Il paper può essere suddiviso in due parti: la prima tratta dei vari sensi con cui i termini “marcato” e “non marcato” sono stati usati nella linguistica del ventesimo secolo; la seconda è invece un’argomentazione contro l’utilizzo del termine “marcato”, ritenuto superfluo ed ambiguo per diverse ragioni. Il termine “marcatezza” compare per la prima volta in Nicholas Trubetzkoy e Roman Jabokson durante gli anni ’30 ed è poi accolto da diversi impianti teorici: lo strutturalismo europeo, la fonologia generativa, la linguistica tipologico-funzionale, la sintassi generativa di Chomsky, la Teoria dell’Ottimalità, gli studi sulle lingue creole ed altri. Non sorprendentemente, il termine “marcato” ha quindi assunto tutta una serie di sensi divergenti da quello originario ed è oggi un’etichetta neutra utilizzata molto spesso dai linguisti. “Marcatezza” è oggi un termine polisemico nella linguistica. La maggior parte dei linguisti si serve soltanto di alcuni dei sensi con i quali è possibile intendere la marcatezza ed è probabilmente ignara di diversi altri. Haspelmath individua, dopo un’attenta analisi della letteratura sul tema, ben dodici sensi del termine “marcatezza”, raggruppati in quattro classi: marcatezza come complessità, come difficoltà, come anormalità e come correlazione multi-dimensionale.
La marcatezza come complessità
La marcatezza come complessità può essere intesa diversamente a seconda del diverso livello di analisi preso in considerazione. La marcatezza come “specificazione per una distinzione fonologica” corrisponde al senso originario, descritto da Trubetzkoy nei lavori del 1931 e 1939. L’autore distingue tra “opposizioni privative” tra un fonema dotato di una marca ed un altro che ne è privo. I fonemi aventi marca sono quelli sonori, nasalizzati e/o procheili; i fonemi che ne sono privi sono sordi, orali e/o aprocheili. Tuttavia, la distinzione all’interno di una coppia di fonemi tra “marcato” e “non-marcato” è astratta, poiché dipende dalla struttura e dal funzionamento particolari delle singole lingue. Jakobson ha applicato la nozione di marca in senso trubetzkoyano agli elementi del lessico e della grammatica, come ad esempio le opposizioni tra maschile e femminile nei nomi di animali e tra aspetto perfettivo e imperfettivo. Nella coppia “dog/bitch”, il primo termine può indicare entrambi i sessi (maschile e femminile), mentre il secondo è specifico del sesso femminile: la differenza tra “marcato” e “non marcato” non è tra A e non-A, bensì tra A e l’indifferenza tra A e non A. Questo senso semantico di marcatezza è meno astratto del senso fonologico di Trubetzkoy, perché non è solo definito in termini di sistema ma anche in termini sostantivi: il membro marcato è semanticamente più specifico del membro non-marcato. La marcatezza può essere inoltre intesa come “codifica esplicita”. Quando i linguisti dicono che una categoria X è non marcata e una categoria Y è non marcata può significare che X non porta codifica esplicita, laddove Y ha invece un affisso. Nonostante il senso possa sembrare banale dal momento che “marcato” dovrebbe indicare un elemento con un elemento aggiuntivo (la “marca”), molti linguisti adottano il termine “marcato” anche in assenza di una codifica esplicita: i linguisti parlano ad esempio di “marcato con zero”. Ad ogni modo, per evitare confusione, è meglio parlare di “codificato esplicitamente” o “non codificato” anziché di “marcato” e “non marcato”.
