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ROBERT MCKEE

STORY

Contenuti, struttura, stile, principi per la sceneggiatura e per l’arte di


scrivere storie

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Story di Robert McKee
Traduzione di Paolo Restuccia
Si ringrazia per la supervisione alla traduzione Marina Martinetti

Published by arrangement with HarperCollins Publishers

© 1997 Robert McKee


© Omero editore, Roma 2013. Tutti i diritti riservati.

www.omero.it
www.omeroeditore.it
Isbn: 978.88.96450.16.1

Impaginazione e grafica di Luigi Annibaldi

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dedica

Dedico questo libro alla memoria felice dei miei genitori che, ognuno a suo
modo, mi hanno insegnato ad amare le storie.
Quando stavo imparando a leggere, ma non mi comportavo sempre nel
modo giusto, mio padre mi ha introdotto alle favole di Esopo nella speranza
che quelle antiche storie di ammonimento potessero migliorare la mia
condotta. ogni sera, dopo aver letto faticosamente un racconto tipo La volpe
e l’uva, lui faceva un cenno del capo e mi chiedeva: «e cosa significa questa
storia per te, Robert?». mentre fissavo quelle pagine con le loro belle
illustrazioni colorate, cercando di scoprire la mia interpretazione, a poco a
poco mi rendevo conto che le storie significavano molto più che parole e
belle immagini.
Più tardi, prima di entrare all’università, mi sembrava che la vita migliore
da fare dovesse includere tante partite di golf quanto più fosse possibile,
perciò decisi di diventare un dentista. «un dentista?» mia madre scoppiò a
ridere. «Non puoi dire sul serio. cosa succederà quando troveranno la cura
per tutti i problemi dei denti? a che serviranno allora i dentisti? No, Bobby,
la gente avrà sempre bisogno di spettacolo. io penso al tuo futuro. tu devi
entrare nello show business».
Robert McKee

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Ringraziamenti

Per la sua attenzione verso la verità, per il suo impassibile occhio editoriale e
la sua determinazione nel divorare le parole inutili, per la sua logica ferrea, il
suo ottimismo, la sua ispirazione... per il suo amore, ringrazio mia moglie
Suzanne Childs.
Per la fortuna di avere complici astuti, disposti a sopportare le tante
stesure, chiudere i buchi, smussare i margini ruvidi, e indicare con saggezza
che le cose scritte non sempre significano ciò che pensa chi le ha scritte,
ringrazio Jess Money, Gail McNamara e il mio editor, Andrew Albanese.
Se non fosse stato per l’incredibile rapidità del mio agente, avrei
rimandato al prossimo secolo la stesura di questo libro. Grazie Debra
Rodman.
Se non fosse stato per l’insistenza del mio editore, avrei rimandato al
prossimo secolo le pressioni della mia agente. Grazie a te, Judith Regan.
Se non fosse stato per l’appoggio della Evans Scholars Foundation e gli
incontri con le menti dell’università del Michigan, la mia esistenza sarebbe
più povera. Grazie a Kenneth Rowe, John Arthos, Hugh Norton, Claribel
Baird, Donald Hall e a tutti gli altri insegnanti di cui ho dimenticato il nome.
Il loro brillante insegnamento ha rafforzato la mia vita. E infine una cosa
della massima importanza: grazie ai miei studenti.
Nel corso degli anni la mia comprensione dell’arte di scrivere storie è
cresciuta proprio per le domande che mi hanno posto. Domande teoriche e
pratiche che mi hanno obbligato ad ampliare e approfondire la ricerca delle
risposte. Senza di loro questo libro non esisterebbe.

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Nota sul testo

Le centinaia di film citati in Story sono tratti da un secolo di sceneggiature e


regie di tutto il mondo. Quando è stato possibile ho citato le opere più
recenti e più conosciute. Poiché è impossibile scegliere film visti e ricordati
da tutti in dettaglio, ho preferito quelli facilmente disponibili in Dvd. Ma
prima di tutto ogni film è stato scelto perché è un chiaro esempio di quanto
esposto nel testo.

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Parte I

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LO SCRITTORE E L’ARTE DELLA STORIA

Le storie sono strumenti per vivere.

Kenneth Burke

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Introduzione

Story parla di principi, non di regole

Una regola dice: «Tu devi fare in questo modo». Un principio afferma:
«Questo funziona... e a memoria d’uomo ha sempre funzionato». È una
differenza essenziale. Non dovete realizzare la vostra sceneggiatura sulla base
di un’opera “fatta bene”; la vostra sceneggiatura deve essere ben fatta
seguendo i principi della nostra arte. Gli sceneggiatori ansiosi e inesperti
ubbidiscono alle regole. Quelli ribelli e non istruiti le infrangono. Gli artisti
padroneggiano la forma.

Story parla di forme eterne e universali, non di formule

Si dicono solo sciocchezze quando si parla di schemi e modelli garantiti per


una storia di sicuro successo commerciale. Nonostante mode, rifacimenti e
sequel, quando si esamina l’insieme della produzione cinematografica
hollywoodiana si scopre una sorprendente varietà nelle storie, ma nessun
prototipo. Die hard - Trappola di cristallo non è un film più hollywoodiano
di Parenti, amici e tanti guai, oppure di Cartoline dall’inferno, Il re leone,
This Is Spinal Tap, Il mistero Von Bulow, Le relazioni pericolose,
Ricomincio da capo, Via da Las Vegas, né di migliaia di altri film eccellenti
prodotti in decine di generi e sottogeneri che spaziano dalla farsa alla
tragedia.
Story vuole favorire la nascita di film che possano entusiasmare
spettatori di sei continenti e vivere per decenni grazie alle riscoperte.
Nessuno sente il bisogno di un altro ricettario su come riscaldare gli avanzi
di Hollywood. Abbiamo bisogno di riscoprire i principi guida che sono alla
base della nostra arte e che permettono al talento di esprimersi liberamente.
Non importa dove un film venga realizzato (Hollywood, Parigi oppure
Hong Kong), se la sua qualità è archetipica sprigionerà una reazione a catena
di piacere, universale e duratura, che lo porterà di sala in sala, di generazione
in generazione.

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Story parla di archetipi, non di stereotipi

Una storia archetipica porta alla luce un’esperienza umana universale, per
poi esprimerla nei termini di una specificità culturale unica nel suo genere.
Una storia stereotipata ribalta questo approccio: è povera sia a livello di
contenuto che di forma. Finisce per esprimere una ristretta specificità
culturale. È generica, superata e vaga.
Per fare un esempio, un’antica usanza spagnola prevedeva che le figlie si
sposassero in ordine di nascita dalla più grande alla più piccola. Un film che
mostri una famiglia del diciannovesimo secolo formata da un severo
patriarca, una madre priva di potere, una figlia maggiore non sposabile e una
figlia minore perennemente sofferente, può commuovere coloro che
ricordano questa pratica all’interno della cultura spagnola. Ma è improbabile
che al di fuori di questa cultura il pubblico possa essere coinvolto. Uno
sceneggiatore timoroso della ristretta attrattiva presentata dalla sua storia
ricorre ad ambientazioni, personaggi e azioni che hanno riscosso il favore
del pubblico in passato. Il risultato? Avvolta in questi cliché, la vicenda
risulta ancora meno interessante.
Ma se lo sceneggiatore si rimbocca le maniche e si mette alla ricerca di
un archetipo questa usanza repressiva può diventare la base di un successo
mondiale. Una storia archetipica crea ambientazioni e personaggi così rari
che i nostri occhi si godono ogni dettaglio, mentre la sua narrazione getta
luce su conflitti così tipici della natura umana che la storia farà facilmente
presa su ogni cultura.
Nel film Come l’acqua per il cioccolato di Laura Esquivel madre e figlia
si scontrano su esigenze di dipendenza e indipendenza, immobilismo e
cambiamento, rapporto tra se stessi e gli altri: conflitti noti a qualsiasi
famiglia. E tuttavia il modo in cui la Esquivel osserva la famiglia e la società,
i rapporti e il comportamento, è così intessuto di dettagli mai visti prima che
veniamo irresistibilmente attratti da questi personaggi e affascinati da un
mondo che non conoscevamo e che non avremmo mai potuto immaginare.
Le storie stereotipate restano a casa, quelle archetipiche viaggiano. Da
Charlie Chaplin a Ingmar Bergman, da Satyajit Ray a Woody Allen, i grandi
narratori del cinema ci forniscono un desiderato incontro dal doppio valore.
In primo luogo, scopriamo un mondo che non conoscevamo: che sia
intimo o epico, contemporaneo o storico, concreto o fantastico, il mondo di

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un grande artista ci colpisce sempre per la sua originalità ed esoticità. Come
un esploratore che si apre un passaggio attraverso il fogliame della foresta,
noi procediamo a occhi spalancati all’interno di una società intatta, una zona
priva di cliché dove l’ordinario diventa straordinario.
In secondo luogo, una volta all’interno di questo mondo alieno,
ritroviamo noi stessi: negli intimi recessi di questi personaggi e nei loro
conflitti scopriamo la nostra umanità. Noi andiamo al cinema per entrare in
un mondo nuovo e affascinante. Per immedesimarci in un altro essere
umano, che dapprima ci appare diverso da noi e che tuttavia nel suo nucleo
centrale è come noi. E per vivere in una realtà fittizia che getti luce sulla
nostra realtà quotidiana. Non vogliamo sfuggire la vita, ma conoscerla, usare
la mente in modo nuovo e sperimentale: stimolare le nostre emozioni,
divertirci, apprendere e aggiungere spessore alle nostre giornate.
Story è stato scritto per alimentare film di forza e di bellezza archetipiche
che regaleranno al mondo questo doppio piacere.

Story parla di lavoro minuzioso, non di scorciatoie

Dal momento dell’ispirazione fino all’ultima stesura è possibile che per


scrivere una sceneggiatura vi occorrerà tanto tempo quanto ne serve per
scrivere un romanzo. I romanzieri e gli sceneggiatori creano la stessa densità
di mondo, personaggi e storia, ma, poiché le pagine di una sceneggiatura
contengono tanti spazi bianchi, spesso si è indotti erroneamente a credere
che una sceneggiatura sia più facile e più rapida da scrivere di un romanzo.
Gli scribacchini fanatici riempiono pagine alla velocità con la quale riescono
a dattilografare. Gli sceneggiatori non fanno altro che tagliare e ritagliare,
spietati nel loro desiderio di esprimere il massimo col minor numero
possibile di parole. Una volta Pascal scrisse una lunga e interminabile lettera
a un amico, poi nel post scriptum si scusò affermando di non aver avuto il
tempo di scriverne una più breve. Come Pascal, gli sceneggiatori imparano
che la chiave sta nell’economia, che la brevità richiede tempo, che eccellenza
significa costanza.

Story parla della realtà e non del mistero della scrittura

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Non c’è mai stato un complotto per tenere segrete le verità della nostra arte.
Da ventitré secoli, da quando Aristotele scrisse La poetica, i “misteri” della
narrazione sono pubblici come una biblioteca di quartiere. Non c’è niente di
oscuro in quest’arte. In realtà, a prima vista, raccontare una storia per lo
schermo può apparire facile in modo ingannevole. Eppure, avvicinandosi
progressivamente al fuoco della narrazione, tentando scena dopo scena di far
funzionare la storia, il compito diventa sempre più difficile perché ci
rendiamo conto che sullo schermo non ci si può nascondere.
Lo sceneggiatore che non riesce a commuoverci con la sola forza della
sua sceneggiatura non si potrà nascondere dietro le proprie parole come può
fare un romanziere, o dietro un monologo come può fare un drammaturgo.
Lo sceneggiatore non potrà ammantare di linguaggio emotivo o esplicativo
eventuali crepe logiche, motivazioni confuse o emozioni incolori, e dirci
direttamente cosa pensare o cosa provare.
La cinepresa è la terrificante macchina a raggi X che svela le falsità: fa un
ingrandimento della vita per poi mettere a nudo ogni svolta delle nostre
storie che risulti debole o falsa, finché, confusi e frustrati, non ci viene
voglia di mollare. E tuttavia, con studio e determinazione, il puzzle produce i
suoi frutti. L’arte di scrivere sceneggiature è piena di sorprese, ma non di
misteri insolubili.

Story parla del modo di padroneggiare l’arte, non del mercato

Nessuno può insegnare cosa si venderà o meno, cosa sarà un successo o un


fiasco, perché nessuno lo sa. I flop di Hollywood vengono realizzati in base
agli stessi calcoli commerciali dei film di successo, mentre film piuttosto
cupi che il buon senso sconsiglierebbe di realizzare - Gente comune, Turista
per caso, Trainspotting - conquistano tranquillamente il pubblico nazionale
e internazionale. Non c’è niente di sicuro nella nostra arte. Ecco perché tanti
fra noi si tormentano per “farcela”, per “spuntarla” e per evitare “interferenze
creative”.
La risposta onesta e matura a tutte queste paure è che uno si trovi un
agente, venda il proprio lavoro e lo veda fedelmente trasposto sullo
schermo, una volta che ha imparato a scrivere in modo eccellente... e non
certo prima. Se scrivete frettolosamente la copia di un successo dell’estate
scorsa vi unirete ai tanti talenti minori che inondano Hollywood ogni anno

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con migliaia di storie piene di cliché. Invece di tormentarvi sulle probabilità
di successo usate le vostre energie per raggiungere l’eccellenza. Se offrite
una sceneggiatura originale e brillante a diversi agenti, lotteranno tra loro per
avere il diritto di rappresentarvi. L’agente da voi scelto poi scatenerà una
guerra di offerte fra i produttori affamati di storie, e il vincitore vi pagherà
un’imbarazzante somma di denaro.
Una volta in fase di produzione, poi, la vostra sceneggiatura andrà
incontro, sorprendentemente, a pochissime interferenze. Nessuno è in grado
di garantire che infelici abbinamenti di personalità non possano rovinare un
buon lavoro, ma potete star sicuri che i migliori registi e attori di Hollywood
sono ben consapevoli che le loro carriere dipendono dal fatto di lavorare
con storie ben scritte. Tuttavia Hollywood ha fame di storie e i copioni
spesso vengono acquistati prima di essere ultimati. Questo obbliga a
cambiamenti sul set. Gli sceneggiatori sicuri di sé non vendono le loro prime
stesure: scrivono e riscrivono pazientemente finché il copione è il più
possibile pronto per regista e attori. Le opere incompiute invitano alle
manomissioni. Un lavoro maturo e rifinito si assicura l’integrità.

Story parla del rispetto e non del disprezzo verso il pubblico

Se una persona di talento scrive male di solito lo fa perché vuole


assolutamente esprimere una certa idea, oppure perché vuole assolutamente
esprimere un’emozione.
Se una persona di talento scrive bene, lo fa di solito perché è mossa dal
desiderio di raggiungere e toccare il pubblico.
Serata dopo serata, nei miei lunghi anni di recitazione e regia, sono
sempre rimasto rispettosamente incantato dal pubblico e dalla sua capacità di
rispondere. Come per magia, le maschere cadono e i volti diventano
vulnerabili e ricettivi. Chi va al cinema non si difende dalle proprie
emozioni, anzi si apre al narratore in modi sconosciuti persino agli amanti. E
accetta con piacere risate, lacrime, terrore, rabbia, compassione, passione,
amore e odio - e questo rituale spesso lo rende esausto.
Il pubblico non è solo sorprendentemente sensibile: una volta seduto in
una sala buia il suo quoziente intellettivo si innalza di 25 punti. Quando
andate al cinema non sentite spesso di essere più intelligenti di quello che
state guardando? Non sentite di sapere cosa faranno i personaggi prima che

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lo facciano? Non immaginate il finale molto prima che arrivi? Il pubblico
non è solo intelligente, è più intelligente di gran parte dei film. E questo fatto
rimane vero anche quando si è dietro lo schermo. L’unica cosa che uno
sceneggiatore può dunque fare, utilizzando tutta la propria maestria, è
rimanere sempre un passo avanti alla perspicacia di un pubblico concentrato.
Un film non può funzionare se non comprendete le reazioni e le
aspettative del pubblico. È necessario che voi diate alla vostra storia una
forma che esprima la vostra visione delle cose e che insieme soddisfi i
desideri del pubblico. Nella forma di una storia il pubblico rappresenta una
forza determinante quanto ogni altro elemento, visto che senza un pubblico
l’atto creativo è inutile.

Story parla dell’originale non della copia

L’originalità è l’unione di forma e contenuto: scelte specifiche relative al


soggetto, accoppiate con una forma originale di narrazione. Il contenuto
(ambientazione, personaggi, idee) e la forma (selezione e organizzazione
degli eventi) hanno bisogno l’uno dell’altra e si ispirano e si influenzano a
vicenda. Lo sceneggiatore scolpisce la storia tenendo con una mano il
contenuto e con l’altra padroneggiando la forma. Nell’elaborare la sostanza
della storia, anche la narrazione assumerà altre configurazioni. Mentre
giocate con la forma di una storia, si evolverà il suo spirito emotivo e
intellettuale.
Una storia non è soltanto ciò che avete da dire, ma il modo in cui lo dite.
Se il contenuto è un cliché anche la narrazione sarà un cliché. Ma se la vostra
visione è profonda e originale, allora anche la forma della vostra storia
risulterà unica nel suo genere. D’altro canto se la narrazione è convenzionale
e prevedibile richiederà dei ruoli stereotipati per interpretare comportamenti
banali. Ma se la forma della storia è innovativa allora per realizzarla anche
l’ambientazione, i personaggi e le idee dovranno essere originali. Noi diamo
forma alla narrazione per corrispondere alla sostanza e rielaboriamo la
sostanza per fornire sostegno alla forma.
Tuttavia non bisogna mai scambiare l’originalità con l’eccentricità.
Essere diversi solo per essere diversi è un’azione tanto inutile quanto
seguire pedissequamente gli imperativi commerciali. Dopo aver lavorato per
mesi, forse per anni, a raccogliere fatti, ricordi e fantasie da intessere nella

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propria storia, nessuno sceneggiatore serio imprigiona la propria visione
all’interno di una formula; né la trasforma in banali frammenti di
sperimentazione. La formula del prodotto “ben confezionato” può soffocare
la voce di una storia, ma le tortuosità dei “film d’autore” le causano
problemi di linguaggio. Come i bambini che rompono le cose per
divertimento o fanno i capricci per attirare l’attenzione su di sé, troppi
cineasti usano trucchi infantili sullo schermo per urlare: «Guarda cosa so
fare!». Un artista maturo non richiama mai l’attenzione su di sé, e un artista
saggio non realizza mai una cosa soltanto per infrangere le convenzioni.
Film di maestri come Horton Foote, Robert Altman, John Cassavetes,
Preston Sturges, François Truffaut e Ingmar Bergman sono così personali
che una sinossi di tre pagine identifica l’artista come fosse il suo DNA. I
grandi sceneggiatori si distinguono per lo stile peculiare della narrazione. Lo
stile non è soltanto inscindibile dalla loro visione ma, in modo profondo, è
la loro visione. Le scelte formali che compiono (numero dei protagonisti,
ritmo delle progressioni, livello del conflitto, organizzazioni temporali, e
tutto il resto) giocano a favore e contro le scelte sostanziali del contenuto
(ambientazione, personaggio, idea) fino a che tutti gli elementi si fondono in
un’unica sceneggiatura.
Se tuttavia mettiamo da parte per un istante il contenuto dei loro film e
studiamo solo l’intreccio degli eventi, vediamo che, come se si trattasse di
una “sagoma prodotta senza matrice”, l’originalità della forma delle loro
storie è fortemente carica di significato. La selezione e la collocazione degli
eventi operate dal narratore costituiscono la metafora centrale che collega tra
loro tutti i livelli della realtà: il personale, il politico, l’ambientale e lo
spirituale. Spogliata della superficie fatta di caratterizzazioni e ambientazioni,
la struttura della storia rivela la cosmologia personale dello sceneggiatore, la
sua comprensione più profonda del perché e del come succedono le cose in
questo mondo. La sua mappa per esplorare l’ordine nascosto dell’esistenza.
Non importa quali siano i vostri eroi - Woody Allen, David Mamet,
Quentin Tarantino, Ruth Prawer Jhabvala, Oliver Stone, William Goldman,
Zhang Yimou, Nora Ephron, Spike Lee, Stanley Kubrick - voi li ammirate
perché sono unici. Ciascuno di loro è emerso dalla massa perché ciascuno di
loro seleziona un contenuto e disegna una forma come nessun altro sa fare.
Poi li abbina in uno stile che è indubbiamente personale. Voglio che la stessa
cosa accada anche a voi.

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Ma la mia speranza nei vostri confronti va oltre la competenza e le
capacità. Io ho fame di grandi film. Nel corso degli ultimi trent’anni ho visto
alcuni buoni film e pochissimi ottimi film, ma raramente un film di potenza
e bellezza sconvolgenti. Può darsi che dipenda da me, può darsi che io mi sia
stancato. Ma non penso. Credo ancora che l’arte trasformi la vita.
Ma so che se voi non sarete capaci di suonare tutti gli strumenti
dell’orchestra della scrittura, non importa quale storia possiate avere nella
vostra fantasia, sarete condannati a fischiettare il solito vecchio motivetto.
Ho scritto Story per rendervi padroni di quest’arte. Per liberarvi affinché
possiate esprimere una visione originale della vita. Per innalzare il vostro
talento oltre la convenzione. E per creare film che abbiano una sostanza, una
struttura e uno stile che vi rappresentino.

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Il problema della storia

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Il declino della storia

Pensate a tutte le pagine di narrativa che vengono lette in un solo giorno, le


commedie recitate, i film proiettati, l’infinito flusso di fiction e sceneggiati
televisivi, le notizie trasmesse o stampate 24 ore su 24, le fiabe raccontate ai
bambini prima di dormire, le vanterie da bar, le chiacchiere equivoche fatte
su Internet: insomma l’insaziabile fame di storie. La storia non è solo la
forma artistica più ricca. Quando siamo svegli compete con tutte le altre
attività - il lavoro, il gioco, il cibo, l’esercizio fisico. Raccontiamo e
incameriamo storie per un tempo equivalente a quello in cui dormiamo - e
persino allora sogniamo. Perché? Perché così tanta parte della nostra vita
viene trascorsa all’interno delle storie? Perché, come ci dice il critico
Kenneth Burke, le storie sono strumenti per vivere.
Giorno dopo giorno cerchiamo una risposta all’eterna domanda che
Aristotele si pose nell’Etica: come dovrebbe condurre la propria vita un
essere umano? Ma la risposta ci sfugge, poiché si nasconde dietro una
confusa nebulosa di ore che si susseguono mentre noi combattiamo per
adattare i nostri mezzi ai nostri sogni, fondere l’idea con la passione,
trasformare il desiderio in realtà. Veniamo trascinati irresistibilmente
attraverso il tempo su uno shuttle carico di rischi. E quando tentiamo di
afferrarne la modalità e il significato, la vita, come una Gestalt, crea degli
imprevisti. Dapprima seri, poi comici, statici, frenetici, significativi o privi di
significato. Gli eventi importanti del mondo sono al di fuori del nostro
controllo, mentre spesso veniamo controllati dagli eventi personali,
nonostante gli sforzi che facciamo per tenere “le mani sul volante”.
Tradizionalmente l’umanità ha cercato la risposta al quesito di Aristotele
attraverso le quattro forme di saggezza: la filosofia, la scienza, la religione,
l’arte. Da ognuna di queste discipline ha ricavato una rivelazione e ha
stabilito un significato dell’esistenza. Ma oggi chi legge Hegel o Kant se non
per superare un esame di filosofia? La scienza, che un tempo dava risposte
sull’esistenza, ora ci confonde con la propria complessità e i propri dubbi. E
chi di noi sa ascoltare senza cinismo gli economisti, i sociologi, i politici? La
religione per tanti è diventata un rituale vuoto che maschera ipocrisia.
Mentre diminuisce la nostra fede nelle ideologie tradizionali, ci volgiamo alla
fonte nella quale ancora crediamo: l’arte narrativa.

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Oggi il mondo divora film, romanzi, teatro e televisione in quantità tali e
con tale ingordigia che le arti narrative sono diventate la fonte primaria di
ispirazione dell’umanità alla ricerca di un ordine nel caos e di uno sguardo
più profondo sulla vita. La nostra fame di storie riflette il profondo bisogno
umano di afferrare i significati dell’esistenza, non semplicemente come
esercizio intellettuale, ma all’interno di un’esperienza emozionale molto
personale. Come dice il commediografo Jean Anouilh “la finzione conferisce
forma alla vita”.
C’è chi considera questo desiderio di storie semplice intrattenimento, una
fuga dalla vita piuttosto che una sua esplorazione. Ma cos’è, dopotutto,
l’intrattenimento? Essere intrattenuti significa essere immersi nella cerimonia
della storia fino a un finale soddisfacente a livello intellettuale ed emotivo.
Per il pubblico cinematografico l’intrattenimento è il rituale di restare seduti
al buio e concentrati sullo schermo per sperimentare il significato della
storia. Poi una volta che il significato viene penetrato il pubblico prova
l’insorgere di emozioni forti, a volte persino dolorose, che vengono
totalmente soddisfatte quando il significato viene approfondito.
Che si tratti del trionfo di imprenditori pazzi contro i demoni ittiti in
Ghostbusters o del complesso dissolvimento dei demoni interiori in Shine;
dell’integrazione del personaggio ne Il deserto rosso o della sua
disintegrazione ne La conversazione, ogni bel film, romanzo o commedia,
attraverso le varie sfumature di comico e tragico, intrattiene il pubblico se gli
fornisce un modello originale di vita arricchito di un significato affettivo. Se
l’artista si nasconde dietro l’idea che il pubblico vuole semplicemente
scaricare tutti i propri guai all’ingresso della sala cinematografica e sfuggire
alla realtà, non fa altro che allontanarsi vigliaccamente dalle proprie
responsabilità. La storia non è una fuga dalla realtà, ma un veicolo che ci
conduce nella nostra ricerca della realtà. È il nostro massimo sforzo per dare
un significato all’anarchia dell’esistenza.
E tuttavia, mentre l’impatto dei mass media si estende sempre più e ci
offre ormai l’opportunità di inviare storie a centinaia di milioni di persone,
superando confini e lingue, la qualità complessiva della narrazione va
diminuendo. Ogni tanto leggiamo o assistiamo a lavori eccellenti, ma nella
stragrande maggioranza dei casi ci affatichiamo a ricercare qualcosa di
qualità nelle pubblicità, nei videoshop, tra i programmi televisivi. Oppure
abbandoniamo romanzi letti a metà o usciamo di soppiatto durante gli
intervalli dai teatri. Oppure ci allontaniamo dalle sale cinematografiche

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consolandoci con un: «Certo, però, la fotografia era stupenda...». L’arte
narrativa è in declino e come aveva osservato Aristotele ventitré secoli fa,
quando la narrazione non funziona più, il risultato è la decadenza.
Una narrazione debole e falsa sta prendendo il posto di uno spettacolo
fatto di sostanza. L’inganno si sostituisce alla verità. Storie fragili, che
vogliono disperatamente fermare l’attenzione del pubblico, degenerano in
disoneste pellicole esibizioniste da svariati milioni di dollari. A Hollywood le
immagini diventano sempre più stravaganti, in Europa sempre più
decorative. Il comportamento degli attori diventa sempre più istrionico,
sempre più lascivo, sempre più violento. Gli effetti musicali e sonori si
fanno sempre più tumultuosi. L’effetto complessivo scade nel grottesco. Una
cultura non può evolversi senza una narrazione onesta e possente.
Una cultura finisce con il degenerare quando vive in continuazione
pseudo storie patinate e vuote. Abbiamo bisogno di storie satiriche e tragedie
vere, di drammi e commedie che facciano luce sugli oscuri recessi della
psiche umana e della società. Altrimenti, come avvertì Yeats, “le cose cadono
a pezzi, il centro non può tenere”.
Ogni anno Hollywood produce e/o distribuisce tra i 400 e i 500 film, più
di uno al giorno. Alcuni sono eccellenti, ma la maggior parte sono mediocri,
se non peggio. La tentazione è quella di attribuire questo eccesso di banalità
ai personaggi che approvano le produzioni. Ma ricordiamoci una scena del
film I protagonisti: il giovane produttore di Hollywood, interpretato da Tim
Robbins, spiega di avere tanti nemici perché ogni anno il suo studio accetta
oltre ventimila storie, ma realizza soltanto dodici film. È un esempio di
dialogo realistico: gli “story department” dei principali studios leggono
migliaia e migliaia di copioni, trattamenti, romanzi e commedie alla ricerca di
una bella storia per lo schermo. O, più probabilmente, di qualcosa che si
avvicini al bello e che possano poi trasformare in una storia al di sopra della
media.
Già negli anni Novanta gli investimenti di Hollywood per lo sviluppo
delle sceneggiature avevano superato i 500 milioni di dollari l’anno, tre
quarti dei quali pagati a sceneggiatori per opzioni o riscritture di film mai
realizzati. Nonostante il mezzo miliardo di dollari e gli sforzi continui del
personale addetto allo sviluppo delle storie, Hollywood non riesce a scovare
materiale migliore di quello che porta sullo schermo. La verità quasi
incredibile è che ciò che vediamo ogni anno al cinema è in effetti il frutto
delle cose più belle scritte negli ultimi anni.

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Eppure molti sceneggiatori non sono in grado di accettare questo fatto
fondamentale. Vivono ai limiti dell’illusione, convinti che Hollywood sia
cieca nei confronti del loro talento. Con poche eccezioni, il genio
misconosciuto è un mito. Le sceneggiature di prima qualità vengono
perlomeno scelte, se non addirittura realizzate. Per gli sceneggiatori in grado
di narrare una storia di qualità il mercato è fiorente, lo è sempre stato, e
sempre lo sarà. Hollywood detiene un solido business internazionale capace
di assorbire centinaia di film l’anno, e tanti ne vengono realizzati: la maggior
parte verrà distribuita, proiettata per alcune settimane, ritirata e pietosamente
dimenticata.
Malgrado questo, però, non solo Hollywood sopravvive, ma addirittura
fiorisce. Perché in effetti non ha concorrenza. Non è stato sempre così. Dalla
nascita del Neorealismo all’alta marea della Nouvelle Vague, le sale
nordamericane erano piene di opere realizzate da brillanti cineasti europei
che sfidavano il predominio di Hollywood. Ma con la morte o l’andata in
pensione di questi maestri, gli ultimi trentacinque anni hanno visto un lento
decadimento della qualità dei film provenienti dal Vecchio Continente.
Ai nostri giorni gli autori europei danno la colpa del proprio fallimento e
della propria incapacità di attrarre il pubblico a un complotto dei distributori.
Eppure i film dei loro predecessori - Renoir, Bergman, Fellini, Buñuel,
Wajda, Clouzot, Antonioni, Resnais - venivano proiettati in tutto il mondo. Il
sistema non è cambiato. Il pubblico disponibile a vedere film non
hollywoodiani è ancora vasto e fedele. I distributori hanno oggi la stessa
motivazione che avevano all’epoca: il denaro. Ciò che è cambiato è che gli
autori contemporanei non sono in grado di raccontare una storia con
l’efficacia degli autori della generazione precedente. Come dei pretenziosi
decoratori di interni realizzano film che colpiscono l’occhio e nient’altro. La
conseguenza è che la tempesta del genio europeo si è trasformata in una
palude di film aridi che lasciano a Hollywood un vuoto da riempire.
Le pellicole dell’Est, invece, viaggiano ormai in tutto il Nord America e
nel mondo. Commuovono e deliziano milioni di spettatori. Conquistano con
facilità l’attenzione internazionale per un’unica ragione: gli asiatici
raccontano storie magnifiche. Piuttosto che usare i distributori come capro
espiatorio, i cineasti non hollywoodiani farebbero bene a guardare verso
Oriente, dove gli artisti hanno la passione di raccontare le storie e la capacità
di farlo in modo splendido.

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La perdita del mestiere

L’arte narrativa è la forza culturale che predomina nel mondo. A sua volta
l’arte cinematografica ne è il mezzo espressivo prevalente. Il pubblico
mondiale è appassionato, però resta assetato di storie. Perché? Non per
carenza di sforzi. L’Ufficio Registrazione Copioni della Writers Guild of
America annota annualmente oltre 35.000 titoli. E sono solo quelli registrati.
In America ogni anno vengono proposte centinaia di migliaia di
sceneggiature, ma soltanto una manciata risulta essere di qualità. I motivi
sono molti, ma il principale è che oggi gli aspiranti sceneggiatori corrono alla
macchina da scrivere senza prima aver imparato il mestiere.
Se il vostro sogno fosse quello di comporre musica direste forse: «Ho
ascoltato tante sinfonie... so anche suonare il pianoforte... penso che ne
comporrò una nel fine settimana»?
No. Ma è proprio così che iniziano invece a lavorare molti sceneggiatori:
«Ho visto tanti film, alcuni belli altri brutti. In inglese avevo dieci... sono in
arrivo le vacanze...».
Se voleste comporre musica vi rechereste in conservatorio per studiare la
teoria e la pratica, concentrandovi sulla sinfonia. Dopo anni di studio
diligente abbinereste le vostre conoscenze alla vostra creatività, vi fareste
coraggio e vi cimentereste a comporre. Troppi sceneggiatori in difficoltà non
sospettano neanche che la creazione di una bella sceneggiatura è altrettanto
difficile della creazione di una sinfonia, e per certi versi anche di più. Infatti
mentre il compositore compone musica con la purezza matematica delle
note, noi ci immergiamo in quella caotica materia che va sotto il nome di
natura umana.
Il principiante si butta, contando solo sull’esperienza. Pensa che
l’esistenza vissuta e i film visti gli diano qualcosa da dire e anche il modo
per dirlo. L’esperienza, tuttavia, viene sopravvalutata. Certo noi vogliamo
sceneggiatori che non si nascondano alla vita, che vivano intensamente e
osservino da vicino la realtà. È una cosa vitale questa, ma non è mai
sufficiente. Per gran parte degli sceneggiatori la conoscenza acquisita tramite
letture e studio equivale o supera l’esperienza, soprattutto se l’esperienza non
è stata rielaborata. La chiave è l’autoconoscenza che si raggiunge sommando
alla vita delle profonde riflessioni sulle nostre reazioni alla vita stessa.

