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Dipartimento di Studi Umanistici.

Lettere Beni Culturali e Scienze della Formazion

CORSI DI FORMAZIONE PER IL CONSEGUIMENTO


DELLA SPECIALIZZAZIONE PER LE ATTIVITÀ DI SOSTEGNO
Anno Accademico 2019/2020

Tesina finale in: ” Pedagogia della relazione d’aiuto”

Titolo della tesina

“Per una scuola inclusiva alla luce del rapporto tra docente e
discente”.

Relatore: F.to Prof.ssa Isabella Loiodice

Corsista: Cinzia Cirillo

Anno Accademico 2020/21

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Indice

Cap. 1 Introduzione: “ Il concetto di inclusione scolastica”…..pag.3

Cap. 2” Inclusione ed integrazione”…………………………….pag.4

Cap. 3 “Ma cos’e’ una didattica inclusiva ?”…………………..pag.8

Cap. 4”Evoluzione del concetto di inclusione nel dibattito…” pag.10

Cap. 5 “La relazione d’aiuto”………………………………….. pag. 13

Cap. 6 “Le quattro fasi della relazione d’aiuto”……………….pag. 14

Cap. 7 “La relazione insegnante- allievo”………………………pag. 19

Cap. 8”L’importanza della relazione docente- discente”…….. pag. 20

Cap. 9 Conclusione “L’I Care!”…………………………………pag. 19

Bibliografia……………………………………………………… pag. 24

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PER UNA SCUOLA INCLUSIVA ALLA LUCE DEL RAPPORTO
DIDATTICO DOCENTE- DISCENTE.

1. INTRODUZIONE : Il concetto di inclusione scolastica.

Se volessimo dare una definizione di scuola inclusiva, potremmo agevolmente dire che essa è
una scuola aperta alla novità, al cambiamento e opera per il raggiungimento del massimo sviluppo
umano e cognitivo dei propri alunni, è una scuola in continuo cambiamento per rispondere meglio
alle esigenze di formazione degli alunni.
Essenziale e’, pertanto, il lavoro del docente competente che monitora il processo di apprendimento
considerando e valutando ciò che ha funzionato come previsto e ciò (in termini di processo, di
tempi, di proposte, di modalità comunicative) che per un alunno o alcuni alunni non ha funzionato
bene cercando di apportare dei correttivi alla propria azione, in modo costante e proponendo azioni
didattiche rispondenti ai bisogni di ciascun educando, personalizzando ed individualizzando
continuamente, come prassi costante del proprio agire. Le caratteristiche del lavoro inclusivo sono
quindi quelle che porteranno tutti i membri del gruppo classe ad essere parte di un “corpus unicus”,
composto di inter-relazioni e reciproco scambio di abilita’,conoscenze e competenze alla luce dei
bisogni individuali e speciali di ogni alunno, considerato nella sua individualita’ e specialita’ di
bisogni educativi e necessita’ emotive, psichiche e comunicative. Tale lavoro dovra’ essere
sistematico, puntuale e costante: infatti, per ogni argomento relativo ad una disciplina ,si richiede
un’attenzione particolare da parte del docente. Sono necessarie applicazioni che tengano in
considerazione ciascun alunno nella situazione personale e scolastica in cui si trova in quel preciso
momento. La normativa ci impone questo, ma il docente per primo rileva la necessità di operare in
tal senso in quanto l’apprendimento procede per tappe ciò che non è stato appreso in modo corretto
ed approfondito, ritorna pesantemente come lacuna e limite, impedendo in molti casi di progredire
nel processo di acquisizione delle conoscenze. Paradigmatico, ad esempio, e’ cio’ che , succede nel
caso di alunni con DSA: si deve procedere limitando l’utilizzo di alcune tecniche (lettura o scrittura
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o calcolo), ricercando modalità e canali diversi per convogliare le stesse proposte, graduando la
presentazione dei contenuti per tenere sotto controllo l’affaticamento che si rileva spesso negli
alunni con questo disturbo e che non deve superare una certa soglia. E’, pertanto, necessario che
tutti i docenti si chiedano come fare ad operare in modo che, proprio tutti gli alunni, si sentano
coinvolti e attratti da ciò che essi propongono. Conseguentemente, per realizzare tale scopo, sempre
più frequentemente gli insegnanti si sobbarcano una mole di lavoro aggiuntivo per preparare dei
compiti specifici per gli alunni: stranieri, in difficoltà di apprendimento, con disturbo specifico di
apprendimento, con disabilità, poco volonterosi, distratti, iperattivi… Questa modalità di
differenziare non deve però essere applicata sempre, in tutte le circostanze e in tutti i momenti.
Alcuni accorgimenti e tecniche didattiche ci permettono di rendere la lezione più inclusiva
indipendentemente dalla materia, dai contenuti e dai materiali. Vi sono, infatti, alcune modalità di
insegnamento nella classe che voglia dirsi inclusiva, che si rivelano efficaci perché attente ai
differenti stili cognitivi degli alunni e che consentono di considerare i differenti livelli di
apprendimento. Volendo qui dare un esempio di modalità didattiche inclusive “a portata di tutti i
docenti”, si puo’ , ad esempio, accennare a quelle che prevedono l’utilizzo di tecnologie, anche se
ad esse vanno sempre affiancate metodologie inclusive non digitali (cooperative learning, peer
tutoring, flipped calssrooom, learning by doing,..) perché non in tutte le scuole, per vari motivi,
sono sempre presenti strumenti tecnologici (o connessione ad internet, non indispensabile ma utile)
sufficienti, aggiornati o accessibili.
E’ vero che, infatti, l’inclusione in pedagogia non è semplicemente, come per il concetto mediato
dall’insiemistica, “mettere insieme alcuni elementi appartenenti ad altri gruppi, per una determinata
caratteristica”, ma è mettere in relazione all’interno di un contesto, considerare un elemento in
sintonia con altri elementi. La sintonia si rileva per quanto riguarda gli aspetti comunicativi e le
caratteristiche di comunanza di condizioni (età, livelli di apprendimento, capacità relazionali...) da
intendere in questo senso come alunni della stessa classe e alunni di una stessa scuola.

2.Inclusione ed integrazione.

Il concetto di inclusione non sempre a tutti è chiaro. Spesso viene confuso con integrazione o
addirittura rischia di essere usato a vanvera, in discorsi retorici, se non attualmente , addirittura
abusato o mistificato,

Occorre fare chiarezza! L’inclusione è un processo continuo, quotidiano, in cui tutti gli insegnanti e
i percorsi di apprendimento da questi ultimi predisposti devono poter rispondere alle differenze dei
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vari soggetti in un’ottica di sostegno distribuito. Non basta integrare le diversità, occorre fare spazio
alla ricchezza della differenza, adeguando, di volta in volta, gli ambienti e le prassi in base ad ogni
specifica singolarità, valorizzandola e proponendola come risorsa, arricchimento generale per tutti..

