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Contro la marcatezza (e con cosa sostituirla)

-- di Martin Haspelmath (2006)


Il paper può essere suddiviso in due parti: la prima tratta dei vari sensi con cui i
termini “marcato” e “non marcato” sono stati usati nella linguistica del ventesimo
secolo; la seconda è invece un’argomentazione contro l’utilizzo del termine
“marcato”, ritenuto superfluo ed ambiguo per diverse ragioni.
Il termine “marcatezza” compare per la prima volta in Nicholas Trubetzkoy e Roman
Jabokson durante gli anni ’30 ed è poi accolto da diversi impianti teorici: lo
strutturalismo europeo, la fonologia generativa, la linguistica tipologico-funzionale,
la sintassi generativa di Chomsky, la Teoria dell’Ottimalità, gli studi sulle lingue
creole ed altri. Non sorprendentemente, il termine “marcato” ha quindi assunto
tutta una serie di sensi divergenti da quello originario ed è oggi un’etichetta neutra
utilizzata molto spesso dai linguisti.
“Marcatezza” è oggi un termine polisemico nella linguistica. La maggior parte dei
linguisti si serve soltanto di alcuni dei sensi con i quali è possibile intendere la
marcatezza ed è probabilmente ignara di diversi altri. Haspelmath individua, dopo
un’attenta analisi della letteratura sul tema, ben dodici sensi del termine
“marcatezza”, raggruppati in quattro classi: marcatezza come complessità, come
difficoltà, come anormalità e come correlazione multi-dimensionale.

La marcatezza come complessità


La marcatezza come complessità può essere intesa diversamente a seconda del
diverso livello di analisi preso in considerazione. La marcatezza come “specificazione
per una distinzione fonologica” corrisponde al senso originario, descritto da
Trubetzkoy nei lavori del 1931 e 1939. L’autore distingue tra “opposizioni privative”
tra un fonema dotato di una marca ed un altro che ne è privo. I fonemi aventi marca
sono quelli sonori, nasalizzati e/o procheili; i fonemi che ne sono privi sono sordi,
orali e/o aprocheili. Tuttavia, la distinzione all’interno di una coppia di fonemi tra
“marcato” e “non-marcato” è astratta, poiché dipende dalla struttura e dal
funzionamento particolari delle singole lingue.
Jakobson ha applicato la nozione di marca in senso trubetzkoyano agli elementi del
lessico e della grammatica, come ad esempio le opposizioni tra maschile e
femminile nei nomi di animali e tra aspetto perfettivo e imperfettivo. Nella coppia
“dog/bitch”, il primo termine può indicare entrambi i sessi (maschile e femminile),
mentre il secondo è specifico del sesso femminile: la differenza tra “marcato” e “non
marcato” non è tra A e non-A, bensì tra A e l’indifferenza tra A e non A. Questo
senso semantico di marcatezza è meno astratto del senso fonologico di Trubetzkoy,
perché non è solo definito in termini di sistema ma anche in termini sostantivi: il
membro marcato è semanticamente più specifico del membro non-marcato.
La marcatezza può essere inoltre intesa come “codifica esplicita”. Quando i linguisti
dicono che una categoria X è non marcata e una categoria Y è non marcata può
significare che X non porta codifica esplicita, laddove Y ha invece un affisso.
Nonostante il senso possa sembrare banale dal momento che “marcato” dovrebbe
indicare un elemento con un elemento aggiuntivo (la “marca”), molti linguisti
adottano il termine “marcato” anche in assenza di una codifica esplicita: i linguisti
parlano ad esempio di “marcato con zero”. Ad ogni modo, per evitare confusione, è
meglio parlare di “codificato esplicitamente” o “non codificato” anziché di
“marcato” e “non marcato”.

