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STORY
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Story di Robert McKee
Traduzione di Paolo Restuccia
Si ringrazia per la supervisione alla traduzione Marina Martinetti
www.omero.it
www.omeroeditore.it
Isbn: 978.88.96450.16.1
3
dedica
Dedico questo libro alla memoria felice dei miei genitori che, ognuno a suo
modo, mi hanno insegnato ad amare le storie.
Quando stavo imparando a leggere, ma non mi comportavo sempre nel
modo giusto, mio padre mi ha introdotto alle favole di Esopo nella speranza
che quelle antiche storie di ammonimento potessero migliorare la mia
condotta. ogni sera, dopo aver letto faticosamente un racconto tipo La volpe
e l’uva, lui faceva un cenno del capo e mi chiedeva: «e cosa significa questa
storia per te, Robert?». mentre fissavo quelle pagine con le loro belle
illustrazioni colorate, cercando di scoprire la mia interpretazione, a poco a
poco mi rendevo conto che le storie significavano molto più che parole e
belle immagini.
Più tardi, prima di entrare all’università, mi sembrava che la vita migliore
da fare dovesse includere tante partite di golf quanto più fosse possibile,
perciò decisi di diventare un dentista. «un dentista?» mia madre scoppiò a
ridere. «Non puoi dire sul serio. cosa succederà quando troveranno la cura
per tutti i problemi dei denti? a che serviranno allora i dentisti? No, Bobby,
la gente avrà sempre bisogno di spettacolo. io penso al tuo futuro. tu devi
entrare nello show business».
Robert McKee
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Ringraziamenti
Per la sua attenzione verso la verità, per il suo impassibile occhio editoriale e
la sua determinazione nel divorare le parole inutili, per la sua logica ferrea, il
suo ottimismo, la sua ispirazione... per il suo amore, ringrazio mia moglie
Suzanne Childs.
Per la fortuna di avere complici astuti, disposti a sopportare le tante
stesure, chiudere i buchi, smussare i margini ruvidi, e indicare con saggezza
che le cose scritte non sempre significano ciò che pensa chi le ha scritte,
ringrazio Jess Money, Gail McNamara e il mio editor, Andrew Albanese.
Se non fosse stato per l’incredibile rapidità del mio agente, avrei
rimandato al prossimo secolo la stesura di questo libro. Grazie Debra
Rodman.
Se non fosse stato per l’insistenza del mio editore, avrei rimandato al
prossimo secolo le pressioni della mia agente. Grazie a te, Judith Regan.
Se non fosse stato per l’appoggio della Evans Scholars Foundation e gli
incontri con le menti dell’università del Michigan, la mia esistenza sarebbe
più povera. Grazie a Kenneth Rowe, John Arthos, Hugh Norton, Claribel
Baird, Donald Hall e a tutti gli altri insegnanti di cui ho dimenticato il nome.
Il loro brillante insegnamento ha rafforzato la mia vita. E infine una cosa
della massima importanza: grazie ai miei studenti.
Nel corso degli anni la mia comprensione dell’arte di scrivere storie è
cresciuta proprio per le domande che mi hanno posto. Domande teoriche e
pratiche che mi hanno obbligato ad ampliare e approfondire la ricerca delle
risposte. Senza di loro questo libro non esisterebbe.
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Nota sul testo
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Parte I
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LO SCRITTORE E L’ARTE DELLA STORIA
Kenneth Burke
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Introduzione
Una regola dice: «Tu devi fare in questo modo». Un principio afferma:
«Questo funziona... e a memoria d’uomo ha sempre funzionato». È una
differenza essenziale. Non dovete realizzare la vostra sceneggiatura sulla base
di un’opera “fatta bene”; la vostra sceneggiatura deve essere ben fatta
seguendo i principi della nostra arte. Gli sceneggiatori ansiosi e inesperti
ubbidiscono alle regole. Quelli ribelli e non istruiti le infrangono. Gli artisti
padroneggiano la forma.
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Story parla di archetipi, non di stereotipi
Una storia archetipica porta alla luce un’esperienza umana universale, per
poi esprimerla nei termini di una specificità culturale unica nel suo genere.
Una storia stereotipata ribalta questo approccio: è povera sia a livello di
contenuto che di forma. Finisce per esprimere una ristretta specificità
culturale. È generica, superata e vaga.
Per fare un esempio, un’antica usanza spagnola prevedeva che le figlie si
sposassero in ordine di nascita dalla più grande alla più piccola. Un film che
mostri una famiglia del diciannovesimo secolo formata da un severo
patriarca, una madre priva di potere, una figlia maggiore non sposabile e una
figlia minore perennemente sofferente, può commuovere coloro che
ricordano questa pratica all’interno della cultura spagnola. Ma è improbabile
che al di fuori di questa cultura il pubblico possa essere coinvolto. Uno
sceneggiatore timoroso della ristretta attrattiva presentata dalla sua storia
ricorre ad ambientazioni, personaggi e azioni che hanno riscosso il favore
del pubblico in passato. Il risultato? Avvolta in questi cliché, la vicenda
risulta ancora meno interessante.
Ma se lo sceneggiatore si rimbocca le maniche e si mette alla ricerca di
un archetipo questa usanza repressiva può diventare la base di un successo
mondiale. Una storia archetipica crea ambientazioni e personaggi così rari
che i nostri occhi si godono ogni dettaglio, mentre la sua narrazione getta
luce su conflitti così tipici della natura umana che la storia farà facilmente
presa su ogni cultura.
Nel film Come l’acqua per il cioccolato di Laura Esquivel madre e figlia
si scontrano su esigenze di dipendenza e indipendenza, immobilismo e
cambiamento, rapporto tra se stessi e gli altri: conflitti noti a qualsiasi
famiglia. E tuttavia il modo in cui la Esquivel osserva la famiglia e la società,
i rapporti e il comportamento, è così intessuto di dettagli mai visti prima che
veniamo irresistibilmente attratti da questi personaggi e affascinati da un
mondo che non conoscevamo e che non avremmo mai potuto immaginare.
Le storie stereotipate restano a casa, quelle archetipiche viaggiano. Da
Charlie Chaplin a Ingmar Bergman, da Satyajit Ray a Woody Allen, i grandi
narratori del cinema ci forniscono un desiderato incontro dal doppio valore.
In primo luogo, scopriamo un mondo che non conoscevamo: che sia
intimo o epico, contemporaneo o storico, concreto o fantastico, il mondo di
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un grande artista ci colpisce sempre per la sua originalità ed esoticità. Come
un esploratore che si apre un passaggio attraverso il fogliame della foresta,
noi procediamo a occhi spalancati all’interno di una società intatta, una zona
priva di cliché dove l’ordinario diventa straordinario.
In secondo luogo, una volta all’interno di questo mondo alieno,
ritroviamo noi stessi: negli intimi recessi di questi personaggi e nei loro
conflitti scopriamo la nostra umanità. Noi andiamo al cinema per entrare in
un mondo nuovo e affascinante. Per immedesimarci in un altro essere
umano, che dapprima ci appare diverso da noi e che tuttavia nel suo nucleo
centrale è come noi. E per vivere in una realtà fittizia che getti luce sulla
nostra realtà quotidiana. Non vogliamo sfuggire la vita, ma conoscerla, usare
la mente in modo nuovo e sperimentale: stimolare le nostre emozioni,
divertirci, apprendere e aggiungere spessore alle nostre giornate.
Story è stato scritto per alimentare film di forza e di bellezza archetipiche
che regaleranno al mondo questo doppio piacere.
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Non c’è mai stato un complotto per tenere segrete le verità della nostra arte.
Da ventitré secoli, da quando Aristotele scrisse La poetica, i “misteri” della
narrazione sono pubblici come una biblioteca di quartiere. Non c’è niente di
oscuro in quest’arte. In realtà, a prima vista, raccontare una storia per lo
schermo può apparire facile in modo ingannevole. Eppure, avvicinandosi
progressivamente al fuoco della narrazione, tentando scena dopo scena di far
funzionare la storia, il compito diventa sempre più difficile perché ci
rendiamo conto che sullo schermo non ci si può nascondere.
Lo sceneggiatore che non riesce a commuoverci con la sola forza della
sua sceneggiatura non si potrà nascondere dietro le proprie parole come può
fare un romanziere, o dietro un monologo come può fare un drammaturgo.
Lo sceneggiatore non potrà ammantare di linguaggio emotivo o esplicativo
eventuali crepe logiche, motivazioni confuse o emozioni incolori, e dirci
direttamente cosa pensare o cosa provare.
La cinepresa è la terrificante macchina a raggi X che svela le falsità: fa un
ingrandimento della vita per poi mettere a nudo ogni svolta delle nostre
storie che risulti debole o falsa, finché, confusi e frustrati, non ci viene
voglia di mollare. E tuttavia, con studio e determinazione, il puzzle produce i
suoi frutti. L’arte di scrivere sceneggiature è piena di sorprese, ma non di
misteri insolubili.
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con migliaia di storie piene di cliché. Invece di tormentarvi sulle probabilità
di successo usate le vostre energie per raggiungere l’eccellenza. Se offrite
una sceneggiatura originale e brillante a diversi agenti, lotteranno tra loro per
avere il diritto di rappresentarvi. L’agente da voi scelto poi scatenerà una
guerra di offerte fra i produttori affamati di storie, e il vincitore vi pagherà
un’imbarazzante somma di denaro.
Una volta in fase di produzione, poi, la vostra sceneggiatura andrà
incontro, sorprendentemente, a pochissime interferenze. Nessuno è in grado
di garantire che infelici abbinamenti di personalità non possano rovinare un
buon lavoro, ma potete star sicuri che i migliori registi e attori di Hollywood
sono ben consapevoli che le loro carriere dipendono dal fatto di lavorare
con storie ben scritte. Tuttavia Hollywood ha fame di storie e i copioni
spesso vengono acquistati prima di essere ultimati. Questo obbliga a
cambiamenti sul set. Gli sceneggiatori sicuri di sé non vendono le loro prime
stesure: scrivono e riscrivono pazientemente finché il copione è il più
possibile pronto per regista e attori. Le opere incompiute invitano alle
manomissioni. Un lavoro maturo e rifinito si assicura l’integrità.
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lo facciano? Non immaginate il finale molto prima che arrivi? Il pubblico
non è solo intelligente, è più intelligente di gran parte dei film. E questo fatto
rimane vero anche quando si è dietro lo schermo. L’unica cosa che uno
sceneggiatore può dunque fare, utilizzando tutta la propria maestria, è
rimanere sempre un passo avanti alla perspicacia di un pubblico concentrato.
Un film non può funzionare se non comprendete le reazioni e le
aspettative del pubblico. È necessario che voi diate alla vostra storia una
forma che esprima la vostra visione delle cose e che insieme soddisfi i
desideri del pubblico. Nella forma di una storia il pubblico rappresenta una
forza determinante quanto ogni altro elemento, visto che senza un pubblico
l’atto creativo è inutile.
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propria storia, nessuno sceneggiatore serio imprigiona la propria visione
all’interno di una formula; né la trasforma in banali frammenti di
sperimentazione. La formula del prodotto “ben confezionato” può soffocare
la voce di una storia, ma le tortuosità dei “film d’autore” le causano
problemi di linguaggio. Come i bambini che rompono le cose per
divertimento o fanno i capricci per attirare l’attenzione su di sé, troppi
cineasti usano trucchi infantili sullo schermo per urlare: «Guarda cosa so
fare!». Un artista maturo non richiama mai l’attenzione su di sé, e un artista
saggio non realizza mai una cosa soltanto per infrangere le convenzioni.
Film di maestri come Horton Foote, Robert Altman, John Cassavetes,
Preston Sturges, François Truffaut e Ingmar Bergman sono così personali
che una sinossi di tre pagine identifica l’artista come fosse il suo DNA. I
grandi sceneggiatori si distinguono per lo stile peculiare della narrazione. Lo
stile non è soltanto inscindibile dalla loro visione ma, in modo profondo, è
la loro visione. Le scelte formali che compiono (numero dei protagonisti,
ritmo delle progressioni, livello del conflitto, organizzazioni temporali, e
tutto il resto) giocano a favore e contro le scelte sostanziali del contenuto
(ambientazione, personaggio, idea) fino a che tutti gli elementi si fondono in
un’unica sceneggiatura.
Se tuttavia mettiamo da parte per un istante il contenuto dei loro film e
studiamo solo l’intreccio degli eventi, vediamo che, come se si trattasse di
una “sagoma prodotta senza matrice”, l’originalità della forma delle loro
storie è fortemente carica di significato. La selezione e la collocazione degli
eventi operate dal narratore costituiscono la metafora centrale che collega tra
loro tutti i livelli della realtà: il personale, il politico, l’ambientale e lo
spirituale. Spogliata della superficie fatta di caratterizzazioni e ambientazioni,
la struttura della storia rivela la cosmologia personale dello sceneggiatore, la
sua comprensione più profonda del perché e del come succedono le cose in
questo mondo. La sua mappa per esplorare l’ordine nascosto dell’esistenza.
Non importa quali siano i vostri eroi - Woody Allen, David Mamet,
Quentin Tarantino, Ruth Prawer Jhabvala, Oliver Stone, William Goldman,
Zhang Yimou, Nora Ephron, Spike Lee, Stanley Kubrick - voi li ammirate
perché sono unici. Ciascuno di loro è emerso dalla massa perché ciascuno di
loro seleziona un contenuto e disegna una forma come nessun altro sa fare.
Poi li abbina in uno stile che è indubbiamente personale. Voglio che la stessa
cosa accada anche a voi.
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Ma la mia speranza nei vostri confronti va oltre la competenza e le
capacità. Io ho fame di grandi film. Nel corso degli ultimi trent’anni ho visto
alcuni buoni film e pochissimi ottimi film, ma raramente un film di potenza
e bellezza sconvolgenti. Può darsi che dipenda da me, può darsi che io mi sia
stancato. Ma non penso. Credo ancora che l’arte trasformi la vita.
Ma so che se voi non sarete capaci di suonare tutti gli strumenti
dell’orchestra della scrittura, non importa quale storia possiate avere nella
vostra fantasia, sarete condannati a fischiettare il solito vecchio motivetto.
Ho scritto Story per rendervi padroni di quest’arte. Per liberarvi affinché
possiate esprimere una visione originale della vita. Per innalzare il vostro
talento oltre la convenzione. E per creare film che abbiano una sostanza, una
struttura e uno stile che vi rappresentino.
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Il problema della storia
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Il declino della storia
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Oggi il mondo divora film, romanzi, teatro e televisione in quantità tali e
con tale ingordigia che le arti narrative sono diventate la fonte primaria di
ispirazione dell’umanità alla ricerca di un ordine nel caos e di uno sguardo
più profondo sulla vita. La nostra fame di storie riflette il profondo bisogno
umano di afferrare i significati dell’esistenza, non semplicemente come
esercizio intellettuale, ma all’interno di un’esperienza emozionale molto
personale. Come dice il commediografo Jean Anouilh “la finzione conferisce
forma alla vita”.
C’è chi considera questo desiderio di storie semplice intrattenimento, una
fuga dalla vita piuttosto che una sua esplorazione. Ma cos’è, dopotutto,
l’intrattenimento? Essere intrattenuti significa essere immersi nella cerimonia
della storia fino a un finale soddisfacente a livello intellettuale ed emotivo.
Per il pubblico cinematografico l’intrattenimento è il rituale di restare seduti
al buio e concentrati sullo schermo per sperimentare il significato della
storia. Poi una volta che il significato viene penetrato il pubblico prova
l’insorgere di emozioni forti, a volte persino dolorose, che vengono
totalmente soddisfatte quando il significato viene approfondito.
Che si tratti del trionfo di imprenditori pazzi contro i demoni ittiti in
Ghostbusters o del complesso dissolvimento dei demoni interiori in Shine;
dell’integrazione del personaggio ne Il deserto rosso o della sua
disintegrazione ne La conversazione, ogni bel film, romanzo o commedia,
attraverso le varie sfumature di comico e tragico, intrattiene il pubblico se gli
fornisce un modello originale di vita arricchito di un significato affettivo. Se
l’artista si nasconde dietro l’idea che il pubblico vuole semplicemente
scaricare tutti i propri guai all’ingresso della sala cinematografica e sfuggire
alla realtà, non fa altro che allontanarsi vigliaccamente dalle proprie
responsabilità. La storia non è una fuga dalla realtà, ma un veicolo che ci
conduce nella nostra ricerca della realtà. È il nostro massimo sforzo per dare
un significato all’anarchia dell’esistenza.
E tuttavia, mentre l’impatto dei mass media si estende sempre più e ci
offre ormai l’opportunità di inviare storie a centinaia di milioni di persone,
superando confini e lingue, la qualità complessiva della narrazione va
diminuendo. Ogni tanto leggiamo o assistiamo a lavori eccellenti, ma nella
stragrande maggioranza dei casi ci affatichiamo a ricercare qualcosa di
qualità nelle pubblicità, nei videoshop, tra i programmi televisivi. Oppure
abbandoniamo romanzi letti a metà o usciamo di soppiatto durante gli
intervalli dai teatri. Oppure ci allontaniamo dalle sale cinematografiche
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consolandoci con un: «Certo, però, la fotografia era stupenda...». L’arte
narrativa è in declino e come aveva osservato Aristotele ventitré secoli fa,
quando la narrazione non funziona più, il risultato è la decadenza.
Una narrazione debole e falsa sta prendendo il posto di uno spettacolo
fatto di sostanza. L’inganno si sostituisce alla verità. Storie fragili, che
vogliono disperatamente fermare l’attenzione del pubblico, degenerano in
disoneste pellicole esibizioniste da svariati milioni di dollari. A Hollywood le
immagini diventano sempre più stravaganti, in Europa sempre più
decorative. Il comportamento degli attori diventa sempre più istrionico,
sempre più lascivo, sempre più violento. Gli effetti musicali e sonori si
fanno sempre più tumultuosi. L’effetto complessivo scade nel grottesco. Una
cultura non può evolversi senza una narrazione onesta e possente.
Una cultura finisce con il degenerare quando vive in continuazione
pseudo storie patinate e vuote. Abbiamo bisogno di storie satiriche e tragedie
vere, di drammi e commedie che facciano luce sugli oscuri recessi della
psiche umana e della società. Altrimenti, come avvertì Yeats, “le cose cadono
a pezzi, il centro non può tenere”.
Ogni anno Hollywood produce e/o distribuisce tra i 400 e i 500 film, più
di uno al giorno. Alcuni sono eccellenti, ma la maggior parte sono mediocri,
se non peggio. La tentazione è quella di attribuire questo eccesso di banalità
ai personaggi che approvano le produzioni. Ma ricordiamoci una scena del
film I protagonisti: il giovane produttore di Hollywood, interpretato da Tim
Robbins, spiega di avere tanti nemici perché ogni anno il suo studio accetta
oltre ventimila storie, ma realizza soltanto dodici film. È un esempio di
dialogo realistico: gli “story department” dei principali studios leggono
migliaia e migliaia di copioni, trattamenti, romanzi e commedie alla ricerca di
una bella storia per lo schermo. O, più probabilmente, di qualcosa che si
avvicini al bello e che possano poi trasformare in una storia al di sopra della
media.
Già negli anni Novanta gli investimenti di Hollywood per lo sviluppo
delle sceneggiature avevano superato i 500 milioni di dollari l’anno, tre
quarti dei quali pagati a sceneggiatori per opzioni o riscritture di film mai
realizzati. Nonostante il mezzo miliardo di dollari e gli sforzi continui del
personale addetto allo sviluppo delle storie, Hollywood non riesce a scovare
materiale migliore di quello che porta sullo schermo. La verità quasi
incredibile è che ciò che vediamo ogni anno al cinema è in effetti il frutto
delle cose più belle scritte negli ultimi anni.