Applicare la direttiva sui BES o i decreti 66/2017 e 96/2019 non basta per essere inclusivi!
Come faremo quindi a capire se la propria scuola ha contesti inclusivi e come far sì che si possano,
correttamente ed efficacemente realizzare quei processi inclusivi che devono caratterizzare la scuola
e la società odierna?
La risposta ci giunge da lontano: infatti, la famosa lettera di Don Milani, non era diretta a una
professoressa, ma era rivolta a tutti gli insegnanti e a un modo di fare scuola che si occupava dei
sani e respingeva i malati. Don Milani, se non pensava agli alunni disabili come li intendiamo oggi,
sicuramente mirava a realizzare l’integrazione scolastica, voleva una scuola in grado di integrare
tutti e ciascuno senza chiedere in cambio assimilazione. Egli pensava a un modello di scuola in cui
tutti gli insegnanti e i vari operatori fossero coinvolti nella costruzione di una comunità scolastica
integrante. Solo se si guarda al contesto si può capire l’integrazione dell’alunno disabile. Se la
scuola non è integrante per tutti, non può esserlo neppure per l’allievo disabile. La logica
dell’integrazione deve pervadere tutta la scuola come in una  rete : la rete di sicurezza, se qualcuno
cade dal trapezio (e non è detto che sia l’alunno disabile) e c’è una protezione sottostante, non si
farà del male! Essa sara’ il vero baluardo a tutela delle differenti personalita’ ed abilita’ , rendendo
ciascun alunno parte di un prezioso mosaico che, anche senza una sola tessera, si scompagina!
Una vera integrazione, se deve sostenere tutti gli alunni, tutti uguali e tutti diversi, deve anche
essere sostenuta da tutti.
L’integrazione non riguarda solo l’alunno disabile: ciascuno di noi ha bisogno di aiuto e di
sostegno, fosse anche solo in certi momenti e in certe occasioni. E questo perché l’uomo, a
differenza degli animali che dopo la nascita sono subito in grado di cavarsela da soli, non nasce
autonomo. Lo diventa. Prima attraverso un lungo “allevamento” e poi mediante l’educazione e
l’istruzione, che caratterizzano ogni momento dell’esistenza umana. Dalla culla alla bara si impara
sempre. ! E sempre si ha bisogno di aiuto, specie se si è deboli come lo sono un bambino piccolo,
un adulto disabile, un adulto in stato di bisogno più o meno momentaneo.
L’atto di indirizzo principale deve sempre provenirci da quella magnifica esortazione alla
coltivazione dei veri valori umani, morali e civile rappresentata dalla nostra Costituzione, basata su
principi solidaristici : la sua grandezza e’ l’aver sostituito al fascista “mene frego” il democratico “I
care, me ne occupo, l’altro mi sta a cuore” .Perciò una scuola che integra, o che almeno, si propone
di farlo, dovrebbe offrire a tutti gli allievi ed anche agli insegnanti e a tutti gli operatori scolastici,
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un adeguato sostegno in caso di bisogno. In questo modello di scuola non sarà soltanto l’alunno
portatore di bisogni speciali a ricevere attenzioni e cure particolari, ma tutti gli alunni e gli
insegnanti dovranno essere coinvolti attivamente in qualche forma di sostegno, di aiuto, di supporto,
di empatia. Compito della scuola è aiutare ogni alunno della classe a sentirsi parte integrante di un
gruppo. Le classi non possono essere delle piccole comunità in concorrenza tra loro: devono
avvicinarsi l’una all’atra e sentirsi parte di una comunità più ampia, ossia la scuola nella sua
interezza ed non solo come singolo istituto scolastico, ma alla luce di un concetto piu’ globale ed
universalistico. Questa comunità sara’, in tal modo, sicuramente portatrice di pratiche virtuose:
insegnerà a condividere le proprie esperienze con gli altri, a comunicare adeguatamente, a unirsi a
collaborare per superare pregiudizi, anche di coloro che non credono in questi principi di
condivisione. Di questa comunità dovrebbero sentirsi parte tutti, ciascuno con il proprio ruolo e con
le proprie mansioni: come un’orchestra in cui ognuno, pur suonando uno strumento diverso,
contribuisce alla buona riuscita dell’esecuzione del brano musicale. Il senso di appartenenza a una
comunità può rompere, e di fatto rompe, ogni barriera. Lo slogan degli anni Settanta “Rendere
speciali le scuole normali” conserva ancora una sua validità.
A scuola l’integrazione deve prevedere:
- un coinvolgimento di tutti gli insegnanti e di tutti gli operatori scolastici, evitando di delegare tutte
le responsabilità all’insegnante di sostegno e usufruendo in modo collaborativi e integrato delle sue
competenze specifiche;
- una filosofia dell’integrazione che diventi cultura e modo di essere nel quotidiano,
un substratum per integrare tutte le diversità;
- una modalità di approccio che non sia centrata solo sugli obiettivi (i programmi), ma anche sulle
relazioni (gli aspetti affettivi): in questo contesto si colloca in modo particolare il ruolo del
personale non docente;
- Il passaggio da un modo chiuso di intendere la scuola, come istituzione volta prevalentemente a
fare apprendere determinate materie, a uno aperto in cui tutto sia, in un certo senso, scuola;
- un approccio il più possibile individualizzato;
- un equilibrio e un senso della misura nel fornire quel sostegno necessario con intensità, frequenza
e durata commisurate al bisogno di ciascun alunno (e non solo dell’allievo con disabilità);
- il potenziamento delle risorse residue o esistenti in ciascuno (da parte degli insegnanti e degli
operatori che collaboreranno);
- la coerenza degli interventi da stabilire non solo in sede di Collegio dei docenti, ma anche in
riunioni con i non docenti: lavoro in gruppo e lavoro di gruppo;
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- il perseguimento dell’autonomia dei soggetti da educare.
Una progettualità di questo tipo non si improvvisa: rimane un punto di partenza, non di arrivo.
Un punto di arrivo è un obiettivo, non un sogno.
Questo e’, infatti, il vero senso della scuola. Tali concetti ci riportano, addirittura al Concilio
Vaticano II in cui si e’ reiteratamente detto che non bisogna confondere l’errore con l’errante.
Quando, quindi ci chiediamo se siamo sicuri che tutti, proprio tutti siano in grado di frequentare la
scuola, dobbiamo semplicemente comprendere che tale problema è malposto, visto che non è
l’individuo a doversi adattare alla scuola, come se essa fosse una divinità intangibile e non una
semplice istituzione finalizzata a promuovere la crescita individuale, ma, piuttosto essa è deve
adattarsi al singolo individuo. Infatti, ogni bambino impara le cose del mondo seguendo un suo
programma in cui entrano occasioni, materiali, giochi, contatti, incontri, scontri con i coetanei e i
più grandi, ecc. Perché, improvvisamente, allo scoccare del sesto o del quinto anno di età deve
imparare seguendo un programma altrui? Perche’ dovra’ meccanicamente omologarsi ad un ritmo
ed una regola che ne mortificano la preziosa individualita’?
Quale programma è dunque proponibile per i ragazzi mentalmente ritardati? Un programma adatto
a loro. A ciascuno di loro.
La legge lo ha chiamato Piano Educativo Individualizzato (PEI).
Lo slogan Prima riabilitare per poi inserire viene ribaltato: Inserire per riabilitare. Se a parlare si
impara parlando e a scrivere scrivendo, a stare con gli altri si impara stando con gli altri. Il contatto
con i normali, con modelli comportamentali positivi, produce miglioramenti di per sé: e’ stato
proprio questo il grande passo in avanti avutosi con l’abolizione delle classi differenziali. Occorre
dunque creare le condizioni affinché l’alunno disabile possa frequentare positivamente la stessa
classe dei suoi coetanei. E se l’autonomia rappresenta la condizione indispensabile perché l’alunno
possa imparare, allora la prima cosa che egli dovrà imparare a manifestare sarà proprio l’autonomia.
In altre parole ritorna sempre lo stesso principio di fondo al quale si è già accennato, che non
riguarda solo quello disabile ma tutti gli alunni: bisogna partire da ciò che si ha o che si sa, dai punti
di froza di ciascun alunno. Quest’ultimo non è neanche un principio pedagogico, ma è
semplicemente buonsenso. Quando gli insegnanti dell’ordine di scuola successivo si lamentano del
fatto che gli alunni appena arrivati non hanno le basi per svolgere il programma della scuola in cui
essi operano, invece di lamentarsi sul muro del pianto, dovrebbero inserire nel loro programma il
raggiungimento di quagli obiettivi che l’istituzione scolastica di livello antecedente non è stata in
grado di perseguire, andando a rinforzare quei prerequisiti e qualle pre-conoscenze necesarie ad
operare nel nuovo grado scolastico. Altrimenti è la scuola del programma, non della

