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Arriva il de-global, e non ho niente da mettermi

Maurizio Blondet

30 Ottobre 2013

È cominciata la deglobalizzazione. Almeno, questa è la tesi (o l’ipotesi) di Francois Lenglet nel


suo ultimo saggio «La fin de la mondialisation». Direte: ma chi è questo Lenglet?, e avete ragione:
di questi tipi umani non ne esistono da noi… Lenglet è un giornalista di grandi media economici
mainstream (Expansion, La Tribune, France 2) che però scrive le verità che voi avete trovato nei
libri di qualche giornalista licenziato e bollato come nazista-antisemita-omofobo- negazionista,
dunque marginale (ne conoscete qualcuno, immagino).

Per fare un esempio, Lenglet ha scritto nel 2007 un saggio il cui titolo diceva tutto: «La crise des
années 30 est devant nous». Nel 2007 la crisi dei subprime stava appena per manifestarsi, e nessun
esperto prevedeva che avevamo davanti una crisi come quella del 1929. Anzi, abbiamo conosciuto
governatori di banche centrali europee, venerati maestri e rettori della Bocconi che hanno negato,
e negano ancor oggi, che la crisi attuale – cominciata nel 2008, dunque entrante nel settimo anno –
sia come, o peggio, quella del 1929. Sono gli stessi che, dietro principeschi stipendioni, vedono la
luce in fondo al tunnel.

Lenglet era stato in grado di prevedere giusto, allora; dunque vale la pena ascoltarlo oggi. Se non
altro come esponente di tutto un movimento di economisti-intellettuali francesi che non si
conformano al politicamente corretto liberista-europeista vigente.

Lenglet ritiene di aver identificato cicli economici di 70-80 anni, composti di due fasi distinte,
ciascuna punteggiata di crisi. Nella prima, si afferma il desiderio di libertà economica; fase in cui
chi presta (i ricchi) si avvantaggia su chi chiede in prestito, i consumatori e i finanzieri sui
produttori. Le frontiere si abbassano, lo Stato s’indebita, il sistema finanziario si gonfia: «Il prezzo
degli attivi finanziari aumenta più rapidamente che i redditi, aumentando le ineguaglianze a
vantaggio dei detentori di patrimoni». Poi, dopo un crack, prende il sopravvento il bisogno di
protezione, con le classi medie e i produttori che acquistano voce in capitolo; la finanza viene
regolamentata, si entra in una fase (relativamente) protezionista. Mentre gli inizi di ognuna delle
fasi sono benefici, col tempo ciascuna eccede nell’applicazione della sua ideologia, e dunque la
situazione di deteriora. Nel secondo caso, si finisce nell’eccesso di regolamentazione e
sindacalizzazione che sclerotizza l’economia; la crisi torna, risvegliando impulsi liberisti.
Attualmente siamo nella fine della prima fase, dove la finanza liberalizzata all’estremo divora
l’economia produttiva, estraendone profitti insostenibili al capitale a danno del lavoro. La lunga
durata dei cicli fa sì che coloro che hanno vissuto il ciclo precedente sono scomparse, per cui
l’umanità ripete gli stessi errori.

Si cita Keynes che descrive una precedente fase di globalizzazione durante la Belle Epoque: «Un
abitante di Londra poteva, sorseggiando il suo tè mattuitino, ordinare al telefono i prodotti più vari
di tutta la terra nella quantità che gli conveniva, e vederseli consegnare rapidamente alla
porta.. .questa epoca finì nell’agosto 1914», ossia all’inizio della Grande Guerra.

