Sei sulla pagina 1di 103

La verità sulla Crisi

del ‘29
I grandi miti sulla Grande Depressione

Lawrence W. Reed

2
Istituto Liberale

Traduzione Alessio Cotroneo


Angelo Mennillo

Grafica Davide Filippini


Robin Chiodi
Valentino Russo
Titolo originale Great Myths of the
Great Depression

Pubblicato da Foundation for Economic Education

licenza Creative Commons BY 4.0

Sito © 2020 Istituto Liberale - APS

E-mail www.istitutoliberale.it

info@istitutoliberale.it

3
INDICE
Prefazione ...................................................................... 7

Introduzione................................................................ 15
La Grande, Grande, Grande, Grande Depressione .............. 18
I Fase: la Politica Monetaria e il Ciclo Economico.... 21
I pianificatori centrali falliscono nella politica monetaria ... 22
Quando si tocca il fondo ........................................................ 27
Amico, hai 20 milioni di dollari? ........................................... 32
Fase II: la disintegrazione dell’economia mondiale . 34
“La più grande Amministrazione della Spesa di tutta la Storia” .............. 34
Tu mi tassi, io ti tasso ............................................................. 38
Libero Mercato o Pranzo Gratis? ........................................... 39
Fase III: il New Deal ................................................... 47
Niente da temere se non la paura stessa ............................... 48
Una nuova trattativa del fondo del mazzo ........................... 50
Aquile blu, anatre rosse ......................................................... 56
I commissari dell’alfabeto ...................................................... 59
Una sorprendente marmaglia di impudenti nullità ............. 64
Segni di vita ............................................................................ 65
Fase IV: il Piano Wagner ............................................ 68
Un clima ostile per gli affari .................................................. 70
L’unica mente?........................................................................ 77
Dov’è finita la libera impresa? ............................................... 81

4
Post Scriptum: abbiamo imparato la lezione? ...................... 83

5
6
PREFAZIONE
Uno degli avvenimenti economici più studiati durante
il periodo scolastico – oserei dire, il più studiato in as-
soluto – è rappresentato dalla famosa Crisi del 1929,
che ebbe inizio con il crollo della Borsa di New York il
29 ottobre di quell’anno, il famoso Black Tuesday. E la
ragione per cui tale evento fu tanto significativo è mol-
to semplice: si tratta della più grande crisi economica
del XX secolo sotto qualsiasi punto di vista, essendo
quella di maggior durata, di maggior entità e che ha
interessato il maggior numero di Paesi.
Il Prodotto interno lordo (PIL) mondiale precipitò del
15% tra il 1929 e il 1932, il commercio internazionale si
ridusse di più del 50%, la disoccupazione negli Stati
Uniti raggiunse il 23% (in altri Paesi occidentali superò
il 30%) e in molte regioni gli effetti della crisi durarono
fino all’inizio della Seconda guerra mondiale. Si trattò
davvero di una crisi di proporzioni gigantesche, che
segnò profondamente il secolo scorso e che diede ori-
gine a molte delle discussioni economiche più famose
che vi furono posteriormente, come i dibattiti tra John
M. Keynes e F. A. Hayek.
E quale sarebbe stata la causa di uno squilibrio di pro-
porzioni talmente ingenti da far sì che anche la mag-
giore potenza economica mondiale del XX secolo ve-
nisse messa in ginocchio? I manuali scolastici e
l’opinione pubblica concordano nell’affermare che il
7
colpevole fu il libero mercato fuori controllo, il laissez-
faire, laissez-passer, come se tale risposta fosse ovvia ed
evidente quanto lo è la legge di gravitazione universa-
le.
E come sarebbe stata sconfitta la peggior crisi del XX
secolo? Ecco la seconda risposta, che accompagna
sempre la prima e che risulta anch’essa caratterizzata
dalla stessa indiscutibile pretenziosità scientifica: fu il
coraggio del presidente americano Franklin Delano
Roosevelt, che applicò l’audace programma di inve-
stimenti statali massivi noto come New Deal, stimolan-
do l’economia prostrata a causa di problemi di do-
manda e alti indici di disoccupazione. «Lo Stato ha
salvato il mercato», fu la risposta che si udì all’epoca.
La Crisi del 1929 e la sua risoluzione, pertanto, sono
sempre servite come un ovvio pretesto per giustificare,
nella più moderata delle ipotesi, l’idea che il libero
mercato sia dotato di una sorta di vulnus congenito e
che l’intervento governativo sia l’unico metodo in gra-
do di garantire che gli agenti di mercato non diano ini-
zio a un circolo vizioso e inarrestabile di autodistru-
zione. Nella più radicale delle ipotesi, è stata la prova
della più totale inadeguatezza del libero mercato, se-
gnato da difetti incorreggibili tali da renderne necessa-
ria la completa sostituzione o almeno la completa sot-
tomissione alle più disparate regolamentazioni, fino a
che resti molto poco, se non quasi nulla, di “libero” (o
di “mercato”). La Storia della seconda metà del XX se-
8
colo è una costante dialettica tra questi due punti di
vista, con il prevaricare dell’uno o dell’altro a seconda
del Paese e del contesto storico specifico. «Lo Stato de-
ve salvare il mercato ogni qual volta ciò si renda neces-
sario (e lo sarà)»: questo l’assioma che abbiamo sentito
insistentemente da allora.
Detto ciò, ci troviamo di fronte a quella che potrebbe
forse essere una delle leggende economiche più radica-
te e dannose della cultura popolare. Proprio in virtù di
ciò, è incommensurabile l’importanza di un libro che si
proponga di valutare in maniera obiettiva non solo ciò
che accadde negli anni che seguirono la Crisi del 1929,
ma anche ciò che avvenne nelle fasi precedenti a quel
fatidico Martedì nero.
Come si arrivò alla Grande Depressione? Perché qual-
cosa di analogo non si era verificato nella dimenticata
e rapidamente risoltasi grande crisi del 1921? È vero
che il presidente Hoover applicò politiche liberali esa-
gerate che innescarono la crisi del 1929? Il presidente
Roosevelt riuscì davvero a ridurre la durata della crisi
con i suoi programmi incostituzionali – che assomi-
gliavano di più a quelli messi in atto nell’Italia fascista
piuttosto che a quelli che ci si sarebbe aspettati in un
Paese libero? Queste e altre questioni saranno affronta-
te nella presente opera in maniera leggera, tecnica e
interessante. Questo libro non tratta di grandi principii
di libertà o di ampli discorsi astratti, ma vuole essere
una discussione dettagliata su questo periodo turbo-
9
lento, con numeri e statistiche al giorno d’oggi accessi-
bili a tutti.
Molti lettori potrebbero arrivare a chiedersi «in fin dei
conti, sarà che quest’opera non asserisce altro se non
che il libero mercato è infallibile? Perché questo sareb-
be un assurdo ideologico!». Se posso offrire un piccolo
spoiler, la risposta è no. In nessun momento Lawrence
Reed abbandona l’analisi dettagliata di quel periodo
storico per avventurarsi in discussioni filosofiche o di
principio, ma valuta ciò che è accaduto, senza credere
ai miti o rimanere imprigionato in un wishful thinking.
Non è necessario dimostrare che il libero mercato è
perfetto, non è necessario neanche che lo sia – e credo
che nessun autore liberale abbia mai avuto l’ardire di
fare una simile affermazione. L’Autore ha voluto solo
dimostrare che, al contrario di quanto si crede, la
Grande Depressione non fu causata dal libero mercato
e, contrariamente a quanto sostenuto dalla narrativa
ufficiale, non furono le politiche “miracolose” del New
Deal ad attenuarne gli effetti, bensì li prolungarono e
aggravarono per un’intera decade.
La presente opera potrebbe non essere il testo di eco-
nomia austriaca più approfondito sul tema (primato
che compete all’America’s Great Depression, di Murray
N. Rothbard), ma è sicuramente uno dei più diretti,
precisi e concisi.
Durante la mia vita ho cercato più volte di analizzare

10
la Crisi del 1929, ritenendo che essa spieghi molti dei
nostri errori e delle nostre difficoltà contemporanee. La
fede cieca nello Stato che regola il mercato a distanza,
come un ente autonomo, oggettivo e del tutto in grado
di farlo nel miglior modo possibile e nell’interesse del-
la collettività, potrebbe forse essere una delle più
grandi e dannose eredità del New Deal.
E ho sempre analizzato questo momento storico pen-
sando giustamente che la gestione della crisi e la narra-
tiva che le si costruì intorno furono responsabili di un
grandissimo cambiamento nella mentalità dei Paesi
occidentali. Personalmente, fino all’inizio della mia
carriera universitaria, ritenevo che la Crisi del 1929
fosse un esempio molto chiaro della necessità di un en-
te regolatore cui spettasse evitare appunto le grandi
crisi o crash economici, attenuare le recessioni o addi-
rittura evitarle del tutto. Credevo che il New Deal fosse
esagerato, ma che fosse necessario fare qualcosa in tal
senso. Magari non di tale entità, certo, ma per me era
evidente che non far nulla sarebbe stato considerevol-
mente peggio.
Fu grazie all’insieme di dati di questo libro e di quello
di Murray N. Rothbard che finalmente compresi che la
letteratura quasi unanime scritta sull’argomento non
poteva essere più in errore. Non solo non si può dare
la colpa della crisi al libero mercato, ma ancor meno si
può attribuire al New Deal il merito della sua sconfitta.
Non era una questione di entità, come credevo, ma di
11
natura: questo tipo di politica è semplicemente incapa-
ce di attingere i risultati che si ripropone, così come
gettare benzina sul fuoco è inutile al fine di spegnere
un incendio. Lo Stato, in quel tragico momento storico,
ha avuto il solo “merito” di far durare un decennio
una crisi che sarebbe durata di per sé 1-2 anni.

Che il lettore non mi fraintenda: non sto sostenendo


che lo Stato sia completamente inutile e che il libero
mercato sia perfetto. Non è questa la mia linea di ra-
ziocinio, anche perché, come anticipato, l’opera non si
presta ad ampie elucubrazioni, limitandosi invece ad
analizzare dettagliatamente e nello specifico la crisi più
famosa della contemporaneità. Ciononostante, non è
necessario essere un radicale per affermare, come so-
steneva Ludwig von Mises nelle sue Sei Lezioni, che
«il fatto che io non voglia che lo Stato faccia qualcosa,
non significa che io odii lo Stato, ma semplicemente
che esso non deve occuparsi di quella determinata te-
matica in quanto non è capace o qualificato per farlo»1.
E non è necessario essere un fedele difensore del libero
mercato – pur riconoscendone i difetti e le difficoltà,
fin troppo umani – per affermare che i tentativi di riso-
luzione offerti dallo Stato siano abitualmente peggiori
degli stessi problemi che cercano di correggere. Questo

1 Ludwig von Mises, “Le 6 Lezioni”, Istituto Liberale, 2020, pp. 73-74

12
è uno di quei casi in cui la cura è peggiore e più dan-
nosa della stessa malattia.
Questo libro, pertanto, rappresenta un brusco risve-
glio per chiunque, e, pur affrontando un tema che
sembra tanto distante cronologicamente, è ancora più
che mai attuale. La crisi del 2008-2009 e l’attuale crisi
accelerata dalla pandemia di Covid-19 ne sono esempi
eloquenti. Se la crisi del 1929 non fu causata dal libero
mercato e se lo Stato non è effettivamente capace di
operare come una sorta di “bambinaia” del mercato,
come sostiene Rockwell, per quale ragione continuia-
mo 90 anni dopo ad affrontare le crisi nello stesso mo-
do, ipotecando le vite delle generazioni future?
Fino ad oggi non abbiamo superato questo paradigma
che si basa su premesse errate e conclusioni facili (ma
fallaci). Le crisi del 2008-2009 e del 2020, affrontate
sempre con intenso intervento statale, con indebita-
mento pubblico, con flessibilizzazione e rilassamento
monetari e con ripetuti deficit, non mi permettono di
mentire.
Se il lettore ha bisogno di un ulteriore motivo per inte-
ressarsi a un libro che discute la lontana crisi del 1929,
alle politiche che la causarono realmente e soprattutto
alla così attuale risposta statale che ne seguì, posso of-
frirglielo facilmente: è l’unico modo di sapere quando
ci sarà la prossima crisi e di essere pronti ad affrontar-
la.

13
Edson Netto Freitas Amaral

14
INTRODUZIONE
Sono stati scritti molti volumi sulla Grande Depressio-
ne e sul suo impatto sulle vite di milioni di Americani.
Gli storici, gli economisti e i politici hanno tutti setac-
ciato le macerie della celebre crisi alla ricerca della
"scatola nera" che potrebbe rivelarci una volta per tutte
la causa di questa leggendaria tragedia.
Purtroppo, molti decidono di abbandonare la loro ri-
cerca a metà, trovandosi successivamente a diffondere
una moltitudine di conclusioni false e pregiudizievoli
sugli eventi di ottant'anni fa. Di conseguenza, molte
persone oggi continuano ad accettare le critiche al ca-
pitalismo di libero mercato, che sono ingiustificate, e a
sostenere le politiche interventiste del governo, che so-
no economicamente distruttive.
Quanto è stata grave la Grande Depressione? Dal
1929 al 1933 la produzione delle fabbriche statunitensi,
delle miniere, e dei servizi di pubblica utilità diminuì
di oltre la metà. Il reddito reale2 disponibile della po-

2 Reddito reale: il potere d'acquisto è la capacità di acquistare una certa


quantità di beni e servizi per unità monetaria. In questa linea, il "red-
dito reale" è semplicemente l'effettivo potere d'acquisto di un de-
terminato individuo. Di solito viene utilizzato in contrasto con il
"reddito nominale", che non sempre equivale a esso.
Se il reddito nominale rimane costante e si verifica un fenomeno
inflazionistico, con i conseguenti aumenti generali dei prezzi, il pote-
re d'acquisto diminuisce - cioè il reddito reale diventa inferiore al
15
polazione scese del 28%. I prezzi delle azioni crollaro-
no a un decimo del loro valore pre-crisi. Il numero di
americani disoccupati aumentò da 1,6 milioni nel 1929
a 12,8 milioni nel 1933. Un lavoratore su quattro rima-
se senza lavoro al nadir della Depressione, e terribili
voci di rivolta ricomparvero per la prima volta dalla
Guerra Civile.
«Il terrore del Grande Crollo è stato il fallimento della
sua spiegazione», scrive l'economista Alan Reynolds.
«La gente ha avuto la sensazione che si potessero veri-
ficare massicce contrazioni economiche3 in qualsiasi
momento, senza preavviso, senza motivo. Questa pau-

reddito nominale. Numericamente parlando il reddito non è dimi-


nuito (il salario rimane numericamente costante, cioè il reddito no-
minale rimane costante), ma per quanto riguarda il potere d'acquisto
(reddito reale) c'è stata una riduzione. Ad esempio, se un lavoratore
riceve 1000 euro di stipendio al mese e l'inflazione in quell'anno è
del 10%, anche se il suo reddito nominale è rimasto costante (1000
euro al mese), il suo reddito reale è ora equivalente a 900 euro al
mese.
Dall’altra parte, se il reddito nominale varia e cresce al di sopra
dell'inflazione, ci sarà un aumento del reddito reale.
3 Contrazione economica: la contrazione economica è il fenomeno

che contraddistingue le recessioni, che sono una delle fasi del ciclo eco-
nomico. In questa fase si assiste ad una generale contrazione dell'atti-
vità economica per un certo periodo di tempo, con il verificarsi, ad
esempio, di un calo del livello di produzione (Prodotto interno lor-
do, PIL), del livello degli investimenti, del reddito familiare, dei tassi
di profitto, e un aumento della disoccupazione, delle bancarotte di-
chiarate e della capacità inutilizzata dell'economia.

