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Elaborato-esame TPF 2021 | Manfredi Maria Tuttoilmondo

Gentilissimi lettori,
mi chiamo Manfredi Maria Tuttoilmondo, ho 22 anni e frequento oggi il Corso di Scienze
Linguistiche dell’Università di Bologna. Su invito del Professore di “Teoria e Pratica della
Formazione”, Michele Caputo, vi racconterò alcuni aneddoti della mia esperienza
scolastica/accademica (e non solo), alla luce di alcune riflessioni di ambito pedagogico. La prima
parte, a seguire, si soffermerà sull’aspetto educativo per poi svilupparsi lungo tematiche affini.

L’educazione alla cittadinanza


“Sfida continua e necessaria” per la scuola e, più in generale, per la nostra società è l’educazione
alla cittadinanza. Formare i cittadini del futuro, renderli capaci di far valere diritti e compiere
doveri è una finalità costitutiva dell’istituzione scolastica. Tuttavia, diversi docenti mostrano una
certa resistenza, se non addirittura diffidenza, nell’affrontare il problema dell’educazione alla
cittadinanza. Caputo parla infatti di una “paideia incompiuta”. La questione si complica nella
modernità, espressione di per sé di mutazioni economiche e tecnologiche, quindi più ampiamente
culturali e sociali.
Negli anni di scuola, non rappresentavo certo un soggetto facilmente “malleabile” dal punto di
vista educativo e della formazione alla cittadinanza. Gli insegnanti mi consideravano un ragazzo
ancora immaturo, decisamente impreparato in vista del mondo sociale dell’università e del lavoro.
Non sapevo darmi delle “barriere”, né “contenermi” quando le emozioni negative prendevano il
sopravvento. Nel corso della relazione, non mancherò di citare diversi episodi di mancanza di
“contenimento”.
Uno di questi è sfortunatamente paradigmatico. Era già la quinta liceo, più precisamente si
trattava dell’ultima ora di lezione di un venerdì. Quella sera, un compagno di classe avrebbe dato
una festa di compleanno in un noto locale cittadino. Il docente di latino, per venire incontro ai suoi
alunni, aveva deciso di sospendere le interrogazioni per il giorno dopo. Dopo un bonus del genere,
il docente pretendeva almeno concentrazione e ascolto attivo fino alla fine della lezione. Tuttavia,
come vi raccontavo, non avevo spiccate capacità di controllo e autogestione. Pertanto, ho iniziato
ad interrompere insistentemente la lezione, sinché il docente ha deciso di prendere in pugno la
situazione in questo modo: “Domani Tuttoilmondo interrogato”. Sapevo di non essermi
comportato bene, ma non credevo di meritare una punizione del genere.
A fine lezione, in preda alla frustrazione, ho deciso quindi di farmi giustizia da solo: sono andato
dritto dal professore cominciando ad applaudirgli in faccia con tanto di ironici “Bravo” e
“Complimenti”. Non era un’azione voluta, né tantomeno pensata. In quel momento, ero però
costretto ad accettare l’interrogazione per evitare sanzioni peggiori. D’altra parte, quel pomeriggio
passato a studiare vita e opere di Seneca mi ha insegnato tanto. Restavo comunque amareggiato
per la vicenda, ma in pochi potevano comprendermi. Avevo dato un messaggio negativo della mia
persona, ma i gesti (specialmente se tanto eloquenti) mantengono un peso non indifferente nella
vita sociale.

L’importanza del colloquio orale


Ad ogni modo, non potevo trascurare l’interrogazione, con la dovuta preparazione che questa
comporta. Colloquio orale significa primariamente “mettersi alla prova” con più parti: dapprima
con se stesso, poiché tendiamo a sottoporci ad un’autovalutazione in termini di abilità espositiva e