Il ciclo iper-liberista attuale avrebbe radici nel mitico 1968, nella generazione dei baby boomers,
nei loro slogan libertari e liberisti: «Vietato vietare» per esempio, o: «Dopo Marx, aprile».
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Credevano di essere «la sinistra intelligente», erano i trombettieri della finanza sregolata. La quale
assume il potere un decennio (1978) dopo con l’elezione della Thatcher a Londra e l’egemonia
«culturale» della Scuola di Chicago e Milton Friedman., grande predicatore di privatizzazioni,
competitività, lotta all’inflazione e soppressione delle dogane. È il momento in cui il keynesismo,
l’egemonia precedente, tramonta. È notevole il fatto che la Cina «comunista» comincia le sue
riforme liberali proprio quando la Thatcher trionfa in Inghilterra, nel 1978. In buona coincidenza
col «ciclo» liberista.

Per Lenglet, il ciclo è attualmente in flessione. Quali gli indizi che segnala?

Dal 2007, i flussi dei capitali internazionali sono caduti del 60%; la finanza si è parzialmente
rinazionalizzata dopo la crisi dei subprime e della zona euro.

Dal 2009, l’interscambio mondiale è in drammatico calo, e le cause contro i» delitti di


protezionismo» portare davanti al WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio, il poliziotto e
giudice della libera circolazione globale) sono aumentati del 300%. Si nota una certa tendenza a
ri-localizzare industrie, in USA per lo sfruttamento dei gas da scisti che ha reso di nuovo
conveniente la produzione interna, in Europa per accordi collettivi di competitività (lavoratori
tedeschi), e in genere perché l’egualizzazione dei salari europei verso quelli mondiali (ossia verso
il basso) continua, e rende meno conveniente produrre in paesi a basse paghe.

Più importante, l’egemonia culturale della dogmatica liberista diventa sempre meno ferma, e
proprio in Usa dove ha dominato per oltre trent’anni. Il Nobel a Paul Krugman – vistosamente
passato dal campo liberista al neo-keynesismo pochi mesi prima – non sarebbe stato immaginabile
fino al 2008. Paul Samuelson (Nobel 1970) ha dedicato uno studio a dimostrare che i liberi scambi
fanno abbassare i salari in Usa, tanto che i salariati (o neo-disoccupati) non possono godere del
minor costo delle merci Made in China. Persino Larry Summers dichiara che vanno corretti i
peggiori squilibri del libero scambio. Ed è assurto a rinomanza mediatica un docente di Harvard di
economia politica, Dani Rodrik, per aver posto il «trilemma»: non è possibile avere
contemporaneamente democrazia, indipendenza nazionale e mondializzazione economica; che
cosa è meglio sacrificare? Rodrik si domanda cosa si è guadagnato costringendo gli Stati ad
abbandonare larghe fetta della propria sovranità, per conferirla a tecnocrati inamovibili. Con
l’aggiunta che Rodrik ha mostrato che Haiti, soggetta al liberismo americanoide, non si è
sviluppata, mentre il Vietnam, col protezionismo, si è sviluppato.

Sembra ieri che un altro Nobel, il geniale Maurice Allais, per aver detto prima le stesse cose è
stato obbligato a stampare a proprie spese i libri con cui criticava liberismo ed eurocrazia! Allais
aveva dimostrato che «la mondializzazione provoca distruzione dei salari e dell’economia»; che
«il protezionismo non è la causa delle crisi» tipo 1929, «bensì la conseguenza»; ragion per cui non
è mai stato invitato nei dibattiti tv, benché fosse il solo Nobel francese d’economia. Oggi, un
Michael Spence (Nobel anche lui, a New York) ha potuto dimostrare che sui 27 milioni di posti di
lavoro creati in Usa dal 1990 al 2008, il 98% sono stati generati nei settori protetti dalla
competizione internazionale (soprattutto servizi, naturalmente «non esportabili»), senza provocare
condanne e scandalo.

