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Titolo dell'opera originale

D as R eic h der niederen D am onen


(R o w o h lt V erlag, H am b u rg, 1953)

Traduzione dal tedesco di


Francesco Saba Sardi

Prima edizione italiana : giugno 1959


Copyright by

G iangiacom o Feltrinelli Editore


M ilano
Ernst Niekisch

regno dei demoni


Panorama del Terzo Reich

Feltrinelli Editore Milano


-
A Jotef>li Drexrì e Ilorxt
amici c coni pai’ni nella lotta e nella sofferenza
Parte prima

Sulla soglia

i
Capitolo primo

I battistrada dell’hitlerismo

È ormai universalmente noto che la grande borghesia e l’indu­


stria pesante tedesche hanno preparato la strada al Terzo Reich
con un lavoro sistematico, durato molti anni; non altrettanto cono­
sciuti, invece, sono i particolari di questa vicenda storica. Quale
fosse la meta della grande borghesia tedesca era stato già chiara­
mente rivelato dal Putsch di K app; fallito questo tentativo, la
grande borghesia riprese la sua opera criminosa, impiegando sta­
volta nuovi mezzi. E la sua responsabilità nella creazione del san­
guinario e terroristico regime nazionalsocialista apparirà chiara
non appena ci si soffermi a considerare la politica dei circoli indu­
striali tra gli anni 1920 e 1923.
Il Putsch di Kapp del 1920 era stato un colpo di testa: la bor­
ghesia industriale e i circoli militaristi junker avevano voluto spaz­
zar via d’un colpo il compromesso weimariano; la dittatura capi­
talistica aveva preteso di gettare a mare gli onerosi palliamenti,
di togliersi di dosso il fardello delle spese inutili, di metter freno
agli esborsi imposti dalla messinscena parlamentare, liberalistico-
umanitària. Se avesse rinunciato al cerimoniale democratico, la
dittatura capitalistica sarebbe risultata assai meno costosa. Ma la
grande borghesia aveva fatto il passo più lungo della gamba; alla
pari del suo,alleato, lo junkerismo, aveva largamente sopravvalutato
le sue forze del momento. Il colpo di stato falli, e la grande bor­
ghesia si trovò a dover segnare il passo, abbandonando alla loro
sorte i mercenari assoldati in qualità di attivisti. Bisognava che si
acconciasse a una campagna che richiedeva una particolare conce-

li
SULLA SOGLIA

zione strategica, opportune astuzie tattiche, il giusto tempo. Ma,


prima di aprire le ostilità, doveva farsi un quadro ben preciso
della situazione, e ad esso uniformare la propria condotta.
La perdita delle colonie, della marina mercantile, delle pro­
prietà all’estero, l’eliminazione dai mercati mondiali, avevano
notevolmente ridotto le rendite grazie alle quali era campata la
borghesia tedesca: ed erano molte le bocche che pretendevano di
venir sfamate, molte le tasche che bisognava riempire. L ’oligarchia
borghese nel complesso menava la vita di prima; nessuno dei suoi
componenti era disposto a fare le spese della guerra perduta. Tanto
di guadagnato, per la grande borghesia, se gli strati piccoli e medio­
borghesi venivano privati delle loro porzioni di reddito: se la
massa borghese veniva espropriata, l’oligarchia avrebbe potuto
evitare di dissanguarsi a sua volta. L ’inflazione fu appunto la ra­
pina organizzata a spese della piccola e media borghesia. I ceti
medi ci rimisero il capitale e gli interessi, e il loro impoverimento
rivelò quale fosse la decurtazione apportata dalla guerra al red­
dito nazionale. Quanto più la piccola e la media borghesia veni­
vano impoverite, tanto meno il grosso borghese doveva rimetterci
del suo; dal momento che i ceti medi si trovavano sbarrata la stra­
da verso il calderone dal quale si scucchiaiavano gli interessi, le
porzioni riservate agli eletti, coloro ai quali l’accesso non era in­
terdetto, non subivano riduzione alcuna.
Naturalmente i profittatori dell’inflazione non potevano appa­
rirne i promotori; cancellare le proprie tracce, era la condizione
per non essere chiamati al rendiconto. Se l’inflazione fosse appar­
sa come l’inevitabile conseguenza di una situazione di fatto, allora
l’esproprio dei ceti medi sarebbe stato sopportato quale ineluttabile
fatalità. E la situazione di fatto fu creata: la grande borghesia
evocò catastrofi nazionali, allo scopo di mettere al sicuro, inosser­
vata, la propria inflazionistica messe.
Si può elencare più d’uno degli assiomi e metodi giusta i quali
la grande borghesia compi la sua opera politica. L ’economia te­
desca, si sostenne, era completamente rovinata, la Germania non
era assolutamente in grado di sopportare le spese delle riparazioni;
gli assertori di questo atteggiamento di resistenza chiudevano un
occhio sull’occupazione dei territori renani, ritenuta sacrificio me-

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I BATTISTRADA DELL’h ITLERISMO

no oneroso che non il pagamento delle riparazioni. A pagare, la


Germania avrebbe potuto indursi solo quando l’entità delle ripa­
razioni stesse: fosse definitivamente fissata. Quanto ai problemi
valutari, non potevano essere risolti né dal capitale né dalle finanze
dello stato: Tunica speranza di salvezza consisteva in un risana­
mento generale'dell’economia, possibile solo a patto di aumentare
il lavoro e la produzione. L a politica economico-finanziaria tede­
sca,; quindi,.'doveva basarsi sul principio: prima l’economia, poi
lo stato. . ;
Chi dava il la alla politica della grande borghesia tedesca era­
no, in quegli anni,. Stinnes e Helfferich. Il primo riteneva che la
sfida aperta alle potenze dell’Intesa fosse il metodo politico che la
Germania doveva di necessità far proprio.
“ Da realisti quali siamo, ” affermò il 19 luglio 1921 alla con­
ferenza di Spa, “ noi teniamo ben presente l’eventualità di non
riuscire a convincervi che da parte nostra si è fatto tutto il possi­
bile, e. che di conseguenza voi ricorriate alla violenza, procedendo
all’occupazione della Ruhr e, simili. Anche qualora tali atti di
forza siano compiuti da truppe negre, prospettiva questa alla
quale si ribella la coscienza di ogni bianco e di ogni tedesco, si
tenga ben presente che né la Francia né l’Europa potranno trarne
giovamento alcuno. ” Finito che ebbe il discorso, Sauerwein, inviato
del Matin, gli chiese: “ Si rende conto, signor Stinnes, che le sue
affermazioni potrebbero portare al fallimento dei negoziati?” Ri­
spose l’interrogato : “ Lo so benissimo e ne ho tenuto conto.” Po­
chi giorni dopo, vale a dire il 2 1 luglio 1921, il ministro degli
esteri, dottor Simons, in sede di Commissione per gli affari esteri
del Reichstag,' spiegò che “ Stinnes era dell’opinione che gli alleati,
qualora avessero dovuto occupare il territorio della Ruhr, non
avrebbero potuto tenerlo a lungo. ” In un discorso tenuto a Essen,
Stinnes provvide personalmente a confermare l’affermazione di
Simons. “ Devo sottolineare,” concluse Stinnes, “ che, come del
resto ho già avuto occasione di dire altrove, io considero limita­
tissimo il pericolo di un’occupazione di ulteriori territori tedeschi,
c questo perché i francesi si sono ormai resi conto che, cosi fa­
cendo, non otterrebbero nessun risultato concreto: avrebbero spese
maggiori, e ricaverebbero meno di prima. ”

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SULLA SOGLIA

Il portavoce parlamentare di questa provocatoria politica della


“ resistenza nazionale” fu Helfferich. “ A che vi servono le so­
stanze che voi accumulate ? ” chiese egli durante la seduta .del
Reichstag del 6 luglio 1921, “ unico scopo è pagare l’Intesa. ” Nel
novembre 1921, egli pronunciò un altro discorso a sostegno della
sua politica: “ È questa a mio avviso l’unica possibilità di evitare
la rovina alla quale inevitabilmente ci condurrebbe a passi di
gigante, tempo pochi mesi, la vostra politica. Quando situazioni
simili si verificano, nel libro della storia si iscrivono solo coloro
che si mostrano decisi, qualora si debba farlo, a salvare il proprio
onore a costo della vita. Coloro i quali al contrario rifiutano l’e­
roismo, meritano di essere seppelliti nell’onta.” Il 23 luglio 1922,
un giorno prima dell’assassinio di Rathenau, Helfferich lanciava
un altro attacco al governo. “ La salvezza verrà quando il mondo
avrà compreso che in Germania — lasciatemelo dire in una pa­
rola — si ha nuovamente a che fare con degli uomini. ”
L a grande borghesia tedesca faceva cosi conoscere all’Intesa,
attraverso i discorsi di Helfferich, la sua intenzione di sabotare
apertamente la politica di riparazioni della repubblica di W eimar;
per questo era necessario che, sul piano internazionale, il credito
del governo di Weimar fosse scosso. In pari tempo, la grande bor­
ghesia boicottava i tentativi volti a salvaguardare il potere d’acqui­
sto della moneta: essa si oppose all’applicazione della imposta
sulle proprietà, del Reichsnotopfer,’ dell’imposta progressiva sui
redditi, e della tassa di successione. “ Gran parte delle tasse, ” af­
fermò Helfferich in data 4 novembre 1920 al Reichstag, “ che oggi
vengono imposte al contribuente tedesco, allo scopo di sostenere
le spese, vertiginosamente crescenti, del cosiddetto ‘ stato d’ordine ’,
il contribuente non è più in grado di pagarle traendone l’equiva­
lente dai propri redditi; egli è dunque costretto a intaccare in lar­
ghissima misura il capitale. ” Falsa era l’opinione, continuò Helffe­
rich, secondo la quale “ il miglioramento della situazione mone­
taria potrebbe realizzarsi con interventi di mera tecnica valutaria,
coi metodi della legislazione fiscale.”

Sovrim posta <1i soccorso nazionale.


I BATTISTRADA DELL’h ITLERISMO

A i primi di luglio del 1920, cosi scriveva la Bergisch-Màrfosche


Zeitung, organo dell’industria pesante renano-westfalica:
“ L ’evasione fiscale non si presenta più oggi con quel carattere
d’immoralità che aveva in tempi di maggior floridezza economica.
Nelle attuali circostanze, anzi, pressanti motivi d’ordine econo­
mico fanno apparire addirittura necessaria la fuga dei capitali.
È inutile poi far parola di altri motivi di carattere più strettamente
personale, come ad esempio il fatto che la politica economica e
fiscale tedesca è talmente di parte, talmente faziosa, che la cate­
goria dei datori di lavoro non può certo permettersi di rafforzare
la parte avversa coll’esborso di grosse somme al fisco. ”
Quando, sotto la spinta dell’opinione pubblica, insorse la mi­
naccia di un’imposta sugl’immobili, la Confederazione tedesca de­
gli industriali in data 27 settembre 1921 fece balenare al governo
la prospettiva della concessione di crediti da parte degli impren­
ditori stessi. Subito dopo, però, l’organizzazione si rimangiò la
promessa, e a convincerla fu Stinnes. Produttori ed esportatori
lasciarono in giacenza presso banche straniere le divise, frutto
della vendita all’estero di merci tedesche. Il 9 novembre 1921, la
Confederazione tornava a riunirsi; facendo valere la propria auto­
rità, Stinnes impose una mozione contraria alla concessione dei
suddetti crediti. In essa si ponevano al governo precise condizioni,
in primo luogo la cessione a un ente privato della rete ferroviaria
statale.
Grazie all’inflazione e alla “ politica di catastrofe nazionale,"
la grande borghesia aveva strappato la pelle di dosso al disgraziato
popolo tedesco. Una parte del bottino tuttavia le sfuggi; la tra­
sformazione in impresa privata delle ferrovie dello stato. Stinnes
si era avventurato fin sull’orlo dell’alto tradimento; mentre Rathe-
nau, alla fine del 1921, era intento a negoziare con Londra la
concessione di crediti, anche Stinnes si era recato nella capitale
inglese, dove patrocinò il piano di privatizzazione delle ferrovie
tedesche, affermando che per tale via ne sarebbe stato sanato il
deficit in brevissimo tempo; Stinnes consigliava inoltre di abbi­
nare questo piano a un altro più vasto, inteso alla riorganizzazione
della rete ferroviaria dell’Europa orientale e sud-orientale; furono
parecchie le personalità della City alle quali propose di risolvere

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SULLA SOGLIA

con questo mezzo il problema delle riparazioni. In altre parole,


dal momento che l’opinione pubblica tedesca s’era dichiarata com­
pattamente contraria alla cessione della rete ferroviaria nazionale
all’impresa privata, Stinnes cercava il sostegno degli esponenti
della City, tentando, con l’aiuto del capitale finanziario inglese,
di trasformare le ferrovie tedesche in un suo feudo personale. Ma
a Stinnes non “ era abbastanza noto che le personalità più in vista
della City londinese sono educate ad aver sempre presente il be­
nessere della collettività, non solo nazionale, ma anche interna­
zionale, ” 3 e il suo tentativo, di conseguenza, falli. I circoli inglesi
più influenti reagirono alle sue proposte “ con ironia e indigna­
zione. ” L ’episodio rivelò che la City nel suo complesso non se la
sentiva di dare una mano al “ grande patriota ” Stinnes nel suo
attentato alla nazione tedesca.
N el maggio del 1922, la grande borghesia soffocò sul nascere
un progettato prestito forzoso. Il 7 settembre di quell’anno, Stinnes
espose all’incaricato d’affari belga Bemelmans i benefici dell’in­
flazione; il 9 novembre ammise che “ aveva combattuto con ogni
mezzo e avrebbe sempre combattuto la stabilizzazione del mar­
co; ” in pari tempo, metteva i bastoni fra le ruote al governo che
tentava di ottenere credito all’estero; in una parola, la grande bor­
ghesia persegui una propria politica estera classistica, decisamente
contraria agli interessi del regime di Weimar. Il 9 dicembre 1922,
il cancelliere del Reich, Cuno, portò alla conferenza di Londra
proposte in merito al pagamento delle riparazioni; due giorni
dopo, in un articolo apparso sulla Deutsche Allgemeine Zeitung,
Stinnes precisava che “ l’industria non è stata interpellata in me­
rito alle offerte tedesche. A nostro avviso, le idee avanzate a Lon­
dra sono inopportune ed economicamente infeconde, in quanto
non comportano una soluzione definitiva. ”
N el gennaio 1923, la grande borghesia raggiungeva finalmente
il suo obbiettivo; la catastrofe avvenne: il territorio della Ruhi
venne occupato. Nonostante tutto, la Reichsbank intendeva soste­
nere con concessioni di crediti la moneta; ma il 18 aprile 1923.
Stinnes stroncò tale azione di sostegno; è dal 9 aprile, infatti, che

u " l 'iiuuicial Times. "

Ir
I BATTISTRADA DELL’HITLERISM O

lo Stinnes-Konzern8 fa incetta sulla piazza di Berlino, al di fuori


del normale orario di esercizio della Borsa (in altre parole sot­
traendosi al controllo — per quanto più nominale che di fatto —
della Reichsbank), di ingenti quantitativi di sterline, dando il via
a quella che diverrà “ la sempre più grave situazione del marco. ”
In data 9 aprile, il trust ha acquistato 27.000 sterline; il 12 aprile,
altre 65.000; 45.000 ne vengono acquistate il 15, e 10.000 il 17 ;
fino a quel momento il marco era stato dato al cambio di 20.000
per un dollaro; ma da quel momento è la fine. Quella che nel
trust di Stinnes funge da bacino di raccolta delle valute, la “ Hugo
Stinnes A . G .4 — Hamburg, ” rifiuta al Reich le divise necessarie
all’importazione; le fondamenta dello stato di Weimar devono
essere minate, finché esso non sia diventato il docile strumento
della grande borghesia. L a Germania si è “ venduta al demonio
dell’inflazione, e cosi facendo ha buttato dalla finestra, in un paio
d’anni, dieci volte di più di quanto non le abbia portato via il
nemico vittorioso. ”
Comunque, la grande borghesia ha fatto degli ottimi affari, e
in testa a tutti marcia il patriota Stinnes. Il crollo del marco sanò
la situazione dei grandi imprenditori tedeschi; i crediti concessi
dalla Reichsbank divennero, sotto la copertura mimetica del tasso
di sconto, nient’altro che colossali regali fatti agli imprenditori
privati: il denaro col quale costoro saldavano i loro debiti era
ogni volta inferiore in valore al denaro che avevano avuto al
momento della concessione del credito; la miseria tedesca, che
Stinnes contribuiva largamente ad aumentare, era per lui una
vera e propria manna. I suoi capitali si moltiplicarono, ed egli
provvide a metterli al sicuro all’estero. “ L ’allargamento di simili
trust praticamente in tutte le parti del mondo, ” osservò la Frank­
furter Zeitung, “ richiede naturalmente l’impiego di enormi ca­
pitali, i quali, inutile dirlo, lungi dall’essere il frutto di disavanzi
valutari, possono essere solo il risultato di enormi profitti, che
vengono debitamente reinvestiti all’estero. Non per niente il si­
gnor Stinnes s’è guadagnata la nomea del massimo accaparratore
che esista sulla faccia della terra. ” Il 27 ottobre 1923, Briand di-
11 II
trust che faceva capo a Stinnes. \N. d. T.]
4 A. G .: Aktiengesellschajt, società per azioni. [Ah d. T.]

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SULLA SOGLIA

chiaro al Senato francese : “ In Germania, i grandi proprietari,


i grandi finanzieri, i grandi capitani d’industria hanno accumu­
lato sostanze colossali.”
L a politica esclusivistica dei circoli industriali tedeschi parlava
il linguaggio di un atteggiamento di forza sul piano nazionale, e
quei ceti borghesi che ci rimettevano le penne, furono insufflati di
nazionalismo: accecati dal furore patriottico, non si sarebbero ac­
corti di quel che accadeva e delle conseguenze che ne venivano;
la loro sensibilità si sarebbe attutita, avrebbero perso di vista la
concatenazione delle cause e degli effetti. E infatti, nessuno osò
attribuire la colpa della situazione ai magnati tedeschi: non si
trattava forse di potenze nazionali? L ’impoverimento fu scam­
biato per una fatalità, la responsabilità della quale, semmai, era
da attribuirsi agli stati vincitori e alla repubblica di Weimar che
con quelli scendeva a patti. I promotori dell’inflazione, i quali ne
erano anche i profittatori, spinsero all’estremo il rovesciamento
della realtà, erigendosi a pubblici accusatori. E, mentre vuotavano
il salvadanaio dei medi ceti borghesi, puntavano sfacciatamente
il dito contro la classe operaia e i ministri di Weimar, strillando
con gli accenti dell’isteria nazionalistica: “ A l lad ro !” Helfferich,
nei suoi discorsi al Reichstag, descriveva a fosche tinte la desolata
situazione delle classi medie tedesche, con lo scopo ben preciso di
acquistare la fiducia dei diseredati. N el marzo del 1922, eccolo
vociare : “ Il signor cancelliere del Reich, con la sua politica, è
colpevole della situazione, e il signor cancelliere del Reich non
potrà togliersi di dosso l’onta che gli viene dal fatto che ci son
volute le terribili esperienze dell’ultimo anno, la rovina di infinite
esistenze individuali, per far capire al mondo, almeno in parte,
la stolidità di una politica liquidatoria. ” Precedentemente, il 21
settembre del 1921, la Deutsche Allgemeine Zeitung aveva osato
scrivere:
“ N ell’ora suprema, tuttavia, dobbiamo istantemente preten­
dere che i demagoghi, visionari e buffoni del mondo politico
tedesco, gli apostoli megalomani di nuove dottrine economiche,
rientrino nell’ombra dalla quale sono emersi in tempi calamitosi
ad arrecare sventura alla Germania. Costoro han condotto alla
rovina il popolo tedesco. ”

1S
I BATTISTRADA DELl ’h i TLERISMO

La grande borghesia aveva precipitato i ceti piccolo e medio­


borghesi negli abissi sociali, spingendo il deprezzamento del ri­
sparmio fino a nullificarlo. E se, stretta dal cappio dell’imperiali-
smo, infuriava contro la sua propria carne borghese, non poteva
certo essere meno spietata nei confronti della classe operaia. Im­
placabile fu la pressione esercitata sulle condizioni di vita del
proletariato: si volevano cassare le conquiste sociali del novem­
bre 1918, ottenere il crollo dei salari, depredare gli operai, cosi
come era stato fatto dei risparmi dei piccoli borghesi. L a grande
borghesia sapeva di combattere per la propria esistenza; sapeva
che l’unica via d’uscita era un cambiamento della struttura sociale
tale che i lavoratori fossero ridotti alla condizione di schiavi bian­
chi i quali, in qualità di gregari obbligati a una vita di stenti, man­
tenessero nel lusso una ristrettissima oligarchia. A ll’operaio tede­
sco fu prescritta, quale ricetta sociale, la condizione di vita del
suo confratello giapponese: se la classe lavoratrice tedesca si fosse
lasciata indurre a inghiottire la pillola, le preoccupazioni della
grossa borghesia sarebbero cessate.
E anche nell’assalto condotto dall’oligarchia economica contro
le posizioni sociali e politiche della classe operaia, alla testa furono
Stinnes e Helfferich. Quale fosse l’obbiettivo, che i due si erano
prefissi, il primo lo rivelò al Consiglio economico del Reich il
9 novembre del 1922:
“ Io sono dell’avviso, ” egli disse, “ che il presupposto della
sopravvivenza tedesca sia il superlavoro; e non esito ad aggiungere
che i tedeschi devono, per parecchi anni, dieci, quindici, o quanti
saranno, lavorare almeno due ore al giorno di piu, allo scopo di
aumentare la produzione in modo che questa permetta loro non
solo di vivere, ma anche di mettere da parte qualcosa per il
pagamento delle riparazioni. ”
A lla loro offerta di garanzia del 25 maggio 1923, gli indu­
striali tedeschi aggiunsero condizioni che avevano il carattere di
ultimatum: lo stato doveva impegnarsi ad astenersi nel modo più
assoluto dall’interferire nella produzione privata; la legislazione
fiscale doveva essere emendata nel senso di conformarla ai desi­
deri della grande borghesia, e l’aumento dell’attività lavorativa
reso obbligatorio per legge in tutto il paese. L a grande borghesia

19
SULLA SOGLIA

pretendeva, “ mantenendo fondamentalmente la giornata di otto


ore, l’aumento dei cottimi, nel senso proposto dal Consiglio eco­
nomico del Reich, l’applicazione di una legge che fissi la durata
del lavoro, ulteriore riduzione degli oneri improduttivi (leggi
‘ sociali ’, N.d.A.) che gravano sull’economia. ”
Mentre Stinnes continuava il suo lavoro di mina in senso so­
ciale e politico, Helfferich predicava la crociata contro la classe
lavoratrice e i suoi bastioni. “ La strada per giungere alla soluzione
dei nostri problemi, ” ebbe a dire il 4 novembre 1920, “ non passa
per la socialdemocrazia di tipo marxista: la strada è quella del
superamento della socialdemocrazia di tipo marxista. ” Il 16 mar­
zo 1922, Helfferich ripeteva:
“ Se il popolo tedesco non ha ancora compreso e ammesso che
la socialdemocrazia è un fallimento, dovete ringraziarne quei vo­
stri amici i quali continuano a dire all’inclito pubblico: ‘ Per amor
di Dio, finiamola con queste storie! Senza i socialdemocratici in
Germania ormai non si può fare ! ’ Ma anche questo pregiudizio
è destinato a scomparire. ”
Già nel 1921, la grande borghesia era stata sospettata di pun­
tare sull’occupazione militare della Ruhr, quale mezzo per attuare
i suoi secondi fini in campo politico-sociale.
Il 15 marzo 1921, scriveva la Schw'àbische Tagwacht : “ Durante
questo periodo, la produzione di carbone, vigilata dalle baionette
francesi, avrebbe dovuto essere spinta al massimo, e i depositi
riempiti fino all’orlo. Accumulata cosi una gigantesca riserva di
materiale, si sarebbe dovuto decretare e imporre, per mezzo di
una serrata patrocinata dal generale Foch, la diminuzione dei
salari e l’aumento dei tempi di lavoro. Una volta spezzate le reni
ai minatori, era legittimo sperare di aver buon gioco anche con le
altre categorie di operai. ” E nell’ottobre del 1923, la grande bor­
ghesia diede a vedere, coi fatti, che il sospetto era perfettamente
fondato. Subito dopo la repressione della rivolta operaia nella
Ruhr, Stinnes, Klòckner, Velsen e Vògler si fecero ricevere dal
generale Degoutte, implorando l’appoggio francese per il ristabi­
limento degli orari di lavoro prebellici nelle miniere della Ruhr.
Stando al verbale della riunione, avvenuta il 5 ottobre 1923, K lòck­
ner avrebbe detto a Degoutte che gli industriali tedeschi erano

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I BATTISTRADA DELL’HITLERISM O

convinti d’aver commesso un grave errore piegandosi alle pressio­


ni socialiste e concedendo, dopo aver perso una guerra, una ridu­
zione degli orari di lavoro; le direzioni delle miniere renano-
wcstfaliche avevano quindi deciso di ristabilire le condizioni pre­
belliche, vale a dire: otto ore e mezza di lavoro giornaliero,
compresi la discesa e il ritorno alla superficie per gli operai dei
pozzi, e dieci ore giornaliere per gli operai esterni; gli industriali,
però, non erano in condizioni di realizzare i loro intenti senza
l’aiuto delle forze di occupazione.
Pur essendo disposta all’alto tradimento, la grande borghesia
stavolta non ebbe fortuna: i francesi non avevano nessun interesse
a togliere le castagne dal fuoco alla reazione tedesca; e Degoutte
licenziò i “ patrioti ” replicando bruscamente che la giornata lavo­
rativa di otto ore era sancita dalla legislazione tedesca; che inoltre
la sua durata era stata confermata anche dal trattato di pace; e,
infine, che, nella sua qualità di militare, non poteva intervenire
nelle trattative tra lavoratori e imprenditori.
Come allora la grande borghesia tedesca aveva invocato l’aiuto
di un generale francese contro il proletariato della Ruhr che s’era
splendidamente comportato durante l’occupazione del Territorio,
cosi, nel giugno del 1923, Stinnes aveva fatto iniziare trattative a
Parigi col deputato francese Reynaud e con certi circoli politici
ed economici, allo scopo di trasformare il pagamento delle ripara­
zioni in un affare da concludersi da pari a pari fra gli industriali
francesi e tedeschi. L ’esagitata passionalità che piccoli e medi
borghesi mettevano nella difesa passiva, era un’energia che la
grande borghesia tedesca intendeva sfruttare non tanto per portare
la nazione alla vittoria, quanto per mandare a buon fine i suoi
giganteschi intrallazzi sul piano internazionale.
L a grande borghesia accumulava quanto più potenza e denaro
le era possibile; essa conduceva la sua lotta di classe contro i ceti
medi borghesi con la stessa spietata durezza che usava nei con­
fronti del proletariato. N on si poteva certo accusarla di senti­
mentalismo: oggi essa aizzava i ceti medi contro la Francia, e
domani magari correva a strisciare ai piedi dei militari d’oltre
Reno. Il sentimento nazionale era per essa nient’altro che il punto
debole al quale attaccarsi se si voleva depredare il popolo. L a gran-

21
SULLA SOGLIA

de borghesia aveva chiaro davanti a sé lo schieramento delle forze


avverse, e sapeva distinguere a prima vista i nemici e gli amici;
non perdeva mai di vista la necessità di mettere fuori combatti­
mento soprattutto un avversario. Quest’avversario era stato a priori
messo dalla parte del torto : si trattava dello “ scudiero del bolsce­
vismo. ” E il “ bolscevismo ” s’identificava con l’abisso di tutte le
nefandezze: tale il popolo tedesco era preparato a considerarlo
fin dal 1918. L a grande borghesia era riuscita ad ottenere che
chiunque le rifiutasse obbedienza fosse schiacciato dall’accusa di
bolscevismo. Questo era insomma diventato uno spauracchio al­
trettanto utile alla politica capitalistica della grande borghesia sul
piano nazionale, che alla sua politica imperialistica sul piano inter­
nazionale; cosi come il generale Hoffmann in combutta con
Arnold Rechberg avevano voluto chiamare a raccolta gli sgomenti
europei contro la Russia, ora Stinnes e Helfferich volevano riunire
attorno a loro le schiere degli impauriti borghesi tedeschi. Il babau
“ bolscevico ” doveva saltare in faccia a chiunque osasse farsi ve­
nire dei dubbi sulla bontà della politica imperialistica della grande
borghesia. Se dunque si riusciva a far diventare il “ pericolo bol­
scevico ” l’idea fissa dell’intero popolo tedesco, questo sarebbe sta­
to maturo per la cura che i suoi padroni borghesi intendevano
prescrivergli. Finché si aveva l’accortezza di presentare sempre in
chiave “ bolscevica ” la causa del proletariato, si avrebbe avuto buon
gioco, in caso di necessità, a mobilitare l’intera borghesia contro
gli interessi dei lavoratori.
L ’interesse borghese richiedeva l’esistenza di un movimento
antibolscevico, che sul piano internazionale agognasse a far fuori
l’Unione Sovietica, sul piano interno le classi lavoratrici. Già sullo
scorcio del novembre 1918, infatti, la grande borghesia tedesca
aveva fatto divampare la fiamma defl’antibolscevismo: da bru­
ciatore aveva fatto il Generalsekretariat zum Studium und zur
Bekampfung des Bolschewismus,6 prontamente fondato. Intellet­
tuali disposti a vendersi non ne mancavano di certo, e fu Helffe­
rich che provvide a reclutarli. La grande borghesia non lesinò il
denaro; nel gennaio del 1919 fu costituito il “ gran calderone, ”

5 Lett., Segretario generale per lo studio e la lotta contro il bolscevismo. [ N .d .T .]

22
I BATTISTRADA DELL’h ITLERISM O

che serviva ad alimentare i demagoghi, le case editrici, i partiti,


tutti coloro insomma che erano disposti a schierarsi sul fronte del­
la lotta contro il bolscevismo. “ Se l’industria, il mondo commer­
ciale e bancario tedeschi,” ebbe a dire Stinnes, “ non vogliono o
non possono tassarsi per costituire il suddetto fondo d’assicura­
zione di cinquecento milioni di marchi, vuol dire che non meri­
tano proprio d’essere definiti membri del corpo economico della
Germania. ” L a grande borghesia provvide a fondare la propria
cassa per il finanziamento della lotta di classe: i quattrini furono
raccolti mediante sottoscrizioni; il capitalismo scovò i milioni ne­
cessari per salvare se stesso e la sua base economica, la quale im­
plicava la possibilità di disporre di miliardi. Le associazioni bor­
ghesi, gli uffici d’arruolamento dei Freikorps,6 le organizzazioni
studentesche, i militari in servizio attivo, perfino il partito social-
democratico, ricevettero sovvenzioni dal “ fondo per la lotta con­
tro il bolscevismo. ” L a Antibolschewistiche L ig a 7 provvide ad
aizzare il popolo con libelli e adunate; aizzò lanzi e sicari contro
Rosa Luxemburg e K arl Liebknecht. Il Solidarierkreis,8 il circolo
della “ Coscienza ” che s’era formato attorno a Moeller van den
Bruck, il Herrenklub,8 erano tutti e nient’altro che dei centri di
arruolamento nei quali si istruivano alla lotta contro il bolscevi­
smo intellettuali in caccia di un impiego e in pari tempo li si
provvedeva del denaro necessario. Per la vasta crociata contro il
bolscevismo, la Lega antibolscevica forniva le idee, i fondi anti­
bolscevici, i quattrini: i generali e gli ufficiali in servizio attivo, gli
stessi che, dopo aver dato vita ai Freikorps, formarono poi il nerbo
della Reichswehr, “ fornirono i reparti armati, nelle cui file spera­
vano di guadagnarsi, durante la guerra civile, gli allori di cui non
avevano potuto fregiarsi in quella mondiale.
La base d’operazione piu sicura per simile crociata era fin dal
1920 la Baviera. Qui l’alta burocrazia se la faceva con la congiura,

0 Freikorps: Corpi di volontari, ex-combattenti della guerra ’ i4 -’ i8 , formati so­


prattutto da ufficiali. [N . d. T .]
* Lett., Lega antibolscevica. [N. d. T.]
8 Lett., Circolo della solidarietà. [ N .d .T .]
0 Lett., Circolo dei signori. [N . d. T .]
10 Reichswehr: Esercito del Reich; fu l’organismo militare a base inizialmente vo­
lontaria che il regime nazista trasformò poi in Wehrmacht. [N. d. T .]

23
RULLA SOGLIA

il complotto, il tradimento, le sante Veme antibolsceviche. L a po­


lizia di Monaco di Baviera forni, a più di un sicario di parte bor­
ghese, falsi documenti di identità, ne favori la fuga, impedi che
si facesse luce sui loro crimini.
Solo in Baviera il Putsch di Kapp era riuscito a fare la piazza
alla reazione borghese-capitalistica: a Monaco i ministri social-
democratici del Land erano stati allontanati dalle loro cariche e
la classe operaia privata del suo potere politico. Da allora in Ba­
viera non si parlò più di coalizione weimariana; una sequela di
sedizioni a sfondo separatistico, il cui centro era Monaco, sistema­
ticamente distrusse l’autorità della repubblica di Weimar. L a Ba­
viera, “ specchio d’ordine, ” sottostette agli ordini dello stato wei-
mariano solo se erano di suo gradimento. Dal canto suo, il governo
della Baviera emanò ordinanze in pieno contrasto con la costitu­
zione del Reich. L a Baviera insomma si ribellò allo statuto della
repubblica: la sua vanagloria separatistica, i suoi mezzi politici,
proporzionali all’estensione del territorio e al numero degli abi­
tanti, le organizzazioni statali, tutto in Baviera servi gli interessi
della grande borghesia tedesca. Il “ bolscevismo, ” contro il quale
la Baviera senza posa tuonava, fu inteso quale compendio dei di­
ritti legalmente acquisiti dalla classe operaia e delle sovrastrutture
operaistiche del compromesso weimariano. Dalla Baviera doveva
partire la scintilla della guerra civile contro il proletariato; la con­
quista di Berlino doveva iniziarsi a Monaco; dalla Baviera, la dit­
tatura borghese-capitalistica avrebbe marciato contro il Reich de­
mocratico, imbevuto di tendenze proletarie.
Lo stato maggiore politico della grande borghesia tedesca, vale
a dire l’Alldeutscher Ver band,11 aveva pronto il suo toccasana:
un direttorio con funzioni dittatoriali doveva assumere il potere
e imporre il giogo ai lavoratori; la Baviera sarebbe stata lo stru­
mento principale per la realizzazione del piano.
L a repubblica di Weimar non si decise mai a fare i conti con
la Baviera, alla quale tenne bordone anche quell’ala della borghe­
sia che, orientata a sinistra, aveva parte nel compromesso weima-

11 Organizzazione nazionalistica, creata nel 1905 — all’indomani delle elezioni


che rivelarono quale forza avesse in Germania la socialdemocrazia — coi fondi forniti
dai grandi industriali tedeschi. [N . d. 2\]

24
I BATTISTRADA DELL’h ITLERISMO

riano. Non ci fu democratico borghese il quale permettesse che si


toccasse questa riserva del capitalismo. Anche la classe operaia
aveva due riserve, due basi organizzate a stato: Turingia e Sasso­
nia. Ma la socialdemocrazia, che le temeva più di quanto non le
desiderasse, non vi fece mai ricorso. Quando, nel novembre del
1923, si tentò di imporre alla nazione tedesca il toccasana del-
l’Alldeutscher Verband, attraverso il primo, avventato Putsch
hitleriano, le forze armate del Reich provvidero a liquidare non
già la tracotanza della borghesia bavarese, bensì le conquiste de­
mocratiche del proletariato sassone e turingio: il Putsch di Mo­
naco fu, per la Wehrmacht, il pretesto ideale per distruggere l’au­
tonomia e la potenza della classe operaia in Sassonia e in Turingia.

25
Capitolo secondo

Alla ricerca di un Cesare

N el novembre del 1918, sembrò che i circoli militaristi della


Germania avessero giocate tutte le loro carte. Per quattro anni
avevano condotto la guerra, conquistando un enorme potere po­
litico economico e militare, e il loro ultimo colpo di genio era
stata la capitolazione del 1918.
Nei giorni di novembre di quell’anno a qualche ufficiale erano
state strappate le spalline; nessuna casta dominante che avesse
spinto nell’abisso il proprio popolo se l’era mai cavata con minor
danno. Quella tedesca interpretò la mitezza popolare come un
segno di debolezza; e, non appena fu certa che non sarebbe stata
costretta al rendiconto, riacquistò l’alterigia di prima; levò alte
grida contro la “ plebe ” che le negava quel rispetto che da lungo
tempo ormai più non meritava; rovesciò completamente la situa­
zione, attribuendo la colpa della disfatta e delle sue conseguenze
a coloro i quali finora non avevano mai potuto esprimere la loro
opinione, ed erano stati costretti semplicemente a ubbidire; lo
stesso popolo, al quale essa per decenni aveva negato ogni respon­
sabilità, doveva da un giorno all’altro assumersi la colpa di ciò
che la casta militare aveva fatto. Affermò impudentemente che la
vittoria era stata a portata di mano, e che soltanto la “ pugnalata
alla schiena ” aveva causato la catastrofe. Laddove insomma i capi
militari avrebbero dovuto riconoscere fino in fondo la paternità
di quelle azioni grazie alle quali avevano potuto ornarsi di tanti
allori di anticipo sulla sperata vittoria, preferirono l’onta e la
vergogna del rifiuto di ogni responsabilità; i militari pretesero di
far dimenticare, da un giorno all’altro, che essi per anni avevano
tenuto in pugno le leve della nazione.
Se i militari tentarono, con imperturbabile faccia tosta, di sca­
ricare sulle spalle del popolo la colpa della sconfitta, ciò avvenne
ALLA RICERCA DI U N CESARE

perché intendevano acquistarsi il diritto morale alla riconquista di


quelle posizioni di potenza, sul piano politico interno, che erano
stati costretti a cedere: un obbiettivo questo che era balenato loro
immediatamente, e sul quale puntarono con testarda determina­
zione. N el maggio del 1920, fallito il Putsch di Kapp, la grande
borghesia aveva compreso con straordinaria chiarezza che, se vo­
leva riprendere le antiche posizioni, poteva farlo solo a patto di
rinunciare alle sovrastrutture feudali-junkeriane, e di sposare esclu­
sivamente la causa dello stato nazionale borghese. In pari tempo,
l’istinto diceva alla grande borghesia che la democrazia parla­
mentare weimariana non era affatto la forma definitiva dello stato
nazionale borghese tedesco: il parlamentarismo era ben lungi dal
garantirle quella sconfinata libertà di manovra che essa richie­
deva, e d’altra parte Weimar si reggeva sulla umiliazione delle
antiche classi dominanti. Ben altrimenti s’addiceva alla grande
borghesia la forma statale del cesarismo; meta che implicava la
riduzione del popolo tedesco, una volta di piu, all’obbedienza pe-
rinde ac cadaver della caserma, ciò che, nella cornice dei grandi
affari, avrebbe permesso la riconquista della felice condizione di
unico e solo “ padron di casa. ” Non era affatto una speculazione
sbagliata, puntare sul cesarismo statale; Spengler, nel suo libro
Tramonto dell’Occidente, aveva dato la dritta, e Spengler aveva
avuto buon naso. Superfluo dire che tale cesarismo doveva essere
di natura demagogica; bisognava adulare quelle stesse masse che
si disprezzavano e sulle quali si voleva trarre esemplare vendetta
per i fatti del novembre 1918. Ma anche se non si fosse giunti a
nessun risultato concreto, ebbene: Parigi valeva sempre una mes­
sa, e siccome ci si riteneva capaci di menare per il naso a dovere
le masse, piaggiarle costava ben poca fatica. Tuttavia non era
possibile mettersi direttamente in contatto con le masse stesse;
occorrevano intermediari, agenti, demagoghi. Il problema: avreb­
bero gli infamati campioni della borghesia trovato un pesce di
bocca tanto buona da mordere senz’altro alla sporca esca che gli
veniva offerta?
E il pesce di buona bocca, eccolo: bastò, per trovarlo, che i
militari si guardassero in giro. Hitler, scoprirono i suoi commit-

27
SULLA SOGLIA

tenti, era Bildungsoffizier, 1 in altre parole, delatore; il Bildungs-


offizier era il demagogo da caserma, la tavola di salvezza alla
quale si erano aggrappati i capi militari quando, nel 1918, s’erano
sentita l’acqua alla gola. Il Bildungsoffizier doveva essere un indi­
viduo dalla parlantina sciolta, e non era necessario che portasse le
spalline: bastava alla bisogna anche un semplice sottufficiale, per­
fino un graduato di truppa. Doveva però conoscere bene l’arte di
tinger tutto di rosa e di tener su il morale; aveva come avversari
i pessimisti, i brontoloni, i disfattisti, e a questi doveva tappare la
bocca, “ ferrarne” la volontà di resistenza; finito il suo quotidiano
lavoro, eccolo chiamato a rapporto: e si voleva sapere da lui qual
era il morale degli uomini e quali fomentatori di disordini dove­
vano essere presi di mira e messi in condizione di non nuocere.
Il Bildungsoffizier, insomma, aveva il doppio compito di indorare
la pillola e di fare la spia; egli doveva ridurre nelle mani dei capi
militari le masse; e, quando era chiamato a illuminarle, doveva
insegnar loro a vedere il mondo sotto l’aspetto più favorevole ai
capi militari.
Hitler era diventato Bildungsoffizier solo dopo la rivolta di
novembre, mettendosi al servizio dei capi militari in un momento
in cui questi i loro allori li cercavano nella guerra civile, e ancora
nel 1920 era alle dipendenze del distretto militare di Monaco. Era
stato comandato nelle file della Deutsche Arbeiter Partei (Partito
tedesco dei lavoratori), di cui aveva la tessera numero 7, allo scopo
di controllare se questa fosse un’organizzazione per mezzo della
quale si potessero aggiogare al carro della Wehrmacht i lavoratori
e le masse. I militari l’azzeccarono: Hitler scopri, in quell’attività,
la sua vera vocazione — oratore da comizio e capopopolo. Cosi
\ i militari avevano finalmente il demagogo che occorreva loro per
incanalare il movimento delle masse nel senso desiderato. Il capi­
tano Rohm divenne l’intermediario fra l’esercito e il Partito tedesco
dei lavoratori, al quale procurò nuovi aderenti e trovò sovvenzioni.
“ Io non mancavo, ” scrisse poi Rohm nel suo libro Die Geschichte
eines Hochverràters [ Storia di un traditore], “ quasi a nessuna
adunanza, e a ognuna di esse potevo portare qualunque amico1

1 Lett., ufficiale educatore. [A7, d. T.]

VK
ALLA RICERCA DI U N CESARE

del partito, soprattutto se appartenente ai circoli della Reichswehr.