La marcatezza come difficoltà
Jakobson ha voluto sottolineare che i termini marcati delle opposizioni sono acquisiti più tardi dai bambini e sono propri soltanto di poche lingue, suggerendo che non sono soltanto più complessi nella loro struttura astratta ma anche più difficili per i parlanti. La marcatezza come “difficoltà fonetica” può essere ascritta a fattori esterni al sistema, ovvero a fattori fisiologici, acustici e percettivi. Altri fonologi, in realtà, ritengono che anche la difficoltà fonetica sia basata sul sistema fonologico. La questione è lasciata irrisolta, ma secondo Haspelmath è basata su fattori esterni al sistema come gli effetti della frequenza e la regolarità del cambiamento di suono. Anche i morfologi hanno parlato di marcatezza intesa come innaturalezza e dispreferenza, poiché alcune strutture sembrerebbero mettere sotto sforzo la capacità del linguaggio umano più di altre. Le strutture morfologiche non-marcate sono più presenti a livello interlinguistico, vengono acquisite prima, sono elaborate più facilmente, vengono coinvolte meno dai disordini linguistici, vengono usate più frequentemente e sono più resistenti al cambiamento linguistico. Secondo Haspelmath, le strutture morfologiche marcate e non-marcate possono essere meglio intese ricorrendo a fattori sostantivi come la frequenza lessicale, la frequenza di tipo e le regolarità del cambiamento linguistico. In particolare, si sostiene che le strutture morfologiche sono preferite se hanno le seguenti caratteristiche: - Iconicità costruzionale – essenzialmente significa “cosa è più semanticamente” dovrebbe essere “più morfologicamente”. Pertanto, la struttura morfologica del numero nella lingua inglese risponde massimamente a tale principio: difatti, il plurale (che è “più semanticamente” rispetto al singolare) porta un segmeno in più; l’iconicità minima è invece rispecchiata dal fenomeno di differenziazione vocalica (“goose/geese”), la non-iconicità da medesime forme per singolare e plurale (come in “sheep/sheep”), la contro- iconicità da coppie di parole che hanno un singolare più lungo del plurale, come nel gallese nella coppia “plu-en” (piuma) e “plu” (piume). Tuttavia, bisogna sottolineare alcuni fatti importanti. Il grado di iconicità dipende largamente dal percorso storico seguito dal sistema linguistico: nelle lingue semitiche, il sistema di differenziazione vocalica per l’alternanza nel numero è tuttora stabile e pienamente produttivo, mentre nella lingua inglese esistono ormai solo dei relitti. Inoltre, la contro-iconicità può essere spiegata ricorrendo al fattore della frequenza, secondo cui parole più frequenti hanno segmenti più corti: pertanto “piume” più frequente di “piuma” ha nella lingua gallese un segmento più corto. - Uniformità – ovvero l’assenza di alternanze tra diversi membri di una stessa categoria. Solitamente le strutture più rare sono rappresentate da alternanze irregolari (marcate), che possono conservarsi solo in presenza di item di grande frequenza (“have-has”; “do-does”); item meno frequenti tendono progressivamente a regolarizzarsi. In generale, le strutture più frequenti presentano maggiore uniformità; - Trasparenza, secondo cui forme diverse di una stessa categoria esibiscono morfemi differenti. Il principio è molto simile a quello dell’uniformità: forme di categorie più frequenti tendono ad esibire maggiore differenziazione (sono quindi più trasparenti) poiché possono comunque essere ricordate facilmente; forme di categorie meno frequenti richiedono invece minore differenziazione (sono quindi meno trasparenti), poiché sarebbe più difficile ricordare tutte le sue forme diverse. Per questa ragione, strutture meno frequenti esibiscono più facilmente fenomeni di sincretismo/omonimia. Certo, per un ascoltatore paradigmi più trasparenti rendono la vita più semplice, ma per l’apprendente saranno invece più difficili e innaturali. La marcatezza può essere intesa anche come “difficoltà concettuale”, ovvero più complessa in termini di attenzione, sforzo mentale o tempi di elaborazione. Il singolare, ad esempio, è rispetto al plurale il termine marcato poiché è più semplice elaborare un singolo elemento che più di uno: per questa ragione, il plurale inglese porterebbe l’affisso che si aggiunge al singolare. E il past simple prevede la marca - ed, poiché sembrerebbe più intuitivo parlare dell’“adesso” piuttosto che del “prima”. In alcuni casi, la marcatezza come difficoltà concettuale può corrispondere ad elementi con marche morfologiche aggiuntive, ma non consiste esattamente nell’addizione di un elemento aggiuntivo. Secondo Haspelmath, la “difficoltà concettuale” sarebbe causata da una più bassa frequenza d’uso: non è quindi necessario adoperare il termine “marcatezza”.
