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Maurizio Blondet

Una lettera: La famiglia di Gesù

10 Aprile 2013

«Direttore, mi rendo conto che l’interlocutore per certe domande non è un


giornalista ma dovrebbe essere un religioso, ma dato che non conosco religiosi
all’altezza della risposta, faccio a voi la domanda:

Cosa si può dire con certezza circa la famiglia e la genealogia di Gesù?

Gli ebrei hanno una quasi ossessione per le genealogie, quindi anche nel caso
del messia non c’è dubbio che notizie del genere li interessassero da morire,
inoltre la Palestina di allora era abitata si e non da 200.000 persone,
Gerusalemme era un paesone di circa 50.000 abitanti e il resto erano paesini
dove tutti si conoscevano, in particolare si conoscevano le famiglie.

Dunque di Gesù non potevano non essere noti a tutti, il padre, la madre e
almeno i nonni, se non i bisnonni. Eppure, leggendo il vangelo, non trovo una
corrispondenza tra la genealogia tra quanto indicato da Matteo e quanto da
Luca(parlo soltanto delle ultime due generazioni):

Mattan – Giacobbe – Giuseppe


Mattat – Eli – Giuseppe

Secondo voi come mai queste differenze che vengono spesso usate per negare
la veridicità del Gesù storico? Come mai i due evangelisti non forniscono una
genealogia per lo meno corrispondente nelle ultime generazioni?

Giulio»

Caro lettore, quella su cui lei mi pone la domanda è una delle questioni più
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discusse e irrisolte degli studi biblici. Generazioni su generazioni di filologi,


linguisti, epigrafisti, biblisti si sono affaticati sul problema delle discrepanze
nella genealogia di Gesù portate dai due evangelisti: senza risolverlo. Ci
hanno dato solo congetture e supposizioni. Non si aspetterà che io sia in
grado di risolvere l’enigma. 

Come lei dice, la difformità delle due genealogie viene (veniva) usata come
argomento sulla non-veridicità storica di Gesù. A me, come credente
qualunque, ha sempre colpito invece come dimostrazione: dimostrazione
dello scrupolo e fedeltà con cui la Chiesa delle origini ha tramandato i due
vangeli, senza nemmeno provare ad «omogeneizzarli» e ritoccarli per far
concordare le due genealogie. Così li avevano ricevuti i primi cristiani e così
li consegnavano ai successori, senza modificarli.

Lo scopo per cui Matteo e Luca riportano la genealogia è – evidentemente –


quello di dimostrare che Gesù di Nazareth era il discendente di Davide e
dunque erede legale al trono d’Israele; la Chiesa primitiva, composta da
persone intelligenti, era ben cosciente che le difformità visibilissime nei due
testi indebolivano proprio la dimostrazione che volevano portare a prova; ma
nulla cambiarono. Erano parola di Dio e sarebbe stato sacrilego solo pensare
di modificarla.

Questo è appunto ciò che intendiamo quando parliamo di Tradizione, e come


cattolici affermiamo che ha lo stesso valore delle Scritture: la fedelissima,
attentissima consegna del «verbo» ricevuto dai testimoni oculari ed auricolari
del Cristo. Se nei due vangeli ci sono palesi divergenze genealogiche, anche
queste erano volontà di Dio per i primi cristiani; ed hanno tramandato a noi
l’enigmatica volontà. A questo mi sforzo, come credente, di restare.

Giustamente lei dice che gli ebrei erano ossessionati dagli alberi genealogici;
sono quasi sicuro che Giuseppe e Maria e le rispettive famiglie, conservavano
le prove genealogiche della loro discendenza da re Davide, di cui saranno
stati a buon diritto orgogliosi – così come altre famiglie illustri avranno
mantenuto rispettatissimi rotoli che dimostravano la loro discendenza. Il fatto
è che queste genealogie erano molto probabilmente già state «aggiustate» già
prima, in tempi molto antichi, secoli prima della nascita di Gesù il Nazareno:
precisamente dopo il 538 a. C., l’epoca del ritorno di una colonia ebraica
dall’esilio da Babilonia, dove erano stati deportati circa un secolo prima. Gli
eventi sono narrati nei libri di Esdra e Neemia. Un imperatore persiano
achemenide (Ciro, o Artaserse II) che aveva disfatto l’impero babilonese,
consentì agli ebrei deportati di tornare in Giudea per ricostruirvi il tempio. È
comprovato che gli achemenidi fecero lo stesso a favore del santuario egizio
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di Sais, e il tempio di Letò (madre di Artemide) a Xanthos in Asia Minore. 