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Eppure molti sceneggiatori non sono in grado di accettare questo fatto
fondamentale. Vivono ai limiti dell’illusione, convinti che Hollywood sia
cieca nei confronti del loro talento. Con poche eccezioni, il genio
misconosciuto è un mito. Le sceneggiature di prima qualità vengono
perlomeno scelte, se non addirittura realizzate. Per gli sceneggiatori in grado
di narrare una storia di qualità il mercato è fiorente, lo è sempre stato, e
sempre lo sarà. Hollywood detiene un solido business internazionale capace
di assorbire centinaia di film l’anno, e tanti ne vengono realizzati: la maggior
parte verrà distribuita, proiettata per alcune settimane, ritirata e pietosamente
dimenticata.
Malgrado questo, però, non solo Hollywood sopravvive, ma addirittura
fiorisce. Perché in effetti non ha concorrenza. Non è stato sempre così. Dalla
nascita del Neorealismo all’alta marea della Nouvelle Vague, le sale
nordamericane erano piene di opere realizzate da brillanti cineasti europei
che sfidavano il predominio di Hollywood. Ma con la morte o l’andata in
pensione di questi maestri, gli ultimi trentacinque anni hanno visto un lento
decadimento della qualità dei film provenienti dal Vecchio Continente.
Ai nostri giorni gli autori europei danno la colpa del proprio fallimento e
della propria incapacità di attrarre il pubblico a un complotto dei distributori.
Eppure i film dei loro predecessori - Renoir, Bergman, Fellini, Buñuel,
Wajda, Clouzot, Antonioni, Resnais - venivano proiettati in tutto il mondo. Il
sistema non è cambiato. Il pubblico disponibile a vedere film non
hollywoodiani è ancora vasto e fedele. I distributori hanno oggi la stessa
motivazione che avevano all’epoca: il denaro. Ciò che è cambiato è che gli
autori contemporanei non sono in grado di raccontare una storia con
l’efficacia degli autori della generazione precedente. Come dei pretenziosi
decoratori di interni realizzano film che colpiscono l’occhio e nient’altro. La
conseguenza è che la tempesta del genio europeo si è trasformata in una
palude di film aridi che lasciano a Hollywood un vuoto da riempire.
Le pellicole dell’Est, invece, viaggiano ormai in tutto il Nord America e
nel mondo. Commuovono e deliziano milioni di spettatori. Conquistano con
facilità l’attenzione internazionale per un’unica ragione: gli asiatici
raccontano storie magnifiche. Piuttosto che usare i distributori come capro
espiatorio, i cineasti non hollywoodiani farebbero bene a guardare verso
Oriente, dove gli artisti hanno la passione di raccontare le storie e la capacità
di farlo in modo splendido.
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La perdita del mestiere
L’arte narrativa è la forza culturale che predomina nel mondo. A sua volta
l’arte cinematografica ne è il mezzo espressivo prevalente. Il pubblico
mondiale è appassionato, però resta assetato di storie. Perché? Non per
carenza di sforzi. L’Ufficio Registrazione Copioni della Writers Guild of
America annota annualmente oltre 35.000 titoli. E sono solo quelli registrati.
In America ogni anno vengono proposte centinaia di migliaia di
sceneggiature, ma soltanto una manciata risulta essere di qualità. I motivi
sono molti, ma il principale è che oggi gli aspiranti sceneggiatori corrono alla
macchina da scrivere senza prima aver imparato il mestiere.
Se il vostro sogno fosse quello di comporre musica direste forse: «Ho
ascoltato tante sinfonie... so anche suonare il pianoforte... penso che ne
comporrò una nel fine settimana»?
No. Ma è proprio così che iniziano invece a lavorare molti sceneggiatori:
«Ho visto tanti film, alcuni belli altri brutti. In inglese avevo dieci... sono in
arrivo le vacanze...».
Se voleste comporre musica vi rechereste in conservatorio per studiare la
teoria e la pratica, concentrandovi sulla sinfonia. Dopo anni di studio
diligente abbinereste le vostre conoscenze alla vostra creatività, vi fareste
coraggio e vi cimentereste a comporre. Troppi sceneggiatori in difficoltà non
sospettano neanche che la creazione di una bella sceneggiatura è altrettanto
difficile della creazione di una sinfonia, e per certi versi anche di più. Infatti
mentre il compositore compone musica con la purezza matematica delle
note, noi ci immergiamo in quella caotica materia che va sotto il nome di
natura umana.
Il principiante si butta, contando solo sull’esperienza. Pensa che
l’esistenza vissuta e i film visti gli diano qualcosa da dire e anche il modo
per dirlo. L’esperienza, tuttavia, viene sopravvalutata. Certo noi vogliamo
sceneggiatori che non si nascondano alla vita, che vivano intensamente e
osservino da vicino la realtà. È una cosa vitale questa, ma non è mai
sufficiente. Per gran parte degli sceneggiatori la conoscenza acquisita tramite
letture e studio equivale o supera l’esperienza, soprattutto se l’esperienza non
è stata rielaborata. La chiave è l’autoconoscenza che si raggiunge sommando
alla vita delle profonde riflessioni sulle nostre reazioni alla vita stessa.
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Per quanto riguarda la tecnica ciò che il principiante pensa che sia la sua
competenza è semplicemente il fatto che ha assorbito inconsciamente gli
elementi della storia da ogni romanzo, film o commedia nel quale si è
imbattuto. Mentre scrive confronta il proprio lavoro, portato avanti per
tentativi ed errori, con un modello cui è pervenuto attraverso la somma di
letture e di spettacoli. Lo sceneggiatore non istruito definisce tutto questo
“istinto”, mentre si tratta semplicemente di un’abitudine, per di più
rigidamente limitante. Lo sceneggiatore non istruito imita il proprio prototipo
mentale. Oppure si immagina all’avanguardia e vi si ribella. Ma sia avanzare
alla cieca seguendo un insieme di nozioni inconsapevolmente radicate, sia
ribellarsi a queste nozioni, non produce in alcun modo una tecnica e
conduce a sceneggiature zeppe di cliché commerciali o da cinema d’essai.
Questa lotta tra due estremi è recente. Gli sceneggiatori del passato
apprendevano il proprio mestiere nel corso di decenni, attraverso studi
universitari oppure per conto proprio in biblioteca. Facevano esperienza a
teatro o scrivevano romanzi. Crescevano grazie all’apprendistato presso lo
“studio system” di Hollywood. Oppure combinavano fra loro questi vari
elementi.
All’inizio del XX secolo numerose università americane cominciarono a
ritenere che, come i musicisti e i pittori, anche gli scrittori avessero bisogno
dell’equivalente di una scuola di musica o di belle arti per apprendere i
principi del loro mestiere. Studiosi come William Archer, Kenneth Rowe e
John Howard Lawson scrissero eccellenti libri sulla drammaturgia e la prosa.
Il loro era un metodo che nasceva dall’interno della narrazione e traeva la
propria forza da elementi potenti quali i desideri dei personaggi, le forze
dell’antagonismo, le svolte, la spina dorsale della storia, le sue progressioni,
le crisi e il suo climax: insomma, la storia vista dall’interno. Sceneggiatori e
scrittori capaci, con o senza una formazione scolastica, hanno usato questi
libri per sviluppare il proprio mestiere, trasformando il mezzo secolo che va
dai “ruggenti anni Venti” alle proteste degli anni Sessanta in un’epoca d’oro
della narrativa americana, sia cinematografica che letteraria e teatrale.
Però negli ultimi trentacinque anni il metodo con cui si insegna a scrivere
in modo creativo nelle università americane non è più interno alla storia. Le
mode della teoria letteraria hanno attratto i professori verso il linguaggio, i
codici e il testo, allontanandoli dalle fonti profonde della storia: insomma, la
storia vista dall’esterno. Di conseguenza, a parte alcune notevoli eccezioni,
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l’attuale generazione di sceneggiatori non è stata sufficientemente istruita
circa i principi basilari di una storia.
Fuori dagli Stati Uniti gli sceneggiatori hanno avuto ancor meno
possibilità di studiare il proprio mestiere. Quasi sempre gli accademici
europei negano la possibilità che la scrittura possa essere insegnata e, di
conseguenza, i corsi di scrittura creativa non hanno mai fatto parte dei
programmi delle università europee. L’Europa, naturalmente, finanzia molte
delle accademie d’arte e di musica più brillanti del mondo. È impossibile
dire perché si pensi che un’arte si possa insegnare e un’altra no. La cosa
peggiore è che, fino a poco tempo fa, la scarsa considerazione per l’arte della
sceneggiatura ha impedito che venisse studiata nelle scuole cinematografiche
europee, a eccezione di Mosca e Varsavia.
Molto si può dire contro il vecchio sistema degli studios hollywoodiani,
ma a suo merito andava senz’altro ascritto un metodo di apprendistato
supervisionato da story editor molto esperti. Quel tempo è passato. Di tanto
in tanto uno studio riscopre l’apprendistato; ma, nel suo zelo di riportare in
auge l’età dell’oro, si dimentica che un apprendista ha bisogno di un
maestro. I manager di oggi possono essere in grado di riconoscere l’abilità,
ma pochi hanno la capacità o la pazienza di trasformare uno sceneggiatore di
talento in un artista.
La causa ultima del declino delle storie è molto profonda. La nostra arte
si basa sui valori, cioè sulle cariche positive e negative dell’esistenza. Uno
sceneggiatore scrive la sua storia seguendo la percezione di ciò per cui vale
la pena vivere e morire, cosa è sciocco perseguire, qual è il significato della
giustizia e della verità: cioè i valori essenziali. Nei decenni scorsi lo
sceneggiatore e la società erano più o meno d’accordo su questi temi, ma la
nostra epoca è diventata sempre più un’epoca di cinismo morale ed etico, di
relativismo e soggettivismo, di una grande confusione di valori. Chi, per
esempio, sente di comprendere la natura dell’amore, mentre la famiglia si
disintegra e crescono gli antagonismi fra i sessi? E anche se un autore ha
delle convinzioni, come fa a esprimerle di fronte a un pubblico sempre più
scettico?
Questa crisi di valori ha comportato un parallelo impoverimento delle
storie. Diversamente dagli sceneggiatori di un tempo noi non possiamo dare
nulla per scontato. Per prima cosa dobbiamo scavare in profondità nella vita
per scoprire nuove intuizioni, nuove elaborazioni di valore e di significato, e
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solo dopo possiamo tentare di creare un veicolo per la storia che esprima, a
un mondo sempre più agnostico, la nostra visione. Non è un compito facile.
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L’imperativo di una storia
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cavarsela. Le didascalie sono piene di indicazioni per la cinepresa,
spiegazioni sul sottotesto e digressioni filosofiche. Il testo non è neanche
battuto nel formato adatto. Si tratta ovviamente di uno sceneggiatore
dilettante. BOCCIATO.
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rispecchiano fedelmente il loro autore e mettono a nudo la sua umanità... o
la sua assenza di umanità. In confronto a questa cosa terrificante scrivere un
dialogo è un gradevole diversivo.
Così lo scrittore abbraccia questo principio: racconta una storia... e poi si
paralizza. Perché, che cos’è una storia? Una storia funziona un po’ come la
musica. È una vita che ascoltiamo motivi musicali. Possiamo anche ballarli e
cantarli. Pensiamo di sapere la musica fino al momento in cui tentiamo di
comporla... e ciò che esce dal nostro pianoforte fa drizzare il pelo al nostro
gatto.
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stesso modo, da Omero a Ingmar Bergman, la forma universale della storia
fa di un’opera una storia e non un ritratto o un collage. In tutte le culture e in
tutte le epoche questa forma innata è stata applicata in modo diverso infinite
volte ma è rimasta immutata.
Però forma non significa “formula”. Non esiste, cioè, una ricetta per
scrivere sceneggiature che vi garantirà la lievitazione del vostro dolce. La
storia è troppo ricca di mistero, complessità e flessibilità per poter essere
ridotta a una formula. Solo uno sciocco ci proverebbe. Uno sceneggiatore
deve invece comprendere la forma della storia. A questo non si sfugge.
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Una buona storia ben raccontata
“Una buona storia” vuol dire una cosa che vale la pena di essere narrata e
che il mondo vuole ascoltare. Trovarla è il tuo solo obiettivo. Ha inizio con il
talento. Dovete essere nati con la capacità creativa di combinare le cose in un
modo che nessuno si è mai sognato di fare prima. Inoltre dovete dare
all’opera una visione mossa da approfondimenti originali sulla natura umana
e sulla società, uniti a una conoscenza approfondita dei vostri personaggi e
del vostro mondo. Tutto questo... e (come rivelano Hallie e Whit Burnett
nel loro eccellente libro Fiction Writer's Handbook) tanto amore.
Amore per la storia: la convinzione che la vostra visione delle cose possa
esprimersi solo attraverso la storia; che i personaggi possano essere più
“veri” della gente stessa; che il mondo della narrazione sia più profondo di
quello reale. Amore per la teatralità: la passione per le improvvise rivelazioni
e le sorprese che producono grandi cambiamenti nella vita. Amore per la
verità: la convinzione che le menzogne danneggino l’artista e che ogni verità
nella vita debba essere messa in dubbio, fino a giungere alle motivazioni più
nascoste. Amore per l’umanità: la disponibilità a immedesimarsi con le
anime che soffrono, a insinuarsi sotto la loro pelle e vedere il mondo con i
loro occhi. Amore per le sensazioni: il desiderio di abbandonarsi non solo ai
sensi fisici, ma anche alle sensazioni più intime. Amore per il sogno: il
piacere di intraprendere viaggi oziosi con la propria immaginazione solo per
vedere dove ci porta. Amore per l’umorismo: il piacere di quello stato di
grazia che rimette in equilibrio la vita. Amore per il linguaggio: la delizia
provata nel suono e nel significato, nella sintassi e nella semantica. Amore
per il dualismo: la percezione delle contraddizioni nascoste della vita; il
salutare sospetto che le cose non sono mai ciò che sembrano. Amore per la
perfezione: la passione di scrivere e riscrivere, alla ricerca del momento
perfetto. Amore per l’unicità: l’eccitazione dell’audacia e la calma glaciale
quando viene ridicolizzata. Amore per la bellezza: un senso innato che sa
apprezzare la buona scrittura, odia la cattiva scrittura, e sa riconoscere la
differenza. Amore per sé: una forza che non ha bisogno di continue
rassicurazioni e che non vi fa mai dubitare che siete uno sceneggiatore.
Amare la scrittura e sopportare la solitudine.
Ma anche l’amore per una buona storia, per personaggi stupendi e per un
mondo mosso dalla vostra passione, dal vostro coraggio e dai vostri doni
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creativi, non è ancora sufficiente. Il vostro obiettivo deve essere una buona
storia ben raccontata.
Come un compositore deve eccellere nei principi della composizione
musicale, così dovete padroneggiare i corrispondenti principi della
composizione di una storia. Quest’arte non è fatta né di meccanismi né di
trucchi. È l’insieme di tecniche con le quali creiamo un’unione profonda fra
noi e il pubblico. Il mestiere è la somma totale di tutti i mezzi usati per
coinvolgere il pubblico, per mantenerlo coinvolto e infine per
ricompensarlo. Regalandogli un’esperienza commovente e ricca di
significato.
Senza mestiere uno sceneggiatore può al massimo acchiappare al volo la
prima idea che gli viene in mente. Poi resterà impotente di fronte alla propria
idea, incapace di rispondere alle terribili domande: è buona? È una
schifezza? Se è una schifezza, che faccio? La mente consapevole,
ossessionata da queste terribili domande, blocca il subconscio. Ma quando la
mente consapevole si applica in modo concreto usando il mestiere, allora
affiora l’elemento spontaneo. Padroneggiare il mestiere significa liberare il
subconscio.
Qual è il ritmo della giornata di uno sceneggiatore? Per prima cosa
entrate nel vostro mondo immaginario. Mentre i personaggi parlano e
agiscono, voi scrivete. E qual è la cosa successiva da fare? Uscite dalla
vostra fantasia e leggete ciò che avete scritto. E cosa fate mentre leggete?
Analizzate: è buono? Funziona? Perché non funziona? Devo tagliare?
Aggiungere? Mettere in ordine? Scrivete e leggete; create e criticate; impulso
e logica; emisfero destro ed emisfero sinistro; immaginate di nuovo e
riscrivete. La qualità delle vostre riscritture e la possibilità della perfezione
dipendono dal vostro padroneggiare il mestiere. Ed è ciò che vi guida a
correggere le imperfezioni. Un artista non è mai alla mercé di impulsi
capricciosi; esercita consapevolmente il proprio mestiere per dare vita ad
armonie fatte di istinto e idee.
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Storia e vita
Nel corso degli anni ho potuto osservare due tipi specifici e ricorrenti di
sceneggiatura fallita.
Il primo è quello della sceneggiatura brutta della serie “storia personale”.
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come-la-conosciamo-oggi è piuttosto piccola. In effetti è nascosta
all’interno di una penna a sfera, inavvertitamente finita nella tasca dello
sfortunato protagonista. Che diventa così l’obiettivo di un cast di una
trentina di personaggi, tutti con doppie o triple identità, tutti con
esperienze di lavoro dall’una e dall’altra parte della “cortina di ferro”,
tutti che si conoscono fra loro dai tempi della “guerra fredda”, tutti che
tentano ora di ammazzare questo tizio. La sceneggiatura è piena di
inseguimenti in macchina, di sparatorie, esplosioni e fughe da far rizzare i
capelli. Quando non salta in aria nulla o non viene mitragliato nessuno, la
sceneggiatura si blocca su scene dense di dialogo, in cui l’eroe cerca di
raccapezzarsi in mezzo a tutti questi personaggi doppi per scoprire di chi si
può fidare. Il tutto termina con una cacofonia di violenze e di effetti
speciali da molti milioni di dollari, durante i quali l’eroe riesce a
distruggere la-cosa-che-metterà-fine-alla-civiltà-così-come-la-conosciamo-
oggi e così salva l’umanità.
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olocausti futuristici. E, badate bene, questi spettacoli da sarabanda possono
effettivamente procurare un sacco di eccitazione. Ma, proprio come avviene
in un parco dei divertimenti, i loro piaceri sono di breve durata. E la storia
del cinema continua a dimostrare che, non appena divenute popolari, le
nuove emozioni di pura azione affondano in un’apatia fatta di frasi del tipo
«Già visto, già fatto».
Più o meno ogni dieci anni le innovazioni tecnologiche producono una
messe di film raccontati male con l’unico scopo di sfruttare lo spettacolo.
L’invenzione stessa del cinema, una sorprendente simulazione della realtà,
determinò grande entusiasmo nel pubblico, seguito da anni di storie insulse.
Col tempo, tuttavia, il cinema muto si trasformò in una magnifica forma
artistica che venne poi distrutta dall’avvento del sonoro, e cioè da una
simulazione ancora più realistica della realtà. I film dei primi anni Trenta
fecero un passo indietro in quanto il pubblico si sottometteva
volontariamente a storie insipide per il piacere di sentir parlare gli attori. In
seguito il cinema sonoro migliorò notevolmente, per poi cedere il passo
all’invenzione del colore, del S-D, del Cinemascope, e ora alle Immagini
Generate al Computer, o CGI.