16
ra è stata da allora sfruttata come la principale giustifi-
cazione per un intervento statale praticamente illimita-
to negli affari economici».4
I vecchi miti non muoiono mai, ma continuano a com-
parire nei libri di testo universitari di economia e
scienze politiche. Con qualche rara eccezione, è lì che
si trova quello che potrebbe essere il più grande mito
del XX secolo: il capitalismo e l'economia di libero mercato
sono stati responsabili della Grande Depressione, e solo l'in-
tervento statale ha portato alla ripresa economica dell'Ame-
rica.
Oggi agli studenti viene spesso insegnato che la libera
impresa indipendente è collassata su sé stessa nel 1929,
aprendo la strada a una depressione economica decen-
nale colma di sofferenze e miseria.
Secondo questa prospettiva semplicistica, un impor-
tante pilastro del capitalismo, il mercato azionario, è
precipitato e ha trascinato l'America nella depressione.
Il presidente Herbert Hoover, sostenitore della politica
"hands-off" (letteralmente: “Giù le mani”), anche cono-
sciuta come laissez-faire, ha rifiutato di usare il potere
del governo e le condizioni sono peggiorate di conse-
guenza. Toccava al successore di Hoover, Franklin De-
lano Roosevelt, cavalcare il cavallo bianco dell'inter-

4Alan Reynolds, “What Do We Know About the Great Crash?”


National Review, November 9, 1979, p. 1416

17
vento statale e guidare la nazione verso la ripresa.
L'apparente lezione da trarre è che non ci si può fidare
del capitalismo: il governo deve assumere un ruolo at-
tivo nell'economia per salvarci dall'inevitabile declino.
Ma chi propaga questa versione della storia potrebbe
benissimo completare le proprie osservazioni dicendo:
«E Riccioli d'oro ha trovato la via d'uscita dalla foresta,
Dorothy è riuscita a tornare da Oz in Kansas, e Cap-
puccetto Rosso ha vinto la lotteria dello Stato di New
York». Il racconto popolare della Grande Depressio-
ne illustrato poco fa appartiene ad un libro di fiabe e
non ad una seria discussione della storia economica.

LA GRANDE, GRANDE, GRANDE, GRAN-


DE DEPRESSIONE

Per comprendere correttamente gli eventi di quell'epo-


ca, è opportuno considerare la Grande Depressione
non come una, ma come quattro depressioni consecu-
tive riunite in una sola.
Le quattro fasi sono5:
I. La politica monetaria e il ciclo economico
II. La disintegrazione dell'economia mondiale

5 Hans F. Sennholz, “The Great Depression,” The Freeman, April 1975,


p. 205

18
III. Il New Deal
IV. La legge Wagner
La prima fase spiega, anzitutto, perché il crollo del
1929 sia avvenuto; le altre tre fasi mostrano come l'in-
tervento del governo abbia peggiorato il crollo e abbia
mantenuto l'economia in uno stato di stordimento per
oltre un decennio. Esaminiamo queste fasi una ad una.

19
20
I FASE: LA POLITICA MONETARIA
E IL CICLO ECONOMICO
La Grande Depressione non è stata la prima depres-
sione americana, anche se si è rivelata la più lunga.
Molte altre l'hanno preceduta. Un filo conduttore in-
trecciato in tutte le precedenti debacle è stato il disa-
stroso intervento del governo, spesso sotto forma di
cattiva gestione politica dell'offerta di denaro6 e di cre-
dito. Nessuna di queste depressioni, tuttavia, durò più
di quattro anni e la maggior parte di esse si concluse in
due. La calamità iniziata nel 1929 è durata almeno tre
volte più a lungo di tutte le precedenti depressioni sta-
tunitensi, perché il governo ha aggravato i suoi errori
iniziali con una serie di ulteriori e dannosi interventi.

6 Offerta di denaro: è il valore totale degli attivi monetari disponibili


in un'economia in un determinato momento. Ci sono diversi modi
per definire gli attivi monetari (o il denaro), ma di solito si intende il
denaro in circolazione e la moneta scritturale.

21
I PIANIFICATORI CENTRALI FALLISCONO
NELLA POLITICA MONETARIA7

Una spiegazione comunemente utilizzata per il crollo


del mercato azionario del 1929 riguarda la pratica di
prendere in prestito denaro per acquistare azioni. Mol-
ti testi di storia affermano allegramente che una frene-
tica speculazione sulle azioni fu alimentata da un ec-
cessivo numero di margin lending8 ("prestiti a margi-
ne"). Ma l'economista Gene Smiley della Marquette
University, nel suo libro del 2002 Rethinking the Great
Depression (Ripensare la Grande Depressione), spiega
perché questa non sia un'osservazione fruttuosa:

Esisteva già una lunga storia di prestiti a margine


sulle borse, e i requisiti di margine - la percentuale
del prezzo di acquisto pagata in contanti - non erano

7 Politica monetaria: la politica monetaria è sempre intimamente


legata alla capacità di promuovere cambiamenti nella quantità di dena-
ro nell'economia. Sebbene le autorità monetarie possano, in ultima
analisi, voler controllare i tassi di interesse, il tasso di disoccupazione
o la crescita del mercato azionario, il tentativo di raggiungere uno
qualsiasi di questi obiettivi attraverso la politica monetaria presup-
pone, in linea di massima, la capacità di alterare la quantità di denaro
nell’economia.
8 Margin lending: è una pratica attraverso la quale un individuo
prende in prestito denaro da investire, di solito sul mercato aziona-
rio.

22
inferiori alla fine degli anni Venti rispetto ai primi
anni Venti o ai decenni precedenti. Infatti, nella ca-
duta del 1928 il fabbisogno di margine cominciò a
crescere e i richiedenti furono obbligati a pagare una
quota maggiore del prezzo di acquisto delle azioni.

L'argomentazione del margin lending non regge molto.


La malizia nella concessione di denaro e di credito, tut-
tavia, è un'altra storia. La maggior parte degli econo-
misti monetari, in particolare quelli della Scuola Au-
striaca, hanno osservato la stretta relazione tra l'offerta
di moneta e l'attività economica. Quando il governo
gonfia la massa monetaria e il credito, i tassi d'interes-
se9 inizialmente diminuiscono. Le imprese investono

9 Tassi d’interesse: il tasso d'interesse è un prezzo che sorge sponta-


neamente quando gli individui valutano le condizioni e agiscono sul
mercato, e si basa sul valore del tempo e sull'uso delle risorse nell'e-
conomia. Il tasso d’interesse, quindi, riflette le preferenze temporali
degli agenti di mercato in merito al valore delle risorse e delle mate-
rie prime nel presente rispetto al loro valore nel futuro.
In questo modo, ad esempio, se il tasso d’interesse è alto, anche il
prezzo che un agente deve pagare per prendere denaro in prestito
sarà alto. In un mercato che funziona liberamente, ciò significa che
in quel determinato momento le risorse sono scarse e quindi il loro
utilizzo dovrebbe essere limitato. In altre parole, il tasso d’interesse
funziona come il prezzo normale dei beni e servizi nell'economia:
serve a controllare l'uso di beni naturalmente scarsi, in questo caso
specifico il denaro.
Trattandosi della quantificazione del prezzo del tempo, il tasso
d’interesse bilancia la propensione di alcuni a risparmiare con il desi-
derio di altri di prendere denaro in prestito (per consumo o investi-
23
questo "denaro facile" in nuovi progetti di produzione
e si verifica un boom di beni capitali10.

mento). In questo modo, il tasso d’interesse evita investimenti ad


alto rischio quando la disponibilità di risorse è bassa. Ma il tasso
d'interesse non solo coordina i piani dei risparmiatori e degli investi-
tori, ma funge anche da "freno" o "regolatore”, coordinando la dura-
ta dei periodi di produzione intrapresi con i risparmi disponibili nella
società in un determinato periodo.
Attualmente la maggior parte delle Banche centrali del mondo, per-
seguendo obiettivi di politica monetaria, impone per decreto il tasso
d’interesse dell’economia dei rispettivi Paesi. Pertanto, il "tasso
d’interesse ufficiale", definito dallo Stato, difficilmente sarà equiva-
lente a quello che sarebbe il tasso d’interesse nato spontaneamente
grazie a incalcolabili scambi e interazioni umane in un regime di libe-
ro mercato.
10 Beni capitali: è chiamata bene capitale ciascuna delle fasi intermedie

di ogni processo di azione, soggettivamente considerata in questo


modo dall'agente. Più precisamente, un bene capitale è una delle fasi
intermedie della serie in cui si costituisce l'intero processo produttivo
sviluppato dall'agente (per questo l'economista Böhm-Bawerk ha
parlato di "metodi indiretti di produzione" nel descrivere il sistema
capitalistico), è un bene che serve per produrre i beni di consumo.
Così, ad esempio, nella produzione del bene finale automobile, il telaio
è un bene intermedio, un bene che già incarna un valore aggiunto e
non è ancora "pronto" per il consumo finale, ma che viene utilizzato
nella produzione del bene di consumo. Il telaio è, pertanto, un bene
capitale.
In questo modo, i beni capitali sono i beni economici di ordini supe-
riori a cui l'economista Carl Menger già si riferiva. I beni capitali sono
formati da tre elementi essenziali: risorse naturali, lavoro e tempo,
combinati in un processo di azione concepito ed eseguito dall'agen-
te.
24
Con la maturazione del boom, i costi delle imprese
aumentano, i tassi d'interesse si riaggiustano al rialzo e
i profitti si riducono. Gli effetti del denaro facile si af-
fievoliscono e le autorità monetarie, temendo l'infla-
zione dei prezzi, rallentano la crescita della massa mo-
netaria o addirittura la contraggono. In entrambi i casi,
la manipolazione è sufficiente a mettere fuori gioco i
sostegni traballanti da sotto il castello di carte econo-
mico.
Un'interpretazione di spicco delle azioni del sistema
della Federal Reserve prima del 1929 si può trovare nel
libro La Grande Depressione dell'economista Murray Ro-
thbard. Utilizzando un'ampia misura che include valu-
ta, domanda e depositi a tempo e altri ingredienti, ha
stimato che la Fed avesse gonfiato l'offerta di moneta
di oltre il 60% dalla metà del 1921 alla metà del 1928.11
Rothbard sosteneva che questa espansione del denaro
e del credito avesse fatto scendere i tassi di interesse,
spinto il mercato azionario ad altezze vertiginose e da-
to vita ai "ruggenti anni Venti".
L’espansione sconsiderata del denaro e del credito
aveva costituito quello che l'economista Benjamin M.

La produzione di beni capitale presuppone l'esistenza di un risparmio,


definito come la rinuncia al consumo nel presente (in previsione di
un maggiore consumo in futuro).
11 Murray Rothbard, America’s Great Depression (Kansas City: Sheed

and Ward, Inc., 1975), p. 89.

25
Anderson ha definito "l'inizio del New Deal"12 - il no-
me delle politiche più conosciute e altamente interven-
tiste che sarebbero arrivate in seguito sotto il presiden-
te Franklin Delano Roosevelt.
Tuttavia, altri studiosi sollevano dubbi sul fatto che
l'azione della Fed fosse così inflazionistica come crede-
va Rothbard, indicando i prezzi relativamente piatti
delle materie prime e dei beni di consumo negli anni
Venti come prova che la politica monetaria non fosse
così selvaggiamente irresponsabile.
I tagli sostanziali alle imposte sul reddito effettuati
del presidente Calvin Coolidge avevano certamente
aiutato l'economia e potrebbero aver migliorato l'effet-
to sui prezzi della politica della Fed. Le riduzioni delle
imposte avevano stimolato gli investimenti e la crescita
economica reale, che a sua volta aveva prodotto un'e-
splosione di progresso tecnologico e di scoperte im-
prenditoriali di metodi più economici per produrre
beni e soddisfare i consumatori. Questa esplosione del-
la produttività contribuì indubbiamente a mantenere i
prezzi più bassi di quanto sarebbero stati altrimenti.
Per quanto riguarda la politica della Fed, gli economi-
sti liberali che non concordano sulla portata dell'e-
spansione monetaria della Fed all'inizio e a metà degli

12Benjamin M. Anderson, Economics and the Public Welfare: A Financial


and Economic History of the United States, 1914-46, 2nd edition (Indian-
apolis: Liberty Press, 1979), p. 127.

26
anni '20 sono di un'unica opinione su ciò che è succes-
so dopo: la Banca centrale ha presieduto ad una
drammatica contrazione della massa monetaria13 che è
iniziata alla fine del decennio. Le risposte del governo
federale alla conseguente recessione hanno preso una
brutta piega e l'hanno resa molto, molto peggiore.

QUANDO SI TOCCA IL FONDO


Nel 1928, la Federal Reserve stava alzando i tassi 14 di

13 Contrazione monetaria: la contrazione monetaria è la riduzione


del tasso di espansione monetaria da parte della Banca centrale. Si
tratta di uno strumento macroeconomico che viene normalmente
utilizzato per combattere l'inflazione, che si verifica grazie all'espansione
monetaria. Una politica di contrazione monetaria, che riduce la quan-
tità di denaro nell'economia (o il tasso di crescita dell'espansione
monetaria), porta di solito e a breve termine ad una riduzione del
ritmo dell’economia e dei consumi, oltre che ad un aumento della
disoccupazione.

14 Alzare i tassi d’interesse: partendo dal concetto di "tasso


d’interesse ufficiale" stabilito dagli organi incaricati di promuovere la
politica monetaria del governo, si può parlare di aumenti e riduzioni
del tasso d’interesse (al di sopra di quello che sarebbe il suo valore
naturale, o valore di riferimento). Quando il tasso d’interesse viene
aumentato, l'obiettivo del governo è quello di promuovere una poli-
tica di contrazione monetaria, riducendo la velocità dell'espansione
monetaria, del credito, dei prestiti e dei consumi. Questa è di solito
la politica utilizzata quando c'è un rischio di inflazione e/o quando
l'economia è eccessivamente accelerata.
27
interesse e contraendo la massa monetaria. Ad esem-
pio, il suo tasso di sconto (il tasso che la Fed addebita
alle banche aderenti per i prestiti) fu aumentato quat-
tro volte, dal 3,5% al 6%, tra il gennaio 1928 e l'agosto
1929. La Banca centrale intraprese un'ulteriore azione
deflazionistica vendendo aggressivamente titoli di Sta-
to per mesi dopo il crollo del mercato azionario. Per i
tre anni successivi, la massa monetaria si ridusse del
30%. Con il crollo dei prezzi in tutta l'economia, la po-
litica dei tassi d'interesse maggiorati della Fed diede
un forte impulso ai tassi reali (corretti con l'inflazione).
La cronaca più completa delle politiche monetarie del
periodo si trova nell'opera classica A Monetary History
of the United States, 1867-1960, del premio Nobel Milton

L'opposto sarebbe la riduzione del tasso d’interesse, che è stata, ne-


gli ultimi decenni, la politica più seguita dalle Banche centrali di tutto
il mondo. Con la riduzione del tasso d’interesse, il governo promuo-
ve una politica di espansione monetaria, iniettando credito nell'eco-
nomia e stimolando enormemente i consumi. Con questa politica è
possibile creare un'illusione di prosperità in un breve periodo di
tempo e nel corso degli anni questa “scorciatoia economica” non è
passata inosservata agli occhi dei governanti, soprattutto durante i
periodi elettorali.
È a causa dei tassi d’interesse eccessivamente bassi che si verificano
le grandi bolle e le grandi fluttuazioni dei cicli economici, come spie-
gato nella Teoria austriaca dei cicli economici (Tace). Questo perché, pri-
ma o poi, la prosperità creata artificialmente si trasforma in recessio-
ne e l'intera economia inizia un lungo processo di epurazione dei
malinvestments (i.e., gli innumerevoli investimenti inadeguati e troppo
inefficienti economicamente).
28
Friedman e della sua collega Anna Schwartz. Fried-
man e Schwartz sostengono risolutamente che la con-
trazione della massa monetaria del 30% tra l'agosto del
1929 e il marzo del 1933 fu un enorme freno per l'eco-
nomia e fu in gran parte il risultato dell'incompetenza
della Fed.
La morte nell'ottobre del 1928 di Benjamin Strong, una
figura potente che aveva esercitato una grande in-
fluenza come capo del distretto di New York della Fed,
lasciò la Fed in difficoltà senza una leadership capace -
rendendo la cattiva politica ancora peggiore.15
All'inizio, solo i capitalisti "intelligenti" - i Bernard Ba-
ruchs e i Joseph Kennedy che guardavano a cose come
l'offerta di denaro e altre politiche governative - vede-
vano che la festa stava per finire. Baruch iniziò a ven-
dere azioni e ad acquistare obbligazioni e oro già nel
1928; Kennedy fece lo stesso, commentando: «Solo un
pazzo rimane in possesso del dollaro al suo massi-
mo».16
Le masse di investitori alla fine percepirono il cam-

15 Milton Friedman e Anna Jacobson Schwartz, A Monetary History of


the United States, 1867-1960 (New York: National Bureau of Eco-
nomic Research, 1963; 9th paperback printing by Princeton Univer-
sity Press, 1993), pp. 411-415
16Lindley H. Clark, Jr., “After the Fall,” The Wall Street Journal, Oc-
tober 26, 1979, p. 18.

