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Federigo Tozzi
T103
Una gobba
• il «silenzio vuoto e melanconico»
Racconto mai pubblicato in vita dall’autore ed edito per la prima in cui vive Elena Spadi
volta nell’edizione delle Novelle del 1963. Protagonista è una • il sadismo dello zio e della zia
giovinetta deforme, esclusa dalla comunità e dagli stessi parenti, ai danni di Elena
che cerca invano amore e conforto in uno zio, e finisce alla fine in
manicomio.

da F. Tozzi, Opere, a cura Ella aveva una cupa amarezza, quando pare, a guardarlo, che anche il cielo sia nero.1 Avrebbe
di M. Marchi, con introd.
di G. Luti, Mondadori, voluto vivere, in vece,2 come in un’estasi di serenità. Brutta quasi da suscitare ripugnanza: con
Milano 1987.
una gobba aguzza come una punta di ferro che gli potesse sfondare il vestito, con un cappello
che non riesciva3 mai a portare dritto, Elena Spadi invecchiava e insecchiva dall’una settimana
5 all’altra. Quando camminava pareva vuota tutta dinanzi. Le erano rimasti uno zio e la moglie
di lui; che non la poteva vedere perché diceva che le portava disgrazia. Anche lo zio, quantunque
non cattivo, provava per lei piuttosto un sentimento di derisione. Ed ella in vece credeva di
essere quasi amata e protetta. Gli4 aveva lo stesso, perciò, una fedeltà piuttosto di figliola trattata
male senza nessuna ragione; quantunque non osasse giudicarlo ingiusto. Viveva anche in questa
10 illusione; e s’aspettava, quantunque senza nessun desiderio, ch’egli la pigliasse in casa; perché
gli avrebbe fatto volentieri anche da serva, piuttosto che vivere sola a quel modo, in una stanza
che non riesciva a sentire sua; benché ci vivesse ormai da tanto tempo. Aveva un canarino, che
era brutto come lei; più bianco che giallo, con una zampetta storta e con un becco sempre
sporco. Questo canarino era per Elena più che una compagnia; e se lo credeva così affezionato
15 che quando lo guardava era convinta che capisse tutto. Lo avrebbe portato in casa dello zio!
Finiva sempre di mangiare in piedi vicino alla sua gabbia, dandogli le briciole degli ultimi
bocconi di pane. Lo salutava prima di andare a letto e prima d’escire di casa; e, quando rien-
trava, non era contenta finché non aveva sentito la sua voce in quel silenzio così vuoto e me-
lanconico, quasi tragico. Un silenzio che ricominciava sempre tutti i giorni; e non smetteva
20 mai, come il succedersi delle ore.
Non aveva chiesto mai niente a nessuno; e le erano morti i genitori a poca distanza l’uno
dall’altro, con una sua rassegnazione che era sembrata indifferenza stupida e cattiva. Ed ella
riesciva perfino a sorridere; a sorridere a se stessa; per non piangere e per non aver voglia di
morire. Senza accorgersi che gli anni passavano, senza che il fratello di suo padre si recasse
25 mai a trovarla, senza che mai pensasse a lei. Ella gli scriveva per chiedergli il permesso di
vederlo, almeno qualche volta. E, allora, lo aspettava all’uscio di casa; sempre con la stessa
umiltà; senza chiedergli mai di farla salire.
Lo zio riesciva ad appagarla con qualche parola detta con convenienza stizzosa, qualche
volta con troppa fretta; qualche volta perfino senza risponderle; senza né meno darle la ma-
30 no. Ella tornava a casa camminando più rimpettita, dimenticandosi di essere gobba; ed era
una specie di festa. Allora voleva perfino meno bene al suo canarino; che l’aspettava in vano,
smuovendo la testa per guardarla. Era contenta di avere uno zio e di avergli parlato: la sua
voce gli era doventata uguale a quella del padre, e gli pareva di essere felice, forse bella, forse
giovine.
35 Ma una volta, mentre era con lui su l’uscio di casa, e la moglie di lui la guardava da dietro
i vetri con stizza e torcendo la bocca, le venne da piangere. Egli, prima guardò verso la finestra,
e poi le chiese con una voce falsa ch’egli trovava naturale di avere in quel caso:
«E ora perché piangi?».
Ella inghiottì le lacrime, e rispose in fretta:
40 «Non lo so né meno io».
«Non è mica bene che tu pianga! Non ci hai nessuna ragione!».
Ella lo guardò con tutta la sua fiducia nei dolci occhi di strega.
«Torna a casa; e sii allegra in vece».