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Per quanto riguarda la tecnica ciò che il principiante pensa che sia la sua
competenza è semplicemente il fatto che ha assorbito inconsciamente gli
elementi della storia da ogni romanzo, film o commedia nel quale si è
imbattuto. Mentre scrive confronta il proprio lavoro, portato avanti per
tentativi ed errori, con un modello cui è pervenuto attraverso la somma di
letture e di spettacoli. Lo sceneggiatore non istruito definisce tutto questo
“istinto”, mentre si tratta semplicemente di un’abitudine, per di più
rigidamente limitante. Lo sceneggiatore non istruito imita il proprio prototipo
mentale. Oppure si immagina all’avanguardia e vi si ribella. Ma sia avanzare
alla cieca seguendo un insieme di nozioni inconsapevolmente radicate, sia
ribellarsi a queste nozioni, non produce in alcun modo una tecnica e
conduce a sceneggiature zeppe di cliché commerciali o da cinema d’essai.
Questa lotta tra due estremi è recente. Gli sceneggiatori del passato
apprendevano il proprio mestiere nel corso di decenni, attraverso studi
universitari oppure per conto proprio in biblioteca. Facevano esperienza a
teatro o scrivevano romanzi. Crescevano grazie all’apprendistato presso lo
“studio system” di Hollywood. Oppure combinavano fra loro questi vari
elementi.
All’inizio del XX secolo numerose università americane cominciarono a
ritenere che, come i musicisti e i pittori, anche gli scrittori avessero bisogno
dell’equivalente di una scuola di musica o di belle arti per apprendere i
principi del loro mestiere. Studiosi come William Archer, Kenneth Rowe e
John Howard Lawson scrissero eccellenti libri sulla drammaturgia e la prosa.
Il loro era un metodo che nasceva dall’interno della narrazione e traeva la
propria forza da elementi potenti quali i desideri dei personaggi, le forze
dell’antagonismo, le svolte, la spina dorsale della storia, le sue progressioni,
le crisi e il suo climax: insomma, la storia vista dall’interno. Sceneggiatori e
scrittori capaci, con o senza una formazione scolastica, hanno usato questi
libri per sviluppare il proprio mestiere, trasformando il mezzo secolo che va
dai “ruggenti anni Venti” alle proteste degli anni Sessanta in un’epoca d’oro
della narrativa americana, sia cinematografica che letteraria e teatrale.
Però negli ultimi trentacinque anni il metodo con cui si insegna a scrivere
in modo creativo nelle università americane non è più interno alla storia. Le
mode della teoria letteraria hanno attratto i professori verso il linguaggio, i
codici e il testo, allontanandoli dalle fonti profonde della storia: insomma, la
storia vista dall’esterno. Di conseguenza, a parte alcune notevoli eccezioni,

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l’attuale generazione di sceneggiatori non è stata sufficientemente istruita
circa i principi basilari di una storia.
Fuori dagli Stati Uniti gli sceneggiatori hanno avuto ancor meno
possibilità di studiare il proprio mestiere. Quasi sempre gli accademici
europei negano la possibilità che la scrittura possa essere insegnata e, di
conseguenza, i corsi di scrittura creativa non hanno mai fatto parte dei
programmi delle università europee. L’Europa, naturalmente, finanzia molte
delle accademie d’arte e di musica più brillanti del mondo. È impossibile
dire perché si pensi che un’arte si possa insegnare e un’altra no. La cosa
peggiore è che, fino a poco tempo fa, la scarsa considerazione per l’arte della
sceneggiatura ha impedito che venisse studiata nelle scuole cinematografiche
europee, a eccezione di Mosca e Varsavia.
Molto si può dire contro il vecchio sistema degli studios hollywoodiani,
ma a suo merito andava senz’altro ascritto un metodo di apprendistato
supervisionato da story editor molto esperti. Quel tempo è passato. Di tanto
in tanto uno studio riscopre l’apprendistato; ma, nel suo zelo di riportare in
auge l’età dell’oro, si dimentica che un apprendista ha bisogno di un
maestro. I manager di oggi possono essere in grado di riconoscere l’abilità,
ma pochi hanno la capacità o la pazienza di trasformare uno sceneggiatore di
talento in un artista.
La causa ultima del declino delle storie è molto profonda. La nostra arte
si basa sui valori, cioè sulle cariche positive e negative dell’esistenza. Uno
sceneggiatore scrive la sua storia seguendo la percezione di ciò per cui vale
la pena vivere e morire, cosa è sciocco perseguire, qual è il significato della
giustizia e della verità: cioè i valori essenziali. Nei decenni scorsi lo
sceneggiatore e la società erano più o meno d’accordo su questi temi, ma la
nostra epoca è diventata sempre più un’epoca di cinismo morale ed etico, di
relativismo e soggettivismo, di una grande confusione di valori. Chi, per
esempio, sente di comprendere la natura dell’amore, mentre la famiglia si
disintegra e crescono gli antagonismi fra i sessi? E anche se un autore ha
delle convinzioni, come fa a esprimerle di fronte a un pubblico sempre più
scettico?
Questa crisi di valori ha comportato un parallelo impoverimento delle
storie. Diversamente dagli sceneggiatori di un tempo noi non possiamo dare
nulla per scontato. Per prima cosa dobbiamo scavare in profondità nella vita
per scoprire nuove intuizioni, nuove elaborazioni di valore e di significato, e

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solo dopo possiamo tentare di creare un veicolo per la storia che esprima, a
un mondo sempre più agnostico, la nostra visione. Non è un compito facile.

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L’imperativo di una storia

Quando sono andato a Los Angeles per continuare a mangiare e riuscire a


scrivere ho fatto ciò che fanno in tanti: ho letto. Lavoravo per la United
Artists e la NBC, analizzando possibili sceneggiature per lo schermo e la
televisione. Dopo aver letto circa duecento copioni mi resi conto che avrei
potuto scrivere in anticipo la scheda di commento, limitandomi a cambiare il
titolo del film e il nome dello sceneggiatore. Mi ritrovavo invariabilmente a
scrivere la stessa relazione:

Belle descrizioni, dialoghi recitabili. Alcuni momenti divertenti, alcuni


momenti toccanti. In generale, un copione con parole ben scelte. La storia,
tuttavia, non regge. Le prime trenta pagine sono piene di informazioni, le
altre non riescono mai a decollare. La trama principale, ammesso che ce
ne sia una, è piena di coincidenze, imprevisti e motivazioni deboli. Non si
capisce chi sia il protagonista. Conflitti momentanei e non collegati fra
loro potrebbero trasformarsi in sottotrame, ma non ci riescono mai. I
personaggi vengono rivelati solo superficialmente. Non c’è mai un
momento di sguardo profondo nell’intimità di queste persone o nel loro
ambiente sociale.
È una raccolta informe di episodi prevedibili raccontati male e pieni di
cliché, che arranca fino a scomparire in una nebbia inutile. BOCCIATO.

Non ho invece mai scritto una scheda di questo tipo:

Storia favolosa! Mi ha afferrato dalla prima pagina e mi ha tenuto


avvinghiato fino all’ultimo. Il primo atto raggiunge un improvviso climax,
che si sviluppa in una superba tessitura di trama e sottotrame. Rivelazioni
sublimi del personaggio nel suo intimo. Approfondimenti originali della
società in cui vive. Mi ha fatto ridere, mi ha fatto piangere. Nel secondo
atto giunge a un climax tanto commovente da credere che la storia sia
finita. Però dalle ceneri del secondo atto questo sceneggiatore ha creato un
terzo atto di tale forza, bellezza e magnificenza che sto scrivendo questa
relazione steso sul pavimento. Tuttavia questo copione è un incubo
grammaticale di 270 pagine, dove una parola su cinque è scritta male. Il
dialogo è così intricato che persino Laurence Olivier non riuscirebbe a

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cavarsela. Le didascalie sono piene di indicazioni per la cinepresa,
spiegazioni sul sottotesto e digressioni filosofiche. Il testo non è neanche
battuto nel formato adatto. Si tratta ovviamente di uno sceneggiatore
dilettante. BOCCIATO.

Se avessi scritto questo commento avrei perso il posto.


Sulla targhetta della mia porta non c’è scritto, infatti, “Ufficio Dialoghi” o
“Ufficio Descrizioni”. C’è scritto “Ufficio Storie”. Una buona storia rende
possibile un buon film, mentre l’incapacità di far funzionare la storia
garantisce inevitabilmente il disastro. Un lettore di copioni che non sappia
comprendere questo fatto fondamentale merita di essere licenziato.
In realtà è sorprendente quanto sia raro trovare una storia scritta con
buon mestiere che presenti un dialogo scadente o una descrizione noiosa. In
genere, migliore è la narrazione, più intense sono le immagini e più acuto è il
dialogo. Mentre la mancanza di sviluppo, le false motivazioni, i personaggi
ridondanti, il sottotesto vuoto, i buchi della trama e altri problemi del genere
sono alla base di un testo noioso e inefficace.
Avere talento letterario non è sufficiente. Se non sapete raccontare una
storia tutte le belle immagini e tutte le sottigliezze di dialogo che avete
perfezionato nel corso di mesi saranno solo uno spreco di carta. Ciò che noi
creiamo per il mondo e ciò che il mondo esige da noi è una storia. Ora e per
sempre. Molti sceneggiatori producono con generosità dialoghi eleganti e
descrizioni precise basandosi su racconti anoressici, e poi si chiedono come
mai i loro copioni non vengano mai prodotti. Mentre altri, con un modesto
talento letterario ma una grande forza narrativa, si godono il profondo
piacere di guardare i propri sogni vivere sullo schermo.
Dello sforzo creativo complessivo in un’opera ultimata il 75% e anche
più della fatica di uno sceneggiatore va nella forma della storia. Chi sono
questi personaggi? Che cosa vogliono? Perché lo vogliono? Cosa fanno per
ottenerlo? Cosa glielo impedisce? Quali sono le conseguenze? Trovare le
risposte a queste domande centrali e trasformarle in una storia è il nostro
travolgente compito creativo.
Progettare la forma della storia mette alla prova la maturità e la capacità
di intuizione dello sceneggiatore, la sua conoscenza della società, della natura
e del cuore umano. La storia richiede sia un’immaginazione brillante che un
forte pensiero analitico. Esprimere se stessi non è mai un problema perché,
che lo si voglia o no, tutte le storie, oneste e disoneste, sagge e sciocche,

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rispecchiano fedelmente il loro autore e mettono a nudo la sua umanità... o
la sua assenza di umanità. In confronto a questa cosa terrificante scrivere un
dialogo è un gradevole diversivo.
Così lo scrittore abbraccia questo principio: racconta una storia... e poi si
paralizza. Perché, che cos’è una storia? Una storia funziona un po’ come la
musica. È una vita che ascoltiamo motivi musicali. Possiamo anche ballarli e
cantarli. Pensiamo di sapere la musica fino al momento in cui tentiamo di
comporla... e ciò che esce dal nostro pianoforte fa drizzare il pelo al nostro
gatto.

Se Tender Mercies - Un tenero ringraziamento e I predatori dell’arca


perduta sono entrambe storie meravigliose scritte stupendamente per lo
schermo, e lo sono, cosa mai hanno in comune? Se Hannah e le sue sorelle
e Monty Python e il Sacro Graal sono entrambe delle brillanti storie
comiche raccontate deliziosamente, e lo sono, che cosa vanno a toccare?
Confrontate La moglie del soldato con Parenti, amici e tanti guai,
Terminator con Il mistero Von Bulow, Gli spietati con Mangiare bere uomo
donna. Oppure Un pesce di nome Wanda con Il cameraman e l’assassino,
Chi ha incastrato Roger Rabbit con Le iene.

Ripercorrendo i decenni passati, raffrontate La donna che visse due volte


con 8 1/2, Persona, Rashomon, Casablanca, Rapacità, Tempi moderni con
La corazzata Potemkin. Sono tutte splendide storie per lo schermo. Tutte
molto diverse fra loro, eppure capaci di produrre lo stesso risultato. Un
pubblico che lascia la sala esclamando: «Che storia grandiosa!».
Immerso in un mare di generi e di stili, lo sceneggiatore può finire per
credere che, se tutti questi film raccontano una storia, allora qualsiasi cosa
può essere una storia. Ma se li esaminiamo in profondità, se andiamo oltre la
superficie, scopriamo che in fondo sono tutti la stessa cosa: l’incarnazione
della forma universale della storia. Ciascuno di questi film articola questa
forma sullo schermo in modo unico, ma ogni volta la forma essenziale è
identica. È a questa forma profonda che reagisce il pubblico quando dice:
«Che bella storia!».
Ogni arte è definita dalla propria forma essenziale. Dalla sinfonia all’hip
hop, è la forma propria della musica a far sì che un pezzo sia musica e non
semplice rumore. Che sia figurativa o astratta, i principi basilari dell’arte
visiva fanno sì che una tela sia un dipinto e non uno scarabocchio. Allo

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stesso modo, da Omero a Ingmar Bergman, la forma universale della storia
fa di un’opera una storia e non un ritratto o un collage. In tutte le culture e in
tutte le epoche questa forma innata è stata applicata in modo diverso infinite
volte ma è rimasta immutata.
Però forma non significa “formula”. Non esiste, cioè, una ricetta per
scrivere sceneggiature che vi garantirà la lievitazione del vostro dolce. La
storia è troppo ricca di mistero, complessità e flessibilità per poter essere
ridotta a una formula. Solo uno sciocco ci proverebbe. Uno sceneggiatore
deve invece comprendere la forma della storia. A questo non si sfugge.

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Una buona storia ben raccontata

“Una buona storia” vuol dire una cosa che vale la pena di essere narrata e
che il mondo vuole ascoltare. Trovarla è il tuo solo obiettivo. Ha inizio con il
talento. Dovete essere nati con la capacità creativa di combinare le cose in un
modo che nessuno si è mai sognato di fare prima. Inoltre dovete dare
all’opera una visione mossa da approfondimenti originali sulla natura umana
e sulla società, uniti a una conoscenza approfondita dei vostri personaggi e
del vostro mondo. Tutto questo... e (come rivelano Hallie e Whit Burnett
nel loro eccellente libro Fiction Writer's Handbook) tanto amore.
Amore per la storia: la convinzione che la vostra visione delle cose possa
esprimersi solo attraverso la storia; che i personaggi possano essere più
“veri” della gente stessa; che il mondo della narrazione sia più profondo di
quello reale. Amore per la teatralità: la passione per le improvvise rivelazioni
e le sorprese che producono grandi cambiamenti nella vita. Amore per la
verità: la convinzione che le menzogne danneggino l’artista e che ogni verità
nella vita debba essere messa in dubbio, fino a giungere alle motivazioni più
nascoste. Amore per l’umanità: la disponibilità a immedesimarsi con le
anime che soffrono, a insinuarsi sotto la loro pelle e vedere il mondo con i
loro occhi. Amore per le sensazioni: il desiderio di abbandonarsi non solo ai
sensi fisici, ma anche alle sensazioni più intime. Amore per il sogno: il
piacere di intraprendere viaggi oziosi con la propria immaginazione solo per
vedere dove ci porta. Amore per l’umorismo: il piacere di quello stato di
grazia che rimette in equilibrio la vita. Amore per il linguaggio: la delizia
provata nel suono e nel significato, nella sintassi e nella semantica. Amore
per il dualismo: la percezione delle contraddizioni nascoste della vita; il
salutare sospetto che le cose non sono mai ciò che sembrano. Amore per la
perfezione: la passione di scrivere e riscrivere, alla ricerca del momento
perfetto. Amore per l’unicità: l’eccitazione dell’audacia e la calma glaciale
quando viene ridicolizzata. Amore per la bellezza: un senso innato che sa
apprezzare la buona scrittura, odia la cattiva scrittura, e sa riconoscere la
differenza. Amore per sé: una forza che non ha bisogno di continue
rassicurazioni e che non vi fa mai dubitare che siete uno sceneggiatore.
Amare la scrittura e sopportare la solitudine.
Ma anche l’amore per una buona storia, per personaggi stupendi e per un
mondo mosso dalla vostra passione, dal vostro coraggio e dai vostri doni

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creativi, non è ancora sufficiente. Il vostro obiettivo deve essere una buona
storia ben raccontata.
Come un compositore deve eccellere nei principi della composizione
musicale, così dovete padroneggiare i corrispondenti principi della
composizione di una storia. Quest’arte non è fatta né di meccanismi né di
trucchi. È l’insieme di tecniche con le quali creiamo un’unione profonda fra
noi e il pubblico. Il mestiere è la somma totale di tutti i mezzi usati per
coinvolgere il pubblico, per mantenerlo coinvolto e infine per
ricompensarlo. Regalandogli un’esperienza commovente e ricca di
significato.
Senza mestiere uno sceneggiatore può al massimo acchiappare al volo la
prima idea che gli viene in mente. Poi resterà impotente di fronte alla propria
idea, incapace di rispondere alle terribili domande: è buona? È una
schifezza? Se è una schifezza, che faccio? La mente consapevole,
ossessionata da queste terribili domande, blocca il subconscio. Ma quando la
mente consapevole si applica in modo concreto usando il mestiere, allora
affiora l’elemento spontaneo. Padroneggiare il mestiere significa liberare il
subconscio.
Qual è il ritmo della giornata di uno sceneggiatore? Per prima cosa
entrate nel vostro mondo immaginario. Mentre i personaggi parlano e
agiscono, voi scrivete. E qual è la cosa successiva da fare? Uscite dalla
vostra fantasia e leggete ciò che avete scritto. E cosa fate mentre leggete?
Analizzate: è buono? Funziona? Perché non funziona? Devo tagliare?
Aggiungere? Mettere in ordine? Scrivete e leggete; create e criticate; impulso
e logica; emisfero destro ed emisfero sinistro; immaginate di nuovo e
riscrivete. La qualità delle vostre riscritture e la possibilità della perfezione
dipendono dal vostro padroneggiare il mestiere. Ed è ciò che vi guida a
correggere le imperfezioni. Un artista non è mai alla mercé di impulsi
capricciosi; esercita consapevolmente il proprio mestiere per dare vita ad
armonie fatte di istinto e idee.

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Storia e vita

Nel corso degli anni ho potuto osservare due tipi specifici e ricorrenti di
sceneggiatura fallita.
Il primo è quello della sceneggiatura brutta della serie “storia personale”.

In un’ambientazione da ufficio incontriamo la protagonista che ha un


problema: merita una promozione, ma le stanno facendo le scarpe.
Arrabbiata, si dirige a casa dei propri genitori. Il padre è ormai
rimbambito e mamma non ce la fa più. Rientra nel proprio appartamento e
litiga con la compagna di stanza sciatta e infida. Va a un appuntamento
galante e deve affrontare un fallimento a livello comunicativo: il suo
amante insensibile la porta in un costoso ristorante francese
dimenticandosi completamente che lei è a dieta. Ritorna in ufficio dove, a
sorpresa, ottiene la promozione... ma adesso le pressioni aumentano.
Ritorna a casa dai genitori e, appena riesce a risolvere il problema di
papà, crolla mamma. Torna a casa propria e scopre che la compagna di
stanza le ha rubato il televisore ed è scomparsa senza pagare l’affitto.
Chiude la storia col proprio amante, si mangia tutto il frigorifero e mette
su tre chili. Ma, a testa alta, trasforma la propria promozione in un trionfo.
Una chiacchierata nostalgica a cuore aperto, durante una cena con i suoi,
cura i dolori di mamma. La nuova compagna di stanza non è soltanto un
affidabile tesoro che paga l’affitto usando assegni circolari con settimane
di anticipo, ma le presenta perfino un Nuovo Uomo. A questo punto siamo
a pagina 95. Lei riesce a seguire la dieta e ha un aspetto stupendo per le
ultime 25 pagine, che sono l’equivalente letterario alla moviola di una
corsa fra le margherite mentre sboccia la storia romantica con il Nuovo
Uomo. Alla fine lei affronta la Decisione Critica: impegnarsi seriamente
oppure no? La sceneggiatura termina con un climax lacrimoso in cui lei
scopre di avere bisogno di un proprio spazio vitale.
Il secondo tipo è la sceneggiatura brutta da “successo commerciale
garantito”.

Per via di uno scambio di valigie all’aeroporto, un venditore di


software entra in possesso della-cosa-che-metterà-fine-alla-civiltà-così-
come-la-conosciamo-oggi. La-cosa-che-metterà-fine-alla-civiltà-così-

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come-la-conosciamo-oggi è piuttosto piccola. In effetti è nascosta
all’interno di una penna a sfera, inavvertitamente finita nella tasca dello
sfortunato protagonista. Che diventa così l’obiettivo di un cast di una
trentina di personaggi, tutti con doppie o triple identità, tutti con
esperienze di lavoro dall’una e dall’altra parte della “cortina di ferro”,
tutti che si conoscono fra loro dai tempi della “guerra fredda”, tutti che
tentano ora di ammazzare questo tizio. La sceneggiatura è piena di
inseguimenti in macchina, di sparatorie, esplosioni e fughe da far rizzare i
capelli. Quando non salta in aria nulla o non viene mitragliato nessuno, la
sceneggiatura si blocca su scene dense di dialogo, in cui l’eroe cerca di
raccapezzarsi in mezzo a tutti questi personaggi doppi per scoprire di chi si
può fidare. Il tutto termina con una cacofonia di violenze e di effetti
speciali da molti milioni di dollari, durante i quali l’eroe riesce a
distruggere la-cosa-che-metterà-fine-alla-civiltà-così-come-la-conosciamo-
oggi e così salva l’umanità.

La storia personale è sottostrutturata, un ritratto del tipo tranche de vie


che scambia la verosimiglianza per la verità. Questo sceneggiatore è
convinto che più sono precise le sue osservazioni dei fatti quotidiani, più
accurata è la sua cronaca di ciò che in effetti succede e più verità sta
esprimendo. Ma un fatto, per quanto minutamente osservato, è una verità
con la “v” minuscola. La Verità con la “V” maiuscola è situata dietro, oltre,
dentro, sotto la superficie delle cose: tiene insieme la realtà oppure la
smembra, e non può essere osservata direttamente. Questo sceneggiatore
vede solo ciò che risulta visibile e reale, ma è cieco nei confronti della verità
della vita.
Invece il “successo commerciale garantito” è un assalto alle percezioni
sensoriali dello spettatore: è talmente sovrastrutturato, iper complicato e
sovrappopolato da non avere alcun rapporto con la vita. Questo
sceneggiatore scambia il movimento per intrattenimento. Si augura che,
qualunque sia la storia, se inserisce un numero sufficiente di azioni ad alta
velocità e di immagini abbacinanti, il pubblico sarà entusiasta. E se si
considera il fenomeno delle Immagini Generate al Computer, tipiche di tante
distribuzioni estive, questo sceneggiatore non ha del tutto torto.
Questo tipo di spettacoli sostituisce una simulazione della realtà
all’immaginazione. Usano la storia come pretesto per utilizzare effetti mai
visti. Ci trasportano al centro di un tornado, di mascelle di dinosauro o di

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olocausti futuristici. E, badate bene, questi spettacoli da sarabanda possono
effettivamente procurare un sacco di eccitazione. Ma, proprio come avviene
in un parco dei divertimenti, i loro piaceri sono di breve durata. E la storia
del cinema continua a dimostrare che, non appena divenute popolari, le
nuove emozioni di pura azione affondano in un’apatia fatta di frasi del tipo
«Già visto, già fatto».
Più o meno ogni dieci anni le innovazioni tecnologiche producono una
messe di film raccontati male con l’unico scopo di sfruttare lo spettacolo.
L’invenzione stessa del cinema, una sorprendente simulazione della realtà,
determinò grande entusiasmo nel pubblico, seguito da anni di storie insulse.
Col tempo, tuttavia, il cinema muto si trasformò in una magnifica forma
artistica che venne poi distrutta dall’avvento del sonoro, e cioè da una
simulazione ancora più realistica della realtà. I film dei primi anni Trenta
fecero un passo indietro in quanto il pubblico si sottometteva
volontariamente a storie insipide per il piacere di sentir parlare gli attori. In
seguito il cinema sonoro migliorò notevolmente, per poi cedere il passo
all’invenzione del colore, del S-D, del Cinemascope, e ora alle Immagini
Generate al Computer, o CGI.
Le CGI non sono né una maledizione né una panacea. Aggiungono
semplicemente nuove sfumature alla tavolozza della storia. Grazie alle CGI
qualsiasi cosa immaginiamo può venir realizzata. E realizzata con sottile
soddisfazione. Quando le CGI sono giustificate da una storia forte, come
Forrest Gump o Men in Black, questi effetti scompaiono dietro la storia che
stanno narrando. Arricchiscono l’effetto senza richiamare l’attenzione su di
sé. Lo sceneggiatore “commerciale”, tuttavia, viene spesso abbagliato dalla
luce dello spettacolo e non riesce a capire che l’intrattenimento destinato a
durare nel tempo si trova solo nelle pregnanti verità umane collocate al di
sotto dell’immagine.
Gli sceneggiatori delle storie personali, quelli dei film spettacolari, e in
realtà tutti gli sceneggiatori, devono arrivare a comprendere il rapporto che
lega la storia alla vita: la storia è una metafora della vita.
Un narratore è un poeta della vita, un artista che trasforma la vita
quotidiana interiore ed esteriore, il sogno e la realtà, in una poesia dove versi
e rime sono gli eventi invece delle parole. Una metafora di due ore che dice:
la vita è così. Di conseguenza, una storia deve astrarsi abbastanza dalla vita
per scoprirne le essenze, senza però diventare un’astrazione che perda il
sapore della vita vissuta. Una storia deve essere come la vita, ma questo non

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significa che non debba avere altre profondità o significati oltre ciò che
appare ovvio a tutti.
Gli sceneggiatori di storie personali devono comprendere che i fatti sono
neutri. La giustificazione più debole per inserire qualunque cosa in una
storia è: «È successo veramente». Tutto succede; qualunque cosa
immaginabile succede. In realtà succede anche l’inimmaginabile. Ma una
storia non è la vita nella sua realtà. Il fatto che le cose avvengano di per sé
non ci avvicina alla verità. Ciò che avviene è un fatto, non la verità. La verità
è quello che noi pensiamo di quanto accade.
Prendiamo un insieme di fatti noti come “la vita di Giovanna d’Arco”.
Per secoli scrittori famosi hanno portato questa donna sul palcoscenico, sulle
pagine e sullo schermo. Ogni Giovanna è unica nel suo genere: c’è quella
spirituale di Anouilh, quella arguta di Shaw, la Giovanna politica di Brecht,
la Giovanna sofferente di Dreyer, la guerriera romantica di Hollywood. Nelle
mani di Shakespeare diventò Giovanna la pazza, un punto di vista
tipicamente britannico. Ogni Giovanna è ispirata da Dio, mette insieme un
esercito, sconfigge gli inglesi, viene bruciata sul rogo. I “fatti” di Giovanna
sono sempre gli stessi, ma cambiano i generi, mentre la “verità” della sua
vita attende che ogni sceneggiatore ne trovi il senso.
Gli sceneggiatori di film spettacolari, invece, devono comprendere che le
astrazioni sono neutre. Per astrazioni intendo strategie di disegno grafico,
effetti visivi, saturazione di colore, prospettive sonore, ritmo di montaggio, e
tutto il resto. Queste cose non hanno in sé e per sé alcun significato. Lo
stesso identico tipo di montaggio applicato a sei scene diverse porta a sei
interpretazioni completamente diverse. Nell’estetica del cinema i mezzi
tecnici esprimono il contenuto vivo della storia, però non devono mai
diventare fini a se stessi.

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Capacità e talenti

Anche se deboli a livello narrativo, gli autori di storie personali o di film


spettacolari potrebbero possedere una o due capacità essenziali. Gli
sceneggiatori che sono attratti dal reportage spesso sanno usare la forza dei
sensi: la capacità di trasmettere le sensazioni del corpo al lettore con tale
acutezza e sensibilità che il cuore del lettore sobbalza quando viene colpito
dalla chiara bellezza delle loro immagini. Gli sceneggiatori di film
spettacolari pieni di azione, d’altro canto, hanno spesso la capacità
immaginativa di far sentire il pubblico trasportato da ciò che è a ciò che
potrebbe essere. Sono in grado di trasformare presunte impossibilità in
certezze sconvolgenti. Anche loro fanno sobbalzare i cuori. Sia la percezione
dei sensi che una viva immaginazione sono doni invidiabili ma, come in un
buon matrimonio, l’uno deve essere complementare all’altro. Presi
singolarmente, il loro valore diminuisce.
A un estremo della realtà esiste il fatto puro e semplice; all’altro estremo
vive la pura e semplice immaginazione. Tra questi due poli trova spazio la
gamma infinitamente diversificata della narrazione. Una scrittura solida
raggiunge un equilibrio all’interno di questa gamma. Se ciò che scrivete
oscilla da un estremo all’altro, dovete imparare ad armonizzare tutti gli
aspetti della vostra umanità. Dovete porvi lungo lo spettro creativo: essere
sensibili alle immagini, al suono, alle emozioni, eppure essere in grado di
equilibrare il tutto con il potere dell’immaginazione. Scavate a piene mani.
Usate il vostro sguardo interiore e il vostro istinto per commuoverci, per
esprimere la vostra visione di come e perché gli esseri umani fanno ciò che
fanno.
E per finire, non sono solo le capacità sensoriali e immaginative a
costituire dei prerequisiti per la creatività; scrivere richiede altri due talenti
particolari ed essenziali che, tuttavia, non sono necessariamente collegati fra
loro. Una grande quantità dell’uno non comporta che ci sia una quantità
anche solo minima dell’altro.
Il primo è il talento letterario: la trasformazione creativa del linguaggio
ordinario in una forma superiore più espressiva che descrive in modo
intenso il mondo e cattura le voci umane. Eppure il talento letterario è
comune. In ogni comunità istruita del mondo esistono centinaia, se non
migliaia, di persone in grado, in varia misura, di partire dal linguaggio

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comune della propria cultura per giungere a qualcosa di straordinario. Molti
scrivono splendidamente, alcuni in modo letterariamente magnifico.
Il secondo è il talento narrativo: la trasformazione creativa della vita
stessa in un’esperienza più possente, più chiara e più significativa. Questo
tipo di talento creativo cerca di rinvenire il paesaggio interiore della nostra
epoca e lo rimodella in una narrazione che arricchisce la vita. Un puro
talento di questo tipo è cosa rara. Quale sceneggiatore, basandosi sul solo
istinto, crea anno dopo anno delle storie narrate brillantemente e non pensa
neanche per un momento a come fa ciò che fa o a come potrebbe farlo
meglio? Il genio istintivo può produrre magari una volta un’opera di qualità,
ma il talento di ripetere la perfezione non nasce dalla spontaneità e
dall’istinto.
Il talento letterario e quello narrativo non sono soltanto molto differenti,
ma non hanno nessuna relazione tra loro. Le storie non hanno bisogno di
essere scritte per essere raccontate. Le storie possono essere espresse in tutti i
modi in cui gli esseri umani comunicano.
Teatro, prosa, cinema, opera, mimo, poesia, balletto: sono tutte forme
magnifiche del rituale della storia, ciascuna con i propri aspetti deliziosi. In
diversi momenti storici, tuttavia, una di queste forme ruba la scena. Nel
sedicesimo secolo fu la volta del teatro; nel diciannovesimo del romanzo, nel
ventesimo del cinema, grandioso concerto di tutte le arti. I momenti più forti
ed efficaci sullo schermo non richiedono descrizioni verbali per crearli o un
dialogo per interpretarli. Sono immagine pura e silenziosa. La materia del
talento letterario sono le parole. La materia del talento narrativo è la vita
stessa.

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Il mestiere valorizza il talento

Per quanto raro sia il talento narrativo, incontriamo spesso qualcuno che
sembra possederlo in modo innato: narratori improvvisati per i quali
raccontare è facile quanto sorridere.
Una narrazione può iniziare, per esempio, quando dei colleghi vanno a
prendere un caffè. Il racconto rappresenta la moneta di scambio del contatto
umano. E in ogni mezza dozzina di anime che si radunano per questo rituale
a metà mattinata ce ne sarà sempre almeno una provvista di questo dono.
Supponiamo che questa mattina il nostro narratore sia una donna che
racconti agli amici la storia di: «Come ho messo i miei figli sul pulmino della
scuola». Come succede nel poema La ballata del vecchio marinaio di
Coleridge, lei riesce ad agganciare l’attenzione di tutti. Li attira nel suo
incantesimo e li tiene con la bocca aperta davanti alla tazzina di caffè.
Sviluppa il proprio racconto, li interessa, li rilassa, li fa ridere, magari
piangere. E li tiene tutti in sospeso prima di ripagarli con un’esplosiva ultima
scena: «Ed è così che stamattina ho messo quei mocciosi sul pulmino». I
suoi colleghi si rilassano soddisfatti mormorando: «Oddio sì, Ellen, i miei
figli sono proprio così».
Supponiamo adesso che la narrazione passi alla persona accanto a lei che
comincia a raccontare agli altri l’accorata storia di come le è morta la madre
durante un weekend... facendo venire il latte alle ginocchia a tutti. La sua
storia rimane in superficie, è un continuo vagare tra cliché e dettagli banali:
«Era così bella nella sua bara». A metà di questo racconto il resto dei
colleghi torna alla macchina del caffè per prendere un’altra tazzina, facendo
orecchie da mercante al suo racconto di dolore.
Potendo scegliere tra materiale banale raccontato in modo brillante e
materiale profondo raccontato male, il pubblico sceglierà sempre quello
banale raccontato brillantemente. I maestri narratori sanno come spremere
vita dalla più banale delle cose, mentre i narratori scadenti riducono a
banalità le cose più profonde. Potete avere l’intuito illuminato di un Buddha,
ma se non sapete narrare le vostre idee diventeranno aride come gesso.
Il talento narrativo è primario, il talento letterario è secondario ma
essenziale. Questo principio vale in modo assoluto nel cinema e nella
televisione. Ma anche per il palcoscenico e la letteratura è più vero di quanto
molti romanzieri e commediografi siano pronti a riconoscere. Per quanto

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raro sia il talento narrativo dovete avercene un po’, altrimenti non vi
pruderebbero le mani per la voglia di scrivere. Il vostro compito è di
spremere tutta la creatività possibile. Solo usando tutto ciò che sapete sul
mestiere di raccontare storie potrete fare sì che il vostro talento forgi una
storia. Infatti il talento senza mestiere è come il carburante senza motore.
Brucia molto ma non combina niente.