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tenuta emotiva; dipoi, con il docente, chiamato a porci domande e quesiti, infine con il resto della
classe. L’obiettivo è ottenerne un riscontro positivo, in termini di consenso e approvazione.
La dimensione relazionale specifica la modalità della verifica orale: l’allievo interrogato dovrà
padroneggiare abilità di tipo strategico. Rispondere ad una domanda non presuppone soltanto di
raccogliere in un tempo congruo le informazioni necessarie per rispondervi, ma mette in atto dei
meccanismi che richiedono comprensione e re-interpretazione delle parole del professore. D’altra
parte, il docente dovrà mettersi in contatto cognitivo con l’allievo interrogato e l’oggetto proposto:
la verifica orale richiede ascolto attivo reciproco.
Tuttavia, le emozioni rappresentano una controparte decisiva e ineludibile dei colloqui orali. Nel
corso della terza liceo, ricordo di avere commesso una gaffe imperdonabile durante
un’interrogazione di letteratura greca. La docente ha cominciato a ridere del mio grave errore,
seguita poi dal resto della classe. Non dimenticherò mai quelle battute dei compagni, come quel
profondo senso di umiliazione. L’interrogazione di recupero assumeva i contorni di una personale
rivincita. Stavolta, avrei studiato con determinazione, quasi con voracità: volevo cancellare per
sempre le risa fragorose di quei giorni e dimostrare a tutti il mio valore. Alla fine dei conti, ho
meritato un voto molto alto ma contava adesso molto poco. Come ben specifica Moscato, l’esito
valutativo di un’interrogazione può talora sfociare nel “giudizio di una persona e non della sua
specifica prestazione”.

Quanto è difficile assegnare un voto? Il tema della valutazione


Nel dicembre 2018, Caputo e Giorgia Pinelli hanno avviato un percorso di ricerca-azione presso
l’Istituto “Vladimiro Spallanzani” di Sassuolo. Gli autori della ricerca hanno intervistato l’intero
corpo didattico e educativo dell’istituto, ponendo grande attenzione sul problema specifico della
valutazione. Alcune risposte intendevano mettere a fuoco l’oggetto specifico di quest’ultima:
valutiamo “quello che sa fare lui al momento. Non misuriamo la persona”. La valutazione dovrebbe
agire a sostegno dell’Io, che dovrà sostenere “il fatto di essere giudicato”, imparando a dis-
identificare la propria persona rispetto a quanto compiuto/svolto e rispetto ai suoi risultati: in tal
senso anche la valutazione negativa assume un valore positivo.
Tuttavia, il processo non è immediato. Come riporta una docente dell’Istituto sassolese,
nonostante gli sforzi compiuti nel giustificare una valutazione parlando faccia a faccia agli alunni,
questi sembrano dire “Sì, parla parla, poi però vediamo che voto ho preso”. Aggiungerei che
tantissimi studenti, me compreso, non completano mai del tutto il percorso di dis-identificazione,
vivendo il voto come una sorta di ossessione.
A seguito di un’interrogazione di latino, ho reagito in maniera scomposta ad un “7” non
esattamente in linea con le mie aspettative. Quindi, ho colpito violentemente il libro di testo, che
la docente mi aveva temporaneamente affidato. Per ragioni poco chiare, la professoressa non ha
soltanto soprasseduto sul cattivo gesto in questione, ma ha perfino portato il voto ad un “8”
pieno. Solo poche ore dopo, a mente lucida, avrei compreso l’inutilità di certe battaglie. Dovevo
cambiare. L’ansia da prestazione cominciava a giocarmi brutti scherzi.
Diversi docenti, d’altronde, avevano avvertito il problema e ho cominciato a parlarne con loro. È
proprio vero che la prima caratteristica di un insegnante efficace appare essere la sua competenza
comunicativa. “Trovare le parole per dirlo”, nella comunicazione faccia-a-faccia con uno o più
allievi, richiede una costellazione di abilità e conoscenze fra loro interconnesse.

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L’efficacia della competenza comunicativa


Non tutti i docenti, difatti, reggono il rischio del fallimento della comunicazione. Potrei parlare di
diversi professori indispettiti dalle domande dei propri alunni, incapaci di prestare attivamente
ascolto e di riverbalizzare eventualmente contenuti spiegati a lezione. Talora, si tratta di docenti
dalle spiccate abilità drammatiche, abili nel “tenere la scena”, quasi affascinanti. Ai tempi della
triennale, il Professore di Filologia Romanza, ricordo, era una sorta di Rosario Fiorello mancato, un
vero show-man: recitava, raccontava barzellette, all’ultima lezione ha perfino cantato. Tuttavia,
come spiega doverosamente Moscato, sapere farsi ascoltare non avvantaggia necessariamente il
processo di comprensione degli alunni, anzi può operare da fattore distraente.