In tal modo, anche noi commilitoni della Reichswehr contribuim­
mo largamente allo sviluppo di quel giovane movimento politico. ”
La nuova Wehrmacht tenne insomma a battesimo il movimento
hitleriano. Essa innalzò il podio per il futuro tribuno e spianò la
strada al trionfo del nuovo cesare. Hitler iniziò la sua carriera po­
litica come rampollo della casta militare, e ci fu sempre un gene­
rale pronto a dargli una mano ogniqualvolta incespicasse. Questo
movimento, il quale fin dal principio si mise in marcia senza sgar­
rare d’un passo, s’ammaestrò all’obbedienza cieca, pronta, assoluta,
gettò fango con voluttà su ogni atteggiamento di libertà civile e
morale, promettendo di diventare propedeutica alla caserma che
i generali volevano fare della Germania. N on ci vuol molto per',
persuadere il tedesco a prender gusto alla caserma e alle marce in ?
fila per quattro; il tedesco è, per predisposizione naturale e per \
tradizione storica, un “ soldato in lui cova la tendenza alla bru- j
talità, al menar le mani, a non andar troppo per il sottile, a non ■
attribuire eccessivo valore alla vita altrui e alla propria; egli pre- )
ferisce reagire coi pugni piuttosto che con le idee. Sigfrido lo stolto,,
l’eroe dalla testa debole, colui che non discute mai perché non ne
ha la capacità, e che invece pone subito mano alla spada per tagliare
il collo di coloro che gli dan noia perché hanno un cervello; il
pazzo scatenato che a colpi di brando lacera il fine tessuto ordito
da un abile spirito: questo, l’eroe omicida, è l’ideale del tedesco.
11 tedesco non si fida di sacerdoti e poeti, pensatori e letterati, uo­
mini educati e spiriti sottili: costoro provocano le sue reazioni
violente. Le gesta eroiche intrise di poca intelligenza, ecco il suo
“ patrimonio ereditario nordico-germanico. ” E la disciplina, la
sudditanza alla quale lo obbligano i suoi nobili signori, principi
c padri della patria, finisce per produrre il suo effetto: quanto è
rozza la sua sensibilità per le conseguenze che gliene possono ve­
nire, altrettanto decisa è la sua avversione ad accollarsi la respon­
sabilità del caos che provoca, delle rovine che si lascia alle spalle,
a rispondere di persona delle vittime che egli “ fa fuori. ” L a di-\
struzione è per lui una voluttà, ma vuole che gli si comandi d ii
distruggere: vuole avere, distruggendo, la sensazione di compiere \
un dovere; vuole praticare l’obbedienza, ancorché imperversi fu- j

29
SULLA SOGLIA

rioso; qualunque brutalità è cosa che gli riempie il cuore di gioia,!


purché un Capo l’abbia ordinata. L a pace della coscienza egli la;:
trova nel totale adempimento degli ordini ricevud, e nello sfogare,
com’è suo dovere, i bestiali appetiti della propria natura, non prova
allora alcuna vergogna: egli è in servizio, e l’etica dell’obbedienza
legalizza tutto ciò che fa. Il lanzichenecco tedesco, il soldato te­
desco, è un eroe che non esita di fronte a niente, se a ciò è stato co­
mandato.
G li istinti soldateschi, che dormicchiano nelle masse tedesche,
erano stati profondamente offesi dall’esito della guerra, dal di­
sarmo, dagli articoli del trattato di Versaglia, implicanti coerci­
zioni d’ordine militare. Se dunque si fosse mostrata piena com­
prensione per le fosche aspirazioni revanchistiche delle masse stesse,
queste non si sarebbero curate di chiedere a quale dubbia causa
le si aggiogava. Ma dal punto di vista dei militari tedeschi, per ora
era sufficiente che si aizzassero gli istinti soldateschi delle masse,
la Reichswehr prese misure atte a impedire che gli istinti in que­
stione si colorissero di rivoluzionarismo sociale: le masse dove­
vano far propria la causa dell’ordine borghese; e, come si dovevano
rinnovare le sorpassate strutture militari, allo stesso modo biso­
gnava riformare la società borghese-capitalistica. E fu proprio per
questo che la casta militare levò Hitler sugli scudi, perché egli
dava piena, personale garanzia, in pari tempo di riuscir gradito
agli istinti borghesi, e di suonar la diana agli istinti soldateschi.
Capitolo terzo

Il momento del tamburo

Mai Hitler affrontò una decisione, mai ebbe titubanze, mai fu


messo davanti a una scelta, lui che aveva a bella prima avvertito
come le sue uniche occasioni fossero dalla parte della borghesia
c come a un attivista borghese si potesse aprire una splendida
carriera politica. A l borghese toccava vegliare in armi, se non vo­
leva soccombere alla marea bolscevica, e aveva partita vinta con
lui, chi, nonostante la tetraggine del presente, riusciva a fargli
balenare le più rosee illusioni. Hitler inscenò subito la guerra ci­
vile: il suo linguaggio, i suoi strilli, il suo impeto, la maniera con
cui buttava albana i comizi avversari e provocava risse all’osteria,
dicevano che, lungi dall’interessarsi agli agoni dialettici, si pro­
poneva unicamente di schiacciare il suo avversario, il proletariato.
I ,a pedagogia politica del suo partito era mero addestramento alla
guerra civile, e manovre in vista di questa le organizzazioni del
partito stesso. Lui si che gli istinti soldateschi li teneva nel debito
conto; con lui si marciava e ci si esercitava, si apprendeva a rico­
noscere e aggirare le posizioni, a lavorar di taglio e di punta, a
comandare e ubbidire; non si dibattevano problemi, non ci si chie­
deva se era giusto o ingiusto, non s’andava tanto per il sottile:
qualcosa dava a pensare? la si calpestava senza tanti riguardi, e
tosi se ne veniva a capo nella maniera più radicale. Sotto le ban­
diere di Hitler si poteva essere eroicamente borghesi, ciò che sod­
disfa in pieno il gusto del tedesco. Hitler aveva un modo tutto
suo di farla fuori col nemico di classe proletario, che gli accatti­
vava la fiducia del borghese. Se dunque l’impresa andava a buon
line, logico che Hitler diventasse il numero uno della società bor­
ghese. La “ repubblica dei consigli” di Monaco fu una manna per
I litlcr; era stato al momento del suo sfacelo che il borghese aveva
assaporalo sangue proletario, pregustato l’ebbrezza della vittoria

V 31
SULLA SOGLIA

nella guerra civile: sicché egli era dispostissimo alle manovre


hitleriane in vista della guerra civile: dopo tutto forse conveniva
— non se ne era già fatta la prova con gli spartachisti? — farla
finita con l’intera classe operaia. “ Con le teste di questa gente
lastricheremo ancora le strade, ” ebbe ad affermare nel 1919 il co­
mandante di un corpo di volontari bavaresi.1 Tale era, crollata la
repubblica di Monaco, la disposizione d’animo della borghesia ba­
varese nei confronti della classe operaia.
N el 1919, alle prime avvisaglie di rivolta, il proletariato di Mo­
naco si trovò contro l’intera Baviera, città e campagne. Da un
giorno all’altro, il tradizionale odio per la Prussia fu accantonato;
il borghese e l’agricoltore bavaresi sentirono che era preferibile
morire prussiani, piuttosto che languire proletari; e accolsero con
giubilo i volontari della Germania del nord, accorsi in forze schiac­
cianti contro quel pugno di rivoluzionari bolscevici, e trovarono
di loro gusto i metodi prussiani coi quali i vincitori sfogarono la
loro bile contro i vinti; affermarono che era cosa ben fatta la fu­
cilazione in massa di inermi operai, e non spesero parola per de­
precare la sorte di quei venticinque cattolici uccisi senza colpa
né pena. Partiti i volontari, il borghese di Baviera si rimise salda­
mente in sella; si senti le qualità di un San Giorgio uccisore di
draghi, che poteva ben gloriarsi di essere riuscito a superare una
simile prova. La sua presunzione di classe gli impedi di tollerare
più oltre il governo di coalizione del socialdemocratico Hoffmann
e, liberatosene grazie al Putsch di Kapp, improntò l’organizza­
zione statale bavarese al clericalismo borghese. I tribunali usarono
due pesi e due misure, e fu evidentissimo il divario dei giudizi,
a seconda che sul banco degli imputati sedesse un borghese 0 un
proletario; la Baviera cercò, coi processi intentati per crimini di
guerra e tradimento, di togliersi di dosso 1’ “ onta della rivolta di
novembre ” : bisognava far dimenticare che il borghese ed il pro­
prietario terriero di Baviera nel 1918 avevano accolto con vero
sollievo la rivoluzione di Eisner. Le forze d’ordine fecero del loro
meglio per cancellare qualunque traccia degli omicidi perpetrati

1 K il l in g e r , Ernstcs und Hciteres aus dem Putschlcben [Serio e faceto nétta storia
del Putsch ].

32
IL MOMENTO DEL TAMBURO

dai sicari; il capo della polizia di Monaco, Pòhner, provvide gli


uccisori di Erzberger e di Gareis di falsi passaporti, ne facilitò la
fuga all’estero. I nemici della repubblica di Weimar, per quanto
identificati e segnalati, si davano allegramente convegno a Monaco,
protetti dalle autorità costituite, mentre la legalità cessava laddove
avrebbe dovuto soccorrere il proletario: ciò che fruttò alla Baviera
la fama di specchio dell’ordine borghese.
Nella Germania del nord si invidiava alla Baviera il suo re­
gime, la fama di von Kahr era giunta fino alla Pomerania e alla
Prussia Orientale; Ludendorff si trasferì a Monaco, perché qui si
sentiva piu vicino alla Prussia di quanto non si sentisse a nord
del Meno. L a grande borghesia del settentrione guardò con inte- t
resse alla Baviera; Minoux, il braccio destro di Stinnes, fece oggetto
di studio la situazione di Monaco. L a Baviera brulicò di forma- !
zioni da guerra civile, animate dal più puro spirito di restaura­
zione, di associazioni combattentistiche e di organizzazioni para-
militari di tutte le specie, raggruppate attorno alla persona di
Ludendorff, la cui autorità in campo militare era pur sempre in­
tatta. Fu da questa autorità che Hitler ebbe l’appoggio più effi­
cace, lui che veniva salutato come il tambur maggiore del gene­
ralissimo.
In Baviera, insomma, il borghese era andato più avanti che non
nel resto della nazione, dove bisognava ancora vivere gomito a
gomito con i lavoratori imbevuti di marxismo. Le teste calde della
Germania settentrionale e occidentale magnificavano la missione
della Baviera, che era quella di spazzar via il marxismo dall’intero
Reich tedesco, e queste lodi trovavano pronta eco a Monaco, dove
si finì per sentirsi davvero in grado di soddisfare l’aspettativa. Ci
si persuase che non occorreva perdere dell’altro tempo : il “ do­
minio marxista ” doveva essere abbattuto in tutte le province te­
desche, l’intera Germania doveva, sull’esempio di Monaco, diven­
tare uno specchio d’ordine e di disciplina. Il Putsch hitleriano del
novembre 1923 si rivelò così per quel che era, un parto prematuro
dell’impazienza borghese-capitalistica.
Chiaro che il movimento di restaurazione borghese in Baviera
aveva sopravvalutato le proprie forze: in marcia s’erano messe re­
lativamente scarse frazioni dei ceti piccolo-borghesi e le schiere

33
SULLA SOGLIA

del sottoproletariato che non avevano niente da perdere e anzi tutto


da guadagnare dai disordini. La stragrande maggioranza della
borghesia aveva guardato all’avventura con non celata simpatia,
ma dare aperto aiuto ai rivoltosi era sembrato troppo rischioso ai
benpensanti, atterriti all’idea di scottarsi innanzi tempo le dita;
sicché, sotto il troppo tenue velo degli elementi piccolo-borghesi
e sottoproletari, balenò nuda, riconoscibile da tutti, la spada della
Reichswehr. G li allievi della scuola di guerra di Monaco avevano,
in nome di Hitler, rifiutato obbedienza al governo legale, e il co­
mandante della piazza, von Lossow, aveva assunto un atteggia­
mento quanto mai ambiguo; le forze armate della Baviera, avendo
preso parte all’aborto di Putsch, erano dunque compromesse: si
erano impacciate in una impresa tutt’altro che seria, avevano com­
messo un errore che non si poteva ripetere una seconda volta.
Hitler doveva far rullare il suo tamburo con molto maggior vigore
di quanto non avesse fatto finora; il movimento nazionalsocialista
doveva trasformarsi in movimento di massa di ben altra ampiezza,
tale da mobilitare fin l’ultimo villaggio della Germania. Dal canto
loro, i militari dovevano imparare ad aver pazienza, ad attendere
che la massa fosse matura e il frutto cadesse loro in grembo da
solo. Se si doveva riattizzare il fuoco della guerra civile, bisognava
che divampasse, e in grande. Da demagogo mutarsi in cesare, non
era cosa che si potesse ottenere a troppo buon mercato: gli strilli
di Hitler dovevano risuonare ancora per anni nelle orecchie dei
tedeschi, prima che la Germania si “ risvegliasse. ”
Bisognava ancora che fossero adescati effettivi del sottoprole­
tariato ben più cospicui di quelli che finora Hitler era riuscito ad
attirare nel suo movimento. Sottoproletario è, di norma, ogni fallito,
qualunque sia il livello sociale al quale è avvenuto il suo naufragio;
e l’espressione non è forse troppo bene scelta: non è vero che il
sottoproletario sia anzitutto una mera varietà di proletario. Si,
l’operaio può sprofondare al livello del sottoproletariato, ma in
tal caso non fa che capitare in una sorta di calderone nel quale
s’imbatte con la feccia dei ceti borghesi e feudali. V i sono dei ca­
nali sotterranei che menano dalle migliori famiglie fin giù, nel­
l’abisso del sottoproletariato; il quale è, come si afferma nel Mani-

34
IL MOMENTO DEL TAMBURO

festa dei Comunisti, il prodotto del “ disfacimento passivo” dei


vecchi ceti sociali.
Dopo la sconfitta, in Germania s’incontravano sottoproletari
ad ogni piè sospinto: volontari di guerra i quali avevano abban­
donato gli studi o la professione e che, dopo le cruente esperienze
della trincea, non riuscivano più a inserirsi nel vecchio ofdine
borghese; ma soprattutto ex-ufficiali di carriera posti in congedo
e che negli abiti civili si sentivano come in una pelle estranea: co­
storo andavano a rimpolpare i corpi di volontari, impiegati ora
nel Baltico, ora contro i lavoratori tedeschi. Un tempo erano ap­
partenuti alla buona società; ora non avevano più credito, e
fortunati se riuscivano a riempirsi lo stomaco. E benché schizzas­
sero veleno addosso ai “ grossi borghesi, ” erano ben lungi dall’es­
sere dei ribelli all’ordine borghese; ce l’avevano col borghese, per­
ché questi se ne stava a scaldare la sua poltrona, in quel circolo
nel quale essi non potevano più darsi bel tempo. Avevano fondati
motivi, dunque, per fare l’occhiolino a l ' “ socialismo ” : da una
parte, per loro, il socialismo era una correzione apportata alla di­
si diluzione dei redditi nell’ambito dell’ordine borghese, grazie
alla quale essi potevano riattingere alla gioia di vivere, al lusso;
d’altra parte, il socialismo era, sempre ai loro occhi, un mezzo di
estorsione: il borghese si sarebbe spaventato, avrebbe tratto di
tasca il libretto degli assegni, decidendosi a compiere qualche sa­
crificio per non far sì che questi “ duri ” passassero nel campo della
vera e propria rivoluzione sociale. Non è difficile comprare il sot­
toproletario, ché questi in eterno non fa che attendere un compra­
tore disposto a offrire un prezzo decoroso.
Questi ufficiali disoccupati erano incappati nel destino dei de­
classati, perché la struttura andata a pezzi nel 1918, aveva rivelato
la propria inconsistenza. Pure, essi erano stati i rappresentanti di
quella struttura alla cui massa fallimentare appartenevano: ne erano
stati il sostegno, il braccio, gli usufruttuari. A essi si estendeva il
giudizio che la storia aveva dato della società prebellica: se questa
era marcia e corrotta fino al midollo, giusto e logico che coloro
i quali un tempo ne erano stati i membri rappresentativi ne speri­
mentassero la sorte sulla propria carne. Perciò si guardarono bene
dal tirar sassi contro la società di un tempo: in realtà volevano

35
S U L L A S O G L IA

restaurarla per tornare in alto assieme a essa. L a tradizione, co­


storo non permisero che fosse manomessa : erano “ rivoluzionari
conservatori. ” A loro avviso, a causare il crollo dell’antica struttura
sociale non era stato il suo interno marciume, ma la scelleratezza
della classe operaia, che nel 1918 ne aveva assunto la triste eredità.
Il proletariato, il marxismo: ecco i veri colpevoli. I sottoproletari
avevano insomma il capro espiatorio, sul quale scaricare l’intera
responsabilità delle loro miserie, e non occorreva quindi che essi
si battessero il petto; avevano a portata di mano il toccasana poli­
tico: mentre da un lato la classe operaia sarebbe sprofondata nel­
l’abisso, sarebbe tornata in auge, cosi speravano, la vecchia società,
pronta a ridistribuire loro gli onori perduti, il fasto e il potere per­
duti. Contro i lavoratori marxisti, erano spietati : questi costituivano
l’ostacolo sul loro cammino. “ Durante tutta la sua esistenza, ” af­
ferma il Manifesto dei Comunisti, “ il sottoproletario sarà pronto a
farsi prendere al servizio dalle mene reazionarie.”
Dal canto suo, la borghesia capitalistica si teneva cari questi
sottoproletari, li ammantava di veli romantici, sorrideva compren­
siva quando li udiva urlare a squarciagola certe loro canzonacce
da lanzi. Fossero pure scontenti e irriverenti: tanto meglio si sa­
rebbero lasciati arruolare e aggiogare. Il borghese rideva sotto i
baffi, quando quelli tuonavano contro i grossi ventri borghesi; egli
sapeva che, al momento buono, le nuvole avrebbero scaricato lampi
e fulmini addosso agli operai, bastava che a quelli si facesse bale­
nare, come ricompensa, la possibilità di mettere su pancia anche
loro.
Questo tipo di sottoproletario s’incarnò alla perfezione in
Gòring. L ’ex-capitano sul cui petto brilla la croce al merito è, per­
duta la guerra, da un giorno all’altro uno sbandato. Goring s’ac­
costa ai libri, si avvicina a Hitler, si dà da fare coi paracadute,
s’intontisce con la morfina, pronto ad azzuffarsi appena glielo
ordinino; e, dietro tutto l’inquieto rivoluzionarismo di cui s’in­
fiorano le sue labbra in quegli anni di demagogica agitazione, si
cela lo struggente desiderio di sfoggiare, un giorno finalmente, la
pompa di un Nerone e lo sfarzo di un Cesare. Il “ socialista ” Gò­
ring è uno scialacquatore inibito, è rivoluzionario perché gli manca
il denaro che gli occorre per condurre la vita dispendiosa alla quale

36
IL M O M E N T O D E L T A M B U R O

si sente irresistibilmente portato dai suoi complessi patologici. È


pronto a infilarsi qualunque divisa, purché questo gli dia modoV
di riempirsi le tasche. G li resta, dopo che ha mostrato al mondo]
fino a che punto possa giungere un sottoproletario privo di scru-f
poli, il bizzarro bisogno di abbagliare chi gli sta attorno con la
ricchezza e la vistosità del guardaroba, che egli rinnova di conti­
nuo con inesauribile fantasia.
Il sottoproletariato dunque legò al carro di Hitler le sue estreme
speranze. Era si, ormai, una “ massa, ” ma non accorse certo in
massa, nel novembre del 1923, sulla Feldherrnplatz di Monaco.
Il disoccupato non è, di per se stesso, già un sottoproletario; ma
(ale può diventare, qualora questa condizione duri a lungo. Il
sistema capitalistico richiede, per poter funzionare e garantirsi un
profitto, un eccesso di popolazione. L ’armata di riserva dei prole­
tari senza lavoro deve essere presente sullo sfondo, per esercitare
q uella pressione sul livello dei salari che è necessaria perché la
borghesia riesca a mettere le mani sul plusvalore. Non è stato l’au­
menta della popolazione che ha dato vita al capitalismo e ne ha
permessa l’espansione, è stato al contrario il capitalismo che ha
dato la spinta iniziale al moltiplicarsi del numero degli abitanti:
sempre, quando si lancia una campagna demografica, sono in
gioco interessi capitalistici.
Da quando esiste l’ordine capitalistico, esiste anche l’armata
di riserva dei senza lavoro, nell’ambito della quale ha luogo un
continuo ricambio del materiale umano. Un tempo, dopo un certo
periodo, gli operai disoccupati trovavano nuovamente lavoro, ma
per questo era necessario che altri lavoratori, i quali fino a quel
momento avevano un’occupazione retribuita, fossero gettati sul
lastrico. Per il lavoratore singolo, la disoccupazione non era in­
somma un fenomeno duraturo, bensì un infortunio, dal quale egli
dopo un certo tempo si toglieva. I risparmi, gli aiuti delle organiz­
zazioni operaie, il sostegno dei compagni, i contributi degli istituti
di previdenza sociale riuscivano a portarlo in acque meno agitate.
Non si cessava mai di essere un operaio, il che significava tenere
gli occhi sempre bene aperti, pronti di continuo a cercarsi una
nuova occupazione.
Ma il dopoguerra aveva trasformato la disoccupazione in de-

37
S U L L A S O G L IA

stino permanente. L a Germania perse terreno sul mercato inter­


nazionale; e la conseguenza fu un taglio della produzione. V i
erano degli operai che in tutto l’anno non riuscivano a fare una
sola giornata di lavoro, e costoro finirono per abituarsi alla pub­
blica beneficenza. Essi pretendevano l’erogazione dei sussidi di
disoccupazione, allo stesso modo con cui le plebi romane avevano
un tempo reclamato la distribuzione gratuita di granaglie: erano
dei mantenuti, erano parassiti. Tornare al lavoro era ormai al di
là dei loro orizzonti: al pari della disciplina del lavoro, essi rifiu­
tavano ormai anche la capacità al lavoro. L ’uomo che lavora di­
venne per loro oggetto d’invidia, perché si muoveva su un altro
piano, per loro ormai impraticabile; e con lui non si sentivano
più solidali: non erano ormai più dei lavoratori, loro. Coi sinda­
cati non se la facevano più, ne guardavano storto i “ bonzi, ” e ve­
devano di malocchio la protezione che tali organizzazioni conti­
nuavano a dare ai propri membri. Erano pronti ad accettare qua­
lunque elemosina fosse loro offerta, ma non erano più degli
sfruttati, perché non producevano nessun valore del quale li si po­
tesse depredare.
Il sottoproletariato tedesco era pronto a lasciarsi inquadrare e
guidare contro gli elementi operai che conservavano una coscienza
di classe perché erano e si sentivano tuttora proletari sfruttati,
contro i partiti proletari, i sindacati e i loro dirigenti. Hitler non
si lasciò sfuggire l’occasione. Bastava che egli promettesse agli
elementi sottoproletari una minestra gratuita a mezzogiorno e una
bottiglia di birra la sera, per riuscire a rinsanguare le file dei suoi
bravi. Le braccia non gli mancavano di sicuro; e quando, dopo il
1928, la disoccupazione assunse forme catastrofiche, i sottoproletari
affollarono le sue adunate, furono la massa dei coscritti, dalla
quale Hitler trasse i gregari delle SA. I sottoproletari divennero
insomma la milizia, grazie alla quale Hitler riuscì a far breccia
nelle file del proletariato : erano quel “ sangue operaio, ” grazie
al quale Hitler si sentiva autorizzato a parlare in qualità di “ guida
della classe operaia, ” in nome di tutti i lavoratori. A l comando dei
sottoproletari “nati bene, ” le Sturmabteilungen2 e le Schutzstaf-

2 Sturmabteilungen (SA): Squadre d’assalto. [ N . d. T .]

38
IL M O M E N T O D E L T A M B U R O

feln 8 dei declassati di origine proletaria mossero all’assalto degli


operai dotati di coscienza classista.
Il sottoproletariato è la “ canaglia. ” L a canaglia è sempre pronta
a gettarsi nei nuovi movimenti che puntano alto, perché cosi spera
di trovare finalmente un terreno stabile sul quale posare i piedi
c, nell’ambito d’un nuovo ordine sociale, di assicurarsi una buona
posizione. Solo chi si trovi saldamente innestato in un ordine di
cose costituito non ha nessun desiderio di mutamenti; e la borghesia
sopportò con pazienza l’incomposto agitarsi di questa “ canaglia, ”
solo perché essa prometteva di favorire la sua causa.
Nel 1923, Hitler aveva potestà, si può ben dirlo, solo su scarse
consorterie sottoproletarie. N el 1933 aveva ai suoi ordini uno ster­
minato esercito di declassati, e di pari passo s’allargò la schiera
dei suoi seguaci piccoloborghesi.
Nei momenti critici, il piccolo borghese è portato per costitu­
zione ad agitarsi scompostamente. Le sue proprietà son tanto piu
minacciate, quanto piu piccolo egli è; in un certo senso, egli è fra
gli ultimi della fila, quelli contro i quali i cani si scagliano a morsi.
La rapina effettuata dai grandi, i potenti e i ricchi di questo mondo
a spese della gente di bassa condizione non ha tregua, e qualche
penna ve la lascia anche il piccolo borghese. Coi grandi, i potenti
c i ricchi, anch’egli in un primo tempo è stizzito e amareggiato;
ma naturalmente, non appena i ceti più bassi, quelli che nella scala
sociale occupano posizioni inferiori rispetto alla sua, pretendono
di saldare i conti con le classi dominanti, allora è preso dallo sgo­
mento, allora prova un orrore repentino per il “ sottomondo so­
ciale, ” afferma la propria solidarietà con gli stessi ceti dominatori
• Ite anche a lui han giocato brutti tiri. L a sua collera, la sua prò-
lesta si scaricano allora verso il basso, verso le categorie sociali
possedute dal demone della rivoluzione: e contro quelle il piccolo
borghese latra con quanto fiato ha in corpo. Dando il suo aiuto
alla classe dominante, egli spera di garantirsi una maggiore sicu­
rezza sociale; e poiché ha l ’impressione che, se facesse causa comune
con le classi inferiori che egli guarda dall’alto in basso, finirebbe
su un terreno sconosciuto, irto di insidie, si fa paladino delle classi

" Scliutzstaflcln (SS): Reparti di difesa. [N. d. T .]

39
S U L L A S O G L IA

dominanti, ne impedisce la distruzione anche se quelle gli levano


la pelle di dosso. Egli, in altre parole, le serve nella speranza di
acquistarsene definitivamente la clemenza; e la sua iniziale spinta
rivoluzionaria va a finire che favorisce le intraprese della rea­
zione.
I disastri della guerra e la loro figlia, l’inflazione, avevano reso
instabile il terreno sul quale si era stanziata la piccola borghesia
tedesca, le cui tendenze rivoluzionarie non erano che una forma
di mal di mare sociale. Dapprima, in occasione delle elezioni del
gennaio 1919, il pìccolo borghese aveva sperato di trovare un punto
d’appoggio nella socialdemocrazia; ma ben presto rivennero a galla
in lui quegli umori piccoloborghesi, cui la vicinanza del prole­
tariato, che quivi non si poteva evitare, riusciva insopportabile.
Egli soggiacque allora all’influenza di H itler: i sottoproletari di
buona estrazione che lo seguivano, agli occhi del piccolo borghese
erano “ gente più per bene ” che non i lavoratori dell’industria
dalle mani callose. Ma solo dopo il 1923, quando l’inflazione
confinò anche la piccola borghesia nell’ambito di coloro che vivono
nell’ineluttabile insicurezza, solo allora essa si schierò in massa dalla
parte di Hitler. L a coscienza di appartenere agli strati superiori
della piramide sociale era in piena contraddizione con la effettiva
condizione del piccolo borghese: egli, che coltivava un’illusoria
coscienza sociale, considerò provvisoria la sua situazione di prole­
tarizzato; rifiutò di farvi l’abitudine; pretese di riacquistarsi la
posizione che a quella sua testarda coscienza sociale s’addiceva.
E se questo non accadeva per vie naturali, ebbene, allora bisognava
che intervenisse il miracolo: e chi lasciava al piccolo borghese que­
sta fede, quegli era l’uomo del suo destino. Il marxismo incorag­
giava il piccolo borghese a sentirsi proletario, perché da proletario
viveva — il marxismo voleva privarlo del suo orgoglio e delle sue
speranze. Ma a questo sincero bilancio cui il marxismo lo invitava,
il piccolo borghese opponeva un netto rifiuto. Egli voleva “ ritoc­
care ” il libro mastro della sua esistenza, nell’attesa dell’accadi-
mento imprevisto, quello che lo mettesse in condizioni di restau­
rare, dietro la adultera facciata sociale, la corrispondente realtà
sociale. Il nazionalsocialismo hitleriano si diffuse quindi fra i pic­
coli borghesi come un’epidemia; e, poiché Hitler forniva loro la

40
IL M O M E N T O D E L T A M B U R O

giustificazione morale, la scusa per operare l’alterazione dei bilanci,


i piccoli borghesi gli decretarono pieni poteri. Hitler preparava
l’avvento del grande miracolo, del giorno in cui ogni esistenza di
piccolo borghese, finalmente sanata, si sarebbe sollevata dall’abie­
zione proletaria.
Hitler insomma era il redentore, colui che ripuliva l’anima
piccolo borghese dal fango proletario e, come ogni redentore, pre­
tendeva fede cieca e assoluta.
Quando, grazie all’inflazione, la grande borghesia ebbe spaz­
zato via la proprietà piccolo borghese, non restò che il senso del­
l’onore piccolo borghese, dal quale Hitler attinse, per servirsene
contro il marxismo, quanto gli poteva tornare utile. N el 1933,
sotto la guida di Hitler, l’intera piccola borghesia tedesca potè ca­
varsi la soddisfazione di prender sulla classe operaia esemplare
vendetta per la depredazione inflazionistica, apparecchiata tra il
1922 e il 1923 dalla grande borghesia che ne trasse gran giova­
mento; i gruppetti di piccoli borghesi nemici dei lavoratori nel
1923 erano diventati nel 1933 l’armata dei piccoli borghesi assetati
di vendetta, allevati alla dura scuola della guerra civile. L a grande
borghesia industriale che la sconfitta del 1918 aveva privato della
sua potenza, e i suoi alleati, i militari junker, avevano dunque tro­
vato in questo esercito, in questo corpo misto di sottoproletari e
piccoli borghesi, la massa di manovra piu adatta a sostenere i ri­
schi di una politica d’avventura,

41
Capìtolo quarto

La massa dì manovra

Hitler si cangiò in ricettacolo di tutti gli scontenti: chi aveva un


conto aperto col resto dell’umanità, vedeva in lui il suo avvocato
difensore; chi era preso da angoscia per l’ingiustizia del proprio
destino individuale, sprofondava nel vortice della facondia hitle­
riana. E fu cosi che a Hitler andarono anche i cuori della gioventù
borghese.
L a generazione borghese postbellica era cresciuta in una Ger­
mania ridotta all’impotenza, un paese le ctfi posizioni di forza
mondiale erano crollate. La sicurezza del futuro, garantita ai
padri, era ormai cosa del passato. Questa gioventù non sapeva più
come collocarsi, come guadagnarsi il pane, donde iniziare una
carriera, dove trovare i mezzi per fondare una famiglia. L a Ger­
mania prebellica era diventata per i giovani un ricordo storico;
e se i padri deploravano la freddezza dei giovani nei riguardi delle
belle tradizioni, potevano esser messi a tacere, col chieder loro
perché non s’erano battuti meglio — e con maggior successo —
per difendere il patrimonio ideale. Dal momento che i padri ave­
vano messo nei pasticci i figli, era del tutto naturale che i figli
vedessero il nero dove il nero era. G li “ ideali dei padri ” erano
caduti in discredito; si rispettavano altrettanto poco i padri che i
loro ideali. I padri avevano avuto ben pochi grattacapi nel corso
tranquillo della loro esistenza: la sicurezza della posizione sociale,
la rispettabilità di una vecchiaia decorosa, la santità della proprietà
privata, tutte cose che ora, per i giovani, erano solo oggetto di riso.
Quel mondo sicuro era andato in frantumi, e di conseguenza per­
fino il suo ricordo era accolto con disprezzo dai giovani. I rampolli
della borghesia avevano un tempo detenuto il monopolio delle li­
bere professioni e degli impieghi statali; a partire dal novembre
del 1918, s’era fatta sentire una concorrenza d’origine proletaria:

42
L A M A S S A D I M A N O V R A

membri delle organizzazioni operaie e funzionari del partito so­


cialdemocratico s’erano infiltrati negli uffici dello stato, recando
pregiudizio alle carriere degli accademici.
La gioventù raramente si rassegna a un oscuro destino; e anche
la generazione postbellica rifiutò la rassegnazione. N el giovane
si celano sempre istinti di rivolta: è questo l’usuale tributo che il
futuro paga alla pubertà. Ma alle tendenze rivoluzionarie della
nuova generazione tedesca non era estranea una punta di malizia;
questi ragazzi volevano la sovversione: dal momento che essi di
proprietà private personali non ne avevano, si compiacevano di
fare i “ socialisti. ” A vero dire, si trattava di un socialismo a sca­
denza fissa, un socialismo che doveva cessare nel momento in cui,
proprio esso, li avesse condotti a possedere qualcosa. L a sovversione
alla quale miravano, aveva dunque un senso molto elementare: i
giovani volevano scacciare dagli impieghi ben rimunerati i rappre­
sentanti della vecchia generazione, nonché gli elementi d’origine
sindacale e partitica, e occuparne le poltrone; poiché inoltre gli
ebrei erano largamente rappresentati nelle professioni, la nuova
generazione divenne oltretutto antisemita. E fu con l’energia che
viene dall’aver compreso appieno l’importanza d’una greppia,
che essa si lanciò all’assalto del vecchio mondo. Sotto il calore
dell’idealismo giovanile, c’era la reale spietatezza con cui i giovani
lavoravano di gomiti per farsi largo.
Questa gioventù fiutò in Hitler l’uomo che faceva al caso suo;' /
le esplosioni che il nazionalsocialismo intendeva provocare, dove- v
vano servire a scardinare non già gli ordinamenti, ma gli uomini;
le declamazioni di tono antiborghese nascondevano in realtà l’im- /
pazienza di chi voleva a sua volta attingere alle prebende dell’or- j
ganizzazione statale e dell’economia capitalistica. Non si voleva \
certo abbattere il tronco della società capitalistica, perché a quello
stesso tronco si voleva appoggiarsi, e la gioventù borghese riteneva,
con l’aiuto di Hitler, di riuscire ad attingere, già nel fior degli
anni, buone posizioni sociali. Le direzioni generali e i consigli dei
ministri ammiccavano ai venticinquenni e ai trentenni; ancora in
età minore si poteva arrivare, o cosi si sperava, ad avere un’auto
e un’amante, e, perché no?, anche una casa di campagna sul Wal-
c licnsce. La gioventù borghese forni al movimento di Hitler lo

43
S U L L A S O G L IA

slancio, e il movimento, dal canto suo, rilasciò alla gioventù cam­


biali sopra futuri stipendi, titoli, bottini. I rampolli della borghesia
furono addestrati a praticare questo teppistico assalto ai buoni po­
sti quale sfogo del loro ethos socialistico, quale compimento della
loro missione patriottica. In tal modo il movimento hitleriano
raggiunse un’estensione sociale tale da dare a chiunque avesse
bisogno di rimettersi in sesto, la sensazione di cavarci il proprio
tornaconto.
Fu un momento risolutivo quello in cui anche il contadino
cominciò a vedere nel nazionalsocialismo la sua ultima tavola di
salvezza. Il periodo della guerra e dell’inflazione era stato una
manna per il contadino, perché gli aveva tolto di dosso il fardello
dei debiti. Della guerra perduta aveva fatto le spese la piccola bor­
ghesia diseredata, mentre il contadino s’era cavato perfettamente
d’impaccio come il grosso borghese. Ma nemmeno egli poteva
uscirne del tutto indenne: le sempre maggiori implicazioni del­
l’economia tedesca con quella del resto del mondo; gli obblighi
fiscali; il meccanismo creditizio, dagli ingranaggi del quale egli
era stato afferrato; i fondamenti giuridici della società borghese;
tutto questo risultava rovinoso per il contadino tedesco; tasse e
gabelle da un lato, dall’altro gli interessi per i crediti che in parte
almeno gli erano stati addirittura imposti, pesavano sulle sue
spalle. L ’importazione dall’estero di derrate alimentari a basso
prezzo e lo strozzamento del mercato interno, che erano nello
stesso tempo una conseguenza del pagamento delle riparazioni e
della politica di deflazione, riducevano i suoi redditi. Il corso dei
prezzi, crollati in conseguenza dello svilimento dei prodotti del
suolo e del rincaro dei prodotti industriali, toglieva al contadino
ogni libertà di movimento in campo economico. Sovvenzioni sta­
tali, riduzioni del tasso di sconto, cancellazione di debiti, aiuti di
vario genere, misure doganali di tipo protezionistico servivano a
ben poco. Il contadino era soffocato dalla massa dei debiti, e finiva
per far bancarotta, per mutare l’aratro con la scodella del mendi­
cante. N el 1931 erano in moto ben centocinquemila uscieri, impe­
gnati a portar via il bestiame dalla stalla del contadino e a mandarne
all’incanto le masserie.
In queste condizioni, il contadino avrebbe venduto l’anima al

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L A M A S S A D I M A N O V R A

diavolo, e Hitler non faticò molto per tirarlo a sé. L a stessa ditta- ^
tura di Brùning, che da un lato metteva a punto per il fascismo il
meccanismo costituzionale, dall’altro obbligava il campagnolo nello j
stato d’animo ideale per accettare il nazionalsocialismo. I villaggi |
ardevano di sdegno contro il “ sistema, ” il regime che sguinza- ■
gliava gli uscieri contro il contadino. Bastava ora che Hitler si met­
tesse a soffiare sul fuoco della disperazione e della rivolta, e Hitler
non mancò certo di farlo. Il contadino credette in lui, la sua inge­
nuità lo persuase a prestar fede alle promesse di H itler: riduzione
delle imposte, cancellazione dei debiti, stabilità patrimoniale. E
cosi Hitler assurse a messia del villaggio.
Fu quando la grande borghesia si rese conto che Hitler era
predestinato a diventare il Redentore di tutti gli scontenti della
Germania, che si decise a concludere con lui l’affare: Hitler fu
messo in contatto coi circoli che detenevano il potere economico,
grosse somme furono investite nella sua impresa. Prendendo al
proprio servizio Hitler, la grande borghesia metteva in pari tempo
le mani sulle masse che avevano fede in lui; il moto delle masse
veniva cosi deviato su un binario morto, e la grande borghesia non
correva più alcun pericolo di farsi investire e arrotare. Il minaccioso
brontolio della “ sollevazione popolare ” si concretò in un tempo­
rale che servi a depurare della polvere marxista l’aria fattasi pe­
sante sui campi della grande borghesia. Le sovvenzioni che questa
profuse a piene mani nel movimento di Hitler, a loro tempo si ri­
velarono un ottimo scongiuro contro i danni della tempesta sociale.

45
Capitolo quinto

Varietà del demagogo

Il demagogo è un tipo umano che si presenta nelle forme più


disparate. Qualunque ambiente, qualunque livello di sviluppo,
qualunque situazione sociale hanno la loro particolare varietà di
demagogo. Il demagogo è l’incarnazione dell’inganno perpetrato
dai ceti superiori a spese di quelli inferiori; la sua tattica, i suoi
mezzi, l’estensione sociale della sua attività sono proporzionali al
compito che egli si è assunto. L a sua statura, il suo livello mentale,
la sua cultura, il suo linguaggio, lo stile che fa suo, variano a se­
conda del tipo di ingannatore e di coloro che debbono essere in­
gannati, perché il demagogo deve andare a genio tanto al primo
che ai secondi: questi e quello devono poterlo comprendere e ap­
prezzare: l ’uno deve ritenerlo degno della sua fiducia, gli altri
devono aver fede in lui. N e risultano notevoli sfumature, a seconda
che il grosso borghese debba menare per il naso solo il medio o
anche il piccolo borghese e per giunta il proletario; che il grosso
proprietario terriero debba abbindolare solo il medio oppure anche
il piccolo coltivatore ovvero, oltre ai due, anche il bracciante agri­
colo; che la città s’apparecchi a mettere nel sacco la campagna; o
che, infine, tutti i ceti sociali debbano danzare al suono del flauto
di una ristretta oligarchia capitalista. E ogni volta dovrà esser messo
in campo un demagogo di stampo diverso.
Quanto più vicina al gruppo dirigente è la categoria sociale
che dev’essere imbrogliata, tanto più il demagogo che lo rappre­
senta potrà avere un proprio, individuale carattere. Qualora il
grosso borghese intenda aggiogare al suo carro unicamente la me­
dia borghesia, basterà che il demagogo che gli fa la strada riveli
un cuore medioborghese; e raggiungerà il suo scopo, anche se non
nasconderà la sua “ origine grossoborghese. ” Ma quanto più lon­
tane nella scala sociale sono le classi che il gruppo dirigente si pro-

46
V A R IE T À D E L D EM AG O G O

pone di far cadere nella pania, tanto meno al demagogo sarà lecito
provenire dall’alto. Ancora, quanto più varie tali classi sono tra
loro, tanto meno al demagogo sarà permesso un conio personale.
E, come il provenire “ dall’alto, ” può essergli di pregiudizio il
dar prova di un particolare tono sociale. Perché, quanto più poli­
morfe sono le classi sociali da ridurre a un comune denominatore
che si possa comodamente inserire nel calcolo del gruppo dirigente,
tanto più uniforme e privo di un proprio contenuto dovrà essere
il demagogo. È indispensabile che questi sia ritenuto l’avvocato
di quegli stessi ai quali vuol mettere la cavezza. Ogni strato sociale
deve riuscire a considerarlo suo pari; inversamente, il demagogo
deve poter essere tanto per gli altri, da non essere per sé nulla di
proprio, di originale. E, dal momento che si trasforma totalmente
in esistenza pubblica, non ha più ragione e modo di avere una sua
qualche esistenza privata. Diventa insomma mera formula rap­
presentante la quantità per la quale egli sta.
Prima che nella Germania postbellica i diversi strati sociali fos­
sero ridotti al comune denominatore della congerie indifferenziata
— la quale, tramite la formula dell’unico demagogo, si lasciasse
tranquillamente inserire in ogni partita di conto della grande bor­
ghesia — dovevano essere compiute ancora numerose operazioni,
intese a ridurre e semplificare i valori sociali. Erano necessari dei
demagoghi corrispondenti ai vari stadi intermedi; e costoro ave­
vano un compito particolare: quello di catalizzare il processo di
semplificazione, di passaggio da un livello all’altro. Risolto il pro­
blema, diventavano superflui e venivano gettati nell’immondezzaio
destinato ad accogliere i demagoghi usati.
Ben scarsa traccia hanno lasciato questi demagoghi svalutati.
Per anni si fecero a vicenda una spietata concorrenza e il “ Fronte
nazionale ” risuonò dei litigi dei capi. L a grande borghesia scopriva,
creava c congedava i demagoghi; assegnava loro il compito, sbor­
sava il denaro necessario, e li lasciava cadere quando non c’era più
nulla da cavarne. I primi fra essi avevano potuto ancora darsi l’aria
di gente per bene: a essi il compito di incutere alla media borghesia
il terrore del bolscevismo, facendole passare la voglia del socialismo
serio, del socialismo per davvero; era lecito a costoro possedere
ancora una certa solidità borghese: cosi gli istinti borghesi delle

47
S U L L A S O G L IA

loro vittime si sarebbero orientati su di essi. Eduard Stadtler, che


fu provvisoriamente ingaggiato da Stinnes in qualità di vessillifero
dell’antibolscevismo, scovò vecchie ricette patriottico-corporativisti-
che, studiandosi di sperimentarne l’efficacia coi nuovi tempi e co­
stumi; i socialisti in accomandita tipo Seldte s’incaricarono di af­
ferrare per il bavero piccoli e medi borghesi, per impedir loro di
cadere nelle braccia dei comunisti; il socialismo popolare di Lu-
dendorff, Wulle e Orafe, faceva appello alla vena romantica del
borghese e dell’agricoltore tedesco: le istituzioni capitalistiche si
rifacevano, come a un crisma che le santificasse, al fondo del san­
gue tedesco. Il socialismo prussiano di Hugenberg, cui Spengler
diede: sviluppo teorico, e che era praticato dagli uomini- elei Her-
ren^lub, ordinava al succube che si nasconde in ogni borghese
tedesco : “ Sull’attenti ! ” Il socialismo tedesco di Otto Strasser e
del Tat-Kreis 1 persuadeva i piccoli borghesi che le fantasticherie
sull’anima tedesca convenivano loro più che la lotta di classe tra­
mata dal diavolo marxista.
Mentre questi demagoghi pseudo-socialisti provvedevano a trat­
tenere i borghesi entro il campo d’azione del gruppo dirigente,
persuadendoli che erano ormai già tanto socialisti da non aver più
bisogno della cura marxista, certi transfughi del proletariato por­
tavano acqua al mulino della grande borghesia. Loro proposito,
convertire i socialisti marxisti al socialismo borghese, persuaden­
doli, sul loro esempio, a disertare passando al fronte borghese.
In questi rinnegati s’incarnava quel tipo di socialdemocratico
che nel profondo del cuore identifica se stesso con gli interessi della
grande borghesia; e in buona fede essi ritenevano di aver ben me­
ritato della classe operaia, qualora fossero riusciti a consegnarla
nelle mani della grande borghesia, in quanto nel farlo si impegna­
vano dopo tutto in nome della loro propria condizione sociale.
Erano demagoghi che mettevano a frutto i talenti, retaggio della
loro origine sociale; lavoravano per conto della classe dirigente,
col sottinteso di essere accolti un giorno da pari a pari nel circolo
dei loro mandanti.
A poco a poco, borghesi e agricoltori tedeschi furono cosi ri-

1 Lett., Circolo d’azione. [ N . d . T .J

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V A R IE T À D E L D EM A G O G O

dotti a un comune denominatore, il “ socialismo nazionale” ; una


espressione cosi generica, che ogni borghese o contadino vi entrava
senza alcun resto. Bastava solo, a completare l’opera, che anche
una buona porzione del proletariato si lasciasse ridurre sotto lo
stesso segno. Il problema era di trovare un demagogo tanto inde­
terminato e indeterminabile, tanto ambiguo e malleabile, da poter
rappresentare tutti i valori e le grandezze ridotti sotto il vago co-
mun denominatore del “ socialismo nazionale. ” Stadtler era troppo
intellettuale, il suo servilismo saltava troppo apertamente agli oc­
chi; Seldte e Hugenberg erano troppo avidi di onori borghesi;
Ludendorff, Wulle, Graie presentavano sfumature troppo feudali
e retrograde per poter essere utilizzati in senso “ onnivalente, ”
sapevano troppo di “ buona società ” per non riuscire sospetti a
certi strati inferiori; Strasser era un piccolo borghese invelenito,
col quale era difficile aggiustarsi: la grande borghesia dubitava
ch’egli potesse funzionare in ogni caso. Molti erano i transfughi
della socialdemocrazia che puntavano con eccessiva veemenza alle
altezze dell’oligarchia, e lasciavano capire con troppa chiarezza
chi era in realtà che ne reggeva i fili, e questo rischiava di compro­
mettere la causa della grande borghesia. Il demagogo deve mo­
strare affinità con quella categoria sociale che egli voglia circuire;
se lascia trasparire che intende travalicarla, ciò significa che egli
è, nel suo mestiere, un incapace. Per questo, anche i transfughi
della socialdemocrazia finirono per essere esclusi dalla competi­
zione; il demagogo — sintesi di tutti i demagoghi, — che invece
si cercava, doveva avere in sé un tale vuoto sociale, da poterlo
riempire con qualunque zavorra sociale. Dal punto di vista sociale,
doveva avere un peso cosi lieve, da poter essere tollerato da qual­
siasi tendenza sociale; doveva essere talmente povero di sostanza
sociale, che nessuna forma di vita sociale ne fosse respinta; doveva
essere cosi privo di indirizzo, da poter essere scagliato verso qua­
lunque obbiettivo; doveva mancare di un suo centro di gravità, in
modo che sempre, in qualunque circostanza, si orientasse verso
il punto gravitazionale più gagliardo, la grande borghesia. In lui
non doveva covare niente di individuale, niente di originale che,
destandosi, potesse pretendere di far valere diritti in contrasto
con la missione piovutagli dalle superiori regioni della società.

