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La scuola deve essere pertanto considerata una comunità educante di dialogo, di ricerca,
di esperienza sociale, informata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in
tutte le sue dimensioni.
In essa ognuno, con pari dignità e nella diversità dei ruoli, opera per garantire la formazione
alla cittadinanza, la realizzazione del diritto allo studio, lo sviluppo delle potenzialità di
ciascuno e il recupero delle situazioni di svantaggio, in armonia con i principi sanciti dalla
Costituzione e dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia (ONU 1989).
La scuola italiana ha avviato un lungo percorso che va dall’integrazione ⇒ all’inclusione,
in particolare nei confronti di disabilità e multiculturalità.
La mancanza di inclusione sociale e/o di successo scolastico di un alunno non
dipenderebbe da un deficit a lui interno, ma da un difetto nell’organizzazione della scuola e
delle sue pratiche didattiche.
(Esclusione, Segregazione, Integrazione- Inclusione)
L’inclusione non mira solo a integrare gli esclusi, ma a modificare gli stessi sistemi
educativi, al raggiungimento di “contesti educativi accoglienti, promotori di vita indipendente
e di cittadinanza attiva” in cui tutti concorrono al raggiungimento di obiettivi comuni.
Non è “il diverso” che si integra al contesto (integrazione=assimilazione), ma il contesto
che si modifica per accogliere ed includere (inclusione=partecipazione).
La didattica dell’inclusione si prefigge l’obiettivo di creare le condizioni di apprendimento
ottimali con la finalità di mettere ogni alunno nelle condizioni di scoprire, valorizzare ed
esprimere al massimo il proprio potenziale.
La scienza dell’educazione (pedagogia) si propone come prospettiva l’esigenza di
migliorare le condizioni di tutti e di ciascuno e la didattica (scienza) di mettere in
pratica metodologie e strategie per facilitare un apprendimento significativo, duraturo e
trasferibile.
La didattica inclusiva deve tener conto:
La didattica speciale deve essere capace di collegare le esigenze del singolo a quelle di un
gruppo e a leggere nelle esigenze straordinarie, almeno apparentemente, la realtà di tanti.
L’apprendimento è il punto di incontro delle diversità di ciascuno e, se la socializzazione ha
una grande importanza, essa può realizzarsi attraverso l’apprendimento.
In ogni momento chi si occupa di didattica deve poter avere una documentazione
dell’attività: la documentazione didattica permette anche di rendere pubblici i risultati ottenuti
(pensiamo a dei bambini che realizzano un cartellone, o degli studenti delle superiori un
power point di presentazione di un argomento). La scuola deve conservare la
documentazione didattica.
1. Stile “abile”:
• Credenza: le cose riescono bene perché si è bravi; se non riescono non si è bravi ed è
inutile provare.
• Attribuzione causale: il successo è dovuto all’abilità (superbia), l’insuccesso alla
mancanza di abilità (vergogna).
• Aspettative di riuscita: in caso di successo viene anticipato un ulteriore successo; in caso
di fallimento un ulteriore fallimento.
• Motivazione: evitare il fallimento.
È uno stile disfunzionale all’apprendimento:
– in caso di insuccesso può sviluppare senso di impotenza;
– non persiste di fronte alle difficoltà;
– non vengono affrontate le situazioni difficili e i compiti in cui
non si è bravi;
– mancanza di impegno e ricerca di strategie.
2. Stile depresso:
• Credenza: mancanza stabile d abilità.
• Attribuzione causale: successo = cause esterne insuccesso = mancanza di abilità
• Aspettative di riuscita basse.
• Motivazione: evitare il fallimento.
• Persistenza nel compito bassa: comportamento rinunciatario di chi tende ad evitare
compiti e situazioni valutative o compiti difficili in cui potrebbe emergere la propria
incapacità.
È uno stile disfunzionale all’apprendimento
Per modificarlo può essere necessario agire anche sulle
aspettative di GENITORI e INSEGNANTI.
3. Stile negatore
• Credenza: abilità come dote innata (chi ce l’ha successo chi non ce l’ha fallisce).
• Attribuzione causale: successo = causa interna insuccesso = causa esterna
• Motivazione: evitare il fallimento.
Stile disfunzionale all’apprendimento:
• poca importanza all’impegno;
• di fronte agli insuccessi non cerca strategie più adatte.
4. Stile pedina
Attribuzione causale fatalista: sia il successo che l’insuccesso sono dovuti a cause
esterne.
• Motivazione: evitare il fallimento.
• Chi crede di riuscire o di non riuscire per effetto dell’impegno personale, dell’interesse, della
motivazione (attribuzioni interne, controllabili)
• Chi pensa di riuscire o di non riuscire a causa dell’abilità innata (attribuzione interna non
controllabile) o di fattori esterni (difficoltà/facilità del compito, fortuna/sfortuna, aiuto/non aiuto):
1. – presenta un atteggiamento strategico che lo porta ad avere delle buone abitudini di studio,
2. tende a prodigare ogni sforzo per riuscire,
3. ha un buon senso della realtà e più fiducia in se stesso.
4. è meno portato ad utilizzare strategie o ad individuare corrette abitudini di studio
5. è meno convinto di poter controllare gli eventi, ritiene inutile anche impegnarsi.
Si individuano 5 stili diversi:
1. Stile “abile”:
• Credenza: le cose riescono bene perché si è bravi; se non riescono non si è bravi ed è inutile
provare.
• Attribuzione causale: il successo è dovuto all’abilità (superbia), l’insuccesso alla mancanza di
abilità (vergogna).
• Aspettative di riuscita: in caso di successo viene anticipato un ulteriore successo; in caso di
fallimento un ulteriore fallimento.
• Motivazione: evitare il fallimento.
2. Stile depresso:
• Credenza: mancanza stabile d abilità.
• Attribuzione causale: successo = cause esterne insuccesso = mancanza di abilità
• Aspettative di riuscita basse.
• Motivazione: evitare il fallimento.
• Persistenza nel compito bassa: comportamento rinunciatario di chi tende ad evitare compiti e
situazioni valutative o compiti difficili in cui potrebbe emergere la propria incapacità.
È uno stile disfunzionale all’apprendimento
Per modificarlo può essere necessario agire anche sulle
aspettative di GENITORI e INSEGNANTI.
3. Stile negatore
• Credenza: abilità come dote innata (chi ce l’ha successo chi non ce l’ha fallisce).
• Attribuzione causale: successo = causa interna insuccesso = causa esterna
• Motivazione: evitare il fallimento.
4. Stile pedina
Attribuzione causale fatalista: sia il successo che l’insuccesso sono dovuti a cause esterne.
• Motivazione: evitare il fallimento.
• coinvolgimento personale;
• il successo è la conferma dell’efficacia delle strategie scelte e applicate (soddisfazione);
• il fallimento segnala la necessità di modificare le proprie strategie;
• fiducia nelle proprie possibilità
• percezione di controllo.
Divergente: in grado di trovare soluzioni alternative per uno stesso problema, ha una
spiccata creatività e immaginazione.
Accomodatore: attivo e flessibile, si trova a suo agio nelle situazioni in cui deve adattarsi
ai cambiamenti esterni, tende a risolvere i problemi in maniera intuitiva piuttosto che
analitica.
Stile sistematico vs Stile intuitivo: alcune persone procedono per gradi ed esaminano le
variabili ad una ad una, in modo lento e consapevole, per cui necessitano di indicazioni
dettagliate e precise; altri sono più immediati e ragionano per ipotesi, arrivando alla soluzione
per tentativi ed errori;
Stile globale vs Stile analitico: nel primo caso viene privilegiata una visione d’insieme,
mentre nel secondo prevale maggiormente l’attenzione per i dettagli.
Stile verbale vs Stile visuale: nel primo caso il soggetto si concentra e memorizza
maggiormente ascoltando l’esposizione orale, mentre nel secondo privilegia l’osservazione e
ha bisogno di stimoli visivi (ad es. immagini, parole-chiave, schemi,…)
Stile impulsivo vs Stile riflessivo: riguarda i processi decisionali e indicano il tempo di
reazione cognitiva di un individuo rispetto a compiti di risoluzione non immediata.
Stile convergente vs Stile divergente. Questa distinzione è legata al tipo di intelligenza e alla
modalità di pensiero più sviluppata: il pensiero convergente è lineare, convenzionale e
conduce verso un’unica soluzione, mentre il pensiero divergente è dinamico, creativo e in
grado di elaborare soluzioni diverse per uno stesso problema.
La tecnica si è affermata negli anni 50 con la teoria di Bloom (Vedi→La tassonomia degli
obiettivi di Bloom attraverso il ML_ Vedi anche →Bloom) e negli anni 60 con la teoria
di Bruner (vedi →Verso una teoria dell’istruzione).
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DIDATTICA PERSONALIZZATA (sulla base di quanto indicato nella Legge 53/2003 e nel D. lgs
59/2004)
⇒ calibra l’offerta didattica e le modalità relazionali sulla specificità ed unicità che
caratterizzano gli alunni della classe, considerando le differenze individuali soprattutto sotto
il profilo qualitativo favorendo così, l’accrescimento dei punti di forza di ciascun alunno, lo
sviluppo consapevole delle sue “preferenze” e del suo talento
> Didattica differenziata: diritto alla diversità.
Nel rispetto degli obiettivi generali e specifici di apprendimento, la didattica personalizzata
si sostanzia attraverso l’impiego di una varietà di metodologie e strategie didattiche, tali da
promuovere le potenzialità e il successo formativo in ogni alunno: l’uso dei mediatori
didattici (schemi, mappe concettuali, etc.), l’attenzione agli stili di apprendimento, la
calibrazione degli interventi sulla base dei livelli raggiunti, nell’ottica di promuovere un
apprendimento significativo.
METODOLOGIE DIDATTICHE
La metodologia didattica deve essere impostata sul coinvolgimento attivo degli allievi e ,
perciò, tanto sulla lezione dialogico-dialettica quanto sulla comunicazione empatica (Vedi
⇒La comunicazione relazione docente-allievo)
La simulazione
Si intende un modello della realtà che consente di prevedere (e valutare) lo svolgersi di una
serie di eventi derivanti dall’imposizione di certe condizioni da parte dell’analista. Un
simulatore di volo ad esempio, consente di prevedere il comportamento dell’aereo a fronte
delle sue caratteristiche e dei comandi del pilota e che altro non sono che l’insieme dei
processi il cui insieme permette di comprendere le logiche di funzionamento del sistema
stesso. In ambito didattico le simulazioni hanno a volte carattere ludico o sono spesso dei
veri e propri software didattici che riproducono esperienze simili a quelle reali, utili per
apprendere, quando è difficile o impossibile riprodurre fisicamente in laboratorio reale le
effettive condizioni da studiare (ambienti storico-geografici, esperimenti scientifici ecc.). Per
la sua natura laboratoriale, la simulazione consente quindi la riproposizione di una forma di
apprendimento per esperienza. Il termine simulazione in un’accezione più ampia viene visto
come anticipazione mentale di un processo da eseguire.
In tal senso, la didattica laboratoriale va nel senso della didattica delle competenze. La
didattica delle competenze si prefigge di coinvolgere docenti e studenti in un processo di
costruzione delle conoscenze e di sviluppo di abilità e competenze; la didattica laboratoriale
presuppone, per antonomasia, l’uso della metodologia della ricerca, il laboratorio va
inteso infatto come una situazione o ambiente di apprendimento, come modalità di lavoro,
anche in aula, dove docenti ed allievi progettano, sperimentano, ricercano agendo la loro
fantasia e la loro creatività.
È importante che l’apprendimento sia significativo, che avvenga per scoperta, che ogni
alunno assuma un ruolo attivo, costruisca il proprio sapere con gli altri e sia interprete in
prima persona dell’acquisizione di conoscenze, abilità e competenze.
la scuola dell’infanzia e la scuola primaria, essendo le scuole del “fare” per eccellenza, si
basano su una didattica laboratoriale in senso lato, cioè su una didattica che prevede
nella pratica quotidiana il ricorso ad attività costruttive, concrete, al fine di comprendere
praticamente le conoscenze. Si pensi, ad esempio, all’esperimento delle piantine di legumi
(i bambini tengono in classe piantine di lenticchie, fagioli o piselli in barattoli e le innaffiano,
osservano la loro crescita) oppure ai modelli che possono essere costruiti (il modello di un
vulcano in cartapesta oppure il modello del corpo umano).
Con il lavoro laboratoriale gli alunni dominano il senso del loro apprendimento, perché
producono, perché operano concretamente, perché nel “fare” sanno dove vogliono arrivare
e per quali scopi.
Il problem solving
Il problem solving è una metodologia didattica finalizzata a favorire un approccio di ricerca
nel processo conoscitivo, a potenziare lo sviluppo del pensiero critico e del ragionamento.
Gli alunni sono invitati a trovare una risposta al quesito posto dall’insegnante, usando le
informazioni che fino ad allora hanno imparato. Non è importante se la risposta che essi
trovano non è quella giusta, piuttosto è importante il ragionamento che fanno per giungere
alle conclusioni.
Uno dei più noti è F.A.R.E., acronimo che indica i 4 momenti di questa procedura.
FOCALIZZARE comprensione
ANALIZZARE previsione
RISOLVERE pianificazione
La group investigation
Le esercitazioni di gruppo
Gli studenti devono assumere i ruoli assegnati dall’insegnante e comportarsi come pensano
che si comporterebbero realmente nella situazione data. I ruoli sono assunti da due o più
studenti davanti al gruppo dei compagni-osservatori. L’obiettivo è quello di far acquisire
la capacità di impersonare un ruolo e di comprendere in profondità ciò che il ruolo chiede.
Come si costruisce un role-playing:
Il role-playing è uno strumento prezioso della formazione, basato sulla simulazione di qualcosa che
ha o poterebbe avere attinenza con una situazione reale ed è strutturato in modo tale da essere
coinvolgente dal punto di vista emozionale.
Le caratteristiche di questa tecnica forniscono molteplici stimoli all’apprendimento attraverso
l’imitazione, l’azione, l’osservazione del comportamento degli altri ed i commenti ricevuti sul
proprio, attraverso l’analisi dell’intero processo.
Vi è infine il role-taking cioè la capacità di mettersi nei panni dell’altro, assumendone il ruolo anche
se diverso dal nostro, senza che questo processo elimini la consapevolezza del nostro punto di vista
(non a caso è una tecnica usata anche nella gestione delle emozioni e nell’empatia).
Si riconoscono tre tipi di role-taking:
Il role taking emozionale consiste nella capacità di riconoscere le emozioni dell’altro e di rispondere
affettivamente in modo appropriato. Come scriveva Origine e vedremo poi, questo tipo di role taking
coincide con una sorta di preoccupazione empatica.
Il role taking cognitivo è un processo attraverso il quale un individuo abbandona il proprio punto di
vista e prova a comprendere gli stati interni e i pensieri di un’altra persona mettendosi cognitivamente
nella situazione dell’altro.
Il role taking percettivo riguarda l’abilità di capire come un oggetto, o un insieme di oggetti, è visto
da un altro che non occupa la nostra stessa posizione nello spazio.
Tale definizione coincide con quella che da molti autori è definita capacità di perspective taking.
Il role-taking per Selman ci sono diversi stadi. Il role taking inizia da piccoli.
STADIO EGOCENTRICO 4-6 ANNI
STADIO SOGGETTIVO 6-8 ANNI
STADIO AUTORIFLESSO 8-10 ANNI
STADIO RECIPROCO 10-12
STADIO SOCIALE 12 ANNI +
Il Debate
Il Debate è una metodologia didattica utilizzata in molti Paesi europei, materia curriculare ormai da
anni, nelle scuole anglosassoni, ma che affonda le radici nella storia italiana e, in particolare, nella
disputatio medioevale. Consiste in un dibattito, svolto con tempi e regole prestabiliti, nel quale due
squadre (di solito composte ciascuna da tre studenti) sostengono e controbattono un’affermazione o
un argomento assegnato dall’insegnante, ponendosi in un campo (PRO) o nell’altro (CONTRO).
Classico dibattito serve ad insegnare ad argomentare.
La peer education
La peer education (educazione tra pari) è una metodologia che facilita la comunicazione
tra soggetti-adolescenti con scambi di informazioni, concernenti il gruppo dei pari.
Essa si fonda sul fatto che gli adolescenti considerano e valutano il confronto tra pari come una
delle migliori tecniche formative; tale confronto si basa, infatti, sulla condivisione dell’esperienza e
della conoscenza.
Flip teaching
Nella flipped classroom si attua un’inversione delle modalità di insegnamento tradizionale.
Le attività avvengono in modalità blended e, di conseguenza, è fondamentale l’uso delle nuove
tecnologie per fornire le adeguate risorse agli allievi al di fuori del contesto classe. Infatti, gli allievi
hanno a disposizione una ingente quantità di materiali didattici, che possono condividere, annotare,
modificare o addirittura creare in maniera collaborativa. Fondamentale è il ruolo dei forum di
discussione, in quanto si permette all’allievo di imparare in maniera costruttiva e di raggiungere
diversi obiettivi trasversali afferenti all’area delle relazioni.
In una flipped classroom la responsabilità del processo di insegnamento viene in un certo senso
“trasferita” agli studenti, i quali possono controllare l’accesso ai contenuti in modo diretto, avere a
disposizione i tempi necessari per l’apprendimento e la valutazione. L’insegnante diventa quindi
un supporto alla comprensione di quanto appreso dagli allievi e dovrà impiegare il proprio tempo in
questo processo di passaggio dall’ampliamento delle conoscenze all’acquisizione di capacità e
competenze.
Come per tutte le metodologie didattiche, anche il flip teaching presenta punti di forza e punti di
criticità.
Di certo tale modalità di insegnamento favorisce l’individualizzazione e la personalizzazione dei
percorsi di insegnamento, in quanto gli insegnanti possono dare delle precise indicazioni agli
allievi su come muoversi e sulle risorse che ciascuno di loro può utilizzare.
Il ruolo dell’insegnate all’interno del brainstorming consiste nel moderare gli interventi con
discrezione, favorendo la produzione di idee ma senza giudizi di valore, e nel dare unità al lavoro
finale. Il brainstorming consente a tutti i membri del gruppo di esprimersi.
Il risultato di una seduta brainstorming, è in genere molto produttivo:
Il brainstorming consiste in una “discussione di gruppo incrociata e guidata da un animatore” il cui
scopo è trovare e far emergere il più alto numero di idee possibile su un argomento precedentemente
definito; solo e assolutamente al termine di questo compito si potrà poi selezionare, criticare e
valutare le idee prodotte. Il brainstorming è libero, spontaneo ed anche il docente solo
successivamente valuta le idee prodotte.
Il brainstorming “insiste soprattutto su una funzione che è rapportabile ai tre principali fattori del
pensiero divergente: la capacità di produrre molte idee, diversificate e insolite”[ DIVERGENTI],
queste qualità sono amplificate e sfruttate dal lavoro condotto in gruppo i cui due pregi sono
“l’interazione fra le persone e la moltiplicazione dello sforzo di ciascuno con quello di un
altro”[DIMENSIONE DI GRUPPO O COOPERATIVA].
Il braistorming emotivo o gestire le emozioni con il braistorming
Un brainstorming con gli alunni potrebbe essere fatto la mattina ad apertura della giornata
chiedendo ai bambini come si sentono oggi, e facendo un calendario delle emozioni, che
sviluppa consapevolezza emotiva. Queste stesse tre domande si posso proporre o ogni
mattina o un giorno preciso della settimana per vedere come la percezione di alcune
emozioni stia man mano cambiando. Le domande saranno semplici, ma il focus attentivo
ruota intorno a tre macro-domande.
1. Che emozioni principalmente sperimenti oggi?
2. Riesci a comprendere perché sperimenti emozioni di rabbia, ansia, tristezza durante la
giornata? In che modo?
3. Cosa fai per gestirle al meglio per te stesso e per gli altri?
Nella versione per le scuole di secondo grado è anche una tecnica per evitare conflitti e
bullismo.
Circle time
È un metodo didattico in cui i partecipanti si dispongono in cerchio con un conduttore
che ha il ruolo di sollecitare e coordinare il dibattito entro un termine temporale
prefissato.
E’ considerato una delle metodologie più efficaci nell’ educazione socio-
affettiva; favorisce la conoscenza di sé, promuove la libera e attiva espressione d’idee,
punti di vista, sentimenti e vissuti personali e, infine, crea un clima di serenità e di
condivisione preliminare a qualunque successiva attività.
Clark ed il Service Learning
L’approccio pedagogico del Service Learning (o Apprendimento Servizio), è strategia
molto diffusa a livello internazionale.
Il Service Learning chiede agli studenti di compiere concrete azioni solidali nei confronti della
comunità, sostenendo la scuola nella collaborazione con le istituzioni e le associazioni locali. In
questo modo si crea un circolo virtuoso tra apprendimento (Learning) e servizio solidale (Service).