«La volontà di Ciro e successori di rispettare, e al bisogno di restaurare


divinità e culti locali rispondeva a una intenzione politica precisa», scrive
André Paul, uno dei massimi esperti di lingue e culture semitiche (1): «Il
Tempio ne era la centrale tattica più sicura. L’autorità centrale lo controllava,
era il supporto tecnico di una pesante e succosa fiscalità».

Già: restaurando antichi culti, gli achemenidi usavano i templi come collettori
di entrate tributarie. All’epoca, non c’erano le esattorie. Luoghi di
pellegrinaggio e di raduni di folle, feste e di offerte obbligatorie, i santuari
raccoglievano quasi naturalmente i tributi per la Corte (nel Tempio di
Gerusalemme funzionava una fonderia per l’argento raccolto); Ciro (o uno
dei suoi successori) consentendo agli ebrei di «tornare», si assicurava inoltre
una categoria di esattori a lui fedeli, e stranieri in mezzo ai popoli da tassare. 

Nonostante questo, la massima parte degli ebrei «deportati» se ne restò


felicemente in Babilonia, ricca e vibrante metropoli in cui avevano intrecciato
buoni affari. A tornare dal cosiddetto esilio non fu un popolo, ma una setta;
forse cinquemila persone religiosamente ed ideologicamente motivate;
diciamo, i primi sionisti. Da quel ritorno comincia l’ossessione ebraica per le
genealogie, ben attestata nel Libro di Esdra. Perché?

Perché solo la minoranza eletta che poteva dimostrare la sua discendenza dai
sacri antenati poteva partecipare alla lucrosa gestione fiscale e al prelievo
dell’aggio esattoriale. Si sa che quei primi coloni si riunivano in una
assemblea (kahal) cui partecipavano soltanto «quelli dell’esilio», in
opposizione alle «genti del paese» (‘ammè haaretz’) che erano escluse. Si
fecero spietate epurazioni, attestate nei libri di Esdra e Neemia; si dovettero
ripudiare «le mogli straniere», adottare l’endogamia, si dovette mantenere
inflessibilmente «la separazione dalle genti del paese», sotto pena di essere
«esclusi dall’assemblea dell’Esilio» (Kahal ha Golah) e dunque dalla
spartizione.

Oggi si ritiene che solo allora, nel V secolo, nacque effettivamente l’ebraismo
monoteista, con il suo Tempio unico e la distruzione dei santuari politeisti
concorrenti (un solo Dio, un solo Tempio, un solo introito fiscale); con il
rifiuto di associarsi ai Samaritani, ebrei come loro ma non «dell’Esilio» e
quindi: «Non spetta a voi con noi costruire il Tempio; noi soli lo
costruiremo!» (Esdra, 4, 3).

Fu ricostruita allora, o perfezionata, la storia primordiale del popolo: e tutta fu


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basata sul tema di un altro antichissimo Esilio (in Egitto) e di un ancor più
archetipico Esodo, e della conquista della Terra Promessa strappata alle
mitiche ed ostili «genti di Canaan». Il più lontano passato del «popolo eletto»
fu evocato e, stranamente, combaciava con la situazione presente... Tutti
dettagli che l’archeologia israeliana, accuratissima, non è riuscita a
confermare. 

Ma Dio scrive dritto su righe storte.

In una parola: l’onore e l’onere del servizio al Tempio spettava in esclusiva


alla «Comunità dell’Esilio», intesa come corpo mistico – qualcosa di non
diverso abbiamo conosciuto in anni recenti, quando certi posti pubblici
andavano di preferenza a chi «aveva fatto la resistenza». Quelle famiglie
avevano documenti autenticissimi che dimostravano la loro discendenza dalla
«Comunità dell’Esilio», tornata da Babilonia; solo quella minoranza che
poteva dirsi «semenza santa d’Israele» depositaria delle promesse di YHVH.
Come scrive ancora André Paul, a quel tempo «vi furono censimenti,
accompagnati da ricerche, da artifici o da alibi genealogici». Alberi
genealogici che, per essere nobilitanti, risalivano a capostipiti come Adamo,
Abramo, Isacco, a Mosè e Aronne, ai «tornati dall’esilio» precedente
(egiziano). Antenati celebri ma i cui ininterrotti lignaggi non dovevano essere
accertabili in base a documenti anagrafici né da memoria d’uomo: questa non
va oltre, in genere, tre o quattro generazioni.