Le CGI non sono né una maledizione né una panacea. Aggiungono
semplicemente nuove sfumature alla tavolozza della storia. Grazie alle CGI
qualsiasi cosa immaginiamo può venir realizzata. E realizzata con sottile
soddisfazione. Quando le CGI sono giustificate da una storia forte, come
Forrest Gump o Men in Black, questi effetti scompaiono dietro la storia che
stanno narrando. Arricchiscono l’effetto senza richiamare l’attenzione su di
sé. Lo sceneggiatore “commerciale”, tuttavia, viene spesso abbagliato dalla
luce dello spettacolo e non riesce a capire che l’intrattenimento destinato a
durare nel tempo si trova solo nelle pregnanti verità umane collocate al di
sotto dell’immagine.
Gli sceneggiatori delle storie personali, quelli dei film spettacolari, e in
realtà tutti gli sceneggiatori, devono arrivare a comprendere il rapporto che
lega la storia alla vita: la storia è una metafora della vita.
Un narratore è un poeta della vita, un artista che trasforma la vita
quotidiana interiore ed esteriore, il sogno e la realtà, in una poesia dove versi
e rime sono gli eventi invece delle parole. Una metafora di due ore che dice:
la vita è così. Di conseguenza, una storia deve astrarsi abbastanza dalla vita
per scoprirne le essenze, senza però diventare un’astrazione che perda il
sapore della vita vissuta. Una storia deve essere come la vita, ma questo non
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significa che non debba avere altre profondità o significati oltre ciò che
appare ovvio a tutti.
Gli sceneggiatori di storie personali devono comprendere che i fatti sono
neutri. La giustificazione più debole per inserire qualunque cosa in una
storia è: «È successo veramente». Tutto succede; qualunque cosa
immaginabile succede. In realtà succede anche l’inimmaginabile. Ma una
storia non è la vita nella sua realtà. Il fatto che le cose avvengano di per sé
non ci avvicina alla verità. Ciò che avviene è un fatto, non la verità. La verità
è quello che noi pensiamo di quanto accade.
Prendiamo un insieme di fatti noti come “la vita di Giovanna d’Arco”.
Per secoli scrittori famosi hanno portato questa donna sul palcoscenico, sulle
pagine e sullo schermo. Ogni Giovanna è unica nel suo genere: c’è quella
spirituale di Anouilh, quella arguta di Shaw, la Giovanna politica di Brecht,
la Giovanna sofferente di Dreyer, la guerriera romantica di Hollywood. Nelle
mani di Shakespeare diventò Giovanna la pazza, un punto di vista
tipicamente britannico. Ogni Giovanna è ispirata da Dio, mette insieme un
esercito, sconfigge gli inglesi, viene bruciata sul rogo. I “fatti” di Giovanna
sono sempre gli stessi, ma cambiano i generi, mentre la “verità” della sua
vita attende che ogni sceneggiatore ne trovi il senso.
Gli sceneggiatori di film spettacolari, invece, devono comprendere che le
astrazioni sono neutre. Per astrazioni intendo strategie di disegno grafico,
effetti visivi, saturazione di colore, prospettive sonore, ritmo di montaggio, e
tutto il resto. Queste cose non hanno in sé e per sé alcun significato. Lo
stesso identico tipo di montaggio applicato a sei scene diverse porta a sei
interpretazioni completamente diverse. Nell’estetica del cinema i mezzi
tecnici esprimono il contenuto vivo della storia, però non devono mai
diventare fini a se stessi.
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Capacità e talenti
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comune della propria cultura per giungere a qualcosa di straordinario. Molti
scrivono splendidamente, alcuni in modo letterariamente magnifico.
Il secondo è il talento narrativo: la trasformazione creativa della vita
stessa in un’esperienza più possente, più chiara e più significativa. Questo
tipo di talento creativo cerca di rinvenire il paesaggio interiore della nostra
epoca e lo rimodella in una narrazione che arricchisce la vita. Un puro
talento di questo tipo è cosa rara. Quale sceneggiatore, basandosi sul solo
istinto, crea anno dopo anno delle storie narrate brillantemente e non pensa
neanche per un momento a come fa ciò che fa o a come potrebbe farlo
meglio? Il genio istintivo può produrre magari una volta un’opera di qualità,
ma il talento di ripetere la perfezione non nasce dalla spontaneità e
dall’istinto.
Il talento letterario e quello narrativo non sono soltanto molto differenti,
ma non hanno nessuna relazione tra loro. Le storie non hanno bisogno di
essere scritte per essere raccontate. Le storie possono essere espresse in tutti i
modi in cui gli esseri umani comunicano.
Teatro, prosa, cinema, opera, mimo, poesia, balletto: sono tutte forme
magnifiche del rituale della storia, ciascuna con i propri aspetti deliziosi. In
diversi momenti storici, tuttavia, una di queste forme ruba la scena. Nel
sedicesimo secolo fu la volta del teatro; nel diciannovesimo del romanzo, nel
ventesimo del cinema, grandioso concerto di tutte le arti. I momenti più forti
ed efficaci sullo schermo non richiedono descrizioni verbali per crearli o un
dialogo per interpretarli. Sono immagine pura e silenziosa. La materia del
talento letterario sono le parole. La materia del talento narrativo è la vita
stessa.
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Il mestiere valorizza il talento
Per quanto raro sia il talento narrativo, incontriamo spesso qualcuno che
sembra possederlo in modo innato: narratori improvvisati per i quali
raccontare è facile quanto sorridere.
Una narrazione può iniziare, per esempio, quando dei colleghi vanno a
prendere un caffè. Il racconto rappresenta la moneta di scambio del contatto
umano. E in ogni mezza dozzina di anime che si radunano per questo rituale
a metà mattinata ce ne sarà sempre almeno una provvista di questo dono.
Supponiamo che questa mattina il nostro narratore sia una donna che
racconti agli amici la storia di: «Come ho messo i miei figli sul pulmino della
scuola». Come succede nel poema La ballata del vecchio marinaio di
Coleridge, lei riesce ad agganciare l’attenzione di tutti. Li attira nel suo
incantesimo e li tiene con la bocca aperta davanti alla tazzina di caffè.
Sviluppa il proprio racconto, li interessa, li rilassa, li fa ridere, magari
piangere. E li tiene tutti in sospeso prima di ripagarli con un’esplosiva ultima
scena: «Ed è così che stamattina ho messo quei mocciosi sul pulmino». I
suoi colleghi si rilassano soddisfatti mormorando: «Oddio sì, Ellen, i miei
figli sono proprio così».
Supponiamo adesso che la narrazione passi alla persona accanto a lei che
comincia a raccontare agli altri l’accorata storia di come le è morta la madre
durante un weekend... facendo venire il latte alle ginocchia a tutti. La sua
storia rimane in superficie, è un continuo vagare tra cliché e dettagli banali:
«Era così bella nella sua bara». A metà di questo racconto il resto dei
colleghi torna alla macchina del caffè per prendere un’altra tazzina, facendo
orecchie da mercante al suo racconto di dolore.
Potendo scegliere tra materiale banale raccontato in modo brillante e
materiale profondo raccontato male, il pubblico sceglierà sempre quello
banale raccontato brillantemente. I maestri narratori sanno come spremere
vita dalla più banale delle cose, mentre i narratori scadenti riducono a
banalità le cose più profonde. Potete avere l’intuito illuminato di un Buddha,
ma se non sapete narrare le vostre idee diventeranno aride come gesso.
Il talento narrativo è primario, il talento letterario è secondario ma
essenziale. Questo principio vale in modo assoluto nel cinema e nella
televisione. Ma anche per il palcoscenico e la letteratura è più vero di quanto
molti romanzieri e commediografi siano pronti a riconoscere. Per quanto
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raro sia il talento narrativo dovete avercene un po’, altrimenti non vi
pruderebbero le mani per la voglia di scrivere. Il vostro compito è di
spremere tutta la creatività possibile. Solo usando tutto ciò che sapete sul
mestiere di raccontare storie potrete fare sì che il vostro talento forgi una
storia. Infatti il talento senza mestiere è come il carburante senza motore.
Brucia molto ma non combina niente.
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Parte II
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GLI ELEMENTI DELLA STORIA
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Le parti della struttura
Partendo dal livello più profondo, potreste ambientare la storia nella vita
interiore del protagonista e narrarla per intero dall’interno dei suoi pensieri e
sentimenti, sia in stato di veglia che di sonno. O potreste invece passare al
livello del conflitto personale fra il protagonista e la sua famiglia, i suoi
amici, i suoi amanti. Oppure ampliare la narrazione alle istituzioni sociali,
ponendo il personaggio in contrasto con la scuola, il mondo del lavoro, la
chiesa o il sistema giudiziario. Ampliando sempre di più, potreste porre il
personaggio a confronto con l’ambiente: pericolose strade metropolitane,
malattie letali, macchine che non si mettono in moto, il tempo che sta per
scadere. Oppure una qualsiasi combinazione di tutti questi livelli.
Questa complessa portata della storia vissuta deve però diventare la
storia raccontata. Per progettare il disegno di un film a soggetto dovete
ridurre la massa ribollente e tumultuosa della storia esistenziale a due sole
orette che esprimano anche tutto ciò che avete dovuto lasciare fuori. E non è
forse questo l’effetto quando una storia è ben raccontata? Quando gli amici
vi raccontano di aver visto un film e voi chiedete loro di che parlava, avete
notato che spesso narrano la storia raccontata come se fosse all’interno
della storia esistenziale?
«È favoloso! Parla di un tizio allevato in una fattoria di mezzadri. Da
bambino lavorava duramente con la sua famiglia sotto il sole cocente.
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Andava a scuola, ma non rendeva bene perché doveva alzarsi all’alba, per
strappare erbacce e zappare. Poi qualcuno gli ha dato una chitarra e lui ha
imparato a suonare e a comporre le proprie canzoni... Finalmente, stufo di
quella vita faticosissima, è scappato, vivendo alla giornata e suonando in bar
di infimo ordine. Poi ha incontrato una bella ragazza con una gran voce. Si
sono innamorati, hanno fatto coppia e - bang - le loro carriere sono
decollate. Il problema, però, è che l’attenzione era sempre su di lei. Lui
scriveva le loro canzoni, faceva gli arrangiamenti, la sosteneva, ma la gente
veniva solo per vedere lei. Vivendo all’ombra di lei, lui si mette così a bere.
Alla fine lei lo caccia, lui si ritrova di nuovo per strada e ben presto finisce
in fondo al baratro. Si sveglia in un motel da quattro soldi in una polverosa
cittadina del Midwest al centro del nulla; senza un soldo, senza un amico,
ubriaco perso, senza neanche una monetina per telefonare, ma tanto, anche
se ne avesse avuta una, non avrebbe saputo chi chiamare».
In altre parole, si tratta di Tender Mercies - Un tenero ringraziamento
raccontato dall’inizio. Ma niente di tutto questo è nel film. Tender Mercies
comincia con Mac Sledge, interpretato da Robert Duvall, che una mattina si
sveglia in fondo al baratro. Le due ore di film coprono l’anno successivo
nella vita di Sledge. Eppure nelle scene e fra le scene noi veniamo a sapere
tutto del suo passato e ogni cosa significativa successa a Sledge quell’anno,
finché l’ultima immagine ci fornisce una visione del suo futuro. La vita di un
uomo, virtualmente dalla nascita alla morte, viene catturata fra la dissolvenza
in apertura e la dissolvenza in chiusura della sceneggiatura, vincitrice di un
Oscar, scritta da Horton Foote.
La struttura
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o di attività, di personalità o di emozioni, di dialoghi arguti o di simboli. Ciò
che lo sceneggiatore cerca sono gli eventi. Un evento contiene tutto quanto
detto sopra e anche di più.
L’evento
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Un EVENTO DELLA STORIA crea nella situazione esistenziale del
personaggio un cambiamento significativo che viene espresso e vissuto nei
termini di un valore.
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Un evento della storia crea un cambiamento significativo nella
situazione esistenziale di un personaggio. Questo cambiamento viene
espresso e vissuto in termini di valore e OTTENUTO ATTRAVERSO IL
CONFLITTO.
La scena
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Esaminate attentamente ogni scena che avete scritto e chiedetevi: quale
valore è in gioco nella vita del mio personaggio in questo momento?
L’amore? La verità? Cosa? Che carica ha quel valore all’inizio della scena?
Positivo? Negativo? Un po’ di entrambi? Annotatevi la risposta. Poi passate
alla fine della scena e chiedetevi: dov’è ora questo valore? Sul positivo? Sul
negativo? Su entrambi? Annotate la risposta e raffrontate. Se la risposta che
avete scritto alla fine della scena è la stessa che avevate segnato all’inizio
dovete a questo punto farvi un’altra domanda importante: che ci sta a fare
questa scena nel mio copione? Se la condizione esistenziale del personaggio
con la sua carica di valore rimane immutata dall’inizio alla fine di una scena
vuol dire che non succede niente di significativo. La scena contiene delle
attività - si parla, si fanno cose - ma nulla cambia di valore. È un non-
evento.
Perché allora questa scena sta nella storia? La risposta è quasi certamente
“a scopo di esposizione”. Sta lì per soddisfare il pubblico curioso di origliare
informazioni circa i personaggi e il loro mondo oppure la storia. Se
l’esposizione di informazioni è l’unica giustificazione per la presenza di una
scena uno sceneggiatore disciplinato la straccerà e inserirà quelle
informazioni in qualche altra parte nel film.
Nessuna scena senza una svolta: questo è il nostro ideale. Noi lavoriamo
affinché ogni scena completa modifichi il valore in gioco nella vita del
personaggio e lo sposti cioè da un polo all’altro, o viceversa. Aderire a
questo principio può essere difficile, ma non è affatto impossibile.
È chiaro che Die Hard - Trappola di cristallo, Il fuggitivo e Cane di
paglia superano la prova, ma questo ideale viene preservato in modi più
sottili e per nulla meno rigorosi anche in Quel che resta del giorno e Turista
per caso. La differenza è che i film d’azione sono imperniati su valori
sociali, per esempio libertà/schiavitù o giustizia/ingiustizia; mentre il genere
dei film educativi ruota su valori interiori quali
autoconsapevolezza/autoinganno, oppure valori esistenziali come pieno di
senso/privo di senso. Indipendentemente dal genere nel quale si opera, il
principio è universale: se in una scena non c’è un vero evento, va eliminata.
Per esempio:
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frettolosamente la colazione. Lo scontro diventa più duro in garage, mentre
salgono in macchina per andare al lavoro. Alla fine, in autostrada, le
parole si trasformano in violenza. Andy accosta bruscamente l’auto, esce
di scatto e mette fine alla loro relazione. Questa serie di azioni e location
crea una scena: porta la coppia dal positivo (innamorati e insieme) al
negativo (odio e separazione).
Il beat
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All’interno della scena è contenuto l’elemento più piccolo della struttura, il
beat. (Da non confondersi con [beat], un’indicazione posta all’interno della
colonna del dialogo e che significa “breve pausa”).
Esaminiamo più da vicino la scena della “rottura fra gli amanti”: allo
scattare della sveglia Chris stuzzica Andy e lui reagisce comportandosi nello
stesso modo. Mentre si vestono, dallo stuzzicarsi passano al sarcasmo e
cominciano a insultarsi a vicenda. In cucina, Chris dice: «Se io ti lasciassi,
bimbo, andresti in pezzi...». Ma lui vede il bluff di lei e risponde con un
«Adorerei andare in pezzi». In garage Chris, timorosa di perderlo, supplica
Andy di rimanere, ma lui ride e si beffa della sua supplica. Alla fine,
nell’auto in corsa, Chris colpisce Andy con un pugno. Una lotta, uno stridio
di freni. Andy salta fuori dalla macchina col naso sanguinante, sbatte la
portiera e urla: «È finita», lasciandola annichilita.
Questa scena è imperniata su sei beat, sei comportamenti ben distinti, sei
netti cambiamenti di azione/reazione: lo stuzzicarsi a vicenda, seguito da una
reciproca serie di insulti, dalla minaccia e dalla sfida reciproca, dalla supplica
e dalla beffa per finire con le violenze che conducono all’ultimo beat e alla
svolta: la decisione e l’azione di Andy, che pongono fine al rapporto, e lo
stordimento di Chris.
La sequenza
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Una SEQUENZA è una serie di scene - generalmente da due a cinque -
che culmina con un impatto maggiore di quello di qualsiasi scena
precedente.
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SCENA DUE: SOTTO LA PENSILINA DELL’ALBERGO. Lampi, tuoni,
pioggia battente. Poiché Barbara è una provinciale non sa che avrebbe
dovuto dare al suo arrivo
cinque dollari di mancia al portiere per non ritrovarsi ora sotto il
temporale, senza nessuna possibilità di fermare un taxi. E poi, quando
piove, a New York i taxi non esistono. Allora prende a studiare la mappa
turistica della città riflettendo sul da farsi. Si rende conto che, anche se
corresse dall’Ottantesima West passando per Central Park West fino alla
Cinquantanovesima, oltre Central Park South fino a Park Avenue per finire
poi sull’Ottantesima East, non arriverebbe mai in tempo per il party.
Decide così di fare una cosa altamente sconsigliabile: attraversare Central
Park di notte. Questa scena assume ora un nuovo valore: vita/morte.
Si copre i capelli con un giornale e si immerge nella notte sfidando la
morte (negativo). Il flash di un lampo e - d’un tratto - è circondata da
quella gang che sta sempre lì in agguato, che piova o meno, in attesa degli
sciocchi che attraversano il parco di notte. Ma le sue lezioni di karate non
vanno sprecate: si apre un varco a calci, spezzando mascelle, spargendo
denti sul cemento, finché riesce, barcollando, a uscire viva dal parco
(positivo).
SCENA TRE: UN INGRESSO RICOPERTO DI SPECCHI IN UN
LUSSUOSO CONDOMINIO DI PARK AVENUE. Il valore in gioco diventa
adesso: successo/fallimento sociale. Lei è sopravvissuta. Ma poi si guarda
allo specchio e vede l’immagine di un topo affogato: pezzetti di giornale
nei capelli; sangue su tutto il vestito: quello dei teppisti, ma pur sempre
sangue. La fiducia in se stessa tracolla fino a farla piegare sotto il peso
della sconfitta personale (negativo), schiacciata dal proprio disastro
sociale (negativo).
Si accostano vari taxi con a bordo gli altri aspiranti al posto. Tutti
hanno trovato un taxi; scendono e hanno tutti il tipico aspetto chic di New
York. Provano pena per la povera perdente del Midwest e la spingono
dentro l’ascensore. Su nell’attico le asciugano i capelli e le rimediano dei
vestiti: proprio per via del suo aspetto, l’attenzione rimane concentrata su
di lei tutta la sera. Sapendo di non avere più nulla da perdere, Barbara si
rilassa, diventa spontanea, e dal profondo del suo intimo affiora un
coraggio che non aveva mai saputo di avere; non solo racconta loro del
suo scontro nel parco, ma ci scherza anche su. Le bocche degli astanti si
spalancano per le risate e l’ammirazione. A fine serata i dirigenti sanno
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esattamente chi desiderano per quell’incarico: una che sa uscire da
quell’esperienza terrorizzante nel parco mostrando una simile freddezza è
chiaramente la persona adatta per loro. La festa termina con il suo trionfo
personale e sociale in quanto si aggiudica il posto di lavoro (doppio
positivo).
L’atto
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Un ATTO è una serie di sequenze che culmina in una scena saliente, la
quale determina una fondamentale inversione di valori il cui impatto è più
potente di qualsiasi altra scena o sequenza precedente.