1 Ella aveva…nero: costruzione fortemente *el- e scuro. e letterario.


littica; la cupa amarezza della protagonista è la 2 in vece: la grafia analitica in Tozzi (in vece al 3 riesciva: riusciva (toscanismo).
stessa che si prova alla vista di un cielo rabbuiato posto di “invece”) è un tratto stilistico arcaizzante 4 Gli: si riferisce allo zio.

Luperini, Cataldi, Marchiani, Marchese il nuovo LA SCRITTURA E L’INTERPRETAZIONE - EDIZIONE ROSSA [G. B. PALUMBO EDITORE]
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Ella si fece capire che avrebbe voluto stare ancora con lui. Ma egli aveva paura della moglie,
45 e non le disse niente; aspettando che lo lasciasse salire in casa. Qualcuno passava; guardandoli,
per curiosità.
Un’altra volta ella era stata a fare una passeggiata in campagna e gli aveva colto un fascio
di fiori dalle siepi. Egli non aveva saputo se doveva buttarli a mezze scale; ed entrò, quasi na-
scondendoli; per lasciarli in cucina. Ma la moglie glieli prese, si mise a ridere, e li attraventò5
50 dalla finestra; dispiacente che non andassero a cadere su la gobba della Elena. Ci rise anche
lui; e gli venne l’idea di non farsi vedere più. Allora cominciò ad odiarla; e quando ricevette
una delle solite lettere scritte sopra un pezzetto di carta qualunque, egli fece un’altra strada
e tornò a casa mezz’ora dopo. Ella credette che fosse malato e si pentì di non essere salita
subito da lui a sentire come stava. Ci andò in vece la mattina dopo, a pena alzata. Le aprì la
55 moglie, che credendo fosse il lattaio aveva una tazza vuota in mano. Rimase così stupita di
vedersi dinanzi la nipote con quel suo visuccio agitato dalla preoccupazione. Ma non la salutò.
Elena, che non s’accorgeva di niente, le chiese:
«È malato lo zio?».
«Perché vorresti che fosse malato?»
60 Ella, allora, sorrise pacatamente del suo errore; e voleva spiegarsi. Ma l’altra aggiunse con
un tono di rimprovero come se fosse stata cattiva:
«Spero, anzi, che seguiterà a star bene così per parecchio tempo. Dio pensa a noi».
«Allora non ha avuto la mia lettera? Perché ieri sera volevo vederlo».
«Non so se l’ha avuta; ma se non s’è fatto vedere, vuol dire che non poteva. C’è bisogno di
65 pensare subito male? Ti pare strano che per una volta tu non l’abbia potuto incontrare?».
Ma già le pareva troppo lungo parlarle così; e avrebbe voluto chiudere l’uscio. Ella guardava
con crudeltà negli occhi dolci della gobba: certi occhi che non avevano fondo e parevano sem-
pre più chiari, con una tranquillità che la esasperava; certi occhi che le facevano paura e anche
odio perché sconvolgevano la sua vigliaccheria e la sua coscienza; certi occhi di una dolcezza
70 maligna e ambigua.
Elena chiese:
«È in casa?».
«È in casa; ma non so se può vederti».
«Gli dica che l’aspetto giù all’uscio».
75 «Ma perché vuoi aspettarlo? Non sta bene che tu stia lì sola chi sa per quanto tempo. Ti ri-
sponderà egli stesso, quando potrai vederlo».
«Insistevo, per non noiarlo un’altra volta».
«Ma hai qualche cosa da dirgli?».
«Niente!».
80 E voleva domandarle anche: “Ha veduto i miei fiori dell’altra settimana?”.
Ma si vergognò di tenerla lì; mentre l’altra non aveva più il coraggio di andarsene, e perciò
era esasperata sempre di più. Elena evitava che le vedesse le spalle; mentre l’altra non poteva
fare a meno di cercare con gli occhi la gobba. Ad ogni movimento della zia, Elena si girava ra-
pidamente, come non avrebbe fatto con nessuna altra persona. La zia aveva in vece, benché
85 non bella e anziana, un petto ampio e largo; e, perché aveva i primi due bottoni aperti, glielo
vedeva bene.
«Dunque, non vuole che io veda lo zio?».
«Chi ti dice questo? Se tu vuoi passare, io non te lo impedisco. Sei anche capace di pensare
così di me?».
90 «Me ne vado; ma la prego di salutarlo. Me lo promette?».
«Ma certo! Verremo noi, anzi, a trovarti».
Elena, tremando dalla gioia, ridiscese le scale; mentre la zia era andata subito a trovare il marito,
giurando che un’altra volta le avrebbe fatto tirare una marmitta6 d’acqua bollente addosso.
Ed Elena attese da vero; quantunque ella stessa non ci credesse. Attese parecchie settimane;
95 e qualche volta, la sera, si sentiva venire la febbre. Doventava7 nervosa e non riesciva più ad

5 li attraventò: li gettò; è un termine senese.