La metafora della “fiaccola”


Per questa ragione, alcuni docenti più di altri assumono un ruolo determinante nella crescita
personale di uno studente. Devo tantissimo alla Professoressa di Linguistica Generale, che alla sua
presentazione ha parlato di “fame” per la cultura, che ha dato forza ai suoi studenti e lasciato
emergere le loro qualità più nascoste. Leggendo di Bruner e dell’implicita congiunzione tra una
“teoria della mente” e una “della cultura”, non ho potuto che ripensare a quelle lezioni di
Linguistica. La Professoressa ha reso possibile un perfetto equilibrio tra valorizzazione
dell’oggetto/contenuto e attenzione alle esigenze dell’allievo destinatario.
Riprendendo la metafora della “fiaccola” (più convincente della “cassetta degli attrezzi”
bruneriana), credo che la Professoressa abbia acceso in me una fiamma vivissima. Ma la cultura
resta sempre un oggetto superindividuale, che possiede una sua forza auto-espansiva: non potrà
allora bastare una sola esperienza felice per farmi strada nel buio della notte. Di volta in volta,
dovrò alimentare quella fiamma con nuove esperienze e conoscenze.

Il confronto con le realtà virtuali. Una vicenda di cyberbullismo


Andando più indietro con la memoria, resta poi indimenticabile la forza comunicativa della
Professoressa di Lettere della secondaria di primo grado. Rivedo oggi nella sua straordinaria
modestia l’archetipo del Maestro/maestro, figura indispensabile eppure destinata a rendersi
superflua.
Purtroppo, la professoressa di Lettere soffriva di diabete: i suoi ragazzi lo sapevano bene, anche se
lei non ha mai spettacolarizzato la sua malattia. Certo, se ne rammaricava tante volte, perché non
poteva partecipare assieme ai suoi alunni alle attività extracurricolari. Provava a non pensarci, a
guardare oltre, ma certi commenti offensivi sulla sua condizione non potevano passarle
inosservati.
Un giorno come tanti, si è presentata in aula mentre piangeva a dirotto: si era appena accorta di
essere stata vittima di cyberbullismo. Qualche giorno prima, aveva infatti creato il suo profilo
Facebook e aveva inviato diverse richieste d’amicizia ad alunne e alunni. Scorrendo tra le immagini
delle sue ragazze, ha scovato una foto che la riguardava in prima persona, scattata di nascosto e
piena zeppa di insulti che riguardavano quasi tutti il suo peso, altri la sua malattia. La Professoressa
non voleva nascondersi: aveva grande fiducia nei suoi alunni, ma sapeva comunque di trovarsi di
fronte a ragazzini non ancora consapevoli del peso delle parole, tantomeno della potenza
distruttiva dei social network. Ha deciso lo stesso di affrontare il problema, di parlarne davanti a
tutti noi, anche di fronte alle responsabili del fattaccio, senza veli e senza censure. Non è stata solo
una lezione, ma prima di ogni cosa una grande prova di coraggio.

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D’altronde, Moscato non manca di approfondire il tema delle esperienze virtuali nell’età evolutiva.
Da nativo digitale quale sono, mi rivedo nella linea che traccia della generazione attuale, descritta
come povera di esperienze nel campo della manualità. D’altro canto, reputo pure le tecnologie
attuali mezzo di straordinaria importanza, attraenti ma da non “demonizzare” a priori.
Indubbiamente, parliamo di strumenti meritevoli di un controllo approfondito e che dobbiamo
sapere affiancare ad esperienze di altro tipo, anche per non atrofizzare le capacità immaginative
dei più giovani.

L’orienteering e non solo. Attività di apprendimento motorio


La scuola è chiamata a garantire e valorizzare attività che permettano di sviluppare
l’apprendimento motorio e attivo del cucciolo d’uomo. A proposito, durante il secondo anno della
secondaria di primo grado, ricordo di avere preso parte ad una particolarissima gita presso Bosco
della Ficuzza (PA). Stavolta non si trattava della solita esplorazione dell’area verde circostante. La
finalità del viaggio era un’altra: studentesse e studenti avrebbero praticato diverse attività ludiche
difficilmente ripetibili nella vita urbana. Tra queste, erano presenti: lancio del ferro di cavallo, tiro
con l’arco, corsa con i sacchi, freccette e infine una gara di orienteering. Se delle prime potevo
immaginarne svolgimento ed esecuzione, nulla sapevo dell’ultima attività.
Nella sua versione classica, l’orienteering consiste di una gara cronometrata che prevede il
completamento di un percorso; tuttavia, non basta arrivare alla fine di questo; è necessario prima
avere individuato sulla mappa un certo numero di paletti con drappo arancio-bianco (chiamati nel
gergo “lanterne”), marcandone poi fisicamente il passaggio con una punzonatrice. Il corridore è
quindi chiamato a muoversi con grande celerità, ma viene anche premiata la capacità di
individuare le zone del territorio per eseguire il percorso più breve. Molti compagni parlavano
dell’orienteering come di un classico videogioco d’avventura, che comporta l’utilizzo di una mappa
per svolgere determinati obiettivi. Ma era qualcosa di ben diverso: si trattava di un’esperienza non
simulata, praticata per giunta a pieno contatto con la natura.
In generale, l’Istituto di secondaria di primo grado non risparmiava fondi ed energie per garantire
esperienze alternative alla lezione frontale più sistematica. Il lunedì e il mercoledì l’orario di uscita
era fissato per le ore 17, così da assicurare la partecipazione (obbligatoria) degli studenti ai corsi
laboratoriali. Ciascuno di questi prevedeva l’inserimento di ragazze e ragazzi di anni diversi e
provenienti da classi differenti. Tuttavia, non tutti i docenti sembravano avere integrato appieno il
concetto di “laboratorio”.