Si comincia a intravvedere anche a livello accademico che nella storia anche recente (vedi Cina) il
protezionismo è più frequente del libero-scambio e generalmente favorisce la crescita, mentre il
libero-scambismo non ha quasi mai effetti positivi per il Paese che lo adotta in toto: Pechino
approfitta del libero-scambismo globale, ma pratica ampiamente il protezionismo, fra l’altro non
consentendo alla sua valuta di oscillare sul «libero mercato», ossia di rivalutarsi.
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François Lenglet vede in questi indizi il segno che il ciclo iper-liberista si avvicina alla sua fine, e
che essa – se non governata – porta a catastrofi (il liberismo precedente, 1929 sboccò nella
seconda guerra mondiale) e propone, o auspica, che la transizione venga governata. Avendo come
fari tre cose: salvare le classi medie, ristabilire la domanda finale resa anemica (e che la finanza ha
compensato temporaneamente inducendo un indebitamento eccessivo delle famiglie) e produrre
una lieve inflazione, fra il 3 e il 4%. Favorevole al libero scambio fra paesi di livello socio-
economico comparabile (come Allais e prima ancora Friedrich List), Lenglet pensa a ristabilire le
frontiere per regolare la finanza, separare l’attività di deposito e d’investimento, e controllare il
flusso dei capitali; a livello più europeo che solo nazionale.

Naturalmente non si nasconde che potentissimi interessi si oppongono, e in Europa anche il ritardo
culturale. Emmanuel Todd ricorda che «i più duri zelatori del libero mercato globale sono gli alti
dirigenti pubblici, che non sono minacciati dalla competizione...». Ciò vale anche di più per gli
eurocrati; la selezione dei Barroso, dei Rehn, dei Mario Draghi (o Mario Monti) non deve nulla
alla «concorrenza su un libero mercato aperto» – ma la fedeltà ai dogmi.

Ne ha dato una prova sconfortante Enrico Letta nel discorso alla Sorbonne del 26 ottobre, dove ha
ripetuto con entusiasmo gli atti di fede non più ascoltabili: «L’Europa non è stata la causa della
crisi, ma la crisi è stata causata dalla mancanza di più Europa», lanciando il solito appello per
«istituzioni europee forti», chiedendo di «entrare, a partire dalle elezioni europee del mese di
maggio, in una legislatura europea della crescita, lasciandosi alle spalle la legislatura
dell'austerità». «Sto parlando di una crescita seria, basata su bilanci seri», ha chiosato Letta.
Indicando il nemico «nei fautori del populismo, feroci e pronti alla battaglia», Letta ha chiamato
ad una «grande battaglia politica e culturale». (Letta: contro la crisi ci vuole più Europa)

Nessuna presa di coscienza. Nemmeno la constatazione che nell’Europa dell’euro c’è un Paese
che sta facendo la svalutazione competitiva, uno solo: ed è la Germania. L’euro ha svalutato di
almeno il 30% rispetto al marco a cui dovrebbe tornare, mentre a noi vieta di svalutare e ci obbliga
– con l’euro – a competere con una valuta rivalutata enormemente rispetto alla lira.

Con questa arretratezza mentale italiana, vedo un pericolo nella «eclisse del ciclo liberista»
annunciata da Lenglet – ammesso che davvero albeggi una fase protezionista. Il rischio è che a
dichiarare: «Basta coi sacrifici, basta col liberismo selvaggio» siano proprio le categorie – dette
caste pubbliche – che mai hanno fatto alcun sacrificio né si sono mai esposte alla competizione,
anzi se ne sono sottratte in tempo.

Siamo l’ultimo Paese comunista

L’Italia infatti ha un problema suo proprio: che sta per entrare nella fase della de-globalizzazione,
del neo-protezionismo (che significa più regolamentazione e più potere allo Stato) senza essere
passata per la fase precedente, quella delle liberalizzazioni e della libertà.

