite infertegli nel corso dell’assassinio. Un primo problema, dunque, di
portata non indifferente, nasce dall’eccellente stato di conservazione delle
salme, constatato, da testimoni oculari, al momento dell’apertura dell’arca
ducale.
morto corpo dil principe fu portato nel magior templo de Maria Vergine e
tumulato in mezo de due colonne, levato da terra ad alto, ne l’ordine de li
altri antecessori suoi»34, ebbene all’appello manca un cadavere.
In ragione dei termini precisi utilizzati dai due testimoni oculari alla
cerimonia di sepoltura di Galeazzo Maria Sforza, sono infatti pochi i dubbi
sulla sede della sua tumulazione iniziale: da Zaccaria de’ Saggi viene espli-
citamente citata «la cassa medesima del signor suo patre», ossia un’arca
lignea che, tramite le osservazioni del Monti e le parole del Corio – «tu-
mulato in mezo de due colonne, levato da terra ad alto, ne l’ordine de li
altri antecessori suoi» -, sappiamo costruita per Filippo Maria Visconti e
poi destinata ad accogliere le spoglie del genero, della figlia e del nipote
assassinato. Quattro salme nel 1476, che sono diventate tre nel 1565.
Così, mentre sarebbe risultato politicamente ingiustificato per i succes-
sori del quinto duca di Milano pensare alla traslazione del corpo dell’ul-
timo Visconti, garante della legittimità della nuova dinastia sforzesca, op-
pure del duca Francesco, fondatore della stessa, o tanto meno di Bianca
Maria Visconti, vincolo istituzionale tra le due casate, l’unico personaggio,
ospite scomodo dell’arca ducale e la cui assenza non solo non sarebbe stata
notata, ma avrebbe favorito i piani di chi voleva fosse dimenticato al più
presto, è proprio Galeazzo Maria «per non fare altra dimostratione ove el si
sia et acciò che in posterum non se possi mostrare a dito».
Ipotizzare dunque che le spoglie del defunto duca di Milano siano state
trasportate a Melzo, nel feudo comitale della potente e ricca Lucia Marlia-
ni, sua privilegiatissima amante35, per offrirgli una degna, anche se discreta
sepoltura, non è del tutto privo di legittimità.
CAPITOLO 6
LE FONTI VISIVE TARDO MEDIEVALI:
DA STRUMENTO DI PROPAGANDA
A STRUMENTO DI RICERCA
semplice, fornita dal semiologo tedesco Erwin Panofsky nel suo saggio del
1955, poi tradotto in italiano con il titolo Il significato nelle arti visive3.
Sinteticamente, lo studioso individua tre livelli di lettura:
1. il livello preiconografico, in cui si riconosce il soggetto primario o natu-
rale, che si applica «identificando pure forme cioè: certe configurazioni
di linee e colori o certi blocchi di bronzo o pietra modellati in un modo
particolare, come rappresentazioni di oggetti naturali, esseri umani, ani-
mali, piante, case, utensili, ecc.»4. Il mondo delle pure forme che così
riconosciamo è il mondo dei motivi artistici.
Questa attività di riconoscimento si basa essenzialmente sulla nostra espe-
rienza pratica, ma può accadere che un certo tipo di rappresentazione
(per esempio, un oggetto staccato dal suolo) sia stato utilizzato in un
certa epoca per indicare non quello che si potrebbe definire il suo “signi-
ficato letterale” (in questo caso un oggetto che si libra in aria), ma, piut-
tosto, un’apparizione. È allora necessario, per non cadere nell’inganno
dell’interpretazione “letterale” che la nostra esperienza ci propone, ri-
correre a una storia degli stili, che funga da fattore di controllo della
descrizione preiconografica.
2. Il passo successivo è quello dell’analisi iconografica, che permette, per
esempio, di riconoscere in un uomo nudo, con una mela in mano, non un
maniaco sessuale che insidia i bambini in un parco, ma Adamo. «I moti-
vi riconosciuti per questa via come portatori di un significato secondario
o convenzionale possono essere chiamati immagini e le combinazioni
di immagini sono ciò che gli antichi chiamavano invenzioni; noi siamo
portati a chiamarle ‘storie’ e ‘allegorie’»5.
La base dell’analisi iconografica si fonda sulla conoscenza delle fonti
sulle quali si basano le raffigurazioni pittoriche e, quindi, sui testi docu-
mentari, letterari e sulla tradizione orale. La conoscenza delle fonti non
è tuttavia sufficiente. Ci sono dei casi, infatti, in cui la rappresentazione
non è stata fedele al testo e, ad esempio, elementi di un tipo sono stati
inseriti nella raffigurazione di un altro tipo. È necessaria dunque una
storia dei tipi, una storia cioè dei differenti modi in cui, col tempo, «temi
specifici o concetti sono stati espressi in oggetti ed eventi»6.
3. Si arriva così all’ultimo livello, quello iconologico, in cui viene inda-
gato il significato intrinseco o il contenuto. «Lo si apprende indivi-
dell’arte che può interagire con le altre scienze umane. Per uno studioso di
storia muoversi nell’ambito iconologico è però sovente come navigare in
un insidioso oceano popolato da mostri marini.
Tra i secondi, si deve annoverare il diverso significato che uno stesso
termine può aver assunto nel corso della sua secolare evoluzione linguisti-
ca, talvolta sino a finire per esprimere un concetto opposto all’originario. E
in queste trappole possono cadere anche i grandi studiosi: così, si confon-
de Adriano Prosperi quando attribuisce a Cennino Cennini l’aver intuito
l’importanza dell’osservazione anatomica nell’insegnamento impartito dal
pittore ai suoi discepoli che «la più perfetta guida che possa avere e miglior
timone sia la trionfal porta del ritrarre al naturale»10, perché l’espressio-
ne, come molto ben evidenziato da Marco Albertario, non presupponeva
all’epoca alcun apprezzamento per il verismo, quanto piuttosto l’adegua-
mento a modelli consolidati dalla tradizione artistica11.
Nella Milano di fine Quattrocento, era nel riferimento a un modello uni-
forme alla ritrattistica ufficiale che si riconosceva il significato dell’espres-
sione «retracto al naturale» (con le varianti «tracto dal naturale» o «cavato
dal naturale») che ricorre spesso nei documenti del periodo. Nulla pertanto
garantisce che l’espressione «retracto al naturale» implicasse, secondo la ter-
minologia entrata poi in uso nella critica d’arte del Cinquecento, la presenza
del soggetto ritratto: si trattava, più semplicemente, del ritratto somigliante
a un modello, fosse questo una persona, un dipinto, un disegno o un altro
oggetto d’arte». Il suo opposto era la pittura basata sull’«invenzione»12.
molto cauti nell’utilizzo delle fonti, soprattutto intenzionali. L’idea poi che
nell’aspetto fisico si riflettesse l’indole fulgida o perversa di un personaggio
e che alla bontà sia associata la bellezza (kalokagathìa) affonda le proprie
radici nella concezione estetica della Grecia classica e talvolta ha talmente
ben attecchito da condizionare ancora oggi l’immaginario collettivo.
Più affidabili, in genere, i documenti indiretti, soprattutto i carteggi di-
plomatici e privati, che, quando prodotti con finalità diverse da quelle ce-
lebrative o denigratorie, riportano notizie attendibili sull’aspetto fisico, le
condizioni di salute e il carattere di personaggi storici.
Tra i primi a fornire una descrizione fisica di Riccardo III fu John Rous,
al servizio della casata di Warwick, che nella sua Historia Regum Angliae,
composta tra il 1489 e il 1491, instillava nei lettori il dubbio sulla mostruo-
sità fisica, oltre che morale, del sovrano usurpatore dando avvio al fenome-
no che Kendall ha definito “Tudor myth”: «nato dopo una gestazione di due
anni, con una chiostra di denti completa, i capelli lunghi fino alla schiena e
la spalla destra più alta della sinistra»13. Non così il ritratto che di Riccardo
III diedero due suoi contemporanei: l’ambasciatore tedesco Nicolas von
Poppelau, che lo descrisse «alto e snello, con braccia lunghe e sottili», e la
contessa Caterina di Desmond, che ebbe occasione di ballare con il princi-
pe, all’epoca ancora duca di Gloucester, e lo definì «il più bell’uomo della
sala, fatta eccezione per il fratello Edoardo»14.
A canonizzare l’immagine mostruosa dell’ultimo monarca York contri-
buì per converso, nella sua History of King Richard III, considerata pietra
miliare nella storia della prosa inglese, Thomas More, fedele consigliere
della nuova dinastia Tudor ascesa al trono in seguito alla vittoria di Bo-
sworth, fornendo un ritratto “fisico-morale” del sovrano sconfitto che,
ribadito dall’opera drammaturgica di Shakespeare, condiziona tutt’oggi
l’immaginario collettivo sul potente personaggio: «piccolo di statura, dagli
arti deformi, gobbo, con la spalla sinistra più alta della destra, dai linea-
menti duri e bellicosi a livelli estremi. Era malvagio, collerico, invidioso
da prima della nascita alla morte. […] Era introverso e pieno di segreti, un
grande ipocrita, privo di autocontrollo, dal cuore arrogante, esteriormente
amichevole mentre nell’intimo odiava, non esitava a baciare chi intendeva
uccidere, spietato e crudele, non solo per il male che sempre perseguiva ma
anche per ambizione e soprattutto per accrescere il proprio prestigio»15.
13 Storia del mondo medievale, a cura di Z.N. Brooke, Ch.E. Previté-Orton, J. Rob-
son Tanner, VII, Cambridge University Press, Garzanti, Milano 1981, p. 532.
14 J. HARVEY, I Plantageneti, trad. it. M. Vassalle, Dall’Oglio, Varese 1965, p. 272.
15 THOMAS MORE, The History of King Richard the Third, in P.M. Kendall, Richard
III. The great debate, New York-London 1965, p. 35; C. CAPPELLETTI, Riccardo
80 Squarci nel Medioevo
III fra storia e teatro shakespeariano, Tesi di laurea in Scienze dei Beni Culturali,
Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Milano, a.a. 2007-2008,
relatore F. Vaglienti, p. 25.
Le fonti visive tardo medievali: da strumento di propaganda a strumento di ricerca 81
o il suo setto nasale tanto allargato e incavato alla radice; anche la guancia
sinistra ha subìto un affinamento, a rendere il volto più affilato. Tutta una
serie di piccoli ritocchi strategici, volti ad affermare la teoria della deformità
fisica e caratteriale di Riccardo, sostenuta dai Tudor per delegittimare l’av-
versario e i suoi fautori e consolidare il trono di recente conquistato; ritocchi
cui, molto probabilmente, si piegò lo stesso artista esecutore originale della
copia, per soddisfare le aspettative della nuova dinastia committente.
Perfino il ritratto del sovrano conservato dalla Society of Antiquaries,
di fattura molto più modesta del precedente, presenta ritocchi successivi,
che il recente restauro ha evidenziato: la linea orizzontale tra le labbra,
infatti, era stata lievemente alzata, per conferire al volto un aspetto più
determinato, mentre la linea tra spalla e capigliatura forniva l’impressione
di un’inclinazione innaturale non presente nell’originale.
vi compare ritratto con la barba. Anche nella tavola, conservata al Louvre dal
1814 (inv. 309) ma realizzata per la chiesa di San Francesco di Pisa tra il 1295
e il 1300, di poco posteriore all’opera assisiate, il santo è raffigurato con la
barba, emaciato, reso serissimo dalla piena consapevolezza delle conseguen-
ze, sia dottrinarie sia fisiche, che il dono delle stigmate avrebbe comportato:
un ritratto che, oltre a risentire, nella fattezza dei volti, dell’eredità bizantina,
rispecchia la descrizione del santo fornita dai suoi seguaci e contemporanei,
testimoniata da una ininterrotta serie di immagini duecentesche.
