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Frenetici per il Tempio (il terzo)


Maurizio Blondet

25 Ottobre 2013

«Noi siamo la generazione del Tempio», ha detto Danny Ayalon, intendendo: la generazione
di ebrei che ricostruirà il Tempio di Gerusalemme. Il fatto è che Ayalon non è un fanatico
marginale, bensì il vice-ministro degli Esteri di Netanyahu, per conto del partito razzista
ebraico Ysrael Beitenu, ancora più a destra del Likud, e in forte crescita elettorale. Ayalon è
apparso in un video promozionale, prodotto dal ministero degli Esteri, per propagandare le
millenarie radici ebraiche in Gerusalemme; in esso si vede la Moschea d’Oro che
gradualmente svanisce e scompare, mentre al suo posto appare il Tempio di Salomone;
durante la dissolvenza, Ayalon spiega che la Moschea d’Oro è stata costruita dove sorgeva il
Tempio ebraico, di cui usurpa lo spazio sacro. Il quotidiano Yedioth Aronoth ha rivelato
l’esistenza di una versione primitiva del video, in cui la Moschea d’Oro veniva esplicitamente
demolita, e seguita da una scena di costruzione del Tempio ebraico sulle rovine. Questa
versione del video è stata poi censurata dallo stesso ministero degli Esteri in vista delle
prevedibili reazioni dei palestinesi e degli islamici, e sostituita con la versione più edulcorata.
In cui tuttavia Ayalon promette che «noi saremo la generazione del Tempio» (Israele lancia
una campagna per le demolizione della Moschea di Al-Aqsa).

Intanto, esisterebbe un progetto per costruire una sinagoga nell’area della moschea di Al
Aqsa, uno dei massimi luoghi santi islamici, nella stessa spianata dove si trova la moschea
d’oro.

Il Wakf (l’organizzazione islamica che mantiene il controllo della spianata delle moschee,
sempre più insidiata) e gli osservatori palestinesi interpretano come un’accelerazione del
progetto di ricostruzione del Tempio da parte del governo attuale, cogliendo l’occasione dei
conflitti intra-islamici istigati dai sauditi e monarchi del Golfo, che indeboliscono il fronte
musulmano. La distruzione della Moschea d’Oro sarebbe massimo sacrilegio per l’Islam,
essendo quello il luogo da cui, secondo la tradizione, il Profeta salì ai cieli a conversare con
Abramo e gli altri patriarchi, nel «viaggio notturno». Ma è anche il solo luogo al mondo in cui
gli ebrei devono ricostruire il Tempio, perché è il solo luogo al mondo dove il sacrificio
dell’agnello pasquale sarebbe «valido» in senso sacramentale: dal pavimento della moschea
d’oro sorge infatti la Roccia, detta anche Pietra di Fondazione, dove secondo le fonti ebraiche
Abramo fu sul punto di sacrificare suo figlio primogenito Isacco per ordine di YHVH ;
secondo il Talmud, era quella la roccia su cui fecero sacrifici a Dio Adamo, Abele e Noè. Al
difuori di questo luogo, il sacrificio ebraico non è «efficace», ossia non rinnova l’Alleanza – e
infatti è interrotto da duemila anni mancando agli ebrei l’accessibilità alla «materia del
sacramento».

Fin dalla guerra dei Sei Giorni si sono verificati molti tentativi ebraici di impadronirsi della
spianata e porre le basi per la ricostruzione del Tempio; tra l’82 e l’84 ci furono non meno di
tre tentativi per far esplodere la moschea, tentativi a cui parteciparono protestanti americani;
ogni anno piccoli gruppi fanatizzati compiono il tentativo di penetrare nella spianata e porre la
prima pietra, suscitando disordini. Fino ad oggi, le autorità sioniste hanno scoraggiato questa
tendenza. Adesso invece essa par diventare la politica ufficiale; il sionismo «politico» e laico
si rivela così un vettore del messianismo apocalittico, carattere a lungo simulato sotto la
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laicità e il socialismo – da tempo tramontati. Un antico divieto rabbinico, che proibiva agli
ebrei di calcare l’area dell’antico Tempio, viene rovesciato dagli stessi rabbini talmudici. Un
articolo del Jerusalem Post del 15 ottobre scorso reclamava «il diritto al Monte del Tempio»,
ed incitava la polizia a «imporre il più elementare dei diritti religiosi». Le irruzioni di gruppi
ebraici nell’area proibita si stanno moltiplicando. (The Fight for Prayer at the Temple Mount
Intensifies)

