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AUDIO 1 INTRODUZIONE AL MODULO 1

Quando si affronta un percorso di saperi è importante avere ben


organizzati i contenuti: bisogna avere un punto di partenza. Il nostro staff
di docenti universitari ha deciso di partire dalla persona dal caso di studio
che in inglese case-study cioè dalla specificità del bambino che noi
andiamo a ad assistere ad aiutare con i suoi bisogni educativi speciali
(bisogni educativi che non sono bisogni normali, ma sono speciali). Con il
nostro corso partiamo da chi sono chi è e come In un certo qual senso
funzionano. Per capire il funzionamento FUNCTIONARY in inglese significa
funzionamento e lo troviamo a scuola nella carta d'identità del ragazzo di
sostegno l’ICF, un documento che ci dice a quale tipo di situazione siamo
di fronte: una certificazione di disabilità(legge 104/92 famosa 104 che
riguarda le persone disabili Generali rilasciata dalla ASL)la certificazione
della patologia la troviamo all'interno di quello che è il profilo dinamico
funzionale dello studente che sarebbe il documento di riconoscimento del
caso di studio del bambino che noi andiamo a trattare.
L’ICF è un modo per classificare in modo standardizzato secondo un codice
un numero di diversi tipi patologie che riguardano lo studente.
In questa nota iniziale di questo percorso volevo semplicemente ribadire la
centralità della persona e quindi di partire dalle domande che riguardano,
per esempio sul tipo disabilità. Come si affrontano di solito queste
domande? Sono 5 su 60 benissimo noi cerchiamo di prepararci ai casi
possibili, uno per uno:un mutismo selettivo, un autismo ad alto
funzionamento o una sindrome di Cramer ci sono diversi disabilità le
domande preselettive andranno a chiedere se vuoi sapete più o meno
individuarle.
Di solito nei TFA sostegno degli anni scorsi le prove scritte potevano anche
presentare un case study, all'interno di questo primo modulo quindi noi ci
introduciamo nel grande discorso della didattica inclusiva e delle strategie
e metodologie per l'inclusione scolastica che è un orizzonte complesso
perché sono diverse metodologie con cui veniamo ad operare utili per i
diversi tipi di caso di studio. Si va sicuramente dalla lezione frontale e quella
più semplice che tutti conosciamo fino ad arrivare al mastery learning, la
simulazione operativa, il laboratorio, il problem solving, poi abbiamo la
didattica per progetti,le esercitazioni di gruppo, abbiamo forme diverse di
cooperative learning. Apprendimento Cooperativo si differenzia dall’
apprendimento di tipo collaborativo perché l'apprendimento cooperativo
prevede dei ruoli ben precisi che si vengono a trovare nei gruppi, mentre
nel tipo di apprendimento collaborativo tutti insieme i bambini faranno
quel tipo di attività didattica. Esempio: collaborativo significa fare insieme
un cartellone; cooperativo fare una ricerca dove qualcuno si occupa della
ricerca on-line, qualcuno di fare il cartellone, qualcun altro si occupa di fare
una presentazione, quindi si opera in completa autonimia e legami tra il
gruppo.
Altra metodologia è il role playing che significa giocare dei ruoli quindi
assegnare dei ruoli ai ragazzi, come la recita una esemplare forma didattica
dove ognuno ha un ruolo. Pensiamo che noi vogliamo spiegare la bottega
del Rinascimento: uno studente interpreta Caravaggio,un altro il vescovo,
il committente, un altro potrebbe interpretare il papa, un altro potrebbe
interpretare nemico, un concorrente, un altro potrebbe interpretare il
biografo dei grandi artisti, uno il grande pittore. Noi dobbiamo sempre
immaginare che le didattiche sono strumenti che il docente usa per trattare
le diversità dei casi. Ovviamente variano da caso a caso. Immaginate il tipo
di caso del bambino a cui si sta di fronte, se è un bambino autistico che ha
scarsa socialità gli si fanno fare le azioni di gruppo di cooperative learning
all’interno del quale può essere stimolato nella sua socialità, oppure
utilizzare il roleplay, o il Debate.
Sempre nell’apprendimentotra pari troviamo la flipped classroom (classe
capovolta) la classe non è più composta dal docente che si trova in classe
e fa la sua lezione, ma l'insegnante dice all'alunno di studiare da casa, di
fare una ricerca, un approfondimento, anche utilizzando internet, una
volta fatte lel ricerche in autonomia, il giorno successivo può essere lui a
spiegarlo in classe. Abbiamo quindi una parte di spiegazione, illustrazione
dell'argomento successiva, la materia viene affidata allo studente stesso,
mentre la fase successiva e quella di verifica viene fatta poi in classe. Si
capovolge qui il rapporto classe/compiti a casa. Atro metodo è quello di
utilizzare il brainstorming, parola inglese che significa tempesta di
cervello, una metodologia didattica molto utile per la creatività e per
stimolare le persone a dire la prima cosa gli passa per la testa, sappiamo
che spesso molti bambini sono inibiti, hanno una scarsa socialità, sono
introversi e difficilmente si espongono; con un brainstorming li stimoliamo
a dire la prima cosa che hanno in mente, come idea, un bravo insegnante
si complimenta con l’alunno per aver partecipato, ringrazia anche se il
pensiero non è proprio appropriato. Il brainstorming è una metodologia
spontanea dove si chiede alle persone di introdurre in una fase iniziale sul
tema scelto i primi pensieri che passano per la testa su quell'argomento.
Poi abbiamo la ricerca-azione. La ricerca-azione è una veloce didattica che
tiene conto di una ricerca che fa il docente sull’ analisi e sulle osservazioni
di una data situazione. Possiamo avere un bambino difficile, il bambino che
non si riesce a capire bene come trattarlo, un bambino che bisogna
studiare, è quindi utile fare una ricerca prima di proporre un'azione
didattica ovvero fare un'analisi dei fabbisogni, della situazione, parlare alla
famiglia, parlare con lui, provare diverse metodologie per capire poi come
poter agire a livello didattico.
(Teoria sviluppata da Carl Lewitt)
Abbiamo poi la didattica metacognitiva (un classico che esce quasi tutte le
prove preselettive) significa metacognizione, cioè riflettere. Deriva dal
concetto di cognizione, concezione, mentre l’opposto sarebbe la
percezione, la famosa teoria della Gestalt che diche che si apprendono
molte cose anche in base alla percezione. Come riflessione sul modello
della didattica metacognitiva è importante ricordare il ruolo che hanno la
didattica metacognitiva e la metacognizione come riflessione su quello che
si fa, la didattica metacognitiva è la didattica che riflette.
Non solo io insegnamento come atto isolato, ma azione attraverso la quale
rifletto sull’aver trasmesso delle conoscenze, nel modo in cui l’ho fatto e
come gli studenti lo hanno recepito, mi chiedo se posso fare dei
miglioramenti, mi autovaluto non solo valuto. L'insegnante deve essere
capace di pensare sul proprio pensiero di riflettere su quello che fa.
Poi abbiamo ancora il Circle Time metodologie che vanno utilizzate con i
più piccoli ma non solo (anche nella formazione professionale degl adulti,
quando hanno una certa remora a metterdi in gioco), in cui si mettono le
persone in cerchio(che è un modo per gestire i turni di parola in modo
ordinato) non è il docente a chiamare la persona ma è l aposizione
all’interno del cerchio stesso. Per esempio pensiamo una classica
presentazione se ci presenta la turno si parla è un modo anche per
coinvolgere il timido, l’ introverso, colui che non vorrebebe parlare mai e
allo stesso tempo mettere l'iperattivo, quello che vuolesempre parlare
nelle condizioni di aspettare il proprio turno. Questo tipo di didattica è
molto utilizzata all'infanzia e nella scuola primaria anche perché si possono
usare gli oggetti che possono essere usati nel momento in cui siparla e
quando si ha finito passare l’oggetto al prossimo. Le parole e i concetti
espressi all’interno del cerchio si ritrovano in una ampia sitiìuazione di
democraticità
Continuando con le didattiche per parole e per concetti parleremo delle
storie di vita dove si cerca di mettere il vissuto della persona all'interno
della relazione educativa.Non va confuso con il progetto di vita che è invece
il documento che stila l'ASL ed è ancora diverso dal PEI, piano educativo
individuale e che fa la scuola in collaborazione con gli operatori sanitari, ma
è un lavoro per cui si cerca di stimolare la persona a raccontare se stessi; è
la clasica intervista ai nonni, alla zia dove c'è un raccontarsi perché il
momento in cui si ci racconta si stimola la memoria emotiva. Se pensato
per un bambino con delle disabilità cognitive che ha problemi di memoria,
dobbiamo ricordarci che è utilissimo. Molto utile anche stimolare la
memoria porgendo una serie di domande tipo:cosa hai fatto ieri? Cosa hai
fatto con la mamma? Cosa hai fatto a casa? Cosa hai fatto gli ultimi giorni?
Cosa hai fatto quest'estate? E’ questa una tecnica per allenare la sua
memoria o la sua capacità attentiva. Ricordiamoci che molti studenti anno
di problematiche di concentrazione e quindi si allenano con queste
metodologie di ricordi e di gestione della memoria. Poi abbiamo il Focus
Group che mi volge focalizzare sul gruppo le mie attenzioni, perché è nel
gruppo che si cerca di mettere il Focus, concentrarsi su un argomento
specifico. Abbiamo il metodo del Coaching che è molto conosciuto perché
c'è un coach che fa da trainer per uno studente. Abbiamo il rapporto di
recupero e sviluppo degli apprendimenti Larsa che sono dei laboratori
particolari che vengono fatti per quando i bambini che hanno delle
disabilità abbastanza gravi.
Parte riguardante gli alunni.
Usiamo la parola speciale per indicare dei ragazzini che non so
normodotati: speciali proprio per cercare di far diventare un punto di
debolezza, la loro disabilità,un punto di forza.
Quella che si occupa dei BES è la didattica speciale o la pedagogia
speciale:questa specialità in questo senso significa la specializzazione della
didattica che va a lavorare con i casi di DSA e disabilità o di svantaggio.
I BES sono un mondo variegato in cui possiamo formare tre sottogruppi: i
DSA che hanno una loro specificità è una loro tipo di dimensione anche dal
punto di vista dei documenti che la accompagnano (PDP), gli studenti con
disabilità certificata secondo la l. 104 e gli studenti in condizione di
svantaggio.
I DSA sono i disturbi specifici dell'apprendimento e sono
fondamentalmente quattro:discalculia, disortografia, dislessia e disgrafia.
Lo svantaggio socioeconomico, socio culturale familiare, minori non
accompagnati e casi di particolare disagio che può essere anche periodico
o dipendere da un determinato contesto. In questa categoria non siamo di
fronte disabilità ma a ragazzi che, per esempio,vengono da altri paesi, che
non sanno ancora bene la lingua, quindi sono dei ragazzi che hanno delle
difficoltà, ma queste difficoltà sono di natura sociale, di contesto e sono
recuperabili. Solitamente questi ragazzi infatti hanno PDP un piano
didattico personalizzato dove si trovano le attività di potenziamento di
quelle aree in cui loro sono rimasti indietro. Quindi bisogna distinguere i
BES in queste tre macro-categorie.
Da oggi in poi parleremo di disabilità certificata oppure in situazione di
svantaggio o con DSA.
Importanti da sapere: didattica speciale, per concetti o metacognitive,
didattica dell'errore, orientativa, didattica laboratoriale e
dell’insegnamento laboratoriale, comunità di pratiche (sono quelle
comunità dove si scambia conoscenza, dove c'è un mentore che può essere
per esempio lo studio di un grande avvocato dove si va a fare praticantato),
problem posing e problem solving, peer education educazione tra pari che
è allo stesso tempo una relazione tra persone ma non con il docente in cui
ci sono questi livelli apprendimento altamente formativi: c'è un doppio
livello in cui noi impariamo dagli altri quando siamo insieme agli altri
*MODULO 1 Didattica inclusiva e strategie di inclusione scolastica*
La didattica dell’inclusione: Il rapporto tra scienza dell’educazione e didattica
Il diritto allo studio di ciascun alunno deve essere attuato attraverso un modello didattico
che superi la semplice logica dell’integrazione di quelle persone che fino a non troppo tempo
fa erano considerati degli “esclusi”.

La scuola deve essere pertanto considerata una comunità educante di dialogo, di ricerca,
di esperienza sociale, informata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in
tutte le sue dimensioni.
In essa ognuno, con pari dignità e nella diversità dei ruoli, opera per garantire la formazione
alla cittadinanza, la realizzazione del diritto allo studio, lo sviluppo delle potenzialità di
ciascuno e il recupero delle situazioni di svantaggio, in armonia con i principi sanciti dalla
Costituzione e dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia (ONU 1989).
La scuola italiana ha avviato un lungo percorso che va dall’integrazione ⇒ all’inclusione,
in particolare nei confronti di disabilità e multiculturalità.
La mancanza di inclusione sociale e/o di successo scolastico di un alunno non
dipenderebbe da un deficit a lui interno, ma da un difetto nell’organizzazione della scuola e
delle sue pratiche didattiche.
(Esclusione, Segregazione, Integrazione- Inclusione)

L’inclusione non mira solo a integrare gli esclusi, ma a modificare gli stessi sistemi
educativi, al raggiungimento di “contesti educativi accoglienti, promotori di vita indipendente
e di cittadinanza attiva” in cui tutti concorrono al raggiungimento di obiettivi comuni.
Non è “il diverso” che si integra al contesto (integrazione=assimilazione), ma il contesto
che si modifica per accogliere ed includere (inclusione=partecipazione).
La didattica dell’inclusione si prefigge l’obiettivo di creare le condizioni di apprendimento
ottimali con la finalità di mettere ogni alunno nelle condizioni di scoprire, valorizzare ed
esprimere al massimo il proprio potenziale.
La scienza dell’educazione (pedagogia) si propone come prospettiva l’esigenza di
migliorare le condizioni di tutti e di ciascuno e la didattica (scienza) di mettere in
pratica metodologie e strategie per facilitare un apprendimento significativo, duraturo e
trasferibile.
La didattica inclusiva deve tener conto:

• Delle Persone (età, sviluppo, stili e modalità di apprendimento, bisogni e potenzialità


formative);
• Degli Obiettivi educativi e formativi; (dove voglio arrivare con questa persona?)
• Dei Contesti istituzionali;
• Di Valorizzare l’esperienza dell’ alunno;
• Di Predisporre saperi connessi all’esperienza degli alunni;
• Di saper mediare la conoscenza degli alunni (trasformazione e non mera riduzione dei
saperi).

La didattica speciale: oltre l’istruzione, l’educazione e la formazione.


Per Didattica Speciale dobbiamo intendere quella che «mira a rendere accessibile
l’esperienza di insegnamento-apprendimento, predisponendo contesti inclusivi al fine di
favorire il processo di apprendimento nella costruzione del progetto di vita.

La didattica speciale deve essere capace di collegare le esigenze del singolo a quelle di un
gruppo e a leggere nelle esigenze straordinarie, almeno apparentemente, la realtà di tanti.
L’apprendimento è il punto di incontro delle diversità di ciascuno e, se la socializzazione ha
una grande importanza, essa può realizzarsi attraverso l’apprendimento.

La didattica speciale ha inoltre il compito di progettare e non improvvisare la didattica:


processi di insegnamento e di apprendimento sono correlati e la fase di progettazione
didattica va di pari passo a quella della sua esecuzione; inoltre la meta-cognizione didattica
interviene anche a valutare se ciò che si era progettato corrisponde che gli esiti parziali che
si sono di volta in volta verificati. Report, analisi dei risultati e verifiche non sono qualcosa
che deve intervenire solo a monte del processo di progettazione didattica ma anche durante
la stessa progettazione. Sono documenti di valutazione che possono anche far cambiare
idea sulla stessa progettazione.

In ogni momento chi si occupa di didattica deve poter avere una documentazione
dell’attività: la documentazione didattica permette anche di rendere pubblici i risultati ottenuti
(pensiamo a dei bambini che realizzano un cartellone, o degli studenti delle superiori un
power point di presentazione di un argomento). La scuola deve conservare la
documentazione didattica.

Il ruolo e le funzioni dell’insegnate di sostegno


1. Trovare metodi e modi per mediare-trasmettere i saperi
2. Trasformare i saperi in funzione dei diversi bisogni educativi degli alunni, nel rispetto
delle loro particolarità e singolarità, senza appiattire l’insegnamento e l’apprendimento
delle conoscenze alla mera trasmissione di conoscenze
3. Accogliere, valorizzare, stimolare ed estendere le curiosità, le esplorazioni, le proposte
degli alunni;
4. Creare occasioni di apprendimento per favorire l’organizzazione di ciò che gli alunni
apprendono;
5. Permettere all’alunno, opportunamente guidato, di approfondire gli apprendimenti.
6. Favorire l’esperienza diretta anche attraverso strategie ludiche e il procedere per
tentativi ed errori.

Creare ambienti di apprendimento e comunità di relazioni


Costruire l’accoglienza, progettare e programmare occasioni informali di socializzazione
per lo sviluppo di abilità prosociali (creazione dimensione comunitaria);
• Conoscere i diversi bisogni educativi speciali;
• Informare e sensibilizzare sui deficit;
• Stimolare le reazioni informali di amicizie e di aiuto reciproco;
• Progettare e programmare organizzando la classe come ambiente di apprendimento e di
comunicazione didattica, favorendo i processi interavi e la relazione educativi
Utilizzare strategie didattiche integrate
• Realizzare interazioni di apprendimento cooperativo per lo sviluppo dell’interdipendenza
positiva;
• Realizzare modalità di tutoring e di peer tutoring;
• Analizzare, adoperare e trasformare i materiali didattici e i libri di testo;
• Realizzare laboratori integravi (fumetto, lavoro con materiali poveri, drammatizzazione,
ecc.);
• Realizzare percorsi di apprendimento di abilità di studio e situazioni di didattica
metacognitiva;
• Realizzare differenziazioni del lavoro in classe sulla base delle differenze di stile
cognitivo;
• Realizzare modalità individualizzate di valutazione;
• Utilizzazione delle tecnologie informatiche.

Utilizzare metodologie di lavoro, ricerca, documentazione ed autoanalisi


• Utilizzare metodi educativo-didattici specifici
• Conoscere i metodi più diffusi in ambito riabilitativo nei tempi, nei modi e nei limiti;
• Analizzare e valutare i materiali per l’apprendimento e il gioco
• Analizzare e valutare gli ausili ed i software;
• Ricostruire un percorso esistenziale integrativo delle competenze riabilitative e anche
educative;
• Acquisire la capacita di sperimentare e ricercare le soluzioni e gli adattamenti più
idonei alla specificità dei soggetti in situazione di disabilità;
• Saper stabilire rapporti con gli operatori e i professionisti, costruendo l’integrazione
delle competenze in un’azione multidisciplinare;
• Saper stabilire con la famiglia i momenti di continuità e discontinuità nell’azione
educativa e riabilitativa
Accompagnare nel progetto scolastico e di vita
Lavoro congiunto su PDF e PEI (insegnanti curricolari e di sostegno, famiglie, ASL, servizi
sociali, risorse territorio);
• Espandere il PEI in un progetto di vita costruendo un percorso didattico individualizzato
con obiettivi comuni alla classe ma programmato in funzione delle esigenze del soggetto
(tempi, modalità, strumenti, ausili, assistenza) e funzionale allo sviluppo della sua
autonomia;
• Progettare e realizzare percorsi di integrazione sociale;
• Saper verificare e valutare in modo sistematico i progressi dello studente e dei suoi
compagni in interazione;
• Saper valutare il raggiungimento degli obiettivi, le fasi di guida e di orientamento e i
supporti;
• Collaborare con Enti del territorio e ricercare le risorse informali della comunità
• Realizzare percorsi di Orientamento
• Realizzare iniziative di transizione scuola-lavoro

Acquisire la capacità di collaborare per un’azione sinergica che va dal pedagogico-


didattico al gestionale-amministrativo-organizzativo

• Saper rimettere in discussione la propria attività docente in un confronto aperto con i


colleghi, saper accettare le scelte condivise
dal gruppo pur valutando attentamente la loro possibile applicazione;
• Relazione con l’équipe multidisciplinare della ASL e i servizi sociali;
• Risolvere conflitti;
• Relazione con i genitori ed empowerment familiare (continuità e discontinuità con la
famiglia);
• Saper individuare le relazioni tra contesto scolastico e le altre agenzie educative;
• Saper costruire progetti condivisi con i vari attori che partecipano ai processi di
inclusione.

⇒ Relazionarsi con i colleghi, il personale, gli operatori e la famiglia

Apprendimento formale, non formale ed informale


Esistono tre diversi tipi di apprendimento:

 Apprendimento formale (certificato e strutturato): si tratta di quell’apprendimento


che avviene in un contesto organizzato e strutturato (in un’istituzione
scolastica/formativa) e conduce ad una qualche forma di certificazione;

 Apprendimento non formale (non esplicitamente attività di formazione e non


certificato): è l’apprendimento connesso ad attività pianificate ma non
esplicitamente progettate come apprendimento (esempio una giornata di
approfondimento su un problema lavorativo nella propria professione);
 Apprendimento informale (non strutturato e non organizzato imparare facendo
cose anche senza voler imparare – apprendimento latente): le molteplici forme
dell’apprendimento mediante l’esperienza risultante dalle attività della vita
quotidiana.

Gli stili di apprendimento: negatore, pedina, strategico


Lo stile di apprendimento è un comportamento cognitivo, affettivo e fisiologico di come viene
appreso l’ambiente intorno a sé e vengono acquisite nuove informazioni. Esistono svariati stili che
vengono classificati in diversi modi e la persona stessa può usare diversi stili a seconda della
situazione.
La conoscenza dei principali stili cognitivi e la riflessione sulle caratteristiche proprie personali, del
proprio metodo di insegnamento costituisce un importante elemento nel bagaglio di un buon
insegnante.
Si individuano 5 stili diversi:

1. Stile “abile”:
• Credenza: le cose riescono bene perché si è bravi; se non riescono non si è bravi ed è
inutile provare.
• Attribuzione causale: il successo è dovuto all’abilità (superbia), l’insuccesso alla
mancanza di abilità (vergogna).
• Aspettative di riuscita: in caso di successo viene anticipato un ulteriore successo; in caso
di fallimento un ulteriore fallimento.
• Motivazione: evitare il fallimento.
È uno stile disfunzionale all’apprendimento:
– in caso di insuccesso può sviluppare senso di impotenza;
– non persiste di fronte alle difficoltà;
– non vengono affrontate le situazioni difficili e i compiti in cui
non si è bravi;
– mancanza di impegno e ricerca di strategie.

2. Stile depresso:
• Credenza: mancanza stabile d abilità.
• Attribuzione causale: successo = cause esterne insuccesso = mancanza di abilità
• Aspettative di riuscita basse.
• Motivazione: evitare il fallimento.
• Persistenza nel compito bassa: comportamento rinunciatario di chi tende ad evitare
compiti e situazioni valutative o compiti difficili in cui potrebbe emergere la propria
incapacità.
È uno stile disfunzionale all’apprendimento
Per modificarlo può essere necessario agire anche sulle
aspettative di GENITORI e INSEGNANTI.

3. Stile negatore
• Credenza: abilità come dote innata (chi ce l’ha successo chi non ce l’ha fallisce).
• Attribuzione causale: successo = causa interna insuccesso = causa esterna
• Motivazione: evitare il fallimento.
Stile disfunzionale all’apprendimento:
• poca importanza all’impegno;
• di fronte agli insuccessi non cerca strategie più adatte.

4. Stile pedina
Attribuzione causale fatalista: sia il successo che l’insuccesso sono dovuti a cause
esterne.
• Motivazione: evitare il fallimento.

E’ uno stile disfunzionale all’apprendimento :


• poca importanza all’impegno;
• coinvolgimento insufficiente, poco interesse;
• mancanza di motivazione.

Gli stili di apprendimento: negatore, pedina, strategico


STILI DI APPRENDIMENTO (⇒ concetto su cui si ritornerà nel corso di Origine)
La conoscenza dei principali stili cognitivi e la riflessione sulle caratteristiche proprie personali, del
proprio metodo di insegnamento e degli allievi, costituisce un importante elemento nel bagaglio di
un buon insegnante.

Lo stile di apprendimento è un comportamento cognitivo, affettivo e fisiologico di come viene


appreso l’ambiente intorno a sé e vengono acquisite nuove informazioni. Esistono svariati stili che
vengono classificati in diversi modi e la persona stessa può usare diversi stili a seconda della
situazione. Ci sono diversi modi per classificarli. Vediamo uno dei più conosciuti ed usato all’ultimo
ciclo del TFA V Ciclo.
Solo considerando le differenze individuali il metodo di insegnamento potrà tener conto delle
modalità con cui l’alunno apprende, valorizzare le sue inclinazioni e adattarle a contesti e situazioni
nei quali quelle inclinazioni potrebbero causare difficoltà.

Dimmi che stile cognitivo di apprendimento hai e ti dirò come studi!

• Chi crede di riuscire o di non riuscire per effetto dell’impegno personale, dell’interesse, della
motivazione (attribuzioni interne, controllabili)

• Chi pensa di riuscire o di non riuscire a causa dell’abilità innata (attribuzione interna non
controllabile) o di fattori esterni (difficoltà/facilità del compito, fortuna/sfortuna, aiuto/non aiuto):

1. – presenta un atteggiamento strategico che lo porta ad avere delle buone abitudini di studio,
2. tende a prodigare ogni sforzo per riuscire,
3. ha un buon senso della realtà e più fiducia in se stesso.
4. è meno portato ad utilizzare strategie o ad individuare corrette abitudini di studio
5. è meno convinto di poter controllare gli eventi, ritiene inutile anche impegnarsi.
Si individuano 5 stili diversi:
1. Stile “abile”:
• Credenza: le cose riescono bene perché si è bravi; se non riescono non si è bravi ed è inutile
provare.
• Attribuzione causale: il successo è dovuto all’abilità (superbia), l’insuccesso alla mancanza di
abilità (vergogna).
• Aspettative di riuscita: in caso di successo viene anticipato un ulteriore successo; in caso di
fallimento un ulteriore fallimento.
• Motivazione: evitare il fallimento.

È uno stile disfunzionale all’apprendimento:


– in caso di insuccesso può sviluppare senso di impotenza;
– non persiste di fronte alle difficoltà;
– non vengono affrontate le situazioni difficili e i compiti in cui
non si è bravi;
– mancanza di impegno e ricerca di strategie.

2. Stile depresso:
• Credenza: mancanza stabile d abilità.
• Attribuzione causale: successo = cause esterne insuccesso = mancanza di abilità
• Aspettative di riuscita basse.
• Motivazione: evitare il fallimento.
• Persistenza nel compito bassa: comportamento rinunciatario di chi tende ad evitare compiti e
situazioni valutative o compiti difficili in cui potrebbe emergere la propria incapacità.
È uno stile disfunzionale all’apprendimento
Per modificarlo può essere necessario agire anche sulle
aspettative di GENITORI e INSEGNANTI.

3. Stile negatore
• Credenza: abilità come dote innata (chi ce l’ha successo chi non ce l’ha fallisce).
• Attribuzione causale: successo = causa interna insuccesso = causa esterna
• Motivazione: evitare il fallimento.

Stile disfunzionale all’apprendimento:


• poca importanza all’impegno;
• di fronte agli insuccessi non cerca strategie più adatte.

4. Stile pedina
Attribuzione causale fatalista: sia il successo che l’insuccesso sono dovuti a cause esterne.
• Motivazione: evitare il fallimento.

E’ uno stile disfunzionale all’apprendimento :


• poca importanza all’impegno;
• coinvolgimento insufficiente, poco interesse;
• mancanza di motivazione.
5. Stile strategico
Caratterizzato da un forte impegno che viene messo in atto dal singolo studente (FORZA DI
VOLONTA’ MOTIVAZIONE) = sforzo intenzionale di individuazione e applicazione delle
strategie più adeguate per portare a termine il compito con successo.
• Attribuzione causale: il successo è dovuto all’impegno, l’insuccesso alla mancanza di impegno o
di utilizzo di strategie adeguate;
• Aspettative di riuscita nel compito sono influenzate dal grado di impegno che si è disposti a
mettere in atto in relazione alle difficoltà del compito;
• Lavora per migliorare le proprie competenze più che per dimostrare le proprie abilità;
• Persiste di fronte alle difficoltà;
• Motivazione al successo.
È uno stile particolarmente motivante e funzionale all’apprendimento:

• coinvolgimento personale;
• il successo è la conferma dell’efficacia delle strategie scelte e applicate (soddisfazione);
• il fallimento segnala la necessità di modificare le proprie strategie;
• fiducia nelle proprie possibilità
• percezione di controllo.

Il VARK e gli stili di apprendimento di Fleming e Mills


Nel 1992 due ricercatori Neil Fleming e Colleen Mills, pubblicarono quello che divenne un
documento fondamentale sugli stili di apprendimento, il modello VARK, ogni studente ha le sue
preferenze per il canale di apprendimento. Nel modello da loro proposto vengono gli studenti
vengono identificati in base alla preferenza per l’apprendimento visivo (immagini, filmati,
diagrammi), all’apprendimento uditivo (musica, discussione, lezioni), alla lettura e alla
scrittura (creazione di elenchi , leggere libri di testo, prendere appunti) o apprendimento
cinestetico (movimento, esperimenti, attività pratiche).
Da parte loro, Fleming e Mills hanno offerto un modello semplice, noto come VARK, per
descrivere diverse “preferenze sensoriali” tra gli studenti
 V sta per Visual in italiano Visivo. “Preferenza per i modi grafici e simbolici di
rappresentare le informazioni.” Gli studenti visivi imparano meglio vedendo. Oggi ad
esempio la Lim o Display grafici come grafici, diagrammi, illustrazioni, dispense e video sono
tutti strumenti di apprendimento utili per gli studenti visivi. Le persone che preferiscono
questo tipo di apprendimento preferiscono vedere le informazioni presentate in forma visiva
piuttosto che in forma scritta.
 A per Aural. “Preferenza per le informazioni ascoltate”. Gli studenti uditivi (o uditivi)
imparano meglio ascoltando le informazioni. Tendono a ricevere molte lezioni e sono bravi a
ricordare le cose che gli vengono raccontate.
 R per Reading – che sta per Leggere scrivere. “Preferenze per informazioni stampate come
parole”. Leggere e scrivere gli studenti preferisce prendere in informazioni visualizzate come
parole. I materiali di apprendimento che sono principalmente basati su testo sono fortemente
preferiti da questi studenti.
 Kinestic in italiano Cinestetico. “Preferenza legata all’uso di esperienza e pratica (simulato
o reale).”Gli studenti cinestetici (o tattili) imparano meglio toccando e facendo. L’esperienza
pratica è importante per gli studenti cinestetici.
I 4 stili di apprendimento secondo Kolb sono invece:
Il modello teorico dello studioso Kolb (1974) definisce quattro stili di apprendimento:

Convergente: interessato alla sperimentazione attiva, pragmatico e abile nel problem


solving e nel prendere decisioni, predilige un’unica soluzione a un problema)

Divergente: in grado di trovare soluzioni alternative per uno stesso problema, ha una
spiccata creatività e immaginazione.

Assimilatore: utilizza il ragionamento induttivo e sviluppa modelli teorici logici.

Accomodatore: attivo e flessibile, si trova a suo agio nelle situazioni in cui deve adattarsi
ai cambiamenti esterni, tende a risolvere i problemi in maniera intuitiva piuttosto che
analitica.

Stili cognitivi secondo Cornoldi e De Beni


Secondo autori come Cornoldi o De Beni ogni individuo ha un proprio stile cognitivo
e possiamo identificare diverse tipologie di stili cognitivi.

Questi autori provano a definire i possibili stili:

 Stile sistematico vs Stile intuitivo: alcune persone procedono per gradi ed esaminano le
variabili ad una ad una, in modo lento e consapevole, per cui necessitano di indicazioni
dettagliate e precise; altri sono più immediati e ragionano per ipotesi, arrivando alla soluzione
per tentativi ed errori;
 Stile globale vs Stile analitico: nel primo caso viene privilegiata una visione d’insieme,
mentre nel secondo prevale maggiormente l’attenzione per i dettagli.
 Stile verbale vs Stile visuale: nel primo caso il soggetto si concentra e memorizza
maggiormente ascoltando l’esposizione orale, mentre nel secondo privilegia l’osservazione e
ha bisogno di stimoli visivi (ad es. immagini, parole-chiave, schemi,…)
 Stile impulsivo vs Stile riflessivo: riguarda i processi decisionali e indicano il tempo di
reazione cognitiva di un individuo rispetto a compiti di risoluzione non immediata.
 Stile convergente vs Stile divergente. Questa distinzione è legata al tipo di intelligenza e alla
modalità di pensiero più sviluppata: il pensiero convergente è lineare, convenzionale e
conduce verso un’unica soluzione, mentre il pensiero divergente è dinamico, creativo e in
grado di elaborare soluzioni diverse per uno stesso problema.

Il mastery learning (apprendimento per abilità)


È una pratica didattica basata sulla centralità dell’apprendimento, rispetto all’insegnamento.

La tecnica si è affermata negli anni 50 con la teoria di Bloom (Vedi→La tassonomia degli
obiettivi di Bloom attraverso il ML_ Vedi anche →Bloom) e negli anni 60 con la teoria
di Bruner (vedi →Verso una teoria dell’istruzione).

Il Mastery learning definisce l’obiettivo da realizzare organizzando intorno ad esso i


contenuti delle unità didattiche e predisponendo le prove di valutazione. E’ una tecnica
efficace per far acquisire agli studenti una padronanza delle conoscenze e, di conseguenza,
delle competenze;

La didattica metacognitiva e gli studi di FLAVELL


Il termine metacognizione fu coniato da Flavell nell’ambito delle sue ricerche sulle abilità
cognitive, significa letteralmente “oltre la cognizione” e indica, la capacità di riflettere sulle
proprie capacità cognitive.

Il fine della didattica metacognitiva è “imparare a imparare”, ovvero attivare


consapevolmente tutte quelle capacità e quelle procedure volte ad acquisire
apprendimenti efficaci e spendibili in contesti differenti ed in situazioni nuove, una
delle competenze necessarie ed indispensabili per tutti gli individui, che forniscono le basi
per un apprendimento che dura tutta la vita (lifelong learning).

La metacognizione, dunque, permette di approfondire i nostri pensieri e, quindi, anche di


conoscere e dirigere i nostri processi di apprendimento. È un processo di autoriflessione sul
fenomeno conoscitivo, su cosa e come stiamo imparando e su quali sono le motivazioni che
ci spingono a imparare quella determinata nozione.

L’approccio metacognitivo (Vedi →il metodo cognitivo)rappresenta una modalità privilegiata


per trasmettere contenuti e strategie privilegia non cosa l’alunno apprende ma come
l’alunno apprende e fa riflettere gli studenti sugli aspetti riguardanti la personale
capacità di apprendere, di stare attenti, di concentrarsi, di ricordare. In questo senso la
didattica metacognitiva non è specifica di una disciplina ma assume una dimensione
trasversale poichè richiede allo studente di acquisire un atteggiamento attivo e responsabile
rispetto all’apprendimento e lo aiuta ad arricchire il proprio bagaglio intellettuale attraverso
domande, investigazioni e problemi da risolvere.

Il termine metacognizione viene usato per designare la consapevolezza ed il controllo che


l’individuo ha dei propri processi cognitivi. Il termine ha un significato generale ma viene
talvolta sostituito da termini più specifici in relazione ai diversi tipi di processi in cui si esercita
tale consapevolezza e controllo: meta-memoria, meta-comprensione, meta-attenzione, e
così via.

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DIDATTICA INDIVIDUALIZZATA E DIDATTICA PERSONALIZZATA

 INDIVIDUALIZZARE → significa utilizzare, per ciascun alunno, metodologie adeguate e


adattate alle caratteristiche individuali, con l’obiettivo di assicurare a tutti il conseguimento
delle competenze di base ⇒ (diritto all’uguaglianza) – ⇒ Da questo il PEI Piano educativo
individuale
 PERSONALIZZARE → significa calibrare l’azione didattica su interessi e capacità del
singolo, al fine di di dare a ciascun alunno l’opportunità di sviluppare al meglio le proprie
potenzialità e, quindi, possono esserci obiettivi diversi per ciascun alunno (diritto alla
diversità) – ⇒ Da questo il PDP Piano didattico personalizzato
DIDATTICA INDIVIDUALIZZATA
⇒ consiste nelle attività di recupero individuale che può svolgere l’alunno per potenziare
determinate abilità o per acquisire specifiche competenze; tali attività individualizzate
possono essere realizzate nelle fasi di lavoro individuale in classe o in momenti ad esse
dedicati. Diritto all’uguaglianza venendo incontro ai bisogni educativi individuali degli
studenti.

DIDATTICA PERSONALIZZATA (sulla base di quanto indicato nella Legge 53/2003 e nel D. lgs
59/2004)
⇒ calibra l’offerta didattica e le modalità relazionali sulla specificità ed unicità che
caratterizzano gli alunni della classe, considerando le differenze individuali soprattutto sotto
il profilo qualitativo favorendo così, l’accrescimento dei punti di forza di ciascun alunno, lo
sviluppo consapevole delle sue “preferenze” e del suo talento
> Didattica differenziata: diritto alla diversità.
Nel rispetto degli obiettivi generali e specifici di apprendimento, la didattica personalizzata
si sostanzia attraverso l’impiego di una varietà di metodologie e strategie didattiche, tali da
promuovere le potenzialità e il successo formativo in ogni alunno: l’uso dei mediatori
didattici (schemi, mappe concettuali, etc.), l’attenzione agli stili di apprendimento, la
calibrazione degli interventi sulla base dei livelli raggiunti, nell’ottica di promuovere un
apprendimento significativo.

METODOLOGIE DIDATTICHE

L’Uda e la lezione “classica” o frontale

Il superamneto della lezione classica. La trasmissione delle nozioni avviene esclusivamente


per la capacità del docente di farsi ascoltare. Tale metodica è perciò centrata
sull’insegnamento.

È la forma didattica maggiormente impiegata ed è storicamente la più antica, anche nel


mondo antico e medievale prevedeva un maestro che istruisce e spiega ed un allievo che
in modo passivo ascolta ed impara: il docente espone in maniera unidirezionale gli
argomenti all’allievo.
Spesso si inserisce la stessa lezione classica all’interno della progettazione di un UDA
(Unità Didattica Di Apprendimento).
L’UDA è una parte fondamentale del percorso formativo, e ne costituisce la base. Indica
un’insieme di occasioni di apprendimento che consentono all’allievo di apprendere. Viene
sviluppato un argomento, o meglio un campo di apprendimento, preferibilmente cioè
affrontato da più discipline e insegnanti, con l’apporto di più punti di vista.

La lezione frontale di solito è intesa come la componente fondamentale


della didattica tradizionale, in cui l’insegnante è in un certo senso solo di fronte alla classe
e la trasmissione del contenuto didattico è tutta affidata alle sue conoscenze e alla sua
capacità di farsi comprendere e di suscitare interesse.
Le sue caratteristiche principlai sono:
 Esposizione prevalentemente o od esclusivamente verbale, con scarso impiego di
supporti visivi;
 Esposizione continuata, fino alla conclusione del discorso, con spazio finale
riservato alle domande di chiarimento dei partecipanti.
Oggi è il processo di apprendimento che deve assumere una centralità. Il docente
istituisce una relazione diretta con il discente

La metodologia didattica deve essere impostata sul coinvolgimento attivo degli allievi e ,
perciò, tanto sulla lezione dialogico-dialettica quanto sulla comunicazione empatica (Vedi
⇒La comunicazione relazione docente-allievo)

La simulazione
Si intende un modello della realtà che consente di prevedere (e valutare) lo svolgersi di una
serie di eventi derivanti dall’imposizione di certe condizioni da parte dell’analista. Un
simulatore di volo ad esempio, consente di prevedere il comportamento dell’aereo a fronte
delle sue caratteristiche e dei comandi del pilota e che altro non sono che l’insieme dei
processi il cui insieme permette di comprendere le logiche di funzionamento del sistema
stesso. In ambito didattico le simulazioni hanno a volte carattere ludico o sono spesso dei
veri e propri software didattici che riproducono esperienze simili a quelle reali, utili per
apprendere, quando è difficile o impossibile riprodurre fisicamente in laboratorio reale le
effettive condizioni da studiare (ambienti storico-geografici, esperimenti scientifici ecc.). Per
la sua natura laboratoriale, la simulazione consente quindi la riproposizione di una forma di
apprendimento per esperienza. Il termine simulazione in un’accezione più ampia viene visto
come anticipazione mentale di un processo da eseguire.

La didattica laboratoriale: competenze e non solo conoscenze, il “saper fare”

La didattica laboratoriale è una metodologia di lavoro e di apprendimento che vuole


instaurare un saper fare, produrre competenze e non solo conoscenze e per farlo, usa
spesso il problem solving, cioè la capacità di lavorare su problemi pratici e concreti.
La didattica laboratoriale pone attenzione
 ai processi;
 allo sviluppo attitudine all’operatività ed alla progettualità.

Il termine laboratorio va inteso in senso estensivo, come qualsiasi


spazio opportunamente adattato ed equipaggiato per lo svolgimento di una specifica
attività formativa.

In tal senso, la didattica laboratoriale va nel senso della didattica delle competenze. La
didattica delle competenze si prefigge di coinvolgere docenti e studenti in un processo di
costruzione delle conoscenze e di sviluppo di abilità e competenze; la didattica laboratoriale
presuppone, per antonomasia, l’uso della metodologia della ricerca, il laboratorio va
inteso infatto come una situazione o ambiente di apprendimento, come modalità di lavoro,
anche in aula, dove docenti ed allievi progettano, sperimentano, ricercano agendo la loro
fantasia e la loro creatività.

Nella didattica laboratoriale centrale è la relazione educativa (dalla


trasmissione/riproduzione della conoscenza alla costruzione della conoscenza);
sulla motivazione, sulla curiosità, sulla partecipazione, sulla problematizzazione;
sull’apprendimento personalizzato e l’uso degli stili cognitivi e della meta-cognizione;
sul metodo della ricerca; sulla socializzazione e sulla solidarietà.

Il laboratorio serve a tradurre in competenze pratiche le conoscenze acquisite in via teorica


attraverso i libri di testo oppure ad imparare facendo perchè alunni si trovano a ragionare, a
confrontarsi su compiti reali - Il sapere e il fare sono congiunti nell’agire, inteso come
modalità di lavoro-apprendimento capace di risolvere un problema
Elementi fondamentali della didattica laboratoriale sono:
 la creatività
 coinvolgimento emotivo e cognitivo
 la scoperta
 la manipolazione concreta
 l’uso di una procedura cadenzata e precisa
Il suo obiettivo è lo sviluppo di abilità sociali (soft skills) atti al lavorare insieme ed al lavoro
di gruppo, rispettare i ruoli e apprezzare il lavoro di ogni componente del gruppo. In questo
contesto sono centrali la socializzazione, la relazione, la risoluzione di problemi.

È importante che l’apprendimento sia significativo, che avvenga per scoperta, che ogni
alunno assuma un ruolo attivo, costruisca il proprio sapere con gli altri e sia interprete in
prima persona dell’acquisizione di conoscenze, abilità e competenze.

La didattica laboratoriale restituisce un ruolo attivo agli allievi perché favorisce lo


svolgimento di un’azione concreta (non necessariamente di tipo manuale), realizzata in
ambienti specifici, dedicati a una particolare attività. L’alunno è portato ad agire in prima
persona confrontandosi con gli altri, modificando il proprio punto di vista, accettando
mediazioni e diventando in prima persona mediatore. Il docente indirizza gli allievi
nell’affrontare una situazione problematica, li sollecita ad effettuare scoperte, ad elaborare
strategie, a riflettere sulle procedure utilizzate e scegliere quelle più funzionali al
raggiungimento dello scopo del compito.
L’alunno è portato ad avere una maggiore consapevolezza del proprio operato e, agendo in
prima persona, ad aumentare il senso di auto-efficacia e autostima, che hanno una sicura
ricaduta nella motivazione all’apprendimento e, quindi, nella partecipazione alla vita sociale
della classe.
Il docente, nella fase iniziale, deve proporre un problema reale per suscitare curiosità e per
motivare; poi identificare le fasi del lavoro; stimolare il confronto e la ricerca di soluzioni.
L’ambiente può corrispondere all’aula scolastica, oppure ad uno spazio organizzato e
attrezzato (es. aula immagine o di scienze) se le attività prevedono l’uso di attrezzature e
materiali particolari. Come nelle attività di apprendimento cooperativo, il docente che
coordina l’attività di laboratorio ha la funzione di organizzatore delle conoscenze e dei
materiali, facilita l’interazione tra gli alunni aiutandoli a gestire eventuali problematiche
relazionali, li conduce ad attuare una riflessione meta-cognitiva sul loro operato.

la scuola dell’infanzia e la scuola primaria, essendo le scuole del “fare” per eccellenza, si
basano su una didattica laboratoriale in senso lato, cioè su una didattica che prevede
nella pratica quotidiana il ricorso ad attività costruttive, concrete, al fine di comprendere
praticamente le conoscenze. Si pensi, ad esempio, all’esperimento delle piantine di legumi
(i bambini tengono in classe piantine di lenticchie, fagioli o piselli in barattoli e le innaffiano,
osservano la loro crescita) oppure ai modelli che possono essere costruiti (il modello di un
vulcano in cartapesta oppure il modello del corpo umano).
Con il lavoro laboratoriale gli alunni dominano il senso del loro apprendimento, perché
producono, perché operano concretamente, perché nel “fare” sanno dove vogliono arrivare
e per quali scopi.