49
S U L L A S O G L IA

Quanto piu questa sintesi di tutti i demagoghi fosse stata un nulla


sociale, tanto maggior probabilità v’era che fosse, agli occhi di
tutte le classi un salvatore, un messia sociale. Fosse stato un citta­
dino, e allora avrebbe sconcertati i contadini; un contadino, e
allora si sarebbe trovato ad urtare contro i pregiudizi borghesi; un
operaio, e allora sarebbe rimasto sempre un residuo di diffidenza
da parte dei borghesi e da parte dei contadini. Quando dunque i
piccoli demagoghi fossero riusciti a raccogliere tutti i ceti borghesi
attorno alla bandiera del “ socialismo nazionale, ” quando anche
i demagoghi socialdemocratici avessero portato a termine la loro
nefasta opera: allora era il momento del niente sociale, dell’asso-
luto vuoto sociale. E il niente sociale, l’assoluto vuoto, c’era; era
il vagabondo, l’uomo uscito dall’ospizio di Vienna per i senzatetto.

50
Capitolo sesto

I puri

La grande borghesia tirava i fili della realtà tedesca, ed essa


era strettamente legata alla casta militare. Aveva infatti bisogno
di un braccio militare per la sua politica imperialistica, alla quale
nuovamente si rifaceva; la Reichswehr a sua volta attendeva dai
grandi imprenditori la fornitura di un equipaggiamento militare
tale da garantirle la superiorità su qualunque nemico, e da resti­
tuirla alla sua tradizionale posizione e agli antichi onori. Il pro­
blema per ambedue era: come piegare ai propri voleri le masse
scioltesi dai ceppi? Le masse dovevano essere persuase a tornare
di loro spontanea volontà all’ovile del capitalismo, e in pari tempo
a riarmarsi con entusiasmo di spirito militare. Ma alle masse ope­
raie, grande borghesia e casta militare non riuscivano ad appres­
sarsi immediatamente, mentre invece avevano a portata di mano
le masse piccoloborghesi. Se riuscivano a mettersi saldamente alla
testa di queste, avrebbero avuto a loro disposizione il rullo com­
pressore col quale schiacciare anche la classe operaia.
L ’incrollabile egoismo della grande borghesia elaborò una sua
propria ragion di classe, implacabilmente diretta allo scopo come
soltanto una ragion di stato. A d essa ineriva un suo machiavellismo:
machiavellismo di-classe che toccava, in ogni riguardo, l’immoralità
di quello classico. Quando, nel 1918, l’opinione pubblica tedesca
reagì con asprezza alla grande borghesia e al militarismo, questo
e quella si erano riparati dietro la cortina fumogena del demago-
gismo. E la cortina fumogena in questione erano i programmi
fascisti.
L ’essenza di un programma è l’annuncio di un punto, pren­
dendo le mosse dal quale va sanato il mondo. È esso il fondamento
dell’intera costruzione; su di esso non può manifestarsi discrepanza
alcuna, in quanto assegna la rotta alla forza comune. Dev’essere

51
S U L L A S O G L IA

conficcato in testa della gente, finché vi resti piantato; e tanto


prima sarà digerito, quanto meglio tocca il cuore e persuade per
sé, per le componenti sentimentali e razionali da cui risulta; e sarà
plausibile al massimo grado, quando gli uomini ai quali si rivolge
abbiano già vagamente presentito “ qualcosa di simile, ” quando
cioè sia maieutica ad aspirazioni e ideali in gestazione.
Scopo del programma fascista è di distrarre cosi ineluttabil­
mente le masse piccoloborghesi verso corollari, tirati per i capelli
con entusiastica risolutezza, che, elevandoli a esclusivo oggetto
del loro interesse, perdano di vista il nocciolo sociale del pro­
gramma stesso. Le masse devono occuparsi di cose che alla grande
borghesia non fan né caldo né freddo, e devono a tal punto inca­
ponirsi in esse, da farsene abbagliare e indurre a credere di trovarvi
i perché della potenza della classe dominante. Cosi le masse disper­
deranno le loro forze e non sapranno più concentrarle all’assalto
delle reali posizioni di forza della grande borghesia.
I programmi fascisti ruotano attorno all’idea della purezza
nazionale. Non v’è istanza superiore né più valida di questa. Puro
è, in primo luogo, ciò di cui si deve render grazie alla tradizione,
ed è cosi stabilita una solida, aprioristica base reazionaria. Ma la
grande borghesia si riserva naturalmente il privilegio di sceverare
a mo’ di trovarobe, dal patrimonio della storia, ciò che otterrà il
crisma della piena validità. Puro senza riserve, è però solo ciò che
può fare il gioco della casta al potere. E la purezza divien cosi il
filo d’Arianna grazie al quale si può percorrere senza smarrirsi
l’intero labirinto della storia; ci si può rifare ai tempi più remoti,
e ne viene il vantaggio di poter cavar moneta per gli attualissimi
bisogni della grande borghesia dalla farragine caotica di oscuri
stati d’animo, presentimenti, nebulosi sentimenti arcaici, rappre­
sentazioni e immagini mitiche. La grande borghesia sa trarre il
suo miele anche dalle più fantastiche elucubrazioni sulla preistoria
dell’uomo, perché in esse v’è sempre da scoprire una pagina, in.
cui s’insegna saggiamente alla marmaglia che contro i giganti,
contro gli eroi, essa è impotente; e poi, chi si ammanta da antico
germano non ha tempo di darsi a ponderose e penose analisi del­
l’ordine capitalistico. Colui il quale volge i suoi interessi specula­
tivi ai baluardi e santuari dell’antica Germania, non pensa nem-

52
J P U R I

meno di andare a rivedere le bucce alla grande borghesia. La


purezza: vale a dire tutto quel che occorre a far vibrare la corda
del sentimentalismo, che non manca in nessun cuore d’uomo: il
sangue e il suolo, l’onore e la fedeltà, il popolo e la patria, la spada
c il sangue blu e, per completare il quadro, l’antisemitismo. Estra­
neo e tutto ciò che dà noia alla grande borghesia, puro tutto quello
i he ad essa giova, sia pure il più fantastico capriccio nel quale abbia
da lo di cozzo un cervello balzano. L a purezza è un lasciapassare
grazie al quale le più bizzarre figure si procurano accesso alla ri-
lialla della storia: basta che le loro ridicole teorie, i loro assurdi
sislemi garantiscano un sostegno ai dirigenti borghesi, e subito
divengono i benvenuti.
Poiché si tratta di riprendere in mano le masse e di menarle
bene per il naso, il compito fondamentale e più importante al cui
adempimento la grande borghesia chiama i suoi demagoghi paten-
lali è che il complesso ideologico dei loro programmi serva soprat-
IuIto a legittimare l’esistenza della classe dirigente. Anche Hitler,
l'uomo dell’asilo per sfrattati e vagabondi, bada bene a porre ri-
pelulamente l’accento sul “ principio aristocratico della N atura,”
il (piale esercita “ le eterne prerogative della forza e del potere”
sulle “ masse numeriche col loro peso m orto” ; egli accantona con
disprezzo le “ indifferenziate entità numeriche” e apprezza la
" fondamentale tendenza aristocratica della Natura. ” 1 E quando
perfino la massa proclami la fondamentale tendenza aristocratica
della Natura, un grosso peso cade dal cuore della grande borghesia.
Se la “ fondamentale tendenza aristocratica della Natura ” riesce a
diventare un dogma delle masse, allora non occorre altra ermeneu-
liea per convincere la gente che la Natura esprime le sue tendenze
discriminatorie mediante le cifre rappresentanti la gerarchia dei
conti correnti. La purezza germanica pretende dei Signori ai quali
si possa ubbidire, ai quali ci si senta sottomessi; la grande borghesia
inette in mostra con astuta disinvoltura la sua coscienza di appar­
tenere alla razza eletta, di fronte alla quale le “ entità numeriche ”
cadranno in ginocchio adoranti.
La purezza è il retaggio che ogni uomo tedesco di buona pasta

1 H it l e r , Mein Kampf.

53
S U L L A S O G L IA

porta dentro di sé, e non occorre che scavi troppo a fondo, basta
che guardi “ nel proprio cuore. ” Essa è a portata di mano, è al
livello del comprendonio, dell’intelligenza dell’uomo della strada;
grazie a essa, la trivialità che ognuno si porta dentro diventa van­
gelo politico, economico, sociale, spirituale. È cosi fissato il livello ol­
tre il quale più niente può elevarsi. Dell’ovvio si fa lo straordinario;
ciò per cui prima non valeva la pena di spendere una parola, poi­
ché si trattava delle cose di ogni giorno, di questo ora i “ puri ”
parlano senza tregua, giorno e notte. Si diventa “ fanaticamente
tedeschi” ; non si pensa ad altro “ che alla Germania e al suo
bene. ” Finora ci si sarebbe vergognati anche solo di farne cenno;
ora, non c’è angolo del paese dove gli altoparlanti non lo procla­
mino ai quattro venti. Chiunque presta orecchio a queste banalità,
ne è invischiato: già, son cose che anch’egli avrebbe potuto dire.
Intanto, senza che nessuno se ne accorga, ben altro avviene dietro
le quinte; è sottinteso che di questo le masse non debbono aver
sentore. L a testa delle masse dev’essere infarcita di tanto orgoglio
di puri che niente più riesca ad entrarvi. Tutta la rumorosa esu­
beranza di pratiche che si svolgono sotto il segno della “ purezza
germanica, ” non è altro che farsa popolare: preso dal clamore
della commedia che si rappresenta sotto i suoi occhi, il pubblico
deve dimenticare la serietà degli avvenimenti reali.
Il programma nazionalsocialista riuscì a far centro: esso tenne
conto di tutti i bisogni della grande borghesia e in pari tempo
seppe trovare il punto debole dell’uomo della strada, colpire ogni
“ volgare ” tallone d’Achille, seppe accarezzare l’ottusità e la va­
nità, ebbe l’abilità di fare un fascio solo di tutte le componenti
ideologiche che finora s’erano dimostrate efficaci nei confronti
delle masse piccoloborghesi.
Già il movimento antisemita allo scorcio del XIX secolo era
stato un primo assalto “ fascista. ” Ahlwardt, il “ rettore dei te­
deschi, ” il conte Puckler, 1’ “ antisemita chiassone, ” il predicatore
Stòcker, quello che non se la sentiva di perdonare al popolo ebreo
di aver ucciso Nostro Signor Gesù Cristo di cui egli era l’araldo,
tutti coloro avevano voluto mettere i piccoli borghesi contro i la­
voratori; prevedendo i dolori e le pene che un giorno sarebbero
toccati al ricco, volevano, per precauzione, scongiurarli. Quando

54
I P U R I

già costoro avevano potuto constatare amaramente come gli in­


tellettuali di allora si rifiutassero di seguirli su quel terreno e la
società borghese non credesse alla realtà delle ombre cinesi che
essi tentavano di far apparire sulle pareti, Houston Stewart Cham-
berlain si fece paladino di una causa che sembrava perduta e, col
suo libro Fondamenti del X IX secolo, rese la mitologia ariano­
razzista, in favore della quale già il conte Gobineau aveva spezzato
una lancia, accettabile dalla nobiltà, la buona società e le accademie
tedesche. Bastava per il momento, che i ceti colti mordessero al­
l’esca e ne scoprissero il sapore: prima o poi, si sarebbero buttati
su quel cibo, e ciò sarebbe avvenuto quando questo fosse preparato
e servito in modi più semplici. Provvide Theodor Fritsch, col suo
Hammer f Martello], da quella mente rozza, goffa ed elementare
che era, a ridurre le teorie di Chamberlain alla semplicità della
formula antisemita, che l’avrebbe resa digeribile alla media sociale
c intellettuale.
Il grande momento degli eredi di Ahlwardt, di Piickler, di
Stocker, come pure degli epigoni di Chamberlain, venne dopo la
sconfitta del ’i8 : ora s’aveva veramente bisogno della loro opera,
c per questo tutte le loro intraprese andavano a buon fine.
L ’uovo dal quale vennero alla luce il movimento nazionalso-
t inlista e il suo programma fu deposto a Monaco; il Terzo Reich,
sr si vuol risalire all’origine prima, trae origine dalla Thule-Ge-
sellschaft.2
La Thule-Gesellschaft, nata nel 1917, era stata concepita come
un cenacolo, un Ordine germanico. Il suo fondatore, certo conte
Srbottcndorff, aveva cercato i “ fratelli ” e le “ sorelle ” mediante
inserzioni sui giornali. L ’associazione era proprietaria del Miin-
1 lirncr Beobachter, più tardi trasformatosi in V òlbischer Beoba-
1 liter, dell’associazione furono membri Rudolf Hess e Hans Frank;
I filler, Rosenberg, Dietrich Eckart e Anton Drexler, ospiti e com­
mensali. Feder la frequentò assiduamente; Streicher teneva con­
iai li con essa. N el 1918 e '19, la società diede nell’occhio per la sua
attività reazionaria; sette dei suoi membri furono fucilati durante
la Repubblica dei consigli operai, quali ostaggi in seguito ad as-

“ i.ctt., Società <li Thulc. \N. d. T.]

55
S U L L A S O G L IA

sassini commessi dalle guardie bianche. Ma la Thule-Gesellschaft


si ripagò con i maneggi e gli intrallazzi con cui, dietro le quinte,
contribuì all’abbattimento della repubblica di Monaco.
La Deutsch-Sozialistische Arbeitsgemeinschaft,a dalla quale suc­
cessivamente si sviluppò la Nationalsozialistische Deutsche Arbeiter
Partei,34 trasse origine dalla Thule-Gesellschaft.
Veniva accettato quale membro dell’associazione soltanto chi
poteva presentare una dichiarazione di purezza razziale cosi con­
cepito: “ Il sottoscritto dichiara in fede che nelle sue vene e in quelle
di sua moglie non scorre né sangue ebreo né sangue meticcio, e
che fra i suoi antenati non v’è nessun appartenente a razze di co­
lore. ” Il suo ritratto veniva poi confrontato ai canoni razzisti, e,
al termine di un lungo periodo di candidatura, veniva finalmente
accolto come neofita. Il nuovo fratello doveva giurare assoluta
fedeltà al Maestro, e la cerimonia d’investitura simboleggiava il
ritorno dell’ariano smarrito al Santo Gral tedesco, rappresentato
dalla croce uncinata. G li ariani dovevano ritrovare la via della per­
fezione: causa di tutte le malattie e di tutte le miserie era conside­
rata la “ decadenza ” della razza. “ La lotta contro tutto ciò che
non è tedesco,” la crociata contro l’Internazionale e il giudaismo
in Germania, dovevano, secondo i principi informativi della Thule-
Gesellschaft, “ essere condotte con la massima energia. ” N ell’ap­
pello dell’ “ Ordine germanico ” del Natale 1918, ci sono già tutti
gli elementi del programma che più tardi il nazionalsocialismo
farà suo: l’indivisibilità del possesso fondiario, nel senso di quella
che sarà poi la legge sul patrimonio fondiario; sostituzione del
diritto romano con un “ diritto tedesco ” ; ridistribuzione degli o-
neri fiscali, epurazione degli elementi giudei infiltratisi nella stampa
tedesca; “ fondamentale cambiamento della posizione del tedesco
nei riguardi del giudeo. ” Aveva ben ragione il “ Maestro ” Sebot-
tendorff di scrivere nel suo diario: “ L a salute e la vittoria della
Thule-Gesellschaft fecero di Hitler il vincitore salutato dai tede­
schi. Il Fiihrer fece del Vòlkjscher Beobachter il foglio di battaglia
del movimento nazionalsocialista della Grande Germania, e della

3 Unione social-tedesca dei lavoratori. [N . d. 7\]


4 Partito tedesco nazionalsocialista dei lavoratori; in sigla N SD AP. [ N .d .T . ]
I P U R I

croce uncinata il simbolo dell’N SD A P vittorioso. ” L a N SD A P


riusci a farcela grazie all’armamentario della Thule-Gesellschaft.
Il farsesco settarismo di un’organizzazione di borghesucci della
Baviera meridionale doveva di li a pochi anni, gonfiarsi a dottrina
della salvazione dell’intero popolo tedesco, e ciò perché nell’ambito
della particolare situazione tedesca quei settarismi si profferivano
quali efficaci strumenti degli interessi della grande borghesia te­
desca.
Inoffensiva quanto pareva l’idea della purezza razziale, altret­
tanto vertiginosa era la perfidia che celava nel suo seno. Essa era
un punto di vista, un metodo interpretativo; pretendeva di diven­
tare l’unico e il più alto dei punti di vista, il definitivo e assoluto
metodo interpretativo. Tendenza fondamentale dei nuovi tempi
doveva diventare la posizione di chi considera le cose con “ occhi
biologicamente educati” ; chi non voleva adeguarsi a questa idea,
ebbene, colui apparteneva al secolo passato. Ma il punto di vista
della purezza razziale non si limitava a obbiettive considerazioni
scientifiche; voleva essere in pari tempo una misura di valori, di­
stingueva in maniera aprioristica razze “ buone ” e razze “ cattive. ”
Il quesito della “ appartenenza razziale ” non era imposto da un
puro impulso al conoscere, ma da un malizioso intento discrimi­
natorio. “ Buona ” era solo la razza ariana, ed essa era solare, era
nobile, era signorile; essa poteva ben correre il rischio di far proprio
il punto di vista della purezza, essa che non poteva ricavarne che
vantaggi. Dal momento che l’ariano affermava questo principio, era
inevitabile che “ il non ariano” perdesse la reputazione; e a costui
non restava che allontanarsi dalla comunità degli ariani. Il non
ariano necessariamente recalcitrava al principio, svelando cosi il
suo lato debole; la sua ignominia, consistente nel non essere ariano,
veniva intera alla luce. L a razza ariana costituiva l’unità di misura
per tutto ciò che era buono; la pura razza ariana aveva chiara
coscienza di essere l’ombelico del mondo; dove essa finiva, li co­
minciava la sotto-umanità, l’Inferno. La razza ariana costituiva una
comunità con un suo spirito di corpo, una sua solidarietà, una
sua Weltanschauung, un suo codice di guerra: essa viveva inevi­
tabilmente in stato di perenne inimicizia con la circostante umanità
non ariana, e se aveva portato alla ribalta in maniera cosi provo-

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S U L L A S O G L IA

cante il principio della purezza, era stato solo per attaccar battaglia,
da ariana qual era, con i non ariani.
Ma chi era veramente ariano? La sonda affondata in quel calde­
rone di popoli che è la Germania, non porta forse a galla, oltre al
sangue dei Wendi, dei Croati, dei Panduri, oltre al sangue degli
Hussiti e di altre popolazioni slave, oltre a quello dei Romani, dei
Celti e degli Iberi, anche il sangue degli Unni, degli Avari e dei Ma­
giari ? L a mera classificazione biologica, che non ha alcun sottinteso
extrascientifìco, può forse giustificare l’inasprimento degli animi,
può seriamente diventare oggetto di discordie e di decisioni po­
litiche ?
Il principio razziale non caverebbe un ragno dal buco, se vera­
mente non perseguisse altro scopo oltre a quello di lumeggiare
l’origine biologica. Che è un dato di fatto del quale niente si può
mutare: essa può assumere un qualche interesse pratico solo qua­
lora la si voglia usare come pretesto per colpire un avversario. Non
si liquida un nemico solo a causa della sua origine biologica; que­
sta semmai gli viene imputata, qualora si abbiano altri motivi per
sbarazzarsi di lui.
Il razzismo costituisce il modello piu esemplare di quella con­
dizione di predominio cui tende l’imperialismo. La classe domi­
nante, che ha in mente un regime di illimitato dispotismo, non
vuole essere obbligata a presentare ricorso per vedere legittimata
la sua proprietà, poiché sa che in cuor loro i soggetti rifiuterebbero
sempre tale riconoscimento. Il razzismo trae da un terreno extra­
economico uno schema di rapporti sociali che, persuadendo e sedu-
cendo, permette la instaurazione di un dominio incondizionato;
esso classifica razze inferiori e razze superiori, e le prime, si capisce,
sono nate per ubbidire, le seconde per comandare. Le masse, cui si
lascia l’orgoglio di sentirsi parte della razza eletta, finiscono per
apprezzare la loro posizione di dipendenza, in quanto si sentono
“ gregarie ” di un pugno di dominatori e duci, i privilegi dei quali
sono gli stessi loro, anche se esse non ne traggono alcun vantaggio
concreto. L a loro fedeltà deve essere assoluta, perché altrimenti
non potrebbero attuare e garantire il predominio della razza supe­
riore, alla quale anch’esse appartengono, sulle razze inferiori. A n­
che se esse, in pratica, non sono formate che da turbe di miserabili

58
I P U R I

servi, è per loro motivo di soddisfazione potersi sentire seguaci del


Fùhrer, il quale non è che il curatore della causa comune della
buona razza. L ’illusione razziale instilla nelle masse, benché esse
sian solo turbe di schiavi, una menzognera coscienza di domina­
tori; e questa le acceca al punto che più non s’avvedono che il loro
destino è lo stesso che contribuiscono a imporre alle razze in­
feriori.
È un retroscena che si scopre subito, non appena ci si chiarisca
qual è il nemico contro il quale l’ariano — orgoglioso della pro­
pria purezza razziale — parte lancia in resta.
Il suo nemico è il “ rosso,” il “ m arxista” ; il giudeo è da lui
considerato il padre spirituale del marxismo. L ’ “ ariano ” è anti­
semita, perché l ’ebreo deve render conto di essersi adoperato a dif­
fondere nel mondo la “ peste marxista. ” Marxismo significa assalto
alle posizioni della borghesia capitalistica; ed è questo assalto che
manda in bestia 1’ “ ariano” e finisce per sedurlo alla “ Weltan-
srliauung biologica. ” Il razzismo insomma si configura quale il
dente di cane borghese che ci vuole per la carne di lupo del marxi-
sla. L ’ordine sociale, la cui dissoluzione il razzismo la conta a cri­
mine al marxismo, è l’ordine borghese-capitalistico; la cultura, di
dii il razzismo si fa difensore contro il marxismo, è la cultura della
borghesia occidentale; l’ariano puro è il borghese tedesco, che rap­
inilo di Hitler risveglia alla coscienza di una santa missione pan-
germanica: la sua signoria si fonda sulla potenza finanziaria, la
voce del suo sangue parla con accenti borghesi.
Il borghese è sempre stato in un particolarissimo rapporto con
la “ Natura. ” Dato che il feudalesimo non ne aveva fatto gran
(olilo, la borghesia, per gettare anche da quel punto di vista l’onta
Mi gl i ordinamenti feudali, la mise in auge, e naturalmente s’aspettò
i he la Natura le si mostrasse riconoscente: essa, in altre parole,
doveva far propria la causa del borghese. Rifarsi alla natura, signi-
lìi ava approdare all’ordine borghese; bastava calar dal cielo il di-
i ilio di natura, per avere in pugno i diritti borghesi alla libertà.
I.a sollevazione del popolo, inteso quale elementare formazione
naturale, diede vita allo stato nazionale. Il borghese sfruttò la na­
nna a dritto c a rovescio; il razzismo non è che il suo far ricorso

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S U L L A S O G L IA

ai più oscuri abissi della natura stessa: tutto ciò che era più facil­
mente utilizzabile era già stato utilizzato in precedenza.
L a nazione era stata la struttura elementare, nella quale la bor­
ghesia aveva travolto gli ordinamenti feudali; in essa l’aristocra­
zia si trovava ridotta alla stregua dei borghesi; e, se il nobile non
s’inquadrava nell’ordine borghese, si metteva al di fuori delle leggi
della nazione, perdendo beni e vita. Col proletariato industriale,
invece, non c’era verso di spuntarla servendosi dell’arma della na­
zione. A l membro della nazione appartiene la proprietà privata
la cui difesa è affidata appunto alla nazione tutta; ma a chi non
ha proprietà privata alcuna, la nazione ha ben poco da offrire. Sul
proletario, le suggestioni nazionali non avevano nessun effetto; e,
siccome questi avvertiva chiaramente essere la nazione una forma
di vita borghese, si organizzò in Internazionale, e l’Internazionale
fu diretta contro l’ordinamento borghese. L ’interesse nazionale non
era mai stato altro che l’interesse di classe della borghesia; il quale
però, proprio assumendo la forma dell’interesse nazionale, poteva
essere scambiato per interesse collettivo. Davanti a questa situa­
zione, l’interesse feudale aveva dovuto capitolare, trovandosi scre­
ditato e detestato, in quanto “ interesse particolaristico. ”
L ’interesse del proletariato, invece, non si può liquidarlo ac­
cusandolo di particolarismo: i proletari sono troppi. Il proleta­
riato potrebbe eleggersi a nazione a sé stante, e in tal caso la classe
dominante borghese rischierebbe di far la parte dell’ingannatore
beffato, e la sua protesta avrebbe ben poco peso morale. L a fonda­
zione dell’Internazionale proletaria mostrò chiaramente come i
lavoratori industriali considerassero la nazione alla stregua di una
semplice istituzione di classe della borghesia; di conseguenza, la
nazione cessò di rispondere al suo scopo, quello di dar lustro al­
l’interesse di classe borghese, tanto che i membri della collettività
ne restino tutti abbagliati, e nessuno riesca più a cogliere la realtà
sotto l’apparenza. “ Membro della nazione ” : un concetto che non
riusciva a incutere soggezione al proletario; il suo pathos non fa­
ceva più effetto; quell’ideologia era tutt’al più una sabbia, che l’im­
prenditore borghese gettava negli occhi delle sue vittime. Quando
il “ membro della nazione ” voleva farsi valere, non ne ricavava
che un sorrisino di compatimento da parte del proletario. L a “ na-

60
I P U R I

zione, ” insomma, aveva dato a vedere, nei riguardi della nuova


situazione sociale, di essere superata, come del resto rumanitarismo
e il liberalismo borghesi: armi spuntate, contro la montante classe
operaia.
Il razzismo è il nuovo espediente ricorrendo al quale il bor­
ghese vorrebbe, contro il proletariato, giungere a ciò che, tramite
la nazione, ha ottenuto contro il feudalesimo.
Nella cornice della nazione, aveva peso solo chi era padrone di
beni reali; il razzismo semplifica le cose. L a buona razza ariana
pretende semplicemente il rispetto per la proprietà privata; dal
canto suo, ogni proletario può coltivare la pia aspirazione alla pro­
prietà privata stessa; ogni povero diavolo entra nella collettività
della “ nobiltà ariana” non appena abbia sposato la causa della
proprietà privata. Quando egli sia giunto a riconoscere la legitti­
mità della proprietà privata — che beninteso appartiene ad altri —
c quando si faccia garante di tale istituto, benché egli personal­
mente sia rimasto a bocca asciutta: allora egli è un buon rap­
presentante della razza eletta, e ciò lo lusinga e risarcisce di molte
altre cose. I principi comunistici-collettivistici, invece, non fanno
che produrre una miserabile sottoumanità. Difficile immaginare,
per il borghese, una soluzione più comoda.
È cosi che il borghese esce dall’isolamento di un’esistenza che
ha i limiti della classe, e si procaccia ausiliari nelle file della
classe avversa.
Tanto il nazionalismo quanto il razzismo, sono cortine fumo­
gene, intese a far perdere di vista la realtà delle manovre condotte
dalla borghesia; il nazionalismo acceca l’assaltato feudalesimo,
il razzismo gli assaltatori proletari. Il razzismo non introduce
certo, a cornice della lotta di classe della borghesia contro il pro­
letariato, un cerimoniale meno complicato di quello predisposto a
suo tempo dal nazionalismo per la lotta contro le classi dominanti
feudali. Ci sono moltissimi operai e impiegati che sono proletari,
senza sapere di esserlo, e i mercenari della borghesia diserterebbero
a migliaia dalle sue file, non appena si rendessero conto che com­
battono per nient’altro che i soliti interessi di classe borghese; di
conseguenza, il borghese non deve mai far cenno lui stesso, e mai
permettere che altri si riferisca alla lotta di classe; egli non deve mai

61
S U L L A S O G L IA

lasciarsi cogliere in flagrante lotta di classe, ché altrimenti per­


derebbe completamente la reputazione, fondamento della sua
potenza. Perciò il borghese non parte mai per la guerra di classe,
senza aver prima provveduto a procurarsi un valido alibi; il raz­
zismo è appunto l’alibi usato nei confronti del proletariato, cosi
come il nazionalismo è stato l’alibi usato nei confronti dei signori
feudali.
N on è facile scoprire la coda del diavolo razzista, celata com’è
dietro una nebbia di astruse “ voci del sangue. ” E benché la lotta
la si scateni contro i “ rossi ” e i “ marxisti, ” nemici giurati della
proprietà privata, pur tuttavia il clamore che vien menato attorno
alle idee di purezza e onore razziale, placherà il sospetto che si
tratti di camuffata lotta di classe borghese. La primitiva selvati­
chezza, che si scatena a rimestare negli ancestrali segreti razziali,
torna acconcia al borghese.
L ’opera d’annebbiamento razzista, promossa dalla restaurazione
borghese-capitalistica, è compendiata nell’emblema del movimento
nazionalsocialista: la croce uncinata è l’antico simbolo del sole; gli
sfolgora attorno l’alone dei millenni, e una serie di implicazioni
cosmiche lo rendono gravido di significati. L a croce uncinata im­
pone il dovere di farsi strumento delle massime potenze; si com­
piono cose che toccano le fondamenta dell’essere. In ogni caso, chi
si schiera sotto la bandiera col simbolo del sole, prende a sua unità
di misura il cosmo; perché non solo le piramidi che già s’ornavano
della croce uncinata, ma l’intero cielo stellato, viene eletto a spet­
tatore degli umani destini. Lo stato nazionale liberale era stato
molto più modesto, in quanto non aveva assunto al suo servizio l’u­
niverso intero; i tricolori, le bandiere nazionali, erano contrassegni
variopinti che imponevano a ciascuno la scelta: appartenere o meno
alla nazione; chi in essi si riconosceva, entrava nel novero della
nazione. Si poteva, naturalmente, attribuire a quei colori anche
un significato più profondo: “ Se guardo il cielo limpido, lo vedo
brillare amico, tutto azzurro e bianco” ; ma erano ingegnosi ghi­
rigori di tempre liriche. I colori nazionali erano i segni distintivi
che le nazioni si eran date, e solo in questo senso i colori parlavano
al cuore e in essi si onorava la nazione.
L a croce uncinata vuole essere qualcosa di più di un segno di

62
I PURI

riconoscimento, di un simulacro da venerare — vuole essere un de­


stino. Si nasce per o contro la croce uncinata, e chi ha avuto sfor­
tuna coi genitori, rimarrà in eterno un reietto. La volontà della
cosmica Provvidenza vuole essere onorata attraverso la croce hitle­
riana, e dev’essere chiaro che questa volontà si manifesta fin nel
destino sociale assegnato a ognun di noi. Chi si ribella all’ordine
sociale, offende gli astri. È sottinteso che la croce uncinata è im­
placabilmente rivolta contro i giudei; ma con questo non si deve
intendere solo quello spregevole mezzo milione di ebrei, tollerata
minoranza nel corpo dei sessanta milioni di tedeschi: sarebbe far
loro troppo onore, aver scelto il simbolo solo in funzione di essi.

63
Capitolo settimo

1 venticinque punti

L ’intero guazzabuglio di fatalismi razziali e sottintesi sociali,


intriso a suo tempo dalla Thule-Gesellschaft, ebbe nuova cristalliz­
zazione programmatica nei venticinque punti del Partito nazional­
socialista dei lavoratori, del 24 febbraio 1920.
Il programma esige la costituzione dello stato nazionale pan­
tedesco, il quale, viste le premesse, non potrà non essere di mar­
ca borghese-imperialista. E lo esige in un’epoca in cui tale stato
deve necessariamente essere rivolto, non già contro il feudalesimo,
bensì contro il proletariato rivoluzionario, contro il bolscevismo
trionfante, ma in cui tuttavia la borghesia non può mettere le
carte in tavola sotto gli occhi dell’operaio. Ed era a questo punto
che l’ebreo tornava utile; l’operaio dotato di coscienza di classe
sarà privato di ogni diritto, ma la misura viene riferita agli ebrei:
“ Nessun giudeo può avere cittadinanza fra noi. ” Il socialismo
essendo tuttora di moda, ecco il movimento autodefinirsi Partito
nazionalsocialista dei lavoratori: qualche granello di socialismo va
pur gettato ai piccoli borghesi, se si vuole che cadano nella pania
della grande borghesia. N ell’entusiasmo dei primi anni, il partito
si spinge oltre ciò che potrà più tardi mantenere: i suoi dirigenti
si riempiono la bocca di splendide promesse. Si assicura la confisca
dei profitti di guerra; la ridistribuzione degli oneri fiscali; la
nazionalizzazione delle anonime già costituite “ fino a questo mo­
m ento” ; partecipazione agli utili delle grandi imprese; “ imme­
diata confisca dei grandi magazzini da parte delle amministra­
zioni comunali, le quali ne affideranno la gestione, a miti condi­
zioni, a piccoli imprenditori” ; la riforma dell’agricoltura, abro­
gazione del censo fondiario, arresto di ogni forma di speculazione
sui terreni; la pena di morte sarà irrogata a usurai e accaparratori.
Non escono dall’ambito del riformismo borghese i programmi

64
I V E N T IC IN Q U E P U N T I

volti ad attuare previdenze a favore dei disoccupati, garantire la


istruzione dei figli intellettualmente meglio dotati di genitori po­
veri, il miglioramento della pubblica salute. Il diritto pubblico
germanico, che prenderà il posto di quello romano, sarà il pretesto
per esercitare, senza l’incomodo di leggi scritte, l’arbitrio contro
l’avversario del borghese; la violenza che piu tardi si farà alla
stampa, viene apertamente prenunciata. Tanto l’esercito popo­
lare, quanto il rigido centralismo ineriscono allo stato nazionale
che il programma contempla.
N el 1920, insomma, il partito nazionalsocialista si permette at­
teggiamenti demagogici che piu tardi, quando il borghese non
vorrà nemmeno sentir parlare di rivoluzionarismo, saranno pas­
sati nel dimenticatoio. Su un argomento tuttavia il partito si trova
a dover fare marcia indietro pubblicamente, a recitare il mea culpa
davanti al dio dell’ordine borghese, la proprietà privata; al punto
17 del suo programma, infatti, il partito aveva preteso la “ promul­
gazione di una legge per l’espropriazione senza indennizzo di ter­
reni a scopi di pubblica utilità. ” Ciò che dava particolarmente ai
nervi agli agricoltori; ed era in gioco quel successo nelle cam­
pagne, che la grande borghesia s’aspettava da Hitler. Ma ecco,
il 13 aprile 1928, Hitler stesso fornire delucidazioni in merito:
“ Quanto alle menzognere interpretazioni date al punto 17 del pro­
gramma della N SD A P da parte dei nostri avversari, è necessaria
la seguente precisazione: dal momento che la N SD A P si basa sul
principio della proprietà privata, va da sé che l’espressione ‘ espro­
priazione senza indennizzo’ si riferisce solo alla creazione degli
strumenti giuridici volti all’espropriazione di fondi che siano stati
acquisiti con mezzi illegali o che non siano amministrati secondo
i principi del diritto popolare. L ’intento è pertanto in primo luo­
go quello di colpire le imprese giudaiche che hanno per scopo
la speculazione terriera in grande stile. ”
A lla luce di una critica seria, la spiegazione è povera e stentata :
ci si avverte, lontano un miglio, puzzo di inganno e di presa in
giro. Pure, non si tratta affatto di un codicillo o di una scappatoia
lattica, perché le affermazioni di Hitler, al contrario, forniscono
la chiave per interpretare rettamente l’intero complesso dei ven­
ticinque punti. L a grande borghesia era in procinto di fare final-

65
S U L L A S O G L IA

mente di Hitler il proprio favorito; ma, prima che l’affare fosse


concluso, prima che l’impegno diventasse effettivo, la borghesia
voleva avere in tasca un documento che potesse darle piena fiducia.
Hitler doveva dichiarare, nero su bianco, che per lui l’istituto della
proprietà privata era cosa sacra, e bisognava che fosse specificato
avere i venticinque punti validità solo laddove non ledevano tale
istituto. Se dunque alcune formulazioni programmatiche avevano
sapore rivoluzionario, bisognava che assolutamente non fossero
cosi intese; ne conseguiva che il passo più radicale dei venticinque
punti aveva in realtà significato reazionario, e la precisazione del
13 aprile 1928, riconoscendo, a scanso di equivoci, l’istituto della
proprietà privata, diventava la pietra angolare del programma na­
zionalsocialista.
L a posizione di cui Hitler godeva all’interno del partito era
cosi stabile, da permettergli di calpestare tranquillamente quei
doveri che il suo stesso passato gli imponeva; godeva di una tale
cieca fiducia da parte delle masse, che poteva cavarsi impune­
mente il gusto di scherzare col fuoco del rivoluzionarismo sociale.
Le masse rifiutavano di prestar fede all’evidenza stessa, qualora
questa si ritorcesse ai danni di Hitler, e l’accoglienza fatta alla pre­
cisazione del 13 aprile 1928 dimostrò fino a che punto Hitler te­
nesse in pugno le masse piccoloborghesi: esse erano pronte a
seguirlo, indipendentemente da quello che egli diceva o faceva.
Grande borghesia e Reichswehr erano stati più scettici: l’una e
l’altra avevano prima voluto sapere dove la strada di Hitler me­
nava; ma, dal momento che le masse piccoloborghesi seguivano
ciecamente il Fuhrer, grande borghesia e Reichswehr avevano la
conferma che, speculando sul cesarismo nazionalistico agghindato
coi panni del razzismo, avevano visto giusto.
Capitolo ottavo

Le idee di Hitler

Il Mein Kam pf di H itler1 è, dal punto di vista psicologico,


umano e politico, uno dei più straordinari documenti letterari che
mai sian stati prodotti in Europa. Chi scrive è un demagogo, il
quale racconta la sua vita, espone senza mezzi termini il suo pro­
gramma, svela i trucchi del suo mestiere. Hitler imbroglia le
masse, e in pari tempo mette a nudo i segreti della sua tecnica
<li imbroglione. Ammalia, e mentre lo fa svela il trucco. F a asse­
gnamento sul fatto che lo si terrà per persona onesta e di tutto
riposo, proprio perché permette a chiunque di sbirciare nel mec­
canismo dei suoi sortilegi. Mein Kam pf non è il libro di uno che
crede, ma il libro d’un uomo, che s’è proposto come regola di
vita di indurre gli altri a credere.
Per troppo tempo si è sottovalutato Hitler, ritenendolo un
ingenuo, quale egli non è mai stato. G li intellettuali se ne face­
vano gioco, perché non lo leggevano o quasi e abborrivano l’idea
di scendere al suo livello: più tardi avrebbero pagato molto caro
il rifiuto allo sforzo necessario per darvi un’occhiata. G li uomini
di cultura rinunciarono a conoscere un testo rivelatore, e più
tardi Hitler riuscì, puntando sulla loro ignoranza, a sorprenderli,
a farne una disordinata turba di ciechi e di sordi. Un giorno
I litler avrebbe dimostrato di essere il più abile e il più furbo: e
come negare che lo fosse l’uomo che riusciva a menare per il
naso un popolo intero?
Nei due volumi della sua opera, Hitler espone la sua Weltan-
«chauung, le sue idee, la dottrina della salvazione di cui si serve
per attirare a sé gli uomini.
I cardini attorno ai quali ruotano la storia e i destini del mondo