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programmazione. In definitiva, in termini più tecnici, se i prerequisiti non ci sono, occorre
perseguirli. Per fare questo, i prerequisiti devono diventare obiettivi. Nel caso dell’alunno disabile
indichiamo con autonomia tutte quelle abilità che costituiscono i prerequisiti dei prerequisiti.
Magari prevedendo un programma che tenga conto dell’individuo e non della massa. Per questo
nella scuola è entrato il termine programmazione. E’ l’autonomia di cui godono oggi le scuole
consente a esse di fare leva ancora di più su una politica di programmazione conforme allo spirito
del PEI: programmare significa stabilire gli obiettivi dell’apprendimento e dello sviluppo personale,
rapportare gli obiettivi alle capacità personali di tutti e di ciascuno, valutare che l’obiettivo sia
effettivamente raggiunto e, se necessario, modificare quanto previsto in modo ancora più mirato.

3.Ma cos’e’ una metodologia didattica inclusiva? Qual e’ il ruolo del docente
all’interno di essa?
Possiamo , in buona sostanza, dire che una metodologia didattica inclusiva è un modo di insegnare
equo e responsabile, che fa capo a tutti i docenti e non soltanto agli insegnanti di sostegno, ed è
rivolta a tutti gli alunni, non soltanto agli allievi con Bisogni Educativi Speciali (BES).
Tutti i docenti, individualmente e raggruppati in consigli di classe, devono essere in grado di
programmare e declinare la propria disciplina in modo inclusivo, adottando una didattica creativa,
adattiva, flessibile e il più possibile vicina alla realtà, che sia “ accattivante” e che accenda in tutti ,
ma proprio in tutti quell’amore per la conoscenza, quella spontaneita’ di anelito verso di essa, che
sole possono portare alla costruzione di saperi veri ed assimilati,
Questo comporta il superamento di ogni rigidità metodologica e l’apertura a una relazione dialogica
affettiva, che garantisca la comprensione del bisogno e l’attuazione di risposte funzionali.

Il ruolo dell’insegnante nella didattica inclusiva dovra’, pertanto, essere incentrato sulle
seguenti modalita’:

 Adottare un modello di insegnamento democratico fatto di strategie e metodologie adeguate


ai bisogni che favorisca la comunicazione interattiva con i propri alunni affinché essi
possano passare da un ruolo più passivo, inteso come ascoltatori passivi e fruitori di
informazioni, tipico del modello autoritario, a uno più attivo e partecipativo senza essere
giudicati o censurati.
 Permettere ai propri alunni di esprimere serenamente le loro idee senza paura di sbagliare o
essere giudicati o censurati.

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 Valorizzare la partecipazione con stimoli fungendo da modello esperto per gli allievi e
mostrando loro come utilizzare e generalizzare le varie strategie.

Un buon clima di classe, infatti, favorisce un buon apprendimento.

La classe inclusiva va vista come una micro-società che si organizza in modo democratico per
vivere meglio la realizzazione interpersonale ed è fondata su valori condivisi sia dagli alunni che
dagli insegnanti. Un clima scolastico maggiormente inclusivo permette a tutti di sentirsi accettati,
capiti, valorizzati e sviluppa il senso di appartenenza, di interdipendenza positiva e di forza.
L’apprendimento è, infatti, un processo attivo di interiorizzazione della conoscenza dal contesto
sociale a quello personale. Le conoscenze hanno una base sociale e le competenze si sviluppano
inizialmente dagli scambi, dalle relazioni, dai legami che si costruiscono nella classe, nella scuola,
nel territorio.

Nella didattica inclusiva entrano in gioco:

 Il problema specifico
 Il modo in cui il soggetto risponde a quel problema
 Il contesto che può divenire parte del problema o concorrere alla soluzione
 Gli interventi non sono soltanto sul soggetto, ma soprattutto sul sistema che viene pensato in
ogni sua variabile per accogliere tutti.

E’ necessario, quindi, creare un “ contesto inclusivo”.

La didattica inclusiva, che si qualifica come una didattica di qualità per tutti, ormai da tempo ha
smesso di essere considerata come una corsia d’accesso solo per allievi BES.

Possiamo considerarla, sempre più, come uno stile d’insegnamento, un orientamento educativo e
didattico quotidiano che si prefigge di rispettare, valorizzare e capitalizzare le differenze individuali
presenti in tutti gli allievi.

Dobbiamo avere una particolare attenzione alle situazioni in cui tali differenze creano consistenti
barriere all’apprendimento e alla partecipazione alla vita sociale. In ambito scolastico, piu’ che in
ogni altro, lla collaborazione e’ essenziale per la realizzazione di tali obiettivi. Il principio
dell’inclusione a scuola si concretizza solo in presenza di una forte collaborazione e co-
partecipazione di tutti i soggetti coinvolti nel raggiungimento di questo ambizioso traguardo. Un
principio destinato al fallimento se resta solo il frutto di qualche insegnante particolarmente
volenteroso impegnato a creare piccole “isole felici”, dentro una scuola che alimenta altre priorità.
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La scuola inclusiva è, al contrario, una comunità dove tutti, dirigenti, insegnanti, allievi, personale
scolastico, famiglie, enti locali, servizi, diventano potenziali agenti di reali cambiamenti culturali,
metodologici, didattici, organizzativi e strutturali, e, quindi, in cui i concetti innanzi esposti siano
patrimonio di una visione culturale generalizzata appartenente a tutti i prevenuti soggetti.

4. Evoluzione del concetto di inclusione nel dibattito culturale e legislativo

italiano.
Volendo, in maniera molto sommaria, fare un excursus storico dobbiamo sottolineare che il
concetto di inclusione scolastica entra nel dibattito pedagogico italiano negli anni ’90.
Successivamente, si concretizza il passaggio da un approccio basato sull’integrazione degli alunni
con disabilità a un modello di didattica inclusiva orientato al pieno sviluppo formativo di tutto il
gruppo classe. Il Decreto Inclusione rappresenta solamente l’ultima tappa di questa rivoluzione
educativa che mette al centro il valore della diversità come occasione di crescita per tutti gli alunni.
Il concetto di inclusione, tuttavia, nella scuola italiana è relativamente recente e rappresenta l’ultima
tappa dell’evoluzione nel dibattito sulla pedagogia inclusiva. Per comprendere l’attuale fase nella
scuola italiana, occorre partire da un importante chiarimento e cioe’ che integrazione non è
sinonimo di inclusione.