Il problem solving
Il problem solving è una metodologia didattica finalizzata a favorire un approccio di ricerca
nel processo conoscitivo, a potenziare lo sviluppo del pensiero critico e del ragionamento.
Gli alunni sono invitati a trovare una risposta al quesito posto dall’insegnante, usando le
informazioni che fino ad allora hanno imparato. Non è importante se la risposta che essi
trovano non è quella giusta, piuttosto è importante il ragionamento che fanno per giungere
alle conclusioni.

Nel problem solving si individuano 5 momenti:


1. comprensione: lo studente si approccia al problema, ne comprende le componenti 2
2. previsione: inizia il ragionamento e ci si chiede di cosa si ha bisogno,
3. pianificazione: rappresenta l’inizio vero e proprio della fase di risoluzione,
4. monitoraggio: durante lo svolgimento ci si chiede se sta raggiungendo la soluzione o deve
cambiare approccio, se ha bisogno di aiuto o ha già qualche conclusione importante;
5. valutazione: dove sono stati fatti errori e dove si può migliorare.

Uno dei più noti è F.A.R.E., acronimo che indica i 4 momenti di questa procedura.
FOCALIZZARE comprensione

ANALIZZARE previsione

RISOLVERE pianificazione

ESEGUIRE Pianificazione, monitoraggio,valutazione

La group investigation

La group investigation è una modalità di apprendimento cooperativo che pone grande


rilievo sull’elemento del«desiderio di conoscere» come stimolo all’apprendimento.
Nell’approccio del Group Investigation gli alunni sono membri di piccoli gruppi, suddivisi
secondo il particolare interesse, rispetto ad un argomento di studio. L’intera classe viene
orientata dall’insegnante a condurre una ricerca su un argomento più ampio che poi viene
suddiviso in sotto-argomenti ed è organizzata come una comunità di “ricercatori” che
conducono la ricerca insieme.

Questo approccio è capace di integrare l’interazione e la comunicazione in classe, e quindi


lo sviluppo di abilità sociali. Durante l’apprendimento ovvero quando gli studenti lavorano in
collaborazione a piccoli gruppi per esaminare, sperimentare e comprendere i propri
argomenti di studio.

Queste sono le fasi di cui si compone:


 la ricerca (inquiry): si riferisce all’organizzazione e alle procedure per fare in modo che il
processo di apprendimento sia condotto come un processo di indagine.
 l’interazione (interaction): fa riferimento alla dimensione sociale o interpersonale del
processo di apprendimento. Infatti, quando gli studenti fanno ricerca insieme aumentano le
opportunità di dialogo e di discussione;
 la motivazione (intrinsic motivation): come già abbiamo precedentemente accennato, gli
studenti acquistano una maggiore autonomia che genera una maggiore motivazione intrinseca
all’apprendimento.
 l’interpretazione (interpretation): avviene sia a livello personale (comprensione individuale
dell’argomento oggetto di studio) sia a livello di piccolo gruppo, dove la condivisione dei
materiali aumenta la comprensione dal parte del singolo delle informazioni;

La didattica per progetti

Un progetto è qualsiasi attività intenzionale e pianificata diretta a raggiungere un risultato


definibile a priori e verificabile attraverso una serie di attività specifiche.
Gli studenti affrontano un compito finalizzato al raggiungimento di un risultato definibile a
priori. Le azioni dello studente non debbono avere carattere casuale e disordinato, ma
rientrare in un procedimento metodologico caratteristico della disciplina nell’ambito della
quale si svilupperà il progetto; ciò implica anche stabilire: la forma, i limiti di accettabilità, gli
standard metodologici del risultato. Durante lo sviluppo del progetto lo studente deve
scoprire ed acquisire autonomamente alcune conoscenze.

Le esercitazioni di gruppo

I lavori e le esercitazioni di gruppo descrivono tutte quelle condizioni nelle


quali l’insieme dei partecipanti, che costituiscono un gruppo o che si
organizzano in sottogruppi, è parte in causa in un’iniziativa educativa e
formativa.

Le esercitazioni di gruppo tendono a potenziare le interazioni attive tra i partecipanti.


Favoriscono:
 lo scambio di idee e di esperienze;
 il rapporto alla pari;
 il confronto autonomo delle valutazioni;
 la critica costruttiva per mezzo del feedback;
 la progressiva conquista di autonomia del gruppo del controllo-dipendenza.

L’efficacia dei lavori e delle esercitazioni di gruppo dipende dalla:


 dimensione ed estensione del gruppo;
 composizione del gruppo;
 natura del mandato da realizzare;
 chiarezza espositiva del docente nel presentare i lavori e le esercitazioni;
 condivisione esplicita dei lavori e delle esercitazioni da parte del gruppo;
 precisione con cui si calcola la dimensione temporale;
 capacità di partecipare, studiare e rielaborare i risultati ottenuti attraverso il lavoro di gruppo.
La didattica collaborativa o cooperative learning
La didattica cooperativa punta al miglioramento dei processi di apprendimento e
socializzazione attraverso la mediazione del gruppo (in genere di utilizzano piccoli gruppi in
cui gli studenti lavorano insieme), i cui membri devono agire sentendosi positivamente
interdipendenti tra loro. Si tratta di una metodologia fondata sulla convinzione
dell’importanza dell’interazione e della cooperazione nella scuola come mezzo
di promozione umana e sociale. Inoltre, nel cooperative learning il contatto con i coetanei
più capaci all’interno del gruppo consente di operare reciprocamente all’interno delle zone
di sviluppo prossimale di ciascuno, ottenendo risultati migliori di quelli conseguibili con le
normali attività individuali.

Il docente assume il ruolo di tutor:


 favorisce l’interazione tra gli studenti
 stimola la discussione
 facilita l’apprendimento ricorrendo a continue stimolazioni (domande, verifice, etc.)

CARATTERISTICHE POSITIVE DEL COOPERATIVE LEARNING


 sviluppo di un legame concreto tra studenti: il lavorare insieme per un progetto comune
agevola il successo dell’impresa
 interazione faccia a faccia: garantisce processi di reciproco apprendimento e
incoraggiamento
 stimolo alla responsabilizzazione verso se stessi e verso l’altro.
 sviluppo di abilità sociali (saper ascoltare, essere disponibili, condividere decisioni, gestire i
conflitti)

I teorici del cooperative learning


Di seguito trovate una breve descrizione dei “padri del cooperative learning“.
Il loro lavoro è poi andato oltre la cooperazione in classe, elaborando un modello di scuola
cooperativa in cui la cooperazione non fosse solo tra studenti, ma anche tra docenti.
1. David e Robert Johnson
2. Elizabeth Cohen
3. Yael e Shlomo Sharan
4. Robert Slavin
5. Spencer Kagan

Role Playing – il Role Taking


Il Role playing, o gioco di ruolo (possiamo pensare alla classica recita di fine anno o alla
messa in scena di opere teatrali) è una tecnica della didattica simulativa che richiede ai
partecipanti di svolgere, per un tempo limitato, il ruolo di “attori”, di rappresentare cioè alcuni
ruoli in interazione tra loro, mentre altri partecipanti fungono da “osservatori” dei contenuti e
dei processi che la rappresentazione manifesta. Ciò consente una successiva analisi dei
vissuti, delle dinamiche interpersonali, delle modalità di esercizio di specifici ruoli, e più in
generale dei processi di comunicazione agiti nel contesto della rappresentazione e della
messa in scena di una situazione di apprendimento (pensiamo ad una situazione didattica
con obbiettivo la bottega rinascimentale, dove gli studenti interpretano, pittore, committente,
mercante d’arte, autorità, rivali, biografi, etc.).
Il role-playing è uno strumento prezioso della formazione, basato sulla simulazione di
qualcosa che ha o poterebbe avere attinenza con una situazione reale ed è strutturato in
modo tale da essere coinvolgente dal punto di vista emozionale.
Le caratteristiche di questa tecnica forniscono molteplici stimoli all’apprendimento attraverso
l’imitazione, l’azione, l’osservazione del comportamento degli altri ed i commenti ricevuti sul
proprio, attraverso l’analisi dell’intero processo.

Vi è infine il role-taking cioè la capacità di mettersi nei panni dell’altro, assumendone il


ruolo anche se diverso dal nostro, senza che questo processo elimini la consapevolezza
del nostro punto di vista (non a caso è una tecnica usata anche nella gestione delle
emozioni e nell’empatia).
Il role taking emozionale consiste nella capacità di riconoscere le emozioni dell’altro e di rispondere
affettivamente in modo appropriato.: questo tipo di role taking coincide con una sorta di
preoccupazione empatica.
Il role taking cognitivo è un processo attraverso il quale un individuo abbandona il proprio punto di
vista e prova a comprendere gli stati interni e i pensieri di un’altra persona mettendosi
cognitivamente nella situazione dell’altro.
Il role taking percettivo riguarda l’abilità di capire come un oggetto, o un insieme di oggetti, è visto da
un altro che non occupa la nostra stessa posizione nello spazio.

Il Role Playing, o gioco di ruolo, consiste nel riprodurre situazioni sociali e


professionali tipiche dell´ambito o del tema che si intende trattare, lasciando ai soggetti
un certo margine di libertà nella scelta dei comportamenti da assumere nell’agire il
ruolo prestabilito.

Il role-taking è assegnare ruoli definiti all’interno di un role-playing. Diciamo che il role-


playng può essere fatto nel modello o con il modello di lasciare le persone libere di agire
ed improvvisare, mentre il role-taking assegna ruoli rigidi e fissi.

Il role-playing è uno strumento prezioso della formazione, basato sulla simulazione di


qualcosa che ha o potrebbe avere attinenza con una situazione reale ed è strutturato in
modo tale da essere coinvolgente dal punto di vista emozionale. Le caratteristiche di questa
tecnica forniscono molteplici stimoli all’apprendimento attraverso l’imitazione, l’azione,
l’osservazione del comportamento degli altri ed i commenti ricevuti sul proprio, attraverso
l’analisi dell’intero processo.

Gli studenti devono assumere i ruoli assegnati dall’insegnante e comportarsi come pensano
che si comporterebbero realmente nella situazione data. I ruoli sono assunti da due o più
studenti davanti al gruppo dei compagni-osservatori. L’obiettivo è quello di far acquisire
la capacità di impersonare un ruolo e di comprendere in profondità ciò che il ruolo chiede.
Come si costruisce un role-playing:

 si predispone una scena in cui i partecipanti devono agire;


 i partecipanti sono al centro dell’azione e devono recitare spontaneamente secondo
l’ispirazione del modello;
 l’uditorio assume particolare importanza poiché cerca di esaminare e capire quanto avviene
sulla scena;
 il docente deve mantenere l’azione dei partecipanti e la situazione scenica, anche
sollecitando, suggerendo, facilitando l’azione fino al momento in cui gli studenti
protagonisti non agiscono autonomamente;
Come ogni tecnica di sensibilizzazione utilizzata a scopi formativi, deve avere delle
sequenze strutturate e concludersi con una verifica degli apprendimenti.

Role Playing – il Role Taking


Il Role playing, o gioco di ruolo (possiamo pensare alla classica recita di fine anno o alla messa in
scena di opere teatrali) è una tecnica della didattica simulativa che richiede ai partecipanti di svolgere,
per un tempo limitato, il ruolo di “attori”, di rappresentare cioè alcuni ruoli in interazione tra loro,
mentre altri partecipanti fungono da “osservatori” dei contenuti e dei processi che la rappresentazione
manifesta. Ciò consente una successiva analisi dei vissuti, delle dinamiche interpersonali, delle
modalità di esercizio di specifici ruoli, e più in generale dei processi di comunicazione agiti nel
contesto della rappresentazione e della messa in scena di una situazione di apprendimento (pensiamo
ad una situazione didattica con obbiettivo la bottega rinascimentale, dove gli studenti interpretano,
pittore, committente, mercante d’arte, autorità, rivali, biografi, etc.).

Il role-playing è uno strumento prezioso della formazione, basato sulla simulazione di qualcosa che
ha o poterebbe avere attinenza con una situazione reale ed è strutturato in modo tale da essere
coinvolgente dal punto di vista emozionale.
Le caratteristiche di questa tecnica forniscono molteplici stimoli all’apprendimento attraverso
l’imitazione, l’azione, l’osservazione del comportamento degli altri ed i commenti ricevuti sul
proprio, attraverso l’analisi dell’intero processo.

Vi è infine il role-taking cioè la capacità di mettersi nei panni dell’altro, assumendone il ruolo anche
se diverso dal nostro, senza che questo processo elimini la consapevolezza del nostro punto di vista
(non a caso è una tecnica usata anche nella gestione delle emozioni e nell’empatia).
Si riconoscono tre tipi di role-taking:
Il role taking emozionale consiste nella capacità di riconoscere le emozioni dell’altro e di rispondere
affettivamente in modo appropriato. Come scriveva Origine e vedremo poi, questo tipo di role taking
coincide con una sorta di preoccupazione empatica.
Il role taking cognitivo è un processo attraverso il quale un individuo abbandona il proprio punto di
vista e prova a comprendere gli stati interni e i pensieri di un’altra persona mettendosi cognitivamente
nella situazione dell’altro.
Il role taking percettivo riguarda l’abilità di capire come un oggetto, o un insieme di oggetti, è visto
da un altro che non occupa la nostra stessa posizione nello spazio.
Tale definizione coincide con quella che da molti autori è definita capacità di perspective taking.

Il role-taking per Selman ci sono diversi stadi. Il role taking inizia da piccoli.
STADIO EGOCENTRICO 4-6 ANNI
STADIO SOGGETTIVO 6-8 ANNI
STADIO AUTORIFLESSO 8-10 ANNI
STADIO RECIPROCO 10-12
STADIO SOCIALE 12 ANNI +

La teoria dell’assunzione di ruolo (o assunzione di prospettiva sociale ) è il concetto socio-


psicologico che uno dei fattori più importanti nel facilitare la cognizione sociale nei bambini
è la crescente capacità di comprendere i sentimenti e le prospettive degli altri, un’abilità
che emerge come crescita cognitiva . Robert Selman sostiene che una maturata capacità di
assumere un ruolo ci consente di apprezzare meglio come le nostre azioni influenzeranno
gli altri.

Role taking (strumento per sviluppare empatia)


Capacità di mettersi nei panni dell’altro, assumendone il ruolo anche se diverso dal nostro,
senza che questo processo elimini la consapevolezza del nostro punto di vista. C’è un
generale accordo tra gli autori nel riconoscere all’interno del role taking tre dimensioni: una
emozionale, una percettiva e una cognitiva. Il role taking emozionale consiste nella capacità
di riconoscere le emozioni dell’altro e di rispondere affettivamente in modo appropriato.
Questa componente coincide, dunque, con una sorta di preoccupazione empatica. Il role
taking cognitivo è un processo attraverso il quale un individuo abbandona il proprio punto di
vista e prova a comprendere gli stati interni e i pensieri di un’altra persona mettendosi
cognitivamente nella situazione dell’altro. Il role taking percettivo riguarda l’abilità di capire
come un oggetto, o un insieme di oggetti, è visto da un altro che non occupa la nostra stessa
posizione nello spazio.

Il Debate
Il Debate è una metodologia didattica utilizzata in molti Paesi europei, materia curriculare ormai da
anni, nelle scuole anglosassoni, ma che affonda le radici nella storia italiana e, in particolare, nella
disputatio medioevale. Consiste in un dibattito, svolto con tempi e regole prestabiliti, nel quale due
squadre (di solito composte ciascuna da tre studenti) sostengono e controbattono un’affermazione o
un argomento assegnato dall’insegnante, ponendosi in un campo (PRO) o nell’altro (CONTRO).
Classico dibattito serve ad insegnare ad argomentare.
La peer education

La peer education (educazione tra pari) è una metodologia che facilita la comunicazione
tra soggetti-adolescenti con scambi di informazioni, concernenti il gruppo dei pari.
Essa si fonda sul fatto che gli adolescenti considerano e valutano il confronto tra pari come una
delle migliori tecniche formative; tale confronto si basa, infatti, sulla condivisione dell’esperienza e
della conoscenza.

Tale metodologia consente di far acquisire agli alunni ⇒ responsabilità,


competenza e cittadinanza attiva.
Le relazioni interpersonali sono sempre più legate alla “portabilità” dei nuovi strumenti mediali; avere
la possibilità di essere sempre connessi con uno smartphone è fonte di rassicurazione, le nuove
forme di comunicazione hanno determinato connotazioni positive: permettono un apprendimento
svincolato dai contesti spazio-temporali, in quanto le informazioni sono reperibili ovunque e in ogni
momento. La peer education promuove questo tipo di approccio e fa in modo che tutti gli utenti siano
coinvolti nel processo di apprendimento, annullando la distinzione tra formatori e soggetti destinatari
del processo formativo e determinando, inoltre, il passaggio da una comunicazione di tipo
unidirezionale ad una comunicazione bidirezionale o circolare. Le persone coinvolte diventano
contemporaneamente lettori e scrittori dell’intero processo, con il conseguente accrescimento di
ciascun membro del gruppo. Ciò implica che non ci sia solo una semplice condivisione di contenuti,
bensì un interscambio “produttivo”, che generi circostanze educative nuove.

Flip teaching
Nella flipped classroom si attua un’inversione delle modalità di insegnamento tradizionale.
Le attività avvengono in modalità blended e, di conseguenza, è fondamentale l’uso delle nuove
tecnologie per fornire le adeguate risorse agli allievi al di fuori del contesto classe. Infatti, gli allievi
hanno a disposizione una ingente quantità di materiali didattici, che possono condividere, annotare,
modificare o addirittura creare in maniera collaborativa. Fondamentale è il ruolo dei forum di
discussione, in quanto si permette all’allievo di imparare in maniera costruttiva e di raggiungere
diversi obiettivi trasversali afferenti all’area delle relazioni.

In una flipped classroom la responsabilità del processo di insegnamento viene in un certo senso
“trasferita” agli studenti, i quali possono controllare l’accesso ai contenuti in modo diretto, avere a
disposizione i tempi necessari per l’apprendimento e la valutazione. L’insegnante diventa quindi
un supporto alla comprensione di quanto appreso dagli allievi e dovrà impiegare il proprio tempo in
questo processo di passaggio dall’ampliamento delle conoscenze all’acquisizione di capacità e
competenze.
Come per tutte le metodologie didattiche, anche il flip teaching presenta punti di forza e punti di
criticità.
Di certo tale modalità di insegnamento favorisce l’individualizzazione e la personalizzazione dei
percorsi di insegnamento, in quanto gli insegnanti possono dare delle precise indicazioni agli
allievi su come muoversi e sulle risorse che ciascuno di loro può utilizzare.

Non mancano, tuttavia, i punti di debolezza:


 vengono certamente penalizzati i rapporti interpersonali, in quanto l’allievo avrà un rapporto
molto stretto con il computer sia a casa che a scuola;
 è richiesta una particolare attenzione nella fase di programmazione delle attività e di
selezione dei materiali didattici da sottoporre ai discenti;
 la registrazione delle lezioni richiede molto tempo
 gli studenti possono sentirsi smarriti quando utilizzano i materiali on-line, non riuscendo a
rintracciare quelli veramente importanti.
Brainstorming
Il brainstorming è un tipo di intervista di gruppo, a basso grado di strutturazione, nella quale viene
sfruttato il gioco creativo dell’associazione di idee: la finalità è fare emergere diverse possibili
alternative, in vista della soluzione di un problema o di una scelta da compiere. Attualmente
viene proposto in ambito didattico per favorire lo sviluppo del pensiero creativo e può essere
impiegato come fase preliminare di un lavoro che prosegue attraverso un’altra metodologia didattica.

Il ruolo dell’insegnate all’interno del brainstorming consiste nel moderare gli interventi con
discrezione, favorendo la produzione di idee ma senza giudizi di valore, e nel dare unità al lavoro
finale. Il brainstorming consente a tutti i membri del gruppo di esprimersi.
Il risultato di una seduta brainstorming, è in genere molto produttivo:
Il brainstorming consiste in una “discussione di gruppo incrociata e guidata da un animatore” il cui
scopo è trovare e far emergere il più alto numero di idee possibile su un argomento precedentemente
definito; solo e assolutamente al termine di questo compito si potrà poi selezionare, criticare e
valutare le idee prodotte. Il brainstorming è libero, spontaneo ed anche il docente solo
successivamente valuta le idee prodotte.
Il brainstorming “insiste soprattutto su una funzione che è rapportabile ai tre principali fattori del
pensiero divergente: la capacità di produrre molte idee, diversificate e insolite”[ DIVERGENTI],
queste qualità sono amplificate e sfruttate dal lavoro condotto in gruppo i cui due pregi sono
“l’interazione fra le persone e la moltiplicazione dello sforzo di ciascuno con quello di un
altro”[DIMENSIONE DI GRUPPO O COOPERATIVA].
Il braistorming emotivo o gestire le emozioni con il braistorming
Un brainstorming con gli alunni potrebbe essere fatto la mattina ad apertura della giornata
chiedendo ai bambini come si sentono oggi, e facendo un calendario delle emozioni, che
sviluppa consapevolezza emotiva. Queste stesse tre domande si posso proporre o ogni
mattina o un giorno preciso della settimana per vedere come la percezione di alcune
emozioni stia man mano cambiando. Le domande saranno semplici, ma il focus attentivo
ruota intorno a tre macro-domande.
1. Che emozioni principalmente sperimenti oggi?
2. Riesci a comprendere perché sperimenti emozioni di rabbia, ansia, tristezza durante la
giornata? In che modo?
3. Cosa fai per gestirle al meglio per te stesso e per gli altri?
Nella versione per le scuole di secondo grado è anche una tecnica per evitare conflitti e
bullismo.

La ricerca-azione di Kurt Lewin


Il modello della Ricerca-Azione (Kurt Lewin – 1946) viene elaborato con lo scopo di comprendere
le problematiche esistenti in specifici contesti attraverso la condivisione di saperi.
Le fasi in cui si articola il modello di Lewin (1946) sono sostanzialmente tre:
1. la costituzione del gruppo;
2. la formazione dei componenti per la realizzazione della ricerca. È questo lo spazio-tempo
anche per la definizione del problema, la scelta della metodologia di raccolta dei dati, l’analisi
degli stessi e, infine, la formulazione delle ipotesi di intervento.
3. l’ultima fase è quella dell’azione, nella quale si definiscono i tempi, i compiti, le
responsabilità e si procede alla realizzazione del piano.

Nella ricerca-azione vi è interazione costante e pari dignità tra docente e alunno.


Il processo di Ricerca-Azione “inizia con la percezione del problema ⇒ prosegue con
una rapida diagnosi intuitiva della natura del problema stesso ⇒ la verifica della
diagnosi mediante la raccolta di dati si generano delle ipotesi di azione realizzandole come
strategie d’azione.
Passi dell aricerca azione.
Individuazione del problema: descrizione del problema per facilitarne la comprensione.
Diagnosi: Per fare la diagnosi si procede con una serie di ipotesi,l’esperienza degli
insegnanti è il vero e proprio bagaglio dal quale nascono le ipotesi
Verifica e revisione della diagnosi: È in questa fase che entra pienamente l’alunno quale
protagonista che offre un diverso apporto per comprendere il problema e riformularlo.

Circle time
È un metodo didattico in cui i partecipanti si dispongono in cerchio con un conduttore
che ha il ruolo di sollecitare e coordinare il dibattito entro un termine temporale
prefissato.
E’ considerato una delle metodologie più efficaci nell’ educazione socio-
affettiva; favorisce la conoscenza di sé, promuove la libera e attiva espressione d’idee,
punti di vista, sentimenti e vissuti personali e, infine, crea un clima di serenità e di
condivisione preliminare a qualunque successiva attività.
Clark ed il Service Learning
L’approccio pedagogico del Service Learning (o Apprendimento Servizio), è strategia
molto diffusa a livello internazionale.

Il Service Learning sembra particolarmente interessante sotto il profilo formativo, per la


sua capacità di collegare l’apprendimento scolastico alla vita reale, favorire lo sviluppo
delle competenze che la scuola o l’università richiedono, e, al tempo stesso sviluppando
responsabilità sociale.

Lo scenario culturale e pedagogico che è a fondamento del Service Learning è studenti


veri protagonisti di azioni solidali ed attivi nella comunità che fanno progetti e attività
concrete: Non più l’aula come simulazione lontana dalla realtà ma la realtà come aula.
Il Service Learning è una proposta pedagogica, metodologica e didattica che unisce il Service (la
cittadinanza, le azioni solidali e il volontariato) e il Learning (un apprendimento significativo).

Il Service Learning chiede agli studenti di compiere concrete azioni solidali nei confronti della
comunità, sostenendo la scuola nella collaborazione con le istituzioni e le associazioni locali. In
questo modo si crea un circolo virtuoso tra apprendimento (Learning) e servizio solidale (Service).

Questa proposta, molto diffusa negli Stati Uniti, nell’America Latina e in molti Paesi europei, sta
incontrando un grande interesse anche in Italia

Associazioni professionali, istituzioni del volontariato, enti locali sono stati a loro volta, in
certe occasioni, promotori di tale esperienza. Attualmente il ruolo significativo per la
Scuola Italiana è svolto da Indire

Le storie di vita
La metodologia delle storie di vita ricostruisce la biografia di alcuni soggetti su cui viene rivolta la
ricerca e l’interesse del ricercatore. (es intervista ai nonni)

Tinkering
Tinkering è un termine inglese che vuol dire letteralmente “armeggiare, adoperarsi, darsi da fare”.

Il Tinkering viene oramai considerato, negli ambienti educativi a livello internazionale, un approccio
innovativo per l’educazione alle STEM, ed è menzionato nel PIANO NAZIONALE SCUOLA
DIGITALE come uno strumento importante per lo sviluppo delle competenze del 21° secolo e per
l’educazione alle STEM. (Scienze, Tecnica e Matematica)

Si parla di tinkering come di una forma di apprendimento informale in cui si impara facendo.
L’alunno è incoraggiato a sperimentare, stimolando in lui l’attitudine alla risoluzione dei problemi.

Tutte le attività vengono lanciate sempre sotto forma di gioco o sfida. Le attività devono essere
realizzate in gruppo.
Le principali attività che si possono proporre consistono nel costruire o decomporre oggetti,
progettare macchine, che si muovono, volano, disegnano, galleggiano, esplorare materiali o elementi
meccanici, creare artefatti originali o reazioni a catena.

Lo scopo del tinkering è realizzare oggetti di vario genere utilizzando materiali di recupero,
facilmente reperibili anche in casa. Scatole, bicchieri, fogli di carta, pezzi di legno, fili metallici,
involucri di plastica sono solo alcuni degli “ingredienti” che servono per mettersi all’opera. Le cose
che si possono costruire sono tantissime: circuiti elettrici, piccoli robot, giocattoli meccanici, piste
per biglie, meccanismi di reazione a catena, sculture.

Con il tinkering gli studeti (bambini e adolescenti) possono accostarsi a discipline come
l’arte, la scienza e la tecnologia senza l’assillo di dover memorizzare concetti teorici o di
dover studiare intere paginone noiose di libri. Conta solo la pratica.

Per diventare un tinkerer non servono competenze specifiche, basta essere curiosi e
intraprendenti. Tuttavia, armeggiare con materiali e strumenti ogni volta diversi richiede un
po’ di pratica. Quindi devi essere paziente e imparare dagli errori, perché all’inizio può
capitare di sbagliare.

Il TEAL – (Technology Enhanced Active Learning)


Il «TEAL» (Technology Enhanced Active Learning) è una metodologia didattica che vede unite
lezione frontale, simulazioni e attività laboratoriali su computer per un’esperienza di apprendimento
ricca e basata sulla collaborazione.

Lo studio di caso
Lo studio di caso consiste nella descrizione dettagliata di una situazione reale.
Con esso si intende sviluppare negli studenti le capacità analitiche necessarie per
affrontare sistematicamente una situazione complessa. La descrizione di un caso è un
brano scritto (massimo 2 pagine) al quale possono essere associati documenti, tabelle o
schemi. La situazione da esaminare può anche riguardare un caso problematico, ma
bisogna non dimenticare che l’obiettivo non è quello di risolvere i problemi bensì quello
di imparare ad affrontarli, individuarli.

METODI, STRUTTURE, METODOLOGIR DIDATTICHE AVANZATE SPECIALI.


Laboratori LARSA

I LaRSA (Laboratori per il Recupero e lo Sviluppo degli Apprendimenti) sono strumenti metodologico-
organizzativi che la Scuola utilizza per promuovere il recupero delle carenze e il potenziamento degli
apprendimenti negli studenti che, avendo rendimenti scolastici differenti, richiedano interventi
diversificati.
L’assunto metodologico che sta alla base dei LaRSA è quello secondo il quale l’apprendimento può
risultare più efficace valorizzando il “fare” dell’allievo (di qui l’utilizzo del termine “laboratori”):
finalizzando il lavoro scolastico all’uso dei saperi, il laboratorio può stimolare e motivare
l’apprendimento meglio di quanto potrebbe fare un’ottima lezione ex-cathedra.

Il diario emotivo o diario delle emozioni


Il diario emotivo o diario delle emozioni in ambito educativo e didattico è uno strumento molto
utilizzato e consigliato per chi ha difficoltà ad esprimere a se stesso e agli altri le proprie
emozioni. Il diario delle emozioni può essere un esercizio trasversale utile a chiunque: dai
bambini e gli adolescenti. Nell’ambito di un’attività didattica trasversale il candidato indichi a
cosa serve e come compilarlo a dei bambini di scuola primaria.
Il diario delle emozioni – o diario emotivo – è uno strumento molto utilizzato in ambito in ambito
educativo e didattico e può essere tranquillamente adoperato anche individualmente, senza la
presenza di un professionista, che è utile principalmente a fine compilazione settimanale per ricevere
un feedback maggiore e completo riguardo quello che è stato scritto dal compilatore.
La finalità del diario emotivo è quella di allenare la consapevolezza. Quando si scrive quello che si
“sente”, che si prova, si mette in ordine, si riesce più facilmente a comprendere il significato
dell’emozione sperimentata e si riesce a capire cosa/chi potrebbe aver scatenato una determinata
emozione. La possibilità di rileggere ciò che è stato esternato attraverso la scrittura, permette
di osservare se stessi e le proprie emozioni da un altro punto di vista, con un’altra lente e quindi
riuscire a decodificarle e comprenderne il significato con più consapevolezza.
Dopo aver visto cos’è e a cosa serve il diario delle emozioni, vediamo praticamente come utilizzarlo
e compilarlo. Ecco le istruzioni che l’insegnante assegna ai bambini della scuola primaria.

La maestra fornisce un bloc-notes, un quaderno, un diario che possa dedicare interamente a


questa attività, in modo tale che sia ordinato e facile da rileggere. Ecco le istruzione per i bambini.
1. Prenditi del tempo. Il diario emotivo non deve essere un impegno da svolgere necessariamente alla
stessa ora ogni giorno, in modo meccanico. Ha bisogno di tempo, concentrazione e di connessione
con se stessi e con ciò che si sta provando. In questo modo riusciresti a scrivere sia emozioni positive
che negative e soprattutto potresti comprendere quali sono le emozioni che più spesso scrivi sul diario
e quando sperimenti più intensamente queste emozioni durante la giornata.
2. Scrivi in prima persona. Scrivere in prima persona permette di prendersi le proprie responsabilità
riguardo azioni e pensieri espressi, incrementando la sensazione di essere padroni di sé.
3. Non giudicarti. Cerca di non esprimere giudizi positivi o negativi nei tuoi confronti, ma fai in modo
che le tue emozioni abbiano il loro spazio all’interno del diario. Se non si giudica si ha possibilità di
osservare l’emozione provata, la situazione, l’evento descritto da un diverso punto di vista.
4. Non porti obblighi. Spesso utilizziamo per noi stessi parole come “devo fare”, “devo essere”. Prova
a scrivere utilizzando parole come “voglio fare”, “desidero fare/essere”. In questo modo si inizierà a
distinguere ciò che realmente viene svolto rispettando il proprio volere e ciò che viene svolto
rispondendo ad una indicazione imposta da altro/i.
5. Non scrivere domande, scrivi affermazioni. Le domande generalmente creano confusione poiché
non permettono di definire una risposta che possa essere soggettivamente ragionevole. Scrivere invece
un’affermazione e, successivamente rileggerla, può aiutare a comprendere quanto quell’affermazione
sia autentica, quanto sia stata scritta ad esempio per nascondere altri sentimenti profondi e difficili da
esprimere a se stessi, quanto si è sicuri dell’affermazione scritta.

La scatola delle emozioni – Gestione

L’intelligenza emotiva a scuola può essere accresciuta con attività creative mirate.
Un ottimo esercizio è quello che Goleman chiama la cassetta delle lettere.
Si tratta di una modalità globale e impersonale di coinvolgere tutta la classe negli accadimenti che
riguardano la vita emotiva dei singoli. L’insegnante prepara la cassetta e i bambini vi imbucano
dei biglietti anonimi con emozioni e sentimenti vissuti in occasioni particolari. Chiunque,
senza apporre la propria firma, può
 denunciare episodi,
 avanzare lamentele sul comportamento dei compagni e
 segnalare problemi.
l tutto in maniera che l’intera classe possa discuterne e pensare ai modi emotivamente più
intelligenti di affrontarli. La cassetta delle lettere è, così, un valido strumento per
tematizzare, di volta in volta, le crisi e le questioni di attualità nella classe. E per rompere
lo schema normalmente troppo rigido d’apprendimento, spesso inadeguato e nocivo
alla fluida realtà dell’infanzia.

La didattica per alunni con ADHD


Caratteristiche del disturbo:
Disturbi di tipo cognitivo e di tipo comportamentale:

1. disordine nella tenuta e custodia dei materiali scolastici


2. difficoltà nel portare a termine le attività che richiedono concentrazione nel tempo, compiti
lunghi, scarsa applicazione che pregiudica il rendimento di compiti che necessitano
concentrazione a lungo termine
3. insoddisfazione e disattenzione alle manifestazioni, recite, lavori di gruppo che obbligano agli
spazi chiusi.
4. l’alunno ha poca cura per i dettagli, si dimostra incapace di pianificare e organizzare il lavoro
Disturbi a livello comportamentale: difficoltà a stare fermo, attendere il proprio turno, non
rispetta i tempi e gli spazi dei compagni.
5. irrequietezza,
6. episodi di aggressività
7. insofferenza alle regole.

Se non correttamente gestito nella scuola primaria il disturbo manifesta un peggioramento


nella scuola secondaria tanto da indurre a difficoltà relazionali ed abbandono scolastico.

In una situazione del genere bisogna lavorare perchè il soggetto possa apprendere le abilità
necessarie, di autocontrollo sociali e didattiche, per superare le proprie difficoltà.
L’insegnante deve essere consapevole del fatto che il suo atteggiamento con il soggetto
disattento/iperattivo ha un forte impatto sulla modificazione del suo comportamento.

Perciò deve porsi come autorevole e competente punto di riferimento, facendo in modo che
l’alunno impari a conoscere il proprio ambiente, così che questo diventi prevedibile e
gestibile attraverso:

 la definizione delle regole e della routine scolastica (l’obiettivo è creare un ambiente


prevedibile, noto e rassicurante);
 l’organizzazione dei tempi di lavoro;
 l’organizzazione del materiale (sotto quest’aspetto, è opportuno che il docente si proponga
come modello nel mantenere in ordine il proprio materiale e aiuti l’alunno disordinato a
inventare delle strategie per fare altrettanto).
La principale sfida per gli insegnanti, nel loro rapporto con alunni affetti da ADHD, è stimolare il
loro interesse e mantenere un livello di attenzione adeguato al raggiungimento degli
obiettivi di apprendimento che ci si è prefissati.

L’attenzione, intesa come quel processo mediante il quale si mette a fuoco, ovvero si coglie
il senso, di una parte del mondo percettivo circostante è strettamente connessa alla
motivazione ed all’interesse; pertanto la proposta didattica, le modalità di organizzare le
lezioni, l’ambiente di apprendimento e il coinvolgimento che si riesce ad attivare con gli
alunni sono tutti elementi in grado di influenzare profondamente le prestazioni
attentive degli alunni.

Alcuni suggerimenti per la gestione delle lezioni:


 accorciare i tempi di lavoro e alternarli a momenti di pausa, che devono essere brevi e frequenti;
 rendere le lezioni stimolanti e ricche di novità per ravvivare l’interesse dell’alunno;
 interagire frequentemente, verbalmente e fisicamente, con gli alunni disattenti/iperattivi;
 fare in modo che essi debbano rispondere spesso durante la lezione;
 utilizzare il nome degli allievi distratti per richiamarne l’attenzione;
 costruire situazioni di gioco per favorire la comprensione delle spiegazioni;
 utilizzare il gioco dei ruoli per spiegare concetti storici e sociali in cui siano coinvolti vari
personaggi;
 abituare l’alunno impulsivo a controllare il lavoro che ha svolto;
 istruirlo a continuare la parte più facile del compito nell’attesa che l’insegnante l’aiuti a svolgere
quella più difficile;
 evitare di creare situazioni di competizione con altri compagni durante lo svolgimento dei compiti in
classe;
 suddividere il lavoro a casa in piccole porzioni facilmente controllabili;
 controllare che i compiti siano stati scritti sul diario prima che l’alunno vada a casa;
 controllare ogni giorno che l’alunno abbia svolto i compiti a casa e prendere provvedimenti
immediati quando non li ha svolti.
[La scuola: il terreno preferito dal bambino disattento e iperattivo, Associazione Italiana Famiglie
ADHD (A.I.F.A.), Indicazioni per gli insegnanti].

Suggerimenti per la gestione del comportamento:


 definire e mantenere regole chiare e semplici all’interno della classe, rivedendole e correggendole
quando se ne ravvede la necessità;
 spiegare chiaramente agli alunni disattenti/iperattivi quali sono i comportamenti adeguati e quali
quelli inappropriati;
 far capire agli allievi impulsivi quali sono le conseguenze dei loro comportamenti positivi e quali
quelle derivanti da azioni negative;
 rinforzare i comportamenti positivi (stabiliti in precedenza), piuttosto che punire quelli negativi,
perché le punizioni (specie se severe), le note scritte o le sospensioni, non modificano il
comportamento dell’alunno, se non in peggio;
 sottolineare i comportamenti adeguati dell’alunno attraverso ampie ed evidenti gratificazioni;
 cambiare i rinforzi quando tendono a perdere d’efficacia;
 non punire l’alunno privandolo dell’intervallo, perché il bambino iperattivo necessita di scaricare la
tensione e di socializzare con i compagni;
 stabilire giornalmente o settimanalmente semplici obiettivi da raggiungere;
 informare spesso l’alunno disattento/iperattivo su come sta lavorando e come si sta comportando
(feedback), soprattutto rispetto agli obiettivi da raggiungere.

Didattica speciale per gli alunni con DSA Per elaborare i quadri diagnostici,
nelle loro diverse componenti (sia per le funzioni deficitarie che per le funzioni integre),
l’indagine strumentale e l’osservazione clinica sono strumenti indispensabili. Così come i
fattori ambientali e le condizioni emotive e relazionali. L’esame della comorbilità, intesa
come compresenza di altri disturbi evolutivi o DSA, fornisce altri importanti
contributi.

Per la presa in carico è basilare la predisposizione del profilo funzionale, essenziale


anche per la messa a punto di adeguati progetti riabilitativi.
I soggetti con disturbi specifici dell’apprendimento hanno enormi difficoltà a leggere, scrivere,
contare. Essi perciò non riescono a eseguire in maniera corretta compiti che per altri sono
assolutamente normali, come per esempio copiare dalla lavagna o da un altro testo, produrre un
elaborato scritto o annotare sul diario i compiti da svolgere a casa (sarebbe opportuno che un
compagno diclasse o il docente verificasse sempre l’esattezza di ciò che viene scritto); hanno
difficoltà con le tabelline e con tutti i processi in cui iconcetti astratti vengono messi in sequenza
(es. i mesi dell’anno, il collegamento tra i mesi e i giorni etc.); difficoltà a studiare la storia e la
geografia perché non riescono a memorizzare date, nomi di persone e nomi di località, difficoltà ad
apprendere le regole della grammatica, ad apprendere i rudimenti di una lingua
straniera. I tempi di esecuzione di cui necessitano sono lunghi e, inoltre, non riescono a mantenere
la concentrazione a lungo: per questo hanno diritto ad una riduzione del lavoro scritto e dei compiti
a casa. Devono poter disporre di più tempo per lo svolgimento delle prove orali e potersi
avvalere di metodi compensativi, come l’uso della calcolatrice, del computer, del registratore
e di tabelle o schemi già preparati dall’insegnante o dalla famiglia in modo da facilitare il lavoro.

Alcuni suggerimenti utili alla semplificazione dei testi per gli alunni
dislessici comprendono:

 evitare, per quanto possibile, testi troppo lunghi;


 adoperare le intestazioni di paragrafo, per i testi lunghi;
 usare un lessico semplice e frasi brevi;
 evitare l’abuso dei pronomi, perché aumentano il carico cognitivo, a discapito della
strumentalità di lettura.
 usare, per quanto possibile, forme verbali attive e al modo indicativo;
 corredare il testo di immagini, schemi, tabelle, ma senza ingombrare troppo le pagine;
 usare un’interlinea ariosa;
 usare il carattere grassetto e/o colori diversi per evidenziare le parole chiave e i concetti più
importanti.

Gli alunni con DSA conclamato hanno diritto ad avere percorsi didattici personalizzati, concordati
con genitori e specialisti. [Il decreto 12 luglio 2011, attuativo della L. 170/2010, prevede
l’utilizzo di strumenti didattici e tecnologici (strumenti compensativi) che facilitino lo studio e
l’adozione di misure dispensative che permettano all’alunno di essere esonerato da prestazioni che
per lui sarebbero particolarmente difficoltose].
Strategie didattiche
Il dottor Tommaso Carresi, psicologo e psicoterapeuta, propone le seguenti strategie didattiche per
gli studenti con disturbispecifici di apprendimento, e in particolare per quelli dislessici, in
tutti i gradi di scuola:
1. Usare un registratore. Molti problemi con i materiali scolastici sono collegati alla difficoltà nella
lettura.
2. Chiarire o semplificare le consegne scritte. Le indicazioni (consegne) scritte sotto
forma di paragrafo e contenenti molte informazioni possono risultare opprimenti per gli studenti. Il
docente può facilitare il compito sottolineando o evidenziando le parti significative delle indicazioni.
3. Evitare attività ridondanti. In presenza di disturbi di apprendimento, è consigliabile evitare una
mole eccesiva di lavoro e comunque conviene presentare le attività semplificandone lo svolgimento.
Rispetto ad una scheda di esercizi può per esempio essere richiesto di svolgere solo quelli dispari (o
evidenziati con altro indicatore) o in alternativa presentare una parte degli esercizi già risolti.
4. Limitare gli stimoli estranei. Se lo studente è facilmente distraibile dagli stimoli visivi
all’interno di un foglio di lavoro, può essere usato un foglio bianco di carta per coprire la sezione su
cui il soggetto non sta lavorando. In alternativa, possono essere usate finestre che lasciano leggere
un’unica riga o un solo esercizio per volta per facilitare la lettura.
5. Evidenziare le informazioni essenziali. Se uno studente ha delle difficoltà nell’individuare le
informazioni essenziali di un testo, l’insegnante può sottolineare le chiavi di lettura con un
evidenziatore.
6. Prevedere attività pratiche addizionali. Per far sì che gli studenti con
difficoltà di apprendimento acquisiscano padronanza nelle abilità prefissate, gli insegnanti possono
integrare i materiali di studio con attività pratiche. Gli esercizi pratici raccomandati includono giochi
educativi, attività di insegnamento tra pari, uso di materiali che si autocorreggono, programmi
software per il computer e fogli di lavoro aggiuntivi.
7. Ripetizione della consegna. Gli studenti che hanno difficoltà nel comprendere le indicazioni
per i compiti (consegne) possono essere aiutati richiedendo di ripeterle a parole loro.
8. Mantenimento delle routine giornaliere. Normalmente gli studenti con disturbo
dell’apprendimento beneficiano di routine giornaliere che consentono loro di conoscere in anticipo
ciò che ci si aspetta essi facciano.
9. Consegna di una copia degli appunti della lezione. L’insegnante può dare una copia degli
appunti delle lezioni agli studenti che hanno difficoltà nello scriverli durante l’esposizione.
10. Uso di istruzioni passo-a-passo. Informazioni nuove o particolarmente difficili possono essere
presentate in piccole fasi sequenziali. Questo aiuta gli alunni con scarse conoscenze sull’argomento
e che hanno bisogno di istruzioni esplicite che chiariscano il passaggio dal particolare al generale.
11. Combinazione simultanea di informazioni verbali e visive. Le informazioni verbali possono
essere efficacemente affiancate da materiali visivi (es. opuscoli, volantini, lavagna luminosa etc.).
12. Scrittura dei punti chiave o delle parole alla lavagna. Prima di una presentazione l’insegnante
può scrivere sulla lavagna un breve glossario comprensivo dei termini nuovi che verranno proposti
alla classe.
13. Uso delle tecniche di memorizzazione. Nell’ambito delle strategie di apprendimento possono
essere usate tecniche dimemorizzazione per aiutare gli studenti a ricordare le informazioni chiave o
le varie fasi di un processo.
14. Enfasi sul ripasso giornaliero. Il ripasso giornaliero degli argomenti già studiati aiuta gli studenti
a collegare le nuove informazioni con quelle precedenti.
PROBLEM SOLVING per la Didattica Speciale
PROBLEM SOLVING per la Didattica Speciale ⇒ Sintesi per concetti base

Il Problem solving applicato alla didattica.

Il metodo della didattica per problemi è stato teorizzato da J. Dewey.

Il metodo consente agli allievi di apprendere a risolvere, con gradualità, problemi sempre più
complessi che fanno sì che lo studente acquisisca abilità cognitive di livello elevato.