La storia
Una serie di atti costituisce la struttura più ampia di tutte: la storia. Una storia
è semplicemente un unico ed enorme evento principale. Se si osserva la
situazione esistenziale del personaggio con la sua carica di valori all’inizio
della storia, e la si raffronta con i valori di cui è caricata alla fine della storia,
si dovrebbe delineare l’arco del film: l’enorme cambiamento che prende vita
a partire da una condizione iniziale e che conduce a una condizione finale
modificata. Questa condizione finale, questo cambiamento finale, deve
essere assoluto e irreversibile.
Il cambiamento provocato da una scena può essere ribaltato: gli amanti
dell’esempio precedente potrebbero rimettersi insieme: la gente si innamora
e disinnamora in continuazione, ogni giorno. Anche una sequenza può
essere ribaltata: la manager del Midwest potrebbe ottenere il posto, scoprire
poi di dover lavorare per un capo che odia e voler quindi ritornare in
provincia. Anche il climax di un atto può essere ribaltato: un personaggio
potrebbe morire, come nel climax del secondo atto di E.T., e poi tornare in
vita.
Perché no? In un ospedale moderno, resuscitare i morti è cosa
quotidiana. E così, attraverso scene, sequenze, atti, lo sceneggiatore crea
cambiamenti di varia entità (minore, moderata e fondamentale), ma è
possibile che ciascuna di queste modifiche venga ribaltata. Non è così per il
climax dell’ultimo atto.
CLIMAX DELLA STORIA: una storia è una serie di atti che portano al
climax dell’ultimo atto, detto anche climax della storia, il quale determina
un cambiamento assoluto e irreversibile.
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le condizioni per il cambiamento. Lasciate che i vostri beat costruiscano le
scene, le scene costruiscano le sequenze, le sequenze gli atti, e che gli atti
portino la storia fino al proprio climax.
Le scene che modificano la vita della provinciale portandola dalla
sfiducia in sé alla fiducia in sé, dal pericolo alla sopravvivenza, dal disastro
sociale al successo, si combinano in una sequenza che la porta dal non avere
lavoro all’avere lavoro. Se vogliamo far compiere alla narrazione un arco
fino al climax della storia questa sequenza iniziale potrebbe costituire la base
di una serie di sequenze che conducono la protagonista dal non avere lavoro
a presidente della corporation al climax del primo atto. Il climax del primo
atto mette poi in moto un secondo atto in cui lotte aziendali intestine
determinano il tradimento da parte di amici e colleghi. Nel climax del
secondo atto lei viene licenziata dal Consiglio di Amministrazione e si ritrova
in mezzo a una strada. Questo fondamentale ribaltamento la spinge verso
un’azienda rivale dove, armata dei segreti aziendali appresi quando era
presidente, raggiunge nuovamente il vertice e può così divertirsi a
distruggere i suoi precedenti datori di lavoro. Tutti questi atti la trasformano
dalla giovane professionista, ottimista, onesta e amante del lavoro che era
all’inizio del film, nella spietata, cinica e corrotta veterana di guerre fra
multinazionali alla fine del film - cambiamento, questo, assoluto e
irreversibile.
Tra gli intellettuali “trama” è diventata una parolaccia, che viene usata solo
per prodotti mercificati di autori non ispirati. A rimetterci siamo noi in
quanto trama è un termine preciso che definisce quella struttura di eventi, tra
loro interconnessi e internamente coerenti, che si snodano nel tempo per
configurare e disegnare una storia. Se è vero che non esiste un buon film
scritto senza momenti di ispirazione improvvisa, una sceneggiatura non è
mai solo una cosa accidentale. Il materiale che affiora a casaccio non può
restare tale. La scrittura dello sceneggiatore fa rivivere continuamente
l’ispirazione e fa sembrare che il film sia frutto di una spontaneità istintiva.
Ma l’autore sa, tuttavia, quanti sforzi e quanti artifici abbiano contribuito a
farlo sembrare così naturale e facile.
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Creare una TRAMA significa muoversi attraverso il pericoloso territorio
della storia e scegliere la via giusta quando ci si trova di fronte a decine di
possibili direzioni diverse. La trama è la scelta degli eventi e del loro
disegno nel tempo fatta dallo sceneggiatore.
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delicati fili dell’amore, della musica e dello spirito. Alla fine Sledge subisce
una tranquilla trasformazione e trova un’esistenza degna di essere vissuta.
Possiamo solo immaginare il sudore e le fatiche che Horton Foote ha
dovuto affrontare nel creare la trama di questo film così problematico!
Un unico passo falso, un’unica scena mancante, oppure una scena di
troppo, un minimo errore nella sequenza degli avvenimenti e, come un
castello di carte, lo stimolante viaggio interiore di Mac Sledge si sarebbe
ridotto a un ritratto senza profondità. Trama non significa, quindi, svolte e
cambiamenti vistosi o suspense ad alta tensione e sorprese scioccanti. Si
tratta, piuttosto, di selezionare gli eventi e di organizzare il loro ordine nello
sviluppo cronologico della storia. Se attribuiamo questo significato alla
composizione di tale disegno allora tutte le storie hanno una trama.
Anche se le variazioni del disegno degli eventi sono innumerevoli non sono
senza limiti. I punti estremi di quest’arte creano un triangolo di possibilità
formali che traccia la mappa dell’universo delle storie. All’interno di questo
triangolo risiedono tutte le cosmologie degli sceneggiatori, tutte le loro
molteplici visioni della realtà e di come la vita viene vissuta al suo interno.
Per comprendere la vostra collocazione in questo universo studiate le
coordinate di questa mappa confrontandole con il lavoro che state facendo.
Lasciate che vi guidino fino a un punto che condividete con altri
sceneggiatori che hanno una prospettiva analoga alla vostra.
Al vertice del triangolo si trovano i principi che costituiscono il Disegno
Classico. Questi principi sono “classici” nel senso più vero del termine:
atemporali e transculturali, fondamentali per qualsiasi società, civilizzata e
primitiva, e validi, andando a ritroso, per tutti i millenni di narrazione orale
fino a perdersi nell’oscurità dei tempi. Quando, quattromila anni fa, l’epopea
di Gilgamesh venne incisa in caratteri cuneiformi su dodici tavolette di
argilla per la prima volta la storia veniva convertita in parola scritta, già
allora i principi del Disegno Classico erano pienamente e meravigliosamente
operanti.
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principalmente esterne, in una continuità temporale all’interno di una
realtà immaginaria coerente e unita da nessi causali, fino a un finale
chiuso costituito da un cambiamento assoluto e irreversibile.
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insieme di variazioni antistrutturali non riduce il Disegno Classico, ma lo
ribalta. Ne contraddice le forme tradizionali per sfruttare, e forse mettere in
ridicolo, l’idea stessa di principio formale. Il creatore di antitrame è
raramente interessato a messaggi non espliciti o a un sereno rigore; anzi, per
render chiare le proprie ambizioni “rivoluzionarie”, i suoi film tendono a
essere stravaganti e volutamente esagerati.
La trama classica costituisce la carne, le patate, la pasta, il riso e il
couscous del mondo cinematografico. Nel corso degli ultimi cent’anni è stata
adottata dalla stragrande maggioranza dei film che hanno trovato una
audience internazionale. L’assalto al treno (USA/1904), Gli ultimi giorni di
Pompei (Italia/1913), Il gabinetto del Dottor Caligari (Germania/1920),
Rapacità (USA/1924), La corazzata Potemkin (Urss/1925), M - Il Mostro di
Düsseldorf (Germania/1931), Cappello a cilindro (USA/1935), La grande
illusione (Francia/1937), Susanna (USA/1938), Quarto potere (USA/1941),
Breve incontro (Gb/1945), I sette samurai (Giappone/1954), Marty, vita di
un timido (USA/1955), Il settimo sigillo (Svezia/1957), Lo spaccone
(USA/1961), 2001: Odissea nello spazio (USA/1968), Il padrino - Parte II
(Usa/1974), Dona Flor e i suoi due mariti (Brasile/1978), Un pesce di nome
Wanda (Gb/1988), Big (USA/1988), Ju Dou (Cina/1990), Thelma & Louise
(USA/1991), Quattro matrimoni e un funerale (Gb/1994), Shine
(Australia/1996) - basta citare alcuni titoli per rilevare l’impressionante
varietà di storie abbracciate dalla trama classica nel corso dei decenni.
La minitrama, anche se con meno variazioni, è altrettanto internazionale:
Nanuk l’eschimese (USA/1922), La passione di Giovanna d’Arco
(Francia/1928), Zero in condotta (Francia/1933), Paisà (Italia/1946), Il posto
delle fragole (Svezia/ 1957), La sala di musica (India/1964), Deserto rosso
(Italia/1964), Cinque pezzi facili (Usa/1970), Il ginocchio di Claire
(Francia/1970), L’impero dei sensi (Giappone/1976), Tender Mercies - Un
tenero ringraziamento (USA/1983), Paris, Texas (Germania
Occ./Francia/1984), Sacrificio (Svezia/Francia/1986), Pelle alla conquista
del mondo (Danimarca/1987), Il ladro di bambini (Italia/1992), In mezzo
scorre il fiume (USA/1993), Vivere (Cina/1994), E voglio danzare con te
(Giappone/1997). La minitrama comprende anche documentari narrativi,
come per esempio Welfare (USA/1975). Gli esempi di antitrama sono meno
comuni e di matrice soprattutto europea nel secondo dopoguerra: Un chien
andalou (Francia/1928), The Blood of a Poet (Francia/1932), Meshes of the
Afternoon (USA/1943), The Running, Jumping and Standing Still Film
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(Gb/1959), L’anno scorso a Marienbad (Francia/1960), 8 1/2 (Italia/1963),
Persona (Svezia/1966), Weekend (Francia/1967), Death by Hanging
(Giappone/1968), I clowns (Italia/1970), Monty Python (Gb/1975),
Quell’oscuro oggetto del desiderio (Francia/Spagna/1977), Il lenzuolo viola
(Gb/1980), Stranger Than Paradise - Più strano del paradiso (USA/1984),
Fuori orario (USA/1985), Lo zoo di Venere (Gb/Olanda/1985), Fusi di testa
(USA/1993), Hong Kong express (Hong Kong/1994), Strade perdute
(USA/1997). L’antitrama comprende anche documentari collage quali Night
and Fog di Alain Resnais (Francia/1955) e Koyaanisqatsi (USA/1983).
Differenze formali all’interno del triangolo della storia
La trama classica ci lascia con un finale chiuso: tutte le domande poste dalla
storia trovano risposta, tutte le emozioni evocate vengono soddisfatte. Il
pubblico lascia la sala portandosi via un’esperienza chiusa a tutto tondo -
nessun dubbio, nulla di insoddisfatto.
La minitrama, d’altro canto, spesso lascia parzialmente aperto il finale.
Gran parte dei quesiti posti dalla narrazione trovano risposta, ma possono
rimanere una o due domande alle quali sarà il pubblico a rispondere dopo
aver visto il film. Gran parte delle emozioni evocate dal film troveranno
soddisfazione, ma può anche rimanere un residuo emozionale che deve
essere il pubblico stesso a soddisfare. E anche se una minitrama può
terminare con un punto interrogativo a livello di pensiero e di emozione,
“aperto” non significa che il film ci “molla” a metà, lasciando tutto in
sospeso. Alle domande si deve poter rispondere e l’emozione si deve
sciogliere. Quanto successo in precedenza nel film porta ad alcune
alternative chiare e delimitate che rendono possibile un certo grado di
chiusura.
Un climax della storia che lasci senza risposta uno o due quesiti e
insoddisfatte alcune emozioni è un FINALE APERTO.
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Nel climax di Paris, Texas padre e figlio si riconciliano; il loro futuro è
chiaro e la nostra speranza che siano felici è soddisfatta. Ma rimangono
irrisolti i rapporti marito/moglie e madre/figlio. E le domande: «Questa
famiglia avrà un futuro insieme? E, se è così, che tipo di futuro sarà?»
rimangono aperti Le risposte verranno trovate nel privato delle riflessioni
dopo il film. Se volete che questa famiglia si rimetta insieme, ma il vostro
cuore vi dice che non lo farà, sarà una serata triste. Se riuscite a convincere
voi stessi che vivranno felici e contenti per sempre uscirete dalla sala felici.
Il narratore minimalista affida intenzionalmente l’ultima e fondamentale
parte di lavoro al pubblico.
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La storia raccontata in modo classico pone generalmente un protagonista
unico - uomo, donna, o bambino - al centro della narrazione. Un’unica storia
principale domina il tempo della proiezione. L’attore protagonista di questa
storia ha il ruolo principale. Tuttavia se lo sceneggiatore spezzetta il film in
un certo numero di storie relativamente piccole e con dimensioni da
sottotrama, ognuna con un protagonista diverso, il risultato minimalizza la
“dinamica da montagne russe” della trama classica e crea la variazione
multitrama della minitrama, fenomeno che è diventato sempre più popolare
a partire dagli anni Ottanta.
Nella trama classica fortemente caratterizzata de Il fuggitivo la cinepresa
non perde mai di vista il protagonista interpretato da Harrison Ford: non si
guarda mai altrove, non esiste neanche un accenno di sottotrama. Parenti,
amici e tanti guai, invece, è un delicato intreccio di non meno di sei racconti
con sei protagonisti. Come in una trama classica i conflitti di questi sei
personaggi sono prevalentemente esterni; nessuno di loro affronta la
profonda sofferenza e il cambiamento interno di Turista per caso. Ma queste
battaglie famigliari stimolano le nostre emozioni in così tante direzioni, e
ciascuna storia dura sullo schermo 15-20 minuti, che questo disegno
multiplo ammorbidisce la narrazione.
La multitrama fa il suo esordio con Intolerance (Usa/1916), Grand Hotel
(USA/1932), Come in uno specchio (Svezia/1961) e La nave dei folli
(USA/1965) per arrivare più vicino a noi - America oggi, Pulp Fiction, Fa’
la cosa giusta e Mangiare bere uomo donna.
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con il mondo che lo circondano.
Un PROTAGONISTA PASSIVO è esteriormente inattivo, anche se
persegue un desiderio interiore in conflitto con alcuni aspetti della propria
natura.
Dal punto di vista del tempo una trama classica inizia in un momento
preciso, avanza in modo ellittico più o meno in una continuità temporale e
termina in un momento successivo. Se si utilizzano i flashback lo si fa in
modo tale che il pubblico possa continuare a collocare nella loro sequenza
temporale gli eventi della storia. Un’antitrama, invece, spesso mette vicini
momenti lontani, è tesa a frammentare e confondere il tempo per rendere
difficile, se non impossibile, comprendere gli accadimenti in una qualche
sequenza lineare. Godard affermò una volta che, secondo la sua estetica, un
film deve avere un inizio, una parte centrale e una fine... ma non
necessariamente in quest’ordine.
Una storia che rimbalzi a casaccio nel tempo o confonda a tal punto la
continuità temporale che il pubblico non riesce a comprendere cosa
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succede prima e cosa dopo È NARRATA IN TEMPO NON LINEARE.
Causalità o coincidenza
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nell’universo che interrompono le catene della causalità e portano alla
frammentazione, alla perdita di significato e all’assurdità.
Una storia è una metafora della vita: oltrepassa il reale per condurci
all’essenziale. Di conseguenza è un errore applicare una corrispondenza
completa tra la realtà e la storia.
I mondi che inventiamo obbediscono alle loro leggi interne di causalità.
Una trama classica si snoda all’interno di una realtà coerente... ma la realtà,
in questo caso, non significa i fatti così come si svolgono nella vita reale.
65
Persino la minitrama più naturalistica del tipo “la vita così com’è”,
rappresenta un’esistenza astratta e rarefatta. Ogni narrazione determina, in un
modo specifico, la maniera in cui le cose accadono al suo interno. In una
trama classica queste regole, anche se bizzarre, non possono essere infrante.
Tutte le opere del genere fantastico, per esempio, sono praticamente delle
trame classiche in cui si obbedisce rigorosamente alle capricciose regole
della “realtà narrativa”. Supponete che in Chi ha incastrato Roger Rabbit un
personaggio umano debba inseguire Roger, un cartone animato, verso una
porta chiusa a chiave: Roger diventa bidimensionale, scivola sotto l’uscio e
fugge. L’umano invece sbatte contro la porta. Bene. D’ora in poi, però,
questa diventa una regola della storia: nessun essere umano può catturare
Roger perché lui è in grado di diventare bidimensionale e fuggire. Se lo
sceneggiatore volesse, in una scena successiva, far catturare Roger dovrebbe
mettere a punto un agente non umano o riscrivere il precedente
inseguimento. Quando crea regole di causalità nella storia lo sceneggiatore di
una trama classica deve lavorare all’interno delle regole che lui stesso ha
creato. Realtà coerente significa, di conseguenza, un mondo internamente
congruo, coerente con se stesso.
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Emily legge il proprio romanzo Cime Tempestose. I due parigini odiano
Emily a prima vista. Estraggono un accendino Zippo, danno fuoco alla sua
gonna di crinolina, riducendola a un mucchio di ceneri accartocciate... e
proseguono nel loro cammino.
Uno schiaffo in faccia alla letteratura classica? Forse, ma la cosa poi non
si ripete. Questo non è un film in cui si viaggia nel tempo. Né dal passato, né
dal futuro comparirà più nessun altro; soltanto Emily, e per una volta sola.
Una regola fatta per essere infranta.
Il desiderio di ribaltare la trama classica si era manifestato già all’inizio
del secolo scorso. Scrittori come August Strindberg, Ernst Toller, Virginia
Woolf, James Joyce, Samuel Beckett e William S. Burroughs avvertirono la
necessità di troncare i legami fra l’artista e la realtà esterna e,
contemporaneamente, fra l’artista e la gran parte del pubblico.
L’Espressionismo, il Dadaismo, il Surrealismo, il Flusso di Coscienza, il
Teatro dell’Assurdo, l’antiromanzo e l’antistruttura cinematografica possono
utilizzare tecniche diverse, ma hanno in comune lo stesso risultato: il ritirarsi
dell’artista all’interno del proprio mondo privato. Un mondo al quale il
pubblico è ammesso a discrezione dell’artista stesso. Si tratta di mondi in cui
non solo gli eventi sono atemporali, fatti di coincidenze, frammentati e
caotici, ma i personaggi non agiscono neppure all’interno di una psicologia
identificabile. Né sani né folli sono intenzionalmente incoerenti o
apertamente simbolici.
Film di questo tipo non sono metafore della “vita così com’è”, ma della
“vita così come la si pensa”. Non riflettono la realtà ma il solipsismo del
cineasta e, nel far questo, il regista forza i limiti del disegno narrativo verso
strutture didattiche e inventive. Tuttavia la realtà incoerente di un’antitrama
alla Weekend ha un suo tipo di unità. Se ben fatta, viene percepita come
l’espressione dello stato mentale soggettivo dell’autore. Questa sensazione di
percezione unica, non importa quanto incoerente, tiene insieme l’opera per
un pubblico desideroso di avventurarsi all’interno delle sue distorsioni.
Le sette contraddizioni e i contrasti formali elencati sopra non sono
regole ferree. Esistono illimitati gradi e sfumature di realtà aperta/chiusa,
passiva/attiva, coerente/incoerente, e così via. Tutte le possibilità narrative
sono distribuite all’interno del triangolo del disegno narrativo, ma
pochissimi film presentano una purezza di forma tale da poter essere
collocati ai vertici. Ogni lato del triangolo è uno spettro di scelte strutturali e
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gli sceneggiatori fanno scorrere le loro storie lungo queste linee o abbinando
o prendendo a prestito da ciascun estremo.
I film I favolosi Baker e La moglie del soldato si trovano a metà strada
fra la trama classica e la minitrama. Entrambi raccontano la storia di un
personaggio isolato piuttosto passivo; entrambi lasciano aperto il finale,
mentre rimane senza risposta il futuro della storia d’amore contenuta nella
sottotrama. Nessuno dei due è impostato in modo classico, come Chinatown
o I sette samurai, né in modo minimalistico come Cinque pezzi facili o Il
profumo della papaya verde.