Pochi giorni orsono Moshe Feiglin, un membro della Knesset per il Lukud Beitenu ha preso
possesso della moschea di Al Aqsa accompagnato da trenta attivisti che sventolavano
bandiere israeliane e cantavano l’inno nazionale; poco prima, cento soldatesse israeliane in
uniforme sono state accompagnate in visita guidata all’interno della moschea dove hanno
ascoltato una lezione sul Tempio. Tra i fanatici del Tempio, è interessante sapere che si
annovera Giulio Meotti, giornalista de Il Foglio, che in Israele collabora ad Arutz Sheva,
l’organo dei «coloni» ebraici che occupano con la violenza le terre dei palestinesi.
All’improvviso, in Israele tutti smaniano per riavere il Tempio, all’unisono; mentre lo Stato
ebraico si sta tramutando, per usare le parole di Neri Livneh, una autorevole opinionista di
Haaretz, un una «teocrazia xenofoba».

Tali frenesie collettive e sincroniche, forse create dai manovratori di état d’esprits, non sono
mai da sottovalutare: né quando avvenivano nei ghetti europei, né adesso nel grande ghetto in
cui si è murata Israele. Esse possono essere intese a precipitare certi eventi. (Temple Mount:
Sometimes an Honest Man Belongs in Jail)

Questa frenesia viene dalla sensazione di «avere poco tempo» (Apocalisse 12: «Guai a voi, o
terra, o mare! Perché il diavolo è sceso verso di voi con gran furore, sapendo di aver poco
tempo»). Netanyahu è frenetico per l’apparente cordialità dell’amministrazione Obama verso
il nuovo premier iraniano Rouhani, ed usa tutti i (potenti) mezzi di pressione per convincere
gli americani, invece, a bombardare l’Iran. È piombato a Roma per malmenare il segretario di
Stato John Kerry, e l’ha fatto in sette ore di colloquio, senza ottenere granché; ha chiesto di
vedere il Papa e ne ha ricevuto un cortese rifiuto, da cui si intuisce che Bibi aveva preteso
l’incontro senza preavviso, il che dà un’idea della sua padronale imperiosità, e allo stesso
tempo delle sua smaniosa fretta.

Come abbiamo scritto in un recente articolo, Bibi sta tentando febbrilmente di organizzare un
bombardamento della installazioni atomiche iraniane da solo, senza copertura americana, ma
con copertura saudita; ma la capacità iraniana di intercettare e deviare i droni israeliani,
prendendone il controllo elettronico, ha reso vano questo piano. Varie voci nel governo
ipotizzano ad alta voce che «di conseguenza», Israele sarà «obbligata» a neutralizzare le
installazioni iraniane con il lancio di bombe nucleari tattiche, evidentemente lanciate da
missili. Come una corrente elettrica, questa idea e questa frenesia si trasmette nella comunità:
Sheldon Adelson, il re dei casinò americani, grande finanziatore dei repubblicani, ha
dichiarato che Obama, invece di negoziare con l’Iran, «deve sparare una bomba atomica» nel
deserto iraniano, rendendo chiaro che con la prossima spazzerà via Teheran; ed ha espresso
questo proposito nella Yeshiva University di New York, raccogliendo una marea di applausi
(ovviamente) frenetici. Il tema della conferenza, indicato dal rabbino Shmuel Boteach, era
sobriamente questo «Esisteranno gli ebrei? Iran, assimilazione e la minaccia alla
sopravvivenza ebraica». (NY panel featuring Adelson asks whether Jews can exist without
Israel)
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Si noti: l’anima ebraica si sente assediata da due parti. Dal «nemico» che la vuole «cancellare
dalla carta geografiche» con la bomba atomica, ma ancor più dall’«amico» che la accetta a
braccia aperte, anzi la copre di riguardi, la coccola, le spiana la strada, cancellando ogni
discriminazione:; ciò porta alla «assimilazione», l’ebreo finisce per confondersi con gli altri
cittadini e diventare un membro della comune umanità. Pericolo estremo. Oggi, l’Iran ha fatto
sapere di aver smesso l’arricchimento dell’uranio fino al 20%: è un gesto distensivo in vista
delle trattative con gli americani, russi ed europei, in cui spera di ottenere in cambio un
sollievo dalle sanzioni economiche. Questo viene «sentito» dall’anima ebraica come un
pericolo assoluto: la situazione in cui Nemico e Assimilatore diventano un unicum.