L’integrazione scolastica può essere letta come l’obiettivo di una strategia didattica per la
partecipazione e il coinvolgimento delle persone con disabilità. Con il termine “inclusione”, ci si
riferisce invece a una strategia finalizzata alla partecipazione e al coinvolgimento di tutti gli
studenti, con l’obiettivo di valorizzare al meglio il potenziale di apprendimento dell’intero gruppo
classe. Con il passaggio dall’integrazione all’inclusione si sposta quindi più in là il raggio d’azione
della didattica, inserendosi perciò in un contesto educativo di sempre maggiore complessità.

In Italia, a livello scolastico e pedagogico, il concetto di inclusione viene adottato dall’inglese


solamente negli anni ’90. Il passaggio non rappresenta solamente un cambiamento terminologico,
bensì un’innovazione concettuale e di impostazione istituzionale. L’obiettivo è quello di mettere al
centro della scuola il valore della diversità, come occasione di crescita data dall’interazione con una
persona con disabilità o con altri tipi di disturbi, che possono essere anche passeggeri.

Si supera così l’idea di una “normalità” della didattica basata sull’omogeneità di chi apprende,
passando invece alla visione di classe come realtà caratterizzata da una ampia pluralità di bisogni e
necessità individuali. I problemi relativi alla didattica verso persone con disabilità, infatti, non sono
altro che una specifica manifestazione di problemi che pongono, in maniera diversa e a volte

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mascherata, anche gli altri alunni. A livello didattico, la conseguenza più importante di questa
evoluzione nel dibattito pedagogico è il superamento dell’illusione che sia possibile una strategia
didattica standardizzata, rappresentata dal “ programma”. La didattica inclusiva deve essere intesa
perciò come una trasformazione dell’ambiente educativo che coinvolge e favorisce l’intera
comunità scolastica, non solamente l’alunno con disabilità e che attinge a “ liste di contenuti” da
calibrarsi, di volta in volta, alle esigenze della classe ed, all’interno di essa, di ciascun singolo
alunno.

Le tappe fondamentali dell’inclusione nella normativa scolastica italiana ci portano a comprendere


che l’attuale assetto di strumenti e pratiche che garantiscono l’inclusione di tutti gli alunni nelle
scuole italiane è il frutto di una stratificazione normativa lunga decenni. Si e’ trattato di un
percorso complesso, fatto di piccoli passi e di grandi balzi in avanti. Volendo solo accennare ad i
piu’ recenti ed importanti:

Le linee guida del 2009

È impossibile parlare di inclusione scolastica senza citare uno dei documenti pedagogici e normativi
più importanti a livello didattico, ovvero le Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni
con disabilità del 2009. È con questo documento, infatti, che si gettano le basi per l’utilizzo
dell’ICF (International Classification of Functioning) come modello di riferimento per la
classificazione della disabilità. Con l’adozione dell’ICF, elaborato dall’Organizzazione Mondiale
della Sanità (OMS) nel 2010, si tengono in considerazione tutti i fattori contestuali del processo
educativo, sposando quindi un approccio di tipo “ecologico” (ovvero che dà la giusta importanza
all’ambiente educativo) come punto di partenza per l’inclusione scolastica. Nelle Linee Guide del
2009 si stabiliscono così due concetti fondamentali:

l’accettazione delle diversità presentate dagli alunni disabili come fonte di arricchimento;
l’importanza di prestare attenzione ai bisogni di ciascuno, non solamente quindi alle esigenze degli
alunni affetti da particolari disturbi.

La legge 170/2010

Il successivo passaggio normativo è rappresentato dalle “Nuove norme in materia di disturbi

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specifici dell’apprendimento (DSA) in ambito scolastico” contenute nella Legge 170/2010. È con
questa legge che si concretizza l’approccio innovativo dell’inclusione scolastica e si definiscono
tutti gli strumenti e le metodologie per consentire il pieno sviluppo del processo formativo a partire
dalla singolarità e complessità di ogni persona. Al centro di questa strategia, vengono così inserite
la personalizzazione e l’individualizzazione dell’offerta didattica.

La Direttiva sui BES del 2012

Nel 2012, la necessità di dare sempre più centralità agli studenti ha portato il Miur a redigere una
specifica Direttiva Ministeriale intitolata “Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi
Speciali (BES) e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”, in cui si riconosce la
possibilità che un alunno presenti esigenze didattiche particolari anche in assenza di DSA. Di
conseguenza, si organizzano criteri didattici inclusivi per tutti quegli studenti che presentano
difficoltà dovute a cause socio-ambientali, culturali o familiari. Questo passaggio ha rappresentato
sicuramente una rivoluzione culturale per l’istituzione scolastica, soprattutto per il potenziamento
della cultura dell’inclusione che ne consegue.

Il Decreto Inclusione 2017 – 2019

Il Decreto inclusione rappresenta l’ultima tappa, in ordine di tempo, del percorso verso la
realizzazione dell’inclusione scolastica. La sua prima stesura è del 2017, modificata poi nel 2019.
Con questo decreto, il governo ha introdotto importanti modifiche, consolidando e approfondendo
la scelta per la personalizzazione della didattica. Tra le altre cose, viene dato maggior peso al ruolo
delle famiglie, si creano i Gruppi di Inclusione Territoriale e i Gruppi di lavoro operativi per
l’inclusione. Il nucleo della riforma è sicuramente concentrato nei Piani Educativi Individualizzati
(PEI), che vengono così ad essere gli strumenti fondamentali con cui il consiglio di classe è tenuto a
disegnare un piano didattico specifico per gli alunni con disabilta’.

5. La “relazione d’aiuto.”

Importantissimo e’, tuttavia, ora , andare oltre ancora i concetti di integrazione ed inclusione e
chiederci, ad esempio: “ di cosa avrei davvero bisogno io se mi trovassi in difficolta?”.

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Nel momento stesso in cui ci poniamo questa domanda stiamo migrando verso un nuovo concetto,
quello della “ relazione d’aiuto”. Il vero punto fermo della relazione di aiuto è la presenza di una
relazione, dove l’altro come un oggetto di intervento ma riconosciuto come persona.

La relazione educativa è una forma di relazione d’aiuto che presuppone l’impegno, da parte
dell’insegnante, a prendersi cura della formazione e della crescita degli studenti. Ha in ambito
educativo sicuramente diversi significati in quanto, a volte, si sostanzia in contenimento emozionale
o in risoluzione di problemi contingenti, in altri casi invece, in impegno costante nell’educazione e
nella formazione del futuro cittadino. La relazione educativa, come forma di relazione di aiuto,
richiede oltre un importante coinvolgimento da parte degli insegnanti anche una serie di abilità e
competenze relazionali e comunicative. Prima di trattare nello specifico gli aspetti della relazione
educativa è doveroso individuare gli aspetti caratterizzanti una relazione di aiuto. Nell’area
dell’aiuto si possono rintracciare differenti ambiti di intervento e diverse intensità ed estensione di
processi di aiuto (Di Fabio, 2003). Accanto a professioni psicologico - cliniche in cui vengono
messi in atto interventi dell’aiuto in ambito clinico, sono presenti delle professioni come quella
degli avvocati, infermieri, o degli insegnanti che traggono vantaggio, nell’esercizio della propria
professione, da alcune conoscenze di base legate alla comunicazione, alla relazione alla conduzione
di un colloquio propri delle professioni cliniche. Pur tenendo presente le differenze, le modalità di
applicazione dell’aiuto, gli ambiti di applicazione dell’aiuto sono accomunati da alcuni aspetti
comuni.
Un punto fermo della relazione di aiuto è la presenza di una relazione dove l’altro non è visto come
un oggetto di intervento ma riconosciuto come persona, con la quale elaborare una progettualità per
affrontare il problema, avvalendosi delle risorse di cui dispone, cercando di fargli raggiungere dei
risultati in tempi brevi. La relazione di aiuto rappresenta un qualcosa di circolare, interattivo ed e’
contestualizzata e finalizzata ad attivare le risorse del cliente per risolvere il problema, rappresenta
il momento iniziale per l’avvio del processo di cambiamento.