1 Le citazioni che seguono sono tratte dal Mein Kampj, I e II, ed. ted.

67
S U IL A S O G L IA

sono il sangue e la razza. Ci sono tre specie di razze: la prima crea,


la seconda tramanda, la terza distrugge la civiltà. Solo la razza
ariana è creatrice ; l’ariano è “ il Prometeo dell’umanità : dalla sua
bianca fronte è sprizzata, in ogni tempo, la divina scintilla del
genio. ” L o spirito di sacrificio, per cui si giunge “ fino al punto
di far dono, alla collettività, della propria esistenza,” il senso del
dovere, l’idealismo, sono virtù ariane; l’intero arco di sviluppo
della civiltà è opera sua. Se “ tutte le grandi civiltà del passato
sono cadute in polvere, ” ciò è perché “ la originaria razza crea­
trice è soggiaciuta all’inquinamento del sangue. ” Ma la conser­
vazione della civiltà è “ legata alla ferrea legge della necessità e
del diritto che la vittoria dà ai migliori e ai più forti sulla faccia
della terra. ” Il debole, l’inferiore, è destinato a servire. “ Senza
dubbio, le prime civiltà umane si basarono molto di più sul lavoro
coatto di esseri umani inferiori, che non su quello degli animali
domestici. ” Cosi come la razza ariana troneggia su tutte le altre
razze inferiori, ugualmente esiste, all’interno del popolo, un “ mas­
simo di perfezione umana, ” il quale è destinato alla direzione
della cosa pubblica. Questi “ massimi di perfezione ” costituiscono,
come vuole il principio aristocratico, la classe dominante. “ L a
affermazione, secondo cui un popolo non è uguale a un altro,
equivale suppergiù, nei riguardi dei singoli uomini all’interno
di una collettività, ad affermare che nessuna testa è uguale all’al­
tra. ” L a differenziazione sociale è imposta dalla natura stessa.
“ Una Weltanschauung che, rifiutando l’idea democratica propria
delle masse, si industri di assegnare questo nostro mondo al popolo
migliore, cioè agli uomini superiori, logicamente deve ottemperare
allo stesso principio aristocratico anche all’interno del popolo in
questione e assicurare alle teste migliori la direzione della cosa
pubblica e il massimo d’influenza politica. ”
È quasi impossibile distinguere fra razza ariana, germanesimo
e popolo tedesco; “ purtroppo, ” però, il popolo tedesco “ non ha
più come centro un unitario nocciolo razziale” ; tuttavia, una
parte “ del nostro sangue migliore ” si è, per fortuna, conservata
pura ed è “ sfuggita al decadimento razziale. ” G li elementi ri­
masti intatti, devono essere conservati e favoriti; è “ scopo supremo
dello stato popolare, quello di provvedere alla conservazione degli
L E ID E E D I H IT L E R

elementi razziali originari che, diffondendo la propria cultura,


creano la bellezza e la dignità di una superiore um anità.” L ’u­
nità del sangue trova espressione in un sicuro istinto gregario che,
nei momenti critici, sa creare la compattezza del gregge. “ Se il
popolo tedesco avesse goduto, nel corso del suo sviluppo storico,
di quella unità gregaria che è toccata in sorte ad altri popoli, il
Reich tedesco sarebbe già oggi il signore del globo terracqueo.”
I )’ora in poi, il Reich tedesco “ deve, come stato, comprendere
lutti i tedeschi, imponendosi il compito, non solo di raccogliere e
conservare gli effettivi piu validi degli elementi razziali originari
ili questo popolo, ma anche di portarlo, lentamente ma sicura­
mente, a una posizione di predominio. ” La Germania deve in­
gomma diventare lo stato nazionale-guida in campo imperialista.
Il polo opposto, l’antagonista dell’ariano, è il giudeo ; costui
incarna “ la più assoluta antitesi dell’ariano. ” Intanto, “ il giudeo”
<N molto più sfuggente e assai meno comprensibile di quanto non
ni a l’ariano. L ’impressione che di lui si ricava varia col variare
del punto di vista. Da quello biologico, egli è e resta giudeo, dal
punto di vista sociale, ecco il marxista, anzi il bolscevico interna­
liionalista. “ È un aspetto della genialità di un grande Fiihrer,
quel Io di riuscire a far apparire avversari diversissimi fra loro,
quali appartenenti tutti a una sola categoria.” Il giudeo incarna
tutti quei principi, che Hitler detesta: è pacifista, liberale, umani­
tario, cgalitario; sostiene l’uguaglianza politica e sociale e il col­
lettivismo, e contro la proprietà privata. Il giudeo vuole inquinare
la razza, distruggere la cultura, sostituire al bene il male, realiz­
zate il dominio mondiale degli ebrei.
Tristi tempi, questi, in cui il giudeo ha potuto conquistarsi il
predominio sull’ariano. L a vita pubblica è funestata “ dalle più
infime apparizioni.” Il “ bacillo dell’umanità,” il giudeo, il “ pa­
lamita dei popoli,” si serve degli operai come di arieti per abbat­
tile le mura della cittadella borghese. L ’operaio “ non ha altro
ininpito, ormai, che quello di combattere per il futuro del popolo
ebraico.” La Palestina è “ la centrale organizzativa della rete di
Inganni ordita dagli ebrei a spese di tutto il mondo,” un “ rifugio
nei vecchi stracci e un’accademia per futuri crim inali.” Con tutti
I mezzi a sua disposizione, l’ebreo mina le fondamenta razziali

69
S U L L A S O G L IA

del popolo, che egli vuole ridurre sotto il proprio giogo. “ Il gio­
vane ebreo dai capelli neri per ore e ore spia, sul viso una satanica
espressione di gioia, l’ingenua fanciulla, che egli col suo sangue
profana, e cosi facendo depreda il popolo cui la fanciulla appar­
tiene. ” In Russia, dall’ebreo democratico e popolare, è uscito
l’ebreo sanguinario e tiranno del popolo tedesco. Dappertutto il
giudeo semina rivolte, sedizione, disfattismo. L ’ebreo è stato il
vero promotore del “ tradimento di novembre. ” L ’ebreo ha sedotto
il popolo tedesco all’infamia e alla viltà.
Hitler suona la diana agli “ eroici istinti ariani la decadenza
tedesca avrà fine, solo quando l’ariano avrà ritrovato finalmente
se stesso. L a possente leva, per mezzo della quale la Germania
sarà fatta ruotare sul proprio asse, e ciò che finora era in alto, sarà
fatto sprofondare, e ciò che era in basso, sarà portato alla sommità :
questa possente leva è la propaganda. L ’essenza della politica è
la propaganda; chi la sa usare, ha già vinto la sua battaglia politica.
Se in Austria, nel periodo prebellico, il movimento pangermanista
dovette accontentarsi di una parte modesta e fu ben presto supe­
rato dal partito cristiano-sociale, ciò lo si dovette al fatto che il
dottor Lueger era un propagandista più abile di quanto non fosse
il dottor Schònerer. Se il movimento marxista si era rafforzato, lo
si doveva solo alla sua propaganda. L ’Intesa vinse la guerra, perché
possedeva dei valenti propagandisti, e la Germania la perdette,
perché la propaganda tedesca era insufficiente nella forma, psico­
logicamente sbagliata nella sostanza. Ancora nel 1918, la Germania
avrebbe potuto volgere a suo favore le sorti del conflitto, se Hitler
fosse stato chiamato in tempo a dirigerne la propaganda. “ Più
di una volta mi ha tormentato il pensiero che, se il destino mi
avesse messo al posto di quegli incapaci e criminali, impotenti o
fannulloni che fossero, i quali dirigevano il nostro servizio di
propaganda, la guerra avrebbe avuto ben altra conclusione. In quei
mesi sperimentai appieno la malizia di un destino che mi tratte­
neva al fronte, in un luogo dove un negro qualunque, durante
un assalto, avrebbe potuto abbattermi con una fucilata, mentre
altrove avrei potuto rendere ben più alti servigi alla Patria. Si, ci
sarei riuscito; allora ero tanto temerario da crederlo. Ma ero un
ignoto, uno degli otto milioni di uomini in arme. ” Con la propa-

70
L E ID E E D I H IT L E R

ganda, si sarebbe potuto curare il popolo tedesco dalla sifilide del


disfattismo. L a propaganda fornisce un ottimo criterio di scelta:
“ Quanto più radicale ed eccitante era la mia propaganda, e tanto
più essa riusciva indigesta agli animi deboli e timidi, impedendo
loro di penetrare nel vero nocciolo della nostra organizzazione. ”
La propaganda muove le masse, le sospinge nella direzione, verso
la quale si intende muoverle.
La sua immensa forza d’urto, la propaganda la trae dalla £o-
tcnza della parola. “ L a forza che ha posto in movimento le grandi
valanghe religiose e politiche, è stata sempre e solo la virtù magica
della parola. La grande massa di un popolo soggiace sempre e
solo alla forza della parola. ” I grandi mutamenti verificatisi sulla
faccia della terra, non sono mai stati indotti dalla penna. “ Colui
al quale manchi la passionalità e non sappia aprir becco, non è
stato scelto dal Cielo per annunciarne la volontà.”
Naturalmente, è toccato dalla grazia solo quell’oratore che rie­
sce a tenere in pugno le masse ; le adunate di massa costituiscono
“ l’unico mezzo per esercitare un influsso veramente efficace, in
ipianto immediato, da individuo a individuo” ; chi coltiva l’ora­
toria parlamentare, al contrario, è solo un “ chiacchierone. ” Per
I litlcr la razza ariana, i nordici Germani, il popolo tedesco, esistono
solo come massa; come massa, gli ariani riempiono birrerie e
circhi; come massa, lo ascoltano; come massa, egli li guida alla
vittoria.
La quale vittoria, sul piano interno, consiste nell’eliminazione
radicale degli elementi che inquinano la razza, nella messa al
bando del giudaismo in campo politico, culturale, economico; nel­
l'estirpazione del marxismo, nell’imposizione del principio auto-
i ilario; nel mettere il popolo in condizioni di difendere se stesso.
Sul piano internazionale, essa mira all’unione statale di tutti i te­
deschi d’Europa, e alla conquista di un “ posto al sole” nei terri­
tori della Russia orientale. L ’Unione Sovietica è una creazione
giudaica; su un corpo slavo si drizza una testa ebrea; e contro i
giudei, l’ariano tedesco deve far valere i propri diritti, quelli del
migliore e del più forte. “ Uno stato il quale, in tempi di inquina­
mento razziale, ha cura dei suoi migliori elementi razziali, è de-

71
S U L L A S O G L IA

stinato, prima o poi, a diventare il signore della terra. ” Il dominio


del mondo è lo scopo ultimo del Terzo Reich.
Queste ambizioni sono eccessive? Ma Hitler ci tiene a sotto-
lineare il fatto che il suo movimento, lungi dall’essere lo scoppio
improvviso di forze originarie, incontrollate, che si presentano per
la prima volta alla ribalta della storia, e già coltivino l’ambizione
di dare un nuovo ordinamento al mondo, ha, come del resto il
fascismo, carattere difensivo: è la risposta della borghesia alle
istanze del proletariato; esso non fa che adattare, alla difesa della
borghesia, i mezzi d’attacco del bolscevismo. Quale che sia l’atti­
vismo della borghesia, è pur sempre solo reazione. “ Se alla social-
democrazia si opponesse una teoria che, contenendo una più alta
verità, fosse applicata con altrettanta brutalità, essa riporterebbe
senz’altro la vittoria. ” Già i primi tempi, Hitler è mosso dal desi­
derio di rivaleggiare col marxismo. “ Il terrore nei luoghi di lavoro,
nella fabbrica, nella sala di riunione, e durante i comizi, sarà sem­
pre accompagnato dal successo, fino a che non gli si opporrà un
uguale terrore. ” E Hitler inventa la Weltanschauung che permetta
di opporsi vittoriosamente al marxismo : “ In un periodo nel quale
l’una parte muove all’assalto di un ordine costituito, con l’ausilio
di tutto l’armamentario di una Weltanschauung sia pure mille
volte criminosa, l’altra parte potrà in ogni momento opporle valida
resistenza, a pattò che anch’essa si ammanti di nuova fede — che
dovrà essere per forza di cose fede politica — e che abbandoni la
parola d’ordine di una pavida difesa passiva, per il grido di batta­
glia di un assalto condotto con brutalità e coraggio. ” Hitler si
propone, e lo confessa, di “ rimettere in vigore ciò che voi [la vec­
chia classe dirigente tedesca], nella vostra criminale stupidità,
avete lasciato decadere. ” E gli intende imparare appieno la lezione
dell’avversario marxista: “ Una ideologia basata su di una infernale
intolleranza, sarà distrutta solo da una nuova idea, messa in atto
con lo stesso spirito, per cui si combatta con la stessa ferrea volontà,
ma che in sé e per sé sia pura e assolutamente vera. ” Egli non si
perita di por mano anche alle armi dei giudei. Può darsi che il
terrorismo ideologico sia apparso per la prima volta col cristiane­
simo, ma sta di fatto che da allora non si è più potuto farne a
meno; bisogna tener sempre presente “ che dall’avvento del cri-

72
L E ID E E D I H IT L E R

stianesimo in poi, il mondo è stato dominato da questa forma di


costrizione, e che una costrizione viene distrutta solo da un’altra
costrizione, un terrore vinto solo da un altro terrore. ” I “ partiti
nazionali ” non si erano messi alla pari coi tempi, e di conseguenza
non erano riusciti a spuntarla col marxismo. “ Ciò che già una
volta ha dato la vittoria al marxismo, è stato il perfetto accoppia­
mento di volontà politica e brutale attivismo. Ciò che pratica-
mente ha escluso la Germania, come nazione, dal partecipare al
processo evolutivo tedesco, è stata la mancanza di collaborazione
Ira forza bruta e volontà politica geniale.” Hitler va alla scuola
del suo avversario, ne studia la tecnica di combattimento, e si
mette cosi in condizione di poterlo disarmare, prima che possa
levare il braccio per colpire : “ Cosi ho avuto modo di apprendere,
in breve tempo, un’utile lezione: come si fa a strappare di mano
al nemico le armi con cui potrebbe reagire.”
Il nemico, che Hitler si propone di superare opponendogli una
nuova ideologia e il terrore piu deciso, è il marxismo, cioè la ideo­
logia dei lavoratori industriali animati da coscienza di classe. La
moderna società borghese non oscilla piu, come invece avveniva
ancora fino alla metà del XIX secolo, fra i due poli costituiti da
città e campagna, borgo e feudo, denaro e terra, ma tra le antitesi
capitale e lavoro, borghesia e proletariato, capitalismo e comuniSmo,
proprietà privata e proprietà collettiva. E la scelta non ammette
residui: chi sfugge all’attrazione di un polo, appartiene all’altro.
In quanto Hitler prende posizione contro il marxismo, in tanto
sposa la causa del capitalismo.
Era ancora apprendista, a Vienna, e già la critica dell’ordine
borghese quale veniva fatta dai marxisti gli dava decisamente ai
nervi. “ Ciò che sentivo dire pareva fatto apposta per mandarmi
in bestia. Si buttava tutto fra i ferrivecchi: la nazione, considerata
lina trovata delle classi — e quante volte mi sarebbe toccato udire
questa parola! — capitalistiche; la patria, ritenuta uno strumento
della borghesia per sfruttare i lavoratori; l’autorità della legge,
mezzo d’oppressione del proletariato; la scuola, istituto che sforna
schiavi e prepara schiavisti; la religione, un mezzo atto solo a istu­
pidire il popolo destinato allo sfruttamento; la morale, definita
atteggiamento pecorile, eccetera. Insomma non c’era piu niente

73
S U L L A S O G L IA

che non venisse trascinato nel fango di uno spaventoso abisso. ”


L ’economia di guerra tedesca, che, organizzata da Rathenau, aveva
permesso alla Germania di resistere cosi a lungo alle armi dell’In­
tesa, era per Hitler lo strumento “ per dare il colpo di grazia alla
libera economia nazionale” ; in pieno accordo con la grande bor­
ghesia, Hitler identificava l’interesse del capitale con quello della
nazione. Poiché l ’esistenza del capitale è condizionata da quella di
uno stato libero e indipendente, il capitale è costretto a farsi pala­
dino della libertà, della potenza e della forza della nazione. Da
contrappeso alla mobilità del capitale finanziario internazionale,
fa il capitale industriale nazionale, necessariamente legato al ter­
ritorio nazionale. “ La netta separazione fra capitale finanziario
ed economia nazionale offriva la possibilità di opporsi all’interna­
zionalizzazione della economia tedesca, senza dover necessaria­
mente minacciare, con la lotta contro il capitale, i fondamenti
stessi della indipendenza nazionale. ” E Hitler si erge a difensore
dell’industria pesante: “ L a lotta scatenata contro l’industria pe­
sante tedesca, fu il palese inizio del tentativo di internazionalizzare
l’economia tedesca come vorrebbe il marxismo. ” L a gioventù te­
desca è chiamata a costruire lo stato “ nazional-popolare, ” se non
vuole “ assistere, estremo testimone, al crollo totale, alla fine del
mondo borghese. ” Hitler intende “ guarire ” il capitalismo, “ che
è malato marcio ” — non certo distruggerlo. L o stato nazional­
socialista non pretende affatto di acquistarsi fama imperitura “ ren­
dendo meno sensibile il divario fra poveri e ricchi, oppure conce­
dendo a strati sociali più ampi il diritto di intervenire nel processo
produttivo, ovvero ancora con la concessione di salari più equi,
rimuovendo eccessive sperequazioni se qualcuno s’aspetta questo
da Hitler, vuol dire che è “ completamente fuori dal suo tempo,
e non ha nemmeno la più pallida idea di quella che è la Weltan-
schauung nella nostra accezione. ” La “ avidità ” dell’operaio, che
tanto amareggia l’esistenza del capitalista, non trova certo in Hitler
un avvocato. Infine, la “ civiltà ” che Hitler vuol salvare dal peri­
colo bolscevico è la civiltà della società borghese.
Innegabilmente, Hitler ha compreso a fondo la situazione della
Germania dopo il 1918. Sul finire della prima guerra mondiale,
la posizione della grande borghesia aveva subito rudi colpi, ma

74
L E ID E E D I H IT L E R

era ben lungi dall’essere crollata, tant’è che a partire dal 1919, la
classe dominante s’era riavuta anno per anno; le maggiori preoc­
cupazioni venivano dalle masse dei piccoli borghesi: finché queste
non avessero rotto col proletariato industriale in maniera defini­
tiva e irreversibile, il pericolo di uno sconvolgimento sociale non
poteva dirsi scongiurato. A questo punto, ecco intervenire Hitler,
il quale ha fiutato la sua grande occasione; Hitler conosce a fondo
l’arte di trattare le masse, e la propria fortuna vuole costruirla
servendosi delle masse. Tenere in pugno le masse riusciva facile
a chi, come lui, poteva contare sull’alleanza e l’appoggio della
grande borghesia. N é Hitler sarebbe mai diventato il rappresen­
tante delle masse contro la grande borghesia: la sua aspirazione
costante era di diventare l’uomo di fiducia della grande borghesia,
contro le masse che nutrivano cieca fiducia in lui; il suo istinto
gli diceva che sarebbe salito molto più in alto vendendo le masse
alla grande borghesia, che non guidando quelle nella lotta contro
questa: Hitler, uscito dall’infima feccia plebea, è troppo felice di
poterne evadere e di potersi assidere da pari a pari coi ceti domi­
nanti. Anche durante lo sciopero dei tranvieri berlinesi del 1932,
si guarda bene dal fare, lui personalmente, l’occhiolino ai comu­
nisti; preferisce lasciare a Goebbels quest’incombenza. Resta sempre
fedele, senza mai esitare, all’oligarchia dominante, borghese e mi­
litare; non vuole che sul conto suo sorga il benché minimo sospetto,
che si pensi a una sua deviazione in senso marxista, che abbia po­
tuto fare un passo falso in senso socialdemocratico. Aspira alla
gloria di rupe dell’ordine capitalistico che ha resistito impavida a
tutti gli assalti del bolscevismo. L e masse piccoloborghesi, esta­
siate, lo levano sugli scudi, lo acclamano loro Fiihrer; e Hitler
impone loro l’obbligo di sentirsi onorate dell’alleanza con la grande
borghesia.
Egli disprezza le masse che lo acclamano e lo seguono cieca­
mente fin sotto il giogo capitalista — le dispezza e non si perita
di dirlo chiaro e tondo. Ma, incredibile a dirsi, le masse non vo­
gliono rendersi conto che son proprio esse a disgustare Hitler;
anzi, più egli le tratta duramente, e più gli strisciano ai piedi.
“ Il partito nazionalsocialista non deve essere il servo, ma il padrone
delle masse. ” Hitler umilia le masse, e contemporaneamente mette

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S U L L A S O G L IA

loro davanti lo specchio: “ Come a donna, i cui sentimenti sono


mossi non tanto da astrazioni razionali, quanto da un’aspirazione
vaga e passionale verso quella forza che a lei manca, e quindi si
sottomette al forte più volentieri di quanto non domini il debole,
cosi anche la massa ama di più chi la domina che chi ne invoca i
favori, e in cuor suo trae maggiori soddisfazioni da dottrina esclu­
sivistica, che non da liberale tolleranza, perché di questa la massa
non sa che farsene, si sente abbandonata a sé. Del modo sfacciato
con cui viene spiritualmente terrorizzata, essa non ha più coscienza
di quanto non ne abbia degli insopportabili oltraggi fatti alle sue
umane libertà, né s’accorge affatto dell’intima follia dell’intera
dottrina. Pertanto, la massa ha occhi solo per la forza senza com­
promessi, per la brutalità con cui questa tende al suo obbiettivo,
e a essa finisce sempre per piegarsi. ” L a maggioranza è sempre e
solo una “ rappresentanza della stupidità ” nonché della vigliac­
cheria. La massa prova però un’avversione istintiva per il “ genio
che la sovrasta” ; bisogna quindi tener presente che, quanto più
vaste sono le masse cui si devono mettere i ceppi, e tanto minori
devono essere le pretese d’ordine intellettualistico nei loro confronti.
Chi non si rivolge alla massa esprimendosi con semplicistiche pa­
role d’ordine, non otterrà risultato alcuno; la massa non vuole
istanze spirituali, in quanto “ non saprebbe né digerire né ritenere
la sostanza offertale. ” Occorre “ rendersi conto di quanto primi­
tivi siano i sentimenti delle grandi masse ” ; solo “ concetti elemen­
tarissimi, ripetuti migliaia di volte, riesce alla fine a far suoi.” È
giusta l’affermazione secondo la quale “ le grandi dimensioni della
menzogna sono uno dei fattori della sua credibilità. ” Data la pri­
mitiva semplicità del suo animo, la massa si lascia “ prendere più
facilmente da una grossa che da una piccola menzogna, ” in quanto
anch’essa “ spesso dice delle piccole menzogne, ma si vergogne­
rebbe a spararle troppo grosse. ” Essa si rifiuta “ di credere alla
possibilità di una cosi oceanica sfacciataggine, di una cosi infame
stortura” in altri; è questo “ un dato di fatto, che tutti i grandi
mentitori e le organizzazioni basate sulla menzogna esistenti sulla
faccia della terra, conoscono perfettamente, e quindi applicano
senza troppi scrupoli. ” L a massa è pigra mentalmente e altret­
tanto presuntuosa; essa è “ un gregge” ; nel “ branco,” l’uomo

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L E ID E E D I H IT L E R

che appartiene alla massa si sente “ in parte almeno al sicuro.”


Un organizzatore di masse deve pertanto cercare di trar partito
“ tanto dalla debolezza quanto dalla bestialità. ” C’è una diffe­
renza fra il capo “ e il grande, stupido gregge castrato del nostro
pecorile popolo. ” Il capo sa come prendere la bestia per le corna;
c mentre la massa gli lecca la mano, egli le sussurra che la tiene
per un animale stupido e sordo, anche se, naturalmente, si tratta
di un animale ariano, nord-germanico, tedesco.
L a prova migliore dell’assoluto dominio esercitato da Hitler
sulla massa piccoloborghese la si ricava proprio dal fatto che essa
gli obbedisce, benché egli apertamente la disprezzi. E non solo
Hitler impedirà che essa s’avvicini alla massa dei proletari, ma
farà anzi in modo di servirsi della piccola borghesia per schiac­
ciare il proletariato. Come, nel medioevo, il garzone restava fedele
al mastro artigiano perché già si vedeva con la fantasia al posto
suo, cosi il piccolo borghese difende il ceto dei grossi borghesi
dominatori perché la speranza che lo sorregge vita naturai du­
rante è quella di ascendere al loro livello. Il lavoratore manuale
con la sua coscienza di classe fa a pezzi quel mondo meraviglioso
in cui il piccolo borghese vorrebbe penetrare, nega al piccolo
borghese il gusto di sentirsi “ qualcosa di meglio. ” Il piccolo
borghese, difendendo la classe superiore, costringe questa ad ac­
cettare la sua presenza; e, mentre essa si serve di lui, deve trattarlo
con affabilità. Cosi, il piccolo borghese pregusta la vertigine del­
l’altezza alla quale vorrebbe attingere.
N ell’animo di Hitler, l’odio piccolo borghese per i lavoratori
manuali con la loro coscienza di classe, che pretendevano di spaz­
zar via quelle altezze alle quali il piccolo borghese aspirava, as­
surse a una veemenza sconfinata; un odio di cui la stessa grande
borghesia non era mai stata capace. Hitler non tollera né la dot­
trina né le organizzazioni marxiste. Le teorie marxiste sono, ai
suoi occhi, un “ inaudito inganno ordito ai danni del popolo” ; si
tratta di una “ pestilenza che si diffonde sotto la maschera della
virtù sociale e dell’amore per il prossimo” ; si tratta della “ peste
dell’umanità” ; le teorie marxiste sono la incarnazione stessa della
“ abiezione. ” Esse conducono alla “ distruzione dell’intera uma­
nità, ” non sono che “ polvere negli occhi, ” sono “ un irreversibile

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S U L L A S O G L IA

miscuglio di raziocinio e di follia, ma combinato in modo che


solo questo secondo elemento possa attuarsi, mai il primo. ” Si
tratta insomma dell’ “ aborto di un cervello criminale, ” di un
“ delirio economico-politico. ” I giornali che diffondono le idee
marxiste, su Hitler agiscono come “ vetriolo spirituale egli prova
un’acuta sofferenza per “ la brutale attività giornalistica che sparge
il seme di questa taumaturgia della nuova umanità, disposta a non
arretrare davanti a nessuna infamia, e che si serve della calunnia
in tutte le sue forme e sa usare la menzogna con irresistibile vir­
tuosismo. ” L a letteratura marxista ufficiale, di partito, “ per quanto
riguarda le questioni economiche, è inesatta nelle premesse e nelle
argomentazioni; mendace per quanto riguarda i suoi obbiettivi
politici. ” Sono teorie, quelle marxiste, che si adattano all’orizzonte
spirituale degli esseri meno evoluti intellettualmente; teorie che
hanno di mira non già il proposito “ di trarre gli uomini dalla
palude di una bassura morale per portarli a un livello superiore,
ma solo di accarezzarne i più bassi istinti. ” E a Hitler fa male
vedere la borghesia esposta agli attacchi di questa stampa che, “ a
un segnale convenuto, scatena, letteralmente, un fuoco tambureg­
giante di menzogne e calunnie contro quello che, a suo avviso, è
l’avversario più pericoloso. ”
Il “ materialismo ” che il marxismo alimentava nella coscienza
operaia, aveva nei sindacati altrettanti validi strumenti, impiegati
nella lotta per l’aumento dei salari e per il miglioramento delle
condizioni di lavoro. I sindacati d’altra parte erano le forme di
“ peste ” marxista che più grattacapi procuravano alla grande bor­
ghesia: essi avevano posto limiti ai diritti del padron di casa, l’im­
prenditore; essi tenevano d’occhio la congiuntura e giungevano
al punto di fare i conti in tasca al datore di lavoro; questi non
faceva in tempo a guadagnare qualcosa di più, ed ecco già quelli
pungolare la “ invidia, ” gli “ istinti materiali, ” la “ brama di
danaro” dei suoi operai. I proletari scontenti osavano pretendere
la partecipazione al profitto, e l’imprenditore finiva per essere
tanto più ricco e libero di preoccupazioni, quanto meno aveva a
che fare con tali associazioni operaie.
L ’implacabilità di Hitler nei riguardi dei sindacati che per
primi avevano elevato a dignità umana i lavoratori manuali, stava

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L E ID E E D I H IT L E R

in armonico rapporto, cosa oltremodo indicativa, con l’orrore che


le stesse associazioni incutevano alla grande borghesia. A Hitler
bastava già solo la vista di una schiera operaia organizzata, per
sentirsi male; una volta, racconta, era rimasto per quasi due ore
ad assistere a una sfilata di dimostranti operai, osservando “ col
fiato sospeso la mostruosa serpe umana che si snodava lentamente ”
davanti ai suoi occhi. In pochi decenni, a suo avviso, i sindacati
“ da mezzi volti alla difesa dei diritti sociali, si sono trasformati
in strumenti per lo scardinamento dell’economia nazionale, ” su­
scettibili ancora solo di fare da “ ariete della lotta di classe. ” Il
movimento sindacale si profila “ all’orizzonte politico ” minaccioso
“ come una nuvola temporalesca” ; e si tratta di “ uno spaventoso
strumento di terrore, volto contro la sicurezza e l’indipendenza
dell’economia nazionale, la stabilità dell’organizzazione statale e
la libertà dell’individuo. ” Il movimento sindacale ha fatto, della
parola democrazia, “ qualcosa che ripugna pronunciare, ” ha in­
quinato la libertà, ha calpestato la fratellanza. Il dirigente sindacale
non vuole affatto “ avere al suo cospetto una generazione sana,
solida, ma solo un gregge corrotto, disposto ad accettare il giogo” ;
egli s’impadronisce delle masse, facendo loro “ le più spudorate
promesse, ” dimostrando cosi di non avere alcuno scrupolo morale.
“ Conformemente alla sua interiore, rapace brutalità, egli impar­
tisce al movimento operaio l’impronta che più di ogni altra lo
renda adatto alla violenza. ” Nessun grosso borghese aveva sospet­
tato, nei probi funzionari delle organizzazioni sindacali, mostruo­
sità simili: più in là dell’accusa di essere “ la rovina dell’economia
nazionale,” e quindi di quella capitalista, nessun borghese s’era
finora mai spinto.
Il movimento sindacale “ non serve affatto gli interessi del
prestatore d’opera, ” ma “ solo ed esclusivamente i distruttivi di­
segni del giudaismo mondiale. ” A sua volta il “ giudeo inter­
nazionale ” si serve del movimento sindacale “ per minare le basi
dei liberi stati nazionali indipendenti, per distruggerne l’industria
c il commercio e giungere cosi a ridurre in schiavitù i popoli liberi,
perché servano al giudaismo finanziario superstatale. ” Non c’era
naturalmente presidente di anonima che non fosse dello stesso av­
viso di Hitler; con uguale linguaggio, anche Hugenberg aveva

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S U L L A S O G L IA

dato espressione alle opinioni della grande borghesia sul conto del
movimento sindacale. Hitler dà alla grande borghesia la certezza
che egli, per esorcizzare il diavolo, non chiamerà in aiuto Belzebù;
che, in altre parole, non sostituirà alla libera organizzazione sin­
dacale un’altra organizzazione nazionalsocialistica dello stesso tipo.
“ Un sindacato nazionalsocialista la cui missione si ridurrebbe a
far concorrenza a quello marxista, sarebbe una pessima soluzione. ”
Hitler vuole le corporazioni, perché nel loro ambito non c’è peri­
colo che imprenditore e lavoratori strepitino gli uni contro gli
altri, per questioni di salari e tariffe: in esse risolveranno tali pro­
blemi “ assieme, ai livelli piu a lti” ; il bene della comunità nazio­
nale e dello stato, deve “ balenar loro davanti in lettere di fuoco.”
Di scioperi non si deve nemmeno più parlarne, finché “ esisterà
uno stato popolare nazionalsocialista. ”
Quest’immagine di uno stato in cui siano sconosciute le orga­
nizzazioni sindacali doveva logicamente far venire l’acquolina in
bocca a ogni grosso borghese. E come se non bastasse, Hitler assi­
curava che sarebbe riuscito a demolire l’organizzazione politica
del marxismo, vale a dire la socialdemocrazia. I leaders socialdemo­
cratici sono, secondo Hitler, degli “ spergiuri criminali. ” Sono
stati essi i promotori della “ più grossa mascalzonata ” di cui la
storia conservi ricordo, lo sciopero dell’industria delle munizioni
nel 1918. L a pretesa che a tutti i prussiani fosse concesso il diritto
di voto fu un “ atto di basso banditismo. ” “ Il libero partito social-
democratico e la lega spartachista erano i battaglioni d’assalto del
marxismo rivoluzionario. ” I dirigenti dei partiti marxisti, Hitler
li definisce “ ciurmaglia politica, ” ricattatori, genia, ladri di strada,
gente “ matura per il nodo scorsoio. ” Si tratta di “ miserabili de­
pravati” e apostoli della degradazione mondiale, disgraziati sen­
z’arte né parte, mentitori senza memoria, uomini senza cervello,
poveri pazzi, truffatori degenerati che, con la scaltrezza, vogliono
assassinare la nazione: esseri spregevoli, falsi e bugiardi, nemici
della patria, ruffiani, vipere, escrezioni, chissà come conservatesi
vitali, dell’organismo fisico del popolo tedesco, individui assetati
di rivolta, traditori pagati come Giuda, assassini del popolo, gab­
bamondo internazionali. “ Più facilmente si stacca una jena dalla
carogna, che un marxista dall’abitudine di tradire il suo paese. ”
L E ID E E D I H IT L E R

I dirigenti marxisti non vogliono “ il bene della nazione, ” ma solo


“ riempire le tasche vuote. ” La bava alla bocca, Hitler lo ammette :
“ Ho sempre odiato con tutte le mie forze l’intera banda di questi
stracci politici, ingannatori del popolo. ” Egli cerca forze che siano
ben decise a “ muover guerra al marxismo per distruggerlo ” ; e il
suo consiglio è di “ mettere subito al muro ” i marxisti che rovi­
nano e sviano il popolo, oppure di afferrarli saldamente per le
“ orecchie d’asino ” che hanno, trascinarli “ a un lungo palo ” e le­
varli in alto, “ appesi a una corda ” ; bisogna “ seduta stante imbastir
loro il processo, e sterminarli senza pietà.'” Occorre metterli in
gattabuia, spedirli in una camera a gas. Solo “ nel cervello di un
mostro” poteva prender forma il piano dell’organizzazione mar­
xista, la cui tattica doveva condurre all’atto finale del “ crollo della
civiltà umana e allo scardinamento dell’intero ordine mondiale. ”
Perciò a tempo debito si sarebbe dovuto tenere a segno il
marxismo. Durante la rivolta della Ruhr, a esempio, si sarebbe
dovuto concedere al movimento nazionalsocialista l’opportunità
di una spiegazione col marxismo; in altre parole, mentre gli operai
della Ruhr facevano fallire i piani di dominio francesi, Hitler
avrebbe voluto scatenare contro di essi la guerra civile. “ Ma io
predicavo ai sordi... No, un regime veramente nazionale avrebbe
dovuto invocare, allora, disordini e subbugli, perché solo in quei
tumulti si sarebbe potuto fare veramente i conti col marxismo, il
mortale nemico del nostro popolo. Lo si rifiutava? E allora la
semplice idea di una resistenza, quale essa fosse, era pura follia. ”
Naturalmente, del tradimento dei grandi industriali Hitler non fa
parola; in compenso, accusa i sindacati di aver sfruttato a loro uso
c consumo la sollevazione della Ruhr, riempiendo le proprie casse
col Cunoschen Gelder. Hitler approda alla saggezza della grande
borghesia, che già Helfferich e Stinnes nel 1920 avevano a più riprese
proposta al Reichstag: “ Il giorno in cui il marxismo verrà abbat­
tuto, la Germania si libererà per sempre delle sue catene. ” Se Hitler
aizza alla crociata antimarxista in Germania, ciò è perché è con­
vinto che “ prima di poter riuscire a sconfiggere il nemico esterno,
occorre distruggere quello interno.” L a situazione del 1918 non
deve mai più ripetersi; e, perché le organizzazioni operaie non
[tossano più sfuggire dalle mani divenute troppo deboli di certi

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S U L L A S O G L IA

generali sconfitti e sbandati, bisogna che, a tempo debito, sangue


operaio scorra a fiumi.
Hitler organizza dunque la guerra civile contro gli operai ani­
mati da coscienza di classe. Mentre da un lato accenna ai punti
sui quali la borghesia dovrà conformarsi a regole di vita milita­
resche, dall’altro prova all’oligarchia economica che egli personal­
mente se ne intende di guerra civile più di qualunque altro. Si
vuol fare un buon lavoro ? E allora la classe borghese non deve più
impacciarsi con le debolezze parlamentari, perché la democrazia
parlamentare non farà che garantire sempre nuovo ricetto al marxi­
smo. L a democrazia parlamentare è infatti la boscaglia, protetto
dalla quale il marxismo conduce la sua guerriglia contro il capi­
talismo, e Hitler questa boscaglia vuol ridurla in cenere, in modo
che il nemico della grande borghesia non abbia più dove riparare.
“ Ho sempre odiato il parlamentarismo, ” confessa Hitler. Il par­
lamento, per lui, non è che “ una triste commedia” ; non vi si sen­
tono che “ chiacchiere, ” e “ il ridicolo di questa istituzione ” salta
subito agli occhi. Il parlamentarismo getta, sulla vita pubblica,
l’ombra delle “ più abiette apparizioni del nostro tempo ” ; i parla­
mentari sono degli incapaci, sono dei gran chiacchieroni, sono un
pecorile gregge di zucche vuote e teste di gesso; non sono che
“ minchioni ” privi di responsabilità, sudiciume politico, burattini,
impotenti, imbecilli, minorati psichici della peggior specie, un’ac­
colta di zeri spirituali, orpelli di virilità, cimici delle aule parla­
mentari, stracci che insozzano il parlamento, delinquentelli privi
di coscienza, cacciatori di greppie, mariuoli e vagabondi. “ In con­
fronto a questi Giuda della nazione, un qualunque ruffiano è an­
cora uomo d’onore. ” Il deputato al parlamento è un “ omiciattolo
che si è dato alla politica, ” un mangia a ufo.
E infatti il parlamento, agli occhi della grande borghesia, non
assolveva più la sua funzione, dal momento che le organizzazioni
operaie, decise a imporre la loro volontà, non s’accontentavano più
della libertà di parola che in regime di democrazia parlamentare
si concedeva loro. Se dunque il parlamento non era più in grado di
proteggere la grande borghesia in ogni circostanza dalla diretta
azione rivoluzionaria delle organizzazioni operaie; se, al contrario,
attraverso l’emanazione di apposite leggi non faceva che soddisfare

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L E ID E E D I H IT L E R

in pieno l’istanza alla libertà di parte proletaria, era chiaro che non
rispondeva più affatto al suo scopo. Hitler si dilunga a descrivere
il momento in cui la fiducia riposta dal capitale nel parlamenta­
rismo crollò: nel novembre 1918, egli afferma, “ il marxismo non
si curò affatto di parlamentarismo e democrazia, ma inferse ad
ambedue, con una criminalità che si esplicò in violenze verbali e
fisiche, un colpo mortale. V a da sé che in quel momento le orga­
nizzazioni di chiacchieroni borghesi erano del tutto inerm i.”
La democrazia parlamentare è una democrazia che ha intenti
pacifisti e difensivi; Hitler sostituisce ad essa la democrazia tota­
litaria, la democrazia cesarea, che è di natura bellicosa. In questa
nuova cornice, è inevitabile che liberalismo, libertà di stampa,
umanitarismo, pacifismo illanguidiscano e spariscano: son cose
die Hitler prende a calci, e le sue sono le sacrosante pedate che un
buon combattente della guerra civile non può non tenere in serbo
per simili residui del passato. I giornalisti sono il “ cenciume della
carta scritta, ” tipi che arrivano a cacciare il naso nei più gelosi
segreti familiari, che non si dan pace finché, col loro “ istinto da
cani da tartufo, ” non siano riusciti a scovare almeno una notizia
scandalistica; sono dei vagabondi, sono delle carogne: Hitler non
sa di un giornalismo che non sia ricattatorio. Quanto all’umani-
tarismo borghese, egli lo considera con ironico disprezzo. Chi col­
tiva l’umanitarismo non si può certo dire che sia “ fatto della
sostanza di cui è fatto il resto della natura. ” Il vero “ umanitarismo
della natura, ” la quale “ distrugge i deboli per far posto ai forti,
spezza i ridicoli ceppi del presunto umanitarismo, ” quello che
ha ancora qualcosa in serbo per il debole. D i fronte alla volontà
di autoconservazione, “ il presunto umanitarismo, da quel miscu­
glio di stupidità, codardia e chimerica saccenteria di cui è espres­
sione, si scioglie come neve al sole di marzo. ” Soltanto in periodi
di estrema decadenza può succedere che la melensaggine umani-
laristica diventi moda.
Ma Hitler non prende abbagli, e si comporta in modo che non
lo si fraintenda. L o si considera un “ socialista ” ? N on è certo
colpa sua, nessuno può dire che l’abbia voluto lui. In fin dei conti,
una volta sola ha inalberato bandiera falsa, e precisamente quando
lia battezzato la sua organizzazione Partito nazionalsocialista tede-

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S U L L A S O G L IA

sco dei lavoratori; in compenso, però, si è sempre ben guardato


dallo smentire l’erronea opinione formatasi sul suo conto; anzi si
è compiaciuto di sfruttare il vantaggio che l’errore in questione
gli ha procurato. [La grande borghesia ha preso in conto il “ socia­
lismo ” di Hitler, tant’è vero che, appena questi si presenta a par­
lare ai pezzi grossi dell’industria renano-westfalica, fra loro la cor­
dialità e l’intesa sono assolute.
È davvero sorprendente la chiarezza con cui Hitler si rende
conto di ciò che fa al caso della grande borghesia, e la meditata
sicurezza con la quale sa sempre proporre i rimedi più efficaci e
più infallibili. Egli i problemi della grande borghesia li conosce
meglio di questa, e, con maggior esattezza di essa, sa indicare i
mezzi atti a risolverli. Quando poi pare che Hitler prenda, mo­
mentaneamente, posizione contro la grande borghesia, si può star
certi che lo fa solo per proteggere i grandi imprenditori dalla loro
stessa miopia, costringendoli a sostenere la propria causa con mag­
gior vigore di quanto non fosse nei loro propositi.
Già durante la prima guerra mondiale, Hitler s’era reso conto
che, vista la nuova situazione, la difesa della causa borghese nei
confronti delle masse proletarie affidata ai classici partiti della
borghesia non era più in buone mani, perché questi partiti erano
troppo disposti al pacifico accomodamento, alla indulgente conci­
liazione: posizioni che avevano fatto il loro tempo. Hitler capisce
che “ qui stanno di fronte due mondi, la cui inimicizia è in parte
naturale, in parte frutto d’artificio, e il cui rapporto vicendevole
non può essere che la lotta aperta. ” E solo un movimento il quale
sia qualcosa di più dei soliti partiti parlamentari è in grado “ di
condurre una lotta spietata contro la socialdemocrazia. ” I partiti
borghesi devono dunque sparire, e proprio nell’interesse del capi­
talismo.
A Hitler l’idea di “ impegnarsi ancora una volta'politicamente, ”
viene quando comprende come gli ordinamenti capitalistici ab­
biano, per difendersi, un’unica strada: il ricorso alla forza; ed
egli si propone di conseguenza di organizzare la guerra civile. N el
novembre del 1918, la borghesia è scossa da mille terrori; essa non
ha più a disposizione un esercito con cui combattere il nemico
interno. “ In quelle notti sentii sgorgare in me l’odio, un odio

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L E ID E E D I H IT L E R

implacabile contro i mandanti di quel crimine. ” E Hitler capisce


qual è il suo destino: “ Per quanto mi riguardava, decisi di but­
tarmi nella politica. ” Dopo aver assistito a una conferenza di Feder,
durante la quale, per la prima volta in vita sua, avvertì “ un’in­
conciliabilità di principio col capitale internazionale finanziario e
bancario, ” immediatamente gli “ balenò l’idea di aver scoperto
uno dei motivi che giustificano la fondazione di un nuovo par­
tito. ” Egli si pone come compito quello di riguadagnare le masse
alle ideologie borghesi-capitalistiche o, per dirla con le sue parole,
di “ nazionalizzare” le masse stesse.
Qui, è evidente, non servono le mezze misure, non si può es­
sere obbiettivi: se si vuole riuscire, è necessario impegnarsi con la
massima, settaria, fanatica, implacabile energia. E Hitler si decide
per la “ violenza totale, che inerisce all’estremismo. ” Sa con im­
pareggiabile chiarezza come, per forgiare quella materia bruta
che è la massa, occorra una temperatura morale enorme; ma Hitler
é maestro nell’arte di crearla, questa temperatura. “ L a fede si
lascia scuotere più difficilmente del raziocinio; l’amore è più co­
stante della convinzione logica; l’odio è più duraturo del disprezzo,
r la forza operante dei grandi sconvolgimenti storici, da che mondo
è mondo, è sempre consistita più nel fanatismo dal quale le masse
erano possedute, o addirittura nell’isterismo che le accecava, che
non in un intimo convincimento scientifico. ” Non sono già le
borghesi benedizioni dell’ordine e della pace, bensì le forze “ della
passionalità fanatica, isterica an zi,” che rovesciano le situazioni.
Poiché lo scopo di Hitler è la guerra civile, per prima cosa egli
provvede a fornire il suo esercito di una Weltanschauung, e que­
sto perché “ una Weltanschauung proclama sempre la propria in­
fallibilità.” U n’ideologia non può mai “ tollerarne un’altra con­
corrente” ; è così che Hitler crea quell’atmosfera rovente, l’arma
migliore per sterminare i nemici, a meno che non si convertano;
la sua rivoluzione non avrà raggiunto lo scopo che “ quando la
nuova ideologia sarà finalmente impartita e poi, se necessario, im­
posta con la forza a tutti gli uomini. ” Egli conosce “ il prodigioso
effetto dell’ebbrezza che viene dalla suggestione e dall’entusiasmo ” ;
il suo strumento di lavoro è il “ magico influsso di ciò che si usa
defluire suggestione collettiva. ” Egli non è condizionato dalla giu-

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stezza del programma: “ anche su questo punto dobbiamo impa­


rare dalla chiesa cattolica. ” Un movimento politico tagliato per
la lotta necessita di “ un programma le cui caratteristiche siano la
stabilità e l’incrollabile sicurezza. Esso non può prendersi il lusso,
nella formulazione del programma stesso, di fare concessioni allo
spirito dei tempi; al contrario deve attenersi sempre alla formula
una volta che l’abbia adottata, e in ogni caso finché non abbia in
pugno la vittoria. ” A lla vittoria, naturalmente, non si deve ten­
dere avendo in vista lo scopo di mettere in atto il programma:
questo è solo il mezzo per raggiungere quella. Ciò che verrà poi,
riposa sulle ginocchia degli dei: “ Per la maggioranza dei nostri
seguaci, la sostanza del nostro movimento non consiste tanto
nel significato letterale delle parole d’ordine che noi lanciamo,
quanto nel senso che noi siamo capaci di attribuir loro.”
N el corso delle conversazioni che ebbe con Otto Strasser, il 20
e il 21 maggio 19 30 / Hitler spinse fino al cinismo più crudo la
consapevolezza del suo proprio gioco. “ Io sono un socialista, ”
ebbe a dire, “ d’un tipo completamente diverso, per esempio, da
quello del ricchissimo signor conte Reventlow. Io ho cominciato la
mia carriera come semplice operaio, e ancora oggi non posso tol­
lerare che il mio autista abbia nel piatto cibi diversi dai miei. Ma
ciò che lei intende per socialismo, non è che crasso marxismo. Vede,
la gran massa dei lavoratori non vuole che panem et circenses, non
sa che farsene degli ideali, e dal canto nostro non potremo mai
sperare di guadagnarci, con questi, un vasto seguito operaio. N oi
vogliamo una élite della nuova casta dominante, che non sia, come
invece è lei, mossa da una qualche morale caritatevole, ma che al
contrario sia perfettamente convinta di avere, nella sua qualità di
razza eletta, il diritto di dominare e di consolidare spietatamente
questo suo dominio sulle masse. ”
N el corso della discussione, Strasser ebbe modo di esporre gli
infantili principi piccoloborghesi di quello che, secondo lui,
avrebbe dovuto essere il socialismo. Il “ socialismo ” di Strasser,
in sostanza, non intende eliminare la proprietà privata: esso si

‘ O t t o S t r a s s e r , Ministersessel oder Revolution? [Poltrone ministeriali o rivoluzio­


ne?] Ed. “ Der National Socialist, ” Berlino.