Questa proposta, molto diffusa negli Stati Uniti, nell’America Latina e in molti Paesi europei, sta
incontrando un grande interesse anche in Italia
Associazioni professionali, istituzioni del volontariato, enti locali sono stati a loro volta, in
certe occasioni, promotori di tale esperienza. Attualmente il ruolo significativo per la
Scuola Italiana è svolto da Indire
Le storie di vita
La metodologia delle storie di vita ricostruisce la biografia di alcuni soggetti su cui viene rivolta la
ricerca e l’interesse del ricercatore. (es intervista ai nonni)
Tinkering
Tinkering è un termine inglese che vuol dire letteralmente “armeggiare, adoperarsi, darsi da fare”.
Il Tinkering viene oramai considerato, negli ambienti educativi a livello internazionale, un approccio
innovativo per l’educazione alle STEM, ed è menzionato nel PIANO NAZIONALE SCUOLA
DIGITALE come uno strumento importante per lo sviluppo delle competenze del 21° secolo e per
l’educazione alle STEM. (Scienze, Tecnica e Matematica)
Si parla di tinkering come di una forma di apprendimento informale in cui si impara facendo.
L’alunno è incoraggiato a sperimentare, stimolando in lui l’attitudine alla risoluzione dei problemi.
Tutte le attività vengono lanciate sempre sotto forma di gioco o sfida. Le attività devono essere
realizzate in gruppo.
Le principali attività che si possono proporre consistono nel costruire o decomporre oggetti,
progettare macchine, che si muovono, volano, disegnano, galleggiano, esplorare materiali o elementi
meccanici, creare artefatti originali o reazioni a catena.
Lo scopo del tinkering è realizzare oggetti di vario genere utilizzando materiali di recupero,
facilmente reperibili anche in casa. Scatole, bicchieri, fogli di carta, pezzi di legno, fili metallici,
involucri di plastica sono solo alcuni degli “ingredienti” che servono per mettersi all’opera. Le cose
che si possono costruire sono tantissime: circuiti elettrici, piccoli robot, giocattoli meccanici, piste
per biglie, meccanismi di reazione a catena, sculture.
Con il tinkering gli studeti (bambini e adolescenti) possono accostarsi a discipline come
l’arte, la scienza e la tecnologia senza l’assillo di dover memorizzare concetti teorici o di
dover studiare intere paginone noiose di libri. Conta solo la pratica.
Per diventare un tinkerer non servono competenze specifiche, basta essere curiosi e
intraprendenti. Tuttavia, armeggiare con materiali e strumenti ogni volta diversi richiede un
po’ di pratica. Quindi devi essere paziente e imparare dagli errori, perché all’inizio può
capitare di sbagliare.
Lo studio di caso
Lo studio di caso consiste nella descrizione dettagliata di una situazione reale.
Con esso si intende sviluppare negli studenti le capacità analitiche necessarie per
affrontare sistematicamente una situazione complessa. La descrizione di un caso è un
brano scritto (massimo 2 pagine) al quale possono essere associati documenti, tabelle o
schemi. La situazione da esaminare può anche riguardare un caso problematico, ma
bisogna non dimenticare che l’obiettivo non è quello di risolvere i problemi bensì quello
di imparare ad affrontarli, individuarli.
I LaRSA (Laboratori per il Recupero e lo Sviluppo degli Apprendimenti) sono strumenti metodologico-
organizzativi che la Scuola utilizza per promuovere il recupero delle carenze e il potenziamento degli
apprendimenti negli studenti che, avendo rendimenti scolastici differenti, richiedano interventi
diversificati.
L’assunto metodologico che sta alla base dei LaRSA è quello secondo il quale l’apprendimento può
risultare più efficace valorizzando il “fare” dell’allievo (di qui l’utilizzo del termine “laboratori”):
finalizzando il lavoro scolastico all’uso dei saperi, il laboratorio può stimolare e motivare
l’apprendimento meglio di quanto potrebbe fare un’ottima lezione ex-cathedra.
L’intelligenza emotiva a scuola può essere accresciuta con attività creative mirate.
Un ottimo esercizio è quello che Goleman chiama la cassetta delle lettere.
Si tratta di una modalità globale e impersonale di coinvolgere tutta la classe negli accadimenti che
riguardano la vita emotiva dei singoli. L’insegnante prepara la cassetta e i bambini vi imbucano
dei biglietti anonimi con emozioni e sentimenti vissuti in occasioni particolari. Chiunque,
senza apporre la propria firma, può
denunciare episodi,
avanzare lamentele sul comportamento dei compagni e
segnalare problemi.
l tutto in maniera che l’intera classe possa discuterne e pensare ai modi emotivamente più
intelligenti di affrontarli. La cassetta delle lettere è, così, un valido strumento per
tematizzare, di volta in volta, le crisi e le questioni di attualità nella classe. E per rompere
lo schema normalmente troppo rigido d’apprendimento, spesso inadeguato e nocivo
alla fluida realtà dell’infanzia.
In una situazione del genere bisogna lavorare perchè il soggetto possa apprendere le abilità
necessarie, di autocontrollo sociali e didattiche, per superare le proprie difficoltà.
L’insegnante deve essere consapevole del fatto che il suo atteggiamento con il soggetto
disattento/iperattivo ha un forte impatto sulla modificazione del suo comportamento.
Perciò deve porsi come autorevole e competente punto di riferimento, facendo in modo che
l’alunno impari a conoscere il proprio ambiente, così che questo diventi prevedibile e
gestibile attraverso:
L’attenzione, intesa come quel processo mediante il quale si mette a fuoco, ovvero si coglie
il senso, di una parte del mondo percettivo circostante è strettamente connessa alla
motivazione ed all’interesse; pertanto la proposta didattica, le modalità di organizzare le
lezioni, l’ambiente di apprendimento e il coinvolgimento che si riesce ad attivare con gli
alunni sono tutti elementi in grado di influenzare profondamente le prestazioni
attentive degli alunni.
Didattica speciale per gli alunni con DSA Per elaborare i quadri diagnostici,
nelle loro diverse componenti (sia per le funzioni deficitarie che per le funzioni integre),
l’indagine strumentale e l’osservazione clinica sono strumenti indispensabili. Così come i
fattori ambientali e le condizioni emotive e relazionali. L’esame della comorbilità, intesa
come compresenza di altri disturbi evolutivi o DSA, fornisce altri importanti
contributi.
Alcuni suggerimenti utili alla semplificazione dei testi per gli alunni
dislessici comprendono:
Gli alunni con DSA conclamato hanno diritto ad avere percorsi didattici personalizzati, concordati
con genitori e specialisti. [Il decreto 12 luglio 2011, attuativo della L. 170/2010, prevede
l’utilizzo di strumenti didattici e tecnologici (strumenti compensativi) che facilitino lo studio e
l’adozione di misure dispensative che permettano all’alunno di essere esonerato da prestazioni che
per lui sarebbero particolarmente difficoltose].
Strategie didattiche
Il dottor Tommaso Carresi, psicologo e psicoterapeuta, propone le seguenti strategie didattiche per
gli studenti con disturbispecifici di apprendimento, e in particolare per quelli dislessici, in
tutti i gradi di scuola:
1. Usare un registratore. Molti problemi con i materiali scolastici sono collegati alla difficoltà nella
lettura.
2. Chiarire o semplificare le consegne scritte. Le indicazioni (consegne) scritte sotto
forma di paragrafo e contenenti molte informazioni possono risultare opprimenti per gli studenti. Il
docente può facilitare il compito sottolineando o evidenziando le parti significative delle indicazioni.
3. Evitare attività ridondanti. In presenza di disturbi di apprendimento, è consigliabile evitare una
mole eccesiva di lavoro e comunque conviene presentare le attività semplificandone lo svolgimento.
Rispetto ad una scheda di esercizi può per esempio essere richiesto di svolgere solo quelli dispari (o
evidenziati con altro indicatore) o in alternativa presentare una parte degli esercizi già risolti.
4. Limitare gli stimoli estranei. Se lo studente è facilmente distraibile dagli stimoli visivi
all’interno di un foglio di lavoro, può essere usato un foglio bianco di carta per coprire la sezione su
cui il soggetto non sta lavorando. In alternativa, possono essere usate finestre che lasciano leggere
un’unica riga o un solo esercizio per volta per facilitare la lettura.
5. Evidenziare le informazioni essenziali. Se uno studente ha delle difficoltà nell’individuare le
informazioni essenziali di un testo, l’insegnante può sottolineare le chiavi di lettura con un
evidenziatore.
6. Prevedere attività pratiche addizionali. Per far sì che gli studenti con
difficoltà di apprendimento acquisiscano padronanza nelle abilità prefissate, gli insegnanti possono
integrare i materiali di studio con attività pratiche. Gli esercizi pratici raccomandati includono giochi
educativi, attività di insegnamento tra pari, uso di materiali che si autocorreggono, programmi
software per il computer e fogli di lavoro aggiuntivi.
7. Ripetizione della consegna. Gli studenti che hanno difficoltà nel comprendere le indicazioni
per i compiti (consegne) possono essere aiutati richiedendo di ripeterle a parole loro.
8. Mantenimento delle routine giornaliere. Normalmente gli studenti con disturbo
dell’apprendimento beneficiano di routine giornaliere che consentono loro di conoscere in anticipo
ciò che ci si aspetta essi facciano.
9. Consegna di una copia degli appunti della lezione. L’insegnante può dare una copia degli
appunti delle lezioni agli studenti che hanno difficoltà nello scriverli durante l’esposizione.
10. Uso di istruzioni passo-a-passo. Informazioni nuove o particolarmente difficili possono essere
presentate in piccole fasi sequenziali. Questo aiuta gli alunni con scarse conoscenze sull’argomento
e che hanno bisogno di istruzioni esplicite che chiariscano il passaggio dal particolare al generale.
11. Combinazione simultanea di informazioni verbali e visive. Le informazioni verbali possono
essere efficacemente affiancate da materiali visivi (es. opuscoli, volantini, lavagna luminosa etc.).
12. Scrittura dei punti chiave o delle parole alla lavagna. Prima di una presentazione l’insegnante
può scrivere sulla lavagna un breve glossario comprensivo dei termini nuovi che verranno proposti
alla classe.
13. Uso delle tecniche di memorizzazione. Nell’ambito delle strategie di apprendimento possono
essere usate tecniche dimemorizzazione per aiutare gli studenti a ricordare le informazioni chiave o
le varie fasi di un processo.
14. Enfasi sul ripasso giornaliero. Il ripasso giornaliero degli argomenti già studiati aiuta gli studenti
a collegare le nuove informazioni con quelle precedenti.
PROBLEM SOLVING per la Didattica Speciale
PROBLEM SOLVING per la Didattica Speciale ⇒ Sintesi per concetti base
Il metodo consente agli allievi di apprendere a risolvere, con gradualità, problemi sempre più
complessi che fanno sì che lo studente acquisisca abilità cognitive di livello elevato.
Il problema
Un problema può essere una domanda che richiede una risposta precisa ed esauriente, oppure, un
quesito che richiede l’individuazione o la costruzione di regole e di procedure che consentano di
risolvere il quesito stesso.
Una domanda e la risposta, un quesito e la soluzione, una procedura o un algoritmo da organizzare,
un dialogo, una comunicazione da elaborare.…-
La didattica per problemi ha una valenza educativa, formativa e consente di far acquisire ad ogni
allievo gli obiettivi didattici fissati, a livello disciplinare o pluridisciplinare.
La didattica
La didattica per problemi deve avere determinate caratteristiche, deve consentire a ciascun allievo
di:
°ricercare dati ed informazioni;
°fare stime e calcoli …;
°formulare ipotesi risolutive;
°proporre soluzioni;
°prendere decisioni.
La didattica per problemi deve essere intenzionale e funzionale rispetto agli obiettivi educativi e
didattici da conseguire, in termini di conoscenze, competenze e capacità.
Durante la soluzione di un problema l’allievo deve essere messo, dal docente, in condizione di
scoprire (ri-scoprire) ed acquisire, autonomamente, conoscenze nuove.
La didattica per problemi deve rispettare alcune regole fondamentali di relazione:
i problemi non debbono essere imposti, in modo direttivo, ma debbono essere discussi e condivisi
dal gruppo classe e/o nei piccoli gruppi;
i docenti assumono la funzione di guida metodologica, di assistenza e di consulenza per ciascun
allievo o per il gruppo di alunni impegnato nella soluzione del problema.
Il docente svolge le funzioni di tutor.
La didattica per problemi consente il conseguimento dei seguenti obiettivi per ciascun allievo:
Il metodo consente, inoltre, di sviluppare alcuni aspetti fondamentali della personalità quali:
1) la responsabilità,
2) l’autonomia,
3) la fiducia in sè,
4) la stima di sé,
5) la cooperazione con gli altri,
6) la solidarietà,
7) le capacità decisionali.
Gli allievi possono risolvere problemi in piccoli gruppi, costituiti da un massimo di cinque studenti.
I problemi possono essere scomposti in sotto-problemi, più semplici da risolvere.
I gruppi scelgono un loro referente che illustra ai componenti degli altri gruppi le procedure che
hanno utilizzato.
La funzione del docente consiste nell’insegnare agli allievi del gruppo classe a trovare la
soluzione del problema.
Generalmente un problema genera un altro problema.
La soluzione di un problema può essere, infatti, il presupposto per la posizione di un altro problema.
Il filosofo ed epistemologo K. Popper sostiene che “la ricerca scientifica consiste nel risolvere
problemi”, che “la vita è costituita da problemi da risolvere” e, quindi, che apprendere a risolvere
problemi significa apprendere a vivere’’
Quando un allievo s’imbatte in un problema, inizialmente ne sa molto poco, ma potrà diventare
esperto di quel particolare problema, formulando ipotesi risolutive, seppure inadeguate ed
insoddisfacenti, criticando, rivedendo ed affinando le ipotesi stesse, dopo averle messe alla prova.
Comprendere un problema significa capirne le difficoltà, tentare di risolverlo con un’applicazione
tenace e responsabile.
L’intuizione intesa come conoscenza diretta ed immediata della realtà, di un fenomeno, di una
situazione, può giocare un ruolo importante nella soluzione di un problema.
Il metodo del brain storming può essere utilizzato dal docente per animare i lavori di gruppo,
soprattutto nella fase in cui si discute la soluzione di un problema.
Il modello interviene in due fasi relative alla soluzione di un problema, nella fase in cui:
dal modello si passa a ciò che il solutore deve fare per risolvere il problema,
dalla situazione problematica reale si arriva alla costruzione di un modello risolutivo.
Il modello preliminare alla soluzione di un problema può essere un modello già strutturato, oppure
un modello formato solo in parte e, quindi, in via di formazione completa.
Il modello può essere adeguato per risolvere il problema oppure non è adeguato del tutto o solo in
parte, per giungere alla soluzione del problema.
strutturato ed adeguato,
strutturato ma inadeguato,
Nel primo caso il modo di procedere per il solutore è chiaro, pertinente, efficace.
Nel secondo caso il modello non conduce ad una soluzione del problema
Nel terzo caso il soggetto riesce a risolvere il problema, pur non avendo a disposizione un modello
strutturato.
Nel quarto caso i comportamenti risolutivi sono tutti da ideare, il solutore ricerca un modello
pertinente ed adeguato ma non sa come strutturare le azioni da intraprendere.
Si ha un modello normativo quando all’allievo è detto come costruire le decisioni per risolvere il
problema con il modello adeguato.
Si ha il modello descrittivo quando sono date indicazioni sui comportamenti da tenere e sulle
decisioni da assumere per risolvere il problema.
Gli studiosi hanno individuato tre aspetti relativi alla strategia di risoluzione dei problemi, come:
a)si presenta il problema,
b) interagiscono le caratteristiche del contesto problematico con le conoscenze ed i modelli di
ciascun solutore,
c) sono analizzati i problemi e come il solutore stesso analizza la propria struttura o matrice
cognitiva.
Risolvere un problema implica la trasformazione della struttura conoscitiva del solutore da uno
stato iniziale “i” ad uno stato finale “f”, come avviene per il processo d’apprendimento in generale.
Nell’attività di risoluzione di problemi l’allievo deve acquisire le seguenti competenze intese come
esiti in uscita:
a) Comprendere il testo di un problema,
b) Individuare i dati essenziali,
c) Individuare quelli mancanti,
d) Individuare relazioni e corrispondenze,
e) Costruire relazioni e corrispondenze,
f) Utilizzare in modo consapevole tecniche e procedure di calcolo,
g) Sviluppare algoritmi risolutivi,
h) Controllare la validità degli algoritmi risolutivi individuati o costruiti,
i) Matematizzare il problema da risolvere, attraverso processi di generalizzazione e di
simbolizzazione, questa operazione riduce l’effetto della complessità,
j) Padroneggiare modelli risolutivi in condizioni di certezza e in condizioni d’incertezza,
k) Utilizzare gli strumenti informatici a disposizione,
l) Allenarsi al rigore e alla precisione mentale,
m) Comprendere e utilizzare i codici formali.
In particolare: in merito alla concettualizzazione di un problema può essere utile servirsi delle
tabelle seguenti:
Il problem finding
Il termine problem finding, dal verbo inglese to find, “trovare” stimola l’alunno
all’ identificazione o individuazione del problema, indica una parte del processo mentale che porta
alla risoluzione di un problema. - partire proprio dalla decisione di fermarsi a pensare.
Questo è un esercizio diverso di approccio alla risoluzione dei problemi, non si pone allo
studente un problema ma si dice di trovarlo in una situazione. Il problem finding stimola la
capacità di “scoprire” un problema piuttosto che risolverlo, fase successiva. Questa attività
richiede apertura intellettuale e intuizione, requisiti che implicano l’utilizzo della creatività.
Freire usò tale metodo quale alternativa all’educazione secondo il modello educativo
tradizionale o banking education, secondo cui chi apprende è un contenitore da riempire
con le conoscenze.
Paulo Freire parla del modello di istruzione bancario per descrivere e criticare il sistema
educativo tradizionale. Il nome fa riferimento alla metafora degli studenti come contenitori in
cui gli educatori devono mettere la conoscenza. Contro la teoria della trasmissione della
conoscenze, per cui gli studenti erano solo riceventi, come delle banche che raccogliessero
informazioni.
Jigsaw Classroom
Una metodologia che riduce il conflitto tra gli studenti, migliora la motivazione e aumenta il piacere
dell’esperienza di apprendimento.
La Jigsaw classroom, sviluppata negli anni ’70 da Elliot Aronson, è una metodologia di cooperative
learning basato sulla ricerca.
L’insegnante divide gli studenti in gruppi, sceglie un leader, divide la lezione in un numero
di segmenti pari al numero dei membri del gruppo, assegna a ogni studente di ogni gruppo
l’apprendimento di un solo segmento e alla fine della sessione, verifica l’apprendimento.
preparatoria
operatoria
ristrutturativa
attuando il capovolgimento della tradizionale lezione frontale. In ciascuna fase vengono
individuate sia le azioni del docente che quelle degli studenti, riconducendole ad una
determinata logica didattica.
L’’EAS, basata su un’accurata progettazione del docente (Lesson Plan), propone agli
studenti esperienze di apprendimento situato e significativo, che portino alla realizzazione
di artefatti digitali, favorendo un’appropriazione personale dei contenuti.
Storytelling
Raccontare storie mediante tecnologie è pratica antica e consolidata, Al cambiare delle
tecnologie sono cambiati i mezzi di comunicazione e di coinvolgimento lasciando inalterata
l’enfasi emotiva e narrativa. Il ricorso a storie può essere infatti di facile comprensione per
l’apprendimento del bambino. Nei libri scolastici delle scuole elementari infatti, per rendere
semplice un concetto si ricorre ad una storia o a dei personaggi. La metodologia dello storytelling
consiste nell’uso di procedure narrative al fine di promuovere meglio valori, idee ed è incentrato
sulle dinamiche di influenzamento sociale. sia come strumento di comunicazione delle esperienze,
sia come strumento riflessivo per la costruzione di significati interpretativi della realtà. Dare rilievo
alla narrazione, ai racconti dei soggetti che vengono coinvolti nei processi educativi e formativi,
rappresenta la svolta epistemologica sia per leggere fenomeni e processi (narrazione come
strumento di ricerca), sia per produrre azioni e cambiamenti intenzionali (narrazione come
strategia didattica). La narrazione è uno strumento per penetrare in profondità nelle cause e nelle
ragioni di eventi. Lo storytelling è fondamentale in diversi contesti educativi e formativi con la
Il problem solving è una metodologia che può essere scomposta in diverse fasi: il problem
posing (porre il problema), problem finding (cercare il problema) e problem shaping (dare
forma a problema), che rappresentano le diverse fasi in cui si scompone il problema prima
di arrivare alla sua soluzione.
In generale si possono riconoscere 5 fasi fondamentali o 5 step con cui procedere:
Who (“Chi?”),
What (“Cosa?”),
Where (“Dove?”),
When (“Quando?”)