La marcatezza come difficoltà


Jakobson ha voluto sottolineare che i termini marcati delle opposizioni sono acquisiti
più tardi dai bambini e sono propri soltanto di poche lingue, suggerendo che non
sono soltanto più complessi nella loro struttura astratta ma anche più difficili per i
parlanti.
La marcatezza come “difficoltà fonetica” può essere ascritta a fattori esterni al
sistema, ovvero a fattori fisiologici, acustici e percettivi. Altri fonologi, in realtà,
ritengono che anche la difficoltà fonetica sia basata sul sistema fonologico. La
questione è lasciata irrisolta, ma secondo Haspelmath è basata su fattori esterni al
sistema come gli effetti della frequenza e la regolarità del cambiamento di suono.
Anche i morfologi hanno parlato di marcatezza intesa come innaturalezza e
dispreferenza, poiché alcune strutture sembrerebbero mettere sotto sforzo la
capacità del linguaggio umano più di altre.
Le strutture morfologiche non-marcate sono più presenti a livello interlinguistico,
vengono acquisite prima, sono elaborate più facilmente, vengono coinvolte meno
dai disordini linguistici, vengono usate più frequentemente e sono più resistenti al
cambiamento linguistico. Secondo Haspelmath, le strutture morfologiche marcate e
non-marcate possono essere meglio intese ricorrendo a fattori sostantivi come la
frequenza lessicale, la frequenza di tipo e le regolarità del cambiamento linguistico.
In particolare, si sostiene che le strutture morfologiche sono preferite se hanno le
seguenti caratteristiche:
- Iconicità costruzionale – essenzialmente significa “cosa è più
semanticamente” dovrebbe essere “più morfologicamente”. Pertanto, la
struttura morfologica del numero nella lingua inglese risponde massimamente
a tale principio: difatti, il plurale (che è “più semanticamente” rispetto al
singolare) porta un segmeno in più; l’iconicità minima è invece rispecchiata
dal fenomeno di differenziazione vocalica (“goose/geese”), la non-iconicità da
medesime forme per singolare e plurale (come in “sheep/sheep”), la contro-
iconicità da coppie di parole che hanno un singolare più lungo del plurale,
come nel gallese nella coppia “plu-en” (piuma) e “plu” (piume). Tuttavia,
bisogna sottolineare alcuni fatti importanti. Il grado di iconicità dipende
largamente dal percorso storico seguito dal sistema linguistico: nelle lingue
semitiche, il sistema di differenziazione vocalica per l’alternanza nel numero è
tuttora stabile e pienamente produttivo, mentre nella lingua inglese esistono
ormai solo dei relitti. Inoltre, la contro-iconicità può essere spiegata
ricorrendo al fattore della frequenza, secondo cui parole più frequenti hanno
segmenti più corti: pertanto “piume” più frequente di “piuma” ha nella lingua
gallese un segmento più corto.
- Uniformità – ovvero l’assenza di alternanze tra diversi membri di una stessa
categoria. Solitamente le strutture più rare sono rappresentate da alternanze
irregolari (marcate), che possono conservarsi solo in presenza di item di
grande frequenza (“have-has”; “do-does”); item meno frequenti tendono
progressivamente a regolarizzarsi. In generale, le strutture più frequenti
presentano maggiore uniformità;
- Trasparenza, secondo cui forme diverse di una stessa categoria esibiscono
morfemi differenti. Il principio è molto simile a quello dell’uniformità: forme
di categorie più frequenti tendono ad esibire maggiore differenziazione (sono
quindi più trasparenti) poiché possono comunque essere ricordate
facilmente; forme di categorie meno frequenti richiedono invece minore
differenziazione (sono quindi meno trasparenti), poiché sarebbe più difficile
ricordare tutte le sue forme diverse. Per questa ragione, strutture meno
frequenti esibiscono più facilmente fenomeni di sincretismo/omonimia. Certo,
per un ascoltatore paradigmi più trasparenti rendono la vita più semplice, ma
per l’apprendente saranno invece più difficili e innaturali.
La marcatezza può essere intesa anche come “difficoltà concettuale”, ovvero più
complessa in termini di attenzione, sforzo mentale o tempi di elaborazione. Il
singolare, ad esempio, è rispetto al plurale il termine marcato poiché è più semplice
elaborare un singolo elemento che più di uno: per questa ragione, il plurale inglese
porterebbe l’affisso che si aggiunge al singolare. E il past simple prevede la marca -
ed, poiché sembrerebbe più intuitivo parlare dell’“adesso” piuttosto che del
“prima”. In alcuni casi, la marcatezza come difficoltà concettuale può corrispondere
ad elementi con marche morfologiche aggiuntive, ma non consiste esattamente
nell’addizione di un elemento aggiuntivo. Secondo Haspelmath, la “difficoltà
concettuale” sarebbe causata da una più bassa frequenza d’uso: non è quindi
necessario adoperare il termine “marcatezza”.