29
biamento in seno alla Fed e poi ebbe inizio il panico.
In una edizione speciale che commemora il 50° anni-
versario del crollo del mercato azionario, U.S. News &
World Report lo descrive in questo modo:

In realtà il Grande Crollo non è stato affatto un even-


to di un giorno, nonostante i frequenti riferimenti al
Giovedì Nero, 24 ottobre, e al Martedì Nero della set-
timana successiva. Già il 5 settembre le azioni erano
deboli nelle contrattazioni importanti, dopo essersi
spostate su nuove alture due giorni prima. I ribassi
all'inizio di ottobre sono stati definiti una "correzio-
ne auspicabile". Il Wall Street Journal, prevedendo
un rally autunnale, ha osservato che "alcuni titoli
salgono, altri calano". Poi, il 3 ottobre, le azioni han-
no subito il peggior pugno di ferro dell'anno. Le ri-
chieste di margini si sono spente; alcuni trader sono
diventati apprensivi. Ma il giorno dopo, i prezzi sono
saliti di nuovo e da quel momento in poi hanno fatto
l'altalena per due settimane. Il vero scricchiolio è ini-
ziato mercoledì 23 ottobre, con quello che un osserva-
tore ha definito "un Niagara di liquidazione". Sei mi-
lioni di azioni hanno cambiato proprietario. La media
industriale è scesa di 21 punti. "Domani sarà il mo-
mento", si sono detti i broker. I prezzi, dicevano, sono
stati portati a livelli "irragionevolmente bassi". Ma il
giorno dopo, il Giovedì Nero, le azioni sono state
messe in vendite in numeri ben maggiori... il ticker è

30
rimasto indietro di oltre 5 ore, e alla fine ha smesso di
rettificare le quotazioni alle 19:08. 17

Al loro picco, le azioni del Dow Jones Industrial Ave-


rage venivano vendute per 19 volte gli utili - un po'
troppo, ma difficilmente può essere considerato dagli
analisti del mercato azionario come un segno di specu-
lazione eccessiva. Le distorsioni dell'economia pro-
mosse dalla politica monetaria della Fed avevano pre-
parato il Paese ad una recessione, ma altre imposizioni
a venire avrebbero presto trasformato la recessione in
un vero e proprio disastro. Mentre il mercato azionario
subiva una batosta, il Congresso giocava con il fuoco:
proprio la mattina del Giovedì Nero, i quotidiani na-
zionali riferivano che le forze politiche a favore
dell'aumento dei dazi doganali dannosi per il commer-
cio stavano guadagnando consenso al Campidoglio.
Il crollo del mercato azionario fu solo un riflesso - non
la causa diretta - delle politiche di governo distruttive
che alla fine avrebbero prodotto la Grande Depressio-
ne: il mercato salì e scese in sincronia quasi diretta con
quanto stavano facendo la Fed e il Congresso. E quello
che fecero negli anni Trenta si colloca in cima agli an-
nali delle più grandi follie della storia.

“Tearful Memories That Just Won’t Fade Away,” U.S. News &
17

World Report, October 29, 1979, pp. 36-37.

31
AMICO, HAI 20 MILIONI DI DOLLARI?
Il Giovedì Nero scosse il Michigan più di quasi tutti gli
altri stati. Le azioni delle compagnie automobilistiche e
minerarie vennero demolite. La produzione di auto-
mobili nel 1929 raggiunse il massimo storico di poco
più di 5 milioni di veicoli, per poi crollare rapidamente
di 2 milioni nel 1930. Nel 1932, vicino al punto più pro-
fondo della Depressione, erano scese di altri 2 milioni
di veicoli a soli 1.331.860, con un sorprendente calo del
75% rispetto al picco del 1929. Migliaia di investitori in
tutto il mondo, tra cui molti personaggi famosi, furono
colpiti duramente nel crollo del 1929. Tra questi c'era
Winston Churchill. Egli aveva investito molto in azioni
americane prima del crollo. In seguito, solo le sue ca-
pacità di scrittura e le sue posizioni nel governo gli
consentirono di risanare le sue finanze.
Clarence Birdseye, uno dei primi sviluppatori di cibi
surgelati confezionati, aveva venduto la sua attività
per 30 milioni di dollari e aveva messo tutti i suoi soldi
in azioni. Era stato annientato. La Grande Depressione
devastò ogni parte dell'America, anche le città più pic-
cole. William C. Durant, fondatore della General Mo-
tors, perse più di 40 milioni di dollari in borsa. (GM
rimase in attivo per tutta la Grande Depressione sotto
la guida di Alfred P. Sloan, che tagliò i costi.)

32
33
FASE II: LA DISINTEGRAZIONE
DELL’ECONOMIA MONDIALE
Sebbene il mito moderno sostenga che il libero mercato
si sia "autodistrutto" nel 1929, la politica governativa
fu il principale colpevole di tale disastro. Se questo
crollo fosse stato come i precedenti, i tempi duri sareb-
bero finiti al massimo in due o tre anni, o anche prima.
Ma un pasticcio politico senza precedenti prolungò in-
vece la miseria per oltre dieci anni.
La disoccupazione nel 1930 raggiunse una media di
una lieve recessione dell'8,9%, rispetto al 3,2% del
1929. Salì rapidamente fino a raggiungere un picco di
oltre il 25% nel 1933. Fino al marzo 1933, furono gli
anni del presidente Herbert Hoover - un uomo spesso
raffigurato come un campione dell'economia non in-
terventista e del laissez-faire.

“LA PIÙ GRANDE AMMINISTRAZIONE


DELLA SPESA DI TUTTA LA STORIA”

Hoover ha davvero aderito alla filosofia di libero mer-


cato "giù le mani dall'economia"? Nel periodo delle
elezioni del 1932 il suo avversario, Franklin Roosevelt,
non la pensava così. Durante la campagna elettorale,
Roosevelt rimproverò Hoover per aver speso e tassato
34
troppo, aumentato il debito nazionale, soffocato il
commercio e stanziato milioni di dollari per i sussidi di
disoccupazione. Accusò il presidente di spese «sconsi-
derate e stravaganti», di pensare «che dovremmo con-
centrare il controllo di tutto a Washington il più rapi-
damente possibile» e di presiedere «la più grande
amministrazione di spesa in tempo di pace di tutta la
storia»18. Il compagno di corsa di Roosevelt, John Nan-
ce Garner, accusò Hoover di «guidare il Paese sulla via
del socialismo»19. Contrariamente all'opinione conven-
zionale su Hoover, Roosevelt e Garner avevano assolu-
tamente ragione.
Il coronamento della follia dell'amministrazione Hoo-
ver fu il dazio Smoot-Hawley, approvato nel giugno
1930. Tale dazio si aggiungeva alla Fordney-
McCumber Tariff del 1922, che aveva già messo in crisi
l'agricoltura americana nel decennio precedente. La
legislazione più protezionista della storia degli Stati
Uniti, la Smoot-Hawley Tariff, chiuse virtualmente le
frontiere alle merci straniere e diede il via a una feroce
guerra commerciale internazionale. Il professor Barry
Poulson descrive la portata della legge:

18Franklin Delano Roosevelt, “Campaign Address on the Federal


Budget at Pittsburgh, Pennsylvania,” (The American Presidency
Project, 2016), http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=88399.
19 “FDR’s Disputed Legacy,” Time, February 1, 1982, p. 23.

35
La legge ha aumentato le aliquote sull'intera gamma
delle merci soggette a dazio; ad esempio, l'aliquota
media è passata dal 20% al 34% sui prodotti agricoli;
dal 36% al 47% su vini, alcolici e bevande; dal 50%
al 60% su lana e manufatti in lana. In totale, 887 da-
zi sono stati fortemente aumentati e l'atto ha amplia-
to l'elenco delle merci soggette a dazio a 3.218 artico-
li. Una parte cruciale della Smoot-Hawley Tariff era
che molti dazi erano per una quantità fissa di denaro
piuttosto che per una percentuale del prezzo. Poiché i
prezzi sono diminuiti della metà o più durante la
Grande Depressione, il tasso effettivo di questi dazi
specifici è raddoppiato, aumentando la protezione of-
ferta dalla legge.20

La Smoot-Hawley era tanto ampia quanto profonda,


interessando una moltitudine di prodotti. Prima che
venisse approvata, gli orologi dovevano affrontare un
dazio del 45%; questa legge lo portò al 55%, più altri
4,50 dollari per ogni orologio.
Il dazio sul mais e sul burro venne più o meno rad-
doppiato. Anche i crauti vennero tassati per la prima
volta. Tra le poche merci esenti da dazi doganali rima-
ste, stranamente, c'erano sanguisughe e scheletri (forse
come soprannome politico all'American Medical Asso-

Barry W. Poulson, Economic History of the United States (New York:


20

Macmillan Publishing Co., Inc., 1981), p. 508.

36
ciation, si potrebbe dire).
I dazi sull'olio di lino, il tungsteno e la caseina dan-
neggiarono rispettivamente l'industria americana delle
vernici, dell'acciaio e della carta. Più di 800 articoli uti-
lizzati nella produzione di automobili vennero tassati
dalla Smoot-Hawley. La maggior parte delle 60.000
persone impiegate negli stabilimenti statunitensi che
producevano abbigliamento a basso costo con stracci
di lana importati tornò a casa senza lavoro dopo che il
dazio sugli stracci di lana venne aumentato del 140%.21
I funzionari dell'amministrazione e del Congresso cre-
devano che l'innalzamento delle barriere commerciali
avrebbe costretto gli americani a comprare più beni
prodotti in patria, risolvendo così il fastidioso proble-
ma della disoccupazione. Ma essi ignoravano un prin-
cipio importante del commercio internazionale: il
commercio è in definitiva una strada a doppio senso;
se gli stranieri non possono vendere le loro merci qui,
allora non possono guadagnare i dollari che necessita-
no per acquistare qui. O, per dirla in un altro modo, il
governo non può bloccare le importazioni senza con-
temporaneamente bloccare le esportazioni.

21 Reynolds, p. 1419.

37
TU MI TASSI, IO TI TASSO
Le aziende straniere e i loro lavoratori vennero schiac-
ciati dai forti dazi doganali della Smoot-Hawley e i
governi stranieri reagirono presto con le loro stesse
barriere commerciali. Con la loro capacità di vendere
sul mercato americano gravemente ostacolata, ridusse-
ro i loro acquisti di beni americani. L'agricoltura ame-
ricana fu particolarmente colpita. Con un colpo di
penna presidenziale, gli agricoltori statunitensi persero
quasi un terzo dei loro mercati. I prezzi agricoli crolla-
rono e decine di migliaia di contadini andarono in
bancarotta. Un moggio di grano che nel 1929 veniva
venduto a 1 dollaro nel 1929, nel 1932 poteva essere
venduto a soli 30 centesimi.
Con il crollo dell'agricoltura, si registrarono numeri
record di fallimento delle banche rurali, trascinando
verso il fallimento centinaia di migliaia di clienti. No-
vemila banche chiusero i battenti negli Stati Uniti tra il
1930 e il 1933. Il mercato azionario, che aveva recupe-
rato gran parte del terreno che aveva perso dall'ottobre
precedente, crollò di 20 punti il giorno in cui Hoover
firmò la Smoot-Hawley come legge, e cadde quasi sen-
za tregua per i due anni successivi.
(L'apice del mercato, misurato dalla media industriale
Dow Jones, fu fissato il 3 settembre 1929 a 381. Il 13
novembre del 1929 raggiunse il minimo di 198, per poi
rimbalzare a 294 nell'aprile del 1930. Scese ancora una
38
volta, mentre il conto dei dazi si dirigeva verso la scri-
vania di Hoover nel mese di giugno e raggiunse il mi-
nimo solo due anni più tardi, a soli 41. Ci vorrà un
quarto di secolo prima che il Dow salga di nuovo a
381).
La contrazione del commercio mondiale causata dalle
guerre commerciali contribuì a preparare il terreno per
la Seconda guerra mondiale qualche anno dopo. Nel
1929 il resto del mondo doveva ai cittadini americani
30 miliardi di dollari. La Repubblica di Weimar, in
Germania, stava lottando per pagare l'enorme debito
dovuti ai risarcimenti imposti dal disastroso Trattato
di Versailles.
Quando i dazi doganali rendevano quasi impossibile
per gli uomini d'affari stranieri vendere le loro merci
sui mercati americani, il peso dei loro debiti diventava
enormemente più pesante e faceva arrabbiare i dema-
goghi come Adolf Hitler. «Dove le merci non attraver-
sano le frontiere, lo faranno gli eserciti»22, avverte una
vecchia ma dolorosamente vera massima.

LIBERO MERCATO O PRANZO GRATIS?


Dovrebbe bastare la sola Smoot-Hawley per mettere a

22 Celebre aforisma di Frédéric Bastiat

39
tacere il mito che Hoover fosse un sostenitore del libe-
ro mercato, ma c'è molto di più nella storia degli errori
interventisti della sua amministrazione. Dopo neanche
un mese dal crollo del mercato azionario, egli convo-
cava conferenze con i dirigenti d'azienda con l'obietti-
vo di farli discutere per mantenere i salari artificial-
mente alti, anche se sia i profitti sia i prezzi erano in
calo.
I prezzi al consumo crollarono di quasi il 25% tra il
1929 e il 1933, mentre i salari nominali diminuirono in
media solo del 15% - il che si traduce in un sostanziale
aumento dei salari in termini reali, una componente
importante del costo dell'attività.
Come osserva l'economista Richard Ebeling, «La poli-
tica dei 'salari alti' dell'amministrazione Hoover e dei
sindacati ... è riuscita a far uscire dal mercato del lavo-
ro solo i lavoratori con bassi stipendi, generando un
crescente circolo vizioso di disoccupazione.»23
Hoover aumentò drasticamente la spesa pubblica per i
programmi di sovvenzione e di soccorso. Nell'arco di
un solo anno, dal 1930 al 1931, la quota del reddito na-
zionale lordo del governo federale salì dal 16,4% al

23Richard M. Ebeling, “Monetary Central Planning and the State,


Part XI: The Great Depression and the Crisis of Government Inter-
vention,” Freedom Daily (Fairfax, Virginia: The Future of Freedom
Foundation, November 1997), p. 15.

40
21,5%.24
La burocrazia agricola di Hoover distribuì centinaia di
milioni di dollari ai coltivatori di grano e di cotone, an-
che se le nuove tariffe spazzarono via i loro mercati. La
sua Reconstruction Finance Corporation stanziò altri
miliardi di dollari in sussidi alle imprese. Commen-
tando decenni dopo l'amministrazione di Hoover, Rex-
ford Guy Tugwell, uno degli architetti delle politiche
di Franklin Roosevelt degli anni '30, spiegò: «All'epoca
non lo ammettemmo, ma praticamente l'intero New
Deal fu estrapolato dai programmi avviati da Hoo-
ver».25
Anche se Hoover all'inizio fece abbassare le tasse per i
cittadini americani più poveri, Larry Schweikart e Mi-
chael Allen nella loro travolgente storia A Patriot's Hi-
story of the United States: From Columbus's Great Discove-
ry to the War on Terror sottolineano che egli «non offri-
va alcun incentivo ai ricchi per investire in nuovi stabi-
limenti per stimolare le assunzioni». Aveva anche tas-
sato gli assegni bancari, provvedimento «che accelerò
il declino della disponibilità di denaro, penalizzando le

24Paul Johnson, A History of the American People (New York: Harper-


Collins Publishers, 1997), p. 740.
25 Ibid., p. 741.