Why (“Perché?”),
Rispondendo a queste sette domande, si possono individuare alcune delle principali cause
del problema. Questa tecnica può essere utilizzata per aiutare a definire un reclamo del
cliente o la ritardata consegna di un fornitore o in ogni altra situazione che si può incontrare
nella filiera di produzione. Con una definizione specifica del problema si può iniziare un
lungo cammino verso lo sviluppo di una vera e propria soluzione.
Analisi di Ishikawa
Per procedere all’applicazione di questo strumento bisognerà che il gruppo che analizzerà
il fenomeno sia un team costituito da persone che possiedono esperienza di quale sia il
problema che si vuole affrontare.
Come si vede, si organizzano diversi rami secondo un ordine gerarchico: dalle cause che
hanno generato il problema si articolano rami secondari che presentano le cause che a loro
volta hanno incrementato o generato le cause principali del problema individuate.
Lo sfondo educativo ed il concetto di sfondo integratore
Le azioni educative compiute sono soggette ad interpretazione e acquistano significato
all’interno del particolare “contesto” in cui si trovano ad essere inserite. Sostengono altresì
che le azioni compiute assumono significato in quanto emergono come “figure” da uno
“sfondo”.
La D.A.D non sostituirà mai la classe. La stessa nozione o azione educativa si stacca dallo
sfondo ed allo stesso tempo è integrato nello sfondo.
Tale forma di programmazione ha visto una diffusione nella scuola dell’infanzia proprio perché
questo segmento scolastico è stato in grado di raccogliere le sollecitazioni positive, soprattutto per
quanto riguarda la possibilità di configurarsi come “contenitore” affettivo e motivazionale
particolarmente flessibile, non avvertendo l’impellente necessità di un controllo sui risultati cognitivi
raggiunti dagli alunni ma prestando attenzione al clima relazionale e sociale che si instaura nel
rapporto formativo.
3.Sfondo integratore come sfondo metaforico. Si tratta di uno specifico strumento didattico
(influenzato, in parte, dalla pratica e dalla prospettiva terapeutica di Milton Erickson),
pensato per supportare l’integrazione di bambini con problematiche comunicative e con
forme di psicosi lievi.
Consiste, praticamente, nel proiettare la situazione problematica su di uno sfondo
metaforico che, da una parte, ripropone gli elementi del problema, ma, dall’altra, introduce
nuovi elementi che consentono al bambino (e al gruppo classe) di ristrutturare la situazione
problematica e di farla evolvere.
Rappresenta:
• un contenitore dei percorsi didattici finalizzati alla costruzione di un contesto condiviso da tutti,
capace di ampliare la risorse dell’azione educativa.
• un sollecitatore di situazioni problematiche, che richiedono formulazione di ipotesi e ricerca di
soluzioni.
• un facilitatore dell’apprendimento attraverso la strutturazione di situazioni motivanti.
Lo sfondo integratore è l’involucro, il contenitore che determina l’unità del percorso educativo, la
percezione dei nessi, il senso della continuità che collega le molte attività didattiche che altrimenti
resterebbero disperse e frantumate.
Nell ambito di una programmazione per sfondi integratori le analisi, le scelte e le decisioni prese
muovono da una prospettiva che vede l allievo come un soggetto attivo e motivato di
apprendimento.
Per meglio dire, l allievo non apprende solo in virtù del curricolo esplicito,perseguito dalla scuola,
ma ancor di più in virtù del curricolo implicito, ravvisabile sia nelle procedure della vita scolastica,
sia nei materiali didattici, sia negli approcci culturali e nelle relazioni adottate dagli operatori della
scuola.
L’idea basilare afferma che si dà apprendimento reale solo all interno di ambienti altamente
relazionali, investiti da una esplicita affettività.
L’apprendimento scolastico viene interpretato in base al rapporto comunicativo che si instaura fra i
docenti e gli allievi, dalla qualità della relazione che si sviluppa.
Da una parte uno strumento per sostenere l’autonomia dello studente con disabilità e la sua
integrazione nel contesto della sezione.
Dall’altra una struttura di connessione narrativa, un modello narrativo di fondo (una sorta di
situazione da storytelling). Come quando si entra in un’aula con tutti gli elementi tipici di una
disciplina.
Nella pratica educativa, lo sfondo integratore, così inteso, è spesso coinciso con la creazione di
narrazioni, elaborate insieme al gruppo dei bambini, allo scopo di favorire una percezione condivisa
della situazione e di facilitare, attraverso l’elaborazione di significati condivisi, i processi comunicativi
fra il gruppo di bambini e fra questi e gli adulti educatori.
Debriefing – e le sette fasi proposte da Mitchell
Nei metodi attivi di apprendimento e nella didattica esperienziale la fase in cui, una volta
completata l’attività, il gruppo in formazione con la guida dell’insegnante/formatore torna
riflessivamente su quello che è accaduto per raggiungerne consapevolezza e fissarlo a
quadri concettuali espliciti è detta debrifing.
2. Discussione dei Fatti (ricostruzione degli eventi occorsi, attraverso le “narrazioni” e le prospettive
multiple dei partecipanti)
5. Discussione dei Sintomi (eventualmente provati nelle ore o nei giorni successivi all’evento critico)
7. Conclusione (che “chiude” l’esperienza, sfumando dopo – a volte – verso una chiusura anche
informale – spesso bevendo e mangiando qualcosa insieme per rinsaldare i legami sociali di gruppo
dopo l’evento critico e la “fatica emotiva” del Debriefing)
La didattica speciale si fonda sul valore del bagaglio formativo di cui ciascuno dispone e
sull’urgenza di rendere le proposte didattiche flessibili, varie e calibrate sui bisogni di
ciascun individuo all’interno del gruppo-classe.
Gli interventi di sostegno che riguardano l’alunno diversamente abile devono essere
progettati non nell’ottica del semplice supporto al singolo discente ma in quella della
creazione di un clima relazionale e di percorsi didattici in grado di valorizzare la
differenza e di costruire l’apprendimento in modo cooperativo, valorizzando il
contributo di tutti i membri della classe
Inizialmente il microteaching sembrava basarsi sulla teoria del condizionamento operante di Skinner che
può venire applicata per spiegare l’acquisizione di nuovi modelli di comportamento nello schema Teach –
Feedback – Re-teach; in seguito si è orientato sulle indicazioni cognitiviste fino a giungere al piano
della riflessività (Schön) poiché l’insegnante tirocinante può guardare la propria performance e valutarla e,
nel frattempo, il gruppo di tirocinanti analizza criticamente le sessioni videoregistrate, sia proprie che altrui,
favorendo una maggiore consapevolezza rispetto alle azioni professionali.
Il concetto di microteaching si regge su cinque proposizioni: è “didattica applicata“, vengono ridotte alcune
complessità dell’insegnamento “normale“, si basa sull’addestramento a eseguire compiti specifici,
“consente di stabilire qual è il metodo preferibile di tirocinio” e “allarga notevolmente la dimensione del
feedback” ( sul modello dell’agire riflessivo o meta-cognitivo dell’insegnante).
L’insegnante tirocinante ripete ciclicamente l’attività finché non padroneggia le abilità tecniche che
si era prefissato di acquisire o migliorare.
1. connettive;
2. associative;
3. basate su rapporti di causa/effetto o di successione cronologica tra le informazioni.
Per quanto riguarda la loro struttura, esse rappresentano relazioni gerarchiche (in cui
ciascun elemento è collegato a quello che lo precede e a quello che lo segue sulla base di
criteri di priorità/propedeuticità/rilevanza) e associative (che evidenziano legami trasversali
tra concetti appartenenti a diverse catene gerarchiche all’interno della mappa
La didattica metacognitiva
La didattica metacognitiva parte dal presupposto dell’insufficienza dell’apprendimento di
nuove conoscenze e dall’idea che l’obiettivo primario di ogni percorso formativo sia
l’acquisizione delle abilità metacognitive in termini di consapevolezza dei processi
cognitivi e di capacità di controllo nell’esecuzione dei compiti mentali. Imparare ad
imparare vuol dire conoscere i fattori che determinano l’apprendimento, essere consapevoli
degli elementi che caratterizzano una situazione di apprendimento (obiettivi, risorse e
difficoltà) e saper strutturare strategie adeguate alla situazione stessa. L’insegnamento ha
il compito di aiutare gli alunni a diventare consapevoli dei propri stili di apprendimento e
di metterli nella condizione di utilizzare in modo ragionato e flessibile gli strumenti per
imparare.
La didattica dell’errore
La didattica dell’errore si fonda sul riconoscimento del valore positivo e potenzialmente
fecondo dell’errore, in cui l’alunno si imbatte nei suoi tentativi di ricerca e apprendimento.
La ricerca dell’errore, la riflessione su di esso e lo sviluppo della capacità di autocorrezione
rappresentano una risorsa nel percorso didattico. Il timore di sbagliare può essere mitigato
mostrando agli alunni come molte conoscenze nuove e utili per la storia dell’umanità siano
nate grazie a un continuo esercizio critico nei confronti del sapere acquisito. Naturalmente
è fondamentale operare una distinzione tra l’errore di disattenzione e di distrazione e
quello in cui si incorre in un procedimento di ricerca per prove ed errori.
L’errore non è più un qualcosa con cui noi puniamo lo studente che ha sbagliato, ma tramite
questo cerchiamo di arrivare alla soluzione, mediando nel contempo le sensazioni di ansia
e di timore. E’ un processo per nulla sottovalutato, in cui si procede di pari passo per prove
e d errori.
La didattica orientativa
La didattica orientativa vanta uno stretto legame con la prospettiva del lifelong learning e
immagina il processo di formazione come percorso in grado di favorire lo sviluppo delle
capacità di iniziativa personale del soggetto nella progettazione,
nella organizzazione e nella gestione del suo progetto di vita.
La didattica orientativa
La didattica orientativa vanta uno stretto legame con la prospettiva del lifelong learning e
immagina il processo di formazione come percorso in grado di favorire lo sviluppo delle capacità
di iniziativa personale del soggetto nella progettazione, nella organizzazione e nella gestione del
suo progetto di vita.
La scuola e l’extrascuola devono svolgere una funzione orientativa, attraverso la realizzazione di stili
di insegnamento mirati al perseguimento di obiettivi formativi personalizzati e allo sviluppo di
competenze, abilità metacognitive e relazionali oltre che di saperi.
La didattica orientativa, quindi, è centrata sul soggetto che apprende come potenziale autore
del proprio progetto di vita e delle scelte ad esso connesse e si pone come obiettivo lo
sviluppo di una personalità capace di progettare in modo autonomo la propria vita e di auto-
orientarsi.
Per realizzare questi obiettivi deve progettare curricoli flessibili e offrire metodologie
diversificate che siano in grado di sviluppare alcune competenze-chiave:
autogestione e autovalutazione;
flessibilità;
capacità di cogliere la significatività dell’esperienza;
capacità di valutare per decidere;
capacità di affrontare i cambiamenti e fronteggiare le situazioni;
capacità di comunicazione e relazione;
capacità metacognitive;
capacità di progettazione;
capacità di problem solving;
capacità di collaborare con gli altri in vista di un obiettivo comune.
L’apprendente necessita di acquisire non solo abilità strategiche che gli consentano di
affrontare con efficacia i problemi posti dalla vita ma anche aspirazioni, desideri e obiettivi
adeguati rispetto al mondo e alle proprie caratteristiche.
L’insegnante, in questa ottica, deve individuare i mezzi didattici appropriati per sollecitare
e incoraggiare l’impegno di autocostruzione e le capacità di
autovalutazione dell’apprendente e deve aprire il più possibile la propria disciplina al
rapporto con le altre per lasciare ampio spazio all’emergere degli interessi e delle attitudini
del discente.
Il suo ruolo deve concretizzarsi come azione di affiancamento e di supporto nel percorso
di costruzione delle competenze e di scoperta del sé.
La didattica laboratoriale
Il laboratorio è un ambiente attrezzato, ma, allo stesso tempo, è anche uno “spazio mentale
attrezzato”, una forma mentis, un modo di interagire con la realtà per comprenderla e/o per
cambiarla.
Nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria la didattica laboratoriale supera i confini
materiali delle quattro mura dei locali da laboratorio per invadere l’aula. Al di là della
presenza o meno di laboratori specifici, come l’aula informatica, l’aula di scienze, il
laboratorio per la ceramica e l’arte, infatti, la scuola dell’infanzia e la scuola primaria,
essendo le scuole del “fare” per eccellenza, si basano su una didattica laboratoriale in
senso lato, cioè su una didattica che prevede nella pratica quotidiana il ricorso ad attività
costruttive, concrete, al fine di comprendere praticamente le conoscenze. Si pensi, ad
esempio, all’esperimento delle piantine di legumi (i bambini tengono in classe piantine di
lenticchie, fagioli o piselli in barattoli e le innaffiano, osservano la loro crescita) oppure ai
modelli che possono essere costruiti (il modello di un vulcano in cartapesta oppure il modello
del corpo umano).
«Didattica per Scenari» consente ai ragazzi di mettere in campo le loro attitudini e la creatività
lasciando adeguato spazio allo spirito d’iniziativa.
Per organizzare un’attività di questo genere si devono conoscere gli elementi fondanti della
disciplina, le caratteristiche cognitive e affettive dei propri alunni, le loro attitudini e le abilità
sociali di cui sono in possesso. È possibile selezionare una serie di obiettivi che possano
raccordarsi con varie discipline e coinvolgere altri colleghi nella realizzazion
Nella fase ideativa, l’insegnante individua gli obiettivi formativi generali e quelli
didattici specifici, struttura gli spazi identificati in maniera funzionale, predispone i
materiali affinché siamo fruibili direttamente dagli allievi, elabora strategie di
intervento rispetto all’insegnamento delle abilità sociali, stabilisce i tempi di
realizzazione, prevede e comunica agli studenti le modalità di verifica e valutazione
degli esiti. È importante valutare non solo il prodotto ma anche il processo,
fornendo un feedback continuo e positivo rispetto allo svolgimento delle attività
previste.
articolari. Come nelle attività di apprendimento cooperativo, il docente che coordina l’attività
di laboratorio ha la funzione di organizzatore delle conoscenze e dei materiali, facilita
l’interazione tra gli alunni aiutandoli a gestire eventuali problematiche relazionali, li conduce
ad attuare una riflessione meta-cognitiva sul loro operato.
La didattica per laboratori richiede che gli alunni operino in piccoli gruppi per consentire
all’adulto di meglio monitorare lo svolgimento dell’esperienza e intervenire a fronte di
particolari problematicità.
La realizzazione di laboratori didattici viene incontro alle esigenze formative di ciascun
allievo, ai suoi bisogni educativi, può essere adattato e semplificato in base alle
caratteristiche individuali di ciascuno e comporta una buona conoscenza del gruppo e
capacità di progettazione e pianificazione.
Il Laboratorio
Il laboratorio viene considerato come lavoro produttivo, ma anche simulazione mentale
e materiale di un certo fenomeno
Con il lavoro laboratoriale gli alunni dominano il senso del loro apprendimento,
perché producono, perché operano concretamente, perché nel “fare” sanno dove
vogliono arrivare e per quali scopi.
Gli elementi fondamentali della didattica laboratoriale sono:
la manipolazione concreta;
l’uso di una procedura cadenzata e precisa;
la creatività (ogni alunno deve avere la possibilità di personalizzare il lavoro che
sta facendo);
lo “spiazzamento” cognitivo (ogni alunno deve poter scoprire qualcosa di nuovo e
meravigliarsi di fronte alla scoperta);
la scoperta si deve situare alla giusta distanza tra ciò che già si conosce e ciò che
non si conosce ancora (mi meraviglio, ma afferro in maniera solida il nuovo
significato);
la molteplicità dei livelli di interpretazione e la pluralità dei punti di vista;
la valenza metaforica (richiama o rievoca in me esperienze vissute familiari);
il coinvolgimento emotivo e cognitivo (imparo agendo)
La didattica laboratoriale si rifà al modello teorico dell’apprendimento attraverso
l’interazione tra pari e si realizza mediante il metodo operativo, composto dai seguenti
elementi:
la problematizzazione, che consiste nella definizione del problema da affrontare in
vista della soluzione;
Le esperienze laboratoriali, cioè, consentono di costruire a scuola «comunità di pratiche», in cui gli
apprendenti si confrontano, condividono, interagiscono, dialogano, costruendo conoscenze attraverso un
processo di discussione-costruzione-verifica collegiale.
tutorato e consulenza;
progettazione e organizzazione;
facilitazione dell’interazione fra diversi soggetti;
negoziazione.
l motto “si impara facendo” esplicita il fatto che l’essere padroni di una certa competenza è
l’esito del percorso, non il presupposto.
I percorsi laboratoriali, infine, facilitano la metacognizione, perché gli alunni, di fronte ad un
ostacolo, ad un esito negativo, sono invogliati, con l’aiuto dell’insegnante, a tornare indietro, a
ricostruire il percorso di apprendimento e a trovare l’errore per superarlo. Da ciò emerge che
il ruolo degli apprendenti nella didattica laboratoriale è attivo.
Service Learning
Il Service Learning è una proposta pedagogica, metodologica e didattica che unisce il Service (la
cittadinanza, le azioni solidali e il volontariato) e il Learning (un apprendimento significativo).
Il Service Learning chiede agli studenti di compiere concrete azioni solidali nei confronti della
comunità, sostenendo la scuola nella collaborazione con le istituzioni e le associazioni locali. In
questo modo si crea un circolo virtuoso tra apprendimento (Learning) e servizio solidale (Service).
Questa proposta, molto diffusa negli Stati Uniti, nell’America Latina e in molti Paesi europei, sta
incontrando un grande interesse anche in Italia (oggi sostenuta anche dal MIUR, che ha realizzato
una sperimentazione nazionale e promosso la costituzione di reti di scuole del Service Learning in
tutte le regioni italiane).
Tale metodo risulta essere molto valido soprattutto nella prima fase dell’apprendimento dove
il bambino si trova a non concepire appieno una materia astratta e quindi potrebbe aver bisogno di un
metodo “concreto”.
Inoltre la scoperta autonoma può essere un utile metodo per comprendere ciò che può
risultare difficile dato che, attraverso la personalizzazione concreta dell’esperienza, stimola
una significatività intuitiva; è quindi plausibile supporre che tale tecnica autonoma porti ad
un apprendimento e ad una comprensione maggiori a fronte di una motivazione, interesse
e curiosità maggiori.
https://www.orizzontescuola.it/lapprendimento-significativo-e-per-scoperta-di-cosa-si-
tratta/
La didattica collaborativa o cooperative learning
Può essere definita “un metodo di apprendimento-insegnamento in cui la variabile significativa è
la cooperazione tra gli studenti” o “un insieme di tecniche di classe nelle quali gli studenti lavorano
in piccoli gruppi per attività di apprendimento e ricevono valutazioni in base ai risultati
conseguiti.
La didattica cooperativa punta al miglioramento dei processi di apprendimento e
socializzazione attraverso la mediazione del gruppo (in genere di utilizzano piccoli gruppi in
cui gli studenti lavorano insieme), i cui membri devono agire sentendosi positivamente
interdipendenti tra loro. Si tratta di una metodologia fondata sulla convinzione
dell’importanza dell’interazione e della cooperazione nella scuola come mezzo
di promozione umana e sociale. Inoltre, nel cooperative learning il contatto con i coetanei
più capaci all’interno del gruppo consente di operare reciprocamente all’interno delle zone
di sviluppo prossimale di ciascuno, ottenendo risultati migliori di quelli conseguibili con le
normali attività individuali.
La didattica tecnologica
L’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) è ormai imprescindibile
nella vita quotidiana e anche tra i banchi di scuola. In una società di “digital natives“, alunni cresciuti
in un mondo dominato dalla tecnologia, è fondamentale per i docenti avvicinarsi alla tecnologia per
avvicinarsi agli alunni stessi cercando di capire il loro mondo (⇒usare linguaggi più affini agli
alunni per migliorare il processo di insegnamento/apprendimento).
Si ricorda cosa s’intende con il concetto di Digital Nativers (domanda possibile di una preselettiva).
Con il coronavirus e nella fase epidemiologica moltissimo è cambiato nel mondo sia della FAD
(Formazione a Distanza), sia della DAD (Didattica a distanza).
Gli stimoli interattivi cambiano lo scenario dell’apprendimento. La rete e i pc sono svariati e inoltre
coinvolgono più canali sensoriali che certamente favoriscono l’apprendimento.
Le opportunità che offrono le tecnologie sono da considerarsi non soltanto in relazione allo sviluppo
di specifiche conoscenze o abilità, ma a supporto dell’intero processo di
insegnamento/apprendimento per l’acquisizione di competenze complesse come la risoluzione dei
problemi, lo sviluppo di congetture e dimostrazioni.