Noi non abbiamo avuto una Thatcher, e nemmeno Eltsin. Da noi non è ancora caduto il Muro di
Berlino. Non ci siamo ancora liberati. Né realmente abbiamo cercato di liberarci. Dobbiamo
anzitutto uscire dall’illusione che siamo un Paese tutto sommato libero. Guardiamo in faccia la
realtà ed elenchiamo le impressionanti somiglianze che manteniamo col defunto mondo sovietico:

NOMENKLATURA. Così si chiamava, nei paesi dell’Est, il numeroso ceto che occupava
posizioni di potere in ogni campo, e la ancor più numerosa accolta di famigliari, di famigli di
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favorite, di poeti e drammaturghi di corte, e di puttane che gli viveva attorno, succhiando denaro
pubblico. Ogni membro della Nomenklatura doveva la sua poltrona alla designazione del Partito
centrale o di quello regionale; si sapeva incompetente e dunque, capiva che la sua carriera
dipendeva dal servilismo verso un caporione più potente, che poteva fare «le nomine». Ciascun
membro di questa «nuova classe» (come la chiamò Milovan Gilas) occupava tutto il suo tempo a
tramare accordi e lotte di fazione, a puro scopo carrieristico: telefonate per ore a chi poteva
«mettere una buona parola», dimostrazioni di fedeltà al superiore, progetti di sgambetti al
burocrate che poteva «soffiargli la promozione». Gli rimaneva il tempo appena per scopare la
segretaria giovane e carina (assunta per quello) o smanazzare la nota attrice vista a teatro e invitata
«in ufficio per comunicazioni».

Noi parliamo di «Casta», o Caste. Ditemi voi se c’è una reale differenza.

PRIVILEGI RISERVATI. In un Paese dove la gente comune portava con sé una borsa a reticella
da massaia per infilarsi in qualunque fila davanti a qualunque bottega perché era segno che si
vendeva qualcosa (qualunque cosa), la Nomenklatura sovietica o polacca disponeva di negozi di
Partito, ad essa riservati, dove si serviva in abbondanza non solo dei cibi di cui il popolo aveva
persino perso la memoria, burro autentico, storione, caviale, funghi e verdura freschissima; ma
anche bottiglie di Chivas Regal, stecche di Marlboro e Lucky Strike americane (il cui possesso in
mano a comuni mortali poteva indicarli come nemici del socialismo), foulard di Hermes per la
favorita del momento, le introvabili calze di nylon di fattura occidentale. Qualunque fanciulla
sovietica, per delle vere calze di nylon o un vero rossetto parigino, era pronta a dare tutto. Oggi, si
contentano anche di meno.

Da noi, la Casta non ha negozi riservati. Non ne ha bisogno: s’è data gli emolumenti che fanno la
differenza. Di fronte a un popolo ridotto a mille euro al mese e sette milioni di pensionati sotto i
700, stuoli di magistrati arraffano 7 mila al mese, un parlamentare 18 mila, un «grande statale» tre
volte più del Presidente deli Stati Uniti. Possono comprare tutto lo storione che vogliono, fare
viaggi alle Maldive con intere famiglie di amanti e portaborse (ricordate Rutelli), dispensare
«posti» a favoriti e favorite.

La Nomenklatura è sparita all’Est: sorpresa dal crollo del sistema e dall’avvento del liberismo
globale, delle privatizzazioni, della «trasparenza» e della «efficienza». Le nostre Nomenklature,
dette Caste, sono state molto più accorte. Hanno visto venire in tempo la tempesta delle
privatizzazioni e della competizione globale, e si sono messe al riparo – lasciando beninteso noi
cittadini fuori alla grandine, a vedercela con la concorrenza dei salariati cinesi e messicani. I nostri
salari «per forza» dovevano calare, ci hanno detto; i loro, beninteso, no. Il motivo è che noi
dobbiamo adeguarci alla «legge della domanda ed offerta», esporci ai freschi venti del mercato:
quindi, se siamo meno produttivi, è giusto che le nostre paghe calino. Se c’è la crisi mondiale, è
inevitabile che ci taglino gli stipendi del 10, del 20 per cento – e ringraziamo ancora che non
siamo licenziati.