Fantasie smaniose di distruzione e di auto-distruzioni immaginarie: la classica sintomatologia


di quella malattia israelitica che Gilad Atzmon ha descritto come «Sindrome di stress pre-
traumatico». Accade che le persone normali in situazioni belliche soffrano di stress post-
traumatico (ossia dopo aver subito un trauma); solo gli ebrei coltivano lo «stress pre-
traumatico»: stressati da un evento non ancora accaduto, spesso del tutto immaginario,
cercano disperatamente di prevenirlo aggredendo preventivamente il nemico delle loro
fantasie; solo dopo averlo incenerito placano le loro ansie. Oggi Netanyahu e i suoi smaniosi
concittadini trovano un solo paradossale alleato che condivide in pieno le loro frenesie: la
monarchia saudita (1).

Anche i principi miliardari di Riyad sono esasperati da come Obama ha interrotto l’offensiva
contro Damasco, accedendo ai negoziati suggeriti da Mosca. Pare che sia per rappresaglia che
l’Arabia abbia rifiutato il seggio come membro (non permanente) del Consiglio di Sicurezza
dell’Onu, per cui aveva profuso soldi e influenza; per far mancare un voto che in altri tempi
sarebbe stato totalmente a favore di Washington. «È un messaggio per gli USA, non per
l’ONU», ha dichiarato il principe Bandar bin Sultan (rinominato a Damasco Bandar bin
Satan) gestore dei terroristi guerriglieri in Siria. A Putin, Bandar ha mandato un altro
messaggio, se – come sospettano gli inquirenti russi – l’attentato in cui una donna kamikaze
del Dagestan ha fatto esplodere un pullman a Volgograd doveva avvenire in realtà a Mosca;
terroristi dagestani già ricercati erano arrivati a Mosca ed aspettavano la donna, Njda
Asylialova, che recava con sé l’ordigno. L’esplosione sul bus è stata quasi certamente
accidentale.

È solo un assaggio degli attentati alle Olimpiadi invernali di Soci, che Bandar ha apertamente
annunciato a Putin nel recente colloquio a quattr’occhi. Il fatto è che anche il potentissimo
Bandar «sa di avere poco tempo» (Apocalisse 12): nella lotta a morte per la successione al re
Abdullah, lo scacco sofferto dal principe in Siria l’ha messo in svantaggio, svantaggio che
deve recuperare. Perché a quanto pare, c’è la fazione «moderata» che vuole abbandonare il
sogno di dominazione regionale wahabita nutrito da Bandar e dai suoi seguaci di palazzo, e
questa può avere il sopravvento. Il capo di Hezbollah, l’acuto Hassan Nasrallah,
evidentemente conosce questa divisione interna al regime saudita, perché in un recente
discorso ha detto: «Faccio appello all’Arabia Saudita, alla Turchia, agli altri stati del Golfo,
perché rivedano la loro posizione... Non porta a nulla perseguire una vittoria militare (in
Siria). Mettete da parte questo odio e pensate con la vostra testa. Pensate ai vostri interessi,
agli interessi della regione, alla sopravvivenza della regione». Un altro principe della famiglia,
Turki el-Feisal, ha definito l’accettazione americana alla eliminazione dei gas di Assad sotto
controllo internazionale «un caso di flagrante tradimento».

La frenesia anti-americana che ha colpito la Casa Reale saudita de resto è quasi impotente:
grazie ai suoi scisti bituminosi, gli Usa stanno per diventare autosufficienti sul piano
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petrolifero (o così fanno credere), per cui hanno meno bisogno del greggio del Golfo.
Diplomatici occidentali hanno rivelato che, nell’imminenza dell’attacco americano alla Siria,
gli americani avevano fatto sapere a Riyad che la flotta bellica Usa non sarebbe stata in grado
di proteggere completamente l’Arabia e i suoi giacimenti: un vero schiaffo senza precedenti,
la fine di un’epoca. Nello stesso tempo, la speciale agenzia americana per questo genere di
business ha fatto sapere al Congresso di aver venduto all’Arabia Saudita una gigantesca
fornitura di armamenti pesanti d’ultimo modello per 6,8 miliardi di dollari, e agli Emirati, altri
4 miliardi. È la prova quasi umiliante della dipendenza a cui si sono ridotti gli Stati del Golfo
sotto un protettore sempre meno interessato a proteggerli.

