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«Salve Direttore,
è col solito interesse che ho concluso la lettura del suo articolo ‘Alunni di sostegno agli
insegnanti (di sostegno)’, e ho trovato dei riscontri che in questo momento particolare e
delicato della mia vita mi hanno colpito non poco. Posto che le allusioni approntate nel Suo
intervento si riferissero più che altro all’istruzione (con annessi studenti ed
insegnanti) impartita nei primi otto anni di scuola, ossia elementari e medie,ritengo di poter
ampliare il discorso al sistema tutto, fino alla non meno colpevole istituzione universitaria.
C’è chi in uno dei Suoi ultimi articoli l’ha, esplicitamente o meno, tacciato di un certo
classismo sui generis, sostenendo la tesi secondo cui Lei fomenterebbe un certo aprioristico
snobismo verso coloro che ‘mancano d’istruzione’ - le cosiddette ‘scuole alte’.
Riportare casi innumerevoli di persone dalle indiscusse capacità, a dispetto dei loro titoli di
studi, comporta l’implicita asserzione secondo cui ‘si possa’ disporre di certe
facoltà ‘malgrado’ il mancato riconoscimento da parte di un qualsiasi organo preposto. In
altre parole, la tesi apparente è questa: se studi sei capace, se non studi non è detto. Sembra
quasi infantile un ragionamento del genere, e sono convinto che
i ‘detrattori’ dell’Università (per lo stato in cui versa) non intendano affatto metterla in
questo termini. Tuttavia certe uscite legittimano un sistema che vive di questi luoghi comuni,
oramai divenuti pure nocivi. Porto brevemente la mia di esperienza.
Adesso, a distanza di cinque anni da quando misi piede nel mondo universitario,mi ritrovo a
non avere in mano nulla, a dovermi anzi reinventare per amore di seguire le mie aspirazioni -
uno dei principali carburanti che mi permette di‘rimanere in vita’. Per dovere di
cronaca: diffidate da chi vi dice di aver perso tempo all’università a causa di un ateneo
disorganizzato, dei professori inetti, delle scadenze assurde, degli appelli improponibili, della
mole di materie stupidamente composte e via dicendo. Non perché quanto appena rilevato
non sia vero - anzi! - ma è proprio questo il motivo per cui è divenuto più facile ‘farla
franca’ e trovarsi con un pezzo di carta in mano senza nemmeno sapere perché. Come mai
non ce l’ho fatta io, visto che è così semplice?
Cosa significa tutto ciò? Che nonostante tu dimostri un serio interesse per quella specifica
materia - dando prova di voler apprendere, di voler davvero imparare - la strada ti viene
preventivamente sbarrata perché non hai un pezzo di carta. Certo, ‘sto famoso pezzo di
carta, a sua volta, non è una garanzia. Ma se ce l’hai,dall’altra parte un interlocutore lo
trovi. Qualcuno mi dirà che i Master o un qualunque altro corso specifico post-laurea, in
quanto tali, non possono prescindere dalla laurea. Ok, ci siamo. Ma in quei tre anni o più
cosa ho appreso? Materie a pappagallo, sistemi più o meno consoni per portarsi avanti? Vita
artificialmente facile? Beh, ma l’Università non nacque per formare, anziché, al massimo,
‘informare’? Sta di fatto che combattere un sistema che funziona (per quanto ancora?) in
questo modo, è come sbattere la testa nel muro - è il nostro capo che ci rimette.
Mi devo allora adeguare al regolare iter, deciso e convinto nel voler seguire le mie
aspirazioni. Attenzione però: per una finta esigenza di facciata, le Università pubbliche
hanno indetto da quest’anno un test d’ammissione per tutte le facoltà - facendo pagare
un’esosa tassa per la partecipazione (i 40 euro dell’ateneo in cui mi trovo non sono pochi!).
Avendo mancato questo appuntamento, ed essendo già su con gli anni (sì perché, in questo
folle sistema, a 23 anni rischi seriamente di essere tagliato fuori, se non lo sei già) devo
necessariamente affidarmi ad un qualche ateneo privato. Non posso ciondolare per un altro
anno ancora. Ho già vagliato diverse ipotesi, cercando di reperire quante più informazioni
possibili.