Loro, devono i loro emolumenti a tutt’altro meccanismo: non il «mercato», ma «o’ concuorso». Si
laureano in Legge a Messina, poi si presentano a «o’ concuorso»; se lo vincono, entrano
nell’empireo della Nomenklatura. Sono illicenziabili, inamovibili, la progressione di carriera e di
stipendi è automatica. Di più, di meglio: nessun tentativo di ridurre i loro scandalosi compensi va
a buon fine: la Corte Costituzionale boccia ogni legge diminuente con l’argomento che gli sipendi
pubblici sono stabiliti «per legge». Essendo esito d’o’ concuorso. La «legalità» è totalitaria.
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HANNO FATTO LORO LE «PRIVATIZZAZIONI». Nella fase iniziale del ciclo libertario, le
entità globaliste sovrannazionali e l’ideologia liberista hanno ingiunto di «privatizzare» le
industrie ed imprese pubbliche, anche quelle tradizionalmente in mano pubblica perché «monopoli
naturali» come le Ferrovie? Le povere Nomenklature sovietiche si son lasciate espropriare, colte
alla sprovvista. La nostra vittoriosa Nomenklatura ha superato in zelo la Scuola di Chicago: «Più
mercato meno Stato!», ha gridato la Nomenklatura di «destra». La Nomenklatura di «sinistra»
(Prodi, D’Alema, Bersani) ha ceduto quel che doveva cedere ai padroni (i gioielli italiani dell’Iri
che facevano gola a Londra), e così è stata accettata come protagonista della «transizione verso il
mercato». Tipicamente, ha reso Società per Azioni cose come l’Azienda Tranviaria Municipale, di
cui il municipio resta, guarda caso, l’azionista di maggioranza. Lungi dall’essere ostacolo al loro
sistema clientelare, questo tipo di privatizzazioni ha aperto ad esso possibilità insperate:
aggiudicazioni di commesse (e spesa di denaro pubblico) che prima dovevano essere fatte «per
gara», qui sono assegnate a «privati»: privati che piacciono alla Nomenklatura. Assunzioni dei
favoriti, delle puttane, dei portaborse e degli incompetenti con tessera del Partito trombati alle
elezioni possono avvenire in queste «aziende private» meglio di prima; la Corte dei Conti non può
sindacare ciò che fa una «impresa privata», essa assume chi le pare. Di queste «partecipazioni» ed
ex pubbliche, non si sa nemmeno quante ce ne siano. Chi dice tremila. Chi dice 17 mila. Grandi e
piccoli centri di spesa di denaro di noi contribuenti, senza alcuna supervisione.

La nostra Nomenklatura è interessata a mantenere l’euro. La moneta «forte» ne consente i suoi


lussi, in mezzo ad una popolazione sottopagata. Giuliano Amato, dall’alto delle sue pensioni da 30
mila euro mensili, s’è dichiarato esplicitamente contrario anche all’introduzione di una moneta
statale complementare per lubrificare i consumi interni, col seguente argomento: «C’è il rischio
che le paghe private vengano pagate in euro, e gli stipendi degli statali in queste neo-lire». Che
ovviamente si svaluterebbero di quanto merita l’utilità dei pubblici dipendenti...

In breve, la nostra Nomenklatura sopravvive. Non solo sopravvive, ma comanda. E mantiene il


sistema comunista sovietico nel solo Paese occidentale che non ha mai abbattuto il Muro. Dite che
esagero?

«DA NOI VIGE LA PROPRIETÀ PRIVATA». Chiedetelo alla famiglia Riva, che si sono
comprati l’ILVA, azienda pubblica privatizzata davvero. Una magistrata laureata in legge in
qualche università meridionale (dove la «cultura industriale» e gli studi di economia reale non si
sa cosa siano), espropria la gigantesca azienda, sbatte in galera i proprietari, sequestra loro i
capitali per farla funzionare. Lo fa perché ha scoperto che le acciaierie inquinano, e lei ha «er pupo
che ci ha la tosse» . Le magistrate giovani e meridionali infatti, appena vinto «o’ concuorso»,
fanno «er pupo»: così si fanno due o tre anni di assenza di maternità pagata, e da allora diventano
solo e ciecamente «mamme». Unicamente dedite allo scopo supremo della mamma meridionale:
fare del pupo un obeso viziatissmo coglione, per la salute del quale vale la pena chiudere
un’azienda strategica e mandare sul lastrico 17 mila dipendenti. I quali possono benissimo
occuparsi «nella raccolta di mitili», come insegna la «cultura industriale» imparata all’università
di Arcavacata, facoltà di Legge.