Il problema
Un problema può essere una domanda che richiede una risposta precisa ed esauriente, oppure, un
quesito che richiede l’individuazione o la costruzione di regole e di procedure che consentano di
risolvere il quesito stesso.
Una domanda e la risposta, un quesito e la soluzione, una procedura o un algoritmo da organizzare,
un dialogo, una comunicazione da elaborare.…-
La didattica per problemi ha una valenza educativa, formativa e consente di far acquisire ad ogni
allievo gli obiettivi didattici fissati, a livello disciplinare o pluridisciplinare.

La didattica
La didattica per problemi deve avere determinate caratteristiche, deve consentire a ciascun allievo
di:
°ricercare dati ed informazioni;
°fare stime e calcoli …;
°formulare ipotesi risolutive;
°proporre soluzioni;
°prendere decisioni.

La didattica per problemi deve essere intenzionale e funzionale rispetto agli obiettivi educativi e
didattici da conseguire, in termini di conoscenze, competenze e capacità.
Durante la soluzione di un problema l’allievo deve essere messo, dal docente, in condizione di
scoprire (ri-scoprire) ed acquisire, autonomamente, conoscenze nuove.
La didattica per problemi deve rispettare alcune regole fondamentali di relazione:
i problemi non debbono essere imposti, in modo direttivo, ma debbono essere discussi e condivisi
dal gruppo classe e/o nei piccoli gruppi;
i docenti assumono la funzione di guida metodologica, di assistenza e di consulenza per ciascun
allievo o per il gruppo di alunni impegnato nella soluzione del problema.
Il docente svolge le funzioni di tutor.

La didattica per problemi consente il conseguimento dei seguenti obiettivi per ciascun allievo:

a) apprendere ad organizzare in modo significativo le proprie conoscenze


b) apprendere a valutare l’utilità delle conoscenze acquisite, rispetto agli obiettivi prefissati in
termini di conoscenze, competenze e capacità;
c) sviluppare l’attitudine ad affrontare problemi nuovi ed imprevisti e a trasferire le conoscenze
acquisite in contesti diversi (transfert);
d) decidere in condizioni d’incertezza oltre che di certezza;
e) sviluppare la capacità di dominare situazioni anche complesse;
f) apprendere ad utilizzare appropriati metodi di comunicazione oltre che di documentazione;
g) apprendere ad apprendere.

Il metodo consente, inoltre, di sviluppare alcuni aspetti fondamentali della personalità quali:
1) la responsabilità,
2) l’autonomia,
3) la fiducia in sè,
4) la stima di sé,
5) la cooperazione con gli altri,
6) la solidarietà,
7) le capacità decisionali.

Gli allievi possono risolvere problemi in piccoli gruppi, costituiti da un massimo di cinque studenti.
I problemi possono essere scomposti in sotto-problemi, più semplici da risolvere.

I gruppi scelgono un loro referente che illustra ai componenti degli altri gruppi le procedure che
hanno utilizzato.

La funzione del docente consiste nell’insegnare agli allievi del gruppo classe a trovare la
soluzione del problema.
Generalmente un problema genera un altro problema.

La soluzione di un problema può essere, infatti, il presupposto per la posizione di un altro problema.
Il filosofo ed epistemologo K. Popper sostiene che “la ricerca scientifica consiste nel risolvere
problemi”, che “la vita è costituita da problemi da risolvere” e, quindi, che apprendere a risolvere
problemi significa apprendere a vivere’’
Quando un allievo s’imbatte in un problema, inizialmente ne sa molto poco, ma potrà diventare
esperto di quel particolare problema, formulando ipotesi risolutive, seppure inadeguate ed
insoddisfacenti, criticando, rivedendo ed affinando le ipotesi stesse, dopo averle messe alla prova.
Comprendere un problema significa capirne le difficoltà, tentare di risolverlo con un’applicazione
tenace e responsabile.

La strategia di risoluzione di un problema comporta l’esplorazione di regole (esperienze,


procedure, leggi,…), l’analisi della situazione da più punti di vista (pensiero divergente, pensiero
produttivo), l’utilizzazione di regole anche nuove e la capacità di valutare la risolubilità del
problema stesso.

Il metodo della didattica per problemi si fonda sulla motivazione ad apprendere.

L’intuizione intesa come conoscenza diretta ed immediata della realtà, di un fenomeno, di una
situazione, può giocare un ruolo importante nella soluzione di un problema.

Le difficoltà per l’alunno possono presentarsi in una delle seguenti fasi:

a) lettura del problema,


b) comprensione del problema,
c) applicazione di procedure risolutive,
d) codifica della risposta.

Le fasi di risoluzione di un problema possono essere le seguenti:

1) Presentazione del problema,


2) Riflessione sul problema
3) Soluzione del problema,
4) Discussione in gruppo (brain storming).

Nella soluzione di problemi intervengono anche processi metacognitivi quali:

a) l’analisi delle proprie conoscenze,


b) la loro utilizzazione pratica.

Il metodo del brain storming può essere utilizzato dal docente per animare i lavori di gruppo,
soprattutto nella fase in cui si discute la soluzione di un problema.

Teoria dei modelli e problem solving


Un modello può essere definito come rappresentazione euristica di un determinato fenomeno, che
ne riproduce le caratteristiche essenziali.

Il modello interviene in due fasi relative alla soluzione di un problema, nella fase in cui:
dal modello si passa a ciò che il solutore deve fare per risolvere il problema,
dalla situazione problematica reale si arriva alla costruzione di un modello risolutivo.

Il modello preliminare alla soluzione di un problema può essere un modello già strutturato, oppure
un modello formato solo in parte e, quindi, in via di formazione completa.

Il modello può essere adeguato per risolvere il problema oppure non è adeguato del tutto o solo in
parte, per giungere alla soluzione del problema.

Gli studiosi hanno individuato quattro casi modello:

 strutturato ed adeguato,

strutturato ma inadeguato,

non diviso, ma adeguato,

non strutturato e adeguato.

Nel primo caso il modo di procedere per il solutore è chiaro, pertinente, efficace.
Nel secondo caso il modello non conduce ad una soluzione del problema

Nel terzo caso il soggetto riesce a risolvere il problema, pur non avendo a disposizione un modello
strutturato.

Il solutore procede per tentativi nella soluzione del problema stesso.

Nel quarto caso i comportamenti risolutivi sono tutti da ideare, il solutore ricerca un modello
pertinente ed adeguato ma non sa come strutturare le azioni da intraprendere.

Risolvere problemi significa saper prendere decisioni.


Esistono due tipi di modelli per risolvere problemi:
– modelli normativi,
– modelli descrittivi.

Si ha un modello normativo quando all’allievo è detto come costruire le decisioni per risolvere il
problema con il modello adeguato.

Si ha il modello descrittivo quando sono date indicazioni sui comportamenti da tenere e sulle
decisioni da assumere per risolvere il problema.

Secondo alcuni studiosi il modello tipo si articola in quattro fasi:


fase iniziale: il solutore tenta di comprendere di che cosa tratta il problema che ha di fronte e che cosa deve fare;
fase di attacco: il solutore saggia una prima ipotesi di soluzione, che può condurlo in porto o no; in quest’ultimo
caso deve riformulare le ipotesi;
fase di controllo: il solutore confronta la propria soluzione con lo stimolo posto dal problema, per valutarne
l’efficacia;
fase di estensione: la soluzione di un problema dovrebbe portare alla posizione di un altro problema.

L’attività di problem solving è influenzata da condizioni esterne e da condizioni interne.


Le condizioni esterne sono costituite da:
a) stimoli verbali e non,
b) indicazioni, direttive finalizzate a favorire la concettualizzazione del problema,
c) istruzioni che hanno la funzione di agevolare la soluzione del problema.
Le condizioni interne sono legate alle differenze individuali e dipendono dalla:
– quantità di informazioni immagazzinate,
– facilità di richiamare alla memoria le informazioni stesse,
– capacità di selezionare i concetti,
– flessibilità nel formulare ipotesi,
– capacità di ritenere un modello di soluzione,
– capacità di saper confrontare il caso specifico con il caso generale.
Contributi all’attività di risoluzione dei problemi dalla psicologia.
Contributi al problem solving vengono dalle teorie psicologiche (gestalt – comportamentismo –
cognitivismo) e dalle scienze dell’informazione (metodo top down e bottom up).
L’attività di problem solving ha una sua specifica applicazione in matematica.
La risoluzione di un problema si sviluppa in quattro fasi:
a) Comprendere il problema,
b) Ideare un piano per trovare la soluzione,
c) Eseguire il piano,
d) Verificare e valutare il procedimento e controllare il risultato.

Gli studiosi hanno individuato tre aspetti relativi alla strategia di risoluzione dei problemi, come:
a)si presenta il problema,
b) interagiscono le caratteristiche del contesto problematico con le conoscenze ed i modelli di
ciascun solutore,
c) sono analizzati i problemi e come il solutore stesso analizza la propria struttura o matrice
cognitiva.

Risolvere un problema implica la trasformazione della struttura conoscitiva del solutore da uno
stato iniziale “i” ad uno stato finale “f”, come avviene per il processo d’apprendimento in generale.

Nell’attività di problem solving il docente valuta:


1.Il tempo impiegato nella soluzione del problema,
2. La precisione, in altre parole, la qualità e la quantità di errori commessi (analisi dell’errore).

Acquisire, progressivamente, capacità di problem solving serve ad agevolare le potenzialità


d’apprendimento di un allievo, che manifesterà desiderio di coinvolgimento nelle attività di
formazione, all’interno dell’organizzazione.
Tutte le discipline sono potenzialmente portatrici e generatrici di problemi, la matematica in
particolare è una disciplina costituita da procedure o algoritmi basati sulle capacità di analisi, di
sintesi e di capacità di concettualizzare e risolvere problemi.
La risoluzione di un problema.

Nell’attività di risoluzione di problemi l’allievo deve acquisire le seguenti competenze intese come
esiti in uscita:
a) Comprendere il testo di un problema,
b) Individuare i dati essenziali,
c) Individuare quelli mancanti,
d) Individuare relazioni e corrispondenze,
e) Costruire relazioni e corrispondenze,
f) Utilizzare in modo consapevole tecniche e procedure di calcolo,
g) Sviluppare algoritmi risolutivi,
h) Controllare la validità degli algoritmi risolutivi individuati o costruiti,
i) Matematizzare il problema da risolvere, attraverso processi di generalizzazione e di
simbolizzazione, questa operazione riduce l’effetto della complessità,
j) Padroneggiare modelli risolutivi in condizioni di certezza e in condizioni d’incertezza,
k) Utilizzare gli strumenti informatici a disposizione,
l) Allenarsi al rigore e alla precisione mentale,
m) Comprendere e utilizzare i codici formali.

In particolare: in merito alla concettualizzazione di un problema può essere utile servirsi delle
tabelle seguenti:

_Dato il testo di un problema


Individuare i dati utili alla sua risoluzione.
Individuare gli eventuali dati che lo rendono ambiguo
_Data una situazione problematica
Individuare il problema che la rappresenta e gli elementi utili per la sua risoluzione.
_Dato un enunciato
Individuare ipotesi, conclusioni e l’ambito di applicabilità del problema.
Relazioni tra dati:
_Dato il testo di un problema
Organizzare i dati in una tabella
_Dato il testo di un problema
Organizzare i dati in un diagramma
_Data una situazione problematica
Organizzare le relazioni dirette e inverse tra i dati
_Dato un enunciato
Organizzare relazioni astratte di tipo simbolico tra dati.
Metodi risolutivi:
Determinare un algoritmo che permetta d’individuare un risultato controllandone i limiti di validità
o di pertinenza:
Dato il testo di un problema
_Risolvere il problema con un metodo intuitivo
Risolvere il problema per analogia.
_Data una situazione problematica
Risolvere il problema con il metodo delle approssimazioni successive.
_Dato l’enunciato di un problema
Risolvere il problema con metodi grafici (compreso il metodo geometrico.
Risolvere il problema con metodi algebrici
Risolvere il problema con metodi informatici
Risolvere il problema con metodi misti.
L’attività di risoluzioni di problemi si riconnette alla didattica per concetti, a quella per progetti.

Il problem finding
Il termine problem finding, dal verbo inglese to find, “trovare” stimola l’alunno
all’ identificazione o individuazione del problema, indica una parte del processo mentale che porta
alla risoluzione di un problema. - partire proprio dalla decisione di fermarsi a pensare.

Questo è un esercizio diverso di approccio alla risoluzione dei problemi, non si pone allo
studente un problema ma si dice di trovarlo in una situazione. Il problem finding stimola la
capacità di “scoprire” un problema piuttosto che risolverlo, fase successiva. Questa attività
richiede apertura intellettuale e intuizione, requisiti che implicano l’utilizzo della creatività.

Trovare il problema può, a seconda dell’entità di quest’ultimo, risultare un passaggio più


semplice o più complesso della risoluzione del problema stesso.

La pedagogia degli oppressi. Il problem posing contro il modello


della banking education in Freire
Con il metodo problem-posing si chiede allo studente di essere egli stesso a porre il
problema. Rispetto alla didattica tradizionale, dove il docente diceva e poneva un problema
che poi lo studente doveva risolvere, questa volta il docente dice allo studente di essere egli
stesso a formulare un problema. Poniti un problema e magari lo risolviamo insieme, oppure
in una peer-education costruisci un problema che poi a risolvere dovrà essere il tuo amico
di classe.

Il metodo fù ripreso anche da Ira Shor.


Quando gli insegnanti mettono in pratica l’educazione secondo il problem-posing, si
avvicinano agli apprendenti quali compagni dialoganti, il che crea un’atmosfera di umiltà e
di fiducia: il problem posing li spinge a trovare soluzione a partire da problemi
concreti.
Il problem-posing si collega ad un metodo d’insegnamento che sottolinea l’importanza del
pensiero critico.

Il problem posing contro il modello della banking education in Freire:

Freire usò tale metodo quale alternativa all’educazione secondo il modello educativo
tradizionale o banking education, secondo cui chi apprende è un contenitore da riempire
con le conoscenze.

Paulo Freire parla del modello di istruzione bancario per descrivere e criticare il sistema
educativo tradizionale. Il nome fa riferimento alla metafora degli studenti come contenitori in
cui gli educatori devono mettere la conoscenza. Contro la teoria della trasmissione della
conoscenze, per cui gli studenti erano solo riceventi, come delle banche che raccogliessero
informazioni.

Freire ha sostenuto che questo modello rafforza la mancanza di pensiero critico e di


proprietà della conoscenza negli studenti, il che a sua volta rafforza l’ oppressione , in
contrasto con la comprensione di Freire della conoscenza come risultato di un processo
creativo umano. Contro questo modello egli propone il problem solving.

Jigsaw Classroom
Una metodologia che riduce il conflitto tra gli studenti, migliora la motivazione e aumenta il piacere
dell’esperienza di apprendimento.
La Jigsaw classroom, sviluppata negli anni ’70 da Elliot Aronson, è una metodologia di cooperative
learning basato sulla ricerca.
L’insegnante divide gli studenti in gruppi, sceglie un leader, divide la lezione in un numero
di segmenti pari al numero dei membri del gruppo, assegna a ogni studente di ogni gruppo
l’apprendimento di un solo segmento e alla fine della sessione, verifica l’apprendimento.

Con la cooperazione, si riduce il conflitto tra studenti e si migliora la motivazione


all’apprendimento

EAS – La metodologia EAS (Episodi di Apprendimento Situato)


La metodologia EAS (Episodi di Apprendimento Situato) è stata introdotta dal prof. Pier
Cesare Rivoltella, diffondendosi in Italia a partire dal 2014.

L’unità con EAS è articolata in 3 fasi:

preparatoria
operatoria
ristrutturativa
attuando il capovolgimento della tradizionale lezione frontale. In ciascuna fase vengono
individuate sia le azioni del docente che quelle degli studenti, riconducendole ad una
determinata logica didattica.

L’’EAS, basata su un’accurata progettazione del docente (Lesson Plan), propone agli
studenti esperienze di apprendimento situato e significativo, che portino alla realizzazione
di artefatti digitali, favorendo un’appropriazione personale dei contenuti.

Riferimenti pedagogici: la metodogia EAS ha come riferimento principale la “scuola del


fare” di Freinet ( con la sua “lezione a posteriori”), ulteriori riferimenti sono riconducibili alla
Montessori,a Dewey, Bruner, Gardner, Don Milani, alla Flipped Lesson. Volendo scendere
nei dettagli, la metodologia EAS fa suoi molti presupposti dell’attivismo pedagogico, del
Mobile Learning e micro-learning (Pachler), ed è da ricondurre al post-costruttivismo.

Storytelling
Raccontare storie mediante tecnologie è pratica antica e consolidata, Al cambiare delle
tecnologie sono cambiati i mezzi di comunicazione e di coinvolgimento lasciando inalterata
l’enfasi emotiva e narrativa. Il ricorso a storie può essere infatti di facile comprensione per
l’apprendimento del bambino. Nei libri scolastici delle scuole elementari infatti, per rendere
semplice un concetto si ricorre ad una storia o a dei personaggi. La metodologia dello storytelling
consiste nell’uso di procedure narrative al fine di promuovere meglio valori, idee ed è incentrato
sulle dinamiche di influenzamento sociale. sia come strumento di comunicazione delle esperienze,
sia come strumento riflessivo per la costruzione di significati interpretativi della realtà. Dare rilievo
alla narrazione, ai racconti dei soggetti che vengono coinvolti nei processi educativi e formativi,
rappresenta la svolta epistemologica sia per leggere fenomeni e processi (narrazione come
strumento di ricerca), sia per produrre azioni e cambiamenti intenzionali (narrazione come
strategia didattica). La narrazione è uno strumento per penetrare in profondità nelle cause e nelle
ragioni di eventi. Lo storytelling è fondamentale in diversi contesti educativi e formativi con la

prospettiva di life-long learning, sia in termini cognitivi che educativi.

Storytelling in campo educativo


Fin dall’infanzia lo storytelling contribuisce in maniera notevole all’alfabetizzazione, in
quanto è proprio la contestualizzazione di tale processo entro il quadro della narrazione che
facilita la costruzione di senso intorno all’apprendimento complesso della scrittura e della
lettura. Bisogna acquisire delle regole per comporre un testo. Il “raccontare” in forma
narrativa strutturata permette di creare le basi dell’alfabetizzazione, ovvero una prima
costruzione di significati condivisi tra adulto e bambino. È importante usare tale metodologia
sin dalla prima scolarizzazione utilizzando i tipi di testualità adeguati al grado di
alfabetizzazione dei bimbi.

Storytelling in campo formativo


Da alcuni anni la metodologia dello storytelling ha trovato spazio anche nel campo della
formazione degli adulti e dell’apprendimento a livello di istruzione superiore. Mc Drury e
Alterio ci forniscono appunto interessanti argomentazioni in merito all’uso riflessivo
sull’esperienza al fine di migliorare i processi di apprendimento. Utilizzando il metodo di
raccontare storie, diventa possibile situare l’apprendimento nei contesti significativi e
promuovere processi dialogici di interazione riflessiva attraverso lo sviluppo di contesti
collaborativi.

Problem solving ciclico. APS, 5W, Analisi di Ishikawa

Vediamo ora le diverse parti in cui si può scomporre un problem solving.


APS, nato dall’inglese “Applied Problem Solving” e poi tradotto in italiano come “Applicare il
Problem Solving” è un metodo di Problem Solving pratico, applicato a situazioni reali, in cui
la semplicità e l’efficacia del metodo, unite alla forte enfasi sull’esecuzione delle soluzioni,
vogliono essere il valore aggiunto rispetto ai metodi simili. La risoluzione dei problemi
richiede la capacità di comprendere il contesto e l’ambiente, successivamente richiede che
le persone vadano a raccogliere le evidenze in prima persona. Risolvere i problemi è
un’attività faticosa in quanto si deve svolgere con la pratica, non solo con la teoria.

Il problem solving è una metodologia che può essere scomposta in diverse fasi: il problem
posing (porre il problema), problem finding (cercare il problema) e problem shaping (dare
forma a problema), che rappresentano le diverse fasi in cui si scompone il problema prima
di arrivare alla sua soluzione.
In generale si possono riconoscere 5 fasi fondamentali o 5 step con cui procedere:

1. Definire il proprio obbiettivo


Senza la definizione di un obbiettivo, di una meta finale da raggiungere, non c’è ragione di
parlare di problemi dato che non possono presentarsi situazioni con ostacoli se si decide di
rimanere immobili.
2. Riconoscere il problema
Non si può pensare di risolvere un problema se prima non si riesce ad identificarne la
presenza. Può capitare che questo sia proprio davanti a noi, ma celato. In questo caso è
necessario imparare a riconoscere i piccoli segnali, capire quali sono gli ostacoli che si
pongono davanti a noi e a quali situazioni potrebbero portare
3. Capire come risolvere il problema
Come abbiamo visto prima, ci sono diversi modi per affrontare un ostacolo e ognuno di
questi richiede idee. In questa terza fase si colloca l’azione di Brain Storming, ovvero il
momento più creativo, dove il mantenere un pensiero positivo nei confronti della situazione
è di grande aiuto. Sempre in questa fase vi è il processo di trasformazione delle idee in
possibili soluzioni per superare l’ostacolo.
4. Scegliamo la soluzione più adatta
Sembra scontato, ma non tutte le possibili idee e soluzioni “trovate” nella fase precedente
sono da considerarsi ottimali. Bisogna imparare a valutare non solo l’efficacia e la fattibilità
di un’idea, ma anche le conseguenze a cui quella determinata soluzione potrebbe portare.
Determinata qual’è la soluzione migliore, rimane da pianificare come agire, quando.
5. Risolvere il problema
Ultimo step: la concretizzazione della soluzione e la messa in pratica di quanto deciso e
aspettare i risultati. È importante, in quest’ultima fase, non farsi scoraggiare, non tutti i
risultati arriveranno immediatamente all’attuazione della soluzione, ma potrebbe volerci un
po’ perché il tutto si concretizzi.

La tecnica delle 5W e delle 2H


Questa è un’analisi semplificata delle cause tecniche.

Le 5W sono rappresentante dalle domande:

Who (“Chi?”),

What (“Cosa?”),

Where (“Dove?”),

When (“Quando?”)

Why (“Perché?”),

mentre le 2H rappresentano le domande

How (“In che modo?”)

How many (“Quanti?”).

Rispondendo a queste sette domande, si possono individuare alcune delle principali cause
del problema. Questa tecnica può essere utilizzata per aiutare a definire un reclamo del
cliente o la ritardata consegna di un fornitore o in ogni altra situazione che si può incontrare
nella filiera di produzione. Con una definizione specifica del problema si può iniziare un
lungo cammino verso lo sviluppo di una vera e propria soluzione.

Analisi di Ishikawa

Viene anche chiamato diagramma causa-effetto, diagramma a lisca di pesce o diagramma


ad albero.
Il diagramma di Ishikawa è uno strumento che permette e facilita l’analisi di un certo
fenomeno o problema da parte di un gruppo di persone grazie alla sua stessa struttura.
Con il diagramma di Ishikawa abbiamo una rappresentazione logica e sistematica delle
relazioni esistenti tra un problema e le possibili cause che l’hanno generato.

Per procedere all’applicazione di questo strumento bisognerà che il gruppo che analizzerà
il fenomeno sia un team costituito da persone che possiedono esperienza di quale sia il
problema che si vuole affrontare.

In secondo luogo bisognerà avvalersi dello strumento di brainstorming mediante cui i


componenti esprimeranno liberamente le personali posizioni in merito alle possibili cause
del problema.
A questo punto si dà il via alla costruzione del diagramma che riporta alla destra, (in
un’ideale testa della lisca di pesce) il problema così come lo si è denominato e a partire da
questa “testa” o effetto finale, si articolano via via le cause emerse. La cosa X e la cosa Y
hanno influito sul problema, fino a inserire le cause sulla direzione che ha portato al
problema

Come si vede, si organizzano diversi rami secondo un ordine gerarchico: dalle cause che
hanno generato il problema si articolano rami secondari che presentano le cause che a loro
volta hanno incrementato o generato le cause principali del problema individuate.
Lo sfondo educativo ed il concetto di sfondo integratore
Le azioni educative compiute sono soggette ad interpretazione e acquistano significato
all’interno del particolare “contesto” in cui si trovano ad essere inserite. Sostengono altresì
che le azioni compiute assumono significato in quanto emergono come “figure” da uno
“sfondo”.

Esempio: Lo stesso libro lo leggiamo in aula, in biblioteca, o al mare sotto l’ombrellone, o a


casa, si stacca da uno sfondo. E’ sempre lo stesso libro, ma diversa è l’esperienza di lettura.
E’ anche il contesto che conta, lo sfondo.

E’ lo sfondo che attribuisce la significatività o la mancanza di significatività alle


azioni/figure.
E’ implicito il riconoscimento della situazione didattica che si configura come sfondo che
consente alcune attività e ne limita altre.

La D.A.D non sostituirà mai la classe. La stessa nozione o azione educativa si stacca dallo
sfondo ed allo stesso tempo è integrato nello sfondo.

Il ruolo programmatorio e intenzionale del docente si sostanzia allora nella strutturazione


di sfondi che favoriscano processi di integrazione non più esclusivamente affettivi ma
soprattutto cognitivi. Sfondi intesi come contesti da cui emergano le connessioni
significative, le pertinenze evidenti, i linguaggi utili, che realizzino la percezione di una

connessione evolutiva, storica, possibilmente risolutoria dell’ esperienza .


In pratica si suppone un’analogia fra “sfondo integratore” e “contesto”. Sembra quasi che venga
attribuita allo sfondo integratore, intenzionalmente costituito dal docente, la capacità di generare
spontaneamente apprendimenti costruttivi. Quegli apprendimenti cioè in grado di favorire la
strutturazione delle conoscenze tramite immagini reticolari e complesse. Tale strutturazione sembra
essere affidata al caso e sfuggire all’intenzionalità della progettazione condotta dai docenti.

un’osservazione e una riflessione sul percorso compiuto, sull’interpretazione data al senso


o al significato formativo raggiunto sia dai docenti sia dai discenti.
Ricordiamo che la programmazione per sfondi nasce dall’esigenza di integrare soggetti
“diversamente abili”, accogliere e superare esigenze problematiche e, in questo senso, è
certamente importante innescare il processo, favorire l’integrazione e superare l’impasse.

Tale forma di programmazione ha visto una diffusione nella scuola dell’infanzia proprio perché
questo segmento scolastico è stato in grado di raccogliere le sollecitazioni positive, soprattutto per
quanto riguarda la possibilità di configurarsi come “contenitore” affettivo e motivazionale
particolarmente flessibile, non avvertendo l’impellente necessità di un controllo sui risultati cognitivi
raggiunti dagli alunni ma prestando attenzione al clima relazionale e sociale che si instaura nel
rapporto formativo.

Approfondimento sullo sfondo integratore


LO SFONDO INTEGRATORE

abbiamo visto è il contesto, il luogo di apprendimento.


Si possono individuare tre diverse forme fenomenologiche che ha assunto, a partire dalla
seconda metà degli anni 1980, il concetto di sfondo integratore:

1. Sfondo integratore come sfondo istituzionale. Consiste nell’organizzazione degli elementi


dell’ambiente (soprattutto spazi, materiali, tempi) e nell’utilizzo di elementi mediatori o
organizzatori delle attività (in linea con la pedagogia istituzionale).

2. Sfondo integratore come struttura di connessione narrativa. Consiste nell’utilizzo della


dimensione narrativa per costruire situazioni di condivisione di significati fra bambini e fra
gruppo di bambini ed insegnanti.

3.Sfondo integratore come sfondo metaforico. Si tratta di uno specifico strumento didattico
(influenzato, in parte, dalla pratica e dalla prospettiva terapeutica di Milton Erickson),
pensato per supportare l’integrazione di bambini con problematiche comunicative e con
forme di psicosi lievi.
Consiste, praticamente, nel proiettare la situazione problematica su di uno sfondo
metaforico che, da una parte, ripropone gli elementi del problema, ma, dall’altra, introduce
nuovi elementi che consentono al bambino (e al gruppo classe) di ristrutturare la situazione
problematica e di farla evolvere.

Rappresenta:
• un contenitore dei percorsi didattici finalizzati alla costruzione di un contesto condiviso da tutti,
capace di ampliare la risorse dell’azione educativa.
• un sollecitatore di situazioni problematiche, che richiedono formulazione di ipotesi e ricerca di
soluzioni.
• un facilitatore dell’apprendimento attraverso la strutturazione di situazioni motivanti.
Lo sfondo integratore è l’involucro, il contenitore che determina l’unità del percorso educativo, la
percezione dei nessi, il senso della continuità che collega le molte attività didattiche che altrimenti
resterebbero disperse e frantumate.

Nell ambito di una programmazione per sfondi integratori le analisi, le scelte e le decisioni prese
muovono da una prospettiva che vede l allievo come un soggetto attivo e motivato di
apprendimento.

Per meglio dire, l allievo non apprende solo in virtù del curricolo esplicito,perseguito dalla scuola,
ma ancor di più in virtù del curricolo implicito, ravvisabile sia nelle procedure della vita scolastica,
sia nei materiali didattici, sia negli approcci culturali e nelle relazioni adottate dagli operatori della
scuola.
L’idea basilare afferma che si dà apprendimento reale solo all interno di ambienti altamente
relazionali, investiti da una esplicita affettività.
L’apprendimento scolastico viene interpretato in base al rapporto comunicativo che si instaura fra i
docenti e gli allievi, dalla qualità della relazione che si sviluppa.

Lo sfondo integratore rappresenta:

Da una parte uno strumento per sostenere l’autonomia dello studente con disabilità e la sua
integrazione nel contesto della sezione.

Dall’altra una struttura di connessione narrativa, un modello narrativo di fondo (una sorta di
situazione da storytelling). Come quando si entra in un’aula con tutti gli elementi tipici di una
disciplina.
Nella pratica educativa, lo sfondo integratore, così inteso, è spesso coinciso con la creazione di
narrazioni, elaborate insieme al gruppo dei bambini, allo scopo di favorire una percezione condivisa
della situazione e di facilitare, attraverso l’elaborazione di significati condivisi, i processi comunicativi
fra il gruppo di bambini e fra questi e gli adulti educatori.
Debriefing – e le sette fasi proposte da Mitchell
Nei metodi attivi di apprendimento e nella didattica esperienziale la fase in cui, una volta
completata l’attività, il gruppo in formazione con la guida dell’insegnante/formatore torna
riflessivamente su quello che è accaduto per raggiungerne consapevolezza e fissarlo a
quadri concettuali espliciti è detta debrifing.

Il debriefing è un intervento psicologico-clinico strutturato e di gruppo, condotto da uno


psicologo esperto di situazioni di emergenza, che si tiene a seguito di un avvenimento potenzialmente
traumatico, allo scopo di eliminare o alleviare le conseguenze emotive spesso generate da questo tipo
di esperienze.

Le sette fasi “classiche” del protocollo di Mitchell sono:

1. Introduzione (alla situazione ed al lavoro di gruppo)

2. Discussione dei Fatti (ricostruzione degli eventi occorsi, attraverso le “narrazioni” e le prospettive
multiple dei partecipanti)

3. Discussione dei Pensieri/Cognizioni (che i partecipanti hanno avuto durante l’evento)


4. Discussione delle Emozioni (condividendo quelle provate durante l’evento, e comprendendo così
che è “legittimo e normale” sentirsi a disagio dopo un evento critico, e che anche altri colleghi possano
aver avuto emozioni simili alle proprie)

5. Discussione dei Sintomi (eventualmente provati nelle ore o nei giorni successivi all’evento critico)

6. Fornire Informazioni (sulle reazioni post-traumatiche e su eventuali “punti di contatto” in caso di


necessità personali future)

7. Conclusione (che “chiude” l’esperienza, sfumando dopo – a volte – verso una chiusura anche
informale – spesso bevendo e mangiando qualcosa insieme per rinsaldare i legami sociali di gruppo
dopo l’evento critico e la “fatica emotiva” del Debriefing)

Normalmente viene svolto tra le 24 e le 96 ore che seguono l’avvenimento

DIDATICHE SPECIALI O DI CONTESTO

La didattica speciale si fonda sul valore del bagaglio formativo di cui ciascuno dispone e
sull’urgenza di rendere le proposte didattiche flessibili, varie e calibrate sui bisogni di
ciascun individuo all’interno del gruppo-classe.

Gli interventi di sostegno che riguardano l’alunno diversamente abile devono essere
progettati non nell’ottica del semplice supporto al singolo discente ma in quella della
creazione di un clima relazionale e di percorsi didattici in grado di valorizzare la
differenza e di costruire l’apprendimento in modo cooperativo, valorizzando il
contributo di tutti i membri della classe

Lo studio, la classificazione e l’osservazione dei disturbi e delle disabilità devono avere


come scopo l’individuazione di quegli accorgimenti che permettono di organizzare il tempo-
scuola, le modalità di organizzazione del lavoro, le strategie didattiche, in modo tale che
l’alunno disabile possa parteciparvi nel modo più attivo possibile, strutturando la propria
personalità e superando le proprie difficoltà di apprendimento lavorando il più possibile
all’interno del gruppo scolastico di appartenenza.

Microteaching di Kim Romney e Dwight Allen


(Stanford University 1963)
Nasce come pratica formativa per gli insegnanti e come strumento per la ricerca pedagogica. L’obiettivo
consiste nel fornire ai docenti elementi per l’analisi delle proprie pratiche didattiche, in modo da avere “la
possibilità di acquisire le tecniche e le abilità indispensabili per lo svolgimento migliore possibile della
professione”

Inizialmente il microteaching sembrava basarsi sulla teoria del condizionamento operante di Skinner che
può venire applicata per spiegare l’acquisizione di nuovi modelli di comportamento nello schema Teach –
Feedback – Re-teach; in seguito si è orientato sulle indicazioni cognitiviste fino a giungere al piano
della riflessività (Schön) poiché l’insegnante tirocinante può guardare la propria performance e valutarla e,
nel frattempo, il gruppo di tirocinanti analizza criticamente le sessioni videoregistrate, sia proprie che altrui,
favorendo una maggiore consapevolezza rispetto alle azioni professionali.

Il concetto di microteaching si regge su cinque proposizioni: è “didattica applicata“, vengono ridotte alcune
complessità dell’insegnamento “normale“, si basa sull’addestramento a eseguire compiti specifici,
“consente di stabilire qual è il metodo preferibile di tirocinio” e “allarga notevolmente la dimensione del
feedback” ( sul modello dell’agire riflessivo o meta-cognitivo dell’insegnante).

Viene richiesto all’insegnante tirocinante le seguenti 4S in modo che possa mettere in


pratica le abilità di insegnamento in maniera definita e controllata:

1. insegnare un singolo concetto di contenuto; single


2. utilizzare un’abilità specifica di insegnamento; specific
3. per un breve periodo; short period
4. a un piccolo numero di studenti, small number
⇔ Quindi il termine indica l’insegnare una piccola unità di contenuto a un piccolo numero di studenti
in una piccola quantità di tempo utilizzando un’abilità specifica.

L’insegnante tirocinante ripete ciclicamente l’attività finché non padroneggia le abilità tecniche che
si era prefissato di acquisire o migliorare.

Altri ricercatori del microtheaching sono:

1. con la video formazione di Mottet


2. l’analisi plurale dell’Altet
3. la video annotazione di Preston
4. e i video Collaboratòry di Roy Pea

Le didattiche: per concetti, metacognitiva, la didattica dell’errore


La didattica per concetti
La didattica per concetti è quell’orientamento della teoria
dell’insegnamento/apprendimento che si fonda sul concetto di informazione organizzata,
in cui si intrecciano e si fondono:

 i contenuti e le loro procedure di definizione;


 il senso comune e il sapere scientifico;
 l’apprendimento trasmissivo e la conoscenza euristica.

L’idea è quella di progettare percorsi di apprendimento interdisciplinari, partendo


dalla rappresentazione di un tema centrale e dei sottoargomenti ad esso connessi,
attraverso la costruzione di mappe concettuali, ad opera degli alunni, a cui è affidato il
compito di rappresentare i significati dei concetti e le loro reciproche relazioni.

L’obiettivo è l’acquisizione da parte dell’allievo della capacità di trasformare le idee


spontanee in concetti sistematici. Si è già fatto cenno al ruolo che Novak riconosce alle
mappe concettuali come strumento di costruzione della conoscenza e della metacognizione,
grazie alla loro natura di strumenti di rappresentazione delle relazioni tra concetti all’interno
di un dominio di sapere.
Novak individua tre tipologie di mappe concettuali:

1. connettive;
2. associative;
3. basate su rapporti di causa/effetto o di successione cronologica tra le informazioni.

Per quanto riguarda la loro struttura, esse rappresentano relazioni gerarchiche (in cui
ciascun elemento è collegato a quello che lo precede e a quello che lo segue sulla base di
criteri di priorità/propedeuticità/rilevanza) e associative (che evidenziano legami trasversali
tra concetti appartenenti a diverse catene gerarchiche all’interno della mappa

La didattica metacognitiva
La didattica metacognitiva parte dal presupposto dell’insufficienza dell’apprendimento di
nuove conoscenze e dall’idea che l’obiettivo primario di ogni percorso formativo sia
l’acquisizione delle abilità metacognitive in termini di consapevolezza dei processi
cognitivi e di capacità di controllo nell’esecuzione dei compiti mentali. Imparare ad
imparare vuol dire conoscere i fattori che determinano l’apprendimento, essere consapevoli
degli elementi che caratterizzano una situazione di apprendimento (obiettivi, risorse e
difficoltà) e saper strutturare strategie adeguate alla situazione stessa. L’insegnamento ha
il compito di aiutare gli alunni a diventare consapevoli dei propri stili di apprendimento e
di metterli nella condizione di utilizzare in modo ragionato e flessibile gli strumenti per
imparare.

La didattica dell’errore
La didattica dell’errore si fonda sul riconoscimento del valore positivo e potenzialmente
fecondo dell’errore, in cui l’alunno si imbatte nei suoi tentativi di ricerca e apprendimento.
La ricerca dell’errore, la riflessione su di esso e lo sviluppo della capacità di autocorrezione
rappresentano una risorsa nel percorso didattico. Il timore di sbagliare può essere mitigato
mostrando agli alunni come molte conoscenze nuove e utili per la storia dell’umanità siano
nate grazie a un continuo esercizio critico nei confronti del sapere acquisito. Naturalmente
è fondamentale operare una distinzione tra l’errore di disattenzione e di distrazione e
quello in cui si incorre in un procedimento di ricerca per prove ed errori.

L’errore non è più un qualcosa con cui noi puniamo lo studente che ha sbagliato, ma tramite
questo cerchiamo di arrivare alla soluzione, mediando nel contempo le sensazioni di ansia
e di timore. E’ un processo per nulla sottovalutato, in cui si procede di pari passo per prove
e d errori.

La didattica orientativa
La didattica orientativa vanta uno stretto legame con la prospettiva del lifelong learning e
immagina il processo di formazione come percorso in grado di favorire lo sviluppo delle
capacità di iniziativa personale del soggetto nella progettazione,
nella organizzazione e nella gestione del suo progetto di vita.

La scuola e l’extrascuola devono svolgere una funzione orientativa, attraverso la


realizzazione di stili di insegnamento mirati al perseguimento di obiettivi formativi
personalizzati e allo sviluppo di competenze, abilità metacognitive e relazionali oltre che di
saperi.
La scuola e le agenzie formative extrascolastiche sono solo uno dei luoghi
dell’apprendimento, quelli appartenenti al contesto formale. Ad esse si affiancano i luoghi
di lavoro (contesto informale) e quello di vita del soggetto (contesto non formale).
La didattica orientativa, quindi, è centrata sul soggetto che apprende.

La didattica orientativa
La didattica orientativa vanta uno stretto legame con la prospettiva del lifelong learning e
immagina il processo di formazione come percorso in grado di favorire lo sviluppo delle capacità
di iniziativa personale del soggetto nella progettazione, nella organizzazione e nella gestione del
suo progetto di vita.

La scuola e l’extrascuola devono svolgere una funzione orientativa, attraverso la realizzazione di stili
di insegnamento mirati al perseguimento di obiettivi formativi personalizzati e allo sviluppo di
competenze, abilità metacognitive e relazionali oltre che di saperi.

La didattica orientativa, quindi, è centrata sul soggetto che apprende come potenziale autore
del proprio progetto di vita e delle scelte ad esso connesse e si pone come obiettivo lo
sviluppo di una personalità capace di progettare in modo autonomo la propria vita e di auto-
orientarsi.

Per realizzare questi obiettivi deve progettare curricoli flessibili e offrire metodologie
diversificate che siano in grado di sviluppare alcune competenze-chiave:

 autogestione e autovalutazione;
 flessibilità;
 capacità di cogliere la significatività dell’esperienza;
 capacità di valutare per decidere;
 capacità di affrontare i cambiamenti e fronteggiare le situazioni;
 capacità di comunicazione e relazione;
 capacità metacognitive;
 capacità di progettazione;
 capacità di problem solving;
 capacità di collaborare con gli altri in vista di un obiettivo comune.
L’apprendente necessita di acquisire non solo abilità strategiche che gli consentano di
affrontare con efficacia i problemi posti dalla vita ma anche aspirazioni, desideri e obiettivi
adeguati rispetto al mondo e alle proprie caratteristiche.

L’insegnante, in questa ottica, deve individuare i mezzi didattici appropriati per sollecitare
e incoraggiare l’impegno di autocostruzione e le capacità di
autovalutazione dell’apprendente e deve aprire il più possibile la propria disciplina al
rapporto con le altre per lasciare ampio spazio all’emergere degli interessi e delle attitudini
del discente.

Il suo ruolo deve concretizzarsi come azione di affiancamento e di supporto nel percorso
di costruzione delle competenze e di scoperta del sé.
La didattica laboratoriale
Il laboratorio è un ambiente attrezzato, ma, allo stesso tempo, è anche uno “spazio mentale
attrezzato”, una forma mentis, un modo di interagire con la realtà per comprenderla e/o per
cambiarla.

Esso equivale a qualsiasi spazio, fisico, operativo e concettuale, opportunamente adattato ed


equipaggiato per lo svolgimento di una specifica attività formativa.

I laboratori servono a tradurre in competenze pratiche le conoscenze acquisite in via teorica


attraverso i libri di testo oppure ad imparare facendo.

Nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria la didattica laboratoriale supera i confini
materiali delle quattro mura dei locali da laboratorio per invadere l’aula. Al di là della
presenza o meno di laboratori specifici, come l’aula informatica, l’aula di scienze, il
laboratorio per la ceramica e l’arte, infatti, la scuola dell’infanzia e la scuola primaria,
essendo le scuole del “fare” per eccellenza, si basano su una didattica laboratoriale in
senso lato, cioè su una didattica che prevede nella pratica quotidiana il ricorso ad attività
costruttive, concrete, al fine di comprendere praticamente le conoscenze. Si pensi, ad
esempio, all’esperimento delle piantine di legumi (i bambini tengono in classe piantine di
lenticchie, fagioli o piselli in barattoli e le innaffiano, osservano la loro crescita) oppure ai
modelli che possono essere costruiti (il modello di un vulcano in cartapesta oppure il modello
del corpo umano).

La didattica delle STEM e poi STREM (dall’inglese Science,


Technology, Engineering e Math) ed ora R
L’acronimo STEM, dall’inglese Science, Technology, Engineering and Mathematics (in
precedenza anche SMET), è un termine utilizzato per indicare le discipline scientifico-
tecnologiche (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) e i relativi corsi di studio.
In italiano è talvolta anche usato l’acronimo STIM, nel quale la “I” di ingegneria sostituisce il
corrispettivo inglese. i recente è stato proposto di implementare l’acronimo STEM
(dall’inglese Science, Technology, Engineering e Math), che si riferisce alle discipline
accademiche della scienza, della tecnologia, dell’ingegneria e della matematica.
Ciò che differenzia lo studio delle STEM dalla scienza tradizionale e dalla matematica è
il differente approccio. Viene mostrato agli studenti come il metodo scientifico possa essere
applicato alla vita quotidiana. Le STEM consentono di insegnare agli studenti il pensiero
computazionale concentrandosi sulle applicazioni del mondo reale in un’ottica di problem
solving.
Più di recente, inoltre, è sorta anche la necessità di includere la lettura tra le discipline da
tutelare, evolvendo quindi da STEM o STEAM in STREAM – con l’aggiunta della R per
Reading.
L’idea è che la lettura è ancora un elemento che sviluppa senso critico che concorre al
successo di ogni studente. Lettura e scrittura sono fondamenti della
comunicazione, qualsiasi disciplina si insegni.
La didattica per scenari e le metodologie attive
La «Didattica per scenari» introduce pratiche didattiche innovative, potenziate dall’efficace
uso delle nuove tecnologie. Punti di partenza sono gli «scenari», descrizioni di contesti di
insegnamento/apprendimento che incorporano una visione di innovazione pedagogica
centrata sull’acquisizione delle cosiddette «competenze per il XXI secolo». Ogni «scenario»
incorpora una differente visione e fornisce un differente set di indicazioni – le «Learning
Activities» – attraverso le quali il docente/la scuola scrive e implementa il proprio personale
progetto didattico: la «Learning story», incentrato su pratiche didattiche che basate
sull’organizzazione degli studenti in team di lavoro – con precisi ruoli e responsabilità – e un
ruolo decentrato del docente che accompagna i percorsi di apprendimento.

 «Didattica per Scenari» consente ai ragazzi di mettere in campo le loro attitudini e la creatività
lasciando adeguato spazio allo spirito d’iniziativa.

 La partecipazione alle attività in aula basate sull’approccio iTEC ha un impatto positivo


sulla motivazione degli studenti in termini di coinvolgimento nelle attività scolastiche, di
atteggiamento verso l’apprendimento, immersione nell’apprendimento, desiderio di
partecipare ad attività simili.
 Nelle varie fasi di cui si compone «Didattica per Scenari» è possibile osservare come gli
studenti si relazionano tra loro: come comunicano, ascoltano, intrattengono un dialogo, danno
feedback, cooperano e si coordinano come membri di un team, costruiscono rapporti,
risolvono problemi pratici e talvolta conflitti.