Il ricevere rischia di mettere l’altro in condizione di inferiorità perché convinto di essere inferiore al
donatore. E’ doveroso quindi far si che l’ alunno che riceve cura ed aiuto possa nutrire fiducia nelle
capacità del ricevente e avere una preparazione adeguata a livello comunicativo e relazionale. E’
importante entrare nella relazione con autenticità, congruenza, empatia riconoscendo le risorse del
soggetto.

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Il professionista della relazione d’aiuto definisce sempre il focus sull’intervento specifico e poi
attraverso le conoscenze comunicative e relazionali lo perfeziona e lo arricchisce al fine di svolgere
al meglio la propria professione, superando dettami e tecnicismi e creando un circolo vizioso
virtuoso di scambio generoso con colui che si “ aiuta”. 
In ambito educativo e strettamente scolastico, prendersi cura dello studente, della sua crescita, della
sua auto-realizzazione e auto-determinazione caratterizza una efficace relazione educativa.
Secondo il modello di Carkhuff , la relazione di aiuto può essere rappresentata secondo uno schema
a quattro fasi: le prime due derivate dall’approccio non direttivo di Carl Rogers e le altre di
impostazione comportamentista.

6 .Le quattro fasi della “ relazione d’aiuto”.

1° fase:

L'ASCOLTO
Secondo il modello rogersiano l’ascolto è indirizzato sia al contenuto sia agli aspetti non verbali
(emozioni, sentimenti) che presenta lo studente.  E’ importante ascoltare con attenzione, mettersi
“nei panni dell’altro” concentrarsi su quanto dice con le parole sia su ciò che esprime con la
mimica, con il corpo, con la gestualità, con il movimento. Diventa fondamentale riconoscere l’altro,
i suoi vissuti, le sue emozioni, gli stati d’animo. Ascoltare l’altro senza giudicare, senza indagare,
senza diagnosticare, senza soluzionare.

 2° fase:

LA RISPOSTA

L'ascolto non è sufficiente, bensi’ occorre dare delle risposte alle richieste degli studenti. Occorre
rispondere alla necessita’ dei singoli studenti non in modo frettoloso, dando delle soluzioni
immediate ai problemi. Occorre “mettersi nei panni di “ provare a sentire gli stati d’animo
dell’altro, essere com-prensivi e cercare di entrare realmente e sinceramente nel problema dell’altro.

  3° fase:

IL PRIMO PASSO

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Secondo l’approccio comportamentista l’individuo è un organismo attivo che definisce i
comportamenti in relazione agli stimoli dell’ambiente. Il soggetto agisce sull’ambiente per avere la
soddisfazione ai suoi bisogni o per conseguire un cambiamento.
In caso di problemi  presentati dagli studenti dopo averli ascoltati è fondamentale aiutarli
concretamente a fare il primo passo per cambiare, dando fiducia alle loro risorse, promuovendo la
competenza affettiva, metacognitiva e autoriflessiva.

  4° fase

L'AZIONE
A questo punto la relazione diventa sempre più collaborativa, autentica, si può organizzare un
ambiente accogliente, una rete di aiuto ben calibrata sui bisogni presentati e che sostiene il percorso
legato al cambiamento.

Infatti, l’ insegnante che ha una concezione positiva dello studente come soggetto teso
all’autorealizzazione, facilita l'accettazione dei momenti di disagio, permette di esplorare le
difficoltà, recuperare le risorse, maturare il senso di “ empowerment” e assumere delle decisioni che
orientino in modo fattivo l’azione.  

Una relazione educativa efficace è alla base di un apprendimento positivo e della crescita sana degli
studenti. Le capacità alla base di una buona relazione educativa non vengono evidenziate in quanto
considerate insite nell’essere della persona. In realtà le competenze relazionali e comunicative, alla
base di una efficace relazione educativa, possono essere acquisite e sono fondamentali non solo per
la crescita dello studente ma anche per la definizione del ruolo dell’insegnante. Una buona relazione
educativa necessita di alcuni presupposti.

Un primo aspetto è l’alleanza educativa. Si va verso l’altro se c’è fiducia nell’altro, se si condivide
un progetto di crescita e di formazione, se si è disposti a lavorare fianco a fianco, prendendo una
direzione comune e condivisa. Uno studente ha bisogno di sentire che si guarda nella stessa
direzione, che il progetto di crescita è comune e negoziabile. L’alunno ha bisogno di sapere che il
professore è un suo alleato, che lo potrà sostenere nei momenti difficili e indirizzare qualora ne
avesse necessità. Ha bisogno di essere accettato in quanto persona, con i propri limiti ed errori ed
essere stimato e degno di fiducia. Solo quanto l’alleanza educativa c’è, vera e reale allora, forti del
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traino emotivo che questa ha, si potrà lavorare sulle aree più disfunzionali. Un altro fattore centrale
è la valorizzazione del positivo. Nella nostra società l’aspetto sanzionatorio è quello che prevale,
anche a scuola. A scuola si sottolineano gli errori, gli aspetti deficitari, invitando l’allievo a lavorare
su quelli, senza evidenziate invece le aree positive. Sarebbe invece di fondamentale importanza
valorizzare gli aspetti positivi di ciascuno studente per liberarne le potenzialità cognitive. Lo
svalutare, l'umiliare, il denigrare provoca un’impotenza appresa e l’idea che la performance
scolastica sia un'immutabile realtà o una realtà difficile da modificare. Un’altra competenza
fondamentale è la capacità di ascolto. Lo studente ha bisogno di essere ascoltato. Ha necessità di
uno spazio che possa diventare solo suo in cui il docente sia lì per lui, lì per ascoltarlo,
sintonizzandosi a livello cognitivo ed emotivo. Uno spazio sospeso dove lo studente può permettersi
di es-sere, senza necessità di consigli e suggerimenti, in cui gli si senta compreso e sostenuto.

Gli insegnanti hanno l’importante compito di accorgersi dell’altro, delle sue difficoltà e dei suoi
bisogni ed essere presenti: non si può educare nell’indifferenza.

A scuola si sentono spesso frasi di accuse reciproche.

I docenti dicono “ Gli studenti non mi ascoltano” e gli studenti pensano “I docenti non mi
ascoltano”. Emerge da entrambe le parti il bisogno di essere ascoltati. L’ascolto diventa un bisogno
che unisce i docenti agli studenti. Un bisogno che spesso  non viene preso in considerazione da
nessuna delle due parti. Eppure la strategia dell'ascolto potrebbe fare la differenza, potrebbe
trasformare la relazione- docente studente in una relazione che nutre entrambi.

Ma quanto si ascolta l’altro davvero in modo attivo?

Quanto mentre l’altro parla si presta attenzione a come le parole che dice entrano in noi, attivano le
risonanze che sono in noi, creano immagini nuove, pensieri, nuove idee.
Per fare questo si dovrebbe ascoltare l’altro e contemporaneamente ascoltare noi stessi. E’ possibile.
L’ascolto si impara, sostiene D. Novara (1997).