40
Parte II

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GLI ELEMENTI DELLA STORIA

Una storia ben raccontata è un’unità sinfonica in cui si fondono


fluidamente struttura, ambientazione, personaggio, genere e idea. Per
armonizzarli, lo sceneggiatore deve studiare gli elementi della storia come
se fossero strumenti di un’orchestra: dapprima separatamente, poi insieme.

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Le parti della struttura

La terminologia del disegno della storia

Quando nella vostra fantasia fa il suo ingresso un personaggio porta con sé


una serie di potenzialità narrative. Se volete, potete iniziare la storia prima
della nascita del personaggio, poi seguirlo giorno per giorno, decennio dopo
decennio, finché muore e scompare. L’esistenza di un personaggio abbraccia
centinaia di migliaia di ore di vita complesse e stratificate.

Da un istante all’eternità, dall’infracranico all’intergalattico, la storia


esistenziale di ogni personaggio offre possibilità enciclopediche. Un
maestro è colui che ci racconta un’intera esistenza selezionandone solo
alcuni momenti.

Partendo dal livello più profondo, potreste ambientare la storia nella vita
interiore del protagonista e narrarla per intero dall’interno dei suoi pensieri e
sentimenti, sia in stato di veglia che di sonno. O potreste invece passare al
livello del conflitto personale fra il protagonista e la sua famiglia, i suoi
amici, i suoi amanti. Oppure ampliare la narrazione alle istituzioni sociali,
ponendo il personaggio in contrasto con la scuola, il mondo del lavoro, la
chiesa o il sistema giudiziario. Ampliando sempre di più, potreste porre il
personaggio a confronto con l’ambiente: pericolose strade metropolitane,
malattie letali, macchine che non si mettono in moto, il tempo che sta per
scadere. Oppure una qualsiasi combinazione di tutti questi livelli.
Questa complessa portata della storia vissuta deve però diventare la
storia raccontata. Per progettare il disegno di un film a soggetto dovete
ridurre la massa ribollente e tumultuosa della storia esistenziale a due sole
orette che esprimano anche tutto ciò che avete dovuto lasciare fuori. E non è
forse questo l’effetto quando una storia è ben raccontata? Quando gli amici
vi raccontano di aver visto un film e voi chiedete loro di che parlava, avete
notato che spesso narrano la storia raccontata come se fosse all’interno
della storia esistenziale?
«È favoloso! Parla di un tizio allevato in una fattoria di mezzadri. Da
bambino lavorava duramente con la sua famiglia sotto il sole cocente.

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Andava a scuola, ma non rendeva bene perché doveva alzarsi all’alba, per
strappare erbacce e zappare. Poi qualcuno gli ha dato una chitarra e lui ha
imparato a suonare e a comporre le proprie canzoni... Finalmente, stufo di
quella vita faticosissima, è scappato, vivendo alla giornata e suonando in bar
di infimo ordine. Poi ha incontrato una bella ragazza con una gran voce. Si
sono innamorati, hanno fatto coppia e - bang - le loro carriere sono
decollate. Il problema, però, è che l’attenzione era sempre su di lei. Lui
scriveva le loro canzoni, faceva gli arrangiamenti, la sosteneva, ma la gente
veniva solo per vedere lei. Vivendo all’ombra di lei, lui si mette così a bere.
Alla fine lei lo caccia, lui si ritrova di nuovo per strada e ben presto finisce
in fondo al baratro. Si sveglia in un motel da quattro soldi in una polverosa
cittadina del Midwest al centro del nulla; senza un soldo, senza un amico,
ubriaco perso, senza neanche una monetina per telefonare, ma tanto, anche
se ne avesse avuta una, non avrebbe saputo chi chiamare».
In altre parole, si tratta di Tender Mercies - Un tenero ringraziamento
raccontato dall’inizio. Ma niente di tutto questo è nel film. Tender Mercies
comincia con Mac Sledge, interpretato da Robert Duvall, che una mattina si
sveglia in fondo al baratro. Le due ore di film coprono l’anno successivo
nella vita di Sledge. Eppure nelle scene e fra le scene noi veniamo a sapere
tutto del suo passato e ogni cosa significativa successa a Sledge quell’anno,
finché l’ultima immagine ci fornisce una visione del suo futuro. La vita di un
uomo, virtualmente dalla nascita alla morte, viene catturata fra la dissolvenza
in apertura e la dissolvenza in chiusura della sceneggiatura, vincitrice di un
Oscar, scritta da Horton Foote.

La struttura

Attingendo dall’ampio flusso della storia vissuta, lo sceneggiatore deve


effettuare delle scelte. I mondi immaginari non sono sogni a occhi aperti, ma
officine dove noi lavoriamo faticosamente in cerca di materiale per
confezionare un film. Eppure alla domanda: «Tu cosa scegli?» non esistono
due sceneggiatori che darebbero la stessa risposta. Alcuni vanno alla ricerca
del personaggio, altri dell’azione e dei conflitti, forse degli stati d’animo,
delle immagini, del dialogo. Ma nessun elemento, di per se stesso, costruisce
la storia. Un film non è semplicemente un susseguirsi di momenti di conflitto

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o di attività, di personalità o di emozioni, di dialoghi arguti o di simboli. Ciò
che lo sceneggiatore cerca sono gli eventi. Un evento contiene tutto quanto
detto sopra e anche di più.

La STRUTTURA è una selezione di eventi tratti dalle storie esistenziali


dei personaggi, sistemati in un ordine scelto per causare precise emozioni
ed esprimere una precisa visione della vita.

Un evento è causato da qualcuno oppure lo coinvolge e in questo modo


delinea un personaggio; accade in un’ambientazione, genera immagini,
azione e dialogo; attinge energia dal conflitto e produce emozioni nei
personaggi e nel pubblico. Ma gli eventi scelti non possono essere mostrati a
caso o in modo indifferente, devono essere composti, e “comporre” in una
storia somiglia molto a ciò che si fa nella musica. Cosa si include? Cosa si
esclude? Cosa va messo prima? E quest’altro, dopo cosa va inserito?
Per rispondere a queste domande bisogna che conosciate il vostro
obiettivo. A che scopo comporre gli eventi? Un obiettivo può essere quello
di esprimere le vostre emozioni; ma diventa indulgenza verso se stessi se non
porta anche a stimolare le emozioni nel pubblico. Un secondo scopo può
essere quello di esprimere delle idee; ma se il pubblico non è disposto a
seguirle si rischia il solipsismo. Quindi il disegno degli eventi ha bisogno di
una duplice strategia.

L’evento

Evento significa cambiamento. Se guardando fuori dalla finestra vedete che


le strade sono asciutte, ma dopo un sonnellino notate che sono bagnate,
penserete che ha avuto luogo un evento chiamato pioggia. Il mondo è
cambiato da asciutto a bagnato. Tuttavia non si può fare un film basato su
cambiamenti meteorologici (anche se c’è chi ci ha provato). In una storia gli
eventi sono significativi, non banali. Perché un cambiamento sia
significativo deve, tanto per cominciare, accadere a un personaggio. Vedere
una persona fradicia sotto la pioggia ha ben altra rilevanza che vedere una
strada bagnata.

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Un EVENTO DELLA STORIA crea nella situazione esistenziale del
personaggio un cambiamento significativo che viene espresso e vissuto nei
termini di un valore.

Per rendere significativo un cambiamento è necessario che voi lo


esprimiate - e che il pubblico lo elabori - nei termini di un valore. Col
termine valore non intendo virtù, e neppure lo uso nell’accezione ristretta e
moraleggiante di “valori della famiglia”. I valori della storia si riferiscono
piuttosto al senso più ampio dell’idea. I valori sono l’anima della narrazione.
In ultima analisi, la nostra è l’arte di esprimere all’esterno una percezione di
valori.

I VALORI DELLA STORIA sono le qualità universali dell’esperienza


umana che, da un momento all’altro, possono passare dal positivo al
negativo, oppure dal negativo al positivo.

Per esempio: vivo/morto (positivo/negativo) è un valore di una storia,


come lo sono amore/odio, libertà/schiavitù, verità/bugia, coraggio/viltà,
lealtà/tradimento, saggezza/stupidità, forza/debolezza, eccitazione/noia, e così
via. Tutte queste polarità dell’esperienza, che possono in qualsiasi momento
invertire la propria carica, sono i valori della storia. Possono essere di ordine
morale: bene/male; di tipo etico: giusto/sbagliato; o semplicemente caricate di
un valore. Speranza/disperazione non è di ordine morale né etico, ma noi
sappiamo sicuramente riconoscere quando ci troviamo all’uno o all’altro
polo di questa esperienza.
Immaginate che la vostra finestra si affacci sull’Africa Orientale degli
anni Ottanta, un regno di siccità. Abbiamo subito in gioco un valore: la
sopravvivenza, vita/morte. Partiamo dal negativo: questa terribile carestia sta
uccidendo migliaia di persone. Se dovesse piovere e un monsone riportasse
il verde sulla terra, gli animali al pascolo e la gente alla sua esistenza, questa
pioggia risulterebbe profondamente significativa, in quanto sposterebbe il
valore dal negativo al positivo, dalla morte alla vita.
Per quanto fondamentale possa essere questo evento non può tuttavia
ancora essere considerato l’evento di una storia in quanto si è verificato per
caso: finalmente è piovuto nell’Africa Orientale. Sebbene nella narrazione ci
sia posto per le coincidenze, una storia non può essere costruita solo su
eventi accidentali, per quanto caricati di valore.

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Un evento della storia crea un cambiamento significativo nella
situazione esistenziale di un personaggio. Questo cambiamento viene
espresso e vissuto in termini di valore e OTTENUTO ATTRAVERSO IL
CONFLITTO.

Riprendiamo il mondo della siccità. Vi fa il suo ingresso un personaggio


che si considera un uomo della pioggia. Questo personaggio vive un
profondo conflitto interiore fra la propria appassionata convinzione di poter
portare la pioggia, sebbene non sia mai stato in grado di farlo, e il terrore di
essere uno sciocco o un folle. L’uomo della pioggia incontra una donna e se
ne innamora. Poi soffre perché, dopo aver cercato di credere in lui, lei lo
lascia, convinta che sia un ciarlatano, se non peggio. A questo punto lui
entra in forte conflitto con la società. Alcuni lo seguono come se fosse un
messia, altri lo vogliono cacciare dalla città a sassate. Per finire, deve
affrontare un conflitto implacabile con il mondo fisico: i venti caldi, i cieli
azzurri, la terra riarsa. Se quest’uomo è capace di lottare e uscire vincitore da
tutti i suoi conflitti interni e personali, da quelli sociali e da quelli con le
forze della natura, se riuscirà finalmente a strappare la pioggia al cielo
limpido, allora quel temporale sarà maestoso e significativo in modo
sublime, perché si tratterà di un cambiamento motivato attraverso il
conflitto. Ciò che vi ho descritto è The rainmaker – L’uomo della pioggia,
una commedia scritta e adattata per il cinema da Richard Nash.

La scena

Per un film di lunghezza comune lo sceneggiatore sceglie da quaranta a


sessanta eventi della storia, comunemente chiamati scene. Un romanziere
può avere bisogno di oltre sessanta eventi, un commediografo raramente
arriva a quaranta.

Una SCENA è un’azione che avviene attraverso il conflitto in una


condizione spazio-temporale più o meno invariata e che modifica, a livello
di valori, la condizione esistenziale di un personaggio per quanto riguarda
almeno uno di questi valori e con un grado di significato percepibile.
Idealmente ogni scena è UN EVENTO DELLA STORIA.

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Esaminate attentamente ogni scena che avete scritto e chiedetevi: quale
valore è in gioco nella vita del mio personaggio in questo momento?
L’amore? La verità? Cosa? Che carica ha quel valore all’inizio della scena?
Positivo? Negativo? Un po’ di entrambi? Annotatevi la risposta. Poi passate
alla fine della scena e chiedetevi: dov’è ora questo valore? Sul positivo? Sul
negativo? Su entrambi? Annotate la risposta e raffrontate. Se la risposta che
avete scritto alla fine della scena è la stessa che avevate segnato all’inizio
dovete a questo punto farvi un’altra domanda importante: che ci sta a fare
questa scena nel mio copione? Se la condizione esistenziale del personaggio
con la sua carica di valore rimane immutata dall’inizio alla fine di una scena
vuol dire che non succede niente di significativo. La scena contiene delle
attività - si parla, si fanno cose - ma nulla cambia di valore. È un non-
evento.
Perché allora questa scena sta nella storia? La risposta è quasi certamente
“a scopo di esposizione”. Sta lì per soddisfare il pubblico curioso di origliare
informazioni circa i personaggi e il loro mondo oppure la storia. Se
l’esposizione di informazioni è l’unica giustificazione per la presenza di una
scena uno sceneggiatore disciplinato la straccerà e inserirà quelle
informazioni in qualche altra parte nel film.
Nessuna scena senza una svolta: questo è il nostro ideale. Noi lavoriamo
affinché ogni scena completa modifichi il valore in gioco nella vita del
personaggio e lo sposti cioè da un polo all’altro, o viceversa. Aderire a
questo principio può essere difficile, ma non è affatto impossibile.
È chiaro che Die Hard - Trappola di cristallo, Il fuggitivo e Cane di
paglia superano la prova, ma questo ideale viene preservato in modi più
sottili e per nulla meno rigorosi anche in Quel che resta del giorno e Turista
per caso. La differenza è che i film d’azione sono imperniati su valori
sociali, per esempio libertà/schiavitù o giustizia/ingiustizia; mentre il genere
dei film educativi ruota su valori interiori quali
autoconsapevolezza/autoinganno, oppure valori esistenziali come pieno di
senso/privo di senso. Indipendentemente dal genere nel quale si opera, il
principio è universale: se in una scena non c’è un vero evento, va eliminata.
Per esempio:

Chris e Andy sono innamorati e vivono insieme. Si alzano una mattina e


iniziano a litigare. ll litigio si intensifica in cucina, mentre preparano

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frettolosamente la colazione. Lo scontro diventa più duro in garage, mentre
salgono in macchina per andare al lavoro. Alla fine, in autostrada, le
parole si trasformano in violenza. Andy accosta bruscamente l’auto, esce
di scatto e mette fine alla loro relazione. Questa serie di azioni e location
crea una scena: porta la coppia dal positivo (innamorati e insieme) al
negativo (odio e separazione).

I quattro cambiamenti di ambiente - camera da letto, cucina, garage,


autostrada - sono posizioni della cinepresa e non delle scene. Sebbene
intensifichino il comportamento e rendano più credibili i momenti critici,
non modificano i valori in gioco. Mentre la lite sale di tono nel corso della
mattinata la coppia è ancora insieme e presumibilmente innamorata. Ma
quando l’azione raggiunge il momento di svolta (lo sportello di un’auto
sbattuto e la dichiarazione di Andy: «È finita!») la vita dei due amanti viene
stravolta, i gesti diventano azione e lo sketch diventa una scena completa: un
evento della storia.
Generalmente la prova del nove per capire se una serie di gesti
costituiscono o meno una vera scena è la seguente: sarebbe stato possibile
scriverla in “un’unica” unità di tempo e di spazio? In questo caso la risposta
è sì. La loro discussione potrebbe iniziare nella camera da letto, intensificarsi
nella camera da letto e determinare la fine della relazione nella camera da
letto. Innumerevoli relazioni sono finite nelle camere da letto. O in cucina. O
nel garage. O, se non in autostrada, nell’ascensore di un ufficio. Un
commediografo potrebbe scrivere questa scena proprio così poiché le
limitazioni teatrali alla rappresentazione ci obbligano spesso a mantenere le
unità spazio-temporali; il romanziere o lo sceneggiatore, invece, possono far
viaggiare la scena, diluendola nel tempo e nello spazio per introdurre nuove
location, mostrare il gusto di Chris riguardo ai mobili, le abitudini di guida
di Andy, e così via. Questa scena potrebbe persino intersecarsi con un’altra
scena che magari vede coinvolta un’altra coppia. Le variazioni sono infinite,
ma in tutti i casi si tratta di un unico evento della storia: la scena della
“rottura fra gli amanti”.

Il beat

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All’interno della scena è contenuto l’elemento più piccolo della struttura, il
beat. (Da non confondersi con [beat], un’indicazione posta all’interno della
colonna del dialogo e che significa “breve pausa”).

Un BEAT è una modifica di comportamento a livello azione/reazione.


Beat dopo beat queste modifiche di comportamento plasmano la svolta di
una scena.

Esaminiamo più da vicino la scena della “rottura fra gli amanti”: allo
scattare della sveglia Chris stuzzica Andy e lui reagisce comportandosi nello
stesso modo. Mentre si vestono, dallo stuzzicarsi passano al sarcasmo e
cominciano a insultarsi a vicenda. In cucina, Chris dice: «Se io ti lasciassi,
bimbo, andresti in pezzi...». Ma lui vede il bluff di lei e risponde con un
«Adorerei andare in pezzi». In garage Chris, timorosa di perderlo, supplica
Andy di rimanere, ma lui ride e si beffa della sua supplica. Alla fine,
nell’auto in corsa, Chris colpisce Andy con un pugno. Una lotta, uno stridio
di freni. Andy salta fuori dalla macchina col naso sanguinante, sbatte la
portiera e urla: «È finita», lasciandola annichilita.
Questa scena è imperniata su sei beat, sei comportamenti ben distinti, sei
netti cambiamenti di azione/reazione: lo stuzzicarsi a vicenda, seguito da una
reciproca serie di insulti, dalla minaccia e dalla sfida reciproca, dalla supplica
e dalla beffa per finire con le violenze che conducono all’ultimo beat e alla
svolta: la decisione e l’azione di Andy, che pongono fine al rapporto, e lo
stordimento di Chris.

La sequenza

I beat formano le scene. Le scene formano il successivo e più ampio


movimento nel disegno della storia: la sequenza. Ogni vera scena modifica
la condizione esistenziale carica di valori del personaggio ma, passando di
evento in evento, il grado di cambiamento può variare notevolmente. Le
scene provocano cambiamenti relativamente minori anche se significativi.
L’ultima scena di una sequenza arriva invece a un cambiamento più marcato
e determinante.

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Una SEQUENZA è una serie di scene - generalmente da due a cinque -
che culmina con un impatto maggiore di quello di qualsiasi scena
precedente.

Prendiamo ad esempio questa sequenza costituita da tre scene:

SITUAZIONE: Barbara, una giovane manager che ha fatto una


notevole carriera nel Midwest, è stata avvicinata da dei “cacciatori di
cervelli” e ha sostenuto un colloquio per un posto di lavoro presso una
corporation di New York. Ottenere questo posto significherebbe un enorme
passo avanti per la sua carriera. Lei lo desidera moltissimo, ma non lo ha
ancora conquistato (negativo). È fra i sei finalisti. I dirigenti aziendali si
rendono conto che questo incarico è di enorme portata pubblica e quindi
vogliono vedere gli aspiranti in una serata informale prima di prendere la
decisione finale. Così invitano tutti e sei a un party nell’East Side di
Manhattan.
SCENA UNO: UN HOTEL NEL WEST SIDE dove la nostra
protagonista si prepara per la serata. Il valore in gioco è la fiducia/sfiducia
in sé. Lei avrà bisogno di tutta la propria sicurezza per superare con
successo la serata, ma è piena di dubbi (negativo). La paura le annoda le
budella mentre cammina avanti e indietro nella stanza dicendosi di essere
stata una sciocca a venire sulla costa orientale e che questi newyorchesi se
la mangeranno viva. Tira fuori nervosamente i vestiti dalla valigia, ne
prova uno, ne prova un altro, ma ognuno risulta peggiore del precedente. I
capelli sono un inestricabile e non pettinabile intrico di ricci. Mentre si
danna con vestiti e capelli, decide di lasciar perdere e risparmiarsi
l’umiliazione.
All’improvviso squilla il telefono. È sua madre che la chiama per
augurarle buona fortuna, ma anche per colpevolizzarla della propria
solitudine e paura dell’abbandono. Barbara riattacca e si rende conto che
i piraña di Manhattan non sono nulla in paragone al grande squalo
bianco di casa. Lei ha bisogno di questo lavoro! A quel punto si sorprende
a fare un abbinamento di vestiti e accessori che non ha mai provato prima.
I capelli vanno magicamente a posto. Si piazza davanti allo specchio: ha
un aspetto meraviglioso e occhi luminosi che esprimono sicurezza
(positivo).

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SCENA DUE: SOTTO LA PENSILINA DELL’ALBERGO. Lampi, tuoni,
pioggia battente. Poiché Barbara è una provinciale non sa che avrebbe
dovuto dare al suo arrivo
cinque dollari di mancia al portiere per non ritrovarsi ora sotto il
temporale, senza nessuna possibilità di fermare un taxi. E poi, quando
piove, a New York i taxi non esistono. Allora prende a studiare la mappa
turistica della città riflettendo sul da farsi. Si rende conto che, anche se
corresse dall’Ottantesima West passando per Central Park West fino alla
Cinquantanovesima, oltre Central Park South fino a Park Avenue per finire
poi sull’Ottantesima East, non arriverebbe mai in tempo per il party.
Decide così di fare una cosa altamente sconsigliabile: attraversare Central
Park di notte. Questa scena assume ora un nuovo valore: vita/morte.
Si copre i capelli con un giornale e si immerge nella notte sfidando la
morte (negativo). Il flash di un lampo e - d’un tratto - è circondata da
quella gang che sta sempre lì in agguato, che piova o meno, in attesa degli
sciocchi che attraversano il parco di notte. Ma le sue lezioni di karate non
vanno sprecate: si apre un varco a calci, spezzando mascelle, spargendo
denti sul cemento, finché riesce, barcollando, a uscire viva dal parco
(positivo).
SCENA TRE: UN INGRESSO RICOPERTO DI SPECCHI IN UN
LUSSUOSO CONDOMINIO DI PARK AVENUE. Il valore in gioco diventa
adesso: successo/fallimento sociale. Lei è sopravvissuta. Ma poi si guarda
allo specchio e vede l’immagine di un topo affogato: pezzetti di giornale
nei capelli; sangue su tutto il vestito: quello dei teppisti, ma pur sempre
sangue. La fiducia in se stessa tracolla fino a farla piegare sotto il peso
della sconfitta personale (negativo), schiacciata dal proprio disastro
sociale (negativo).
Si accostano vari taxi con a bordo gli altri aspiranti al posto. Tutti
hanno trovato un taxi; scendono e hanno tutti il tipico aspetto chic di New
York. Provano pena per la povera perdente del Midwest e la spingono
dentro l’ascensore. Su nell’attico le asciugano i capelli e le rimediano dei
vestiti: proprio per via del suo aspetto, l’attenzione rimane concentrata su
di lei tutta la sera. Sapendo di non avere più nulla da perdere, Barbara si
rilassa, diventa spontanea, e dal profondo del suo intimo affiora un
coraggio che non aveva mai saputo di avere; non solo racconta loro del
suo scontro nel parco, ma ci scherza anche su. Le bocche degli astanti si
spalancano per le risate e l’ammirazione. A fine serata i dirigenti sanno

52
esattamente chi desiderano per quell’incarico: una che sa uscire da
quell’esperienza terrorizzante nel parco mostrando una simile freddezza è
chiaramente la persona adatta per loro. La festa termina con il suo trionfo
personale e sociale in quanto si aggiudica il posto di lavoro (doppio
positivo).

Ognuna delle scene modifica il valore o i valori in gioco. Scena Uno:


sfiducia in sé - fiducia in sé. Scena Due: morte - vita; fiducia in sé -
sconfitta. Scena Tre: disastro sociale - trionfo sociale. Ma le tre scene
diventano una sequenza con un altro valore, ancor maggiore, che supera e
subordina gli altri, e cioè il lavoro. All’inizio della sequenza lei non ha quel
posto. La terza scena diventa il climax della sequenza in quanto il successo
sociale le fa ottenere il lavoro. Dal suo punto di vista il lavoro è un valore
così importante da rischiare la vita.
È utile intitolare ciascuna sequenza per chiarire a voi stessi perché quella
sequenza è nel film. Nella storia citata lo scopo di questa sequenza, “ottenere
il lavoro”, è quello di portare la protagonista dal non lavoro al lavoro.
Sarebbe stato possibile realizzarlo in un’unica scena con un responsabile del
personale. Ma per indicare qualcosa in più del semplice fatto che “lei ha le
qualifiche giuste per il lavoro”, viene creata un’intera sequenza che non
soltanto la porta a ottenere il posto, ma che, in forma narrativa, ci presenta
gli aspetti più intimi del suo carattere, poi il suo rapporto con la madre e
insieme uno spaccato su New York City e la corporation.

L’atto

Le scene determinano svolte minori ma significative; una serie di scene


costituisce una sequenza che determina una svolta moderata e di maggiore
impatto; una serie di sequenze costituisce la successiva e più ampia struttura,
l’atto, un movimento che porta a un cambiamento radicale nella condizione
esistenziale carica di valori del personaggio. La differenza fra una scena di
base, una scena che fa culminare una sequenza, e una scena che porta al
climax di un atto sta nel grado di cambiamento o, più precisamente, nel
grado di impatto che il cambiamento ha, nel bene e nel male, sul
personaggio - sulla sua vita interiore, sui suoi rapporti personali, sul suo
successo nel mondo, o una qualsiasi combinazione di tutte queste cose.

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Un ATTO è una serie di sequenze che culmina in una scena saliente, la
quale determina una fondamentale inversione di valori il cui impatto è più
potente di qualsiasi altra scena o sequenza precedente.

La storia

Una serie di atti costituisce la struttura più ampia di tutte: la storia. Una storia
è semplicemente un unico ed enorme evento principale. Se si osserva la
situazione esistenziale del personaggio con la sua carica di valori all’inizio
della storia, e la si raffronta con i valori di cui è caricata alla fine della storia,
si dovrebbe delineare l’arco del film: l’enorme cambiamento che prende vita
a partire da una condizione iniziale e che conduce a una condizione finale
modificata. Questa condizione finale, questo cambiamento finale, deve
essere assoluto e irreversibile.
Il cambiamento provocato da una scena può essere ribaltato: gli amanti
dell’esempio precedente potrebbero rimettersi insieme: la gente si innamora
e disinnamora in continuazione, ogni giorno. Anche una sequenza può
essere ribaltata: la manager del Midwest potrebbe ottenere il posto, scoprire
poi di dover lavorare per un capo che odia e voler quindi ritornare in
provincia. Anche il climax di un atto può essere ribaltato: un personaggio
potrebbe morire, come nel climax del secondo atto di E.T., e poi tornare in
vita.
Perché no? In un ospedale moderno, resuscitare i morti è cosa
quotidiana. E così, attraverso scene, sequenze, atti, lo sceneggiatore crea
cambiamenti di varia entità (minore, moderata e fondamentale), ma è
possibile che ciascuna di queste modifiche venga ribaltata. Non è così per il
climax dell’ultimo atto.

CLIMAX DELLA STORIA: una storia è una serie di atti che portano al
climax dell’ultimo atto, detto anche climax della storia, il quale determina
un cambiamento assoluto e irreversibile.

Se ogni minimo elemento assolve il proprio compito, lo scopo ultimo


della narrazione verrà servito. Fate in modo che ogni frase di dialogo o riga
di descrizione serva a modificare il comportamento e l’azione, o a preparare

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le condizioni per il cambiamento. Lasciate che i vostri beat costruiscano le
scene, le scene costruiscano le sequenze, le sequenze gli atti, e che gli atti
portino la storia fino al proprio climax.
Le scene che modificano la vita della provinciale portandola dalla
sfiducia in sé alla fiducia in sé, dal pericolo alla sopravvivenza, dal disastro
sociale al successo, si combinano in una sequenza che la porta dal non avere
lavoro all’avere lavoro. Se vogliamo far compiere alla narrazione un arco
fino al climax della storia questa sequenza iniziale potrebbe costituire la base
di una serie di sequenze che conducono la protagonista dal non avere lavoro
a presidente della corporation al climax del primo atto. Il climax del primo
atto mette poi in moto un secondo atto in cui lotte aziendali intestine
determinano il tradimento da parte di amici e colleghi. Nel climax del
secondo atto lei viene licenziata dal Consiglio di Amministrazione e si ritrova
in mezzo a una strada. Questo fondamentale ribaltamento la spinge verso
un’azienda rivale dove, armata dei segreti aziendali appresi quando era
presidente, raggiunge nuovamente il vertice e può così divertirsi a
distruggere i suoi precedenti datori di lavoro. Tutti questi atti la trasformano
dalla giovane professionista, ottimista, onesta e amante del lavoro che era
all’inizio del film, nella spietata, cinica e corrotta veterana di guerre fra
multinazionali alla fine del film - cambiamento, questo, assoluto e
irreversibile.

Il triangolo della storia

Tra gli intellettuali “trama” è diventata una parolaccia, che viene usata solo
per prodotti mercificati di autori non ispirati. A rimetterci siamo noi in
quanto trama è un termine preciso che definisce quella struttura di eventi, tra
loro interconnessi e internamente coerenti, che si snodano nel tempo per
configurare e disegnare una storia. Se è vero che non esiste un buon film
scritto senza momenti di ispirazione improvvisa, una sceneggiatura non è
mai solo una cosa accidentale. Il materiale che affiora a casaccio non può
restare tale. La scrittura dello sceneggiatore fa rivivere continuamente
l’ispirazione e fa sembrare che il film sia frutto di una spontaneità istintiva.
Ma l’autore sa, tuttavia, quanti sforzi e quanti artifici abbiano contribuito a
farlo sembrare così naturale e facile.

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Creare una TRAMA significa muoversi attraverso il pericoloso territorio
della storia e scegliere la via giusta quando ci si trova di fronte a decine di
possibili direzioni diverse. La trama è la scelta degli eventi e del loro
disegno nel tempo fatta dallo sceneggiatore.

Anche qui, cosa includere? Cosa escludere? Cosa mettere prima? E


questo qualcosa dopo che altro va messo? Bisogna effettuare delle scelte
relative agli eventi; lo sceneggiatore può scegliere bene o male: il risultato è
la trama.
Quando venne presentato Tender Mercies - Un tenero ringraziamento
alcuni critici lo descrissero come “privo di trama” e lo lodarono per questo.
Eppure non soltanto Tender Mercies ha una trama, è anche squisitamente
tracciata attraverso uno dei territori cinematografici più difficili: una storia il
cui arco si svolge nella mente del protagonista che vive una rivoluzione
profonda e irreversibile per quanto riguarda il proprio atteggiamento nei
confronti della vita e/o nei confronti di se stesso.
Per il romanziere storie del genere sono facili e naturali. Con l’uso della
terza e della prima persona può indagare direttamente pensieri e sentimenti.
E può narrare il racconto interamente sullo sfondo della vita interiore del
protagonista. Per lo sceneggiatore storie del genere sono sicuramente più
fragili e difficili: non possiamo inserire l’obiettivo di una cinepresa dentro la
testa di un attore e fotografarne i pensieri, anche se ci sono coloro che ci
provano. In qualche modo dobbiamo invece portare il pubblico a
interpretare quella vita interiore partendo dal comportamento esteriore.
Senza però sovraccaricare la colonna sonora di narrazioni fuori campo, o
riempire le bocche dei personaggi di dialoghi con le spiegazioni di ciò che
stanno pensando. Come ha affermato John Carpenter: «Fare cinema
significa trasformare le cose mentali in fisiche».
Per avviare la grande ondata del cambiamento all’interno del suo
protagonista Horton Foote apre Tender Mercies con uno Sledge che affonda
nella mancanza di significato della propria vita. Infatti si sta lentamente
suicidando con l’alcool perché non crede più in nulla (né nella famiglia, né
nel lavoro, né in questo mondo, né in quello dopo). Procedendo con la
narrazione Foote evita il cliché di fargli rinvenire questo significato della vita
in un’unica, fortissima esperienza di grande amore romantico, o di brillante
successo, o di ispirazione religiosa. Preferisce, invece, mostrarci un uomo
che intesse una vita semplice e, tuttavia, significativa, partendo dai molti

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delicati fili dell’amore, della musica e dello spirito. Alla fine Sledge subisce
una tranquilla trasformazione e trova un’esistenza degna di essere vissuta.
Possiamo solo immaginare il sudore e le fatiche che Horton Foote ha
dovuto affrontare nel creare la trama di questo film così problematico!
Un unico passo falso, un’unica scena mancante, oppure una scena di
troppo, un minimo errore nella sequenza degli avvenimenti e, come un
castello di carte, lo stimolante viaggio interiore di Mac Sledge si sarebbe
ridotto a un ritratto senza profondità. Trama non significa, quindi, svolte e
cambiamenti vistosi o suspense ad alta tensione e sorprese scioccanti. Si
tratta, piuttosto, di selezionare gli eventi e di organizzare il loro ordine nello
sviluppo cronologico della storia. Se attribuiamo questo significato alla
composizione di tale disegno allora tutte le storie hanno una trama.