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L E ID E E D I H IT L E R

attiene alla regola secondo cui “ il 49% delle proprietà e degli


utili potrà restare nelle mani degli attuali proprietari; il 4 1% pas­
serà allo stato quale rappresentante della nazione, e il 10% infine
diverrà proprietà del personale delle singole aziende. Quanto alla
gestione, cioè il consiglio di amministrazione in cui essa s’esprime
c concretizza, per un terzo esso sarà composto dagli attuali pro­
prietari, per un terzo dallo stato, e per un terzo dal personale delle
aziende, e questo allo scopo di limitare l’influenza statale da un
lato, rafforzando dall’altro la posizione dei dipendenti aziendali. ”
A l che Hitler replicò brusco: “ Quello di cui lei parla, è puro
marxismo, caro signore: peggio, è bolscevismo. Lei introduce il#
sistema della democrazia, lo stesso che ha già lasciato, sul terreno
politico, quell’ammasso di rovine che tutti sappiamo, anche in
campo economico, e cosi distrugge l’intera economia e mette in
forse il progresso dell’umanità, che sempre è avvenuto grazie alla
azione dei singoli, dei grandi iniziatori. ” Si ha ragione di dire —
continuò Hitler — che, nel senso proposto dai soliti attacchi al ca­
pi talismo, “ un sistema capitalistico non esiste. Prendiamo a esem­
pio il proprietario di una fabbrica: la sua posizione dipende o no
dalla capacità e dalla voglia di lavorare dei suoi operai? E se que­
sti scioperano, la cosiddetta proprietà non diviene forse un con­
cetto privo di senso? Ma a parte questo, con quale diritto ’sta
gente pretende la comproprietà o la compartecipazione alla dire­
zione dell’azienda? Mi dica, egregio signore: se le sue dattilografe
mettessero becco in quel che fa, lo tollererebbe lei? L ’imprenditore
privato, sulle cui spalle grava la responsabilità della produzione, è
tinello che assicura il pane agli operai che ne dipendono. Sono
proprio i nostri maggiori imprenditori coloro che meno di tutti
pensano ad accumulare denaro, a passarsela allegramente: per
loro la cosa più importante è la responsabilità e la potenza. Se si
non fatti strada fino ai vertici, è stato grazie alla loro abilità, ed è
in base alla loro superiorità, ancora una volta patrimonio della
lazza eletta, che hanno il diritto di comandare. Eppure, dovreb­
bero stare a sentire le chiacchiere magari di un semplice consiglio
di fabbrica, di gente che non capisce niente di niente: no, non c’è
barba di capitano d’industria disposto a tollerare una situazione
Minile 1”

87
S U L L A S O G L IA

Avendo poi Strasser chiesto se, una volta conquistato il potere,


Hitler avesse intenzione di mantenere lo status quo ante nei
rapporti di proprietà, distribuzione dei redditi e gestione del­
l’azienda, l’altro rispose: “ Ma certamente. Crede lei forse che io
sia cosi pazzo da voler distruggere l’economia? Lo stato inter­
verrà solo qualora la gente si metta contro l’interesse della col­
lettività nazionale. Per questo, però, non è necessaria nessuna
espropriazione e alcun diritto alla partecipazione agli utili, per­
ché a ciò basta lo stato forte, che solo è in grado di agire senza
tener conto degli interessi particolari, ma esclusivamente di quelli
generali. ”
L ’espressione “ socialismo, ” affermò ancora Hitler, è priva di
senso, e l’accettazione del modello fascista non dovrebbe incon­
trare ostacoli. In realtà, in campo economico, c’è sempre e solo
un sistema: senso della responsabilità nei confronti di chi sta più
in alto, autorità nei confronti di chi sta più in basso: cosi è da
millenni, e non potrà mai essere altrimenti. Che il direttore o il
capo reparto debbano rispondere delle loro azioni verso i supe­
riori, e possano in compenso dire il fatto loro ai sottoposti, è, se­
condo Hitler, un sistema “ sul quale non c’è niente da ridire, e al
posto del quale non se ne può istituire altri.” L a contrapposi­
zione di capitalismo e socialismo esisterebbe solo sulla carta; in
realtà, la compartecipazione agli utili e alla proprietà sarebbe
marxismo bell’e buono.
N el corso di quelle conversazioni, insomma, Hitler scopri
tutte le sue carte, svelando il preciso significato delle parole d’or­
dine nazionalsocialiste, con una chiarezza che non sempre si era
voluta usare. I “ diritti della persona umana, ” che lo stato popo­
lare nazionalsocialista avrebbe “ garantito nel modo più assoluto ”
non erano che il corrispettivo del principio “ padrone in casa pro­
pria. ” L a “ piccola percentuale ” di individui destinati a “ salire in
alto e a mettersi al comando della collettività ” : la minoranza, in­
somma, che era chiamata “ a fare la storia del mondo, ” si iden­
tificava con i grandi imprenditori capitalistici. Cosi si spiega come
mai Hitler mostri tanta inclinazione per lo schiavismo; il “ mate­
riale di cui sono composti i popoli inferiori ” e le sottorazze non
è che “ un mezzo tecnico ” di cui si serve la “ forza originaria
L E ID E E D I H IT L E R

creatrice di civiltà. ” G li schiavi salariati servono dunque, in primo


luogo, a scatenare “ la capacità a produrre civiltà, ” che cova nel­
l’animo della grande borghesia, servono a creare l’ambiente in
cui questa capacità possa “ dare i frutti più egregi. ” Hitler spri­
gionò la forza dinamica delle masse piccoloborghesi, per poter
costruire l’edificio statale in cui la casta grossoborghese si presenta
in veste di élite razziale: il dominio di questa, secondo i principi
in cui crede la piccola borghesia, è del tutto legittimo. “ È cosi,”
suona un passo di Sorel, “ che l’istinto dei poveri può servire da fon­
damento per un edificio statale di marca borghese, che vorrebbe con­
servare il sistema di vita borghese, preservare intatte le ideologie
della boghesia, in pari tempo spacciandosi per rappresentante del
proletariato. ”
Le masse permangono in questa stravolta condizione politica,
perché interpretano a rovescio le verità: esse in buona fede si at­
tengono a una falsa immagine delle cose, perché ne sono vellicate
e soddisfatte. N on possiedono la chiave buona, quella che potreb­
be rivelar loro l’ordine effettivo dei fatti e dei rapporti tra le cose;
e, benché molto di ciò che vedono riesca loro affatto sorprendente,
ritengono tuttavia di potersene dare una spiegazione. Ma, intanto,
il chiaro, semplice senso delle cose è sfuggito loro — e del resto
guai se l’afferrassero, guai se la benda che hanno davanti agli oc­
elli dovesse cadere, perché allora più nessuno riuscirebbe a tenerle
lilla cavezza. E Hitler conosce quale parte abbia l’illusione nel do­
minio cui è riuscito ad assoggettare le masse; fin dove arriva l’il­
lusione, arriva anche Hitler.
Hitler non tiene affatto nascosta la sua intimità con la grande
borghesia: quanto più apertamente avran luogo quei contatti,
tanto meno la fantasia delle masse ne resterà colpita, tanto meno
I litler dovrà temerne la sfiducia; ciò che avviene alla luce del sole,
non può certo dare adito a sospetti. Per precauzione, tuttavia, egli
fornisce dei diversivi alle masse, perché non abbiano a farsi chissà
quali strane idee: le avvolge e imprigiona nella rete di una super­
ficiale pseudoproblematica, le ingaggia in battaglie del tutto inof­
fensive, tali però da stancarle. Le masse non devono assolutamente
rientrare in sé: cosi non si faranno meraviglie, quando vedranno
I litler a braccetto con la grande borghesia. L ’ “ ariano” non è che

89
S U L L A S O G L IA

un vuoto fantasma? Esso ha pur sempre assolto il suo compito,


qualora le masse il loro tempo lo sprechino a rintracciarne le im­
prese dal passato storico ai giorni nostri. Se la questione razziale
riesce a imporsi al punto da procurare l’insonnia alla gente, si può
star certi che questa non avrà più tempo d’occuparsi di altri pro­
blemi, e uno che si dà a rovistare fra i segreti d’alcova degli
ebrei non avrà più voglia, si può giurarci, di cacciare il naso nei
bilanci delle società anonime. Quanto più uno lo nutrite di pro­
blemi biologici, e tanto meno gli resterà la voglia della sociologia;
quanto più uno se la farà con le classificazioni, tanto più indiffe­
rente lo lasceranno le pratiche sfruttatrici della borghesia capita­
listica. L a “ purezza del sangue ” toglie alla tetraggine della vita
quotidiana ogni amarezza, e chi sia gonfio d’orgoglio razziale non
se la prenderà più tanto calda se il pane gli manca. Una scaz­
zottatura in birreria vai di più di una trattativa salariale condotta
a buon fine.
Hitler si sofferma, in un passo, a descrivere come gli ebrei ab­
biano coltivato certi gelosi particolarismi e la cura che han messo
nell’attizzare odi confessionali; se lo han fatto, egli afferma, è
stato per poter pescare nel torbido: “ Il giudeo ha sempre rag­
giunto lo scopo che s’era prefisso: cattolici e protestanti sono im­
pegnati gli uni contro gli altri in una spensierata guerra, e il ne­
mico mortale dell’umanità ariana e dell’intera cristianità se la ride
sotto i baffi. ” Ma Hitler, spulciando fra i segreti della tecnica, pro­
pria degli ebrei, di far correre la gente dietro le chimere, e di trar­
ne profitto, dà a vedere che anch’egli conosce a fondo il mestiere;
soltanto che, quando lui inscena le sue battaglie, il bottino non se
lo porta più a casa l’ebreo, ma la grande borghesia.
Ma, se si vuole che la pseudoproblematica impegni in maniera
esclusiva il cervello delle masse, essa dev’essere proporzionata al­
l’orizzonte mentale delle masse stesse. E Hitler in queste cose
ha un finissimo intuito, capisce subito cos’è che piace alle masse,
cos’è che le prende. Ciò che è in grado di accalappiare gli uomini
perché è al loro livello mentale: questo deve diventare il contenuto
spirituale dell’intera epoca; e, poiché le masse devono battersi per
quell’esca, a nessuno più si permetterà, onde evitare che le masse
ne piglino ombra, di esserne superiore. A lle teste migliori si darà

90
L E ID E E D I H IT L E R

«la rimasticare la stessa paglia che aggrada alle masse; e, quando


l’ideologia delle masse sarà diventata l’ideologia per antonomasia,
allora il mondo offrirà un ben straordinario, comico, triste spetta­
colo: le opinioni di massa sono sempre e solo settarismi elevati .a
universalità.
In nome dell’ideologia capace di mostrare un mondo fatto nel
modo che va più a genio alle masse, queste si lasceranno — a
patto che si sappia agire con abilità — trascinare sul piano del
fanatismo. Il fanatismo è l’oscurità del paraocchi: si rinvigorisce
l’orgoglio delle masse, punendo esemplarmente chiunque osi veder
le cose meglio e con più chiarezza di quelle. Le masse si credono
lauto più importanti, quanto più il singolo è costretto ad accettare
il loro metro di felicità; tanto più esse sentono di avere Dio alla
loro testa, quanto maggiore è l’implacabilità con cui si concede
loro di imporre, col ferro e il fuoco, i dogmi, espressione della fede
clic per esse è plausibile. Il loro significato è esattamente propor­
zionale al peso del loro fanatismo; ed è un significato onniva-
lcnte, qualora quel fanatismo non lasci sussistere null’altro ac­
canto a sé.
La consapevolezza di Hitler è tale, da permettergli di affondar
lo sguardo anche in questi oscuri abissi dell’animo popolare e di
sviluppare un sistema che gli consenta di trar partito delle sue os­
servazioni psicologiche. Fanatizzando le masse, egli le lega a sé; e
le masse, a loro volta, son grate a Hitler per l’orgia di sangue in
cui le mena, proprio come la pseudocultura europea era grata a
Riccardo Wagner per quelle sensazioni con cui, a Bayreuth, egli
ne vellicava i nervi. Le masse corrono a mangiare in mano a Hitler,
ogni qualvolta egli fornisce un nuovo incentivo al loro fanatismo;
e Hitler s’affretta a farlo, ogni qualvolta si deve far loro inghiot­
tire uno dei tanti indigesti bocconi am man ni ti dai cuochi della
borghesia.
Ma, fanatizzando le masse, Hitler fanatizza anche se stesso; le
l a preda delle furie e intanto s’abbandona lui stesso alla furia. Con
la differenza che il suo non è affatto il prorompere esplosivo di
fi >rzc vitali, non si tratta, nel suo caso, dello scatenarsi di un torrente
di energie. Egli riferisce, nel suo libro, di un bombardamento con
granate a gas, durato più ore, in cui incappò nell’ottobre del 1918:

91
<
S U L L A S O G L IA

“ Sul far dell’alba, anche per me il tormento cominciò a diventare


di minuto in minuto più insopportabile, e verso le sette, incespi­
cando e vacillando, con gli occhi che mi bruciavano, mi avviai
alle retrovie, senza dimenticare di portarmi dietro quello che sa­
rebbe stato il mio ultimo rapporto di guerra. Alcune ore più tardi,
mi pareva di avere, al posto degli occhi, due carboni ardenti; at­
torno a me tutto era buio. ” Il racconto non è per niente degno di
fede: Hitler perdette il lume degli occhi, è vero, ma la causa non
ne fu un avvelenamento da gas; la verità è che si trattò di una
perdita momentanea della vista dovuta a un attacco isterico. I me­
dici, che all’ospedale di Pasewalk si occuparono dei suoi nervi, lo
considerarono un caso più unico che raro: una cecità di origine
isterica non è cosa di tutti i giorni.
Hitler è un isterico, e come tale si lascia prendere la mano dalle
situazioni; per la sua debolezza e mancanza di freni inibitori, viene
trascinato dal turbine, ed egli a sua volta trascina tutto ciò che non
sia stabile e fermo. L a massa lo contagia? Subito Hitler ricontagia
la massa. “ Si lascia a tal punto trasportare dalle grandi masse, che
subito, irresistibilmente, gli fluiscono di bocca le parole di cui ha
bisogno per toccare il cuore dei suoi ascoltatori. ” H a appena ap­
piccato il fuoco agli entusiasmi popolari, ed eccolo anche lui ardere
tutto, e i suoi discorsi sempre più incendiari portano le masse a un
vero e proprio parossismo. Dopo un po’, Hitler non è meno furi­
bondo delle masse; di rado conserva la freddezza. Egli insomma si
riscalda col combustibile accumulato nelle masse, e durante le
adunate tali riserve le sfrutta senza risparmio. Trascina se stesso e
le masse, spingendo al massimo il motore del fanatismo, in un’eb­
brezza semidivina di potenza — e Hitler sa benissimo quanto deve
al fanatismo. “ Fanatism o” : una parola che l’ha incantato.
Certo è però che Hitler riesce a mantenersi sempre al di fuori
e al disopra del proprio fanatismo; se ne lascia esaltare, non
dominare. E posseduto dalla potenza, e il suo istinto di potenza
lo protegge; gli impedisce di cadere nell’errore consistente nel
credere che il sostegno delle masse fanatizzate possa garantire un
dominio duraturo; per lui, questo è solo un impulso a salire alla
sommità, raggiungere quella stabile condizione di dominio, che
solo l’oligarchia borghese è in grado di garantirgli. Se lo si fosse

92
L E ID E E D I H IT L E R

ascoltato a tempo debito, egli avrebbe vinto la guerra; il popolo


tedesco egli l’avrebbe portato, col fuoco di fila della sua propa­
ganda, molto più avanti di quanto non abbia saputo fare l’arti-
glieria di Ludendorff. L o perseguita il pensiero di aver perduto,
durante la guerra mondiale, una formidabile occasione. Insegna
ai suoi lettori che il più brillante scrittore non può nemmeno pa­
ragonarsi a un “ grande, a un geniale oratore. ” Il “ normale cer­
vellino di uno scrittorucolo tedesco, per quanto nutrito di cultura, ”
sparisce di fronte al “ genio dell’oratoria. ” Beato il popolo, dunque,
al quale nel momento del bisogno “ il destino invii l’uomo della
provvidenza, colui che ne realizza i desideri per tanto tempo acca­
rezzati. ” E Hitler svela alla Germania ciò che essa ha in lui: “ L ’u­
nione, in una persona sola, del teorico, dell’organizzatore e del
Fiihrer, è la cosa più rara che vi sia al mondo; è quest’unione che
crea il grand’uomo ” . Egli fa sapere che è dispostissimo a “ rispon­
dere fino in fondo delle sue azioni, anche se possedesse la massima,
la più illimitata delle autorità. ” “ Solo l’eroe è eletto a questo com­
pito. ” Durante il colloquio con Strasser, ebbe a dire: “ Nelle nostre
file, Fuhrer e idea sono tutt’uno, e ogni membro del partito deve
fare ciò che gli ordina il Fuhrer, il quale incarna l’idea ed è l’unico
che conosca la meta finale. ” Hitler non sopporta che la SA sia co­
stituita a corpo armato regolare: se ciò avvenisse, gli ufficiali gli
sfuggirebbero di mano; la SA deve perciò restare “ un mezzo di
difesa e di educazione del movimento nazionalsocialista” ; Hitler
pensa per essa, Hitler indica ad essa idee e compiti, e cosi facendo
ne resta il signore e il maestro.
Hitler provvede a far capire chiaramente con chi si ha a che
fare, in modo da legittimare le proprie pretese di potere assoluto:
chi, come lui, riunisce a tal punto il genio dell’oratore, del teorico,
dell’organizzatore, del Fuhrer, del creatore e formatore di idee, ap­
partiene senza dubbio ai vertici umani. H a cominciato come tambu­
rino, ma da sempre egli aveva nello zaino il bastone di maresciallo,
c lo sapeva molto bene. “ Il successo: ecco l’unico termine di giu­
dizio, per stabilire se uno ha avuto torto o ragione di iniziare quella
dirada” ; Hitler bramava il successo, ed era certo che avrebbe rag­
giunto il successo.
Quest’essere invasato di potenza si rivela al tramonto del marcio

93
S U L L A S O G L IA

mondo borghese; in se e per sé, come individuo, è altrettanto vuoto


di sostanza e corrotto, di quanto lo sia come istituzione. In fondo,
non ha che un’idea: riprendere da capo i fili della abiezione bor­
ghese; e in quest’idea, inutile dirlo, si riflette la decisione dei bor­
ghesi di non abdicare a nessun costo, a meno di non esservi costretti
con la forza; e se Hitler vuole avere la potenza, è per mostrare alla
grande borghesia come la ditta avrebbe dovuto essere diretta fin dal
suo sorgere. Ed effettivamente gli si dà il modo di mostrarlo — ma
tutto quel che fa, in ultima analisi, si riduce a riscaldare la vecchia
minestra del capitalismo, e ad obbligare il popolo tedesco, con mez­
zi coercitivi, a inghiottirla una volta di piu, anche se il suo sapore è
diventato ancora più disgustoso di quanto non fosse prima.
In Hitler prospera, in un certo senso, la pura aspirazione alla
potenza della società borghese, indipendentemente dal fatto che
nulla più vi sia a darle il diritto di esistere. L ’idea di Hitler non è
dunque il riflesso mentale di una nuova, più fresca verità, che sia
rimasta chiusa nel grembo della storia ed ora esca a riempire di sé il
mondo: ma è, al contrario, un fuoco fatuo ondeggiante sopra la
palude dell’ordine borghese — è, per lui personalmente, il senso
spasmodicamente messo insieme, di cui s’arma la sua volontà di
potenza. Questa idea ha, per forza di cose, bisogno di ciechi, fana­
tici partigiani; è un’idea che non tollererebbe di essere messa al
banco di prova, sviscerata.
La situazione particolare, in cui Hitler si trova a dover difendere
la causa che ha fatto propria, dà un’impronta particolare anche alla
sua nozione di gerarchia. Il Fuhrer gode di un’autorità indiscussa,
perché qua si tratta di vita o di morte: ogni decisione investe l’in­
tera esistenza della borghesia. E a muovere le pedine, può essere
solo un dittatore che abbia carta bianca. Il Fuhrer è cosi l’incarna­
zione dell’idea, ed egli solo sa quale ne sia la meta finale. Nessuno
è autorizzato a far domande, nessuno può pensare con la propria
testa, a nessuno è concesso di fissare il volto dell’idea, perché se solo
riuscisse ad avere un barlume della verità che dietro l’idea si cela, non
muoverebbe più un dito per difenderla. Essendo il Fuhrer l’unico
depositario dell’idea, egli attinge a regioni trascendenti, ove a nes­
suno è lecito seguirlo; è un vicario in terra, proprio come il papa. E
dal momento che la Causa è avvolta in tanta mistica oscurità, dal

94
L E ID E E D I H IT L E R

momento che lo sguardo di nessun mortale può giungere in fondo


al santuario, cosa importa se poi quest’idea è la cosa più sudicia, la
cosa più infame che esista?
Il Fiihrer è insieme lingua e spada, profeta e braccio secolare
dell’idea. I principi del nuovo ordinamento sociale basato sulla pia­
nificazione economica, producono sul disorganizzato mondo bor­
ghese l’effetto di un acido corrosivo; e devono essere dilavati, se non
si vuole che la spada del destino piombi d’un tratto sulla società ca­
pitalistica. E il Fiihrer, annunciatore della ventata di primavera che
salverà la borghesia, piomba su tutti i “ bubboni ” marxisti, e li
tcascina dinnanzi alla sua corte marziale. Il marxista è un infedele,
il marxista è un cane rognoso, per il quale non c’è da aver pietà.
Il Fiihrer è, in sostanza, un rinato Maometto, che si appresta a ripu­
lire il mondo dall’errore; ed è, al contrario di Napoleone, più un
profeta armato che un Cesare. I suoi eserciti non sono formati tanto
da soldati, ai quali bastano gli ordini del capitano, quanto da der­
visci fanatizzati che diffondono nel mondo l’annuncio del loro
profeta, e per farlo si servono della forza delle armi. Le masse pic-
i oloborghesi, che erano li per li per smarrire la fede nell’ordina­
mento borghese del mondo, sono i poveri figli del deserto, i quali
torcono assetati dietro la Fata Morgana che Hitler ha fatto bale­
nare ai loro occhi; la lotta contro il bolscevismo è la via che mena
al paradiso borghese. Il loro Allah è il capitalismo restaurato, e
I litler ne è il profeta. Mein Kampf diventa il Corano, Monaco la
nuova Mecca. “ Il significato geopolitico del centro d’un movi­
mento non deve essere sottovalutato. Solo l’esistenza di un luogo
ila cui emani l’incantesimo di una Mecca o di una Roma, a lungo
andare è in grado di assicurare a un movimento la forza, la quale si
basa sull’unità interiore e sul riconoscimento d’un vertice che tale
unità rappresenti.” Hitler, in veste di regista di un grande spetta­
ti ilo teatrale, dà al suo movimento un’impronta islamica; e nella sua
i rgia si sente chiaramente la scuola dei profeti arabi. Personalmente
egli si riserba il ruolo dell’eroe. L a sua predisposizione agli attacchi
isterici gli permette di far dimenticare o quasi che il Maometto da
lui interpretato non è che un personaggio da commedia, e che la
passionalità di cui il Fùhrer fa sfoggio non è l’evocazione di una in-

95
S U L L A S O G L IA

tatta forza primitiva, ma l’espressione esteriore di uno stato psicopa­


tologico.
Il mantello da profeta con cui Hitler si copre non è che un tra­
nello: egli si presenta in veste di strumento della Provvidenza, del­
l’eletto inviato a strappare la civiltà europea dalle grinfie del Satana
bolscevico; egli è l ’anti-Lenin, colui il quale sradicherà la gramigna
e il loglio che l’uomo del Cremlino ha seminato fra le messi capita­
listiche ; egli è il Salvatore bianco, che imporrà su tutti i popoli della
terra il giogo della razza nordica, è l’eroe tedesco, che consegnerà al
popolo tedesco il globo terracqueo. “ Mi creda, ” spiegò a Strasser:
“ il nazionalsocialismo, tutto quanto, non varrebbe un’unghia se vo­
lesse confinarsi in Germania e non intendesse assicurare, per al­
meno mille o duemila anni, il dominio della razza eletta sul mondo
intero ” . In realtà egli non è che lo strumento al soldo della grande
borghesia tedesca che, servendosi di mezzi proporzionati alla nuova
situazione storica, cerca, con un demagogo, di riconquistare le sue
perdute posizioni imperialistiche mondiali.
N ell’intera opera in due volumi di Hitler, non c’è un solo tratto
di originalità, ma l’autore rivela in compenso una straordinaria
intelligenza naturale. Dal velenoso disprezzo che Hitler ha sem­
pre per la intellighentzia, dalla maniera con cui cerca in ogni mo­
mento di svalutare l’attività del professionista, si può arguire quanto
abbia sofferto, in gioventù, per l’alterigia dei circoli intellettuali,
ai quali si sentiva superiore per abilità e furberia. Il libro non ha
ordine, è slegato; non è certo il frutto di un lungo lavorio intellet­
tuale, ma solo della naturale facondia di un uomo particolarmente
dotato. Dote che non sta in una propria originalità o in una profon­
dità creativa, ma semplicemente in una straordinaria facilità a cap­
tare ciò che si agita nell’aria. Non si può certo dire che Hitler abbia
compiuto opera di scienza, e tuttavia è sorprendente rilevare quanto
gli sia rimasto appiccicato dalla lettura di giornali e periodici. H i­
tler è una spugna che, immersa nel mare magno dell’ordine capita­
listico, s’è impregnata di tutte le brutture ideologiche che vi ha tro­
vato; e nel suo libro la spugna non fa che emettere ciò di cui è sa­
tura. V i si ritrova, intero, l’usato armamentario: la fola della pugna­
lata alle spalle, il garzone sellaio Ebert, gli schizzi di veleno contro
il marxismo, lo spirito sciatto esercitato a spese della “ bottega di

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L E ID E E D I H IT L E R

chiacchiere parlamentare ” , le invocazioni perché abbia presto a le­


varsi un “ uomo forte, ” la pelosa carità nei confronti dei lavoratori,
ma, insieme, la nordica asprezza del confratello della setta.
Le riflessioni sono del tutto vuote di significato, laddove man-
i bino, in chi le fa, finezza e profondità: restano al livello delle opi­
nioni scambiate a un tavolo di birreria. Ed effettivamente, il ta­
volo di birreria ha, per il nazionalsocialismo, un significato sacra­
mentale: le sale delle birrerie sono i suoi primi templi, le sue prime
moschee, in cui lo Spirito si manifesta ai fedeli; le birrerie, però,
r<istituiscono anche i primi campi di battaglia, sui quali i vecchi
combattenti possono dar prova del loro valore; è in una Kantine
clic Hitler dà inizio, con un colpo di rivoltella sparato contro il sof­
fino, al Putsch del novembre 1923. Il bancone di birreria è insomma
l'altare, davanti al quale la forza del dio penetra il geniale oratore
r gli dà il dono della favella, che apre le porte di qualunque cuore.
I litler si fa tenero, diventa tutto miele, quando gli capita di parlare
della grande sala della birreria di Monaco: “ Mi mettevo sempre in
fondo, ” racconta, “ e un tavolo mi serviva da podio. ”
Lo stile con cui è scritto il libro è sbiadito, privo di vigore e di
precisione; raramente l’autore fa centro, di regola il centro lo sfiora;
nel complesso rivela più sprovvedutezza che consistenza. Nessun
1 .ipitolo rinuncia ai tuoni deU’ingiuria, che tuttavia suona vuota, vol­
gare, ben lontana dalla ruvida succosità di quella luterana. Hitler
natta con leggerezza l’onore dei suoi avversari, accusa e insudicia, e
1 iò che egli vuol far passare per unà frase incisiva, non è, il più
lidie volte, che una trista calunnia. Hitler è un’anima nera: quando
Inveisce, appare chiaro fino a qual punto di bassezza morale possa
trascinarti. La sua espressione preferita è “ brutale” ; egli si pone
sempre in condizioni di dover prendere delle “ decisioni brutali.”
(ili fa una grande impressione il sistema spiccio del cazzotto sul
muso, e non è per puro caso che fa il tifo per la boxe e il Jiu-Jitsu.
Accanto all’imponenza scientifica del testo-base del marxismo,
il (a!pitale, Mein Kam pf fa l’impressione di un rettorico tratta­
li Ilo edito dall’Esercito della salvezza. Per quante qualità innate
«i possano ascrivere all’attivo di Hitler, ciò non toglie che Mein
Kampf sia solo un libello politico. Fu esso a determinare l’altezza
dia quale più tardi venne edificato il Terzo Reich.

97
Capitolo nono

Il mito del ventesimo secolo

N el corso della suddetta conversazione con Otto Strasser, Hitler


aveva definito il libro di Rosenberg, Der Mythus des 20. Jahrhun-
derts [Il mito del ventesimo secolo], “ l’opera più poderosa nel suo
genere... perfino più importante delle considerazioni sul dicianno­
vesimo secolo del Chamberlain. ” Benché il Partito nazionalsociali­
sta dei lavoratori volesse, per ragioni di opportunità tattica, fare ap­
parire il libro quale “ opera di un privato cittadino, ” e benché Ro­
senberg stesso assicurasse che conteneva solo opinioni di carattere
personale, e non il “ programma del movimento ” al quale Rosen­
berg stesso apparteneva, ciò nonostante i capi nazisti considerarono
l’opera il loro vangelo filosofico e ideologico. Rosenberg era capo-
redattore dell’organo del partito; e, se anche le sue opinioni non
collimavano al millesimo con l’ideologia ufficiale del partito, in
ogni caso questo era pur sempre mallevadore di ciò che andava scri­
vendo il maggiore pubblicista al suo soldo e, finché almeno lo
teneva al suo posto, se ne assumeva la responsabilità. Inoltre,
il giudizio entusiastico che Hitler dava del libro dimostrava
chiaramente quanto vasta fosse in realtà l’influenza che Rosenberg
aveva sul partito: se a volte questo scindeva le proprie responsa­
bilità da quelle di Rosenberg, ciò non avveniva certo per scuo­
terne la posizione, ma solo per non far prender ombra al lettore,
laddove il testo del Rosenberg fungeva da “ drappo rosso. ” Co­
munque, la verità era questa: Rosenberg formulava in termini fi­
losofici, in termini ideologici, ciò che Hitler compiva politica-
mente.
Il “ mito del XX secolo” è il mito del sangue. Su nordico ter­
reno sono fioriti i più alti valori umani; dove la razza nordica ha
messo piede, là è sbocciata la civiltà. India, Persia, Eliade, Roma
sono state benedette dalla presenza dell’uomo del nord, il quale è
IL M IT O D E L V E N T E S IM O SEC O LO

l’eletto, il dispensatore, il dominatore per eccellenza. L a sua opera


va a pezzi, qualora l’essere inferiore, soprattutto l’uomo “ orien­
tale-siriaco, ” riesca a metter radici, o quando l’uomo del nord
tolleri la mescolanza del sangue e lasci ai bastardi la propria ere­
dità.
Woltmann, Gobineau, Chamberlain, è vero, avevano già for­
mulato questa stessa teoria, credevano essere sulle tracce addirit­
tura di un Gesù di stoffa nordica. Ma Rosenberg le stesse formu­
lazioni le riassetta, le plasma fino a dargli l’aspetto indispensabile
a soddisfare le esigenze teoretiche di un movimento politico. Dove
chiaramente si dimostra che mai si riesce a cancellare le impronte
della propria origine, che l’immagine del mondo, che uno reca
in sé, mai contraddice l’angolo visivo col quale il suo occhio per
la prima volta si posò sul mondo. Rosenberg è un baltico, e in
lui è vivissima la coscienza di una superiorità nei confronti di una
razza estranea, senza diritti, razza inferiore, razza di servi: l’uomo
dcll’est è sempre stato, per il tedesco del Baltico, una “ sotto­
specie un tempo, il baltico poteva muoversi, nel circostante
ambiente etnico, con tanta boria e inavvicinabilità.
Il conio del punto di vista baltico informa di sé anche le con­
cezioni di Rosenberg in politica estera: per i baltici, lo spazio
vitale, il nodo della politica è il Mar Baltico; e, se il tedesco di
quelle regioni vuol liberarsi dai ceppi russi, deve prendere l’esem­
pio dalle potenze scandinave, che sono riuscite, in tempi andati, a
opporre una valida barriera alla potenza russa : soprattutto dalla Sve-
Izia, il cui re Carlo XII ha dato a suo tempo non poco filo da tor-
!cere a Pietro il Grande. E Rosenberg vuole una lega delle potenze
baltiche: Germania, Svezia, Norvegia, Finlandia, fors’anche la Da­
nimarca, devono far blocco, la “ linea Gustavo A d o lfo ” della po­
litica tedesca, deve tornare d’attualità. Ma il blocco avrà bisogno
di una riserva strategica, l’Inghilterra; l’intero sistema delle alleanze
riposerà cosi sul terreno di una magnifica comunità della razza nor­
dica, e la potenza della lega sarà sufficiente per mandare in briciole
l'impero russo-mongolico.
Il mito del sangue di Rosenberg è assai meno “ biologico ” di
(pianto non sembri a prima vista; non si tratta, in realtà, che di uno
scenario, mosso sempre dallo stesso vecchio, provato meccanismo

99
S U L L A S O G L IA

sociale. L ’enfasi dell’anti-romanità è rivolta contro le idee del 1789,


contro il liberalismo, l’umanitarismo, l’idea del diritto, contro i
contenuti spirituali del XIX secolo, di cui il borghese tedesco non
sa ormai più che fare. Le idee del 1789 erano la secolarizzazione
del cristianesimo cattolico romano, e Rosenberg le persegue impla­
cabilmente, fino alle loro lontane origini “ orientali-siriache. ” L ’uni­
versalità della chiesa cattolica romana finisce sempre per fare da
contrappeso all’eccessivo autoritarismo e alla potenza sociale delle
caste dominanti i singoli popoli; c’è infatti un punto, a partire dal
quale la chiesa, se vuole sopravvivere, deve dar manforte agli op­
pressi, e questo limite è segnato dal suo umanitarismo, al quale essa
non può venir meno. La chiesa universale romana costituisce quindi
un focolaio di pericoli per qualunque casta dominante la quale
tenda a imporre il suo dominio totale; per questo Rosenberg lancia
alla chiesa il suo guanto di sfida, per questo la smaschera come “ una
combutta di preti, ” che vede la propria potenza minacciata dall’or­
goglio razziale dei popoli ariani, e accusa il capo spirituale della
chiesa di essere uno “ stregone, ” un “ incantatore, ” il quale può
far valere ottimamente le sue ciurmerie in un orribile miscuglio di
mille razze diverse, assolutamente prive di carattere individuale,
miscuglio nel quale ognuno è in tutto e per tutto uguale all’altro.
Roma è il compendio di tutte le tendenze capaci di imbottire l’in­
dividuo col senso della umana dignità, con l’orgoglio di essere
uguale a tutto ciò che ha aspetto d’uomo, con l’amore per la libertà
individuale e politica.
A l contrario, il tipo nordico germanico incarna la brutale vo­
lontà di dominio dell’oligarchia borghese; è questa la razza supe­
riore, che vuole sostituire la libera concorrenza, e il contratto di
lavoro, con l’imposizione di rigide forme di vita industrialistico-feu-
dali. Il grosso borghese tedesco vuole usare, nei suoi rapporti coi
proletari, questi esseri inferiori, la stessa alterigia con cui il barone
baltico trattava un tempo i suoi sudditi slavi; l’abisso fra la razza
eletta dei grossi borghesi e la sottorazza dei proletari, deve risultare
incolmabile.
Sul piano della politica internaci principio nordico-germanico
instaura il giusto rapporto gerarchico fra i grossi borghesi e il pro­
letariato, su quello della politica estera i rapporti fra germanici e

100
IL M IT O D E L V E N T E S IM O SEC O LO

slavi. Il tedesco destinato a dominare, realizza lo scopo della sua


esistenza, quello che gli è stato fissato dai disegni divini, quando si
inette in marcia “ contro l’oriente ” per conquistarlo; e, dato che
egli ha dimenticato i suoi doveri da un paio di secoli a questa parte,
provvede Rosenberg a rinfrescargli la memoria. L a missione tedesca
è ili portare ai russi la civiltà e la cultura, è di imporre l’obbedienza.
La coscienza razziale germanica servirà insomma a incoraggiare il
grosso borghese ad attaccar briga con l’Unione Sovietica.
Ma questo non è che il primo passo sul piano mondiale. L a qua­
lità della sostanza nordico-germanica giustifica la divisione del
inondo intero, a mo’ di bottino, fra le grandi borghesie tedesca,
nordamericana e inglese. E a questo punto, l’antiromanesimo rosen-
bcrghiano tira un’altra conclusione: la borghesia latina resterà a
mani vuote; Francia e Italia, in questo affare, ci rimetteranno le
penne, né più né meno di slavi e asiatici. Il risorgente imperialismo
borghese dovrà avere un’impronta strettamente germanica; solo te­
deschi, inglesi e americani del nord saranno ammessi come soci.
Se si ammette, come si deve ammettere, che esiste solo un’arte nor­
dica, e che dappertutto, presso i cinesi come presso gli egizi, i grandi
capolavori sono stati opera di una casta superiore d’origine nordica,
Ironeggiante su corpi formati da popoli di razze inferiori, allora si
sa anche quel che il futuro riserba ai Germani: e il mondo sarà a
posto, solo quando dappertutto si estenderà il dominio della ge­
rarchia borghese di estrazione germanica.
Certo Rosenberg non è un pensatore originale, e non lo è nep­
pure nella misura limitata di un Chamberlain, il quale era pur
sempre incomparabilmente più colto di lui. Anche Rosenberg aveva
slogliato diversi libri, solo che i suoi ricordi letterari son sempre
troppo immediatamente avvertibili. Dove le fonti sono ricche, Ro­
senberg si muove a un livello culturale decente, ad esempio nel
t.ipitolo sulla Grecia, nel quale può far uso dei tesori accumulati
nella Psyche del Rhode e nella Civiltà greca del Burckhardt; dove
invece le fonti gli mancano, scade, dove gli tocca farsi strada da
solo, si perde in un ginepraio di chiacchiere, in campo filosofico
non meno che in campo politico.
Non si tratta dunque del getto di un’opera, cavata da una forma

101
S U L L A S O G L IA

alla quale ha presieduto il dio; è proprio il soffio creatore che


manca, che non illumina il tutto.
L a filosofia di Rosenberg è, dal punto di vista politico, fin
troppo trasparente: le tendenze pratiche, alle quali essa procura
la fumisteria spirituale, vogliono farsi riconoscere ipso facto. È una
filosofia che fa buon uso del diritto alla banalità dei movimenti
di massa. Anche i “ pensatori” devono combattere di persona;
bisogna abbattere i molti ripiani intermedi, grazie ai quali un
tempo i sistemi fatti di sottigliezza e astrazione erano separati dal
quotidiano. Rosenberg stabilisce cioè il livello speculativo che di­
venne d’obbligo nel Terzo Reich. L a filosofia, quando si leva al
disopra delle bassure rosenberghiane, tende a mettere freni al­
l’immediatezza dell’azione, lima troppo i cervelli, fa troppo ta­
gliente la rettitudine intellettuale. L a società borghese intende
tollerare al timone, nel momento del pericolo, solo delle teste so­
lide, che sappiano distinguere unicamente il bianco dal nero e
prendano incondizionatamente partito per ciò che ai loro occhi è
bianco. Il “ mito del XX secolo, ” insomma, è la filosofia di queste
solide teste, alle quali inculca che d’ora in poi è tutta questione di
sangue. Cosi essa s’accorda perfettamente all’atmosfera da guerra
civile: la mistica del sangue di Rosenberg e il riflesso ideologico
della sete fascista di sangue.

