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Maurizio Blondet

Un po' sulle Fiabe


11 Ottobre 2010

«Herr Direktor,

ho letto con interesse gli accenni al significato oscuro delle fiabe negli articoli
sull’ università e Zapatero. Ha per caso qualche titolo da consigliare per approfondire
l’argomento delle origini delle fiabe?

Grazie,

Francesco C.»

Accidenti al disordine della mia biblioteca! Volevo ricavare per lei (per voi) una bibliografia
sul valore della fiaba, e non trovo i libri... Ma basti un nome per tutti: Giuseppe Sermonti. Il
genetista anti-darwinista, figura di scienziato, pensatore e intellettuale di statura senza eguali
fra i contemporanei (per questo i media lo tacciono accuratamente: è non-persona) da decenni
studia le fiabe, perchè se l’origine della vita biologica è il DNA, la vita propriamente umana
comincia da lì.

Cercate e procuratevi almeno La danza delle silfidi, Fiabe dei tre reami, Alchimia


della fiaba, Scienza vestita di fiaba.

Vi troverete che almeno certe fiabe esprimono procedimenti metallurgici. Cappuccetto Rosso,
per esempio, si può interpretare anche come il cinabro da cui antichi boscaioli (il processo
andava compiuto all’aperto, perchè produceva vapori tossici) mettendolo nel forno (il lupo
cattivo: che bocca grande che hai!) scaldato a torba o a carbon di legna ottenuto dai boscaioli
stessi, ricavavano il mercurio persublimazione: procedimento concreto e tecnico, ma esso
stesso metafora di ben altre sublimazioni. Riconoscete la pietra grezza cotta e fatta soffrire per
cavarneargento vivo? Siamo là dove la chimica diventa alchimia, scienza spirituale.
«Sforzatevi di entrare per la porta stretta», dice Gesù.

Cappuccetto è liberata dal cacciatore che apre la pancia al lupo, libera la nonna e Cappuccetto
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ma, stranamente, riempie poi quella pancia di pietre: per mantenere il calore? O un’altra
infornata del minerale? Non sappiamo. Ma intuiamo che il procedimento tecnico, la fiaba, la
magia e la sua metafora di salvazione dovettero nascere tutte insieme in quel passato in cui
l’Europa era coperta di foreste primordiali, e nelle foreste vagavano cacciatori che erano
anche uomini neri e fabbri, paurosi per i bambini ed anche per gli adulti, perchè neri di
nerofumo dei loro procedimenti metallurgici, e per la loro confidenza con quegli gnomi,
coboldi (da cui cobalto) e altri geni del sottosuolo, che potevano uccidere chi li evocava senza
qualificazione e iniziazione all’arte, ma davano tesori a chi sapeva dominarli. Era quel passato
in cui il fabbro era circondato da tabù, era temibile, figura vicina all’orco... insomma l’età
della pietra. O una volta, tanto tempo fa.

Un’età in cui vivevano uomini della pietra più saggi, abili e sagaci di quanto ci gabelli lo
scientismo, raffigurandoceli come bestioni dominati dalla fame, dalla paura e dal sesso,
atterriti dai lampi e dal fuoco: i presunti primitivi che a Lascaux e ad Altamira dipinsero cervi,
buoi primigeni, bisonti caricanti con arte tale che ne vediamo persino la focatura del pelo, le
froge fumanti, il guizzare potente dei muscoli sotto la pelle. Un naturalismo pittorico mai più
raggiunto fino ai greci, unito a magia e a un’indefinibile, affascinante ironia. Perchè, come
dice Sermonti da qualche parte (cito a memoria), il primitivo era invece un metafisico, un
olistico che coglieva il guizzo della realtà e la Realtà dietro la realtà, che – lungi dall’essere
spinto dai bisogni primari – era uno «che più che vivere, recitava la sua vita», danzando per
cacciare o combattere, mascherandosi ed ornandosi di piume perchè non era lui a vivere, ma
l’archetipo che incarnava. La Messa è l’estrema di queste  recite, l’ultima sacra
rappresentazione: il cristianesimo della Presenza Reale è la più primordiale delle religioni,
«bevete, ecco il mio sangue» dovrebbe ancor farci tremare per l’ordine di sacra antropofagia.

Ebbene, da quel tempo – c’era una volta – sono nate le fiabe che le nostre assistenti sociali e
insegnanti di (proprio) sostegno non vogliono più sian raccontate ai bambini. Per questo – se è
tale il senso della sua domanda – caro lettore, non s’aspetti di trovare sui libri puntuali
chiarimenti sul significato oscurodelle fiabe, che cosa sia il Gatto con gli Stivali e chi sia
Pollicino, cosa significhi il castello di cristallo in cui dorme una principessa, e il fuso che la
punse (era il tempo dove le principesse filavano) tutto razionalisticamente squadernato come
in un repertorio.
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Ben lungi dalla via facile. Ogni fiaba è una porta stretta, e i suoi rebus da una parte non
saranno mai spiegabili e, come dice Cristina Campo (Il flauto e il tappeto) meno necessario è
capire il significato dei simboli, che farsi invadere dal loro potere.