Dalla metà del XIV secolo, dopo la repressione delle frange estreme
del movimento Spirituale, i Minori che pretendevano di difendere l’inter-
pretazione autentica della Regola, pur senza scontri diretti con l’autorità
ecclesiastica, assunsero il nome di Osservanti. Al movimento dell’Osser-
vanza diedero grande prestigio e diffusione frate Bernardino da Siena e i
frati Giovanni da Capestrano, Giacomo della Marca e Alberto da Sartea-
no, noti sin dalla seconda metà del Quattrocento come “le quattro colonne
dell’Osservanza”, in grado di orientare le scelte del pontefice in favore del
movimento a discapito dei Conventuali18.
Bernardino da Siena (al secolo Bernardo Albizzeschi, nato a Massa Ma-
rittima l’8 settembre 1380 e deceduto all’Aquila il 20 maggio 1444) è con-
siderato il tramite più rappresentativo del passaggio dall’eremo alla città da
parte degli Osservanti dell’Italia centrale. Le innovazioni retoriche da lui
introdotte provocarono un afflusso straordinario di pubblico: per ascoltare
le sue prediche i fedeli dovevano radunarsi in piazza, non essendo le chiese
sufficientemente capienti, e, non disponendo di mezzi adeguati di ampli-
ficazione della voce, venivano issati palchi da cui farlo parlare, studiando
con banderuole la direzione del vento, per poter così collocare le strutture
in luoghi atti a favorirne l’ascolto.
Gli argomenti trattati toccavano questioni molto sentite nella società,
come il tema dell’usura, e affrontavano aspetti della vita economica cittadi-
na di grande attualità: venivano difesi la proprietà privata, l’etica del com-
mercio, la determinazione del valore e del prezzo e l’operato dei mercanti
onesti. L’attivismo pastorale del predicatore senese era rivolto decisamente
alla società civile, considerata l’oggetto primo di un messaggio etico-re-
ligioso di stampo conservatore, destinato a restaurare ordine e disciplina
attraverso messaggi diretti all’imposizione di una dura legge morale di im-
mediata efficacia nella quotidiana convivenza tra individui.
Il rinnovamento introdotto da frate Bernardino «consistette – come so-
stiene Grado Merlo - soprattutto nell’elaborazione di un linguaggio capace
di coinvolgere le folle e di soddisfare alle esigenze (anche religiose) del
potere, oltre che nell’elaborazione di simboli salvifici e taumaturgici inno-
vativi e concorrenti. Nel culto del nome di Gesù e nel suo segno – il famoso
trigramma – frate Bernardino da Siena riesce a immettere un valore autono-
mo da imporre ai fedeli in sostituzione e correzione di altri simboli consoli-
18 G.G. MERLO, Nel nome di san Francesco. Storia del frati minori e del francesca-
nesimo sino agli inizi del XVI secolo, EFR, Padova 2003.
Le fonti visive tardo medievali: da strumento di propaganda a strumento di ricerca 85
w
Le fonti visive tardo medievali: da strumento di propaganda a strumento di ricerca 91
CAPITOLO 7
SINCRETISMO DISCIPLINARE
ternite devozionali laiche più importanti della Firenze del Quattrocento, che
aveva sede nel vicino convento di San Marco e il compito di organizzare con
grande sontuosità, ogni tre anni, la festa dell’Epifania alla quale partecipava,
con un contributo finanziario, anche il governo cittadino.
È nelle fogge dei vestiti e dei copricapo, nei sopraricci dei broccati d’oro
e d’argento, nel contro cangiante dei damaschi, nello spessore e nella mor-
bidezza dei velluti controtagliati, nella pastosità dei panni felpati, nella lu-
minosità dei rasi che si disvela la maestria pittorica di Benozzo Gozzoli,
ma è nella posizione gerarchica dei personaggi raffigurati in corteo, nei
colori e nella fattura delle loro vesti e dei loro cappelli, nella descrizione
delle loro cavalcature, nella decorazione delle bardature e dei finimenti la
chiave di lettura politica dell’affresco, l’unica che interessasse realmente la
committenza, a tal punto da giustificare un suo coinvolgimento così diretto
nella fase di esecuzione dell’opera.
Dei numerosi personaggi illustri ritratti nel ciclo pittorico, alcuni sono
stati identificati con un ragionevole grado di attendibilità. Così il mago
in età virile, Baldassarre, sarebbe il ritratto dell’imperatore Giovanni VIII
Paleologo (1390-1448), i cui tratti sono noti grazie a una medaglia, ope-
ra di Pisanello, conservata presso il Cabinet des Médailles della Biblio-
thèque Nationale di Parigi; nella figura del mago anziano, Melchiorre, si
riconoscono invece tradizionalmente le fattezze di Giuseppe, patriarca di
Costantinopoli, morto a Firenze durante il Concilio. Secondo un’interpre-
tazione più recente, potrebbe trattarsi però dell’imperatore Sigismondo di
Lussemburgo, come suggeriscono i tratti del volto e il copricapo, simili a
quelli raffigurati, ancora una volta, da Pisanello.
98 Squarci nel Medioevo
tanto i suoi magistrati quanto tutti i suoi subalterni, sino a diventare tratto
distintivo, “divisa” della dinastia ducale milanese14.
Abiti e colorazione delle vesti continuarono a mantenere una forte
connotazione politica anche alla corte sforzesca. L’abbigliamento forni-
va la visione immediata della posizione sociale e del rango ufficiale del
personaggio, declinandone età, carriera, provenienza. Con Galeazzo Ma-
ria Sforza, estremamente attento a riproporre sin nei minimi particolari i
cerimoniali dell’avo Filippo Maria, come ulteriore forma di legittimazio-
ne del suo potere, tornò in auge il binomio di colori bianco e morello, in
particolare nelle calze solate “alla divisa” che il duca stesso amava sfog-
giare, e si giunse a certificare individualmente l’autorizzazione a indos-
sare determinati capi di abbigliamento. Così, mentre il personale di corte
era dotato di un’assegnazione nominale di abiti, forniti dal guardaroba
ducale al momento della presa di servizio e poi periodicamente rinnovati,
le calze solate “alla divisa” – con la gamba destra bianca e l’altra morella
-, simbolo di uno speciale rapporto di familiarità con la dinastia, poteva-
no essere indossate soltanto da coloro cui era stata conferita una licenza
scritta, concessa raramente e soggetta a severi ordini restrittivi, segno
tangibile della preziosità del favore ducale. E l’attenzione sull’osservan-
za delle disposizioni ducali in materia doveva essere alta se la stessa
Bona di Savoia, quando giunse a Milano sposa di Galeazzo Maria, venne
immediatamente invitata a sostituire il proprio guardaroba con abiti in
stile lombardo15, oltre che omaggiata di una collana araldica «biancha et
morella», formata da sessanta anelli16.
14 Nel guardaroba del Castello di Porta Giovia, a inizi Quattrocento, erano conserva-
te “circha peze VIII de rosato biancho et morello di grana di divisa”. PIER CANDIDO
DECEMBRIO, Vita di Filippo Maria cit., capp. XLVIII e LI, p. 95, 99; L. BELTRAMI, Il
castello di Milano, Hoepli, Milano 1894, p. 48; F. COGNASSO, I Visconti, dall’Oglio
Editore, Milano 1966, p. 475; P. VENTURELLI, Gioielli in smalto cit., p. 34 n.
15 G. LUBKIN, A Renaissance Court. Milan under Galeazzo Maria Sforza, University
of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1994, p. 33, 36, 38, 67, 129,
323.
16 P. VENTURELLI, Gioielli in smalto cit., p. 34 n.
Sincretismo disciplinare 101
La Corte di Galeazzo Maria Sforza nella pagina miniata di arte lombarda tratta
dal Codice dell’Opusculum super declarationem arboris consanguinitatis et affinitatis
di Gerolamo Mangiaria, Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 4586
dico legato prevalentemente a casa Medici. F. CARDINI, I re Magi cit., p. 35, 74,
pp. 76-78.
20 F. CARDINI, I re Magi cit., p. 39.
21 Sebbene il cassone abbia probabilmente subito rimaneggiamenti ottocenteschi,
rimane una significativa testimonianza della consuetudine della corte milanese di
annoverare personale di colore tra i propri servitori, per lo più africani che, ridotti
in schiavitù, giungevano in Italia per la via di Venezia. E. MCGRATH, Ludovico il
Moro and his Moors, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, LXV
(2002), pp. 67-94 e, in particolare, p. 70, 71.
22 G. D’ADDA, La morte di Galeazzo Maria Sforza, in “Archivio Storico Lombardo”,
II (1975), pp. 284-294, e in particolare p. 290; F.M. VAGLIENTI, Anatomia di una
congiura. Sulle tracce dell’assassinio del duca Galeazzo Maria Sforza tra scienza
e storia, in «Atti dell’Istituto Lombardo. Accademia di Scienze e Lettere di Mila-
no», vol. 136 (2002), fasc. 2, Milano 2004, p. 256.
23 Si veda l’affresco del 1473 che raffigura san Bernardino con alcuni giovani, Lodi,
Chiesa di San Francesco. W. TERNI DE GREGORY, Pittura artigiana lombarda del
Rinascimento, Garzanti, Milano 1981, p. 117.
Sincretismo disciplinare 103
rosso e di cremisi si ascrive a una tassonomia dei colori molto più specifica,
peraltro documentata.
Scorrendo l’inventario degli abiti da cerimonia dati a pegno nel 1442, ap-
prendiamo infatti che l’abbinamento distintivo del conte Francesco Sforza,
prima di conquistare il dominio di Milano, erano appunto il verde scuro e il
cremisi, colori con cui era tinta la maggior parte delle sue vesti24. E ancora,
se si opera un confronto tra i particolari dell’abito del cavaliere all’estre-
ma sinistra del corteo di Gaspare e quelli della veste indossata dal conte
Francesco Sforza il giorno delle sue nozze con Bianca Maria Visconti25, la
somiglianza dei due zupponi, nel damascato oltre che nel colore, risulta per
lo meno sconcertante, tanto da far supporre un rimaneggiamento sommario
della medesima veste, forse opportunamente riadattata per il primogenito:
operazione affatto estranea alla naturale parsimonia del condottiero, oltre
che dettata dalle drammatiche condizioni finanziarie in cui versava il duca-
to di Milano negli anni ’50 del Quattrocento26. Del resto, proprio il colore
verde della “mezza turcha”, impreziosita da gigli di Francia ricamati in oro
e da inserti di pelliccia, avrebbe caratterizzato il ritratto più rappresentati-
24 Ben sette sulle undici elencate; le restanti sono viola scuro o azzurre. Inventario
de vestimenti et argenti dello illustre signor conte Francesco Sforza impegnati in
Ancona per ducati 2.000 d’oro, a raxone de 14 per cento l’anno, Ancona 1442, in
Archivio di Stato di Milano, Archivio ducale visconteo-sforzesco, Carteggio del
conte, cart. 23. Ora anche in F.M. VAGLIENTI, Sunt enim duo populi. Esercizio del
potere ed esperimenti di fiscalità straordinaria nella prima età sforzesca (1450-
1476), CUEM, Milano 1997, p. 68.