102
Capitolo decimo

“ Pesto, dunque sono

Qualunque avvenimento storico, le forze che ne determinano


il moto, il ritmo e l’estensione, la misura in cui compie il suo cam­
mino; la direzione, le soste, i subitanei mutamenti di rotta; le
sue fondamentali tendenze; le crisi e le catastrofi in cui si perde;
il senso che attribuisce a se stesso: tutto questo si riflette nelle
creazioni spirituali del tempo, nella produzione letteraria, artistica,
scientifica, filosofica del tempo. Ma questo precipitato ideale non è
allatto la causa prima creatrice, la causa prima autonoma, non è
da qui che ha inizio l’avvenimento storico; quel precipitato non
é che un poi, una conseguenza, un qualcosa che accompagna, che
segue le orme, che deriva e dipende, anche se svela l’essenza deli
l'avvenimento: ne è la coscienza e la scoperta. Ciò che l’avveni-
mento conteneva in sé, quale ne era la meta e lo scopo, ciò che vo­
leva, essere per se stesso e per l’osservatore, a quali desideri, a
quali brame segrete, a quali voti corrispondeva: tutto questo è
svelato da quel sedimento ideale, da quella “ soprastruttura, ” dalla
produzione spirituale. L a quale non è affatto né casuale né arbi-
Il'aria; essa non è che un fine sedimento, un’incrostazione sulla
tiva del tempo, in cui si disegnano, nel loro processo senza fine,
Ir forze motrici, le mutazioni di forma, le condizioni, la materia,
insomma, dell’avvenimento. G li uomini, nella cui produzione in­
tellettuale sono rappresentate in bella forma le fasi del processo
materiale effettuale, sono le celebrità che fan testo, i segnali lumi­
nosi sui quali orientarsi; a essi di stabilire dove si è giunti e in quale
direzione la corrente fluisce.
La figura letteraria maggiormente rappresentativa che la bor­
ghesia ha prodotto negli anni fra il 1900 e il 1933, è Thomas
Mann. Quanto ad origine, formazione, istinti, orizzonti, inten­
zioni e misure di valore, egli è un borghese del suo tempo; con

103
S U L L A S O G L IA

lui, la borghesia è giunta alla coscienza di sé. Una borghesia che


non combatte più contro l’avversario feudale, che anzi è scesa as­
sai pacificamente a patti con questo; la casta dominante feudale
lasciava al borghese tutto lo spazio ch’egli pretendeva per sé; essa
insomma si schierava decisamente dalla parte degli interessi bor­
ghesi e s’appagava di vedersi concedere, in compenso, il permesso
di continuare a rappresentare la sua innocua commedia di gloriose
tradizioni. Il borghese tedesco aveva attinto alla suprema altezza
cui gli fosse lecito salire; più oltre non si poteva andare, e il bor­
ghese tedesco si sedette a godere degli obbiettivi raggiunti, dei pa­
norami che la posizione gli offriva, della vista del mondo ai suoi
piedi; si inebriò dell’aria delle altitudini, non volle più che alle
sue nari giungessero cattivi odori. Le sue idee di Ragione, Uma­
nitarismo, Diritto, non occorreva più puntarle come argomenti di
ordine pratico, come armi, contro il nemico feudale; poteva ele­
vare il proprio spirito al loro leggiadro contenuto, e tanto più
nobili quelle idee sarebbero sembrate, quanto meno avrebbero
dovuto servire da testa di Medusa piantata sullo scudo a paraliz­
zare il nemico di classe feudale. Ed ecco il borghese menare vita
da esteta, eccolo intento ad amare la bellezza, eccolo coltivare, ora
gli affari marciano da soli, il suo gusto per le arti. Thomas Bud-
denbrook è il compendio del borghese nello stadio in cui, trasfor­
matosi in esteta, prende gusto a questa sua nuova dimensione,
tutto soddisfatto di essere riuscito a raggiungere un simile grado
di civiltà, di cultura, di erudizione. Anche nel linguaggio dello
scrittore, cosi scelto, limato e padroneggiato, si rivela la raffina­
tezza di gusto del borghese, il quale si circonda, nella sua casa
di campagna alle porte della città, di belle cose che gli servono a
dimenticare quanto siano sporchi gli affari e i commerci cui at­
tende, col suo cieco e monotono lavoro nella City, il personale
alle sue dipendenze.
Ma l’essere sulle cime illuminate dalla bellezza, non gli si confà
e la tisi lo consuma, entro i confini della sua montagna incantata.
E già gli si levano contro, dal basso, forze ignote che mettono
in forse la sua esistenza estetizzante, che pretendono di far pas­
sare quel suo modo di vivere per una scrocconeria alla quale bi­
sogna decidersi a metter fine. L ’edificio dell’esistenza estetizzante

104
“ PESTO , D U N Q U E SO N O ”

borghese, dunque, minaccia di tramutarsi d’un tratto nel mucchio


di calcinacci che un tempo la borghesia aveva fatto del feudale­
simo, e sul quale finiscono per darsi convegno tutte le cose sor­
passate, le cose preistoriche. L ’esteta borghese comincia ad avver­
ine i primi sintomi di decadimento, a dirsi che, forse, non riuscirà
a sfuggire a quelle profondità alle quali guarda dalla sua cima.
In La Morte a Venezia, Mann descrive il tramonto della condizione
borghese, quell’ “ elegante padronanza di sé, che nasconde agli
occhi del mondo, fino all’ultimo momento un interno rodio cor­
ruttore, la decadenza biologica; l’itterica laidezza lesa nei sensi,
che pure è in grado, quel suo ardore febbrile, di eccitarlo a limpida
fiamma, di innalzarsi addirittura al trono del reame della bellezza;
la pallida impotenza che trae, dalle cocenti profondità dello spi­
rito, la forza di ridurre un intero popolo di tracotanti in ginocchio
ai piedi della croce, ai propri piedi; l’affabile contegno nel rigido,
vano servizio della forma; l’esistenza doppia e pericolosa, lo sner­
vante struggimento e l’arte del mistificatore nato. ” Questo “ eroi­
smo della fralezza” era la meta finale della poderosa rincorsa che
la borghesia europea aveva preso nel 1789.
Certo, la prima guerra mondiale non fu che lo sbocco della
sconsigliatezza della borghesia europea, ma la guerra sembrò in
pari tempo una scappatoia. Qualcosa accadde, qualcosa fu fatto;
si sarebbe preso fiato, ci si illuse, si sarebbe ricominciato tutto dac­
capo, si sarebbe cominciata una vita del tutto nuova, innocente.
Poiché si rammassavano le ultime risorse, e si era costretti a darvi
fondo, ci si illudeva di essere diventati più ricchi, più forti, più
potenti. L ’uniforme che Hans Castorp si infilò gli imparti una
si raordinaria energia, gli permise dapprima di ignorare la sua
malattia, e ignorarla significò inoltre per lui la sensazione di es­
serne già guarito. Thomas Mann era lui stesso un Hans Castorp
1 lie, trattenendo il fiato, s’era stretto a fatica nei panni colorati
dell'eroismo prussiano; e quei panni erano il toccasana contro l’e­
lisia borghese; a chi rifiutava di rivestirsene, non restava che reci­
tare il mea culpa per la mancata guarigione.
Il “ letterato e uomo di cultura ” tedesco aveva sofferto anche
egli della condizione disperata in cui era caduta la borghesia del
suo paese; ma la causa dei mali egli la vedeva nell’essersi il bor-

105
S U L L A S O G L IA

ghese tedesco ricusato di assoggettarsi radicalmente alla cura del


1789. N ulla s’aspettava, invece, dal bagno di sangue e acciaio della
guerra; e continuò ad attenersi al signor Settembrini, a credere al
pari di questo libertino (che pure non era stato affatto risparmiato
dal mal sottile) che il giacobinismo s’addicesse al borghese tedesco
assai di più che non il prussianesimo nonostante tutto lo splen­
dore con cui quest’ultimo si era esibito nelle gloriose giornate del­
l’agosto 1914. Questo irritò Thomas Mann: nelle sue Betrach-
tungen eines Unpolitischen [Considerazioni d’un apolitico] egli
si presenta nelle vesti di un borghese accesamente prussiano, che
cerca sollievo dal male che lo rode, e lo scaturire di una nuova
vitalità nel fragore delle armi; e spazientito manda a spasso quei
medici-letterati, i quali ricalcitrino a far proprio il mutamento dei
metodi di cura, come ha invece fatto lui.
Certo, la guerra non ridiede la salute alla borghesia tedesca,
la quale anzi ne usci più malconcia, più tisica di prima. Il tempo
della pacata contemplazione, dei godimenti interiori, il tempo de­
gli esteti era definitivamente tramontato: la cura della guerra non
aveva dato alcun frutto, e anzi aveva liquidato le ultime riserve
di energia. L a borghesia non aveva più i mezzi per permettersi
di trascorrere i suoi giorni con le mani in mano, sulla montagna
incantata; senza contare che la sua costituzione fisica era ormai
inadatta all’aria fine delle alture e che lassù l’ultimo, galoppante
stadio sarebbe intervenuto entro un lasso brevissimo di tempo.
Benché Thomas Mann la sua scappata in senso prussiano mi­
litante l’avesse già superata nel 1918, come del resto aveva fatto
l’intera borghesia tedesca, pure, momentaneamente, venne me­
no il suo peso rappresentativo. Un nuovo tipo borghese si faceva
lentamente alla ribalta. L ’epoca di Stresemann, è vero, sembrò
voler rimettere in auge il borghese guglielmino, ma era una re­
staurazione economica finanziata dai prestiti e dal credito stra­
niero; e improvvisa e penosa fu la rivelazione della sua insolvi­
bilità, quando si trovò a dover far fronte agli impegni contratti.
E fu la fine, per gli splendori della borghesia tedesca inebriata di
estetismo e cultura, di pacifismo e umanitarismo. L ’ultimo che
riuscì, proprio a buco, prima che se ne potesse toccar con mano la
fralezza, a sfruttarli ai fini di un’impresa letteraria destinata a

106
!

“ PESTO , D U N Q U E SO N O ”

produrre milioni, fu Remarque. Il quale profittò di una bassa


forma di pacifismo, quello che voleva scaricare a francesi, inglesi
c americani tutti i sopraccapi per il destino tedesco. Palude di
miserie, sulla quale Thomas Mann si drizzava come torre.
Poi il corso delle cose mutò; il borghese tedesco passò, con
sorprendente destrezza, dal pacifismo di Remarque al “ Fronte
liarz-burghese. ” E Thomas Mann avverte con estrema chiarezza
la svolta del borghese tedesco verso la violenza, l’inumanità ad ogni
costo, l’intolleranza; capisce che s’è convertito alle potenze ctoni-
che e se ne cruccia. Eppure, al nuovo stato allotropo del borghese,
per quanto profondamente gli ripugni, egli si sforza di attribuire
alti meriti; perfino la brutalità non può che immaginarsela spi­
ritosa e piena di fascino come quel Naphta, affatto superiore a
Settembrini negli scontri dialettici, il quale, quando scopre che
l’umanità può anche avere un carattere e tener fede ai propri
principi, non trova di meglio — per scacciare quell’infausto, se­
ducente spettro — che infilarsi una pallottola nel cranio.
Nel grande ciclo di Giuseppe e i suoi fratelli, anche Mann
sacrificò alle potenze ctoniche. Ciò nonostante, con finissima iro­
nia condita di razionalistico scetticismo Thomas Mann riuscì, in
un certo senso, a svuotare di contenuto mitico la mitica materia;
apparentemente Thomas Mann cedeva alla tendenza tedesca al
mito, mentre invece spogliava tale tendenza del suo carattere viru­
lento, ossessivo. Razionalizzando il mito, infatti, lo si umanizza,
lo si costringe a rinunciare ai veli, protetto dai quali esso riesce
a sviare e imbarbarire gli animi; il mito, si può dire insomma, fu
st lappato allo sfruttamento politico propagandistico.
Molti poeti, pensatori e artisti sono araldi, che ormai procla­
mano, dinanzi al popolo tutto, la sovranità di una tendenza del
secolo, che a lungo ha dovuto mordere il freno dietro le quinte.
Non furono certo Voltaire e Rousseau che posero per primi a ca­
vallo lo spirito borghese, semplicemente raccontarono in giro che
quello spirito era già da un bel po’ saldo in sella; e Schiller e Beet­
hoven, dal canto loro, rivelarono che anche in Germania esso s’era
già fatto largo. Quanto più vitale, importante ed agitata sarà una
epoca nascente, e tanto più indimenticabili saranno le opere che
l'hanno annunciata.

107
S U L L A S O G L IA

Ma, accanto agli araldi, vi sono i “ trasfiguratori, ” i quali, pri­


ma che l’epoca sia definitivamente tramontata, verseranno tutta la
grandezza, la pienezza e la profondità della sua essenza in simboli
poetici, pittorici, musicali e plastici, in sistemi di saggezza; e in tali
forme sopravviverà nei secoli l’eredità dell’epoca trapassata. I mas­
simi poeti, artisti e pensatori hanno, di regola, più del trasfigu-
ratore che dell’araldo: alla loro famiglia appartengono Omero e
Platone, Dante e Cervantes, Shakespeare, Goethe e Mozart, Puskin
e Tolstoi.
Di questa categoria anche Thomas Mann fa parte, solo che
egli non dà l’addio a un millennio, ma tutt’al più a un secolo, e
non può dare, per quanto alta sia formalmente la sua arte, più di
quel che il secolo in questione contiene.
Ci fu però, mentre si andavano spegnendo le note del movimen­
to liberal-umanitario del concerto borghese, un temerario talento
il quale pose in dubbio che la realtà borghese valesse lo scialo
fascista, grazie al quale il borghese voleva tenersi a galla per pochi
anni ancora: e questi fu Bert Brecht. N ell’opera di Bert Brecht
si rivela a se stesso senza veli, con totale distacco, il marciume
borghese, senza inorpellarsi, senza detestarsi. Una sporca realtà si
presenta cosi senza la copertura di ideologia alcuna, non più di­
sposta a sottostare al giudizio delle idee, una realtà che non vuol
più essere né giustificata e approvata, né giudicata e condannata;
essa si presenta, si manifesta, ecco tutto, lasciando all’osservatore
di disgustarsene o esserne solleticato, di fissarla affascinato o di
distorglierne spaventato lo sguardo. Una realtà che, se si sotto­
pone a un giudizio, è a quello del diavolo, semmai questo, vistane
la purulenza, s’arroghi il diritto a portarsela via. E, se Brecht
ha un secondo fine, è solo e unicamente quello, una volta messa la
realtà stessa di fronte allo specchio della propria guasta ghigna,
di toglierle il piacere di vivere, di farle venir meno la voglia di
alzare anche un dito per difendersi.
Una simile paralisi della volontà di resistenza borghese sarebbe
stata, neanche dirlo, a tutto vantaggio del nemico di classe, il
proletariato; e chi la favoriva, poteva ben essere considerato l’a­
gente, il compagno di strada camuffato del proletariato. F u ap­
punto cosi, ad esempio, che Albert Einstein si acquistò la fama di

108
PESTO , D U N Q U E SO N O

partigiano del nemico di classe proletario. Vero è che la sua teoria


della relatività era, all’origine, nient’altro che un metodo di inda­
gine matematico-fisica e s’occupava, nella maniera piu astratta,
esclusivamente delle leggi del movimento. Ma essa comportava
anche conseguenze d’ordine generale, investenti i principi spiri­
tuali, in particolare l’atteggiamento al cospetto dei fenomeni mo­
tori della vita associata. Le leggi dell’economia capitalistica pre­
tendevano alla assoluta validità; l’ordine borghese vuole essere
non solo eterno, ma anche l’unico, l’assoluto, mentre il relativismo
induce il dubbio contro tutto ciò che pretende all’assolutezza e
all’unicità: basta infatti che muti la posizione, perché subito ci si
trovi immersi in un altro sistema di relazioni e i rapporti fra le
cose appaiano completamente diversi. V ’erano dei sistemi di re­
lazioni e di ordinamenti sociali, nei quali le leggi capitalistiche
non avevano senso alcuno, e non era affatto detto che la loro
istanza dovesse avere meno valore delle istanze dell’ordine sociale
borghese. Bastava dunque mutare punto di riferimento, che mu­
tavano completamente gli “ aspetti. ”
L ’ordine capitalistico era l’ordine del borghese, e non c’era
ragione al mondo perché anche al lavoratore non s’appartenesse
un suo proprio ordine. Che, una volta creato, non sarebbe stato
certo meno gravido di significati, ■ ricco di scopi e conveniente e
necessario, di quanto fosse stato, per il borghese, l’ordine capita­
listico. Il proletario aveva bene il diritto di ritenere, per quanto
lo riguardava, altrettanto assurdo l’ordine borghese, di quanto il
borghese trovasse paradossale la collettivizzazione. Ma, se l’or­
dine borghese aveva validità solo in senso relativo, come poteva
pretendere di sussistere ulteriormente, come voleva fare a pro­
teggersi dall’assalto del proletariato? Il relativismo dunque, in
(pianto metteva in forse la forza necessitante dell’ordine borghese
per il proletariato, dava a quello il colpo di grazia. Certo, Ein­
stein non si schierava apertamente col fronte marxista: ma, in
(pianto il suo sistema teorico finiva per implicare uno smotta­
mento dell’ingenua fede nella validità, eterna e assoluta, dell’or­
dine borghese, era chiaro che Einstein tirava alla borghesia la
"pugnalata alla schiena.”
Funzione simile la esercitò il giurista Hans_Kelsen. Lo stato

10 9
S U L L A S O G L IA

è lo strumento del dominio di classe; il diritto è il complesso


delle norme dietro le quali si cela il potere della classe; la giu­
stizia è un atto di magnanimità della classe dominante, la quale
continua a rispettare il diritto, anche qualora ciò implichi un
danno per essa. Kelsen considerava lo stato come mero sistema
delle norme; e la forza, che quelle norme fissa e adopera, il
Kelsen la nullificava. La norma torna utile a ognuno, forte o
debole che sia; e, se il pricipio della legalità formale riesce ad
imporsi, a una classe dominante non resta alcuna scappatoia,
quando una maggioranza impone una legge contraria agli in­
teressi della classe stessa. Il normativismo e la legalità formale
di un Kelsen, insomma, ignoravano la volontà di potenza, il
brutale egoismo della borghesia; un qualunque atto legislativo
di una qualunque maggioranza non borghese, sarebbe bastato a
togliere il terreno di sotto ai piedi agli istituti borghesi. E se K el­
sen non dice da chi tale maggioranza può essere composta, sa
tuttavia che i suoi principi possono offrire al proletariato armi
contro la borghesia. Restava però da vedere se si poteva davvero
ignorare l’egoismo borghese, che tuttora si riserbava per i casi
di forza maggiore il ricorso al diritto di natura contro il diritto
positivo, al vigente legittimismo contro il formale legalismo, e
che faceva prendere a pedate dai propri dittatori qualunque
maggioranza osasse porre in dubbio la santità delle casseforti
borghesi; il borghese tedesco si rendeva conto fin troppo bene
che la legalità formale, qualora non si fosse più coperta con lo
scudo dell’egoismo borghese, sarebbe diventata un’arma per la
lotta di classe del proletariato; e diritto popolare e legittimismo,
dei quali il borghese tedesco si valeva per salvarsi la pelle, risul­
tavano tanto più persuasivi, quanto più duri erano i pugni chia­
mati a sostenere la validità di questi principi “ rivoluzionari. ”
Il formalismo di Kelsen, dunque, tagliava le gambe alla vo­
lontà di classe della borghesia, qualora le norme emanate da una
maggioranza parlamentare-democratica proletaria avessero dato
valore legale alla potenza di classe del proletariato.
Kelsen dunque, non meno di Einstein, minava le fonda-
menta dell’intero edificio borghese: ambedue vanificavano la fe­
de nell’incrollabilità delle premesse al dominio di classe borghese.

110
PESTO , D U N Q U E SO N O

Da un giorno all’altro, il fuorilegge, colui per cui valeva un altro


metro di giudizio legale, il “ nemico di classe ” proletario, era
messo in condizioni di pretendere altrettanta giustificazione e di­
ritto di quanti ne fossero concessi al borghese. E, se la borghesia
dal canto suo non aveva più il vantaggio di una superiore giu­
stificazione storica, come ceto dominante era finito.
Questa disgregazione dei bastioni borghesi, sottintesa nelle
posizioni tanto di Einstein che di Kelsen, si manifestò quale con­
seguenza di un lungo processo di spiritualizzazione, che aveva
disperso la bruta sostanza in movimento, in onde, in radiazioni
c funzioni; la solida struttura, fatta di univoche forme sociali e
spirituali, in cui la borghesia si era arrecata, si dissolveva in puri,
indeterminabili rapporti e in instabili relazioni. Lo spirito, che
finora era stato il battistrada della causa borghese, all’improv­
viso le si rivoltava contro; e la causa stessa si sfaceva nel suo proprio
elemento, diventava impalpabile schiuma. Se ancora il borghese
voleva difendersi, doveva cominciare lanciando il guanto di sfida
allo spirito; doveva, non meno che se fosse stato un uomo del­
l’epoca feudale, invocare l’aiuto delle potenze ctoniche. E lo spi­
rilo sarebbe stato giudicato e mandato, se si fosse riusciti a sma­
scherarlo come 1’ “ avversario dell’anima. ”
L ’attivismo fascista pretende dunque di ristabilire l’ordine bor­
ghese, di rifarne un rocker de bronze\ con tono intollerante, so­
stiene che la società borghese, unica e sola, si trova in perfetto
accordo con le eterne leggi che stanno a fondamento della vita
sociale. Qualunque ordine, il quale voglia soppiantare la società
horghese-capitalistica, è il sintomo di una malattia sociale, di cor­
rotta morbosità, un tradimento alla vera volontà della natura, un
crimine contro i fondamenti dell’essere umano. Col ferro e il
fuoco, devono dunque essere sradicati questi segnacoli di deca­
denza, e l’ordine borghese restituito all’assolutezza del suo domi­
nio. Per riuscire a questo non è certo necessario trovare una
nuova giustificazione, non occorre che la società borghese si sot­
toponga ad alcuno scrutinio: provvedendo, al momento del peri­
colo, a imporre la sua dittatura, stigmatizzerà ogni quesito sulla
legittimità del ricorso come criminale indiscrezione; e sarà cosi
permesso tappar la bocca ai curiosi che danno tanta noia.

Ili
S U L L A S O G L IA

Va da sé che i fumi intellettuali di cui si ammanta l’attivismo


fascista sono il riflesso di identiche tendenze. L ’intellettuale fa­
scista vuole, ad ogni costo, sentirsi sotto i piedi qualcosa di solido,
di stabile, di assoluto; egli sdegna il vortice confuso in cui teorie
della relatività, fisica teorica e normativismo hanno gettato l’uomo
moderno.
Già Spengler aveva tenuto in debito conto questa pretesa: la
stabilità, il solido terreno che egli offriva, erano il sangue e la
terra. Dal sangue alla razza, evidentemente, il passo è breve. San­
gue, suolo, razza erano oscuri, primitivi dati di fatto, nel cui
ambito uno si sentiva al sicuro: cose che non si potevano relati­
vizzare, che non sfuggivano di tra le dita; ed esse divennero il
patrimonio del pensiero fascista, i valori attorno ai quali la spiri­
tualità fascista ruotava, e cui faceva di continuo ricorso. Il pensiero
fascista, insomma, aveva imboccato una strada che, partendo dallo
spirito e dalla sua chiarezza e ampiezza, menava nelle regioni
della notte, nei più profondi recessi dell’uomo, nel sottosuolo mi­
stico, e insieme anche nel mondo del limitato, del ristretto, del
provincialismo patriottardo, nel mondo del primitivo fanciullesco.
. Lungo questa strada, verso le regioni del sangue e del suolo,
il pensiero fascista incontrava di continuo il meraviglioso, l’in-
comprensibile, l’inafferrabile, l’istintivo. E, inevitabilmente, fini­
va per nutrirsi di ciarlatanerie e settarismi di tutte le specie: la
medicina delle conventicole, la storiografia e la Weltanschauung
settarie, l’astrologia, l’agricoltura occultistica, settari programmi
economico-finanziari usurpavano il terreno sul quale fino a quel
momento lo scrupoloso spirito della scienza aveva esercitato il
suo dominio. A lla fine, l’intero sistema politico tedesco, con la
sua terminologia, la sua ideologia, i suoi metodi, la sua autorap­
presentazione, si adeguò perfettamente ai canoni del settarismo
imperante: il saltimbanco politico aveva assunto la gestione del­
l’eredità di Bismarck. Per quanto l’intellighentzia fascista era intel­
ligente, s’adoprò a non trasgredire allo stile fascista con le qualità
di cui era dotata; essa tese tutte le sue forze spirituali nel diabo­
lico tentativo di inaridire lo spirito; non di rado gl’intellettuali
fascisti stupirono per la ricchezza di spirito di cui facevano sfog­
gio, erigendosi ad avvocati dell’anti-spirito. A somiglianza di

112
PEST O , D U N Q U E SO N O

Naphta, commisero in numero infinito suicidi spirituali. E al


mondo in cui vivevano, fu imposto lo stile, anticipato da Stefan
Georg, della magnifica “ gigantesca banalità. ”
Per il cervello filosofico, il problema ontologico si faceva attuale
del momento in cui affermava che la solidità, l’incrollabilità e-
rano l’imperativo dell’epoca. Il senso dell’intoccabilità della so­
cietà borghese, si sarebbe esaltato al sapere che esiste, in via di
principio, alcunché di eternamente duraturo, un fondamento del­
l’essere che in nessun modo si riesce a metter fuori corso, eterne
categorie sulle quali far conto ancora per millenni. I ribelli al ca­
pitalismo agivano spinti dall’ “ allarmante persuasione ” che plu­
svalore, profitto, capitale, proprietà privata, borghese, contadino,
non fossero che categorie storiche, destinate prima o poi a venir
disperse e dimenticate; ma questo aveva inferto, alla fede che il
borghese nutriva in se stesso, un colpo, per rimettersi dagli effetti
del quale si voleva far ricorso alla cura fascista. Il borghese fasci­
sta s’aspettava, dai suoi filosofi, che riuscissero a statuire qualcosa
di eterno: l’eternità di un essere dato e delle sue categorie. E
l’ontologia di Martin Heidegger, infatti, fece del suo meglio per
evitargli una delusione. L a conclusione secondo la quale l’espres­
sione storica dell’essere, evidentemente metafisico, è l’ordine bor­
ghese, non era necessario che fossero i filosofi a tirarla: a farlo
provvedeva il borghese fascista in persona. Per il borghese l’essere
eterno era un simbolo della sua eternità sociale; e la filosofia del­
l’essere diventava cosi una autentificazione metafisica dell’impul-
no del borghese all’autoaffermazione e autoconservazione.

Quest’essere inviolabile è direttamente presente; non occorrono


grandi voli intellettuali per avvertirne la presenza: allo spirito non
ni danno tante soddisfazioni. Se il caso lo richiede, non c’è nem­
meno bisogno di una particolare intuizione. Si testimonia del-
l'rsistenziale semplicemente muovendo all’attacco dalle attuali po­
li/ioni; ci se ne infischia di ragioni e dimostrazioni; si è qua, pre­
muti, e a chi dubita non si ha che da mostrare questa verità.
Quanto alla smania di elucubrazioni critiche, ci si mette un punto
Irrmo; e a chi non può farne a meno, ebbene, lo si picchia sulla
lesta, finché da questa svanisca la capacità di pensare; è cosi che

113
S U L L A S O G L IA

l’esistenziale si manifesta al di là di tutte le ragioni sufficienti.


“ Io pesto, dunque sono. ” 11 ricorso alla violenza è l’argomento
opposto dall’Essere borghese a quelli cui non risulti evidente la
sua eternità; la violenza è la diretta, convincente manifestazione
sostanziale dell’esistenziale. Umanitarismo, liberalismo, spirituali­
tà, non sono che manifestazioni indirette dell’esistenza: sono
aggeggi secondari i quali però richiedono un tale scialo che alla
fine l’esistente non ne vuol più sapere. Non c’è nulla che riesca a
imporre maggior rispetto all’essere, delle maniche rimboccate e
del dito che tormenta il grilletto. L ’ontologismo e l’esistenzialismo
moderni sono la filosofia degli attivisti fascisti; il borghese ritrova
la certezza di un Essere illuminato dalla grazia del profitto, e
rifiutarsi di esistere alla maniera borghese significa (come ogni
marxista tedesco ben sa) non poter esistere affatto. L ’Essere e
l’Esistenza hanno la loro qualità, eterna e inviolabile: sono bor­
ghesi; e ciò che non è borghese, non è. A rendere evidenti la to­
talità, l’assolutezza e l’intoccabilità dell’esistenza borghese, contri­
buiscono proprio i mezzi di cui l’Essere si serve per ficcare in testa
a tutti che il suo carattere borghese è al di sopra di ogni discus­
sione.
Ma l’ontologismo aggressivo, l’esistenzialismo rissoso che vole­
va essere la risposta a qualunque dubbio sull’eternità della essenza
borghese mediante un’energica epurazione, aveva anch’esso il suo
tallone d’Achille: nelle pieghe più segrete del suo cuore qualcosa
non andava con la fede in se stesso. L ’attivismo era cosi deciso ed
energico perché la situazione lo richiedeva; il fascismo borghese
doveva “ agire ” senza un attimo di respiro perché in segreto tre­
mava all’idea delle conseguenze di un attimo di resipiscenza. Non
si ha paura dello spirito e del pensiero, non si teme la critica altrui
solo quando si è in grado di far fronte a tutto, quando si ha indosso
una veste immacolata, quando non si deve celare la propria putre­
scenza e si ha il futuro assicurato; non si aggredisce furiosamente
chiunque osi fare delle domande se non quando si ha ragione di
temere qualunque domanda.
Il tramonto dell’occidente, quale l’aveva profetizzato il “ socia­
lista prussiano ” Spengler, era in realtà il tramonto dell’ordine

114
PEST O , D U N Q U E SO N O

borghese. In cuor suo Spengler era profondamente persuaso che


il borghese non avesse più niente da sperare. “ Solo i sognatori
possono credere alle scappatoie, ” afferma in un passo del suo
libro Der Mensch und die Techni\ \L’uomo e la tecnica] ; “ noi
siamo nati in questo tempo e dobbiamo seguire fino in fondo,
coraggiosamente, la strada che ci è stata tracciata... Il borghese
deve restare impavidamente sulla posizione perduta, come quel
soldato romano di cui si son trovate le ossa davanti a una porta
di Pompei, e che è morto perché al momento dell’eruzione del
Vesuvio ci si dimenticò di rilevarlo dal suo posto di guardia.”
Sicché il dovere consiste nell’eroico perseverare in una esistenza
che non ha senso alcuno. Il borghese che in tale atteggiamento
resta al suo posto, è il grande borghese, è l’ultimo signore, colui
che non può arrendersi, anche se nessuno sa più dire perché
egli continui a difendere la sua posizione. Non è più, però, sul
“ carbone ” che egli fonda la sua signoria, bensì sui cannoni; il
cannone è infatti l’argomento decisivo, quello col quale i baroni
dell’industria pesante fan piazza pulita di tutti i dubbi sulla loro
autorità. Ed è un’autorità, questa, la quale si giustifica ormai in
un modo solo: aprendo implacabilmente il fuoco contro chi,
ponendo domande, mostri di pretendere una procura da parte
della storia; un’autorità il cui essere reale si riduce ormai a pol­
vere da sparo, piombo e gas, i mezzi cioè di cui si serve per fare
tabula rasa di chi la provochi; il suo diritto esistenziale, al di là
del quale c’è il nulla, sono le armi di cui si cinge.
]ahre der Entscheidung [Gli anni della decisione] era il sot­
totitolo del libro di Spengler, il quale continuava a sostenere la
finzione, a far credere che optando per la classe dominante bor­
ghese, ci si ancorava a un contenuto in sé ancora valido.
È sintomatico di quest’epoca il fatto che il “ decisionismo ” in
sé sia elevato a sistema. Le decisioni non sono prese in base ad
argomenti validi; al contrario, si attribuisce significato a una cosa
semplicemente decidendo a favore della stessa. Il mondo borghese
è conscio della propria vuotaggine e vacuità; attende dunque che
i iò per cui ha deciso gli porti nuovi valori; fino all’ultimo cava
profitto perfino dal sangue sparso da coloro che ancora son dispo­
sti a morire in suo nome.

115
S U L L A S O G L IA

L a teoria del decisionismo fu sviluppata con estrema sottigliez­


za da Cari Schmitt, nell’ambito della fluttuante situazione wei-
mariana. Ma, in pratica, né il Zentrumspartei del periodo weima-
riano, né il regime autoritario di Bruening, né il governo, ispirato
dalla grande borghesia, di Papen, avevano osato riedificare resi­
stenza borghese su nient’altro che un puro atto di decisione; solo
l’attivismo fascista ne fu, più tardi, capace.
Ciò nonostante, non si smarrì mai, com’è naturale, la sensa­
zione che l’attivismo fosse tutto uno spettacolo, destinato ad asso­
pire la paura dell’inevitabile tramonto, dell’inarrestabile crollo nel
nulla. N el V ol\ ohne Raum [Popolo senza spazio vitale\ di Hans
Grimm, non solo il popolo, che costruisce sul nulla e guata dispe­
rato all’ingiro se mai gli riesce di metter le mani su una preda con
cui riempire il proprio vuoto, ma perfino l’esistenza dell’immagi-
nario “ risvegliatore, ” che resta ucciso da una sassata, sprofonda
nell’insensatezza. Nemmeno gli intellettuali fascisti riescono a ce­
lare la verità del fatto che il loro attivismo è un folle spettacolo,
organizzato sull’abisso del nulla. N é la filosofia di Heidegger
riesce a mascherare meglio la realtà. L ’Essere, di cui Heidegger
provvedeva il borghese minato dal dubbio, per far si che tornasse
a sentirsi un solido terreno sotto i piedi, in ultima analisi non
era che una base illusoria : era un “ Essere per la morte ” (Sein
zum Tode). L ’Essere di Hegel era un gradino, sorpassato il quale
lo spirito assoluto giungeva alla coscienza di sé; l’Essere di Schel­
ling si compiva nella libertà: in ambedue i casi, il borghese era,
nella sfera della metafisica, soddisfatto del grande futuro che gli
si apriva intatto davanti. L ’Essere di Heidegger, al contrario, non
ha altre prospettive all’infuori del nulla ed è costretto a conve­
nirne con se stesso; nessuna meraviglia, quindi, che la sua “ pre-
senzialità, ” l’elemento nel quale continua a librarsi e che alla
fine spiega tutto l’affanno fascista, sia l’angoscia.
Attraverso l’azione, si prova a se stessi che si esiste; ma da
profondità insondabili viene a galla di continuo il dubbio: non si
è già, per caso, usciti di vita, non si è per caso una larva, un’om­
bra che s’aggiri senza requie? Si agisce per dimostrare l’assurdità
del dubbio, per metterlo a tacere. E, quanto più tormentoso quello

116
te
PESTO , D U N Q U E SO N O
99

si fa, tante più azioni si accumulano. N on si può riposarsi: si


teme, ad abbandonarsi un istante, di essere perduti; e si è spinti
a una serie ininterrotta di azioni dall’oscuro sentimento di essere
nient’altro che azione. Si vive per morire; la vita si compie nel
votarsi alla morte: l’intero suo contenuto è gettarsi in braccio
alla morte. Ciò che conta è la predisposizione al sacrificio, non
il bene per il quale il sacrificio si compie. L a sostanza organica
consuma la propria carica vitale anche quando si concede il ri­
poso; la macchina è tale, solo a patto che sia capace di movimento:
e ben poco importa che si muova a vuoto, che trebbi spighe o
paglia. L ’attivismo fascista è di natura meccanica: ad ogni costo
le ruote devono essere in movimento. E cosi l’ordine borghese
prova a se stesso che non è ancora soggiaciuto al regno della man­
canza di vita, della rigidità cadaverica: solo il ronzio delle ruote
è convincente: il gran daffare che si dà l’attivismo fascista, non è
che l’estremo ripiego cui fa ricorso il nichilismo per non dover
dichiarare apertamente bancarotta; se quel movimento non ci
fosse, salterebbe agli occhi di tutti che più niente esiste.
Il nichilismo attivistico anela a un successo pur che sia; il suc­
cesso è il miglior carburante, è l’unico col quale riscaldare spet-
latori e attori. Se il successo dovesse mancare, il drammone crol­
lerebbe, il gigantesco meccanismo resterebbe senza “ fiato. ” L ’a­
zione deve sempre essere azione armata, cosi si potrà volare di
successo in successo. Bisogna essere sempre meglio armati di quan­
to lo sia il nemico contro il quale si vuole inscenare l’azione; la
prima azione è il riarmo, la seconda l’impiego delle armi. Mai si
era visto un nichilismo altrettanto militante di quello fascista;
mai fu la mobilitazione più totale, mai si è stati più “ combatten­
ti,” anzi non si è nient’altro che combattenti; c’è chi, ancora in
verde età, riesce già a essere un “ vecchio combattente. ” Ma alla
lotta manca senso e obbiettivo; si combatte per combattere, ecco
tutto. Si combatte, in altre parole, perché, se non lo si facesse, non
si riuscirebbe più a mascherare la propria putrefazione e corru­
zione, il nulla di cui si è fatti.
Ernst Jiinger ha fornito al nichilismo militante le formule e
le parole d’ordine. Col suo istinto nichilista, aveva subodorato che

117
Tfsflsfjrs

S U L L A S O G L IA

in realtà non c’era piu niente per la cui difesa valesse la pena di
farsi mobilitare: una volta iniziata l’azione bellica, tutto, senza
eccezione alcuna, doveva esser posto in movimento. Nella fuga
delle apparenze, non c’era insomma più alcun punto fermo.
L a mobilitazione totale, di cui Junger si fa banditore, è l’azione
la quale raggiunge i propri estremi limiti, le punte più alte cui si
possa attingere; essa pretende di porre tutto e tutti in marcia, non
tollera più nulla in stato di riposo, donna, bambino, vegliardo che
sia. Incita i lattanti ad arruolarsi, chiama le ragazze sotto le armi,
dà fondo alle più segrete riserve; niente ne resta escluso, ogni
angolo è frugato, l’ometto più mingherlino vien trascinato al fron­
te. È il bagordo più sfrenato in cui si butta il nichilismo, quando
gli è diventato già quasi inevitabile dover finalmente fissare il
proprio volto.