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Anche i film multitrama sono meno che classici e più che minimali. Le
opere di Robert Altman, un maestro di questa forma, abbracciano tutto uno
spettro di possibilità. Un’opera multitrama può essere “hard”, tendente cioè
verso la trama classica, in quanto le storie individuali si modificano, spesso
con grosse conseguenze esterne (Nashville), oppure “soft” perché va nella
direzione della minitrama, quando le linee della trama rallentano il proprio
ritmo e l’azione viene interiorizzata (Tre donne).
Un film potrebbe essere quasi antitrama. Per esempio, quando hanno
inserito scene di finto documentario in Harry ti presento Sally..., Nora
Ephron e Rod Reiner hanno messo in discussione la “realtà” globale del
film. Le interviste fintamente documentaristiche di coppie anziane che
ripensano a quando si sono incontrate sono in realtà delle scene
deliziosamente sceneggiate, con attori che recitano in stile documentaristico.
Queste false realtà, inserite a “sandwich” all’interno di una storia d’amore
altrimenti convenzionale, hanno spinto il film verso la realtà incoerente
dell’antistruttura e della satira autoriflessiva.
Un film come Barton Fink si colloca proprio al centro, in quanto attinge
qualità da ciascuno dei tre vertici. All’inizio è la storia di un giovane autore
newyorchese (protagonista unico), che sta tentando di farsi strada a
Hollywood (conflitto aperto con le forze esterne = Trama classica). Ma Fink
(John Turturro) si isola sempre di più e prende a soffrire di un grave blocco
dello sceneggiatore (conflitto interno = minitrama). Quando il tutto si
trasforma in vere e proprie allucinazioni, noi siamo sempre meno sicuri di
ciò che è reale e di ciò che è fantastico (realtà incoerenti), al punto da non
poterci più fidare di nulla (ordine temporale e causale infranti = antitrama).
Il finale è piuttosto aperto, con Fink che fissa il mare, ma è piuttosto
evidente che non scriverà mai più una riga in quella città.
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Cambiamento o stasi
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loro brave strutture retoriche o formali, non raccontano una storia. Perciò
rimangono fuori del triangolo della storia, in un territorio che, includendo
un po’ tutto, potremmo liberamente chiamare “narrativo”.
In opere del tipo “spaccato di vita” come Umberto D., Volti e Naked, noi
scopriamo protagonisti che conducono vite solitarie e difficili. Messi alla
prova da ulteriori drammi, quando il film finisce sembrano rassegnati alle
sofferenze della vita e pronti persino al peggio. In America oggi le esistenze
individuali vengono modificate all’interno delle molte storie che
compongono il film, che viene sostenuto e pervaso da un arido malessere al
punto che assassinio e suicidio sembrano diventare una parte naturale del
paesaggio. Sebbene nulla cambi nell’universo della non-trama noi ne
ricaviamo diversi motivi di profonde intuizioni, per cui forse qualcosa
cambierà dentro di noi.
Anche le non-trame antistruttura tracciano un modello circolare, ma lo
modificano attraverso assurdità e satira realizzate in uno stile non
naturalistico. Il maschio e la femmina, (Francia/1966), Il fascino discreto
della borghesia (Francia/1972) e Il fantasma della libertà (Francia/1974)
sono fatti di scene che mettono in ridicolo le buffonate borghesi, sessuali e
politiche, ma gli sciocchi e ciechi delle scene iniziali sono altrettanto ciechi e
sciocchi quando prendono a scorrere i titoli di coda.
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contrapposizione fra “film hollywoodiani” e “film d’autore”. Sebbene questi
termini sembrino obsoleti i loro sostenitori sono ancora vivi e vegeti. Per
tradizione le discussioni si svolgevano in termini di alto o basso budget;
effetti speciali o composizione pittorica; Star System o compagnie
indipendenti; finanziamenti privati o sostegno governativo; autori o
mercenari. In realtà dietro queste polemiche si nascondono due visioni della
vita diametralmente opposte. Il confine principale è posto alla base del
triangolo - stasi rispetto a cambiamento - una contraddizione filosofica che
presenta profonde implicazioni per lo sceneggiatore. Cominciamo col
definire questi termini:
Il concetto di “film hollywoodiani” non comprende Il mistero Von
Bulow, Terzo grado, Drugstore Cowboy, Cartoline dall’inferno, Salvador,
Vivere in fuga, Velluto blu, Bob Roberts, J.F.K. - Un caso ancora aperto, Le
relazioni pericolose, La leggenda del re pescatore, Fa’ la cosa giusta o
Tutti dicono I love you.
Questi film, e molti altri simili, sono successi internazionali prodotti dagli
Studios di Hollywood. Turista per caso ha incassato oltre 250 milioni di
dollari in tutto il mondo, superando gran parte dei film di azione, eppure
non può essere definito un film hollywoodiano.
Il significato politico di “film hollywoodiani” si restringe a quelle 30 o 40
pellicole in cui prevalgono gli effetti speciali, e più o meno lo stesso numero
di farse e storie d’amore che Hollywood realizza ogni anno. E che
costituiscono assai meno della metà della produzione di questa città.
Nella sua accezione più ampia “film d’autore” significa non-
hollywoodiano, o meglio un film straniero, e meglio ancora un film
europeo. Ogni anno l’Europa produce oltre 400 film, generalmente più di
Hollywood. Tuttavia “film d’autore” non si riferisce al gran numero di
produzioni europee piene di azioni splatter, pornografia hard, o commedie
grossolane. Nel linguaggio della critica da caffè letterario l’espressione “film
d’autore” è destinata a quella manciata di eccellenti film come Il pranzo di
Babette, Il postino, o Il cameraman e l’assassino, che ce la fanno a varcare
l’Atlantico.
Questi termini sono stati coniati durante le guerre di politica culturale e
indicano ottiche ampiamente diverse, se non addirittura contraddittorie. I
cineasti hollywoodiani tendono a essere esageratamente (alcuni direbbero
ingenuamente) ottimisti circa la capacità che la vita ha di cambiare -
soprattutto in meglio. Di conseguenza, per esprimere questa loro visione, si
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basano sulla trama classica e su un’esorbitante percentuale di film a lieto
fine. I cineasti non hollywoodiani tendono a essere esageratamente (alcuni
direbbero per seguire la moda) pessimisti in merito al cambiamento. E
predicano che più la vita cambia, più rimane la stessa o, peggio ancora, che
il cambiamento porta sofferenza. Di conseguenza, per esprimere vacuità, la
mancanza di significato o la non utilità del cambiamento tendono a realizzare
ritratti statici non-trama oppure antitrame e minitrame estreme con finali
negativi.
Si tratta di tendenze che, naturalmente, presentano eccezioni su entrambe
le sponde dell’Atlantico; ma la dicotomia è reale e più profonda dell’Oceano
che separa il Vecchio Mondo dal Nuovo. Gli americani sono degli evasi,
scappati da prigioni di cultura stagnante e da classi rigide, e desiderano
ardentemente il cambiamento. Cambiano in continuazione alla ricerca di ciò
che, se esiste, può funzionare. Dopo aver intessuto quella rete di sicurezza da
trilioni di dollari costituita dalla Grande Società adesso la stanno facendo a
pezzi. Il Vecchio Mondo, d’altro canto, nel corso di secoli di dure esperienze
ha imparato a temere i cambiamenti e che le trasformazioni sociali portano
inevitabilmente guerra, carestia e caos.
Il risultato è un atteggiamento polarizzato nei confronti delle storie:
l’ingenuo ottimismo di Hollywood (non ingenuo circa il cambiamento, ma
perché insiste sul cambiamento positivo) e l’egualmente ingenuo pessimismo
dei “film d’autore” (non ingenuo circa la condizione umana, ma perché
insiste sul fatto che non potrà mai essere altro che negativa o statica). Troppo
spesso i film hollywoodiani impongono un finale positivo per motivi più
commerciali che sinceri, troppo spesso i film non hollywoodiani si
aggrappano al lato oscuro, più per moda che per sincerità. La verità, come al
solito, si trova da qualche parte fra questi due estremi.
L’attenzione prestata dai “film d’autore” al conflitto interiore attrae
l’interesse di coloro che hanno un’istruzione superiore poiché il mondo
interiore è quello in cui passa parecchio tempo la persona molto istruita. I
minimalisti, tuttavia, spesso sopravvalutano la fame che persino le menti più
assorbite da se stesse possono avere per una dieta fatta di solo conflitto
interiore. Peggio ancora, sopravvalutano il proprio talento nell’esprimere ciò
che non è visibile sullo schermo. Allo stesso modo i cineasti dei film
d’azione hollywoodiani sottovalutano l’interesse che il loro pubblico nutre
per il personaggio, i pensieri e le emozioni e, peggio ancora, sovrastimano la
propria abilità nell’evitare i cliché del genere Azione.
73
Poiché le storie nel cinema hollywoodiano sono spesso forzate e piene di
cliché, per tenere viva l’attenzione del pubblico i registi devono trovare una
compensazione e ricorrono così agli effetti speciali e a rumorose
spericolatezze: vedi Il quinto elemento. Allo stesso modo poiché nei ‘‘film
d’autore” la storia è spesso esile o assente, i registi devono compensare, o
fornendo informazioni oppure fornendo stimolazioni sensoriali. Scene
appesantite da dialoghi su argomenti politici, riflessioni filosofiche e
consapevoli descrizioni delle proprie emozioni da parte dei personaggi;
oppure opere lussureggianti, con una fotografia o un commento musicale
mirati a deliziare i sensi del pubblico: vedi Il paziente inglese.
La triste verità delle guerre politiche nel cinema contemporaneo è che gli
eccessi dei “film d’autore” e dei “film hollywoodiani” sono lo specchio gli
uni degli altri: la narrazione deve trasformarsi in uno spettacolare e
scintillante connubio di immagini e sonoro per distrarre il pubblico dalle
lacune e dalla falsità della storia... E in entrambi i casi sopraggiunge la noia,
come la notte segue il giorno.
Dietro le diatribe politiche relative ai finanziamenti, alla distribuzione e
agli Oscar si annida una profonda divisione culturale, riflessa nelle visioni
del mondo contrapposte rappresentate dalla trama classica rispetto alla
minitrama e all’antitrama. Di storia in storia lo sceneggiatore può muoversi
ovunque all’interno del triangolo, ma gran parte di noi si sente più a proprio
agio in un posto o nell’altro. Dovete effettuare le vostre personali scelte
“politiche” e decidere dove stabilirvi. Nel farlo, consentitemi di offrirvi
questi spunti di riflessione.
74
Questo non ha niente a che vedere con la qualità. Tutti e tre gli angoli di
questo triangolo della storia brillano di capolavori apprezzati in tutto il
mondo, esempi di perfezione per il nostro mondo imperfetto. Il pubblico si
assottiglia, invece, per il fatto che la maggior parte di noi ritiene che la vita
presenti esperienze chiuse, fatte di cambiamenti assoluti e irreversibili, e che
le nostre maggiori fonti di conflitto siano fuori di noi stessi. Pensiamo anche
di essere gli unici protagonisti attivi della nostra esistenza, e che quest’ultima
operi attraverso una continuità temporale all’interno di una realtà coerente e
causalmente interconnessa; e, inoltre, che all’interno di questa realtà gli
eventi accadano per motivi spiegabili e significativi. Dall’istante in cui il
nostro primo antenato fissò il fuoco da lui stesso prodotto e formulò il
pensiero “io sono”, è cosi che gli esseri umani hanno visto il mondo e se
stessi. Il disegno classico è uno specchio della mente umana.
Il disegno classico è un modello fatto di memoria e previsione. Forse che
quando ripensiamo al passato mettiamo insieme gli eventi in modo
antistrutturale? Minimalistico? No. Noi raccogliamo e modelliamo i nostri
ricordi intorno a una trama classica per riportare intensamente il passato alla
mente. Quando sogniamo a occhi aperti il nostro futuro, cioè quello che
temiamo o preghiamo succeda, è forse minimalistica la nostra visione?
Antistrutturale? No, noi forgiamo le nostre fantasie e speranze all’interno di
una trama classica. Il disegno classico propone i modelli temporali, spaziali e
causali della percezione umana, al di fuori dei quali la mente si ribella. Il
disegno classico non è una visione occidentale della vita. Per migliaia di
anni, dal Levante a Giava al Giappone, i narratori asiatici hanno composto le
proprie opere all’interno della trama classica intessendo racconti ricchi di
avventure e grandi passioni. Come dimostrato dall’ascesa del cinema
asiatico, gli sceneggiatori orientali attingono agli stessi principi del disegno
classico usato in Occidente e arricchiscono i propri racconti di un’ironia e di
un’arguzia unici. La trama classica non è né antica né moderna, né
occidentale né orientale: è umana.
Quando lo spettatore avverte che una storia si sta avvicinando a realtà
immaginarie che trova noiose o prive di significato si sente alienato e si
distrae. Questo vale per le persone intelligenti e sensibili, quale che sia il loro
reddito e il loro grado d’istruzione. La stragrande maggioranza degli esseri
umani non è in grado di riconoscere come metafore della propria vita le
realtà incoerenti dell’antitrama, la passività interiorizzata della minitrama e la
circolarità statica della non-trama. Più la storia si avvicina alla base del
75
triangolo, più il pubblico si riduce a quei fedeli intellettuali cinefili che
almeno una volta ogni tanto amano vedere distorte le proprie realtà. Si tratta
di un pubblico entusiasta e stimolante... ma pur sempre assai ristretto.
Se diminuisce il pubblico deve ridursi il budget. Questa è la legge.
Nel 1961 Alain Robbe-Grillet scrisse L’anno scorso a Marienbad e nel
corso degli anni Settanta e Ottanta ha poi creato dei brillanti “puzzle
antitrama”, film che trattano più dell’arte dello scrivere che non dell’atto del
vivere. Una volta gli chiesi come mai, nonostante fossero assolutamente non
commerciali, lui li facesse. Mi disse che non aveva mai speso più di 750.000
dollari per realizzare una pellicola e che avrebbe continuato così. Il suo
pubblico era fedele, anche se sparuto. Con budget così bassi i suoi
finanziatori raddoppiavano i propri investimenti e lui rimaneva sulla sedia da
regista. Ma se avessero investito due milioni di dollari loro ci avrebbero
rimesso la camicia e lui il posto. Robbe-Grillet era sia un visionario che un
pragmatico.
Se, come Robbe-Grillet, desiderate scrivere delle minitrame o delle
antitrame e riuscite a trovare un produttore non hollywoodiano per lavorare
a basso budget e siete felici di avere relativamente pochi soldi, allora va
bene. Fatelo. Ma quando si scrive per Hollywood un copione da basso
budget non è un vantaggio. I professionisti esperti che leggono il vostro
pezzo minimalista o antistrutturale possono plaudire alla vostra capacità di
gestire l’immagine, ma non si faranno coinvolgere poiché l’esperienza gli ha
insegnato che se la storia è inconsistente lo sarà anche il pubblico.
Persino i budget modesti a Hollywood si esprimono in decine di milioni
di dollari e ogni film deve raccogliere un pubblico abbastanza ampio da
ripagarne i costi e garantire un profitto maggiore di quello che le stesse
somme avrebbero procurato con un altro tipo di investimento sicuro. Perché
gli investitori dovrebbero rischiare i loro miliardi quando li possono
investire nel mercato immobiliare e avere, una volta in pensione, almeno un
edificio invece di qualcosa che viene proiettato a un paio di festival, ficcato
in una camera di sicurezza refrigerata e dimenticato? Se volete che uno
studio di Hollywood affronti questa folle corsa con voi dovete scrivere un
film che abbia almeno una possibilità di recuperare questo enorme rischio.
In altre parole, un film che vada nella direzione della trama classica.
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Grazie all’istinto e allo studio i bravi sceneggiatori riconoscono che
minimalismo e antistruttura non sono forme indipendenti, ma reazioni al
Classico. Minitrama e antitrama sono nate dalla trama classica - una la
riduce, l’altra la contraddice. L’avanguardia esiste per opporsi al popolare e
al commerciale, finché non diventa anche lei popolare e commerciale,
dopodiché si rivolta contro se stessa. Se i “film d’autore” non-trama
diventassero di moda e facessero soldi, l’avanguardia si ribellerebbe,
accuserebbe Hollywood di essersi venduta alla non-trama, e si
approprierebbe della forma classica.
Questi cicli fatti di formalità/libertà, simmetria/asimmetria sono vecchi
quanto il teatro greco. La storia dell’arte è una storia di revival: le icone del
potere culturale vengono infrante dall’avanguardia che a sua volta diventa il
nuovo potere culturale che viene attaccato da una nuova avanguardia che
utilizza le armi del nonno. Il rock and roll, che prende il nome dallo slang
usato dai neri per indicare il sesso, è partito come movimento d’avanguardia
contro la musica dei bianchi nell’epoca postbellica. Adesso identifica
l’aristocrazia musicale ed è usato persino come musica da chiesa.
L’utilizzo serio degli strumenti dell’antitrama non soltanto è passato di
moda, ma è diventato una barzelletta. Una vena di satira dark ha sempre
attraversato le opere antistrutturali, da Un chien andalou a Weekend; ma
ormai il parlare direttamente alla cinepresa, le realtà incoerenti e i finali
alternativi sono la materia prima della farsa cinematografica. Le gag
antitrama nate con Bob Hope e Bing Crosby in Avventura al Marocco sono
state inserite in pellicole come Mezzogiorno e mezzo di fuoco, nei film dei
Monty Python e Fusi di testa. Tecniche narrative che un tempo ci
apparivano pericolose e rivoluzionarie adesso sembrano inoffensive sebbene
incantevoli.
Rispettando questi cicli i grandi narratori hanno sempre saputo che,
indipendentemente dal contesto culturale, tutti, consciamente o
istintivamente, affrontano il rituale della narrazione offrendo anticipazioni
tipo quelle del disegno classico. Di conseguenza, per realizzare un’opera a
minitrama o antitrama, lo sceneggiatore deve assecondare o meno queste
anticipazioni. Soltanto spezzando o piegando con cura e creativamente la
forma classica l’artista può portare il pubblico a percepire la vita intima
nascosta in una minitrama o ad accettare le assurdità raggelanti di
un’antitrama. Ma come fa uno sceneggiatore a ridurre o a ribaltare in modo
creativo ciò che non comprende?
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Gli sceneggiatori che hanno trovato il successo negli angoli inferiori del
triangolo sapevano che il punto di partenza per la comprensione stava in
alto, al vertice. Hanno iniziato le proprie carriere con la forma classica.
Bergman ha scritto e diretto storie d’amore e drammi sociali e storici per
vent’anni prima di osare avventurarsi nel minimalismo di The Silence o
nell’antistruttura di Persona. Fellini ha fatto I vitelloni e La strada prima di
rischiare con la minitrama di Amarcord o l’antitrama di 8 1/2. Godard ha
realizzato All’ultimo respiro prima di Weekend. Robert Altman ha
perfezionato il proprio talento narrativo con le serie televisive “Bonanza” e
“Alfred Hitchcock presenta”. Prima di tutto, dunque, i maestri hanno
padroneggiato la trama classica.
Mi piace il desiderio giovanile di realizzare una prima sceneggiatura
come quella di Persona, ma il sogno di unirsi all’avanguardia deve attendere
che, come altri artisti prima di voi, anche voi giungiate a padroneggiare la
forma classica. Non prendetevi in giro da soli pensando di capire la trama
classica solo perché avete visto dei film. Saprete di averla capita quando la
saprete fare. Lo sceneggiatore affina le proprie capacità finché la conoscenza
passa dal lato sinistro del cervello a quello destro, fino a quando la
consapevolezza intellettuale diventa mestiere vivo.