Marcatezza come anormalità
La complessità e la difficoltà sembrano essere correlate con l’anormalità e la rarità. In tal senso, le strutture marcate sono quelle “anormali/rare”. La marcatezza può essere intesa come “rarità testuale”, nonostante sia molto più semplice adottare in tal senso il termine “frequenza”. La marcatezza può anche essere “rarità nel mondo”, secondo cui esisterebbe una correlazione tra la marcatezza formale di una costruzione e il grado di marcatezza della situazione nel mondo che stiamo descrivendo. L’armeno utilizza il locativo semplice (meno marcato) per l’espressione “nella scatola” ed una costruzione con pospozione (più marcata) per la locazione meno naturale indicata da “sulla scatola”. Tuttavia, secondo Haspelmath, la rarità/frequenza nel mondo non è rilevante per studi di tipo linguistico. La marcatezza può essere anche intesa, sul piano tipologico, come rarità a livello interlinguistico. Ancora, la marcatezza può essere intesa a livello distribuzionale come distribuzione ristretta. In tal senso, nel tedesco le ostruenti sorde sono rispetto a quelle sonore non-marcate, poiché possono occorrere nella sillaba sia in posizione di attacco sia di coda. Pertanto, nella coda si assiste ad un fenomeno di “neutralizzazione”: l’opposizione a livello sonoro si neutralizza a favore del fonema sordo. Nella lingua Mam, la costruzione antipassiva (marcata) è usata solo quando l’oggetto non è menzionato, quando l’agente è focalizzato e in pochi altri casi, mentre la costruzione ergativa (non-marcata) è usata dappertutto. Tuttavia, in questo senso sarebbe preferibile evitare confusioni di sorta: in luogo di “marcato” potrebbe più facilmente dirsi “distribuzionalmente ristretto”. L’undicesimo senso di “marcatezza” è specifico dell’approccio chomskyano a “principi e parametri”, secondo cui “marcato” è una deviazione dal parametro di default (“non-marcato”). Se l’assenza di incorporazione del nome è il parametro di default, l’incorporazione del nome sarà un parametro “marcato”. Marcatezza cone correlazione multidimensionale Se i sensi appena descritti sono stati facilmente distinguibili, quest’ultimo corrisponde invece ad una congiunzione di tutti questi sensi. Secondo tale senso, un elemento è marcato per diversi fattori: (i) Frequenza testuale; (ii) Codice strutturale – il valore marcato di una categoria grammaticale sarà espresso almeno da tanti morfemi quanti quelli presenti nel valore non marcato di quella categoria; (iii) Differenziazione inflessionale, che può essere riassunta nelle tre caratteristiche di marcatezza di sincretismo, difettivismo e allomorfia. Alcuni esempi dei tre fenomeni: gli articoli tedeschi presentano una triplice distinzione di genere al singolare (non-marcato), ma sincretizzano la distinzione di genere nel plurale marcato; i verbi francesi presentano uno speciale modo congiuntivo al presente e al passato, ma il futuro è marcato poiché difetta del congiuntivo e presenta solo la forma indicativa; in sanscrito, le terminazioni del caso duale mostrano meno allomorfia di quelle plurali. Questo correlato di marcatezza è particolare, poiché viene equiparato ad una differenziazione inflessionale ridotta. La differenziazione inflessionale può essere spiegata in termini di frequenza, poiché le espressioni più frequenti vengono ricordate più facilmente e possono quindi essere differenziate in più forme. Non casualmente, nel lessico, incontriamo alcune irregolarità nei termini più frequenti (iv) L’espressione facoltativa, secondo cui la categoria marcata è opzionale mentre la categoria non marcata occorre con un senso generale; (v) La neutralizzazione contestuale, secondo cui l’opposizione tra due o più categorie è soppressa e l’elemento che prevale è quello non-marcato. (vi) Implicazione tipologica: se una lingua ha l’elemento marcato, deve avere necessariamente anche l’elemento non-marcato. Sebbene Greenberg sottolinei che tutte queste correlazioni sono importanti, una coppia di fattori è citata da diversi autori con maggiore insistenza: quella tra la specificità o la complessità semantica/concettuale e la codifica aperta. Questa correlazione è spesso descritta con il termine di “iconicità”. La marcatezza gioca anche un ruolo diverso negli scritti dei singoli linguisti. (i) In alcuni autori, come nei primi lavori di Trubetzkoy e Jakobson, la marcatezza è un rappresentata secondo la prospettiva dei singoli sistemi linguistici. Jakobson, analizzando l’opposizione perfettivo-imperfettivo nel russo, individua una relazione di marcatezza strettamente interna a quella lingua; (ii) Secondo una prospettiva opposta, la marcatezza fa parte del codice cognitivo, ovvero della grammatica universale. I poli marcato-non marcato sono caratteristici della Grammatica Universale, sono quindi innati. Il marcato, in tal senso, è la deviazione dai parametri di default; (iii) La marcatezza può essere anche osservata come una proprietà generale delle manifestazioni culturali umane, non soltanto linguistiche; (iv) Secondo altri linguisti ancora, è invece un concetto esplicativo che ci permette di individuare una serie di strutture preferite nelle singole lingue (non-marcate) in opposizione ad una serie di strutture più rare.