La didattica a distanza DAD ed il coronavirus


Con l’impossibilità della presenza fisica a scuola, si è implementata e sviluppata la didattica
a distanza ovvero la D.A.D.

Già da anni l’implementazione dell’uso delle tecnologie dell’informazione e della


comunicazione (TIC) è ormai imprescindibile nella vita quotidiana e anche tra i banchi di scuola. In
una società di “digital natives“, alunni cresciuti in un mondo dominato dalla tecnologia, è
fondamentale per i docenti avvicinarsi alla tecnologia per avvicinarsi agli alunni stessi cercando di
capire il loro mondo (⇒usare linguaggi più affini agli alunni per migliorare il processo di
insegnamento/apprendimento). Se alcuni contenuti della scuola rimangono validi in ogni tempo,
è il modo di trasmetterli che cambia e si adegua alla digitalizzazione. Gli stimoli che offrono la rete
e i pc sono svariati e inoltre coinvolgono più canali sensoriali che certamente favoriscono
l’apprendimento. Le opportunità che offrono le tecnologie sono da considerarsi non soltanto in
relazione allo sviluppo di specifiche conoscenze o abilità, ma a supporto dell’intero processo di
insegnamento/apprendimento per l’acquisizione di competenze complesse come la risoluzione dei
problemi, lo sviluppo di congetture e dimostrazioni. Questo approccio didattico migliora la capacità
degli studenti di applicare conoscenza astratta collocando l’educazione in contesti virtuali autentici,
consentendo loro di svolgere compiti che potrebbero essere difficili o impossibili da vivere nel mondo
reale. Sperimentare quanto il virtuale può rappresentare il reale in contesti didattici significa
anche favorire le diverse intelligenze degli alunni.
I dirigenti scolastici, secondo quanto previsto dal Dpcm dell’8 marzo 2020 , attivano, per tutta la
durata della sospensione delle attività didattiche nelle scuole, modalità di didattica a distanza, con
particolare attenzione alle specifiche esigenze degli studenti con disabilità.
Le tecniche di insegnamento all’interno della didattica laboratoriale
Le tecniche di insegnamento tradizionalmente utilizzate dai docenti si basano sulla
trasmissione delle conoscenze e l’apprendimento avviene, per la maggior parte, in
modo meccanico. È invece importante che l’apprendimento sia significativo, che avvenga
per scoperta, che ogni alunno assuma un ruolo attivo, costruisca il proprio sapere con gli
altri e sia interprete in prima persona dell’acquisizione di conoscenze, abilità e
competenze.

Il più delle volte nelle nostre scuole l’apprendimento avviene attraverso la


memorizzazione delle informazioni e con poche opportunità di rielaborazione
personale e di interazione con altri studenti. Spesso gli alunni assumono un
atteggiamento passivo di fronte alle proposte didattiche, con conseguente
demotivazione: non riescono ad integrare le loro preconoscenze con le nuove ed
esse non diventano significative.

La didattica laboratoriale restituisce un ruolo attivo agli allievi perché favorisce lo


svolgimento di un’azione concreta (non necessariamente di tipo manuale),
realizzata in ambienti specifici, dedicati a una particolare attività. L’alunno è portato
ad agire in prima persona confrontandosi con gli altri, modificando il proprio punto
di vista, accettando mediazioni e diventando in prima persona mediatore. Il docente
indirizza gli allievi nell’affrontare una situazione problematica, li sollecita ad
effettuare scoperte, ad elaborare strategie, a riflettere sulle procedure utilizzate e
scegliere quelle più funzionali al raggiungimento dello scopo del compito.
L’alunno è portato ad avere una maggiore consapevolezza del proprio operato e, agendo in
prima persona, ad aumentare il senso di auto-efficacia e autostima, che hanno una sicura
ricaduta nella motivazione all’apprendimento e, quindi, nella partecipazione alla vita sociale
della classe.

Il laboratorio consente ai docenti di personalizzare alcuni percorsi di


apprendimento, venendo così incontro alle esigenze di tutti gli alunni e in particolar
modo di quelli con bisogni educativi speciali poiché possono, anche con l’aiuto e il
confronto con gli altri, essere protagonisti in prima persona del loro apprendimento,
fare parte del gruppo in modo attivo, svolgere lo stesso compito dei compagni
(anche se con strategie di facilitazione, semplificazione di materiali, riduzione degli
obiettivi).
Il docente, nella fase iniziale, deve proporre un problema reale per suscitare curiosità e per
motivare; poi identificare le fasi del lavoro; stimolare il confronto e la ricerca di soluzioni.

Per organizzare un’attività di questo genere si devono conoscere gli elementi fondanti della
disciplina, le caratteristiche cognitive e affettive dei propri alunni, le loro attitudini e le abilità
sociali di cui sono in possesso. È possibile selezionare una serie di obiettivi che possano
raccordarsi con varie discipline e coinvolgere altri colleghi nella realizzazion
Nella fase ideativa, l’insegnante individua gli obiettivi formativi generali e quelli
didattici specifici, struttura gli spazi identificati in maniera funzionale, predispone i
materiali affinché siamo fruibili direttamente dagli allievi, elabora strategie di
intervento rispetto all’insegnamento delle abilità sociali, stabilisce i tempi di
realizzazione, prevede e comunica agli studenti le modalità di verifica e valutazione
degli esiti. È importante valutare non solo il prodotto ma anche il processo,
fornendo un feedback continuo e positivo rispetto allo svolgimento delle attività
previste.
articolari. Come nelle attività di apprendimento cooperativo, il docente che coordina l’attività
di laboratorio ha la funzione di organizzatore delle conoscenze e dei materiali, facilita
l’interazione tra gli alunni aiutandoli a gestire eventuali problematiche relazionali, li conduce
ad attuare una riflessione meta-cognitiva sul loro operato.

La didattica per laboratori richiede che gli alunni operino in piccoli gruppi per consentire
all’adulto di meglio monitorare lo svolgimento dell’esperienza e intervenire a fronte di
particolari problematicità.
La realizzazione di laboratori didattici viene incontro alle esigenze formative di ciascun
allievo, ai suoi bisogni educativi, può essere adattato e semplificato in base alle
caratteristiche individuali di ciascuno e comporta una buona conoscenza del gruppo e
capacità di progettazione e pianificazione.

Il Laboratorio
Il laboratorio viene considerato come lavoro produttivo, ma anche simulazione mentale
e materiale di un certo fenomeno

Con il lavoro laboratoriale gli alunni dominano il senso del loro apprendimento,
perché producono, perché operano concretamente, perché nel “fare” sanno dove
vogliono arrivare e per quali scopi.
Gli elementi fondamentali della didattica laboratoriale sono:

 la manipolazione concreta;
 l’uso di una procedura cadenzata e precisa;
 la creatività (ogni alunno deve avere la possibilità di personalizzare il lavoro che
sta facendo);
 lo “spiazzamento” cognitivo (ogni alunno deve poter scoprire qualcosa di nuovo e
meravigliarsi di fronte alla scoperta);
 la scoperta si deve situare alla giusta distanza tra ciò che già si conosce e ciò che
non si conosce ancora (mi meraviglio, ma afferro in maniera solida il nuovo
significato);
 la molteplicità dei livelli di interpretazione e la pluralità dei punti di vista;
 la valenza metaforica (richiama o rievoca in me esperienze vissute familiari);
 il coinvolgimento emotivo e cognitivo (imparo agendo)
La didattica laboratoriale si rifà al modello teorico dell’apprendimento attraverso
l’interazione tra pari e si realizza mediante il metodo operativo, composto dai seguenti
elementi:
 la problematizzazione, che consiste nella definizione del problema da affrontare in
vista della soluzione;

 L’operatività, che fa riferimento all’insieme di azioni finalizzate alla


realizzazione di operazioni concrete e mentali;
 la ricerca, che consiste nell’individuazione, nella sperimentazione e nella
valutazione di soluzioni possibili e funzionali;
 il prodotto, che è ciò che di concreto e visibile viene realizzato al termine
dell’attività;
 il controllo, che riguarda la valutazione sia del processo che porta alla
realizzazione del prodotto sia del prodotto stesso, che deve essere funzionale alla
risoluzione del problema assunto, definito e contestualizzato al principio del
percorso;
 la formalizzazione, che è la concettualizzazione dei processi che hanno portato
alla soluzione del problema e della soluzione stessa;
 la documentazione, che è l’insieme dei resoconti dei percorsi seguiti, dei processi
attivati, dei risultati ottenuti.

Tali elementi si traducono in passi operativi, i quali sono:

 organizzazione di un gruppo di lavoro;


 definizione di un compito;
 definizione di un prodotto che sia coerente, rispondente e funzionale ai bisogni posti
dal compito;
 definizione delle aree di responsabilità;
 individuazione degli ambiti operativi e selezione dei compiti di ciascuna area di
responsabilità.

Comunità di pratiche e problem posing


Oltre alla realizzazione del compito e del prodotto, l’esperienza di laboratorio ha come obiettivo lo sviluppo
delle abilità sociali equivalenti al lavorare insieme, rispettare i ruoli e apprezzare il lavoro di ogni
componente del gruppo.

Le esperienze laboratoriali, cioè, consentono di costruire a scuola «comunità di pratiche», in cui gli
apprendenti si confrontano, condividono, interagiscono, dialogano, costruendo conoscenze attraverso un
processo di discussione-costruzione-verifica collegiale.

In questo contesto sono centrali la socializzazione, la relazione, la risoluzione di problemi, che si


inseriscono all’interno di dinamiche di aggregazione-disaggregazione-
riaggregazione degli apprendenti in gruppi mobili ed eterogenei in cui lo studio, la ricerca, la
creatività fanno da collante relazionale.
Al termine della fase di preparazione, il gruppo svolge le operazioni di:

 delimitazione del campo di indagine, attraverso la formulazione di una proposta condivisa;


 discussione-costruzione-verifica collegiale e operativa delle problematiche dell’attività,
finalizzata alla costruzione di quadri interpretativi comuni;
 attivazione delle operazioni mentali del problem posing e del problem solving.
Il problem posing è quella parte dell’attività di problematizzazione che può essere descritta come
l’abilità nel rilevare, sollevare o impostare problemi. Si avvia, dunque, ponendo domande
finalizzate a cogliere i dati di interesse e applicando i relativi interrogativi. Questo procedimento
sviluppa, in chi lo applica, il pensiero divergente, avviando un’attività di ricerca e di scoperta.
Le esperienze laboratoriali permettono all’insegnante di testare l’efficacia dell’insegnamento-
apprendimento, perché osservando gli alunni all’opera è possibile verificare se sono padroni
dell’apprendimento oppure se necessitano di essere guidati, attraverso interventi mirati.

Il ruolo dell’insegnante si articola nelle funzioni di:

 tutorato e consulenza;
 progettazione e organizzazione;
 facilitazione dell’interazione fra diversi soggetti;
 negoziazione.
l motto “si impara facendo” esplicita il fatto che l’essere padroni di una certa competenza è
l’esito del percorso, non il presupposto.
I percorsi laboratoriali, infine, facilitano la metacognizione, perché gli alunni, di fronte ad un
ostacolo, ad un esito negativo, sono invogliati, con l’aiuto dell’insegnante, a tornare indietro, a
ricostruire il percorso di apprendimento e a trovare l’errore per superarlo. Da ciò emerge che
il ruolo degli apprendenti nella didattica laboratoriale è attivo.

Service Learning
Il Service Learning è una proposta pedagogica, metodologica e didattica che unisce il Service (la
cittadinanza, le azioni solidali e il volontariato) e il Learning (un apprendimento significativo).

Il Service Learning chiede agli studenti di compiere concrete azioni solidali nei confronti della
comunità, sostenendo la scuola nella collaborazione con le istituzioni e le associazioni locali. In
questo modo si crea un circolo virtuoso tra apprendimento (Learning) e servizio solidale (Service).

Questa proposta, molto diffusa negli Stati Uniti, nell’America Latina e in molti Paesi europei, sta
incontrando un grande interesse anche in Italia (oggi sostenuta anche dal MIUR, che ha realizzato
una sperimentazione nazionale e promosso la costituzione di reti di scuole del Service Learning in
tutte le regioni italiane).

L’apprendimento per scoperta


L’apprendimento per scoperta è una tecnica pedagogica che non si basa sulla semplice lezione
frontale ma che guida l’alunno in un percorso di apprendimento che lo vede protagonista e scopritore
del mondo.
Il metodo parte dal presupposto che l’allievo deve essere istruito oltre che alla didattica di base anche
all’ osservazione poiché nella vita quotidiana sarà chiamato a vivere molte esperienze che lo
porteranno ad attivare un processo deduttivo che gli permetterà di raggrupparle per fattori comuni.

Tale metodo risulta essere molto valido soprattutto nella prima fase dell’apprendimento dove
il bambino si trova a non concepire appieno una materia astratta e quindi potrebbe aver bisogno di un
metodo “concreto”.
Inoltre la scoperta autonoma può essere un utile metodo per comprendere ciò che può
risultare difficile dato che, attraverso la personalizzazione concreta dell’esperienza, stimola
una significatività intuitiva; è quindi plausibile supporre che tale tecnica autonoma porti ad
un apprendimento e ad una comprensione maggiori a fronte di una motivazione, interesse
e curiosità maggiori.

La didattica metacognitiva e gli studi di FLAVELL


Il termine metacognizione fu coniato da Flavell con il significato di “oltre la cognizione” e
indica, la capacità di riflettere sulle proprie capacità cognitive.
Il termine “metacognizione” risale quindi agli anni Settanta del Novecento in seguito agli
studi condotti nel 1971 dallo psicologo dell’età evolutiva statunitense John H. Flavell sulla
conoscenza riguardo alla memoria e alle attività di memorizzazione che egli chiamò
«metamemoria».

Il fine della didattica metacognitiva è “imparare a imparare”, ovvero attivare


consapevolmente tutte quelle capacità e quelle procedure volte ad acquisire
apprendimenti efficaci e spendibili in contesti differenti ed in situazioni nuove.
“Imparare a imparare” è una delle otto competenze chiave (→key or core competencies)
individuate nelle Raccomandazioni del Consiglio d’Europa del 18/12/2006, che l’allievo
deve possedere, ovvero una delle competenze necessarie ed indispensabili per tutti gli
individui, che forniscono le basi per un apprendimento che dura tutta la vita (lifelong
learning).

La metacognizione, dunque, permette di approfondire i nostri pensieri e, quindi, anche di


conoscere e dirigere i nostri processi di apprendimento. È un processo di autoriflessione sul
fenomeno conoscitivo, su cosa e come stiamo imparando e su quali sono le motivazioni.

L’approccio metacognitivo (Vedi →il metodo cognitivo)rappresenta una modalità privilegiata


per trasmettere contenuti e strategie poiché mira alla costruzione di una mente aperta.
Esso privilegia non cosa l’alunno apprende ma come l’alunno apprende e attiva la
propensione a far riflettere gli studenti su aspetti riguardanti la personale capacità di
apprendere, di stare attenti, di concentrarsi, di ricordare. In questo senso, la didattica
metacognitiva non è specifica di una disciplina ma assume una dimensione trasversale in
quanto richiede allo studente di acquisire un atteggiamento attivo e responsabile rispetto
all’apprendimento e lo aiuta ad arricchire il proprio bagaglio intellettuale attraverso
domande, investigazioni e problemi da risolvere.

Il termine metacognizione viene usato […] per designare la consapevolezza ed il controllo


che l’individuo ha dei propri processi cognitivi. Il termine, che ha un significato generale,
viene talvolta sostituito da termini più specifici in relazione ai diversi tipi di processi in cui si
esercitano tale consapevolezza e controllo: meta-memoria, meta-comprensione, meta-
attenzione, e così via.

https://www.orizzontescuola.it/lapprendimento-significativo-e-per-scoperta-di-cosa-si-
tratta/
La didattica collaborativa o cooperative learning
Può essere definita “un metodo di apprendimento-insegnamento in cui la variabile significativa è
la cooperazione tra gli studenti” o “un insieme di tecniche di classe nelle quali gli studenti lavorano
in piccoli gruppi per attività di apprendimento e ricevono valutazioni in base ai risultati
conseguiti.
La didattica cooperativa punta al miglioramento dei processi di apprendimento e
socializzazione attraverso la mediazione del gruppo (in genere di utilizzano piccoli gruppi in
cui gli studenti lavorano insieme), i cui membri devono agire sentendosi positivamente
interdipendenti tra loro. Si tratta di una metodologia fondata sulla convinzione
dell’importanza dell’interazione e della cooperazione nella scuola come mezzo
di promozione umana e sociale. Inoltre, nel cooperative learning il contatto con i coetanei
più capaci all’interno del gruppo consente di operare reciprocamente all’interno delle zone
di sviluppo prossimale di ciascuno, ottenendo risultati migliori di quelli conseguibili con le
normali attività individuali.

RUOLO DEL DOCENTE


il docente assume il ruolo di tutor:
 favorisce l’interazione tra gli studenti
 stimola la discussione
 facilita l’apprendimento ricorrendo a continue stimolazioni (domande, verifice, etc.)

CARATTERISTICHE POSITIVE DEL COOPERATIVE LEARNING


 sviluppo di un legame concreto tra studenti: il lavorare insieme per un progetto comune
agevola il successo dell’impresa
 interazione faccia a faccia: garantisce processi di reciproco apprendimento e
incoraggiamento
 stimolo alla responsabilizzazione verso se stessi e verso l’altro.
 sviluppo di abilità sociali (saper ascoltare, essere disponibili, condividere decisioni, gestire i
conflitti)

La didattica tecnologica
L’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) è ormai imprescindibile
nella vita quotidiana e anche tra i banchi di scuola. In una società di “digital natives“, alunni cresciuti
in un mondo dominato dalla tecnologia, è fondamentale per i docenti avvicinarsi alla tecnologia per
avvicinarsi agli alunni stessi cercando di capire il loro mondo (⇒usare linguaggi più affini agli
alunni per migliorare il processo di insegnamento/apprendimento).
Si ricorda cosa s’intende con il concetto di Digital Nativers (domanda possibile di una preselettiva).
Con il coronavirus e nella fase epidemiologica moltissimo è cambiato nel mondo sia della FAD
(Formazione a Distanza), sia della DAD (Didattica a distanza).

Il digitale cambia il modo di trasmettere i contenuti.

Gli stimoli interattivi cambiano lo scenario dell’apprendimento. La rete e i pc sono svariati e inoltre
coinvolgono più canali sensoriali che certamente favoriscono l’apprendimento.

Le opportunità che offrono le tecnologie sono da considerarsi non soltanto in relazione allo sviluppo
di specifiche conoscenze o abilità, ma a supporto dell’intero processo di
insegnamento/apprendimento per l’acquisizione di competenze complesse come la risoluzione dei
problemi, lo sviluppo di congetture e dimostrazioni.

Questo approccio didattico migliora la capacità degli studenti di applicare conoscenza astratta
collocando l’educazione in contesti virtuali autentici, consentendo loro di svolgere compiti che
potrebbero essere difficili o impossibili da vivere nel mondo reale.

Gli studenti pensano e apprendono in ambienti che sono veloci, multimediali, multimodali, interattivi,
digitali.

Dal punto di vista del sostegno didattico, si ricorda il valore delle stimolazioni multiple e
creative verso soggetti BES.
Il virtuale e l’interattività può rappresentare in tali contesti metodo didattici innovativi ed
originali, significa anche favorire in pratica le diverse intelligenze degli alunni.

PARTE II.
L’ALUNNO E LA SUA SPECIFICITÀ – IL BISOGNO EDUCATIVO
SPECIALE.
BES
Considerando che B.E.S.: B.isogni E.ducativi S.peciali è la parola che indica tutte le
condizioni di “disagio educativo”, vanno distinte le situazioni derivanti da difficoltà di
apprendimento, disabilità o DSA, dovute a condizioni genetiche o a disabilità certificata (l.
104) da quelle di natura socio-economiche, ambientali e/o linguistiche ⇒ in questo ultimo
caso parleremo di situazioni di svantaggio.

“Il Bes è qualsiasi difficoltà evolutiva in ambito educativo e/o apprenditivo, che consiste in un
funzionamento (frutto dell’interrelazione reciproca dei sette ambiti
della salute secondo il modello ICF) problematico anche per il soggetto, in termini di danno,
ostacolo o stigma sociale, indipendentemente dall’eziologia, e che necessita di educazione speciale
individualizzata”.

Tre tipi di BES ed il bisogno educativo speciale


Le tre grandi classi di alunni con BES individuate dal punto di vista normativo e dei
documenti didattici sono dunque:

1. alunni che presentano disabilità derivanti da deficit o patologie: la scuola realizza per loro
il PEI
2. alunni con Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA): la scuola realizza per loro il PDP
3. alunni che si trovano in una situazione di SVANTAGGIO o presentano altre situazioni di
difficoltà nell’apprendimento di natura ambientale, culturale, economica, sociale, linguistica
nel senso di proveniente da contesti non italianofono.
Le forme dell’azione didattica e il clima della vita delle classi e della scuola devono
essere inclusivi al punto che tutti gli alunni della classe e della scuola, normodotati, con
disabilità o con serie difficoltà – vivano e sentano la scuola come contesto commisurato
alle diverse esigenze della loro crescita personale nell’apprendimento e nella relazione
sociale con compagni e docenti.
Gli alunni che presentano bisogni educativi più complessi, cioè, appunto, speciali, possono
essere raggruppati, dal punto di vista normativo, in tre grandi classi. Due di esse godono
di importanti tutele a livello legislativo – la L. 104/1992 (situazioni di disabilità) e la L.
170/2010 (DSA). La terza, che non si avvale di leggi specificamente dedicate, è costituita
da tutte le situazioni di difficoltà di apprendimento: la Direttiva Ministeriale del 27
dicembre 2012 (“Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e
organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”), che è dedicata a tutti gli alunni con
bisogni educativi speciali, è rivolta soprattutto a questa terza classe di situazioni.

Si tratta di normativa di rango evidentemente molto inferiore a quello delle leggi, ma


ugualmente di grande significato per le scuole e l’amministrazione scolastica, che sono
tenute ad osservarla.

http://www.marche.istruzione.it/dsa/allegati/dir271212.pdf

ICF. Audiolezione

ICF. secondo questa classificazione sono espresse le diverse diagnosi riguardanti gli alunni
che hanno certificazione disabilità. Abbiamo in rosso i ritardi mentali ritardo mentale lieve,
medio, grave ritardo mentale profondo. Spesso le domande della preselettiva giocano su
queste parole invece di mettere ad esempio ritardo lieve mentale lieve, mettono superficiale
oppure invece di mettere il ritardo mentale profondo e più grave possono mettere ritardo
mentale acuto quindi bisogna imparare almeno le definizione specifiche.Da questa
definizione i ritardi possono essere lievi, di media gravità o profondi. Abbiamo già visto che
ci sono i disturbi evolutivi specifici e del linguaggio cioè nel senso che le balbuzie difficoltà
nel parlare magari anche le difficoltà nel articolari suoni questi sono tutti i disturbi evolutivi
perché siamo di fronte alla fase evolutiva dei ragazzini, loro crescono cambiano e gni
bambino in una fase di crescita potrebbe cambiare.Poi ci sono disturbi evolutivi specifici
delle abilità scolastiche e quindi che comprende la dislessia, incapacità di saper leggere e
di confondere alcune lettere. Oppure disturbi evolutivi specifici misti, abbiamo l'autismo
infantile atipico, sindrome di Rett sino ad arrivare all'Asperger. Poi abbiamo il disturbo di
attività e dell'attenzione, disturbi legati alla all'attenzione, l'iperattività, alla concentrazione,
il disturbo ipercinetico della condotta, sindrome ipercinetica oppure abbiamo disturbi della
sfera emozionale. Dobbiamo sempre cercare di capire che non è che dobbiamo imparare a
memoria ma capire che cosa si intende per disturbo, quindi la compatibilità del tipo di
disturbo dell'attenzione, disturbi specifici, disturbo esplicito Ai ritardi di tipo mentale viene
associato il Q.I. che sarebbe il quoziente intellettivo o intellettuale. Noi possiamo avere
ragazzi di 18 anni che hanno il cervello di un bambino di 6 anni quindi qui può essere che
un numero del QI indica il livello di questa gravità. Più sarà basso il quoziente intellettuale
più il ritardo sarà grave. Esempio di domanda sulla disprassia che è un disturbo evolutivo
specifico delle abilità motorie e riguarda quei ragazzi che hanno difficoltà proprio nella
manipolazione degli oggetti o non hanno il controllo del proprio corpo fanno dei movimenti
stereotipati che loro non riescono a controllare con le braccia o con le gambe.

Struttura dell’ ICF


In sostanza l’ICIDH valutava i fattori di disabilità iniziando dalla menomazione [meno– mazione,
avere qualcosa in meno della normalità o di un normodotato], mentre l’ICF valuta le abilità residue
dell’individuo (tale ottica è evidente sin dal nome dello standard, ovvero “classificazione
internazionale delle funzionalità”), sostituendo al concetto di “grado di disabilità” quello di “soglia
funzionale”.
L’uso appropriato delle parole disabilità, menomazione, handicap è molto importante, sono
parole chiave che possono essere usate e si possono trovare nella pre-selettive, devono
accendere un campanello di allarme nella mente del candidato.

ALLE DOMANDE SI RISPONDE SE CI CAPISCE LA PAROLA CHIAVE E LE SUE


SFUMATURE DI SIGNIFICATO

Ciò che è fondamentalmente diverso è l’ambito di applicazione: mentre l’ICIDH è limitato al semplice
ambito della disabilità, l’ICF descrive i vari gradi di funzionalità partendo dall’interazione dei suoi fattori.

Lo schema illustra le interferenze delle condizioni fisiche e dei fattori di contesto (ambientali o
personali) con le attività della persona. Il corpo comprende due classificazioni, una per le funzioni
dei sistemi corporei e una per le strutture corporee. La partecipazione comprende la vasta gamma
dei domini che indicano gli aspetti del funzionamento da una prospettiva sia individuale che
sociale.

Le principali definizioni adottate comprendono:

 funzioni corporee: sono le funzioni fisiologiche dei sistemi corporei, incluse le funzioni
psicologiche;
 strutture corporee: sono le parti anatomiche del corpo, come gli organi, gli arti e le loro
componenti;
 menomazioni: sono i problemi nella funzione e nella struttura del corpo, intesi come
deviazioni o perdite significative;
 attività: è l’esecuzione di un compito o di un’azione da parte di un individuo;
 partecipazione: è il coinvolgimento in una situazione di vita;
 limitazioni delle attività: sono le difficoltà che un individuo può incontrare nello svolgere
delle attività;
 restrizioni della partecipazione: sono i problemi che una persona può sperimentare nel
coinvolgimento all’interno di situazioni di vita;
 fattori ambientali: sono l’insieme degli atteggiamenti, dell’ambiente fisico e sociale in cui
le persone vivono e conducono la loro esistenza.

L’ICF consente di misurare, comprendere, descrivere, valutare, comunicare, programmare; Nel


campo dell’istruzione, rileviamo che il modello concettuale dell’ICF va nella direzione di una politica
scolastica inclusiva sulla speciale normalità, arricchimento delle normali risorse scolastiche
attraverso varie fasi:
 «narrazione» del funzionamento di ogni soggetto;
 griglia di lettura dei «bisogni educativi speciali»;
 informazione e sensibilizzazione degli alunni e del personale nei confronti della disabilità e
delle difficoltà di apprendimento non certificate;
 modifica di orari, tempi scuola, formazione classi, classi aperte;
 metodologie con gruppi cooperativi, tutoring, didattica laboratoriale, mappe concettuali,
didattiche plurali, life skills, riflessioni metacognitive;
 superamento dello stereotipo dello specialista del settore sanitario «tuttologo»;
 abbandono della posizione di delega;
 attivazione della pluralità dei contributi;
 implementazione di letture e linguaggi diversificati;
 consapevolezza dell’inefficacia dell’idea di stabilità delle interpretazioni;
 regia di sintesi, finalizzata al miglioramento della prassi scolastica.
Le azioni proposte

 Raccolta delle esperienze pregresse attraverso un questionario di autoanalisi


 Analisi critica delle esperienze pregresse per individuare i punti di forza e di debolezza
 Conoscenza e approfondimento del modello ICF
 Trasformazione della diagnosi funzionale «tradizionale» secondo l’ICF
 Strutturazione del Piano Educativo Individualizzato – Progetto di vita

L’ICF permentte di conoscere la persona nella sua realtà globale.

Attraverso le categorie dell ICF è possibile avere una descrizione del tutto neutrale di
quelli che vengono chiamti il funzionamento e la disabilità di una persona, ovvero gli
elementi che determinano la sua condizione di salute. L’ICF descrive il funzionamento
“aspetti positivi di una persona”, le disabilità “aspetti negativi” e i fattori contestuali ovvero
l’influenza che l’ ambiente può avere sul funzionamento stesso della persona.

Aspetti medici e aspetti sociali sono strettamente correlati e insieme definiscono la


problematicità nel suo complesso. L’ICF è un linguaggio internazionale.

La descrizione del funzionamento di una persona rappresenta il complemento alla


diagnosi (ICD), infatti si va oltre la malattia per cercare di capire quali siano gli effetti di
questa sulla totalità della vita di una persona, viene utilizzato a scuola per migliorare la
qualità della vita e promuovere le opportunità delle persone con disabilità.
Modelli della disabilità Da alcuni decenni, cresce nelle nostre società l’attenzione alla
problematica delle pari opportunità dei disabili.

Modello individuale (o modello medicale)


Il modello individuale, comparso all’indomani della Prima guerra mondiale e basato su un
approccio biomedico, definisce la disabilità un deficit corporeo, psichico o mentale che
colpisce una persona, limitandone la partecipazione sociale. Questo modello segue una
logica di causa-effetto: una malattia o un trauma provoca un deficit nell’organismo, a cui
consegue l’incapacità di fare determinate cose, la quale produce uno svantaggio sociale o
un handicap. Secondo questo approccio, la disabilità deriva quindi chiaramente dal deficit
di un individuo. Gli interventi proposti vertono principalmente sulle cure e mirano alla
guarigione del singolo o per lo meno al suo riadattamento alla società, come avviene con le
persone «valide».

Modello sociale
In risposta a questa visione della disabilità in termini prettamente medici, a partire dagli anni
1960 diversi movimenti di persone con handicap sviluppano un approccio nuovo che dà vita
al modello sociale. Secondo questo modello, l’handicap è il risultato dell’inadeguatezza della
società alle specificità dei suoi membri e ha origini esterne all’individuo. Il genere d’interventi
proposti cambia: l’approccio sociale abbandona l’ideale di guarigione, per promuovere lo
sviluppo delle capacità di cui la persona dispone, allo scopo di renderla autonoma nel
quotidiano. Questo modello persegue anche l’eliminazione delle barriere architettoniche e
sociali e promuove l’adeguamento dell’ambiente e dei servizi, affinché le persone affette da
disabilità fisiche o psichiche possano fruirne.

Modelli interattivi
In reazione alle visioni parziali proposte dai due modelli tradizionali, si è sviluppato un terzo
modello che considera la disabilità il risultato dell’interazione di diversi fattori. Nella sua
nuova classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute (CIF
o CIDIH), l’OMS descrive la disabilità tentando di prendere in considerazione gli aspetti
individuali e ambientali che la determinano. Ancora più attento alle diverse correlazioni è il
modello di processo di produzione della disabilità (PPH), sviluppato negli anni 1980 in
Canada da Fougeyrollas e i suoi collaboratori. Questi nuovi approcci integrativi e dinamici
tentano di superare il determinismo individuale del modello medicale e il determinismo
esterno di quello sociale.

Alunni che presentano deficit o patologie che danno luogo a


situazioni di disabilità
Questa prima tipologia di bisogni rientra nelle previsioni della L. 104/1992 (“Legge quadro
per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”).

Si tratta di uno spettro di situazioni di disabilità molto ampio, ma riconducibile alle due macro-
categorie di disabilità psico-fisiche e disabilità sensoriali.

Riportiamo di seguito le più diffuse, ricordando però che spesso deficit e patologie diverse
si presentano associate nello stesso soggetto (ad es. paralisi cerebrale infantile – dunque
paraplegia o tetraplegia – e ritardo mentale e ipovisione, ecc.).

La gamma di situazioni che vengono comprese nell’ambito delle disabilità psicofisiche è


ampissima ma va ricordato che nelle forme lievi può non essere necessario procedere alla
certificazione ai sensi della L. 104/1992

Difficoltà nell’apprendimento scolastico derivanti disturbi specifici


(non DEFICIT)
Le difficoltà di apprendimento scolastico posso derivare da veri e propri disturbi che presentano
una base neurobiologica più o meno importante, pur non riguardando in alcun modo i processi di
intelligenza, che non ne sono toccati. Non ci troviamo cioè difronte a un ritardo mentale o a problemi
di tipo cognitivo.

In questo ambito va precisato che, ancora la distinzione tra DSA che sono i 4 che abbiamo più volte
ribadito e la domanda della pre-selettiva che tende a confonderli con quelli con Disturbo non
specifico.

Nell’ultima versione del DSM-5 il disturbo specifico dell’apprendimento (DSA) figura tra i disturbi
del neurosviluppo.
È un disturbo con esordio durante gli anni della formazione scolastica ed è caratterizzato da
persistenti e progressive difficoltà nell’apprendere le abilità scolastiche di base Per poter parlare di
disturbo dell’apprendimento tali difficoltà devono presentarsi per almeno sei mesi. Quest’ultime
impediscono al bambino di poter apprendere la materia di studio stessa per questo il rendimento
scolastico non è soddisfacente

Include le diagnosi di Disturbo della Lettura, Disturbo del Calcolo, Disturbo dell’Espressione
Scritta

Descrizione del disturbo specifico dell’apprendimento


I disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) riguardano un gruppo di disabilità in cui si
presentano significative difficoltà nell’acquisizione e utilizzazione della lettura, della scrittura
e del calcolo.
La principale caratteristica di questa categoria è proprio la “specificità”, ovvero il disturbo
interessa uno specifico e circoscritto dominio di abilità indispensabile per l’apprendimento
(lettura, scrittura, calcolo) lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale. Ciò
significa che per avere una diagnosi di dislessia, il bambino non deve presentare deficit di
intelligenza, problemi ambientali o psicologici, deficit sensoriali o neurologici.

La Dislessia è una disabilità specifica dell’apprendimento caratterizzata dalla difficoltà ad


effettuare una lettura accurata e/o fluente. Il bambino, all’inizio del percorso di
scolarizzazione, mostra difficoltà a riconoscere le lettere dell’alfabeto, a fissare la
corrispondenza fra segni grafici e suoni e ad automatizzare tale processo di conversione.
Tale difficoltà si ripercuote sull’apprendimento scolastico e sulle attività di vita quotidiana
che richiedono la lettura di testi scritti
La Disortografia è uno dei disturbi specifici dell’apprendimento che riguarda la componente
costruttiva della scrittura, legata quindi agli aspetti linguistici, e consiste nella difficoltà di
scrivere in modo corretto da un punto di vista ortografico. Il bambino disortografico presenta
una difficoltà nell’applicare le regole di conversione dal suono alla parola scritta e quindi a
riconoscere i suoni che compongono la parola, a individuare le regolarità o irregolarità
ortografiche e a individuare il corretto ordine con cui questi elementi si compongono.
La Disgrafia riguarda la componente esecutiva, grafo-motoria (scrittura poco leggibile); si
riferisce alla difficoltà di scrivere in modo fluido, veloce ed efficace. Il bambino disgrafico
può presentare una cattiva impugnatura della penna o matita, poca capacità di utilizzare lo
spazio nel foglio, difficoltà nel produrre forme geometriche e nella copia di immagini,
alternanza tra macro e micrografia.
La Discalculia riguarda la difficoltà a comprendere ed operare con i numeri e la difficoltà
automatizzare alcuni compiti numerici e di calcolo. Il bambino discalculico può presentare
difficoltà nella cognizione numerica (meccanismi di quantificazione, seriazione,
comparazione, capire il valore posizionale delle cifre, associazione numero quantità,
eseguire calcoli a mente) nelle procedure esecutive (lettura, scrittura, messa in colonna dei
numeri) e di calcolo (recuperare i risultati delle tabelline, recupero dei fatti numerici e
algoritmo del calcolo scritto.

Diagnosi dei disturbi specifici dell’apprendimento


Si tratta Cause del disturbo specifico dell’apprendimento
Non vi è una risposta univoca rispetto a quali siano le cause dei DSA. Vi è accordo, però,
rispetto al riconoscimento dell’origine neurobiologica del disturbo.

La sua espressione, peraltro così eterogenea, è mediata e modulata da fattori ambientali.

Tra le cause sono state principalmente indagati i fattori genetici e quelli acquisiti (sofferenza
cerebrale precoce, lesioni di varia natura, ritardi maturativi, ecc.).

L’esperienza clinica e i dati riportati da numerose ricerche suggeriscono che i disturbi


specifici dell’apprendimento si presentano frequentemente associati a disturbi emotivi e
comportamentali. La comorbilità fra i disturbi specifici dell’apprendimento e disturbi di tipo
internalizzanti o esternalizzanti è tra il 25-50%. Le categorie diagnostiche maggiormente
riscontrate riguardano il deficit di attenzione e iperattività; il disturbo oppositivo-provocatorio;
i disturbi della condotta; il disturbo depressivo; i disturbi di ansia.
di disturbi distinti ciascuno con una propria fisionomia ma che spesso nella pratica clinica
risutano spesso associati fra loro.

La diagnosi di dislessia, disgrafia e disortografia, di discalculia, viene fatta in seguito ai


risultati di test specifici. Questi sono volti ad accertare lo stato degli apprendimenti delle
abilità strumentali, il funzionamento cognitivo, neuropsicologico ed emotivo.

I Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) costituiscono una delle patologie più


frequentemente inviate ai servizi del territorio. La prevalenza nella popolazione italiana è
stimata tra l’2,5% ed il 3,5% (ISS, 2011). La rilevanza dell’argomento è dovuta oltre che alla
sua alta prevalenza, anche alle conseguenze che questi disturbi determinano a livello
individuale, traducendosi spesso in abbassamento del livello scolastico conseguito e
conseguente riduzione della realizzazione delle proprie potenzialità sociali e lavorative.

Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP)


La diagnosi di Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP) si applica a bambini che
esibiscono livelli di rabbia persistente ed evolutivamente inappropriata, irritabilità,
comportamenti provocatori ed oppositività, che causano menomazioni nell’adattamento e
nella funzionalità sociale.

Un bambino al quale viene posta questa diagnosi, deve mostrare tali sintomi in maniera
persistente per almeno 6 mesi e i sintomi devono causare menomazione nel funzionamento
personale e sociale. Una storia precoce di DOP è spesso presente in bambini che vengono
successivamente diagnosticati come Disturbo della Condotta (DC). Il DOP emerge
solitamente in maniera più precoce (di solito intorno ai 6 anni) rispetto al DC (età di esordio
intorno ai 9 anni). Ad ogni modo, molti bambini vengono diagnosticati come DOP in età
preadolescenziale
Sintomi del Disturbo Oppositivo Provocatorio
A – Una modalità di comportamento negativistico, ostile e provocatorio che dura da almeno
6 mesi, durante i quali sono stati presenti 4 (o più) dei seguenti criteri:
 spesso va in collera;
 spesso litiga con gli adulti;
 spesso sfida attivamente o si rifiuta di rispettare le richieste o regole degli adulti;
 spesso irrita deliberatamente le persone;
 spesso accusa gli altri per i propri errori o il proprio cattivo comportamento;
 è spesso suscettibile o facilmente irritato dagli altri;
 è spesso arrabbiato e rancoroso;
 è spesso dispettoso e vendicativo.
B – L’anomalia del comportamento causa compromissione clinicamente significativa del
funzionamento sociale, scolastico o lavorativo.
C -I comportamenti non si manifestano esclusivamente durante il decorso di un Disturbo
Psicotico o di un Disturbo dell’Umore.
D – Non sono soddisfatti i criteri per il Disturbo della Condotta, e, se il soggetto ha 18 anni
o più, non risultano soddisfatti i criteri per il Disturbo Antisociale di Personalità.

Disturbo della condotta e sintomo

Descrizione del disturbo della condotta


La caratteristica clinica principale del Disturbo della Condotta è la sistematica e persistente violazione
dei diritti dell’altro e delle norme sociali, con conseguenze molto gravi sul piano del funzionamento
scolastico e sociale. La fenomenologia del disturbo si caratterizza principalmente per la presenza di
aggressività a diversi livelli. I bambini e gli adolescenti con disturbo della condotta possono mostrare
un comportamento prepotente, minaccioso o intimidatorio, innescare intenzionalmente
colluttazioni, rubare affrontando la vittima, costringere l’altro a fare cose che non vuole, fino
all’abuso sessuale.

I comportamenti sintomatici più importanti assumono la forma di vere e


proprie aggressioni perpetrate a danno di persone o animali, aggressioni che nei casi più
gravi si traducono in episodi di stupro, violenza e omicidio (APA 2002) e che sembrano
essere accompagnate da una particolare riduzione del senso di colpa.

Il disturbo è considerevole per le pesanti conseguenze personali e sociali che la questione


presenta. Ci possono essere situazioni di:

Aggressioni a persone o animali, distruzione della proprietà, frode o furto, gravi violazione
di regole.

Vi sono alunni che presentano ADHD, cioè Disturbo dell’Attenzione e Iperattività (vedi
disturbi e sottotipi di DSA) ma questo non sono dei DSA perchè i problemi di attenzione
e di irrequietezza bastano di per sé a creare l’insuccesso scolastico, ma ad essi si
aggiungono frequentemente problemi di irregolarità nei comportamenti con conseguenze
relazionali e adattative importanti e a volte con esiti di DOP (Disturbo Oppositivo
Provocatorio) o di DC (Disturbo del Comportamento). Tra questi vi sono
 alunni con diagnosi di ADHD;
 alunni con ADHD non diagnosticato;
 alunni non diagnosticabili, ma che presentano la stessa problematica di attenzione,
irrequietezza e impulsività ad un livello inferiore, che si può definire subclinico.
Rientrano in questa sottocategoria anche gli alunni che presentano il solo Disturbo
dell’Attenzione e che spesso non vengono diagnosticati perché non sorge il sospetto che
il problema possa avere rilievo clinico. Anche questo disturbo, naturalmente, a volte non ha
rilievo clinico ma, pur assumendo forma più lieve, incide sul percorso scolastico del ragazzo
e, avendo base neurobiologica, il suo miglioramento è molto problematico.

Alunni con stati di ansia o fobia scolare in relazione all’allontanamento da casa per recarsi
e rimanere a scuola, o con reazione di rifiuto psicologico rispetto alla scuola vista
come costrizione (disturbo più presente a livello della scuola dell’infanzia, primaria e
secondaria di primo grado).

Infine gli alunni borderline sia di tipo comportamentale che di tipo cognitivo, o con
comportamenti misti, che presentano una scarsa dotazione intellettuale, un quoziente
intellettivo normale, ma vicino al limite del ritardo mentale. Hanno pertanto difficoltà
molto serie nell’apprendimento e richiedono non solo cura, ma obiettivi differenziati che
permettano loro di riconoscersi in un percorso sufficientemente gratificante di
apprendimento e di inserimento nel contesto.

Classificazioni internazionali e principali manuali diagnostici


Dalla contenzione all’inclusione: un’epocale inversione storica
A lungo la diversità ha determinato la percezione di una incolmabile distanza e dell’impossibilità
di qualunque integrazione sociale tanto da vedere nella contenzione, nella medicalizzazione o
nella reclusione le uniche forme di coesistenza possibile. La lenta progressione verso il
riconoscimento e la tutela dei diritti dei disabili non è mancata nel corso dei secoli, ma solo a
partire dalla seconda metà del secolo scorso essa ha assunto il carattere di una vera e propria
inversione culturale, come testimonia l’evoluzione degli strumenti diagnostici e
delle classificazioni internazionali. L’approccio sanitario lascia gradualmente spazio ad un
approccio globale, legato alle potenzialità ed alle risorse del soggetto in rapporto al contesto
personale, culturale, sociale, come insieme di condizioni che favoriscono o ostacolano
l’espressione di tali risorse, secondo il principio per cui la disabilità è una condizione di salute in
un ambiente sfavorevole. Visione della disabilità nel Novecento:

 la disabilità come una sfortuna di cui nessuno ha colpa: ciò causa una reazione di pietà da
parte della collettività che sfocia in interventi di tipo caritativo-assistenziale. In tale
prospettiva il soggetto disabile viene considerato “invalido” e lo Stato si fa promotore di
iniziative di affiancamento e aiuto;
 la disabilità come pregiudizio alla salute della persona: il disabile, considerato in questo
caso “malato”, è in cura presso un medico che ne tratta la patologia. Lo Stato in questa
prospettiva svolge il suo intervento in favore della ricerca scientifica, della medicina
riabilitativa ed investe in strutture ospedaliere e formazione medica specifica.
 Solo a partire dagli anni ’60 si afferma con la pedagogia speciale l’idea secondo cui
la disabilità è una condizione umana che procura un forte rischio di discriminazione
sociale. Da ciò deriva un terzo approccio secondo cui:

La disabilità è uno svantaggio sociale: essa riguarda dunque la dimensione sociale della persona.
La società è quindi responsabile dell’eliminazione di ogni barriera che non permetta il godimento
dei diritti da parte dei cittadini con disabilità (approccio sociale alla disabilità). In questa prospettiva
l’intervento dello Stato è finalizzato all’eliminazione delle discriminazioni basate sulle disabilità ed
alla promozione di azioni volte a tutelare il diritto all’uguaglianza nella diversità, inteso come
parità di opportunità.