118
Parte seconda

ha tirannide
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Capitolo undicesimo

La conquista del potere

Il partito nazionalsocialista è, fin dall’origine, uno strumento


per la condotta della guerra civile; è creato per la guerra civile,
aspira alla guerra civile: la vuole. L a sua combattività è l’ardore
della guerra civile. L a missione del partito è quella di cavare la
grande borghesia fuori dal vicolo cieco in cui l’ha cacciata il
marxismo. Fin dall’inizio gli è innato il mito della lotta; anche i
combattenti della guerra civile scendono in trincea.
Il proletariato tedesco orientato in senso marxista, viene con­
siderato l’esercito che il bolscevismo russo mantiene su suolo
tedesco; la guerra che si conduce è contro il bolscevismo mon­
diale il quale turba i sonni di tutta la grande borghesia europea,
e li turberà finché il proletariato non sarà messo in ginocchio.
Cosi come la nazione s’identifica ormai solo con la classe domi­
nante borghese, la Germania s’identifica puramente e semplice-
mente con le strutture di una Germania borghese: la Germania,
si sottintende, o sarà borghese o non sarà. Ogni indebolimento,
ogni scuotimento dell’ordine borghese vengono considerati mani­
festazioni del decadimento tedesco. Quella stessa Germania che
un tempo ha avuto ordinamenti feudali, deve d’ora in poi vivere
appena quanto l’ordine, storicamente limitato, della borghesia:
al l’improvviso la Germania non deve poter sopportare la trasfor­
mazione degli istituti in senso proletario-socialista. Il tedesco vero,
il tedesco puro è il grande borghese; se questi non riesce a farsi
valere completamente, alla Germania farà difetto la “ sovranità
dei m igliori” ; essa è in cattive mani, in mani peccaminose, fin­

iti
L A T IR A N N ID E

ché sia dominata da strati sociali apertamente antiborghesi. Si


conquista “ la Germania, ” scacciando dalle posizioni chiave i la­
voratori animati di coscienza marxista; quanto più completamen­
te si rinnovi l’ordine borghese, tanto più magnifico sarà il rinno­
vamento della Germania. Cosi si calzavano i coturni storici che
son capaci di attribuire a ogni umana meschinità un aspetto su­
perbo: laddove tu non eri che un mercenario della grande bor­
ghesia, un can da guardia delle sue casseforti, ti era lecito sentirti
salvatore della Germania. Combatteva per la Germania chiunque
urlasse “ Heil ! ” alle adunate, si infilasse all’occhiello il distintivo
del partito, esponesse alla finestra la bandiera con la croce uncinata.
Quanto più imponente era l’aumento numerico dei membri
del partito, quanti più voti toccavano al movimento in sede elet­
torale, e tanto più ampio si faceva il divario tra l’entità dei mezzi
bellici mobilitati e gli obbiettivi, cautamente limitati, dell’opera­
zione. L a “ fortezza tedesca ” era, fin dal 1930, ormai matura per
l’ultimo assalto, ben scarsa resistenza avrebbe potuto opporre al
“ rivoluzionario ” disprezzo per la morte che animava SA ed SS.
Pure, Hitler non si decideva ancora a impartire l’ordine di attac­
co: mese per mese, sempre più evidente appariva la sua intenzione
di non prenderla con la forza, ma di attendere che spontaneamente
la fortezza aprisse le porte. Hitler, insomma, schivava lo scontro
per il quale aveva levato la sua armata.
L a grande borghesia non aveva dimenticato il Putsch di Kapp
del 1920, né la Reichswehr la brutta figura fatta a Monaco nel
1923. N é l’una né l’altra intendevano più, a nessun costo, scendere
sul terreno scivoloso dell’illegalità né, del resto, era necessario che
lo facessero ancora. N el corso di quegli anni, si erano impadro­
nite delle principali leve di comando della repubblica di Weimar,
e non intendevano più correre il minimo rischio di vedersele
sfuggir di mano. Benché, a partire dal 1930, il rischio insito in
una sollevazione nazista fosse minimo, pure militari e grossi bor­
ghesi non volevano correre nemmeno quello. Il compito di Hitler
consisteva nel distruggere la democrazia parlamentare col com­
prometterne il principio, mediante abusi non perseguibili per
legge; doveva, mentre usava contro la repubblica tutti i mezzi

122
L A C O N Q U IS T A D E L PO T ER E

che la democrazia parlamentare gli poteva offrire, render questa


inefficiente. La democrazia, insomma, in un certo senso doveva
distruggere se stessa. Grande borghesia e casta militare avrebbero
fatto da scudo a Hitler, scongiurando il pericolo della promulga­
zione di leggi speciali, suscettibili di paralizzare una volta per
tutte gli esecrandi piani del Fiihrer.
Quando il ministro degli interni, generale Gròner, mosso da
lealtà verso la repubblica alla quale aveva giurato fedeltà, decretò
10 scioglimento dell’organizzazione militare delle camicie brune,
subito la Wehrmacht e la grande borghesia gli saltarono alla gola:
11 ministro fu deposto, l’ordinanza revocata. In apparenza il com­
pito di Hitler consisteva nel servire la “ fortezza tedesca” ; in
realtà egli avrebbe dovuto tagliarle l’acqua, minarne i bastioni,
vuotarne la santabarbara, metterne fuori uso le bocche da fuoco,
demoralizzarne la guarnigione. Hitler doveva far professione di
legalità; dal canto loro, grossa borghesia e Wehrmacht avrebbero
fatto in modo che gli riuscisse il colpo di attribuire alle leggi un
significato venefico, grazie al quale lo stato di Weimar, privo di
volontà, vacillante, andasse incontro al suicidio.
Durante il processo di Lipsia contro gli ufficiali Scheringer,
I.udin e Wendt, Hitler giurò il suo rispetto per le leggi: Wehr­
macht e grande borghesia si persuasero cosi che non avevano da
al tendersi alcuna sorpresa, che potevano lasciarlo fare a modo
suo. E Hitler si attenne al suo giuramento: al potere intendeva
giungere con l’astuzia, non con la forza: solo allora avrebbe avuto
luogo la sanguinosa resa dei conti con gli avversari marxisti. “ Con
metodi legali,” aveva detto una volta Gregor Strasser: “ con me­
lodi legali fino all’ultimo piolo della scala — comunque, impic­
calo sia. ”
fi colpo di stato di Papen del 20 luglio 1932, grazie al quale
il regime democratico prussiano fu sbalzato di sella, aveva realiz­
zalo il suo obbiettivo, quello di consegnare direttamente nelle
mani della grande borghesia, degli Junker e dei militari, l’orga-
11 i//azione statale. Il movimento di massa hitleriano avrebbe
dovuto essere messo in condizioni di sostenere il regime auto-
lifario, in quanto questo era nazionale, senza tuttavia ricavarne,

123
L A T IR A N N ID E

esso stesso, benefìcio alcuno. Ma Hitler, assai meno arrendevole


di quanto Papen non avesse supposto, si ribellò al regime dello
Herrenklub e con lo sciopero delle tranvie berlinesi diede chia­
ramente a vedere che, all’occorrenza, sapeva giocare anche col
fuoco della rivoluzione. Papen fu costretto a dare le dimissioni;
il suo governo era stato il secondo tentativo delle classi domi­
nanti, malriuscito quanto il primo — il Putsch di Kapp — di
venire a capo della situazione senza possedere una base di massa.
Era ormai tempo, dunque, di far agire il complesso movimento
costituito dalla grande borghesia, dagli Junker, dalla Wehrmacht
e dal partito di massa. A Bonn, nell’abitazione del banchiere
Schròder, tali forze si concertarono; Papen, in nome dell’oligar-
chia, condusse le trattative con Hitler. Un accordo che il “ fronte
harzburghese ” aveva preparato da un pezzo.
N el frattempo il cancelliere del Reich, Schleicher, si era fatto
venire degli scrupoli; conducendo gli affari della politica estera
era giunto a capire che Hitler avrebbe dato ai destini tedeschi
una piega inammissibile. G li Junker puntarono i piedi, Schlei­
cher minacciò di mettere in piazza lo scandalo degli aiuti alle
regioni orientali; egli presunse di riuscire, con l’appoggio di
Gregor Strasser, a liquidare il partito di Hitler e a far entrare
nella coalizione governativa le organizzazioni sindacali. Ma i
baroni dell’industria, che non erano affatto disposti a lasciarsi
sfuggire l’occasione di pareggiare i conti col movimento operaio,
provvidero a esasperare le tensioni sul piano sociale, provocando
un aumento artificiale della disoccupazione: i loro agenti inti­
marono agli imprenditori di non evadere le ordinazioni dall’este­
ro, mentre dal canto suo il presidente della Reichsbank, Schacht,
negava alle amministrazioni comunali i prestiti grazie ai quali
queste contavano di realizzare il programma di riassorbimento
della mano d’opera.
N é meno attivi si dimostrarono gli Junker aizzando contro
Schleicher Hindenburg il quale anche lui s’era sporcato le dita,
allungandole sul pentolone degli aiuti alle regioni orientali; il
Landbund gettava apertamente al cancelliere il guanto di sfida.
Schleicher, che da un pezzo si baloccava con l’idea di fare ar-

124
L A C O N Q U IS T A D E L PO T ÉR E

restare, da un reggimento di Potsdam, i capi nazionalsocialisti e


Hindenburg, ritardò per troppo tempo l’esecuzione del piano;
Hugenberg svelò il progetto, e Schleicher fu mandato a spasso.
Nessun ostacolo si ergeva piu davanti a Hitler.
I conversari che si iniziarono allora tra la presidenza del
Reich e il Kaiserhof, quartier generale di Hitler, verso la fine
del 1932 e il principio del 1933, furono vere e proprie trattative di
resa. Grande borghesia e Wehrmacht imposero a Hitler — estre­
ma garanzia — particolari condizioni prima di decidersi ad affi­
dargli il comando e ad aprire le porte della fortezza alle sue
masnade armate: Hugenberg, Papen, Seldte e Blomberg, in qua­
lità di fiduciari della borghesia e della Wehrmacht, sarebbero
rimasti al fianco di Hitler. N el 1919, la Wehrmacht aveva affi­
dato a Hitler l’incarico di riconquistare alla causa dell’ordine
borghese le masse piccoloborghesi; nel 1933, essa aveva persuaso
il maresciallo Hindenburg che il “ caporale boemo ” aveva assolto
felicemente l’incarico. Il 30 gennaio di quell’anno, Hitler rice­
veva dalle mani del comandante in capo della Wehrmacht la
ricompensa politica, per acquistarsi la quale aveva fedelmente
servito per “ quasi quattordici anni. ”
La sera del 30 gennaio 1933, le organizzazioni di massa picco-
loborghesi, sfilando davanti a Hindenburg e a Hitler, celebrarono
la vittoria che, a profitto della grande borghesia, avevano ripor­
tato sulla classe operaia; trassero motivo di giubilo dal fatto di
essere riuscite a liberare i magnati tedeschi dai pesanti controlli
esercitati dalle masse proletarie a partire dal 1918.
Ma per i nazionalsocialisti la conquista del potere, cosi com’era
avvenuta il 30 gennaio 1933, aveva un sapore amaro: non solo
il movimento era costretto a dividere il dominio con i naziona­
listi tedeschi e l’organizzazione degli “ Elm i d’acciaio, ” ma an­
che era mancata ai suoi aderenti l ’esperienza della lotta finale,
dell’urto decisivo. D al presidente del Reich, Hitler si era visto
nIfidare l’incarico di formare il governo, ma prima di lui anche
Papen, Briining e Hermann Miiller avevano retto il cancellie­
rato. Il passaggio dei poteri era avvenuto insomma con troppa
facilità, la cesura non era stata tale da rendere evidente essere
quello l’inizio di una nuova epoca.
L A T IR A N N ID E

“ Oggi, ” aveva detto Gòring nel suo discorso alla radio del
30 gennaio, “ oggi sarà il giorno in cui noi, sul libro della storia
tedesca, tireremo le somme di questi ultimi anni di miseria e ver­
gogna, e inizieremo un nuovo capitolo, un capitolo nel quale i
fondamenti del nuovo stato han da essere la Libertà e l’Onore. ”
Dichiarazioni di tal fatta non avevano tuttavia sufficiente effica­
cia, dal momento che il quadro rivoluzionario non era stato mar­
cato da alcun atto violento; i combattenti erano stati mobilitati,
ma di scontri neanche traccia. L a messinscena sembrava esser sta­
ta ridicolmente eccessiva: i marxisti s’erano tirati semplicemente
da parte, e né socialdemocratici né comunisti avevano fatto a SA
e SS il favore di scendere per le strade e qui lasciarsi sgozzare.
G li è che, già nel luglio del 1932, Papen era riuscito a spegnere
le ultime scintille delle velleità d’affermazione socialdemocratica;
dal canto loro, i comunisti si rendevano conto della situazione,
erano coscienti dell’inutilità di ogni resistenza rivoluzionaria.
Comprendevano benissimo come il movimento nazionalsocialista
spiasse con ansia l’occasione di una rivolta comunista, con quanta
febbre esso frugasse in cerca dei segni anche minimi di una tale
rivolta, quanto bisogno avesse dell’ostentazione di una solleva­
zione comunista, allo scopo di fornire prove attendibili della pro­
pria affermata qualità di salvatore del popolo tedesco. Ma in
tutta la Germania non un comunista si sollevò, in nessun luogo
si dispose alla lotta, 0 diede semplicemente segno di vita. L a chia­
mata in scena, tanto attesa da SA ed SS, non ebbe luogo; il par­
tito comunista si guardò bene dal provocarla. Molti dei dirigenti
minacciati lasciarono il paese; i funzionari se ne stettero tran­
quilli, gli organismi economici del partito furono liquidati. E
per il movimento nazionalsocialista la situazione apparve disa­
strosa: mancava l’appiglio a violazioni dello statuto, ad atti di
violenza; mancarono i colpi di scena, coi quali si sarebbe potuto
intontire il popolo tedesco. Era stato contro ogni evidenza e alla
disperata che Hitler aveva affermato, nel proclama del governo
'del Reich tedesco del i° febbraio 1933 : “ Le migliaia di feriti, gli
innumerevoli caduti, che questa guerra intestina ha procurato
finora alla Germania, può darsi siano solo i lampi che preannun-

126
L A C O N Q U IS T A D E L PO T ER E

ciano la tempesta. ” E proprio questo dava tanti grattacapi ai


Fiihrer del nazionalsocialismo: il fatto che la tempesta in realtà
non si decidesse a scoppiare.
Fu allora che i capi ritennero necessario correggere il destino:
visto che il nemico di classe, il comunista, non dava mano alle
armi, bisognava arrangiare un po’ le cose, in modo da scatenare
la lotta almeno contro il suo spettro, almeno contro la sua ombra,
e ci sarebbe stata la scusa per imporre la legge marziale dei tempi
di guerra civile. E la correzione fu introdotta in concomitanza
con la campagna elettorale, con cui Hitler iniziò il suo governo.
Il i° febbraio il Reichstag era stato disciolto; il nuovo regime
non intendeva “ condizionare l’opera di ricostruzione nazionale
all’approvazione di coloro sui quali pesava la responsabilità della
sconfitta. ” I partiti di sinistra furono perseguitati con metodi in
pieno contrasto con la costituzione, ridotti a non poter svolgere
la loro propaganda elettorale. Ciò nonostante, Hitler temeva
di non entrare in possesso della desiderata cambiale in bianco,
il potere assoluto: che fra quanti non erano del tutto persuasi
della sua missione salvatrice, v’erano anche larghi strati della
borghesia, e la passività dei marxisti l’aveva sconcertato. Doveva
dunque avvenire qualcosa che facesse tremar di paura le ginoc­
chia della borghesia e gettasse tra le braccia di Hitler i borghesi
esitanti. Poiché i comunisti non si decidevano a commettere i
necessari atti di terrorismo, ne conseguiva che questi dovevano
venire inscenati dal regime stesso. Una condizione era però indi­
spensabile : che si riuscisse a far sparire del tutto le proprie tracce,
che si fosse tanto svelti e destri da attribuire al capro espiatorio
comunista la colpa del delitto che si fosse commesso. Si poteva
contare sulla sconfinata scempiaggine del borghese tedesco apo­
litico, il quale, anche quando l’evidenza dei fatti parla contro le
sue autorità, conserva inalterata la fede nella loro integrità morale.
Il 5 marzo dovevano aver luogo le elezioni; il 27 febbraio il
governo annunziò che il Reichstag era in fiamme e che a incen­
diarlo erano stati i comunisti. Già il 28 febbraio, il ministro del
Reich Gòring poteva informare l’opinione pubblica attonita che
“ un poliziotto ha osservato aggirarsi nell’edificio immerso nel

127
L A T IR A N N ID E

buio individui munid di faci accese; egli ha aperto immediata­


mente il fuoco, riuscendo cosi ad arrestare uno degli attentatori...
L ’incendio del Reichstag è il più mostruoso degli atti terroristici
compiuti finora dal bolscevismo in Germania. Fra le centinaia
di quintali di materiale sovversivo su cui la polizia ha potuto
mettere le mani nel corso della perquisizione al ‘ Karl-Liebknecht-
Haus, ’ sono state trovate precise istruzioni in merito all’orga­
nizzazione del terrore antinazionale, di pretta marca bolscevica.”
Si era insomma alla guerra civile : si era riusciti a “ lanciarla. ”
Il tedesco all’improvviso affondava lo sguardo nelle fauci spalan­
cate del “ mostro bolscevico, ” e Hitler appariva circonfuso dal
nembo dell’eroe bianco, del Sigfrido, del nordico uccisor di dra­
ghi; si era ingaggiata la grande battaglia di questa immane guerra.
“ Si può tranquillamente affermare che il primo assalto delle forze
del male è stato vigorosamente respinto. ”
Quale sia stato il cervello nazionalsocialista che ha formulato
il piano dell’incendio del Reichstag; quale gerarca sia penetrato,
per appiccarvi fuoco, nel Reichstag attraverso il corridoio segreto
che lo congiungeva al palazzo dove avevano sede gli uffici di Gò-
ring: ecco un mistero che forse mai più si riuscirà a svelare, per­
ché il 30 giugno 1934 la maggior parte dei complici furono spediti
all’altro mondo; nessuno riuscirà a stabilire da quali promesse
van der Lubbe fosse stato persuaso ad accettare la parte di com­
parsa, perché la sua bocca venne tappata per l’eternità.1 Fu una
diabolica trovata, quella di scatenare le ire popolari contro i co­
munisti, attentando proprio all’istituto che a nessuno era meno
d’ostacolo che ai comunisti, e che costituiva invece una “ pietra
dello scandalo ” per il nazionalsocialismo : una trovata che ha
qualcosa di funambolesco, e può esser stata partorita dal cervello
di Goebbels. Se l’attentato sia stato, all’origine almeno, concepito
su scala internazionale, vale a dire prevedendo la “ scoperta, ” (at­
traverso falsi documenti) di tracce che condussero a Mosca, è
un’altra domanda cui con tutta probabilità non si potrà fornire
una risposta, dal momento che l’intermediario fra lord Deterding

1 V an der Lubbe, un comunista olandese quasi demente, fu indotto ad autoaccu­


sarsi. [AL d. T .]

128
L A C O N Q U IS T A D E L PO T ER E

e Hitler — il dottor Bell — venne ucciso dalla SA in territorio


austriaco: le cose che questi sapeva erano cosi compromettenti
che a ogni costo bisognava liquidarlo.
Ma anche il diabolico funambolismo della delinquenza na­
zista per poco non giunse al punto di far traboccare il piatto della
bilancia; la prontezza con la quale Goring aveva scagliato l’ac­
cusa contro i comunisti avrebbe potuto infatti insospettire qua­
lunque altro popolo di maggior intelligenza politica. Goring s’era
messo a strillare “ A l ladro ! ” Ma tutt’attorno al luogo del delitto
non s’erano visti altro che dei nazisti; i comunisti che si volevano
impiccare vi furono trascinati troppo tardi, senza seguire un piano
preciso: e fu il più grosso, il più traditore degli errori di regia,
quello che per poco non mandò tutto a monte. Disgrazia volle,
ancora, che in quel frangente la polizia mettesse le mani pro­
prio su un uomo dotato dell’astuzia e genialità di un Dimitroff:
errore irreparabile, che obbligò i nazisti alla farsa, a veder pen­
dere dalla forca — che Hitler in quattro e quattr’otto, con un
provvedimento d’urgenza, aveva fatto drizzare — i sottouomini
comunisti. Il processo per l’incendio del Reichstag,2 quale venne
istruito sotto gli occhi dell’intera opinione pubblica mondiale, fu
un rischio pazzesco dal quale si ricavarono scarsi allori. Fra l’al­
tro, Hitler non poteva nemmeno dire di avere in mano l’intero
consesso dei giudici; quanto al presidente del senato, dottor Biin-
ger, esistevano pur sempre bassezze cui egli si rifiutava, e non lo
smossero né il giudice a latere dottor Parisius, né il rappresen­
tante della Pubblica Accusa. In buona fede Biinger poteva aver
aperto il processo, ma non poteva restargli nascosto a lungo l ’a­
bisso d’infamia della classe dirigente, spalancatogli davanti. Ma
il dottor Bunger sacrificò alla ragion di stato, dal momento che
si guardò bene dal mettersi sulle piste dei veri colpevoli; né andò
a fondo ai singolarissimi metodi procedurali, grazie ai quali van
ilcr Lubbe fu ridotto, per tutto il processo, in stato d’incoscienza.
A conclusione del dibattimento, Biinger affermò che van der Lub­
be, essendo stato trovato con la fiaccola in mano, meritava sen-

3 Persone furbe scongiurarono Goring di evitare questo processo, giustiziando in


segreto e senza alcun apparato legale gli arrestati: i tedeschi si sarebbero facilmente
convinti clic giustizia era stata fatta.

129
L A T IR A N N ID E

z’altro la pena capitale, ma si astenne dal delitto legale che Hitler


invece pretendeva si commettesse a carico dei quattro coimputati
comunisti. Questo giudice borghese, insomma, era ancora lungi
dal livello dell’ineguagliata abiezione fascista, non intendeva abu­
sare delle leggi e degli istituti legali allo scopo di mandare a
morte, su incarico dei colpevoli manifesti, uomini perfettamente
innocenti; riusciva ancora a provare orrore per lo spettacolo del
criminale intento all’opera, nel vedere come esso con frivola,
conscia sfrontatezza, sindacasse l’evidente innocenza e la caricasse
della responsabilità del proprio crimine.
Mentre ancora l’edificio del Reichstag ardeva, ci fu una riu­
nione di ministri e viceministri alla quale parteciparono, fra altri,
Papen, Hugenberg e il segretario di stato Bismarck. Eccitato,
Hitler si premeva il pugno contro la bocca, ripetendo a piu ri­
prese : “ Stavolta il mio cinquantun per cento non me lo leva
nessuno! ” L a maggioranza parlamentare era il primo frutto
che contava di ricavare dalla rovina del Reichstag. E quale mai
borghese avrebbe potuto negare il suo voto al nazionalsocialismo,
ora che Hitler era riuscito con tanta protervia a gettare una tale
ombra sul bolscevismo?
Il 5 marzo, i tedeschi davano il 44% delle loro preferenze al
nazionalsocialismo, mentre il 51,8% dei voti andava al “ Fronte
nazionale. ” Rispetto agli sforzi diabolici compiuti da Hitler,
dunque, i risultati erano pur sempre alquanto scarsi; non prefe­
rendo Hitler — e a non preferirlo era piu della metà del popolo
tedesco — l’elettore dava a vedere che, a suo avviso, la responsa­
bilità dell’incendio ricadeva sullo stesso cancelliere del Reich. È
però comunque certo che, a partire da quel momento, Hitler
aveva a sua disposizione la base giuridica che gli avrebbe per­
messo di mascherare coi panni della legalità qualunque atto di
forza. Il faro si era acceso, la frattura era avvenuta, a inculcare
a ognuno che un’era nuova stava sorgendo.
Capitolo dodicesimo

Gangsterismo

L a sostanza del machiavellismo politico consiste forse nel do­


ver essere capaci di tutto, avendo a regola di sapersi dominare al
punto da potere, di tale capacità, far uso assai cauto. A lungo
andare, il machiavellismo si dimostra valido solo se viene accura­
tamente dosato. Da dottrina esoterica qual è, vuole, in chi lo
pratica, gusto e sottigliezza e, semmai il machiavellico si induca
a travalicare ogni limite, deve farlo avendo già sottomano la
“ grande passione, ” la “ suprema meta ” in nome delle quali gli
si scusi tutto, al cospetto delle quali, anzi, nemmeno s’affacci l’idea
che vi sia qualcosa da scusare. A uno statista il quale goda fama
di machiavellico s’andranno sempre a riveder le bucce, e le sue
iniziative, i suoi successi si troveranno pregiudicati, se chi ha a
che fare con lui teme di restarne gabbato. I grandi complessi sta­
tali non possono agire, l’uno nei confronti dell’altro, a guisa di
cozzoni; son troppo pesanti, per restar prigionieri nel fine ordito
d’una rete d’inganni. “ A grandi stati come i nostri, ” ebbe a dire
nel dicembre del 1871 il principe Gortschakow all’ambasciatore
inglese lord Augustus Loftus, “ si addice la verità e la sincerità.
Machiavelli si rivolgeva solo a minuscoli staterelli italiani. ” Gorts-
chakow, però, faceva torto a Machiavelli; anche il fiorentino
avrebbe dato ai due colossi, Russia e Gran Bretagna, lo stesso
consiglio: essere sinceri, fintantoché questo atteggiamento, visti
i rapporti di forze esistenti in quella data situazione storica, ri­
sultasse in effetti necessario. Fare in ogni situazione soltanto ciò
clic è strettamente indispensabile, e cioè impiegando esattamente
la dose d’energia atta a garantire che né si trapassi il segno, né
si manchi il bersaglio, ma che lo si raggiunga: ecco l ’autentico
machiavellismo politico.
Come ebbe a dire una volta Macaulay, “ i principi determi-

131
L A T IR A N N ID E

nanti la politica sono cosi fatti, che il più volgare ladro di strada
non oserebbe neppur farne cenno col suo complice più fidato. ”
È vero: la politica di un paese può in certi casi svolgersi in forme
tali che il più volgare ladro di strada si guarderebbe bene dall’ac-
collarsene la responsabilità; ma se la politica assume aspetti tali
da indurre ripugnanza, non la si può certo definire machiavellica.
Il principio machiavellico, quello dell’assoluto adeguamento alla
necessità, della più sobria adesione alla realtà, non è affatto da
rubricare senz’altro sotto la voce scelleratezza, male morale; qua­
lora l’azione politica debba, per forza di cose, attingere a immo­
ralità e malvagità, essa, sempreché pretenda di mantenersi al
livello del machiavellismo, dovrà farlo con tale leggerezza e si­
curezza, dovrà sapersi a tal punto mascherare, che nessuno possa
“ dirne corna. ” L ’azione politica insomma s’industrierà di non
far mai dimenticare, a dispetto di tutto, la distanza che la separa
dal male.
Il machiavellismo democratizzato è sicuramente una cosa peno­
sa; non è certo piacevole se il mondo si riempie di furbacchioni
che non fan mistero d’essere in caccia d’imbecilli disposti a
lasciarsi condurre per il naso. Il machiavellismo democratizzato
non ha più in vista il nudo adeguamento alla realtà, ma anzi
mena vanto della propria spregiudicatezza morale, ricava un par­
ticolare piacere dal coltivarla. Se il proprio del machiavellismo
consiste nell’essere capace di tutto, in compenso l’ambizione del
machiavellismo democratizzato diventa quella di fornirne quoti­
diane prove; per esso, insomma, politica e infamia sono tutt’uno.
Qualora il machiavellismo sia diventato cosa da piccoli uomini,
tratto distintivo della politica sarà la destrezza del furfante, e una
grossolana mascalzonata il capo d’opera con cui acquistarsi la
patente di abilitazione politica.
La borghesia in fase liberale non permette ancora ai piccoli
Machiavelli di venire a galla: sua caratteristica è che l’apparen­
za del diritto e della probità abbiano tuttora validità assoluta.
Nella fase liberale democratica, al contrario, i piccoli Machiavelli
fanno la prima apparizione in pubblico, tentano i primi incerti
passi, ma è col fascismo che spunta il loro grande giorno.
E si dimostra allora come fra un Machiavelli in sedicesimo e

132
G A N G S T E R IS M O

un gangster, in pratica, non vi sia differenza. Il machiavellismo


democratizzato scade nel gangsterismo politico; penetrando tra
il volgo, Machiavelli finisce per cadere inevitabilmente tra i la­
dri di strada.
Il gangsterismo è fenomeno caratteristico della società bor­
ghese. Il gangster non è per principio nemico dell’ordine capi­
talistico; egli semplicemente si sente compresso dai limiti che
gli sono imposti dall’ordine stesso, è ben deciso a conquistarsi
con la violenza quella felicità che spontaneamente non ha voluto
concederglisi. Sa bene che un uomo è rispettabile solo in quanto
possieda qualcosa di proprio sotto il sole; ed egli, che non è
affatto contro il principio della proprietà privata, vuole sempli­
cemente correggere a proprio vantaggio un sistema di distribu­
zione dei beni dal quale finora niente ha ricavato. Si tratta ge­
neralmente di una forte individualità, decisa ad affermare com­
battendo il proprio diritto alla vita; la ricchezza significa forza,
la ricchezza dà il potere, e il gangster non tollera di sentirsi le
tasche vuote. Poiché non trova aperta la libera strada che spetta
di diritto alle persone “ per bene, ” il gangster contro tutte le
norme se ne procurerà l’accesso con la violenza. Come il bor­
ghese, egli lavora per la propria tasca, come il borghese si butta in
ogni affare che prometta un reddito.
Certo, il gangster usa altri metodi. Pure, anche gli affari del
borghese son furto e rapina: perché il borghese possa guada­
gnare, qualcun altro deve rimetterci. Il consumatore viene sa­
lassato ogniqualvolta soddisfa un bisogno, l’operaio che produce
è defraudato del controvalore delle sue prestazioni.
Solo che la società borghese pretende di gettare un velo sulla
sua reale sostanza, ambisce a farsi porre su un livello di superio­
re moralità; essa si attua e vive entro i limiti di un rigoroso
sistema artificiale di forme giuridiche. Il borghese pretende di
aver sempre diritto a ciò che arraffa, e il codice borghese gli
fornisce i crismi di cui ha bisogno, gli dà modo di prelevare con
garbo i tributi agli economicamente più deboli, che egli, econo­
micamente più forte, estorce. Il borghese desidera tener celato a
tutti che, in realtà, egli esercita il potere della ricchezza, e picchia
sul tasto del diritto cui tutti sono legati. L a universalità del diritto

133
L A T IR A N N ID E

serve a far perdere di vista che, in realtà, il diritto stesso lo può


far valere solo chi si trovi nella situazione economica a prò’ della
quale quello è accomodato. Quando profitta dei vantaggi che gli
vengono dalla sua proprietà privata, il borghese non fa dunque che
esercitare il proprio diritto, in quanto ha dalla sua il principio di
giustizia. Egli al suo diritto si attiene strettamente; e questo fa di
lui quella “ persona morale, ” quell’uomo degno del massimo ri­
spetto, che non ha nulla da rimproverarsi. Se i popoli coloniali, cui
si pelano i redditi che il borghese provvederà a incassare, muoiono
di fame, se le masse lavoratrici sono costrette a logorarsi fisico e
animo a causa del livello dei salari, fissato per contratto dal bor­
ghese, questi certo non dovrà farsi scrupolo; delle conseguenze del
diritto cui s’attiene, non occorre che s’accolli la responsabilità. Il
borghese è insomma l’uomo del diritto e soltanto del diritto; lo stato
di diritto che egli ha creato mette a disposizione dei proprietari pri­
vati tutti gli appigli di cui il borghese ha bisogno, se vuole effetti­
vamente ricavar qualcosa da quella sua proprietà privata.
Il gangster, all’origine almeno, non si trova in situazione eco­
nomica tale da giustificare la fiducia nella legge e nei propri di­
ritti. A ll’origine egli appartiene alla categoria dei nullatenenti, i
quali conoscono un solo aspetto della legge, quello che consiste
nel dare addosso a chi non ha niente. Con la legge, dunque, egli
non cava un ragno dal buco, è troppo in basso per riuscire a ma­
neggiare la leva che gli permetterebbe finalmente di mettere in
moto il meccanismo legale a suo prò’, a prò’ della sua causa. Egli
non può certo impacciarsi con vie e procedimenti legali, deve sce­
gliere una strada più breve. La legislazione borghese è fatta
apposta per sostenere la causa della proprietà privata contro
chiunque si permetta di ignorarla o manometterla; chi non ha
niente di suo, per ciò stesso appartiene alla categoria di coloro
contro i quali in ogni caso sarà emessa sentenza. Affidandosi alla
legge, chi non ha niente di suo accetta il suo triste destino.
Ma il gangster è l’uomo che non accetta il proprio destino.
Non si tratta tuttavia di un rivoluzionario: egli non pretende
affatto di rovesciare gli ordinamenti borghesi, ma solo di miglio­
rare la propria sorte individuale. Il gangster e il comunista non
solo vivono in regioni assolutamente diverse, ma anche, all’interno

134
G A N G S T E R IS M O

delle loro particolari regioni, a livelli diversi. Il gangster, in altre


parole, non ha niente in comune col comunista, una quantità di
cose in comune col borghese.
Il borghese difende e aumenta la propria ricchezza con l’ausilio
della legge; il suo obbiettivo, il borghese lo raggiunge appunto
rispettando le forme legali, poiché dietro a queste c’è il suo potere.
Il ricorso alle vie legali è semplicemente la rinunzia alla violenza
aperta, è l’atto di urbanità, i modi civili, le buone maniere del
potere borghese: esso non si sostituisce cioè alla forza, solo la pone
discretamente nell’ombra.
Il gangster s’attiene al principio che, nonostante tutto, è sempre
con la forza che il borghese riesce a fiorire. L ’umanitarismo dello
stato di diritto borghese è un bel tratto estetico: ma sotto l’appeti­
toso involucro, sotto il guscio zuccherino, finisce per apparire l’a­
maro nocciolo di violenza, che bisogna pur mordere. Il gangster
persegue lo stesso arricchimento individuale del borghese; con la
differenza che lo persegue senza paludamenti legali. Ciò che il
borghese strappa al prossimo suo mediante i paragrafi, il gangster
se lo procura a colpi di pistola. Il gangster preferisce i metodi spicci
e diretti: getta apertamente sul piatto della bilancia la violenza,
che invece il borghese avvolge coi fogli del codice. Borghese e
gangster vogliono concludere qualcosa in quanto individui: il
gangster quel che vuole se lo prende senz’altro; il borghese se lo
appropria procurandosene il diritto legale. Un gangster con un po’
di sale in zucca, il quale sia riuscito a farsi una sostanza senza
“ pendere al vento, ” può trascorrere il resto dei suoi giorni come
un irreprensibile borghese. Il gangster è infatti un borghese che
i suoi pesci li cattura non già irretendoli tra comma e paragrafi,
ma con la dinamite o addirittura a mani nude; egli è il borghese
che non ricorre ai sotterfugi legali, il borghese che rinuncia alle
apparenze. Il gangster è l’individuo che riconosce solo la propria
sovranità e che, poste al bando le ideologie, con aperto cinismo,
bada solo ai propri interessi. L a malavita dà dei punti al borghese
in quanto esegue alla luce del sole ciò che il borghese pusillanime
fa al riparo del codice; il gangster è il borghese capitalista senza
la maschera del decoro e della probità. L a malavita ricalca, a linee
grosse, semplici, rozze e tuttavia leggibilissime, la sostanza della

135
)

L A T IR A N N ID E

complicata società capitalistica. Un capo-gangster, un barone del­


l’industria, un re della finanza, si possono facilmente pigliare l’un
per l’altro, ché il gangster è il borghese cosi come appare se si
spinge lo sguardo nei più riposti recessi del suo spirito, se si inda­
gano i suoi più segreti pensieri. Il gangster è il borghese in negligé,
il borghese che lascia libero sfogo ai propri impulsi, e che sostitui­
sce il bon ton con l’atto impulsivo. Il borghese non ha certo più
scrupoli del gangster, solo che si preoccupa di prendere misure
atte a convincere il mondo ad attribuirglieli. I proletari che le
attività economiche del borghese riducono sul lastrico costano
all’imprenditore altrettanto poche notti in bianco che al gangster
le vite che ha distrutto nel corso delle sue razzie : l’unica differenza
sta forse nel fatto che il borghese riuscirà a spremersi qualche la­
crima da coccodrillo. Il gangster è insomma Yenfant terrible della
borghesia, quello che si comporta con la sfacciata brutalità che sta
al fondo dei pensieri del borghese, e con cui questi amerebbe mol­
tissimo agire. N ella caccia al denaro, il borghese è il cacciatore
con tanto di licenza, il gangster il bracconiere; ma l’attività è la
stessa, e dal punto di vista della selvaggina, non fa differenza se
chi l’ammazza ha o meno il porto d’armi. Quanto meno condi­
zionato dagli scrupoli è, all’interno di un popolo, l’impulso capi­
talistico, tanto più rigoglioso fiorirà alla sua ombra il gangsteri­
smo, tanto più apertamente il borghese capitalista s’accosterà al
tipo del gangster.
L a distruzione del mercato mondiale, che dal 1914 continuava
a far progressi, aveva messo a disagio soprattutto la borghesia dei
paesi europei dotati di scarse materie prime; in essi l’ordine capi­
talistico era stato scosso da dure crisi. G li scambi commerciali sul
piano internazionale s’erano fatti troppo scarsi, perché il borghese
riuscisse a cavare sufficienti guadagni dai popoli d’altri paesi; aven­
do inoltre perso le colonie, gli era preclusa la rapina delle genti
di colore. Non per questo, però, il borghese, il capitalista, era in­
tenzionato ad abdicare; altro perciò non gli restava che adattarsi
alla situazione e rivolgersi altrove.
La classe operaia, i consumatori del suo paese, erano pur sem­
pre giurisdizioni dalle quali, in caso di necessità, si poteva ancora
cavare moltissimo. Ogni riduzione del tenore di vita delle masse

136
G A N G S T E R IS M O

la si poteva convertire in enormi guadagni. Se il lavoratore perce­


piva il dieci, il venti, il trenta, il cinquanta per cento in meno di
salario reale, la coppa dei profitti borghesi si sarebbe riempita in
proporzione.
Ma questa conversione al depredamento delle masse, compor­
tava non poche difficoltà. Esistevano libere organizzazioni e isti­
tuzioni, che in altre condizioni il borghese aveva potuto senza
scrupoli lasciar sussistere. L ’operaio sapeva far uso della propria
libertà d’associazione, e i sindacati ne erano la difesa organizzata;
la legislazione sociale gli garantiva protezione, e il legislatore, con­
dizionato com’era dalle vigenti leggi e istituzioni, non lo lasciava
certo in asso; attraverso il parlamepto, poi, egli esercitava un
controllo che rendeva rischioso, per il borghese, il ricorso a vie
traverse.
D i conseguenza, il borghese aveva finito col disgustarsi del
tutto di libere costituzioni, umanitarismi, istituzioni apartitiche,
partecipazioni paritetiche alla cosa pubblica, divenute ostacoli
all’impresa capitalistica, e che ai suoi occhi quindi non valevano
più nulla. E il borghese decise di farne strame, decise di usare
apertamente la forza contro la classe operaia che non gli si con­
segnava più bovinamente. Le sottigliezze giuridiche ai suoi occhi
non avevano più senso, se gli impedivano di accumulare profitti.
Pensieri che il borghese non tenne certo nascosti, e la figura in
cui s’incarnarono, la figura che esordi sulla scena politica, fu il
gangster. Il gangster divenne personaggio politico; a sua volta il
gangsterismo politico aveva un nome: fascismo.
Il fascismo spazzò via convenzioni, buone maniere, belle ap­
parenze; dov’ebbe il potere, non fece complimenti: estorse e vio­
lentò, senza più andare in cerca di crismi e giustificazioni legali.
Il fascismo non fece più conto alcuno delle deduzioni giuridiche,
si fidò solo dei pugni.
Il machiavellismo classico, quale lo si trova agli esordi della
grande epoca borghese, illustra e insegna la fine arte di salvare
la faccia, pur agendo secondo necessità; esso dà un’idea di come
si possano commettere le maggiori scelleratezze, se il farlo diven­
ga inevitabile, senza urtare le suscettibilità. Il machiavellismo è
la filosofia politica della borghesia in fase ascensionale, della

137
L A T IR A N N ID E

borghesia progressista, liberale; è il canone secondo il quale l’In­


ghilterra si è creata l’impero. Ma una borghesia che decadeva e
imputridiva, non poteva più sostenersi al livello commisurato al
machiavellismo classico. Mussolini penetra in Abissinia come un
capo-brigante, e non tenta neppure di nascondere che, se strozza
gli Etiopi, è solo perché si sente più forte di loro e ha brama di
bottino. Il metodo politico del fascista è identico a quello con
cui il gangster perpetra furti con scasso, incendi, atti dinamitardi.
Il fascista è il borghese per il quale la necessità capitalistica non
ha più legge: i metodi della malavita son messi a frutto dalla
sua politica. L a teoria fascista traduce in termini politici l’espe­
rienza del gangsterismo. Il borghese fascista opta per l’uso poli­
tico del gergo dei tagliaborse; e l’arte politica andrà ad appren­
derla alla scuola dei “ duri. ”

138
Capitolo tredicesimo

Le fondamenta dell’iniquità

A partire dal 1917, il bolscevismo comincia a mettere in forse


la vittoria che, nel 1789, la borghesia ha riportato contro il feuda­
lesimo. Il bolscevismo vuol prendere di getto l’ordine borghese
cosi come questo a suo tempo diede addosso al feudalesimo.
Una nuova classe sociale fulmina contro le vigenti istituzioni
i suoi nuovi principi. L a nuova comunità collettivistica non
scende da Dio, non si fonda su un “ contratto, ” ma è posta in
essere mediante la rivoluzione; essa esiste in forza del diritto
social-rivoluzionario; e, siccome stato e nazione sono creazioni
borghesi, essa non può identificarsi né con l’uno né con l’altra:
e allo stato contrappone la “ dittatura del proletariato, ” alla na­
zione la “ classe. ” Lenin ne è il teorico; egli, che è il Machiavelli,
il Hobbes e il Rousseau della classe proletaria, ne formula i prin­
cipi strategici della lotta e le regole del predominio politico.
Il borghese vive sotto l’impressione che sia tornata a scop­
piare la guerra di ognuno contro tutti; per ogni dove gli appaiono
lupi, decisi a strappargli le sue proprietà. Disposto a ogni obbe­
dienza, tien gli occhi affisi al dittatore, il signore che tornerà a
procurargli la sicurezza e la difesa della proprietà. Lungi dal de­
cidersi a capitolare, l’ordine borghese si mette in allarme, si fa
irto di difese, pon mano al copioso tesoro di esperienze accumu­
late nel corso della sua secolare lotta contro il feudalesimo; si
rifà a Machiavelli, a Hobbes, a Rousseau. Poiché quella che ha piu
da difendere è la grande borghesia, la quale inoltre vorrebbe in
futuro sfruttare senza limitazioni di sorta la propria situazione
di potenza a spese di medi e piccoli borghesi, è essa che orchestra
le misure da prendere, i principi cui ricondursi. L ’onnipotente
stato di Hobbes, che cosi buona prova ha fatto contro il feuda-

139
L A T IR A N N ID E

lesimo, viene ora sperimentato in funzione antibolscevica. Il Le­


viatano dovrà annichilire chiunque tenga per il bolscevismo. Rous­
seau provvede alla facciata democratica, con la quale si tengono
di buon animo le masse piccoloborghesi, le masse destinate a bru­
ciarsi irrimediabilmente le dita per togliere le castagne dal fuoco
alla grande borghesia. Machiavelli, invece, servirà a giustificare le
indegnità tramate, le bassezze, le scellerataggini commesse.
La necessità borghese giustifica che si vada a dottrina dal ne­
mico, e Lenin, il maestro della lotta di classe, trova tra gli stra­
teghi e i tattici della difesa borghese allievi bramosi di apprende­
re, e che nel loro attivismo antibolscevico traspongono le esperien­
ze belliche del bolscevismo.
Il Terzo Reich, è insomma l’onnipotente stato hobbesiano della
grande borghesia, con strutture piccoloborghesi rousseauiane, astu­
zie machiavelliche, insidie leniniste. È una fortezza, la cui guar­
nigione è addestrata a tutte le finezze e i travagli della difesa,
una fortezza con cui è tutt’uno, nella buona e mala sorte, il
mondo borghese.
Il Mein Kam pf è l’abbecedario dei raggiri, grazie ai quali il
putrido mondo borghese intenderebbe metter nel sacco il nascen­
te mondo bolscevico; esso reca in sé tutti i segni della disperata
assenza di scrupoli, di chi si sente ormai l’acqua alla gola. Si può
dire che il libro di Hitler trascelga e compendi le pagliuzze alle
quali si tiene ancora aggrappato l’ordine borghese; esso traduce
lo splendido linguaggio dell’ascesa borghese, quello che fu co­
niato da Machiavelli, Hobbes, Rousseau, nel dubbio gergo di
millantatori sull’orlo della bancarotta, e da ultimo abusa, per
trarsi fuori dalla palude, di ciò che ha preso in prestito da Lenin.
Il totalitarismo dello stato di questi borghesi in preda alla
disperazione, consiste nel poter esso stato colpire, pur senza aver­
ne formale autorizzazione, non appena sorprenda una tendenza
in contrasto con l’interesse borghese. Piu non si tratta di uno
“ stato costituzionale ” ; è tempo di guerra, e non v’è più neces­
sità di leggi, quando si tratta di liquidare il nemico di stato
proletario. Del resto, leggi speciali e stato d’emergenza sono
fenomeni dell’attività giuridica della comunità borghese; e si
appagano le esigenze del “ vero diritto, ” facendo fuori il nemico

140
L E F O N D A M E N T A D E L L ’I N I Q U I T À

di stato proletario anche senza regolare procura giuridica; si lascia


andare lo stato costituzionale, per sostituirlo con 1’ “ autentico stato
di diritto. ” Il totalitarismo dello stato nazionalsocialista fa muro
attorno alla zona d’interessi della grande borghesia, esattamente
come faceva l’onnipotenza del Leviatano di Hobbes: lo stato on­
nipotente stringeva al muro il nemico di stato feudale; uguale
sorte riserba lo stato totalitario al nemico di stato proletario.
L a continuità dell’azione è resa possibile dalla rigida centra­
lizzazione dell’apparato statale. Le residue burocrazie regionali
tedesche non erano uniformemente intrise dello stesso spirito, ma
rispecchiavano le sfumature dell’ambiente sociale dal quale ave­
vano tratto origine. Qui si armonizzavano all’ambiente contadino,
altrove al cittadino; qui eccole legate a interessi campagnoli o pic­
coloborghesi, li a interessi feudali o grossoborghesi; qui avevano
atteggiamenti democratici, altrove autoritari. L'avversione alla
“ dittatura ” di Hitler per poco non portò, nel periodo tra il gen­
naio e il marzo 1933, a una restaurazione monarchica-wittelsba-
chiana. Nelle burocrazie di certe regioni non erano ancora del
tutto morte le tradizioni dello stato costituzionale, la probità, il
rispetto della legge e degli statuti; e non dappertutto, di conse­
guenza, furono poste in atto le misure arbitrarie e violente, da
guerra civile, nei confronti del proletariato; non in tutte le regioni
fu compreso ugualmente bene che, d’ora in poi, l’interesse della
grande borghesia sarebbe stato l’unico asse attorno al quale avreb­
be ruotato l’intera realtà dello stato. Tutti gli attriti risultanti dalle
particolari caratteristiche e predisposizioni della burocrazia delle
singole regioni dovevano essere rimossi; sarebbe sorta una buro­
crazia del Reich, perfettamente uniforme dai comuni agli organi­
smi centrali, uniformemente mossa da un unico impulso. Tale
impulso sarebbe partito dal vertice del Reich; e il vertice tanto
piu si sarebbe fatto onnipotente, quanto meglio avesse funzionato
lo strumento burocratico. L a Germania sarebbe dunque diventata
“ stato del Fiihrer, ” suprema legge essendo la volontà del Fiihrer.
Questi si riservava il diritto di legiferare a suo piacimento; l’esecu­
tivo in mani sue diventava mero strumento privo di volontà auto­
noma, capace solo di cieca obbedienza. Il dittatoriale vertice del
Reich era in tal modo la leva per mezzo della quale la grande

141
La tiran n id e

borghesia avrebbe mosso l’intero apparato statale. Il principio


della divisione dei poteri fu, con sfacciata premeditazione, posto
al bando; anzi, trattandosi di un progresso, più che borghese, uma­
no, e dopo Montesquieu salutato tale ed entrato nella prassi di
tutti i paesi civili, il Terzo Reich volse a esso le spalle con ostentato
disprezzo.
L a concessione dei pieni poteri al Fùhrer non solo investiva
questi del potere legislativo, ma lo autorizzava anche a modifiche
di carattere costituzionale. “ Il governo del Reich, ” disse Hitler
nel suo primo discorso al Reichstag, “ prenderà le misure atte a
garantire, da questo momento in poi e definitivamente, l’identità
degli obbiettivi politici del Reich e dei L'ànder. 1 ” Con legge del 7
aprile 1933, i L'ànder diventavano province, e il nuovo Cesare le
consegnava alle proprie creature. Le ultime vestigia dell’indipen­
denza dei L'ànder furono fatte sparire dalla legge del 30 gen­
naio 1934, sulla rifórma del Reich; le rappresentanze popolari
dei Lànder furono soppresse, i loro diritti sovrani demandati al
Reich, i governi dei Lànder stessi sottoposti all’autorità del go­
verno centrale. Un corpo di leggi speciali liquidò l’autonomia co­
munale, il borgomastro si trasformò in podestà. Il concetto di
autonomia comunale assunse un nuovo significato: il borgoma­
stro divenne il Fùhrer del comune; e poiché era creato dal nazio­
nalsocialismo, fece danzare gli amministrati al suon di piffero
del suo capo supremo.
La Germania fu trasformata da questo corpus legislativo in
uno stato nazionale borghese centralizzato: uno stato nazionale
borghese, con caratteristiche ovviamente tutte sue.
L ’incredibile forza d’urto rivelata dall’attivismo borghese nel
I933, trova spiegazione nell’esser questo riuscito a mettersi al ri­
morchio della stessa, fanatica passionalità degli elementari senti­
menti nazionalistici, già sfruttata nel 1789 dalla borghesia francese.
A l fuoco di quest’attivismo borghese, l’istintivo impulso nazio­
nalistico si amalgama cosi intimamente e indissolubilmente con
i principi degli ordinamenti e istituzioni borghesi, che i compo­
nenti non si rivelano più isolati, e l’ordine borghese appare la

1 Lànder: regioni con governi autonomi. [N. d. T .]

1 42
L E F O N D A M E N T A D E L L Ù n i Q U IT A

naturale incarnazione dei bisogni e dei fondamentali impulsi


della nazione. Chi tocca l’ordine borghese diventa il nemico della
nazione nella sua più elementare accezione, e nei suoi confronti
tutto è lecito, egli non può pretendere ad alcuna indulgenza. Il
trascinante pathos nazionalistico pallia l’ordine borghese: non
esiste comunità popolare o nazionale al di fuori dell’ordine bor­
ghese. Sul nemico dell’ordine borghese sgrava, come ai giorni
di Robespierre, l’accusa di traditore, pervertitore della nazione,
nemico dello stato; con lui non si discute: lo si annienta fisica-
mente. Egli è “ crim inale” nel peggior senso del termine; l’asso­
luta radicalità dell’azione condotta contro l’avversario della bor­
ghesia, deriva dall’essere la sua opposizione al regime non più
riconosciuta quale istanza politica, ma bollata e perseguita quale
delitto comune. Il nemico della borghesia non merita alcuna ge­
nerosità, non gli si concedono attenuanti; gli si decreta l’ostraci­
smo: un assassino, un ladro sono considerati dappiù di lui.
Lo stato nazionale consegna insomma il potere e la forza
interamente in mani borghesi, lo stato diviene mero strumento
degli scopi e interessi borghesi.
Ma il nuovo stato nazionalsocialista non affondava pur sem­
pre le radici nel terreno costituzionale? Certo, la nomina di Hitler
a cancelliere del Reich rientrava nei confini della legalità; ma
reco tosto, Hitler irrompere dal terreno legale e istituzionale. Egli
limitò, contro la costituzione, la libertà di voto di socialdemocra­
tici e comunisti e, dopo le elezioni, impedì ai deputati comunisti
l'esercizio della loro attività; con le sue bande armate, sottopose
il Reichstag a ricattatorie pressioni e usò violenza ai partiti. Il
decreto che gli conferiva i pieni poteri non era stato emanato nel
rispetto delle forme istituzionali; a partire dalle elezioni del mar­
zo 1933, Hitler perpetrò colpi di stato a catena, cessò di essere
mi cancelliere secondo la legge, il suo regime procedette su un
terreno sconvolto dalle reiterate violazioni della costituzione.
Ne conseguiva che ordinanze, disposizioni, regolamenti, mi­
sure, provvedimenti del regime hitleriano erano tutti anticostitu­
zionali e illegali. Essi non erano mai diritto cogente, non costi­
tuivano impegno di sorta, rappresentavano azioni delittuose per-

143
L A T IR A N N ID E

seguibili dalla legge; il funzionario che secondasse Hitler, si ren­


deva colpevole di complicità.
In ogni grande formazione politica si palesa la profondità,
la pienezza, la ricchezza e l’insufficienza della natura del popolo
che la attua. Come ogni popolo ha il governo che si merita, cosi
ha anche la costituzione, la pubblica amministrazione, la polizia,
i giudici, la libertà politica e la dignità civile che gli si addicono.
Lo stato nazionale tedesco è tedesco fin nelle più sottili dirama­
zioni: fin dal momento in cui il tedesco fondò il suo stato nazio­
nale, questo era destinato a manifestare la fisionomia e le interne
strutture in cui attualmente si configura; non v’era per esso pos­
sibilità alcuna di riuscire peggiore o migliore. Lo stato nazionale
tedesco deve a intime necessità obbiettive, biologiche, la dignità
politica, i limiti del suo ambito spirituale, l’altezza d’animo, il
carattere morale, il colorito e la temperatura delle esplosioni sen­
timentali, e perfino e non ultimo, il campionario umano che in
sostanza lo contrassegnano. In questo stato nazionale è investito
il massimo di capacità politica di cui può disporre il tedesco, dal
momento che s’affaccia alla ribalta della storia nei panni del
borghese.
Questo stato nazionale borghese è uno stato totalitario, in
quanto ovunque si volga trova organismi che si sentono legati
agli interessi borghesi: provvedono i più poveri tra i derelitti in
veste di membri del partito, di SA ed SS, a farli valere ai livelli
più bassi della scala sociale. Il partito nazionalsocialista diviene
cosi la pura, immediata forma organizzativa della classe borghe­
se; e ne abbraccia palesemente la causa, chi del partito entri a
far parte. N el partito si manifesta senza veli la volontà di classe
della borghesia; dal partito, gli uomini delle SA e delle SS ven­
gono armati militi della classe borghese. L a legge “ per la sicu­
rezza dell’unità di partito e stato ” del i° dicembre 1933 defini­
sce espressamente il partito “ forza, guida e motrice dello stato
nazionalsocialista.” In quanto il partito comanda allo stato, in
tanto questo viene retto secondo i disegni della volontà di classe
borghese. L ’affermazione marxista che lo stato è lo strumento di
dominio della borghesia, viene alla lettera convalidata dai trion ­
fatori del marxismo.