Il potere esplicativo della frequenza d’uso
La frequenza d’uso, proprietà della parole o della performance, può rendere superflui ben cinque sensi di marcatezza prima analizzati. In generale, è chiaro che nelle lingue naturali e in altri sistemi semiotici umani si applichi il principio del “minimo sforzo” o dell’economia. Pertanto, più la frequenza della costruzione aumenta più il segno sarà ridotto, mentre segni più rari saranno costruiti unendo diversi segni tra di loro. Si osservi la differenza tra egg e ostrich egg, che può essere letta storicamente in due modi: che chicken egg sia stato accorciato semplicemente ad egg, data la grande frequenza d’uso dell’espressione, o che egg sia stato usato in un senso esteso, data la sua grande frequenza, ad indicare le “uova d’ostrica” (ostrich egg). Entrambi gli scenari sono verosimili e ci ricordano i possibili effetti della frequenza d’uso sulla lunghezza delle parole e delle espressioni; inoltre, non abbiamo fatto alcuna menzione alla nozione di “marcatezza”. La frequenza d’uso permette anche di spiegare la cosiddetta “marcatezza inversa”, ovvero l’inatteso comportamento marcato di certe categorie che sono solitamente non-marcate. In alcune lingue il singolare di certi nomi è codificato esplicitamente (marcato), mentre al plurale non corrisponde alcuna codifica (non-marcato). In gallese, la parola “piuma” è espressa da plu-en (con affisso), mentre il pluarale “piume” è espresso dal semplice plu (zero expression). La coppia di parole sembrerebbe violare il principio di iconicità, ma è in perfetta armonia con una spiegazione basata sulla frequenza: solo quei nomi che occorrono più frequentemente al plurale tendono ad avere plurali non-codificati. Spiegare il perché della frequenza delle parole non è semplice, poiché sono motivazioni diverse ed eterogenee fra di loro. In alcuni casi, la frequenza d’uso può dipendere dalla frequenza nel mondo delle entità o dei concetti denominati da quelle parole, ma in altri casi i due tipi di frequenza sono certamente slegati. Si sostiene tuttavia che la frequenza d’uso sia semplicemente una delle manifestazioni della marcatezza, dovuta a fenomeni di altro tipo come la neutralizzazione o più formali come la lunghezza delle parole. Tuttavia, la neutralizzazione non può spiegare da sola la frequenza d’uso: ad esempio, dagli studi di Greenberg figura che il singolare occorre nel 70-85% dei casi, mentre il plurale nel 15-25%; pertanto, che questa differenza del 40-70% sia dovuta solo alla neutralizzazione appare chiaramente impossibile. La lunghezza del segmento è invece un fattore che certamente influenza la frequenza a livello fonologico, ma lo stesso effetto non sembra persistere in fenomeni morfosintattici: il plurale inglese non è certo meno frequente del singolare per il suo affisso; difatti in altre lingue come il latino e il francese, dove singolare e plurale hanno usualmente le stesse sillabe, il plurale resta comunque più raro del singolare.