Marcatezza come anormalità


La complessità e la difficoltà sembrano essere correlate con l’anormalità e la rarità.
In tal senso, le strutture marcate sono quelle “anormali/rare”.
La marcatezza può essere intesa come “rarità testuale”, nonostante sia molto più
semplice adottare in tal senso il termine “frequenza”. La marcatezza può anche
essere “rarità nel mondo”, secondo cui esisterebbe una correlazione tra la
marcatezza formale di una costruzione e il grado di marcatezza della situazione nel
mondo che stiamo descrivendo. L’armeno utilizza il locativo semplice (meno
marcato) per l’espressione “nella scatola” ed una costruzione con pospozione (più
marcata) per la locazione meno naturale indicata da “sulla scatola”. Tuttavia,
secondo Haspelmath, la rarità/frequenza nel mondo non è rilevante per studi di tipo
linguistico.
La marcatezza può essere anche intesa, sul piano tipologico, come rarità a livello
interlinguistico. Ancora, la marcatezza può essere intesa a livello distribuzionale
come distribuzione ristretta. In tal senso, nel tedesco le ostruenti sorde sono
rispetto a quelle sonore non-marcate, poiché possono occorrere nella sillaba sia in
posizione di attacco sia di coda. Pertanto, nella coda si assiste ad un fenomeno di
“neutralizzazione”: l’opposizione a livello sonoro si neutralizza a favore del fonema
sordo. Nella lingua Mam, la costruzione antipassiva (marcata) è usata solo quando
l’oggetto non è menzionato, quando l’agente è focalizzato e in pochi altri casi,
mentre la costruzione ergativa (non-marcata) è usata dappertutto. Tuttavia, in
questo senso sarebbe preferibile evitare confusioni di sorta: in luogo di “marcato”
potrebbe più facilmente dirsi “distribuzionalmente ristretto”.
L’undicesimo senso di “marcatezza” è specifico dell’approccio chomskyano a
“principi e parametri”, secondo cui “marcato” è una deviazione dal parametro di
default (“non-marcato”). Se l’assenza di incorporazione del nome è il parametro di
default, l’incorporazione del nome sarà un parametro “marcato”.
Marcatezza cone correlazione multidimensionale
Se i sensi appena descritti sono stati facilmente distinguibili, quest’ultimo
corrisponde invece ad una congiunzione di tutti questi sensi. Secondo tale senso, un
elemento è marcato per diversi fattori:
(i) Frequenza testuale;
(ii) Codice strutturale – il valore marcato di una categoria grammaticale sarà
espresso almeno da tanti morfemi quanti quelli presenti nel valore non
marcato di quella categoria;
(iii) Differenziazione inflessionale, che può essere riassunta nelle tre
caratteristiche di marcatezza di sincretismo, difettivismo e allomorfia.
Alcuni esempi dei tre fenomeni: gli articoli tedeschi presentano una triplice
distinzione di genere al singolare (non-marcato), ma sincretizzano la
distinzione di genere nel plurale marcato; i verbi francesi presentano uno
speciale modo congiuntivo al presente e al passato, ma il futuro è marcato
poiché difetta del congiuntivo e presenta solo la forma indicativa; in
sanscrito, le terminazioni del caso duale mostrano meno allomorfia di
quelle plurali. Questo correlato di marcatezza è particolare, poiché viene
equiparato ad una differenziazione inflessionale ridotta. La differenziazione
inflessionale può essere spiegata in termini di frequenza, poiché le
espressioni più frequenti vengono ricordate più facilmente e possono
quindi essere differenziate in più forme. Non casualmente, nel lessico,
incontriamo alcune irregolarità nei termini più frequenti
(iv) L’espressione facoltativa, secondo cui la categoria marcata è opzionale
mentre la categoria non marcata occorre con un senso generale;
(v) La neutralizzazione contestuale, secondo cui l’opposizione tra due o più
categorie è soppressa e l’elemento che prevale è quello non-marcato.
(vi) Implicazione tipologica: se una lingua ha l’elemento marcato, deve avere
necessariamente anche l’elemento non-marcato.
Sebbene Greenberg sottolinei che tutte queste correlazioni sono importanti, una
coppia di fattori è citata da diversi autori con maggiore insistenza: quella tra la
specificità o la complessità semantica/concettuale e la codifica aperta. Questa
correlazione è spesso descritta con il termine di “iconicità”.
La marcatezza gioca anche un ruolo diverso negli scritti dei singoli linguisti.
(i) In alcuni autori, come nei primi lavori di Trubetzkoy e Jakobson, la
marcatezza è un rappresentata secondo la prospettiva dei singoli sistemi
linguistici. Jakobson, analizzando l’opposizione perfettivo-imperfettivo nel
russo, individua una relazione di marcatezza strettamente interna a quella
lingua;
(ii) Secondo una prospettiva opposta, la marcatezza fa parte del codice
cognitivo, ovvero della grammatica universale. I poli marcato-non marcato
sono caratteristici della Grammatica Universale, sono quindi innati. Il
marcato, in tal senso, è la deviazione dai parametri di default;
(iii) La marcatezza può essere anche osservata come una proprietà generale
delle manifestazioni culturali umane, non soltanto linguistiche;
(iv) Secondo altri linguisti ancora, è invece un concetto esplicativo che ci
permette di individuare una serie di strutture preferite nelle singole lingue
(non-marcate) in opposizione ad una serie di strutture più rare.