25 Si veda la miniatura quattrocentesca delle nozze di Francesco Sforza e di Bianca
Maria Visconti prodotta da anonimo maestro lombardo nell’atto di donazione della
chiesa di San Sigismondo a Cremona, conservata nell’archivio parrocchiale della
chiesa medesima. Vale notare come, nell’occasione, lo Sforza indossasse calze
solate a tre colori: completamente rossa la sinistra e bianca e azzurra la destra, a
significare l’appartenenza al casato dei Visconti (il bianco e il rosso dello stemma
di Milano, unito all’azzurro dell’araldica viscontea), al pari di alcuni personaggi
di corte ritratti nella miniatura dell’Opusculum super declarationem arboris con-
sanguinitatis et affinitatis di Gerolamo Mangiaria, Parigi, Bibliothèque Nationale,
ms. lat. 4586.
26 A fronte di una bibliografia vastissima sull’argomento, si rimanda a F. CATALANO,
Il ducato di Milano nella politica dell’equilibrio, in Storia di Milano. Fondazione
Treccani degli Alfieri, vol. VII, Milano 1956, pp. 255-414, a D. ORANO, I “Sugge-
rimenti di buon vivere” dettati da Francesco Sforza pel figliolo Galeazzo Maria,
Roma 1901 e alle opere citate in F.M. VAGLIENTI, Sunt enim duo populi cit., pp.
51-85.
104 Squarci nel Medioevo
vo, sino a noi pervenuto, del duca Galeazzo Maria Sforza, in età matura e
all’apice della sua ascesa politica27.
Per converso, sostenere, come si è fatto sinora, che il giovane biondo sul
destriero bianco corrisponda a Galeazzo Maria adolescente comporterebbe
la soluzione di non poche incongruità, a partire dai colori delle sue vesti,
che non trovano riscontro alcuno nella ritrattistica sforzesca, per finire alla
tipologia stessa del tessuto damascato del suo zuppone, del tutto simile,
per il motivo a fiore di cardo o di pigna e per la preziosità degli intrecci
di fili d’oro, a quello indossato, con provocatoria ostentazione, da Piero il
Gottoso28 e riprodotto fedelmente da Benozzo Gozzoli grazie al sapiente
utilizzo della tecnica mista ad affresco e olio su muro, per una miglior resa
dei particolari29.
30 Nel 1559, quando fu operata una prima riesumazione del corpo di Lorenzo il Ma-
gnifico per trasferirlo nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo, i testimoni riferirono
che il corpo indossava ancora in testa il suo berrettino “di scarlatto, che pareva
nuovo”, segno evidente del forte contenuto simbolico e araldico rappresentato per
i Medici da questo capo di abbigliamento, mentre Galeazzo Maria Sforza era stato
sepolto a capo scoperto. M. SFRAMELI, I gioielli nell’età di Lorenzo il Magnifico, in
I gioielli dei Medici dal vero e in ritratto, a cura di M. Sframeli, Sillabe, Firenze
2003, p. 21; F.M. VAGLIENTI, Anatomia di una congiura cit., p. 249.
31 M. SIMONETTA, Il duca alla Dieta: Francesco Sforza e Pio II, e A. CALZONA, Mantova
in attesa della Dieta, in Il sogno di Pio II e il viaggio da Roma a Mantova, Atti
del Convegno internazionale, Mantova 13-15 aprile 2000, a cura di A. Calzona, F.P.
Fiore, A. Tenenti, C. Vasoli, Leo S. Olschki, Città di Castello 2003, pp. 258-260, 269-
285, 576-577; M. SFRAMELI, I gioielli nell’età di Lorenzo il Magnifico cit., p. 14.
32 Sull’ordine della sfilata, regolata sulla base di una precisa gerarchia dei poteri,
C. ACIDINI LUCHINAT, La Cappella medicea cit., p.86; F. CARDINI, I re Magi cit., p.
106 Squarci nel Medioevo
che il fregio delle tre piume è riprodotto in senso orizzontale e non in ver-
ticale, mentre il riferimento araldico alle palle è limitato, per quanto è dato
vedere, alla parte centrale del finimento, secondo uno stile decorativo che
richiama quello della bardatura della mula di Cosimo il Vecchio.
46 È il caso di Antonio Averlino detto il Filarete che, nel suo Trattato d’Architettu-
ra, si compiacque di anagrammare il proprio nome in “ONITOAN NOLIAVERE
NOTIRENFLO” (An-to-ni-o Avere-li-no flo-ren-ti-no), e di Fermo Stella che, nella
seconda cappella della chiesa dell’Osservanza di Caravaggio, sotto il dipinto ad
affresco della Madonna fra san Bernardino e san Rocco, ha rappresentato il suo
nome con un ferro di cavallo (fer), un topo (mus), una stella. L. BELTRAMI, Il castello
di Milano cit., p. 725; I. PI BRILLAS, San Bernardino di Caravaggio. Storia e arte in
un convento francescano, Brescia 1987; Dizionario degli artisti di Caravaggio e di
Treviglio, a cura di E. De Pascale e M. Olivari, Treviglio-Bergamo 1994.
47 La prima lettera dall’alto verso il basso parrebbe il lambda greco, con all’interno il
tau e al vertice superiore un occhiello che richiama la simbologia ermetica del com-
passo; altre lettere sembrano invece ispirarsi all’alfabeto isiaco e a quello zodiacale.
A decretare la fortuna delle imprese, del resto, aveva contribuito la cultura neopla-
tonica che riscopriva i testi tardo ellenistici e il linguaggio di alcuni scritti ermetici
riconducibili all’Egitto di età alessandrina. L. RICCIARDI, Simboli medicei cit., p. 71.
48 L. BELTRAMI, Il castello di Milano cit., pp. 724-725.
110 Squarci nel Medioevo
Non è certo questa la sede per addentrarsi nel dibattito sulla natura della
ritrattistica quattrocentesca, tra ritratto di ‘invenzione’ o dal vero e ritratto
‘al naturale’ o ideologico, peraltro oggetto di ampia trattatistica, prodotta
da studiosi qualificati, anche per quanto concerne l’esperienza artistica del
Gozzoli49 e le usanze della corte milanese50.
Preme qui sottolineare, invece, la presenza di alcuni tratti antropologi-
ci che a un’attenta analisi, data per accertata l’effettiva somiglianza della
raffigurazione pittorica dei personaggi con i soggetti che si intendeva rap-
presentare, conducono, insieme a tanti altri indizi, a una diversa identifi-
cazione del cavaliere dipinto da Benozzo all’estremità sinistra del corteo
di Gaspare.
Sigismondo Pandolfo Malatesta, che si è presunto sinora corrispondere
al predetto personaggio, all’epoca della stesura della Storia dei Magi su-
perava la quarantina, essendo nato il 19 giugno 1417. Entrambe le celebri
opere di Piero della Francesca che lo ritraggono51, collocabili intorno al
1451, mostrano un uomo maturo caratterizzato da una singolare rettilineiz-
zazione della normale curvatura cervicale, quasi a far supporre un trauma
pregresso del tutto simile, per gli effetti posturali, al moderno “colpo di
frusta”52. Di contro, il presunto ritratto del Gozzoli raffigura un uomo inne-
gabilmente giovane e con una postura del collo assolutamente regolare.
Oltre alle più generiche considerazioni sul diverso colore e sulla dif-
ferente acconciatura dei capelli (la moda della piega verso l’esterno era
diffusa tra i giovani della Milano di metà Quattrocento), che non possono
assumere un valore tipicizzante assoluto nella definizione dei modelli di
riferimento sulla base dei quali si trovavano a operare gli artisti dell’epo-
ca, altri sono gli indizi anatomo-antropologici che rendono quanto meno
improbabile l’identicità dei soggetti rappresentati, ben oltre i margini di
invenzione concessi normalmente ai ritrattisti.
53 Ercole Marescotti, Galeazzo Maria Sforza, medaglia, 1457, Milano, Civiche Rac-
colte Numismatiche. M. ALBERTARIO, Galeazzo Maria Sforza cit., p. 11.
54 C. CATTANEO, D. PORTA, Indagini antropologico-forensi effettuate sul cranio, in
F.M. VAGLIENTI, Anatomia di una congiura cit., p. 271.
112 Squarci nel Medioevo
60 P.J. JONES, The Malatesta of Rimini cit., pp. 202-203; P. MARGAROLI, Diplomazia e
stati rinascimentali cit., p. 206.
61 M. SPREMIĆ, I Balcani e la Crociata (1455-1464), in Il sogno di Pio II cit., p.
497.
62 G. SORANZO, Malatesta Sigismondo Pandolfo, in Enciclopedia Italiana fondata
da Giovanni Treccani, vol. XXI, Roma 1950, pp. 1004-1005; P.J. JONES, The Ma-
latesta of Rimini cit., pp. 220-239; C. VASOLI, Dal De pace Fidei alla Dieta di
Mantova, in Il sogno di Pio II cit., pp. 476-477.
63 In realtà, è probabile che Polissena, figlia naturale legittimata di Francesco Sforza
e di Giovanna d’Acquapendente, sia morta a causa della peste, all’epoca dilagan-
te in tutta l’Italia centrale. L. FUMI, L’atteggiamento di Francesco Sforza verso
Sigismondo Malatesta in una sua Istruzione del 1462, con particolari sulla mor-
te violenta della figlia Polissena, in “Archivio Storico Lombardo”, XL (1913),
pp.158-180; F.M. VAGLIENTI, Sforza Polissena, in Dizionario biografico delle
donne lombarde. 568-1968, a cura di R. Farina, Baldini & Castoldi, Milano 1995,
pp. 1015-1016. È tuttavia interessante e politicamente significativo notare come
nel 1462, a tredici anni di distanza dal decesso della figlia, il duca di Milano abbia
deciso di ridar vita e credito alle dicerie contro il Malatesta, quasi a segnare il
definitivo distacco dalle sorti dello scellerato signore di Rimini che, a fasi alterne
e fra mille ribaltamenti, era stato suo alleato.
64 F. CARDINI, I re Magi cit., p. 26, pp. 53-58.
114 Squarci nel Medioevo
CAPITOLO 8
LE FONTI STORICHE
Le fonti si distinguono in mute e orali. Mute sono le fonti che non ripor-
tano, almeno come valenza fondamentale, segni di scrittura e sono riferibili
alle condizioni naturali (clima, paesaggio, stratificazione geologica ecc.) o
agli aspetti materiali di una civiltà (strumenti, attrezzi, materiali ecc.).
Una fonte storica è una testimonianza, in generale tanto più attendibile
quanto più prossima all’evento e riferibile al medesimo. Tutte le fonti, di
qualsiasi genere, sono in grado, se ben interpretate, di offrire informazioni
valide che possono essere intenzionali, quando finalizzate per origine e
natura a trasmettere certi tipi di informazione, o involontarie (preterinten-
zionali), ossia vestigia del passato la cui potenzialità informativa è indi-
pendente dalla funzione e dalla destinazione per cui esse furono realizza-
te, ma che forniscono notizie importanti sulla mentalità dell’autore e del
destinatario, sugli usi e sulle tecniche di produzione, sulle materie prime
utilizzate ecc.
A lungo si è ritenuto che le fonti preterintenzionali avessero un’atten-
dibilità maggiore, perché per loro natura meno soggette a volontarie “so-
fisticazioni”; tuttavia, le fonti intenzionali restano insostituibili nella rico-
struzione della trama dei fatti e necessitano di strumenti esegetici meno
raffinati affinché le loro informazioni possano essere verificate e compiu-
tamente intese.
La fonte storica per eccellenza è il documento scritto. Un documento,
anche quando falso, purché riconosciuto per tale, è comunque una fonte ge-
nuina e attendibile per se stesso, in quanto testimonia come, in circostanze
date, si sia avvertita la necessità di produrre quel tipo di artefatto. La falsi-
ficazione è dunque testimonianza genuina di un evento o di una circostanza
realmente verificatesi, anche se non di ciò che pretende di documentare. Al
pari, una cronaca tendenziosa o fantasiosa è una testimonianza importante
sulle idee e sulle intenzioni del suo compilatore.