Questo approccio didattico migliora la capacità degli studenti di applicare conoscenza astratta
collocando l’educazione in contesti virtuali autentici, consentendo loro di svolgere compiti che
potrebbero essere difficili o impossibili da vivere nel mondo reale.
Gli studenti pensano e apprendono in ambienti che sono veloci, multimediali, multimodali, interattivi,
digitali.
Dal punto di vista del sostegno didattico, si ricorda il valore delle stimolazioni multiple e
creative verso soggetti BES.
Il virtuale e l’interattività può rappresentare in tali contesti metodo didattici innovativi ed
originali, significa anche favorire in pratica le diverse intelligenze degli alunni.
PARTE II.
L’ALUNNO E LA SUA SPECIFICITÀ – IL BISOGNO EDUCATIVO
SPECIALE.
BES
Considerando che B.E.S.: B.isogni E.ducativi S.peciali è la parola che indica tutte le
condizioni di “disagio educativo”, vanno distinte le situazioni derivanti da difficoltà di
apprendimento, disabilità o DSA, dovute a condizioni genetiche o a disabilità certificata (l.
104) da quelle di natura socio-economiche, ambientali e/o linguistiche ⇒ in questo ultimo
caso parleremo di situazioni di svantaggio.
“Il Bes è qualsiasi difficoltà evolutiva in ambito educativo e/o apprenditivo, che consiste in un
funzionamento (frutto dell’interrelazione reciproca dei sette ambiti
della salute secondo il modello ICF) problematico anche per il soggetto, in termini di danno,
ostacolo o stigma sociale, indipendentemente dall’eziologia, e che necessita di educazione speciale
individualizzata”.
1. alunni che presentano disabilità derivanti da deficit o patologie: la scuola realizza per loro
il PEI
2. alunni con Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA): la scuola realizza per loro il PDP
3. alunni che si trovano in una situazione di SVANTAGGIO o presentano altre situazioni di
difficoltà nell’apprendimento di natura ambientale, culturale, economica, sociale, linguistica
nel senso di proveniente da contesti non italianofono.
Le forme dell’azione didattica e il clima della vita delle classi e della scuola devono
essere inclusivi al punto che tutti gli alunni della classe e della scuola, normodotati, con
disabilità o con serie difficoltà – vivano e sentano la scuola come contesto commisurato
alle diverse esigenze della loro crescita personale nell’apprendimento e nella relazione
sociale con compagni e docenti.
Gli alunni che presentano bisogni educativi più complessi, cioè, appunto, speciali, possono
essere raggruppati, dal punto di vista normativo, in tre grandi classi. Due di esse godono
di importanti tutele a livello legislativo – la L. 104/1992 (situazioni di disabilità) e la L.
170/2010 (DSA). La terza, che non si avvale di leggi specificamente dedicate, è costituita
da tutte le situazioni di difficoltà di apprendimento: la Direttiva Ministeriale del 27
dicembre 2012 (“Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e
organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”), che è dedicata a tutti gli alunni con
bisogni educativi speciali, è rivolta soprattutto a questa terza classe di situazioni.
http://www.marche.istruzione.it/dsa/allegati/dir271212.pdf
ICF. Audiolezione
ICF. secondo questa classificazione sono espresse le diverse diagnosi riguardanti gli alunni
che hanno certificazione disabilità. Abbiamo in rosso i ritardi mentali ritardo mentale lieve,
medio, grave ritardo mentale profondo. Spesso le domande della preselettiva giocano su
queste parole invece di mettere ad esempio ritardo lieve mentale lieve, mettono superficiale
oppure invece di mettere il ritardo mentale profondo e più grave possono mettere ritardo
mentale acuto quindi bisogna imparare almeno le definizione specifiche.Da questa
definizione i ritardi possono essere lievi, di media gravità o profondi. Abbiamo già visto che
ci sono i disturbi evolutivi specifici e del linguaggio cioè nel senso che le balbuzie difficoltà
nel parlare magari anche le difficoltà nel articolari suoni questi sono tutti i disturbi evolutivi
perché siamo di fronte alla fase evolutiva dei ragazzini, loro crescono cambiano e gni
bambino in una fase di crescita potrebbe cambiare.Poi ci sono disturbi evolutivi specifici
delle abilità scolastiche e quindi che comprende la dislessia, incapacità di saper leggere e
di confondere alcune lettere. Oppure disturbi evolutivi specifici misti, abbiamo l'autismo
infantile atipico, sindrome di Rett sino ad arrivare all'Asperger. Poi abbiamo il disturbo di
attività e dell'attenzione, disturbi legati alla all'attenzione, l'iperattività, alla concentrazione,
il disturbo ipercinetico della condotta, sindrome ipercinetica oppure abbiamo disturbi della
sfera emozionale. Dobbiamo sempre cercare di capire che non è che dobbiamo imparare a
memoria ma capire che cosa si intende per disturbo, quindi la compatibilità del tipo di
disturbo dell'attenzione, disturbi specifici, disturbo esplicito Ai ritardi di tipo mentale viene
associato il Q.I. che sarebbe il quoziente intellettivo o intellettuale. Noi possiamo avere
ragazzi di 18 anni che hanno il cervello di un bambino di 6 anni quindi qui può essere che
un numero del QI indica il livello di questa gravità. Più sarà basso il quoziente intellettuale
più il ritardo sarà grave. Esempio di domanda sulla disprassia che è un disturbo evolutivo
specifico delle abilità motorie e riguarda quei ragazzi che hanno difficoltà proprio nella
manipolazione degli oggetti o non hanno il controllo del proprio corpo fanno dei movimenti
stereotipati che loro non riescono a controllare con le braccia o con le gambe.
Ciò che è fondamentalmente diverso è l’ambito di applicazione: mentre l’ICIDH è limitato al semplice
ambito della disabilità, l’ICF descrive i vari gradi di funzionalità partendo dall’interazione dei suoi fattori.
Lo schema illustra le interferenze delle condizioni fisiche e dei fattori di contesto (ambientali o
personali) con le attività della persona. Il corpo comprende due classificazioni, una per le funzioni
dei sistemi corporei e una per le strutture corporee. La partecipazione comprende la vasta gamma
dei domini che indicano gli aspetti del funzionamento da una prospettiva sia individuale che
sociale.
funzioni corporee: sono le funzioni fisiologiche dei sistemi corporei, incluse le funzioni
psicologiche;
strutture corporee: sono le parti anatomiche del corpo, come gli organi, gli arti e le loro
componenti;
menomazioni: sono i problemi nella funzione e nella struttura del corpo, intesi come
deviazioni o perdite significative;
attività: è l’esecuzione di un compito o di un’azione da parte di un individuo;
partecipazione: è il coinvolgimento in una situazione di vita;
limitazioni delle attività: sono le difficoltà che un individuo può incontrare nello svolgere
delle attività;
restrizioni della partecipazione: sono i problemi che una persona può sperimentare nel
coinvolgimento all’interno di situazioni di vita;
fattori ambientali: sono l’insieme degli atteggiamenti, dell’ambiente fisico e sociale in cui
le persone vivono e conducono la loro esistenza.
Attraverso le categorie dell ICF è possibile avere una descrizione del tutto neutrale di
quelli che vengono chiamti il funzionamento e la disabilità di una persona, ovvero gli
elementi che determinano la sua condizione di salute. L’ICF descrive il funzionamento
“aspetti positivi di una persona”, le disabilità “aspetti negativi” e i fattori contestuali ovvero
l’influenza che l’ ambiente può avere sul funzionamento stesso della persona.
Modello sociale
In risposta a questa visione della disabilità in termini prettamente medici, a partire dagli anni
1960 diversi movimenti di persone con handicap sviluppano un approccio nuovo che dà vita
al modello sociale. Secondo questo modello, l’handicap è il risultato dell’inadeguatezza della
società alle specificità dei suoi membri e ha origini esterne all’individuo. Il genere d’interventi
proposti cambia: l’approccio sociale abbandona l’ideale di guarigione, per promuovere lo
sviluppo delle capacità di cui la persona dispone, allo scopo di renderla autonoma nel
quotidiano. Questo modello persegue anche l’eliminazione delle barriere architettoniche e
sociali e promuove l’adeguamento dell’ambiente e dei servizi, affinché le persone affette da
disabilità fisiche o psichiche possano fruirne.
Modelli interattivi
In reazione alle visioni parziali proposte dai due modelli tradizionali, si è sviluppato un terzo
modello che considera la disabilità il risultato dell’interazione di diversi fattori. Nella sua
nuova classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute (CIF
o CIDIH), l’OMS descrive la disabilità tentando di prendere in considerazione gli aspetti
individuali e ambientali che la determinano. Ancora più attento alle diverse correlazioni è il
modello di processo di produzione della disabilità (PPH), sviluppato negli anni 1980 in
Canada da Fougeyrollas e i suoi collaboratori. Questi nuovi approcci integrativi e dinamici
tentano di superare il determinismo individuale del modello medicale e il determinismo
esterno di quello sociale.
Si tratta di uno spettro di situazioni di disabilità molto ampio, ma riconducibile alle due macro-
categorie di disabilità psico-fisiche e disabilità sensoriali.
Riportiamo di seguito le più diffuse, ricordando però che spesso deficit e patologie diverse
si presentano associate nello stesso soggetto (ad es. paralisi cerebrale infantile – dunque
paraplegia o tetraplegia – e ritardo mentale e ipovisione, ecc.).
In questo ambito va precisato che, ancora la distinzione tra DSA che sono i 4 che abbiamo più volte
ribadito e la domanda della pre-selettiva che tende a confonderli con quelli con Disturbo non
specifico.
Nell’ultima versione del DSM-5 il disturbo specifico dell’apprendimento (DSA) figura tra i disturbi
del neurosviluppo.
È un disturbo con esordio durante gli anni della formazione scolastica ed è caratterizzato da
persistenti e progressive difficoltà nell’apprendere le abilità scolastiche di base Per poter parlare di
disturbo dell’apprendimento tali difficoltà devono presentarsi per almeno sei mesi. Quest’ultime
impediscono al bambino di poter apprendere la materia di studio stessa per questo il rendimento
scolastico non è soddisfacente
Include le diagnosi di Disturbo della Lettura, Disturbo del Calcolo, Disturbo dell’Espressione
Scritta
Tra le cause sono state principalmente indagati i fattori genetici e quelli acquisiti (sofferenza
cerebrale precoce, lesioni di varia natura, ritardi maturativi, ecc.).
Un bambino al quale viene posta questa diagnosi, deve mostrare tali sintomi in maniera
persistente per almeno 6 mesi e i sintomi devono causare menomazione nel funzionamento
personale e sociale. Una storia precoce di DOP è spesso presente in bambini che vengono
successivamente diagnosticati come Disturbo della Condotta (DC). Il DOP emerge
solitamente in maniera più precoce (di solito intorno ai 6 anni) rispetto al DC (età di esordio
intorno ai 9 anni). Ad ogni modo, molti bambini vengono diagnosticati come DOP in età
preadolescenziale
Sintomi del Disturbo Oppositivo Provocatorio
A – Una modalità di comportamento negativistico, ostile e provocatorio che dura da almeno
6 mesi, durante i quali sono stati presenti 4 (o più) dei seguenti criteri:
spesso va in collera;
spesso litiga con gli adulti;
spesso sfida attivamente o si rifiuta di rispettare le richieste o regole degli adulti;
spesso irrita deliberatamente le persone;
spesso accusa gli altri per i propri errori o il proprio cattivo comportamento;
è spesso suscettibile o facilmente irritato dagli altri;
è spesso arrabbiato e rancoroso;
è spesso dispettoso e vendicativo.
B – L’anomalia del comportamento causa compromissione clinicamente significativa del
funzionamento sociale, scolastico o lavorativo.
C -I comportamenti non si manifestano esclusivamente durante il decorso di un Disturbo
Psicotico o di un Disturbo dell’Umore.
D – Non sono soddisfatti i criteri per il Disturbo della Condotta, e, se il soggetto ha 18 anni
o più, non risultano soddisfatti i criteri per il Disturbo Antisociale di Personalità.
Aggressioni a persone o animali, distruzione della proprietà, frode o furto, gravi violazione
di regole.
Vi sono alunni che presentano ADHD, cioè Disturbo dell’Attenzione e Iperattività (vedi
disturbi e sottotipi di DSA) ma questo non sono dei DSA perchè i problemi di attenzione
e di irrequietezza bastano di per sé a creare l’insuccesso scolastico, ma ad essi si
aggiungono frequentemente problemi di irregolarità nei comportamenti con conseguenze
relazionali e adattative importanti e a volte con esiti di DOP (Disturbo Oppositivo
Provocatorio) o di DC (Disturbo del Comportamento). Tra questi vi sono
alunni con diagnosi di ADHD;
alunni con ADHD non diagnosticato;
alunni non diagnosticabili, ma che presentano la stessa problematica di attenzione,
irrequietezza e impulsività ad un livello inferiore, che si può definire subclinico.
Rientrano in questa sottocategoria anche gli alunni che presentano il solo Disturbo
dell’Attenzione e che spesso non vengono diagnosticati perché non sorge il sospetto che
il problema possa avere rilievo clinico. Anche questo disturbo, naturalmente, a volte non ha
rilievo clinico ma, pur assumendo forma più lieve, incide sul percorso scolastico del ragazzo
e, avendo base neurobiologica, il suo miglioramento è molto problematico.
Alunni con stati di ansia o fobia scolare in relazione all’allontanamento da casa per recarsi
e rimanere a scuola, o con reazione di rifiuto psicologico rispetto alla scuola vista
come costrizione (disturbo più presente a livello della scuola dell’infanzia, primaria e
secondaria di primo grado).
Infine gli alunni borderline sia di tipo comportamentale che di tipo cognitivo, o con
comportamenti misti, che presentano una scarsa dotazione intellettuale, un quoziente
intellettivo normale, ma vicino al limite del ritardo mentale. Hanno pertanto difficoltà
molto serie nell’apprendimento e richiedono non solo cura, ma obiettivi differenziati che
permettano loro di riconoscersi in un percorso sufficientemente gratificante di
apprendimento e di inserimento nel contesto.
la disabilità come una sfortuna di cui nessuno ha colpa: ciò causa una reazione di pietà da
parte della collettività che sfocia in interventi di tipo caritativo-assistenziale. In tale
prospettiva il soggetto disabile viene considerato “invalido” e lo Stato si fa promotore di
iniziative di affiancamento e aiuto;
la disabilità come pregiudizio alla salute della persona: il disabile, considerato in questo
caso “malato”, è in cura presso un medico che ne tratta la patologia. Lo Stato in questa
prospettiva svolge il suo intervento in favore della ricerca scientifica, della medicina
riabilitativa ed investe in strutture ospedaliere e formazione medica specifica.
Solo a partire dagli anni ’60 si afferma con la pedagogia speciale l’idea secondo cui
la disabilità è una condizione umana che procura un forte rischio di discriminazione
sociale. Da ciò deriva un terzo approccio secondo cui:
La disabilità è uno svantaggio sociale: essa riguarda dunque la dimensione sociale della persona.
La società è quindi responsabile dell’eliminazione di ogni barriera che non permetta il godimento
dei diritti da parte dei cittadini con disabilità (approccio sociale alla disabilità). In questa prospettiva
l’intervento dello Stato è finalizzato all’eliminazione delle discriminazioni basate sulle disabilità ed
alla promozione di azioni volte a tutelare il diritto all’uguaglianza nella diversità, inteso come
parità di opportunità.
La parola di origine inglese hand-in-cap (che letteralmente significa “mano nel berretto”)
era il nome di un gioco d’azzardo diffuso nel Seicento. Il gioco si basava sul baratto o
scambio, tra due giocatori, di due oggetti di diverso valore; il giocatore che offriva l’oggetto
che valeva meno doveva aggiungere a questo la somma di denaro necessaria per arrivare
al valore dell’altro oggetto, così che lo scambio potesse avvenire alla pari. Da allora, il
termine handicap è passato nel linguaggio sportivo internazionaleIl termine fu presto preso
in prestito dal mondo ippico per descrivere la necessità di “zavorrare” i cavalli più leggeri e
di conseguenza più avvantaggiati in quanto più esili, in modo tale da permettere a tutti i
cavalli di partire con le stesse possibilità di vittoria. Dal significato originale legato al gioco e
allo sport la parola handicap è stata poi utilizzata alla fine dell’Ottocento per indicare in
generale il modo di equilibrare una situazione compensando le diversità; quindi è diventata
sinonimo di ‘impedimento imposto’ e infine semplicemente di ‘impedimento’. Solo agli inizi
del Novecento questa parola è stata adoperata in riferimento ai disabili e applicata ai
bambini che avevano una menomazione fisica.
L’OMS nel al 1970 parla di ICD ICD – International Classification of Diseases significa
ancora l’attenzione sul concetto di malattia; lo strumento classificatorio tende infatti ad
individuare le cause delle patologie fornendo per ognuna di esse una descrizione delle
caratteristiche cliniche e limitandosi a tradurre i dati raccolti dall’analisi in codici numerici. Si
tratta di una classificazione ancor oggi in uso, sebbene periodicamente aggiornata, che
disegna un valido strumento per gli studi statistici ed epidemiologici. Attualmente l’ICD è
alla decima edizione: l’ICD-10 è stata approvata dall’Assemblea Mondiale della Sanità nel
maggio 1990, ed è entrata in vigore e in uso negli Stati membri dell’OMS nel 1994.
Appare chiaro fin dalla sua prima analisi che l’attenzione di questo nuovo strumento di
classificazione si focalizzi non più sul concetto di malattia (diseases) bensì su quelli di
menomazione (impairment), disabilità (disabilities) e handicap. Si ritiene cioè che non sia
tanto importante partire dall’analisi della causa della patologia, ma analizzare al contrario
l’influenza che il contesto ambientale esercita sullo stato di salute delle popolazioni. Si
abbandona l’analisi clinicocentrica a favore di un concetto di salute inteso come benessere
fisico, mentale, relazionale e sociale che riguarda l’individuo, la sua globalità e l’interazione
con l’ambiente.
Processo di revisione: dall’ICIDH all’ICF (2001)
L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha commissionato a un gruppo di esperti di
riformulare la classificazione delle disabilità. La classificazione ICF è uno strumento innovativo per
concezione e costruzione. (International Classification of Functioning, Disability and Health –
ICF). L’ICF, quindi, è il nuovo strumento elaborato dall’OMS per descrivere e misurare la
salute e la disabilità della popolazione, le compromissioni della persona o il suo
funzionamento.
Ma vediamo compiti e scopi dell’ICF partono dal «fornire una base scientifica per la
comprensione e lo studio della salute, delle condizioni, delle conseguenze e delle cause
determinanti ad essa correlate»; giungono poi a stabilire un linguaggio comune per la
descrizione della salute e delle condizioni ad essa correlate, al fine di migliorare la
comunicazione tra i diversi utilizzatori, tra cui gli operatori sanitari, gli esponenti politici e la
popolazione, incluse le persone con disabilità; rendere possibili il confronto tra dati raccolti
in alcuni Paesi, discipline sanitarie, servizi e in periodi diversi; fornire uno schema di
codifica sistematico per i sistemi informativi sanitari.
Eccoci passati, quindi, dall’uso della parola handicappato (ICIDH 1980) all’uso del
concetto di “persona con disabilità” (ICF 2001)
una prima parte è dedicata alla classificazione dei disturbi mentali degli adulti;
la seconda, distinta in due parti, si occupa della classificazione dei disturbi mentali dei bambini, degli
adolescenti e dei neonati;
la terza parte è dedicata ai principali contributi teorici e metodologici del sistema diagnostico
presentato.
La diagnosi nel PDM si articola sulla base di tre assi, che evidenziano tre macro-dimensioni:
La disabilità visiva: ciechi totali, ciechi parziali, ipovedenti gravi, medio-gravi e lievi in
base al visus e al campo visivo
Per disabilità visiva s’intende una perdita parziale o totale della capacità di un individuo di compiere gli
atti della vita quotidiana che richiedono il controllo visivo. Perdita di acuità visiva o visus, ossia l’occhio non
è in grado di vedere gli oggetti con chiarezza e di percepirne i dettagli
• Visus = capacità di distinguere ad una distanza data determinate forme o di discriminare due punti vicini
• Perdita di ampiezza del campo visivo: la scena visibile dal soggetto, con uno o con entrambi gli occhi,
quando egli fissa un punto davanti a sé, a grande distanza, nel piano orizzontale
• Il campo visivo, nel soggetto vedente, ha un’ampiezza complessiva di circa 120º nel piano verticale e di
poco più di 180º nel piano orizzontale. I principali problemi della persona con deficit visivo riguardano
molteplici aspetti, non tanto e solo il vedere. Da aspetti sia sociali, ad aspetti cognitivi, a problematiche
legate apprendimento ed all’autonomia.