41
persone che facevano uso di assegni».26
Nel settembre del 1931, con il crollo della massa mone-
taria e l'economia che risentiva dell'impatto della
Smoot-Hawley, la Fed impose il più grande aumento
del suo tasso di sconto della storia. I depositi bancari
scesero del 15% entro quattro mesi, e un notevole calo
deflazionistico della massa monetaria della nazione
persistette per tutta la prima metà del 1932.
Sommando l'errore di dazi elevati, sussidi enormi e
politica monetaria deflazionistica27, il Congresso ap-

26 Larry Schweikart e Michael Allen, A Patriot’s History of the United


States: From Columbus’s Great Discovery to the War on Terror (New York:
Sentinel, 2004), p. 553.
27 Deflazione: la deflazione è un fenomeno che occorre quando la
moneta diventa più preziosa e più scarsa in relazione alla domanda.
Secondo l'economista Joseph Salerno, ci sono quattro tipi di defla-
zione: Growth Deflation, Cash-Building Deflation, Bank-Credit Defla-
tion e Confiscatory Deflation.

Growth Deflation è l'aumento della produzione ad un ritmo più rapido


rispetto a quello della svalutazione della moneta, che ne determina,
perciò, la relativa valutazione. Questo è ciò che abbiamo visto nel
corso della Storia, grazie ai costanti incrementi della produttività e ai
progressi tecnologici. Ad esempio, il prezzo dei dispositivi elettronici
è diminuito nel tempo a causa degli enormi progressi tecnologici. Di
conseguenza, il potere d'acquisto della valuta è aumentato per questi
prodotti. Questo genere di deflazione è benefico perché aumenta la
soddisfazione dei consumatori.

Cash-Building Deflation è l'aumento della domanda di valuta con lo


scopo di risparmio. Questa deflazione non è esattamente negativa, in
42
provò e Hoover firmò il Revenue Act del 1932. Il più
grande aumento delle tasse nella storia in tempo di pa-
ce, che raddoppiò l'imposta sul reddito. La fascia alta
fu più che raddoppiata, passando dal 24% al 63%.
Le esenzioni vennero abbassate; il credito d'imposta
sul reddito fu abolito; le imposte sulle società e sulle

quanto rispecchia l’evoluzione nelle preferenze temporali degli agen-


ti. Gli individui decidono di risparmiare di più per consumare in fu-
turo. È un tipo di deflazione che si trova d’accordo con il normale
funzionamento del mercato.

Bank-Credit Deflation è un tipo di deflazione che si verifica a causa


delle riserve frazionarie. Quando i depositanti prelevano il loro denaro
e si rendono conto che molto probabilmente le banche non dispon-
gono di moneta fisica sufficiente per tutti, la corsa generale alla mo-
neta ne aumenta il valore. Questo può risultare addirittura in una
crisi sistemica, perché gli individui diventeranno sospettosi nei con-
fronti delle altre banche, e potranno agire analogamente. Il risultato
sarà una crescente domanda per moneta, che ne provocherà l'ap-
prezzamento. Questo tipo di deflazione non è buono, perché si veri-
fica a causa dell'errata percezione degli agenti nel credere che le ban-
che abbiano davvero tutta la quantità di moneta che affermano di
avere.

Confiscatory Deflation si verifica quando i governi usano l'inflazione


come scusa per confiscare i risparmi degli individui. Questa azione
non tiene conto del diritto di proprietà delle persone perché esse
non possono usare ciò che appartiene loro. Siccome qualsiasi ag-
gressione alla proprietà è causa di inefficienza economica (nonché di
svariate distorsioni nel mercato), questo genere di deflazione non è
auspicabile.

43
proprietà immobiliari furono aumentate; furono impo-
ste nuove tasse sulle donazioni, sulla benzina e sulle
automobili; e i tassi postali furono fortemente aumen-
tati.
Quale serio studioso potrebbe forse osservare il mas-
siccio intervento economico dell'amministrazione
Hoover e dire che gli effetti inevitabilmente deleteri
sono colpa del libero mercato?
Schweikart e Allen ci riportano la loro versione:

Nel 1933 i numeri prodotti da questa commedia degli


errori erano sconcertanti: il tasso di disoccupazione
nazionale raggiungeva il 25%, ma all'interno di al-
cune singole città le statistiche sembravano incom-
prensibili. Cleveland riportò che il 50% della sua for-
za lavoro era disoccupata; Toledo, l'80%; e alcuni
stati avevano addirittura una media superiore al
40%. A causa della doppia spada di Damocle, con il
calo delle entrate e l'aumento della domanda di welfa-
re, l'onere che pesava sulle città spinse molti comuni
sull'orlo del baratro. Le scuole di New York chiusero
i battenti, e agli insegnanti di Chicago furono dovuti
circa 20 milioni di dollari. Le scuole private, in molti
casi, fallirono completamente. Uno studio governati-
vo ha scoperto che nel 1933 circa 1.500 college erano
falliti e la vendita di libri era crollata. Il sistema bi-
bliotecario di Chicago non acquistò un solo libro in

44
un anno.28

28 Ibid., p. 554.

45
46
FASE III: IL NEW DEAL
Franklin Delano Roosevelt vinse le elezioni presiden-
ziali del 1932 in modo schiacciante, raccogliendo 472
voti contro i 59 del presidente in carica Herbert Hoo-
ver. La piattaforma del Partito Democratico, il cui
mandato era diretto da Roosevelt, dichiarò: «Crediamo
che la piattaforma del partito a cui è stato affidato il
potere rappresenti un patto con il popolo da rispettare
fedelmente».
Chiedeva una riduzione del 25% della spesa federale,
il pareggio del bilancio federale, una solida moneta il
cui valore doveva essere "preservato da tutti i rischi",
l'allontanamento del governo da aree che appartene-
vano più appropriatamente all'impresa privata e la fi-
ne della "stravaganza" dei sussidi agricoli di Hoover.
Questo è parte di ciò che il candidato Roosevelt aveva
promesso, ma non ha alcuna somiglianza con ciò che il
presidente Roosevelt realizzò effettivamente.
Washington era piena di paura e di fiducia, quando
Roosevelt prestò giuramento il 4 marzo 1933 - paura
che l'economia non si riprendesse e fiducia nel fatto
che il nuovo e risoluto presidente avrebbe potuto fare
la differenza. L'umorista Will Rogers riprese il senti-
mento popolare verso Roosevelt mentre costituiva la
nuova amministrazione: «Tutto il Paese è con lui, solo
per fargli fare qualcosa. Se bruciasse il Campidoglio,
noi tutti applaudiremmo e diremmo: beh, almeno ab-
47
biamo acceso un fuoco».29

NIENTE DA TEMERE SE NON LA PAURA


STESSA

Roosevelt fece davvero la differenza, anche se proba-


bilmente non il tipo di differenza in cui il Paese aveva
sperato. Cominciò con il piede sbagliato quando, nel
suo discorso inaugurale, diede la colpa della Depres-
sione ai "cambiavalute senza scrupoli". Non disse nulla
sul ruolo della cattiva gestione della Fed e poco sulle
follie del Congresso che avevano contribuito al pro-
blema. Come risultato dei suoi sforzi, l'economia sa-
rebbe rimasta in depressione per il resto del decennio.
Adattando una frase dello scrittore del XIX secolo
Henry David Thoreau, Roosevelt aveva notoriamente
affermato nel suo discorso che «non abbiamo nulla da
temere se non la paura stessa». Ma come spiega il Dr.
Hans Sennholz del Grove City College, è stata la poli-
tica stessa di Roosevelt a dimostrare che gli americani
avevano ottimi motivi per aver paura:

Nei suoi primi 100 giorni, si batté strenuamente per


il profitto. Invece di eliminare le barriere alla prospe-
rità erette dal suo predecessore, ne costruì di nuove.

29 “FDR’s Disputed Legacy,” p. 24

48
Colpì in tutti i modi conosciuti l'integrità del dollaro
americano attraverso aumenti quantitativi e deterio-
ramento qualitativo. Si appropriò delle riserve auree
del popolo e successivamente svalutò il dollaro del
40%.30

Frustrato e arrabbiato per il fatto che Roosevelt avesse


abbandonato così rapidamente e completamente la
piattaforma con la quale era stato eletto, il Direttore
del Bureau of the Budget, Lewis W. Douglas si dimise
dopo un solo anno di lavoro. All'Università di Har-
vard, nel maggio del 1935, Douglas fece capire chiara-
mente che l'America si trovava di fronte a una scelta
epocale:

Sceglieremo di sottometterci - questo grande Paese -


al dispotismo della burocrazia, che controllerà ogni
nostro atto, distruggendo l'uguaglianza che abbiamo
raggiunto, riducendoci alla fine alla condizione di
schiavi impoveriti dello Stato? O ci aggrapperemo al-
le libertà per le quali abbiamo lottato per più di mille
anni? È importante capire l'entità della questione che
abbiamo di fronte ... Se scegliamo di non avere una
burocrazia tirannica e oppressiva che controlla le no-
stre vite, che distrugge il progresso, che deprime il
tenore di vita ... allora non dovrebbe essere compito

30 Sennholz, p. 210.

49
del governo federale sottoposto a una democrazia li-
mitare le sue attività a quelle che una democrazia può
trattare adeguatamente, come ad esempio la difesa
nazionale, il mantenimento della legge e dell'ordine,
la protezione della vita e della proprietà, la preven-
zione della disonestà, e ... la protezione dei cittadini
contro ... interessi particolari privilegiati?31

UNA NUOVA TRATTATIVA DEL FONDO DEL


MAZZO

La crisi investì anche il sistema bancario quando il 4


marzo 1933 il nuovo presidente entrò in carica. Il piano
di Roosevelt fu di chiudere le banche e dichiarare una
"vacanza bancaria" che coinvolgesse l’intera nazione.
La sospensione delle attività bancarie iniziò il 6 marzo
(si concluse solo nove giorni dopo) ed è ancora lodata
come un'azione determinante e necessaria dagli apolo-
geti di Roosevelt. Friedman e Schwartz, tuttavia, fanno
capire chiaramente che questa presunta cura fu "peg-
giore della malattia".
I dazi imposti dalla legge Smoot-Hawley, che imple-

31Da The Liberal Tradition: A Free People and a Free Economy di Lewis
W. Douglas, citato in “Monetary Central Planning and the State,
Part XIV: The New Deal and Its Critics,” di Richard M. Ebeling in
Freedom Daily, February 1998, p. 12.

50
mentava politiche protezioniste sul commercio, insie-
me all'incosciente malizia monetaria della Fed furono i
principali colpevoli di aver prodotto le condizioni che
diedero a Roosevelt il movente per privare tempora-
neamente i depositanti dei loro risparmi, inoltre la
chiusura delle banche non migliorò in alcun modo la
situazione generale. «Più di 5.000 banche, ancora in
funzione quando la vacanza bancaria fu dichiarata,
non riaprirono le loro porte quando il provvedimento
di chiusura forzata delle banche fu ufficialmente abro-
gato, e di queste, più di 2.000 non lo fecero mai più»,
riferiscono Friedman e Schwartz.32
L'economista Jim Powell del Cato Institute ha scritto
uno splendido libro sulla Grande Depressione nel
2003, intitolato FDR's Folly: How Roosevelt and His New
Deal Prolonged the Great Depression. Egli sottolinea che
«Quasi tutte le banche fallite si trovavano in Stati con
leggi sull’unità bancaria» - leggi che proibivano alle
banche di aprire filiali e quindi di diversificare i loro
portafogli e di ridurre i rischi. Powell scrive: «Gli Stati
Uniti, con le loro leggi sulle unità bancarie, ebbero mi-
gliaia di fallimenti bancari, mentre il Canada, dove era
permessa l'apertura di filiali, non ha avuto un solo fal-
limento».33

32 Friedman e Schwartz, p. 330.


33 Jim Powell, FDR’s Folly: How Roosevelt and His New Deal Prolonged
the Great Depression (New York: Crown Forum, 2003), p. 32.
51
Stranamente, i critici del capitalismo che amano dare la
colpa al mercato per la Grande Depressione non ne
parlano mai.
Il Congresso conferì al presidente il potere di impa-
dronirsi prima delle riserve auree private dei cittadini
americani e poi di fissare il prezzo dell'oro. Una matti-
na, mentre Roosevelt mangiava le uova a letto, lui e il
segretario del Tesoro Henry Morgenthau decisero di
cambiare il rapporto tra oro e dollari di carta. Dopo
aver soppesato le diverse opzioni, Roosevelt optò per
un aumento del prezzo di 21 centesimi, perché "è un
numero fortunato". Nel suo diario, Morgenthau scris-
se: «Se qualcuno sapesse come abbiamo davvero fissa-
to il prezzo dell'oro attraverso una combinazione di
numeri fortunati, credo che si spaventerebbe».34
Roosevelt in persona sabotò la Conferenza economica
di Londra nel 1933, che fu convocata su richiesta di al-
tre grandi nazioni per abbassare i dazi doganali e ri-
pristinare il gold standard.
Il governo di Washington e la sua spericolata Banca
centrale avevano già mandato al macello lo standard
aureo all'inizio degli anni Trenta. Il completo rifiuto
del sistema aureo da parte di Roosevelt rese possibile
l’eliminazione della maggior parte dei rimanenti osta-

34John Morton Blum, From the Morgenthau Diaries: Years of Crisis,


1928-1938 (Boston: Houghton Mifflin Company, 1959), p. 70.

52
coli all'espansione senza limiti della moneta e del cre-
dito, per i quali la nazione avrebbe pagato un prezzo
elevato negli anni successivi sotto forma di una mone-
ta in veloce svalutazione. Il Sen. Carter Glass mise il
problema bene in chiaro quando avvertì Roosevelt
all'inizio del 1933: «È un disonore, signore. Questo
grande governo, forte delle sue riserve auree, sta in-
frangendo le sue promesse di pagare oro alle vedove e
agli orfani a cui ha venduto titoli di stato, discono-
scendo l'impegno a retribuirli in monete d'oro. Sta in-
frangendo la sua promessa di riscattare la cartamoneta
in monete d'oro al valore attuale. È un disonore, signo-
re».35
Anche se si era impossessato dell'oro del paese, Roo-
sevelt decise di restituire gli alcolici ai bar e ai salotti
d'America. La sua seconda domenica alla Casa Bianca,
a cena, disse: «Penso che questo sarebbe un buon mo-
mento per una birra».36
Quella stessa sera, scrisse un messaggio per chiedere al
Congresso di porre fine al proibizionismo. La Camera
approvò un provvedimento di abrogazione martedì, il
Senato l'approvò il giovedì e, prima della fine dell'an-
no, un numero sufficiente di Stati l'aveva ratificato, co-
sicché il 21° Emendamento diventò parte della Costi-

35 Anderson, p. 315
36 “FDR’s Disputed Legacy,” p. 24.

53
tuzione. Un osservatore, commentando questa notevo-
le svolta degli eventi, raccontò l’aneddoto dei due uo-
mini che camminavano per strada all'inizio del 1933:
uno con una moneta d'oro in tasca e l'altro con una
bottiglia di whisky nel cappotto - l'uomo con la moneta
sarebbe stato considerato un cittadino onesto e l'uomo
con il whisky un fuorilegge; solo un anno dopo le parti
sarebbero state invertite: l’uomo col whisky avrebbe
agito secondo ciò che era permesso dalla legge, l’uomo
con la moneta d’oro avrebbe commesso un reato.
Nel primo anno del New Deal, Roosevelt propose di
spendere 10 miliardi di dollari, mentre le entrate furo-
no di soli 3 miliardi di dollari. Tra il 1933 e il 1936, la
spesa pubblica aumentò di oltre l'83%. Il debito federa-
le salì alle stelle del 73%.
Roosevelt convinse il Congresso a creare un sistema di
previdenza sociale nel 1935 e a imporre la prima legge
completa sul salario minimo nazionale nel 1938. Men-
tre tutt'oggi riceve un grande credito per queste due
misure dal grande pubblico, molti economisti hanno
una prospettiva diversa. La legge sul salario minimo
esclude dal mercato del lavoro molte persone inesper-
te, i giovani, i poco qualificati e gli svantaggiati. (Per
esempio, le disposizioni sul salario minimo approvate
come parte di un'altra legge nel 1933 hanno fatto per-
dere il lavoro a circa 500.000 neri).37

37 Anderson, p. 336.
54
Studi e stime attuali rivelano che la previdenza sociale
è diventata la prospettiva di un incubo a lungo termi-
ne, tanto che per essere mantenuta com’è sarebbe ne-
cessario privatizzarla o aumentare stratosfericamente
le già elevate imposte necessarie per tenerla a galla.
Roosevelt si assicurò l'approvazione del Agricultural
Adjustment Act (Legge sull’adeguamento agricolo) che
riscosse una nuova tassa sui trasformatori artigianali
di prodotti agricoli, utilizzando le entrate per supervi-
sionare la distruzione in massa delle coltivazioni e del
bestiame. Gli agenti federali dovettero assistere al
brutto spettacolo di campi di cotone, grano e mais per-
fettamente arati, sistematicamente distrutti (i muli do-
vevano essere convinti a calpestare i raccolti; quando
erano stati addestrati, naturalmente, a camminare tra i
filari). Buoi, pecore e maiali sani venivano macellati e
seppelliti in fosse comuni. Il segretario all'Agricoltura
Henry Wallace diede personalmente l'ordine di macel-
lare 6 milioni di piccoli maiali prima che crescessero a
grandezza naturale. L'amministrazione pagò per la
prima volta gli agricoltori volta perché non lavorassero
affatto. Anche se l'AAA aveva aiutato gli agricoltori
riducendo le forniture e aumentando i prezzi, avrebbe
potuto farlo solo ferendo milioni di altri che avrebbero
pagato un prezzo maggiore o si sarebbero accontentati
di meno cibo e vettovaglie.