Trama classica, minitrama, antitrama

Anche se le variazioni del disegno degli eventi sono innumerevoli non sono
senza limiti. I punti estremi di quest’arte creano un triangolo di possibilità
formali che traccia la mappa dell’universo delle storie. All’interno di questo
triangolo risiedono tutte le cosmologie degli sceneggiatori, tutte le loro
molteplici visioni della realtà e di come la vita viene vissuta al suo interno.
Per comprendere la vostra collocazione in questo universo studiate le
coordinate di questa mappa confrontandole con il lavoro che state facendo.
Lasciate che vi guidino fino a un punto che condividete con altri
sceneggiatori che hanno una prospettiva analoga alla vostra.
Al vertice del triangolo si trovano i principi che costituiscono il Disegno
Classico. Questi principi sono “classici” nel senso più vero del termine:
atemporali e transculturali, fondamentali per qualsiasi società, civilizzata e
primitiva, e validi, andando a ritroso, per tutti i millenni di narrazione orale
fino a perdersi nell’oscurità dei tempi. Quando, quattromila anni fa, l’epopea
di Gilgamesh venne incisa in caratteri cuneiformi su dodici tavolette di
argilla per la prima volta la storia veniva convertita in parola scritta, già
allora i principi del Disegno Classico erano pienamente e meravigliosamente
operanti.

DISEGNO CLASSICO significa una storia centrata su un protagonista


attivo che per soddisfare il proprio desiderio lotta contro forze antagoniste,

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principalmente esterne, in una continuità temporale all’interno di una
realtà immaginaria coerente e unita da nessi causali, fino a un finale
chiuso costituito da un cambiamento assoluto e irreversibile.

Questa raccolta di principi atemporali io la chiamo trama classica perché,


come dice il vocabolario, per classico si intende un modello che “costituisce
il primo fondamento di una disciplina”.

La trama classica, tuttavia, non è l’unica forma narrativa. Nell’angolo a


sinistra dello schema colloco tutti gli esempi di minimalismo. Come
suggerisce il termine, minimalismo significa che lo sceneggiatore parte dagli
elementi del Disegno Classico, ma poi li riduce, restringendo o
comprimendo, levigando o troncando le caratteristiche preminenti della
trama classica. Io chiamo minitrama questo insieme di variazioni
minimaliste. Minitrama non significa senza trama in quanto una storia di
questo genere deve essere eseguita meravigliosamente tanto quanto una
trama classica. Il minimalismo tende piuttosto alla semplicità e all’economia,
pur mantenendo abbastanza del Disegno Classico da soddisfare il pubblico e
farlo uscire dal cinema pensando: «Che bella storia!».
Nell’angolo a destra c’è l’antitrama, l’equivalente cinematografico
dell’antiromanzo, o del nouveau roman, e del teatro dell’assurdo. Questo

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insieme di variazioni antistrutturali non riduce il Disegno Classico, ma lo
ribalta. Ne contraddice le forme tradizionali per sfruttare, e forse mettere in
ridicolo, l’idea stessa di principio formale. Il creatore di antitrame è
raramente interessato a messaggi non espliciti o a un sereno rigore; anzi, per
render chiare le proprie ambizioni “rivoluzionarie”, i suoi film tendono a
essere stravaganti e volutamente esagerati.
La trama classica costituisce la carne, le patate, la pasta, il riso e il
couscous del mondo cinematografico. Nel corso degli ultimi cent’anni è stata
adottata dalla stragrande maggioranza dei film che hanno trovato una
audience internazionale. L’assalto al treno (USA/1904), Gli ultimi giorni di
Pompei (Italia/1913), Il gabinetto del Dottor Caligari (Germania/1920),
Rapacità (USA/1924), La corazzata Potemkin (Urss/1925), M - Il Mostro di
Düsseldorf (Germania/1931), Cappello a cilindro (USA/1935), La grande
illusione (Francia/1937), Susanna (USA/1938), Quarto potere (USA/1941),
Breve incontro (Gb/1945), I sette samurai (Giappone/1954), Marty, vita di
un timido (USA/1955), Il settimo sigillo (Svezia/1957), Lo spaccone
(USA/1961), 2001: Odissea nello spazio (USA/1968), Il padrino - Parte II
(Usa/1974), Dona Flor e i suoi due mariti (Brasile/1978), Un pesce di nome
Wanda (Gb/1988), Big (USA/1988), Ju Dou (Cina/1990), Thelma & Louise
(USA/1991), Quattro matrimoni e un funerale (Gb/1994), Shine
(Australia/1996) - basta citare alcuni titoli per rilevare l’impressionante
varietà di storie abbracciate dalla trama classica nel corso dei decenni.
La minitrama, anche se con meno variazioni, è altrettanto internazionale:
Nanuk l’eschimese (USA/1922), La passione di Giovanna d’Arco
(Francia/1928), Zero in condotta (Francia/1933), Paisà (Italia/1946), Il posto
delle fragole (Svezia/ 1957), La sala di musica (India/1964), Deserto rosso
(Italia/1964), Cinque pezzi facili (Usa/1970), Il ginocchio di Claire
(Francia/1970), L’impero dei sensi (Giappone/1976), Tender Mercies - Un
tenero ringraziamento (USA/1983), Paris, Texas (Germania
Occ./Francia/1984), Sacrificio (Svezia/Francia/1986), Pelle alla conquista
del mondo (Danimarca/1987), Il ladro di bambini (Italia/1992), In mezzo
scorre il fiume (USA/1993), Vivere (Cina/1994), E voglio danzare con te
(Giappone/1997). La minitrama comprende anche documentari narrativi,
come per esempio Welfare (USA/1975). Gli esempi di antitrama sono meno
comuni e di matrice soprattutto europea nel secondo dopoguerra: Un chien
andalou (Francia/1928), The Blood of a Poet (Francia/1932), Meshes of the
Afternoon (USA/1943), The Running, Jumping and Standing Still Film

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(Gb/1959), L’anno scorso a Marienbad (Francia/1960), 8 1/2 (Italia/1963),
Persona (Svezia/1966), Weekend (Francia/1967), Death by Hanging
(Giappone/1968), I clowns (Italia/1970), Monty Python (Gb/1975),
Quell’oscuro oggetto del desiderio (Francia/Spagna/1977), Il lenzuolo viola
(Gb/1980), Stranger Than Paradise - Più strano del paradiso (USA/1984),
Fuori orario (USA/1985), Lo zoo di Venere (Gb/Olanda/1985), Fusi di testa
(USA/1993), Hong Kong express (Hong Kong/1994), Strade perdute
(USA/1997). L’antitrama comprende anche documentari collage quali Night
and Fog di Alain Resnais (Francia/1955) e Koyaanisqatsi (USA/1983).
Differenze formali all’interno del triangolo della storia

Finali aperti o finali chiusi

La trama classica ci lascia con un finale chiuso: tutte le domande poste dalla
storia trovano risposta, tutte le emozioni evocate vengono soddisfatte. Il
pubblico lascia la sala portandosi via un’esperienza chiusa a tutto tondo -
nessun dubbio, nulla di insoddisfatto.
La minitrama, d’altro canto, spesso lascia parzialmente aperto il finale.
Gran parte dei quesiti posti dalla narrazione trovano risposta, ma possono
rimanere una o due domande alle quali sarà il pubblico a rispondere dopo
aver visto il film. Gran parte delle emozioni evocate dal film troveranno
soddisfazione, ma può anche rimanere un residuo emozionale che deve
essere il pubblico stesso a soddisfare. E anche se una minitrama può
terminare con un punto interrogativo a livello di pensiero e di emozione,
“aperto” non significa che il film ci “molla” a metà, lasciando tutto in
sospeso. Alle domande si deve poter rispondere e l’emozione si deve
sciogliere. Quanto successo in precedenza nel film porta ad alcune
alternative chiare e delimitate che rendono possibile un certo grado di
chiusura.

Un climax della storia che rappresenti un cambiamento assoluto e non


reversibile, che risponda a tutti i quesiti posti dalla narrazione e che
soddisfi tutte le emozioni del pubblico è un FINALE CHIUSO.

Un climax della storia che lasci senza risposta uno o due quesiti e
insoddisfatte alcune emozioni è un FINALE APERTO.

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Nel climax di Paris, Texas padre e figlio si riconciliano; il loro futuro è
chiaro e la nostra speranza che siano felici è soddisfatta. Ma rimangono
irrisolti i rapporti marito/moglie e madre/figlio. E le domande: «Questa
famiglia avrà un futuro insieme? E, se è così, che tipo di futuro sarà?»
rimangono aperti Le risposte verranno trovate nel privato delle riflessioni
dopo il film. Se volete che questa famiglia si rimetta insieme, ma il vostro
cuore vi dice che non lo farà, sarà una serata triste. Se riuscite a convincere
voi stessi che vivranno felici e contenti per sempre uscirete dalla sala felici.
Il narratore minimalista affida intenzionalmente l’ultima e fondamentale
parte di lavoro al pubblico.

Conflitto interno o conflitto esterno

La trama classica pone l’enfasi sul conflitto esterno. Sebbene i personaggi


spesso vivano forti conflitti interiori l’accento viene messo sulle loro lotte
nei rapporti personali con le istituzioni sociali o con le forze del mondo
fisico. Nella minitrama, al contrario, il protagonista può avere dei forti
conflitti esterni con la famiglia, la società e l’ambiente, ma vengono
enfatizzate le battaglie combattute con i propri pensieri e con le proprie
emozioni, sia consci che inconsci.
Confrontate i viaggi dei protagonisti di Interceptor - Il guerriero della
strada e di Turista per caso. Nel primo, Mad Max, interpretato da Mel
Gibson, subisce una trasformazione interiore passando da uomo solitario e
autosufficiente a eroe che sacrifica se stesso, ma la storia è imperniata sulla
sopravvivenza del clan. Nel secondo film la figura dello scrittore,
interpretato da William Hurt, cambia quando si risposa e diventa
l’indispensabile padre di un ragazzo solo, ma il nucleo del film è la rinascita
spirituale di quest’uomo. La sua trasformazione da individuo preda di una
paralisi emotiva a uomo libero di amare e sentire costituisce l’arco di
cambiamento principale del film.

Protagonista unico o più protagonisti

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La storia raccontata in modo classico pone generalmente un protagonista
unico - uomo, donna, o bambino - al centro della narrazione. Un’unica storia
principale domina il tempo della proiezione. L’attore protagonista di questa
storia ha il ruolo principale. Tuttavia se lo sceneggiatore spezzetta il film in
un certo numero di storie relativamente piccole e con dimensioni da
sottotrama, ognuna con un protagonista diverso, il risultato minimalizza la
“dinamica da montagne russe” della trama classica e crea la variazione
multitrama della minitrama, fenomeno che è diventato sempre più popolare
a partire dagli anni Ottanta.
Nella trama classica fortemente caratterizzata de Il fuggitivo la cinepresa
non perde mai di vista il protagonista interpretato da Harrison Ford: non si
guarda mai altrove, non esiste neanche un accenno di sottotrama. Parenti,
amici e tanti guai, invece, è un delicato intreccio di non meno di sei racconti
con sei protagonisti. Come in una trama classica i conflitti di questi sei
personaggi sono prevalentemente esterni; nessuno di loro affronta la
profonda sofferenza e il cambiamento interno di Turista per caso. Ma queste
battaglie famigliari stimolano le nostre emozioni in così tante direzioni, e
ciascuna storia dura sullo schermo 15-20 minuti, che questo disegno
multiplo ammorbidisce la narrazione.
La multitrama fa il suo esordio con Intolerance (Usa/1916), Grand Hotel
(USA/1932), Come in uno specchio (Svezia/1961) e La nave dei folli
(USA/1965) per arrivare più vicino a noi - America oggi, Pulp Fiction, Fa’
la cosa giusta e Mangiare bere uomo donna.

Protagonista attivo o protagonista passivo

L’unico protagonista di una trama classica deve essere attivo e dinamico, e


perseguire con tenacia i propri desideri attraverso conflitti e cambiamenti
sempre maggiori. Il protagonista di una minitrama, pur non essendo inerte, è
relativamente reattivo e passivo. Generalmente questa passività viene
compensata attribuendo al protagonista un forte conflitto interiore, come in
Turista per caso, o circondandolo di eventi drammatici, come nella
multitrama di Pelle alla conquista del mondo.

Un PROTAGONISTA ATTIVO persegue la soddisfazione del proprio


desiderio e intraprende azioni che sono in conflitto diretto con le persone e

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con il mondo che lo circondano.
Un PROTAGONISTA PASSIVO è esteriormente inattivo, anche se
persegue un desiderio interiore in conflitto con alcuni aspetti della propria
natura.

Il protagonista di Pelle alla conquista del mondo è un ragazzino


controllato dal mondo degli adulti e, di conseguenza, ha poca scelta se
non quella di essere reattivo. Tuttavia lo sceneggiatore Bille August utilizza
l’alienazione di Pelle rendendolo un osservatore passivo delle storie
tragiche che si svolgono intorno a lui: gli amanti segreti che commettono
un infanticidio; una donna che castra il marito adultero; il capo di una
rivolta di lavoratori che viene picchiato selvaggiamente e ridotto a
deficiente mentale. August porta avanti la narrazione dal punto di vista del
bambino e questi eventi violenti vengono tenuti a distanza o fuori campo,
quindi noi raramente ne vediamo la causa, ma soltanto gli effetti. Tale
disegno addolcisce o minimalizza ciò che avrebbe potuto essere
melodrammatico e persino di cattivo gusto.

Tempo lineare o tempo non lineare

Dal punto di vista del tempo una trama classica inizia in un momento
preciso, avanza in modo ellittico più o meno in una continuità temporale e
termina in un momento successivo. Se si utilizzano i flashback lo si fa in
modo tale che il pubblico possa continuare a collocare nella loro sequenza
temporale gli eventi della storia. Un’antitrama, invece, spesso mette vicini
momenti lontani, è tesa a frammentare e confondere il tempo per rendere
difficile, se non impossibile, comprendere gli accadimenti in una qualche
sequenza lineare. Godard affermò una volta che, secondo la sua estetica, un
film deve avere un inizio, una parte centrale e una fine... ma non
necessariamente in quest’ordine.

Una storia, con o senza flashback, organizzata in un ordine temporale


di eventi che il pubblico può seguire È NARRATA IN TEMPO LINEARE.

Una storia che rimbalzi a casaccio nel tempo o confonda a tal punto la
continuità temporale che il pubblico non riesce a comprendere cosa

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succede prima e cosa dopo È NARRATA IN TEMPO NON LINEARE.

Nell’antitrama intitolata Il lenzuolo viola uno psicanalista (Art


Garfunkel) incontra una donna (Theresa Russell) durante una vacanza in
Austria. Il primo terzo del film contiene scene che sembrano riferirsi alla
prima fase della loro relazione, ma insieme a queste ci sono dei flash in
avanti, con scene relative alle parti centrale e finale della loro relazione. Il
secondo terzo del film contiene scene che supponiamo riguardino il periodo
centrale, intersecate però da flashback che rimandano all’inizio della loro
storia e flash che ne anticipano la fine. L’ultimo terzo è dominato da scene
che sembrano riferite agli ultimi giorni della coppia, alternate, però, a
flashback che riguardano la parte centrale e l’inizio della loro storia. Il film
termina su un atto di necrofilia.
Il lenzuolo viola è una rielaborazione contemporanea dell’antica idea che
“il carattere sia un destino”: concetto secondo cui il vostro destino equivale a
ciò che siete e che le conseguenze finali della vostra vita saranno determinate
dalla natura specifica del vostro carattere e da nient’altro - né dalla famiglia,
né dalla società, né dall’ambiente, né dal caso. Scompigliando il tempo così
rapidamente il disegno antistrutturale de Il lenzuolo viola scollega i
personaggi dal mondo che li circonda. Che differenza fa se sono andati a
Salisburgo quel weekend o a Vienna quello dopo; se hanno pranzato qui o
cenato là; litigato per questo o per quello oppure se non hanno litigato
affatto? Ciò che importa è l’alchimia velenosa delle loro personalità: nel
momento stesso dell’incontro questa coppia sale su un treno superveloce che
corre verso il proprio grottesco destino.

Causalità o coincidenza

La trama classica evidenzia il modo in cui le cose succedono nel mondo.


Come una causa crei un effetto e come questo effetto diventi una causa che
scatena a sua volta un altro effetto. Il disegno della storia classica traccia la
mappa delle varie connessioni della vita, dall’ovvio fino all’impenetrabile,
dall’intimo all’epico, dall’identità individuale all’arena internazionale. Mette
a nudo la rete delle causalità concatenate fra loro che, una volta capite,
conferiscono significato alla vita. L’antitrama invece spesso sostituisce alla
causalità la coincidenza. E pone l’enfasi sulle collisioni accidentali delle cose

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nell’universo che interrompono le catene della causalità e portano alla
frammentazione, alla perdita di significato e all’assurdità.

La CAUSALITÀ è il motore di una storia in cui azioni motivate causano


degli effetti che, a loro volta, diventano le cause di ulteriori effetti,
collegando così fra loro i vari livelli di conflitto in una reazione a catena di
episodi che conducono al climax della storia ed esprimono l’aspetto di
interconnessione della realtà.

La COINCIDENZA è il motore di un mondo narrativo in cui azioni


immotivate scatenano eventi che non causano ulteriori effetti e che, di
conseguenza, frammentano la storia in episodi divergenti che conducono a
un finale aperto ed esprimono l’aspetto di non connessione dell’esistenza.

In Fuori orario un ragazzo (Griffin Dunne) ha un appuntamento con una


donna che ha incontrato per caso in un bar di Manhattan. Mentre va verso
l’appartamento di lei a Soho i suoi ultimi venti dollari volano fuori dal
finestrino del taxi. Griffin sembra poi ritrovare questi soldi su una strana
opera d'arte in lavorazione nel loft di lei. All’improvviso la ragazza mette in
atto un suicidio ben progettato. Intrappolato a Soho, senza un soldo, viene
scambiato per un ladro d’appartamenti e inseguito da una folla di vigilantes.
Alcuni pazzoidi e una toilette inondata gli bloccano la fuga; si ritrova poi
nascosto all’interno di una statua, rubata da veri ladri, e finisce per cadere
dal loro camion in fuga proprio sui gradini del suo ufficio, giusto in tempo
per iniziare una giornata di lavoro al computer. Non è che una povera pallina
sul tavolo da gioco di Dio, costretto a rimbalzare a casaccio da una parte
all’altra prima di cadere in buca.

Realtà coerenti o realtà incoerenti

Una storia è una metafora della vita: oltrepassa il reale per condurci
all’essenziale. Di conseguenza è un errore applicare una corrispondenza
completa tra la realtà e la storia.
I mondi che inventiamo obbediscono alle loro leggi interne di causalità.
Una trama classica si snoda all’interno di una realtà coerente... ma la realtà,
in questo caso, non significa i fatti così come si svolgono nella vita reale.

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Persino la minitrama più naturalistica del tipo “la vita così com’è”,
rappresenta un’esistenza astratta e rarefatta. Ogni narrazione determina, in un
modo specifico, la maniera in cui le cose accadono al suo interno. In una
trama classica queste regole, anche se bizzarre, non possono essere infrante.

Le REALTÀ COERENTI sono ambientazioni narrative che determinano


le modalità di interazione fra i personaggi e il loro mondo, e che restano
coerenti durante tutta la narrazione per creare un significato.

Tutte le opere del genere fantastico, per esempio, sono praticamente delle
trame classiche in cui si obbedisce rigorosamente alle capricciose regole
della “realtà narrativa”. Supponete che in Chi ha incastrato Roger Rabbit un
personaggio umano debba inseguire Roger, un cartone animato, verso una
porta chiusa a chiave: Roger diventa bidimensionale, scivola sotto l’uscio e
fugge. L’umano invece sbatte contro la porta. Bene. D’ora in poi, però,
questa diventa una regola della storia: nessun essere umano può catturare
Roger perché lui è in grado di diventare bidimensionale e fuggire. Se lo
sceneggiatore volesse, in una scena successiva, far catturare Roger dovrebbe
mettere a punto un agente non umano o riscrivere il precedente
inseguimento. Quando crea regole di causalità nella storia lo sceneggiatore di
una trama classica deve lavorare all’interno delle regole che lui stesso ha
creato. Realtà coerente significa, di conseguenza, un mondo internamente
congruo, coerente con se stesso.

Le REALTÀ INCOERENTI sono ambientazioni che abbinano le


modalità di interazione in modo tale che gli episodi della storia balzino
incoerentemente da una realtà all’altra, creando così un senso di
assurdità.

In un’antitrama, comunque, l’unica regola è quella di infrangere le


regole: in Weekend, di Jean Luc Godard, una coppia parigina decide di
assassinare una vecchia zia per intascare i soldi dell’assicurazione. Mentre
sono in viaggio verso la casa di campagna della zia, un incidente - più
allucinatorio che reale - distrugge la loro macchina sportiva rossa. In seguito,
mentre la coppia arranca a piedi lungo un delizioso sentiero ombreggiato,
compare improvvisamente Emily Brönte; portata via dall’Inghilterra del
diciannovesimo secolo e depositata su un sentiero francese del ventesimo.

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Emily legge il proprio romanzo Cime Tempestose. I due parigini odiano
Emily a prima vista. Estraggono un accendino Zippo, danno fuoco alla sua
gonna di crinolina, riducendola a un mucchio di ceneri accartocciate... e
proseguono nel loro cammino.
Uno schiaffo in faccia alla letteratura classica? Forse, ma la cosa poi non
si ripete. Questo non è un film in cui si viaggia nel tempo. Né dal passato, né
dal futuro comparirà più nessun altro; soltanto Emily, e per una volta sola.
Una regola fatta per essere infranta.
Il desiderio di ribaltare la trama classica si era manifestato già all’inizio
del secolo scorso. Scrittori come August Strindberg, Ernst Toller, Virginia
Woolf, James Joyce, Samuel Beckett e William S. Burroughs avvertirono la
necessità di troncare i legami fra l’artista e la realtà esterna e,
contemporaneamente, fra l’artista e la gran parte del pubblico.
L’Espressionismo, il Dadaismo, il Surrealismo, il Flusso di Coscienza, il
Teatro dell’Assurdo, l’antiromanzo e l’antistruttura cinematografica possono
utilizzare tecniche diverse, ma hanno in comune lo stesso risultato: il ritirarsi
dell’artista all’interno del proprio mondo privato. Un mondo al quale il
pubblico è ammesso a discrezione dell’artista stesso. Si tratta di mondi in cui
non solo gli eventi sono atemporali, fatti di coincidenze, frammentati e
caotici, ma i personaggi non agiscono neppure all’interno di una psicologia
identificabile. Né sani né folli sono intenzionalmente incoerenti o
apertamente simbolici.
Film di questo tipo non sono metafore della “vita così com’è”, ma della
“vita così come la si pensa”. Non riflettono la realtà ma il solipsismo del
cineasta e, nel far questo, il regista forza i limiti del disegno narrativo verso
strutture didattiche e inventive. Tuttavia la realtà incoerente di un’antitrama
alla Weekend ha un suo tipo di unità. Se ben fatta, viene percepita come
l’espressione dello stato mentale soggettivo dell’autore. Questa sensazione di
percezione unica, non importa quanto incoerente, tiene insieme l’opera per
un pubblico desideroso di avventurarsi all’interno delle sue distorsioni.
Le sette contraddizioni e i contrasti formali elencati sopra non sono
regole ferree. Esistono illimitati gradi e sfumature di realtà aperta/chiusa,
passiva/attiva, coerente/incoerente, e così via. Tutte le possibilità narrative
sono distribuite all’interno del triangolo del disegno narrativo, ma
pochissimi film presentano una purezza di forma tale da poter essere
collocati ai vertici. Ogni lato del triangolo è uno spettro di scelte strutturali e

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gli sceneggiatori fanno scorrere le loro storie lungo queste linee o abbinando
o prendendo a prestito da ciascun estremo.
I film I favolosi Baker e La moglie del soldato si trovano a metà strada
fra la trama classica e la minitrama. Entrambi raccontano la storia di un
personaggio isolato piuttosto passivo; entrambi lasciano aperto il finale,
mentre rimane senza risposta il futuro della storia d’amore contenuta nella
sottotrama. Nessuno dei due è impostato in modo classico, come Chinatown
o I sette samurai, né in modo minimalistico come Cinque pezzi facili o Il
profumo della papaya verde.

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Anche i film multitrama sono meno che classici e più che minimali. Le
opere di Robert Altman, un maestro di questa forma, abbracciano tutto uno
spettro di possibilità. Un’opera multitrama può essere “hard”, tendente cioè
verso la trama classica, in quanto le storie individuali si modificano, spesso
con grosse conseguenze esterne (Nashville), oppure “soft” perché va nella
direzione della minitrama, quando le linee della trama rallentano il proprio
ritmo e l’azione viene interiorizzata (Tre donne).
Un film potrebbe essere quasi antitrama. Per esempio, quando hanno
inserito scene di finto documentario in Harry ti presento Sally..., Nora
Ephron e Rod Reiner hanno messo in discussione la “realtà” globale del
film. Le interviste fintamente documentaristiche di coppie anziane che
ripensano a quando si sono incontrate sono in realtà delle scene
deliziosamente sceneggiate, con attori che recitano in stile documentaristico.
Queste false realtà, inserite a “sandwich” all’interno di una storia d’amore
altrimenti convenzionale, hanno spinto il film verso la realtà incoerente
dell’antistruttura e della satira autoriflessiva.
Un film come Barton Fink si colloca proprio al centro, in quanto attinge
qualità da ciascuno dei tre vertici. All’inizio è la storia di un giovane autore
newyorchese (protagonista unico), che sta tentando di farsi strada a
Hollywood (conflitto aperto con le forze esterne = Trama classica). Ma Fink
(John Turturro) si isola sempre di più e prende a soffrire di un grave blocco
dello sceneggiatore (conflitto interno = minitrama). Quando il tutto si
trasforma in vere e proprie allucinazioni, noi siamo sempre meno sicuri di
ciò che è reale e di ciò che è fantastico (realtà incoerenti), al punto da non
poterci più fidare di nulla (ordine temporale e causale infranti = antitrama).
Il finale è piuttosto aperto, con Fink che fissa il mare, ma è piuttosto
evidente che non scriverà mai più una riga in quella città.

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Cambiamento o stasi

Sopra la linea tracciata tra minitrama e antitrama si collocano le storie in cui


la vita cambia in modo evidente. All’estremità della minitrama, tuttavia, il
cambiamento può essere praticamente invisibile perché avviene al più
profondo livello del conflitto interno: come in Mariti. Il cambiamento
all’estremità dell’antitrama può esplodere in uno scherzo cosmico: come in
Monty Python e il Sacro Graal. Ma in entrambi i casi le storie compiono il
loro arco e la vita cambia in meglio o in peggio.
Al di sotto della linea le storie rimangono statiche e non compiono alcun
arco. Alla fine del film la condizione esistenziale del personaggio, con la sua
carica di valori, è virtualmente identica a quella d’apertura. La storia si
dissolve in un ritratto che può essere verosimile o assurdo. Io definisco
questi film “a non trama”. Sebbene ci informino, ci tocchino e abbiano le

70
loro brave strutture retoriche o formali, non raccontano una storia. Perciò
rimangono fuori del triangolo della storia, in un territorio che, includendo
un po’ tutto, potremmo liberamente chiamare “narrativo”.
In opere del tipo “spaccato di vita” come Umberto D., Volti e Naked, noi
scopriamo protagonisti che conducono vite solitarie e difficili. Messi alla
prova da ulteriori drammi, quando il film finisce sembrano rassegnati alle
sofferenze della vita e pronti persino al peggio. In America oggi le esistenze
individuali vengono modificate all’interno delle molte storie che
compongono il film, che viene sostenuto e pervaso da un arido malessere al
punto che assassinio e suicidio sembrano diventare una parte naturale del
paesaggio. Sebbene nulla cambi nell’universo della non-trama noi ne
ricaviamo diversi motivi di profonde intuizioni, per cui forse qualcosa
cambierà dentro di noi.
Anche le non-trame antistruttura tracciano un modello circolare, ma lo
modificano attraverso assurdità e satira realizzate in uno stile non
naturalistico. Il maschio e la femmina, (Francia/1966), Il fascino discreto
della borghesia (Francia/1972) e Il fantasma della libertà (Francia/1974)
sono fatti di scene che mettono in ridicolo le buffonate borghesi, sessuali e
politiche, ma gli sciocchi e ciechi delle scene iniziali sono altrettanto ciechi e
sciocchi quando prendono a scorrere i titoli di coda.

La politica del disegno della storia

In un mondo ideale, arte e politica non si toccherebbero mai. Nella realtà,


invece, non riescono a staccarsi le mani di dosso. E così, come in tutte le
cose, la politica è in agguato nel triangolo della storia: la politica del gusto,
dei festival e degli Oscar, e, soprattutto, la politica del successo artistico
contrapposto a quello commerciale. E, come accade per tutte le cose
politiche, è proprio ai vertici che la distorsione della verità diviene massima.
Ciascuno di voi come autore appartiene per sua natura a una qualche area
del triangolo: il pericolo è che, per motivi più ideologici che personali, vi
sentiate obbligati a lasciare la vostra collocazione naturale e a lavorare in una
zona distante, intrappolandovi da soli nel disegno di storie in cui
sinceramente non credete. Ma se mantenete uno sguardo onesto verso le
polemiche spesso strumentali sui film non smarrirete la via. Nel corso degli
anni la principale discussione politica nel cinema si è incentrata sulla

71
contrapposizione fra “film hollywoodiani” e “film d’autore”. Sebbene questi
termini sembrino obsoleti i loro sostenitori sono ancora vivi e vegeti. Per
tradizione le discussioni si svolgevano in termini di alto o basso budget;
effetti speciali o composizione pittorica; Star System o compagnie
indipendenti; finanziamenti privati o sostegno governativo; autori o
mercenari. In realtà dietro queste polemiche si nascondono due visioni della
vita diametralmente opposte. Il confine principale è posto alla base del
triangolo - stasi rispetto a cambiamento - una contraddizione filosofica che
presenta profonde implicazioni per lo sceneggiatore. Cominciamo col
definire questi termini:
Il concetto di “film hollywoodiani” non comprende Il mistero Von
Bulow, Terzo grado, Drugstore Cowboy, Cartoline dall’inferno, Salvador,
Vivere in fuga, Velluto blu, Bob Roberts, J.F.K. - Un caso ancora aperto, Le
relazioni pericolose, La leggenda del re pescatore, Fa’ la cosa giusta o
Tutti dicono I love you.
Questi film, e molti altri simili, sono successi internazionali prodotti dagli
Studios di Hollywood. Turista per caso ha incassato oltre 250 milioni di
dollari in tutto il mondo, superando gran parte dei film di azione, eppure
non può essere definito un film hollywoodiano.
Il significato politico di “film hollywoodiani” si restringe a quelle 30 o 40
pellicole in cui prevalgono gli effetti speciali, e più o meno lo stesso numero
di farse e storie d’amore che Hollywood realizza ogni anno. E che
costituiscono assai meno della metà della produzione di questa città.
Nella sua accezione più ampia “film d’autore” significa non-
hollywoodiano, o meglio un film straniero, e meglio ancora un film
europeo. Ogni anno l’Europa produce oltre 400 film, generalmente più di
Hollywood. Tuttavia “film d’autore” non si riferisce al gran numero di
produzioni europee piene di azioni splatter, pornografia hard, o commedie
grossolane. Nel linguaggio della critica da caffè letterario l’espressione “film
d’autore” è destinata a quella manciata di eccellenti film come Il pranzo di
Babette, Il postino, o Il cameraman e l’assassino, che ce la fanno a varcare
l’Atlantico.
Questi termini sono stati coniati durante le guerre di politica culturale e
indicano ottiche ampiamente diverse, se non addirittura contraddittorie. I
cineasti hollywoodiani tendono a essere esageratamente (alcuni direbbero
ingenuamente) ottimisti circa la capacità che la vita ha di cambiare -
soprattutto in meglio. Di conseguenza, per esprimere questa loro visione, si

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basano sulla trama classica e su un’esorbitante percentuale di film a lieto
fine. I cineasti non hollywoodiani tendono a essere esageratamente (alcuni
direbbero per seguire la moda) pessimisti in merito al cambiamento. E
predicano che più la vita cambia, più rimane la stessa o, peggio ancora, che
il cambiamento porta sofferenza. Di conseguenza, per esprimere vacuità, la
mancanza di significato o la non utilità del cambiamento tendono a realizzare
ritratti statici non-trama oppure antitrame e minitrame estreme con finali
negativi.
Si tratta di tendenze che, naturalmente, presentano eccezioni su entrambe
le sponde dell’Atlantico; ma la dicotomia è reale e più profonda dell’Oceano
che separa il Vecchio Mondo dal Nuovo. Gli americani sono degli evasi,
scappati da prigioni di cultura stagnante e da classi rigide, e desiderano
ardentemente il cambiamento. Cambiano in continuazione alla ricerca di ciò
che, se esiste, può funzionare. Dopo aver intessuto quella rete di sicurezza da
trilioni di dollari costituita dalla Grande Società adesso la stanno facendo a
pezzi. Il Vecchio Mondo, d’altro canto, nel corso di secoli di dure esperienze
ha imparato a temere i cambiamenti e che le trasformazioni sociali portano
inevitabilmente guerra, carestia e caos.
Il risultato è un atteggiamento polarizzato nei confronti delle storie:
l’ingenuo ottimismo di Hollywood (non ingenuo circa il cambiamento, ma
perché insiste sul cambiamento positivo) e l’egualmente ingenuo pessimismo
dei “film d’autore” (non ingenuo circa la condizione umana, ma perché
insiste sul fatto che non potrà mai essere altro che negativa o statica). Troppo
spesso i film hollywoodiani impongono un finale positivo per motivi più
commerciali che sinceri, troppo spesso i film non hollywoodiani si
aggrappano al lato oscuro, più per moda che per sincerità. La verità, come al
solito, si trova da qualche parte fra questi due estremi.
L’attenzione prestata dai “film d’autore” al conflitto interiore attrae
l’interesse di coloro che hanno un’istruzione superiore poiché il mondo
interiore è quello in cui passa parecchio tempo la persona molto istruita. I
minimalisti, tuttavia, spesso sopravvalutano la fame che persino le menti più
assorbite da se stesse possono avere per una dieta fatta di solo conflitto
interiore. Peggio ancora, sopravvalutano il proprio talento nell’esprimere ciò
che non è visibile sullo schermo. Allo stesso modo i cineasti dei film
d’azione hollywoodiani sottovalutano l’interesse che il loro pubblico nutre
per il personaggio, i pensieri e le emozioni e, peggio ancora, sovrastimano la
propria abilità nell’evitare i cliché del genere Azione.