Non è che per caso Lei, Direttore, saprebbe qualcosa riguardo l’Università Cattolica del
Sacro Cuore o la IULM, entrambe di Milano? Purtroppo la scadenza per l’immatricolazione
è oramai alle porte, e per me significa fare un passo importante, anzitutto per lo spostamento
che comporterebbe lasciare affetti come la famiglia e la mia ragazza. Lungi da me delegare
ad altri simili scelte; tuttavia sono del parere che si debba cercare di tenere in considerazione
più voci possibile. La Sua, presso di me, gode di una certa stima, quindi sarebbe davvero ben
accetto ogni Suo pronunciamento a riguardo - visto che, tra l’altro, fino a non molto tempo fa
risiedeva in zona.
Grazie anticipatamente qualora intendesse darmi qualche dritta. Per il resto, come ogni tanto
si sente dire da qualche persona anziana (anche in questo caso: per quanto ancora?) siamo
nelle mani del Signore!
Un abbraccio
Posso solo congratularmi con lui per il fatto che abbia raggiunto questa consapevolezza a 23
anni. Sì, è vero, una laurea oggi è necessaria, ma non assolutamente sufficiente: è una specie
di pedaggio amaro da pagare, perchè (altra verità) non solo le nostre università, salvo
eccezioni, non danno cultura, ma spengono ogni voglia di farsela.
Siamo ancora al pezzo di carta, nonostante tutto. Che tristezza. E’ anche vero che non mi sono
laureato; ai tempi del boom economico, a Milano, non solo era possibile trovar lavoro
qualificato anche con un istituto tecnico, che nel Nord erano seri perchè collegati con le
industrie (conosco un perito chimico settantenne che le aziende non vogliono lasciare a
riposo, perchè con l’esperienza, e una vita passata a risolvere problemi come se fosse la prima
volta, sa cose che i laureati in chimica ignorano – e che nemmeno hanno l’umiltà di imparare
da lui. Quando quest’uomo lascerà, si perderà una enorme competenza, che non verrà
trasmessa).
Uno Stato serio lo dovrebbe assumere come insegnante; molti pensionati, fra cui il
sottoscritto, saremmo disponibili a questo trasferimento di saperi – ma no, perchè ci sono i
professionisti dell’insegnamento che occupano i posti e non vogliono certo concorrenti venuti
dalla vita. E questo mi porta a mettere il dito nella piaga, quella che spiega il suo smarrimento
e il senso di inutilità dei suoi (e altrui) studi.
I maestri e i docenti che ho avuto la fortuna di conoscere in altri tempi avevano la coscienza
che stavano preparando una comunità di destino, una nazione o patria, per prepararla a far
buona figura nel mondo. Per questo, senza che nessuno glielo ordinasse minuziosamente,
sapevano conciliare il principio di uguaglianza che è il basilare elemento politico della scuola
pubblica di massa, con la selezione dei migliori, avviati a più alti destini.
Nessuno dovrebbe studiare anzitutto per sè e per raggiungere un successo individuale, come
nessuno dovrebbe vincere un concorso a cattedra per coronare la sua carriera e il suo
stipendio. Invece è proprio quel che accade oggi. E il risultato è il degrado dell’eccellenza,
l’abbandono dello sforzo; se uno è abbastanza fortunato farà un master all’estero, gli altri –
concittadini – si arrangino. Molti caratteri, intelligenze e qualità morali si perdono nel tran-
tran a cui si riduce la perdita del compito politico della scuola, il preparare gente per una polis
che sia all’altezza del mondo d’oggi.
Appunto è quel che dico. Il giovane è stato lasciato alla sua spacconeria, ed ora se ne pente. Il
fatto è che i giovani non sanno che cosa vogliono, credono di avere davanti un tempo infinito,
infinite possibilità di recupero, e non hanno la minima idea – mancando di esperienza – di
cosa perdono. Per questo una scuola seria li deve obbligare, li deve forzare a studiare – non
solo ciò che vogliono o piace loro, ma tutto il quadro essenziale delle nozioni che rapresenta
la cultura generale, e che li preparerà ad imparare da soli da adulti, quando dovranno
risolvere problemi che non sono nel manuale.
Ci sarebbero ancora molte cose da dire, per esempio l’abolizione – nella prima infanzia –
delle favole, perchè le pedagoghe di sostegno dicono che mettono in ansia i bambini. Invece
preparano sia a sviluppare la fantasia, sia alla tragicità della vita, che non sarà mai facile per
nessuno. Non capiscono le fiabe, i bambini? Si spaventano al racconto dell’Orco che vuol
mangiare Pollicino?
Regalo ai lettori un proverbio dei tempi antichi: « Fiaba oscura, nespola dura – la paglia e
il tempo te le matura». C’è tutta una pedagogia, in questi versi ingenui.