55
AQUILE BLU, ANATRE ROSSE
Forse l'aspetto più radicale del New Deal fu il National
Industrial Recovery Act, approvato nel giugno del
1933, che creò una nuova e massiccia burocrazia chia-
mata National Recovery Administration. Sotto il NRA,
la maggior parte delle industrie manifatturiere fu im-
provvisamente costretta a entrare in cartelli imposti
dal governo. I codici che regolavano i prezzi e le con-
dizioni di vendita trasformarono brevemente gran par-
te dell'economia americana in un intreccio di accordi in
pieno stile fascista, mentre il NRA era finanziato da
nuove tasse sulle industrie che controllava. Alcuni
economisti hanno stimato che il NRA aumentò i costi
per chi voleva commerciare di una media del 40% -
non qualcosa di cui un'economia depressa avesse biso-
gno per la ripresa.
L'impatto economico del NRA fu immediato e potente.
Nei cinque mesi che precedettero il passaggio al nuovo
emendamento, furono evidenti alcuni segnali di ripre-
sa: l'occupazione nelle fabbriche e i salari aumentarono
rispettivamente del 23% e del 35%. Poi arrivò il NRA,
che ridusse gli orari di lavoro, aumentò i salari in mo-
do arbitrario ed impose altri nuovi costi alle imprese.
Nei sei mesi successivi all'entrata in vigore della legge,
la produzione industriale scese del 25%. Benjamin M.
Anderson scrive: «Il NRA non è stato una misura di
rilancio. Era una misura anti-ripresa ... Per tutto il pe-

56
riodo del NRA la produzione industriale non riuscì ad
aumentare neanche in confronto al solo periodo del
luglio 1933, quando furono riscontrati segnali di ripre-
sa prima dell'entrata in vigore del NRA.»38
L'uomo che Roosevelt scelse per dirigere lo sforzo del
NRA fu il generale Hugh "Iron Pants" Johnson, un bul-
lo profano, dalla faccia rossa e pubblico ammiratore
del dittatore italiano Benito Mussolini.
Dalle parole di Thundered Johnson: «Possa Dio Onni-
potente avere pietà di chiunque tenti di interferire con
l'Aquila Blu» (il simbolo ufficiale del NRA, che un se-
natore definì in modo canzonatorio "l'anatra sovieti-
ca"). Johnson minacciò personalmente coloro che si sa-
rebbero rifiutati di rispettare il NRA di boicottaggio
pubblico e di riservare per loro "un pugno sul naso".
Alla fine, c'erano più di 500 codici e regolamenti del
NRA, «che andavano dalla produzione di parafulmini
alla fabbricazione di corsetti e reggiseni, vessavano più
di 2 milioni di datori di lavoro e 22 milioni di lavorato-
ri.»39
C'erano codici per la produzione di tonico per capelli,
guinzagli per cani e persino commedie musicali. Un
sarto del New Jersey di nome Jacob Maged fu arrestato

38 Ibid., pp. 332-334.


39 “FDR’s Disputed Legacy,” p. 30.

57
e mandato in prigione per il "crimine" di aver stirato
un abito per 35 centesimi anziché rispettando il "Codi-
ce del sarto" che prevedeva un salario di 40 centesimi,
così prescritto dal NRA.
Nel “mito di Roosevelt”, lo storico John T. Flynn descri-
ve come i partigiani del NRA a volte conducessero i
loro "affari":

i vertici del NRA scoprirono che non esisteva alcun


modo per far rispettare le regole che avevano imposto:
le transazioni sul mercato nero crebbero incontrolla-
bilmente. Solo i metodi di polizia più violenti avevano
qualche effetto nel far rispettare le regole. Nell'indu-
stria dell'abbigliamento di Sidney Hillman l'autorità
che sorvegliava sulle possibili infrazioni al codice fa-
ceva largo impiego delle forze di polizia. Si aggirava-
no per il distretto dell'abbigliamento come truppe
d'assalto: potevano entrare nella fabbrica di un uomo,
mandarlo fuori, mettere in fila i suoi dipendenti, sot-
toporli a minuziosi interrogatori e rovistare repenti-
namente tra i suoi libri contabili. Il lavoro notturno
venne proibito, squadroni mobili di queste polizie
private attraversavano in giacca e cravatta il quartie-
re, sfondando le porte di attività commerciali con le
asce, alla ricerca di uomini che stavano commettendo
il gravissimo crimine di aver cucito un paio di panta-
loni durante le ore notturne. Molte autorità garanti
di tali regolamentazioni ci tennero a rivelare che,

58
senza l’uso di questi metodi violenti, non ci si sarebbe
potuta aspettare l’osservanza delle regole imposte,
poiché la maggior parte degli individui le avrebbero
semplicemente ignorate.40

I COMMISSARI DELL’ALFABETO
Successivamente a questi avvenimenti, Roosevelt fir-
mò una legge che prevedeva un forte aumento delle
imposte sul reddito delle fasce più abbienti della popo-
lazione, inoltre introdusse una ritenuta del 5%, impo-
sta sui dividendi delle società. Nel 1934 varò un altro
aumento delle imposte. In effetti, l'aumento delle im-
poste divenne una delle politiche preferite di Roosevelt
per i successivi dieci anni, culminando in un'aliquota
d'imposta sul reddito del 90%. Il senatore Arthur Van-
denberg del Michigan, che si oppose a gran parte del
New Deal, disapprovò ardentemente i massicci au-
menti delle imposte di Roosevelt: non riusciremo mai a
riavere un’economia sana – disse - continuando a se-
guire l'idea socialista che l'America potrà «accrescere il
benessere della parte più povera» trascinando «verso il
basso la ricchezza degli individui rimasti ancora facol-

40John T. Flynn, The Roosevelt Myth (Garden City, N.Y.: Garden City
Publishing Co., Inc., 1949), p. 45.

59
tosi»41. Vandenberg condannò anche «la resa congres-
suale ai commissari dell'alfabeto che credono profon-
damente che il popolo americano abbia bisogno di es-
sere irreggimentato da potenti signori per essere salva-
to»42.
I commissari dell'agenzia del New Deal, chiamati
“commissari dell’alfabeto” spendevano il denaro dei
contribuenti come se fosse una vera e propria bolgia.
Erano ciò che l'influente giornalista e critico sociale Al-
bert Jay Nock aveva in mente quando ha descritto il
New Deal come «una mobilitazione nazionale, gestita
dallo Stato, di una folle buffoneria e di un tumulto
senza scopo»43.
L'Amministrazione dei Lavori Civili di Roosevelt as-
sunse degli attori per dare spettacoli gratuiti, e biblio-
tecari per impegnarsi in lavori di dubbia utilità, come
catalogare gli archivi. Pagò persino ricercatori per stu-
diare la storia della “spilla da balia”, assunse 100 ope-
rai di Washington per pattugliare le strade con pallon-
cini per spaventare gli storni lontano dagli edifici pub-

C. David Tompkins, Senator Arthur H. Vandenberg: The Evolution of a


41

Modern Republican, 1884-1945 (East Lansing, MI: Michigan State


University Press, 1970), p. 157.

42 Ibid., p. 121.
43 Albert J. Nock, Our Enemy, the State (online at
www.barefootsworld.net/ nockoets1.html), Chapter 1, Section IV.

60
blici e mise uomini sul libro paga statale per inseguire i
rotolacampi e le foglie autunnali nei giorni di vento.
L’Agenzia Per il Controllo delle opere pubbliche
(CWA), quando iniziò i lavori nell'autunno del 1933,
avrebbe dovuto seguire un programma che si auspica-
va fosse di breve durata. Roosevelt assicurò al Con-
gresso nel suo messaggio sullo stato dell'Unione che
«ogni nuovo programma di questo verrà abolito entro
un anno». «Il governo federale», disse il presidente,
«deve e dovrà abbandonare questa attività di sostegno:
non sono disposto a fermare ulteriormente l’iniziativa
e la vitalità del nostro popolo ricorrendo sistematica-
mente alla donazione di denaro, di sacchi della spesa,
di qualche saltuario lavoretto settimanale come taglia-
re l'erba, rastrellare le foglie o raccogliere le carte nei
parchi pubblici».
Harry Hopkins fu posto a capo dell'agenzia e più tardi
disse: «Ho quattro milioni di lavoratori alle mie di-
pendenze, ma per l'amor di Dio, non chiedetemi cosa
stiano facendo».
Il CWA si concluse nel giro di pochi mesi, ma fu sosti-
tuito da un altro programma di soccorso temporaneo
che andò ad evolversi nell'Amministrazione per il Pro-
gresso dei Lavori, o WPA, entro il 1935. Oggi è cono-
sciuto come lo stesso programma governativo che ha
dato origine al nuovo termine, "boondoggle" (i boon-
doggle sono accessori ottenuti tramite l’intreccio di fi-
lamenti in tessuto, cuoio o plastica. Durante il New
61
Deal questa pratica ricreativa divenne particolarmente
comune tra i lavoratori che ricevettero contributi statali
pur non avendo alcuna occupazione, in seguito il ter-
mine “boondoggle” venne accostato alle opere incom-
piute od inutilizzate progettate dal New Deal), poiché
ne "produsse" inutilmente molto più dei 77.000 ponti e
dei 116.000 edifici che i suoi sostenitori furono soliti
indicare come prova della sua efficacia.44
Con buona ragione, i critici derisero spesso l’acronimo
WPA accostandogli lo slogan "We Piddle Around"
(Oziamo in giro). In Kentucky, i lavoratori del WPA
catalogarono 350 modi diversi di cucinare gli spinaci.
L'agenzia diede lavoro a 6.000 "attori", anche se il sin-
dacato degli attori della nazione contava all’epoca solo
4.500 membri.
Centinaia di lavoratori del WPA furono utilizzati per
raccogliere i contributi per la campagna elettorale dei
candidati del Partito Democratico.
In Tennessee, i lavoratori del WPA furono licenziati
quando si rifiutarono di donare il 2% del loro salario al
governatore in carica.
Nel 1941, solo il 59% del budget del WPA fu destinato
a pagare i costi del lavoro; il resto veniva risucchiato
dall'amministrazione e dalle spese generali. I redattori

44Martin Morse Wooster, “Bring Back the WPA? It Also Had a


Seamy Side,” Wall Street Journal, September 3, 1986, p. A26.

62
di New Republic chiesero: «Ha [Roosevelt] la statura
morale per ammettere ora che il WPA è stato un gesto
politico frettoloso e spropositato, il quale si è rivelato
essere un miserabile fallimento e che dovrebbe essere
abolito?»45
L'ultimo dei progetti del WPA non fu eliminato fino al
luglio 1943. Roosevelt fu lodato per i suoi atti "creatori
- dal nulla - di posti di lavoro" come il CWA e il WPA.
Molti pensano che abbiano contribuito ad alleviare la
Depressione. Quello di cui non si rendono conto è che
fu proprio la totalità degli armeggi di Roosevelt a pro-
lungare la Depressione, impedendo in gran parte ai
disoccupati di trovare un vero lavoro per un lungo pe-
riodo.
La stupefacente lista di spese degeneri che emerse da
questi programmi di lavoro rappresentò un dirotta-
mento di risorse preziose verso scopi politicamente
motivati ed economicamente controproducenti.
Una breve analogia illustrerà questo punto. Se un la-
dro va di casa in casa a derubare tutti quelli del quar-
tiere, poi si dirige verso un vicino centro commerciale
per spendere il suo maltolto, non si dà per scontato
che, poiché la sua spesa ha "stimolato" i negozi del cen-
tro commerciale, abbia in tal modo svolto un servizio
nazionale o fornito un beneficio economico generale.

45 Ibid.

63
Allo stesso modo, quando il governo assume qualcuno
per catalogare i tanti modi di cucinare gli spinaci, il
suo stipendio, sostenuto dalle tasse, non può essere
conteggiato come un aumento netto dell'economia
perché la ricchezza utilizzata per pagarlo è stata sem-
plicemente deviata, non creata. Gli economisti oggi
devono ancora combattere questo "pensiero magico"
ogni volta che viene proposta una maggiore spesa
pubblica - come se il denaro non provenisse da cittadi-
ni produttivi, ma piuttosto dalla fatina dei denti.

UNA SORPRENDENTE MARMAGLIA DI IM-


PUDENTI NULLITÀ

Gli interventi economici disordinati di Roosevelt ot-


tennero credito da persone che davano grande valore
all'apparente attrattiva suscitata dal potere e alla pre-
minenza riservata ai ruoli di comando i quali danno
l’opportunità di "fare qualcosa". Nel frattempo, la
grande maggioranza degli americani restò paziente.
Vollero tanto dare a questa carismatica vittima della
polio e all'ex governatore di New York il beneficio del
dubbio. Ma Roosevelt aveva sempre avuto i suoi de-
trattori, che sarebbero diventati sempre più numerosi
con il passare degli anni. Uno di loro era l'inimitabile
"Sage of Baltimore", H.L. Mencken, che retoricamente
lanciò in forma di accusa qualunque cosa tranne il la-

64
vandino della propria cucina contro il presidente. Paul
Johnson riassume così Mencken:

Mencken eccelleva nell'attaccare il trionfante Roose-


velt, la cui ventata di collettivismo fraudolento lo
riempiva di autentico disgusto. Era il "Fuhrer", il
"Ciarlatano", circondato da "una sorprendente
marmaglia di impudenti nullità", "una banda di pe-
dagoghi mezzi istruiti, avvocati non costituzionali,
telecineti con il potere di sollevare gli oggetti con lo
sguardo e altri maghi d’osteria". Il suo New Deal era
un "racket politico", una "serie di stupendi miracoli
fasulli", con i suoi "continui appelli all'invidia e
all'odio di classe", guardando al governo come "una
mucca da latte con 125 milioni di tettarelle" e segna-
to da "frequenti rifiuti di ottemperare a categorici
impegni".46

SEGNI DI VITA
L'economia americana fu presto sollevata dal peso di
alcuni dei peggiori eccessi del New Deal quando la
Corte Suprema mise fuori legge il NRA nel 1935 e
l'AAA nel 1936, guadagnandosi l'eterna ira e derisione
di Roosevelt. Riconoscendo gran parte di ciò che Roo-

46 Johnson, p. 762.

65
sevelt aveva fatto come incostituzionale, i "nove vec-
chi" della Corte buttarono via altri atti e programmi
minori che avevano ostacolato la ripresa. Liberata dal
peggio del New Deal, l'economia dimostrò alcuni se-
gni di vita. La disoccupazione scese al 18% nel 1935, al
14% nel 1936, e fu ancora più bassa nel 1937. Ma nel
1938 ritornò al 20%, quando l'economia subì un nuovo
crollo. Il mercato azionario crollò di quasi il 50% tra
l'agosto 1937 e il marzo 1938. Lo "stimolo economico"
del New Deal di Franklin Delano Roosevelt aveva rag-
giunto un vero e proprio "risultato senza precedenti":
una depressione all'interno di una depressione!