Il potere esplicativo della frequenza d’uso


La frequenza d’uso, proprietà della parole o della performance, può rendere
superflui ben cinque sensi di marcatezza prima analizzati. In generale, è chiaro che
nelle lingue naturali e in altri sistemi semiotici umani si applichi il principio del
“minimo sforzo” o dell’economia. Pertanto, più la frequenza della costruzione
aumenta più il segno sarà ridotto, mentre segni più rari saranno costruiti unendo
diversi segni tra di loro. Si osservi la differenza tra egg e ostrich egg, che può essere
letta storicamente in due modi: che chicken egg sia stato accorciato semplicemente
ad egg, data la grande frequenza d’uso dell’espressione, o che egg sia stato usato in
un senso esteso, data la sua grande frequenza, ad indicare le “uova d’ostrica”
(ostrich egg). Entrambi gli scenari sono verosimili e ci ricordano i possibili effetti
della frequenza d’uso sulla lunghezza delle parole e delle espressioni; inoltre, non
abbiamo fatto alcuna menzione alla nozione di “marcatezza”.
La frequenza d’uso permette anche di spiegare la cosiddetta “marcatezza inversa”,
ovvero l’inatteso comportamento marcato di certe categorie che sono solitamente
non-marcate. In alcune lingue il singolare di certi nomi è codificato esplicitamente
(marcato), mentre al plurale non corrisponde alcuna codifica (non-marcato). In
gallese, la parola “piuma” è espressa da plu-en (con affisso), mentre il pluarale
“piume” è espresso dal semplice plu (zero expression). La coppia di parole
sembrerebbe violare il principio di iconicità, ma è in perfetta armonia con una
spiegazione basata sulla frequenza: solo quei nomi che occorrono più
frequentemente al plurale tendono ad avere plurali non-codificati.
Spiegare il perché della frequenza delle parole non è semplice, poiché sono
motivazioni diverse ed eterogenee fra di loro. In alcuni casi, la frequenza d’uso può
dipendere dalla frequenza nel mondo delle entità o dei concetti denominati da
quelle parole, ma in altri casi i due tipi di frequenza sono certamente slegati. Si
sostiene tuttavia che la frequenza d’uso sia semplicemente una delle manifestazioni
della marcatezza, dovuta a fenomeni di altro tipo come la neutralizzazione o più
formali come la lunghezza delle parole. Tuttavia, la neutralizzazione non può
spiegare da sola la frequenza d’uso: ad esempio, dagli studi di Greenberg figura che
il singolare occorre nel 70-85% dei casi, mentre il plurale nel 15-25%; pertanto, che
questa differenza del 40-70% sia dovuta solo alla neutralizzazione appare
chiaramente impossibile. La lunghezza del segmento è invece un fattore che
certamente influenza la frequenza a livello fonologico, ma lo stesso effetto non
sembra persistere in fenomeni morfosintattici: il plurale inglese non è certo meno
frequente del singolare per il suo affisso; difatti in altre lingue come il latino e il
francese, dove singolare e plurale hanno usualmente le stesse sillabe, il plurale resta
comunque più raro del singolare.