Non a caso, da sempre, a raccontare le fiabe sono i vecchi, i nonni: nell’inflessione della loro
voce emerge, anche se non lo sanno, la loro esperienza della vita e di ciò che hanno colto
della fiaba che fu loro raccontata quand’erano bambini. Quando cominciano c’era una volta, è
dalla loro vita che tirano in superficie il racconto. La vita dev’essere lunga, abbastanza
sofferta (Era il tempo di guerra e non avevamo da mangiare... Ci facevamo il sale bollendo
l’acqua del mare) e caricata di quel pathos della cruda realtà superata, e dunque trasfigurata.

Chi vuol raccontare fiabe oggi, provi ad immaginarsi quando furono raccontate la prima volta.
Quei vecchi guerrieri e cacciatori-raccoglitori, quelle nonne sdentate che raccontavano la loro
vita come fiaba (o mito) negli inverni europei dove tutti i bambini erano Pollicino e i suoi
fratelli, c’era il lupo davvero che ululava appena fuori dalla capanna, davvero uomini neri e
genii ostili fremevano contro le pareti di legno, che gemevano.

Cristina Campo ricorda che in Toscana, ancora pochi decenni fa, giravano d’inverno i
racconta-fiabe. Vecchi che venivano invitati nelle case, negli inverni di prima della TV, e in
cucina «si spartiva da sè, come in una cappella, un gineceo di filatrici da un lato, e un
androceo di fumatori dall’altro»; e mentre  il cantastorie d’attualità laiche si ascoltava in
piazza, il conta-fiabe era invitato in casa, anzi al focolare «antico luogo d’incontro coi
morti, con gli spiriti della stirpe». Dei Lares e dei Manes.

Ecco dove avveniva. Proviamo ad immaginarceli nella Roma prisca, la capanna-tempio del
fuoco delle vestali, o sotto vecchi scudi sacri, detti ancilia, così antichi che sono rotondi, come
quelli di Achille e Agamennone... Io a mio nonno, che era stato preso prigioniero a Caporetto,
chiedevo continuamente: raccontami la guerra, e mi deludeva sempre che non parlasse di sè
come di un eroe, come Tex Willer o Nembo Kid. I bambini di allora non dovevano mai essere
sazii di chiedere:A chi hai preso quegli scudi, preda di guerra?. Risposta: no, uno di quelli è
uno scudo sceso dal cielo, gli altri sono copie di quello vero, e sono lì per non farlo
riconoscere tra gli altri. Posso toccarli?. No, sono sacri, ossia tabù, pericolosi (sacer esto).
Possono solo i Salii, quelli che saltano, ossia danzano coperti da maschere orrende per Marte
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e Quirino, il Mars Tranquillus.

Niente di sdolcinato, di disneyano. Le fiabe sono piene di bambini a cui è stato profetizzato
un futuro di gloria, ma cominciano con l’essere rifiutati, affidati a un cacciatore perchè li
ammazzi e ne riporti indietro come prova il cuore (il cacciatore porterà invece il cuore d’un
cinghiale) e salvati da una lupa che li allattò; bambini abbandonati nel Nilo come Moses,
esposti e legati ai piedi come Edipo (Piedigonfi) e salvati per un insieme favoloso di
circostanze, perchè il loro destino profetizzato si compirà, qualunque astuzia mettano in atto
gli uomini, essendo Volontà dell’Alto, il Fato incommovibile, che anche quando è crudele è
perfetto, ordine fondamentale del mondo.

Dietro la storia di Pollicino c’è il crudele e necessario rito ariano del Ver Sacrum, quando la
terra impoverita della tribù non poteva più nutrire l’ultima generazione di coetanei (i fratelli),
e dunque i ragazzi erano ritualmente espulsi, trattati come morti e sepolti o mandati a perdere
nella foresta, a conquistarsi terre nuove. Erano bande giovanili, mascherate da lupi con teste
di vero lupo, ed armate di lance, saldate in confraternite segrete come a Sparta, con lo
stomaco vuoto e decise a sottrarre a mostri stranieri la propria terra. La razza ariana avanzò
così, di espulsione in espulsione, fino all’Europa, dalla magica terra d’origine, l’Isola
Bianca, Sveta Dvipa in sanscrito.