«DA NOI C’È LA LIBERTÀ PERSONALE». A sì? Chiedetelo a Silvio Scaglia, il fondatore di
Fastweb a cui un magistrato che ha vinto «o’ concuorso» ha fatto fare un anno di carcerazione
preventiva, onde aver tutto il tempo di raccogliere prove contro di lui; prove che non ha trovato,
sicché Scaglia è stato totalmente prosciolto. Pensate solo a quante imprese e iniziative industriali
un imprenditore come Saglia è stato impedito di fare, dovendo impiegare tutte le sue forze mentali
(e i soldi) per ritornare libero. Voi lo sapete: qualunque procuratore può gettarvi in galera, in celle
con sette otto marocchini drogati, e tenervici per anni, a suo arbitrio.
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LIBERTÀ DI IMPRENDERE? Fate il piacere. Scaglia e i Riva possono testimoniare a cosa si


riduce la libertà del capitalismo industriale. Ogni piccolo imprenditore vi dirà che la fiscalità e il
peso della burocrazia gli tolgono il 62 % sulla ricchezza che produce; un esproprio che persino
Lenin avrebbe invidiato, quando nel 1917 non chiuse le piccole imprese, si limitò a tassarle a
morte. La Nomenklatura è ideologicamente ostile all’impresa privata, e ritiene suo dovere morale
sospettare chiunque esercita un’attività produttiva con profitto: agli occhi della nomenklatura che
ha vinto «o’concuoprso», la sua attività consiste nel sottrarre denaro al Fisco. Ragion per cui va’
controllato, sospettato e se possibile incriminato.

«DA NOI NON C’È LA STASI, NON C’È IL KGB». Signori, apriamo gli occhi: Equitalia e le
Procure, unite, costituiscono un KGB potenziato. Come il vecchio KGB, possono guardare i vostri
conti correnti, intercettare le vostre telefonate senza che voi lo sappiate. Equitalia può pignoravi
l’automezzo di lavoro, la casa, le merci; ha il potere di chiamarvi a rendere conto del perché avete
comprato una BMW invece che una Golf, che col vostro reddito non potete permettervi. Che dico?
Equitalia vi convoca e chiede di giustificarvi se a suo giudizio comprate troppe lenzuola, troppe
pentole o detersivi; e incriminarvi, dunque passarvi al magistrato penale perché vi intercetti, vi
incarceri preventivamente, vi strappi ai vostri cari e al vostro lavoro, tanto nessuno di loro pagherà
mai per i danni che vi ha prodotto, e le angoscie che vi ha procurato. E voi credete che la STASI
fosse peggio? Era meglio.

Gli effetti. Tipici di un Paese comunista.

Si vive nella menzogna ufficiale: la democrazia è vigente, la Costituzione è la più bella del
mondo, c’è il pluralismo, i gay possono sposarsi, avete dunque tutte le libertà. La maggior parte
della gente ci crede davvero, e se qualcuno esprime idee un po’ nuove, chiama la polizia perché lo
faccia tacere. E non si vede all’orizzonte un Solgenitsin che rischia la vita per «vivere senza
menzogna».