Stanislavski chiedeva ai suoi attori: siete innamorati dell’arte che c’è in voi o
di voi stessi nell’arte? Anche voi sceneggiatori dovete esaminare i motivi che
vi inducono a scrivere nel modo in cui scrivete. Perché le vostre
sceneggiature si indirizzano verso un angolo del triangolo piuttosto che
l’altro? Qual è la vostra visione?
Ogni racconto che voi create dice al pubblico: «Io credo che la vita sia
così». Ogni momento deve essere riempito di questa vostra appassionata
convinzione, altrimenti noi sentiremo puzza di falso. Se scrivete cose
minimaliste credete nei significati di questa forma? L’esperienza vi ha forse
convinto che la vita porta con sé poco se non addirittura nessun
cambiamento? Se la vostra ambizione è essere anticlassici, siete davvero
convinti della casuale assenza di significato della vita? Se la vostra risposta è
un appassionato «Sì», allora scrivete le vostre minitrame e antitrame, e fate
tutto ciò che potete per realizzarle. Per la stragrande maggioranza di voi,
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però, la risposta sincera a queste domande è «no». Ciononostante,
l’antistruttura e, in particolare, il minimalismo, attraggono ancora i giovani
sceneggiatori come una sorta di Pifferaio Magico. Perché? Sospetto che
molti non siano attratti dai significati che queste forme esprimono, ma da ciò
che queste forme rappresentano al di fuori della narrazione. In altre parole:
politica. Non è ciò che antitrama e minitrama sono, è ciò che esse non sono:
non sono Hollywood.
Ai giovani viene insegnato che arte e Hollywood sono antitetici. Il
principiante che vuole essere riconosciuto come artista, di conseguenza, cade
nella trappola di scrivere una sceneggiatura non per ciò che è, ma per ciò che
non è. Evita i finali chiusi, i personaggi attivi, la cronologia e la causalità per
evitare l’accusa di essere un autore commerciale. Questa pretenziosità
avvelenerà il suo lavoro.
Come afferma Edmund Husserl, una storia è l’incarnazione delle nostre
idee e delle nostre passioni, “un correlativo oggettivo” delle emozioni e delle
riflessioni profonde che desideriamo instillare nel pubblico. Se lavorate
tenendo un occhio sulla vostra sceneggiatura e l’altro su Hollywood, e fate
scelte eccentriche per evitare il marchio della commercializzazione,
produrrete l’equivalente letterario di un capriccio. Come un bambino che
vive all’ombra del padre potente, voi infrangete le “regole” di Hollywood
perché la cosa vi fa sentire liberi. Ma la rabbiosa contestazione del patriarca
non significa creatività: è violenza tesa a richiamare l’attenzione. Essere
diversi tanto per essere diversi è un traguardo privo di senso quanto seguire
servilmente l’imperativo commerciale.
Scrivete solo ciò in cui credete.
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Struttura e ambientazione
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La guerra ai cliché
Quello attuale potrebbe essere il momento storico più difficile per fare lo
sceneggiatore. Confrontate il pubblico di oggi, saturo di storie, con quello
dei secoli passati. Quante volte all’anno i vittoriani colti andavano a teatro?
In un’epoca in cui le famiglie erano numerose e non esistevano le
lavastoviglie, quanto tempo avevano per lo svago? In una settimana i nostri
trisavoli potevano forse leggere o assistere a cinque o sei ore di storie:
quante molti di noi ne consumano in una giornata. Quando i moderni amanti
del cinema si siedono per vedere la vostra opera hanno già assorbito migliaia
e migliaia di ore di televisione, di cinema, di prosa e di teatro. Cosa avrete
creato voi che non hanno ancora visto? Dove troverete una storia davvero
originale? Come vincerete la vostra guerra contro i cliché?
I cliché sono alla base dell’insoddisfazione del pubblico e sono come
una peste diffusa dall’ignoranza che ormai infetta tutti i mezzi narrativi.
Troppo spesso chiudiamo un romanzo o lasciamo un teatro annoiati da un
finale scontato sin dall’inizio, irritati perché abbiamo già visto troppe volte
quei personaggi e quelle scene. La causa di questa epidemia mondiale è
semplice e chiara. Una e una sola è la fonte di tutti i cliché: lo scrittore non
conosce il mondo della sua storia.
Gli sceneggiatori di questo tipo scelgono un’ambientazione e varano una
sceneggiatura presupponendo una conoscenza - che non hanno - del proprio
mondo narrativo. Quando si immergono nella propria mente alla ricerca di
materiale, si trovano faccia a faccia col vuoto assoluto. E quindi a che
ricorrono? Ai film e alla televisione, ai romanzi e alle commedie con
ambientazioni simili. Dalle opere di altri scopiazzano scene che abbiamo già
visto, parafrasano dialoghi che abbiamo già udito, camuffano personaggi
che abbiamo già incontrato e li fanno passare per propri. Riscaldano gli
avanzi letterari e servono portate su portate di noia. E questo perché,
indipendentemente dal talento, manca loro una comprensione approfondita
dell’ambientazione della propria storia e di tutto ciò che contiene. La
conoscenza e lo studio approfondito del mondo della propria storia sono
fondamentali, se si vogliono conseguire originalità ed eccellenza.
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L’ambientazione
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La LOCATION è la collocazione spaziale della storia.
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Una STORIA deve obbedire alle proprie leggi interne della probabilità.
Le scelte degli eventi fatte dallo sceneggiatore sono, di conseguenza,
limitate alle possibilità e probabilità esistenti all’interno del mondo che
crea.
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storia americana. Parla di divorzio. Cosa potrebbe esserci di più americano?
La possiamo ambientare in Louisiana, a New York o nello Idaho. Non
importa». E invece importa e come. Una separazione nel Bayou assomiglia
molto poco alla disputa legale da molti milioni di dollari di Park Avenue e
nessuna delle due ha molto in comune con un atto di infedeltà commesso in
una fattoria dove si coltivano le patate. Non esiste una cosa tipo “una storia
portatile”. Una storia sincera alloggia in un solo luogo e in un solo tempo.
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Il principio della limitazione creativa
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Può sembrare un ideale impossibile, ma gli autori migliori lo raggiungono
ogni giorno. Quale domanda relativa al tempo, al luogo e ai personaggi di
Sussurri e grida potrebbe mettere in difficoltà Ingmar Bergman? Oppure
David Mamet rispetto ad Americani? Oppure John Cleese per Un pesce di
nome Wanda? Non è che gli artisti capaci pensino in modo intenzionale e
conscio a ogni aspetto della vita presente nella loro storia, però, a un certo
livello, è come se la assorbissero tutta. I grandi sceneggiatori sanno. Di
conseguenza, lavorano all’interno di ciò che è conoscibile. Un mondo vasto
e popoloso impegna tanto la mente che la conoscenza diviene superficiale.
Un mondo limitato e un cast ristretto offrono la possibilità di una
conoscenza approfondita e ampia.
L’ironia della contrapposizione esistente fra ambientazione e storia è la
seguente: più vasto è il mondo più diluita sarà la conoscenza dello
sceneggiatore e, di conseguenza, minori saranno le sue scelte creative e più
piena di cliché la storia. Più piccolo è il mondo, più completa sarà la
conoscenza dello sceneggiatore e, di conseguenza, più numerose saranno
le sue scelte creative. Risultato: una storia pienamente originale e una
vittoria nella guerra contro i cliché.
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La ricerca
La memoria
L’immaginazione
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ma che vi conducono all’interno del vostro mondo narrativo, finché non vi
sembrerà un déjà vu. Se la memoria ripropone interi blocchi di vita,
l’immaginazione cattura dei frammenti, delle schegge di sogno, dei brandelli
di esperienza che sembrano non avere relazione fra loro e ne cerca le
connessioni nascoste. Li fonde in un tutto unico. Dopo aver trovato questi
collegamenti e immaginato le scene, scrivetele. Un’immaginazione al lavoro
è ricerca.
I fatti
Avete mai sofferto del blocco dello scrittore? Fa paura, vero? Le giornate si
trascinano e non si scrive nulla. Pulire il garage sembra un divertimento.
Risistemate la scrivania in continuazione finché pensate di stare impazzendo.
Beh, io conosco una cura diversa che fare visita al vostro psichiatra. È un
giro in biblioteca.
Siete bloccati perché non avete nulla da dire. Non è che il vostro talento
vi ha abbandonato. Se avete qualcosa da dire non potete impedirvi di
scrivere. Non si può uccidere il talento, però lo si può affamare con
l’ignoranza fino a ridurlo in coma. Infatti, per quanto possa avere talento,
l’ignorante non sa scrivere. Il talento deve essere stimolato da fatti e idee.
Fate ricerca. Nutrite il vostro talento. La ricerca non soltanto vince la guerra
contro il cliché ma è anche la chiave che sconfigge la paura e una sua
parente stretta: la depressione.
Supponete, per esempio, che state scrivendo una storia nel genere
dramma familiare. Siete stati allevati in una famiglia, forse avete cresciuto
voi stessi una famiglia, avete visto tante famiglie, potete immaginare le
famiglie. Ma se andate in biblioteca a leggere opere serie sulle dinamiche
della vita familiare accadono due cose molto importanti:
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dolori e le gioie. Mentre esprimete emozioni che ritenete siano soltanto
vostre, ogni singolo spettatore le riconoscerà come sue e solo sue.
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creatività raramente è così razionale. Creazione ed esplorazione vanno avanti
alternandosi.
Immaginate di scrivere un thriller psicologico. Magari iniziate
chiedendovi: «Cosa accadrebbe se...?». Cosa accadrebbe se una psichiatra
infrangesse la propria etica professionale e intraprendesse una relazione con
un paziente? Intrigati dall’idea vi chiedete: «Chi è questa dottoressa? E il
paziente? Magari lui è un soldato, reso catatonico dal trauma di
un’esplosione. E perché lei si innamora di lui?». Analizzate ed esplorate fin
quando questa progressiva conoscenza vi porterà a una sorprendente ipotesi,
e cioè che lei si innamora nel momento in cui la cura sembra operare un
miracolo: sotto ipnosi il paziente supera la paralisi e rivela una personalità
bella e quasi angelica.
Questa svolta vi sembra eccessivamente sdolcinata per essere vera, così
continuate la vostra caccia in un’altra direzione. Approfondite i vostri studi
finché non incontrate il concetto di schizofrenia vincente: alcuni psicotici
posseggono una tale intelligenza e forza di volontà da poter facilmente
nascondere a tutti la propria follia, persino ai propri psichiatri. Può essere
che il vostro paziente sia uno di questi? Potrebbe la vostra dottoressa essere
innamorata di un folle che lei crede di aver guarito? Man mano che nuove
idee la alimentano, la vostra storia cresce insieme ai personaggi; e mentre la
vostra storia cresce nascono interrogativi che hanno bisogno di ulteriore
ricerca. Creazione e indagine vanno di pari passo ponendosi richieste
reciproche, spingendo o tirando in questa o quella direzione, fino al
momento in cui la storia sboccerà viva e completa.
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Le scelte creative
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1. Bar per single. È un cliché ma è una possibilità. Non ancora da
scartare.
3. Toilette. Dopo la festa di Natale in ufficio lei è così ubriaca che entra
barcollando nel bagno degli uomini per vomitare. Lui la trova per terra.
Rapidamente, prima che entri qualcun altro, chiude la porta del bagno e la
sostiene mentre lei vomita. Quando non c’è nessuno in vista lui la fa uscire
di soppiatto risparmiandole ogni genere di imbarazzo.
Se proseguite così si allunga l’elenco. Non c’è bisogno che voi scriviate
per esteso queste scene. Siete alla ricerca di idee e quindi vi basta descrivere
a grandi linee cosa avviene. Se conoscete in profondità i vostri personaggi e
il loro mondo non sarà un compito difficile trovare una dozzina di scene del
genere. Una volta esaurite le vostre migliori idee, rileggete l’elenco e
ponetevi le seguenti domande: «Quale scena è più fedele ai miei personaggi?
La più fedele al loro mondo? E quale non è mai stata vista sullo schermo
esattamente in questo modo?»
Questa è la scena che metterete nella sceneggiatura.
Eppure, mentre vagliate le scene dell’incontro sulla vostra lista e ne
riconoscete i pregi, dal profondo delle viscere vi rendete conto che la vostra
prima ipotesi era quella giusta. Cliché o non cliché questi innamorati si
incontrano in un bar per single. Niente potrebbe esprimere meglio la loro
natura e il loro ambiente. E allora, cosa fate adesso? Seguite il vostro istinto
e iniziate un nuovo elenco: una dozzina di modi diversi per incontrarsi in un
bar per single. Ricercate questo mondo, attendete, osservate i clienti, fatevi
coinvolgere, finché non conoscerete l’ambiente di un bar per single come
nessun altro sceneggiatore prima di voi.
Vagliate il vostro nuovo elenco e ponetevi le stesse domande: «Quale
variazione è più fedele al personaggio e al suo mondo? Quale non è mai
stata vista sullo schermo?» Quando il vostro copione sarà un film e la
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cinepresa farà una carrellata verso il bar per single la prima reazione degli
spettatori potrebbe essere: «Oh, no! Un’altra scena in un bar per single!». Ma
voi gli farete oltrepassare la porta e gli mostrerete cosa succede veramente in
questi equivoci locali per incontri.
E, se avete lavorato bene, gli spettatori si stupiranno e assentiranno: «È
vero! Questo non è il solito: “Qual è il tuo segno astrologico? Hai letto
qualche bel libro recentemente?”. Qui ci sono imbarazzo e pericolo. E questa
è la verità».
Se la vostra sceneggiatura ultimata contiene tutte le scene che avete
scritto, se non avete gettato via alcuna idea, se la vostra riscrittura non è stato
altro che giocherellare un po’ col dialogo, il vostro lavoro quasi certamente
non avrà successo. Indipendentemente dal nostro talento, nei profondi
recessi dell’anima noi tutti sappiamo che il 90% di quello che facciamo è ben
lontano dal meglio che possiamo dare. Ma se la ricerca vi ispira dieci o
persino venti idee per una scena e se poi voi, effettuando delle scelte
brillanti, trovate un 10% eccellente e bruciate tutto il resto ogni scena
risulterà affascinante e il mondo starà lì seduto ad ammirare il vostro genio.
Non è necessario che qualcuno veda i vostri fallimenti, a meno che voi
non aggiungiate vanità alla follia e non li mettiate in mostra. Il genio non
consiste soltanto nell’avere il potere di creare “beat” e scene espressive, ma
anche nel gusto, nel giudizio e nella volontà di identificare e distruggere le
banalità, le vanità, le note stonate e le bugie.
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(4) Struttura e genere
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I generi cinematografici
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in cui la storia percorre il proprio arco a livello di conflitto interiore per
determinare cambiamenti profondi all’interno della mente o della morale del
protagonista.
Mentre gli studiosi dibattono definizioni e sistemi, lo spettatore è invece
un esperto di generi: si avvicina a ogni film con aspettative chiare e
complesse determinate dalla continua frequentazione di sale
cinematografiche. Il gusto sofisticato del pubblico per i generi pone allo
sceneggiatore una sfida fondamentale: non deve solo soddisfare le
aspettative del pubblico - altrimenti rischia che il pubblico si confonda e sia
deluso - deve anche fornire a queste aspettative delle scene originali e
inaspettate, altrimenti rischierà di annoiarlo. Questo doppio obiettivo non è
possibile se non si possiede una conoscenza dei generi superiore a quella del
pubblico.
Qui di seguito è elencato un sistema di generi e sottogeneri usato dagli
sceneggiatori - un sistema che si è evoluto partendo dalla pratica e non dalla
teoria e che si impernia sulle diversità di soggetto, ambientazione, ruolo,
evento e valori.
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5. IL GENERE DI GUERRA. Sebbene la guerra sia spesso
l’ambientazione per altri generi, come ad esempio la storia d’amore, questo
genere tratta in modo particolare il combattimento. I suoi principali
sottogeneri sono il pro-bellico e l’anti-bellico. I film contemporanei,
generalmente, si oppongono alla guerra; ma per decenni la maggior parte
l’ha sotterraneamente glorificata, anche nella sua forma più macabra.
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Alcuni generi sono dei mega-generi, così ampi e complessi da risultare
pieni di variazioni nei sottogeneri:
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catastrofico/di sopravvivenza: Alive-sopravvissuti, L’avventura del
Poseidon.
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settecentesca nel giro di pochi minuti il pubblico ha sentito una grande
affinità con questi aristocratici corrotti: sono come noi.
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20. IL MUSICAL. È un genere che proviene dall’opera e presenta una
“realtà” in cui i personaggi cantano e ballano le proprie storie. Spesso è una
storia d’amore, ma può essere un film noir: l’adattamento teatrale di Viale
del tramonto; il dramma sociale: West Side Story; la trama punitiva: Lo
spettacolo continua; la biografia: Evita. In realtà qualsiasi genere può
funzionare nella forma musicale e tutti possono essere oggetto di satira nella
commedia musicale.
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superiore: La spada nella roccia, Yellow Submarine - Il sottomarino giallo;
e, poiché il pubblico giovanile è il suo mercato naturale, anche verso molte
trame di formazione: Il re leone, La sirenetta. Comunque, come hanno
dimostrato autori di cartoni animati sia dell’Europa Orientale che del
Giappone, non esistono limiti.
Per finire, per coloro che credono che dei generi e delle loro concezioni
si preoccupino soltanto gli sceneggiatori “commerciali” e che l’arte seria non
sia di genere, lasciate che aggiunga un ultima categoria a questa lista:
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Il rapporto fra struttura e genere
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il massimo dei cliché, con radici che risalgono a Il falcone maltese, il
criminale uccide il partner del detective. Da ultimo il poliziotto deve
identificare, acciuffare e punire il criminale.
Anche la commedia contiene miriadi di sottogeneri, ognuno con le
proprie convenzioni, ma esiste una convenzione predominante che unifica
questo mega-genere e lo distingue dal dramma: nessuno si fa male. Nella
commedia il pubblico deve sentire che, per quanto i personaggi sbattano
contro le pareti, e per quanto urlino e si contorcano sotto le frustate della
vita, in effetti non si fanno male. Gli edifici possono cadere su Laurel e
Hardy, ma si rialzano sempre dalle macerie, si tolgono di dosso la polvere,
mormorano. «Oh, che confusione...» e vanno avanti.
In Un pesce di nome Wanda, Ken (Michael Palin), un personaggio che
nutre un amore ossessivo per gli animali tenta di ammazzare una vecchietta,
ma riesce solo a uccidere gli adorati terrier. L’ultimo cane muore sotto un
enorme blocco di cemento armato e di lui vediamo solo la piccola zampetta
sporgente. Charles Crichton, il regista, ha girato due versioni di questo
dettaglio: in una mostra soltanto la zampetta, mentre per la seconda mandò a
prendere in una macelleria un sacchetto di interiora e aggiunse una striscia di
sangue che gocciolava dal terrier spiaccicato. Quando questa immagine
truculenta venne mostrata al pubblico dell’anteprima il cinema si raggelò.
Sangue e interiora dicevano: «Fa male». Per la distribuzione nelle sale
Crichton ha così scelto l’inquadratura depurata che provoca le risate. In base
alle convenzioni di questo genere lo sceneggiatore di commedia si muove su
un filo teso fra mettere i propri personaggi nelle fiamme dell’inferno e
rassicurare contemporaneamente il pubblico che le fiamme in realtà non
bruciano.