66
67
FASE IV: IL PIANO WAGNER
Alcuni difensori di Roosevelt, come l'economista Paul
Krugman, attribuiscono il crollo del 1937-38 alla ridu-
zione della spesa pubblica. In maniera tipicamente
keynesiana, sostengono che l'economia crollò quell'an-
no perché il presidente, dopo aver quasi raddoppiato
la spesa federale nel suo primo mandato, cedette alle
richieste del GOP (il Partito Repubblicano, anche cono-
sciuto come Grand Old Party) di contenere le spese.
Ma, in termini reali, la riduzione si può considerare
modesta: meno dell'1% del PIL. Anche per gli standard
keynesiani, questo inconveniente difficilmente avrebbe
potuto produrre il conseguente declino di un terzo del-
la produzione industriale.
Infatti, quando il governo spende meno, libera risorse
per essere meglio utilizzate dal settore privato. Sem-
mai, i minuscoli e temporanei tagli alla spesa di Roo-
sevelt aiutarono e sicuramente non arrecarono alcun
danno all'economia. Altre cose spiegano interamente la
debacle del 1937-38. Il palcoscenico del crollo fu prepa-
rato con l'approvazione della legge nazionale sui rap-
porti di lavoro del 1935, meglio conosciuta come "legge
wagneriana" e la "Magna Carta del lavoro organizza-
to". Per citare ancora Sennholz:

questa legge rivoluzionò i contratti di lavoro ameri-


cani. Portò le controversie di lavoro fuori dai tribuna-
68
li fino ad un'agenzia federale di recente creazione, il
National Labor Relations Board, che diventò procura-
tore, giudice e giuria, tutto in uno. I simpatizzanti
sindacali del Consiglio pervertirono ulteriormente
questa legge, che già concedeva immunità e privilegi
legali ai sindacati. Gli Stati Uniti abbandonarono co-
sì una grande conquista della civiltà occidentale: l'u-
guaglianza davanti alla legge, ovvero l’isonomia.

La legge Wagner, o National Labor Relations Act, fu


promulgata in reazione alla nullità della Corte Supre-
ma del NRA e dei suoi codici del lavoro. L'obiettivo
era quello di schiacciare tutte le resistenze dei datori di
lavoro assecondando i sindacati. Qualsiasi cosa un da-
tore di lavoro potesse decidere di fare per autodifesa
diventò una "pratica di lavoro sleale" punibile dal
Consiglio. La legge non solo obbligò i datori di lavoro
a trattare e stipulare accordi solo con i sindacati desi-
gnati come rappresentanti dei lavoratori, ma le succes-
sive decisioni del Consiglio resero illegale qualunque
resistenza alle richieste dei leader sindacali.47
Armati di questi nuovi poteri radicali, i sindacati anda-
rono incontro alla creazione di una frenetica organiz-
zazione militante: minacce, boicottaggi, scioperi, pic-
chetti, sequestri di beni personali e violenza diffusa
spinsero la produttività verso il basso e la disoccupa-

47 Sennholz, pp. 212-213.

69
zione verso l'alto. L'adesione ai sindacati della nazione
salì vertiginosamente: nel 1941 il numero di americani
nei sindacati era due volte e mezzo superiore a quello
del 1935. Lo storico William E. Leuchtenburg, pur non
essendo egli stesso certamente un sostenitore della li-
bera impresa, osservò: «I cittadini con un occhio di ri-
guardo per la proprietà erano spaventati dal sequestro
delle fabbriche, arrabbiati quando gli scioperanti inter-
ferivano con la posta e le proprie consegne, irritati
dall'intimidazione dei monopoli, e allarmati dagli
squadroni brulicanti di lavoratori che marciavano, o
minacciavano di marciare, di città in città».48

UN CLIMA OSTILE PER GLI AFFARI


Dalla Casa Bianca, sulla scia della legge Wagner, arri-
vò una fragorosa raffica di insulti contro gli affari. Gli
uomini d'affari, ammise furiosamente Roosevelt, erano
considerati ostacoli sulla strada della ripresa. Li definì
"monarchici economici" dicendo che gli uomini d'affari
come appartenenti a questa classe erano "inetti".49
Fece seguito alle ingiurie un'ondata di nuove misure

48William E. Leuchtenburg, Franklin D. Roosevelt and the New Deal,


1932- 1940 (New York: Harper and Row, 1963), p. 242. 37 Ib
49 Ibid., pp. 183-184.

70
punitive: vennero imposte nuove restrizioni sul merca-
to azionario, venne riscossa un'imposta sui profitti del-
le compagnie private, denominata "imposta sugli utili
non distribuiti". «Queste imposte assorbirono la ric-
chezza creata attraverso duri sforzi», scrive l'economi-
sta Robert Higgs, «lasciando pochi dubbi sul fatto che
il presidente e la sua amministrazione intendessero fa-
re pressioni attraverso il Congresso affinché potessero
estrarre la maggior parte di ricchezza possibile dai
redditi più elevati, responsabili di avere la maggiore
autonomia decisionale all'interno del territorio nazio-
nale in materia di investimenti privati».50
In un periodo di appena due mesi, alla fine del 1937, il
mercato dell'acciaio - un barometro economico chiave -
crollò dall'83% della capacità produttiva al 35%.
Quando questa notizia fece capolino, Roosevelt si sta-
va godendo una vacanza naturalistica di nove giorni
con tanto di attrezzatura per la pesca, in un momento
decisamente inopportuno. Il New York Herald Tribu-
ne lo implorò di tornare al lavoro per arginare la nuo-
va depressione. Ciò di cui c'era bisogno, dissero i re-
dattori del giornale, era un rovesciamento della politi-
ca di Roosevelt fatta «di amarezza e odio, nonché di
invidia sociale e ripercussioni personali contro i dissi-

50 Robert Higgs, “Regime Uncertainty: Why the Great Depression


Lasted So Long and Why Prosperity Resumed After the War,” The
Independent Review, Volume I, Number 4: Spring 1997, p. 573.

71
denti e tutti coloro che non si trovavano in accordo con
lui».51
L'editorialista Walter Lippmann scrisse nel marzo 1938
che «senza quasi nessuna importante eccezione, ogni
misura a cui si sia interessato negli ultimi cinque mesi
(il presidente Roosevelt) ha avuto sempre la conse-
guenza di ridurre o scoraggiare la produzione di ric-
chezza».52
Come sottolineato in precedenza in questo saggio, con
la versione di Herbert Hoover del "New Deal" si era
arrivati all’aumento dell'aliquota marginale massima
dell'imposta sul reddito dal 24 al 63% nel 1932. Ma egli
era un gran capitalista in confronto al suo successore,
dal punto di vista fiscale: sotto Roosevelt, l'aliquota
massima fu portata dapprima al 79% e poi al 90%. Lo
storico dell'economia Burton Folsom osserva che nel
1941 Roosevelt propose addirittura un'enorme aliquota
marginale del 99,5% su tutti i redditi superiori ai
100.000 dollari. «Perché no?», obiettò quando un con-
sulente mise in dubbio l'idea.53

51 Gary Dean Best, The Critical Press and the New Deal: The Press Versus
Presidential Power, 1933-1938 (Westport, Connecticut: Praeger Pub-
lishers, 1993), p. 130.

52 Ibid., p. 136.
53 Burton Folsom, “What’s Wrong With The Progressive Income Tax?”
Viewpoint on Public Issues, No. 99-18, May 3, 1999, Mackinac Cen-
ter for Public Policy (Midland, Michigan).
72
Dopo il fallimento di quella proposta confiscatoria,
Roosevelt emise un ordine esecutivo per tassare tutti i
redditi superiori ai 25.000 dollari al sorprendente tasso
del 100%. Promosse l'abbassamento dell'esenzione
personale a soli 600 dollari, una tattica che spinse la
maggior parte delle famiglie americane a pagare alme-
no una certa imposta sul reddito per la prima volta
nella storia. Poco dopo, il Congresso revocò l'ordine
esecutivo, ma seguì la riduzione dell'esenzione perso-
nale.54
Nel suo primo mandato, l'amministrazione Roosevelt
aumentò la massima aliquota d'imposta sulle proprietà
immobiliari dal 45% al 70%; la massima aliquota per la
tassa di successione dal 33,5% al 52,5%; e la massima
aliquota d'imposta sul reddito d'impresa dal 12% al
15%, con l'aggiunta di tasse supplementari. Sembrava
che Roosevelt non avesse preso in considerazione
l’idea di un’imposta che non gli piacesse e che potesse
decidere di non approvare.
Nel frattempo, a metà degli anni '30, la Federal Reser-
ve rivide nuovamente la sua politica monetaria, prima
in salita, poi in discesa, poi in netto rialzo con l'entrata
dell'America nella Seconda guerra mondiale. Contribuì
allo slittamento economico del 1937: dall'estate del
1936 alla primavera del 1937, la Fed raddoppiò i requi-

54 Ibid.

73
siti di riserva sulle banche della nazione. L'esperienza
ha dimostrato più volte che una politica monetaria sul-
le montagne russe è sufficiente da sola a produrre
un'economia sulle montagne russe.
Ancora adirato per le sue precedenti sconfitte alla Cor-
te Suprema, Roosevelt cercò nel 1937 di "confezionare"
per la Corte Suprema una proposta che avrebbe per-
messo al presidente di nominare un ulteriore membro
della corte per ogni giudice che avesse raggiunto i 70
anni di età e che non si fosse ritirato. Se questa propo-
sta fosse passata, Roosevelt avrebbe potuto nominare
sei nuovi giudici favorevoli alle sue opinioni, aumen-
tando i membri della corte da nove a quindici. Il suo
piano fallì al Congresso, ma la corte iniziò più tardi ad
approvare le sue politiche dopo che un certo numero
di giudici che gli erano avversi si ritirò. Fino a quando
il Congresso non affossò il piano, tuttavia, le imprese
temevano che una corte favorevole agli obiettivi di
Roosevelt avrebbe appoggiato qualcosa di peggiore
del vecchio New Deal, impedendo così la ripresa degli
investimenti e della fiducia nei mercati.
Lo storico dell'economia Robert Higgs traccia una
stretta connessione tra il livello degli investimenti pri-
vati e il corso dell'economia americana negli anni Tren-
ta. Le implacabili aggressioni dell'amministrazione
Roosevelt - sia a parole sia con i fatti - contro gli affari,
la proprietà e la libera impresa garantirono che il capi-
tale necessario per far ripartire l'economia fosse tassato
74
o costretto a nascondersi. Quando Roosevelt riportò
l'America in guerra nel 1941, allentò la sua agenda an-
ti-business, ma gran parte del capitale della nazione
era ormai già stato dirottato verso lo sforzo bellico in-
vece che verso piani d’espansione economica o verso la
produzione di beni di consumo. Solo quando sia Roo-
sevelt sia la guerra se ne andarono, gli investitori si
sentirono abbastanza sicuri da «mettere in moto il
boom degli investimenti del dopoguerra che ha ali-
mentato il ritorno dell'economia ad una situazione di
prosperità sostenibile».55
Questo punto di vista ottiene il sostegno dei commenti
fatti nel 1937 da uno dei principali investitori del paese
dell'epoca, Lammot du Pont:

L'incertezza regola la situazione fiscale, la situazione


del lavoro, la situazione monetaria e praticamente
tutte le condizioni legali in cui l'industria deve ope-
rare. Le imposte devono salire, scendere o rimanere
dove sono? Non lo sappiamo. Il lavoro deve essere
sindacale o non sindacale? ... Ci sarà inflazione o de-
flazione, più o meno spesa pubblica? ... Ci saranno
nuove restrizioni al capitale, nuovi limiti ai profitti?

55 Higgs, p. 564.

75
... È impossibile anche solo indovinare le risposte.56

Molti storici moderni tendono ad essere riflessivamen-


te anticapitalisti e diffidenti nei confronti del libero
mercato; trovano l'esercizio del potere di Roosevelt,
costituzionale o meno, impressionante e storicamente
"interessante". La maggioranza dei sondaggi classifica
costantemente il New Deal in cima alla lista per la
grandezza dell’operato presidenziale, quindi è proba-
bile che si rifiuti l'idea che il New Deal sia stato re-
sponsabile del prolungamento della Grande Depres-
sione. Ma quando un sondaggio rappresentativo a li-
vello nazionale dell'American Institute of Public Opi-
nion nella primavera del 1939 chiese: «Pensi che l'at-
teggiamento dell'amministrazione Roosevelt nei con-
fronti degli affari stia ritardando la ripresa degli affa-
ri?», il popolo americano rispose "sì" con un margine
di oltre 2 a 1. La comunità imprenditoriale si sentiva
ancora più convinta di ciò nel periodo in cui gli effetti
delle manovre politiche erano evidenti e tangibili.57
Nel suo diario privato, il segretario del Tesoro di Roo-
sevelt, Henry Morgenthau, sembrava essere d'accordo.
Scrisse: «Abbiamo provato a spendere soldi, stiamo

56Quoted in Herman E. Krooss, Executive Opinion: What Business


Leaders Said and Thought on Economic Issues, 1920s-1960s (Garden City,
N.Y.: Doubleday and Co., 1970), p. 200.
57 Higgs, p. 577.

76
spendendo più di quanto avessimo mai speso prima
eppure non sembra funzionare... Non abbiamo mai
mantenuto le nostre promesse... sono costretto ad af-
fermare che dopo otto anni di questa amministrazione
abbiamo tanta disoccupazione quanto quella che risul-
tava all’inizio del nostro mandato ed in più un enorme
debito sulle spalle!».58
Alla fine del decennio e 12 anni dopo il crollo del mer-
cato azionario durante il fatidico Giovedì Nero, 10 mi-
lioni di americani si trovavano senza lavoro e il tasso
di disoccupazione superava il 17%. Roosevelt si impe-
gnò nel 1932 a porre fine alla crisi, ma essa persistette
per due mandati presidenziali nonostante innumere-
voli interventi successivi.

L’UNICA MENTE?
Hell Bent for Election è un piccolo libro, purtroppo di-
menticato da tempo, che un lettore interessato a sco-
prire ciò che ha motivato Roosevelt ad agire in un de-
terminato modo potrebbe voler esaminare. È stato
scritto da un confidente di Roosevelt, James P. War-
burg, un banchiere che fu testimone delle elezioni del
1932 e dei primi due anni del primo mandato di Roo-

58 Blum, pp. 24-25.

77
sevelt dall'interno. Warburg, figlio di un importante
finanziere e co-fondatore della Federal Reserve, Paul
Warburg, fu nientemeno che un consulente finanziario
di alto livello per Roosevelt stesso. Deluso dal presi-
dente, lasciò l'amministrazione nel 1934 e scrisse il suo
libro un anno dopo.
Warburg votò per l'uomo che disse queste parole il 2
marzo 1930, come governatore di New York:

la dottrina della regolamentazione e della legislazione


da parte delle "menti dominatrici", nel cui giudizio e
nella cui volontà tutto il popolo può volentieri e tran-
quillamente acconsentire, è stata troppo evidente a
Washington durante questi ultimi dieci anni. Se fosse
possibile trovare delle "menti maestre" così disinte-
ressate, così disposte a decidere senza esitazioni con-
tro i propri interessi personali o i propri pregiudizi
privati, uomini quasi divini nella loro capacità di te-
nere la bilancia della giustizia con una mano equa,
un tale governo potrebbe essere nell'interesse del Pae-
se; ma non ce ne sono nel nostro orizzonte politico,
tantomeno possiamo aspettarci una completa inver-
sione di tutti gli insegnamenti della storia.