Con l’affermazione e la diffusione del modello bio-psico-sociale nella legislazione e negli orientamenti
internazionali, la disabilità non è più considerata un “difetto” o una “menomazione”, ma viene vista come
un normale aspetto della variabilità umana. Questo punto di vista parte dal presupposto che la maggior
parte delle persone, nel corso dell’esistenza, vive e sperimenta una disabilità fisica, a carico dell’apparato
locomotore, in qualche forma visibile o invisibile, temporanea o permanente; la disabilità viene
comunemente ormai considerata parte della diversità connessa alla natura umana e può avere un impatto
minimale o sostanziale sulla capacità di una persona e sulla sua potenzialità d’uso delle sue abilità.
Osserviamo oggi come l’invecchiamento della popolazione generale e lavorativa, l’aumento delle patologie
cronico-degenerative a carico dell’apparato muscolo-scheletrico, l’elevato incremento delle malattie
professionali verificatosi negli ultimi anni, gli esiti permanenti di gravi traumi lavorativi ed extra-lavorativi,
concorrano in varia misura alla limitazione delle abilità e delle capacità dell’individuo “normale” o
“normodotato” e influenzino negativamente la qualità della vita e ne riducano in vario modo l’autonomia.
Nel maggio 2001 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato la Classificazione Internazionale del
Funzionamento (ICF) che è stata riconosciuta come strumento idoneo per misurare la condizione di salute e
di disabilità delle persone. La classificazione evidenzia la necessità di un approccio integrato alla persona e
permette di correlare lo stato di salute individuale e l’ambiente: si evince quindi che la disabilità si sposta
dall’ambito della malattia e della menomazione al rapporto tra le persone e un ambiente (fisico e
relazionale) sfavorevole.
Spostando l’attenzione dalle cause all’impatto sul funzionamento degli individui e ponendo tutte le
condizioni di salute sullo stesso piano, l’ICF si configura come uno strumento universale per descrivere e
misurare lo stato di salute e di disabilità di qualsiasi persona.
Il termine “reasonable accomodation” viene introdotto nei primi anni ’90 negli Stati Uniti, dove fu emanato
l’American with Disability Act (A.D.A.), legge che si inseriva nel quadro dei programmi per l’integrazione e la
non-discriminazione delle minoranze e che si poneva lo scopo di tutelare i diritti dei disabili e di garantirne
una maggiore integrazione sociale.
La convenzione O.N.U. per i diritti delle persone con disabilità, ratificata in Italia con Legge n°19 del 2009,
definisce (art.2) l’accomodamento ragionevole come un insieme “delle modifiche e degli adattamenti
necessari e appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo, adottati ove ve ne sia
necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di
uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”.
Il convegno, che ruota intorno alle parole-chiave “disabilità, lavoro, ICF e accomodamento ragionevole”,
diventa quindi un primo momento di incontro e di confronto interdisciplinare tra le numerose figure
professionali che operano nel campo della prevenzione primaria, dell’ergonomia nei luoghi di lavoro e
nell’ambito della riabilitazione per il re-inserimento lavorativo e sociale della persona.
Sono stati infatti invitati esperti di progettazione inclusiva, architetti, ingegneri biomedici, ricercatori sulle
“tecnologie assistive”, tecnici della prevenzione, medici del lavoro, fisiatri, ortopedici, neurologi, terapisti
occupazionali, fisioterapisti, infermieri, ergonomi e medici competenti che potranno condividere le
numerose ricerche sviluppate, le conoscenze acquisite, le esperienze maturate in questo ambito, con il
dichiarato obiettivo di mettere a punto una metodologia di lavoro applicabile in tutti i casi in cui si verifichi
la necessità di un accomodamento ragionevole negli ambienti di vita e nei luoghi di lavoro.
Il programma si articola in una prima sessione mattutina caratterizzata da otto relazioni tecniche ed una
sessione pomeridiana dedicata ad una Tavola Rotonda dal titolo “Accomodamento ragionevole: semplice
compromesso, riabilitazione personalizzata o strumento di prevenzione collettiva? Protagonisti a
confronto”.
La qualità della visione, sotto quest’ultimo aspetto, può essere valutata secondo tre criteri:
Perciò, sulla base degli specifici bisogni emergenti dalla situazione di deficit, dovranno essere
individuati e programmati momenti di insegnamento/apprendimento al di fuori del
contesto di classe, ma con le modalità più opportune per salvaguardare la comune
partecipazione nel gruppo.
La metodologia didattica dovrà favorire il massimo coinvolgimento pratico-
operativo dell’alunno per bilanciare la tendenza agli apprendimenti basati sulla mera
ricezione verbale e sull’assimilazione passiva.
Peraltro, quando si parla di deficit uditivo, è opportuno sottolineare che esso differisce notevolmente
dal sordomutismo, perché in questa seconda ipotesi ci troviamo di fronte a soggetti che non possono né
sentire né comunicare verbalmente. I nati sordi presentano indiscutibilmente un deficit della funzione
uditiva, che però non li rende privi della facoltà di parlare. Anzi, grazie ai progressi compiuti dalla
microchirurgia otorinolaringoiatrica, possono imparare a parlare sin dall’età pediatrica, facendo addirittura
a meno del linguaggio dei segni. Perciò è più corretto parlare di «audiolesi» o «ipoacusici»,
ovvero di persone che – pur presentando limitazioni più o meno gravi nella ricezione dei suoni –
mantengono tuttavia intatte altre potenzialità.
L’acquisizione del linguaggio, senza un metodo sistematico d’intervento, rimane comunque il principale
ostacolo per il bambino audioleso, che – in media – presenta un ritardo di circa quattro anni rispetto ai
coetanei «normodotati», soprattutto nel pensiero astratto, con conseguenze sullo sviluppo linguistico. Per
altro verso, l’elevato grado d’istruzione di molti individui audiolesi o ipoacusici, come pure la loro abilità
lavorativa, porta ad escludere che la sordità costituisca di per se stessa un limite allo sviluppo cognitivo.
Le ragioni di eventuali insuccessi scolastici dovranno perciò essere indagate sulla base di una valutazione
complessiva che tenga conto di tutti gli aspetti critici della personalità del bambino.
Le sindromi genetiche e la disabilità intellettiva
Le sindromi genetiche sono malattie causate da alterazioni del genotipo e, nel caso in cui coinvolgano la
linea delle cellule germinali, assumono carattere ereditario. Le alterazioni possono colpire anche la linea
delle cellule somatiche. Il loro grado diincisività varia da sindrome a sindrome. Inoltre, gli individui che ne
sono colpiti non sempre presentano le medesime caratteristiche. Diversa può essere la stabilità
del Q.I. (quoziente intellettivo) nel tempo, diversi possono essere i profili cognitivi e i condizionamenti
genetici sullo sviluppo emotivo, sociale e comportamentale.
I geni – portatori dei caratteri ereditari – sono localizzati nei cromosomi e, siccome possediamo due
copie di ciascun cromosoma, possediamo anche due copie di ciascun gene. Perciò gli studi hanno
permesso di suddividere le malattie genetiche in dominanti e recessive: sono dominanti se basta un solo
gene anomalo perché la malattia si manifesti; recessive, invece, se occorrono due geni anomali.
Nelle malattie ereditarie recessive un solo gene anomalo determina lo stato di «portatore sano»
(l’individuo è sano ma può trasmettere la malattia ai figli).
Alcune malattie si manifestano ancor prima del concepimento e comportano conseguenze già apprezzabili
nel neonato per la presenza di malformazioni o altre anomalie dello sviluppo. Altre, invece, in periodi
successivi, altre ancora restano latenti per anni e si manifestano soltanto in età avanzata.
I nuovi termini del DSM-5 fanno riferimento ad un disturbo con insorgenza nell’età evolutiva che include
deficit intellettivi e adattivi negli ambiti della concettualizzazione, della socializzazione e delle capacità
pratiche.
D’ora in poi, per poter formulare la diagnosi in accordo col DSM, devono essere
soddisfatti i seguenti tre criteri:
1. Deficit delle funzioni intellettive, come il ragionamento, la soluzione di problemi, la
pianificazione, il pensiero astratto, il giudizio, l’apprendimento scolastico o
l’apprendimento dall’esperienza, confermato sia da valutazione clinica che da prove
d’intelligenza individualizzate e standardizzate.
2. Deficit del funzionamento adattivo che si manifesti col mancato raggiungimento degli
standard di sviluppo e socio-culturali per l’indipendenza personale e la responsabilità sociale.
Senza supporto continuativo i deficit adattivi limitano il funzionamento in una o più attività
della vita quotidiana, quali la comunicazione, la partecipazione sociale e la vita indipendente,
in più ambiti diversi, come la casa, la scuola, il lavoro e la comunità.
3. Insorgenza dei deficit intellettivi e adattivi nell’età evolutiva.
I livelli di gravità vengono definiti sulla base del funzionamento adattivo e non sui
punteggi di quoziente intellettivo (QI), poiché è stato giudicato che sia il funzionamento
adattivo, nelle aree della concettualizzazione, della socializzazione e delle abilità pratiche,
a determinare il livello di supporto necessario a mantenere una condizione di vita
accettabile. In più, quando basse (inferiori a 60), le misure di QI perdono di validità.
I bambini con ritardo mentale si distinguono da quelli con disturbi pervasivi dello
sviluppo per il fatto che, in questi ultimi, le difficoltà di comunicazione e d’interazione
sociale sono di tipo
qualitativo (non dimentichiamo comunque che, spesso, i disturbipervasivi dello sviluppo
sono accompagnati da ritardo mentale). Inoltre, i bambini con ritardo mentale, rispetto a
quelli con un disturbo dell’apprendimento, presentano una compromissione generalizzata
dello sviluppo, anziché un deficit specifico.
Il decorso del disturbo dipende dalla gravità, dalle cause e dal modello operativo di intervento. In
presenza di ritardo mentale dientità lieve, l’intervento precoce risulta fondamentale per consentire
un recupero maggiore delle funzioni deficitarie. I problemi diadattamento sono quelli più facilmente
gestibili e migliorabili. Il trattamento deve essere individualizzato per valorizzare i punti diforza del
bambino e promuoverne le potenzialità. I programmi terapeutici devono coinvolgere differenti
figure professionali (neuropsichiatra infantile, psicologo, educatore e logopedista) e i familiari.
Durante il trattamento devono essere utilizzate metodiche volte a migliorare il più possibile il
livello di autonomia personale del soggetto; di estrema utilità è il ricorso a tecniche quali
il rinforzamento e il modellamento comportamentale.
Ritardo mentale
Disturbi dell’apprendimento: in tale categoria rientrano i soggetti che presentano notevoli difficoltà per quanto
concerne l’acquisizione dei concetti basilari del calcolo, della lettura e della scrittura. Il disturbo
dell’apprendimento, può generare mutamenti anche a livello comportamentale.
Disturbi della comunicazione: il soggetto pare sterile da un punto di vista comunicativo, i suoi gesti, la sua
mimica, le sue capacità verbali sembrano essere ridotti al minimo.
Disturbi generalizzati dello sviluppo: in tale categoria va inserito l’Autismo caratterizzato da
un’alterazione qualitativa di interazione sociale, da un’alterazione qualitativa di capacità comunicative e
da varie forme di stereotipie. In tale categoria rientrano inoltre :il Disturbo di Rett, il Disturbo
disintegrativo della fanciullezza e il Disturbo di Asperger. Per quanto concerne il Disturbo di Rett, va
detto che in tale ambito vi è una compromissione a livello motorio. Il Disturbo disintegrativo della
fanciullezza, lo possiamo diagnosticare allorché il soggetto presenti disorganizzazione nel modo di
rapportarsi con la realtà. Il Disturbo di Asperger invece, potremmo anche definirlo un tipo di “Autismo
intelligente”, il soggetto infatti, possiede ottime capacità esplicative e comunicative ma pecca da un
punto di vista di interazione che avviene solo a fine strumentale.
PROBLEMI DI MEMORIA: le difficoltà di memoria sono spesso disomogenee. Persone con ritardo
mentale medio lieve possono non ricordare quello che hanno visto in televisione, ma possono ricordare
facilmente episodi e storie che hanno contenuti fortemente emotivi. In particolare nel confronto tra il
ricordo del materiale visivo e materiale verbale, il materiale visivo è più accessibile. Difficoltà sia nella
memoria a breve termine, sia nella memoria a lungo termine legate alla carenza nell’uso spontaneo di
strategie come quella della reiterazione.
Disturbi ticcosi: il tic è un movimento involontario, rapido, ripetitivo e non ritmico, ovvero una
vocalizzazione con gli stessi caratteri. Esordisce nella fanciullezza o nell’adolescenza e
colpisce soprattutto il sesso maschile.
Dopo questa breve carrellata intorno le patologie che interessano l’area infantile, è d’obbligo
spostarsi verso l’ambito di nostro interesse, vale a dire il contesto del Ritardo
mentale patologia che per definizione insorge durante l’età evolutiva. Tre sono le etichette
che permettono di diagnosticare il Ritardo mentale, vediamo di esporle e di esplicarle all’atto
conclusivo. Ci troviamo di fronte al Ritardo mentale, quando assistiamo alla presenza dei
tre fattori qui di seguito esposti:
Quando due delle suddette aree risultano intaccate, ecco che possiamo diagnosticare una
difficoltà di tipo adattivo.
L’azione educativa, una volta individuate le difficoltà che il soggetto presenta in relazione agli
obiettivi specifici di sviluppo e di crescita, deve essere finalizzata al miglioramento delle funzioni
psichiche e corporee, delle attività e della partecipazione sociale e soprattutto, a partire dalla scuola
dell’infanzia, allo sviluppo dei prerequisiti scolastici che sono necessari per affrontare positivamente i
successivi livelli d’istruzione: si tratterà di coinvolgere il bambino in percorsi che ne stimolino le abilità
e i processi neurofunzionali di tipo motorio e/o cognitivo. Uno dei prerequisiti più importanti per
affrontare l’esperienza scolastica è il controllo del gesto grafico – essenziale per scrivere – che può essere
sviluppato valorizzando adeguatamente le risorse neuromotorie esistenti. Ma il bambino dovrà imparare
a stare attento, ad ascoltare, a organizzarsi, a orientarsi nel tempo e nello spazio e soprattutto a mantenere
la concentrazione sui compiti che gli vengono affidati.
Il docente è chiamato a svolgere un ruolo fondamentale: in particolare, deve possedere le
informazioni di base necessarie a comprendere la specificità del bisogno educativo e a non scambiare
per bisogni speciali quelli che in realtà sono bisogni comuni a tutti i bambini. E deve essere in grado di
apprestare modalità d’intervento idonee a superare le resistenze che impediscono o rallentano il
perseguimento degli obiettivi di crescita, autonomia e integrazione.
Pur se bisognoso di supporto dal punto di vista medico-riabilitativo, l’allievo con sindrome genetica
è un bambino che deve essere aiutato a sviluppare un proprio percorso di crescita umana e sociale.
La continua sollecitazione di tutte le funzioni del corpo e della mente, in piena integrazione
con i compagni «normodotati», all’interno del gruppo di appartenenza, permetterà
all’allievo di esprimere al meglio le proprie potenzialità, di percepirsi come una persona
capace di affrontare positivamente gli impegni, acquisendo sicurezza nelle proprie abilità e nella
possibilità di avere successo, e allontanando il timore del fallimento.
Diversificazione della proposta didattica e impostazione di un rapporto molto stretto dal
punto di vista umano, unitamente alla possibilità di lavorare a piccoli gruppi per differenziare
concretamente l’azione, sono condizioni indispensabili per il perseguimento dei traguardi
riabilitativi programmati, senza trascurare il rapporto con i genitori dell’allievo, fondamentale per
una continuità tra l’impegno educativo domestico e quello scolastico.
I disturbi dello spettro autistico (ICF 84), autismo ed autismo ad alto funzionamento (da IC F.
84.0 ad 84.5)
Definizione e sintomi
Le Linee Guida per l’autismo emanate dalla Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Età Evolutiva
definiscono l’autismo come «una sindrome comportamentale causata da un disordine dello sviluppo
biologicamente determinato, con esordio nei primi tre anni di vita. Le aree prevalentemente interessate
sono quelle relative all’interazione sociale reciproca, all’abilità di comunicare idee e sentimenti e alla
capacità di stabilire relazioni con gli altri».
Fino al DSM-IV si parlava di “Disturbi Pervasivi dello Sviluppo” che si distinguevano in: disturbo
autistico, disturbo di Asperger, disturbo disintegrativo della fanciullezza (o disturbo di Heller), disturbo
pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato e sindrome di Rett. Ora con il DSM-V questi sottotipi
sono stati riuniti in un’unica categoria denominata “Disturbi dello Spettro Autistico” (ASD – Autism
Spectrum Disorders), ad eccezione della sindrome di Rett che è stata posta tra i disturbineurologici.
L’autismo definizione, storia ed evoluzione: dai disturbi pervasivi dello sviluppo allo
spettro autistico
L’autismo (dal greco αὐτός (aütós) – stesso) è un disturbo caratterizzato dalla compromissione
dell’interazione sociale e da deficit della comunicazione verbale e non verbale che provoca ristrettezza
d’interessi e comportamenti ripetitivi. Gli individui affetti da autismo presentano difficoltà sociali e spesso
non hanno gli stessi comportamenti che molte persone danno per scontati.
L’autismo si trova a volte associato ad altri disturbi che alterano in qualche modo la normale
funzionalità del Sistema Nervoso Centrale: disturbo da deficit di attenzione/iperattività
(ADHD), epilessia, sclerosi tuberosa, sindrome di Rett, sindrome di Down, sindrome di
Landau-Kleffner, fenilchetonuria, sindrome dell’X fragile, rosolia congenita. Disordini
geneticamente riconducibili a una alterazione dei normali meccanismi fisiologici espressi dal
gene FMR-1
Una prima diagnosi è possibile effettuarla entro i due anni di vita del bambino e la diagnosi
certa spesso può essere fatta entro i trenta mesi di vita.
Il disturbo viene diagnosticato in base alla presenza di un certo numero di indicatori comportamentali
presenti in specifiche aree dello sviluppo.
Le ricerche più recenti parlano più correttamente non più di autismo ma di Disturbi dello Spettro
Autistico (DSA o, in inglese, ASD, Autistic Spectrum Disorders), comprendendo tutta una serie
di patologie o sindromi aventi come denominatore caratteristiche comportamentali comuni.
All’interno dello spettro autistico i vari gradi e livelli di intensità sono diversi e spesso l’autismo è
associato a disturbi di co-morbilità, in pratica è accompagnato ad altri disturbi o ritardi (non è
infrequente che soggetti autistici siano anche soggetti ADHD).
Le più importanti ricerche sull’argomento in ordine cronologico sono da riferirsi agli autori:
Hans Asperger (1906-1980) aveva descritto quella che oggi si indica come sindrome di Asperger. Egli
osservata che i suoi pazienti possedevano un’eccellente memoria e capacità cognitive nettamente
superiori rispetto a quelli di Kanner; inoltre, le loro modalità comportamentali e relazionali si
caratterizzavano per una certa eccentricità.
Bruno Bettelheim (1903-1990), nella sua opera La fortezza vuota dice che il soggetto autistico
interpreterebbe i sentimenti e le azioni negative della madre (carenza di contatto fisico, pratiche
alimentari anomale, difficoltà nel linguaggio etc.) come desiderio di annientarlo e, attuando un
meccanismo di difesa, si staccherebbe progressivamente da lei, innescando anche un distacco
della madre da lui.
Lorna Wing e Judith Gould identificarono tre sottogruppi sociali di soggetti autistici: il riservato,
molto somigliante al tipo di paziente descritto da Kanner; il passivo, indifferente all’ambiente
circostante; lo stravagante, attivo socialmente, ma dal comportamento strano.
Nel DSM sono state individuate tre principali aree di alterazione comportamentale: interazione
sociale, comunicazione e repertorio di interessi.
I bambini dai tre a cinque anni con autismo hanno meno probabilità di comprendere le dinamiche sociali,
di avvicinare gli altri spontaneamente, di imitare e rispondere alle emozioni, di comunicare non
verbalmente e alternarsi in una discussione.
La maggior parte dei bambini autistici mostra meno attaccamento sicuro rispetto ai bambini neurotipici,
anche se questa differenza non si rileva in coloro che hanno un più alto sviluppo intellettivo o una
condizione autistica meno grave. I bambini più grandi e gli adulti con disturbo dello spettro autistico
presentano risultati peggiori nei test visivi riguardo al riconoscimento delle emozioni facciali, anche se ciò
può essere in parte dovuto ad una minore capacità di definire le proprie emozioni.
I bambini con autismo ad alto funzionamento soffrono di una solitudine più intensa e frequente rispetto ai
coetanei non-autistici, nonostante l’erronea credenza comune che i bambini con autismo preferiscano
essere soli. Crearsi amicizie e coltivarle si rivela spesso difficoltoso ma la qualità delle amicizie e non il
numero di amici, influisce maggiormente sulla solitudine. Amicizie funzionali, quali quelle che scaturiscono
da inviti alle feste o da attività sociali, possono influire più incisivamente sulla qualità della vita, nei bambini
con ritardo mentale, l’autismo può essere correlato con aggressività, danneggiamenti e capricci.