Sostituire la marcatezza semantica


La marcatezza semantica è stata osservata come un fenomeno molto generale che
fa parte della natura pervasiva del pensiero umano, secondo cui un membro non-
marcato può rappresentare o l’intera categoria o il membro della categoria opposto
a quello marcato. Possiamo rappresentare la situazione ricorrendo al linguaggio
matematico: il simbolo “5” rappresenta sia “|5|” sia “+5”; così nella lingua Maidu,
l’espressione majdy rappresenta sia “essere umano” sia “persona umana”, in
contrasto con espressioni marcate come “wolem majdy” (“persona bianca”) e così
via.
In generale, come già discusso dalla letteratura neo-griceana, la proprietà del
pensiero umano coinvolta è la nostra capacità di fare inferenze pragmatiche durante
le nostre conversazioni. In casi come “majdy”, è importante sapere applicare il
Principio di Informatività, grazie al quale l’ascoltatore può arricchiere
l’interpretazione di un’espressione formulata dal parlante. Per tale motivo,
un’espressione come “majdy” può essere interpretata a seconda del contesto come
“essere umano” o “persona Maidu”, quest’ultima specialmente in contrasto con
persone “non-Maidu”. Tuttavia, non possiamo parlare di un termine polisemico o bi-
funzionale: probabilmente “majdy” significherà solo “essere umano”, mancando di
un termine convenzionale per individuare la “persona Maidu”.
Discorso simile può essere fatto per i nomi indicanti la stessa categoria di animale,
ma di sesso diverso. Solitamente, il nome maschile può venire a rappresentare tutta
la categoria, senza riferimento al sesso dell’animale, mentre il nome femminile
specifica solo il sesso di riferimento. In russo, “osel” può significare sia “scimmia in
generale” sia “scimmia maschio”, mentre “oslica” solo “scimmia femmina”: “osel”
avrebbe quindi un significato generale (“zero meaning”) ed uno più specifico
(“minus meaning”), che si attiva in contrasto con il membro marcato della categoria.
“Eto oslica? Net, osel”. (Era una scimmia femmina? No, era un maschio).
In alcune situazioni, il minus-meaning di una parola si è sviluppato soltanto in un
secondo momento, finendo però per convenzionalizzarsi e prendere il posto del
siginificato originario. Nelle lingue Maya del Chiapas, in Messico, la parola “cih”
(“cervo”) era poi sfruttata per indicare altre categorie più specifiche (marcate) di
animali, come la “capra” (introdotta dagli invasori europei) con “tunim cih” (lett.
“cervo di cotone”. Tuttavia, quando le capre hanno acquisito nella società Maya
un’importanza maggiore rispetto a quella dei cervi, “cih” è stata utilizzata per
riferirci alle “capre”, mentre cervo è adesso indicato con l’espressione arricchita
(marcata) “te?tikil cih” (lett. “capra selvaggia”). Cosa era prima un’implicatura
basata sull’informatività è oggi un significato convenzionale.
La convenzionalizzazione può anche comportare la perdita del significato generale
dell’espressione, che conserva solo il suo “minus-meaning”. Così è successo per
“prince”, originariamente avente il significato generale di “principe/principessa”,
oggi indicante solo “principe” in contrasto con “princess”. La coppia
“leone/leonessa” mostra una convenzionalizzazione incipiente.
Potremmo però sostenere che per le coppie con incipiente convenzionalizzazione,
dove uno dei due termini conserva ancora un significato generale, si possa parlare di
“marcatezza” all’interno di una relazione di tipo iponimico. Tuttavia, sono diversi i
criteri da considerare per una relazione contrastiva, poiché, come è possibile
osservare, coppie diverse di parole si comportano diversamente. Tra “veicolo”
(termine 1) e “autobus” (termine 2), sarà possibile sostenere che: “Quel veicolo non
è un autobus” (predicazione contrastiva esclusa); “io ho visto un veicolo, ovvero un
autobus” (uso specifico di termine 1 per termine 2); “l’autobus è un tipo particolare
di veicolo” (iponimia); “cerco un veicolo” che implica “l’autobus” (uso non-specifico
di 1 per 2); plurali eterogenei (“veicoli” può intendere “più veicoli diversi”, compresi
“più autobus diversi”).
Tuttavia, se tra “soldato” e “generale” sarà possibile attestare la presenza di tutti
questi criteri, tra “leone e “leonessa” e tra “toro” e “mucca” il discorso sarà
leggermente diverso. Dire “Quel toro non è una mucca” sarà un’espressione poco
sensata, poiché la parola “toro” sicuramente non può implicare il referente
“mucca”; non si potrà dire “ho visto dei re” volendoci pure a delle regine ed è
sempre meno accettato il termine “uomini” a comprendere anche delle “donne”.
Come si sarà osservato, le coppie di parole esibiscono un comportamento di natura
idiosincratica, ma ancora una volta largamente dipendente dalla frequenza d’uso.
Nella coppia “cane/cagna”, il primo termine mantiene un senso generico per la sua
alta frequenza d’uso; nella coppia “king/queen”, il primo termine ha perso il suo
senso generico per l’alta frequenza pure del secondo. Pertanto, la “marcatezza
semantica” non può essere spiegata ricorrendo semplicemente alle nozioni di
“iponimia” e di “specificità semantica”, che esibiscono gradi diversi di applicazione e
si differenziano da lingua a lingua. In italiano, sarà possibile utilizzare il tempo
“presente” (non-marcato) per esprimere il tempo “passato” (marcato), se presente
un’espressione di tempo indicante anteriorità; questa stessa operazione non è
ammessa nella lingua inglese.
Come abbiamo visto, al di là delle differenze interlinguistiche, un fattore dirimente
per risolvere la questione resta la frequenza d’uso. Non è quindi necessaria alcuna
nozione di marcatezza.