Dall’handicap alla diversa abilità: l’evoluzione terminologica

L’evoluzione progressiva verso il riconoscimento e la tutela dei diritti dei disabili si è


accompagnata ad un’evoluzione terminologica, alla ricerca di una definizione che
valorizzasse la persona più che la sua diversità. In Italia, già all’approvazione della L.
104/1992, l’espressione persona handicappata, utilizzata dalla legge per definire lo stato di
disabilità, suscitò aspre critiche da parte di chi vedeva nell’uso dell’aggettivo
“handicappato” una diminuzione della “persona” che veniva in quel modo qualificata dal
suo handicap. D’altro canto, l’handicap, pur derivando da una menomazione, non può con
questa essere identificato: si tratta di uno svantaggio che per esistere deve essere vissuto
in una determinata situazione, anzi è proprio quella situazione che lo genera. In questa
prospettiva non solo l’aggettivo handicappato, ma anche l’espressione “portatore di
handicap” risulta impropria; invece, sarebbe più corretto parlare di persona in situazione di
handicap, proprio per sottolineare che l’handicap non lo si porta mai con sé, lo si trova in
un contesto che lo crea nel momento in cui richiede prestazioni di abilità superiori a quelle

che una persona con una menomazione è in condizione di offrire .


È significativo notare come la rivendicazione del diritto all’uguaglianza nella diversità – ossia
la parità di opportunità – sia connessa all’etimologia del termine handicap e come
quest’ultimo nasca con accezione positiva ed impropriamente inteso con connotazione
negativa. Il termine nasce infatti con un’accezione positiva che intende identificare un
livellamento dei vantaggi ed un azzeramento delle differenze iniziali. Se usata
correttamente, quindi, la parola non dovrebbe avere la valenza negativa che il suo improprio
utilizzo e l’uso corrente hanno poi di fatto determinato.

La parola di origine inglese hand-in-cap (che letteralmente significa “mano nel berretto”)
era il nome di un gioco d’azzardo diffuso nel Seicento. Il gioco si basava sul baratto o
scambio, tra due giocatori, di due oggetti di diverso valore; il giocatore che offriva l’oggetto
che valeva meno doveva aggiungere a questo la somma di denaro necessaria per arrivare
al valore dell’altro oggetto, così che lo scambio potesse avvenire alla pari. Da allora, il
termine handicap è passato nel linguaggio sportivo internazionaleIl termine fu presto preso
in prestito dal mondo ippico per descrivere la necessità di “zavorrare” i cavalli più leggeri e
di conseguenza più avvantaggiati in quanto più esili, in modo tale da permettere a tutti i
cavalli di partire con le stesse possibilità di vittoria. Dal significato originale legato al gioco e
allo sport la parola handicap è stata poi utilizzata alla fine dell’Ottocento per indicare in
generale il modo di equilibrare una situazione compensando le diversità; quindi è diventata
sinonimo di ‘impedimento imposto’ e infine semplicemente di ‘impedimento’. Solo agli inizi
del Novecento questa parola è stata adoperata in riferimento ai disabili e applicata ai
bambini che avevano una menomazione fisica.

Organizzazione Mondiale della Sanità e classificazioni internazionali


L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pertanto proposto una serie di strumenti di
classificazione che potessero consentire una migliore osservazione ed analisi delle
patologie organiche, psichiche e comportamentali degli individui, al fine di migliorare la
qualità delle diagnosi e, di pari passo, la qualità degli interventi.

L’OMS nel al 1970 parla di ICD ICD – International Classification of Diseases significa
ancora l’attenzione sul concetto di malattia; lo strumento classificatorio tende infatti ad
individuare le cause delle patologie fornendo per ognuna di esse una descrizione delle
caratteristiche cliniche e limitandosi a tradurre i dati raccolti dall’analisi in codici numerici. Si
tratta di una classificazione ancor oggi in uso, sebbene periodicamente aggiornata, che
disegna un valido strumento per gli studi statistici ed epidemiologici. Attualmente l’ICD è
alla decima edizione: l’ICD-10 è stata approvata dall’Assemblea Mondiale della Sanità nel
maggio 1990, ed è entrata in vigore e in uso negli Stati membri dell’OMS nel 1994.

1 Classificazione internazionale delle malattie.


Nella sua originaria impostazione l’ICD rivela ben presto vari limiti dovuti alla natura stessa
della classificazione incentrata sugli aspetti eziologici della patologia; già nel 1980 l’OMS
decise di affiancare a questa classificazione un’appendice riguardante le conseguenze delle
malattie classificate ed emanò l’ICIDH (International Classification of Impairments, Disabilities
and Handicaps)2.
2 Classificazione internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli handicap.

Appare chiaro fin dalla sua prima analisi che l’attenzione di questo nuovo strumento di
classificazione si focalizzi non più sul concetto di malattia (diseases) bensì su quelli di
menomazione (impairment), disabilità (disabilities) e handicap. Si ritiene cioè che non sia
tanto importante partire dall’analisi della causa della patologia, ma analizzare al contrario
l’influenza che il contesto ambientale esercita sullo stato di salute delle popolazioni. Si
abbandona l’analisi clinicocentrica a favore di un concetto di salute inteso come benessere
fisico, mentale, relazionale e sociale che riguarda l’individuo, la sua globalità e l’interazione
con l’ambiente.
Processo di revisione: dall’ICIDH all’ICF (2001)
L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha commissionato a un gruppo di esperti di
riformulare la classificazione delle disabilità. La classificazione ICF è uno strumento innovativo per
concezione e costruzione. (International Classification of Functioning, Disability and Health –
ICF). L’ICF, quindi, è il nuovo strumento elaborato dall’OMS per descrivere e misurare la
salute e la disabilità della popolazione, le compromissioni della persona o il suo
funzionamento.
Ma vediamo compiti e scopi dell’ICF partono dal «fornire una base scientifica per la
comprensione e lo studio della salute, delle condizioni, delle conseguenze e delle cause
determinanti ad essa correlate»; giungono poi a stabilire un linguaggio comune per la
descrizione della salute e delle condizioni ad essa correlate, al fine di migliorare la
comunicazione tra i diversi utilizzatori, tra cui gli operatori sanitari, gli esponenti politici e la
popolazione, incluse le persone con disabilità; rendere possibili il confronto tra dati raccolti
in alcuni Paesi, discipline sanitarie, servizi e in periodi diversi; fornire uno schema di
codifica sistematico per i sistemi informativi sanitari.

Eccoci passati, quindi, dall’uso della parola handicappato (ICIDH 1980) all’uso del
concetto di “persona con disabilità” (ICF 2001)

Da un modello medico si passa ad un modello sociale, per cui il problema personale


diventa problema sociale, la cura medica diventa integrazione sociale, il trattamento
individuale rientra nell’azione sociale, l’aiuto professionale fa riferimento alle responsabilità
individuali e collettive, il “prendersi cura” diventa garanzia dell’esercizio dei diritti umani.

L’ICIDH assumeva come punto di partenza lo stato di malattia congenita o sopravvenuta,


incidente in seguito al quale si origina una menomazione, intesa come perdita (o
anomalia) funzionale, fisica o psichica, a carico dell’organismo.
Tale menomazione può sfociare in disabilità, intesa come limitazione della persona nello
svolgimento delle “normali” attività, mentre questa può portare all’handicap, ovvero allo
svantaggio sociale che si manifesta nell’interazione con l’ambiente.
Con la classificazione ICF (International Classification of Functioning, Disability and
Health ), pubblicata nel 2001 e nella versione per bambini ed adolescenti nel 2007 (ICF-
CY), l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha introdotto un modello antropologico in cui il
“funzionamento umano” è osservato da una prospettiva bio-psico-sociale. Secondo l’ICF, la
disabilità è determinata dall’interazione sfavorevole tra le condizioni di salute di una persona
ed il contesto in cui essa vive, quando esso non si rende accessibile e supportivo rispetto ai
bisogni individuali di funzionamento. In questa concettualizzazione, la disabilità è quindi da
considerare una variabile dipendente dall’ambiente, il quale può fungere da facilitatore o da
barriera nello svolgimento delle comuni attività della vita quotidiana. Quella dell’ICF è una
prospettiva multidimensionale che non si limita solo ai fattori organici, definiti come “funzioni”
e “strutture corporee”, ma considera i fattori contestuali, e fattori personali, consistenti nella
capacità d’interazione con l’ambiente fisico e sociale. Ogni fattore interagisce con gli altri,
ed i fattori ambientali e personali non sono meno importanti dei fattori organici, essendo
anch’essi in grado di determinare il livello e il grado di partecipazione di un individuo al
contesto sociale in una visione multi-prospettica.

Lo schema generale è: Funzioni e strutture corporee → Attività → Partecipazione.

Differenza di approccio tra ICD-10 e ICF


Nelle classificazioni internazionali dell’OMS le condizioni di salute vere e proprie (malattie,
disturbi, lesioni, ecc.) vengono classificate principalmente nell’ICD-10 (International Statistical
Classification of Diseases and Related Health Problems) che fornisce un modello di riferimento
eziologico. Nell’ICF vengono invece classificati il funzionamento e le disabilità associati alle
condizioni di salute. ICD-10 e ICF sono quindi complementari: il primo fornisce una “diagnosi” delle
malattie, dei disturbi o di altri stati di salute e questa informazione si arricchisce delle informazioni
aggiuntive offerte dall’ICF relative al funzionamento. Due persone con la stessa malattia, infatti,
possono avere diversi livelli di funzionamento e due persone con lo stesso livello di funzionamento
non hanno necessariamente la stessa condizione di salute. Ciò che emerge con chiarezza
nell’evoluzione delle classificazioni OMS (ICD-10, ICIDH-2, ICF) è l’abbandono man mano
definitivo del termine handicap e dei suoi derivati, che hanno connotazioni fortemente negative
(handicappato) in favore di termini più descrittivi dei contesti di vita e che focalizzano l’attenzione
sulle risorse e sulle prestazioni abili, ovvero sulle abilità emergenti di un soggetto, piuttosto che sui
suoi limiti e i suoi insuccessi. Solo una valutazione in positivo rappresenta il punto di partenza di
qualsiasi percorso educativo pensato per garantire il diritto alla non-omologazione e quindi
all’originalità, alla diversità, alla irripetibile unicità di una persona. L’attenzione alla persona
consiglia quindi anche l’abbandono di una terminologia che in passato focalizzava l’attenzione
sulla patologia o sugli elementi di diversità: il Down, il diabetico, l’autistico, il menomato, il disabile,
poiché non esiste una coincidenza tra la persona e la sua disabilità che va invece considerata
come attributo di quella persona in un determinato contesto di vita.

Manuali e strumenti di classificazione internazionali di disturbi (disorder in inglese) il


DSM ed il PDM
Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM)
Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (che prende il nome dall’edizione
americana Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder), noto anche come DSM, è
lo strumento diagnostico per i disturbi mentali maggiormente impiegato dai medici e dagli
psichiatri di tutto il mondo. La prima edizione del Manuale (DSM-I) risale al 1952; fu redatto
dall’American Psychiatric Association (APA). Nel corso degli anni è stato migliorato ed
arricchito con riferimenti allo sviluppo attuale della ricerca psicologica in numerosi campi,
ma anche con nuove definizioni di disturbi mentali. L’ultima edizione, che risale al 2013
(DSM-5), classifica un numero di disturbi pari a tre volte quello della prima edizione,
riconoscendone 15 categorie principali:

 i disturbi dell’infanzia, della fanciullezza e dell’adolescenza;


 il delirium, la demenza, i disturbi amnestici e altri disturbi cognitivi;
 i disturbi indotti da sostanze;
 la schizofrenia e gli altri disturbi psicotici;
 i disturbi dell’umore;
 i disturbi d’ansia;
 i disturbi somatoformi;
 i disturbi fittizi;
 i disturbi dissociativi;
 i disturbi sessuali;
 i disturbi dell’alimentazione;
 i disturbi del sonno;
 i disturbi del controllo degli impulsi;
 i disturbi dell’adattamento;
 i disturbi di personalità
Struttura del manuale
Viene abolita la divisione fra disturbi dell’infanzia e dell’età adulta. La diagnosi si estende all’intero corso
della vita ma la sintomatologia varia durante l’arco dell’esistenza. Viene promosso un approccio
dimensionale per migliorare la validità delle diagnosi. Di fatto viene mantenuta un’impostazione di tipo
categoriale; viene inoltre potenziato il concetto di spettro connettore fra patologie contigue con limiti
sfumati, spesso identificate tramite l’individuazione di clusters di sintomi.
Il DSM V pone molta attenzione alla valutazione dimensionale del sintomo, attraverso una
più attenta focalizzazione su determinati indicatori clinici:
 condivisione di substrati neurali
 caratteristiche familiari
 fattori di rischio genetici
 specifici fattori di rischio ambientali
 comorbilità
 marker biologici
 antecedenti temperamentali
 risposta al trattamento
 similarità dei sintomi e decorso della malattia

Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM)


Il Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM), pubblicato negli Stati Uniti nel 2006, è il risultato
della collaborazione tra diverse associazioni psicoanalitiche americane. Il PDM è differente dai
manuali DSM e ICD, perché propone un approccio diverso di diagnosi: l’attività diagnostica non è
concepita in maniera categoriale ma in senso dimensionale. Tale prospettiva produce una visione
maggiormente ampia della singolarità del paziente (non si è attenti soltanto alla patologia ma anche
alle risorse). Assumendo come base il modello bio-psico-sociale di George Engel, nel PDM la salute
mentale viene descritta non come semplice assenza di sintomi psicopatologici, ma come presenza in
un soggetto di capacità cognitive, comportamentali ed emotive, favorite dalla condizione di benessere
e dal contesto di appartenenza. Il Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM) si suddivide in tre
sezioni:

 una prima parte è dedicata alla classificazione dei disturbi mentali degli adulti;
 la seconda, distinta in due parti, si occupa della classificazione dei disturbi mentali dei bambini, degli
adolescenti e dei neonati;
 la terza parte è dedicata ai principali contributi teorici e metodologici del sistema diagnostico
presentato.
La diagnosi nel PDM si articola sulla base di tre assi, che evidenziano tre macro-dimensioni:

 Asse P – per la valutazione dei pattern e dei disturbi di personalità;


 Asse M – per comprendere il profilo del funzionamento mentale di un soggetto;
 Asse S – per valutare i pattern sintomatici, a cominciare dall’esperienza soggettiva del paziente.

La disabilità visiva: ciechi totali, ciechi parziali, ipovedenti gravi, medio-gravi e lievi in
base al visus e al campo visivo
Per disabilità visiva s’intende una perdita parziale o totale della capacità di un individuo di compiere gli
atti della vita quotidiana che richiedono il controllo visivo. Perdita di acuità visiva o visus, ossia l’occhio non
è in grado di vedere gli oggetti con chiarezza e di percepirne i dettagli
• Visus = capacità di distinguere ad una distanza data determinate forme o di discriminare due punti vicini
• Perdita di ampiezza del campo visivo: la scena visibile dal soggetto, con uno o con entrambi gli occhi,
quando egli fissa un punto davanti a sé, a grande distanza, nel piano orizzontale
• Il campo visivo, nel soggetto vedente, ha un’ampiezza complessiva di circa 120º nel piano verticale e di
poco più di 180º nel piano orizzontale. I principali problemi della persona con deficit visivo riguardano
molteplici aspetti, non tanto e solo il vedere. Da aspetti sia sociali, ad aspetti cognitivi, a problematiche
legate apprendimento ed all’autonomia.

il controllo dello spazio


comunicazione scritta
l’accesso al materiale scolastico specialmente se di natura testuale
la socialità e la relazione con gli altri
autonomia ed autostima
Il compito della scuola dell’inclusione è quello di aiutare la persona non vedente/ipovedente a sviluppare
tutte le sue potenzialità, personali, sociali, didattiche, relazionali, etc. All’interno del gruppo di classe,
l’alunno con disabilità visiva è stimolato a partecipare alle proposte curricolari, così da rendersi soggetto
attivo e consapevole del proprio percorso di apprendimento. Nondimeno egli dovrà percepire
l’ambiente scolastico come adeguato alle sue esigenze specifiche e capace di modificarsi a favore della sua
personale specificità secondo il principio di accomodamento ragionevole ↓

Con l’affermazione e la diffusione del modello bio-psico-sociale nella legislazione e negli orientamenti
internazionali, la disabilità non è più considerata un “difetto” o una “menomazione”, ma viene vista come
un normale aspetto della variabilità umana. Questo punto di vista parte dal presupposto che la maggior
parte delle persone, nel corso dell’esistenza, vive e sperimenta una disabilità fisica, a carico dell’apparato
locomotore, in qualche forma visibile o invisibile, temporanea o permanente; la disabilità viene
comunemente ormai considerata parte della diversità connessa alla natura umana e può avere un impatto
minimale o sostanziale sulla capacità di una persona e sulla sua potenzialità d’uso delle sue abilità.

Osserviamo oggi come l’invecchiamento della popolazione generale e lavorativa, l’aumento delle patologie
cronico-degenerative a carico dell’apparato muscolo-scheletrico, l’elevato incremento delle malattie
professionali verificatosi negli ultimi anni, gli esiti permanenti di gravi traumi lavorativi ed extra-lavorativi,
concorrano in varia misura alla limitazione delle abilità e delle capacità dell’individuo “normale” o
“normodotato” e influenzino negativamente la qualità della vita e ne riducano in vario modo l’autonomia.

Nel maggio 2001 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato la Classificazione Internazionale del
Funzionamento (ICF) che è stata riconosciuta come strumento idoneo per misurare la condizione di salute e
di disabilità delle persone. La classificazione evidenzia la necessità di un approccio integrato alla persona e
permette di correlare lo stato di salute individuale e l’ambiente: si evince quindi che la disabilità si sposta
dall’ambito della malattia e della menomazione al rapporto tra le persone e un ambiente (fisico e
relazionale) sfavorevole.

Spostando l’attenzione dalle cause all’impatto sul funzionamento degli individui e ponendo tutte le
condizioni di salute sullo stesso piano, l’ICF si configura come uno strumento universale per descrivere e
misurare lo stato di salute e di disabilità di qualsiasi persona.

Il termine “reasonable accomodation” viene introdotto nei primi anni ’90 negli Stati Uniti, dove fu emanato
l’American with Disability Act (A.D.A.), legge che si inseriva nel quadro dei programmi per l’integrazione e la
non-discriminazione delle minoranze e che si poneva lo scopo di tutelare i diritti dei disabili e di garantirne
una maggiore integrazione sociale.

La convenzione O.N.U. per i diritti delle persone con disabilità, ratificata in Italia con Legge n°19 del 2009,
definisce (art.2) l’accomodamento ragionevole come un insieme “delle modifiche e degli adattamenti
necessari e appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo, adottati ove ve ne sia
necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di
uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”.

Il concetto di “accomodamento” comprende tutti gli aspetti dell’accessibilità complessiva dell’ambiente di


vita e di lavoro, della riprogettazione individualizzata del posto di lavoro, dell’adozione di ausili tecnici utili a
facilitare i compiti lavorativi, della riorganizzazione dei processi e dei flussi di lavoro e dell’eventuale
supporto di assistenza personale; la “ragionevolezza” invece evoca il principio di “non costringere il Datore
di Lavoro ad investimenti sproporzionati”.

Il convegno, che ruota intorno alle parole-chiave “disabilità, lavoro, ICF e accomodamento ragionevole”,
diventa quindi un primo momento di incontro e di confronto interdisciplinare tra le numerose figure
professionali che operano nel campo della prevenzione primaria, dell’ergonomia nei luoghi di lavoro e
nell’ambito della riabilitazione per il re-inserimento lavorativo e sociale della persona.

Sono stati infatti invitati esperti di progettazione inclusiva, architetti, ingegneri biomedici, ricercatori sulle
“tecnologie assistive”, tecnici della prevenzione, medici del lavoro, fisiatri, ortopedici, neurologi, terapisti
occupazionali, fisioterapisti, infermieri, ergonomi e medici competenti che potranno condividere le
numerose ricerche sviluppate, le conoscenze acquisite, le esperienze maturate in questo ambito, con il
dichiarato obiettivo di mettere a punto una metodologia di lavoro applicabile in tutti i casi in cui si verifichi
la necessità di un accomodamento ragionevole negli ambienti di vita e nei luoghi di lavoro.

Il programma si articola in una prima sessione mattutina caratterizzata da otto relazioni tecniche ed una
sessione pomeridiana dedicata ad una Tavola Rotonda dal titolo “Accomodamento ragionevole: semplice
compromesso, riabilitazione personalizzata o strumento di prevenzione collettiva? Protagonisti a
confronto”.

La qualità della visione, sotto quest’ultimo aspetto, può essere valutata secondo tre criteri:

 menomazione visiva: perdita, parziale o completa, di specifiche funzioni visive;


 disabilità visiva: perdita, parziale o completa, di normali capacità funzionali correlate con la
visione;
 handicap visivo: impedimento nelle attività quotidiane.

Perciò, sulla base degli specifici bisogni emergenti dalla situazione di deficit, dovranno essere
individuati e programmati momenti di insegnamento/apprendimento al di fuori del
contesto di classe, ma con le modalità più opportune per salvaguardare la comune
partecipazione nel gruppo.
La metodologia didattica dovrà favorire il massimo coinvolgimento pratico-
operativo dell’alunno per bilanciare la tendenza agli apprendimenti basati sulla mera
ricezione verbale e sull’assimilazione passiva.

Pillola: il codice Braille (ideato nel 1829 da Louis Braille)


Diventato codice internazionale durante il Congresso Internazionale di Parigi del 1878
Sei punti in rilievo, disposti su due colonne e tre righe e collocati in un casellino delle
dimensioni standard di 7 millimetri di altezza e 4 di lunghezza, in modo da essere colto con
un unico atto percettivo dal polpastrello del dito indice destro.

Il deficit uditivo: la sordità e le sue classificazioni


La sordità, com’è noto, consiste nella perdita – parziale (ipoacusia) o totale – della funzione
uditiva per cause che possono essere acquisite (traumi subiti nel corso degli anni)
o congenite. Esiste peraltro una forma di sordità ereditaria, dovuta a mutazioni genetiche
trasmesse da una generazione all’altra.
Il deficit è classificabile in base alla localizzazione del danno, per cui si è soliti distinguere
tra:

 sordità trasmissiva, in cui la lesione è localizzata nell’orecchio esterno o in quello medio,


ossia nella regione deputata alla trasmissione meccanica del suono, che a causa della disabilità
è percepito in maniera distorta;
 sordità percettiva, chiamata anche «neuro-sensoriale», causata da patologie dell’orecchio
interno e dei canali neurali, per cui la persona ha difficoltà a riconoscere i suoni, soprattutto
quelli acuti, essenziali nella comprensione del parlato;
 sordità mista, caratterizzata dalla compresenza delle forme di sordità trasmissiva e percettiva

L’entità del deficit può essere così compresa:


 lieve, comportante la difficoltà ad ascoltare un discorso rapido, distante e/o a basso volume;
 media, comportante l’imperfetta percezione del linguaggio parlato e la difficoltà a
discriminare le parole in una conversazione di normale intensità;
 grave, comportante la percezione di alcuni suoni soltanto e di qualche parola sporadica;
 profonda, comportante la totale incapacità di percepire i suoni del linguaggio parlato, per la
qual cosa si rendono necessari il ricorso alla lettura labiale e/o l’apprendimento della lingua
dei segni

Peraltro, quando si parla di deficit uditivo, è opportuno sottolineare che esso differisce notevolmente
dal sordomutismo, perché in questa seconda ipotesi ci troviamo di fronte a soggetti che non possono né
sentire né comunicare verbalmente. I nati sordi presentano indiscutibilmente un deficit della funzione
uditiva, che però non li rende privi della facoltà di parlare. Anzi, grazie ai progressi compiuti dalla
microchirurgia otorinolaringoiatrica, possono imparare a parlare sin dall’età pediatrica, facendo addirittura
a meno del linguaggio dei segni. Perciò è più corretto parlare di «audiolesi» o «ipoacusici»,
ovvero di persone che – pur presentando limitazioni più o meno gravi nella ricezione dei suoni –
mantengono tuttavia intatte altre potenzialità.

L’acquisizione del linguaggio, senza un metodo sistematico d’intervento, rimane comunque il principale
ostacolo per il bambino audioleso, che – in media – presenta un ritardo di circa quattro anni rispetto ai
coetanei «normodotati», soprattutto nel pensiero astratto, con conseguenze sullo sviluppo linguistico. Per
altro verso, l’elevato grado d’istruzione di molti individui audiolesi o ipoacusici, come pure la loro abilità
lavorativa, porta ad escludere che la sordità costituisca di per se stessa un limite allo sviluppo cognitivo.
Le ragioni di eventuali insuccessi scolastici dovranno perciò essere indagate sulla base di una valutazione
complessiva che tenga conto di tutti gli aspetti critici della personalità del bambino.
Le sindromi genetiche e la disabilità intellettiva

Le sindromi genetiche sono malattie causate da alterazioni del genotipo e, nel caso in cui coinvolgano la
linea delle cellule germinali, assumono carattere ereditario. Le alterazioni possono colpire anche la linea
delle cellule somatiche. Il loro grado diincisività varia da sindrome a sindrome. Inoltre, gli individui che ne
sono colpiti non sempre presentano le medesime caratteristiche. Diversa può essere la stabilità
del Q.I. (quoziente intellettivo) nel tempo, diversi possono essere i profili cognitivi e i condizionamenti
genetici sullo sviluppo emotivo, sociale e comportamentale.
I geni – portatori dei caratteri ereditari – sono localizzati nei cromosomi e, siccome possediamo due
copie di ciascun cromosoma, possediamo anche due copie di ciascun gene. Perciò gli studi hanno
permesso di suddividere le malattie genetiche in dominanti e recessive: sono dominanti se basta un solo
gene anomalo perché la malattia si manifesti; recessive, invece, se occorrono due geni anomali.
Nelle malattie ereditarie recessive un solo gene anomalo determina lo stato di «portatore sano»
(l’individuo è sano ma può trasmettere la malattia ai figli).
Alcune malattie si manifestano ancor prima del concepimento e comportano conseguenze già apprezzabili
nel neonato per la presenza di malformazioni o altre anomalie dello sviluppo. Altre, invece, in periodi
successivi, altre ancora restano latenti per anni e si manifestano soltanto in età avanzata.

La disabilità intellettiva (ex ritardo mentale)


La disabilità intellettiva (ex ritardo mentale) è la condizione che risulta – già in età evolutiva,
prima cioè del compimento del diciottesimo anno – da un insieme di deficit dello sviluppo
cognitivo e socio-relazionale. Esso è caratterizzato da un funzionamento intellettuale
generale significativamente al di sotto della media, presente insieme a carenze del
comportamento adattivo, e può essere causato da qualsiasi condizione che impedisca il
normale sviluppo del cervello prima, durante, dopo la nascita o nel periodo dell’infanzia.
I fattori eziologici possono essere genetici (monogenetici, poligenetici, aberrazioni
cromosomiche) o acquisiti. Questi ultimi, a loro volta, possono essere gestazionali (malattie
materne infettive, agenti chimici, traumi etc.), perinatali (prematurità, postmaturità, itteri,
anossia, traumi cranici, etc.) e post-natali (encefaliti, meningiti, vasculopatie cerebrali, etc.).

I nuovi termini del DSM-5 fanno riferimento ad un disturbo con insorgenza nell’età evolutiva che include
deficit intellettivi e adattivi negli ambiti della concettualizzazione, della socializzazione e delle capacità
pratiche.

D’ora in poi, per poter formulare la diagnosi in accordo col DSM, devono essere
soddisfatti i seguenti tre criteri:
1. Deficit delle funzioni intellettive, come il ragionamento, la soluzione di problemi, la
pianificazione, il pensiero astratto, il giudizio, l’apprendimento scolastico o
l’apprendimento dall’esperienza, confermato sia da valutazione clinica che da prove
d’intelligenza individualizzate e standardizzate.
2. Deficit del funzionamento adattivo che si manifesti col mancato raggiungimento degli
standard di sviluppo e socio-culturali per l’indipendenza personale e la responsabilità sociale.
Senza supporto continuativo i deficit adattivi limitano il funzionamento in una o più attività
della vita quotidiana, quali la comunicazione, la partecipazione sociale e la vita indipendente,
in più ambiti diversi, come la casa, la scuola, il lavoro e la comunità.
3. Insorgenza dei deficit intellettivi e adattivi nell’età evolutiva.
I livelli di gravità vengono definiti sulla base del funzionamento adattivo e non sui
punteggi di quoziente intellettivo (QI), poiché è stato giudicato che sia il funzionamento
adattivo, nelle aree della concettualizzazione, della socializzazione e delle abilità pratiche,
a determinare il livello di supporto necessario a mantenere una condizione di vita
accettabile. In più, quando basse (inferiori a 60), le misure di QI perdono di validità.

Il disturbo è stato collocato in un raggruppamento meta-sindromico, o meta-strutturale, denominato


‘disturbi del neurosviluppo’. Il gruppo include condizioni con insorgenza in età evolutiva,
tipicamente precoci, spesso precedenti l’ingresso a scuola e caratterizzate da deficit di sviluppo
che producono compromissioni del funzionamento personale, sociale, scolastico o occupazionale.
Il range di deficit spazia da limitazioni molto specifiche dell’apprendimento e del controllo delle
funzioni esecutive ad una compromissione globale delle abilità sociali o
dell’intelligenza. I disturbi del neurosviluppo si presentano spesso insieme, per esempio individui
con autismo manifestano molte volte anche disabilità intellettiva (disturbo dello sviluppo intellettivo)
e numerosi bambini con disturbo da deficit d’attenzione e iperattività hanno spesso anche un
disturbo specifico dell’apprendimento.

I bambini con ritardo mentale si distinguono da quelli con disturbi pervasivi dello
sviluppo per il fatto che, in questi ultimi, le difficoltà di comunicazione e d’interazione
sociale sono di tipo
qualitativo (non dimentichiamo comunque che, spesso, i disturbipervasivi dello sviluppo
sono accompagnati da ritardo mentale). Inoltre, i bambini con ritardo mentale, rispetto a
quelli con un disturbo dell’apprendimento, presentano una compromissione generalizzata
dello sviluppo, anziché un deficit specifico.
Il decorso del disturbo dipende dalla gravità, dalle cause e dal modello operativo di intervento. In
presenza di ritardo mentale dientità lieve, l’intervento precoce risulta fondamentale per consentire
un recupero maggiore delle funzioni deficitarie. I problemi diadattamento sono quelli più facilmente
gestibili e migliorabili. Il trattamento deve essere individualizzato per valorizzare i punti diforza del
bambino e promuoverne le potenzialità. I programmi terapeutici devono coinvolgere differenti
figure professionali (neuropsichiatra infantile, psicologo, educatore e logopedista) e i familiari.
Durante il trattamento devono essere utilizzate metodiche volte a migliorare il più possibile il
livello di autonomia personale del soggetto; di estrema utilità è il ricorso a tecniche quali
il rinforzamento e il modellamento comportamentale.

Ritardo mentale
Disturbi dell’apprendimento: in tale categoria rientrano i soggetti che presentano notevoli difficoltà per quanto
concerne l’acquisizione dei concetti basilari del calcolo, della lettura e della scrittura. Il disturbo
dell’apprendimento, può generare mutamenti anche a livello comportamentale.

Disturbi motori: in tale categoria, va menzionato il “disordine di coordinazione”: il soggetto presenta


difficoltà di deambulazione, disarmonia e goffaggine.

Disturbi della comunicazione: il soggetto pare sterile da un punto di vista comunicativo, i suoi gesti, la sua
mimica, le sue capacità verbali sembrano essere ridotti al minimo.
Disturbi generalizzati dello sviluppo: in tale categoria va inserito l’Autismo caratterizzato da
un’alterazione qualitativa di interazione sociale, da un’alterazione qualitativa di capacità comunicative e
da varie forme di stereotipie. In tale categoria rientrano inoltre :il Disturbo di Rett, il Disturbo
disintegrativo della fanciullezza e il Disturbo di Asperger. Per quanto concerne il Disturbo di Rett, va
detto che in tale ambito vi è una compromissione a livello motorio. Il Disturbo disintegrativo della
fanciullezza, lo possiamo diagnosticare allorché il soggetto presenti disorganizzazione nel modo di
rapportarsi con la realtà. Il Disturbo di Asperger invece, potremmo anche definirlo un tipo di “Autismo
intelligente”, il soggetto infatti, possiede ottime capacità esplicative e comunicative ma pecca da un
punto di vista di interazione che avviene solo a fine strumentale.
PROBLEMI DI MEMORIA: le difficoltà di memoria sono spesso disomogenee. Persone con ritardo
mentale medio lieve possono non ricordare quello che hanno visto in televisione, ma possono ricordare
facilmente episodi e storie che hanno contenuti fortemente emotivi. In particolare nel confronto tra il
ricordo del materiale visivo e materiale verbale, il materiale visivo è più accessibile. Difficoltà sia nella
memoria a breve termine, sia nella memoria a lungo termine legate alla carenza nell’uso spontaneo di
strategie come quella della reiterazione.

Disturbi di deficit d’attenzione e di comportamento dirompente: in tale categoria vanno


inseriti i Disturbi della condotta: il soggetto si presenta instabile ed iperattivo. Allorché il
comportamento di un soggetto vìola i diritti fondamentali degli altri e le norme o regole di
vita appropriate alla sua età, si rientra nel suddetto ambito; vanno naturalmente escluse le
dispettosità e le monellerie che caratterizzano un po’ tutti i soggetti che percorrono la via
dell’infanzia.

Disturbi ticcosi: il tic è un movimento involontario, rapido, ripetitivo e non ritmico, ovvero una
vocalizzazione con gli stessi caratteri. Esordisce nella fanciullezza o nell’adolescenza e
colpisce soprattutto il sesso maschile.

Disturbi dell’evacuazione :enuresi notturna e/o diurna, incapacità di controllare gli


sfinteri. Disturbi d’ansia di separazione: il soggetto è caratterizzato da mutismo selettivo e
da movimenti prettamente stereotipati.

Disturbi dell’alimentazione: in tale categoria rientra l’Anoressia nervosa, la Bulimia nervosa,


il Pica e il Disturbo di ruminazione.

Dopo questa breve carrellata intorno le patologie che interessano l’area infantile, è d’obbligo
spostarsi verso l’ambito di nostro interesse, vale a dire il contesto del Ritardo
mentale patologia che per definizione insorge durante l’età evolutiva. Tre sono le etichette
che permettono di diagnosticare il Ritardo mentale, vediamo di esporle e di esplicarle all’atto
conclusivo. Ci troviamo di fronte al Ritardo mentale, quando assistiamo alla presenza dei
tre fattori qui di seguito esposti:

1. Un funzionamento intellettivo al di sotto della media: un quoziente intellettivo (Q.I.) di circa


70 o inferiore, misurato mediante un test di Q.I. somministrato individualmente.
Naturalmente, con la misurazione del Q.I. si vuole indagare nell’ambito della difficoltà
cognitiva.
2. Concomitanti deficit o compromissioni del funzionamento adattivo attuale (vale a dire la
capacità del soggetto di adeguarsi agli standard tipici della sua età e del suo ambiente
culturale) in almeno due delle seguenti aree:
Comunicazione, cura di sé, vita in famiglia, capacità sociali ed interpersonali, uso delle
risorse della comunità, autodeterminazione, capacità del funzionamento scolastico, lavoro,
tempo libero, salute e sicurezza.

Quando due delle suddette aree risultano intaccate, ecco che possiamo diagnosticare una
difficoltà di tipo adattivo.

3. L’esordio risale a prima dei 18 anni.


Nel momento in cui diagnostichiamo una difficoltà di tipo cognitivo, è d’obbligo indagare anche
nell’ambito del funzionamento adattivo poiché spesso e volentieri, il disturbo adattivo è correlato a quello
cognitivo e viceversa.

I principali fattori predisponenti includono:


 ereditarietà (circa il 5%): questi fattori includono errori congeniti del metabolismo trasmessi soprattutto
per via autosomica recessiva (per es., malattia di Tay-Sachs), altre anomalie di un singolo gene a
trasmissione mendeliana e ad espressività variabile (per es. sclerosi tuberosa), e aberrazioni
cromosomiche (sindrome di Down dovuta a traslocazione, sindrome dell’X fragile);
 alterazioni precoci dello sviluppo embrionale (circa il 30%): questi fattori includono mutazioni
cromosomiche (per es., sindrome di Down dovuta a trisomia 21) o danni prenatali dovuti a sostanze
tossiche (per es., uso di alcool da parte della madre, infezioni);
 problemi durante la gravidanza e nel periodo perinatale (circa il 10%): questi fattori includono la
malnutrizione del feto, la prematurità, l’ipossia, infezioni virali o altre infezioni, e traumi;
 condizioni mediche generali acquisite durante l’infanzia o la fanciullezza (circa il 5%): questi fattori
includono infezioni, traumi, e avvelenamenti;
 influenze ambientali e altri disturbi mentali (circa il 15-20%): questi fattori includono la mancanza di
accudimento e di stimolazioni sociali, verbali, o di altre stimolazioni, e disturbi mentali gravi (per
es., Disturbo Autistico).

L’alunno con sindrome genetica


Il soggetto con sindrome genetica ha gli stessi bisogni di sviluppo, di relazione e di attenzione degli altri
bambini, quelli «normodotati», e necessita in primo luogo di un’educazione «normale», pur avendo
diritto al rispetto della sua specificità. Ignorare i suoi bisogni di normalità «impedisce o non promuove
a sufficienza una serie di interventi educativi non speciali la cui funzione è altrettanto fondamentale per
generare capacità e processi di crescita».

L’azione educativa, una volta individuate le difficoltà che il soggetto presenta in relazione agli
obiettivi specifici di sviluppo e di crescita, deve essere finalizzata al miglioramento delle funzioni
psichiche e corporee, delle attività e della partecipazione sociale e soprattutto, a partire dalla scuola
dell’infanzia, allo sviluppo dei prerequisiti scolastici che sono necessari per affrontare positivamente i
successivi livelli d’istruzione: si tratterà di coinvolgere il bambino in percorsi che ne stimolino le abilità
e i processi neurofunzionali di tipo motorio e/o cognitivo. Uno dei prerequisiti più importanti per
affrontare l’esperienza scolastica è il controllo del gesto grafico – essenziale per scrivere – che può essere
sviluppato valorizzando adeguatamente le risorse neuromotorie esistenti. Ma il bambino dovrà imparare
a stare attento, ad ascoltare, a organizzarsi, a orientarsi nel tempo e nello spazio e soprattutto a mantenere
la concentrazione sui compiti che gli vengono affidati.
Il docente è chiamato a svolgere un ruolo fondamentale: in particolare, deve possedere le
informazioni di base necessarie a comprendere la specificità del bisogno educativo e a non scambiare
per bisogni speciali quelli che in realtà sono bisogni comuni a tutti i bambini. E deve essere in grado di
apprestare modalità d’intervento idonee a superare le resistenze che impediscono o rallentano il
perseguimento degli obiettivi di crescita, autonomia e integrazione.
Pur se bisognoso di supporto dal punto di vista medico-riabilitativo, l’allievo con sindrome genetica
è un bambino che deve essere aiutato a sviluppare un proprio percorso di crescita umana e sociale.

L’alunno con disabilità intellettiva


Il bambino con disabilità intellettiva, al pari di quello con sindrome genetica, può dare il
meglio di sé all’interno del gruppo di classe se trova un ambiente educativo ricco di attenzioni e
calore umano. Il disabile mentale, infatti, si relaziona agli altri in forza della sua intelligenza
affettiva, cercando i suoi punti di riferimento nelle persone che gli dimostrano amorevolezza,
comprensione e benevolenza. Un ambiente nel quale le sue difficoltà e i suoi inevitabili insuccessi
non vengano adeguatamente «compresi» e dove manchi una relazione educativa costruita sulla
fecondità dello scambio, può avere sui processi motivazionali del disabile conseguenze devastanti.
L’insegnante, perciò, deve sforzarsi di stabilire con l’allievo mentalmente debole un rapporto
improntato sul confronto, sulla fiducia reciproca e soprattutto sulla collaborazione, adottando la più
ampia disponibilità a focalizzare, interpretare e, per quanto possibile,
soddisfare i bisogni specifici di cui l’allievo è portatore.
In particolare, il docente deve tener conto del fatto che il disabile apprende molto lentamente e che il
suo apprendimento si attua prevalentemente per imitazione di ciò che vede fare dagli altri e, in special
modo, dalle figure di riferimento. Occorre, inoltre, considerare che alla lentezza
dell’apprendimento sono tipicamente associate una rigidità di pensiero (inerzia intellettiva) e una
relativa tendenza a stereotipare, per mancanza di elasticità mentale, gli atti e le strategie operative.
L’attività didattico-educativa, per essere veramente efficace, deve promuovere e valorizzare
l’operatività spontanea, ponendo alla base di ogni proposta le abilità manipolative, il «saper fare»,
prerequisito indispensabile per lo sviluppo psichico diogni essere umano. Al tempo stesso è
importante che il disabile sia stimolato a pensare per categorie simboliche e astratte, «a riflettere
sull’esperienza per arrivare a generalizzare le acquisizioni concrete che l’azione educativa
produce»2 e arrivare così a ragionare a livello di logica ipotetico-deduttiva.

La continua sollecitazione di tutte le funzioni del corpo e della mente, in piena integrazione
con i compagni «normodotati», all’interno del gruppo di appartenenza, permetterà
all’allievo di esprimere al meglio le proprie potenzialità, di percepirsi come una persona
capace di affrontare positivamente gli impegni, acquisendo sicurezza nelle proprie abilità e nella
possibilità di avere successo, e allontanando il timore del fallimento.
Diversificazione della proposta didattica e impostazione di un rapporto molto stretto dal
punto di vista umano, unitamente alla possibilità di lavorare a piccoli gruppi per differenziare
concretamente l’azione, sono condizioni indispensabili per il perseguimento dei traguardi
riabilitativi programmati, senza trascurare il rapporto con i genitori dell’allievo, fondamentale per
una continuità tra l’impegno educativo domestico e quello scolastico.

I disturbi dello spettro autistico (ICF 84), autismo ed autismo ad alto funzionamento (da IC F.
84.0 ad 84.5)

Definizione e sintomi

Le Linee Guida per l’autismo emanate dalla Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Età Evolutiva
definiscono l’autismo come «una sindrome comportamentale causata da un disordine dello sviluppo
biologicamente determinato, con esordio nei primi tre anni di vita. Le aree prevalentemente interessate
sono quelle relative all’interazione sociale reciproca, all’abilità di comunicare idee e sentimenti e alla
capacità di stabilire relazioni con gli altri».
Fino al DSM-IV si parlava di “Disturbi Pervasivi dello Sviluppo” che si distinguevano in: disturbo
autistico, disturbo di Asperger, disturbo disintegrativo della fanciullezza (o disturbo di Heller), disturbo
pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato e sindrome di Rett. Ora con il DSM-V questi sottotipi
sono stati riuniti in un’unica categoria denominata “Disturbi dello Spettro Autistico” (ASD – Autism
Spectrum Disorders), ad eccezione della sindrome di Rett che è stata posta tra i disturbineurologici.

L’autismo definizione, storia ed evoluzione: dai disturbi pervasivi dello sviluppo allo
spettro autistico
L’autismo (dal greco αὐτός (aütós) – stesso) è un disturbo caratterizzato dalla compromissione
dell’interazione sociale e da deficit della comunicazione verbale e non verbale che provoca ristrettezza
d’interessi e comportamenti ripetitivi. Gli individui affetti da autismo presentano difficoltà sociali e spesso
non hanno gli stessi comportamenti che molte persone danno per scontati.

Nonostante il quadro globale delle conoscenze sull’autismo sia notevolmente migliorato,


l’eziologia del disturbo è a tutt’oggi sconosciuta. I manuali diagnostici continuano a basare i
criteri di riconoscimento su indicatori comportamentali e a considerare la sindrome come un
disturbo generalizzato dello sviluppo, con una componente organica altamente probabile,
anche se non ancora individuata con sicurezza.
I soggetti autistici presentano affezioni principalmente sull’asse della socialità.

L’autismo si trova a volte associato ad altri disturbi che alterano in qualche modo la normale
funzionalità del Sistema Nervoso Centrale: disturbo da deficit di attenzione/iperattività
(ADHD), epilessia, sclerosi tuberosa, sindrome di Rett, sindrome di Down, sindrome di
Landau-Kleffner, fenilchetonuria, sindrome dell’X fragile, rosolia congenita. Disordini
geneticamente riconducibili a una alterazione dei normali meccanismi fisiologici espressi dal
gene FMR-1

Una prima diagnosi è possibile effettuarla entro i due anni di vita del bambino e la diagnosi
certa spesso può essere fatta entro i trenta mesi di vita.

Il disturbo viene diagnosticato in base alla presenza di un certo numero di indicatori comportamentali
presenti in specifiche aree dello sviluppo.

Le ricerche più recenti parlano più correttamente non più di autismo ma di Disturbi dello Spettro
Autistico (DSA o, in inglese, ASD, Autistic Spectrum Disorders), comprendendo tutta una serie
di patologie o sindromi aventi come denominatore caratteristiche comportamentali comuni.
All’interno dello spettro autistico i vari gradi e livelli di intensità sono diversi e spesso l’autismo è
associato a disturbi di co-morbilità, in pratica è accompagnato ad altri disturbi o ritardi (non è
infrequente che soggetti autistici siano anche soggetti ADHD).