73
Poiché le storie nel cinema hollywoodiano sono spesso forzate e piene di
cliché, per tenere viva l’attenzione del pubblico i registi devono trovare una
compensazione e ricorrono così agli effetti speciali e a rumorose
spericolatezze: vedi Il quinto elemento. Allo stesso modo poiché nei ‘‘film
d’autore” la storia è spesso esile o assente, i registi devono compensare, o
fornendo informazioni oppure fornendo stimolazioni sensoriali. Scene
appesantite da dialoghi su argomenti politici, riflessioni filosofiche e
consapevoli descrizioni delle proprie emozioni da parte dei personaggi;
oppure opere lussureggianti, con una fotografia o un commento musicale
mirati a deliziare i sensi del pubblico: vedi Il paziente inglese.
La triste verità delle guerre politiche nel cinema contemporaneo è che gli
eccessi dei “film d’autore” e dei “film hollywoodiani” sono lo specchio gli
uni degli altri: la narrazione deve trasformarsi in uno spettacolare e
scintillante connubio di immagini e sonoro per distrarre il pubblico dalle
lacune e dalla falsità della storia... E in entrambi i casi sopraggiunge la noia,
come la notte segue il giorno.
Dietro le diatribe politiche relative ai finanziamenti, alla distribuzione e
agli Oscar si annida una profonda divisione culturale, riflessa nelle visioni
del mondo contrapposte rappresentate dalla trama classica rispetto alla
minitrama e all’antitrama. Di storia in storia lo sceneggiatore può muoversi
ovunque all’interno del triangolo, ma gran parte di noi si sente più a proprio
agio in un posto o nell’altro. Dovete effettuare le vostre personali scelte
“politiche” e decidere dove stabilirvi. Nel farlo, consentitemi di offrirvi
questi spunti di riflessione.

Lo sceneggiatore deve guadagnarsi la vita scrivendo

Scrivere mentre si porta avanti un lavoro da 40 ore settimanali è possibile.


Lo hanno fatto in migliaia. Ma col tempo si diventa esausti, la
concentrazione si riduce, la creatività va a pezzi e si viene tentati di mollare.
Prima che questo avvenga, dovete trovare il modo di guadagnarvi da vivere
scrivendo. La sopravvivenza di uno sceneggiatore di talento nel mondo reale
del cinema e della televisione, del teatro e dell’editoria, inizia con il
riconoscimento del fatto che man mano che il disegno narrativo si allontana
dalla trama classica e discende lungo il triangolo verso gli estremi della
minitrama, dell’antitrama e della non-trama, il pubblico si assottiglia.

74
Questo non ha niente a che vedere con la qualità. Tutti e tre gli angoli di
questo triangolo della storia brillano di capolavori apprezzati in tutto il
mondo, esempi di perfezione per il nostro mondo imperfetto. Il pubblico si
assottiglia, invece, per il fatto che la maggior parte di noi ritiene che la vita
presenti esperienze chiuse, fatte di cambiamenti assoluti e irreversibili, e che
le nostre maggiori fonti di conflitto siano fuori di noi stessi. Pensiamo anche
di essere gli unici protagonisti attivi della nostra esistenza, e che quest’ultima
operi attraverso una continuità temporale all’interno di una realtà coerente e
causalmente interconnessa; e, inoltre, che all’interno di questa realtà gli
eventi accadano per motivi spiegabili e significativi. Dall’istante in cui il
nostro primo antenato fissò il fuoco da lui stesso prodotto e formulò il
pensiero “io sono”, è cosi che gli esseri umani hanno visto il mondo e se
stessi. Il disegno classico è uno specchio della mente umana.
Il disegno classico è un modello fatto di memoria e previsione. Forse che
quando ripensiamo al passato mettiamo insieme gli eventi in modo
antistrutturale? Minimalistico? No. Noi raccogliamo e modelliamo i nostri
ricordi intorno a una trama classica per riportare intensamente il passato alla
mente. Quando sogniamo a occhi aperti il nostro futuro, cioè quello che
temiamo o preghiamo succeda, è forse minimalistica la nostra visione?
Antistrutturale? No, noi forgiamo le nostre fantasie e speranze all’interno di
una trama classica. Il disegno classico propone i modelli temporali, spaziali e
causali della percezione umana, al di fuori dei quali la mente si ribella. Il
disegno classico non è una visione occidentale della vita. Per migliaia di
anni, dal Levante a Giava al Giappone, i narratori asiatici hanno composto le
proprie opere all’interno della trama classica intessendo racconti ricchi di
avventure e grandi passioni. Come dimostrato dall’ascesa del cinema
asiatico, gli sceneggiatori orientali attingono agli stessi principi del disegno
classico usato in Occidente e arricchiscono i propri racconti di un’ironia e di
un’arguzia unici. La trama classica non è né antica né moderna, né
occidentale né orientale: è umana.
Quando lo spettatore avverte che una storia si sta avvicinando a realtà
immaginarie che trova noiose o prive di significato si sente alienato e si
distrae. Questo vale per le persone intelligenti e sensibili, quale che sia il loro
reddito e il loro grado d’istruzione. La stragrande maggioranza degli esseri
umani non è in grado di riconoscere come metafore della propria vita le
realtà incoerenti dell’antitrama, la passività interiorizzata della minitrama e la
circolarità statica della non-trama. Più la storia si avvicina alla base del

75
triangolo, più il pubblico si riduce a quei fedeli intellettuali cinefili che
almeno una volta ogni tanto amano vedere distorte le proprie realtà. Si tratta
di un pubblico entusiasta e stimolante... ma pur sempre assai ristretto.
Se diminuisce il pubblico deve ridursi il budget. Questa è la legge.
Nel 1961 Alain Robbe-Grillet scrisse L’anno scorso a Marienbad e nel
corso degli anni Settanta e Ottanta ha poi creato dei brillanti “puzzle
antitrama”, film che trattano più dell’arte dello scrivere che non dell’atto del
vivere. Una volta gli chiesi come mai, nonostante fossero assolutamente non
commerciali, lui li facesse. Mi disse che non aveva mai speso più di 750.000
dollari per realizzare una pellicola e che avrebbe continuato così. Il suo
pubblico era fedele, anche se sparuto. Con budget così bassi i suoi
finanziatori raddoppiavano i propri investimenti e lui rimaneva sulla sedia da
regista. Ma se avessero investito due milioni di dollari loro ci avrebbero
rimesso la camicia e lui il posto. Robbe-Grillet era sia un visionario che un
pragmatico.
Se, come Robbe-Grillet, desiderate scrivere delle minitrame o delle
antitrame e riuscite a trovare un produttore non hollywoodiano per lavorare
a basso budget e siete felici di avere relativamente pochi soldi, allora va
bene. Fatelo. Ma quando si scrive per Hollywood un copione da basso
budget non è un vantaggio. I professionisti esperti che leggono il vostro
pezzo minimalista o antistrutturale possono plaudire alla vostra capacità di
gestire l’immagine, ma non si faranno coinvolgere poiché l’esperienza gli ha
insegnato che se la storia è inconsistente lo sarà anche il pubblico.
Persino i budget modesti a Hollywood si esprimono in decine di milioni
di dollari e ogni film deve raccogliere un pubblico abbastanza ampio da
ripagarne i costi e garantire un profitto maggiore di quello che le stesse
somme avrebbero procurato con un altro tipo di investimento sicuro. Perché
gli investitori dovrebbero rischiare i loro miliardi quando li possono
investire nel mercato immobiliare e avere, una volta in pensione, almeno un
edificio invece di qualcosa che viene proiettato a un paio di festival, ficcato
in una camera di sicurezza refrigerata e dimenticato? Se volete che uno
studio di Hollywood affronti questa folle corsa con voi dovete scrivere un
film che abbia almeno una possibilità di recuperare questo enorme rischio.
In altre parole, un film che vada nella direzione della trama classica.

Lo sceneggiatore deve padroneggiare la forma classica

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Grazie all’istinto e allo studio i bravi sceneggiatori riconoscono che
minimalismo e antistruttura non sono forme indipendenti, ma reazioni al
Classico. Minitrama e antitrama sono nate dalla trama classica - una la
riduce, l’altra la contraddice. L’avanguardia esiste per opporsi al popolare e
al commerciale, finché non diventa anche lei popolare e commerciale,
dopodiché si rivolta contro se stessa. Se i “film d’autore” non-trama
diventassero di moda e facessero soldi, l’avanguardia si ribellerebbe,
accuserebbe Hollywood di essersi venduta alla non-trama, e si
approprierebbe della forma classica.
Questi cicli fatti di formalità/libertà, simmetria/asimmetria sono vecchi
quanto il teatro greco. La storia dell’arte è una storia di revival: le icone del
potere culturale vengono infrante dall’avanguardia che a sua volta diventa il
nuovo potere culturale che viene attaccato da una nuova avanguardia che
utilizza le armi del nonno. Il rock and roll, che prende il nome dallo slang
usato dai neri per indicare il sesso, è partito come movimento d’avanguardia
contro la musica dei bianchi nell’epoca postbellica. Adesso identifica
l’aristocrazia musicale ed è usato persino come musica da chiesa.
L’utilizzo serio degli strumenti dell’antitrama non soltanto è passato di
moda, ma è diventato una barzelletta. Una vena di satira dark ha sempre
attraversato le opere antistrutturali, da Un chien andalou a Weekend; ma
ormai il parlare direttamente alla cinepresa, le realtà incoerenti e i finali
alternativi sono la materia prima della farsa cinematografica. Le gag
antitrama nate con Bob Hope e Bing Crosby in Avventura al Marocco sono
state inserite in pellicole come Mezzogiorno e mezzo di fuoco, nei film dei
Monty Python e Fusi di testa. Tecniche narrative che un tempo ci
apparivano pericolose e rivoluzionarie adesso sembrano inoffensive sebbene
incantevoli.
Rispettando questi cicli i grandi narratori hanno sempre saputo che,
indipendentemente dal contesto culturale, tutti, consciamente o
istintivamente, affrontano il rituale della narrazione offrendo anticipazioni
tipo quelle del disegno classico. Di conseguenza, per realizzare un’opera a
minitrama o antitrama, lo sceneggiatore deve assecondare o meno queste
anticipazioni. Soltanto spezzando o piegando con cura e creativamente la
forma classica l’artista può portare il pubblico a percepire la vita intima
nascosta in una minitrama o ad accettare le assurdità raggelanti di
un’antitrama. Ma come fa uno sceneggiatore a ridurre o a ribaltare in modo
creativo ciò che non comprende?

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Gli sceneggiatori che hanno trovato il successo negli angoli inferiori del
triangolo sapevano che il punto di partenza per la comprensione stava in
alto, al vertice. Hanno iniziato le proprie carriere con la forma classica.
Bergman ha scritto e diretto storie d’amore e drammi sociali e storici per
vent’anni prima di osare avventurarsi nel minimalismo di The Silence o
nell’antistruttura di Persona. Fellini ha fatto I vitelloni e La strada prima di
rischiare con la minitrama di Amarcord o l’antitrama di 8 1/2. Godard ha
realizzato All’ultimo respiro prima di Weekend. Robert Altman ha
perfezionato il proprio talento narrativo con le serie televisive “Bonanza” e
“Alfred Hitchcock presenta”. Prima di tutto, dunque, i maestri hanno
padroneggiato la trama classica.
Mi piace il desiderio giovanile di realizzare una prima sceneggiatura
come quella di Persona, ma il sogno di unirsi all’avanguardia deve attendere
che, come altri artisti prima di voi, anche voi giungiate a padroneggiare la
forma classica. Non prendetevi in giro da soli pensando di capire la trama
classica solo perché avete visto dei film. Saprete di averla capita quando la
saprete fare. Lo sceneggiatore affina le proprie capacità finché la conoscenza
passa dal lato sinistro del cervello a quello destro, fino a quando la
consapevolezza intellettuale diventa mestiere vivo.

Lo sceneggiatore deve credere in ciò che scrive

Stanislavski chiedeva ai suoi attori: siete innamorati dell’arte che c’è in voi o
di voi stessi nell’arte? Anche voi sceneggiatori dovete esaminare i motivi che
vi inducono a scrivere nel modo in cui scrivete. Perché le vostre
sceneggiature si indirizzano verso un angolo del triangolo piuttosto che
l’altro? Qual è la vostra visione?
Ogni racconto che voi create dice al pubblico: «Io credo che la vita sia
così». Ogni momento deve essere riempito di questa vostra appassionata
convinzione, altrimenti noi sentiremo puzza di falso. Se scrivete cose
minimaliste credete nei significati di questa forma? L’esperienza vi ha forse
convinto che la vita porta con sé poco se non addirittura nessun
cambiamento? Se la vostra ambizione è essere anticlassici, siete davvero
convinti della casuale assenza di significato della vita? Se la vostra risposta è
un appassionato «Sì», allora scrivete le vostre minitrame e antitrame, e fate
tutto ciò che potete per realizzarle. Per la stragrande maggioranza di voi,

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però, la risposta sincera a queste domande è «no». Ciononostante,
l’antistruttura e, in particolare, il minimalismo, attraggono ancora i giovani
sceneggiatori come una sorta di Pifferaio Magico. Perché? Sospetto che
molti non siano attratti dai significati che queste forme esprimono, ma da ciò
che queste forme rappresentano al di fuori della narrazione. In altre parole:
politica. Non è ciò che antitrama e minitrama sono, è ciò che esse non sono:
non sono Hollywood.
Ai giovani viene insegnato che arte e Hollywood sono antitetici. Il
principiante che vuole essere riconosciuto come artista, di conseguenza, cade
nella trappola di scrivere una sceneggiatura non per ciò che è, ma per ciò che
non è. Evita i finali chiusi, i personaggi attivi, la cronologia e la causalità per
evitare l’accusa di essere un autore commerciale. Questa pretenziosità
avvelenerà il suo lavoro.
Come afferma Edmund Husserl, una storia è l’incarnazione delle nostre
idee e delle nostre passioni, “un correlativo oggettivo” delle emozioni e delle
riflessioni profonde che desideriamo instillare nel pubblico. Se lavorate
tenendo un occhio sulla vostra sceneggiatura e l’altro su Hollywood, e fate
scelte eccentriche per evitare il marchio della commercializzazione,
produrrete l’equivalente letterario di un capriccio. Come un bambino che
vive all’ombra del padre potente, voi infrangete le “regole” di Hollywood
perché la cosa vi fa sentire liberi. Ma la rabbiosa contestazione del patriarca
non significa creatività: è violenza tesa a richiamare l’attenzione. Essere
diversi tanto per essere diversi è un traguardo privo di senso quanto seguire
servilmente l’imperativo commerciale.
Scrivete solo ciò in cui credete.

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Struttura e ambientazione

80
La guerra ai cliché

Quello attuale potrebbe essere il momento storico più difficile per fare lo
sceneggiatore. Confrontate il pubblico di oggi, saturo di storie, con quello
dei secoli passati. Quante volte all’anno i vittoriani colti andavano a teatro?
In un’epoca in cui le famiglie erano numerose e non esistevano le
lavastoviglie, quanto tempo avevano per lo svago? In una settimana i nostri
trisavoli potevano forse leggere o assistere a cinque o sei ore di storie:
quante molti di noi ne consumano in una giornata. Quando i moderni amanti
del cinema si siedono per vedere la vostra opera hanno già assorbito migliaia
e migliaia di ore di televisione, di cinema, di prosa e di teatro. Cosa avrete
creato voi che non hanno ancora visto? Dove troverete una storia davvero
originale? Come vincerete la vostra guerra contro i cliché?
I cliché sono alla base dell’insoddisfazione del pubblico e sono come
una peste diffusa dall’ignoranza che ormai infetta tutti i mezzi narrativi.
Troppo spesso chiudiamo un romanzo o lasciamo un teatro annoiati da un
finale scontato sin dall’inizio, irritati perché abbiamo già visto troppe volte
quei personaggi e quelle scene. La causa di questa epidemia mondiale è
semplice e chiara. Una e una sola è la fonte di tutti i cliché: lo scrittore non
conosce il mondo della sua storia.
Gli sceneggiatori di questo tipo scelgono un’ambientazione e varano una
sceneggiatura presupponendo una conoscenza - che non hanno - del proprio
mondo narrativo. Quando si immergono nella propria mente alla ricerca di
materiale, si trovano faccia a faccia col vuoto assoluto. E quindi a che
ricorrono? Ai film e alla televisione, ai romanzi e alle commedie con
ambientazioni simili. Dalle opere di altri scopiazzano scene che abbiamo già
visto, parafrasano dialoghi che abbiamo già udito, camuffano personaggi
che abbiamo già incontrato e li fanno passare per propri. Riscaldano gli
avanzi letterari e servono portate su portate di noia. E questo perché,
indipendentemente dal talento, manca loro una comprensione approfondita
dell’ambientazione della propria storia e di tutto ciò che contiene. La
conoscenza e lo studio approfondito del mondo della propria storia sono
fondamentali, se si vogliono conseguire originalità ed eccellenza.

81
L’ambientazione

L’AMBIENTAZIONE di una storia ha quattro dimensioni: epoca, durata,


location, livello del conflitto.

La prima dimensione temporale è quella dell’epoca. La storia è


ambientata nel mondo contemporaneo? Nel passato? In un futuro ipotetico?
O forse è una di quelle rare fantasie, come ad esempio La fattoria degli
animali o La collina dei conigli, in cui la connotazione temporale è ignota e
non rilevante?

L’EPOCA è la collocazione temporale della storia.

La durata è la seconda dimensione temporale. Quanto tempo occupa la


storia all’interno della vita dei personaggi? Decenni? Anni? Mesi? Giorni? È
una di quelle rare opere in cui il tempo della storia equivale al tempo di
proiezione, come a esempio La mia cena con André, un film di due ore che
narra una cena di due ore?
O, cosa ancora più rara, L’anno scorso a Marienbad, un film che
annulla il tempo nell’atemporalità? È pensabile che, fra montaggi incrociati,
dissolvenze, ripetizioni e/o uso del ralenti, il tempo di proiezione sia
superiore alla durata reale della storia. Sebbene la cosa non sia mai stata
tentata per un intero film, alcune sequenze ci sono riuscite brillantemente - la
più famosa di tutte è la sequenza della “Scalinata di Odessa”, tratta da La
corazzata Potemkin. L’assalto vero e proprio da parte dell’esercito zarista
contro i manifestanti di Odessa non è durato nella realtà più di due o tre
minuti, il tempo necessario ai piedi negli stivaloni di scendere i gradini
marciando. Sullo schermo il terrore dura cinque volte più a lungo.

La DURATA è la lunghezza della storia nel tempo.

La location è la dimensione fisica della storia. In quale luogo geografico


si svolge la storia? In che città, per quali strade? Quali edifici di quelle
strade? Quali stanze all’interno di quegli edifici? Su quale montagna? In
quale deserto? Un viaggio su quale pianeta?

82
La LOCATION è la collocazione spaziale della storia.

Il livello del conflitto è la dimensione umana. Un’ambientazione


comprende non solo l’aspetto fisico e temporale, ma anche quello sociale.
Questa dimensione diviene verticale nel modo seguente: a quale livello di
conflitto presentate la vostra narrazione? Non importa quanto siano
esteriorizzate nelle istituzioni o interiorizzate negli individui: le forze della
società a livello politico, economico, ideologico, biologico e psicologico
danno forma agli eventi quanto l’epoca, la geografia o le consuetudini.
Quindi il cast dei personaggi che contiene i vari livelli di conflitto fa parte
dell’ambientazione di una storia.
La vostra storia si concentra sui conflitti interiori, persino inconsci, dei
vostri personaggi? O, salendo di un livello, sui conflitti personali? O, più in
alto ancora e più ampiamente, sulle battaglie contro le istituzioni della
società? O, ancora più estesamente, è imperniata sulla lotta contro le forze
della natura? Dal subconscio alle stelle, attraverso tutte le esperienze
stratificate della vita, la vostra storia può essere collocata in uno di questi
livelli o in diverse loro combinazioni.

Il LIVELLO DEL CONFLITTO è la collocazione della storia per


quanto riguarda la gerarchia delle lotte umane.

Rapporto tra struttura e ambientazione

L’ambientazione di una storia ne definisce e limita nettamente le possibilità.


Anche se la vostra ambientazione è inventata non potete consentire che vi
accada qualsiasi cosa vi venga in mente. All’interno di ciascun mondo, per
quanto immaginario, sono possibili o probabili soltanto determinati eventi.
Se la vostra storia è ambientata nelle lussuose ville della West Los
Angeles non vedremo proprietari di casa che protestano contro le ingiustizie
sociali, manifestando tumultuosamente per le strade alberate; anche se
magari li vedremo organizzare cene da mille dollari a portata per raccogliere
fondi. Se la vostra ambientazione sono le case popolari del ghetto della East
Los Angeles questi cittadini non parteciperanno a galà da mille dollari a
portata, mentre potrebbero invece riversarsi per strada a manifestare per il
cambiamento.

83
Una STORIA deve obbedire alle proprie leggi interne della probabilità.
Le scelte degli eventi fatte dallo sceneggiatore sono, di conseguenza,
limitate alle possibilità e probabilità esistenti all’interno del mondo che
crea.

Ogni mondo narrativo crea una cosmologia specifica e proprie regole


circa come e perché le cose succedono al suo interno. Per quanto realistica o
fantastica sia l’ambientazione, una volta fissati i suoi principi causali, questi
non possono cambiare. In realtà, di tutti i generi, quello fantastico è il più
rigido e strutturalmente convenzionale. È vero che noi diamo allo
sceneggiatore di storie fantastiche la possibilità di allontanarsi con un grande
salto dalla realtà, ma poi esigiamo da lui una storia rigorosamente probabile,
dove nulla accade per coincidenza: la precisa trama classica de Il Mago di
Oz ne è un esempio. D’altro canto un realismo coraggioso spesso consente
di operare dei salti logici. Nel film I soliti sospetti, per esempio, lo
sceneggiatore Christopher McQuarrie confina i propri eventi selvaggiamente
improbabili all’interno della legge delle libere associazioni.
Le storie non si materializzano dal nulla, ma si sviluppano da materie
prime già presenti nella storia umana e nell’esperienza. Sin dalla prima
immagine del vostro film lo spettatore comincia a esaminare il vostro
universo narrativo vagliando ciò che è possibile e ciò che è impossibile, il
probabile e l’improbabile. Consapevolmente e inconsapevolmente gli
spettatori vogliono conoscere le vostre leggi per imparare come e perché
succedono le cose nel vostro specifico mondo. E voi create queste possibilità
e questi limiti attraverso la scelta personale dell’ambientazione e del modo in
cui lavorate al suo interno. Avendo inventato queste norme siete legati a un
contratto che dovete osservare. Una volta che il pubblico ha afferrato le leggi
della vostra realtà si sentirà tradito se le infrangerete e respingerà la vostra
opera in quanto illogica e poco convincente.
Vista da questa ottica l’ambientazione può sembrare una camicia di forza
imposta all’immaginazione. Quando lavoro allo sviluppo di una storia
rimango spesso colpito da come gli sceneggiatori cerchino di sottrarsi a
queste limitazioni rifiutandosi di essere specifici. «Qual è la sua
ambientazione?» chiedo io. «L’America» risponde allegramente lo
sceneggiatore. «Mi pare un po’ vasta. Ha in mente qualche zona in
particolare?». «Bob, non ha importanza. Questa è la quintessenza della tipica

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storia americana. Parla di divorzio. Cosa potrebbe esserci di più americano?
La possiamo ambientare in Louisiana, a New York o nello Idaho. Non
importa». E invece importa e come. Una separazione nel Bayou assomiglia
molto poco alla disputa legale da molti milioni di dollari di Park Avenue e
nessuna delle due ha molto in comune con un atto di infedeltà commesso in
una fattoria dove si coltivano le patate. Non esiste una cosa tipo “una storia
portatile”. Una storia sincera alloggia in un solo luogo e in un solo tempo.

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Il principio della limitazione creativa

La limitazione è vitale. Il primo passo verso una storia ben raccontata è


quello di creare un mondo piccolo e conoscibile. Per loro natura gli artisti
desiderano ardentemente la libertà e quindi il principio secondo cui il
rapporto struttura/ambientazione restringe le scelte creative potrebbe
stimolare il ribelle che è in voi. Guardate più da vicino la cosa e vedrete,
tuttavia, che questo rapporto non potrebbe essere migliore. La limitazione
che l’ambientazione impone al disegno di una storia non inibisce la
creatività, anzi la ispira. Tutte le storie belle si svolgono all’interno di un
mondo limitato e conoscibile. Per quanto un mondo narrativo possa
sembrare grande osservandolo da vicino scoprirete che è incredibilmente
piccolo. Delitto e castigo è microscopico. Guerra e Pace, sebbene posto
sullo sfondo di una Russia in fermento, è la storia concentrata di una
manciata di personaggi e dei legami fra le loro famiglie. Il dottor
Stranamore è ambientato nell’ufficio del generale Jack D. Ripper, su una
Fortezza Volante che si dirige verso la Russia e nella “Stanza Operazioni
Belliche” del Pentagono. Il suo climax è quello dell’annientamento nucleare
del pianeta, ma la narrazione si limita a tre set e a otto personaggi principali.
Il mondo di una storia deve essere sufficientemente piccolo affinché la
mente di un singolo artista possa abbracciare l’universo immaginario da essa
stessa creato e giungere a conoscerlo con lo stesso grado di profondità e
precisione con cui Dio conosce quello che ha creato. Come era solita dire
mia madre: «Non cade foglia che Dio non voglia». Neanche una foglia
dovrebbe cadere nel mondo di uno scrittore senza che lui lo voglia. Una
volta terminata l’ultima stesura dovete avere acquisito una conoscenza totale
della vostra ambientazione così profonda e dettagliata che nessuno potrà
porvi una domanda relativa a questo mondo cui voi non saprete rispondere
immediatamente - dalle abitudini culinarie dei vostri personaggi, alle
condizioni meteorologiche in settembre.
Un mondo “piccolo” non significa, tuttavia, un mondo banale.
Arte significa separare un pezzettino dal resto dell’universo e tenerlo in
mano in modo tale che sembri essere la cosa più importante e affascinante
del momento. “Piccolo”, in questo caso, significa conoscibile.
“Conoscenza totale” non significa profonda consapevolezza di ogni
frammento dell’esistenza. Significa conoscenza di tutto ciò che è pertinente.

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Può sembrare un ideale impossibile, ma gli autori migliori lo raggiungono
ogni giorno. Quale domanda relativa al tempo, al luogo e ai personaggi di
Sussurri e grida potrebbe mettere in difficoltà Ingmar Bergman? Oppure
David Mamet rispetto ad Americani? Oppure John Cleese per Un pesce di
nome Wanda? Non è che gli artisti capaci pensino in modo intenzionale e
conscio a ogni aspetto della vita presente nella loro storia, però, a un certo
livello, è come se la assorbissero tutta. I grandi sceneggiatori sanno. Di
conseguenza, lavorano all’interno di ciò che è conoscibile. Un mondo vasto
e popoloso impegna tanto la mente che la conoscenza diviene superficiale.
Un mondo limitato e un cast ristretto offrono la possibilità di una
conoscenza approfondita e ampia.
L’ironia della contrapposizione esistente fra ambientazione e storia è la
seguente: più vasto è il mondo più diluita sarà la conoscenza dello
sceneggiatore e, di conseguenza, minori saranno le sue scelte creative e più
piena di cliché la storia. Più piccolo è il mondo, più completa sarà la
conoscenza dello sceneggiatore e, di conseguenza, più numerose saranno
le sue scelte creative. Risultato: una storia pienamente originale e una
vittoria nella guerra contro i cliché.

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La ricerca

La chiave per vincere questa guerra è la ricerca e cioè dedicare tempo e


sforzo per acquisire conoscenze. Io suggerisco i seguenti metodi specifici:
ricerca di memoria, ricerca di immaginazione, ricerca di fatti. Generalmente
una storia ha bisogno di tutti e tre.

La memoria

Allontanatevi un po’ con la sedia dalla scrivania e chiedetevi: «Cosa mi dice


la mia esperienza personale su ciò che avviene nelle vite dei miei
personaggi?».
Supponiamo che state scrivendo la storia di un dirigente di mezza età in
procinto di fare una presentazione che gli risolverà o gli distruggerà la
carriera. La sua vita personale e professionale sono sospese. Ha paura. Che
sapore ha la paura? Lentamente la memoria vi riporta al giorno in cui vostra
madre, per motivi che non capirete mai, vi rinchiuse in uno sgabuzzino, se
ne andò di casa e ritornò solo il giorno dopo. Riportate alla mente quelle
lunghe ore piene di paura, quando l’oscurità vi soffocava. È possibile che il
vostro personaggio si senta allo stesso modo? Se è così, descrivete
intensamente la giornata e la notte che avete passato nello sgabuzzino. Voi
magari pensate di saperlo fare, ma non saprete di saperlo fare finché non
sarete riusciti a scriverlo. La ricerca non è un sogno a occhi aperti. Esplorate
il vostro passato, rivivetelo, e poi scrivetelo. Nella vostra testa è soltanto un
ricordo, ma una volta scritto diventa conoscenza attiva. E adesso, con la bile
della paura in pancia, scrivete una scena sincera, unica nel suo genere.

L’immaginazione

Appoggiatevi allo schienale della sedia e chiedetevi: «Cosa significherebbe


vivere la vita del mio personaggio ora dopo ora, giorno dopo giorno?».
Annotate dettagliatamente come i vostri personaggi fanno la spesa,
l’amore, pregano: scene che magari non troveranno posto nella vostra storia,

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ma che vi conducono all’interno del vostro mondo narrativo, finché non vi
sembrerà un déjà vu. Se la memoria ripropone interi blocchi di vita,
l’immaginazione cattura dei frammenti, delle schegge di sogno, dei brandelli
di esperienza che sembrano non avere relazione fra loro e ne cerca le
connessioni nascoste. Li fonde in un tutto unico. Dopo aver trovato questi
collegamenti e immaginato le scene, scrivetele. Un’immaginazione al lavoro
è ricerca.

I fatti

Avete mai sofferto del blocco dello scrittore? Fa paura, vero? Le giornate si
trascinano e non si scrive nulla. Pulire il garage sembra un divertimento.
Risistemate la scrivania in continuazione finché pensate di stare impazzendo.
Beh, io conosco una cura diversa che fare visita al vostro psichiatra. È un
giro in biblioteca.
Siete bloccati perché non avete nulla da dire. Non è che il vostro talento
vi ha abbandonato. Se avete qualcosa da dire non potete impedirvi di
scrivere. Non si può uccidere il talento, però lo si può affamare con
l’ignoranza fino a ridurlo in coma. Infatti, per quanto possa avere talento,
l’ignorante non sa scrivere. Il talento deve essere stimolato da fatti e idee.
Fate ricerca. Nutrite il vostro talento. La ricerca non soltanto vince la guerra
contro il cliché ma è anche la chiave che sconfigge la paura e una sua
parente stretta: la depressione.
Supponete, per esempio, che state scrivendo una storia nel genere
dramma familiare. Siete stati allevati in una famiglia, forse avete cresciuto
voi stessi una famiglia, avete visto tante famiglie, potete immaginare le
famiglie. Ma se andate in biblioteca a leggere opere serie sulle dinamiche
della vita familiare accadono due cose molto importanti:

1. Tutto ciò che la vita vi ha insegnato viene potentemente confermato.


Pagina dopo pagina riconoscerete la vostra famiglia e scoprirete - cosa
fondamentale - che la vostra esperienza personale è universale: questo
significa che avrete un pubblico. Certo, scriverete a livello personale; ma
qualsiasi pubblico vi comprenderà in quanto i modelli familiari sono
universali. Ciò che avete provato nella vostra vita familiare è simile a
quello di tutti gli altri: le rivalità e le alleanze, le lealtà e i tradimenti, i

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dolori e le gioie. Mentre esprimete emozioni che ritenete siano soltanto
vostre, ogni singolo spettatore le riconoscerà come sue e solo sue.