6 una marmitta: una pentola.
7 Doventava: diventava.

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avere quei suoi sorrisi, che nessuno vedeva. Ma si ostinò a far mantenere questa promessa,
sempre più sicura che lo zio l’amava; sempre più convinta che doveva credergli a quel modo;
con una passione che la faceva singhiozzare. Qualche volta cadeva in ginocchio, con un tonfo
secco sull’impiantito, con le ossa che cominciavano subito a dolere come se si fossero spezza-
100 te. Cadeva in ginocchio e batteva la testa; poi si stendeva tutta, piangendo, con certi singhiozzi
che le squarciavano lo stomaco; mentre il canarino cantava lo stesso, scotendo le ali e facendo
tremare tutta la gabbia. Ora si vergognava anche ad escire di casa, e si sentiva sempre male. A
giornate non si reggeva né meno in piedi; e pensava alla strada dello zio come se fosse stata
lontana chi sa quanto, con un desiderio folle di vivere là, e di non essere gobba. Qualche volta
105 credeva perfino di guarire e di destarsi una mattina doventata un’altra.
Non riesciva, no, a vivere sola; sempre meno, anzi! Si mordeva le labbra pensando in vece
a quanti anni erano passati; anni di pianto.
Ella allora s’innamorava di quasi tutti i giovanotti; ma non osava guardarli, per paura che
se n’accorgesse qualcuno; benché andasse a passar loro vicino, a rasentarli proprio; ad aiutarli
110 come se fosse stato per svista. Ella aveva questo sentimento di amore, che non era per nessuno;
e qualche volta il suo viso ne era raggiante. La gente rideva; ma a lei non gliene importava. E
il primo che l’avesse voluta, ella si sarebbe data.8 Credette perfino di essere piacente, forse
bella; e cominciò a vestirsi meglio, a mettersi fronzoli, a profumarsi; con una fretta esaltata.
Ma il suo viso era in vece più scarno. Le ossa del suo volto, del suo volto di gobba, biancheg-
115 giavano attraverso il pallore giallo della pelle: gli occhi luccicavano sotto la fronte sporgente.
Gli anelli le si sfilavano dalle dita; il vestito doveva tenerselo su a forza di spilli perché ci sarebbe
entrata due volte; le scarpe le uscivano dai piedi. Si sentiva che alla sua voce mancava qualche
cosa, forse il fiato.
Alla fine, andò lei dallo zio. Come si sentiva leggiera, d’una leggerezza di morta, salendo
120 quelle scale!
Lo zio aprì lui, per caso, perché erano a tavola; e la serva era escita per comprare una cosa
che mancava per finire il pranzo. Egli, che masticava ancora, con quelle sue guance goffe di
lardo rosso, disse, con una voce che pareva buttasse la nipote giù per le scale:
«Elena!».
125 Ella non sapeva più sorridere: si vedeva soltanto il suo gozzo salire e scendere; non sapeva
né meno più parlare, perché in quel momento non se ne ricordava. Alla fine balbettò:
«Ti ho aspettato tanto con la tua moglie!».
Egli le gridò:
«Aspetta ancora! Non ti aveva detto così?».
130 E non sapendo più come contenersi, le sbatté l’uscio in faccia. Poi la fecero chiudere al
manicomio.