Le più importanti ricerche sull’argomento in ordine cronologico sono da riferirsi agli autori:

1. Leo Kanner (1894 – 1981)


2. Hans Asperger (1906-1980)
3. Bruno Bettelheim (1903 – 1990)
4. Lorna Wing e Judith Gould
Leo Kanner individuò alcune costanti dell’autismo:
1. l’isolamento ed asocialità rispetto agli altri ed a tutto ciò che viene dall’esterno;
2. il desiderio della ripetitività, bisogno di routine, di azioni ripetute ed un ritma della giornata
e delle ore programmate e comportamento ansioso ossessivo se non riesce a rispettare ed a
conservare la ripetitività delle abitudini, delle azioni, del linguaggio;
3. buona intelligenza mnemonica, il soggetto ricorda fatti e numeri e dati in modo superiore
alla media, specialmente se può associare a questi una variabile numerica

Hans Asperger (1906-1980) aveva descritto quella che oggi si indica come sindrome di Asperger. Egli
osservata che i suoi pazienti possedevano un’eccellente memoria e capacità cognitive nettamente
superiori rispetto a quelli di Kanner; inoltre, le loro modalità comportamentali e relazionali si
caratterizzavano per una certa eccentricità.
Bruno Bettelheim (1903-1990), nella sua opera La fortezza vuota dice che il soggetto autistico
interpreterebbe i sentimenti e le azioni negative della madre (carenza di contatto fisico, pratiche
alimentari anomale, difficoltà nel linguaggio etc.) come desiderio di annientarlo e, attuando un
meccanismo di difesa, si staccherebbe progressivamente da lei, innescando anche un distacco
della madre da lui.

Gli studi successivi confutarono le tesi psicodinamiche, aprendo la strada all’approccio


organicista, che si proponeva d’individuare le cause della sindrome autistica in alterazioni
organiche. Lo statunitense Bernard Rimland (1928-2006) fu il primo a sostenere che l’autismo
era causato da alterazioni morfologiche e funzionali a base organica.

Lorna Wing e Judith Gould identificarono tre sottogruppi sociali di soggetti autistici: il riservato,
molto somigliante al tipo di paziente descritto da Kanner; il passivo, indifferente all’ambiente
circostante; lo stravagante, attivo socialmente, ma dal comportamento strano.

Nel DSM sono state individuate tre principali aree di alterazione comportamentale: interazione
sociale, comunicazione e repertorio di interessi.

Sviluppo sociale dei bambini autistici


I deficit sociali distinguono l’autismo dagli altri disturbi dello sviluppo. Lo sviluppo sociale insolito diventa
evidente nella prima infanzia. I bambini autistici mostrano meno attenzione agli stimoli sociali, sorridono e
osservano gli altri meno spesso e rispondono meno frequentemente al proprio nome. Inoltre essi
differiscono più incisivamente riguardo alle norme sociali; per esempio, essi guardano meno gli altri negli
occhi e non hanno la possibilità di utilizzare dei semplici movimenti per esprimersi, come ad esempio
indicare le cose.

I bambini dai tre a cinque anni con autismo hanno meno probabilità di comprendere le dinamiche sociali,
di avvicinare gli altri spontaneamente, di imitare e rispondere alle emozioni, di comunicare non
verbalmente e alternarsi in una discussione.

La maggior parte dei bambini autistici mostra meno attaccamento sicuro rispetto ai bambini neurotipici,
anche se questa differenza non si rileva in coloro che hanno un più alto sviluppo intellettivo o una
condizione autistica meno grave. I bambini più grandi e gli adulti con disturbo dello spettro autistico
presentano risultati peggiori nei test visivi riguardo al riconoscimento delle emozioni facciali, anche se ciò
può essere in parte dovuto ad una minore capacità di definire le proprie emozioni.

I bambini con autismo ad alto funzionamento soffrono di una solitudine più intensa e frequente rispetto ai
coetanei non-autistici, nonostante l’erronea credenza comune che i bambini con autismo preferiscano
essere soli. Crearsi amicizie e coltivarle si rivela spesso difficoltoso ma la qualità delle amicizie e non il
numero di amici, influisce maggiormente sulla solitudine. Amicizie funzionali, quali quelle che scaturiscono
da inviti alle feste o da attività sociali, possono influire più incisivamente sulla qualità della vita, nei bambini
con ritardo mentale, l’autismo può essere correlato con aggressività, danneggiamenti e capricci.

Deficit di linguaggio e comunicazione


Molti individui affetti da autismo non sono in grado di sviluppare un linguaggio in grado di
soddisfare le proprie esigenze di comunicazione quotidiana. In pratica hanno problemi di
comunicazione e di linguaggio. I deficit di comunicazione possono presentarsi fin dal primo anno di
vita e possono includere insorgenza ritardata di lallazione, gesti inusuali, diminuzione della
reattività e modelli vocali non sincronizzati. Lo sviluppo del linguaggio può anche essere
semplicemente ritardato ma certamente i bambini autistici ridurranno al minimo l’interazione che
preveda l’uso della forma verbale.
Nel secondo e terzo anno, i bambini con autismo hanno un utilizzo di consonanti, di parole,
di combinazioni di parole e di lallazione, meno frequente e meno diversificata; inoltre,
spesso azioni e gesti che comunemente accompagnano integrano le parole sono meno
usati.

La coordinazione tra il linguaggio verbale ed il linguaggio para-verbale è minima. o


deficitaria.

I bambini autistici sono meno inclini a fare richieste o a condividere esperienze e sono più
propensi a ripetere semplicemente le parole degli altri (ecolalia)o ricorrere all’inversione dei
pronomi
Vi possono essere dei problemi nel sostenere un discorso funzionale e il deficit di attenzione
sembra essere comune nei bambini con autismo: ad esempio, essi possono guardare la
mano che punta al posto dell’oggetto puntato.
Inoltre, possono presentarsi difficoltà con il gioco fantasioso e nella simbolizzazione
linguistica.

Comportamento ripetitivo
Gli individui autistici mostrano molte forme di comportamento ripetitivo o limitato. I soggetti
presentano comportamenti e movimenti sia di tipo ritualistico (ripetitivi), sia di tipo
ossessivo-compulsivo. Vediamo nello specifico tali tipi di stereotipie:

 Un movimento ripetitivo, fatto in modo inconscio, come alcuni gesti ossessivi e ripetitivi, come
la mano sulla testa raccolta a pungo svolazzante o il dondolio della testa. Quando il bambino è
felice o prova piacere inizia a manifestarlo con movimenti inconsci.
 Un comportamento compulsivo è previsto e sembra seguire regole, come la disposizione degli
oggetti in pile o linee.
 Comportamento di monotonia-ossessiva: è la resistenza al cambiamento; per esempio,
insistendo sul fatto che i mobili non debbano essere spostati o gli oggetti posti in un certo modo.
Ad esempio: la collezioni di soldatini deve rispettare un ordine da lui prefissato una volta per
sempre. La disposizione dei pastori nel presepe non può essere modificata da un anno a quello
successivo.
 Un comportamento ritualistico comporta un modello invariabile delle attività quotidiane, come
ad esempio una alimentazione immutabile e un rituale nella vestizione.
 Il comportamento limitato è focalizzato sugli interessi o sulle attività, come ad esempio
l’attenzione ad un unico programma televisivo, ad un unico giocattolo o un gioco in particolare.
L’integrazione scolastica del bambino con disturbo autistico
La programmazione congiunta delle attività didattiche – che devono basarsi sulle
conoscenze disponibili circa l’efficacia dei diversi modelli d’intervento –
un’adeguata organizzazione dei tempi e degli ambienti di lavoro, come pure dei materiali e
soprattutto del personale, senza tralasciare il coinvolgimento attivo dei compagni di classe,
costituiscono le linee strategiche per l’integrazione scolastica del bambino con disturbo
autistico, i cui deficit a livello sociale sono significativamente rilevanti, in particolare
nell’ambito del gioco simbolico: quasi nessun bambino autistico, infatti, produce gioco
simbolico nel periodo della scuola dell’infanzia o tutt’al più ne produce di natura ripetitiva
e stereotipata. Vedi ⇒ I bambini autistici e il gioco

 nessuna interazione: il bambino non mostra alcun interesse nel toccare o prendere in mano i
giocattoli;
 gioco manipolativo/esplorativo: il bambino prende in mano e fissa il giocattolo, lo mette in
bocca, lo agita, lo scuote o lo sbatte, allinea gli oggetti etc.;
 gioco funzionale: il bambino collega le parti di un trenino e lo spinge, sistema i mobili nella
casa delle bambole, costruisce qualcosa con le costruzioni etc.;
 gioco simbolico o del far finta: il bambino fa finta di fare qualcosa o essere qualcuno anche
con l’intento di una rappresentazione, compreso il gioco delle parti (es. usa un pupazzetto per
rappresentare se stesso; usa un pezzo delle costruzioni come una macchina accompagnandola
col suono del motore etc.).
Un’altra caratteristica dell’autismo è la difficoltà di comprendere e intraprendere interazioni
sociali, gli autistici esibiscono generalmente difficoltà significative nell’intraprendere
un gioco sociale con i loro coetanei.

La capacità di gioco sociale può variare nel seguente range:

 isolamento: il bambino appare inconsapevole o ignaro degli altri, può essere occupato a
guardare qualcosa di momentaneo interesse;
 orientamento: il bambino sembra consapevole e conscio degli altri, li guarda, osserva i loro
giocattoli e le loro attività, ma non entra nel gioco;
 gioco parallelo/in vicinanza: il bambino gioca indipendentemente accanto agli altri bambini,
invece di giocare con loro;
 focalizzazione comune: il bambino intraprende le attività coinvolgendo direttamente uno o
più bambini, rispettando informalmente i turni, prestando e ricevendo aiuto o spiegazioni, e
accettando una condivisione attiva dei materiali.

i Disturbi Psichici
Tra disabilità e DSA: il caso degli studenti ADHD (non sono certificati con al 104, non sono quindi
disabilità, ma possono essere diagnosticarti come “co-morbilità” con altre patologie di disabilità o in casi gravissimi
certificati come 104, in tal caso, seguono la normativa disabilità).

Il disturbo dell’attenzione e l’iperattività ADHD in italiano anche DDAI

Audio

ADHD – ATTENTION DEFICIT HYPERACTIVITY DISORDER: Sindrome da deficit di


attenzione e iperattività: è un disturbo del comportamento caratterizzato da inattenzione,
impulsività e iperattività motoria che rende difficoltoso, e in alcuni casi impedisce, la normale
socializzazione e motivazione e costanza di apprendimento dell’alunno (non presenta nessun
problema a livello cognitivo, a livello cognitivo non si verifica nessun ritardo).

Disturbo da deficit di attenzione/iperattività e dis-regolazione emotiva

Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) definisce il disturbo da


deficit di attenzione/iperattività come una condizione in cui è presente una persistente
disattenzione e/o iperattività/impulsività. Per il trattamento dei sintomi del DDAI si sono rivelate
efficaci terapie comportamentali, interventi psicoterapeutici, cambiamenti dello stile di vita e
dell’alimentazione.
La sindrome si manifesta nel bambino con comportamenti caratterizzati da inattenzione,
impulsività e iperattività motoria un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da
problematiche nel mantenere l’attenzione, eccessiva attività o difficoltà nel controllare il
proprio comportamento (impulsività) che non appare adeguato all’età della persona.

Si possono distinguere tre manifestazioni di DDAI: DDAI con disattenzione predominante,


DDAI con iperattività/impulsività predominanti e DDAI combinato. Il DDAI può quindi
presentarsi in tre forme distinte che spesso hanno caratteristiche anche molto diverse tra
loro. Ad esempio in chi presenta la variante con predominanza di disattenzione che ha pochi
sintomi, o nessuno, di iperattività, irrequietezza e impulsività, il DDAI potrebbe non notarsi.
Ciononostante può essere ugualmente compromettente.
È possibile che col passare degli anni la diagnosi di DDAI evolva e passi da una
manifestazione all’altra.

Almeno la metà delle persone con DDAI in età infantile e adolescenziale continua a soffrirne
in età adulta; il 2-5% degli adulti presenta tale condizione.
Un altro sintomo rilevante del DDAI o ad esso collegato è ⇒ la disregolazione della
motivazione.

Il concetto di disregolazione emotiva si riferisce ad un interruzione della “stabilità interna”


dei processi mentali che sono legati alla costante e dinamica regolazione delle attività di
cervello-mente-corpo-ambiente. Nel caso di Disturbo da deficit di attenzione/iperattività
quasi sempre ci troviamo difronte ad un caso di bassa finestra di tolleranza.

ADHD ed impegno e motivazione.


Tendenzialmente chi ha il DDAI è motivato solo o soprattutto sulle attività di suo interesse
ma fatica, si annoia, procrastina per quanto riguarda tutto il resto e per questo motivo cambia
spesso attività, hobby e lavori. Queste caratteristiche sono causate da disfunzioni
neurobiologiche e non da fattori psicologici

Il DDAI porta ad un tasso più alto di abbandono scolastico e lavorativo rispetto alla
media; altre conseguenze di questo disturbo possono essere disturbi ansioso-depressivi,
disturbi oppositivo-provocatori, disturbi della condotta, disturbi del sonno e del ritmo
circadiano, divorzi più frequenti, maggior rischio di incidenti stradali
e dipendenze patologiche. In molti casi le conseguenze sono causate direttamente dalla
neurobiologia del disturbo, in particolare negli squilibri sonno-veglia (ritmo circadiano) e
nelle dipendenze

Nella maggior parte dei casi il bisogno che i più piccoli hanno di muoversi continuamente e
la tendenza a distrarsi dai compiti loro assegnati rientrano nella normale esuberanza
infantile. Il problema nasce quando questi comportamenti assumono una predominanza tale
da impedire o rendere difficoltoso il normale processo di sviluppo e d’integrazione sociale,
compromettendo l’apprendimento, i rapporti interpersonali e familiari, la vita scolastica, la
relazione con i coetanei e con gli insegnanti.

I docenti hanno, infatti, la tendenza a considerare «difficili» gli alunni che fanno molti errori
a causa della disattenzione, faticando a portare a termine un compito, o che appaiono
perennemente distratti; e, anche da parte dei compagni di classe, il bambino iperattivo è
spesso deriso, per il suo comportamento clownesco, o tenuto a distanza perché considerato
aggressivo o litigioso.

Sintomatologia
La sintomatologia è solitamente complessa perché la sindrome si presenta frequentemente associata
ai disturbi specificidell’apprendimento (dislessia, disgrafia, discalculia) e ai disturbi d’ansia e, con
minore frequenza, alla depressione, al disturbo ossessivo-compulsivo, al disturbo da tic, al disturbo
bipolare.
Sul piano del deficit di attenzione la persona:

 spesso non riesce a prestare attenzione ai particolari o commette errori di distrazione nei
compiti scolastici, sul lavoro o in altre attività;
 spesso ha difficoltà a mantenere l’attenzione sui compiti o sulle attività di gioco;
 spesso non sembra ascoltare quando gli si parla direttamente;
 spesso non segue le istruzioni e non porta a termine i compiti scolastici, le incombenze
o i doveri sul posto di lavoro (non a causa di comportamento oppositivo o di incapacità a
capire le istruzioni);
 spesso ha difficoltà a organizzarsi nei compiti e nelle attività;
 spesso evita, prova avversione, o è riluttante ad impegnarsi in compiti che richiedono sforzo
mentale protratto (come compiti a scuola o a casa);
 spesso perde gli oggetti necessari per i compiti o le attività (per es., giocattoli,
compiti di scuola, matite, libri o strumenti);
 spesso è facilmente distratto da stimoli estranei;
 spesso è sbadato nelle attività quotidiane.

Nell’iperattività, il soggetto:

 muove frequentemente con irrequietezza mani o piedi o si dimena sulla sedia;


 spesso lascia il proprio posto a sedere in classe o in altre situazioni in cui ci si aspetta che
resti seduto;
 spesso scorrazza e salta dovunque in modo eccessivo in situazioni in cui ciò è fuori luogo;
 spesso ha difficoltà a giocare o a dedicarsi ai vari divertimenti in modo tranquillo;
 è sovente sotto pressione o agisce come se fosse «motorizzato»;
 il più delle volte parla troppo.

Ulteriore manifestazione del disturbo è l’impulsività, che si esprime:


 nella tendenza a «sparare» le risposte prima che le domande siano state completate;
 nella difficoltà ad attendere il proprio turno;
 nella tendenza ad interrompere gli altri o ad essere invadente nei loro confronti.

l DSM-5, sottolinea che i sintomi devono manifestarsi prima dei dodici anni. Una specifica causa del
disturbo non è ancora conosciuta; esistono tuttavia fattori che possono contribuire a farlo insorgere o
esacerbare, tra cui ifattori genetici e le condizioni fisiche e/o sociali del soggetto. Il metodo di cura prevede
spesso una combinazione di trattamenti: terapie comportamentali, cambiamenti dello stile di vita,
interventi clinicopsicologici e farmaci. Per la maggior parte, i bambini che presentano questo disturbo, se
convenientemente trattati, riescono nel tempo ad avere una vita scolastica, sociale e familiare adeguata

La diagnosi nell’ADHD
L’ADHD è diagnosticato attraverso un assessment psicologico. Al fine di escludere altre potenziali cause,
dovranno svolgersi esami fisici, radiologici e test di laboratorio. In sede di diagnosi differenziale, è bene
approfondire la ricorrente difficoltà che il bambino ha di portare a conclusione attività che richiedono
concentrazione (come la comprensione di un testo): potrebbe trattarsi didifficoltà transitorie
oppure di disturbo dell’apprendimento vero e proprio. I sintomi di disattenzione, peraltro, sono comuni
tra i bambini con basso QI collocati in ambienti scolastici inadeguati alle loro capacità intellettive. Tali
sintomi devono essere distinti da segni similari in bambini con disturbo da deficit diattenzione/iperattività.

Inoltre, la resistenza opposta ai compiti da svolgere e più in generale il rifiuto di conformarsi


alle richieste altrui sono tipici dei bambini con comportamento oppositivo; tali sintomi
devono essere distinti dall’evitamento dei compiti scolastici osservato nei bambini con
disturbo da deficit di attenzione/iperattività. Infine, l’aumento dell’attività motoria che si può
verificare nel bambino con disturbo da deficit di attenzione/iperattività deve essere distinto
dal comportamento motorio ripetitivo che caratterizza il disturbo da movimenti
stereotipati. Per indagare le aree interessate dai sintomi è opportuno effettuare una
serie di colloqui con igenitori, con gli insegnanti e anche con il bambino.
Aree da approfondire con i genitori:
 tappe dello sviluppo del bambino;
 comportamento del bambino in famiglia;
 difficoltà educative;
 presenza di situazioni particolari in famiglia;
 tipo di farmaco prescritto dal pediatra per l’allergia ai pollini.
Aree da approfondire con gli insegnanti:

 episodi di aggressività;
 irrequietezza;
 difficoltà di attenzione;
 rendimento scolastico.

I sottotipi del DDAI o ADHD per tfa sostegno 2021


tre sottotipi del DSM-V descrivono campioni di bambini molto eterogenei tra di loro,
soprattutto per quel che riguarda la comorbidità, il background familiare, il decorso
temporale e la risposta alla terapia farmacologica.
I DDAI – sottotipo disattento presentano maggiori problematiche emotive (ansia o
disturbi dell’umore), sono più timidi e ritirati socialmente.
Quelli con DDAI – sottotipo combinato e sottotipo iperattivo-impulsivo si oppongono più
frequentemente alle richieste degli adulti, sono più aggressivi e, nel 30% dei casi, ricevono
una seconda diagnosi di Disturbo della Condotta o di Disturbo Oppositivo-Provocatorio
(Satterfield et al., 1997).
Il sottotipo disattento è più isolato, più “sognatore ad occhi aperti”, più timido, maggiormente
“sotto-attivato” e in parte simile al gruppo con Disturbi di Apprendimento. Alcuni sintomi
tipici:
1. “agire prima di pensare”
2. “cambiare spesso attività”
3. “non attendere il proprio turno”
4. “gridare in classe”.

⇒ I tre sottotipi di DDAI si differenziano anche per l’età in cui ricevono una diagnosi di DDAI:
il sottotipo iperattivi-impulsivo vengono diagnosticati prima del sottotipo combinato e a sua
volta prima del sottotipo disattento.

Funzioni esecutive in studenti con ADHD: il modello BROWN


Brown ha sviluppato un modello allargato per descrivere le funzioni cognitive complesse deteriorate
in soggetti ADHD.
Il modello mostra sei aree separate, dove queste funzioni lavorano continuamente insieme,
di solito rapidamente e inconsciamente, per aiutare ogni singolo gestire le molte attività della
vita quotidiana. Il deterioramento di queste capacità esecutive possono essere valutate con le
Brown Attention Deficit Disorder Scale, scale di valutazione suddivise per bambini, adolescenti
e adulti.
Le funzioni appaiono in forma semplice nei bambini e gradualmente diventano più complesse, in base
a come il cervello matura durante l’infanzia, l’adolescenza e la prima età adulta.
Il modello si compone di sei steps.

1. ATTIVAZIONE
2. Focus
3. SFORZO
4. EMOZIONI
5. Memoria
6. AZIONE
Ognuno ha menomazioni occasionali nelle loro funzioni esecutive, le persone affette da ADHD hanno
molta più difficoltà nello sviluppo e nell’utilizzo di queste funzioni di quanto non facciano molti altri
della stessa età e livello di sviluppo.
Eppure, anche quelli con un ADHD grave, di solito hanno alcune attività in cui le loro funzioni
esecutive funzionano molto bene.
Possono avere difficoltà cronica con i sintomi dell’ADHD nella maggior parte dei settori della vita,
ma quando si tratta di un qualche interesse particolare, come la riproduzione di sport o videogiochi,
fare arte o fare costruzioni con il Lego, i loro sintomi ADHD sono assenti.
Questo fenomeno di “può farlo in questo ambito, ma non da qualche altra parte” fa sembrare
che l’ADHD è un semplice problema di mancanza di forza di volontà; così non è. Queste
alterazioni di funzioni esecutive sono di solito a causa di problemi ereditati nella chimica del
sistema di gestione del cervello.

1. ATTIVAZIONE: sui compiti e l’organizzazione dei materiali, sui tempi di stima della priorità dei
compiti ed inizio della ripresa lavorativa dei compiti. I pazienti con ADHD descrivono una cronica
difficoltà con una eccessiva procrastinazione.
Spesso rimandano l’inizio di un compito, anche se lo riconoscono come molto importante per loro,
fino all’ultimo minuto. È come se essi non possano iniziare fino al punto in cui non percepiscono
questa attività come un’emergenza acuta
2. FOCUS: messa a fuoco, attenzione continua, e spostare l’attenzione ai compiti. Alcuni descrivono
la loro difficoltà nel sostenere il focus fuoco paragonandolo come simile al cercare di ascoltare in
auto la radio quando si guida e si è troppo lontani dalla stazione e il segnale comincia a dissolversi
dentro e fuori. Dicono che sono distratti facilmente non solo dalle cose che succedono intorno a loro,
ma anche dai pensieri nelle loro menti. Inoltre, leggere con attenzione pone delle difficoltà a molti.
Le parole sono generalmente intese come sono lette, ma devono spesso essere lette più e più volte per
fare in modo che il senso del discorso possa essere completamente afferrato e ricordato.
3. SFORZO: regolazione della vigilanza, sostenere lo sforzo e la velocità di elaborazione.
Molti con rapporto ADHD possono svolgere bene progetti a breve termine, ma hanno molta più
difficoltà quando c’è bisogno di uno sforzo costante per periodi di tempo più lunghi. Hanno anche
difficoltà a completare le attività in tempo, soprattutto quando viene richiesto loro di fare una
esposizione scritta. Molti possono anche avere difficoltà cronica di regolazione del sonno e di
vigilanza. Spesso rimangono alzati fino a molto tardi perché non possono arrestare la loro testa. Una
volta addormentati, spesso dormano come morti e hanno un grosso problema nell’alzarsi la mattina.
4. EMOZIONI: gestire la frustrazione e modulare le emozioni. Sebbene il DSM-IV non riconosce
alcun sintomo correlato alla gestione delle emozioni come un aspetto dell’ADHD, molti con questo
disturbo descrivono delle difficoltà croniche di gestione della frustrazione, rabbia, preoccupazione,
delusione, desiderio, ed altre emozioni.
Parlano come se queste emozioni, quando le sperimentano, vengono assunte nel loro pensiero come
quando un virus informatico invade un computer, rendendo loro impossibilitati a prestare attenzione
ad altro. Trovano molto difficile lasciare l’emozione in prospettiva, per inviarla alla parte posteriore
della loro mente, ed andare avanti con ciò che devono fare.
5. MEMORIA: usare la memoria di lavoro ed accedere al richiamo dei dati immagazzinati. Molto
spesso, le persone con ADHD riferiscono di avere memoria adeguata o eccezionale per cose accadute
molto tempo fa, ma grande difficoltà nel riuscire a ricordare dove hanno appena messo qualcosa,
quello che qualcuno ha appena detto a loro, o quello che stavano per dire . Descrivono difficoltà a
mantenere una o più cose “on line” per partecipare ad altre attività. Inoltre, le persone con ADHD
spesso si lamentano che non possono tirare fuori le informazioni di memoria che hanno imparato
quando ne hanno bisogno.
6. AZIONE: il monitoraggio e la regolazione delle azione. Molte persone con ADHD, anche
quelle senza problemi di comportamento iperattivo, segnalano problemi cronici nel regolare
le loro azioni. Essi sono spesso troppo impulsivi in quello che dicono o fanno, e nel loro
modo di pensare, saltano troppo rapidamente a conclusioni imprecise. Le persone con
ADHD segnalano anche problemi nel monitorare il contesto in cui stanno interagendo. Non
riescono a notare quando altre persone sono perplessi, o infastiditi da quello che hanno
appena detto o fatto e quindi non riescono a modificare il loro comportamento in risposta a
circostanze specifiche. Spesso riportano anche una cronica difficoltà nel regolare il ritmo
delle loro azioni, nel rallentare l’automobile e/o accelerare come necessario quando
vengono richiesti questi compiti specifici.
La maggior parte dei bambini, adolescenti e adulti con ADHD riferiscono questi sei gruppi
di menomazioni croniche, in misura nettamente maggiore delle persone senza ADHD. I
gruppi sono categorie che non si escludono a vicenda; tendono a sovrapporsi e sono spesso
interattivi. Le funzioni esecutive deteriorate in soggetti con ADHD sono complesse e multi-
sfaccettate.

Il trattamento del disturbo ADHD: diagnosi, affezioni, iperattività


ADHD ovvero Disturbo da deficit di attenzione iperattivito è caratterizzato da livelli invalidanti
di disattenzione, disorganizzazione e/o iperattività-impulsività. Si stima interessi il 5% dei
bambini, è necessaria una diagnosi con certificazione.

La caratteristica fondamentale dell’ADHD è la persistente presenza di un quadro


caratterizzato da disattenzione e/o iperattività-impulsività che interferisce con lo sviluppo e
il funzionamento.

La disattenzione si evidenzia, sul piano comportamentale, con divagazione dal compito,


mancanza di perseveranza, difficoltà nel mantenimento dell’attenzione, disorganizzazione
non imputabili ad atteggiamenti di sfida o da mancata comprensione. L’iperattività implica
un’eccessiva attività motoria, un dimenarsi, la sensazione che il bambino sia “sotto
pressione”, tamburellamenti, loquacità; tali comportamenti si manifestano in momenti e
situazioni in cui non sono appropriati.

Il trattamento del disturbo ADHD: diagnosi, affezioni, iperattività


ADHD ovvero Disturbo da deficit di attenzione iperattivito è caratterizzato da
livelli invalidanti di disattenzione, disorganizzazione e/o iperattività-impulsività.
Si stima interessi il 5% dei bambini, è necessaria una diagnosi con certificazione.

La caratteristica fondamentale dell’ADHD è la persistente presenza di un quadro caratterizzato da


disattenzione e/o iperattività-impulsività che interferisce con lo sviluppo e il funzionamento.
La disattenzione si evidenzia, sul piano comportamentale, con divagazione dal compito, mancanza di
perseveranza, difficoltà nel mantenimento dell’attenzione, disorganizzazione non imputabili ad
atteggiamenti di sfida o da mancata comprensione. L’iperattività implica un’eccessiva attività
motoria, un dimenarsi, la sensazione che il bambino sia “sotto pressione”, tamburellamenti, loquacità;
tali comportamenti si manifestano in momenti e situazioni in cui non sono appropriati.

L’ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione Iperattività) – la sigla rientra nella categoria dei
Disturbi del Neurosviluppo. Questi tipi di disrtubo esordiscono nel periodo dello sviluppo e si
caratterizzano per un deficit che causa una compromissione nel funzionamento personale, sociale,
scolastico o lavorativo.
Essendo l’ADHD un disturbo pervasivo, tutti gli ambiti di vita del soggetto sono coinvolti, per
cui l’intervento terapeutico va indirizzato verso tutte le aree compromesse (cognitiva,
emotivo-affettiva, comportamentale, relazionale).
I Disturbi del Neurosviluppo si presentano, molto spesso, in concomitanza con altre
patologie, in questo caso si parla di comorbilità.

L’ADHD è caratterizzato da livelli invalidanti di disattenzione, disorganizzazione e/o


iperattività-impulsività. Nella fascia della fanciullezza, l’ADHD si sovrappone spesso a
disturbi quali il Disturbo Oppositivo-Provocatorio e il Disturbo della Condotta. Spesso,
inoltre, permane in età adulta, causando compromissione del funzionamento in ambito
sociale, scolastico e lavorativo.
La presenza di ADHD è stimata in circa il 5% dei bambini ed il 2,5% degli adulti.

Diagnosi di ADHD
L’impulsività si manifesta con azioni estremamente affrettate e che avvengono all’istante,
spesso con elevato rischio per l’individuo.
L’impulsività può esprimere un desiderio di immediata ricompensa, manifestandosi anche
con comportamenti invadenti, come interrompere gli altri in modo eccessivo, o prendere
decisioni importanti senza riflettere sulle possibili conseguenze nel lungo termine.

Le manifestazioni comportamentali devono presentarsi in più di un contesto, ad esempio


casa, scuola, lavoro. Va, inoltre, considerato che i sintomi dell’ADHD possono variare a
seconda dello specifico contesto.
Si differenziano tre sotto-tipi del disturbo:
 Manifestazione combinata: manifestazione più tipica in età evolutiva, caratterizzata da un
quadro combinato di sintomi di disattenzione e d’iperattività-impulsività.
 Manifestazione con disattenzione predominante: i sintomi sono prevalentemente rilevabili
nella categoria “disattenzione” rispetto a quella “iperattività-impulsività”. I bambini
appartenenti a questo sottotipo di disturbo presentano minori problemi a livello
comportamentale e minori difficoltà nelle interazioni con i pari; ciò può indurre genitori e
insegnanti a trascurare la sintomatologia. Possono stare seduti in modo tranquillo, ma la loro
attenzione non è diretta a ciò che stanno facendo o a ciò che l’insegnante spiega.
Manifestazione con iperattività-impulsività predominanti: la maggior parte dei sintomi si
evidenzia nella categoria “iperattività-impulsività”. Possono essere presenti pochi sintomi di
disattenzione, che però non raggiungono una soglia di rilevanza clinica.

RUOLO DELLA FAMIGLIA


I genitori, spesso, infatti non riescono a gestire adeguatamente i comportamenti
problematici del figlio con disturbo da deficit di attenzione/iperattività,.
La difficoltà è capire se sono comportamenti «intenzionali» oppure comportamenti oppositivi
e vivono con crescente frustrazione la perdita di controllo del loro ruolo. Si lavora anche con
i genitori per cercare di modificare la rappresentazione mentale che essi hanno del bambino.
Il trattamento cognitivo-comportamentale, unito alla somministrazione di farmaci, è
particolarmente indicato. Le procedure si prefiggono d’insegnare allo studente le abilità
cognitive mancanti.

I genitori, spesso, infatti non riescono a gestire adeguatamente i comportamenti


problematici del figlio con disturbo da deficit di attenzione/iperattività,.
La difficoltà è capire se sono comportamenti «intenzionali» oppure comportamenti oppositivi
e vivono con crescente frustrazione la perdita di controllo del loro ruolo. Si lavora anche con
i genitori per cercare di modificare la rappresentazione mentale che essi hanno del bambino.
Il trattamento cognitivo-comportamentale, unito alla somministrazione di farmaci, è
particolarmente indicato. Le procedure si prefiggono d’insegnare allo studente le abilità
cognitive mancanti.

Lavorando con la famiglia si cerca di:

 la prevenzione dei sintomi secondari, perché è possibile che i bambini con ADHD
manifestino nel tempo sintomi derivanti da una cattiva interazione tra le caratteristiche proprie
del disturbo e l’ambiente scolastico, sociale e familiare;
 il miglioramento della vita familiare, perché i fattori correlati al disturbo possono
compromettere anche la vita familiare. L’obiettivo, sotto quest’aspetto, è ricostruire la serenità
familiare, individuando i comportamenti e le strategie utili sia al bambino che al genitore per
favorire uno sviluppo buono e adattivo;
 l’incremento delle abilità relazionali, perché i bambini con ADHD faticano a trovare il giusto
modo di relazionarsi nel gruppo dipari. Il fatto di non padroneggiare le regole e di sentirsi
facilmente frustrati li porta frequentemente a mettere il broncio o a essere capricciosi;
 il potenziamento dell’autostima, perché i continui rifiuti e i fallimenti a livello scolastico,
familiare e sociale possono portare icomponenti della famiglia a perdere la fiducia in se stessi.
L’obiettivo è prevenire conseguenze negative come la depressione o l’ansia reattive.
 L’obiettivo finale non può essere raggiunto né in tempi brevi né senza difficoltà per il
bambino e gli adulti che gli stanno accanto. I risultati positivi si alternano
frequentemente agli insuccessi. Di fronte a questi ultimi è importante che i genitori
non si scoraggino e diano fiducia sia al bambino che a se stessi.
 Il bambino, inizialmente, non possiede un adeguato concetto di sé e ha difficoltà a
relazionarsi con i familiari e i coetanei, ecco perché deve essere incoraggiato a
sviluppare il suo potenziale. La costanza, l’impegno e gli interventi terapeutici «gli
permetteranno di spezzare il circolo vizioso di frustrazione e insuccesso
e di aumentare considerevolmente abilità personali e autostima
Il trattamento del disturbo ADHD: diagnosi, affezioni, iperattività
ADHD ovvero Disturbo da deficit di attenzione iperattivito è caratterizzato da
livelli invalidanti di disattenzione, disorganizzazione e/o iperattività-impulsività.
Si stima interessi il 5% dei bambini, è necessaria una diagnosi con certificazione.

La caratteristica fondamentale dell’ADHD è la persistente presenza di un quadro caratterizzato da


disattenzione e/o iperattività-impulsività che interferisce con lo sviluppo e il funzionamento.
La disattenzione si evidenzia, sul piano comportamentale, con divagazione dal compito, mancanza di
perseveranza, difficoltà nel mantenimento dell’attenzione, disorganizzazione non imputabili ad
atteggiamenti di sfida o da mancata comprensione. L’iperattività implica un’eccessiva attività
motoria, un dimenarsi, la sensazione che il bambino sia “sotto pressione”, tamburellamenti, loquacità;
tali comportamenti si manifestano in momenti e situazioni in cui non sono appropriati.

L’ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione Iperattività) – la sigla potrebbe essere importante per
una domanda della preselettiva che vuole la specifica dicitura domande in tal senso sono presenti nel
simulatore di Origine – rientra nella categoria dei Disturbi del Neurosviluppo. Questi tipi di disrtubo
esordiscono nel periodo dello sviluppo e si caratterizzano per un deficit che causa una
compromissione nel funzionamento personale, sociale, scolastico o lavorativo.
Essendo l’ADHD un disturbo pervasivo, tutti gli ambiti di vita del soggetto sono coinvolti, per cui
l’intervento terapeutico va indirizzato verso tutte le aree compromesse (cognitiva, emotivo-affettiva,
comportamentale, relazionale).
I Disturbi del Neurosviluppo si presentano, molto spesso, in concomitanza con altre patologie, in
questo caso si parla di comorbilità.
L’ADHD è caratterizzato da livelli invalidanti di disattenzione, disorganizzazione e/o iperattività-
impulsività. Nella fascia della fanciullezza, l’ADHD si sovrappone spesso a disturbi quali
il Disturbo Oppositivo-Provocatorio e il Disturbo della Condotta. Spesso, inoltre, permane in età
adulta, causando compromissione del funzionamento in ambito sociale, scolastico e lavorativo.
La presenza di ADHD è stimata in circa il 5% dei bambini ed il 2,5% degli adulti.
Diagnosi di ADHD
L’impulsività si manifesta con azioni estremamente affrettate e che avvengono all’istante, spesso con
elevato rischio per l’individuo.
L’impulsività può esprimere un desiderio di immediata ricompensa, manifestandosi anche con
comportamenti invadenti, come interrompere gli altri in modo eccessivo, o prendere decisioni
importanti senza riflettere sulle possibili conseguenze nel lungo termine.

Le manifestazioni comportamentali devono presentarsi in più di un contesto, ad esempio casa, scuola,


lavoro. Va, inoltre, considerato che i sintomi dell’ADHD possono variare a seconda dello specifico
contesto.
Si differenziano tre sotto-tipi del disturbo:
 Manifestazione combinata: manifestazione più tipica in età evolutiva, caratterizzata da un quadro
combinato di sintomi di disattenzione e d’iperattività-impulsività.
 Manifestazione con disattenzione predominante: i sintomi sono prevalentemente rilevabili nella
categoria “disattenzione” rispetto a quella “iperattività-impulsività”. I bambini appartenenti a questo
sottotipo di disturbo presentano minori problemi a livello comportamentale e minori difficoltà nelle
interazioni con i pari; ciò può indurre genitori e insegnanti a trascurare la sintomatologia. Possono
stare seduti in modo tranquillo, ma la loro attenzione non è diretta a ciò che stanno facendo o a ciò che
l’insegnante spiega.
Manifestazione con iperattività-impulsività predominanti: la maggior parte dei sintomi si evidenzia
nella categoria “iperattività-impulsività”. Possono essere presenti pochi sintomi di disattenzione, che
però non raggiungono una soglia di rilevanza clinica.

RUOLO DELLA FAMIGLIA


I genitori, spesso, infatti non riescono a gestire adeguatamente i comportamenti problematici del
figlio con disturbo da deficit di attenzione/iperattività,.
La difficoltà è capire se sono comportamenti «intenzionali» oppure comportamenti oppositivi e
vivono con crescente frustrazione la perdita di controllo del loro ruolo. Si lavora anche con i genitori
per cercare di modificare la rappresentazione mentale che essi hanno del bambino. Il trattamento
cognitivo-comportamentale, unito alla somministrazione di farmaci, è particolarmente indicato. Le
procedure si prefiggono d’insegnare allo studente le abilità cognitive mancanti.
Lavorando con la famiglia si cerca di:

 la prevenzione dei sintomi secondari, perché è possibile che i bambini con ADHD manifestino nel
tempo sintomi derivanti da una cattiva interazione tra le caratteristiche proprie del disturbo e
l’ambiente scolastico, sociale e familiare;
 il miglioramento della vita familiare, perché i fattori correlati al disturbo possono compromettere
anche la vita familiare. L’obiettivo, sotto quest’aspetto, è ricostruire la serenità familiare,
individuando i comportamenti e le strategie utili sia al bambino che al genitore per favorire uno
sviluppo buono e adattivo;
 l’incremento delle abilità relazionali, perché i bambini con ADHD faticano a trovare il giusto
modo di relazionarsi nel gruppo dipari. Il fatto di non padroneggiare le regole e di sentirsi facilmente
frustrati li porta frequentemente a mettere il broncio o a essere capricciosi;
 il potenziamento dell’autostima, perché i continui rifiuti e i fallimenti a livello scolastico, familiare e
sociale possono portare icomponenti della famiglia a perdere la fiducia in se stessi. L’obiettivo è
prevenire conseguenze negative come la depressione o l’ansia reattive.
L’obiettivo finale non può essere raggiunto né in tempi brevi né senza difficoltà per il bambino e gli
adulti che gli stanno accanto. I risultati positivi si alternano frequentemente agli insuccessi. Di fronte
a questi ultimi è importante che i genitori non si scoraggino e diano fiducia sia al bambino che a se
stessi.
Il bambino, inizialmente, non possiede un adeguato concetto di sé e ha difficoltà a relazionarsi
con i familiari e i coetanei, ecco perché deve essere incoraggiato a sviluppare il suo potenziale. La
costanza, l’impegno e gli interventi terapeutici «gli permetteranno di spezzare il circolo
vizioso di frustrazione e insuccesso e di aumentare considerevolmente abilità personali e autostima.
Trattamento dell’ADHD
Il trattamento dell’ADHD prevede un intervento multimodale in grado di combinare interventi di
tipo farmacologico (nei casi più gravi), psico-educativo e psicoterapeutico. Gli psicostimolanti sono
ritenuti i farmaci più efficaci per adolescenti, bambini e adulti con ADHD. Ovviamente, solo nei
casi più complessi e difficili è possibile e consigliabile il ricorso ai farmaci, come ad esempio il
metilfenidato (Ritalin), le anfetamine (Adderal), le destoanfetamine (Dextrostat, Dexedrine) e
l’atomoxetina (Strattera).

I principali effetti positivi sono a carico del mantenimento dei livelli di attenzione,
dell’impulsività e dell’iperattività.
Affinché vi siano miglioramenti durevoli nel tempo è fondamentale affiancare al trattamento
farmacologico un percorso combinato di strategie cognitive e comportamentali che aiutino
bambino, genitori e insegnanti a raggiungere una piena comprensione del problema e nella
gestione dei comportamenti problematici presenti.

I programmi cognitivo-comportamentali di provata efficacia per l’ADHD prevedono vari livelli


d’intervento tra loro interconnessi che coinvolgono: la famiglia, l’ambito scolastico, il
trattamento individuale del bambino.

ADHD in famiglia: intervento con i genitori

I programmi di intervento diretti ai genitori sono chiamati e detti sempre dall’inglese (ADHD
Parent Training) hanno lo scopo di accrescere la consapevolezza e la conoscenza
del disturbo ADHD, sviluppando capacità di gestione da parte dei genitori e modificando i
comportamenti disfunzionali messi in atto nella relazione del soggetto (sia esso bambino o
adolescente).
Stimolando maggiori capacità riflessive da parte dei genitori, per aiutarli ad acquisire
maggior coerenza e stabilità nelle proprie strategie educative che aiutino e supportino il
bambino nell’acquisizione della capacità di autogestirsi.
Un ruolo fondamentale riveste la promozione di un miglior clima emotivo in famiglia e di una
più efficace comunicazione con il bambino, anche definendo meglio limiti e regole da
seguire.
ADHD a scuola: intervento con gli insegnanti
L’intervento indirizzato agli insegnanti (ADHD Teacher Training) ha lo scopo di fornire in
una prima fase informazioni necessarie a raggiungere una piena conoscenza del disturbo
ADHD. Ciò costituisce un prerequisito importante perché si possa iniziare un
riconoscimento degli aspetti positivi del bambino.
Diviene centrale in tale ottica fornire agli insegnanti informazioni su una strutturazione
dell’ambiente scolastico che tenga in considerazione bisogni e caratteristiche del
bambino iperattivo, per potenziare le sue capacità attentive e gli apprendimenti. Vanno,
inoltre, fornite agli insegnanti strategie utili per gestire e modificare i comportamenti
disfunzionali, oltre che migliorare le sue relazioni con i coetanei.

Intervento con il bambino


La terapia cognitivo-comportamentale con il bambino con ADHD si indirizza in modo
sinergico verso tutte le aree implicate nel disturbo e deficitarie.
Vengono insegnate al bambino strategie che lo guidino in modo sistematico alla
pianificazione del proprio comportamento nei diversi ambiti di vita e alla risoluzione dei
problemi (Problem Solving). Grande attenzione viene rivolta all’ acquisizione della capacità
di monitorare le proprie azioni, sviluppando una capacità di autoregolazione verso
l’impulsività e la disattenzione.
Il bambino apprende, inoltre, a trarre informazioni importanti dai propri errori per
autocorreggersi, ma anche a sapersi premiare per il raggiungimento di risultati positivi.

L’intervento è volto anche all’incremento delle abilità sociali, attraverso il rispetto delle
regole, lo sviluppo di interazioni più efficaci e la capacità di decodificare lo stato emotivo
altrui, per poter rispondere e relazionarsi in modo adeguato e funzionale.

La didattica per alunni con ADHD


ADHD caratteristiche:
Disturbi di tipo cognitivo e di tipo comportamentale:

1. disordine nella tenuta e custodia dei materiali scolastici


2. difficoltà nel portare a termine le attività che richiedono concentrazione nel tempo, compiti
lunghi, scarsa applicazione che pregiudica il rendimento di compiti che necessitano
concentrazione a lungo termine
3. insoddisfazione e disattenzione alle manifestazioni, recite, lavori di gruppo che obbligano agli
spazi chiusi.
4. l’alunno ha poca cura per i dettagli, si dimostra incapace di pianificare e organizzare il lavoro
Disturbi a livello comportamentale: difficoltà a stare fermo, attendere il proprio turno, non
rispetta i tempi e gli spazi dei compagni.
5. irrequietezza,
6. episodi di aggressività
7. insofferenza alle regole

Se non correttamente gestito nella scuola primaria il disturbo manifesta un peggioramento


nella scuola secondaria tanto da indurre a difficoltà relazionali ed abbandono scolastico.
In una situazione del genere bisogna lavorare perchè il soggetto possa apprendere le abilità
necessarie, di autocontrollo sociali e didattiche, per superare le proprie difficoltà».
L’insegnante deve essere consapevole del fatto che il suo atteggiamento con il soggetto
disattento/iperattivo ha un forte impatto sulla modificazione del suo comportamento.

 la definizione delle regole e della routine scolastica (l’obiettivo è creare un ambiente


prevedibile, noto e rassicurante);
 l’organizzazione dei tempi di lavoro;
 l’organizzazione del materiale (sotto quest’aspetto, è opportuno che il docente si proponga
come modello nel mantenere in ordine il proprio materiale e aiuti l’alunno disordinato a
inventare delle strategie per fare altrettanto

La principale sfida per gli insegnanti, nel loro rapporto con alunni affetti da ADHD, è stimolare il
loro interesse e mantenere un livello di attenzione adeguato al raggiungimento degli
obiettivi di apprendimento che ci si è prefissati.