Sostituire la marcatezza semantica
La marcatezza semantica è stata osservata come un fenomeno molto generale che fa parte della natura pervasiva del pensiero umano, secondo cui un membro non- marcato può rappresentare o l’intera categoria o il membro della categoria opposto a quello marcato. Possiamo rappresentare la situazione ricorrendo al linguaggio matematico: il simbolo “5” rappresenta sia “|5|” sia “+5”; così nella lingua Maidu, l’espressione majdy rappresenta sia “essere umano” sia “persona umana”, in contrasto con espressioni marcate come “wolem majdy” (“persona bianca”) e così via. In generale, come già discusso dalla letteratura neo-griceana, la proprietà del pensiero umano coinvolta è la nostra capacità di fare inferenze pragmatiche durante le nostre conversazioni. In casi come “majdy”, è importante sapere applicare il Principio di Informatività, grazie al quale l’ascoltatore può arricchiere l’interpretazione di un’espressione formulata dal parlante. Per tale motivo, un’espressione come “majdy” può essere interpretata a seconda del contesto come “essere umano” o “persona Maidu”, quest’ultima specialmente in contrasto con persone “non-Maidu”. Tuttavia, non possiamo parlare di un termine polisemico o bi- funzionale: probabilmente “majdy” significherà solo “essere umano”, mancando di un termine convenzionale per individuare la “persona Maidu”. Discorso simile può essere fatto per i nomi indicanti la stessa categoria di animale, ma di sesso diverso. Solitamente, il nome maschile può venire a rappresentare tutta la categoria, senza riferimento al sesso dell’animale, mentre il nome femminile specifica solo il sesso di riferimento. In russo, “osel” può significare sia “scimmia in generale” sia “scimmia maschio”, mentre “oslica” solo “scimmia femmina”: “osel” avrebbe quindi un significato generale (“zero meaning”) ed uno più specifico (“minus meaning”), che si attiva in contrasto con il membro marcato della categoria. “Eto oslica? Net, osel”. (Era una scimmia femmina? No, era un maschio). In alcune situazioni, il minus-meaning di una parola si è sviluppato soltanto in un secondo momento, finendo però per convenzionalizzarsi e prendere il posto del siginificato originario. Nelle lingue Maya del Chiapas, in Messico, la parola “cih” (“cervo”) era poi sfruttata per indicare altre categorie più specifiche (marcate) di animali, come la “capra” (introdotta dagli invasori europei) con “tunim cih” (lett. “cervo di cotone”. Tuttavia, quando le capre hanno acquisito nella società Maya un’importanza maggiore rispetto a quella dei cervi, “cih” è stata utilizzata per riferirci alle “capre”, mentre cervo è adesso indicato con l’espressione arricchita (marcata) “te?tikil cih” (lett. “capra selvaggia”). Cosa era prima un’implicatura basata sull’informatività è oggi un significato convenzionale. La convenzionalizzazione può anche comportare la perdita del significato generale dell’espressione, che conserva solo il suo “minus-meaning”. Così è successo per “prince”, originariamente avente il significato generale di “principe/principessa”, oggi indicante solo “principe” in contrasto con “princess”. La coppia “leone/leonessa” mostra una convenzionalizzazione incipiente. Potremmo però sostenere che per le coppie con incipiente convenzionalizzazione, dove uno dei due termini conserva ancora un significato generale, si possa parlare di “marcatezza” all’interno di una relazione di tipo iponimico. Tuttavia, sono diversi i criteri da considerare per una relazione contrastiva, poiché, come è possibile osservare, coppie diverse di parole si comportano diversamente. Tra “veicolo” (termine 1) e “autobus” (termine 2), sarà possibile sostenere che: “Quel veicolo non è un autobus” (predicazione contrastiva esclusa); “io ho visto un veicolo, ovvero un autobus” (uso specifico di termine 1 per termine 2); “l’autobus è un tipo particolare di veicolo” (iponimia); “cerco un veicolo” che implica “l’autobus” (uso non-specifico di 1 per 2); plurali eterogenei (“veicoli” può intendere “più veicoli diversi”, compresi “più autobus diversi”). Tuttavia, se tra “soldato” e “generale” sarà possibile attestare la presenza di tutti questi criteri, tra “leone e “leonessa” e tra “toro” e “mucca” il discorso sarà leggermente diverso. Dire “Quel toro non è una mucca” sarà un’espressione poco sensata, poiché la parola “toro” sicuramente non può implicare il referente “mucca”; non si potrà dire “ho visto dei re” volendoci pure a delle regine ed è sempre meno accettato il termine “uomini” a comprendere anche delle “donne”. Come si sarà osservato, le coppie di parole esibiscono un comportamento di natura idiosincratica, ma ancora una volta largamente dipendente dalla frequenza d’uso. Nella coppia “cane/cagna”, il primo termine mantiene un senso generico per la sua alta frequenza d’uso; nella coppia “king/queen”, il primo termine ha perso il suo senso generico per l’alta frequenza pure del secondo. Pertanto, la “marcatezza semantica” non può essere spiegata ricorrendo semplicemente alle nozioni di “iponimia” e di “specificità semantica”, che esibiscono gradi diversi di applicazione e si differenziano da lingua a lingua. In italiano, sarà possibile utilizzare il tempo “presente” (non-marcato) per esprimere il tempo “passato” (marcato), se presente un’espressione di tempo indicante anteriorità; questa stessa operazione non è ammessa nella lingua inglese. Come abbiamo visto, al di là delle differenze interlinguistiche, un fattore dirimente per risolvere la questione resta la frequenza d’uso. Non è quindi necessaria alcuna nozione di marcatezza.