I bambini autistici sono meno inclini a fare richieste o a condividere esperienze e sono più
propensi a ripetere semplicemente le parole degli altri (ecolalia)o ricorrere all’inversione dei
pronomi
Vi possono essere dei problemi nel sostenere un discorso funzionale e il deficit di attenzione
sembra essere comune nei bambini con autismo: ad esempio, essi possono guardare la
mano che punta al posto dell’oggetto puntato.
Inoltre, possono presentarsi difficoltà con il gioco fantasioso e nella simbolizzazione
linguistica.
Comportamento ripetitivo
Gli individui autistici mostrano molte forme di comportamento ripetitivo o limitato. I soggetti
presentano comportamenti e movimenti sia di tipo ritualistico (ripetitivi), sia di tipo
ossessivo-compulsivo. Vediamo nello specifico tali tipi di stereotipie:
Un movimento ripetitivo, fatto in modo inconscio, come alcuni gesti ossessivi e ripetitivi, come
la mano sulla testa raccolta a pungo svolazzante o il dondolio della testa. Quando il bambino è
felice o prova piacere inizia a manifestarlo con movimenti inconsci.
Un comportamento compulsivo è previsto e sembra seguire regole, come la disposizione degli
oggetti in pile o linee.
Comportamento di monotonia-ossessiva: è la resistenza al cambiamento; per esempio,
insistendo sul fatto che i mobili non debbano essere spostati o gli oggetti posti in un certo modo.
Ad esempio: la collezioni di soldatini deve rispettare un ordine da lui prefissato una volta per
sempre. La disposizione dei pastori nel presepe non può essere modificata da un anno a quello
successivo.
Un comportamento ritualistico comporta un modello invariabile delle attività quotidiane, come
ad esempio una alimentazione immutabile e un rituale nella vestizione.
Il comportamento limitato è focalizzato sugli interessi o sulle attività, come ad esempio
l’attenzione ad un unico programma televisivo, ad un unico giocattolo o un gioco in particolare.
L’integrazione scolastica del bambino con disturbo autistico
La programmazione congiunta delle attività didattiche – che devono basarsi sulle
conoscenze disponibili circa l’efficacia dei diversi modelli d’intervento –
un’adeguata organizzazione dei tempi e degli ambienti di lavoro, come pure dei materiali e
soprattutto del personale, senza tralasciare il coinvolgimento attivo dei compagni di classe,
costituiscono le linee strategiche per l’integrazione scolastica del bambino con disturbo
autistico, i cui deficit a livello sociale sono significativamente rilevanti, in particolare
nell’ambito del gioco simbolico: quasi nessun bambino autistico, infatti, produce gioco
simbolico nel periodo della scuola dell’infanzia o tutt’al più ne produce di natura ripetitiva
e stereotipata. Vedi ⇒ I bambini autistici e il gioco
nessuna interazione: il bambino non mostra alcun interesse nel toccare o prendere in mano i
giocattoli;
gioco manipolativo/esplorativo: il bambino prende in mano e fissa il giocattolo, lo mette in
bocca, lo agita, lo scuote o lo sbatte, allinea gli oggetti etc.;
gioco funzionale: il bambino collega le parti di un trenino e lo spinge, sistema i mobili nella
casa delle bambole, costruisce qualcosa con le costruzioni etc.;
gioco simbolico o del far finta: il bambino fa finta di fare qualcosa o essere qualcuno anche
con l’intento di una rappresentazione, compreso il gioco delle parti (es. usa un pupazzetto per
rappresentare se stesso; usa un pezzo delle costruzioni come una macchina accompagnandola
col suono del motore etc.).
Un’altra caratteristica dell’autismo è la difficoltà di comprendere e intraprendere interazioni
sociali, gli autistici esibiscono generalmente difficoltà significative nell’intraprendere
un gioco sociale con i loro coetanei.
isolamento: il bambino appare inconsapevole o ignaro degli altri, può essere occupato a
guardare qualcosa di momentaneo interesse;
orientamento: il bambino sembra consapevole e conscio degli altri, li guarda, osserva i loro
giocattoli e le loro attività, ma non entra nel gioco;
gioco parallelo/in vicinanza: il bambino gioca indipendentemente accanto agli altri bambini,
invece di giocare con loro;
focalizzazione comune: il bambino intraprende le attività coinvolgendo direttamente uno o
più bambini, rispettando informalmente i turni, prestando e ricevendo aiuto o spiegazioni, e
accettando una condivisione attiva dei materiali.
i Disturbi Psichici
Tra disabilità e DSA: il caso degli studenti ADHD (non sono certificati con al 104, non sono quindi
disabilità, ma possono essere diagnosticarti come “co-morbilità” con altre patologie di disabilità o in casi gravissimi
certificati come 104, in tal caso, seguono la normativa disabilità).
Audio
Almeno la metà delle persone con DDAI in età infantile e adolescenziale continua a soffrirne
in età adulta; il 2-5% degli adulti presenta tale condizione.
Un altro sintomo rilevante del DDAI o ad esso collegato è ⇒ la disregolazione della
motivazione.
Il DDAI porta ad un tasso più alto di abbandono scolastico e lavorativo rispetto alla
media; altre conseguenze di questo disturbo possono essere disturbi ansioso-depressivi,
disturbi oppositivo-provocatori, disturbi della condotta, disturbi del sonno e del ritmo
circadiano, divorzi più frequenti, maggior rischio di incidenti stradali
e dipendenze patologiche. In molti casi le conseguenze sono causate direttamente dalla
neurobiologia del disturbo, in particolare negli squilibri sonno-veglia (ritmo circadiano) e
nelle dipendenze
Nella maggior parte dei casi il bisogno che i più piccoli hanno di muoversi continuamente e
la tendenza a distrarsi dai compiti loro assegnati rientrano nella normale esuberanza
infantile. Il problema nasce quando questi comportamenti assumono una predominanza tale
da impedire o rendere difficoltoso il normale processo di sviluppo e d’integrazione sociale,
compromettendo l’apprendimento, i rapporti interpersonali e familiari, la vita scolastica, la
relazione con i coetanei e con gli insegnanti.
I docenti hanno, infatti, la tendenza a considerare «difficili» gli alunni che fanno molti errori
a causa della disattenzione, faticando a portare a termine un compito, o che appaiono
perennemente distratti; e, anche da parte dei compagni di classe, il bambino iperattivo è
spesso deriso, per il suo comportamento clownesco, o tenuto a distanza perché considerato
aggressivo o litigioso.
Sintomatologia
La sintomatologia è solitamente complessa perché la sindrome si presenta frequentemente associata
ai disturbi specificidell’apprendimento (dislessia, disgrafia, discalculia) e ai disturbi d’ansia e, con
minore frequenza, alla depressione, al disturbo ossessivo-compulsivo, al disturbo da tic, al disturbo
bipolare.
Sul piano del deficit di attenzione la persona:
spesso non riesce a prestare attenzione ai particolari o commette errori di distrazione nei
compiti scolastici, sul lavoro o in altre attività;
spesso ha difficoltà a mantenere l’attenzione sui compiti o sulle attività di gioco;
spesso non sembra ascoltare quando gli si parla direttamente;
spesso non segue le istruzioni e non porta a termine i compiti scolastici, le incombenze
o i doveri sul posto di lavoro (non a causa di comportamento oppositivo o di incapacità a
capire le istruzioni);
spesso ha difficoltà a organizzarsi nei compiti e nelle attività;
spesso evita, prova avversione, o è riluttante ad impegnarsi in compiti che richiedono sforzo
mentale protratto (come compiti a scuola o a casa);
spesso perde gli oggetti necessari per i compiti o le attività (per es., giocattoli,
compiti di scuola, matite, libri o strumenti);
spesso è facilmente distratto da stimoli estranei;
spesso è sbadato nelle attività quotidiane.
Nell’iperattività, il soggetto:
l DSM-5, sottolinea che i sintomi devono manifestarsi prima dei dodici anni. Una specifica causa del
disturbo non è ancora conosciuta; esistono tuttavia fattori che possono contribuire a farlo insorgere o
esacerbare, tra cui ifattori genetici e le condizioni fisiche e/o sociali del soggetto. Il metodo di cura prevede
spesso una combinazione di trattamenti: terapie comportamentali, cambiamenti dello stile di vita,
interventi clinicopsicologici e farmaci. Per la maggior parte, i bambini che presentano questo disturbo, se
convenientemente trattati, riescono nel tempo ad avere una vita scolastica, sociale e familiare adeguata
La diagnosi nell’ADHD
L’ADHD è diagnosticato attraverso un assessment psicologico. Al fine di escludere altre potenziali cause,
dovranno svolgersi esami fisici, radiologici e test di laboratorio. In sede di diagnosi differenziale, è bene
approfondire la ricorrente difficoltà che il bambino ha di portare a conclusione attività che richiedono
concentrazione (come la comprensione di un testo): potrebbe trattarsi didifficoltà transitorie
oppure di disturbo dell’apprendimento vero e proprio. I sintomi di disattenzione, peraltro, sono comuni
tra i bambini con basso QI collocati in ambienti scolastici inadeguati alle loro capacità intellettive. Tali
sintomi devono essere distinti da segni similari in bambini con disturbo da deficit diattenzione/iperattività.
episodi di aggressività;
irrequietezza;
difficoltà di attenzione;
rendimento scolastico.
⇒ I tre sottotipi di DDAI si differenziano anche per l’età in cui ricevono una diagnosi di DDAI:
il sottotipo iperattivi-impulsivo vengono diagnosticati prima del sottotipo combinato e a sua
volta prima del sottotipo disattento.
1. ATTIVAZIONE
2. Focus
3. SFORZO
4. EMOZIONI
5. Memoria
6. AZIONE
Ognuno ha menomazioni occasionali nelle loro funzioni esecutive, le persone affette da ADHD hanno
molta più difficoltà nello sviluppo e nell’utilizzo di queste funzioni di quanto non facciano molti altri
della stessa età e livello di sviluppo.
Eppure, anche quelli con un ADHD grave, di solito hanno alcune attività in cui le loro funzioni
esecutive funzionano molto bene.
Possono avere difficoltà cronica con i sintomi dell’ADHD nella maggior parte dei settori della vita,
ma quando si tratta di un qualche interesse particolare, come la riproduzione di sport o videogiochi,
fare arte o fare costruzioni con il Lego, i loro sintomi ADHD sono assenti.
Questo fenomeno di “può farlo in questo ambito, ma non da qualche altra parte” fa sembrare
che l’ADHD è un semplice problema di mancanza di forza di volontà; così non è. Queste
alterazioni di funzioni esecutive sono di solito a causa di problemi ereditati nella chimica del
sistema di gestione del cervello.
1. ATTIVAZIONE: sui compiti e l’organizzazione dei materiali, sui tempi di stima della priorità dei
compiti ed inizio della ripresa lavorativa dei compiti. I pazienti con ADHD descrivono una cronica
difficoltà con una eccessiva procrastinazione.
Spesso rimandano l’inizio di un compito, anche se lo riconoscono come molto importante per loro,
fino all’ultimo minuto. È come se essi non possano iniziare fino al punto in cui non percepiscono
questa attività come un’emergenza acuta
2. FOCUS: messa a fuoco, attenzione continua, e spostare l’attenzione ai compiti. Alcuni descrivono
la loro difficoltà nel sostenere il focus fuoco paragonandolo come simile al cercare di ascoltare in
auto la radio quando si guida e si è troppo lontani dalla stazione e il segnale comincia a dissolversi
dentro e fuori. Dicono che sono distratti facilmente non solo dalle cose che succedono intorno a loro,
ma anche dai pensieri nelle loro menti. Inoltre, leggere con attenzione pone delle difficoltà a molti.
Le parole sono generalmente intese come sono lette, ma devono spesso essere lette più e più volte per
fare in modo che il senso del discorso possa essere completamente afferrato e ricordato.
3. SFORZO: regolazione della vigilanza, sostenere lo sforzo e la velocità di elaborazione.
Molti con rapporto ADHD possono svolgere bene progetti a breve termine, ma hanno molta più
difficoltà quando c’è bisogno di uno sforzo costante per periodi di tempo più lunghi. Hanno anche
difficoltà a completare le attività in tempo, soprattutto quando viene richiesto loro di fare una
esposizione scritta. Molti possono anche avere difficoltà cronica di regolazione del sonno e di
vigilanza. Spesso rimangono alzati fino a molto tardi perché non possono arrestare la loro testa. Una
volta addormentati, spesso dormano come morti e hanno un grosso problema nell’alzarsi la mattina.
4. EMOZIONI: gestire la frustrazione e modulare le emozioni. Sebbene il DSM-IV non riconosce
alcun sintomo correlato alla gestione delle emozioni come un aspetto dell’ADHD, molti con questo
disturbo descrivono delle difficoltà croniche di gestione della frustrazione, rabbia, preoccupazione,
delusione, desiderio, ed altre emozioni.
Parlano come se queste emozioni, quando le sperimentano, vengono assunte nel loro pensiero come
quando un virus informatico invade un computer, rendendo loro impossibilitati a prestare attenzione
ad altro. Trovano molto difficile lasciare l’emozione in prospettiva, per inviarla alla parte posteriore
della loro mente, ed andare avanti con ciò che devono fare.
5. MEMORIA: usare la memoria di lavoro ed accedere al richiamo dei dati immagazzinati. Molto
spesso, le persone con ADHD riferiscono di avere memoria adeguata o eccezionale per cose accadute
molto tempo fa, ma grande difficoltà nel riuscire a ricordare dove hanno appena messo qualcosa,
quello che qualcuno ha appena detto a loro, o quello che stavano per dire . Descrivono difficoltà a
mantenere una o più cose “on line” per partecipare ad altre attività. Inoltre, le persone con ADHD
spesso si lamentano che non possono tirare fuori le informazioni di memoria che hanno imparato
quando ne hanno bisogno.
6. AZIONE: il monitoraggio e la regolazione delle azione. Molte persone con ADHD, anche
quelle senza problemi di comportamento iperattivo, segnalano problemi cronici nel regolare
le loro azioni. Essi sono spesso troppo impulsivi in quello che dicono o fanno, e nel loro
modo di pensare, saltano troppo rapidamente a conclusioni imprecise. Le persone con
ADHD segnalano anche problemi nel monitorare il contesto in cui stanno interagendo. Non
riescono a notare quando altre persone sono perplessi, o infastiditi da quello che hanno
appena detto o fatto e quindi non riescono a modificare il loro comportamento in risposta a
circostanze specifiche. Spesso riportano anche una cronica difficoltà nel regolare il ritmo
delle loro azioni, nel rallentare l’automobile e/o accelerare come necessario quando
vengono richiesti questi compiti specifici.
La maggior parte dei bambini, adolescenti e adulti con ADHD riferiscono questi sei gruppi
di menomazioni croniche, in misura nettamente maggiore delle persone senza ADHD. I
gruppi sono categorie che non si escludono a vicenda; tendono a sovrapporsi e sono spesso
interattivi. Le funzioni esecutive deteriorate in soggetti con ADHD sono complesse e multi-
sfaccettate.
L’ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione Iperattività) – la sigla rientra nella categoria dei
Disturbi del Neurosviluppo. Questi tipi di disrtubo esordiscono nel periodo dello sviluppo e si
caratterizzano per un deficit che causa una compromissione nel funzionamento personale, sociale,
scolastico o lavorativo.
Essendo l’ADHD un disturbo pervasivo, tutti gli ambiti di vita del soggetto sono coinvolti, per
cui l’intervento terapeutico va indirizzato verso tutte le aree compromesse (cognitiva,
emotivo-affettiva, comportamentale, relazionale).
I Disturbi del Neurosviluppo si presentano, molto spesso, in concomitanza con altre
patologie, in questo caso si parla di comorbilità.
Diagnosi di ADHD
L’impulsività si manifesta con azioni estremamente affrettate e che avvengono all’istante,
spesso con elevato rischio per l’individuo.
L’impulsività può esprimere un desiderio di immediata ricompensa, manifestandosi anche
con comportamenti invadenti, come interrompere gli altri in modo eccessivo, o prendere
decisioni importanti senza riflettere sulle possibili conseguenze nel lungo termine.
la prevenzione dei sintomi secondari, perché è possibile che i bambini con ADHD
manifestino nel tempo sintomi derivanti da una cattiva interazione tra le caratteristiche proprie
del disturbo e l’ambiente scolastico, sociale e familiare;
il miglioramento della vita familiare, perché i fattori correlati al disturbo possono
compromettere anche la vita familiare. L’obiettivo, sotto quest’aspetto, è ricostruire la serenità
familiare, individuando i comportamenti e le strategie utili sia al bambino che al genitore per
favorire uno sviluppo buono e adattivo;
l’incremento delle abilità relazionali, perché i bambini con ADHD faticano a trovare il giusto
modo di relazionarsi nel gruppo dipari. Il fatto di non padroneggiare le regole e di sentirsi
facilmente frustrati li porta frequentemente a mettere il broncio o a essere capricciosi;
il potenziamento dell’autostima, perché i continui rifiuti e i fallimenti a livello scolastico,
familiare e sociale possono portare icomponenti della famiglia a perdere la fiducia in se stessi.
L’obiettivo è prevenire conseguenze negative come la depressione o l’ansia reattive.
L’obiettivo finale non può essere raggiunto né in tempi brevi né senza difficoltà per il
bambino e gli adulti che gli stanno accanto. I risultati positivi si alternano
frequentemente agli insuccessi. Di fronte a questi ultimi è importante che i genitori
non si scoraggino e diano fiducia sia al bambino che a se stessi.
Il bambino, inizialmente, non possiede un adeguato concetto di sé e ha difficoltà a
relazionarsi con i familiari e i coetanei, ecco perché deve essere incoraggiato a
sviluppare il suo potenziale. La costanza, l’impegno e gli interventi terapeutici «gli
permetteranno di spezzare il circolo vizioso di frustrazione e insuccesso
e di aumentare considerevolmente abilità personali e autostima
Il trattamento del disturbo ADHD: diagnosi, affezioni, iperattività
ADHD ovvero Disturbo da deficit di attenzione iperattivito è caratterizzato da
livelli invalidanti di disattenzione, disorganizzazione e/o iperattività-impulsività.
Si stima interessi il 5% dei bambini, è necessaria una diagnosi con certificazione.
L’ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione Iperattività) – la sigla potrebbe essere importante per
una domanda della preselettiva che vuole la specifica dicitura domande in tal senso sono presenti nel
simulatore di Origine – rientra nella categoria dei Disturbi del Neurosviluppo. Questi tipi di disrtubo
esordiscono nel periodo dello sviluppo e si caratterizzano per un deficit che causa una
compromissione nel funzionamento personale, sociale, scolastico o lavorativo.
Essendo l’ADHD un disturbo pervasivo, tutti gli ambiti di vita del soggetto sono coinvolti, per cui
l’intervento terapeutico va indirizzato verso tutte le aree compromesse (cognitiva, emotivo-affettiva,
comportamentale, relazionale).
I Disturbi del Neurosviluppo si presentano, molto spesso, in concomitanza con altre patologie, in
questo caso si parla di comorbilità.
L’ADHD è caratterizzato da livelli invalidanti di disattenzione, disorganizzazione e/o iperattività-
impulsività. Nella fascia della fanciullezza, l’ADHD si sovrappone spesso a disturbi quali
il Disturbo Oppositivo-Provocatorio e il Disturbo della Condotta. Spesso, inoltre, permane in età
adulta, causando compromissione del funzionamento in ambito sociale, scolastico e lavorativo.
La presenza di ADHD è stimata in circa il 5% dei bambini ed il 2,5% degli adulti.
Diagnosi di ADHD
L’impulsività si manifesta con azioni estremamente affrettate e che avvengono all’istante, spesso con
elevato rischio per l’individuo.
L’impulsività può esprimere un desiderio di immediata ricompensa, manifestandosi anche con
comportamenti invadenti, come interrompere gli altri in modo eccessivo, o prendere decisioni
importanti senza riflettere sulle possibili conseguenze nel lungo termine.
la prevenzione dei sintomi secondari, perché è possibile che i bambini con ADHD manifestino nel
tempo sintomi derivanti da una cattiva interazione tra le caratteristiche proprie del disturbo e
l’ambiente scolastico, sociale e familiare;
il miglioramento della vita familiare, perché i fattori correlati al disturbo possono compromettere
anche la vita familiare. L’obiettivo, sotto quest’aspetto, è ricostruire la serenità familiare,
individuando i comportamenti e le strategie utili sia al bambino che al genitore per favorire uno
sviluppo buono e adattivo;
l’incremento delle abilità relazionali, perché i bambini con ADHD faticano a trovare il giusto
modo di relazionarsi nel gruppo dipari. Il fatto di non padroneggiare le regole e di sentirsi facilmente
frustrati li porta frequentemente a mettere il broncio o a essere capricciosi;
il potenziamento dell’autostima, perché i continui rifiuti e i fallimenti a livello scolastico, familiare e
sociale possono portare icomponenti della famiglia a perdere la fiducia in se stessi. L’obiettivo è
prevenire conseguenze negative come la depressione o l’ansia reattive.