L’attenzione, intesa come quel processo mediante il quale si mette a fuoco, ovvero si coglie
il senso, di una parte del mondo percettivo circostante è strettamente connessa alla
motivazione ed all’interesse; pertanto la proposta didattica, le modalità di organizzare le
lezioni, l’ambiente di apprendimento e il coinvolgimento che si riesce ad attivare con gli alunni
sono tutti elementi in grado di influenzare profondamente le prestazioni attentive degli
alunni.
 Tali abilità da parte dell’insegnante diventano ancora più importanti nella scuola
secondaria, rispetto ad impegni di apprendimento sempre più pressanti e riduzione
sostanziale dei momenti ludici.

Alcuni suggerimenti per la gestione delle lezioni:


 accorciare i tempi di lavoro e alternarli a momenti di pausa, che devono essere brevi e
frequenti;
 rendere le lezioni stimolanti e ricche di novità per ravvivare l’interesse dell’alunno;
 interagire frequentemente, verbalmente e fisicamente, con gli alunni disattenti/iperattivi;
 fare in modo che essi debbano rispondere spesso durante la lezione;
 utilizzare il nome degli allievi distratti per richiamarne l’attenzione;
 costruire situazioni di gioco per favorire la comprensione delle spiegazioni;
 utilizzare il gioco dei ruoli per spiegare concetti storici e sociali in cui siano coinvolti vari
personaggi;
 abituare l’alunno impulsivo a controllare il lavoro che ha svolto;
 istruirlo a continuare la parte più facile del compito nell’attesa che l’insegnante l’aiuti a
svolgere quella più difficile;
 evitare di creare situazioni di competizione con altri compagni durante lo svolgimento dei
compiti in classe;
 suddividere il lavoro a casa in piccole porzioni facilmente controllabili;
 controllare che i compiti siano stati scritti sul diario prima che l’alunno vada a casa;
 controllare ogni giorno che l’alunno abbia svolto i compiti a casa e prendere provvedimenti
immediati quando non li ha svolti.
[La scuola: il terreno preferito dal bambino disattento e iperattivo, Associazione Italiana Famiglie
ADHD (A.I.F.A.), Indicazioni per gli insegnanti].

Suggerimenti per la gestione del comportamento:


 definire e mantenere regole chiare e semplici all’interno della classe, rivedendole e
correggendole quando se ne ravvede la necessità;
 spiegare chiaramente agli alunni disattenti/iperattivi quali sono i comportamenti adeguati e
quali quelli inappropriati;
 far capire agli allievi impulsivi quali sono le conseguenze dei loro comportamenti positivi e
quali quelle derivanti da azioni negative;
 rinforzare i comportamenti positivi (stabiliti in precedenza), piuttosto che punire quelli
negativi, perché le punizioni (specie se severe), le note scritte o le sospensioni, non
modificano il comportamento dell’alunno, se non in peggio;
 sottolineare i comportamenti adeguati dell’alunno attraverso ampie ed evidenti
gratificazioni;
 cambiare i rinforzi quando tendono a perdere d’efficacia;
 non punire l’alunno privandolo dell’intervallo, perché il bambino iperattivo
necessita di scaricare la tensione e di socializzare con i compagni;
 stabilire giornalmente o settimanalmente semplici obiettivi da raggiungere;
 informare spesso l’alunno disattento/iperattivo su come sta lavorando e come si sta
comportando (feedback), soprattutto rispetto agli obiettivi da raggiungere.

DSA

Alunni che presentano altre situazioni di difficoltà nell’apprendimento (non


classificate tra i DSA)
La terza classe comprende gli alunni che presentano altre situazioni di difficoltà
nell’apprendimento che comportano bisogni educativi speciali e non possono essere
raggiunti senza un’azione pedagogica e didattica egualmente specifica –
appunto speciale. La Direttiva del 27 dicembre 2012, pur facendo riferimento a tutte le
situazioni di BES, è stata elaborata per dare normazione a questa terza amplissima
tipologia di BES. Si tratta di:

1. alunni in situazioni di difficoltà nell’apprendimento scolastico derivanti da veri e propri


disturbi;
2. alunni che possono essere definiti in situazione di deprivazione socio-ambientale;
3. alunni che si ritirano dall’impegno scolastico a causa di una complessa situazione di
sofferenza personale.

Le ragioni delle difficoltà di apprendimento: fattori ambientali e fattori genetici


Le «difficoltà ad apprendere» possono dipendere da fattori ambientali e/o esterni all’alunno
(arretratezza culturale, scarsa stimolazione, degrado sociale, assenze frequenti, difficoltà linguistiche)
in questo caso noi parliamo di alunni BES in situazione di svantaggio oppure da fattori
individuali (deficit visivi e/o uditivi, insufficienza mentale, scarso funzionamento di capacità
specifiche come linguaggio, lettura, memoria o attenzione).

Ambientali ⇒ Svantaggio

Individuali ⇒ Disabilità cognitiva

I disturbi vengono diagnosticati quando i risultati ottenuti in test psicometrici, somministrati


individualmente, su lettura, calcolo o espressione scritta si collocano significativamente al di sotto
degli standard previsti in base all’età, all’istruzione e al livello di intelligenza.

Normalmente sono gli insegnanti i primi a denunciare che l’alunno presenta qualche tipo di difficoltà,
come per esempio una limitazione nella capacità di ascolto, un’eccessiva lentezza nel leggere, errori
frequenti nel leggere e/o scrivere, difficoltà nel conteggio etc. E questo perché molti genitori, pur
accorgendosi delle difficoltà incontrate dal figlio, esitano a lungo prima di ricorrere ad uno specialista
per la diagnosi e l’eventuale trattamento del disturbo: ciò può dipendere dall’erroneo convincimento
che le difficoltà possano essere superate spontaneamente col passare del tempo o, peggio ancora, dal
timore delle «etichettature».

I disturbi sono estremamente variabili. Alcuni soggetti, per esempio, possono avere difficoltà solo
nell’ambito della lettura e della scrittura, altri solo nell’ambito del calcolo o magari nella
comprensione di ciò che viene detto. Altri, infine, possono presentare difficoltà in più ambiti
contemporaneamente.

La psicologia li suddivide in disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) e disturbi non specifici di


apprendimento (DNSA).
I primi rappresentano una precisa categoria diagnostica e, in quanto tali, si distinguono dalla generica
«difficoltà di apprendimento» che, proprio per il suo carattere aspecifico, include tipologie molto
diverse di difficoltà che si possono manifestare nell’ambito scolastico.

I segnali che aiutano ad individuare un disturbo di apprendimento scolastico


Certi comportamenti e atteggiamenti possono essere considerati come spie della presenza di disturbi
di apprendimento scolastico. Alcuni di questi sono facilmente evidenziabili dai genitori, soprattutto
in età prescolare. Altri, invece, possono essere più efficacemente identificati dagli insegnanti.

Segnali evidenziabili in età prescolare:

 ritardo nella comparsa del linguaggio;


 problemi di pronuncia;
 vocabolario limitato per l’età;
 difficoltà ad imparare l’alfabeto, i giorni della settimana, i colori, le forme e i numeri;
 iperattività e distraibilità estreme;
 grosse difficoltà nell’interazione con i coetanei;
 difficoltà di orientamento spaziale (confusione tra destra e sinistra);
 ritardo nell’acquisizione di abilità motorie fini (allacciarsi le scarpe o usare le forbici).

Segnali evidenziabili in età scolare (3-6 anni):


 difficoltà ad abbinare le lettere ai suoni;
 pause frequenti ed errori (per esempio, scambio di lettere b con d o q con p) durante la lettura
ad alta voce;
 errori nella lettura di numeri a due o più cifre, invertendo l’ordine (per esempio, 21 viene
letto 12);
 confusione tra i simboli aritmetici;
 lentezza nell’apprendere cose nuove;
 lentezza nella memorizzazione;
 impulsività e difficoltà a pianificare le proprie attività;
 impugnatura goffa della penna;
 difficoltà a percepire i rapporti temporali (confusione tra ieri e domani);
 scarso coordinamento motorio e goffaggine.

Segnali evidenziabili in età scolare (7-10 anni):


 difficoltà a imparare prefissi e suffissi;
 riluttanza a leggere ad alta voce;
 difficoltà a capire i problemi di matematica;
 calligrafia caotica e incomprensibile;
 riluttanza ad eseguire compiti scritti;
 scarsa capacità di ricordare gli avvenimenti;
 incapacità a ripetere correttamente una storia, non rispettando l’ordine temporale degli
avvenimenti;
 estrema difficoltà a fare amicizia con i coetanei;
 difficoltà a rispettare il proprio turno durante una conversazione o durante un gioco;
 difficoltà a capire gli scherzi e le barzellette.
La presenza e, soprattutto, la persistenza di alcuni tra i segnali sopra elencati, deve indurre
a sospettare l’esistenza di un disturbo di apprendimento scolastico. Per la
corretta diagnosi del disturbo è necessario un esame approfondito e l’uso di diversi test
psicometrici.

I disturbi specifici di apprendimento (DSA)


Una diagnosi di DSA si può porre «quando, a test

standardizzati di lettura, scrittura e calcolo, il livello di una o più di queste tre competenze

risulta di almeno due deviazioni standard inferiore ai risultati medi prevedibili, oppure

l’età di lettura e/o di scrittura e/o di calcolo è inferiore di almeno due anni in rapporto all’età

cronologica del soggetto, e/o all’età mentale, misurata con test psicometrici standardizzati,

nonostante un’adeguata scolarizzazione.

Tali disturbi (denominati dislessia, disortografia e disgrafia, discalculia) sono sottesi da

specifiche disfunzioni neuropsicologiche, isolate o combinate»1. I DNSA, invece, «si

riferiscono ad una disabilità ad acquisire nuove conoscenze e competenze non limitata

ad uno o più settori specifici delle competenze scolastiche, ma estesa a più settori.

La disabilità intellettiva (ex ritardo mentale), il livello cognitivo borderline, l’ADHD,

l’autismo ad alto funzionamento, i disturbi d’ansia, alcuni quadri distimici, sono alcune tra le

categorie o entità diagnostiche che causano o possono causare DNSA».

Nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-

5) i disturbi specifici di apprendimento sono inquadrati come disturbi della

lettura, dell’espressione scritta e del calcolo.

Il problema delle difficoltà ad apprendere è di notevole entità e incomincia a manifestarsi già

a partire dalla scuola dell’infanzia, anche se in quella fase il problema non si pone

propriamente in termini di apprendimento scolastico. L’Associazione Docenti Italiani (ADI)

denuncia infatti che «alla scuola primaria gli alunni che alla fine dei cinque anni risultano in

situazione diinadeguatezza generale nella preparazione – cioè di generale insuccesso

nell’apprendimento disciplinare – sono già estremamente numerosi». Alla scuola

secondaria di primo grado, all’aumento di complessità e finezza negli apprendimenti

richiesticorrisponde l’aumento dell’area dell’esclusione dal successo nell’apprendimento. A

livello della secondaria di secondo grado, poi, l’area della grave inadeguatezza aumenta

complessivamente in modo significativo, con concentrazioni diverse nei diversi tipi discuole.
Il disturbo della lettura: la dislessia
La dislessia consiste nella difficoltà che i soggetti scolarizzati hanno a leggere fluentemente e
correttamente ad alta voce.
Il disturbo si manifesta attraverso lettura stentata, poco espressiva e comunque al di sotto
degli standard previsti per l’età anagrafica, il livello intellettivo generale e l’istruzione
adeguata all’età.

Le cause della dislessia sono un aspetto ancora poco chiaro. Sull’argomento, tuttavia,
esistono numerose teorie; tra queste, la più attendibile ritiene che la dislessia dipenda
dall’anomala espressione di alcuni geni correlati al linguaggio e alla capacità di lettura.
La dislessia si palesa in modo inequivocabile al sopraggiungere dell’età scolare; in realtà,
però, questo disturbo specifico dell’apprendimento dà dimostrazione di sé anche in età
prescolare, ma i segnali non sono sempre chiari (specie a un occhio inesperto).
La diagnosi di dislessia prevede un iter di indagini articolato, volto a escludere altri disturbi.
Attualmente, il soggetto affetto da dislessia può contare su diverse strategie di supporto;
sebbene non consentano la guarigione, queste strategie di supporto permettono di colmare
in modo importante le difficoltà di lettura e scrittura.

Difficoltà di questo tipo possono dipendere da:

 capacità intellettive insufficienti,


 istruzione manchevole,
 deficit sensoriali,
 cause esterne.

La dislessia può infatti essere acquisita o evolutiva.
ACQUISITA: La dislessia acquisita si manifesta in soggetti che sono in grado di leggere
normalmente e che, in conseguenza di lesioni derivate da eventi patologici nelle aree corticali
coinvolte nel procedimento di transcodifica, cominciano a commettere errori o ad incontrare difficoltà
di decodifica.
EVOLUTIVA: La dislessia evolutiva, invece, è il disturbo di lettura proprio di quei soggetti che non
hanno mai imparato a leggere in modo corretto. Molto più frequente di quella acquisita, la dislessia
evolutiva è solitamente diagnosticata durante i primi anni della scuola primaria, quando gli alunni
cominciano ad apprendere la lettura e la scrittura, ma può essere rilevata anche in una persona
adulta.

o il livello intellettivo deve essere nella norma (Q.I. compreso tra 75 e 100);
o il livello di lettura deve essere significativamente distante da quello di un bambino di pari età
o classe frequentata;
o il soggetto non deve presentare disturbi neurologici o sensoriali che possano giustificare la
difficoltà di lettura come conseguenza diretta;
o il disturbo deve essere persistente, nonostante una scolarizzazione adeguata e interventi
didattici specifici;
o il disturbo deve presentare conseguenze sulla scolarizzazione o sulle attività sociali in cui è
richiesto l’impiego della letto-scrittura.
Il bambino in età scolare:

 acquisisce con ritardo le normali competenze linguistiche;


 pronuncia male alcune parole, lettere o gruppi di lettere;
 confonde le indicazioni di direzione (es. sopra/sotto, dentro/fuori);
 inciampa, sbatte, cade eccessivamente;
 manifesta rapidità di pensiero e di azione;
 ha difficoltà ad imparare le filastrocche per bambini;
 presenta difficoltà con le «sequenze» (es. successione ordinata di perline colorate).

Il bambino fino ai 9 anni:


 incontra una difficoltà ad imparare a leggere e a scrivere;
 inverte continuamente numeri e lettere (ad es. “15” per “51”, “b” con “d”);
 impara a fatica l’alfabeto, le tabelline e le sequenze di nomi, come i giorni della settimana
e i mesi dell’anno;
 è disattento e ha scarsa capacità di concentrazione;
 non riesce agevolmente ad allacciarsi le scarpe, a colpire il pallone o a saltare.

Il bambino dai 9 ai 12 anni:

 persiste negli errori nella lettura e/o possiede una scarsa comprensione dei contenuti;
 inverte o omette lettere e parole nella lettura e nella scrittura;
 per eseguire compiti scritti impiega un tempo superiore alla media;
 è disorganizzato a scuola e a casa;
 ha difficoltà a copiare dalla lavagna o dal testo;
 vive sentimenti di mancanza di fiducia in se stesso e nelle sue capacità;
 incontra notevole difficoltà ad imparare le lingue straniere.

Indicatori dislessia
Tra gli indicatori più comuni del disturbo dislessico vi è la scarsa capacità di discriminare grafemi:
 diversamente orientati nello spazio, per cui il soggetto confonde la “p” e la “b”, la “d” e la
“q”, la “u” e la “n”, la “a” e la “e”, la “b” e la “d”, etc.;
 che presentano somiglianze o differiscono per piccoli particolari, per cui il soggetto confonde
la “m” con la “n”, la “c” con la “e”, la “f” con la “t”, la “e” con la “a”, etc.;
 corrispondenti a fonemi che presentano somiglianze percettivo-uditive (F e V; T e D; P e B;
C e G; L e R; M e N; S e Z).
Il soggetto dislessico presenta poi difficoltà di decodifica sequenziale, che si manifestano in
omissione di grafemi e sillabe, salti di parole e/o salti da un rigo all’altro, inversioni di sillabe,
aggiunte e ripetizioni.
La lettura è il risultato di una sequenza di processi complessi che comprendono
un’attività di decodifica e transcodifica e un processo di comprensione. L’attività di decodifica e
transcodifica include il riconoscimento dei segni dell’ortografia, la conoscenza delle
regole di conversione dei segni ortografici in suoni, la ricostruzione delle stringhe di suoni in parole
del lessico. Il processo di comprensione, peraltro, riguarda sia il significato delle parole singolarmente
considerato sia il significato del testo nel suo complesso.
La corretta interpretazione degli indicatori di dislessia è molto importante per porre una diagnosi
differenziale(1) con altri tipi didisturbi dell’apprendimento. Se la sindrome dislessica non viene
riconosciuta, la compromissione del rendimento scolastico può essere erroneamente attribuita ad altre
cause (ritardi intellettivi, pigrizia, problemi psicologici, disattenzione, ecc.).
(1) La diagnosi differenziale prevede:

 variazioni del rendimento scolastico entro i limiti (bassi) della norma;


 difficoltà scolastiche dovute a mancanza di opportunità, insegnamento carente, fattori culturali;
 difficoltà di apprendimento derivanti da disturbi della vista o dell’udito, a meno che le difficoltà di apprendimento siano in
eccesso rispetto a quanto solitamente associato a questi deficit;
 ritardo mentale, salvo quei casi con livello di apprendimento (lettura, scrittura o calcolo) significativamente inferiore
rispetto al livello atteso in base a scolarità e grado del ritardo mentale;
 disturbo generalizzato dello sviluppo, a meno che il livello scolastico sia significativamente inferiore alle attese in base a
scolarità e funzionamento intellettivo.
Gli obiettivi degli interventi terapeutici – che devono essere personalizzati in base a parametri come l’età, la specificità
del disturbo e il livello di gravità – sono di ridurre la pesantezza del disturbo, di favorire l’inserimento socio-scolastico
e di permettere al soggetto di sviluppare al meglio le proprie potenzialità. La collaborazione degli insegnanti è
indispensabile, sotto l’aspetto sia professionale che umano. I bambini che fin dalle prime esperienze scolastiche
presentano uno sviluppo linguistico atipico devono essere oggetto di costante monitoraggio, sia a scuola che in
famiglia, coinvolgendo anche il pediatra che, anche previa valutazione dell’anamnesi familiare, potrà suggerire un
consulto specialistico presso un’équipe multidisciplinare.

Apprendimento della scritta: disortografia e disgrafia


La disortografia è la difficoltà a tradurre correttamente i suoni che compongono le parole in simboli
grafici, pur possedendo un linguaggio adeguato sul piano della pronuncia lessicale e delle capacità
espressive.
La disortografia è il disturbo specifico che coinvolge la correttezza della scrittura, cioè
l’ortografia come capacità di scrivere rappresentando correttamente i suoni e le parole della propria
lingua.
Nel caso della disortografia, la capacità che chiamiamo transcodifica del linguaggio orale nel
linguaggio scritto si manifesta con errori fonologici e non fonologici:
 Gli errori fonologici rappresentano la capacità compromessa di far corrispondere il suono al
segno: ne sono esempi la sostituzione di lettere simili (t al posto d, b al posto di v), l’aggiunta o la
mancanza di lettere e sillabe, inversioni di lettere all’interno di una parola.
 Gli errori non fonologici sono, per esempio, le separazioni e fusioni illecite (“la voro” invece di
“lavoro” “ilcane” invece di “il cane”) e gli scambi o le omissioni di grafemi come “o” al posto di
“ho” o “qucina” invece di “cucina”, l’aggiunta o l’omissione di lettere doppie.
Essa si presenta generalmente associata alla disgrafia, che è invece un disturbo grafomotorio che si
manifesta come incapacità o maldestrezza nel realizzare il gesto grafico.
Le manifestazioni tipiche della disortografia sono:

 confusione tra fonemi simili: il soggetto confonde i suoni alfabetici che si assomigliano (F e V; T e
D; B e P; L e R, etc.);
 confusione tra grafemi simili: il soggetto ha difficoltà a riconoscere i segni alfabetici che presentano
somiglianza nella forma (es. “b” e “p”);
 omissioni: il soggetto tralascia alcune parti della parola, per esempio la doppia consonante (es. palla-
pala, soqquadro-soquadro), la vocale intermedia (es. fuoco-foco, tuono-tono), la consonante
intermedia (es. cartolina-catolina, acqua-aqua);
 inversioni: il soggetto inverte la sequenza dei suoni all’interno delle parole (es. sefamoro anziché
semaforo).
Il soggetto disortografico può presentare difficoltà nella coordinazione oculomotoria e visuo-
spaziale e nella velocità della riproduzione dei grafemi. Tuttavia egli è in grado di produrre testi
coerenti, nel pieno rispetto delle regole sintattiche, perché gli errori che commette dipendono dalla
scarsa automatizzazione dei «processi bassi» e cioè di tutti quei processi che da «volontari» sono
destinati a diventare «involontari».

La disgrafia
La disgrafia è causata dall’incapacità di riprodurre correttamente segni
alfabetici (soprattutto in carattere corsivo) o numerici. La qualità della scrittura è deficitaria
senza che tale deficit debba essere necessariamente causato da disturbineurologici o
intellettivi.
Le manifestazioni tipiche del disturbo sono:
 la scarsa leggibilità del testo,
 la disorganizzazione delle forme e degli spazi grafici,
 la confusione e la disarmonia,
 la lentezza e la fatica nello scrivere,
 l’irregolarità della pressione (molto calcata o molto leggera),
 attività motoria eccessiva o comunque non legata a quella strettamente scrittoria,
 la difficoltà ad impugnare correttamente lo strumento scrittorio (matita, penna etc.).
Questa difficoltà causa frequentemente tensioni muscolari eccessive e dolorose alla mano,
al braccio, alle spalle, alla schiena e impedisce la rotondità del tratto, producendo una
scrittura troppo calcata o troppo leggera, priva di regolare proporzione tra le lettere e
difficilmente leggibile. Le lettere vengono riprodotte troppo piccole o troppo grandi e si
differenziano anche nella stessa parola. Il gesto risulta poco fluido, perché la mano non
scorre adeguatamente sul foglio. L’illeggibilità è un fattore di frustrazione che influisce
negativamente sull’autostima e sul rendimento scolastico. Molto difficile è poi copiare dalla
lavagna, operazione che richiede una sequenza di passaggi coordinati e ravvicinati:
sollevare lo sguardo, osservare, memorizzare, riabbassare la testa e scrivere sul quaderno.

Disturbo specifico dell’apprendimento della matematica e dei calcoli: la discalculia


evolutiva e l’acalculia (incapacità totale di fare calcoli)
Il disturbo delle abilità aritmetiche: la discalculia evolutiva

La discalculia evolutiva è un disturbo caratterizzato da una ridotta


capacità di apprendimento numerico e del calcolo in rapporto all’età del soggetto ed al suo
livello scolastico di apprendimento; secondo l’OMS si tratta di un disturbo a prognosi
organica, geneticamente determinato, espressione di disfunzione cerebrale.
L’acalculia invece è un difetto ad effettuare il calcolo mentale e scritto. Sebbene il termine
sia spesso utilizzato come sinonimo di discalculia, si distingue da questa per una completa
impossibilità nell’eseguire calcoli mentali.
I principali elementi di riconoscimento sono:
 la difficoltà nella lettura dei simboli matematici;
 la difficoltà nella scrittura di simboli matematici;
 la difficoltà nel manipolare materiale per quantificare e stabilire relazioni;
 la difficoltà nella denominazione dei simboli matematici;
 la difficoltà a svolgere operazioni matematiche;
 la difficoltà nel cogliere nessi e relazioni matematiche.
La discalculia evolutiva è infatti un disturbo specifico dell’apprendimento (DSA):

 si può definire come un disturbo delle abilità numeriche e aritmetiche


 si manifesta in bambini a sviluppo tipico, di intelligenza normale e che non hanno subito
danni neurologici
 può presentarsi associata a dislessia e ad altri disturbi dell’apprendimento, ma non ne è
l’effetto

In sintesi, in ambito scientifico si tende a distinguere gli errori di calcolo in quattro categorie:
1. errori nel recupero di fatti aritmetici
2. errori nel mantenimento e nel recupero delle procedure
3. errori nell’applicazione delle procedure
4. difficoltà visuospaziali

I soggetti discalculici necessitano di tempi lunghi per svolgere un qualsiasi tipo di compito in
ambito aritmetico e commettono facilmente molti errori.
Essi presentano spesso vulnerabilità nelle abilità visuo-percettive e visuo-spaziali (al contrario
risultano normali le capacità uditivo-percettive e verbali), associate a disturbi emotivi, sociali,
comportamentali e a difficoltà nell’interazione sociale.

Le prestazioni aritmetiche devono essere significativamente al di sotto del livello atteso in


relazione all’età, al livello intellettivo generale e al grado di scolarizzazione.

Per quanto riguarda invece l’acalculia: si riconoscono tre forme:

tipo 1, quando associata a disturbi del linguaggio, quali parafasìa, agrafia e alessìa
tipo 2, quando secondaria a disturbi delle funzioni visivo-spaziali
tipo 3 o anaritmetria primaria, con alterazioni del processo computazionale
Alessìa è il termine che, in neuropsicologia, indica un disordine patologico della sfera sensoriale,
consistente nella perdita delle competenze cognitive che permettono la lettura

L’agrafia è un disturbo neurologico e neuropsicologico acquisito, che causa una perdita


nella capacità di comunicare attraverso la scrittura, sia a causa di una qualche forma di
disfunzione motoria, sia per disturbi di linguaggio. La perdita della capacità di scrittura può
presentarsi associata ad un altro disturbo del linguaggio o neurologico, per esempio
congiuntamente ad alessìa, afasia, disartria, agnosia, e aprassia.
L’aprassia (dal greco a- prefisso di negazione, e praxía fare, quindi incapacità di fare) è un
disturbo neuropsicologico del movimento volontario, definito come l’incapacità di compiere gesti
coordinati e diretti a un determinato fine, sebbene siano mantenute inalterate la volontà del soggetto
e la sua capacità motoria (un’aprassia tipica è non riuscire ad allacciarsi le scarpe o a farsi il nodo alla
cravatta).

L’agnosia (dal greco a-gnosis, “non conoscere”) è un disturbo


della percezione caratterizzato dal mancato riconoscimento di oggetti, persone, suoni,
forme, odori già noti, in assenza di disturbi della memoria e in assenza di lesioni dei sistemi
sensoriali elementari. Può presentarsi separatamente in relazione a ciascuno dei cinque
sensi e per ogni senso sono riscontrabili diversi tipi di agnosia (prosopoagnosia, agnosia
musicale, astereognosia o agnosia tattile, agnosia visuo-motoria, ecc.).

La parafasìa indica un disturbo del linguaggio che consiste nella sostituzione di termini
esatti con altri sbagliati o nel cambiamento d'ordine di sillabe o parole per cui il discorso,
nelle forme più gravi del disturbo, risulta di difficile o impossibile comprensione.

Possiamo parlare di discalculia invece quando le difficoltà di calcolo non dipendono a


deficit visivi, uditivi o neurologici, né devono essere state acquisite come risultato dipatologie
neurologiche, psichiatriche o di altro genere.
Tra i disturbi specifici dell’apprendimento, la discalculia è l’ultima a essere stata riconosciuta
e studiata, per cui è ancora poco indagata. Probabilmente perché è ritenuto normale che gli
studenti incontrino delle difficoltà nello studio della matematica, considerata da sempre una
materia “difficile”. Il disturbo, in quanto congenito, purtroppo non “guarisce”. L’obiettivo
dell’intervento rieducativo è fare in modo che il discalculico possa procedere nella
concettualizzazione della matematica e nella capacità di risolvere problemi matematici
riducendo al minimo l’incidenza della propria disabilità.

La diagnosi – che prevede la somministrazione individuale di test standardizzati – è


alquanto tardiva rispetto a quella didislessia. Normalmente non è possibile formularla prima
della 3a classe della scuola primaria, quando gli studenti cominciano ad utilizzare in modo
rapido ed efficiente i numeri per eseguire calcoli e risolvere problemi, anche se discrepanze
tra le capacità cognitive globali e l’apprendimento del calcolo e dei fatti aritmetici possono
essere rilevate già nel primo ciclo.

I disturbi del linguaggio possono avere cause di natura psicologico-relazionale e


manifestarsi isolatamente o in associazione ad altri disturbi: d’ansia, dell’umore,
dell’apprendimento, da deficit di attenzione-iperattività, ritiro sociale, etc. Le difficoltà
possono essere connesse alla comprensione linguistica o alla produzione corretta delle
parole o ancora al normale fluire e alla cadenza della voce.

Secondo la classificazione proposta dal DSM-5 i Disturbi della comunicazione


comprendono:
 il Disturbo della fluenza con esordio nell’infanzia (in precedenza balbuzie);
 il Disturbo del linguaggio (che unisce i precedenti disturbo della espressione del linguaggio e
disturbo misto della espressione e della ricezione del linguaggio);
 il Disturbo fonetico-fonologico (in precedenza disturbo della fonazione);
 il Disturbo della comunicazione sociale (pragmatica), una nuova condizione che comporta
persistenti difficoltà nell’uso sociale della comunicazione verbale e non verbale.
La diagnosi precoce di questi disturbi e la messa in atto di un’adeguata terapia logopedica
assicurano elevate possibilità direcupero e tempi relativamente più brevi rispetto alla
tempistica degli interventi tardivi: l’intervento precoce, peraltro, è facilitato dal fatto
che i bambini si dimostrano solitamente molto motivati alle attività ludiche proposte dal
terapeuta, mentre negli individui più grandi il ritardo e il dislivello con i coetanei hanno
spesso già fatto scendere il livello di autostima.

Azioni didattiche di supporto ai disturbi del linguaggio


Aiutare il soggetto dall’isolamento sociale, dalla incapacità di comunicare ad avere relazioni
normali con il mondo esterno.

È evidente che le azioni si svolgono in maniera diversa a seconda del grado di scuola in cui
l’insegnante si trova ad operare. In ogni caso, l’apertura degli ambienti scolastici
all’interazione tra gli alunni, la funzionalità (sul piano organizzativo) della giornata scolastica
agli scambi comunicativi più fitti e l’ampia disponibilità di materiale didattico costituiscono
condizioni indispensabili per la riuscita di qualsiasi percorso rieducativo. Nella scuola
materna, poi, si richiede la disponibilità di spazi per le attività narrative (la cosiddetta
fabulazione).
Specifici deficit cognitivi e del linguaggio dell’alunno devono essere presi in considerazione
nel fornire un trattamento e dovrebbero focalizzarsi sull’interrelazione tra la voce, la parola,
il linguaggio e la cognitività.
Particolarmente importanti sono le azioni mirate a dinamizzare le funzioni
linguistiche come i giochi dialogici, igiochi verbo-motori, i giochi di fluidità locutoria,
le sequenze fonetiche, etc. Non meno importanti sono le azioni mirate alla prevenzione:
fabulazione, ascolto e riproduzione di nenie e/o conte, descrizione verbale di animali,
persone, cose, etc.

Individuare precocemente un ritardo o un disturbo nei processi cognitivi e relazionali


permette quasi sempre di raggiungere risultati soddisfacenti. L’individuazione e il
trattamento «dovrebbero essere multidisciplinari, coinvolgendo i genitori, gli
insegnanti, i pediatri, i neuropsichiatri infantili, gli otorinolaringoiatri, gli psicologi dell’età
evolutiva, i logopedisti e i linguisti. Specifici deficit cognitivi e del linguaggio del bambino
dovrebbero essere presi in considerazione nel fornire un trattamento e dovrebbero
focalizzarsi sull’interrelazione tra la voce, la parola, il linguaggio e la cognitività.

L’eziologia, lo schema e la gravità del ritardo di linguaggio dovrebbero determinare la scelta


del trattamento in termini di intensità (estensione d’indagine), obiettivi (figure professionali
coinvolte nel trattamento) e modalità (tipo di trattamento offerto). L’obiettivo del trattamento
dovrebbe includere il minimizzare la disabilità e massimizzare il potenziale del bambino».
I percorsi di recupero dovrebbero essere personalizzati in relazione alle caratteristiche
psicologiche del soggetto, agli ambiti di competenza, alle potenzialità e alle difficoltà
riscontrati, ai tempi di attenzione, ai livelli motivazionali e di metacognizione individuati.
Talvolta, vengono utilizzate anche schede grafiche che rappresentano oggetti da associare
a parole.

I DISTURBI NON SPECIFICI DELL’APPRENDIEMNTO (DSNA)


I DISTURBI DEL LINGUAGGIO
o Disturbi di articolazione e comunicazione del linguaggio: tre assi delle abilità
Comunicazione e linguaggio: i tre assi delle abilità di linguaggio
Esistono due sistemi di comunicazione, il primo si serve delle parole ed il secondo no, anche
se spesso coesistono: verbale e non verbale.

Il primo è fatto di parole e suoni (sono tipici quelli emessi dai bambini), il secondo può
essere vocalico (es. il pianto, le grida) o mimicogestuale (es. gli sguardi, il sorriso, il tono
della voce, la mimica facciale, gli atteggiamenti del corpo, etc.).
Il linguaggio verbale costituisce la forma di comunicazione più evoluta ed è quella che richiede tre principali
abilità, che si muovono su tre assi di abilità:

 l’abilità neuromotoria-articolatoria, che permette di produrre i suoni e di comporli


variamente tra loro per formare le parole;
 l’abilità uditivo-percettiva, grazie alla quale è possibile captare i suoni prodotti dagli
altri;
 l’abilità cognitivo-linguistica, che permette di comprendere i suoni (rectius: le
parole) percepiti e di riconoscere ciò che è significativo e serve, in un preciso
momento, in mezzo a tutto il resto.

Le competenze linguistiche prevedono abilità che si formano nel corso dei primi anni di vita, dalle
abilità di fonazione a quelle fonologiche. Perciò la capacità di comunicazione, come qualsiasi
altra abilità, va sviluppata fin dall’infanzia e «il migliore sviluppo possibile si ha quando il bambino
sente di aver una giusta collocazione in mezzo agli altri. Attraverso un coinvolgimento diretto
acquisisce competenze comunicative e linguistiche partendo da esperienze significative; tali
esperienze sono inizialmente collegate ai suoi bisogni primari e poi ad avvenimenti nei quali può
impegnarsi e interagire con altre figure importanti: familiari, amici, coetanei, educatori».
Comunicazione e linguaggio: i tre assi delle abilità di linguaggio
Esistono due sistemi di comunicazione, il primo si serve delle parole ed il secondo no, anche se spesso
coesistono: verbale e non verbale.

Il primo è fatto di parole e suoni (sono tipici quelli emessi dai bambini), il secondo può
essere vocalico (es. il pianto, le grida) o mimicogestuale (es. gli sguardi, il sorriso, il tono della voce,
la mimica facciale, gli atteggiamenti del corpo, etc.).
Il linguaggio verbale costituisce la forma di comunicazione più evoluta ed è quella che richiede tre
principali abilità, che si muovono su tre assi di abilità:
 l’abilità neuromotoria-articolatoria, che permette di produrre i suoni e di comporli
variamente tra loro per formare le parole;
 l’abilità uditivo-percettiva, grazie alla quale è possibile captare i suoni prodotti dagli altri;
 l’abilità cognitivo-linguistica, che permette di comprendere i suoni (rectius: le parole)
percepiti e di riconoscere ciò che è significativo e serve, in un preciso momento, in mezzo a
tutto il resto.
Le competenze linguistiche prevedono abilità che si formano nel corso dei primi anni di vita, dalle
abilità di fonazione a quelle fonologiche. Perciò la capacità di comunicazione, come qualsiasi altra
abilità, va sviluppata fin dall’infanzia e «il migliore sviluppo possibile si ha quando il bambino
sente di aver una giusta collocazione in mezzo agli altri. Attraverso un coinvolgimento diretto
acquisisce competenze comunicative e linguistiche partendo da esperienze significative; tali
esperienze sono inizialmente collegate ai suoi bisogni primari e poi ad avvenimenti nei quali può
impegnarsi e interagire con altre figure importanti: familiari, amici, coetanei, educatori».
Spesso uno dei disturbi del lingauiggio che potrebbe essere chiesto alla prova preselettiva è proprio
quello di parafasìa con cui si indica un disturbo del linguaggio che consiste nella sostituzione di
termini esatti con altri sbagliati o nel cambiamento d’ordine di sillabe o parole per cui il discorso,
nelle forme più gravi del disturbo, risulta di difficile o impossibile comprensione.

I disturbi specifici del linguaggio (DSL)


L’ICD-10 (International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems)
definisce il disturbo specifico del linguaggio una condizione «in cui l’acquisizione delle normali
abilità linguistiche è disturbata sin dai primi stadi dello sviluppo».

Il disturbo linguistico «non è direttamente attribuibile ad alterazioni neurologiche o ad


anomalie di meccanismi fisiologici dell’eloquio, a compromissioni del sensorio, a ritardo mentale o
a fattori ambientali. È spesso seguito da problemi associati quali le difficoltà nella lettura e nella
scrittura, anomalie nelle relazioni interpersonali e disturbi emotivi e comportamentali».

Il disturbo è da collocare tra quelli di natura «evolutiva» ed è «specifico», se non direttamente


collegato o causato da altri disturbi evolutivi. Le difficoltà linguistiche, infatti, possono anche
manifestarsi in associazione ad altre condizioni patologiche (deficit neuromotori, sensoriali, cognitivi
e relazionali), nel qual caso si parla di disturbi del linguaggio secondari (o associati al disordine
primario).
Ecco perché i quadri clinici degli individui che presentano disturbi specifici del linguaggio sono
sempre molto eterogenei.
Il disturbo è una condizione frequente in età prescolare e, se non è associato ad altre anomalie, è
generalmente considerato un disturbo transitorio dello sviluppo a prognosi favorevole, perché tende
a ridursi nel tempo, in età scolare.

Nondimeno la metà dei bambini che presentano difficoltà di comunicazione in età prescolare
manifestano una persistenza del problema anche nelle età successive con ricadute spesso importanti
sull’apprendimento scolastico e sullo sviluppo affettivo e sociale.
Principali caratteristiche
Aspetti linguistici:
 La comprensione è maggiormente preservata rispetto alla produzione.
 Il linguaggio è compromesso sia negli aspetti formali che in quelli funzionali (insufficienza
narrativa, discorsiva etc.).
 L’esordio è preceduto da una lallazione atipica (povera, con fonemi atipici).
 Le prime parole compaiono solitamente tardi, con un vocabolario ridotto a meno di 50 e
spesso a meno di 20 parole ai due anni.
 Il linguaggio successivo è spesso telegrafico.
 Il sistema morfologico è particolarmente deficitario; tipicamente, i bambini con disturbo del
linguaggio non fanno errori digeneralizzazione. Sono frequenti i problemi di anomia.
Aspetti cognitivi
 Deficit nel gioco simbolico in sequenza (le sequenze sono semplificate, povere).
 Difficoltà a formare immagini mentali.
 Deficit dell’elaborazione di sequenze uditive.
 Deficit della memoria a breve termine.
 Sono frequenti i problemi a livello semantico, sia come incapacità di usare le parole rispetto
al loro preciso significato (aspetto referenziale semantico), sia come incapacità di mettere in
relazione le parole e capirne il rapporto (aspetto delle relazioni semantiche).
 Nella maggior parte dei casi questi bambini presentano difficoltà nelle abilità
metafonologiche (storpiano le parole) anche dopo i 5 anni.

ll disturbo fonetico-fonologico
Il disturbo fonetico-fonologico (nei precedenti manuali diagnostici presentato come
disturbo della fonazione) si riferisce all’incapacità di utilizzare i suoni dell’eloquio, in
assenza di disabilità e/o anomalie fisiche (es. compromissione uditiva, deficit strutturali del
meccanismo periferico orale dell’eloquio, condizioni neurologiche, limitazioni cognitive etc.).
Ovviamente anche questo elemento va tenuto in considerazione in quanto si attenderebbe
in base all’età e al grado di intelligenza e dello sviluppo cognitivo dell’allievo.
Il soggetto, pur mostrandosi capace di formare correttamente proposizioni complesse
e di comprendere ciò che gli viene detto, manifesta difficoltà nella produzione, nell’uso e
nell’organizzazione dei suoni.
La manifestazione più tipica del disturbo è l’errata o inadeguata articolazione dei suoni come pure la
loro sostituzione (uso del /t/ al posto del suono /k/) od omissione (per esempio, delle consonanti
finali).
I suoni articolati male sono in special modo quelli acquisiti più tardi nello sviluppo
(l, r, s, z, gl, gn, c). Nondimeno, nei bambini più piccoli e/o nei casi più gravi, l’anomalia può
interessare anche le consonanti e le vocali.
Il problema è riconoscibile già entro il terzo anno di vita. È anche possibile però che, nelle
sue forme meno gravi, non venga riconosciuto prima che il bambino incominci a frequentare
la scuola dell’infanzia o la scuola primaria. Ad ogni modo, per comprendere l’effettiva portata
dell’anomalia, è necessario appurare se gli errori di pronuncia non appartengano al
novero di quelli commessi comunemente dal bambino che sta acquisendo il linguaggio.
Il disturbo può rendere l’eloquio scarsamente intellegibile o, nei casi di maggiore gravità,
incomprensibile.
Le omissioni di suoni sono generalmente ritenute più gravi delle sostituzioni, che a loro volta
vengono valutate in modo più severo rispetto alle distorsioni.

La diagnosi differenziale può prevedere associazioni con il disturbo dello sviluppo


intellettivo (ex ritardo mentale), la compromissione dell’udito o altri deficit sensoriali,
un deficit motorio della parola o una grave deprivazione ambientale. L’incidenza di questi
problemi deve essere accertata con la valutazione psicometrica dell’intelligenza, l’esame
audiometrico, l’esame neurologico e l’anamnesi.
Il trattamento principale è di tipo logopedico, che interviene direttamente sulle
difficoltà di pronuncia e al quale è opportuno associare un’adeguata psicoterapia
cognitivo-comportamentale, per scongiurare il pericolo che le difficoltà di espressione
linguistica ledano la stima che il bambino ha di sé e la sua capacità di stabilire relazioni
sociali.
Non sono considerati come parte del disturbo della fonazione i problemi limitati al ritmo dell’eloquio
o alla voce.
Tali disturbi sono piuttosto classificati come disturbo della fluenza con esordio nell’infanzia (ex
balbuzie) oppure come disturbo della comunicazione non altrimenti specificato.

Disturbo specifico del linguaggio


Il disturbo specifico del linguaggio (DSL) è un disturbo evolutivo del linguaggio, detto “specifico”
in quanto non è collegato o causato da altri disturbi evolutivi del bambino, come ad esempio ritardo
mentale o perdita dell’udito. Fa parte della famiglia dei Disturbi Evolutivi Specifici. Esso è indicato
dalla sigla F80 nella classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e si trova nel capitolo
315 del manuale diagnostico americano DSM-IV.

I correnti sistemi di classificazione internazionali (ICD-10) definiscono il Disturbo Specifico del


Linguaggio “una condizione in cui l’acquisizione delle normali abilità linguistiche è disturbata sin
dai primi stadi dello sviluppo. Il disturbo linguistico non è direttamente attribuibile ad alterazioni
neurologiche o ad anomalie di meccanismi fisiologici dell’eloquio, a compromissioni del sensorio, a
ritardo mentale o a fattori ambientali. È spesso seguito da problemi associati quali le difficoltà nella
lettura e nella scrittura, anomalie nelle relazioni interpersonali e disturbi emotivi e comportamentali”.
I Disturbi Specifici del linguaggio sono spesso associati a difficoltà di coordinazione motoria, di
funzionamento cognitivo, e a disturbi dell’attenzione. Un fattore importante è il deficit della memoria
di lavoro fonologica, che tuttavia non sembra essere la causa di tutti i DSL.

Alcuni studi ritengono che fattori importanti siano quelli genetici e quelli ambientali.

Vi si associano problematiche motorie e Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA).

Vi sono 3 tipi di disfasie (incapacità di ordinaere le parole secondo uno schema logico): della
comprensione, della produzione e dell’articolazione.

Alcuni bambini affetti da DSL possono acquisire il linguaggio seguendo lo stesso percorso di bambini
con uno sviluppo normale, ma più lentamente. La variabilità interindividuale è notevole, ma in
generale si segnala una maggior difficoltà con la morfologia e la fonologia. Per esempio, un parlante
nativo di inglese affetto da DSL potrebbe avere problemi con l’uso del morfema del perfetto “-ed”.
Le cause dei disturbi specifici del linguaggio sono 4:

 Il linguaggio per questi soggetti è troppo veloce in quanto non vi è la capacità di discriminare i suoni
e le sillabe.
 Compromissione della memoria implicita del linguaggio, organizzata nei gangli della base. Vi è un
apprendimento conscio del linguaggio e l’uso della memoria consapevole. Vi è un deficit
cromosomico.
 Anomalie parossistiche del sonno paradossale (non-REM) che influisce con la memoria semantica del
linguaggio.
 Disturbi della memoria procedurale.

Micromalformazioni cerebrali, ossia la corteccia cerebrale risulta in alcuni punti disorganizzata.