Sostituire la marcatezza fonologica
Come abbiamo già osservato, il senso originario di marcatezza, quello scovato da Trubetzkoy, si fondava sulla specificazione fonologica e quindi sulla differenziazione tra fonemi marcati e fonemi non-marcati: in alcuni contesti, il contrasto si neutralizza a favore dei fonemi non-marcati. Jakobson ha invece analizzato per primo il legame tra marcatezza e la difficoltà fonetica- Di seguito, Greenberg ha enucleato tutte le proprietà caratteristiche della nozione di marcatezza fonologica: (i) Neutralizzazione – il termine non-marcato occorre sempre in luogo del fonema marcato in alcuni determinati contesti; (ii) Implicazione tipologica – se una lingua ha il termine marcato, ha anche il termine non-marcato; (iii) Frequenza – il termine non-marcato è più frequente di quello marcato; (iv) Variazione allofonica – Il termine non-marcato mostra maggiore variazione allofonica; (v) Differenziazione fonemica – Il valore non marcato è meglio differenziato (le lingue hanno più vocali orali diverse che vocali nasali diverse). I ricercatori McCarthy, Prince, de Lacy e Rice hanno inoltre aggiunto altri due parametri: (vi) Instabilità nell’assimilazione – Il termine non-marcato si assimila più facilmente di quello marcato (vii) Emergenza del non-marcato – Nell’epentesi, appaiono solo i segmenti non marcati. La marcatezza fonologica, secondo alcuni studiosi, è direttamente correlata alla difficoltà fonetica. Quest’ultima è chiaramente legata alla frequenza dei fonemi nei testi, in una duplice direzione. La difficoltà articolatoria può infatti causare rarità, d’altra parte l’alta frequenza di alcuni fonemi può comportare la loro semplificazione articolatoria. Anche il più grande raggio distribuzionale di alcuni segmenti rispetto ad altri sembra essere dovuto alla difficoltà fonetica: per questa ragione, le ostruenti sonore non occorrono in posizione di coda sillabica, poiché più difficili da mantenere rispetto a quelle sorde. Tuttavia, come già osservato con gli elementi lessicali, il fenomeno della neutralizzazione non può spiegare da solo la maggiore frequenza di alcuni fonemi rispetto ad altri. Anche l’implicazione tipologica sembra essere dovuta principalmente alla difficoltà fonetica, secondo la regolarità generalmente accettata che l’abilità di elaborare un compito più difficile implica la realizzazione di quello più semplice. Per questa ragione, nelle lingue è più facilmente presente un suono velare sonore come [g] rispetto ad uno uvulare sonoro [G]. Inoltre, se per qualche ragione /g/ scomparirà dal sistema fonologico di quella lingua, probabilmente /G/ sarà presto articolata come una [g] secondo quel principio già analizzato dell’economia o “minimo sforzo”. Gli ultimi due correlati, quelli dell’instabilità nell’assimilazione e l’epentesi, possono essere spiegati dalla diversa frequenza d’uso dei fonemi. Si tenderà ad assimilare suoni più semplici e quindi più frequenti, si tenderà ad inserire segmenti fonetici più frequenti. Da un punto di vista interlinguistico, certamente, l’acquisizione dei fonemi dipenda dalla diversa frequenza di questi nei singoli sistemi: un bambino parlante la lingua inglese acquisirà /k/ dopo /t/; al contrario, un bambino parlante giapponese avrà più difficoltà con /t/ che con /k/. Difatti, nel giapponese a dispetto dell’inglese /k/ è più frequente di /t/.