Warburg, dopo che il paese ebbe le elezioni nel 1932 ci


racconta che Roosevelt era un uomo la cui performan-
ce successiva assomigliò poco alla piattaforma e alle
promesse su cui correva, tuttavia assomigliò molto a
quelle del candidato socialista di quell’anno, Norman
78
Thomas. Fu il socialista Norman Thomas, non Franklin
Roosevelt, a proporre durante la campagna elettorale
massicci aumenti della spesa federale e del deficit e in-
terventi radicali nell'economia privata - e ha a malape-
na raccolto il 2% dei voti. Quando la polvere si è posa-
ta, dice Warburg, abbiamo ottenuto quello che Thomas
aveva promesso, più di quello per cui Hoover era stato
liquidato, e molto più di quello che lo stesso Roosevelt
avrebbe potuto solamente promettere. Franklin Roose-
velt ha impiegato più "menti esperte" per pianificare
l'economia di tutti i precedenti presidenti messi insie-
me.
Dopo aver dettagliato le promesse e la duplicità, War-
burg offre questa valutazione:

Per quanto non mi piaccia dirlo, è mia sincera con-


vinzione che il signor Roosevelt abbia completamente
perso il senso delle proporzioni. Egli si vede come
l'unico uomo che può salvare il Paese, come l'unico
uomo che può "salvare il capitalismo da sé stesso",
come l'unico uomo che sa cosa è buono per noi e cosa
no. Vede sé stesso come indispensabile. E quando un
uomo pensa a sé stesso come indispensabile...
quell'uomo si caccia nei guai.

Roosevelt era un mago dell'economia? Warburg non


rivela nulla del genere, osservando che Roosevelt fosse
«innegabilmente e scioccamente superficiale su tutto
ciò che riguarda la finanza». Non era guidato dalla lo-
79
gica, dai fatti o dall'umiltà, ma piuttosto «dai suoi de-
sideri emotivi, dalle sue predilezioni e dai suoi pre-
giudizi». «Il signor Roosevelt», scrive Warburg, «mi dà
l'impressione di poter davvero credere a ciò che vuole
credere, di poter davvero pensare ciò che vuole pensa-
re e di poter ricordare ciò che vuole ricordare, più di
chiunque altro abbia mai conosciuto». Osservatori me-
no caritatevoli potrebbero diagnosticare il problema
come "manie di grandezza".
Warburg si lamenta così:

Credo che il signor Roosevelt sia talmente affascinato


dal divertimento di brandire il manganello del leader
della banda a capo della sfilata, così soddisfatto
dell'immagine che vede di sé stesso, che non è più in
grado di riconoscere che il potere umano di guidare è
limitato, che le "nuove disposizioni" per il comando
impartitegli da quei giovani brillanti, membri del suo
fidato gruppo di consiglieri, non sono altro che vec-
chie idee già sperimentate in passato, e che non si può
sostenere l'ordine sociale definito nella Costituzione e
allo stesso tempo minarlo.

Quindi, se Warburg ha ragione (e credo che ce l’abbia),


Franklin Delano Roosevelt ha fuorviato il Paese con le
sue promesse del 1932 e ha messo al comando l'ambi-
zione personale e la brama di potere - non è una cosa
insolita per i politici. In ogni caso, il Paese ha subito
una frode per la quale è stato adescato tramite un ac-
80
cordo che sembrava favorevole solo per scoprire suc-
cessivamente che le vere condizioni sarebbero state
molto meno vantaggiose, in tutto ciò sarebbe stata
l’economia a risentirne. Nel mondo dell'economia e del
libero scambio, la regola è che si ottiene ciò per cui si
paga. Le elezioni del 1932 sono forse l'esempio miglio-
re della regola che prevale troppo spesso nel mondo
politico: si ottiene ciò per cui si è votato contro.

DOV’È FINITA LA LIBERA IMPRESA?


Come mai Roosevelt è stato eletto quattro volte se le
sue politiche intensificarono e prolungarono una cata-
strofe economica? L'ignoranza e la volontà di dare al
presidente il beneficio del dubbio spiegano molto.
Roosevelt batté Hoover nel 1932 con promesse di me-
no governo. Ha invece dato agli americani più gover-
no, ma lo ha fatto con fanfare e chiacchiere roventi che
hanno ipnotizzato un popolo disperato. Quando co-
minciarono a rendersi conto che le sue politiche erano
dannose, arrivò la Seconda guerra mondiale, la gente
si radunò intorno al loro comandante in capo, e c'era
poco desiderio di cambiare la proverbiale “strada vec-
chia per la nuova” tentando di eleggere qualcuno di
nuovo.
Insieme all'olocausto della Seconda guerra mondiale
arrivò una rinascita del commercio tra gli americani e i

81
loro alleati: la distruzione di persone e risorse da parte
della guerra non aiutò l'economia statunitense, ma
questo rinnovato commercio sì. Una rigenerazione del-
la massa monetaria della nazione contrastò gli alti costi
del New Deal, ma portò con sé un problema che ci af-
fligge ancora oggi: un dollaro che compra sempre me-
no beni e servizi anno dopo anno.
La cosa più importante è che l'amministrazione Tru-
man che seguì quella di Roosevelt fu decisamente me-
no desiderosa di danneggiare e colpire gli investitori
privati e, di conseguenza, questi ultimi rientrarono
nell'economia e alimentarono un potente boom eco-
nomico dal dopoguerra in poi. La Grande Depressione
finì finalmente, ma dovrebbe rimanere nella nostra
mente oggi come uno dei più colossali e tragici falli-
menti del governo e delle politiche pubbliche della sto-
ria americana.
La genesi della Grande Depressione risiede nelle irre-
sponsabili politiche monetarie e fiscali del governo sta-
tunitense alla fine degli anni Venti e all'inizio degli an-
ni Trenta. Queste politiche includevano una litania di
passi falsi politici: la cattiva gestione della Banca cen-
trale, i dazi doganali, le tasse sugli incentivi, i controlli
sulla produzione e sulla concorrenza, la distruzione
insensata dei raccolti e del bestiame, e le leggi coerciti-
ve sul lavoro, per citarne solo alcuni. Non è stato il li-
bero mercato a produrre 12 anni di agonia, ma piutto-
sto un pasticcio politico su grande scala.
82
Coloro che possono analizzare gli eventi degli anni
Venti e Trenta e incolpare il capitalismo e il libero mer-
cato per la calamità economica hanno i loro occhi, le
loro orecchie e il loro cervello ben lontani dai fatti reali.
Cambiare il pensiero sbagliato che costituisce gran par-
te dell’informazione convenzionale di oggi su questo
sordido episodio storico è vitale per ravvivare la fede
nel libero mercato e preservare le nostre libertà. La na-
zione è riuscita a sopravvivere sia all'attivismo di
Hoover sia alla ciarlataneria del New Deal di Roose-
velt, e ora l'eredità americana della libertà attende una
riscoperta da parte di una nuova generazione di citta-
dini. Questa volta non abbiamo nulla da temere se non
miti e idee sbagliate.

POST SCRIPTUM: ABBIAMO IMPARATO LA


LEZIONE?

Ottant'anni dopo l'inizio della Grande Depressione, la


letteratura su questo doloroso episodio della storia
americana sta subendo una incoraggiante metamorfo-
si. La valutazione convenzionale che per decenni ha
dominato gli scritti storici ha sostenuto che il libero
mercato causò la debacle e che il New Deal di Roose-
velt salvò il Paese.
Sicuramente, ci sono moltissimi partigiani, ideologi e
ciarlatani poco informati che ancora fanno queste af-
83
fermazioni superficiali. Storici ed economisti seri, tut-
tavia, si sono dati da fare per eliminare le menzogne. Il
saggio che hai appena letto cita molte opere recenti che
meritano un'attenta lettura integrale: nel 2008, Simon
& Schuster hanno pubblicato un nuovo splendido trat-
tato che consiglio vivamente, scritto dal Dr. Burton W.
Folsom, professore dell'Hillsdale College, storico se-
nior della FEE. Il libro si intitola provocatoriamente
New Deal o Raw Deal? Come l'eredità economica di FDR
ha danneggiato l'America. È una delle opere più illumi-
nanti sull'argomento. Contribuirà fortemente a correg-
gere la memoria storica e a educare i nostri concittadi-
ni su ciò che è realmente accaduto negli anni Trenta.
Un'altra grande aggiunta alla letteratura su questo ar-
gomento è apparsa nel 2007, ossia L'uomo dimenticato:
Una nuova storia della Grande Depressione, di Amity
Shlaes. Il fatto che sia stato un bestseller del New York
Times suggerisce che c'è una vera e propria fame di
verità su questo periodo storico. Nel 2004, due econo-
misti dell'UCLA - Harold L. Cole e Lee E. Ohanian -
sono stati co-autori di un affascinante articolo in
un'importante pubblicazione mainstream, il Journal of
Political Economy.
All’interno troviamo questa osservazione: L+la politica
del presidente Franklin Roosevelt ha prolungato la
Grande Depressione di sette lunghi anni. «L'economia
era pronta per una bella ripresa», dimostrano gli auto-
ri, «ma la ripresa è stata bloccata da molte politiche
84
sbagliate».
In un commento alla ricerca di Cole e Ohanian, The
New Deal Debunked (Again)59, l'economista della Loyola
University Thomas Di Lorenzo sottolinea che sei anni
dopo l'entrata in carica di Roosevelt, la disoccupazione
era quasi sei volte superiore al livello precedente alla
depressione, il PIL pro capite, la spesa per i consumi
personali e gli investimenti privati netti erano tutti in-
feriori nel 1939 rispetto al 1929.
«Il fatto che ci sia voluto così tanto tempo agli econo-
misti neoclassici "mainstream" per riconoscere [che le
politiche di Roosevelt abbiano aggravato il disastro]»,
nota DiLorenzo, «è davvero stupefacente», ma comun-
que "meglio tardi che mai".
Gli americani si stanno abituando a disimparare alcu-
ne delle cose che pensavano fossero assolutamente in-
discutibili, sul tema della Grande Depressione, ma
questo purtroppo non significa che abbiamo imparato
le lezioni importanti abbastanza bene da evitare di
commettere di nuovo gli stessi errori.
In effetti, oggi non siamo più vicini a fissare la causa
principale del ciclo economico - una maliziosa idea dei
monetaristi - di quanto non lo fossimo 80 anni fa. La
crisi finanziaria che ha colpito l'America nel 2008 do-

59 Thomas J. DiLorenzo, “The New Deal Debunked (Again)”


(online: mises.org/library/new-deal-debunkedagain).

85
vrebbe essere un campanello d'allarme. Le impronte
dell'ingerenza del governo sono dappertutto. Dal 2001
al 2005, la Federal Reserve ha accelerato la quantità di
massa monetaria, espandendola a un febbrile tasso a
due cifre. Il dollaro è precipitato nei mercati d'oltrema-
re e i prezzi delle materie prime sono saliti alle stelle.
Con le banche a corto di liquidità dalla Fed, i tassi d'in-
teresse sono crollati e i prestiti a rischio a mutuatari di
dubbia reputazione sono aumentati vertiginosamente.
I politici hanno gettato altro carburante sul fuoco degli
incendi bancari, divampati per il prestito di centinaia
di miliardi di dollari in mutui subprime, da parte di
banche già in procinto di esplodere.
Quando la bolla scoppiò, alcuni dei colpevoli che ave-
vano promosso le politiche direttamente responsabili
di averla fatta nascere e crescere, si ripresentarono co-
me nostri soccorritori, mentre sostenevano nuovi in-
terventi, un governo più forte, più inflazione moneta-
ria, credito a tassi di interesse controllati e massicci
salvataggi delle imprese in fallimento. Molti di loro
chiesero anche imposte e dazi doganali più alti, pro-
prio le stesse sciocchezze che causarono una recessione
nel 1930 e la trasformarono in una lunga e profonda
depressione.
I salvataggi di agenzie come Fannie Mae e Freddie
Mac (così come un numero crescente di aziende priva-
te all'inizio dell'autunno 2008) rappresentano una follia
davvero eccessiva ad un prezzo che si potrebbe defini-
86
re monumentale. Non solo noi e le generazioni future
pagheremo per decenni il costo di queste manovre po-
litiche, ma il processo stesso di gettare denaro buono
in favore di denaro cattivo si aggiungerà all'azzardo
morale, favorendo altre decisioni sbagliate e futuri sal-
vataggi e sussidi. Queste sono le cose che minano sia la
libera impresa sia la solidità della moneta. Un'inflazio-
ne molto maggiore per pagare i debiti contratti sarà
inevitabile, e ne pagheremo il prezzo prima o poi.
«Il governo», osserva il noto economista austriaco
Ludwig von Mises, «è l'unica istituzione che può
prendere un bene prezioso come la carta e renderlo
inutile applicandogli l'inchiostro».
Mises descriveva la maledizione dell'inflazione, il pro-
cesso con cui il governo espande la massa monetaria di
una nazione e quindi erode il valore di ogni unità mo-
netaria - il dollaro, il peso, la sterlina, il franco o qual-
siasi altra cosa – come qualcosa che spesso si presenta
sotto forma di prezzi in aumento, che la maggior parte
delle persone confonde con l'inflazione stessa.
La distinzione è importante, perché come spiega così
eloquentemente l'economista Percy Greaves: «Cambia-
re la definizione cambia la responsabilità delle cause».
Definire l'inflazione come l'aumento dei prezzi, come
argomentava l'incapace Jimmy Carter degli anni '70,
lascia intatta l’idea che i colpevoli possano essere gli
sceicchi del petrolio, le carte di credito e le imprese
private e che i controlli dei prezzi siano la risposta più
87
efficace al problema.
Dare una definizione classica dell'inflazione come “un
aumento dell'offerta di denaro e di credito, con prezzi
in aumento come loro conseguenza”, costringe a porsi
una domanda rivelatrice: "Chi causa effettivamente
l’aumento dell’offerta di denaro?” Ovviamente solo
un'entità può farlo legalmente; tutti gli altri che doves-
sero provarci verrebbero chiamati "falsari" e andrebbe-
ro in prigione.
L'economista Milton Friedman sostenne senza ombra
di dubbio che l'inflazione è sempre e comunque una
questione che riguarda la moneta. L'aumento dei prez-
zi non provoca inflazione più di quanto le strade ba-
gnate provochino la pioggia.
Prima della cartamoneta, i governi creavano inflazione
diminuendo il contenuto di metalli preziosi delle loro
monete. L'antico profeta Isaia rimproverò gli israeliti
con queste parole: «Il tuo argento è diventato impuro,
il tuo vino mescolato all'acqua.»
Gli imperatori romani fondevano ripetutamente il de-
nario d'argento e aggiungevano metalli spazzatura fi-
no a quando il denario arrivò a contenere meno
dell'1% d'argento.
I Saraceni di Spagna, per poter coniare più denaro, ta-
gliarono i bordi delle loro monete fino a quando queste
divennero troppo piccole per poter circolare, i prezzi
aumentarono seguendo parimenti l’adeguamento del

88
valore della moneta.
L'aumento dei prezzi non fu l'unica conseguenza
dell'espansione monetaria e creditizia: l'inflazione ero-
de anche il risparmio e incoraggia l'indebitamento,
mina la fiducia e scoraggia gli investimenti, destabiliz-
za l'economia favorendo boom e crolli economici; se
abbastanza grave, può anche spazzare via lo stesso go-
verno responsabile in prima persona dell’insuccesso di
certe politiche monetarie.
Eventi del genere possono portare ad afflizioni ancora
peggiori. Hitler e Napoleone salirono entrambi al pote-
re, in parte a causa del caos dell'inflazione galoppante.
Tutto ciò solleva molte questioni che gli economisti
hanno a lungo dibattuto: chi o cosa dovrebbe determi-
nare l'offerta di denaro di una nazione? Perché i go-
verni la gestiscono in modo così sregolato? Qual è la
connessione tra politica fiscale e monetaria?
Basta dire che i governi producono inflazione perché il
loro appetito di procurare maggiore entrate nel tesoro
nazionale supera la loro volontà di tassare o la loro ca-
pacità di accedere al credito.
L'economista britannico John Maynard Keynes è stato
un influente ciarlatano purtroppo sotto molti aspetti,
ma si è tradito quando scrisse: «Con un continuo pro-
cesso di inflazione, i governi possono confiscare, segre-
tamente e inosservatamente, una parte importante del-
la ricchezza dei loro cittadini».