2. Non importa in quante famiglie abbiate vissuto, quante ne abbiate


osservate o quanto viva sia la vostra fantasia: la vostra conoscenza della
natura della famiglia è confinata all’ambito limitato della vostra
esperienza. Invece, mentre prendete appunti in biblioteca, la vostra
approfondita ricerca dei fatti amplierà tale ambito rendendolo universale.
Sarete colpiti da riflessioni forti e improvvise. Raggiungerete una
profondità di comprensione che non avreste potuto raggiungere in nessun
altro modo.

La ricerca effettuata a livello di memoria, di immaginazione e di fatti


viene spesso seguita da un fenomeno che gli autori amano descrivere in
termini mistici: i personaggi prendono improvvisamente vita e di loro libera
iniziativa operano scelte e intraprendono azioni che creano momenti di
svolta, che si intrecciano, crescono e si modificano al punto che lo scrittore
non riesce a stare al passo con la tastiera, tanto veloci sono i loro sviluppi.
Questa “nascita miracolosa” è un affascinante autoinganno cui amano
indulgere gli sceneggiatori. Ma questa inattesa sensazione, che la storia si stia
scrivendo da sola, non fa altro che sottolineare il momento in cui la
conoscenza dell’argomento acquisita dallo sceneggiatore ha raggiunto il
punto di saturazione. Lo sceneggiatore diventa il dio del suo piccolo
universo e si sorprende di ciò che sembra essere una creazione spontanea ma
che, in realtà, è la ricompensa per il suo duro lavoro.
Però state in guardia. Se è vero che fornisce il materiale, la ricerca non è
però un sostituto della creatività. La ricerca biografica, psicologica, fisica,
politica e storica dell’ambientazione e dei personaggi è essenziale, ma anche
inutile se non porta alla creazione dei fatti. La storia non è un accumulo di
informazioni infilate in una narrazione, ma un disegno di fatti che ci porta a
un climax significativo.
Inoltre la ricerca non deve diventare un modo per rinviare. Troppe
persone di talento ma insicure passano anni a studiare e poi non scrivono
mai nulla. La ricerca è cibo con cui nutrire l’immaginazione e l’inventiva,
non è mai fine a se stessa. E neppure esiste una procedura obbligata per fare
ricerca. Non è che dobbiamo prima riempire quaderni d’appunti con studi
sociali, biografici e storici e, solo dopo, iniziare a comporre la storia. La

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creatività raramente è così razionale. Creazione ed esplorazione vanno avanti
alternandosi.
Immaginate di scrivere un thriller psicologico. Magari iniziate
chiedendovi: «Cosa accadrebbe se...?». Cosa accadrebbe se una psichiatra
infrangesse la propria etica professionale e intraprendesse una relazione con
un paziente? Intrigati dall’idea vi chiedete: «Chi è questa dottoressa? E il
paziente? Magari lui è un soldato, reso catatonico dal trauma di
un’esplosione. E perché lei si innamora di lui?». Analizzate ed esplorate fin
quando questa progressiva conoscenza vi porterà a una sorprendente ipotesi,
e cioè che lei si innamora nel momento in cui la cura sembra operare un
miracolo: sotto ipnosi il paziente supera la paralisi e rivela una personalità
bella e quasi angelica.
Questa svolta vi sembra eccessivamente sdolcinata per essere vera, così
continuate la vostra caccia in un’altra direzione. Approfondite i vostri studi
finché non incontrate il concetto di schizofrenia vincente: alcuni psicotici
posseggono una tale intelligenza e forza di volontà da poter facilmente
nascondere a tutti la propria follia, persino ai propri psichiatri. Può essere
che il vostro paziente sia uno di questi? Potrebbe la vostra dottoressa essere
innamorata di un folle che lei crede di aver guarito? Man mano che nuove
idee la alimentano, la vostra storia cresce insieme ai personaggi; e mentre la
vostra storia cresce nascono interrogativi che hanno bisogno di ulteriore
ricerca. Creazione e indagine vanno di pari passo ponendosi richieste
reciproche, spingendo o tirando in questa o quella direzione, fino al
momento in cui la storia sboccerà viva e completa.

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Le scelte creative

Scrivere bene non significa limitarsi a trovare il numero esatto di eventi


necessari per riempire una storia e poi aggiungere i dialoghi. Creatività
significa partorire molto più del necessario, magari cinque, dieci o
addirittura venti idee per poi sceglierne una. Il mestiere esige dalla vostra
inventiva ben più materiale di quanto ne potrete usare per trarne poi, e con
un’astuta selezione, momenti di originalità che rispecchino il personaggio e il
suo mondo. Quando gli attori, per esempio, si congratulano fra loro dicono
spesso: «Mi piacciono le tue scelte». Sanno che quando un collega raggiunge
un buon risultato è perché ha provato in venti diversi modi, per poi scegliere
quell’unico momento perfetto. Lo stesso vale per noi sceneggiatori.

CREATIVITÀ significa scelte creative di inserimento ed esclusione.

Immaginate di scrivere una commedia romantica ambientata nell’East


Side di Manhattan. I vostri pensieri vagano fra le vite dei vostri personaggi
alla ricerca di quel momento perfetto in cui gli innamorati s’incontrano. Poi
l’improvvisa ispirazione: «Un bar per single! Ecco! Loro si incontrano da
P.J. Clarke!». E allora, perché no? Considerati i ricchi newyorchesi della
vostra immaginazione è sicuramente possibile che si incontrino in un bar per
single. Perché no? Perché è un orribile cliché. Si rivelò un’idea originale
quando Dustin Hoffman incontrò Mia Farrow in John e Mary, ma da allora
amanti yuppies si sono incontrati per caso in bar per single, film dopo film,
nelle soap opera e nelle sitcom.
Se avete mestiere, però, sapete come curare i cliché. Fate un rapido
elenco di cinque, dieci, quindici diverse scene del tipo “gli innamorati
dell’East Side si incontrano”. Perché? Perché gli sceneggiatori esperti non si
fidano mai della cosiddetta ispirazione. Spesso l’ispirazione è la prima idea
che vi viene in mente e, generalmente, la prima idea che vi viene in mente
deriva da tutti i film che avete visto, da tutti i romanzi che avete letto e che vi
offrono cliché a volontà. Ecco perché ci innamoriamo di un’idea il lunedì, ci
dormiamo su, poi la rileggiamo con disgusto il martedì e ci rendiamo conto
che abbiamo visto questo cliché in una dozzina di altri film. La vera
ispirazione deriva da una fonte più profonda, quindi lasciate libera la vostra
immaginazione e sperimentate:

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1. Bar per single. È un cliché ma è una possibilità. Non ancora da
scartare.

2. Park Avenue. Si buca un pneumatico della BMW di lui che resta in


piedi sul marciapiede, impotente nel suo completo a tre pezzi. Arriva lei sulla
motocicletta e ne prova compassione: tira fuori la ruota di scorta e, mentre
sistema la macchina, lui le fa da aiutante porgendole il crick, i bulloni, i
copriruote... finché... improvvisamente i loro occhi si incrociano e
scoppiano scintille.

3. Toilette. Dopo la festa di Natale in ufficio lei è così ubriaca che entra
barcollando nel bagno degli uomini per vomitare. Lui la trova per terra.
Rapidamente, prima che entri qualcun altro, chiude la porta del bagno e la
sostiene mentre lei vomita. Quando non c’è nessuno in vista lui la fa uscire
di soppiatto risparmiandole ogni genere di imbarazzo.
Se proseguite così si allunga l’elenco. Non c’è bisogno che voi scriviate
per esteso queste scene. Siete alla ricerca di idee e quindi vi basta descrivere
a grandi linee cosa avviene. Se conoscete in profondità i vostri personaggi e
il loro mondo non sarà un compito difficile trovare una dozzina di scene del
genere. Una volta esaurite le vostre migliori idee, rileggete l’elenco e
ponetevi le seguenti domande: «Quale scena è più fedele ai miei personaggi?
La più fedele al loro mondo? E quale non è mai stata vista sullo schermo
esattamente in questo modo?»
Questa è la scena che metterete nella sceneggiatura.
Eppure, mentre vagliate le scene dell’incontro sulla vostra lista e ne
riconoscete i pregi, dal profondo delle viscere vi rendete conto che la vostra
prima ipotesi era quella giusta. Cliché o non cliché questi innamorati si
incontrano in un bar per single. Niente potrebbe esprimere meglio la loro
natura e il loro ambiente. E allora, cosa fate adesso? Seguite il vostro istinto
e iniziate un nuovo elenco: una dozzina di modi diversi per incontrarsi in un
bar per single. Ricercate questo mondo, attendete, osservate i clienti, fatevi
coinvolgere, finché non conoscerete l’ambiente di un bar per single come
nessun altro sceneggiatore prima di voi.
Vagliate il vostro nuovo elenco e ponetevi le stesse domande: «Quale
variazione è più fedele al personaggio e al suo mondo? Quale non è mai
stata vista sullo schermo?» Quando il vostro copione sarà un film e la

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cinepresa farà una carrellata verso il bar per single la prima reazione degli
spettatori potrebbe essere: «Oh, no! Un’altra scena in un bar per single!». Ma
voi gli farete oltrepassare la porta e gli mostrerete cosa succede veramente in
questi equivoci locali per incontri.
E, se avete lavorato bene, gli spettatori si stupiranno e assentiranno: «È
vero! Questo non è il solito: “Qual è il tuo segno astrologico? Hai letto
qualche bel libro recentemente?”. Qui ci sono imbarazzo e pericolo. E questa
è la verità».
Se la vostra sceneggiatura ultimata contiene tutte le scene che avete
scritto, se non avete gettato via alcuna idea, se la vostra riscrittura non è stato
altro che giocherellare un po’ col dialogo, il vostro lavoro quasi certamente
non avrà successo. Indipendentemente dal nostro talento, nei profondi
recessi dell’anima noi tutti sappiamo che il 90% di quello che facciamo è ben
lontano dal meglio che possiamo dare. Ma se la ricerca vi ispira dieci o
persino venti idee per una scena e se poi voi, effettuando delle scelte
brillanti, trovate un 10% eccellente e bruciate tutto il resto ogni scena
risulterà affascinante e il mondo starà lì seduto ad ammirare il vostro genio.
Non è necessario che qualcuno veda i vostri fallimenti, a meno che voi
non aggiungiate vanità alla follia e non li mettiate in mostra. Il genio non
consiste soltanto nell’avere il potere di creare “beat” e scene espressive, ma
anche nel gusto, nel giudizio e nella volontà di identificare e distruggere le
banalità, le vanità, le note stonate e le bugie.

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(4) Struttura e genere

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I generi cinematografici

Dopo decine di migliaia di anni di storie raccontate vicino al fuoco, quattro


millenni di parola scritta, duemilacinquecento anni di teatro, un secolo di
cinema e ottant’anni di radio e televisione, innumerevoli generazioni di
narratori hanno tessuto le loro storie attraverso un’incredibile varietà di
modelli. Per orientarsi in tutta questa produzione sono stati messi a punto
diversi sistemi che catalogano le storie sulla base degli elementi che hanno in
comune, classificandole in base al genere. Non esistono, però, due soli
sistemi che siano mai stati d’accordo su quali elementi della storia vanno
usati per la sua suddivisione e, di conseguenza, che abbiano mai raggiunto
un accordo sul numero e sul tipo dei generi.
Aristotele ci ha fornito i primi generi suddividendo le narrazioni in base
alla carica che i valori hanno nel finale, rispetto al disegno della storia. Una
storia, diceva, potrebbe terminare con una carica positiva o negativa.
Ciascuno di questi due tipi potrebbe poi essere un disegno semplice (finale
piatto, senza momento di svolta o sorpresa) oppure complesso (climax che
avviene attraverso un importante ribaltamento nella vita del protagonista). Il
risultato sono i quattro generi fondamentali: Tragico Semplice, Fortunato
Semplice, Tragico Complesso, Fortunato Complesso.
Nel corso dei secoli, tuttavia, la lucidità di Aristotele è andata perduta e la
classificazione dei generi è diventata sempre più confusa e ridondante.
Goethe ha elencato sette tipologie basate sull’argomento: amore, vendetta, e
così via. Schiller ha sostenuto che le tipologie devono essere di più, ma non
è stato capace di citarle. Polti ha inventariato non meno di trentasei diverse
emozioni dalle quali ha tratto le “trentasei situazioni drammatiche”; ma le sue
categorie, come per esempio “un delitto involontario commesso per amore”
o “il sacrificio di se stessi per un ideale”, sono estremamente vaghe. Il
semiologo Metz ha ridotto tutti i prodotti cinematografici a sole otto
possibilità che ha chiamato “syntagma”, tentando poi di schematizzare il
cinema come “grande syntagma”, ma i suoi sforzi di trasformare l’arte in
scienza sono crollati come la torre di Babele.
Il critico neoaristotelico Norman Friedman, d’altro canto, ha messo a
punto un sistema che ancora una volta delinea i generi sulla base della
struttura e dei valori. Dobbiamo a Friedman la distinzione fra la trama
educativa, la trama di redenzione e la trama della disillusione, forme sottili,

96
in cui la storia percorre il proprio arco a livello di conflitto interiore per
determinare cambiamenti profondi all’interno della mente o della morale del
protagonista.
Mentre gli studiosi dibattono definizioni e sistemi, lo spettatore è invece
un esperto di generi: si avvicina a ogni film con aspettative chiare e
complesse determinate dalla continua frequentazione di sale
cinematografiche. Il gusto sofisticato del pubblico per i generi pone allo
sceneggiatore una sfida fondamentale: non deve solo soddisfare le
aspettative del pubblico - altrimenti rischia che il pubblico si confonda e sia
deluso - deve anche fornire a queste aspettative delle scene originali e
inaspettate, altrimenti rischierà di annoiarlo. Questo doppio obiettivo non è
possibile se non si possiede una conoscenza dei generi superiore a quella del
pubblico.
Qui di seguito è elencato un sistema di generi e sottogeneri usato dagli
sceneggiatori - un sistema che si è evoluto partendo dalla pratica e non dalla
teoria e che si impernia sulle diversità di soggetto, ambientazione, ruolo,
evento e valori.

1. LA STORIA D’AMORE. Il suo sottogenere: il salvataggio dell’amico,


sostituisce l’amicizia all’amore romantico: Mean Streets, Domenica in
chiesa, Lunedì all’inferno, Amori e amicizie, Romy and Michele’s High
School Reunion.

2. I FILM DELL’ORRORE. Questo genere si divide in tre sottogeneri: il


mistero, in cui la fonte dell’orrore è sorprendente, ma soggetta a spiegazioni
“razionali”, come per esempio esseri provenienti da altri mondi, mostri creati
dalla scienza, oppure un maniaco; il sovrannaturale, in cui la fonte
dell’orrore è un fenomeno “irrazionale” proveniente dal regno dello spirito; e
il super-mistero, in cui il pubblico viene tenuto sempre a cavallo fra le altre
due possibilità – L’inquilino del terzo piano, L’ora del lupo, Shining.

3. L’EPOPEA MODERNA (Individuo contro Stato): Spartacus, Mr.


Smith va a Washington, Viva Zapata!, 1984, Larry Flint - Oltre lo
scandalo.

4. IL WESTERN. L’evoluzione di questo genere e dei suoi sottogeneri è


brillantemente ripercorsa nel libro di Will Wright Sixguns and Society.

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5. IL GENERE DI GUERRA. Sebbene la guerra sia spesso
l’ambientazione per altri generi, come ad esempio la storia d’amore, questo
genere tratta in modo particolare il combattimento. I suoi principali
sottogeneri sono il pro-bellico e l’anti-bellico. I film contemporanei,
generalmente, si oppongono alla guerra; ma per decenni la maggior parte
l’ha sotterraneamente glorificata, anche nella sua forma più macabra.

6. LA TRAMA DI FORMAZIONE o storia della crescita: Stand by Me -


ricordo di un’estate, La febbre del sabato sera, Risky Business, Fuori i
vecchi... i figli ballano, Big, Bambi, Le nozze di Muriel.

7. LA TRAMA DI REDENZIONE. Qui il film compie il proprio “arco”


su un cambiamento morale dal male al bene nell’intimo del protagonista: Lo
spaccone, Lord Jim, Drugstore Cowboy, Schindler’s List, La promessa.

8. LA TRAMA PUNITIVA. In queste pellicole il buono diventa cattivo e


viene punito: Rapacità, Il tesoro della Sierra Madre, Mephisto, Wall Street,
Un giorno di ordinaria follia.

9. LA TRAMA DELLA MESSA ALLA PROVA. Storie sulla forza di


volontà contro la tentazione di arrendersi: Il vecchio e il mare, Nick
Manofredda, Fitztcarraldo, Forrest Gump.

10. LA TRAMA EDUCATIVA. Questo genere basa il proprio “arco” sul


profondo cambiamento della visione che il protagonista ha della vita, della
gente o di se stesso: da negativa (ingenua, sfiduciata, fatalistica,
autodistruttiva) a positiva (saggia, fiduciosa, ottimistica, che vuole
affermarsi): Harold e Maude, Tender Mercies - Un tenero ringraziamento,
Luci d’inverno, Il postino, L’ultimo contratto, Il matrimonio del mio
migliore amico, Voglio danzare con te.

11. LA TRAMA DELLA DISILLUSIONE. Abbiamo qui un profondo


cambiamento della visione del mondo che va da positivo a negativo: Mrs.
Parker e il circolo vizioso, L’eclisse, Fuoco fatuo, Il grande Gatsby,
Macbeth.

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Alcuni generi sono dei mega-generi, così ampi e complessi da risultare
pieni di variazioni nei sottogeneri:

12. LA COMMEDIA. I suoi sottogeneri vanno dalla parodia alla satira


alla “sitcom” al romantico al demenziale alla farsa alla “black-comedy”, e
differiscono fra loro per il bersaglio del loro attacco comico (follia
burocratica, manierismi da classe superiore, corteggiamento da adolescente,
eccetera) e per il grado di ridicolo (gentile, caustico, letale).

13. IL POLIZIESCO. Qui i sottogeneri variano soprattutto in base alla


risposta alla domanda: dal punto di vista di chi stiamo considerando il
delitto? Mistero con omicidio (punto di vista del detective capo); storia
criminale (punto di vista del capo criminale); detective (punto di vista del
poliziotto); gangster (punto di vista del delinquente); thriller o storia di
vendetta (punto di vista della vittima); giudiziario (punto di vista
dell’avvocato); giornalistico (punto di vista del reporter); spionaggio (punto
di vista della spia); carcerario (punto di vista del recluso); noir (punto di
vista di un protagonista che può essere in parte un criminale e in parte un
detective, in parte vittima di una femme fatale).

14. IL DRAMMA SOCIALE. Questo genere identifica i problemi della


società - povertà, sistema educativo, malattie gravi, emarginazione, ribellione
antisociale, e cose del genere - e poi costruisce una storia che propone la
cura. Ha un certo numero di sottogeneri focalizzati su: dramma familiare
(problemi all’interno della famiglia), dramma femminile (dilemmi, come a
esempio carriera o famiglia, amante o figli), dramma politico (corruzione
nella politica), eco-dramma (lotte per salvare l’ambiente), dramma medico
(lotta contro le malattie fisiche), psicodramma (lotta contro le malattie
mentali).

15. AZIONE/AVVENTURA. Questo genere spesso prende a prestito


aspetti di altri generi come la guerra o il dramma politico che vengono usati
come motivazioni per azioni esplosive e gesta temerarie. Se
l’AZIONE/AVVENTURA abbraccia idee come il destino, l’arroganza umana
o lo spirituale, allora diventa il sottogenere avventura superiore: L’uomo che
volle farsi re. Se la fonte dell’antagonismo è Madre Natura, diventa un film

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catastrofico/di sopravvivenza: Alive-sopravvissuti, L’avventura del
Poseidon.

Da un’ottica ancora più ampia, i mega-generi vengono creati attraverso


l’ambientazione, gli stili o le tecniche cinematografiche che contengono una
messe di generi autonomi. Queste pellicole sono come spaziose ville con
tante stanze dove può trovare collocazione uno dei generi principali, dei
sottogeneri o una qualsivoglia loro combinazione:

16. IL DRAMMA STORICO. La storia passata è una fonte inesauribile di


materiale narrativo e abbraccia ogni tipo di racconto. Il forziere della storia,
tuttavia, è sigillato da questo avvertimento: ciò che è passato deve essere
presente. Lo sceneggiatore non è un poeta che spera di venir scoperto dopo
la morte. Deve trovarsi un pubblico oggi. Di conseguenza l’uso migliore
degli eventi storici e l’unica legittima scusa per ambientare un film nel
passato, e quindi aumentare il budget di innumerevoli milioni di dollari, è
l’anacronismo - usare il passato come lente attraverso la quale poter
mostrare il presente.
Molti antagonismi moderni sono così stressanti o carichi di polemiche
che è difficile ambientarli ai nostri giorni senza alienarsi le simpatie del
pubblico. Dilemmi di questo tipo sono spesso meglio osservabili se li
distanziamo nel tempo. IL DRAMMA STORICO rispolvera il passato e lo
trasforma in uno specchio del presente. Rende chiari e sopportabili i
dolorosi problemi del razzismo, come in Glory - uomini di gloria; delle lotte
religiose, come in Michael Collins; o delle violenze di ogni tipo,
specialmente contro le donne, come ne Gli spietati.
Le relazioni pericolose di Christopher Hampton: ambientare una storia di
amore-odio con un finale pessimista nella Francia dei merletti e delle
piccanti schermaglie amorose sembrava la ricetta giusta per un disastro
commerciale. Il film ha trovato, invece, un enorme pubblico in quanto mette
in risalto una forma di ostilità contemporanea troppo delicata a livello
politico per essere affrontata direttamente: il corteggiamento come scontro.
Hampton è risalito indietro di due secoli per arrivare a un’epoca in cui la
politica sessuale si era trasformata in un conflitto teso alla supremazia
sessuale, dove l’emozione prevalente non era l’amore, ma la paura e il
sospetto nei confronti dell’altro sesso. Nonostante l’ambientazione

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settecentesca nel giro di pochi minuti il pubblico ha sentito una grande
affinità con questi aristocratici corrotti: sono come noi.

17. LA BIOGRAFIA. Questo parente stretto del dramma storico si


concentra su una persona piuttosto che su un’epoca. E, tuttavia, la
BIOGRAFIA non deve mai diventare una semplice cronistoria. Che
qualcuno sia vissuto, morto e abbia fatto nel frattempo delle cose interessanti
riveste un interesse puramente accademico e nient’altro. Il biografo deve
interpretare i fatti come se fossero episodi narrativi, trovare il significato
della vita del soggetto e poi trasformare quest’ultimo in protagonista. Alba di
gloria difende l’innocente in un dramma giudiziario; Gandhi diviene l’eroe
di un’epopea moderna; Isadora soccombe in una trama di disillusione;
Nixon soffre in una trama punitiva nel film Gli intrighi del potere - Nixon.
Questi avvertimenti valgono anche per il sottogenere autobiografia.
Questo temine è molto popolare fra i cineasti che ritengono di dover scrivere
un film su un argomento che conoscono. E questo è giusto. Ma i film
autobiografici risultano spesso carenti proprio di quella qualità che
promettono: la conoscenza di sé. Perché, se è vero che una vita non
consapevole non vale la pena di essere vissuta, è anche vero che non vale la
pena di diventare consapevoli di una vita non vissuta. Un mercoledì da
leoni, per esempio.

18. IL DOCU-DRAMA. È un cugino di secondo grado del dramma


storico e si concentra su eventi recenti piuttosto che passati. Rafforzato dal
“cinema verità” - La battaglia di Algeri - è diventato un popolare genere
televisivo, a volte efficace, ma spesso di scarso valore documentaristico.

19. IL FINTO DOCUMENTARIO (o MOCKUMENTARY). Questo


genere finge di avere le proprie radici nell’attualità o nella memoria, si
comporta come un documentario o un’autobiografia, ma è fiction pura e
semplice. Sovverte il cinema basato sui fatti per fare la satira delle istituzioni
ipocrite: il mondo dietro le quinte del rock and roll in This Is Spinal Tap; la
Chiesa Cattolica in Roma; i costumi delle classi medie in Zelig; il
giornalismo televisivo ne Il cameraman e l’assassino; la politica in Bob
Roberts; i valori americani grossolani in Da morire.

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20. IL MUSICAL. È un genere che proviene dall’opera e presenta una
“realtà” in cui i personaggi cantano e ballano le proprie storie. Spesso è una
storia d’amore, ma può essere un film noir: l’adattamento teatrale di Viale
del tramonto; il dramma sociale: West Side Story; la trama punitiva: Lo
spettacolo continua; la biografia: Evita. In realtà qualsiasi genere può
funzionare nella forma musicale e tutti possono essere oggetto di satira nella
commedia musicale.

21. LA FANTASCIENZA. Negli ipotetici futuri che sono versioni


tecnologiche della tirannia e del caos, lo sceneggiatore di FANTASCIENZA
spesso coniuga l’epopea moderna dell’Uomo-contro-lo-Stato con
l’azione/avventura: la trilogia di Guerre stellari e Atto di forza. Ma, come
per la storia passata, il futuro è un’ambientazione in cui può svolgersi
qualsiasi genere. In Solaris, per esempio, Andrej Tarkovsky ha usato la
fantascienza per mettere in scena i conflitti interni di una trama di
disillusione.

22. IL GENERE SPORTIVO. Lo sport è un crogiuolo per il cambiamento


dei personaggi. Questo genere è un contenitore ideale per la trama di
formazione: I mastini del Dallas; la trama di redenzione: Lassù qualcuno mi
ama; la trama educativa: Bull Durham - un gioco a tre mani; la trama
punitiva: Toro scatenato; la trama da messa alla prova: Momenti di gloria; la
trama di disillusione: Gioventù amore e rabbia; il salvataggio dell’amico:
Chi non salta bianco è; il dramma sociale: Ragazze vincenti.

23. IL GENERE FANTASTICO. Qui lo sceneggiatore gioca con il tempo,


lo spazio oltre il mondo fisico, miscelando e combinando le leggi della
natura e del sovrannaturale. Le extra-realtà del FANTASTICO attraggono i
generi dell’azione, ma accolgono bene anche altri generi come la storia
d’amore: Ovunque nel tempo; il dramma politico/allegorico: La fattoria
degli animali; il dramma sociale: Se... ; la trama di formazione: Alice nel
paese delle meraviglie.

24. IL GENERE D’ANIMAZIONE. Qui regna la legge del metamorfismo


universale: qualsiasi cosa può diventare un’altra cosa. Analogamente a
fantasia e fantascienza, L’ANIMAZIONE tende verso i generi dell’azione
tipici della farsa dei cartoni animati: Bugs Bunny; oppure dell’avventura

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superiore: La spada nella roccia, Yellow Submarine - Il sottomarino giallo;
e, poiché il pubblico giovanile è il suo mercato naturale, anche verso molte
trame di formazione: Il re leone, La sirenetta. Comunque, come hanno
dimostrato autori di cartoni animati sia dell’Europa Orientale che del
Giappone, non esistono limiti.

Per finire, per coloro che credono che dei generi e delle loro concezioni
si preoccupino soltanto gli sceneggiatori “commerciali” e che l’arte seria non
sia di genere, lasciate che aggiunga un ultima categoria a questa lista:

25. FILM D’AUTORE. L’idea che gli autori di avanguardia scrivano al di


fuori dei generi è un’ingenuità. Nessuno scrive nel vuoto. Dopo migliaia di
anni di racconti nessuna storia è così diversa da non somigliare a qualcosa
che è già stato scritto. IL FILM D’AUTORE è diventato un genere
tradizionale divisibile in due sottogeneri: il minimalista e l’antistrutturale,
ognuno col proprio complesso di convenzioni formali a livello di struttura e
di cosmologia. Come il dramma storico, IL FILM D’AUTORE è un mega-
genere che abbraccia altri generi fondamentali: la storia d’amore, il dramma
politico e così via.

Anche se questo prospetto sembra ragionevolmente completo, nessun


elenco può risultare definitivo o esauriente in quanto le demarcazioni fra i
generi spesso si sovrappongono, si influenzano e si fondono una nell’altra. I
generi non sono né statici né rigidi, ma flessibili e in evoluzione, e
comunque abbastanza stabili e fermi da poter essere identificati e utilizzati,
proprio come un compositore gioca con i movimenti plasmabili dei generi
musicali.
Il compito di ogni sceneggiatore è di identificare in primo luogo il
proprio genere e poi ricercarne le leggi che lo governano. Non c’è modo di
sfuggire a questi compiti. Siamo tutti scrittori di genere.

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Il rapporto fra struttura e genere

Ogni genere impone delle convenzioni al disegno narrativo: valori


convenzionali al climax, come ad esempio il finale pessimista nella trama
della disillusione; ambientazioni convenzionali come nel western; eventi
convenzionali del tipo uomo-incontra-donna nella storia d’amore; ruoli
convenzionali come quello del delinquente nel poliziesco. Il pubblico
conosce queste convenzioni e si aspetta di vederle rispettate. Perciò la scelta
del genere determina e limita in modo netto quello che è possibile all’interno
di una storia perché il suo disegno deve considerare la conoscenza e le
aspettative del pubblico.

Le CONVENZIONI DEL GENERE sono ambientazioni, ruoli, eventi e


valori specifici che definiscono i singoli generi e i loro sottogeneri.

Ogni genere ha le sue convenzioni specifiche, ma talvolta risultano


relativamente semplici e flessibili. Nella trama della disillusione la
convenzione principale è che ci sia un protagonista che all’inizio della storia
è pieno di ottimismo, nutre alti ideali o convinzioni e ha una visione positiva
della vita. La seconda convenzione è una serie di svolte ripetutamente
negative della storia che inizialmente possono farlo sperare e poi, in ultima
analisi, avvelenano i suoi sogni e i suoi valori lasciandolo profondamente
cinico e disilluso. Il protagonista de La conversazione, per esempio, parte
con certezze assodate sulla vita e finisce in un incubo paranoide. Questo
semplice insieme di convenzioni offre possibilità infinite in quanto la vita
conosce mille sentieri per condurre alla disperazione. Tra i tanti memorabili
film di questo genere ricordiamo Gli spostati, La dolce vita e Lenny.
Altri generi sono relativamente inflessibili e presentano un complesso di
rigide convenzioni. Nel genere poliziesco deve esserci un delitto e deve
verificarsi all’inizio della narrazione. Deve esserci un detective,
professionista o dilettante, che scopre indizi e sospetti. Nel thriller il
criminale deve “avere un motivo personale”. Certo, la storia può iniziare con
un poliziotto che lavora solo per la paga, ma a un certo punto scopriamo,
allo scopo di approfondire il dramma, che il criminale esagera. I cliché
crescono come funghi intorno a questa convenzione: il criminale minaccia la
famiglia del poliziotto o trasforma il poliziotto stesso in un sospetto; oppure,

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il massimo dei cliché, con radici che risalgono a Il falcone maltese, il
criminale uccide il partner del detective. Da ultimo il poliziotto deve
identificare, acciuffare e punire il criminale.
Anche la commedia contiene miriadi di sottogeneri, ognuno con le
proprie convenzioni, ma esiste una convenzione predominante che unifica
questo mega-genere e lo distingue dal dramma: nessuno si fa male. Nella
commedia il pubblico deve sentire che, per quanto i personaggi sbattano
contro le pareti, e per quanto urlino e si contorcano sotto le frustate della
vita, in effetti non si fanno male. Gli edifici possono cadere su Laurel e
Hardy, ma si rialzano sempre dalle macerie, si tolgono di dosso la polvere,
mormorano. «Oh, che confusione...» e vanno avanti.
In Un pesce di nome Wanda, Ken (Michael Palin), un personaggio che
nutre un amore ossessivo per gli animali tenta di ammazzare una vecchietta,
ma riesce solo a uccidere gli adorati terrier. L’ultimo cane muore sotto un
enorme blocco di cemento armato e di lui vediamo solo la piccola zampetta
sporgente. Charles Crichton, il regista, ha girato due versioni di questo
dettaglio: in una mostra soltanto la zampetta, mentre per la seconda mandò a
prendere in una macelleria un sacchetto di interiora e aggiunse una striscia di
sangue che gocciolava dal terrier spiaccicato. Quando questa immagine
truculenta venne mostrata al pubblico dell’anteprima il cinema si raggelò.
Sangue e interiora dicevano: «Fa male». Per la distribuzione nelle sale
Crichton ha così scelto l’inquadratura depurata che provoca le risate. In base
alle convenzioni di questo genere lo sceneggiatore di commedia si muove su
un filo teso fra mettere i propri personaggi nelle fiamme dell’inferno e
rassicurare contemporaneamente il pubblico che le fiamme in realtà non
bruciano.
A cavallo di questo genere si colloca il sottogenere della black-comedy.
Qui lo sceneggiatore piega in parte la convenzione del comico e consente al
proprio pubblico di sentire un dolore acuto, ma non insopportabile: Il caro
estinto, La guerra dei Roses, L’onore dei Prizzi - film in cui la risata spesso
ci muore in gola.
I film d’autore sono resi convenzionali da una serie di elementi esterni,
come l’assenza delle star (o del compenso delle star), il fatto di venire
prodotti al di fuori del sistema hollywoodiano, generalmente in una lingua
diversa dall’inglese: il tutto serve come punteggio per le vendite, visto che i
responsabili del Marketing esortano poi i critici a sostenere il film in quanto
le sue principali convenzioni interne sono, prima di tutto, una esaltazione del

105
cerebrale. Il film d’autore punta all’intelletto, nasconde le emozioni forti
sotto un manto di stati d’animo; attraverso gli enigmi, il simbolismo o le
tensioni irrisolte invita alle interpretazioni e alle analisi nel rituale post-
cinematografico della critica al bar. In secondo luogo, e cosa essenziale, il
disegno della storia di un film d’autore dipende da un’unica, grandiosa
convenzione: la non-convenzionalità. La non-convenzionalità minimalista
e/o antistrutturale è la convenzione che contradistingue i film d’autore.
Riscuotere successo nel genere del film d’autore porta di solito a essere
riconosciuti come artisti - istantaneamente, anche se spesso solo
temporaneamente. D’altro canto l’inossidabile Alfred Hitchcock ha lavorato
soltanto all’interno della trama classica e delle convenzioni dei generi, ha
sempre mirato al grande pubblico e, generalmente, lo ha trovato. Eppure
oggi troneggia nel pantheon dei cineasti, adorato in tutto il mondo come uno
dei maggiori artisti dello scorso secolo: un poeta del cinema, le cui opere
traboccano di immagini sublimi fatte di sessualità, religiosità e perspicaci
punti di vista. Hitchcock sapeva che non esiste necessariamente una
contraddizione fra arte e successo popolare, né una necessaria connessione
fra arte e film d’autore.