Sostituire la marcatezza fonologica


Come abbiamo già osservato, il senso originario di marcatezza, quello scovato da
Trubetzkoy, si fondava sulla specificazione fonologica e quindi sulla differenziazione
tra fonemi marcati e fonemi non-marcati: in alcuni contesti, il contrasto si
neutralizza a favore dei fonemi non-marcati. Jakobson ha invece analizzato per
primo il legame tra marcatezza e la difficoltà fonetica- Di seguito, Greenberg ha
enucleato tutte le proprietà caratteristiche della nozione di marcatezza fonologica:
(i) Neutralizzazione – il termine non-marcato occorre sempre in luogo del
fonema marcato in alcuni determinati contesti;
(ii) Implicazione tipologica – se una lingua ha il termine marcato, ha anche il
termine non-marcato;
(iii) Frequenza – il termine non-marcato è più frequente di quello marcato;
(iv) Variazione allofonica – Il termine non-marcato mostra maggiore variazione
allofonica;
(v) Differenziazione fonemica – Il valore non marcato è meglio differenziato
(le lingue hanno più vocali orali diverse che vocali nasali diverse).
I ricercatori McCarthy, Prince, de Lacy e Rice hanno inoltre aggiunto altri due
parametri:
(vi) Instabilità nell’assimilazione – Il termine non-marcato si assimila più
facilmente di quello marcato
(vii) Emergenza del non-marcato – Nell’epentesi, appaiono solo i segmenti non
marcati.
La marcatezza fonologica, secondo alcuni studiosi, è direttamente correlata alla
difficoltà fonetica. Quest’ultima è chiaramente legata alla frequenza dei fonemi nei
testi, in una duplice direzione. La difficoltà articolatoria può infatti causare rarità,
d’altra parte l’alta frequenza di alcuni fonemi può comportare la loro
semplificazione articolatoria.
Anche il più grande raggio distribuzionale di alcuni segmenti rispetto ad altri sembra
essere dovuto alla difficoltà fonetica: per questa ragione, le ostruenti sonore non
occorrono in posizione di coda sillabica, poiché più difficili da mantenere rispetto a
quelle sorde. Tuttavia, come già osservato con gli elementi lessicali, il fenomeno
della neutralizzazione non può spiegare da solo la maggiore frequenza di alcuni
fonemi rispetto ad altri.
Anche l’implicazione tipologica sembra essere dovuta principalmente alla difficoltà
fonetica, secondo la regolarità generalmente accettata che l’abilità di elaborare un
compito più difficile implica la realizzazione di quello più semplice. Per questa
ragione, nelle lingue è più facilmente presente un suono velare sonore come [g]
rispetto ad uno uvulare sonoro [G]. Inoltre, se per qualche ragione /g/ scomparirà
dal sistema fonologico di quella lingua, probabilmente /G/ sarà presto articolata
come una [g] secondo quel principio già analizzato dell’economia o “minimo sforzo”.
Gli ultimi due correlati, quelli dell’instabilità nell’assimilazione e l’epentesi, possono
essere spiegati dalla diversa frequenza d’uso dei fonemi. Si tenderà ad assimilare
suoni più semplici e quindi più frequenti, si tenderà ad inserire segmenti fonetici più
frequenti. Da un punto di vista interlinguistico, certamente, l’acquisizione dei fonemi
dipenda dalla diversa frequenza di questi nei singoli sistemi: un bambino parlante la
lingua inglese acquisirà /k/ dopo /t/; al contrario, un bambino parlante giapponese
avrà più difficoltà con /t/ che con /k/. Difatti, nel giapponese a dispetto
dell’inglese /k/ è più frequente di /t/.

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