La valorizzazione dei “laboratori”


Già al primo anno, cronaca e scrittura erano mondi capaci di affascinarmi; per questo motivo la
scelta libera del laboratorio era ricaduta su “Giornalismo”. Credevo, frequentando assiduamente
le lezioni, di potere iniziare a stendere alcuni articoli per il “Giornalino”, di realizzare piccoli servizi,
magari di conoscere giornalisti e altri personaggi cittadini e poterli intervistare. Ma il laboratorio
ha deluso le aspettative di tutti i suoi frequentanti, me compreso.
Dopo una prima parte più interessante dedicata alla ricerca di una chiave di lettura ad articoli di
giornali nazionali per la composizione finale di un commento critico, la seconda aveva invece ben
poco di operativo. Sino alla fine del corso, la mansione consisteva soltanto nel selezionare
singolarmente articoli di giornale nell’unico scopo di indicarne le “5 W del giornalismo”: una
procedura sì importante se rivolta a novizi, ma alla lunga meccanica e ripetitiva. Alla fine dei conti,

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abbiamo realizzato un solo numero del “Giornalino d’Istituto”, cui hanno però partecipato soltanto
i ragazzi di seconda e terza. Noi del primo anno avremmo potuto dare il nostro contributo
esclusivamente con “delle barzellette da aggiungere all’ultima pagina”.
Un laboratorio è qualcosa di ben diverso. Non è un caso che venga a costituire uno spazio didattico
capace di rispondere al “principio della concretezza” di Bruner e che rientra tra i metodi induttivi
attivi propri dell’Attivismo di Dewey. La sua condizione minima di realizzabilità consiste
nell’attivazione operativa degli allievi, messi in grado di sperimentare e produrre qualcosa, di
lavorare insieme e interattivamente.
L’anno successivo al primo, l’esperienza si è rivelata più fruttuosa e coinvolgente. Ho partecipato
ad un laboratorio incentrato su diversi “giochi linguistici” come lo Scarabeo, il cruci-puzzle, vari
enigmi e indovinelli e così via. Dopo avere preso confidenza con diverse tipologie di giochi, ne
abbiamo creato uno tutti assieme ispirato al “Gioco dell’Oca” (ma detto “del Gallo” dal cognome
della docente), che prevedeva quiz e giochi basati sulle parole e la lingua italiana. Il prodotto è
stato poi presentato alla “Festa della Spiga”, l’occasione perfetta per mostrare al pubblico di
genitori e curiosi i progetti laboratoriali.
Il momento più atteso dell’anno restava comunque il Carnevale. Per la preparazione dell’evento,
venivano sospesi i laboratori e ciascun gruppo-classe era chiamato, nelle ore pomeridiane, a
selezionare e lavorare su un tema da presentare il giorno di Carnevale. Potremmo definire l’attività
come un progetto/laboratorio extra-disciplinare, che comportava la produzione di oggetti
esponibili: necessariamente i costumi da indossare e un breve spettacolo di presentazione, spesso
anche cartelloni e piccoli filmati. Nei tre anni della secondaria di primo grado, noi ragazzi della
“Sezione A” abbiamo presentato i seguenti progetti: “Il Mito delle Origini nelle diverse culture”,
l’anno successivo “La Danza e i balli nella storia”, infine il tema più delicato e toccante riguardante
“La clownterapia”. Alla fine di tutte le presentazioni, la giornata di festa si concludeva con una
parata tenuta per tutto il quartiere.
La secondaria di secondo grado, il Liceo Classico “Umberto I”, era invece meno dedita alla
promozione di progetti, laboratori e altre attività interattive. Anche i tornei sportivi non erano
adeguatamente valorizzati: spesso i ragazzi delle singole classi non potevano presentarsi alle varie
partite, perché il giorno dopo avrebbero dovuto sostenere un’interrogazione. Non era raro,
inoltre, vedere classi intere non presentarsi al campo, costrette quindi a dare la partita “a
tavolino” alla squadra avversaria. Il fatto comprometteva la regolarità della competizione: per
questo motivo, diversi tornei venivano sospesi in corso d’opera.