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Padroneggiare i generi

Ciascuno di noi ha un enorme debito nei confronti delle grandi tradizioni


narrative. Non dovete soltanto rispettare, ma anche padroneggiare il vostro
genere e le sue convenzioni. Non presupponete mai di conoscere il vostro
genere solo perché avete visto qualche film.
Sarebbe come supporre di poter comporre una sinfonia perché si sono
ascoltate le nove sinfonie di Beethoven. Dovete studiare la forma. In questo
possono aiutarvi dei libri di critica sui generi, ma pochi sono aggiornati e
nessuno completo. Leggete di tutto, comunque, poiché abbiamo bisogno di
ogni aiuto possibile. Le intuizioni più preziose, in ogni caso, derivano dalla
scoperta di sé; nulla accende di più l’immaginazione che il dissotterrare un
tesoro sepolto.
È meglio studiare i generi nel seguente modo: innanzitutto, fate un elenco
dei film che sentite vostri, successi o fallimenti che siano (lo studio dei
fallimenti è illuminante e... umiliante). Poi noleggiate i Dvd e acquistate, se
possibile, le relative sceneggiature. Studiate i film a “stop and go”, cioè
facendo scorrere le pagine parallelamente alle immagini sullo schermo e
suddividendo ciascun film nei suoi elementi di ambientazione, ruolo, evento
e valore. Alla fine, sovrapponete, per così dire, queste analisi ed esaminatele
chiedendovi: «Cosa succede sempre nelle storie del mio genere? Quali sono
le sue convenzioni a livello di tempo, luogo, personaggi e azione?» Finché
non avrete queste risposte il pubblico sarà sempre un passo avanti a voi.

Per soddisfare le attese del pubblico dovete padroneggiare il vostro


genere e le sue convenzioni.

Se un film è stato adeguatamente pubblicizzato il pubblico arriverà pieno


di aspettative. Nel gergo dei professionisti del marketing si dice che è stato
“posizionato”. “Posizionare il pubblico” significa questo: noi non vogliamo
che gli spettatori vengano a vedere la nostra opera con un atteggiamento
freddo e vago, non sapendo cosa attendersi, obbligandoci a spendere i primi
venti minuti di proiezione per fornire loro gli indizi necessari ad avere il
giusto atteggiamento nei confronti della storia. Vogliamo invece che il
pubblico si sistemi nelle poltrone già riscaldato, concentrato e con un
appetito che noi intendiamo soddisfare.

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“Posizionare il pubblico” non è una cosa nuova. Shakespeare non aveva
intitolato la sua tragedia Amleto, l’aveva chiamata La tragedia di Amleto,
principe di Danimarca. Invece alle commedie dava titoli come Molto
rumore per nulla e Tutto è bene quel che finisce bene, così ogni pomeriggio
il suo pubblico elisabettiano arrivava al Globe Theatre psicologicamente
pronto a piangere o a ridere.
Un abile lavoro di marketing crea aspettative relative al genere.
Dal titolo alla locandina, alla pubblicità sulla stampa e in televisione, la
promozione cerca di fissare il tipo di storia nella mente del pubblico.
Abbiamo detto agli spettatori di aspettarsi una certa forma che amano e
allora dobbiamo consegnargliela, come promesso. Se pasticciamo il genere
omettendo o usando male le sue convenzioni il pubblico lo capirà
immediatamente e parlerà male del nostro lavoro.
Per esempio, il marketing del film incautamente intitolato Mike’s murder
(USA/1984) “posizionò” il pubblico per il genere mistero con assassinio. Il
film invece appartiene a un altro genere per cui per oltre un’ora il pubblico
rimane seduto a chiedersi: «Chi diavolo muore in questo film?». La
sceneggiatura è un’originale rivisitazione della trama di formazione in
quanto trasforma l’impiegata di banca Debra Winger da donna dipendente e
immatura a donna matura e padrona di sé. Ma l’amaro passaparola di un
pubblico confuso e “posizionato” in modo sbagliato ha compromesso un
film altrimenti valido.

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Le limitazioni creative

Robert Frost ha affermato che scrivere versi liberi è come giocare a tennis
senza la rete, mentre sono invece le esigenze autoimposte, e in effetti
artificiose, delle convenzioni poetiche a stimolare l’immaginazione.
Supponiamo che un poeta si imponga arbitrariamente questo limite: scrivere
stanze di sei versi con rime alternate. Dopo aver rimato la quarta strofa con
la seconda giunge alla fine della stanza. Incastrato in quest’angolo lotta per
rimare la sesta strofa con la quarta e con la seconda. Ciò può ispirargli una
parola che non ha alcun rapporto con la sua poesia - a parte la rima - una
parola casuale che però fa scattare una frase che, a sua volta, porta alla
mente un’immagine. Un’immagine che risuona per tutte e cinque le altre
strofe, scatenando così un senso e un’emozione totalmente nuovi,
muovendo e spingendo la poesia verso significati ed emozioni ancora più
ricchi. Grazie alla limitazione creativa dell’autore di questo schema rimato la
poesia raggiunge un’intensità che le sarebbe altrimenti mancata se il poeta si
fosse consentito la libertà di scegliere qualsiasi parola avesse voluto.
Il principio della limitazione creativa esige libertà all’interno di una
cerchia di ostacoli. Il talento è come un muscolo: si atrofizza se non c’è
qualcosa che lo obblighi a sforzarsi. Ecco perché noi sistemiamo
volontariamente sul nostro cammino massi e barriere per ispirarci. Ci
imponiamo una disciplina che riguarda il cosa fare, mentre restiamo liberi
sul come farlo. Di conseguenza uno dei nostri primi passi è quello di
identificare il genere o la combinazione di generi che governano il nostro
lavoro, visto che la convenzione dei generi è il terreno accidentato che
alimenta le idee più fruttuose.
Le convenzioni dei generi sono per un narratore l’equivalente dello
schema rimato della poesia. Non inibiscono la creatività, anzi la ispirano. La
sfida è quella di preservare la convenzione evitando il cliché. Che un uomo
incontri una donna in una storia d’amore non è un cliché ma un elemento
necessario della forma: una convenzione. Il cliché si propone se si
incontrano come gli amanti di ogni storia d’amore hanno sempre fatto: due
dinamici individualisti obbligati a condividere un’avventura e che sembrano
odiarsi a prima vista; oppure due anime timide, ognuna pronta a dare a chi
non è disposto a darle nulla, si ritrovano in un party, in un angolo, senza
nessuno con cui parlare, e così via.

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La convenzione dei generi è una limitazione creativa che mette alla prova
l’immaginazione dello sceneggiatore per farlo essere all’altezza delle
circostanze. Invece di negare la convenzione e appiattire la storia, il bravo
sceneggiatore considera le convenzioni come delle vecchie amiche e sa che,
nello sforzo per rispettarle in modo originale, può trovare l’ispirazione per
una scena che trascinerà la sua storia al di sopra della media. Quando
padroneggiamo il genere possiamo guidare il pubblico attraverso variazioni
ricche e creative della convenzione per riformulare e superare le sue
aspettative, fornendogli non soltanto ciò che sperava ma, se siamo molto
bravi, assai più di quello che avrebbe potuto immaginare.
Considerate il genere azione/avventura. Spesso è considerato un genere
senza senso, ma è in realtà il genere più difficile in cui scrivere oggi;
semplicemente perché è stato ripercorso fino alla noia. Che cosa può fare
uno sceneggiatore di film d’azione che il pubblico non abbia già visto mille
volte? Una delle sue principali convenzioni, ad esempio, è la seguente scena:
eroe alla mercé del cattivo. L’eroe, da una posizione di impotenza, deve
riuscire a prevalere sul cattivo. Questa scena è un imperativo. Mette alla
prova ed esprime in termini assoluti la genialità del protagonista, la sua forza
di volontà e la sua freddezza sotto pressione. Se manca questa scena
protagonista e storia ne escono sminuiti; il pubblico se ne va insoddisfatto.
Su questa convenzione i cliché crescono come la muffa sul pane, ma,
quando si trova una soluzione originale, la narrazione ne risulta molto
arricchita.
Ne I predatori dell’arca perduta Indiana Jones si trova faccia a faccia
con un gigante egiziano che brandisce un’enorme scimitarra. Uno sguardo di
terrore, poi un’alzata di spalle e un rapido sparo quando Jones si ricorda di
avere una pistola. La leggenda che circola dietro le quinte vuole che sia stato
Harrison Ford a suggerire questa brillantissima soluzione perché stava
troppo male con la dissenteria per affrontare un combattimento acrobatico
che Lawrence Kasdan aveva scritto nella sceneggiatura.
In Die Hard - Trappola di cristallo il climax è costruito su un azzeccato
sviluppo della convenzione: John McClane (Bruce Willis), nudo fino alla
cintola, senza armi, con le mani in alto, è faccia a faccia con il sadico e ben
armato Hans Gruber (Alan Rickman). Ma poi, lentamente, la cinepresa gira
intorno a McClane: scopriamo così che, attaccata con del nastro adesivo alla
schiena nuda, lui ha una pistola. Distrae Gruber con una battuta, strappa la
pistola dalla schiena e lo ammazza.

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Di tutti i cliché della serie eroe-alla-mercé-del-cattivo, la frase «Attento,
c’è qualcuno dietro di te!» è il più vecchio. Ma in Prima di mezzanotte lo
sceneggiatore George Gallo lo ha piacevolmente rivitalizzato, inventando
variazioni incredibili scena dopo scena.

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Combinare i generi

Spesso i generi vengono combinati tra loro per ottenere nuovi significati, per
arricchire i personaggi e per creare una più ampia gamma di stati d’animo e
di emozioni. Una sottotrama della storia d’amore, per esempio, trova
praticamente spazio all’interno di ogni storia poliziesca. La leggenda del re
pescatore interseca cinque filoni - la trama di redenzione, lo psicodramma,
la storia d’amore, il dramma sociale, la commedia - in un film eccellente.
Un’invenzione deliziosa è stata il film horror musical. Considerando che
esistono oltre venticinque generi principali le possibilità di incroci creativi
sono infinite. Pertanto lo sceneggiatore che padroneggia tutti i generi può
creare un tipo di film che il mondo non ha ancora visto.

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Reinventare i generi

Anche padroneggiare il genere mantiene lo sceneggiatore al passo con i


tempi. Perché le convenzioni e i generi non sono immutabili nel tempo, ma
si evolvono, crescono, si adattano, si modificano e vengono infranti di pari
passo con i cambiamenti sociali. La società cambia lentamente, però cambia;
e quando la società entra in una nuova fase, anche i generi si trasformano. I
generi, infatti, sono semplicemente delle finestre sulla realtà, delle modalità
con cui lo sceneggiatore osserva la vita. Quando la realtà esterna subisce un
cambiamento anche i generi si modificano. Se questo non avviene, se un
genere non è flessibile e non riesce a piegarsi insieme al mondo che cambia,
si sclerotizza. Ecco, qui di seguito, tre esempi dell’evoluzione dei generi.

Il western

All’inizio i film western erano commedie morali ambientate nel ‘‘Vecchio


West”, un’epoca d’oro mitica per le allegorie del bene contro il male. Ma,
nell’atmosfera cinica degli anni Settanta, questo genere risultava oramai
obsoleto e datato. Quando il film di Mel Brooks Mezzogiorno e mezzo di
fuoco mise a nudo il cuore fascista del western il genere rimase praticamente
congelato per vent’anni. Prima di fare la sua ricomparsa ha modificato le
proprie convenzioni. Negli anni Ottanta il western si è trasformato quasi in
un dramma sociale, un correttivo per il razzismo e la violenza: Balla coi
lupi, Gli spietati, Posse - La leggenda di Jessie Lee.

Lo psicodramma

La follia clinica venne drammatizzata per la prima volta nel film muto: Il
gabinetto del Dottor Caligari (Germania/1919). Col crescere della
popolarità della psicanalisi lo psicodramma si è trasformato in una sorta di
storia poliziesca freudiana. Nella prima fase lo psichiatra interpretava il
detective che indagava su un crimine nascosto, un trauma profondamente
rimosso di cui il paziente aveva sofferto nel passato. Una volta che lo

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psichiatra aveva svelato questo “crimine”, la vittima rinsaviva oppure faceva
un grosso passo in questa direzione: Sybil, La fossa dei serpenti, La donna
dai tre volti, I never promise you a rose garden, Il marchio, David e Lisa,
Equus.
Tuttavia, mentre i serial killer cominciavano a popolare gli incubi della
società, l’evoluzione del genere ha portato lo psicodramma alla sua seconda
fase: si è fuso con il genere poliziesco nel sottogenere noto come lo psycho-
thriller. Qui i poliziotti sono diventati degli psichiatri dilettanti che danno la
caccia agli psicopatici, per cui la cattura dipende dall’analisi che il detective
fa del folle: Delitti inutili, Manhunter, Indagine ad alto rischio e, più
recentemente, Seven.
Negli anni Ottanta lo psycho-thriller si è evoluto una terza volta. In film
come Corda tesa, Arma letale, Angel Heart - Ascensore per l’inferno e Il
mattino dopo, spesso il malato di mente è il detective che soffre dei più
svariati malesseri moderni: ossessione sessuale, impulso suicida, amnesia
traumatica, alcolismo. In questi film la chiave per ottenere giustizia sta
nell’analisi che il poliziotto fa di se stesso. Una volta che il detective è giunto
a patti con i propri demoni interni la cattura del criminale diventa quasi
secondaria.
Questa evoluzione rispecchiava la nostra società in cambiamento. Erano
passati i giorni in cui potevamo trovare conforto nell’idea che tutti i folli
erano chiusi a chiave mentre noi, persone sane di mente, stavamo tranquilli e
al sicuro fuori dalle pareti di un manicomio. Pochi di noi sono ancora così
ingenui: oggi sappiamo che, in presenza di una data congiunzione di eventi,
anche noi potremmo allontanarci dalla realtà. Questi psycho-thriller
indicavano il pericolo e ci segnalavano che il compito più difficile
nell’esistenza è l’autoanalisi, tesa a sondare la propria umanità e a placare i
conflitti interiori.
Nel 1990 questo genere ha raggiunto il quarto stadio: lo psicopatico non
è più un estraneo, ma il coniuge, lo psichiatra, il chirurgo, il figlio, la balia, il
compagno di stanza, il poliziotto di quartiere. Questi film incidono sulla
paranoia collettiva nel momento in cui scopriamo che le persone più intime
della nostra vita, le persone di cui dobbiamo fidarci, quelle che speriamo ci
proteggeranno sono dei maniaci: La mano sulla culla, A letto col nemico,
Forced Entry, Perversione mortale, Inserzione pericolosa e L’innocenza del
diavolo.

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Il più chiaro, in questo senso, è probabilmente Inseparabili, un film che
affronta la paura ultima, la paura nei confronti della persona più vicina a
noi: voi stessi. Quale orrore può risalire strisciando dal nostro inconscio per
rubarci la salute mentale?

La storia d’amore

La domanda più importante quando scriviamo una storia d’amore è: «Cosa


li ostacolerà?». In effetti, dov’è la storia in una storia d’amore? Due persone
si incontrano, si innamorano, si sposano, crescono una famiglia, si
sostengono fin che morte non li separi; cosa può essere più noioso di una
cosa del genere? E quindi, per oltre duemila anni, dai tempi del
drammaturgo greco Menandro, la risposta degli scrittori a questa domanda è
stata: «I genitori della ragazza». I genitori di lei ritengono che il giovane non
sia adatto e diventano così la convenzione nota con il nome di “personaggi
bloccanti”, detti anche “la forza che si oppone all’amore”. Shakespeare ha
allargato il concetto a entrambe le coppie di genitori in Romeo e Giulietta. A
partire dal 2300 a.C. questa convenzione essenziale è rimasta immutata...
finché il ventesimo secolo ha lanciato la rivoluzione romantica.
Il ventesimo secolo è stata un’epoca di amore romantico come mai
prima. L’idea dell’amore romantico (e del sesso quale suo implicito partner)
domina le canzoni, la pubblicità e, in generale, la cultura occidentale. Nel
corso dei decenni l’automobile, il telefono e migliaia di altri fattori liberatori
hanno fornito ai giovani innamorati una sempre maggiore libertà rispetto al
controllo dei genitori. Nel frattempo i genitori, grazie al vertiginoso aumento
di adulteri, divorzi e nuovi matrimoni, hanno trasformato l’amore romantico
da flirt giovanile a ricerca che dura tutta una vita. È sempre stato vero che i
giovani non prestano ascolto ai genitori; ma, se una mamma e un papà di un
film di oggi dovessero sollevare delle obiezioni e gli innamorati adolescenti
dovessero effettivamente ubbidire il pubblico fischierebbe il film. Dato che
insieme ai matrimoni combinati è svanita la suddetta convenzione de “i
genitori-della-ragazza” gli sceneggiatori pieni di risorse hanno portato alla
luce tante nuove e sorprendenti forze che ostacolano l’amore.
Ne Il laureato i “personaggi bloccanti” erano i genitori della ragazza,
anche se per un motivo assai poco convenzionale. In Witness - Il testimone
la forza che si oppone all’amore è la cultura di lei, una amish, che

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praticamente proviene da un altro mondo. In Fuga d’inverno Mel Gibson
interpreta il ruolo di un assassino in galera, in attesa dell’impiccagione, e
Diane Keaton è la moglie del guardiano della prigione. Cosa li ostacolerà?
Tutti i membri della società “benpensante”. In Harry, ti presento Sally... gli
amanti soffrono dell’assurda convinzione che amicizia e amore siano
incompatibili. In Stella solitaria l’ostacolo è il razzismo; ne La moglie del
soldato l’identità sessuale; in Ghost - Fantasma la morte.
L’entusiasmo per l’amore romantico che ha inaugurato il secolo scorso si
è trasformato in questi ultimi anni in un profondo malessere associato a un
cupo scetticismo nei confronti dell’amore. E come reazione abbiamo visto
l’ascesa e la sorprendente popolarità dei finali negativi: Le relazioni
pericolose, I ponti di Madison County, Quel che resta del giorno, Mariti e
mogli. In Via da Las Vegas, Ben è un alcolista che vuole uccidersi, Sara è
una prostituta masochista e il loro amore è “ostacolato dalle stelle”. Questi
film affrontano il crescente senso di disperante impossibilità che un amore
duri.
Per consentire un finale positivo alcuni film usciti di recente hanno
rielaborato il genere trasformandolo in storie di desiderio non concretizzato.
Uomo-incontra-donna è sempre stata un’irrinunciabile convenzione che si
verifica all’inizio della narrazione, seguita dalle prove, dalle tribolazioni e poi
dal trionfo dell’amore. Ma Insonnia d’amore e Red finiscono entrambi con
uomo-incontra-donna. Il pubblico resta in attesa di sapere come il “destino”
degli amanti verrà modellato dalle mani del caso.
Con astuzia questi film ritardano l’incontro degli amanti fino al climax ed
evitano gli spinosi temi dell’amore moderno sostituendo alla difficoltà di
amare la difficoltà di incontrarsi. Queste non sono storie d’amore, ma storie
di attese amorose le cui scene traboccano di discorsi e desideri d’amore, ma
che affidano gli atti veri e propri dell’amore e le loro conseguenze, spesso
turbolente, a un futuro che non si vede sullo schermo. Può darsi che il
ventesimo secolo abbia dato vita all’epoca dell’amore romantico per poi
seppellirla nel ventunesimo.
La lezione da trarne è la seguente: gli atteggiamenti sociali mutano. Lo
sceneggiatore deve essere culturalmente pronto a recepire questi movimenti
se no rischia di scrivere pezzi d’antiquariato. Per esempio in Innamorarsi la
forza che si opponeva all’amore stava nel fatto che gli amanti erano entrambi
già sposati. E le uniche lacrime versate dagli spettatori erano dovute ai troppi
sbadigli. Era quasi possibile udire i loro pensieri: «Ma che problema c’è?

116
Siete sposati con dei pezzi di legno. Scaricateli. Ma la parola “divorzio” non
significa niente per voi, gente?».
Per tutti gli anni Cinquanta, invece, una relazione sentimentale
extraconiugale era considerata un tradimento doloroso. Molti film intensi -
Noi due sconosciuti, Breve incontro - traevano la propria energia dalla
condanna sociale dell’adulterio. Ma già negli anni Ottanta gli atteggiamenti si
erano modificati cedendo il passo alla sensazione che l’amore romantico sia
un bene così prezioso e la vita talmente breve che se due persone sposate
vogliono avere una relazione è bene che la vivano. Giusto o sbagliato quello
era l’umore del momento per cui un film con valori antiquati da anni
Cinquanta annoiava mortalmente gli spettatori degli anni Ottanta. Il pubblico
vuole sapere come ci si sente a vivere sul filo del rasoio in questo momento.
Cosa significa essere un essere umano oggi!
Gli sceneggiatori innovativi non sono solo sintonizzati sull’oggi, ma sono
anche dei visionari. Appoggiano l’orecchio al muro del loro momento
storico e, man mano che le cose si modificano, sono in grado di percepire in
che modo la società va incontro al futuro. Sono inoltre capaci di produrre
opere che, infrangendo le convenzioni, trasportano i generi nella loro
generazione successiva.
Questo, per esempio, è uno degli aspetti meravigliosi di Chinatown. Nel
climax del consolidato filone mistero con assassinio il detective cattura e
punisce il criminale, ma qui l’assassino ricco e politicamente potente di
Chinatown la fa franca, infrangendo così un’attestata convenzione. Questo
film, tuttavia, non avrebbe potuto venir realizzato prima degli anni Settanta,
momento in cui il movimento per i diritti civili, lo scandalo Watergate e la
guerra nel Vietnam avevano aperto gli occhi all’America sulla profondità
della sua corruzione e la nazione si era resa conto che i ricchi in effetti la
facevano franca anche quando uccidevano... o peggio ancora. Chinatown ha
riscritto il genere spalancando la porta a storie poliziesche con finale
negativo, come Brivido caldo, Crimini e misfatti, Terzo grado, Basic
Instinct, L’ultima seduzione e Seven.
Gli sceneggiatori migliori non sono solo dei visionari, ma creano
addirittura dei classici. Ciascun genere comprende dei valori umani
fondamentali: amore/odio, pace/guerra, giustizia/ingiustizia,
successo/fallimento, bene/male, e così via. Ognuno di questi valori è un
tema atemporale che ha ispirato meravigliosi scritti sin dagli albori dell’arte
narrativa. Di anno in anno questi valori devono essere rielaborati affinché

117
rimangano vivi e significativi per il pubblico contemporaneo. Tuttavia le
storie più belle sono sempre attuali. Sono dei classici. Un classico viene
sempre gustato con piacere perché può essere reinterpretato nel corso dei
decenni: in esso, infatti, verità e umanità abbondano a tal punto che ogni
nuova generazione si rispecchia in quella storia e Chinatown è un’opera del
genere. Avendo un’assoluta padronanza del genere Towne e Polanski hanno
innalzato il proprio talento a vette esplorate da pochi.

118
Il dono della pazienza

Padroneggiare il genere è essenziale anche per un altro motivo: scrivere


sceneggiature non è un lavoro per “velocisti”, ma per “fondisti”. Anche se
avrete sentito parlare di sceneggiature scodellate - dalla prima ispirazione alla
stesura rifinita - in un weekend passato in piscina, una sceneggiatura di
qualità richiede sei mesi, nove mesi, un anno, o anche più. In termini di
fatica creativa - e cioè mondo, personaggi e storia - sceneggiare un film
equivale a un romanzo di 400 pagine. L’unica sostanziale differenza è il
numero di parole usate nel racconto. L’economia di linguaggio richiesta da
una sceneggiatura comporta sudore e tempo, mentre la libertà di riempire
pagine di prosa spesso rende questo compito più semplice e anche più
rapido. Ogni forma di scrittura implica disciplina, ma scrivere sceneggiature
esige una disciplina ferrea. E dunque la domanda è: «Cosa terrà accesa la
fiamma del vostro desiderio per tutti questi mesi?».
Generalmente i grandi scrittori non sono eclettici. Ciascuno di loro
impernia la propria opera su un’unica idea, un unico argomento che accende
la sua passione, un soggetto che insegue con belle variazioni nel corso di
un’intera vita di lavoro. Hemingway, per esempio, era affascinato dalla
questione di come affrontare la morte. Dopo essere stato testimone del
suicidio del padre, questo era diventato il tema centrale non soltanto dei suoi
scritti, ma della sua vita. Diede la caccia alla morte in guerra, nello sport, nei
safari, finché finalmente la trovò mettendosi una canna di fucile in bocca.
Charles Dickens, il cui padre era stato imprigionato per debiti, scrisse di un
bambino solitario che cercava continuamente il padre perduto in David
Copperfield, Oliver Twist e Grandi speranze. Molière ha rivolto il proprio
occhio critico all’idiozia, alla depravazione della Francia del diciassettesimo
secolo e ha avuto successo grazie a commedie con titoli che sembrano un
elenco dei vizi umani: L’avaro, Il misantropo, Il malato immaginario.
Ciascuno di questi autori ha trovato il proprio tema che lo ha sostenuto nel
suo lungo viaggio di scrittore.
Il vostro qual è? Siete forse fra quelli, come Hemingway o Dickens, che
partono da ciò che hanno vissuto? O, come Molière, scrivete sulla vostra
concezione della società e della natura umana?
Qualunque sia la vostra fonte ispiratrice, state attenti: assai prima che
abbiate finito, l’amore per voi stessi si infetterà e morirà, l’amore per le idee

119
si ammalerà e perirà. Vi ritroverete talmente stanchi e annoiati di scrivere di
voi stessi o delle vostre idee che potreste non portare a termine la gara.
Quindi chiedetevi: «Qual è il mio genere preferito?». E poi scrivete nel
genere che amate: anche se la passione per un’idea o per un’esperienza può
appassire, l’amore per il cinema è eterno. Il genere dovrebbe essere una
fonte costante di nuova ispirazione. Ogni volta che rileggete il vostro
copione dovrebbe entusiasmarvi poiché questo è il vostro genere di storia, il
tipo di film per il quale stareste in piedi sotto la pioggia per andare a vederlo.
Non scrivete qualcosa perché alcuni amici intellettuali pensano che sia
socialmente importante. Non scrivete qualcosa perché pensate che ispirerà
una critica positiva sulla rivista “Film Quarterly”. Siate onesti nella vostra
scelta del genere perché di tutti i motivi alla base del nostro voler scrivere
l’unico che ci nutre nel tempo è l’amore per il lavoro stesso.

120
(5) Struttura e personaggio

Trama o personaggio? Cos’è più importante? Questo dibattito è vecchio


come l’arte. Aristotele soppesò entrambi gli aspetti e concluse che la storia è
primaria, il personaggio è secondario. La sua visione è rimasta valida finché,
con l’evoluzione del romanzo, l’ago della bilancia si è spostato dall’altra
parte. Già nel diciannovesimo secolo molti ritenevano che la struttura fosse
semplicemente un dispositivo concepito per mettere in mostra la propria
personalità e che il lettore desiderasse invece personaggi affascinanti e
complessi. Oggi come oggi le due fazioni continuano a discutere senza
raggiungere un accordo. Il motivo per cui questa giuria è indecisa è
semplice: l’argomentazione è speciosa.
Non possiamo chiederci cosa sia più importante se la struttura o il
personaggio. Perché la struttura è il personaggio e il personaggio è la
struttura. Sono la stessa cosa e, di conseguenza, una non può essere più
importante dell’altra. Tuttavia la discussione prosegue per la diffusa
confusione che c’è su due aspetti cruciali del ruolo narrativo: la differenza
fra personaggio e caratterizzazione.

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Il personaggio e la caratterizzazione*

La caratterizzazione è la somma di tutte le qualità osservabili in un essere


umano, tutto ciò che è conoscibile attraverso un attento esame: età e
quoziente intellettivo; sesso e sensualità; modo di parlare e gestualità; scelta
di una casa, di un’auto, di un vestito; grado di istruzione e lavoro;
personalità e nevrosi; valori e atteggiamenti - tutti aspetti umani che
potremmo giungere a conoscere prendendo quotidianamente appunti su
qualcuno. La totalità di questi tratti rende ogni persona unica nel suo genere
in quanto ognuno di noi è un insieme specifico di dati genetici ed esperienza
accumulata. Questo originale assemblaggio di tratti è la caratterizzazione...
ma non è il personaggio.

[*Nella lingua inglese “Character” significa sia personaggio che carattere,


così diventa complicato rendere il gioco di parole fra “character” e
“characterization” presente nell’originale di McKee (ndt).]

Il VERO PERSONAGGIO si rivela attraverso le scelte che un essere


umano compie sotto pressione: maggiore è la pressione, maggiore sarà la
rivelazione e maggiore la fedeltà delle scelte alla vera natura del
personaggio.
Sotto la superficie della caratterizzazione, indipendentemente dalle
apparenze, chi è questa persona? Al cuore della sua umanità cosa
troveremo? È una persona affettuosa o crudele? Generosa o egoista? Forte o
debole? Sincera o bugiarda? Coraggiosa o vile? L’unico modo per sapere la
verità è osservare la persona mentre sceglie - sotto pressione - di
intraprendere azioni in una certa direzione per soddisfare un proprio
desiderio. Mentre sceglie la persona è.
La pressione è essenziale. Le scelte effettuate quando non c’è niente da
rischiare significano poco. Se un personaggio decide di dire la verità in una
situazione in cui dire una bugia non gli frutterebbe nulla la scelta è banale, il
momento non esprime nulla. Ma se lo stesso personaggio insiste a dire la
verità quando invece una bugia gli salverebbe la vita a questo punto noi
percepiamo che l’onestà è l’anima della sua natura.
Considerate questa scena. Due auto corrono sull’autostrada. Una è una
station wagon arrugginita, con secchi, scope e stracci nel vano posteriore. La

122
guida un’immigrata clandestina: una donna timida e tranquilla che lavora in
nero come domestica ed è l’unico sostegno della sua famiglia. L’altra auto è
una Porsche nuova di zecca, guidata da un brillante e ricco neurochirurgo.
Due persone che hanno background, convinzioni, personalità, lingue
completamente diversi - in ogni modo possibile e immaginabile le loro
caratterizzazioni sono l’una l’opposto dell’altra.
All’improvviso davanti a loro un bus pieno di bambini comincia a
sbandare, sbatte contro un ponte e si incendia, intrappolando i piccoli
all’interno. Adesso, sotto questa terribile pressione, scopriremo chi sono
veramente queste due persone.
Chi sceglie di fermarsi? Chi sceglie di proseguire? Ognuno di loro ha
ottimi motivi razionali per proseguire. La domestica si preoccupa che in una
situazione del genere la polizia potrebbe interrogarla, scoprire che si trova
illegalmente nel paese, ricacciarla al di là della frontiera - e la sua famiglia
morirebbe di fame. Il chirurgo teme che, se si fa male o si ustiona le mani,
mani che eseguono miracolosi interventi di microchirurgia, la vita di migliaia
di futuri pazienti andrà perduta. Ma diciamo che entrambi decidono di
frenare e fermarsi.
Questa scelta ci fornisce un indizio circa i personaggi; ma chi dei due si è
fermato per aiutare e chi invece si è fermato perché così spaventato da non
poter proseguire? Diciamo che entrambi hanno scelto di aiutare. Questo ci
dice altre cose. Ma chi sceglie di aiutare chiamando un’ambulanza per poi
aspettarla? Chi sceglie di aiutare gettandosi nel bus in fiamme? Diciamo che
entrambi si gettano nel bus - una scelta che rivela con profondità ancora
maggiore i personaggi.
Ecco che il dottore e la domestica infrangono un finestrino, strisciano
all’interno dell’autobus in fiamme, afferrano i bambini urlanti e li portano in
salvo. Ma le loro scelte non sono ancora finite. Rapidamente le fiamme si
trasformano in un inferno rovente: non possono più respirare senza
bruciarsi i polmoni. In mezzo a questo orrore, ciascuno dei due si rende
conto di avere solo un secondo per salvare soltanto uno dei molti bambini
ancora all’interno. Come reagirà il dottore? In un riflesso improvviso
afferrerà un bambino bianco oppure quello nero più vicino a lui? Da che
parte andrà istintivamente la domestica? Salverà il ragazzino? O la ragazzina
rannicchiata ai suoi piedi? Come effettuerà lei “la scelta di Sophie?”.
Potremmo finire per scoprire che, in profondità, dentro queste due
caratterizzazioni del tutto diverse esiste un’identica umanità: entrambi sono

123
pronti a sacrificare la propria vita in un batter d’occhio per uno sconosciuto.
Oppure che la persona che pensavamo avrebbe agito eroicamente è una
vigliacca. O quella che pensavamo avrebbe agito da vigliacca è invece un
eroe. O, in fondo in fondo, potremmo scoprire che l’eroismo altruistico non
è il limite massimo conoscibile del vero personaggio che è in ciascuno di
loro: le forze invisibili della loro acculturazione possono spingere ognuno di
loro a una scelta spontanea che mette a nudo pregiudizi inconsci relativi al
genere sessuale o alle etnie anche mentre stanno compiendo un atto di
immenso coraggio. Quale che sia il modo in cui è scritta la scena, la scelta
effettuata sotto pressione strapperà via la maschera della caratterizzazione e
noi scruteremo la natura più intima di questi personaggi e, in un lampo,
comprenderemo fino in fondo chi sono veramente.