116 Squarci nel Medioevo
La fonte scritta non vale solo per il contenuto, ma anche per ciò che tra-
smette involontariamente; perciò l’assimilazione della fonte scritta con la
fonte intenzionale perde molto della sua automaticità. Al pari, non in tutte
le fonti archeologiche l’informazione è involontaria, soprattutto per quanto
attiene ai monumenti.
Il monumento, inteso come fonte, ha un’accezione assai ampia: vi ri-
entrano l’effige celebrativa di un personaggio pubblico, il grande edificio
(cattedrale, palazzo comunale, castello signorile), le semplici commemo-
razioni funerarie dei privati. Anche in assenza di iscrizioni, l’edificio o il
manufatto monumentale comunica idee, valori, credenze ad esso consape-
volmente affidate da un gruppo sociale, rappresentato dal committente e
dai finanziatori (che non automaticamente coincidono), dagli esecutori, dai
destinatari o fruitori dell’opera. Il messaggio non è necessariamente ver-
bale, ma è ugualmente esplicito quando se ne conoscano le regole. I suoi
elementi sono la forma, le dimensioni, i materiali e i colori. Anche le infor-
mazioni trasmesse dal monumento sono dunque intenzionali e, pertanto,
soggette alla critica dell’intenzione e delle circostanze di produzione.
Le fonti scritte, peraltro, hanno una consistenza materiale che per certi
versi le fa rientrare nella categoria dei resti del passato. La fisionomia ma-
teriale è parte integrante del documento: materia scrittoria, impaginazione,
inchiostri, grafia usata per la stesura del testo, eventuali decorazioni o il-
lustrazioni, sigilli, segni di autenticazione rivelano le operazioni - spesso
lunghe e complesse - di redazione e convalida dei testi, le tecniche di com-
posizione, la destinazione sociale, il gusto e la cultura di un’epoca.
cumenti erano copiati nei cartulari gli originali venivano di solito distrutti,
così come gli elenchi dei contribuenti una volta che l’imposta era stata
riscossa; le suppliche al papa respinte erano lacerate; gli estimi bruciati
durante le sommosse popolari; i documenti potevano poi essere scartati e
distrutti dagli archivisti, portati a casa dagli eruditi, dispersi, venduti.
ricoperto di lino, sopra il quale si esercitava una forte pressione con pietre o
mazzuoli. Le strisce si saldavano assieme grazie alla linfa della pianta.
Nel Medioevo ebbe grande diffusione la pergamena. Usati singolarmen-
te nei documenti o cuciti in rotoli (i rolls della cancelleria inglese), nei libri
i fogli di pergamena formano il codice e se ne occupa la codicologia.
Un materiale più economico era la carta, inventata in Cina nel II secolo
d.C. e nota al califfato abasside dopo la battaglia di Thalas del 751, quando
prigionieri cinesi a Samarcanda diedero avvio alla produzione, poi espor-
tata a Baghdad e a Damasco. Di lì raggiunse Bisanzio e, nell’XI secolo,
la Sicilia, la Spagna nel XII e poi la Francia meridionale e l’Italia, dove i
notai la adottarono a partire dal Duecento per i loro registri. La carta era
fabbricata con stracci di lino, canapa e cotone. L’utilizzo della cellulosa
risale solo alla metà dell’Ottocento.
1 Hic liber est Sancte Marie de Morimundo, catalogo della Mostra dei codici mi-
niati di Morimondo, a cura di P. Mira, P. Rimoldi, in «Quaderni dell’Abbazia», a.
XV (2008), I-LVIII.
122 Squarci nel Medioevo
Le penne erano ricavate dalle remiganti delle oche o di altri grossi vo-
latili e sostituirono il calamo, usato in epoca classica, fornendo maggiore
precisione nella scrittura. La preparazione della penna richiedeva una certa
abilità. Dopo aver eliminato le barbe e troncato la parte più sottile della
penna, si praticava dapprima un taglio trasversale, seguito da altri due sim-
metrici all’estremità del primo taglio per dare forma alla punta. Questa era
poi mozzata da un taglio perpendicolare all’asse della penna per eliminare
le irregolarità; infine, era praticato un taglio lungo l’asse di simmetria della
punta stessa, a servire da serbatoio.
La punta della penna d’oca poteva essere usata di taglio, fornendo un
tratto molto sottile, oppure di piatto. Con opportuni movimenti della mano
era possibile alternare tratti grossi a sottili, dando origine alla caratteri-
stica calligrafia medievale. La scrittura più diffusa fino al XII secolo è la
carolina, il prodotto di uno sforzo di regolarizzazione grafica iniziato nel
monastero di Corbie (Francia) agli esordi dell’VIII secolo. La formazione
di questa grafia non è dunque il frutto di un’evoluzione spontanea, ma il
risultato di una ricerca deliberata in relazione al vasto movimento di rina-
scita degli studi promosso al tempo da Carlo Magno, che ne decretò l’uti-
lizzazione ufficiale nel 789.
La carolina fu adottata in Francia, in Germania e in Italia centro-setten-
trionale. Benché frutto del lavoro di numerosi scriptoria, la resa definitiva
si deve al monastero di S.Martino di Tours, sotto la guida del monaco Alcu-
ino di York, e poi del suo successore Fredegiso, che la formalizzò alla fine
del IX secolo. In ragione della sua regolarità, la minuscola carolina risulta
di grande leggibilità e il suo uso perdurò fino al XIII secolo, quando iniziò
ad assumere un tratteggio più angoloso e verticaleggiante, anticipatore del-
la scrittura gotica.
Per la miniatura si addicevano invece pennelli a pelo morbido, cioè fab-
bricati con i peli della coda di vaio o di scoiattolo, martora, puzzola o zi-
bellino. I peli erano innestati in un cannello di penna di avvoltoio, d’oca, di
gallina o di colombo, secondo la grandezza desiderata. Al cannello era poi
applicata un’asticciola di legno affusolata e appuntita all’estremità libera.
I peli, in precedenza riuniti e legati insieme, una volta stretti nel cannello
e bagnati con colla potevano essere mozzati e dotati di lunghezza uniforme
tagliandoli con una forbicina, oppure consumati sfregandoli leggermente su
una pietra ruvida fino a rendere la punta sottile in base alla tipologia voluta.
Per montare a neve l’albume, utilizzato come legante, ci si serviva del
pinzellum situlare, un pennello di setole di maiale, a volte sostituito da uno
scopettino di stecche, o da una cannuccia tagliata a un’estremità, oppure da
una spugna montata su un piccolo manico di legno tornito.
124 Squarci nel Medioevo
Per evitare depositi residui, l’inchiostro era ridotto allo stato solido in
piccoli pani e veniva diluito soltanto al momento dell’utilizzo.
Altri tipi di inchiostro, usati sporadicamente, potevano essere ottenuti
con la bollitura di taluni vegetali, in genere ricchi di tannino, come le foglie
di scotano, il mallo secco delle noci, la buccia del melograno.
La miniatura è la tecnica pittorica in cui si utilizzò, nel tempo, il più
grande e svariato numero di pigmenti e coloranti. La protezione dalla luce
e dagli altri agenti atmosferici offerta dalle pagine del libro consentì di usa-
re, oltre ai tradizionali pigmenti, anche numerosi splendidi colori vegetali
altrimenti non resistenti e inapplicabili nelle pitture su altri supporti.
La tavolozza dei colori disponibili ne risultò notevolmente arricchita.
Trasparenti, sfumati e luminosi fino al XII secolo, i colori divennero co-
prenti e intensi a partire dal XIII.
Le ricette per produrre, conservare, utilizzare i colori, assai varie nel
tempo e nei luoghi e raccolte sovente in forma di trattato, rappresentano un
ricco filone documentario che dal Medioevo si estende a tutta l’Età Moder-
na. I colori avevano peraltro origine assai diversa.
Colori di origine animale. Bianco d’osso o d’ostrica (bianco): si otte-
neva dalla calcinazione di ossa di volatili e di conchiglie; cocciniglia o
kermes (rosso): chitina seccata e frantumata di un insetto mediterraneo,
spesso utilizzata come lacca; fiele (giallo-verdastro): fiele raddensato di
alcuni pesci o di testuggini e di altri animali, dal colore dorato e trasparen-
te; porpora (rosso): estratta in antico da un mollusco mediterraneo, venne
impiegata per tingere le pergamene dei codici purpurei tardo-antichi (libri
in cui l’intera pagina era tinta di rosso). Non venne mai impiegata come
colore nelle miniature. Seppia (nero): estratta dalla sacca di alcuni cefalo-
podi, usata anche come inchiostro.
Colori di origine vegetale. Brasile o verzino (rosso): estratto da varie
specie leguminose appartenenti alla famiglia delle Cesalpinacee e ottenuto
bollendo i pezzi di legno e facendo precipitare il colorante con sali di allumi-
nio; curcuma (giallo): specie esotica; robbia (rosso): decotto delle radici della
Rubia Tinctorum, dal quale si ottiene una lacca; iris (azzurro): estratto dai
petali di Iris Germanica; mirtillo e sambuco (azzurro): si utilizzava il succo
estratto dalle bacche; indaco o lulax o blu baccadeo (azzurro): estratto da una
grande varietà di piante del genere Indigofera, in particolare dall’Indigofera
Tintoria. Era utilizzato anche per tingere le stoffe. Zafferano (giallo): estratto
dagli stimmi essiccati del Crocus Sativus L. appartenente alla famiglia delle
Iridacee Crocoidee. Sangue di drago o dragone (rosso): estratto dalla resina
che un tipo di pala secerneva a causa della puntura di un insetto. Spincervino
(giallo-verde): estratto dalle bacche di vanno.
126 Squarci nel Medioevo
2 Il vocabolo deriva dalle sue due prima lettere, A da Aleph (mucca), corrispondente
alla lettera greca Alfa, B da Bet (casa) alla Beta.
130 Squarci nel Medioevo
Ostracon con ordinazione di finestre, XIX dinastia, seconda metà del Regno
di Ramesse II, 1244-1212 a.C., terracotta rossa con sfondo giallastro, Parigi, Louvre.
«I geroglifici sono tanto delle idee, quanto dei suoni», così ebbe a defi-
nirli lo studioso francese Jean-François Champollion che, nel 1808, aveva
iniziato a lavorare sulla decifrazione della cosiddetta Stele di Rosetta, la
triplice iscrizione in caratteri geroglifici, demotici e greci scoperta nel 1799
dalle truppe napoleoniche nei pressi della cittadina di Rosetta (Rashid).
La sua opera di decifrazione si basò su tre intuizioni geniali: innanzi tut-
to che il copto rappresentava lo stadio ultimo della evoluzione dell’antica
lingua egizia; secondariamente, che i geroglifici avevano un valore misto,
sia ideografico sia fonetico e, infine, che i geroglifici trascritti nei cartigli
rappresentavano foneticamente il nome dei faraoni.
Supponendo che a ogni segno geroglifico corrispondesse un segno al-
fabetico e, apprendendo dal testo greco della Stele, che il faraone cui ci si
riferiva era Tolomeo, riuscì a individuare i segni che componevano il nome
Ptolmys.
Nel 1821, esaminando il testo bilingue (greco e geroglifico) di un obe-
lisco rinvenuto dall’archeologo italiano Belzoni sull’isola di File, Cham-
pollion riuscì a leggere il nome di Cleopatra e a ottenere così il valore
alfabetico di ben dodici segni. Estendendo il metodo ad altri cartigli, scoprì
il valore di molti geroglifici.