Esplorare e conoscere le diverse culture del mondo. Il progetto “EXPO Umbertino”


In generale, praticamente tutti i docenti del Liceo “Umberto I” conducevano solo lezioni frontali,
secondo un metodo di insegnamento molto tradizionale. Ancora, l’attenzione dei professori
verteva più sulla compilazione del “programma”, specialmente nell’anno dell’Esame di Stato, che
al raggiungimento da parte degli alunni di un numero minimo di obiettivi basati su competenze e
abilità acquisite.
Nel corso della quarta liceo, pertanto, i rappresentanti d’Istituto hanno deciso di proporre al corpo
docenti un’idea laboratoriale decisamente all’avanguardia, che avrebbe coinvolto le studentesse e
gli studenti di tutte le classi. Nonostante la diffidenza iniziale, poiché la realizzazione del progetto
avrebbe richiesto una intera settimana e la sospensione delle lezioni curricolari, i docenti hanno

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infine dato il loro benestare. Il progetto/laboratorio ha preso il nome di “EXPO Umbertino”, poiché
largamente ispirato alla “Esposizione Universale” di Milano 2015.
Un sorteggio casuale ha deciso l’assegnazione di un singolo paese per ciascuna classe, chiamata ad
allestire uno spazio atto a rievocare storia, cultura e tradizioni del posto. Assieme al gruppo classe,
abbiamo rappresentato il nostro paese, il Senegal, facendone assaggiare i piatti tipici, provando ad
indossare i loro abiti, raccontandone la lunga storia di colonizzazione ed indipendenza, il tutto
mettendo al centro l’idea di “teranga”, virtù simile ma non coincidente con il concetto di
“ospitalità” secondo gli europei.
Il progetto “EXPO Umbertino” ha affrontato il problema del “diverso”, volto alla esplorazione di
mondi altri entro una prospettiva di educazione interculturale. Come ben suggerisce il “principio
della prospettiva” di Bruner, in realtà, la conoscenza nelle azioni di insegnamento non dovrebbe
mai essere presentata come oggettiva, ma precisando di volta in volta il “punto di vista” che
produce quel contenuto conoscitivo, che potrebbe assumere forme diverse secondo la prospettiva
di una cultura altra.

La passione per il giornalismo. La responsabilità di “essere arbitri di calcio”


In conclusione, vorrei raccontare brevemente alcune mie esperienze attuali. Come vi accennavo,
seguo il Corso di Scienze Linguistiche dell’Alma Mater, cercando di condurre una non semplice, ma
formativa, esperienza da fuori-sede. In più, oltre allo studio di tipo accademico, mi sto dedicando
ad un’attività lavorativa, più precisamente di apprendistato/praticantato. Faccio parte, infatti, di
una testata sportiva locale dal nome “TifosiPalermo.it”, che mi dà l’opportunità di mettermi in
mostra con alcune dirette video su Facebook e YouTube, con la scrittura di editoriali ed infine con
qualche sporadica apparizione in radio (nel programma “Action Sport” di Radio Action) e
televisione (sul canale di “Gold78”).
Infine, appena un mese fa, ho preso parte ad un corso di formazione per arbitri. Come prevedibile,
il corso è tenuto nella modalità della “didattica a distanza”, guidato da un arbitro di quarta serie,
che svolge una funzione molto vicina a quella di un tutor/istruttore. Non a caso, il gruppo di
aspiranti è invitato costantemente a prendere delle scelte, dare le proprie interpretazioni,
rispondere e ascoltare attivamente.
L’importante, ovviamente, sarà sbagliare il meno possibile quando si starà in campo. Per le prime
partite, da come ci è stato preannunciato, un supervisore/tutor osserverà la nostra direzione di
gara, ci fornirà consigli prima e dopo la partita, stilerà un resoconto degli inevitabili errori
commessi. Per muovere i primi passi non basteranno soltanto la conoscenza del “Regolamento” e
la competenza, che potranno acquisirsi solo nel tempo, ma sarà necessario assumersi
un’importante “responsabilità di tipo professionale”. Ricordiamoci sempre una cosa: chi arbitra
governa uno stuolo di atleti e dirigenti in preda all’agonismo. Perdere la concentrazione sarebbe
deleterio.

Manfredi Maria Tuttoilmondo

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