Si  può imparare a fare silenzio dentro di sè e lasciare entrare le parole dell’altro, ascoltare
veramente e, nello stesso tempo, ascoltarsi. L’abilità dell’ascolto diventa la capacità di creare il
silenzio dentro di sè. Questo permette di sentire l’altro, di ascoltarlo in modo empatico, di
avvicinarsi all’altro  attraverso le sue parole e nello stesso tempo utilizzare queste parole per sentire
se stessi, i propri bisogni, desideri che nella relazione dialogica si attivano.
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Quando l’altro comunica è possibile entrare in empatia, scavare nella propria esperienza emotiva
per comprendere le emozioni che prova. Un docente in grado di entrare in empatia ha la possibilità
e la fortuna di entrare nel mondo dello studente, esplorare le sue esperienze, avvicinarsi a lui. Allo
stesso modo, uno studente che ascolta le parole del professore può, a sua volta, modificare concetti,
formulare nuove idee, trovare risonanze con la propria  esperienza, trarre nuove informazioni e
pensieri.
Gli studenti che si ascoltano tra di loro possono fare più attenzione ai bisogni reciproci, sintonizzare
i propri vissuti emotivi, esplorare le proprie esperienze emotive per ri-trovarsi, ri-costituirsi.
Si va quindi oltre le parole, si comprende come dietro bisogni superficiali a volte ce ne sono di più
profondi: così si potrebbe vivere la relazione a scuola come momento di crescita, di trasformazione,
di maturazione reciproca.

Il contesto classe è fondamentale per lo sviluppo sociale del bambino, in quanto oltre a permetterne
una maturazione cognitiva e culturale, offre molteplici occasioni di sperimentazione di interazioni,
intese come scambi comportamentali nel qui ed ora e di relazioni in cui gli scambi assumono
aspetti affettivi importanti, duraturi e implicano un reciproco riconoscimento. Una
relazione rilevante per lo sviluppo sociale è quella che il bambino instaura con l’insegnante. Per
esaminare la relazione alunno insegnante non è sufficiente basarsi sulle interazioni didattiche ma è
necessario analizzare il rapporto educativo inteso come legame di attaccamento. John Bowlby
(1969) formula la Teoria dell'Attaccamento, un paradigma attraverso il quale studiare le modalità
con cui si stabiliscono i legami affettivi e il loro significati. Secondo Bowlby il bambino codifica le
prime esperienze di relazione interpersonale in modelli operativi interni (MOI) che funzionano
come basi per l’assimilazione e l’elaborazione delle successive esperienze con l’altro. Avvalendosi,
quindi, di queste rappresentazioni mentali, il bambino regola il proprio comportamento, attivando
strategie e piani precedentemente immagazzinati che lo facilitano nel predire il comportamento
dell'altro e nel fornire risposte più adeguate. I tre elementi fondamentali che si intrecciano nelle
rappresentazioni mentali sono: la rappresentazione del caregiver, la rappresentazione di sé e la
rappresentazione della relazione tra il caregiver e il sé. I legami di attaccamento non si creano solo
con i familiari ma anche con gli insegnanti, gli amici e con i partner. Il primo legame di
attaccamento è sicuramente quello con la madre ma non è l’unico importante per il bambino. Molte
ricerche dimostrano che l'esperienza di legami sicuri, al di là di quello con la mamma, permettono
al bambino di acquisire delle buone capacità relazionali. L'ambiente scolastico rappresenta un
contesto di elezione all'interno del quale si possono creare dei legami di attaccamento extra
familiari fondamentali per lo sviluppo sociale del bambino. L'insegnante oltre ad avere il suo
specifico ruolo professionale può essere considerata un caregiver (una persona che si prende cura)
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del bambino in molte occasioni; quando il bambino sta male o ha dei problemi fisici o quando
condivide con lui momenti di gioia o di tristezza. Alla luce di tutto ciò la capacità dell'insegnante di
essere una figura significativa non solo dal punto di vista professionale ma anche dal punto di vista
relazionale costituisce una risorsa di enorme valore; è assodato, infatti, che una buona relazione
alunno - insegnante influenza positivamente i percorsi di apprendimento dei bambini e dei ragazzi.

Una buona relazione regola la prestazione dell'alunno nel contesto classe, fornisce la stabilità
emotiva, facilita il bambino nelle interazioni con i compagni, lo sostiene nella risoluzione dei
conflitti e lo aiuta nell’ espressione dei propri bisogni. Una buona relazione insegnante-alunno
costituisce un fattore protettivo anche al di là del contesto scolastico in quanto può ridurre condotte
antisociali in soggetti problematici. Al contrario una relazione conflittuale aumenta l'imprevedibilità
del comportamento dell'alunno e una insistente richiesta di attenzione e aiuto. Rifacendosi alla
teoria di Bowlby, quando il bambino vive una relazione negativa con l'insegnante non tende a
interromperla ma al contrario tende ad aumentare le richieste, per confermare l'immagine (negativa)
che ha di sé. Si crea, quindi, una dipendenza conflittuale in cui il bambino vive sentimenti di rabbia
e di ingiustizia. Passando dall'aspetto educativo a quello del rendimento scolastico si può affermare
che c'è un importante collegamento tra il buon rendimento scolastico e una relazione positiva, in
quanto il bambino che si sente valorizzato e supportato dall'insegnante risponde in modo positivo
alle sue sollecitazioni ed è concentrato prevalentemente sull’ apprendimento e non sul contenimento
di stati d’animo negativi.

Si può concludere asserendo che più l'insegnante permette al bambino di vivere esperienze emotive
positive, più gli permette di sviluppare abilità sociali, di autoregolazione, di padroneggiare le
diverse situazioni e di avere degli apprendimenti didattici buoni.

7. La relazione insegnante-allievo.

La costruzione e la gestione della relazione insegnante-allievo rappresenta un obiettivo