124
Rivelazione del personaggio

La rivelazione del personaggio, che contraddice la sua caratterizzazione, è un


elemento fondamentale di ogni buona narrazione. La vita ci insegna questo
grande principio: ciò che sembra non è ciò che è. La gente non è ciò che
sembra essere. Una natura nascosta è in agguato dietro una facciata di
circostanza. Indipendentemente da quello che dicono e da come si
comportano l’unico modo in cui potremo conoscere veramente in profondità
i personaggi è attraverso le scelte che effettuano sotto pressione.
Se ci viene presentato un personaggio il cui comportamento è quello di
un “marito affettuoso”, e alla fine della storia è ancora ciò che sembrava
essere all’inizio - un marito affettuoso senza segreti, senza sogni
irrealizzabili, senza passioni nascoste - rimarremo molto delusi. Quando
caratterizzazione e personaggio coincidono, quando la vita interiore e
l’apparenza esterna sono fatti di un’unica sostanza, come un blocco di
cemento, il ruolo diventa un elenco di comportamenti ripetitivi e prevedibili.
Non è che un personaggio del genere non sia credibile. Le persone con poco
spessore e senza dimensione esistono... ma sono noiose.
Per esempio: cosa non ha funzionato nel caso di Rambo? Nel primo film
della serie Rambo era un personaggio entusiasmante: un reduce del Vietnam
esaurito, un solitario che scalava le montagne alla ricerca della solitudine
(caratterizzazione). Poi uno sceriffo, senza alcun altro motivo se non la sua
viscerale malvagità, lo ha provocato ed è saltato fuori Rambo, un assassino
spietato e inarrestabile (personaggio vero). Una volta fuori, però, Rambo
non è più voluto rientrare. Nei film successivi ha sempre portato le
cartucciere legate sui suoi muscoli pompati e oliati, con i riccioli tenuti da
una fascia rossa, al punto tale che caratterizzazione da supereroe e vero
personaggio si sono fusi in una figura con meno spessore di un cartone
animato.
Paragonate questo modello piatto con James Bond. Tre film sembrano il
limite massimo realizzabile su Rambo, ma ce ne sono stati quasi venti su
Bond. Bond resiste perché il mondo continua a deliziarsi delle ripetute
rivelazioni del suo personaggio profondo in contrasto con la
caratterizzazione. Bond ama giocare al gigolò: vestito in smoking, partecipa a
feste di lusso e ha sempre un cocktail in mano mentre conquista una bella
donna. Poi, però, la pressione della storia aumenta e le scelte di Bond

125
rivelano che, sotto questa esteriorità di gigolò, c’è un Rambo pensante.
Questa descrizione del super-eroe arguto, che contraddice la caratterizzazione
da playboy, è diventata una fonte di piacere apparentemente infinito.
Spingendo ancora oltre questo principio: la rivelazione del personaggio
profondo che contrasti o contraddica la sua caratterizzazione è fondamentale
per i personaggi principali. I ruoli minori possono anche fare a meno di
dimensioni nascoste, ma quelli principali vanno scritti in profondità: dentro
non possono essere uguali a come appaiono fuori.

126
Arco del personaggio

Estendiamo ancora di più questo principio: le sceneggiature migliori non


soltanto rivelano il vero personaggio, ma ne ribaltano o modificano la
natura interiore, in meglio o in peggio, nel corso della narrazione stessa.
Ne Il verdetto il protagonista Frank Galvin appare all’inizio nelle vesti di
un avvocato di Boston con un vestito a tre pezzi e il viso esageratamente
bello di Paul Newman. La sceneggiatura di David Mamet gratta poi la
superficie di questa caratterizzazione per rivelare un ubriacone corrotto,
fallito, autodistruttivo e irrecuperabile che da anni non vince una causa. Il
divorzio e il discredito di tutti gli hanno piegato lo spirito. Lo vediamo
spulciare fra gli annunci mortuari alla ricerca di persone morte in incidenti
automobilistici o di lavoro per poi recarsi ai loro funerali e distribuire i
propri bigliettini da visita ai parenti in lutto, sperando di rimediare qualche
causa contro le assicurazioni. La sequenza culmina in un parossismo di odio
contro se stesso in cui, sbronzo, distrugge il proprio ufficio, strappa dalle
pareti i diplomi e li scaglia lontano prima di crollare a terra distrutto. Ma poi
interviene il caso. Gli viene offerta una causa legale in cui si dibatte la
negligenza di un medico nei confronti di una donna ormai definitivamente in
coma. Se si accordasse rapidamente guadagnerebbe 70.000 dollari. Ma,
mentre guarda la propria cliente che se ne sta lì impotente, sente che ciò che
gli viene offerto non è un onorario facile e cospicuo, ma la sua ultima
possibilità di redimersi. Decide di ingaggiare battaglia contro la Chiesa
Cattolica e l’establishment politico, e di lottare non solo per la sua cliente,
ma anche per la propria anima. Con la vittoria giunge la resurrezione. La
battaglia legale lo trasforma in un avvocato sobrio, etico ed eccellente - il
tipo di uomo che era prima di perdere la volontà di vivere.
Questo è il gioco fra personaggio e struttura che ritroviamo in tutta la
storia della narrazione.
All’inizio la narrazione presenta la caratterizzazione del protagonista.
Come in Amleto: tornato a casa dall’università per assistere ai funerali del
padre, Amleto è melanconico e confuso e vorrebbe essere morto: «Ah, se
questa mia carne troppo troppo compatta potesse sfarsi...».
Ma veniamo subito condotti all’interno del personaggio. La sua vera
natura ci viene rivelata quando decide di intraprendere un’azione invece di
un’altra: il fantasma del padre di Amleto afferma di essere stato assassinato

127
dallo zio di Amleto, Claudio, che adesso è diventato Re. Le scelte operate da
Amleto mettono a nudo una natura assai intelligente e cauta che lotta per
contenere la propria immaturità avventata e appassionata. Decide di cercare
vendetta, ma non prima di aver provato la colpa del Re: «Parlerò di pugnali,
ma non ne userò alcuno».
Questa natura profonda contrasta poi con il comportamento esterno del
personaggio, o addirittura lo contraddice. Noi sentiamo che non è ciò che
sembra essere: non è semplicemente triste, sensibile e cauto. Sotto ci sono,
ancora nascoste, altre qualità. Amleto dice: «Io non sono pazzo che col vento
di nord-nord-ovest. Ché quando dà scirocco distinguo a colpo d’occhio un
falco da un airone».
In seguito, dopo aver rivelato la natura intima del personaggio, la storia
esercita su di lui una crescente pressione così le sue scelte diventano sempre
più difficili: Amleto cerca l’assassino di suo padre e lo trova inginocchiato a
pregare. Potrebbe facilmente uccidere il Re, ma Amleto si rende conto che,
se Claudio morisse in preghiera, la sua anima potrebbe andare in cielo.
Quindi si impone di attendere e di uccidere Claudio soltanto quando l’anima
del Re sarà «Nera e dannata quanto l’inferno che l’aspetta».
Infine al climax della storia queste scelte hanno profondamente
modificato l’umanità del personaggio: le lotte di Amleto, visibili e non
visibili, giungono a conclusione. Amleto conquista una tranquilla maturità,
mentre la sua viva intelligenza sboccia e diventa saggezza... «Il resto è
silenzio».

128
Funzioni della struttura e del personaggio

La funzione della STRUTTURA è quella di fornire pressioni sempre più


forti che pongono i personaggi all’interno di dilemmi sempre più difficili
dove devono operare scelte e intraprendere azioni sempre più rischiose
rivelando così gradualmente la loro vera natura, fino talvolta a giungere
al loro sé inconscio.
La funzione del PERSONAGGIO è quella di dare alla storia le
caratterizzazioni necessarie per attuare in modo convincente le scelte fatte.
Più semplicemente, un personaggio deve essere credibile: abbastanza
giovane o abbastanza vecchio, forte o debole, esperto o ingenuo, istruito o
ignorante, generoso o egoista, arguto o stupido nelle proporzioni giuste.
Ogni caratterizzazione deve fornire alla storia le combinazioni di qualità
che consentano al pubblico di credere che quel personaggio possa fare ciò
che fa.

Struttura e personaggio sono interconnessi. La struttura composta di


eventi in una storia viene creata dalle scelte operate dai personaggi sotto
pressione e dalle azioni che scelgono di intraprendere, mentre i personaggi
sono le creature che vengono rivelate e modificate dal modo in cui scelgono
di agire sotto pressione. Se viene cambiata la struttura muta anche il
personaggio e viceversa. Se modificate il disegno dell’evento cambiate anche
il personaggio; se modificate il personaggio in profondità dovete reinventare
la struttura per esprimere la natura modificata del personaggio stesso.

Supponete che una storia contenga un evento centrale in cui il


protagonista, in grave pericolo, sceglie di dire la verità. Lo sceneggiatore
sente però che la prima stesura non funziona. Mentre, riscrivendo, studia
questa scena, decide che il personaggio mentirà e cambia il disegno della
storia ribaltando quell’azione. Da una stesura all’altra la caratterizzazione del
personaggio rimane intatta - si veste allo stesso modo, fa lo stesso lavoro,
ride per le stesse barzellette. Ma nella prima stesura è un uomo onesto. Nella
seconda un bugiardo. Capovolgendo un evento lo sceneggiatore crea un
personaggio completamente nuovo.

129
Supponiamo, invece, che le cose si svolgano così: della natura del
proprio protagonista lo sceneggiatore ha un’intuizione improvvisa che lo
ispira a tracciarne rapidamente un profilo psicologico radicalmente nuovo,
trasformandolo da uomo onesto a bugiardo. Per esprimere una natura così
radicalmente modificata lo sceneggiatore dovrà fare ben più che rielaborare i
tratti del personaggio. Un cupo senso dell’umorismo potrebbe aggiungere un
po’ di spessore, ma non basterebbe. Se la storia rimane la stessa il
personaggio rimane lo stesso. Se lo sceneggiatore reinventa il personaggio
deve reinventare la storia. Un personaggio modificato deve effettuare nuove
scelte, compiere azioni diverse e vivere un’altra storia: la sua storia. Che il
nostro istinto lavori attraverso il personaggio o la struttura alla fine entrambi
si ricongiungeranno.

Per questo motivo l’espressione “storia mossa dal personaggio” è


ridondante. Tutte le storie sono “mosse dai personaggi”. Il disegno degli
eventi e il disegno dei personaggi sono speculari. Il personaggio può essere
espresso con profondità solo attraverso il disegno della storia.
La chiave sta in una modalità appropriata.
La relativa complessità del personaggio va adattata al genere.
Azione, avventura e farsa esigono personaggi semplici in quanto la loro
complessità ci distrarrebbe dalle gesta temerarie o dalle peripezie
indispensabili a questi generi. Le storie di conflitto personale e interiore,
come quelle educative e le trame di redenzione, richiedono personaggi
complessi perché la loro semplicità ci priverebbe della possibilità di avere
un’intuizione sulla natura umana. Che invece è un requisito di questi generi.
Si tratta di avere buon senso. Allora, cosa significa in realtà “mossa dal
personaggio”? Per troppi sceneggiatori significa “mossa dalla
caratterizzazione”, e cioè da un ritratto sottile come un fazzoletto di carta, la
cui maschera può anche essere ben delineata, ma in cui non viene né
sviluppato né espresso il personaggio profondo.

130
Climax e personaggio

L’interconnessione fra struttura e personaggio appare nettamente simmetrica


finché non giungiamo al problema dei finali. Un accreditato assioma
hollywoodiano avverte: «I film stanno tutti negli ultimi venti minuti». In
altre parole perché un film abbia una qualche possibilità di successo nel
mondo l’ultimo atto e il suo climax devono risultare l’esperienza più
soddisfacente del film. Indipendentemente dal livello raggiunto nei primi
novanta minuti, se la parte finale fallisce il film non supererà il primo
weekend di programmazione.
Paragoniamo due film: per i primi ottanta minuti di Appuntamento al
buio Kim Basinger e Bruce Willis veleggiano nella farsa, facendo esplodere
una risata dopo l’altra. Ma nel climax del secondo atto ogni risata cessa, il
terzo atto fa cilecca, e quello che doveva essere un successo diventa un flop.
Il bacio della donna ragno, invece, inizia con trenta o quaranta minuti
noiosi; poi, a poco a poco, il film ci coinvolge e aumenta di ritmo al punto
che il climax della storia ci commuove come pochi altri film. Spettatori
annoiati alle otto erano entusiasti alle dieci. Il passaparola degli spettatori ha
messo le ali al film; e la Academy of Motion Picture Arts and Sciences ha
conferito un Oscar a William Hurt.
La storia è una metafora della vita, e la vita viene vissuta nel tempo. Il
cinema, di conseguenza, è un’arte temporale, non plastica. I suoi parenti
stretti non sono le forme spaziali della pittura, della scultura, dell’architettura
o della fotografia, ma quelle temporali della musica, del ballo, della poesia e
della canzone. Il primo comandamento di ogni arte temporale è: «Salva il
meglio per il finale».
Il movimento finale di un balletto, la coda di una sinfonia, il distico di un
sonetto, l’ultimo atto cioè il climax di una storia: gli eventi finali devono
essere le esperienze più gratificanti e significative.
Una sceneggiatura ultimata racchiude, ovviamente, il cento per cento
della fatica creativa dell’autore. La maggior parte di questo lavoro - il
settantacinque per cento e anche più delle nostre fatiche - sta nell’ideare
l’interconnessione fra il personaggio profondo e l’invenzione e ordine degli
eventi. Il rimanente va per dialoghi e descrizioni. E di questo enorme sforzo
per progettare il disegno di una storia il settantacinque per cento è

131
concentrato nella creazione del climax dell’ultimo atto. L’evento ultimo della
storia è il compito fondamentale dello sceneggiatore.
Gene Fowler ha detto una volta che scrivere è facile: «Si tratta solo di
fissare la pagina bianca fino a che non sudate sangue». E una cosa che
davvero vi farà sudare sangue è la creazione del climax dell’ultimo atto -
culmine e concentrazione di ogni significato e di ogni emozione, per la cui
realizzazione è stato fatto tutto il resto, e che deve costituire l’acme della
soddisfazione del pubblico. Se fallisce questa scena fallisce la storia. Finché
non l’avete creata non avete una storia. Se non riuscite a fare il salto poetico
necessario per scrivere un climax tutte le scene, i personaggi, il dialogo e le
descrizioni precedenti diventano un esercizio elaborato di battitura al
computer.
Supponete di svegliarvi una mattina con l’ispirazione di scrivere il climax
della storia: «L’eroe e il cattivo si inseguono a piedi per tre giorni e tre notti
attraverso il deserto del Mojave. Ormai sull’orlo dell’esaurimento, della
disidratazione e del delirio, a cento miglia dalla fonte d’acqua più vicina, i
due ingaggiano battaglia e uno uccide l’altro». È eccitante... finché non
riesaminate il vostro protagonista e non vi ricordate che è un ragioniere in
pensione di settantacinque anni, con le grucce e allergico alla polvere. Così
trasformereste il vostro tragico climax in una barzelletta. Ma le cose vanno
peggio: il vostro agente vi dice che un grande attore trentacinquenne vuole
questo ruolo, non appena avrete trovato un finale degno di questo nome.
Cosa fate?
Trovate la pagina dove avete introdotto il protagonista, individuate la
frase di descrizione che dice “Jake (75 anni)”, cancellate il 7, e lo sostituite
con un 3. In altri termini, rifate la caratterizzazione. Il personaggio profondo
rimane lo stesso perché - che Jake abbia 35 o 75 anni - avrà sempre la
volontà e la capacità di andare fino in fondo nel deserto del Mojave. Ma
dovete renderlo credibile.
Nel 1924 Erich von Stroheim girò Rapacità. Il climax di questo film
copre l’arco di tre giorni e tre notti, eroe e cattivo, nel deserto del Mojave.
Von Stroheim riprese questa sequenza nel Mojave in piena estate, con
temperature oltre i 50 gradi. Quasi ammazzò il cast e la troupe, ma ottenne
ciò che voleva: un paesaggio, bianco su bianco, fatto di distese di sale che si
estendono fino all’orizzonte. Sotto il sole cocente l’eroe e il cattivo con la
pelle spaccata e arida come il terreno del deserto ingaggiano battaglia.
Durante la lotta il cattivo afferra un sasso e colpisce il cranio dell’eroe. Ma,

132
mentre sta morendo, nel suo ultimo istante di coscienza l’eroe riesce ad
ammanettare se stesso al killer. Nell’ultima immagine del film il cattivo crolla
nella polvere, incatenato al corpo che ha appena ucciso.
Il brillante finale di Rapacità nasce da scelte estreme che caratterizzano
nettamente i suoi personaggi. A questo scopo deve essere sacrificato ogni
aspetto di caratterizzazione che invece mini la credibilità di un’azione del
genere. La trama, come notava Aristotele, è più importante della
caratterizzazione; ma nel caso della struttura della storia e della verità del
personaggio si tratta di un fenomeno unico osservato da due diversi punti di
vista. Le scelte che i personaggi operano al di là delle proprie maschere
esteriori modellano le loro nature interiori e nello stesso tempo alimentano la
storia. Da Edipo Re a Falstaff, da Anna Karenina a Lord Jim, da Zorba il
greco a Thelma e Louise, questa è la dinamica personaggio/struttura nelle
narrazioni pienamente riuscite.

133
(6)Struttura e significato

134
L’emozione estetica

Quando Aristotele affrontò la questione della narrazione e del significato di


una storia si chiese: «Perché quando vediamo un cadavere per strada
abbiamo una reazione e quando leggiamo della morte in Omero, o la
vediamo a teatro, ne abbiamo un’altra? Perché nella vita idea ed emozione
sono separate. Mente e passione si muovono in sfere diverse della nostra
umanità e raramente sono coordinate, anzi generalmente risultano in
contrasto fra loro».
Nella vita se vedete un cadavere per strada venite inondati da
un’improvvisa scarica di adrenalina: «Dio mio, è morto!». E magari vi
allontanate in auto, spaventati. Poi subentrata la freddezza intervenuta col
passare del tempo potreste riflettere sul senso della morte di questo estraneo,
sulla vostra mortalità, sulla vita che è sempre all’ombra della morte. Tale
intuizione potrebbe mutarvi interiormente e così, quando vi troverete
un’altra volta faccia a faccia con la morte, avrete una reazione nuova e
magari più compassionevole. Oppure, ribaltando questo modello, potreste
da giovani meditare profondamente ma non saggiamente sull’amore
abbracciando una visione idealistica che vi porta a una storia d’amore forte
ma molto dolorosa. Questa esperienza può indurirvi il cuore e tramutarvi in
un cinico che con gli anni arriva a considerare amaro quello che da giovane
pensava fosse dolce.
La vita intellettiva vi prepara alle esperienze emotive che poi vi spingono
verso percezioni nuove le quali, a loro volta, rimiscelano la chimica dei
nuovi incontri. I due regni si influenzano vicendevolmente, ma a turno. In
effetti nella vita sono così rari quei momenti di fusione fra idea ed emozione
che quando accadono vi pare di star vivendo un’esperienza religiosa. Ma se
la vita separa il significato dall’emozione l’arte li riunisce. Le storie sono
strumenti attraverso cui voi create, a volontà, epifanie del genere; fenomeno,
questo, noto come emozione estetica.
La fonte di ogni arte è il bisogno primario della psiche umana, ancora
prima del linguaggio, di trovare risposte allo stress e alla discordia attraverso
bellezza e armonia, di usare la creatività per rianimare un’esistenza soffocata
dalla routine, di collegarsi alla realtà attraverso la percezione istintiva e
sensoriale della verità. Come la musica e la danza, la pittura e la scultura, la

135
poesia e la canzone, l’arte narrativa è sempre e comunque l’esperienza di
un’emozione estetica: l’incontro simultaneo di pensiero e sentimento.
Quando un’idea si veste di una carica emotiva diventa molto più potente,
più profonda e memorabile. Potreste dimenticare il giorno in cui avete visto
un cadavere per strada, ma la morte di Amleto resterà con voi per sempre.
La vita di per sé, priva delle forme che le conferisce l’arte, vi lascia nella
confusione e nel caos, mentre l’emozione estetica armonizza ciò che sapete
con ciò che sentite e vi fornisce così una maggiore consapevolezza e
sicurezza della vostra collocazione nella realtà. In breve una storia ben
raccontata vi dà proprio ciò che non riuscite a ottenere dalla vita:
un’esperienza emotiva significativa. Nella vita le esperienze diventano
significative con il tempo, dopo che ci abbiamo riflettuto. Nell’arte sono
significative ora, nel momento in cui accadono.
In questo senso le storie sono, fondamentalmente, non-intellettuali. Non
esprimono le idee attraverso le argomentazioni aride e intellettuali di un
saggio scritto. Questo, però, non significa che le storie siano anti-intellettuali.
Noi ci auguriamo che lo sceneggiatore abbia delle idee importanti e ricche di
profonde riflessioni. Solo che nello scambio fra artista e pubblico l’idea si
esprime direttamente attraverso i sensi e le percezioni, l’intuito e l’emozione.
Non ha bisogno di mediatori né di critici che razionalizzino questo rapporto
o che sostituiscano l’ineffabile e il percepibile con le spiegazioni e
l’astrazione. L’acume erudito rende più raffinati il gusto e il giudizio, ma non
dobbiamo mai confondere la critica con l’arte. L’analisi intellettuale, per
quanto inebriante, non nutre l’anima.
Una storia ben narrata non esprime il ragionamento meccanicistico di
una tesi, né dà sfogo a furiose emozioni ataviche. Trionfa nel connubio fra il
razionale e l’irrazionale. Infatti un’opera solo emotiva o solo intellettuale non
può essere valida quanto un’opera capace di fare appello alle nostre facoltà
più sottili della simpatia, dell’empatia, della premonizione, del
discernimento... alla nostra sensibilità innata verso ciò che è vero.

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La premessa

Due sono le idee che racchiudono in una parentesi il processo creativo: la


premessa, l’idea, cioè, che ispira il desiderio dello sceneggiatore di creare
una storia, e l’idea di controllo, e cioè il significato ultimo della storia
espresso attraverso l’azione e l’emozione estetica del climax dell’ultimo atto.
A differenza dell’idea di controllo, tuttavia, una premessa è raramente una
dichiarazione chiusa. È più probabile che sia una domanda aperta. Cosa
succederebbe se... Cosa succederebbe se uno squalo entrasse in una baia e
divorasse una turista? Lo squalo. Cosa succederebbe se una moglie
abbandonasse marito e figlio? Kramer contro Kramer. Stanislavski lo
chiamava il “magico se...”, l’ipotetico da sogno a occhi aperti che fluttua
nella mente aprendo la porta all’immaginazione dove ogni cosa sembra
possibile.
Ma “cosa succederebbe se...” è soltanto un tipo di premessa. Gli
sceneggiatori trovano ispirazione ovunque si volgano: nella confessione a
cuore aperto di un amico relativa a un suo oscuro desiderio; nella battuta
sarcastica di un mendicante monco; in un incubo o in un sogno a occhi
aperti; in una notizia di giornale; nella fantasia di un bambino. Persino il
mestiere stesso può ispirare. Esercizi puramente tecnici, come per esempio
transitare fluidamente da una scena all’altra o fare l’editing del dialogo per
evitare ripetizioni, possono provocare uno scoppio immaginativo. Tutto può
fare da premessa allo scrivere, persino uno sguardo dalla finestra.
Nel 1965 Ingmar Bergman contrasse la labirintite, un’infezione virale
dell’orecchio interno che provoca nelle proprie vittime un senso di continua
e forte vertigine, anche quando dormono. Per settimane Bergman fu
costretto a letto, la testa immobile, nel tentativo di controllare le vertigini
fissando un punto che il suo dottore aveva dipinto sul soffitto; ma a ogni
minimo spostamento dello sguardo la stanza girava come una trottola. Si
concentrò su quel punto e iniziò a immaginare due volti sovrapposti. Alcuni
giorni dopo, ormai in convalescenza, guardò fuori da una finestra e vide
un’infermiera e un paziente seduti a confrontare la grandezza delle loro
mani. Quelle immagini, il rapporto infermiera/paziente e i volti che si
fondevano, costituirono la genesi del capolavoro di Bergman: Persona.
Sprazzi di ispirazione o di intuito, all’apparenza così casuali e spontanei,
sono in realtà dei doni personali. Perché ciò che può ispirare uno

137
sceneggiatore potrebbe essere ignorato da un altro. La premessa risveglia ciò
che è in attesa nell’intimo dello sceneggiatore, le sue visioni o le sue
convinzioni nascenti. La somma delle esperienze personali lo ha preparato
per questo momento al quale reagirà come soltanto lui sa fare. Adesso
comincia il lavoro. Mentre va avanti interpreta, sceglie ed esprime giudizi. Se
qualcuno ritiene che le affermazioni fatte da uno sceneggiatore sulla vita
siano dogmatiche e intransigenti, va bene così. Gli scrittori blandi e
concilianti sono una noia. Noi vogliamo delle anime libere da impedimenti,
che abbiano il coraggio di prendere posizione, artisti con intuizioni che ci
scuotano e ci entusiasmino.
In conclusione è importante rendersi conto che quale che sia stata
l’ispirazione per scrivere non deve necessariamente rimanere in ciò che si
scrive. Una premessa non è un tesoro da conservare. Quando contribuisce
alla crescita della storia, tenetela; ma se la narrazione dovesse prendere
un’altra direzione abbandonate l’ispirazione originaria per seguire la storia
che si evolve. Il problema non è iniziare a scrivere, ma continuare a scrivere
e rinnovare l’ispirazione. Raramente sappiamo dove stiamo andando;
scrivere è una scoperta.

138
Struttura come retorica

Non illudetevi: se è vero che l’ispirazione per una storia può trarsi da un
sogno e il suo effetto finale può essere un’emozione estetica, un’opera parte
comunque da una premessa aperta e raggiunge un climax soddisfacente solo
quando lo sceneggiatore è dotato di un pensiero solido. Un artista non deve,
infatti, avere soltanto delle idee da esprimere, ma anche delle idee da
dimostrare. Esprimere un’idea, nel senso di esporla, non è mai sufficiente.
Lo spettatore non deve soltanto capire: deve credere. Voi volete che il
mondo intero esca dalle sale cinematografiche convinto che la vostra storia
sia una metafora fedele della vita. E il mezzo grazie al quale convincete il
pubblico è proprio il disegno della vostra narrazione. Mentre create la storia,
create la prova; l’idea e la struttura si intersecano in un rapporto retorico.

NARRARE è dimostrare la verità in modo creativo. Una storia è la


prova vivente di un’idea, la conversione di un’idea in azione. La struttura a
eventi della storia è il mezzo attraverso il quale voi dapprima esprimete e
poi dimostrate la vostra idea... senza spiegarla.

I grandi narratori non spiegano mai. Fanno invece una cosa difficile e
dolorosamente creativa: mettono in scena. Il pubblico è raramente
interessato, e certamente mai convinto, quando è obbligato ad ascoltare un
dibattito di idee. Il dialogo, che è la conversazione naturale dei personaggi
che perseguono un desiderio, non è una piattaforma per esporre la filosofia
del cineasta. Le spiegazioni delle idee dell’autore, sia nel dialogo che nella
narrazione, riducono fortemente la qualità di un film. Una grande storia
sostiene le proprie idee unicamente attraverso la dinamica dei suoi eventi;
non riuscire a esprimere una visione della vita attraverso le pure e semplici
conseguenze delle scelte e delle azioni umane è una sconfitta creativa che
nessun ammasso di belle parole può riscattare.
Considerate, per esempio, il genere prolifico del poliziesco. Qual è l’idea
espressa, in ultima analisi, da tutta la fiction poliziesca? “Il crimine non
paga”. Come arriviamo a comprendere questo? Si spera senza che un
personaggio mediti insieme a un altro: «Ecco! Che ti avevo detto? Il crimine
non paga. Nossignore, sembrava che quelli l’avessero fatta franca, ma la
ruota della giustizia ha girato inesorabilmente...». No, noi vediamo invece

139
quell’idea prender corpo davanti a noi: viene commesso un crimine; per un
po’ il criminale la fa franca; alla fine viene catturato e punito.
Nell’istante della punizione - prigione a vita o sparatoria che lo uccide
per strada - scorre all’interno dello spettatore un’idea caricata emotivamente.
E se noi potessimo dar voce a questa idea, non sarebbe un’espressione
gentile del tipo: «Il crimine non paga», ma qualcosa come: «L’hanno preso
quel bastardo!». Un trionfo elettrizzante della giustizia e della vendetta
sociale.
Il genere e la qualità dell’emozione estetica sono relativi. Lo psycho-
thriller vuole produrre effetti molto forti; altre forme, come la trama della
disillusione o la storia d’amore, hanno forse bisogno di emozioni più
leggere, come la tristezza o la compassione. Ma, indipendentemente dal
genere, il principio rimane universale: il significato della storia, comico o
tragico che sia, deve essere messo in scena in un climax della storia,
emotivamente espressivo, senza l’apporto di dialoghi esplicativi.

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L’idea di controllo

Il termine tema è diventato un vocabolo piuttosto vago nel vocabolario dello


scrittore. “Povertà”, “guerra” e “amore”, per esempio, non sono temi: si
riferiscono all’ambientazione o al genere. Un vero tema non è una parola,
ma una frase - una frase chiara e coerente che esprima in modo irriducibile il
significato di una storia. Io preferisco l’espressione idea di controllo, perché,
come per il tema, esprime la radice della storia o l’idea centrale, ma indica
anche la sua funzione: l’idea di controllo modella le scelte strategiche dello
sceneggiatore. È un’ulteriore disciplina creativa che guida le vostre scelte
estetiche verso quello che è appropriato oppure inappropriato nella vostra
storia, verso ciò che è espressivo della vostra idea di controllo - e va quindi
tenuto - rispetto a ciò che invece è irrilevante e va dunque eliminato.
L’idea di controllo in una storia ultimata deve essere esprimibile in
un’unica frase. Dopo aver immaginato la premessa e messo in moto il lavoro
esplorate pure qualsiasi cosa vi venga in mente. Alla fine, tuttavia, il film
deve essere plasmato intorno a un’idea. Questo non significa che una storia
debba essere ridotta a un titoletto. Nella rete di una storia viene catturato
molto più di quanto possa essere mai detto in parole: sottigliezze, sottotesti,
concetti ricercati, doppi sensi, ricchezze di ogni genere. Una storia diventa
una specie di filosofia vivente che gli spettatori afferrano nel suo insieme, in
un istante, senza un pensiero conscio: una percezione sposata alla loro
esperienza di vita. Ma la vera ironia è questa: meglio costruite la vostra storia
intorno a un’idea ben definita maggiore sarà il numero di significati che il
pubblico scoprirà nel vostro film perché afferrerà la vostra idea e ne seguirà
le implicazioni in ogni aspetto della propria esistenza. Al contrario più idee
cercate di inserire in una storia più esse imploderanno in se stesse, con la
conseguenza che il film crollerà tra le macerie di concetti tangenziali non
dicendo assolutamente nulla.

Un’IDEA DI CONTROLLO può essere espressa in un’unica frase che


descrive come e perché la vita passa da una condizione esistenziale
all’inizio a una diversa condizione nel finale.

L’idea di controllo ha due componenti: il valore più la causa. Identifica


cioè la carica, positiva o negativa, del valore centrale della storia nel climax

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dell’ultimo atto più la causa principale per cui tale valore si è modificato fino
a raggiungere il suo stato finale. Questi due elementi, il valore più la causa,
esprimono il significato portante della storia.
Per valore si intende il valore primario, con la sua carica positiva o
negativa, che fa il proprio ingresso nel mondo o nella vita del vostro
personaggio in seguito all’azione finale della storia. Per esempio: una storia
poliziesca con finale positivo (La calda notte dell’ispettore Tibbs) riporta
un mondo ingiusto (negativo) alla giustizia (positivo), suggerendo una frase
del tipo: «Giustizia è fatta...». In un thriller politico a finale negativo
(Missing - Scomparso) nel climax la dittatura militare detiene saldamente il
potere suggerendo una frase negativa del tipo: «La tirannia prevale...». Una
trama educativa a finale positivo (Ricomincio da capo) trasforma il
protagonista da uomo cinico che pensa solo a se stesso in una persona
sinceramente affettuosa e altruista, suggerendo: «La felicità riempie le nostre
vite...». Una storia d’amore a finale negativo (Le relazioni pericolose)
trasforma la passione in odio verso se stessi, evocando la frase: «L’odio
distrugge...».
La causa è il motivo primario per cui la vita o il mondo del protagonista
sono giunti a questo valore positivo o negativo. Ripercorrendo a ritroso la
storia rintracciamo - ben radicata dentro il personaggio, la società o
l’ambiente - la causa principale che ha dato vita a questo valore. Una storia
complessa può contenere molte forze che spingono al cambiamento, ma
generalmente ce n’è una che domina sulle altre. Di conseguenza in una st