Le fiabe sono così: raccontano realtà verissime, filtrate dalla memoria dei vecchi che hanno
intravisto nella loro guerra, fame, ferite, sconfitte e vittoria, il disegno dell’archetipo, del Fato,
della Volontà dall’Alto. Che nella vecchietta apparsa quella volta nel bosco, tutta curva, che
portava una fascina, forse strega o forse fata, hanno visto la Moira, che ha dato un consiglio
prezioso, forse inutile, o forse più alto del salvare la propria vita: per scamparla (cito ricordi
della Campo) «nonsedere sull’orlo di fontana», un tabù, o anche «non comprare carne di
condannato» («Chi vuol salvare la propria vita la perderà»). Viaggi d’avventura in cui si è
chiamati a cercare «L’Acqua Ballerina, la Mela Canterina, l’Uccello che Indovina», e che
nessuno ha mai saputo cosa siano davvero, non meno del Graal. Ricerche in cui, come aiuto,
si viene forniti di tre noci, o tre melograne, ciascuna delle quali realizza un desiderio – e tutto
sta a non sprecare quelle tre occasioni: tre sole, mica mille.

Taglio, l’ho già fatta troppo lunga. E solo per dire che è un delitto sacrilego, come certi
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moderni progressisti, inventare fiabe moderne. Anzitutto la modernità (più ancora la


modernità provinciale all’italiana) non può inventare fiabe. Ma sopra tutto, le fiabe non
s’inventano. Da sempre, esse sono trovate, esattamente come le Sacre Scritture hindu –
dal RigVeda alle Upanishad – sono dette Shruti, ossiaascoltate dai saggi primordiali, rsi. Il
che significa: nessun uomo le ha composte (apauru seya), ma sono state ispirate e vanno
trasmesse cantandole senza variazioni.

E’ indicativo il fatto che i bambini si irritino quando si tenta di raccontargli Biancaneve o


Cenerentola con variazioni personali. Hanno ragione loro, colgono il lato liturgico, che fu
originario e primordiale. Erano miti recitati, e riattualizzati recitandoli. Soltanto con la
recitazione senza variazioni il c’era una volta diventava presente realmente.

Solo anni dopo, cresciuti e diventati cattolici adulti, applaudiranno a Messe variate, a liturgie
che non riflettono più le teologie esatte: esatte, sia chiaro, come esattamente i pittori di
Lascaux dipingevano i loro bisonti e buoi, come esattamente i pittori bizantini dipingono
l’icona della Theotokos, come con procedimenti esatti i boscaioli-metallurgi estraevano dal
cinabro, dal rosso cappuccio, l’argento vivo, il cammino del cinabro alchemico. Perchè se ci
sono metodi esatti per dipingere, per cacciare e fare tecnica, volete che la conquista più
difficile di tutti, quella dell’Amore, non esiga un metodo, una tecnica esatta? Così esatta da
diventare arte?

Ed ora qualche cattolico magari tradizionalista non mi obietti che le fiabe vengono da pagani,
che sono paganesimo.

Il Vangelo è denso di simboli favolosi. «Prima che il gallo canti, mi avrai rinnegato tre
volte»: povero Pietro, che ha sprecato le sue tre noci, ed ora piange amaramente. E per essere
reintegrato, dovrà rispondere tre volte alla domanda: «Pietro, mi ami tu?». Certe litanie della
Madonna sono epiteti fiabeschi ed enigmatici come la Mela Canterina e l’Acqua
Ballarina: Turris Eburnea, Hortus Conclusus, Fons Signatus... Richiamo l’attenzione su
questo Fons Signatus. Significa Fonte Sigillata, ma a che serve una fonte sigillata? Non avrà
magari qualche relazione col divieto della favola: non sedere sull’orlo di fontana? Nè
comprare carne di condannato?
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Ognuno la intenda come ne è capace. Non come vuole lui, perchè il significato è esattissimo,
univoco, e non lascia nessuna libertà (esattamente come l’arte delle icone del bizantino); solo
che è così pregnante, che nessun vivente ne coglie tutti i lati.

Voglio dire: se una fede ardente trae insegnamenti di salvezza spirituale persino dalla Torah,
questo racconto di conquiste terrene e di massacri di vicini, non mi sembra ignobile ricavarne
da una fiaba. Magari per scoprire che l’arcangelo Raffaele che nel libro di Tobia accompagna
il piccolo Tobia, lo protegge, gli fa trovare il pesce fatato col cui fiele il giovinetto guarirà gli
occhi del padre (non prima di avergli fatto un matrimonio eccezionalmente fortunato) e
percorre con lui i 300 chilometri da Rage a Ecbatana in soli due giorni di marcia – in un’altra
favola s’era mascherato da Gatto degli Stivali; ma lo si riconosce da quegli stivali delle sette
leghe con cui copre distanze immense.

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