La sola cosa che Bandar e Netanyahu possono ancora fare, è rovinare la festa. Mandare a
monte l’incipiente ravvicinamento fra Obama e Teheran, attaccando l’Iran e incendiando il
Golfo; e, per gli israeliani in frenesia, instaurare di forza e a ritmo accelerato il Regno
d’Israele messianico, quello sognato da sempre, previsto e promosso dal Talmud, e scopo
finale del sionismo anche nella sua fase «laica»: rifare il Tempio nel solo luogo dove il
sacrificio è «efficace», ripetervi il rituale sgozzamento dell’agnello in modo «valido» e
dunque – nella teologia talmudica – costringere YHVH a tener fede al Patto, alla promessa del
dominio totale sugli altri Stati.

In questa direzione, è altamente significativa la confidenza fatta al vice-presidente americano


John Biden da Shimon Peres, presidente di Israele. A novant’anni, Peres (nato Perski in
Polonia) è il più antico esponente vivente del sionismo «laico» e socialista, è stato sempre ai
vertici della politica, ha fatto più che la sua parte in pulizia etnica anti-palestinese, ha
commesso la sua quota di crimini contro l’umanità e di occupazioni di terre e distruzioni di
case altrui, ha avuto parte da protagonista nelle guerre di Israele contro l’Egitto, la Siria, il
Libano, eccetera. È stato un flessibile manovratore della propria ideologia da sinistra a destra,
finendo per sostenere Ariel Sharon. Ora, è stato messo nella più alta poltrona sionista, ma
puramente formale, da un potere ebraico che diventa sempre più rabbinico e fanatico. Come
un augusto reperto archeologico.

Ebbene: Peres, che è anche un ateo dichiarato, come i vecchi socialisti ebrei, ha espresso in
molte occasioni, negli ultimi tempi e davanti a diversi uditori, il dubbio sull’intero concetto di
Eretz Israel, ossia di una conquista territoriale come destino del popolo eletto, ordinato da
Dio. Qualche senso di colpa pare emergere nella sua anima legnosa. Secondo lui, il sionismo
è fallito a tal punto che – ha detto ad un membro del Congresso Usa – «se mai rivedrò i miei
genitori, non avrò il coraggio di guardarli negli occhi». (Peres suffering from Portnoy’s
Complaint?)

Come? Il vecchio socialista ateo pensa all’aldilà? È tornato credente? Se sì, non certo nel
modo in cui lo sono i rabbini, i coloni fondamentalisti e quelli che vogliono ricostruire il
Tempio. A Joe Biden, in quella conversazione che al vicepresidente Usa è apparsa «una
seduta psicanalitica», Shimon Peres ecco cosa gli ha detto: «Chissà se Dio esiste. Ma se
esiste, dubito che tratti in patrimoni immobiliari e terreni»...

1) In realtà, bisogna aggiungere la Turchia. Che continua ad armare i jihadisti in Siria a fianco
dell’Arabia Saudita. Il Wall Street Journal, in un articolo sorprendente, cita un parlamentare
turco kemalista, Mehmet Ediboglu, che ha denunciato di aver visto una decina di auto della
polizia turca che scortavano una cinquantina di autobus carichi di jihadisti verso il confine
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con la Siria: almeno 2 mila combattenti. Wall Street Journal accusa il capo dei servizi segreti
turchi, Hakan Sudan, di condurre una sua guerra privata, con intenzioni anti-americane. Molti
i lati paradossali di questa chiamata di correo: fino a ieri, l’aiuto dei turchi ai ribelli non
disturbava Washington. Hakan Fidan, diversamente da Erdogan, non è mai stato un Fratello
Musulmano, ma un seguace di Fetullah Gulen, il misterioso guru di diversi milioni di turchi,
fra cui il presidente Abdullah Gul; e l’imam Gulen abita...in Pennsylvania. Quant al Wall
Streeet Journal, non occorre nemmeno ricordare che appartiene a Murdoch ed ha sempre
sostenuto politiche accesamente filo-israeliane, per non dire neocon.

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