Alla base di ciò vi è un’allergicità tra madre e bambino durante la gravidanza in quanto
solitamente vi sono minacce d’aborto.Vi sono inoltre le disfasie evolutive così denominate per la
loro modalità di trasmissione genetica. I soggetti con disfasie evolutive hanno difficoltà a
discriminare il linguaggio alla normale velocità d’eloquio ossia a discriminare stimoli in rapida
successione.

Michael Merzenich e Paula Tallal condussero alcuni esperimenti su alcuni soggetti con disturbi
specifici del linguaggio. L’esperimento consisteva nel far ascoltare a questi soggetti per un mese,
un’ora al giorno, suoni fortemente striati. Questo linguaggio “allungato” veniva poi progressivamente
riportato alla normalità. Dopo un mese d’addestramento i soggetti recuperavano un anno di
comprensione del linguaggio.

Ricordiamo alcuni Disturbi del Linguaggio secondo la tabella che abbiamo pubblicato qui sopra proprio nella home del

primo modulo di Origine Concorsi


 F80.0 (315.39) Disturbo specifico dell’Articolazione dell’eloquio: non sono compromesse le capacità
linguistiche ma vi è una difficoltà nei suoni verbali;
 F80.1 (315.31) Disturbo del Linguaggio Espressivo: non è legato alla capacità di espressione non
verbale ma solo a quella verbale;
 F80.2 (315.31) Disturbo Specifico della Comprensione: ad esso spesso si associa un disturbo
espressivo e a volte difficoltà socio-affettive. Manca la comprensione della comunicazione;
 F80.3 Afasia acquisita con Epilessia (Sindrome di Landau-Kleffner): è una perdita, improvvisa o
nell’arco di due anni, delle capacità linguistiche accompagnata da epilessia. Il bambino si esprime con
un linguaggio simil-generale e ripetitivo e ha problemi comportamentali ed emozionali. Può sfociare
in un deficit permanente (2/5 dei soggetti) o risolversi completamente (1/3 dei casi).
 F80.8: Altri Disturbi del Linguaggio;
 F80.9: Disturbi del Linguaggio non altrimenti specificati.

Nel DSM-5 la categoria dei Disturbi del linguaggio fa riferimento a due tipologie: la prima
l’espressione e la seconda la ricezione del linguaggio.
Ovviamente possono andare anche insieme.

Il disturbo dell’espressione si configura quando il linguaggio risulta essere molto povero


e comunque al di sotto della soglia di evoluzione rispetto all’età e al grado di intelligenza.
Ne costituiscono manifestazioni tipiche l’uso di un vocabolario ristretto sul piano
quantitativo, la persistente difficoltà a imparare nuove parole e a farne uso,
l’incidenza di frequenti errori lessicali, la difficoltà a coniugare i verbi, l’uso di proposizioni
molto brevi e limitate nel tipo e nella scelta, come pure di strutture grammaticali semplificate,
l’omissione di parti importanti delle frasi.
In genere la compromissione interessa in vario modo tutte le diverse componenti
linguistiche (fonologica, morfo-sintatica, semantica), per cui è possibile distinguere due
forme.
ACQUISITO: come conseguenza di una condizione neurologica o di altra condizione
medica generale (es. encefalite, trauma cranico etc.), e in questo caso sono comuni anche
ulteriori difficoltà di eloquio (es. problemi di articolazione motoria, errori fonetici, eloquio
lento, ripetizione di sillabe etc.),
DI SVILUPPO: se la compromissione della capacità espressiva non è associata ad alcuna lesione
neurologica di origine conosciuta.
Nei bambini in età scolare è spesso associato a disturbi dell’apprendimento e talvolta anche
a difficoltà di ricezione del linguaggio. I soggetti che ne sono affetti cominciano in genere a
parlare relativamente tardi e progrediscono in maniera più lenta del normale, ma non
presentano anomalie nel funzionamento non linguistico né
nelle capacità di comprensione del linguaggio, che rientrano solitamente nella norma.
Nella metà dei casi il problema è superato con la crescita, mentre l’altra metà dei soggetti
incontra difficoltà più durature. La maggior parte dei bambini acquisisce
capacità di linguaggio più o meno normali entro la tarda adolescenza.
Il disturbo è più comune tra i maschi che tra le femmine e ha più probabilità di manifestarsi
nei soggetti che hanno una storia familiare di disturbi della comunicazione o
dell’apprendimento. Di solito non viene riconosciuto prima dei tre anni di età, anche se
forme più lievi possono restare latenti fino alla prima adolescenza. La valutazione
diagnostica deve tener conto del contesto culturale e linguistico del soggetto.
Il disturbo non viene diagnosticato se risultano soddisfatti i criteri per il disturbo autistico o
per un altro disturbo generalizzato dello sviluppo, ferma restando peraltro la
possibilità di diagnosi concomitante di disturbo dell’espressione del linguaggio o di disturbo
misto dell’espressione e della ricezione del linguaggio.
La diagnosi differenziale può prevedere associazioni con il ritardo mentale,
la compromissione dell’udito o altri deficit sensoriali, un deficit motorio della parola o
una grave deprivazione ambientale. La presenza di questi problemi può essere accertata
mediante valutazione psicometrica dell’intelligenza, l’esame audiometrico, l’esame
neurologico e l’anamnesi.
Strategie didattiche
Cosa fare
 Ascoltare il bambino quando parla, anche se è presente qualche difficoltà, senza dimostrargli ansia.
 Dare tempo al bambino che concluda il suo discorso anche se richiede maggiore tempo.
 Favorire sempre l’uso del gesto per aumentare l’efficacia comunicativa; l’uso del gesto va
incentivato sia quando il bambino è piccolo, sia quando è difficile comprendere il suo eloquio che
può essere facilitato dal supporto gestuale.
 Non far ripetere al bambino le parole che ha pronunciato in modo errato; se il bambino ha un
problema nell’organizzare i suoni della lingua, è possibile che ripeta subito bene ma, dopo
pochissimo tempo ripeta nuovamente la parola in modo errato. È invece molto importante che la
parola venga ripetuta con una certa enfasi dall’adulto. Il bambino sente così il modello verbale
corretto ed impara in maniera implicita dall’adulto. Inoltre, i bambini con disturbi specifici del
linguaggio si “arrabbiano” quando viene loro spesso richiesto di ripetere correttamente.
 Valorizzare tutte le altre qualità del bambino in modo da aumentare la sua autostima.
 Rivolgersi prima possibile al logopedista.
Cosa non fare
 Non parlare davanti al bambino delle sue difficoltà.
 Non anticiparlo quando parla, completando per lui le parole o le frasi.
 Cercare di non interromperlo.
 Non fargli ripetere le parole che non riesce a pronunciare.
 Non aspettare troppo tempo oltre i tre anni per rivolgersi allo specialista.

Il trattamento terapeutico
Può prevedere programmi che utilizzano esercizi di pratica del linguaggio parlato, del vocabolario e
della costruzione della frase, l’intervento logopedico, il parent training (psico-educazione
per i familiari), la terapia di sostegno psicologico per il bambino e la terapia di gruppo. Le terapie
psicologiche sono volte a migliorare le strategie relazionali utilizzate dai bambini al fine di potenziare
la loro capacità di comunicazione.

Il disturbo della comprensione


Il disturbo della comprensione si manifesta quando la capacità di comprendere il linguaggio
altrui è significativamente compromessa, per cui vi è l’incapacità, da parte dell’individuo che
ne è affetto, a intendere il vocabolario di base o frasi semplici. In più vi è un
deficit di elaborazione sensoriale, soprattutto nell’elaborazione uditiva temporale (es.
incapacità di associare suoni e simboli, scarsa attenzione verso i suoni e loro inadeguata
discriminazione).
Il soggetto ha difficoltà a riconoscere nomi familiari all’età di un anno, a identificare oggetti
comuni a diciotto mesi, a eseguire semplici istruzioni a due anni, a capire le strutture
grammaticali o gli aspetti più sottili del linguaggio (es. tono della voce). Nelle
ipotesi di minore gravità possono esservi difficoltà solo nella comprensione di particolari
tipi di parole (es. termini spaziali) o di frasi (es. frasi complesse come costruzioni ipotetiche).
In quasi tutti i casi è marcatamente disturbata anche la capacità di espressione. Al riguardo
si parla di disturbo misto dell’espressione e della ricezione del linguaggio (1), proprio per
indicare che la capacità di comunicazione è intaccata sotto entrambi gli aspetti. La
sindrome, quindi, include tanto le manifestazioni tipiche della difficoltà di espressione
quanto la difficoltà dicapire parole, frasi o specifici tipi di parole.
Il disturbo può essere acquisito o di sviluppo e ha maggiori probabilità di manifestarsi nei
soggetti che hanno una storia familiare di disturbi della comunicazione o dell’apprendimento.
Il tipo acquisito dovuto alla sindrome di Landau-Kleffner (afasia epilettica acquisita)
insorge di solito tra i 3 e i 9 anni di età. Possono esserci associazioni con il disturbo della
fonazione, i disturbidell’apprendimento, il disturbo dello sviluppo della coordinazione,
l’enuresi, il deficit di attenzione/iperattività.
Il deficit di comprensione è la principale caratteristica di differenziazione del disturbo misto
rispetto a quello di espressione del linguaggio. Esso può essere meno evidente rispetto al
deficit di produzione linguistica perché, non essendo immediatamente palese, è rilevabile
solo nel contesto di una valutazione formale.
(1) Il disturbo misto dell’espressione e della ricezione
Il disturbo misto dell’espressione e della ricezione è solitamente diagnosticato prima dei quattro
anni di età, ma nei casi più gravi è evidente già a due anni e si presenta sotto forma di difficoltà ad
emettere spontaneamente suoni o parole. Il bambino può sembrare sordo, pur riuscendo a sentire.
Reagisce a suoni non linguistici provenienti dall’ambiente che lo circonda, ma non al linguaggio
parlato e, quando incomincia (tardivamente) a parlare, il discorso è costellato di errori, omissioni,
distorsioni e/o sostituzioni di parole.
La diagnosi differenziale può presentare associazioni con: la disabilità intellettiva, nella quale non
è soltanto deficitario il linguaggio, ma è presente anche una generale compromissione
dell’intelligenza; il disturbo autistico e la sindrome di Asperger, in cui i bambini difettano di dialogo
interno, di gioco simbolico o di fantasia e mostrano una persistente compromissione delle interazioni
sociali, schemi di comportamento ripetitivi e stereotipati, attività e interessi molto ristretti; il disturbo
della fonazione e la balbuzie, in cui i soggetti, diversamente dalla sintomatologia del disturbo misto,
conservano una normale competenza linguistica dal punto di vista sia espressivo che recettivo.
Il trattamento terapeutico presuppone un’istruzione linguistica che aiuti il bambino a colmare le
sue lacune verbali, accompagnata da intervento logopedico, parent training, terapia di sostegno
psicologico ed eventuale terapia di gruppo. Il miglioramento clinico delle capacità di linguaggio, in
alcuni casi, può essere completo; nelle forme più gravi il deficit diventa progressivo, con maggiore
probabilità di evolvere in disturbi dell’apprendimento.

(2) La sindrome di Landau-Kleffner


La sindrome di Landau-Kleffner è una rara forma di encefalopatia acquisita che insorge tra i 3 e i 9
anni di età, provocando epilessia e regressione del linguaggio (afasia acquisita), cui segue una
progressiva o fluttuante perdita della funzione espressiva, in bambini a sviluppo prima normale.
I soggetti che ne sono affetti presentano delle caratteristiche anomalie di tipo epilettico
all’elettroencefalogramma (EEG). Le crisi epilettiche, presenti nel 50-80% dei casi, possono
manifestarsi con diverse modalità ma in genere sono poco frequenti, rispondono alla terapia e
scompaiono alla pubertà.
Le caratteristiche funzionali del soggetto afasico possono essere:

 ascoltare le parole, ma non riconoscere immediatamente il loro significato;


 avere bisogno di tempi prolungati per recuperare dalla mente le parole e perderle di nuovo in
pochissimo tempo;
 avere difficoltà a evocare il nome di oggetti familiari o di uso quotidiano;
 esprimersi con frasi molto brevi o parole isolate, oppure con frasi disordinate e giri di parole;
 articolare le parole con sforzo, lentezza e/o dopo lunghe pause per superare gli inceppi;
 distorcere i suoni o sostituire le parole.
La malattia non è ereditaria, ma la sua causa è sconosciuta. La patologia è curabile se diagnosticata
precocemente, altrimenti può lasciare ritardo mentale, afasia ed epilessia irreversibili.

MUTACISMO disturbo di tipo psicologico.


In campo psicoanalitico la parola mutacismo si rifà al mutismo dovuto al rifiuto della
comunicazione orale come se fosse manifestazione di ostilità, è caratteristico di alcune
psicosi come quella che ebbe come protagonista Anna O. (Bertha Pappenheim), il famoso
caso trattato da Breuer e Freud.

Un altro significato di “mutacismo” è quello che indica un raro disturbo del linguaggio dato da
abnorme ripetizione della lettera m, oppure nella sua elisione o sostituzione con altri suoni.
Ma è una definizione poco usata.

Il disturbo della fluenza con esordio nell’infanzia


Il disturbo della fluenza veniva precedentemente indicato come balbuzia è un’anomalia o deficit
dell’eloquio.
Il soggetto presenta frequenti ripetizioni e/o prolungamenti di suoni o di sillabe oppure mentre prova
a parlare e quindi durante l’eloquio vi sono arresti della fonazione, per cui il balbuziente non riesce a
produrre suoni.
Essa è un tipico disordine evolutivo che comincia nella prima infanzia e continua nell’età adulta in
almeno il 20% dei casi.

Ne sono manifestazioni tipiche:

 le ripetizioni, che si verificano quando suoni e sillabe (a volte anche parole e frasi) sono
ripetuti due o più volte.
Per esempio: “te-te-telefono, do-do-domani, ca-ca-cavallo, gio-gio-giocattolo”;
 i prolungamenti, che sono invece allungamenti innaturali di suoni.
Per esempio; “ mmmmerenda, sssstella, m-mm-mamma”;
 i blocchi, che consistono in cessazioni inappropriate dei suoni e del flusso dell’aria, spesso
associate al blocco della lingua, delle labbra e/o della piega vocale.
Il disturbo – spesso assente durante la lettura orale, il canto o il colloquio con oggetti inanimati e/o
con gli animali – è invece aggravato dallo stress, dall’ansia e da tutte quelle situazioni in cui il
soggetto sente su di sé una speciale tensione a comunicare (es. sostenere un’interrogazione a scuola,
un colloquio di lavoro, etc.).
Il disagio:

1. movimenti muscolari (es. tic, tremori delle labbra o del viso, scosse del capo, chiusura delle
mani a pugno, movimenti respiratori, etc.),
2. strategie di astensione dalla pronuncia di specifiche parole o dall’elusione di situazioni
ritenute «pericolose» (es. parlare al telefono o in pubblico).
3. timore anticipatorio di suoni e parole che possono rivelarsi problematici
La sua incidenza sullo stato emozionale e funzionale della persona è spesso critica.
Negli individui adulti il disturbo può limitare la scelta del lavoro o la carriera.

Disturbo Pragmatico della Comunicazione Sociale


Si tratta di una nuova etichetta diagnostica, introdotta dal DSM-5 e caratterizzata da una
condizione di difficoltà persistente dell’uso pragmatico della comunicazione verbale e non verbale,
come manifestato da tutti i seguenti sintomi:
 deficit nell’uso della comunicazione a fini sociali, come salutare e condividere informazioni,
in un modo che risulti appropriato al contesto sociale;
 compromissione della capacità di regolare la comunicazione in base al contesto o alle
necessità di chi ascolta, come il parlare in modo diverso in aula o sul campo da gioco, parlare
in modo diverso ad un bambino o ad un adulto, o saper evitare l’uso di un linguaggio troppo
formale quando inappropriato;
 difficoltà nel seguire le regole per la conversazione e la narrazione, come il turno in una
conversazione, la riformulazione diquanto non sia stato compreso, o il saper
utilizzare i segnali verbali e non verbali per regolare l’interazione;
 difficoltà nella comprensione di ciò che non è esplicitamente indicato (ad esempio, fare
inferenze) e dei significati non letterali o ambigui del linguaggio (ad esempio, idiomi,
umorismo, metafore, significati multipli che dipendono dal contesto per l’interpretazione);
 i deficit comportano limitazioni funzionali a una comunicazione efficace, alla partecipazione
sociale, alle relazioni sociali, al rendimento scolastico o nelle prestazioni professionali (uno o
più ambiti);
 l’esordio dei sintomi è attribuibile al primo precoce (anche se il deficit può non diventare
completamente manifesto prima che le esigenze di comunicazione sociale superino abilità
elementari);
 sintomi non attribuibili ad un’altra condizione medica o neurologica o alle scarse abilità nei
domini o nella struttura della parola e della grammatica, e non sono meglio spiegati da un
disturbo dello spettro autistico, una disabilità intellettiva, un ritardo globale dello sviluppo o
altro disturbo mentale.

Mutismo Selettivo e/o Elettivo


Il Mutismo Selettivo altre volte si trova con Elettivo è un disturbo d’ansia sociale, che riguarda
principalmente soggetti in età evolutiva.
Il mutismo (s)elettivo è un po’ una Cenerentola nel campo della psichiatria infantile. Non è legato a
malattie cerebrali dimostrate o supposte, è stato abbastanza trascurato dai ricercatori e dai clinici (e
dal business farmaceutico) come un problema minore, ma è fonte di marcato disagio e sofferenza per
i bambini colpiti e le loro famiglie. E’ sfortunato anche nel nome. L’aggettivo ‘elettivo’, con cui da
tempo è noto, viene sempre più sostituito da quello ‘selettivo’, pur se il significato dei due aggettivi
è simile (in parte per adeguarsi) terminologie inglesi. Dal vocabolario: Elettivo = 1 Che ottiene una
carica, un ufficio attraverso un’elezione: membri di diritto e membri e.; che è conferito mediante
elezione, in pratica, il bambino sceglie senza troppa consapevolezza e senza un perché parliamo
magari di bambini di 2-3 anni di rifiutarsi di parlare con un estraneo (in pratica parla con familiari o
con persone note) e senza motivo intimidito e ansia non parla o si ritrae da sconosciuti. Il secondo
tipo è invece più Liberamente scelto, in pratica è Selettivo = Che opera scelte rigorose selezionando
le persone o gli elementi migliori: essere s. Sempre di scelta si tratta, quindi l’oscillazione fa i due
termini è abbastanza minimo, si possono trovare come sinonimo. Se proprio vogliamo
farla Selettivo = Che opera scelte rigorose selezionando le persone o gli elementi migliori il bambino
è consapevole sceglie con chi parlare e con chi no alla luce di sue motivazioni interiori o per dare un
segno a quella persona scelta: il soggetto è di gusti difficili ed esigenti: un tipo piuttosto s.
Esso è caratterizzato da una persistente incapacità di parlare in particolari situazioni, che si protrae
per più di un mese.
Questi bambini sono in grado di capire il linguaggio parlato e hanno la capacità di parlare
normalmente.
Il bambino che presenta mutismo selettivo è in grado di parlare e sentirsi a proprio agio finché si
rivolge ai genitori e ai fratelli nell’ambiente domestico.
Spesso i genitori descrivono il proprio figlio affetto da mutismo selettivo come un
bambino completamente diverso quando è a casa rispetto a quando si trova a scuola o in luoghi
pubblici.
Talvolta i genitori affermano addirittura che desidererebbero che il loro bambino con mutismo
selettivo parlasse un po’ meno quando è a casa. Può accadere che egli includa anche altre persone,
quali un vicino di casa o un amico del cuore, in questa cerchia selezionata di persone con cui parla.
Nella maggior parte dei casi se una persona non è inclusa nella cerchia selettiva del bambino viene a
far visita ai genitori, egli rimarrà muto finché questa persona non se ne va.
La maggior parte dei bambini con mutismo selettivo apprendono normalmente e sviluppano
competenze scolastiche adeguate.
Vari studi confermano che il mutismo selettivo è collegato a forte apprensione, timidezza e ansia
sociale.
I bambini con mutismo selettivo possono rispondere o comunicare le loro esigenze con cenni della
testa o puntando il dito.
Alcuni bambini rimangono privi di espressione o immobili fino a quando qualcuno indovina quello
che vogliono.
La maggior parte di questi bambini vorrebbe riuscire a parlare in ogni contesto, ma non è in grado di
farlo a causa di ansia, paura, timidezza e forte imbarazzo.
Molti bambini con mutismo selettivo partecipano volentieri ad attività che non implicano il parlare.
Il comportamento di evitamento non è di solito evidente fino a quando il bambino inizia la scuola.
A volte il bambino viene considerato solo molto timido e si presume che la timidezza sia temporanea
e venga superata. Col passare del tempo il mutismo selettivo viene riconosciuto, ma spesso il bambino
si trova ad aver vissuto almeno due anni in cui non ha prodotto nessuna verbalizzazione.
Il comportamento del bambino con mutismo selettivo diventa sempre più difficile da cambiare
a causa del lasso di tempo che è trascorso senza alcun intervento.
Il Mutismo Selettivo fu segnalato la prima volta da un medico tedesco, Kussmaul, nel 1877 il quale
si riferiva a bambini normali che manifestavano mutismo in alcune situazioni. Egli chiamò questa
condizione “Asphasia voluntaria“, che significa assenza volontaria di linguaggio. Più tardi, un
medico inglese, Tramer (1934), descrisse numerosi casi analoghi e coniò il termine “Mutismo
Elettivo”. Egli suggeriva che questo termine venisse usato per classificare i bambini che parlavano
solo a determinate persone, membri della famiglia o amici intimi, ma non ad altri. Nel 1993 si ritenne
che la parola “elettiva” implicasse una decisione deliberata di non parlare con tutti coloro che fossero
al di fuori di una cerchia elettiva di persone con cui il bambino parlava . Successivamente, il termine
è stato cambiato in Mutismo Selettivo nel DSM IV (1994) per rimuovere la componente di
opposizione o intenzionalità.

Audio:
Parte III- SITUAZIONI DI SVANTAGGIO O ALUNNI BES IN SITUAZIONE DI
SVANTAGGIO

Svantaggio linguistico

NAI Alunni Stranierie BES e le Metodologie Didattiche


Sono da considerare alunni in situazione di svantaggio gli alunni neo-arrivati in Italia che non
parlano italiano o lo parlano poco, o coloro i quali sono inseriti a scuola da meno di due anni. Gli
alunni stranieri NAI, per periodi più o meno lunghi, a seconda dell’età, della provenienza, delle lingue
di origine, della scolarità pregressa, dei tratti personali e di elementi contestuali, si possono
annoverare nella categoria di alunni con Bisogni Educativi Speciali (BES).
I N.A.I come BES fanno infatti riferimento anche agli alunni stranieri e viene predisposto su
valutazione del consiglio di classe un PDP piano di potenziamento.
Un alunno N.A.I. attraversa, in genere, tre fasi nel suo percorso di apprendimento linguistico, che
l’istituzione scolastica e i docenti devono sostenere e accompagnare in maniera efficace. In un certo
senso ci troviamo difronte ad un modello di PDP.
1. Durante la prima fase della durata di alcuni mesi, gli sforzi e l’attenzione privilegiata sono
rivolti all’acquisizione della lingua per comunicare. L’allievo deve essere sostenuto nelle
attività di comprensione, produzione orale, creazione di un lessico di base, acquisizione di
tecniche di lettura e scrittura.
2. Durante la seconda fase, che può estendersi fino a tutto il primo anno di
inserimento, continua e si amplia l’acquisizione della lingua per la comunicazione
interpersonale di base e si inaugura l’apprendimento dei contenuti disciplinari comuni, a
partire dalle materie a minor carattere “verbale”, contando su strumenti mirati quali glossari
bilingui e testi semplificati e linguisticamente accessibili.
In questa fase “ponte” possono funzionare moduli laboratoriali, vale a dire blocchi di
interventi su tematiche e argomenti specifici (linguistici e/o disciplinari), così come la
partecipazione ad attività di doposcuola nel quale l’alunno è seguito nel fare i compiti e nello
studio.
3. Nella terza fase, l’alunno straniero segue il curricolo comune ai pari e viene sostenuto
attraverso forme di facilitazione didattica e linguistica, iniziative di aiuto allo studio in
orario extrascolastico.
L’individualizzazione dell’insegnamento in questo periodo si baserà sull’attenzione degli
insegnanti alle difficoltà della lingua scritta dello studio, avendo cura di non dare nulla per
scontato nella comprensione dei significati.

Per lavorare al meglio con gli allievi NAI si raccomandano alcune semplici misure che possono
essere applicate ad ampio raggio su tutte le materie curriculari:
• dispensa dalla lettura ad alta voce;
• dispensa dalla scrittura veloce sotto dettatura;
• organizzazione di interrogazioni programmate;

• somministrazione di prove scritte e orali con modalità che tengano conto più del contenuto che della
forma;
• predisposizione di prove scritte differenziate. In particolare si consiglia di tralasciare verifiche scritte
con domande aperte, temi e riassunti e di privilegiare verifiche semi-strutturate, a completamento,
applicazione di formule, e di fornire per ciascuna tipologia di esercizio un esempio.
• concessione dell’uso del vocabolario;
• utilizzo di testi facilitati;
• utilizzo di brevi dispense scritte al computer in linguaggio semplice, sintetico e ricco di tabelle e
schematizzazioni;
• programmazione di tempi più lunghi per prove scritte e per lo studio a casa;

Lo svantaggio socio-ambientale ed i N.A.I.


Ricordiamo che all’interno dei disturbi evolutivi specifici rientrano quelli di natura cognitiva:
 i DSA (dislessia, discalculia, disgrafia, disortografia);
 i deficit del linguaggio;
 i deficit delle abilità non verbali;
 i deficit della coordinazione motoria;
 i deficit dell’attenzione e dell’iperattività (ADHD).
⇒ ma anche lo svantaggio socio-ambientale ed i N.A.I. si caratterizza come BES in questo
caso è di natura socio-culturale
Si evince, quindi, che con l’acronimo BES si tende a identificare diverse categorie di allievi con
difficoltà di apprendimento, a cui però la legge, e di conseguenza la scuola, deve rispondere con criteri
differenti elaborando un percorso individualizzato e personalizzato per alunni con BES, attraverso la
redazione di un Piano Didattico Personalizzato (PDP), che serva come strumento di lavoro per gli
insegnanti e per documentare alle famiglie le strategie di intervento programmate.
Agli studenti con BES va garantito:
 l’uso di una didattica individualizzata e personalizzata, con forme efficaci e flessibili di lavoro
scolastico, che tengano conto anche di caratteristiche peculiari dei soggetti, quale il
bilinguismo, adottando metodologie e strategie educative adeguate;
 l’introduzione di strumenti compensativi, compresi l’uso di sussidi didattici alternativi e le
tecnologie informatiche e di misure dispensative da alcune prestazioni non essenziali ai fini
della qualità del percorso di apprendimento;
 per l’insegnamento delle lingue straniere, l’uso di strumenti compensativi che favoriscano la
comunicazione verbale e che assicurino ritmi graduali di apprendimento, prevedendo anche,
ma soltanto qualora risulti utile, la possibilità dell’esonero;
 adeguate forme di verifica e di valutazione.

In certi contesti sociali e culturali spesso i problemi di apprendimento scolastico diventano


problemi di contesto sociale, quartieri poveri, minori non accompagnati, etc. in questo caso
parliamo di svantaggio socio-economico che ha quasi sempre anche una corrispondenza
con lo svantaggio socio-culturale.

Sono da considerare NAI gli alunni neoarrivati in Italia che non parlano italiano o lo parlano
poco, o coloro i quali sono inseriti a scuola da meno di due anni. Gli alunni stranieri NAI, per
periodi più o meno lunghi, a seconda dell’età, della provenienza, delle lingue di origine, della
scolarità pregressa, dei tratti personali e di elementi contestuali, si possono annoverare nella
categoria di alunni con Bisogni Educativi Speciali (BES).
Per lavorare al meglio con gli allievi N.A.I. si raccomandano alcune semplici misure che
possono essere applicate ad ampio raggio su tutte le materie curriculari:
• dispensa dalla lettura ad alta voce;

• dispensa dalla scrittura veloce sotto dettatura;

• concessione dell’uso del vocabolario;

• utilizzo di testi facilitati;

• utilizzo di brevi dispense scritte al computer in linguaggio semplice, sintetico e ricco di


tabelle e schematizzazioni;

• programmazione di tempi più lunghi per prove scritte e per lo studio a casa;

• organizzazione di interrogazioni programmate;

• somministrazione di prove scritte e orali con modalità che tengano conto più del contenuto
che della forma;

• predisposizione di prove scritte differenziate. In particolare si consiglia di tralasciare


verifiche scritte con domande aperte, temi e riassunti e di privilegiare verifiche
semistrutturate, a completamento, applicazione di formule, e di fornire per ciascuna tipologia
di esercizio un esempio.

Nell’ambito degli alunni di lingua madre diversa dall’italiano, occorre inoltre considerare
significative differenze, soprattutto in ragione del tempo già trascorso in Italia e delle
differenze culturali, a volte di grande incidenza, che si accompagnano a quelle linguistiche.
A volte il problema linguistico riguarda alunni stranieri in situazione di deprivazione – più che
semplice differenza – sociale e culturale.

LINEE GUIDA PER GLI STUDENTI N.A.I. NEOARRIVATI IN ITALIA

Sono da considerare NAI gli STUDENTI neoarrivati in Italia del tutto non italofoni e non in
grado di utilizzare l’Italiano L2 come lingua di comunicazione o studenti inseriti a scuola da
meno di due anni.
Uno studente NAI attraversa, in genere, tre fasi nel suo percorso di apprendimento
linguistico, che l’istituzione scolastica e i docenti devono sostenere e accompagnare in
maniera efficace.
Durante la prima fase della durata di alcuni mesi, gli sforzi e l’attenzione privilegiata sono
rivolti all’acquisizione della lingua per comunicare.
Lo studente deve essere sostenuto nelle attività di comprensione, produzione orale,
creazione di un lessico di base, acquisizione di tecniche di letto-scrittura.
Durante la seconda fase, che può estendersi fino a tutto il primo anno di inserimento,
continua e si amplia l’acquisizione della lingua per la comunicazione interpersonale di base
e si inaugura l’apprendimento dei contenuti disciplinari comuni, a partire dalle materie a
minor carattere “verbale”, contando su strumenti
mirati quali glossari bilingui e testi semplificati e linguisticamente accessibili.
Nella terza fase, l’alunno straniero segue il curricolo comune ai pari e viene sostenuto
attraverso forme di facilitazione didattica e linguistica, iniziative di aiuto allo studio in orario
extrascolastico.

Nella seguente tabella vengono sintetizzati i momenti , gli obiettivi didattici e la durata
esemplificativi delle fasi sopra riportate:

FASI OBIETTIVI DURATA


INIZIALE (A1-A2)
COMUNICAZIONE INTERPERSONALE DI BASE 3-4 MESI FASE “PONTE” (A2-B1)
COMUNICAZIONE INTERPERSONALE DI BASE ITALIANO PER LO STUDIO
FINO A TUTTO IL PRIMO ANNO
FASE DELLA FACILITAZIONE LINGUISTICA (B1-B2)
COMUNICAZIONE EFFICACE
APPRENDIMENTO CURRICOLARE SECONDO ANNO

Per lavorare al meglio con gli studenti NAI si raccomandano alcune semplici misure che
possono essere
applicate ad ampio raggio su tutte le materie curriculari:
1. dispensa dalla lettura ad alta voce;
2. dispensa dalla scrittura veloce sotto dettatura;
3. concessione dell’uso del vocabolario;
4. utilizzo di testi facilitati;
5. utilizzo di brevi dispense scritte al computer in linguaggio semplice, sintetico e ricco di
tabelle e
schematizzazioni;
6. programmazione di tempi più lunghi per prove scritte e per lo studio a casa;
7. organizzazione di interrogazioni programmate;
8. somministrazione di prove scritte e orali con modalità che tengano conto più del contenuto
che
della forma;
9. predisposizione di prove scritte differenziate. In particolare si consiglia di tralasciare
verifiche scritte con domande aperte, temi e riassunti e di privilegiare verifiche
semistrutturate, cloze, a completamento, applicazione di formule e di fornire per ciascuna
tipologia di esercizio un esempio.
Si consiglia di utilizzare il linguaggio iconografico almeno nella prima fase.

Alunni con problemi psichici, nervosi, disturbi alimentari o disturbi non permanenti
(ma non di natura patologica, cognitiva, genetica)

Alunni che si ritirano dall’impegno scolastico per sofferenza psicologica anche in


assenza di svantaggio
Vi sono infine alunni che si ritirano dall’impegno scolastico a causa di una complessa situazione
di sofferenza personale – in altri termini di scarsa autostima – che impedisce di avventurarsi in campi
in cui il ragazzo abbia il presentimento del possibile fallimento. Questo accade frequentemente ad
alunni che presentano effettive difficoltà (tutte quelle in precedenza indicate), ma a volte la reazione
di ritiro o blocco – che si manifesta come grave svogliatezza o vero e proprio blocco psicologico –
risulta del tutto sproporzionata rispetto alle difficoltà. Essa nasce a volte da condizioni di fragilità
emotiva legate a situazioni familiari anche contingenti (una malattia in famiglia, la nascita di un
fratellino, crisi tra i genitori, confronti frustranti con fratelli maggiori o minori, ecc.). Spesso essa
viene presa per banale pigrizia, cioè per un atteggiamento superficiale verso i propri compiti, mentre
si tratta di un segno di fragilità, travestito a volte da sfrontatezza. In questo caso il bisogno educativo
specifico consiste nella realizzazione di una relazione basata sulla comprensione della situazione
emotiva e nella creazione di condizioni di rimotivazione dell’alunno.

Va ricordato che motivi di sofferenza emotiva e affettiva possono, ovviamente, gravare sulla storia
personale dell’alunno anche in assenza di disturbi o di situazioni di deprivazione sociale e avere forte
incidenza negativa sull’apprendimento scolastico. È pertanto fondato, in base al criterio aperto di cui
alla Premessa della Direttiva, considerare le difficoltà di apprendimento derivanti da motivi
psicologici come possibile tipologia a sé stante, anche se la sua concreta delimitazione costituisce
un compito particolarmente delicato.

Estensione ad altri disturbi evolutivi delle misure previste per i DSA dalla L.
170/2010
La Direttiva del 2012 estende ed assimila ai DSA gli altri disturbi evolutivi, affermando che
essi, benché “non esplicitati nella Legge n. 170/2010 sui DSA, danno diritto ad usufruire
delle stesse misure ivi previste”.

In pratica anche se non sono D.S.A. possono essere dispensati o compensati con le stesse
misure all’interno del P.D.P. Si ricorda che la L. 53/2003, prevede la personalizzazione
dell’azione didattica (vede il MODULO 4), sicché le misure compensative e dispensative
previste dalla L. 170/2010 e che la C.M. stessa menziona possono, sì, essere adottate
nell’azione didattica ordinaria lungo il percorso di apprendimento, ma non pienamente nei
termini dei diritti dei DSA, il cui esercizio è previsto solo dietro presentazione di
certificazione di DSA.
Nelle situazioni di BES dovute ad altri disturbi, la certificazione diagnostica, quando è
formulata, impone “l’attivazione di un percorso individualizzato e personalizzato”.
Ma può anche non esservi certificazione; in tal caso, nell’attivare tale percorso, sarà
necessario motivare “opportunamente, verbalizzandole, le decisioni assunte sulla base di
considerazioni pedagogiche e didattiche”.

In ogni caso, per quanto concerne l’esame di Stato, sia al termine del primo ciclo che del
secondo, anche nel nuovo D.Lgs. 62/2017 sulla valutazione e gli esami non è consentita
l’applicazione agli studenti in condizione di BES della normativa riservata ai DSA. In
riferimento ai disturbi evolutivi specifici, essenzialmente su base neurologica, che
determinano situazioni di BES, la direttiva 27 dicembre 2012 indica i seguenti:

Disturbi Specifici del Linguaggio (DSL) [attenzione alle trappole linguistiche D.S.A. –
D.N.S.A – D.S.L]
 Disturbo Non Verbale e, più in generale, bassa intelligenza non verbale associata ad alta
intelligenza verbale;
 altri disturbi nelle aree non verbali:
 Disturbo della Coordinazione Motoria, Disprassia;
 Disturbo dello spettro autistico lieve (qualora non rientri nei parametri della L. 104/1992);
 Disturbo da deficit dell’Attenzione con Iperattività (A.D.H.D. ⇒ sigla italiana D.D.A.I.);
 Funzionamento cognitivo limite (o borderline).
È inoltre di importanza decisiva considerare che per ognuna delle situazioni sopra
considerate esistono anche:

 una fascia di alunni non diagnosticati e per i quali non si avanza la richiesta di diagnosi (o
perché non si è in grado di ipotizzare la presenza di un disturbo o per l’opposizione dei genitori
a qualunque approfondimento diagnostico, o per altra causa);
 una fascia di alunni nei quali il disturbo non è propriamente assente, ma si manifesta a
livello sub-clinico (cosa che può comunque essere certificata dallo specialista) ed ha perciò,
per il clinico, rilievo semmai di problema, ma non di disturbo. Una parte rilevante di queste
situazioni si traduce, tuttavia, in storie scolastiche disastrose.
⇒ La Direttiva stessa esplicita questa circostanza per gli alunni con A.D.H.D: “Tuttavia, vi
sono moltissimi ragazzi con A.D.H.D che, in ragione della minor gravità del disturbo, non
ottengono la certificazione di disabilità, ma hanno pari diritto a veder tutelato il loro
successo formativo”.
Ciò vale, evidentemente, per tutte le tipologie di disturbo.

Alunni Gifted ad alta ipercognizione Abraham Tannenbaum


Gifted ipercognizione – ed il modello proposto da Abraham Tannenbaum (⇒ un modello anche per
la creatività).
Con la nota n. 562 del 3 aprile 2019, il Ministero dell’Istruzione “riconosce”, per la prima volta,
all’interno del sistema degli alunni con bisogni educativi speciali anche quelli plusdotati, cioè,
generalmente detti, quelli con un quoziente intellettivo pari o superiore a 130.

Il Miur è intervenuto dopo numerose segnalazioni ricevute da scuole e dai settori accademici di
riferimento. Dopo l’emanazione della direttiva del 27 dicembre 2012 molte scuole consideravano gli
alunni plusdotati all’interno dei Bes. Tale prassi, adesso, è riconosciuta come assolutamente corretta
da parte del ministero.
Viene previsto anche la possibilità di redazione di un Piano Didattico Personalizzato, in una logica di
personalizzazione degli apprendimenti.

Uno dei principali studiosi di bambini gifted è stato con il suo modello della giftedness a “stella
marina” Abraham Tannenbaum, fondato sulla ricerca educativa sulle caratteristiche degli individui
plusdotati, affronta «i legami tra promessa e realizzazione» (Tannenbaum, 1983, p. 95) e, a differenza
del modello di Renzulli (ritroveremo poi entrambi gli autori nel modulo sulla Creatività di Origine),
è fortemente basato sulle caratteristiche di bambini e adolescenti di elevata abilità.

Come afferma Tannenbaum: «Tenendo presente che il talento sviluppato esiste solo negli adulti, una
buona definizione di giftedness nei bambini è il potenziale per diventare performer acclamati dalla
critica o produttori esemplari di idee in sfere dell’attività che valorizzino la vita morale, fisica,
emotiva, sociale, intellettuale o estetica della comunità» (1983, p. 86).

Lo studioso ritiene che questi bambini e adolescenti debbano anche avere attributi di personalità
facilitativi, nonché fondamentali “incontri speciali con l’ambiente”, che favoriscano l’emergere del
talento.

Le cinque variabili interne ed esterne che si intersecano nell’eccellenza GIFTED sono illustrate da
Tannenbaum attraverso l’immagine di una stella marina, dove la giftedness è prodotta dalla
sovrapposizione di tutti e cinque i fattori (le“punte”della stella), ossia: abilità generale; abilità
speciale; fattori non intellettivi (ad es. motivazione, meta-apprendimento, dedizione in un ambito
prescelto, concetto di sé sicuro, salute mentale); fattori ambientali (ad es. famiglia, gruppo dei pari,
scuola, istituzioni economiche, culturali e sociali); fattori casuali, ossia eventi imprevedibili nella vita
di una persona, ma che possono essere critici nel permettere che un potenziale eccezionale venga
riconosciuto o incoraggiato (Tannenbaum, 1983, p. 88).

Le cinque braccia della stella marina hanno sia elementi statici che dinamici.

I primi ritraggono il bambino come si pone rispetto agli altri in una particolare fase della sua vita; i
secondi si riferiscono ai processi di apprendimento e ai processi sociali ed educativi che influenzano
il bambino e possono condurre a cambiamenti.

Diverse aree di talento possono richiedere diverse combinazioni dei cinque fattori, ma «nessuna
combinazione di quattro di questi fattori può compensare una grave carenza nel quinto»
(Tannenbaum, 2003, p. 48).

Nelle versioni più recenti del suo modello, Tannenbaum (2003) identifica come principali macro-
categorie della plusdotazione quella dei produttori e quella degli esecutori. I primi sviluppano cose o
idee, mentre i secondi interpretano o ricreano queste cose o idee. Entrambi possono operare o in modo
creativo (portando qualcosa di nuovo al processo) o in modo competente (operando ad elevati livelli
di abilità).

Strumenti compensativi e misure dispensative Si parla di


strumenti compensativi e dispensativi nell’ambito DSA o BES; sono quelle misure applicate in modo da
favorire l’apprendimento senza essere pertanto penalizzati dal disturbo in essere.
Strumenti compensativi
Sono strumenti didattici e tecnologici che sostituiscono o facilitano la prestazione richiesta
nell’abilità deficitaria. Servono a compensare le carenze cognitive derivanti dallo specifico disturbo.

STRUMENTI COMPENSATIVI

(legge 170/10 e linee guida 12/07/11)

Utilizzo di computer e tablet (possibilmente con stampante)

Utilizzo di programmi di video-scrittura con correttore ortografico (possibilmente vocale) e con tecnologie di sintesi vocale (an

straniere)

Utilizzo di risorse audio (file audio digitali, audiolibri…).

Utilizzo del registratore digitale o di altri strumenti di registrazione per uso personale

Utilizzo di ausili per il calcolo (tavola pitagorica, linee dei numeri…) ed eventualmente della calcolatrice con foglio di calcol

calcolatrice voc

ale)

Utilizzo di schemi, tabelle, mappe e diagrammi di flusso come supporto durante compiti e verifiche scritte

Utilizzo di formulari e di schemi e/o mappe delle varie discipline scientifiche come supporto durante compiti e verifiche scritte

Utilizzo di mappe e schemi durante le interrogazioni, eventualmente anche su supporto digitalizzato (presentazioni multimediali

recupero delle informazioni

Utilizzo di dizionari digitali (cd rom, risorse on line)


Utilizzo di software didattici e compensativi (free e/o commerciali)

Misure dispensative
Interventi che consentono allo studente di non svolgere alcune prestazioni che, a causa del disturbo,
risultano particolarmente difficoltose e che non migliorano l’apprendimento.
Ad es. non è utile far leggere un brano lungo ad un alunno con dislessia in quanto l’esercizio per via
del disturbo, non migliora la sua prestazione nella lettura. Piuttosto si può concedere allo studente un
tempo più lungo per lo svolgimento di una prova, o fornire testi più sintetici che presentino, in misura
ridotta, gli stessi elementi didattici offerti dal gruppo classe.

MISURE DISPENSATIVE (legge 170/10 e linee guida 12/07/11)


E INTERVENTI DI INDIVIDUALIZZAZIONE
Dispensa dalla lettura ad alta voce in classe
D1.

Dispensa dall’uso dei quattro caratteri di scrittura nelle prime fasi dell’apprendimento
D2.

Dispensa dall’uso del corsivo e dello stampato minuscolo


D3.

Dispensa dalla scrittura sotto dettatura di testi e/o appunti


D4.

Dispensa dal ricopiare testi o espressioni matematiche dalla lavagna


D5.

Dispensa dallo studio mnemonico delle tabelline, delle forme verbali, delle poesie
D6.

Dispensa dall’utilizzo di tempi standard


D7.

Riduzione delle consegne senza modificare gli obiettivi


D8.

Dispensa da un eccessivo carico di compiti con riadattamento e riduzione delle pagine da studiare, senza modificar
D9.

Dispensa dalla sovrapposizione di compiti e interrogazioni di più materie


D10.
Dispensa parziale dallo studio della lingua straniera in forma scritta, che verrà valutata in percentuale minore rispe

considerando errori ortografici e di spelling


D11.

Integrazione dei libri di testo con appunti su supporto registrato, digitalizzato o cartaceo stampato sintesi vocale

formulari
D12.

Accordo sulle modalità e i tempi delle verifiche scritte con possibilità di utilizzare supporti multimediali
D13.

Accordo sui tempi e sulle modalità delle interrogazioni


D14.

Nelle verifiche, riduzione e adattamento del numero degli esercizi senza modificare gli obiettivi
D15.

Nelle verifiche scritte, utilizzo di domande a risposta multipla e (con possibilità di completamento e/o ar

una discussione orale); riduzione al minimo delle domande a risposte aperte


D16.

Lettura delle consegne degli esercizi e/o fornitura, durante le verifiche, di prove su supporto digitalizzato leggibili da
D17.

Parziale sostituzione o completamento delle verifiche scritte con prove orali consentendo l’uso di schemi riadattati e

l’interrogazione
D18.

Controllo, da parte dei docenti, della gestione del diario (corretta trascrizione di compiti/avvisi)
D19.

Valutazione dei procedimenti e non dei calcoli nella risoluzione dei problemi
D20.

Valutazione del contenuto e non degli errori ortografici


D21.

Altro
D22.
[1] Si ricorda che per molti allievi (es. con DSA o svantaggio), la scelta della dispensa da un
obiettivo di apprendimento deve rappresentare l’ultima opzione.

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