A cavallo di questo genere si colloca il sottogenere della black-comedy.
Qui lo sceneggiatore piega in parte la convenzione del comico e consente al
proprio pubblico di sentire un dolore acuto, ma non insopportabile: Il caro
estinto, La guerra dei Roses, L’onore dei Prizzi - film in cui la risata spesso
ci muore in gola.
I film d’autore sono resi convenzionali da una serie di elementi esterni,
come l’assenza delle star (o del compenso delle star), il fatto di venire
prodotti al di fuori del sistema hollywoodiano, generalmente in una lingua
diversa dall’inglese: il tutto serve come punteggio per le vendite, visto che i
responsabili del Marketing esortano poi i critici a sostenere il film in quanto
le sue principali convenzioni interne sono, prima di tutto, una esaltazione del
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cerebrale. Il film d’autore punta all’intelletto, nasconde le emozioni forti
sotto un manto di stati d’animo; attraverso gli enigmi, il simbolismo o le
tensioni irrisolte invita alle interpretazioni e alle analisi nel rituale post-
cinematografico della critica al bar. In secondo luogo, e cosa essenziale, il
disegno della storia di un film d’autore dipende da un’unica, grandiosa
convenzione: la non-convenzionalità. La non-convenzionalità minimalista
e/o antistrutturale è la convenzione che contradistingue i film d’autore.
Riscuotere successo nel genere del film d’autore porta di solito a essere
riconosciuti come artisti - istantaneamente, anche se spesso solo
temporaneamente. D’altro canto l’inossidabile Alfred Hitchcock ha lavorato
soltanto all’interno della trama classica e delle convenzioni dei generi, ha
sempre mirato al grande pubblico e, generalmente, lo ha trovato. Eppure
oggi troneggia nel pantheon dei cineasti, adorato in tutto il mondo come uno
dei maggiori artisti dello scorso secolo: un poeta del cinema, le cui opere
traboccano di immagini sublimi fatte di sessualità, religiosità e perspicaci
punti di vista. Hitchcock sapeva che non esiste necessariamente una
contraddizione fra arte e successo popolare, né una necessaria connessione
fra arte e film d’autore.
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Padroneggiare i generi
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“Posizionare il pubblico” non è una cosa nuova. Shakespeare non aveva
intitolato la sua tragedia Amleto, l’aveva chiamata La tragedia di Amleto,
principe di Danimarca. Invece alle commedie dava titoli come Molto
rumore per nulla e Tutto è bene quel che finisce bene, così ogni pomeriggio
il suo pubblico elisabettiano arrivava al Globe Theatre psicologicamente
pronto a piangere o a ridere.
Un abile lavoro di marketing crea aspettative relative al genere.
Dal titolo alla locandina, alla pubblicità sulla stampa e in televisione, la
promozione cerca di fissare il tipo di storia nella mente del pubblico.
Abbiamo detto agli spettatori di aspettarsi una certa forma che amano e
allora dobbiamo consegnargliela, come promesso. Se pasticciamo il genere
omettendo o usando male le sue convenzioni il pubblico lo capirà
immediatamente e parlerà male del nostro lavoro.
Per esempio, il marketing del film incautamente intitolato Mike’s murder
(USA/1984) “posizionò” il pubblico per il genere mistero con assassinio. Il
film invece appartiene a un altro genere per cui per oltre un’ora il pubblico
rimane seduto a chiedersi: «Chi diavolo muore in questo film?». La
sceneggiatura è un’originale rivisitazione della trama di formazione in
quanto trasforma l’impiegata di banca Debra Winger da donna dipendente e
immatura a donna matura e padrona di sé. Ma l’amaro passaparola di un
pubblico confuso e “posizionato” in modo sbagliato ha compromesso un
film altrimenti valido.
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Le limitazioni creative
Robert Frost ha affermato che scrivere versi liberi è come giocare a tennis
senza la rete, mentre sono invece le esigenze autoimposte, e in effetti
artificiose, delle convenzioni poetiche a stimolare l’immaginazione.
Supponiamo che un poeta si imponga arbitrariamente questo limite: scrivere
stanze di sei versi con rime alternate. Dopo aver rimato la quarta strofa con
la seconda giunge alla fine della stanza. Incastrato in quest’angolo lotta per
rimare la sesta strofa con la quarta e con la seconda. Ciò può ispirargli una
parola che non ha alcun rapporto con la sua poesia - a parte la rima - una
parola casuale che però fa scattare una frase che, a sua volta, porta alla
mente un’immagine. Un’immagine che risuona per tutte e cinque le altre
strofe, scatenando così un senso e un’emozione totalmente nuovi,
muovendo e spingendo la poesia verso significati ed emozioni ancora più
ricchi. Grazie alla limitazione creativa dell’autore di questo schema rimato la
poesia raggiunge un’intensità che le sarebbe altrimenti mancata se il poeta si
fosse consentito la libertà di scegliere qualsiasi parola avesse voluto.
Il principio della limitazione creativa esige libertà all’interno di una
cerchia di ostacoli. Il talento è come un muscolo: si atrofizza se non c’è
qualcosa che lo obblighi a sforzarsi. Ecco perché noi sistemiamo
volontariamente sul nostro cammino massi e barriere per ispirarci. Ci
imponiamo una disciplina che riguarda il cosa fare, mentre restiamo liberi
sul come farlo. Di conseguenza uno dei nostri primi passi è quello di
identificare il genere o la combinazione di generi che governano il nostro
lavoro, visto che la convenzione dei generi è il terreno accidentato che
alimenta le idee più fruttuose.
Le convenzioni dei generi sono per un narratore l’equivalente dello
schema rimato della poesia. Non inibiscono la creatività, anzi la ispirano. La
sfida è quella di preservare la convenzione evitando il cliché. Che un uomo
incontri una donna in una storia d’amore non è un cliché ma un elemento
necessario della forma: una convenzione. Il cliché si propone se si
incontrano come gli amanti di ogni storia d’amore hanno sempre fatto: due
dinamici individualisti obbligati a condividere un’avventura e che sembrano
odiarsi a prima vista; oppure due anime timide, ognuna pronta a dare a chi
non è disposto a darle nulla, si ritrovano in un party, in un angolo, senza
nessuno con cui parlare, e così via.
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La convenzione dei generi è una limitazione creativa che mette alla prova
l’immaginazione dello sceneggiatore per farlo essere all’altezza delle
circostanze. Invece di negare la convenzione e appiattire la storia, il bravo
sceneggiatore considera le convenzioni come delle vecchie amiche e sa che,
nello sforzo per rispettarle in modo originale, può trovare l’ispirazione per
una scena che trascinerà la sua storia al di sopra della media. Quando
padroneggiamo il genere possiamo guidare il pubblico attraverso variazioni
ricche e creative della convenzione per riformulare e superare le sue
aspettative, fornendogli non soltanto ciò che sperava ma, se siamo molto
bravi, assai più di quello che avrebbe potuto immaginare.
Considerate il genere azione/avventura. Spesso è considerato un genere
senza senso, ma è in realtà il genere più difficile in cui scrivere oggi;
semplicemente perché è stato ripercorso fino alla noia. Che cosa può fare
uno sceneggiatore di film d’azione che il pubblico non abbia già visto mille
volte? Una delle sue principali convenzioni, ad esempio, è la seguente scena:
eroe alla mercé del cattivo. L’eroe, da una posizione di impotenza, deve
riuscire a prevalere sul cattivo. Questa scena è un imperativo. Mette alla
prova ed esprime in termini assoluti la genialità del protagonista, la sua forza
di volontà e la sua freddezza sotto pressione. Se manca questa scena
protagonista e storia ne escono sminuiti; il pubblico se ne va insoddisfatto.
Su questa convenzione i cliché crescono come la muffa sul pane, ma,
quando si trova una soluzione originale, la narrazione ne risulta molto
arricchita.
Ne I predatori dell’arca perduta Indiana Jones si trova faccia a faccia
con un gigante egiziano che brandisce un’enorme scimitarra. Uno sguardo di
terrore, poi un’alzata di spalle e un rapido sparo quando Jones si ricorda di
avere una pistola. La leggenda che circola dietro le quinte vuole che sia stato
Harrison Ford a suggerire questa brillantissima soluzione perché stava
troppo male con la dissenteria per affrontare un combattimento acrobatico
che Lawrence Kasdan aveva scritto nella sceneggiatura.
In Die Hard - Trappola di cristallo il climax è costruito su un azzeccato
sviluppo della convenzione: John McClane (Bruce Willis), nudo fino alla
cintola, senza armi, con le mani in alto, è faccia a faccia con il sadico e ben
armato Hans Gruber (Alan Rickman). Ma poi, lentamente, la cinepresa gira
intorno a McClane: scopriamo così che, attaccata con del nastro adesivo alla
schiena nuda, lui ha una pistola. Distrae Gruber con una battuta, strappa la
pistola dalla schiena e lo ammazza.
110
Di tutti i cliché della serie eroe-alla-mercé-del-cattivo, la frase «Attento,
c’è qualcuno dietro di te!» è il più vecchio. Ma in Prima di mezzanotte lo
sceneggiatore George Gallo lo ha piacevolmente rivitalizzato, inventando
variazioni incredibili scena dopo scena.
111
Combinare i generi
Spesso i generi vengono combinati tra loro per ottenere nuovi significati, per
arricchire i personaggi e per creare una più ampia gamma di stati d’animo e
di emozioni. Una sottotrama della storia d’amore, per esempio, trova
praticamente spazio all’interno di ogni storia poliziesca. La leggenda del re
pescatore interseca cinque filoni - la trama di redenzione, lo psicodramma,
la storia d’amore, il dramma sociale, la commedia - in un film eccellente.
Un’invenzione deliziosa è stata il film horror musical. Considerando che
esistono oltre venticinque generi principali le possibilità di incroci creativi
sono infinite. Pertanto lo sceneggiatore che padroneggia tutti i generi può
creare un tipo di film che il mondo non ha ancora visto.
112
Reinventare i generi
Il western
Lo psicodramma
La follia clinica venne drammatizzata per la prima volta nel film muto: Il
gabinetto del Dottor Caligari (Germania/1919). Col crescere della
popolarità della psicanalisi lo psicodramma si è trasformato in una sorta di
storia poliziesca freudiana. Nella prima fase lo psichiatra interpretava il
detective che indagava su un crimine nascosto, un trauma profondamente
rimosso di cui il paziente aveva sofferto nel passato. Una volta che lo
113
psichiatra aveva svelato questo “crimine”, la vittima rinsaviva oppure faceva
un grosso passo in questa direzione: Sybil, La fossa dei serpenti, La donna
dai tre volti, I never promise you a rose garden, Il marchio, David e Lisa,
Equus.
Tuttavia, mentre i serial killer cominciavano a popolare gli incubi della
società, l’evoluzione del genere ha portato lo psicodramma alla sua seconda
fase: si è fuso con il genere poliziesco nel sottogenere noto come lo psycho-
thriller. Qui i poliziotti sono diventati degli psichiatri dilettanti che danno la
caccia agli psicopatici, per cui la cattura dipende dall’analisi che il detective
fa del folle: Delitti inutili, Manhunter, Indagine ad alto rischio e, più
recentemente, Seven.
Negli anni Ottanta lo psycho-thriller si è evoluto una terza volta. In film
come Corda tesa, Arma letale, Angel Heart - Ascensore per l’inferno e Il
mattino dopo, spesso il malato di mente è il detective che soffre dei più
svariati malesseri moderni: ossessione sessuale, impulso suicida, amnesia
traumatica, alcolismo. In questi film la chiave per ottenere giustizia sta
nell’analisi che il poliziotto fa di se stesso. Una volta che il detective è giunto
a patti con i propri demoni interni la cattura del criminale diventa quasi
secondaria.
Questa evoluzione rispecchiava la nostra società in cambiamento. Erano
passati i giorni in cui potevamo trovare conforto nell’idea che tutti i folli
erano chiusi a chiave mentre noi, persone sane di mente, stavamo tranquilli e
al sicuro fuori dalle pareti di un manicomio. Pochi di noi sono ancora così
ingenui: oggi sappiamo che, in presenza di una data congiunzione di eventi,
anche noi potremmo allontanarci dalla realtà. Questi psycho-thriller
indicavano il pericolo e ci segnalavano che il compito più difficile
nell’esistenza è l’autoanalisi, tesa a sondare la propria umanità e a placare i
conflitti interiori.
Nel 1990 questo genere ha raggiunto il quarto stadio: lo psicopatico non
è più un estraneo, ma il coniuge, lo psichiatra, il chirurgo, il figlio, la balia, il
compagno di stanza, il poliziotto di quartiere. Questi film incidono sulla
paranoia collettiva nel momento in cui scopriamo che le persone più intime
della nostra vita, le persone di cui dobbiamo fidarci, quelle che speriamo ci
proteggeranno sono dei maniaci: La mano sulla culla, A letto col nemico,
Forced Entry, Perversione mortale, Inserzione pericolosa e L’innocenza del
diavolo.
114
Il più chiaro, in questo senso, è probabilmente Inseparabili, un film che
affronta la paura ultima, la paura nei confronti della persona più vicina a
noi: voi stessi. Quale orrore può risalire strisciando dal nostro inconscio per
rubarci la salute mentale?
La storia d’amore
115
praticamente proviene da un altro mondo. In Fuga d’inverno Mel Gibson
interpreta il ruolo di un assassino in galera, in attesa dell’impiccagione, e
Diane Keaton è la moglie del guardiano della prigione. Cosa li ostacolerà?
Tutti i membri della società “benpensante”. In Harry, ti presento Sally... gli
amanti soffrono dell’assurda convinzione che amicizia e amore siano
incompatibili. In Stella solitaria l’ostacolo è il razzismo; ne La moglie del
soldato l’identità sessuale; in Ghost - Fantasma la morte.
L’entusiasmo per l’amore romantico che ha inaugurato il secolo scorso si
è trasformato in questi ultimi anni in un profondo malessere associato a un
cupo scetticismo nei confronti dell’amore. E come reazione abbiamo visto
l’ascesa e la sorprendente popolarità dei finali negativi: Le relazioni
pericolose, I ponti di Madison County, Quel che resta del giorno, Mariti e
mogli. In Via da Las Vegas, Ben è un alcolista che vuole uccidersi, Sara è
una prostituta masochista e il loro amore è “ostacolato dalle stelle”. Questi
film affrontano il crescente senso di disperante impossibilità che un amore
duri.
Per consentire un finale positivo alcuni film usciti di recente hanno
rielaborato il genere trasformandolo in storie di desiderio non concretizzato.
Uomo-incontra-donna è sempre stata un’irrinunciabile convenzione che si
verifica all’inizio della narrazione, seguita dalle prove, dalle tribolazioni e poi
dal trionfo dell’amore. Ma Insonnia d’amore e Red finiscono entrambi con
uomo-incontra-donna. Il pubblico resta in attesa di sapere come il “destino”
degli amanti verrà modellato dalle mani del caso.
Con astuzia questi film ritardano l’incontro degli amanti fino al climax ed
evitano gli spinosi temi dell’amore moderno sostituendo alla difficoltà di
amare la difficoltà di incontrarsi. Queste non sono storie d’amore, ma storie
di attese amorose le cui scene traboccano di discorsi e desideri d’amore, ma
che affidano gli atti veri e propri dell’amore e le loro conseguenze, spesso
turbolente, a un futuro che non si vede sullo schermo. Può darsi che il
ventesimo secolo abbia dato vita all’epoca dell’amore romantico per poi
seppellirla nel ventunesimo.
La lezione da trarne è la seguente: gli atteggiamenti sociali mutano. Lo
sceneggiatore deve essere culturalmente pronto a recepire questi movimenti
se no rischia di scrivere pezzi d’antiquariato. Per esempio in Innamorarsi la
forza che si opponeva all’amore stava nel fatto che gli amanti erano entrambi
già sposati. E le uniche lacrime versate dagli spettatori erano dovute ai troppi
sbadigli. Era quasi possibile udire i loro pensieri: «Ma che problema c’è?
116
Siete sposati con dei pezzi di legno. Scaricateli. Ma la parola “divorzio” non
significa niente per voi, gente?».
Per tutti gli anni Cinquanta, invece, una relazione sentimentale
extraconiugale era considerata un tradimento doloroso. Molti film intensi -
Noi due sconosciuti, Breve incontro - traevano la propria energia dalla
condanna sociale dell’adulterio. Ma già negli anni Ottanta gli atteggiamenti si
erano modificati cedendo il passo alla sensazione che l’amore romantico sia
un bene così prezioso e la vita talmente breve che se due persone sposate
vogliono avere una relazione è bene che la vivano. Giusto o sbagliato quello
era l’umore del momento per cui un film con valori antiquati da anni
Cinquanta annoiava mortalmente gli spettatori degli anni Ottanta. Il pubblico
vuole sapere come ci si sente a vivere sul filo del rasoio in questo momento.
Cosa significa essere un essere umano oggi!
Gli sceneggiatori innovativi non sono solo sintonizzati sull’oggi, ma sono
anche dei visionari. Appoggiano l’orecchio al muro del loro momento
storico e, man mano che le cose si modificano, sono in grado di percepire in
che modo la società va incontro al futuro. Sono inoltre capaci di produrre
opere che, infrangendo le convenzioni, trasportano i generi nella loro
generazione successiva.
Questo, per esempio, è uno degli aspetti meravigliosi di Chinatown. Nel
climax del consolidato filone mistero con assassinio il detective cattura e
punisce il criminale, ma qui l’assassino ricco e politicamente potente di
Chinatown la fa franca, infrangendo così un’attestata convenzione. Questo
film, tuttavia, non avrebbe potuto venir realizzato prima degli anni Settanta,
momento in cui il movimento per i diritti civili, lo scandalo Watergate e la
guerra nel Vietnam avevano aperto gli occhi all’America sulla profondità
della sua corruzione e la nazione si era resa conto che i ricchi in effetti la
facevano franca anche quando uccidevano... o peggio ancora. Chinatown ha
riscritto il genere spalancando la porta a storie poliziesche con finale
negativo, come Brivido caldo, Crimini e misfatti, Terzo grado, Basic
Instinct, L’ultima seduzione e Seven.
Gli sceneggiatori migliori non sono solo dei visionari, ma creano
addirittura dei classici. Ciascun genere comprende dei valori umani
fondamentali: amore/odio, pace/guerra, giustizia/ingiustizia,
successo/fallimento, bene/male, e così via. Ognuno di questi valori è un
tema atemporale che ha ispirato meravigliosi scritti sin dagli albori dell’arte
narrativa. Di anno in anno questi valori devono essere rielaborati affinché
117
rimangano vivi e significativi per il pubblico contemporaneo. Tuttavia le
storie più belle sono sempre attuali. Sono dei classici. Un classico viene
sempre gustato con piacere perché può essere reinterpretato nel corso dei
decenni: in esso, infatti, verità e umanità abbondano a tal punto che ogni
nuova generazione si rispecchia in quella storia e Chinatown è un’opera del
genere. Avendo un’assoluta padronanza del genere Towne e Polanski hanno
innalzato il proprio talento a vette esplorate da pochi.
118
Il dono della pazienza
119
si ammalerà e perirà. Vi ritroverete talmente stanchi e annoiati di scrivere di
voi stessi o delle vostre idee che potreste non portare a termine la gara.
Quindi chiedetevi: «Qual è il mio genere preferito?». E poi scrivete nel
genere che amate: anche se la passione per un’idea o per un’esperienza può
appassire, l’amore per il cinema è eterno. Il genere dovrebbe essere una
fonte costante di nuova ispirazione. Ogni volta che rileggete il vostro
copione dovrebbe entusiasmarvi poiché questo è il vostro genere di storia, il
tipo di film per il quale stareste in piedi sotto la pioggia per andare a vederlo.