Le fonti storiche 131
Poiché erano in uso stili diversi nel fissare il giorno di inizio dell’anno
calcolato secondo l’era cristiana, l’indizione si rivela talvolta fondamentale
per rapportare correttamente l’anno al computo attuale.
Stile della circoncisione, al 1° gennaio. Riprende l’uso romano, adottato
dal 153 a.C., ed è sempre stato considerato l’inizio dell’anno astronomico.
Si diffuse in maniera preponderante solo in età moderna, a partire dal XVI
secolo (in Inghilterra nel 1752).
Stile veneziano o mos venetus, al 1° marzo. In uso a Venezia e nel suo
dominio sino alla caduta della Repubblica nel 1799.
Stile dell’Annunciazione (ab Incarnatione Domini), al 25 marzo. Fu
molto diffuso in Francia, nelle città italiane (Pisa e Firenze) e tedesche, in
Inghilterra (dal 1066 al 1751), in alcuni cantoni svizzeri.
Stile della Natività (a nativitate Domini), al 25 dicembre. Fu adottato
in Germania, Francia e in Italia, in particolare a Milano a partire dai primi
dell’XI secolo. Secondo lo stile della Natività, il nostro 26 dicembre 2011
sarebbe stato indicato come 26 dicembre 2012, ma riportando la 4ª indi-
zione (invece della 5ª, che inizia il 24 settembre 2012) avrebbe automati-
camente segnalato una discrepanza negli stili di datazione e che l’anno di
riferimento corrispondente all’uso attuale è il 2011 e non il 2012.
Stile della Pasqua o mos gallicanus. Comincia con la Pasqua, o con il
Sabato Santo, che sono feste mobili (la domenica successiva al plenilunio
che segue l’equinozio di primavera) e oscilla dal 22 marzo al 25 aprile,
per cui la durata dell’anno si alternava tra gli 11 e i 13 mesi, i 330 e i 440
giorni e le stesse date potevano ricorrere due volte nel medesimo anno. Fu
adottato in Francia dal XII secolo fino al 1564 e anche in Lorena, Belgio
e Olanda.
8.12 Il calendario
con i nomi dei santi o delle feste religiose secondo il calendario liturgico del
luogo, diverso da quello attuale uniformato nel Concilio Vaticano II. Alcune
domeniche venivano indicate con le prime parole dell’introito della S.Messa:
Laetere la quarta di Quaresima; Quasi modo quella dopo Pasqua ecc.
La settimana iniziava la domenica. Gesù infatti risorge il primo giorno
dopo il sabato, che perciò assunse il nome di “giorno del signore” (dies
dominica). I giorni della settimana venivano indicati con il nome latino:
dies lunae, martis, mercurii, iovis, veneris, sabbati; oppure con la formula
liturgica di prima feria (la domenica), secunda feria (il lunedì) ecc.
Durante il Medioevo il calendario in uso era quello riformato da Giulio
Cesare nel 46 a.C., che sulla base dei calcoli degli astronomi egizi aveva
stimato l’anno solare in 365 giorni e 6 ore circa, aggiungendo un giorno ogni
4 anni (anno bisestile). L’anno però era stato calcolato più lungo di 11 minuti
e 4 secondi rispetto all’anno tropico (rivoluzione apparente media del sole),
elemento che, unito alla diminuzione costante dell’anno tropico, produsse
nel corso dei secoli diversi giorni di differenza: ben 11 nel XVI secolo.
Papa Gregorio XIII promosse allora una riforma del calendario. L’anno
civile doveva fornire un numero di giorni intero, mentre l’anno tropico è
frazionario: i calcoli furono condotti da Luigi Giglio, professore di medici-
na all’Università di Perugia. Grazie al piano elaborato dallo studioso, il ca-
lendario avrebbe conservato un margine di errore inferiore a un giorno fino
al 4317: sono bisestili gli anni le cui due ultime cifre sono divisibili per 4,
ma degli anni secolari sono bisestili solo quelli le cui due prime cifre risul-
tano perfettamente divisibili per 4 (1600 e 2000, non 1700, 1800, 1900).
Per passare al nuovo calendario, Gregorio XIII cancellò 11 giorni del
mese di ottobre 1582, passando direttamente dal 4 al 15 ottobre. Il nuovo
calendario fu adottato immediatamente in Italia, Spagna, Portogallo e Da-
nimarca, poi via via dagli altri Paesi, sino alla Russia nel 1923. Il calenda-
rio giuliano è però ancora seguito dalla Chiesa ortodossa, motivo per cui il
Natale ortodosso cade attualmente il 7 gennaio.
8.12 Le ore
Si deve all’Antico Egitto l’aver diviso il giorno in 24 ore uguali (12 ore
del giorno e 12 della notte), da cui deriva il modo attuale di computare
le ore. Il motivo di questa discrasia è da ricercarsi nell’inadeguatezza del
giorno siderale, che pure deve ritenersi unità fondamentale di tempo, ai
bisogni delle società passate, poiché l’umana attività giornaliera si svol-
geva e si regolava prevalentemente in base all’illuminazione solare, cioè
Le fonti storiche 139
JACOPO DA VARAGINE, Leggenda Aurea, trad. it. a cura di C. Lisi, 2 voll., Libreria
Editrice Fiorentina, Firenze 1990.
P. CAMMAROSANO, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, NIS,
Roma 1991.
A. CAPPELLI, Cronologia, cronografia e calendario perpetuo dal principio dell’era
cristiana ai giorni nostri, Hoepli, Milano 1988.
G. CENCETTI, Paleografia latina, Jouvence, Roma 1978.
Hic liber est Sancte Marie de Morimundo, catalogo della Mostra dei codici miniati
di Morimondo, a cura di P. Mira, P. Rimoldi, in «Quaderni dell’Abbazia», a. XV
(2008), I-LVIII.
A. PRATESI, Genesi e forma del documento medievale, Jouvence, Roma 19993.
La Storia. Dalla Preistoria all’Antico Egitto, a cura della Redazione Grandi Opere
di UTET Cultura, Mondadori, Milano 2007.
S. TRAMONTANA, Capire il Medioevo. Le fonti e i temi, Carocci, Roma 2005.
141
CAPITOLO 9
POTERE DELLA PAROLA,
POTERE DELL’IMMAGINE
«In principio erat Verbum et Verbum erat apud Deum et Deus erat Ver-
bum. Hoc erat in principio apud Deum. Omnia per ipsum facya sunt et
sine ipso factum est nihil quod factum est; in ipso vita erat et vita erat lux
hominum et lux in tenebris lucet et tenebrae eam non comprehenderunt»1.
Il Cristianesimo è essenzialmente la religione della Parola (Verbo), ma an-
che della parabola (racconto allegorico) e dell’immagine, che ne rendono
immediatamente comprensibile il messaggio.
Nell’Europa medievale, si deve agli autori ecclesiastici l’esaltazione
dell’arte a scopo didascalico. Sul finire del IV secolo, quando il Cristiane-
simo si andava affermando come religione di stato, i Padri della Chiesa in
Cappadocia e Paolino da Nola menzionarono per la prima volta le imma-
gini, in precedenza relegate con disprezzo alle usanze pagane e contadine,
come mezzo per evangelizzare il popolo illetterato.
Nei secoli seguenti, l’immagine invase tutti gli ambiti delle attività so-
ciali, dal conio delle monete all’insegnamento dottrinale. La sua feticizza-
zione, che ha precedenti solo nella storia dell’Antico Egitto, venne favorita
da una nuova assimilazione dell’immagine al linguaggio, in quanto en-
trambi i sistemi risultano regolati da comuni presupposti logici.
La sinodo di Arras del 1025 sancì per la popolazione l’apprendimento
attraverso le figure. Onorio di Autun, enciclopedista dell’epoca, ascrisse,
fra i compiti della pittura, quello di istruire gli incolti: «pictura est laicorum
1 «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e Dio era il Verbo. Egli era
in principio presso Dio. Tutto fu creato per mezzo di lui e, senza di lui, nulla fu
creato di quanto esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini e la luce
risplende fra le tenebre e le tenebre non l’hanno catturata» (Giovanni, 1, 1-5).
Vangeli e Atti degli Apostoli. Interlineare Greco Latino Italiano, a cura di P. Be-
retta, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2005.
142 Squarci nel Medioevo
6 Opere di san Bernardo, I. Trattati, col. 914, trad. it. A cura di F. Castaldelli, Scrip-
torium Claravallense, Milano 1984.
Potere della parola, potere dell’immagine 145
da parte del vescovo conte, ruolo assunto dai presuli di Modena dall’891,
quando il vescovo Leodoino ottenne uno speciale privilegio dal re d’Italia,
Guido di Spoleto, per fortificare la città. L’analisi delle miniature rivela una
precisa volontà di caratterizzare le immagini al fine di consentire al lettore
di comprendere compiutamente il significato del testo. Non solo i diversi
atteggiamenti degli scribi evidenziano i differenti percorsi compiuti dalle
singole leggi prima della loro stesura definitiva in forma scritta, ma anche
la scelta dei temi iconografici testimonia chiaramente le specifiche caratte-
ristiche dei sistemi giuridici raccolti nel Codice.
Analogamente, se il modello tardo-antico è presente nella struttura ge-
nerale delle raffigurazioni, varianti interessanti permettono di cogliere la
volontà di caratterizzare ulteriormente i singoli gruppi etnici, al di là dei
ricorrenti elementi simbolici quali spada e festuca: così la lunga barba ad
attaccatura bassa tipica dei Longobardi, quella pure ad attaccatura bassa,
ma ricciuta, propria degli Alamanni, quella più ordinata dei Franchi; op-
pure dettagli degli abbigliamenti, come i gambali sorretti da bende o giar-
rettiere. La cultura del miniatore si distingue per l’efficacia e l’attenzione
con cui usa le tre tinte (minio arancio, giallo e verde) che risultano d’uso
esclusivo in molti scriptoria tardo-carolingi.
146 Squarci nel Medioevo
Nello schema delle parentele, la scena delle aquile è desunta dalle scene
venatorie con rapaci da riporto, diffuse nei mosaici romani e tardo-antichi,
ma nel caso specifico, una delle prime testimonianze anteriori al Mille,
probabilmente ispirata al motivo degli avori islamici, in cui il tema della
caccia ricorre con grande frequenza e le aquile da riporto vengono raffigu-
rate in posizione araldica, nell’atto di ghermire la preda.
Potere della parola, potere dell’immagine 147
Quando, a partire dalla fine del XIII secolo, si passò dalla costruzione
delle cattedrali alle cappelle, agli altari, alle statue, alle immagini devo-
zionali, si sviluppò considerevolmente un’arte religiosa privata in ambito
domestico. Il sacro venne personalizzato.
La personalizzazione del sacro si integra con i culti praticati dalle con-
fraternite artigiane e con la diffusione di forme devozionali locali, sparse
in tutto l’Occidente. Il trionfo dell’iniziativa privata esplose negli oratori,
negli altari portatili e nei manuali di preghiera. Le illustrazioni dei Libri
d’ore hanno sensibilizzato gli ambienti secolari elitari medievali nei con-
fronti dell’infanzia.
Nel Medioevo le “Ore” designavano comunemente l’ufficio delle pre-
ghiere devozionali, salmi, inni, versetti e letture da recitare quotidianamen-
te in determinati momenti della giornata.