Le genealogie di Gesù riportate nei vangeli risalgono, almeno in parte, a


questo periodo e ne condividono la veridicità caratteristica : per esempio è
stato notato che quella di Matteo consiste di tre gruppi di 42 nomi, come per
aiutare alla memorizzazione della lista; vi corre il numero 14 come
importante, perché nella numerologia ebraica (la Gematria) il 14 è il numero
di «David». In entrambe, poi, appare con spicco Zorobabele («seme di
Babilonia»: era nato in esilio), uno dei capi e condottieri della setta che guidò
il «ritorno dall’esilio» della «semenza santa», citato nel libro di Esdra.
Zorobabel vantava discendenza da Davide; Gesù discende da Zorobabel,
dunque è il vero Messia. Questo era detto per gli ebrei.

Questo è tutto quel che posso dirle sugli ascendenti del Signore. Posso riferire
invece qualcosa di più sui «discendenti della famiglia di Gesù», un particolare
che credo poco noto anche ai cristiani. Secondo lo scrittore Egesippo (vissuto
nel secondo secolo), Vespasiano, dopo la caduta di Gerusalemme, ordinò che
fossero ricercati tutti i discendenti di Davide, «affinché non sopravvivesse
presso i giudei nessuno dei discendenti della tribù dei re», seme di future
ribellioni. Pare che in queste circostanze oppure dopo, sotto Domiziano,
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furono arrestati due cristiani «nipoti di Giuda, detto secondo la carne fratello
del Signore», in quanto denunciati da «eretici» delatori come discendenti di
David. I due furono interrogati dai Romani «sul Cristo e sul suo regno, quale
fosse e quando sarebbe comparso».

Essi risposero « che il suo regno non era di questo mondo né di questa terra,
ma celeste e angelico, e che si compirà alla fine dei secoli, quando Cristo
verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti e renderà a ciascuno secondo le
sue opere».

A quel punto furono rilasciati: benché avessero confermato di essere


discendenti da Davide, si vide subito che erano dei poveri che campavano del
loro duro lavoro. I romani notarono che avevano i calli sulle mani. A precisa
domanda dell’inquisitore, «Essi risposero che avevano in totale novemila
denari, metà per ciascuno, e dicevano di non averli in contanti, ma che erano
il valore di un terreno di soli trentanove plethri, di cui pagavano le tasse e di
cui campavano, coltivandolo essi stessi. Allora Domiziano non inflisse loro
nessuna condanna, ma li disprezzò giudicandoli di poco conto, li lasciò
andare».

Questi due personaggi erano ancora vivi al tempo di Traiano (98-117 d. C.) e
«furono a capo delle chiese come testimoni e insieme parenti del Signore». 

Non andò sempre così bene. Secondo Egesippo, la ricerca dei davidici si
ripeté sotto Traiano, e portò alla morte di Simeone, figlio di Clopa; e Clopa
era un fratello di San Giuseppe, il padre putativo di Gesù. Simeone fu il
secondo vescovo di Gerusalemme, dopo il martirio del primo, Giacomo
«fratello» di Gesù. Lui stesso fu martirizzato per crocifissione in tarda età,
probabilmente attorno al 107 d. C. Tutto ciò è narrato da Eusebio di Cesarea,
che indica come fonte Egesippo (2).

Ebbene, caro lettore, che vuole che le dica: a me questi parenti poveri, che si
presentano alle pericolose autorità romane con mansuetudine di agnelli ed
obbedienza di sudditi; che con coraggio si dicono di stirpe regale, e intanto
hanno le mani callose per la zappa; che professano con sincerità la loro fede
in Cristo, sapendo quel che rischiano; che sono capi e «testimoni» della
piccola comunità, senza per questo smettere di arare il loro campicello; che si
offrono alla pena più atroce, da innocenti; ebbene, a me paiono
una prova della Verità di Cristo molto più convincente di qualunque
genealogia divergente.
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1) André Paul, «Et l’homme créa la Bible – De Hérodote à Flavius Josèphe»,


Bayard, pagine 69 e seguenti.
2) Marta Sordi, «I cristiani e l’Impero Romano», Jaca Book, pagine 72-73.

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