imprescindibile per la realizzazione del processo educativo e didattico,
L’autorevolezza si realizza se riconosciuta dagli allievi, che individuano nella persona
dell’insegnante una serie di peculiarità: comportamenti adeguati, competenza, capacità di
comunicare efficacemente, equità nell’esigere dagli altri quanto esigono da sé, equilibrio psichico
che permette di evitare l’aggressività, di ammettere i propri errori senza complessi e di saper gestire
i conflitti al loro sorgere senza timore e autocensura. Gli atteggiamenti che il docente assume
rappresentano l’espressione delle sue esperienze esistenziali, dei suoi valori, delle sue capacità,
motivazioni ed aspettative che influenzano l’educazione e l’apprendimento. Proprio per via di
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queste implicazioni, sono fattori di fondamentale importanza: la capacità di autoanalisi
dell’insegnante, la consapevolezza della sua influenza sull’intero processo educativo dell’allievo,
ossia sull’incremento della sua capacità di apprendimento, riflessione e critica, oltre che sulla
promozione della sua personalità.
Pertanto, diventa fondamentale lo sforzo di un continuo ascolto attivo, perché comprendere l’altro,
quanto più possibile, agevola notevolmente l’intero processo comunicativo.
Per facilitare un rapporto comunicativo è necessario cercare di instaurare un rapporto empatico con
gli altri, intendendo per empatia la capacità di mettersi al posto di un’altra persona, di capire il
comportamento degli altri sulla base della propria esperienza.
Se il docente è un leader, riesce a dare compattezza al gruppo, a guidarlo, ad eliminare le tensioni e
comprendere i bisogni. In questo caso il docente è in grado di svolgere il suo ruolo in maniera
autorevole e viene considerato non come un capo, ma come colui che “ anima l’identità di
gruppo”. I ragazzi, infatti, non cercano né egualitarismo assoluto, né anarchia, né autoritarismo, ma
un professore-leader che, oltre ad essere competente nella disciplina che insegna, sia in sintonia con
i bisogni della classe.
Il docente leader deve, perciò, possedere doti relazionali ed empatiche, deve potenziare l’autostima
degli studenti e favorire l’attivazione del pensiero di gruppo. Da una relazione così strutturata non
sarà solo la classe a trarre vantaggio, ma il docente stesso, che si sentirà a proprio agio ed in grado
di dare il meglio di sé.
Il docente leader è colui che sa ispirare ed incoraggiare gli altri, chi accetta il cambiamento senza
preconcetti e riesce a farlo accettare agli altri, chi sa come motivare le persone, chi mette in atto
continui feedback dagli altri per vedere se gli alunni lo stanno seguendo, chi sa come formare e far
crescere i ragazzi. Un leader deve essere in grado di dare un esempio significativo, attraverso
l’applicazione puntuale nella vita dei principi di cui si fa portavoce per raggiungere i risultati a cui
aspira. Deve, però, assumersi anche la responsabilità del mancato conseguimento di questi risultati.
La relazione educativa trova migliore espressione nelle metodologie cooperative e partecipative, in
cui il ruolo di docente si configura come facilitatore ed il gruppo-classe diviene soggetto di co-
costruzione di conoscenze, abilità ed identità individuale e di gruppo.
Tra le teorie e le metodologie che evidenziano le potenzialità del lavoro di gruppo, nell’ambito della
scuola attiva, un contributo notevole è offerto dalla pedagogia di Freinet (1896-1966) il cui metodo
richiama l’attenzione sulla cura del contesto scolastico e della regia educativa e didattica per creare
le condizioni per un apprendimento attivo e collaborativo. La prospettiva cooperativistica di Freinet
favorisce un insegnamento rispettoso delle differenze individuali degli allievi e dei loro ritmi di
apprendimento. Non bisogna educare alla cieca obbedienza ed alla competizione, ma per formare

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persone attive, responsabili, capaci di autocritica e disponibili alla condivisione ed alla
partecipazione. L’insegnante deve svolgere una funzione di regolazione dello scambio
comunicativo del gruppo e talvolta solo di testimone. Si attiva così un processo costruttivo di
apprendimento. Il lavoro di gruppo pertanto non sostiene solamente la socializzazione, ma anche lo
sviluppo cognitivo e morale. La pedagogia culturale di Bruner sottolinea come la cultura, appresa
attraverso l’interazione con gli altri, offra gli strumenti per costruire il mondo, la concezione di sé e
delle proprie capacità. Ne deriva una pedagogia interattiva ed intersoggettiva che vede le persone
come soggetti che imparano l’uno dall’altro. La caratteristica essenziale del gruppo è
l’interdipendenza, cioè una relazione di dipendenza reciproca tra i componenti in vista della
realizzazione di un determinato scopo. La riuscita del lavoro cooperativo è anche strettamente
legata allo sviluppo di competenze sociali che si basano su abilità cognitive, assertività, empatia ed
autocontrollo, e concorrono alla formazione di un clima inclusivo, di aiuto e sostegno. Attivare la
risorsa del gruppo dei pari significa non solo riconoscere il valore delle diversità individuali, ma
promuovere la solidarietà di fronte alle diversità socioculturali e, a quelle derivanti da disabilità di
vario tipo.

8. L’importanza della relazione empatica docente -discente.

Gli insegnanti che sono in grado di avere una qualità alta nelle relazioni interpersonali con i loro
studenti hanno, durante l’anno, il 31% in meno di problemi disciplinari, regole violate e questioni
collegate (Marzano, 2003).

La relazione tra insegnanti e allievi si fonda, innanzitutto, sull'immagine che ciascuno dei due
membri della relazione ha del proprio status, del proprio ruolo e di quello dell'altro ed è
condizionata dalla percezione che ciascuno ha del contesto nel quale prende avvio la relazione.
Queste idee sono determinate dai vissuti personali, dal retroterra socioculturale di provenienza e
dalla storia individuale di ciascuno studente e insegnante.

Krech (1970) definisce il ruolo come l'insieme dei bisogni, degli scopi, delle convinzioni, degli
atteggiamenti e azioni che i membri di una comunità attendono caratterizzi l'occupante tipico di una
posizione.
L’insegnante, quindi, sa quali sono i comportamenti, anche quelli non codificati in modo chiaro,
tipici del suo ruolo, che gli allievi e le famiglie si aspettano da lui.

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Per quanto riguarda la professione insegnante, i comportamenti attesi non si limitano a quelli
strettamente legati all’azione didattica ma si allargano a tutta la sua vita, dal parlare al modo di
vestire, allo stato civile che deve rappresentare un esempio per gli studenti. Queste dimensioni
vengono prese in considerazione ancor prima dei modi in cui il docente conduce le lezioni; già dal
momento in cui entra in classe sia la comunità che gli allievi hanno una serie di aspettative sulle sue
modalità di condurre a buon fine un processo di insegnamento.

Pertanto, fin dalla prima presa di contatto con la classe, il rapporto deve essere impostato in modo
da favorire la comunicazione fra insegnante e allievi: gli alunni, durante i primi periodi di scuola,
studiano gli insegnanti al fine di trarre le indicazioni su quello che sarà il comportamento scolastico;
cercano di capire velocemente quali siano le condizioni tipiche dell’insegnante, in modo da decidere
altrettanto velocemente come adattarsi alle regole. Qualora l’insegnante non mettesse in atto il
comportamento immaginato, adottando uno schema di comportamento diverso dalle aspettative che
i ragazzi si erano fatti, questi cercherebbero in tutti i modi di farlo rientrare nei canoni prestabiliti.

Un altro aspetto che ha ripercussioni sulla relazione che l’insegnante instaura i propri studenti è la
consonanza tra il modo di essere e di fare dell'insegnante e il modo di essere e di fare dei suoi
colleghi, in quanto anche se il docente non è sempre consapevole di non agire come tutti gli altri
docenti, gli allievi lo sono e sono pronti a sfruttare la situazione a loro vantaggio.
Anche la personalità dello studente ha un’enorme influenza su ciò che apprende, acquisisce e
apprezza del metodo didattico adottato dall’insegnante.

Non meno importante è il contesto ambientale in cui tale rapporto ha luogo e ciò che l’insegnante
pensa di tale contesto. Ciò vuol dire che è molto importante che l’ambiente socioculturale di
provenienza degli allievi sia tale da permettere all’insegnante di esprimere al meglio le proprie
capacità didattiche.

Il rapporto docente-allievi è influenzato anche dallo stile di insegnamento adottato. Numerose


ricerche dimostrano come lo stile di insegnamento non costituisce una discriminante per ciò che
riguarda la quantità di nozioni che alla fine del ciclo scolastico vengono apprese dai bambini ma
sicuramente condiziona la fisonomia che la classe assume.
Uno degli aspetti che differenziano gli stili educativi adottati dagli insegnanti è quello concernente
le modalità attraverso le quali si mantiene la disciplina ed è il criterio in base al quale la

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maggioranza degli insegnanti viene giudicata. Questa dimensione è facilmente valutabile attraverso
le costanti di ordine, silenzio, mancanza di disturbo del lavoro dei compagni delle altre classi, il
mantenimento di un tono adeguato.