Non scrivete qualcosa perché alcuni amici intellettuali pensano che sia
socialmente importante. Non scrivete qualcosa perché pensate che ispirerà
una critica positiva sulla rivista “Film Quarterly”. Siate onesti nella vostra
scelta del genere perché di tutti i motivi alla base del nostro voler scrivere
l’unico che ci nutre nel tempo è l’amore per il lavoro stesso.
120
(5) Struttura e personaggio
121
Il personaggio e la caratterizzazione*
122
guida un’immigrata clandestina: una donna timida e tranquilla che lavora in
nero come domestica ed è l’unico sostegno della sua famiglia. L’altra auto è
una Porsche nuova di zecca, guidata da un brillante e ricco neurochirurgo.
Due persone che hanno background, convinzioni, personalità, lingue
completamente diversi - in ogni modo possibile e immaginabile le loro
caratterizzazioni sono l’una l’opposto dell’altra.
All’improvviso davanti a loro un bus pieno di bambini comincia a
sbandare, sbatte contro un ponte e si incendia, intrappolando i piccoli
all’interno. Adesso, sotto questa terribile pressione, scopriremo chi sono
veramente queste due persone.
Chi sceglie di fermarsi? Chi sceglie di proseguire? Ognuno di loro ha
ottimi motivi razionali per proseguire. La domestica si preoccupa che in una
situazione del genere la polizia potrebbe interrogarla, scoprire che si trova
illegalmente nel paese, ricacciarla al di là della frontiera - e la sua famiglia
morirebbe di fame. Il chirurgo teme che, se si fa male o si ustiona le mani,
mani che eseguono miracolosi interventi di microchirurgia, la vita di migliaia
di futuri pazienti andrà perduta. Ma diciamo che entrambi decidono di
frenare e fermarsi.
Questa scelta ci fornisce un indizio circa i personaggi; ma chi dei due si è
fermato per aiutare e chi invece si è fermato perché così spaventato da non
poter proseguire? Diciamo che entrambi hanno scelto di aiutare. Questo ci
dice altre cose. Ma chi sceglie di aiutare chiamando un’ambulanza per poi
aspettarla? Chi sceglie di aiutare gettandosi nel bus in fiamme? Diciamo che
entrambi si gettano nel bus - una scelta che rivela con profondità ancora
maggiore i personaggi.
Ecco che il dottore e la domestica infrangono un finestrino, strisciano
all’interno dell’autobus in fiamme, afferrano i bambini urlanti e li portano in
salvo. Ma le loro scelte non sono ancora finite. Rapidamente le fiamme si
trasformano in un inferno rovente: non possono più respirare senza
bruciarsi i polmoni. In mezzo a questo orrore, ciascuno dei due si rende
conto di avere solo un secondo per salvare soltanto uno dei molti bambini
ancora all’interno. Come reagirà il dottore? In un riflesso improvviso
afferrerà un bambino bianco oppure quello nero più vicino a lui? Da che
parte andrà istintivamente la domestica? Salverà il ragazzino? O la ragazzina
rannicchiata ai suoi piedi? Come effettuerà lei “la scelta di Sophie?”.
Potremmo finire per scoprire che, in profondità, dentro queste due
caratterizzazioni del tutto diverse esiste un’identica umanità: entrambi sono
123
pronti a sacrificare la propria vita in un batter d’occhio per uno sconosciuto.
Oppure che la persona che pensavamo avrebbe agito eroicamente è una
vigliacca. O quella che pensavamo avrebbe agito da vigliacca è invece un
eroe. O, in fondo in fondo, potremmo scoprire che l’eroismo altruistico non
è il limite massimo conoscibile del vero personaggio che è in ciascuno di
loro: le forze invisibili della loro acculturazione possono spingere ognuno di
loro a una scelta spontanea che mette a nudo pregiudizi inconsci relativi al
genere sessuale o alle etnie anche mentre stanno compiendo un atto di
immenso coraggio. Quale che sia il modo in cui è scritta la scena, la scelta
effettuata sotto pressione strapperà via la maschera della caratterizzazione e
noi scruteremo la natura più intima di questi personaggi e, in un lampo,
comprenderemo fino in fondo chi sono veramente.
124
Rivelazione del personaggio
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rivelano che, sotto questa esteriorità di gigolò, c’è un Rambo pensante.
Questa descrizione del super-eroe arguto, che contraddice la caratterizzazione
da playboy, è diventata una fonte di piacere apparentemente infinito.
Spingendo ancora oltre questo principio: la rivelazione del personaggio
profondo che contrasti o contraddica la sua caratterizzazione è fondamentale
per i personaggi principali. I ruoli minori possono anche fare a meno di
dimensioni nascoste, ma quelli principali vanno scritti in profondità: dentro
non possono essere uguali a come appaiono fuori.
126
Arco del personaggio
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dallo zio di Amleto, Claudio, che adesso è diventato Re. Le scelte operate da
Amleto mettono a nudo una natura assai intelligente e cauta che lotta per
contenere la propria immaturità avventata e appassionata. Decide di cercare
vendetta, ma non prima di aver provato la colpa del Re: «Parlerò di pugnali,
ma non ne userò alcuno».
Questa natura profonda contrasta poi con il comportamento esterno del
personaggio, o addirittura lo contraddice. Noi sentiamo che non è ciò che
sembra essere: non è semplicemente triste, sensibile e cauto. Sotto ci sono,
ancora nascoste, altre qualità. Amleto dice: «Io non sono pazzo che col vento
di nord-nord-ovest. Ché quando dà scirocco distinguo a colpo d’occhio un
falco da un airone».
In seguito, dopo aver rivelato la natura intima del personaggio, la storia
esercita su di lui una crescente pressione così le sue scelte diventano sempre
più difficili: Amleto cerca l’assassino di suo padre e lo trova inginocchiato a
pregare. Potrebbe facilmente uccidere il Re, ma Amleto si rende conto che,
se Claudio morisse in preghiera, la sua anima potrebbe andare in cielo.
Quindi si impone di attendere e di uccidere Claudio soltanto quando l’anima
del Re sarà «Nera e dannata quanto l’inferno che l’aspetta».
Infine al climax della storia queste scelte hanno profondamente
modificato l’umanità del personaggio: le lotte di Amleto, visibili e non
visibili, giungono a conclusione. Amleto conquista una tranquilla maturità,
mentre la sua viva intelligenza sboccia e diventa saggezza... «Il resto è
silenzio».
128
Funzioni della struttura e del personaggio
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Supponiamo, invece, che le cose si svolgano così: della natura del
proprio protagonista lo sceneggiatore ha un’intuizione improvvisa che lo
ispira a tracciarne rapidamente un profilo psicologico radicalmente nuovo,
trasformandolo da uomo onesto a bugiardo. Per esprimere una natura così
radicalmente modificata lo sceneggiatore dovrà fare ben più che rielaborare i
tratti del personaggio. Un cupo senso dell’umorismo potrebbe aggiungere un
po’ di spessore, ma non basterebbe. Se la storia rimane la stessa il
personaggio rimane lo stesso. Se lo sceneggiatore reinventa il personaggio
deve reinventare la storia. Un personaggio modificato deve effettuare nuove
scelte, compiere azioni diverse e vivere un’altra storia: la sua storia. Che il
nostro istinto lavori attraverso il personaggio o la struttura alla fine entrambi
si ricongiungeranno.
130
Climax e personaggio
131
concentrato nella creazione del climax dell’ultimo atto. L’evento ultimo della
storia è il compito fondamentale dello sceneggiatore.
Gene Fowler ha detto una volta che scrivere è facile: «Si tratta solo di
fissare la pagina bianca fino a che non sudate sangue». E una cosa che
davvero vi farà sudare sangue è la creazione del climax dell’ultimo atto -
culmine e concentrazione di ogni significato e di ogni emozione, per la cui
realizzazione è stato fatto tutto il resto, e che deve costituire l’acme della
soddisfazione del pubblico. Se fallisce questa scena fallisce la storia. Finché
non l’avete creata non avete una storia. Se non riuscite a fare il salto poetico
necessario per scrivere un climax tutte le scene, i personaggi, il dialogo e le
descrizioni precedenti diventano un esercizio elaborato di battitura al
computer.
Supponete di svegliarvi una mattina con l’ispirazione di scrivere il climax
della storia: «L’eroe e il cattivo si inseguono a piedi per tre giorni e tre notti
attraverso il deserto del Mojave. Ormai sull’orlo dell’esaurimento, della
disidratazione e del delirio, a cento miglia dalla fonte d’acqua più vicina, i
due ingaggiano battaglia e uno uccide l’altro». È eccitante... finché non
riesaminate il vostro protagonista e non vi ricordate che è un ragioniere in
pensione di settantacinque anni, con le grucce e allergico alla polvere. Così
trasformereste il vostro tragico climax in una barzelletta. Ma le cose vanno
peggio: il vostro agente vi dice che un grande attore trentacinquenne vuole
questo ruolo, non appena avrete trovato un finale degno di questo nome.
Cosa fate?
Trovate la pagina dove avete introdotto il protagonista, individuate la
frase di descrizione che dice “Jake (75 anni)”, cancellate il 7, e lo sostituite
con un 3. In altri termini, rifate la caratterizzazione. Il personaggio profondo
rimane lo stesso perché - che Jake abbia 35 o 75 anni - avrà sempre la
volontà e la capacità di andare fino in fondo nel deserto del Mojave. Ma
dovete renderlo credibile.
Nel 1924 Erich von Stroheim girò Rapacità. Il climax di questo film
copre l’arco di tre giorni e tre notti, eroe e cattivo, nel deserto del Mojave.
Von Stroheim riprese questa sequenza nel Mojave in piena estate, con
temperature oltre i 50 gradi. Quasi ammazzò il cast e la troupe, ma ottenne
ciò che voleva: un paesaggio, bianco su bianco, fatto di distese di sale che si
estendono fino all’orizzonte. Sotto il sole cocente l’eroe e il cattivo con la
pelle spaccata e arida come il terreno del deserto ingaggiano battaglia.
Durante la lotta il cattivo afferra un sasso e colpisce il cranio dell’eroe. Ma,
132
mentre sta morendo, nel suo ultimo istante di coscienza l’eroe riesce ad
ammanettare se stesso al killer. Nell’ultima immagine del film il cattivo crolla
nella polvere, incatenato al corpo che ha appena ucciso.
Il brillante finale di Rapacità nasce da scelte estreme che caratterizzano
nettamente i suoi personaggi. A questo scopo deve essere sacrificato ogni
aspetto di caratterizzazione che invece mini la credibilità di un’azione del
genere. La trama, come notava Aristotele, è più importante della
caratterizzazione; ma nel caso della struttura della storia e della verità del
personaggio si tratta di un fenomeno unico osservato da due diversi punti di
vista. Le scelte che i personaggi operano al di là delle proprie maschere
esteriori modellano le loro nature interiori e nello stesso tempo alimentano la
storia. Da Edipo Re a Falstaff, da Anna Karenina a Lord Jim, da Zorba il
greco a Thelma e Louise, questa è la dinamica personaggio/struttura nelle
narrazioni pienamente riuscite.
133
(6)Struttura e significato
134
L’emozione estetica
135
poesia e la canzone, l’arte narrativa è sempre e comunque l’esperienza di
un’emozione estetica: l’incontro simultaneo di pensiero e sentimento.
Quando un’idea si veste di una carica emotiva diventa molto più potente,
più profonda e memorabile. Potreste dimenticare il giorno in cui avete visto
un cadavere per strada, ma la morte di Amleto resterà con voi per sempre.
La vita di per sé, priva delle forme che le conferisce l’arte, vi lascia nella
confusione e nel caos, mentre l’emozione estetica armonizza ciò che sapete
con ciò che sentite e vi fornisce così una maggiore consapevolezza e
sicurezza della vostra collocazione nella realtà. In breve una storia ben
raccontata vi dà proprio ciò che non riuscite a ottenere dalla vita:
un’esperienza emotiva significativa. Nella vita le esperienze diventano
significative con il tempo, dopo che ci abbiamo riflettuto. Nell’arte sono
significative ora, nel momento in cui accadono.
In questo senso le storie sono, fondamentalmente, non-intellettuali. Non
esprimono le idee attraverso le argomentazioni aride e intellettuali di un
saggio scritto. Questo, però, non significa che le storie siano anti-intellettuali.
Noi ci auguriamo che lo sceneggiatore abbia delle idee importanti e ricche di
profonde riflessioni. Solo che nello scambio fra artista e pubblico l’idea si
esprime direttamente attraverso i sensi e le percezioni, l’intuito e l’emozione.
Non ha bisogno di mediatori né di critici che razionalizzino questo rapporto
o che sostituiscano l’ineffabile e il percepibile con le spiegazioni e
l’astrazione. L’acume erudito rende più raffinati il gusto e il giudizio, ma non
dobbiamo mai confondere la critica con l’arte. L’analisi intellettuale, per
quanto inebriante, non nutre l’anima.
Una storia ben narrata non esprime il ragionamento meccanicistico di
una tesi, né dà sfogo a furiose emozioni ataviche. Trionfa nel connubio fra il
razionale e l’irrazionale. Infatti un’opera solo emotiva o solo intellettuale non
può essere valida quanto un’opera capace di fare appello alle nostre facoltà
più sottili della simpatia, dell’empatia, della premonizione, del
discernimento... alla nostra sensibilità innata verso ciò che è vero.
136
La premessa
137
sceneggiatore potrebbe essere ignorato da un altro. La premessa risveglia ciò
che è in attesa nell’intimo dello sceneggiatore, le sue visioni o le sue
convinzioni nascenti. La somma delle esperienze personali lo ha preparato
per questo momento al quale reagirà come soltanto lui sa fare. Adesso
comincia il lavoro. Mentre va avanti interpreta, sceglie ed esprime giudizi. Se
qualcuno ritiene che le affermazioni fatte da uno sceneggiatore sulla vita
siano dogmatiche e intransigenti, va bene così. Gli scrittori blandi e
concilianti sono una noia. Noi vogliamo delle anime libere da impedimenti,
che abbiano il coraggio di prendere posizione, artisti con intuizioni che ci
scuotano e ci entusiasmino.
In conclusione è importante rendersi conto che quale che sia stata
l’ispirazione per scrivere non deve necessariamente rimanere in ciò che si
scrive. Una premessa non è un tesoro da conservare. Quando contribuisce
alla crescita della storia, tenetela; ma se la narrazione dovesse prendere
un’altra direzione abbandonate l’ispirazione originaria per seguire la storia
che si evolve. Il problema non è iniziare a scrivere, ma continuare a scrivere
e rinnovare l’ispirazione. Raramente sappiamo dove stiamo andando;
scrivere è una scoperta.
138
Struttura come retorica
Non illudetevi: se è vero che l’ispirazione per una storia può trarsi da un
sogno e il suo effetto finale può essere un’emozione estetica, un’opera parte
comunque da una premessa aperta e raggiunge un climax soddisfacente solo
quando lo sceneggiatore è dotato di un pensiero solido. Un artista non deve,
infatti, avere soltanto delle idee da esprimere, ma anche delle idee da
dimostrare. Esprimere un’idea, nel senso di esporla, non è mai sufficiente.
Lo spettatore non deve soltanto capire: deve credere. Voi volete che il
mondo intero esca dalle sale cinematografiche convinto che la vostra storia
sia una metafora fedele della vita. E il mezzo grazie al quale convincete il
pubblico è proprio il disegno della vostra narrazione. Mentre create la storia,
create la prova; l’idea e la struttura si intersecano in un rapporto retorico.
I grandi narratori non spiegano mai. Fanno invece una cosa difficile e
dolorosamente creativa: mettono in scena. Il pubblico è raramente
interessato, e certamente mai convinto, quando è obbligato ad ascoltare un
dibattito di idee. Il dialogo, che è la conversazione naturale dei personaggi
che perseguono un desiderio, non è una piattaforma per esporre la filosofia
del cineasta. Le spiegazioni delle idee dell’autore, sia nel dialogo che nella
narrazione, riducono fortemente la qualità di un film. Una grande storia
sostiene le proprie idee unicamente attraverso la dinamica dei suoi eventi;
non riuscire a esprimere una visione della vita attraverso le pure e semplici
conseguenze delle scelte e delle azioni umane è una sconfitta creativa che
nessun ammasso di belle parole può riscattare.
Considerate, per esempio, il genere prolifico del poliziesco. Qual è l’idea
espressa, in ultima analisi, da tutta la fiction poliziesca? “Il crimine non
paga”. Come arriviamo a comprendere questo? Si spera senza che un
personaggio mediti insieme a un altro: «Ecco! Che ti avevo detto? Il crimine
non paga. Nossignore, sembrava che quelli l’avessero fatta franca, ma la
ruota della giustizia ha girato inesorabilmente...». No, noi vediamo invece
139
quell’idea prender corpo davanti a noi: viene commesso un crimine; per un
po’ il criminale la fa franca; alla fine viene catturato e punito.
Nell’istante della punizione - prigione a vita o sparatoria che lo uccide
per strada - scorre all’interno dello spettatore un’idea caricata emotivamente.
E se noi potessimo dar voce a questa idea, non sarebbe un’espressione
gentile del tipo: «Il crimine non paga», ma qualcosa come: «L’hanno preso
quel bastardo!». Un trionfo elettrizzante della giustizia e della vendetta
sociale.
Il genere e la qualità dell’emozione estetica sono relativi. Lo psycho-
thriller vuole produrre effetti molto forti; altre forme, come la trama della
disillusione o la storia d’amore, hanno forse bisogno di emozioni più
leggere, come la tristezza o la compassione. Ma, indipendentemente dal
genere, il principio rimane universale: il significato della storia, comico o
tragico che sia, deve essere messo in scena in un climax della storia,
emotivamente espressivo, senza l’apporto di dialoghi esplicativi.
140
L’idea di controllo
141
dell’ultimo atto più la causa principale per cui tale valore si è modificato fino
a raggiungere il suo stato finale. Questi due elementi, il valore più la causa,
esprimono il significato portante della storia.
Per valore si intende il valore primario, con la sua carica positiva o
negativa, che fa il proprio ingresso nel mondo o nella vita del vostro
personaggio in seguito all’azione finale della storia. Per esempio: una storia
poliziesca con finale positivo (La calda notte dell’ispettore Tibbs) riporta
un mondo ingiusto (negativo) alla giustizia (positivo), suggerendo una frase
del tipo: «Giustizia è fatta...». In un thriller politico a finale negativo
(Missing - Scomparso) nel climax la dittatura militare detiene saldamente il
potere suggerendo una frase negativa del tipo: «La tirannia prevale...». Una
trama educativa a finale positivo (Ricomincio da capo) trasforma il
protagonista da uomo cinico che pensa solo a se stesso in una persona
sinceramente affettuosa e altruista, suggerendo: «La felicità riempie le nostre
vite...». Una storia d’amore a finale negativo (Le relazioni pericolose)
trasforma la passione in odio verso se stessi, evocando la frase: «L’odio
distrugge...».
La causa è il motivo primario per cui la vita o il mondo del protagonista
sono giunti a questo valore positivo o negativo. Ripercorrendo a ritroso la
storia rintracciamo - ben radicata dentro il personaggio, la società o
l’ambiente - la causa principale che ha dato vita a questo valore. Una storia
complessa può contenere molte forze che spingono al cambiamento, ma
generalmente ce n’è una che domina sulle altre. Di conseguenza in una st