Il Libro d’Ore è un compendio di testi devozionali a uso dei laici che ha
il suo nucleo centrale nell’Ufficio della Vergine: le Horae Beatae Mariae
Virginis. Improntato sui breviari liturgici, la sua origine risale al secolo XI,
ma comincia a diffondersi solo dalla metà del secolo seguente per raggiun-
gere poi, tra XIV e XV secolo, un successo tale da richiedere una produzio-
ne quasi industriale, eseguita da botteghe specializzate, con procedure di
esecuzione standardizzate che, alla fine del XV secolo, hanno condotto in
tutta Europa a una grande diffusione del Libro d’Ore a stampa.
Caratteristica di questi opuscoli a uso privato era la decorazione miniata
delle sue parti principali, che constavano solitamente, oltre all’Ufficio della
Vergine, del calendario e dell’Ufficio dei defunti. Il calendario compare
150 Squarci nel Medioevo
Febbraio, miniatura dal Breviario Grimani, fine sec. XV, Venezia, Biblioteca
Marciana. Febbraio è raffigurato attraverso una tipica giornata lavorativa invernale: si
fila, si riparano gli attrezzi di lavoro, si pasturano gli animali, ci si reca al villaggio per
commerciare… si espletano le proprie funzioni fisiologiche fuori dall’uscio di casa.
corso di tutta una vita, il maggior numero di informazioni: gli adulti istruiti
erano impegnati nella faticosa impresa di non dimenticare alcunché.
La tradizione occidentale attribuisce al poeta greco Simonide (556-468
a.C.) l’invenzione dell’esercizio mnemonico mediante immagini. Questa
abilità di ricordare venne sviluppata nei secoli successivi in un vero e pro-
prio sistema, poi diventato, in epoca medievale, il metodo prevalente di
trasmettere dati di carattere religioso e profano.
In questo sistema il senso della vista risultava preminente. Nel Timéo,
Platone consacrò la vista come causa della ricerca filosofica e della cono-
scenza, il più grande dono fatto dagli dèi agli uomini, e si rifiutò recisamen-
te di trattare degli altri sensi con queste parole: «gli altri sono minori, a che
scopo celebrarli?»7. Anche la teoria della conoscenza aristotelica assegna-
va alla suggestione visiva un ruolo dominante nei processi di formulazione
del pensiero, ritenendo impossibile pensare senza immagini mentali deri-
vate, a loro volta, da impressioni sensoriali.
L’opera Rhetorica ad Herrennium, d’ignoto scrittore latino, offriva istru-
zioni dettagliate per consolidare, attraverso un particolare addestramento,
la memoria naturale. Il testo, che ebbe un’influenza profonda durante tutto
il Medioevo, sosteneva che le immagini dovessero essere particolarmente
attraenti, straordinariamente belle o brutte, anche oscene o ridicole, per
riuscire a sopravvivere più a lungo nel ricordo.
A sua volta, Quintiliano (I secolo d.C.) elaborò per gli studenti un siste-
ma per fissare i contenuti dell’apprendimento, attraverso combinazioni di
immagini ancorate a un determinato luogo e capaci di restituire immedia-
tamente il dato richiesto, grazie all’associazione di idee.
L’apprendimento visivo guidò anche la didattica cristiana, incentrata
sull’enorme prestigio della memoria. La convinzione di propagandare im-
magini capaci di comunicare conoscenza e di influire sul comportamen-
to determinò il trionfo della totale azione formativa della memoria: così,
nell’VIII secolo, il più importante trattato di iconografia cristiana, La dife-
sa delle immagini sacre di Giovanni Damasceno (650 ca.-750), attribuiva
al potere delle immagini e delle parole la fissazione dei ricordi, mentre
per Gregorio Magno il popolo in adorazione di un’immagine sacra dipinta
riduceva al minimo la possibilità di peccare.
Nel XII secolo, in Occidente, si cominciò a preferire alle immagini
interiori quelle dipinte, come testimonia l’opera di Ugo di San Vittore
(1096-1141), magister scolarium e autore del Didascalicon, un manuale di
pedagogia e di didattica di grande successo sino al XV secolo, volto a mi-
Opere di san Bernardo, I. Trattati, col. 914, trad. it. A cura di F. Castaldelli, Scrip-
torium Claravallense, Milano 1984.
A.M. GANTONI, Le Sacre Rappresentazioni e l’educazione pubblica nel Medioevo,
Perugia 1889.
A. GIALLONGO, L’avventura dello sguardo. Educazione e comunicazione visiva nel
Medioevo, ed. Dedalo, Bari 1995.
Grande Enciclopedia illustrata dell’Antico Egitto, a cura di E. Bresciani, De Ago-
stini, Novara 2005.
E. MINGUZZI, La struttura occulta della Divina Commedia, Scheiwiller, Milano
2007.
M. PASTOUREAU, Medioevo simbolico, Editori Laterza, Roma-Bari 2005
Sant’Orso di Aosta. Il Complesso monumentale, a cura di B. Orlandoni, E. Rossetti
Brezzi, 2 voll., Tipografia Valdostana, Aosta 2001.
157
CAPITOLO 10
TERZO POTERE: IL SAPERE
Nel corso dell’XI secolo e ancor più nel successivo, divenne eviden-
te l’inadeguatezza del sistema scolastico ereditato dall’alto Medioevo a
fronte delle nuove esigenze di una società in piena trasformazione. Le
grandi scuole monastiche (Cluny, Bec, Montecassino, Fulda, San Gallo
ecc.), isolate e lontane dai centri della vita cittadina, entrarono in una
crisi profonda.
Il recupero da parte delle città di un ruolo di primo piano nel campo
dell’insegnamento e della formazione delle élites culturali svincolò il sape-
re dall’esclusivo monopolio del clero, aprì la cultura verso nuovi interessi,
spesso caratterizzati da un’impostazione spiccatamente pratica, favorì il
costituirsi di un contesto del sapere più profano, in grado di soddisfare
bisogni e aspettative dell’emergente ceto mercantile.
I mercanti, per affermarsi nel campo degli affari, dovevano saper scrivere
e conoscere gli idiomi stranieri per muoversi sulle piazze estere; dovevano
saper fare di conto, per calcolare interessi e cambi; dovevano avere nozioni
giuridiche, per conoscere le norme che regolavano gli scambi commerciali
nei diversi contesti territoriali. Le scuole cattedrali, e ancor meno quelle
parrocchiali votate alla formazione del clero, non rispondevano dunque ai
loro fabbisogni.
Nelle grandi città mercantili del nord Italia, di Francia e delle Fiandre
nacquero allora, a partire dal XII secolo, scuole private, fondate per ini-
ziativa personale dei maestri, spesso dei chierici, che si facevano pagare
dalle famiglie degli allievi per fornire un’istruzione di base; tuttavia, per
la formazione alla mercatura, restava ancora fondamentale il periodo di
apprendistato, presso altri mercanti o presso le scuole delle Arti, dove si
studiava l’abaco.
158 Squarci nel Medioevo
A partire dal XII secolo, le strade d’Europa, un tempo percorse quasi esclu-
sivamente da pellegrini, mercanti ed eserciti, si andarono dunque affollando
di studenti che si spostavano da una città all’altra per frequentare le lezioni
dei maestri più rinomati: «Percorrono il mondo intero – scriveva Elinando,
abate di Froidmont, ai primi del Duecento – e studiano le arti liberali a Parigi,
gli autori classici a Orléans, la giurisprudenza a Bologna, la medicina a Saler-
no, la magia a Toledo e non imparano i buoni costumi in nessun luogo»6.
In un’epoca in cui le scuole dipendevano prevalentemente dall’autorità ec-
clesiastica, gli studenti appartenevano in maggioranza all’ordo clericales, era-
no cioè chierici. Lo stato clericale non comportava obblighi particolarmente
onerosi: talvolta veniva accettato solo l’abito e la tonsura, con pochi precetti
liturgici. In cambio, si entrava a far parte di un gruppo sociale forte e protetto
dall’autorità ecclesiastica: i chierici godevano infatti del privilegio del tribu-
nale ecclesiastico, erano esenti dal pagamento della maggior parte delle im-
poste civili, fruivano dei vantaggi legati alla dignità ecclesiastica. Non erano
inoltre sottoposti ai rigidi vincoli di castità e potevano anche sposarsi.
Nel nuovo dinamismo urbano del XII secolo, i chierici studenti divenne-
ro un gruppo autonomo molto attivo, particolarmente aperto ai mutamenti
sociali e culturali. Il sapere rappresentava per loro lo strumento più adatto
per comprendere la rivoluzione storica in atto e per rivelare nuove possi-
bilità di analisi del mondo in cui vivevano. Pertanto, non affrontavano lo
studio solamente come preparazione al mondo del lavoro, ma come dimen-
sione esistenziale. Per anni non svolgevano altra attività che non fosse di
studio e di ricerca. Gran parte di loro vagabondava da una città all’altra,
attirata dalle possibilità di vita spensierata che offriva il tessuto urbano.
Spesso privi di mezzi, gli studenti si riducevano a elemosinare vitto e al-
loggio nei conventi o svolgevano incarichi occasionali presso una corte, o
ancora si esibivano sulle piazze o ai banchetti, confondendosi con i giullari
e confluendo così in quel gruppo di irregolari che la società medievale
emarginava in quanto estranei a una qualsiasi forma di produzione.
Questa schiera composita, formata da ecclesiastici che rifiutavano le
strutture della Chiesa e da monaci fuggiti dal convento, divenne sempre
più numerosa dalla metà del XII secolo, andando a formare una sorta di
“proletariato culturale”. Il numero sempre maggiore di diplomati aveva
infatti colmato rapidamente la domanda di personale istruito e per molti
non rimaneva che abbandonarsi a una nuova forma di vagabondaggio,
alla ricerca di un impiego qualsiasi, di un beneficio o di una prebenda.
L’ordo clericalis finì così per comprendere un alto numero di individui
socialmente inquieti e scontenti della propria condizione. Vagabondi e indi-
sciplinati, i chierici studenti furono senza dubbio perturbatori di un ordine
che si voleva fisso e immutabile, ma non costituirono mai un movimento
di opposizione alle forti istituzioni dell’epoca, se non con la disubbidienza
e il capovolgimento parodico di quel sistema all’interno del quale, in gran
parte, avrebbero voluto integrarsi. Anarchici più per necessità che per vo-
cazione, non furono altro che la frangia più chiassosa e dispersiva di quel
vasto rinnovamento sociale e culturale che il XII secolo stava affrontando.
Ormai incapace di riassorbirli, la Chiesa li condannava inesorabilmen-
te, vietando loro di portare l’abito e la tonsura e privandoli dei benefici
ecclesiastici. Prese di mira anche il maestro, considerato il loro maggior
ispiratore, Pietro Abelardo, accusato da san Bernardo di eresia durante il
Concilio di Sens del 1140: «Ecco, viene avanti Golia (Abelardo) col suo
corpo immenso (gli studenti), forte delle sue formidabili armi (la logica e la
retorica) e preceduto dal suo scudiero, Arnaldo da Brescia»7. Nelle dispute
7 Citazione tratta da P.G. WALSH, “Golias” and Goliardic Poetry, in «Medium Ae-
vum», LII/1 (1983), p. 5, in Carmina Burana cit., p. XXI.