L’economia cala, le opere pubbliche degradano, lo Stato amministrativo scade, non ci sono più i
mezzi per tappare i buchi delle strade, le scuole crollano, la previdenza e la sanità pubbliche sono
sempre peggio, non ci sono i soldi nemmeno per riparare le case private. Tutto assume quel
grigiore trascurato, povero e sporco che fu così tipicamente sovietico, dove mancava la
manutenzione ordinaria. Soprattutto, grava il grigiore delle anime: nessuno osa prendere iniziative,
né sa cosa fare; le prospettive sono strangolate dal controllo totale e dall’ideologia sbagliata che lo
giustifica, l’energia e gli «spiriti animali» sono spenti dalla tassazione espropriatrice.

Rubo la frase seguente a Paolo Rebuffo: «quali che siano le leggi a cui sono sottoposti gli uomini,
quando il frutto dell’ingegno e del lavoro non rimane per la maggior parte nelle mani e nella
disponibilità di colui che lo ha prodotto, l’uomo smetterà di dare il meglio di sé, smetterà di
produrre oppure lo farà da qualche altra parte, secondo leggi più confacenti alla legge naturale».
Rebuffo è probabilmente troppo giovane per riconoscere in questa sua descrizione, il carattere
tipico della società sovietica. Io le ho viste quelle società, e le lo posso dire: erano così. La gente
non lavorava più, campava rubacchiando materiali dalle fabbriche dove era occupata, gli operai
facevano lavoretti per i vicini, riparavano cucine economiche, vecchie Zigulì e frigoriferi romeni:
in nero, naturalmente. E tutto scadeva. I migliori scappavano in Occidente. Dicevano: lo Stato fa’
finta di pagarci, e noi facciamo finta di lavorare (1). In Italia, 400 mila giovani sono all’estero
perché troppo qualificati per questa sovietica Nomenklatura sopravvissuta, anzi prosperante; oltre
130 aziende lombarde si sono trasferite in Canton Ticino, dove la tassazione è 2,5% e l’elettricità
costa un quinto...
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I tedeschi orientali «votano con i piedi» , si diceva allora, scappando oltre il Muro. E c’era il Pci
che si stupiva come mai si desiderasse fuggire dal paradiso sociale sovietico. Sospettava nei
fuggiaschi scopi abietti: la sete di guadagno, l’attrazione dei vizi occidentali, l’individualismo
criminale. Oggi, il PD, riferimento della Nomenklatura, spiega: evasori fiscali. E aumenta la
pressione tributaria.

Ora, pensate che le centrali americane lancino la nuova parola d’ordine, quella prevista da
Lenglet: più Stato, meno mercato; meno liberismo e più regolamentazione. La nostra
Nomenklatura non aspetta altro: «È stata sempre la nostra ideologia!», strillerà: «Più socialità! Più
mano pubblica! Sentire le parti sociali! (Ossia CGL.Cisl.Uil...) Lotta senza quartiere all’evasione
sociale! Tutti in galera gli imprenditori che fanno profitti, vivano solo quelli in perdita ma
garantiscono «posti di lavoro»! E un aumento di stipendi per noi!». La Nomenklatura sovietica, si
calcola, era l’15% della popolazione… La nostra, con tutte le sue clientele, favoriti, puttane di
lusso, comici, nani e poeti di corte locupletati dalla Rai, dalle Regioni e dal Ministero dello
Spettacolo, sfiora il 10.

Milioni sono interessati a tener su il nostro Muro di Berlino, e lo stanno attivamente reggendo.
Come abbatterlo?

1) C’era una differenza fondamentale: nel settore sovietico, la gente non favorita studiava, leggeva
infaticabilmente, aveva sete di sapere, pensava profondamente. Nell’Italia d’oggi, sotto la
Nomenklatura Larghe-Intese, siamo diventati enormemente più ignoranti e superficiali, i laureati
non leggono più un libro dopo «o’ concuorso» . Forse è l’apporto tipicamente berlusconiano
all’ultimo paese comunista rimasto: la variante Cretinopoli. Da noi, Il Grande Fratello evoca un
format pecoreccio Mediaset, mica Orwell.

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