L’obiettivo finale non può essere raggiunto né in tempi brevi né senza difficoltà per il bambino e gli
adulti che gli stanno accanto. I risultati positivi si alternano frequentemente agli insuccessi. Di fronte
a questi ultimi è importante che i genitori non si scoraggino e diano fiducia sia al bambino che a se
stessi.
Il bambino, inizialmente, non possiede un adeguato concetto di sé e ha difficoltà a relazionarsi
con i familiari e i coetanei, ecco perché deve essere incoraggiato a sviluppare il suo potenziale. La
costanza, l’impegno e gli interventi terapeutici «gli permetteranno di spezzare il circolo
vizioso di frustrazione e insuccesso e di aumentare considerevolmente abilità personali e autostima.
Trattamento dell’ADHD
Il trattamento dell’ADHD prevede un intervento multimodale in grado di combinare interventi di
tipo farmacologico (nei casi più gravi), psico-educativo e psicoterapeutico. Gli psicostimolanti sono
ritenuti i farmaci più efficaci per adolescenti, bambini e adulti con ADHD. Ovviamente, solo nei
casi più complessi e difficili è possibile e consigliabile il ricorso ai farmaci, come ad esempio il
metilfenidato (Ritalin), le anfetamine (Adderal), le destoanfetamine (Dextrostat, Dexedrine) e
l’atomoxetina (Strattera).
I principali effetti positivi sono a carico del mantenimento dei livelli di attenzione,
dell’impulsività e dell’iperattività.
Affinché vi siano miglioramenti durevoli nel tempo è fondamentale affiancare al trattamento
farmacologico un percorso combinato di strategie cognitive e comportamentali che aiutino
bambino, genitori e insegnanti a raggiungere una piena comprensione del problema e nella
gestione dei comportamenti problematici presenti.
I programmi di intervento diretti ai genitori sono chiamati e detti sempre dall’inglese (ADHD
Parent Training) hanno lo scopo di accrescere la consapevolezza e la conoscenza
del disturbo ADHD, sviluppando capacità di gestione da parte dei genitori e modificando i
comportamenti disfunzionali messi in atto nella relazione del soggetto (sia esso bambino o
adolescente).
Stimolando maggiori capacità riflessive da parte dei genitori, per aiutarli ad acquisire
maggior coerenza e stabilità nelle proprie strategie educative che aiutino e supportino il
bambino nell’acquisizione della capacità di autogestirsi.
Un ruolo fondamentale riveste la promozione di un miglior clima emotivo in famiglia e di una
più efficace comunicazione con il bambino, anche definendo meglio limiti e regole da
seguire.
ADHD a scuola: intervento con gli insegnanti
L’intervento indirizzato agli insegnanti (ADHD Teacher Training) ha lo scopo di fornire in
una prima fase informazioni necessarie a raggiungere una piena conoscenza del disturbo
ADHD. Ciò costituisce un prerequisito importante perché si possa iniziare un
riconoscimento degli aspetti positivi del bambino.
Diviene centrale in tale ottica fornire agli insegnanti informazioni su una strutturazione
dell’ambiente scolastico che tenga in considerazione bisogni e caratteristiche del
bambino iperattivo, per potenziare le sue capacità attentive e gli apprendimenti. Vanno,
inoltre, fornite agli insegnanti strategie utili per gestire e modificare i comportamenti
disfunzionali, oltre che migliorare le sue relazioni con i coetanei.
L’intervento è volto anche all’incremento delle abilità sociali, attraverso il rispetto delle
regole, lo sviluppo di interazioni più efficaci e la capacità di decodificare lo stato emotivo
altrui, per poter rispondere e relazionarsi in modo adeguato e funzionale.
La principale sfida per gli insegnanti, nel loro rapporto con alunni affetti da ADHD, è stimolare il
loro interesse e mantenere un livello di attenzione adeguato al raggiungimento degli
obiettivi di apprendimento che ci si è prefissati.
L’attenzione, intesa come quel processo mediante il quale si mette a fuoco, ovvero si coglie
il senso, di una parte del mondo percettivo circostante è strettamente connessa alla
motivazione ed all’interesse; pertanto la proposta didattica, le modalità di organizzare le
lezioni, l’ambiente di apprendimento e il coinvolgimento che si riesce ad attivare con gli alunni
sono tutti elementi in grado di influenzare profondamente le prestazioni attentive degli
alunni.
Tali abilità da parte dell’insegnante diventano ancora più importanti nella scuola
secondaria, rispetto ad impegni di apprendimento sempre più pressanti e riduzione
sostanziale dei momenti ludici.
DSA
Ambientali ⇒ Svantaggio
Normalmente sono gli insegnanti i primi a denunciare che l’alunno presenta qualche tipo di difficoltà,
come per esempio una limitazione nella capacità di ascolto, un’eccessiva lentezza nel leggere, errori
frequenti nel leggere e/o scrivere, difficoltà nel conteggio etc. E questo perché molti genitori, pur
accorgendosi delle difficoltà incontrate dal figlio, esitano a lungo prima di ricorrere ad uno specialista
per la diagnosi e l’eventuale trattamento del disturbo: ciò può dipendere dall’erroneo convincimento
che le difficoltà possano essere superate spontaneamente col passare del tempo o, peggio ancora, dal
timore delle «etichettature».
I disturbi sono estremamente variabili. Alcuni soggetti, per esempio, possono avere difficoltà solo
nell’ambito della lettura e della scrittura, altri solo nell’ambito del calcolo o magari nella
comprensione di ciò che viene detto. Altri, infine, possono presentare difficoltà in più ambiti
contemporaneamente.
standardizzati di lettura, scrittura e calcolo, il livello di una o più di queste tre competenze
risulta di almeno due deviazioni standard inferiore ai risultati medi prevedibili, oppure
l’età di lettura e/o di scrittura e/o di calcolo è inferiore di almeno due anni in rapporto all’età
cronologica del soggetto, e/o all’età mentale, misurata con test psicometrici standardizzati,
ad uno o più settori specifici delle competenze scolastiche, ma estesa a più settori.
l’autismo ad alto funzionamento, i disturbi d’ansia, alcuni quadri distimici, sono alcune tra le
a partire dalla scuola dell’infanzia, anche se in quella fase il problema non si pone
denuncia infatti che «alla scuola primaria gli alunni che alla fine dei cinque anni risultano in
livello della secondaria di secondo grado, poi, l’area della grave inadeguatezza aumenta
complessivamente in modo significativo, con concentrazioni diverse nei diversi tipi discuole.
Il disturbo della lettura: la dislessia
La dislessia consiste nella difficoltà che i soggetti scolarizzati hanno a leggere fluentemente e
correttamente ad alta voce.
Il disturbo si manifesta attraverso lettura stentata, poco espressiva e comunque al di sotto
degli standard previsti per l’età anagrafica, il livello intellettivo generale e l’istruzione
adeguata all’età.
Le cause della dislessia sono un aspetto ancora poco chiaro. Sull’argomento, tuttavia,
esistono numerose teorie; tra queste, la più attendibile ritiene che la dislessia dipenda
dall’anomala espressione di alcuni geni correlati al linguaggio e alla capacità di lettura.
La dislessia si palesa in modo inequivocabile al sopraggiungere dell’età scolare; in realtà,
però, questo disturbo specifico dell’apprendimento dà dimostrazione di sé anche in età
prescolare, ma i segnali non sono sempre chiari (specie a un occhio inesperto).
La diagnosi di dislessia prevede un iter di indagini articolato, volto a escludere altri disturbi.
Attualmente, il soggetto affetto da dislessia può contare su diverse strategie di supporto;
sebbene non consentano la guarigione, queste strategie di supporto permettono di colmare
in modo importante le difficoltà di lettura e scrittura.
o il livello intellettivo deve essere nella norma (Q.I. compreso tra 75 e 100);
o il livello di lettura deve essere significativamente distante da quello di un bambino di pari età
o classe frequentata;
o il soggetto non deve presentare disturbi neurologici o sensoriali che possano giustificare la
difficoltà di lettura come conseguenza diretta;
o il disturbo deve essere persistente, nonostante una scolarizzazione adeguata e interventi
didattici specifici;
o il disturbo deve presentare conseguenze sulla scolarizzazione o sulle attività sociali in cui è
richiesto l’impiego della letto-scrittura.
Il bambino in età scolare:
persiste negli errori nella lettura e/o possiede una scarsa comprensione dei contenuti;
inverte o omette lettere e parole nella lettura e nella scrittura;
per eseguire compiti scritti impiega un tempo superiore alla media;
è disorganizzato a scuola e a casa;
ha difficoltà a copiare dalla lavagna o dal testo;
vive sentimenti di mancanza di fiducia in se stesso e nelle sue capacità;
incontra notevole difficoltà ad imparare le lingue straniere.
Indicatori dislessia
Tra gli indicatori più comuni del disturbo dislessico vi è la scarsa capacità di discriminare grafemi:
diversamente orientati nello spazio, per cui il soggetto confonde la “p” e la “b”, la “d” e la
“q”, la “u” e la “n”, la “a” e la “e”, la “b” e la “d”, etc.;
che presentano somiglianze o differiscono per piccoli particolari, per cui il soggetto confonde
la “m” con la “n”, la “c” con la “e”, la “f” con la “t”, la “e” con la “a”, etc.;
corrispondenti a fonemi che presentano somiglianze percettivo-uditive (F e V; T e D; P e B;
C e G; L e R; M e N; S e Z).
Il soggetto dislessico presenta poi difficoltà di decodifica sequenziale, che si manifestano in
omissione di grafemi e sillabe, salti di parole e/o salti da un rigo all’altro, inversioni di sillabe,
aggiunte e ripetizioni.
La lettura è il risultato di una sequenza di processi complessi che comprendono
un’attività di decodifica e transcodifica e un processo di comprensione. L’attività di decodifica e
transcodifica include il riconoscimento dei segni dell’ortografia, la conoscenza delle
regole di conversione dei segni ortografici in suoni, la ricostruzione delle stringhe di suoni in parole
del lessico. Il processo di comprensione, peraltro, riguarda sia il significato delle parole singolarmente
considerato sia il significato del testo nel suo complesso.
La corretta interpretazione degli indicatori di dislessia è molto importante per porre una diagnosi
differenziale(1) con altri tipi didisturbi dell’apprendimento. Se la sindrome dislessica non viene
riconosciuta, la compromissione del rendimento scolastico può essere erroneamente attribuita ad altre
cause (ritardi intellettivi, pigrizia, problemi psicologici, disattenzione, ecc.).
(1) La diagnosi differenziale prevede:
confusione tra fonemi simili: il soggetto confonde i suoni alfabetici che si assomigliano (F e V; T e
D; B e P; L e R, etc.);
confusione tra grafemi simili: il soggetto ha difficoltà a riconoscere i segni alfabetici che presentano
somiglianza nella forma (es. “b” e “p”);
omissioni: il soggetto tralascia alcune parti della parola, per esempio la doppia consonante (es. palla-
pala, soqquadro-soquadro), la vocale intermedia (es. fuoco-foco, tuono-tono), la consonante
intermedia (es. cartolina-catolina, acqua-aqua);
inversioni: il soggetto inverte la sequenza dei suoni all’interno delle parole (es. sefamoro anziché
semaforo).
Il soggetto disortografico può presentare difficoltà nella coordinazione oculomotoria e visuo-
spaziale e nella velocità della riproduzione dei grafemi. Tuttavia egli è in grado di produrre testi
coerenti, nel pieno rispetto delle regole sintattiche, perché gli errori che commette dipendono dalla
scarsa automatizzazione dei «processi bassi» e cioè di tutti quei processi che da «volontari» sono
destinati a diventare «involontari».
La disgrafia
La disgrafia è causata dall’incapacità di riprodurre correttamente segni
alfabetici (soprattutto in carattere corsivo) o numerici. La qualità della scrittura è deficitaria
senza che tale deficit debba essere necessariamente causato da disturbineurologici o
intellettivi.
Le manifestazioni tipiche del disturbo sono:
la scarsa leggibilità del testo,
la disorganizzazione delle forme e degli spazi grafici,
la confusione e la disarmonia,
la lentezza e la fatica nello scrivere,
l’irregolarità della pressione (molto calcata o molto leggera),
attività motoria eccessiva o comunque non legata a quella strettamente scrittoria,
la difficoltà ad impugnare correttamente lo strumento scrittorio (matita, penna etc.).
Questa difficoltà causa frequentemente tensioni muscolari eccessive e dolorose alla mano,
al braccio, alle spalle, alla schiena e impedisce la rotondità del tratto, producendo una
scrittura troppo calcata o troppo leggera, priva di regolare proporzione tra le lettere e
difficilmente leggibile. Le lettere vengono riprodotte troppo piccole o troppo grandi e si
differenziano anche nella stessa parola. Il gesto risulta poco fluido, perché la mano non
scorre adeguatamente sul foglio. L’illeggibilità è un fattore di frustrazione che influisce
negativamente sull’autostima e sul rendimento scolastico. Molto difficile è poi copiare dalla
lavagna, operazione che richiede una sequenza di passaggi coordinati e ravvicinati:
sollevare lo sguardo, osservare, memorizzare, riabbassare la testa e scrivere sul quaderno.
I soggetti discalculici necessitano di tempi lunghi per svolgere un qualsiasi tipo di compito in
ambito aritmetico e commettono facilmente molti errori.
Essi presentano spesso vulnerabilità nelle abilità visuo-percettive e visuo-spaziali (al contrario
risultano normali le capacità uditivo-percettive e verbali), associate a disturbi emotivi, sociali,
comportamentali e a difficoltà nell’interazione sociale.
tipo 1, quando associata a disturbi del linguaggio, quali parafasìa, agrafia e alessìa
tipo 2, quando secondaria a disturbi delle funzioni visivo-spaziali
tipo 3 o anaritmetria primaria, con alterazioni del processo computazionale
Alessìa è il termine che, in neuropsicologia, indica un disordine patologico della sfera sensoriale,
consistente nella perdita delle competenze cognitive che permettono la lettura
La parafasìa indica un disturbo del linguaggio che consiste nella sostituzione di termini
esatti con altri sbagliati o nel cambiamento d'ordine di sillabe o parole per cui il discorso,
nelle forme più gravi del disturbo, risulta di difficile o impossibile comprensione.
È evidente che le azioni si svolgono in maniera diversa a seconda del grado di scuola in cui
l’insegnante si trova ad operare. In ogni caso, l’apertura degli ambienti scolastici
all’interazione tra gli alunni, la funzionalità (sul piano organizzativo) della giornata scolastica
agli scambi comunicativi più fitti e l’ampia disponibilità di materiale didattico costituiscono
condizioni indispensabili per la riuscita di qualsiasi percorso rieducativo. Nella scuola
materna, poi, si richiede la disponibilità di spazi per le attività narrative (la cosiddetta
fabulazione).
Specifici deficit cognitivi e del linguaggio dell’alunno devono essere presi in considerazione
nel fornire un trattamento e dovrebbero focalizzarsi sull’interrelazione tra la voce, la parola,
il linguaggio e la cognitività.
Particolarmente importanti sono le azioni mirate a dinamizzare le funzioni
linguistiche come i giochi dialogici, igiochi verbo-motori, i giochi di fluidità locutoria,
le sequenze fonetiche, etc. Non meno importanti sono le azioni mirate alla prevenzione:
fabulazione, ascolto e riproduzione di nenie e/o conte, descrizione verbale di animali,
persone, cose, etc.
Il primo è fatto di parole e suoni (sono tipici quelli emessi dai bambini), il secondo può
essere vocalico (es. il pianto, le grida) o mimicogestuale (es. gli sguardi, il sorriso, il tono
della voce, la mimica facciale, gli atteggiamenti del corpo, etc.).
Il linguaggio verbale costituisce la forma di comunicazione più evoluta ed è quella che richiede tre principali
abilità, che si muovono su tre assi di abilità:
Le competenze linguistiche prevedono abilità che si formano nel corso dei primi anni di vita, dalle
abilità di fonazione a quelle fonologiche. Perciò la capacità di comunicazione, come qualsiasi
altra abilità, va sviluppata fin dall’infanzia e «il migliore sviluppo possibile si ha quando il bambino
sente di aver una giusta collocazione in mezzo agli altri. Attraverso un coinvolgimento diretto
acquisisce competenze comunicative e linguistiche partendo da esperienze significative; tali
esperienze sono inizialmente collegate ai suoi bisogni primari e poi ad avvenimenti nei quali può
impegnarsi e interagire con altre figure importanti: familiari, amici, coetanei, educatori».
Comunicazione e linguaggio: i tre assi delle abilità di linguaggio
Esistono due sistemi di comunicazione, il primo si serve delle parole ed il secondo no, anche se spesso
coesistono: verbale e non verbale.
Il primo è fatto di parole e suoni (sono tipici quelli emessi dai bambini), il secondo può
essere vocalico (es. il pianto, le grida) o mimicogestuale (es. gli sguardi, il sorriso, il tono della voce,
la mimica facciale, gli atteggiamenti del corpo, etc.).
Il linguaggio verbale costituisce la forma di comunicazione più evoluta ed è quella che richiede tre
principali abilità, che si muovono su tre assi di abilità:
l’abilità neuromotoria-articolatoria, che permette di produrre i suoni e di comporli
variamente tra loro per formare le parole;
l’abilità uditivo-percettiva, grazie alla quale è possibile captare i suoni prodotti dagli altri;
l’abilità cognitivo-linguistica, che permette di comprendere i suoni (rectius: le parole)
percepiti e di riconoscere ciò che è significativo e serve, in un preciso momento, in mezzo a
tutto il resto.
Le competenze linguistiche prevedono abilità che si formano nel corso dei primi anni di vita, dalle
abilità di fonazione a quelle fonologiche. Perciò la capacità di comunicazione, come qualsiasi altra
abilità, va sviluppata fin dall’infanzia e «il migliore sviluppo possibile si ha quando il bambino
sente di aver una giusta collocazione in mezzo agli altri. Attraverso un coinvolgimento diretto
acquisisce competenze comunicative e linguistiche partendo da esperienze significative; tali
esperienze sono inizialmente collegate ai suoi bisogni primari e poi ad avvenimenti nei quali può
impegnarsi e interagire con altre figure importanti: familiari, amici, coetanei, educatori».
Spesso uno dei disturbi del lingauiggio che potrebbe essere chiesto alla prova preselettiva è proprio
quello di parafasìa con cui si indica un disturbo del linguaggio che consiste nella sostituzione di
termini esatti con altri sbagliati o nel cambiamento d’ordine di sillabe o parole per cui il discorso,
nelle forme più gravi del disturbo, risulta di difficile o impossibile comprensione.
Nondimeno la metà dei bambini che presentano difficoltà di comunicazione in età prescolare
manifestano una persistenza del problema anche nelle età successive con ricadute spesso importanti
sull’apprendimento scolastico e sullo sviluppo affettivo e sociale.
Principali caratteristiche
Aspetti linguistici:
La comprensione è maggiormente preservata rispetto alla produzione.
Il linguaggio è compromesso sia negli aspetti formali che in quelli funzionali (insufficienza
narrativa, discorsiva etc.).
L’esordio è preceduto da una lallazione atipica (povera, con fonemi atipici).
Le prime parole compaiono solitamente tardi, con un vocabolario ridotto a meno di 50 e
spesso a meno di 20 parole ai due anni.
Il linguaggio successivo è spesso telegrafico.
Il sistema morfologico è particolarmente deficitario; tipicamente, i bambini con disturbo del
linguaggio non fanno errori digeneralizzazione. Sono frequenti i problemi di anomia.
Aspetti cognitivi
Deficit nel gioco simbolico in sequenza (le sequenze sono semplificate, povere).
Difficoltà a formare immagini mentali.
Deficit dell’elaborazione di sequenze uditive.
Deficit della memoria a breve termine.
Sono frequenti i problemi a livello semantico, sia come incapacità di usare le parole rispetto
al loro preciso significato (aspetto referenziale semantico), sia come incapacità di mettere in
relazione le parole e capirne il rapporto (aspetto delle relazioni semantiche).
Nella maggior parte dei casi questi bambini presentano difficoltà nelle abilità
metafonologiche (storpiano le parole) anche dopo i 5 anni.
ll disturbo fonetico-fonologico
Il disturbo fonetico-fonologico (nei precedenti manuali diagnostici presentato come
disturbo della fonazione) si riferisce all’incapacità di utilizzare i suoni dell’eloquio, in
assenza di disabilità e/o anomalie fisiche (es. compromissione uditiva, deficit strutturali del
meccanismo periferico orale dell’eloquio, condizioni neurologiche, limitazioni cognitive etc.).