In ogni caso l'insegnante è colui da cui dipendono sia il clima di classe che l'andamento
dell’apprendimento. Fry (1980) provò a correlare il clima della classe con il desiderio di riuscita
degli studenti: dalle risposte emerge chiaramente che l'insegnante influenzava la percezione che gli
studenti avevano delle loro possibilità di riuscita. Addirittura, se l'insegnante riteneva di avere per le
mani una classe buona e quindi permetteva agli studenti di prendere iniziative, gli studenti
rispondevano alle domande contenute nei test, affermando di provare gusto allo studio al contrario
delle risposte degli studenti delle classi in cui l'insegnante controllava molto gli studenti perché
riteneva che, se non l'avesse fatto, questi non si sarebbero riusciti a concludere molto.
Lewin, Lippitt e White hanno dimostrato come l'insegnante sia il perno attorno a cui ruotano tutte le
dinamiche dei rapporti fra gli allievi e che, nel rapporto fra insegnante gruppo classe, è proprio
l'insegnante colui che nei fatti stabilisce le regole di comportamento sia tra gli allievi nei suoi
confronti che degli allievi fra di loro e con l’istituzione scolastica.

L’insegnante, quindi, in prima persona, deve farsi carico dello sviluppo di un clima positivo di
classe attraverso la messa in atto di efficaci pratiche educative di gestione della classe.

L’aver cura implica il reciproco riconoscimento e la massima valorizzazione delle originali


potenzialità di ogni soggetto, allo scopo di migliorarne la qualità dell’esistenza. Nei confronti della
persona con disabilità è necessario saper costruire o ri-costruire una relazione educativa intesa come
relazione di aiuto autentica ed emancipativa, affinché l’altro, gradualmente, sia in grado di
riprendersi cura di sé per realizzare il proprio essere. Ai professionisti della cura educativa e
dell’aiuto spetta il compito di promuovere nel “diverso” la ri-apertura di un discorso (progetto
esistenziale) che, a causa dell’incontro con il deficit, è stato precocemente interrotto o già
predeterminato. In tal senso, cura educativa ed aiuto costituiscono prioritarie categorie fondative
della Pedagogia speciale intesa come scienza attenta alla costante rilettura delle professionalità
educative impegnate nella complessa e delicata sfida del raggiungimento di un buon livello di
qualità del processo di inclusione scolastica e sociale delle persone con “bisogni educativi speciali”.

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9.CONCLUSIONI: “ L’ I care “

Personalmente ritengo che all’interno delle responsabilità del docente dovrebbe rientrare in
particolar modo l’interrogarsi e il soffermarsi su quegli allievi che devono investire considerevole
energia nel raggiungimento degli obiettivi e che manifestano problemi di tipo comportamentale. I
comportamenti sono messaggi che gli allievi inviano per indicare che qualcosa non sta andando per
il verso giusto, che stanno attraversando dei problemi. Ecco perché sarebbe auspicabile da parte
dell’insegnante intuire che gli allievi devono essere aiutati anche per quelle cose che restano al di
fuori della scuola. “Il bambino vedendo la sua ansia, aggressività e disperazione accettate e
contenute, sarà così aiutato a capire, a livello, di sensazione, che di fatto esiste qualcuno capace di
convivere con un aspetto di sé da lui temuto e rifiutato: allora egli potrà rendersi conto del fatto che
queste parti di sé non erano poi così onnipotenti e, di conseguenza, che non c’è bisogno di averne
così tanta paura” (Salzberger-Wittenberg, Williams Polacco, Osborne, 1993, p. 101). La funzione e
l’impatto che l’insegnante può avere è decisivo. Dal momento in cui ha la possibilità di conoscere
bene i suoi alunni e di passare con loro più ore alla settimana, ha la possibilità d’influenzare il
benessere dell’alunno stesso e della classe. Favorito dagli interventi dell’insegnante, l’alunno avrà
un’ulteriore possibilità per imparare ad esporre le proprie difficoltà e il proprio vissuto.
“L’approvazione degli altri è un importante fattore nell’instaurare un rapporto attraverso il quale
l’altra persona può crescere, svilupparsi, operare dei mutamenti costruttivi, imparare a risolvere i
problemi, conquistare benessere psicologico, diventare più produttivo e creativo e realizzare
pienamente le proprie potenzialità” (Gordon, 1991, p. 68), accelerando così la conquista
all’indipendenza e all’autonomia. Il saper accettare un altro così come è, è un atto d’affetto e il
ruolo del docente nella sfera socio-emotiva e’ un atto d’amore. Però, l’accettazione per essere una
forza che abbia qualche efficacia nell’influenzare gli altri, deve essere attivamente comunicata o
dimostrata. Lo sviluppo socio-emotivo del bambino è una tematica abbastanza ricorrente in ambito
educativo come anche la relazione che si stabilisce tra il docente e l’allievo, aspetti che si sono
verificati essere in stretta correlazione con la qualità dell’apprendimento dell’allievo stesso. Anche
se il compito di educare i giovani non spetta unicamente alla scuola è comunque dovere di
quest’ultima offrire condizioni che promuovono negli allievi le capacità personali indispensabili
allo sviluppo dell’individuo, in particolare delle loro competenze ad apprendere. Chiunque operi e
agisca con coscienza con le realtà umane speciali è sollecitato certamente da un amore particolare
che lo porta ad un impegno e ad una scelta precisi: lavorare per il bene dell’educando e cogliere con
sensibilità l’istanza di giustizia che la persona con esigenze particolari ci comunica. Lo sentiamo, lo
percepiamo questo appello: continuamente, anche nel silenzio della nostra azione educativa,

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avvertiamo il richiamo forte, insistente, ineludibile che di per sé esercita la condizione di disabilità,
di disturbo specifico dell’apprendimento, di disagio, di disadattamento, di marginalità.

Dobbiamo pensare che l’ingiustizia che si intravede negli occhi di una persona con deficit obbliga
ad una risposta di valore che oltrepassa la propria professionalità e va ad incarnarsi nel farsi
presenza attiva che colma tale diritto violato, per sanarne le “ferite”. .L’alunno con bisogni
educativi speciali testimonia il bisogno di essere aiutato a maturare le proprie potenzialità ed a
godere del mondo in piena felicità: è la giustizia di questo bisogno. La richiesta di aiuto che egli
invoca non può essere subordinata all’esibizione di meriti o alla clausola delle restituzioni: la
giustizia iscritta nella sua condizione, nel suo deficit, nei suoi problemi, è anteriore ad ogni merito e
ad ogni pretesa. Quell’orizzonte che nei bisogni di ogni alunno è diritto, nel docente è responsabilità
che lo obbliga a farsi carico dei loro bisogni ed a trovare tutti mezzi per soddisfarli.

Bibliografia :

- <Counseling e relazione d’aiuto: linee guida e strumenti per l’autoverifica>A. Di Fabio , Giunti, 2003

- < L’ascolto si impara. Domande legittime per una pedagogia d’ascolto.> Novara Daniela,Edizioni Ega
1997.

- <La teoria dell’attacamento, John Bowlby e la sua scuola”>, Jeremy Holmes, Raffaello Cortina
Editore,2017.

- < Individuo e societa’. Manuale di psicologia sociale.>. D. Krech, R. crutchfield, Egerton L. Ballodey,
Giunti Editore 1970

- “ Special features of general practice( privacy care and ethical influnces “ Fry, Journal of Medical
Ethics , 1980,pp. 23-25.

- <L’esperienza emotiva nel processo di insegnamento- apprendimento.>, Wittemberg-G.William


Polacco, E.L. Osborne, Liguori Editore, Napoli, 1993

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