89
Quindi, come egli sostiene, l'inflazione è un brutto af-
fare, ma resta fortunatamente solo un fenomeno isola-
to, con i casi peggiori ipoteticamente confinati agli an-
goli oscuri e sperduti del pianeta, come lo Zimbabwe.
Ovviamente ciò è falso. Osservava il defunto Frederick
Leith Ross, una famosa autorità della finanza interna-
zionale: «L'inflazione è come il peccato; ogni governo
la denuncia e ogni governo la pratica». Anche gli ame-
ricani sono stati testimoni dell’iperinflazione che ha
distrutto la valuta corrente per ben due volte - il dolla-
ro continentale che ebbe la sfortuna di imbattersi nella
guerra rivoluzionaria e il denaro confederato durante
guerra civile.
L'odierno deprezzamento graduale del dollaro, con i
prezzi al consumo che aumentano a tassi persistenti a
una sola cifra, è solo una versione limitata dello stesso
processo. Il governo spende, gestisce il deficit e paga
alcune delle sue bollette attraverso l'imposta sull'infla-
zione. Quanto possa durare è una questione di specu-
lazione, ma non dovremmo sentirci al sicuro con tri-
lioni di miliardi di debiti nazionali che incombono sul-
le nostre teste e con politici che ordiscono sordide tra-
me per racimolare quattrini come se fossero marinai
alcolizzati della peggior specie e che intanto si fanno
eleggere promettendo di poter fare anche di peggio.
L'inflazione è con noi, ma un giorno queste pratiche
dovranno cessare. Il valore di una moneta non è infini-
to, la sua svalutazione deve cessare; ci sono pochi sce-
90
nari probabili: il governo smette di stampare in modo
sconsiderato o stampa fino a quando non distrugge il
denaro. Ma sicuramente, la sua conclusione dipenderà
in larga misura dal fatto che le sue vittime capiscano di
cosa si tratta e da dove provenga il vero pericolo. Nel
frattempo, la nostra economia appare come un ottovo-
lante, perché i congressi, i presidenti e le agenzie da
essi autorizzate non cessano deliberatamente di piani-
ficare le loro losche macchinazioni sul sistema moneta-
rio.
Sei stanco di politici che si rimproverano a vicenda,
che si affannano a coprirsi il loro didietro e a guada-
gnare punti nei sondaggi elettorali nel bel mezzo di
una crisi economica e sociale, il cui scopo è solo quello
di accumulare debiti su debiti che audacemente eti-
chetteranno come "manovre per far girare l’economia"?
Perché così tanti americani (e non solo loro) vogliono
affidare a questi figuri l'assistenza sanitaria, l'istruzio-
ne, la pensione e una serie di altri aspetti della loro vi-
ta? È una follia di abnormi dimensioni. L'antidoto è la
verità.
Dobbiamo imparare la lezione delle nostre follie e de-
ciderci a sistemarle ora, non più tardi. A tal fine, invito
il lettore a partecipare al processo educativo: sostenere
organizzazioni come la FEE e il Mackinac Center [e
l’Istituto Liberale], che lavorano per informare i citta-
dini sul ruolo corretto del governo e sul funzionamen-
to di un'economia libera.
91
Caro lettore, ti chiedo di aiutare a distribuire copie di
questo saggio e di altre buone pubblicazioni che pro-
muovono la libertà e la libera impresa; esigi che i rap-
presentanti del governo equilibrino il bilancio, si con-
formino allo spirito e alle norme di una gestione
d’impresa salutare e che smettano di cercare di com-
prare il tuo voto con il denaro degli altri.
Tutti conosceranno o avranno sentito di questa sagace
osservazione del filosofo George Santayana: «Chi non
riesce a ricordare il passato è condannato a ripeterlo».
È un avvertimento che non dobbiamo mancare di
ascoltare.

92
93
Scoprire il liberalismo
Di recente ho fatto un giro fra i miei vecchi file per fare
un po' di spazio sul cloud e ho ritrovato i miei temi del
liceo. Nel 2011, a 15 anni, supportavo Keynes, ma sen-
za cognizione di causa.
Nel 2013 parlavo già di Hayek e della Thatcher. Ciò
che mi spingeva verso lo studio della politica era il mio
profondo disgusto per il comunismo e per i professori
troppo politically correct.
Non sopportavo la retorica sui migranti: ritenevo as-
surdo che venisse accettato spendere soldi di chi si da-
va da fare per l’accoglienza e per il welfare. Mi diceva-
no che ero razzista. Quasi mi convinsi di esserlo. Ep-
pure, lo ribadivo: ero contrario alla spesa pubblica im-
produttiva e fondata sulla finta solidarietà, non avevo
nulla contro i migranti!
Non sopportavo l'idea comunista dell'uguaglianza. Ero
daltonico, mancino e mi piaceva la matematica. Per
questi e milioni di altri motivi, mi sentivo diverso da
chiunque altro, mentre mi dicevano che l'uguaglianza
era un bene. Per me, l’individualità di ciascuno di noi
era un bene. C'era così tanto collettivismo nell'aria che
le punizioni erano di classe. Responsabilità collettiva.
Non sopportavo neanche l'idea dello stato moralizza-
tore, tuttavia è piuttosto comune che i professori si
sentano maestri di vita e che impartiscano anche lezio-
ni di morale. «Da quando sono i professori a dovermi dire

94
cosa è giusto e cosa è sbagliato?», mi chiedevo.
Riuscirono a farmi odiare tutto il discorso dell'Olocau-
sto e del Giorno della Memoria, per l'esaltazione del
vittimismo. Solamente alcuni anni dopo, da solo, mi
resi conto di quanto fossi stato ingenuo e di quanto
importante sia ricordare, studiare e sensibilizzare ri-
guardo ciò che avvenne nei campi di concentramento.
Ci sono davvero pochi eventi storici importanti come
l’Olocausto su cui dovremmo riflettere. Ripensandoci,
mi rendo conto di quanto sarebbe importante insegna-
re ai ragazzi il perché certe cose siano sbagliate e non
solamente che queste cose siano sbagliate.
Non volevo che qualcuno mi dicesse ciò che dovevo
pensare.
Fra l'ambiente e i professori, si doveva vivere necessa-
riamente nella dicotomia destra-sinistra. Non ero mai
entrato davvero in contatto con una idea liberale in
quanto tale in tutto il liceo. Locke e Smith vengono
trattati alla leggera, Popper - se proprio va bene - viene
accennato. E sempre senza approfondire il lato politi-
co.
Si esaltavano i mali del fascismo e del nazismo – cosa
giustissima -, ma mai una parola contro il comunismo.
Considerando che mi ritenevo anticomunista e, non
conoscendo alternative al comunismo, pensavo di es-
sere persino vicino al fascismo.
Capii che non era così quando, durante una festa noio-
95
sa, un compagno mi chiese: «Ale, sai dirmi cosa fece di
buono il fascismo?»
Sapeva che ero "di destra" e io ancora pensavo di esser-
lo. Non seppi davvero rispondergli. La sera stessa cer-
cai su internet in ogni sito cosa avesse fatto il fascismo.
Non riuscii a trovare una sola cosa positiva.
Cercando a fondo, scoprii la pagina "Minarchism" di
Wikipedia. Mi aprì un mondo. Da lì, in qualche modo,
trovai un documento chiamato "The use of knowledge in
Society" di un certo Hayek. Compresi meno di un quin-
to di quello che c'era scritto, ma oramai mi aveva con-
quistato e convinto.
Questa storia, che si conclude col mio incontro con il
liberalismo, mi ha fatto riflettere su quanto sia difficile
scoprire il liberalismo quando si è giovani.
Se non per ricerca personale, per puro caso, o grazie ai
genitori, è impossibile scoprirlo.
Avrei desiderato più di ogni altra cosa trovare un tizio
che fuori da scuola mi si avvicinasse per rifilarmi una
copia di Lotta Capitalista di nascosto e approfondire la
causa che sentivo di supportare veramente.
Una delle frasi che ho sentito più spesso negli ultimi
anni è stata: «Grazie a te/voi, ho finalmente capito essere
liberale. Lo sono sempre stato, ma non sapevo di esserlo.»
L'Istituto Liberale è qui anche per tutti quei giovani in
attesa di trovare un'alternativa al comunismo e al fa-
scismo, per tutti coloro che non hanno mai avuto l'oc-
96
casione di uscire dallo schema destra-sinistra.
Nel futuro che sogno nessun giovane rimarrà senza
aver avuto la seria opportunità di scegliere con un'al-
ternativa in più: la libertà.

97
Cos’è il liberalismo?
Il liberalismo è, prima di ogni altra cosa, un metodo d'inda-
gine. Poi, diventa una filosofia di vita, successivamente di-
venta un insieme di valori e infine una dottrina politica.
Quest'ultima è solamente il tassello finale, non quello inizia-
le.
Il liberalismo sorge dalla genialità e da un’attenta ana-
lisi della realtà: osservando la società umana, le rela-
zioni fra individui, le relazioni fra gruppi di individui,
la storia, le istituzioni ci si è resi conto che esistono al-
cune fondamenta per avere una società prospera, libe-
ra e pacifica e al contempo assicurare la libertà a tutti i
cittadini.
Sembra incredibile, ma – parafrasando Milton Fried-
man - siamo piuttosto fortunati perché il liberalismo
coincide con la strada più efficiente.
Sarebbe un po' strano sostenere alcuni valori e certi si-
stemi organizzativi se questi non assicurassero la mi-
glior condizione possibile per te e per la società, non
credi?
Dunque, geniali pensatori come Locke, Smith, Burke,
Ferguson, Mandeville, Cantillon e numerosissimi altri
grandi classici intuirono quale fosse il modo migliore
per far combaciare gli interessi personali con quelli
della società.
Una società è libera e prospera se e solo se anche i suoi
cittadini sono liberi e industriosi.
98
Il metodo è lo studio della realtà, della società e delle
relazioni umane a partire dagli elementi primi: gli in-
dividui. Il liberalismo nient'altro è che una conseguen-
za dell'individualismo metodologico.
Questo non significa che siamo vincolati a studiare gli
individui, come se fossimo psicologi, e ciò ci debba ba-
stare perché qualsiasi altra cosa non andrebbe bene.
A partire dall'individualismo metodologico ricaviamo
che la società è complessa (e non difficile), che l'ordine
che emerge è spontaneo e che nessuno ha progettato la
società così come la vediamo oggi.
Sappiamo che se qualcuno provasse a progettare la so-
cietà fallirebbe, perché non è possibile collezionare tut-
te le informazioni necessarie, prevederne l'evoluzione
e calcolare una qualsiasi ottimizzazione. Ecco perché il
socialismo non funziona.
Il liberalismo è il risultato di un profondo studio di ciò
che siamo e non di ciò che vorremmo essere: consiste
nell’accettare i pregi e i difetti dell’umanità e capire
come farli convivere.
Non si può rinunciare al liberalismo nel nome del
pragmatismo momentaneo, perché le scelte prese con
la cecità del breve termine impediscono che nel lungo
termine ci siano pace, prosperità e libertà.
Si tratta della storia della cicala e della formica: chi
guarda lontano, investe e fa scelte di lungo periodo,
vince e sopravvive.
99
Cos’è l’Istituto Liberale?
Eravamo tre ragazzi attorno al tavolo di un pub.
Non c’erano né partiti, né politici, né associazioni libe-
rali che potessero farci sentire a nostro agio nel clima
delle idee italiano.
A poco a poco, da tre siamo diventati centinaia e poi
migliaia e l’entusiasmo di tutti i partecipanti ci ha fatto
capire di aver intrapreso la giusta strada.
Oggi l'Istituto Liberale è il più grande think tank libe-
rale in Italia e unisce tutti coloro che sono favorevoli
alle libertà individuali e al libero mercato.
Il nostro obiettivo finale è aprire le finestre di un paese
rimasto chiuso per troppo tempo e lasciare che l'aria
fresca della libertà dia inizio a una vera rivoluzione
culturale liberale. Per riuscirci, formiamo e informia-
mo.
Siamo presenti sui maggiori social network e pubbli-
chiamo ogni giorno aforismi commentati, infografiche,
storie di personaggi e avvenimenti liberali, articoli di
approfondimento, video.
Siamo presenti in quasi tutte le regioni italiane e i no-
stri gruppi regionali organizzano regolarmente eventi
sul territorio (come cene, aperitivi, conferenze, dibattiti
o ritrovi dei club di studio) in cui ci si può conoscere e
confrontare.

100
Non siamo un partito. Abbiamo deciso di investire sul
lungo termine, sulla cultura, disseminando le idee di
libertà che un giorno ci daranno il miglior raccolto:
un'Italia più libera, aperta, tollerante, pacifica, prospe-
ra.
Nel momento in cui scrivo queste righe, siamo seguiti
da oltre quarantamila persone sui social network e i
nostri contenuti raggiungono centinaia di migliaia di
persone ogni mese.
La gran parte dei nostri sostenitori ha meno di
trent’anni, il che ci dimostra ben due cose: stiamo co-
municando coi giovani, a differenza dei partiti, e que-
sti giovani sognano un mondo più libero.

101
Unisciti a questa rivoluzione culturale!
Stai per entrare a contatto con idee di pace, intrapren-
denza, coraggio, resilienza e imprenditorialità che
vengono tutt’oggi demonizzate da chiunque in questa
società.
Abbiamo raccolto con cura gli aforismi celebri, i dati
sulla nostra situazione economica e sociale, le storie
delle vittorie del liberalismo nel passato o negli altri
Paesi e i migliori testi per accendere la luce della rivo-
luzione liberale che illuminerà l’Italia. Così come per
molti altri nostri contenuti, in questo libro leggerai
idee che parlano anche di te e dei tuoi valori.
L’Istituto Liberale è un’organizzazione privata che ha
come obiettivo far cambiare rotta alla cultura del no-
stro paese, condotta sulla strada del collettivismo da
decine di anni di egemonia socialista.
La nostra indipendenza da partiti, politici e istituzioni
è assicurata dalle migliaia di persone a contatto con il
nostro lavoro che hanno deciso di supportare le nostre
attività e finanziare questa rivoluzione culturale.
Diventando un membro dell’Istituto Liberale avrai ac-
cesso a contenuti esclusivi che potranno aiutarti ad
ampliare la tua visione del mondo con la prospettiva
della libertà. Potrai dibattere con gli altri partecipanti,
avere accesso alle attività e alle decisioni dell’Istituto.
Ciò che è più importante è che il tuo finanziamento
renderà possibile la creazione di nuovi contenuti gra-

102
tuiti affinché sempre più italiani abbiano la possibilità
di abbracciare le idee di libertà e di fare qualcosa di
effettivo per il nostro Paese.
Non aspettare altro tempo: entra a far parte della rivo-
luzione culturale che cambierà le sorti di un’Italia che
può tornare a splendere!
Visita il nostro sito: www.istitutoliberale.it
Detto ciò, spero che questa lettura sia stata di tuo gra-
dimento e ti invito a visionare i nostri altri libri e i mol-
tissimi contenuti gratuiti sul nostro sito.
Alla prossima,
Alessio Cotroneo
Presidente dell’Istituto Liberale

103

Potrebbero piacerti anche