8 E il primo...si sarebbe data: ella si sarebbe data al primo che l’avesse voluta. È un *anacoluto.

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Analisi del testo


Il tema del “diverso” e del capro espiatorio II tema realistico dell’aggressività astiosa che sempre fermenta nei
della novella ruota sul rapporto che lega persecutori e per- confronti del “diverso”, basterebbe rileggere lo scambio di
seguitata, aguzzini e vittima. Elena è esclusa dalla comunità battute tra la zia ed Elena, ai righi 71-79.
e dai parenti che così la fanno sentire ancor più mostruosa
di quanto in effetti sia. Si tratta di un rapporto sadomaso- L’aggressività dell’autore verso i propri personaggi
chistico: la vittima si affeziona ai suoi torturatori (in questo Tozzi è uno scrittore cattivo, che si accanisce contro i propri
caso allo zio). Non solo i persecutori deridono la protagonista, personaggi. Se da un lato si identifica con la loro condizione
ma contribuiscono a creare l’immagine di sé che ella ha. di vittime, dall’altro si identifica anche nei loro aguzzini. Da
Elena Spadi si sente un mostro, perché così viene percepita quest’ultimo punto di vista sembra scattare in lui quel mec-
dagli altri. Da quest’ultimo punto di vista il racconto presenta canismo che gli studiosi di psicoanalisi chiamano “identifi-
sorprendenti analogie con La metamorfosi di Kafka in cui il cazione con l’aggressore”. Si veda quanto siano crudeli il
protagonista si scopre trasformato in un insetto mostruoso ritratto iniziale della ragazza e la scelta stessa del nome e
(cfr. cap. IV). Collegato al tema del “diverso”, compare qui del cognome. “Elena” è un nome *antifrastico (esso suona
quello del “capro espiatorio”. La comunità, che generalmente ironico, data la bruttezza della ragazza); Spadi deriva dal
si vieta la violenza nei confronti dei propri membri, l’ammette fatto che ella è mostrata «con una gobba aguzza come una
tacitamente nei confronti del “diverso”: eliminandolo, sa- punta di ferro che gli potesse sfondare il vestito». Persino
crificandolo come un “capro espiatorio”, può infatti ottenere nel titolo si rivela la cattiveria tozziana. La gobba, infatti, è
il vantaggio di compattarsi rafforzando la propria identità (il un titolo ambiguo: può designare una donna, Elena, affetta
nazismo e il razzismo sono fenomeni di tal genere). La gobba da questa deformazione fisica, ma anche la deformazione
è anche il “capro espiatorio” della comunità: per questo fisica in sé. In questo secondo caso il titolo suggerirebbe
viene isolata e, alla fine, espulsa dalla comunità che la una crudele *sineddoche: Elena è la sua gobba, la parte
chiude in un manicomio. Per avere un esempio tragicamente deforme sta per il tutto.

Interpretazione del testo


Kafka e Tozzi: un insetto e una gobba In una pagina del sembra essere anche il risultato “soggettivo” di una proie-
suo Federigo Tozzi. Le immagini, le idee e le opere (Laterza, zione dell’io (nella fantasia infantile dei personaggi tozziani
Roma-Bari 1995), Romano Luperini mostra i caratteri della chi non è amato, e la protagonista del racconto non è amata
novellistica tozziana inserendola in un quadro europeo e pa- da nessuno, deve essere brutto e cattivo), esattamente
ragonandola a quella di Kafka, attraverso un confronto fra come è per Gregor Samsa trasformato in un enorme e
Una gobba di Tozzi e La metamorfosi dello scrittore boemo. orribile insetto. In entrambi i casi, la persecuzione si svolge
«Un racconto come Una gobba sembra rappresentare ad- in un ambito familiare e l’arma più efficace in mano ai pa-
dirittura la stessa situazione di La metamorfosi: in entrambe renti-aguzzini è la loro capacità di trasformare qualsiasi
le novelle il senso di colpa rende inaccettabile all’io la sua moto di affetto della vittima nei loro confronti in altrettanti
stessa immagine. In Tozzi l’ancoraggio al reale è più forte e capi di accusa [...]. In Kafka la rottura del genere è più radi-
dunque inferiore la carica onirica e surreale: la protagonista cale, perché non si avverte più la differenza fra resoconto
ha ancora aspetti umani e la sua deformazione assume ca- oggettivo e prospettiva soggettiva e anzi i due piani (ancora
ratteri aggettivi e consueti. E tuttavia la sua “diversità” è distinti da Tozzi) sono unificati. E nondimeno nei due autori
non meno mostruosa (e d’altronde racconti e i romanzi di si respira la stessa atmosfera di cupa angoscia, di raggelata
Tozzi sono popolati da storpi, gobbi, gozzuti, da persone torsione espressionistica; e la direzione del rinnovamento
con escrescenze carnose o con chiazze sul viso, ecc.) e della novellistica è la medesima».

Esercizi
ANALIZZARE INTERPRETARE E APPROFONDIRE
1 Caratterizza la psicologia dei tre personaggi del 3 Evidenzia la relazione tra deformità fisica, esclusione
racconto. Qual è il punto di vista del narratore verso sociale e affettiva e deteririoramento psichico.
l’aguzzino e verso la vittima?
2 Il rapporto tra Elena e lo zio si configura come un
rapporto tra padre e figlia non amata. Rintraccia i passi
che mostrano il carattere sado-masochistico del legame
che unisce i due personaggi.

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