Terzo potere: il sapere 163
10.3 Le Università
La carriera dello studente era distinta in due fasi molto precise. Nel cor-
so di un primo periodo, della durata di quattro o cinque anni, lo studente,
di età compresa fra i 13 e i 16 anni, doveva ascoltare le lezioni dei diversi
maestri e, al termine, otteneva il titolo di baccelliere. Veniva formato al
sapere di base, ossia alle sette arti liberali che il dotto, per reputarsi tale,
doveva necessariamente conoscere: grammatica, retorica e dialettica, le
arti del Trivio; astronomia, aritmetica, geometria e musica, le arti del
Quadrivio. Nel secondo periodo, di specializzazione, continuando a fre-
quentare i corsi dei maestri lo studente teneva a sua volta delle lezioni su
alcuni argomenti particolari del programma, commentando, in giorni e
momenti stabiliti, un libro o una parte di esso, che costituiva la base del
dibattito. Al termine di questo periodo, che poteva durare tra i cinque e i
sette anni, lo studente conseguiva il titolo di maestro o di dottore.
166 Squarci nel Medioevo
Alle alterne esperienze di vita dei chierici, di cui sono il prodotto intel-
lettuale, appartengono i Carmina Burana, un’antologia di canti medievali
contenuta nel codice latino 4660 della Biblioteca Nazionale di Monaco di
Baviera, noto anche come codex buranus, così chiamato perché, fino al
1803, è stato conservato nella biblioteca dell’abbazia di Benediktbeuren,
l’antica Bura Sancti Benedicti, fondata da san Bonifacio fra il 730 e il 740
sulle Alpi bavaresi.
Si tratta di canti composti in latino e medio-alto tedesco, databili in mas-
sima parte fra il XII secolo e il primo trentennio del XIII, epoca a cui risale
il manoscritto. Alla compilazione attesero tre amanuensi che distribuirono
i canti in tre sezioni, la prima comprendente testi di carattere satirico e
morale, la seconda canti d’amore e la terza canti bacchici e conviviali9.
Generalmente vengono ascoltati nell’orchestrazione moderna, e notissima,
del compositore bavarese Carl Orff (1937).
CAPITOLO 11
UN MONDO DI CORRISPONDENZE
Nel secondo caso, è l’armonia delle misure del corpo che suggerisce il
concetto di microcosmo: il fatto che l’altezza di un uomo corrisponda alla
distanza fra l’estremità delle dita a braccia allargate, che la testa rientri
regolarmente nell’altezza totale secondo un modulo fisso, che sia possibile
iscrivere la figura umana nel cerchio o nel quadrato. Confermavano poi
questo assunto la regolarità del battito cardiaco e del ritmo respiratorio, se-
condo una concezione che influì non poco sui massimi esponenti dell’arte
del mondo occidentale, da Policleto (V secolo a.C.) a Leonardo da Vinci,
fino ad Albrecht Dürer e a Michelangelo.
L’immagine del microcosmo deriva dalle dottrine mistiche ed esoteriche
sulla corrispondenza tra le parti del corpo umano e l’universo. Dottrine
che erano alla base della scienza medica dell’antichità, la quale assegnava
a ogni parte del corpo un segno zodiacale e curava le malattie attraverso
la consultazione degli astri e lo studio degli influssi da questi esercitati sul
mondo terrestre (animali, piante, elementi cosmici e temperamento uma-
no). Anche la Bibbia riporta questa concezione, definendo l’uomo «coro-
namento e misura della Creazione».
«Il sesto giorno Iddio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, se-
condo la nostra somiglianza: domini sopra i pesci del mare e sugli uccelli
del cielo, sugli animali domestici, su tutte le fiere della terra e sopra tutti
i rettili che strisciano sopra la terra”. Iddio creò l’uomo a sua immagine,
a immagine di Dio lo creò; lo creò maschio e femmina» (Genesi, 1,26-
1,28).
«A nostra immagine e somiglianza» sono parole importanti che l’auto-
re ripete. Con il termine immagine utilizzato in rapporto a Dio, distingue
l’uomo dagli animali, perché dotato di intelligenza, volontà e potenza. Il
vocabolo somiglianza attenua soltanto di poco il precedente enunciato,
escludendo la parità dell’uomo con Dio.
Da questo antropocentrismo discende un’arroganza dell’uomo nei con-
fronti della natura, giudicata del tutto subalterna, che ancora oggi è difficile
da sradicare. L’uomo, a differenza di ciò che era per le civiltà antiche e le
religioni preesistenti, in quanto creato a immagine di Dio non è più una
semplice parte della natura, ma la trascende e poiché la natura è stata creata
per l’uomo, va sfruttata senza inibizioni. Soltanto l’incapacità oggettiva
di porsi come dominatore impedì all’uomo, per secoli, di violentare l’am-
biente.
L’idea che il Cosmo abbia un’anima divina e, in definitiva, corrisponda
a un essere antropomorfo (demiurgo), non è certo esclusiva della visione
cristiana. Oltre agli esempi testimoniati in altre culture e religioni, Platone,
in vari passi del Timéo (29a-47a-b), descrive un universo il cui ordine ar-
monico è all’origine dell’idea stessa di cosmo, termine che deriva dal greco
kosmos e significa letteralmente “ordine”.
Un mondo di corrispondenze 175
fianchi della figura del Cristo, rappresentavano le due ere del mondo: l’età
dei Vangeli (sole) e l’Antico Testamento (luna).
Nell’opera di Piero di Puccio (Cosmografia teologica, 1390, Pisa, Cam-
posanto monumentale) l’enorme figura del Cristo abbraccia completamen-
te la sfera del cosmo, che sorregge con le mani. Al centro, la Terra, con i
monti, i mari e i fiumi. Il modello cosmologico di riferimento, a prescin-
dere dalle implicazioni cristiane, è quello tolemaico geocentrico. In basso
si trova la citazione del passo del libro veterotestamentario della Sapienza
(11,20) in cui è scritto che Dio ha regolato l’universo «in numero, peso e
misura». Le prime nove sfere, rese come cerchi con piumaggi policromi,
rappresentano i nove cori angelici. Dall’esterno: Serafini, Cherubini, Troni,
Dominazioni, Potestà, Principati, Arcangeli, Angeli. Seguono la fascia del-
le stelle fisse, in chiaro, e quella dei segni zodiacali, in scuro.
Al di sotto del cerchio zodiacale sono rappresentati i cieli dei sette pia-
neti. Dall’esterno: Saturno, Giove, Marte, Sole, Venere, Mercurio, Luna.
10.3 L’uomo-microcosmo
Antropomorfismo del cosmo, 1230 ca., dal Liber divinorum operum di Ildegarda di
Bingen, Lucca, Biblioteca Governativa, ms. 1942, f. 9r.
La miniatura rappresenta la seconda visione
del Liber divinorum operum scritto da Ildegarda (1098-1179).
Al centro dell’universo è l’uomo con le braccia aperte, iscritto in un cerchio,
considerato che la sua altezza è pari all’apertura degli arti superiori. È questo,
per la religiosa tedesca, un segno dell’armonia che dimostra come «Dio creatore
dell’universo diede forma all’uomo a Sua immagine e somiglianza». L’energia
suprema, ignea, ha acceso ogni scintilla di vita: corrisponde alla volontà che ordina
l’universo nella saggezza. Il cerchio azzurro allude all’aria umida percorsa dai venti,
rappresentati dalle teste ferine di cervi, pesci e orsi. Al centro, aria bianca e traslucida,
dice Ildegarda, come il tendine di un uomo.
Nel contesto geografico del bacino del Mediterraneo, l’unica civiltà del
mondo antico ad aver sviluppato un sistema coerente di rappresentazione
proporzionale della figura umana è stata quella dell’Egitto dei faraoni.
180 Squarci nel Medioevo
cinque sono i sensi e il quinto giorno della Creazione gli animali popola-
rono la terra.
Il sistema per disegnare la testa e il volto proposto da Villard ha origine
dall’idea che la massima larghezza della testa e la distanza fra il mento e
l’apice del cranio possono essere ricondotte alle diagonali di un quadrato.
Il grande quadrato va poi diviso in quadrati più piccoli: quattro per lato.
Sulla diagonale orizzontale vanno collocati gli occhi, contenuti entro due
quadrati contigui che hanno gli angoli tangenti alla diagonale verticale. Il
naso giace sulla diagonale verticale ed è contenuto entro le dimensioni del
quadrato della griglia i cui lati superiori sono in comune con quelli inferiori
dei quadrati che ospitano gli occhi.
Nonostante l’empirismo che lo ispira, questo metodo garantisce la cor-
retta costruzione della faccia, divisa verticalmente in tre porzioni uguali,
dall’attaccatura dei capelli al mento, nonché il fatto che, virtualmente, la
larghezza, capelli esclusi, corrisponda alla misura di cinque “occhi” posti
uno di seguito all’altro.
Il canone della figura umana nel Rinascimento, coerentemente con lo
sviluppo delle coordinate culturali del Quattrocento e del primo quarto del
Cinquecento, recuperò in termini ormai filologici le radici della classicità,
oppure, in un’altra prospettiva, diede corpo a quell’indirizzo medievale che
mai aveva cessato di vedere il proprio modello nel mondo greco-romano.
La stessa scelta di rifarsi a Vitruvio e al suo De Architectura (III, 3,
23-25) per riproporre, rielaborate in modo originale, le figure canoniche
dell’homo ad quadratum e dell’homo ad circulum (figura umana stante,
184 Squarci nel Medioevo
4 Riduzione stereometrica dei volumi della figura umana, 1515-1519, dai Disegni
del Taccuino di Dresda di Albrecht Dürer, Dresda, Sächische Landesbibliothek,
R. III, 261, f. 140r.
186 Squarci nel Medioevo
Dato un segmento (AC), si ottiene una sezione aurea quando il tratto più
corto (BC) sta al tratto più lungo (AB) come il tratto più lungo (AB) sta al
segmento intero (AC).
BC: AB=AB: AC
AE:EB=AB:AE
Dallo studio del triangolo rettangolo, gli Egizi sarebbero giunti anche a
individuare la sezione aurea. Come si è visto, essa consiste nella divisione
di un segmento di retta in due parti disuguali e tali per cui la più picco-
la sta alla più grande come quest’ultima al tutto. Si tratta di una nozione
matematica fondata su un’idea di armonia universale che, nel corso della
storia, si sarebbe poi caricata di carattere mistico. La frequenza di questa
proporzione nell’architettura e nelle arti figurative egizie esclude che il suo
uso sia stato casuale, anche se delle deduzioni logiche che se ne potevano
trarre rimane testimonianza soltanto per quelle formulate da Euclide nel III
secolo a.C.
Come nella costruzione delle piramidi, anche nella costruzione delle cat-
tedrali è probabile che la scienza operativa abbia preceduto la teorizzazio-
ne. Luca Pacioli (1445-1514), allievo di Piero della Francesca, poi entrato
nell’Ordine francescano dei frati Minori Conventuali, si dedicò agli studi
matematici, accogliendo contributi dalle più svariate fonti speculative, da
Euclide a Fibonacci, agli algebristi arabi. Nel 1509, scrisse il De Divina
proportione, dedicato allo studio della sezione aurea e alle sue possibili
applicazioni in campo architettonico. Amico di Leonardo, si avvalse dei
disegni dell’artista per illustrare la sua opera.
Jacopo de’ Barbari (attribuito), Ritratto di fra Luca Pacioli con un allievo (Guidobaldo
da Montefeltro), 1495 ca., olio su tavola, Napoli, Museo di Capodimonte.
Sul tavolo sono raffigurati gli strumenti del matematico: gesso, spugnetta, compasso,
goniometro, penna. Sono poi ritratti, uno sul tavolo sopra il libro e l’altro trasparente
in alto, due poliedri che servivano al matematico per i suoi studi.
CAPITOLO 12
PIETRE CHE GRIDANO
secondo la quale non esiste realtà, sapere o prassi che non debbano essere
ricondotti al provvidenziale disegno divino cui l’universo si adegua.