Ovviamente anche questo elemento va tenuto in considerazione in quanto si attenderebbe
in base all’età e al grado di intelligenza e dello sviluppo cognitivo dell’allievo.
Il soggetto, pur mostrandosi capace di formare correttamente proposizioni complesse
e di comprendere ciò che gli viene detto, manifesta difficoltà nella produzione, nell’uso e
nell’organizzazione dei suoni.
La manifestazione più tipica del disturbo è l’errata o inadeguata articolazione dei suoni come pure la
loro sostituzione (uso del /t/ al posto del suono /k/) od omissione (per esempio, delle consonanti
finali).
I suoni articolati male sono in special modo quelli acquisiti più tardi nello sviluppo
(l, r, s, z, gl, gn, c). Nondimeno, nei bambini più piccoli e/o nei casi più gravi, l’anomalia può
interessare anche le consonanti e le vocali.
Il problema è riconoscibile già entro il terzo anno di vita. È anche possibile però che, nelle
sue forme meno gravi, non venga riconosciuto prima che il bambino incominci a frequentare
la scuola dell’infanzia o la scuola primaria. Ad ogni modo, per comprendere l’effettiva portata
dell’anomalia, è necessario appurare se gli errori di pronuncia non appartengano al
novero di quelli commessi comunemente dal bambino che sta acquisendo il linguaggio.
Il disturbo può rendere l’eloquio scarsamente intellegibile o, nei casi di maggiore gravità,
incomprensibile.
Le omissioni di suoni sono generalmente ritenute più gravi delle sostituzioni, che a loro volta
vengono valutate in modo più severo rispetto alle distorsioni.
Alcuni studi ritengono che fattori importanti siano quelli genetici e quelli ambientali.
Vi sono 3 tipi di disfasie (incapacità di ordinaere le parole secondo uno schema logico): della
comprensione, della produzione e dell’articolazione.
Alcuni bambini affetti da DSL possono acquisire il linguaggio seguendo lo stesso percorso di bambini
con uno sviluppo normale, ma più lentamente. La variabilità interindividuale è notevole, ma in
generale si segnala una maggior difficoltà con la morfologia e la fonologia. Per esempio, un parlante
nativo di inglese affetto da DSL potrebbe avere problemi con l’uso del morfema del perfetto “-ed”.
Le cause dei disturbi specifici del linguaggio sono 4:
Il linguaggio per questi soggetti è troppo veloce in quanto non vi è la capacità di discriminare i suoni
e le sillabe.
Compromissione della memoria implicita del linguaggio, organizzata nei gangli della base. Vi è un
apprendimento conscio del linguaggio e l’uso della memoria consapevole. Vi è un deficit
cromosomico.
Anomalie parossistiche del sonno paradossale (non-REM) che influisce con la memoria semantica del
linguaggio.
Disturbi della memoria procedurale.
Michael Merzenich e Paula Tallal condussero alcuni esperimenti su alcuni soggetti con disturbi
specifici del linguaggio. L’esperimento consisteva nel far ascoltare a questi soggetti per un mese,
un’ora al giorno, suoni fortemente striati. Questo linguaggio “allungato” veniva poi progressivamente
riportato alla normalità. Dopo un mese d’addestramento i soggetti recuperavano un anno di
comprensione del linguaggio.
Ricordiamo alcuni Disturbi del Linguaggio secondo la tabella che abbiamo pubblicato qui sopra proprio nella home del
Nel DSM-5 la categoria dei Disturbi del linguaggio fa riferimento a due tipologie: la prima
l’espressione e la seconda la ricezione del linguaggio.
Ovviamente possono andare anche insieme.
Il trattamento terapeutico
Può prevedere programmi che utilizzano esercizi di pratica del linguaggio parlato, del vocabolario e
della costruzione della frase, l’intervento logopedico, il parent training (psico-educazione
per i familiari), la terapia di sostegno psicologico per il bambino e la terapia di gruppo. Le terapie
psicologiche sono volte a migliorare le strategie relazionali utilizzate dai bambini al fine di potenziare
la loro capacità di comunicazione.
Un altro significato di “mutacismo” è quello che indica un raro disturbo del linguaggio dato da
abnorme ripetizione della lettera m, oppure nella sua elisione o sostituzione con altri suoni.
Ma è una definizione poco usata.
le ripetizioni, che si verificano quando suoni e sillabe (a volte anche parole e frasi) sono
ripetuti due o più volte.
Per esempio: “te-te-telefono, do-do-domani, ca-ca-cavallo, gio-gio-giocattolo”;
i prolungamenti, che sono invece allungamenti innaturali di suoni.
Per esempio; “ mmmmerenda, sssstella, m-mm-mamma”;
i blocchi, che consistono in cessazioni inappropriate dei suoni e del flusso dell’aria, spesso
associate al blocco della lingua, delle labbra e/o della piega vocale.
Il disturbo – spesso assente durante la lettura orale, il canto o il colloquio con oggetti inanimati e/o
con gli animali – è invece aggravato dallo stress, dall’ansia e da tutte quelle situazioni in cui il
soggetto sente su di sé una speciale tensione a comunicare (es. sostenere un’interrogazione a scuola,
un colloquio di lavoro, etc.).
Il disagio:
1. movimenti muscolari (es. tic, tremori delle labbra o del viso, scosse del capo, chiusura delle
mani a pugno, movimenti respiratori, etc.),
2. strategie di astensione dalla pronuncia di specifiche parole o dall’elusione di situazioni
ritenute «pericolose» (es. parlare al telefono o in pubblico).
3. timore anticipatorio di suoni e parole che possono rivelarsi problematici
La sua incidenza sullo stato emozionale e funzionale della persona è spesso critica.
Negli individui adulti il disturbo può limitare la scelta del lavoro o la carriera.
Audio:
Parte III- SITUAZIONI DI SVANTAGGIO O ALUNNI BES IN SITUAZIONE DI
SVANTAGGIO
Svantaggio linguistico
Per lavorare al meglio con gli allievi NAI si raccomandano alcune semplici misure che possono
essere applicate ad ampio raggio su tutte le materie curriculari:
• dispensa dalla lettura ad alta voce;
• dispensa dalla scrittura veloce sotto dettatura;
• organizzazione di interrogazioni programmate;
• somministrazione di prove scritte e orali con modalità che tengano conto più del contenuto che della
forma;
• predisposizione di prove scritte differenziate. In particolare si consiglia di tralasciare verifiche scritte
con domande aperte, temi e riassunti e di privilegiare verifiche semi-strutturate, a completamento,
applicazione di formule, e di fornire per ciascuna tipologia di esercizio un esempio.
• concessione dell’uso del vocabolario;
• utilizzo di testi facilitati;
• utilizzo di brevi dispense scritte al computer in linguaggio semplice, sintetico e ricco di tabelle e
schematizzazioni;
• programmazione di tempi più lunghi per prove scritte e per lo studio a casa;
Sono da considerare NAI gli alunni neoarrivati in Italia che non parlano italiano o lo parlano
poco, o coloro i quali sono inseriti a scuola da meno di due anni. Gli alunni stranieri NAI, per
periodi più o meno lunghi, a seconda dell’età, della provenienza, delle lingue di origine, della
scolarità pregressa, dei tratti personali e di elementi contestuali, si possono annoverare nella
categoria di alunni con Bisogni Educativi Speciali (BES).
Per lavorare al meglio con gli allievi N.A.I. si raccomandano alcune semplici misure che
possono essere applicate ad ampio raggio su tutte le materie curriculari:
• dispensa dalla lettura ad alta voce;
• programmazione di tempi più lunghi per prove scritte e per lo studio a casa;
• somministrazione di prove scritte e orali con modalità che tengano conto più del contenuto
che della forma;
Nell’ambito degli alunni di lingua madre diversa dall’italiano, occorre inoltre considerare
significative differenze, soprattutto in ragione del tempo già trascorso in Italia e delle
differenze culturali, a volte di grande incidenza, che si accompagnano a quelle linguistiche.
A volte il problema linguistico riguarda alunni stranieri in situazione di deprivazione – più che
semplice differenza – sociale e culturale.
Sono da considerare NAI gli STUDENTI neoarrivati in Italia del tutto non italofoni e non in
grado di utilizzare l’Italiano L2 come lingua di comunicazione o studenti inseriti a scuola da
meno di due anni.
Uno studente NAI attraversa, in genere, tre fasi nel suo percorso di apprendimento
linguistico, che l’istituzione scolastica e i docenti devono sostenere e accompagnare in
maniera efficace.
Durante la prima fase della durata di alcuni mesi, gli sforzi e l’attenzione privilegiata sono
rivolti all’acquisizione della lingua per comunicare.
Lo studente deve essere sostenuto nelle attività di comprensione, produzione orale,
creazione di un lessico di base, acquisizione di tecniche di letto-scrittura.
Durante la seconda fase, che può estendersi fino a tutto il primo anno di inserimento,
continua e si amplia l’acquisizione della lingua per la comunicazione interpersonale di base
e si inaugura l’apprendimento dei contenuti disciplinari comuni, a partire dalle materie a
minor carattere “verbale”, contando su strumenti
mirati quali glossari bilingui e testi semplificati e linguisticamente accessibili.
Nella terza fase, l’alunno straniero segue il curricolo comune ai pari e viene sostenuto
attraverso forme di facilitazione didattica e linguistica, iniziative di aiuto allo studio in orario
extrascolastico.
Nella seguente tabella vengono sintetizzati i momenti , gli obiettivi didattici e la durata
esemplificativi delle fasi sopra riportate:
Per lavorare al meglio con gli studenti NAI si raccomandano alcune semplici misure che
possono essere
applicate ad ampio raggio su tutte le materie curriculari:
1. dispensa dalla lettura ad alta voce;
2. dispensa dalla scrittura veloce sotto dettatura;
3. concessione dell’uso del vocabolario;
4. utilizzo di testi facilitati;
5. utilizzo di brevi dispense scritte al computer in linguaggio semplice, sintetico e ricco di
tabelle e
schematizzazioni;
6. programmazione di tempi più lunghi per prove scritte e per lo studio a casa;
7. organizzazione di interrogazioni programmate;
8. somministrazione di prove scritte e orali con modalità che tengano conto più del contenuto
che
della forma;
9. predisposizione di prove scritte differenziate. In particolare si consiglia di tralasciare
verifiche scritte con domande aperte, temi e riassunti e di privilegiare verifiche
semistrutturate, cloze, a completamento, applicazione di formule e di fornire per ciascuna
tipologia di esercizio un esempio.
Si consiglia di utilizzare il linguaggio iconografico almeno nella prima fase.
Alunni con problemi psichici, nervosi, disturbi alimentari o disturbi non permanenti
(ma non di natura patologica, cognitiva, genetica)
Va ricordato che motivi di sofferenza emotiva e affettiva possono, ovviamente, gravare sulla storia
personale dell’alunno anche in assenza di disturbi o di situazioni di deprivazione sociale e avere forte
incidenza negativa sull’apprendimento scolastico. È pertanto fondato, in base al criterio aperto di cui
alla Premessa della Direttiva, considerare le difficoltà di apprendimento derivanti da motivi
psicologici come possibile tipologia a sé stante, anche se la sua concreta delimitazione costituisce
un compito particolarmente delicato.
Estensione ad altri disturbi evolutivi delle misure previste per i DSA dalla L.
170/2010
La Direttiva del 2012 estende ed assimila ai DSA gli altri disturbi evolutivi, affermando che
essi, benché “non esplicitati nella Legge n. 170/2010 sui DSA, danno diritto ad usufruire
delle stesse misure ivi previste”.
In pratica anche se non sono D.S.A. possono essere dispensati o compensati con le stesse
misure all’interno del P.D.P. Si ricorda che la L. 53/2003, prevede la personalizzazione
dell’azione didattica (vede il MODULO 4), sicché le misure compensative e dispensative
previste dalla L. 170/2010 e che la C.M. stessa menziona possono, sì, essere adottate
nell’azione didattica ordinaria lungo il percorso di apprendimento, ma non pienamente nei
termini dei diritti dei DSA, il cui esercizio è previsto solo dietro presentazione di
certificazione di DSA.
Nelle situazioni di BES dovute ad altri disturbi, la certificazione diagnostica, quando è
formulata, impone “l’attivazione di un percorso individualizzato e personalizzato”.
Ma può anche non esservi certificazione; in tal caso, nell’attivare tale percorso, sarà
necessario motivare “opportunamente, verbalizzandole, le decisioni assunte sulla base di
considerazioni pedagogiche e didattiche”.
In ogni caso, per quanto concerne l’esame di Stato, sia al termine del primo ciclo che del
secondo, anche nel nuovo D.Lgs. 62/2017 sulla valutazione e gli esami non è consentita
l’applicazione agli studenti in condizione di BES della normativa riservata ai DSA. In
riferimento ai disturbi evolutivi specifici, essenzialmente su base neurologica, che
determinano situazioni di BES, la direttiva 27 dicembre 2012 indica i seguenti:
Disturbi Specifici del Linguaggio (DSL) [attenzione alle trappole linguistiche D.S.A. –
D.N.S.A – D.S.L]
Disturbo Non Verbale e, più in generale, bassa intelligenza non verbale associata ad alta
intelligenza verbale;
altri disturbi nelle aree non verbali:
Disturbo della Coordinazione Motoria, Disprassia;
Disturbo dello spettro autistico lieve (qualora non rientri nei parametri della L. 104/1992);
Disturbo da deficit dell’Attenzione con Iperattività (A.D.H.D. ⇒ sigla italiana D.D.A.I.);
Funzionamento cognitivo limite (o borderline).
È inoltre di importanza decisiva considerare che per ognuna delle situazioni sopra
considerate esistono anche:
una fascia di alunni non diagnosticati e per i quali non si avanza la richiesta di diagnosi (o
perché non si è in grado di ipotizzare la presenza di un disturbo o per l’opposizione dei genitori
a qualunque approfondimento diagnostico, o per altra causa);
una fascia di alunni nei quali il disturbo non è propriamente assente, ma si manifesta a
livello sub-clinico (cosa che può comunque essere certificata dallo specialista) ed ha perciò,
per il clinico, rilievo semmai di problema, ma non di disturbo. Una parte rilevante di queste
situazioni si traduce, tuttavia, in storie scolastiche disastrose.
⇒ La Direttiva stessa esplicita questa circostanza per gli alunni con A.D.H.D: “Tuttavia, vi
sono moltissimi ragazzi con A.D.H.D che, in ragione della minor gravità del disturbo, non
ottengono la certificazione di disabilità, ma hanno pari diritto a veder tutelato il loro
successo formativo”.
Ciò vale, evidentemente, per tutte le tipologie di disturbo.
Il Miur è intervenuto dopo numerose segnalazioni ricevute da scuole e dai settori accademici di
riferimento. Dopo l’emanazione della direttiva del 27 dicembre 2012 molte scuole consideravano gli
alunni plusdotati all’interno dei Bes. Tale prassi, adesso, è riconosciuta come assolutamente corretta
da parte del ministero.
Viene previsto anche la possibilità di redazione di un Piano Didattico Personalizzato, in una logica di
personalizzazione degli apprendimenti.
Uno dei principali studiosi di bambini gifted è stato con il suo modello della giftedness a “stella
marina” Abraham Tannenbaum, fondato sulla ricerca educativa sulle caratteristiche degli individui
plusdotati, affronta «i legami tra promessa e realizzazione» (Tannenbaum, 1983, p. 95) e, a differenza
del modello di Renzulli (ritroveremo poi entrambi gli autori nel modulo sulla Creatività di Origine),
è fortemente basato sulle caratteristiche di bambini e adolescenti di elevata abilità.
Come afferma Tannenbaum: «Tenendo presente che il talento sviluppato esiste solo negli adulti, una
buona definizione di giftedness nei bambini è il potenziale per diventare performer acclamati dalla
critica o produttori esemplari di idee in sfere dell’attività che valorizzino la vita morale, fisica,
emotiva, sociale, intellettuale o estetica della comunità» (1983, p. 86).
Lo studioso ritiene che questi bambini e adolescenti debbano anche avere attributi di personalità
facilitativi, nonché fondamentali “incontri speciali con l’ambiente”, che favoriscano l’emergere del
talento.
Le cinque variabili interne ed esterne che si intersecano nell’eccellenza GIFTED sono illustrate da
Tannenbaum attraverso l’immagine di una stella marina, dove la giftedness è prodotta dalla
sovrapposizione di tutti e cinque i fattori (le“punte”della stella), ossia: abilità generale; abilità
speciale; fattori non intellettivi (ad es. motivazione, meta-apprendimento, dedizione in un ambito
prescelto, concetto di sé sicuro, salute mentale); fattori ambientali (ad es. famiglia, gruppo dei pari,
scuola, istituzioni economiche, culturali e sociali); fattori casuali, ossia eventi imprevedibili nella vita
di una persona, ma che possono essere critici nel permettere che un potenziale eccezionale venga
riconosciuto o incoraggiato (Tannenbaum, 1983, p. 88).
Le cinque braccia della stella marina hanno sia elementi statici che dinamici.
I primi ritraggono il bambino come si pone rispetto agli altri in una particolare fase della sua vita; i
secondi si riferiscono ai processi di apprendimento e ai processi sociali ed educativi che influenzano
il bambino e possono condurre a cambiamenti.
Diverse aree di talento possono richiedere diverse combinazioni dei cinque fattori, ma «nessuna
combinazione di quattro di questi fattori può compensare una grave carenza nel quinto»
(Tannenbaum, 2003, p. 48).
Nelle versioni più recenti del suo modello, Tannenbaum (2003) identifica come principali macro-
categorie della plusdotazione quella dei produttori e quella degli esecutori. I primi sviluppano cose o
idee, mentre i secondi interpretano o ricreano queste cose o idee. Entrambi possono operare o in modo
creativo (portando qualcosa di nuovo al processo) o in modo competente (operando ad elevati livelli
di abilità).
STRUMENTI COMPENSATIVI
Utilizzo di programmi di video-scrittura con correttore ortografico (possibilmente vocale) e con tecnologie di sintesi vocale (an
straniere)
Utilizzo del registratore digitale o di altri strumenti di registrazione per uso personale
Utilizzo di ausili per il calcolo (tavola pitagorica, linee dei numeri…) ed eventualmente della calcolatrice con foglio di calcol
calcolatrice voc
ale)
Utilizzo di schemi, tabelle, mappe e diagrammi di flusso come supporto durante compiti e verifiche scritte
Utilizzo di formulari e di schemi e/o mappe delle varie discipline scientifiche come supporto durante compiti e verifiche scritte
Utilizzo di mappe e schemi durante le interrogazioni, eventualmente anche su supporto digitalizzato (presentazioni multimediali
Misure dispensative
Interventi che consentono allo studente di non svolgere alcune prestazioni che, a causa del disturbo,
risultano particolarmente difficoltose e che non migliorano l’apprendimento.
Ad es. non è utile far leggere un brano lungo ad un alunno con dislessia in quanto l’esercizio per via
del disturbo, non migliora la sua prestazione nella lettura. Piuttosto si può concedere allo studente un
tempo più lungo per lo svolgimento di una prova, o fornire testi più sintetici che presentino, in misura
ridotta, gli stessi elementi didattici offerti dal gruppo classe.
Dispensa dall’uso dei quattro caratteri di scrittura nelle prime fasi dell’apprendimento
D2.
Dispensa dallo studio mnemonico delle tabelline, delle forme verbali, delle poesie
D6.
Dispensa da un eccessivo carico di compiti con riadattamento e riduzione delle pagine da studiare, senza modificar
D9.
Integrazione dei libri di testo con appunti su supporto registrato, digitalizzato o cartaceo stampato sintesi vocale
formulari
D12.
Accordo sulle modalità e i tempi delle verifiche scritte con possibilità di utilizzare supporti multimediali
D13.
Nelle verifiche, riduzione e adattamento del numero degli esercizi senza modificare gli obiettivi
D15.
Nelle verifiche scritte, utilizzo di domande a risposta multipla e (con possibilità di completamento e/o ar
Lettura delle consegne degli esercizi e/o fornitura, durante le verifiche, di prove su supporto digitalizzato leggibili da
D17.
Parziale sostituzione o completamento delle verifiche scritte con prove orali consentendo l’uso di schemi riadattati e
l’interrogazione
D18.
Controllo, da parte dei docenti, della gestione del diario (corretta trascrizione di compiti/avvisi)
D19.
Valutazione dei procedimenti e non dei calcoli nella risoluzione dei problemi
D20.
Altro
D22.
[1] Si ricorda che per molti allievi (es. con DSA o svantaggio), la scelta della dispensa da un
obiettivo di apprendimento deve rappresentare l’ultima opzione.