La Natura esprime la ricchezza della Creazione, a partire dall’imma-
terialità degli Angeli e della luce per definirsi nel mondo sensibile, negli
elementi e nei corpi della terra, tra cui i metalli e le pietre, in ogni specie
animale e vegetale e infine nell’uomo che, dotato di anima, Dio ha voluto
fosse signore della natura. La scienza è il premio del lavoro intellettuale
e manuale, con cui l’uomo glorifica Dio, e la sua più alta espressione è la
teologia. La morale consente di sancire la vittoria delle virtù sui vizi. La
Storia cala il disegno provvidenziale nel tempo.
Le maestranze che materialmente eseguivano le immagini si ispiravano
però a una molteplicità di fonti: per quanto riguarda il mondo animale van-
no ricordati i bestiari, ossia quei trattati, molto diffusi nel Medioevo, che
catalogavano il mondo animale, mischiando indifferentemente descrizioni
realistiche, spunti tratti dal genere letterario della favola e interpretazioni
etico-simboliche.
Turma camelorum, capitello n. 19, 1132 ca., Aosta, Collegiata di sant’Orso, Chiostro,
lato ovest. Bestiari, miniature, stoffe e avori orientali hanno influenzato lo scultore che
ha saputo imprimere senso del movimento ai corpi degli animali.
Fra i temi più trattati con sicuro riferimento alla pittura miniata sono da anno-
verare quelli ispirati alla visione profetica dell’Apocalisse (Rivelazione) di san
Giovanni, di cui circolano numerosi commenti illustrati. Con un taglio epico-
drammatico, le rappresentazioni della lotta tra il bene e il male dominano l’ico-
nografia romanica.
L’arte figurativa gotica propone, con la stessa insistenza, il tema del Giu-
dizio Universale, ma predilige quello del Cristo in gloria, sovente raffigu-
rato nel tetramorfo3, come se il tempo del mondo si fosse infine compiuto e
il Figlio ne fosse uscito vincitore, chiamando i giusti alla salvezza eterna.
Accanto al Cristo è spesso rappresentata la Vergine in maestà: così, ad
esempio, nel portale più antico di Chartres, in cui il trittico figurativo-sim-
bolico si completa con l’Ascensione. Da qui inizia e prende origine quella
iconografia della Vergine, della Signora, della “Nostra Signora” (Notre-
Dame), protagonista di straordinarie pagine dell’arte europea.
Talvolta, infine, compaiono scene di psicostasia (pesatura dell’anima), os-
sia di giudizio divino individuale dopo la morte. L’immagine della bilancia
che soppesa i peccati e i meriti del defunto veniva spesso utilizzata per rap-
presentare il destino umano dopo la morte, come monito verso il fedele.
Il cantiere degli scultori, sec. XIV, particolare del capitello del portale
meridionale della chiesa di Santa Maria Maggiore a Bergamo.
Il Maestro dirige il lavoro, progetta (tiene in mano il compasso) e sorveglia
l’esecuzione, mentre un primo lapicida inizia a sbozzare un blocco di pietra,
un secondo scultore lavora con martello e scalpello un capitello rovesciato
e un terzo ritocca un capitello già posto in opera.
erano forse vincolati dall’obbligo del segreto sui procedimenti tecnici, non-
ché forniti di qualche particolare segno di riconoscimento.
Più sicura la derivazione dalle associazioni muratorie germaniche e in-
glesi, dalle quali le logge massoniche avrebbero poi derivato simboli e riti,
le Bauhütten e le masons guilds, più particolarmente queste ultime, dalle
quali trasse origine, in Inghilterra, la massoneria simbolica. Gli statuti di
queste organizzazioni, i cui soci erano specialmente addetti alla costruzio-
ne di chiese, non riguardavano solo le regole per la tecnica lavorativa, ma
comprendevano norme etiche (rispetto nei confronti di Dio e della Chie-
sa, fedeltà al sovrano, obbligo di vita morigerata e di onestà scrupolosa
nell’esecuzione dei lavori ecc.) e imponevano il vincolo del segreto, che
superò presto la fase di tutela dei procedimenti tecnici per assumere un più
largo significato ritualistico.
Nel Regius Manuscript e nel Cooke Manuscript del sec. XV sono già pre-
cisati i doveri morali dei soci accanto alle norme tecniche. Speciali segni di
riconoscimento e il giuramento prestato sulla Bibbia dovevano contribuire
a legare i soci, che si riconoscevano fraternamente uguali e speculavano su
antiche e illustri origini della propria istituzione. Il contenuto tecnico cedette
però completamente il posto al simbolico solo molto dopo: era infatti il 24
giugno 1717, giorno di san Giovanni, patrono dell’associazione, quando a
Londra si formò la prima grande loggia della Massoneria simbolica. Furono
tra i fondatori il reverendo James Anderson, primo storico dell’organizzazio-
ne, John Desaguliers, filosofo e giurista, e John duca di Montagu.
La Massoneria, per sua stessa definizione, presume dunque di ispirarsi
all’eredità ideale dei costruttori di cattedrali. È certo che l’ampiezza del
mercato e la concorrenza abbiano sviluppato un precoce spirito corporati-
vistico nei vari gruppi di costruttori di cattedrali, rinforzato dai vincoli di
segretezza sulle tecniche e i procedimenti di cantiere; al pari, l’appropria-
zione della simbologia corporativa da parte della Massoneria settecentesca
ha però creato equivoci in merito alla vocazione esoterica dei costruttori
delle cattedrali.
Un’operazione analoga compì la Massoneria ispirandosi al simbolismo
della Qabbalah (tradizione) ebraica, espressione del pensiero mistico ebrai-
co sviluppatosi in Europa a partire dal VII-VIII secolo e alimentato dalla
tradizione trasmessa oralmente in comunità ristrette, dove si reclutavano i
primogeniti, preferibilmente tra i discendenti della tribù di Levi.
Già a partire dalla fine del Trecento, il racconto biblico della discenden-
za di Adamo si era arricchito di particolari, diventando stabile preambolo
di tutti gli Statuti dell’Ordine Muratorio operativo. Secondo la tradizione,
Jubal era ritenuto il fondatore della geometria e dell’arte muratoria, Tu-
212 Squarci nel Medioevo
balcain fondatore di tutte le arti del metallo, Jabal artefice di due colonne
(Jakin e Boaz) incise con i principi delle sette arti liberali, ritrovate intatte
dopo il Diluvio universale da Ermete Trismegisto e da Pitagora.
O Fortuna, O Fortuna
velut luna come la luna
statu variabilis, sei mutevole,
semper crescis senza sosta cresci
aut decrescis; oppure cali;
vita detestabilis la vita odiosa
nunc obdurat (che mi imponi) ora snerva
et tunc curat e ora aguzza
ludo mentis aciem, la (mia) mente con il gioco (alterno) della sorte,
egestatem, povertà
potestatem (e) ricchezza
dissolvit ut glaciem. dissolvi come ghiaccio.
Sors immanis Sorte crudele
et inanis, ed effimera,
rota tu volubilis, tu, ruota che gira,
status malus, condizione dolorosa,
vana salus ingannevole salute
semper dissolubilis, sempre precaria,
obumbratam nascosta
et velatam e velata
michi quoque niteris; incombi su di me
nunc per ludum (che) per il gioco
dorsum nudum il dorso nudo
fero tui sceleris. espongo alla tua malvagità.
Sors salutis La sorte né salute
et virtutis né successo
michi nunc contraria ora mi concede
est affectus indebolito
et defectus e stanco
semper in angaria. (vivo) in perenne schiavitù.
CAPITOLO 13
STRUMENTI DI RICERCA
mi, statuti, necrologi ecc. Si citano con la sigla F.I.S.I., indicando in cifre
arabe il numero del volume seguite dall’anno di edizione.
Di grande importanza per la storia medievale d’Italia è poi la collezione
tedesca dei Monumenta Germaniae Historica (M.G.H.), iniziata nel 1819
da una società privata sotto la direzione di Georg Heinrich Pertz. Nel 1873,
la società si trasformò in Istituto pubblico sovvenzionato dallo Stato. I Mo-
numenta comprendono ormai centinaia di volumi e il metodo di edizione
ha raggiunto con il tempo una perfezione tecnica esemplare.
I registri della cancelleria pontificia, importante fonte di storia non sol-
tanto ecclesiastica, sono in parte editi nei Monumenta Germaniae Histori-
ca, in parte in edizioni isolate e soprattutto nella Bibliothèque des Ecoles
françaises d’Athènes et Rome.
La Patrologie cursus completus. Series latina, pubblicata da Paul Mi-
gne, raccoglie in 217 volumi gli scritti dei Padri della Chiesa, di autori
ecclesiastici, lettere di pontefici, vescovi, abati e monaci. Anche se molti
dei testi sono stati stampati in maniera difettosa, si tratta di una collezione
comunque utile. Si cita come PL, indicando il numero del volume. Alla
Series latina fa riscontro la Series greca che si cita PG, sempre indicando
il numero del volume. Sussidi alla consultazione della PL sono gli Indici
(voll. 218-221 della collana), da integrare con l’Elucidatio.
Le Deputazioni di Storia Patria e le Società di Storia Patria delle varie
regioni d’Italia hanno pubblicato e pubblicano tutt’oggi numerose raccolte
di documenti. Meritano particolare citazione gli Historia Patriae Monu-
menta (H.P.M.), iniziati nel 1836 a Torino per volontà di Carlo Alberto
e curati dalla Deputazione subalpina di Storia Patria, e i Monumenti sto-
rici pubblicati dalla Deputazione veneta di Storia Patria. Per Milano e la
Lombardia si segnala la Società Storica Lombarda che, dal 1873, pubblica
l’Archivio Storico Lombardo: la rivista, ricca di trascrizioni di documenti
e di descrizioni di opere d’arte, nonché dotata di preziosi indici, consente
la consultazione di testimonianze talvolta altrimenti perdute.
Il lessico delle fonti latine medievali non è sempre di immediata com-
prensione, talvolta neanche per chi conosce bene il latino classico. Un utile
sussidio è fornito in tal senso dal Glossarium mediae et infimae latinitatis,
elaborato dall’erudito francese Ch. Du Fresne Du Cange nel XVIII secolo
e aggiornato nelle successive edizioni, l’ultima delle quali, a cura di L.
Favre, in 10 volumi (Niort, 1883-1887, ristampa Graz 1954).
Numerose località venivano poi indicate nel Medio Evo con nomi diffe-
renti dagli attuali. Può pertanto rivelarsi utile consultare P. Dechamps, Dic-
tionnaire de Géographie ancienne et moderne, Paris 1870 e I.G. Grasse,
Orbis latinus, Berlin 1909 (2ª edizione).
Strumenti di ricerca 221
Per le collezioni più note non è necessario fornire il titolo per esteso,
ma basta la sigla (es. F.I.S.I., R.I.S., M.G.H., P.L.); per quelle meno note a
livello internazionale, conviene riportare il titolo per esteso e far precedere,
all’elenco delle fonti e delle opere, una legenda delle abbreviazioni utiliz-
zate nella bibliografia e nelle note al testo.
I manuali pubblicati negli ultimi anni sull’argomento sono numerosi. Tra tutti si
segnala quello di U. ECO, Come si fa una tesi di laurea, Bompiani Milano 2001,
diventato ormai un classico nel suo genere. Utili anche C. CORSETTI, Piccola
guida alla tesi di laurea, Aracne, Roma 1992, e P. MELOGRANI, Guida alla tesi di
laurea, Rizzoli, Milano 1993.
S. TRAMONTANA, Capire il Medioevo. Le fonti e i temi, Carocci, Roma 2005.
AIRESIS
Collana diretta da Paolo Aldo Rossi e Massimo Marra