144
LÉ F O N D A M E N T A D E I x ’l N IQ U IT A

Per il proletariato cosciente e gli ebrei dichiaratine i manu­


tengoli, non c e posto in questo stato nazionale della borghesia,
essi non hanno diritti. Il regime, afferma Hitler al Reichstag il
23 marzo 1933, considera suo imprescindibile dovere quello di
“ impedire ogni influenza sulla plasmazione della vita nazionale,
a quegli elementi che coscientemente e di proposito se ne fanno
negatori. L a teorica uguaglianza di fronte alla legge non può in­
durre al punto da tollerare i sistematici dispregiatori della legge
e dell’uguaglianza, peggio: da rimettere alla fine in loro mani
la libertà della nazione, sulla scorta di una qualche dottrina
democratica. ” Per il proletariato cosciente questo stato nazio­
nale borghese è uno “ stato di conquista ” nel senso di Hobbes :
“ È lo stato di conquista, tale in cui il potere supremo fu con
violenza conquistato per modo che i singoli o tutti a maggio­
ranza di voti, temendo il bando e la morte, si siano obbligati a
obbedire a un’unica persona.” Il proletariato cosciente vive co­
me in terra occupata, e il trionfatore della guerra civile lo co­
stringe all’obbedienza, con la brutalità che Hitler tanto ama.
Ciò nondimeno questo stato di conquista è travagliato da
una singolare dialettica. Certo, sono state le masse piccoloborghe­
si a crearlo; ma esse s’erano figurate qualcosa di assai diverso.
Nella misura in cui riescono a rendersi conto che hanno adem­
piuto a funzioni di staffiere della grande borghesia, il loro umo­
re si fa nero, si sentono menate per il naso, riacquistano lucidità.
Ma ormai è troppo tardi: sono prese anch’esse nel cappio che
han gettato al collo del proletariato cosciente. Voltano le spalle
allo stato nazionale borghese totalitario, che pure è la loro opera?
Eccole subito vittime degli stessi arbitri e ostracismi, illegalità e
violenze, cui hanno consegnato la classe operaia. Ecco che d’un
tratto anch’esse si trovano private della libertà di parola e di stam­
pa, orbate dei fondamentali diritti politici; eccole anch’esse accu­
sate di alto tradimento, se spinte dal malcontento si assembrano;
eccole anch’esse affollare, quali nemici di stato, carceri, galere, cam­
pi di concentramento. Questo stato nazionale borghese totalitario
opprime insomma quelle frazioni delle masse piccoloborghesi, che
si rivoltano alla dittatura dell’egoismo di classe della grande bor­
ghesia, con la stessa durezza che usa nei confronti del proletariato

14 5
LA tlRAMNlDfi

cosciente. Il diritto di vincitore dello stato nazionale classista della


grande borghesia investe con la stessa spietatezza il piccolo bor­
ghese che rifiuta obbedienza e il nemico di stato proletario.
Le masse piccoloborghesi, nel mentre spogliavano i proletari
delle loro libertà, avevano esse stesse fatto getto di ogni libertà. La
grande borghesia s’era impacciata nella farsa demagogica, solo per­
ché aspettava questa conclusione.
Le masse piccoloborghesi si crogiolavano nel sogno di aver
fatto una rivoluzione; in realtà aveva avuto luogo solo un colpo
di stato grossoborghese. La “ rivoluzione dall’alto, ” in Germania
è di casa; e quando i tedeschi si fanno impertinenti e ribelli, c’è
sempre una signoria che leva le sue pecore dal sole. Il movimento
popolare della Riforma attorno al 1500 aveva, non meno dei moti
popolari successivi al 1815, fatto piu buon prò’ alle caste dominanti,
che non al popolo in agitazione. Della stessa portata fu la rivolu­
zione nazionalsocialista del 1933.

146
Capitolo quattordicesimo

Il totalitario stato dell’arbitrio

Rimarrà forse per sempre memorabile che le masse borghesi


tedesche mossero alla repubblica di Weimar il rimprovero d’essere
un Gesetzesstaat.1 La legge, secondo Aristotele “ pura ragione, li­
bera da concupiscenze, ” è l’ordine impersonale, al cui cospetto
non vale alcun riguardo alla singola persona. Sull’essere di fronte
alla legge dello stato tutti uguali, sul non darsi a essa eccezione
alcuna, sul suo entrare in vigore con la conseguenzialità d’una
norma razionale, sull’aver essa l’imperatività d’una legge di na­
tura, su ciò riposa l’umana libertà.
Il contenuto dell’epoca borghese-liberale consiste nell’aver ga­
rantito l’inviolabilità del dominio della legge: da ciò l’origine
della condizione di libero cittadino. Libero è l’uomo sottomesso
soltanto alla legge universalmente valida, e a nessun altro: la co­
scienza di questa libertà è il coronamento della sua dignità mo­
rale e del suo orgoglio d’uomo. La sua libertà, per Hegel, è “ l’u­
nica verità dello spirito” : la libertà dello spirito ne è l’esclusiva
natura. “ La storia del mondo è il progresso della coscienza della
libertà” ; gli orientali sapevano solo che “ uno è libero, il mondo
greco e romano, invece, che alcuni sono liberi” ; mentre noi sap­
piamo che “ tutti gli uomini in sé, vale a dire l’uomo in quanto
uomo, è libero. ” Il dominio della legge è degno dell’uomo, in
quanto è il dominio della ragione; “ chi però,” osserva Aristotele,
“ vuole avere l’uomo come sovrano, colui si apparenta alla bestia.
Che la concupiscenza ha del bestiale, e l’ira confonde anche i
migliori fra i governanti. ”
Ed era 1’ “ uomo ” che le masse borghesi tedesche volevano

1 Stato fondato sull’obbiettività delle leggi al quale i nazisti contrappongono un


Unhtsstaat (stato di diritto) in cui il diritto promana dalla mistica unità razziale del
Volle. [N. d. T.]

147
L A T IR A N N ID E

come sovrano, quando lo stato di Weimar le faceva inalberare:


le avreste dette possedute da una profonda, istintiva ripugnanza
per il “ razionale, ” quasi che nell’ordine normativo al quale si
piegavano, sentissero la mancanza della fomenta bestiale. Avevano
a noia il dominio della legge impersonale, provavano un profondo
disprezzo per la libertà da esso dominio garantita; volevano
servire un “ uomo, ” un’autorità personale, un dittatore, un “ du­
ce. ” E, in una con l’impersonalità della legge, esse si sbarazzarono
della propria libertà: fecero getto, nel loro smarrimento, della
sicurtà del loro diritto e consegnarono il loro destino a una oscura,
impenetrabile anonima, irrazionale “ giustizia” incarnata nel
Fiihrer: preferirono i mutevoli umori, l’incoerente arbitrio di un
duce personale, alla esatta calcolabilità e alle rigide regole di un
intoccabile ordine legale; vollero essere non già libere sotto una
legge, ma serve di un signore, seguito privo di volontà, docili sud­
diti, tristi soggetti.
Ma questo era il rifiuto dell’idea stessa di stato. Lo stato è (tali
anche le forme statali dei nostri giorni) creazione della classe bor­
ghese. Il principe assoluto, che apparentemente dava forma allo
stato, non era che lo strumento delle moderne tendenze borghesi.
In quanto s’affermi il vincolo universale della legge, in quanto
si impongano le forme giuridiche dell’evo moderno (diritto pub­
blico o privato, soggettivo od oggettivo), in tanto prende piede
10 stato; la burocrazia che applica a tutti le leggi allo stesso modo,
in grandissima parte trae origine dalla borghesia. Una forma­
zione politica è solo in tanto stato, in quanto la legge vi abbia
dominio universale. Lo stato “ assoluto ” conteneva ancora vani
riempiti dall’arbitrio della sovranità feudale e dal capriccio del
dominio poliziesco, giurisdizioni che lo stato non aveva ancora
assorbito. Le lettres de cachet e la Bastiglia erano residui di epo­
che prestatali: è per ciò che furono travolti dalla collera del Terzo
Stato. Benché Federico II re di Prussia sapesse apprezzare il fatto
che lo stato parlava solo per bocca sua, pure la sua formula: essere
11 primo servitore dello stato, conteneva una precisa sensibilità per
il bisogno borghese di tramutare ogni organo dello stato in uno
strumento della legge generale ed obbiettiva.
Rifiutare lo stato che si esprime nelle leggi equivale a rifiutare

148
IL T O T A L IT A R IO ST A T O D E L L ’A R B I T R I O

addirittura lo stato, è un regresso al mondo delle forme politiche


medioevali, che necessariamente si rifarà anarchico nella misura
in cui si colori di feudalesimo. “ L a dissoluzione dello stato, ”
scrisse Hegel nella sua opera giovanile, La costituzione della Ger­
mania, “ si riconosce soprattutto dal fatto che le cose procedono
all’opposto delle leggi. ” L a signoria personale ha carattere feu­
dale; essa contraddice allo spirito dello stato, che per sua natura
non può essere se non impersonale ed obbiettivo. Pretendendo di
proporsi quale condizione duratura, quale “ normalità, ” essa si
differenzia sostanzialmente dalla dittatura di tipo repubblicano,
come ad esempio quella dell’antica Rom a: questa non si discosta
affatto in via di principio dallo stato fondato sulle leggi. “ Il dit­
tatore, ” scriveva nel 1921 Cari Schmitt, “ non è un tiranno, né w -
la dittatura una qualche forma di potere assoluto, bensì uno d e i ' ' '
mezzi propri della costituzione repubblicana, di cui questa si serve
per garantire la libertà. ” L a dittatura nella sua genuina accezione
consiste semplicemente “ in una sospensione temporanea dell’in­
tera condizione borghese. ” Le leggi vengono provvisoriamente (1
accantonate, necessario presupposto perché successivamente pos­
sano sussistere indisturbate.
Ogni condizione contiene in sé elementi del suo contrario:
clementi addirittura necessari alla sua preservazione, all’economia
del suo benessere, e sono il pizzico di veleno che eccita e rinfo­
cola l’organismo a dare il suo meglio; e danno non arrecano, fin­
ché siano scrupolosamente dosati. Cosi ogni costituzione borghese­
liberale ha i suoi paragrafi dittatoriali, nei quali essa non si svia
da se stessa, ma solo vi trova sostegno nei momenti di suprema
necessità. Caso che si verifica quando nel corpo sociale il veleno
scorra in eccesso. L a dittatura come condizione duratura, invece,
non è più il posto spontaneamente concesso per eseguire, secondo
i dettami della tecnica, un’improrogabile operazione sullo stato,
m a. è il dominio, dissolutore dello stato, dell’arbitrio personale
elevato a principio.
La conquista del potere da parte nazionalsocialista nel gennaio
1933 prelude alla dissoluzione dello stato prussiano-tedesco, scal­
zato già mentre sembra voler assurgere alla perfezione di stato
nazionale centralizzato. E la fine dello stato in Germania è sug-

149
L A T IR A N N ID E

gellata dal sostituirsi della personale autorità del “ duce, ” all’im­


personale autorità della legge. L a facciata dello stato nazionale-
centralizzato, che continua a reggersi, maschera ancora l’attuato
capovolgimento delle cose.
Lo scardinamento dello stato e della sua legge divenne realtà,
dal momento in cui essi dovettero ritirarsi davanti al popolo e al
suo Fiihrer. Il “ popolo ” sarà da quel momento il punto di rife­
rimento dell’intero divenire politico, lo stato un semplice impic­
cio storico, del quale non ci si può senza infamia sbarazzare; da
canone, in tutte le faccende, fa la volontà del “ duce, ” non piu la
legge. Lo stato e la sua legge sono “ estranei al popolo, ” e dun­
que sospetti, e perciò in sostanza già condannati. Devono essere
“ vicini al popolo” : in altre parole, cessare di essere quel che sono.
Le riforme, che dovrebbero avvicinarli al popolo, in realtà di­
struggono stato e leggi nella loro particolare essenza. Il rimoder­
namento di marca nazionalsocialista, non si confà allo stato e alle
leggi; quanto più li si assimila alle momentanee esigenze dell’au­
toritarismo personale, tanto più irrimediabilmente saranno essi
svuotati e segnata la loro sorte. La “ trasformazione ” nulla tra­
sforma, ma solo comporta la sparizione dello stato e del dominio
della legge.
Il “ sano sentimento popolare ” ha un’istituzione attraverso la
quale esso può liberamente esprimersi, tradursi direttamente in
azione: il partito nazionalsocialista. Il partito tiene lo stato sotto la
propria lente, gli fa i conti in tasca, lo spinge sui binari che por­
tano “ vicino al popolo. ” Il partito è la voce del popolo, alla quale
allo stato non si concede di replicare ; davanti ad essa, anche la legge
deve ossequiosamente ammutolire. Il rapporto instaurato fra stato
e partito rivela, nelle sue inflessioni, da un lato il processo di deca­
dimento dello stato, dall’altro il sorgere di una formazione politica
basata su principi essenzialmente diversi.
N el suo saggio Staat, Bewegung, V ol\ [Stato, movimento,
popolo], Cari Schmitt ha tentato di mettere in buona luce tale
rapporto: la fisionomia dello stato, egli afferma, permarrebbe ini
mutata; il partito sarebbe “ l’elemento politico-dinamico,” con
trapposto al “ momento politico-statico,” lo stato; il partilo
sarebbe “ l’organismo direttivo, il motore dello stato e del po

150
IL T O T A L IT A R IO ST A T O D E L L ’A R B I T R I O

polo” ; il legame fra stato e partito riposerebbe principalmente


su un’unione d’ordine personale : “ tali unioni personali in parte
hanno già, per vari aspetti, carattere istituzionale : il duce del movi­
mento nazionalsocialista è il cancellière del Reich, mentre i suoi
paladini e bracci destri sono investiti di altre responsabilità politiche
direttive, in veste di ministri del Reich, presidente del consiglio
dei ministri prussiano, Reichsstatthalter, 2 ministri prussiani, bava­
resi e altro. ” Il partito non sarebbe né lo stato secondo la vecchia
accezione, né tampoco apparterrebbe alla sfera privata non-statale
nel senso dell’antica contrapposizione fra giurisdizione statale ed
cxtrastatale. I tribunali non dovrebbero “ sotto nessun pretesto im­
mischiarsi nelle questioni e decisioni interne delle organizzazioni
di partito, né dall’esterno minare il loro principio dell’obbedienza
al duce. ” Il partito, insomma, dovrebbe, rispondendo esclusiva­
mente a se stesso, esprimere dal suo seno i propri metri di misura.
In quanto il partito impedisca allo stato di varcarne i limiti; in
quanto d’altra parte imponga i propri indirizzi allò stato inteso
ormai solo quale morta sovrastruttura; in quanto dunque il par­
tito comandi e assegni confini allo stato, in tanto appare chiaro
che quello ha ormai prevalso su questo, che lo stato non è
più che ombra vana. Noi, affermò Cari Schmitt, ci troviamo di
fronte “ a un problema istituzionale del tutto nuovo. ” Della ro­
vina che si riserba allo stato, sarà reso tollerabile il gusto col non
affermarla espressamente, e interpretandola quale mero sposta­
mento d’accenti nella proporzione reciproca delle cose, come ogni
problematica di nuova introduzione necessariamente comporta.
La legge “ per l’affermazione dell’unità di partito e stato ” del
i” dicembre 1933, fece del partito un organismo legalmente rico­
nosciuto, cui incombeva di vigilare a che l’intero apparato sta­
nile si impregnasse di spirito nazionalsocialista; ben presto lo stato
si rivelò impotente macchinario; il partito con le sue masse, le sue
Schntzsta-fjeln, le sue Sturmabteilungen, lo superò in statura. Le
istituzioni e le leggi, di cui finora s’era fatta forte la burocrazia
dello stato, divennero inoperanti. L a legge “ per la riforma delle
carriere di stato, ” era in realtà un decreto di epurazione, inteso a

U (ìovcrnatore del Reich. fiV. d. 7 \]

151
L A T IR A N N ID E

inculcare ai funzionari la ragione del Terzo Reich. Quel buro­


crate il quale avesse un passato “ marxista ” oppure non sapesse
ora misurare le parole, era licenziato su due piedi; promosso, se­
condo le nuove norme in vigore per la burocrazia, poteva essere
soltanto quel funzionario che, “ oltre al totale adempimento dei
doveri che incombono al suo ufficio, tenuto conto del suo passato
politico, dà attualmente incondizionata garanzia, e lo ha provato
il 30 gennaio, di sostenere senza riserve la causa dello stato nazio­
nalsocialista e di patrocinarla con efficacia” : la causa, si noti, di
uno stato che ha capitolato davanti al partito. I “ diritti acquisiti, ”
le “ pensioni a vita, ” divennero da un giorno all’altro incerti.
Rovinò quel cielo che ogni funzionario aveva ritenuto incrollabile.
Il funzionario era stato preso nel suo punto debole: e chi lo teneva,
poteva ridurne in polvere il carattere. E il funzionario si affrettò
a mettersi al passo con la nuova realtà; evitò accuratamente ogni
attrito, tentò di decifrare la volontà del partito e di adeguarvisi,
prima ancora che questa si fosse fatta conoscere. Ben presto l’eva­
sione delle pratiche segui automaticamente i desiderata e gli or­
dini del partito, e non più le necessità reali. G li interessi del par­
tito presero, agli occhi degli amministratori, come pure dei magi­
strati, il posto degli interessi dello stato. Perfino gli ufficiali sani­
tari si lasciarono infettare da questa lue del pubblico servizio, e
fini che non si trovò più medico disposto ad attestare la verità in
caso di morte violenta, qualora gli assassini fossero SA o SS. Pro­
gressivamente, negli impieghi statali si infiltrarono gli stessi mem­
bri del partito che, se già prima s’erano in massa accaparrati le
supreme cariche, non sdegnavano ora di aggreppiarsi anche ai
gradi bassi e medi. Gli impieghi statali erano un bottino al quale
i vecchi, “ fedeli” combattenti mettevano mano in proporzione
al numero stampigliato sulla rispettiva tessera. Lo spoil System
raggiunse forme inaudite: qualunque boss americano avrebbe po­
tuto d’ora in poi andare alla scuola del Terzo Reich.
Anche la repubblica di Weimar aveva adottato una sua parti­
colare politica nei confronti della burocrazia. I funzionari monar­
chici che le davano troppo fastidio, li aveva messi in pensione;
ma perfino i suoi avversari dichiarati poterono collocarsi a riposo
in condizioni decorose. Fin dove nel farlo non incontrò eccessivi

152
IL T O T A L IT A R IO ST ATO 1
D E L L A R B IT R IO

ostacoli, la repubblica di Weimar preferì dar peso alle qualifiche


professionali piuttosto che alle mere opinioni professate. Innega­
bilmente anche il segretario di sindacato che entrava in un ufficio
statale, possedeva già una competenza nelle faccende amministra­
tive acquistata proprio in anni di lavoro al sindacato.
Il funzionario di partito della repubblica di Weimar veniva
risucchiato dalla macchina burocratica, e in questa cornice ces­
sava di essere al servizio di un partito per diventare strumento
della ragion di stato, funzionario dello stato fino alla cima dei
capelli; in caso di controversia, egli difendeva gli interessi dello
stato contro le usurpazioni di quel partito che pure aveva segnato
l’inizio della sua carriera. Egli s’imbeveva dello spirito della sta-
talità, diventava l’ineccepibile servitore dello stato, pronto a dare
l’alt! alle pretensioni di qualunque tendenza extrastatale.
A l contrario, i funzionari del partito nazionalsocialista non si
sottomettono affatto alla ragion di stato. Sono anzi essi a mettere
lo stato con le spalle al muro, ed è loro compito consegnare lo
stato nelle mani del partito. Per la prima volta da secoli, la bu­
rocrazia statale, quella cresciuta alla scuola di Federico Guglielmo
I, legata alla legge, coscienziosamente dedita alla causa, sotto­
messa alla ragion di stato, fu sistematicamente sbandata e corrotta. |
Funzionari del partito nazionalsocialista penetrano nell’orga-
nismo statale e lo dissolvono dall’interno; in pari tempo il partito
dall’esterno lo spoglia di cospicui diritti sovrani. Lo stato era sorto
alienando e monopolizzando uno a uno i diritti sovrani dell’ari-
slocrazia terriera feudale. Ma ecco ora il partito nazionalsocialista
sbrecciare il monopolio, eccolo divenire esso stesso depositario
della sovranità. Il partito sviluppa una sua propria giurisdizione,
r sono i funzionari dello stato a fornire la necessaria assistenza
legale; il partito si riserva il diritto di ricevere il giuramento. Il
partito diviene autorità scolastica, e parecchie sono le università
clic immatricolano solo dietro presentazione di un certificato di
appartenenza alle organizzazioni nazionalsocialiste. G li impieghi
statali sono distribuiti di concerto col partito; alle nomine e avan­
zamenti nell’ambito dell’alta burocrazia sovrintende il ministro
per il partito, Rudolf Hess. Su toga e uniforme, il giudice e il sol­
dato devono portare 1’ “ insegna nobiliare ” del partito, un privi-

153
L A T IR A N N ID E

legio che devono “ meritarsi ” ; è il partito, non più lo stato, che


concede le onorificenze. Punti di vista e disposizioni del partito
sono normativi per la magistratura e i funzionari dei gradi am­
ministrativi; di fronte alle istanze di partito, ove queste prolife­
rano, umilmente inchinandosi il potere statale cede il passo. A
reggere gli uffici è gente del partito, e come mosche vi brulicano
i dignitari.
A l vertice del partito, il “ Fiihrer. ” A lui si deve cieca obbe­
dienza. Il suo ordine tien luogo di legge. “ La legge è dunque, oggi,
funzione della guida politica. ” 3 Pertanto lo stato deperisce a prò’
del partito. Il “ Fù h rer” non si è drizzato sulla base dello stato;
egli si è fatto avanti quale nemico dello stato, anzi : quale “ disso­
lutore dello stato. ” Lo stato gli riesce, in fondo all’anima, ripu­
gnante quanto il suo funzionario, contro il quale mette a nudo
nel Mein Kam pf un altrettanto sfrenato risentimento. Lo stato
giunge solo fin dove non è ancora penetrato il partito; il “ Fùhrer ”
signoreggia anche lo stato, lo fa danzare al suono del suo piffero.
Lo stato è uno “ strumento del Fùhrer, del movimento. ” Il Fùhrer
ne usa come chi abiti un vecchio edificio, cui si intende sostituire
un fabbricato completamente nuovo. Aveva un preciso significato
dunque, che il Fùhrer rifiutasse la presidenza del Reich: il suo in­
tendimento non è già di costituire il vertice di uno stato: egli rap­
presenta alcunché di “ nuovo, ” che sostituirà lo stato. Vero, Hin-
denburg s’era lasciato convincere a ogni sorta di violazione della
costituzione, ma non si induceva a farlo senza prima essere per­
suaso, da una sofistica interpretazione di questa, che il terreno
della legalità non sarebbe stato calpestato; egli voleva almeno
avere dalla sua il “ vero, l’intrinseco spirito ” della legge. Per
quanto primitivo, Hindenburg era pur sempre guidato da un sano
istinto prussiano per lo stato e, per mettersi la coscienza in pace,
ricorreva a giuristi cosi versati in materia da riuscire a cavar dalle
pandette quel che i profani avrebbero potuto ottenere solo con il
ricorso alla nuda violenza. Benché Plindenburg, ogniqualvolta
ciò fosse possibile senza provocare troppo chiasso, volentieri sca-

3 R ichard H ò h n , Die Wandlung im Staatsrrechtlichen Dcn\en [La mutazione del


pensiero giuridico] , Hanseatische Verlangsanstalt, Amburgo, 1934.

154
IL T O T A L IT A R IO ST ATO D E L L ’A R B I T R I O

valcasse i paragrafi di tono democratico, si guardava però dal vio­


lare apertamente, dimostrabilmente, il giuramento con cui si era
impegnato a rispettarli.
Hitler, da tali scrupoli non era assillato. Egli è la fonte, il crea­
tore del diritto; come non manca di sottolineare lo stesso ministro
di grazia e giustizia del Reich, la legge non è che uno dei mezzi
del diritto. La legge non è affatto al di sopra del Fiihrer; questi
non deve affatto preoccuparsi di restare in armonia con essa: sem­
mai il Fiihrer si discosti dalla legge, è questa che ha torto. Per
Hitler, non esiste “ norma perentoria decretata in precedenza, ”
che fissi i limiti. Egli, afferma Cari Schmitt in un famigeratissimo
libello apparso dopo il massacro di giugno, “ protegge il diritto
dai peggiori abusi, quando nel momento del pericolo, quale si­
gnore con assoluta giurisdizione in forza della sua qualità di
duce, immediatamente crea il diritto. ” L a legge è un corpus juris
zeppo di lacune e difetti; ogni giudice, ogni funzionario ha diritto
di riscontrare se una legge non sia un residuo del periodo weima-
riano, nel qual caso non occorre che d’ora in poi ci vada tanto per
il sottile. L a forma più pura, in cui trovi espressione la sostanza
del diritto, è l’ordine impartito dal Fùhrer; e, come la legge è
meramente un mezzo del diritto, cosi lo stato è meramente un
mezzo per l’attuazione del diritto e l’affermazione del potere. D ’ora
in poi lo stato entrerà in funzione solo laddove il partito, i suoi
organismi e la volontà del suo duce non si facciano valere impar­
tendo direttamente ordini ed emanando direttive.
1 rapporti d’autorità assumono in tal modo tutti carattere per­
sonale. Ogni pezzo grosso è, nell’ambito del suo ufficio, vicario del
Fiihrer, un “ piccolo H itle r” il quale caccia il naso negli affari di
funzionari e magistrati che non siano membri del partito, esatta­
mente come fa il Fùhrer stesso in veste di statista. Uomini ordi­
nano e dominano, ed è il loro arbitrio che si fa sentire, non già
le leggi a creare il diritto e la ragion di stato ad aver l’imperio. Il
potere discrezionale è sostanzialmente illimitato, e le leggi han
vigore solo in quanto quello accondiscenda a porre limiti a se
stesso. La guida del duce (cosi sostiene l’allievo di Schmitt e mae­
stro di diritto costituzionale nazionalsocialista, Huber) non esclude
la libertà d’azione della gerarchia, ma al contrario presuppone, ai

155
L A T IR A N N ID E

livelli subalterni, autonomia di decisioni e libera iniziativa. D i­


screzionalità che però non è piu da paragonarsi a quella del ser­
vitore dello stato incatenato alla legge, e a proposito del quale
afferma Aristotele in un suo passo: “ L a legge fornisce il neces­
sario ammaestramento e quanto al resto lascia agli ufficiali di
decidere e provvedere per il meglio. ” Per questo servitore dello
stato, la discrezionalità è l’invalicabile ambito che la legge indero­
gabilmente valida lascia sussistere di necessità. Ma ora, afferma
Huber, è completamente mutato il contenuto concreto della di­
screzionalità : essa autorizza ora alla “ libera decisione secondo i
fondamentali valori politici dell’ordinamento giuridico e statale
nazionalsocialista” ; o, altrimenti detto, in conformità ai punti di
vista del partito.
Questo sconfinare della discrezionalità nell’illimitato, rende
l’individuo impotente di fronte al duce, ed è appunto questa la
meta fissata. D i fronte alla “ comunità del popolo ” che, guarda
caso, s’identifica con la comunità borghese, l’individuo non vale
più un’unghia. Ci si è con ciò presi cura del borghese, e che il
proletario non possa metterci becco è lo scopo del culto dell’antin-
dividualismo che vien montato assieme alla “ comunità del po­
polo. ” Si vuole tenere saldamente per il bavero l’individuo in
quanto proletario senza che le leggi intervengano a limitare la
durezza della stretta; si sputa veleno e fiele contro il “ normati­
vismo giuridico” e contro 1’ “ arroganza della norm a” ; si mette
al bando lo stato che si esprime nelle leggi, il quale, dal momento
che in caso di controversia può lasciar trionfare il proletario sul
borghese, lungi dall’essere uno “ stato giusto, ” è uno “ stato
fondato sull’ingiustizia. ” L o “ stato giusto ” è quello che, dopo
essere riuscito a sbarazzarsi della tecnica del pensiero giuridico, *
sostituita con 1’ “ etica del sentimento di giustizia, ” è pronto a
colpire il proletario, se appena questa sottospecie d’uomo si per­
metta di urtare i nervi del borghese. La “ rivolta ” operaia del 1918
“ lotta, con la violenza ovvero con la legge, contro il diritto, per
il potere” ; la “ rivoluzione” compiuta dalla borghesia nel 19334

4 L ange (docente all’Università d i Berlino), Votn Gesetzesstaat zum Rechtsstaat [Dallo


stato di legge allo stato di diritto ].

156
IL T O T A L IT A R IO ST ATO D E L L ’A R B I T R I O

“ combatte col diritto contro l’ingiustizia del potere e della


legge” : e chi consideri le cose dal punto di vista degli interessi
della comunità borghese, “ può ben giustificare il sacrificio del
singolo, che va dalle misure coercitive alla totale distruzione, in
nome di una più alta affermazione della collettività. ” L ’assassinio
legale cessa di essere tale, quando la paura del borghese vuol dare
un esempio a spese di innocenti operai. Secondo i principi di
questa collettività, “ il campo di concentramento è un mezzo per far
valere il diritto, allo stesso modo del fermo, dell’arresto preventivo,
della casa di pena e delle misure di sicurezza, perché, in contrappo­
sizione al liberalismo, esso preferisce le misure preventive, alla
ritorsione e al pagamento a posteriori del debito alla società. ”
Il Terzo Reich, spiegava Cari Schmitt ai giuristi nazionalso­
cialisti, era uno stato di diritto “ solo perché ammette una certa
sommissione delle autorità alla legge. E bisogna intenderlo solo
nella funzione di organo del movimento nazionalsocialista. Il pro­
gramma del partito nazionalsocialista è diventato cosi il substrato
di tutto il pensiero giuridico. ” Il commissario alla giustizia del
Reich, dottor Frank, ebbe ad affermare una volta che il giurista
non deve portare a proprio vanto l’approfondimento nella legge,
ma quello di far da guida aH’ordinamento sociale della sua na­
zione. Ordine sociale obbligatorio è quello borghese capitalistico;
e Frank sottolineò con decisione: “ N oi vogliamo, affermando il
principio che il bene collettivo viene prima di quello del singolo,
che la lotta per la giustizia in Germania sia condotta in modo
da far apparire a tutti ben chiaro che noi desideriamo il forte an­
cora più forte, il libero ancora più libero, senza proteggere il de­
bole e l’inetto in guisa che abbiano a soffrirne i forti e i liberi. ” I
forti e i liberi cosi patrocinati, sono i borghesi-capitalisti: si chia­
mano Krupp, Thyssen, Kirdorff, Borsig, Bosch; il debole e l’inetto,
dal quale proteggere il forte e il libero, è naturalmente il prole­
tario che abbia una coscienza di classe.
Sorse l’istituto grazie al quale l’arbitrio, che doveva imporsi
nei confronti del proletariato, avrebbe avuto una continua sensi­
bilità di affermarsi la Geheime Staatspolizei (Gestapo).6 Essa è la
\

5 Polizia segreta di stato. [IV. d. T .]

157
L A T IR A N N ID E

muta sempre sulle peste del “ nemico del popolo e dello stato, ”
al quale non dà respiro, che annusa sotto qualunque camuffamento,
che può azzannare ovunque lo scopra; essa non è ostacolata da
alcuna formalità giuridica, da alcuna prassi legale; in una parola,
è autorizzata a tutto ciò che le sembri imposto dalla situazione.
L a Gestapo è l’organo del potere che occupa il posto degli aboliti
diritti fondamentali. Il “ nemico del popolo e dello stato ” è un
fuorilegge, è un proscritto; la polizia segreta lo tratta da quella
selvaggina che è. Essa mette le mani sulle proprietà, apre le let­
tere, ascolta le conversazioni telefoniche, spia, proibisce, scioglie
associazioni, raccoglie prove, perquisisce abitazioni, spicca man­
dati di cattura, riempie i campi di concentramento, tortura, am­
mazza secondo il proprio talento. I reparti adibiti a guardia dei
campi di concentramento diventano con l’andar del tempo, le
SS-Totenkopfverbiinde,6 che nella giornata del partito del 1936
apriranno la sfilata delle SS davanti al Fiihrer; si tratta di “ re­
parti di primissima linea, ” sono quotidianamente “ a contatto
col nemico, ” e di ciò esse vanno orgogliose. L a loro gloria, il
loro eroismo, consiste nell’aver distrutto e torturato a morte uo­
mini inermi : e il loro “ duce ” ne li ricompensa.
Non esiste mezzo legale contro la polizia segreta, non c’è ap­
pello possibile: si è abbandonati ai suoi umori e capricci. Essa è
onnipotente quando scende in campo per disarmare i nemici dello
stato, per garantire la sicurezza dello stato. N el marzo 1936, la
Corte di cassazione prussiana decretò che contro le disposizioni e
le decisioni di polizia, riguardanti la specifica attività della Ge­
stapo, non era ammesso il ricorso alla magistratura coi normali
mezzi legali; sentenza che precludeva il ricorso alla legge nei
confronti della polizia segreta.
“ La polizia di stato, ” sostenne il capo della sezione della Ge­
stapo per la Prussia, Heydrich, “ deve, mantenendo il più stretto
contatto col servizio di sicurezza del Reichsfùhrer delle SS, im­
parare a conoscere, a partire dai fondamenti ideologici, la tattica
e la strategia, nonché le forme organizzative di tutti i nemici ; que­
sto per aggiornare i rappresentanti della lotta ideologica, e creare

0 Reparti “ Testa di morto ” delle SS. [N . d. T .J

158
IL totalitario stato d ell ’arbitrio

le basi tattiche per perseguire e combattere, sul piano tattico e


della procedura criminale, i singoli nemici dello stato e le singole
organizzazioni anti-statali. ” La Gestapo, il cui apparato è com­
posto quasi esclusivamente da uomini delle SS, costituisce uno stru­
mento di dominio del partito; merita il nome di “ statale, ” solo
in quanto mette in opera, e in modo piu massiccio, i mezzi di
coercizione dello stato; è già un’espressione del nuovo sistema po­
litico, distruttore dell’antico stato; più chiaramente che altrove,
in essa si rivela la sorte cui va incontro il popolo tedesco. L a Ge­
stapo è lo strumento di una tirannide di tipo particolare. Essa ha di
inira la liquidazione, senza tante cerimonie, di chiunque non si
adegui al nuovo stile dell’ordine capitalmonopolistico.
L ’aver messo di proposito in quarantena il “ pensiero giuri­
dico” ebbe gravissime conseguenze per l’amministrazione della
giustizia. L ’indipendenza del giudice riposa sul suo obbligo verso
la legge; senza di che, come affermava lo stesso Cari Schmitt an­
cora nel 1933, “ l’indipendenza della magistratura non è che ar­
bitrio, più precisamente arbitrio politico. ” Ma se il magistrato in­
tende imporre inflessibilmente la legge, inevitabilmente mette i
bastoni fra le ruote al partito, il quale è tutt’altro che disposto a
inghiottire di buon grado atteggiamenti che contraddicano ai suoi
principi e intenzioni. Il partito non si accontentò più che i prin­
cipi basilari del nazionalsocialismo dovessero essere immediata­
mente ed esclusivamente normativi solo per l’applicazione e trat­
tazione delle disposizioni generali ad opera “ del giudice, del ma­
gistrato, di chi amministra 0 insegna il diritto.” I giudici furono
sottoposti a un regime di intimidazione che giunse fino alla de­
stituzione, con futili pretesti, di magistrati poco duttili. G ià in
occasione del processo del Reichstag, Gòring e Heines avevano
criticato il modo con cui si teneva il dibattito. “ Dal momento che
i fermenti del vecchio stato, ” affermò Hitler nella giornata del
partito del 1935, “ cioè del vecchio mondo dei partiti, non pote­
rono essere immediatamente superati e accantonati, in più di una
sede è necessario controllare attentamente lo sviluppo in senso na­
zionalsocialista che non avviene senza incertezze.” E continuò
con tono minaccioso: “ N e può conseguire che il partito, laddove
lo stato segua un andamento che contraddice ai principi nazional-

159
i

L A T IR A N N ID E

socialisti, sia costretto a intervenire ammonendo e, se necessario,


correggendo. ”
Poiché la suprema corte del Reich a stento riusciva a masche­
rare la propria avversione a lasciarsi ridurre senza riserve al li­
vello di semplice tribunale rivoluzionario, fu creato il Volksge-
richtshof (Tribunale del popolo), il quale, sulla scorta del “ prin­
cipio nazionalsocialista secondo il quale la fellonia verso il pro­
prio popolo costituisce il piu odioso dei delitti, ” funzionò da mac­
china per la liquidazione dei “ nemici dello stato. ” 7 Esso sostituì
la corte suprema nel compito di “ difendere il popolo tedesco nel
suo complesso dalle minacce provenienti daH’interno e dall’ester­
no. ” In occasione del processo per il crollo di Berlino,8 Goebbels,
senza che si osasse richiamarlo all’ordine, impartì pubblicamente
le direttive che dovevano presiedere alla formulazione della sen­
tenza. “ Se un caso come questo, ” affermò egli, “ dovesse essere
archiviato alla chetichella, ciò comporterebbe un’indubbia mi­
naccia all’opera di ricostruzione nazionalsocialista. ” Anche il Fiih-
rer, del resto, aveva detto ben chiaro che contro chi si macchiasse di
reato verso la ricostruzione nazionalsocialista, bisognava agire con
la massima energia.
Progressivamente e apertamente si svilupparono i nuovi prin­
cipi, alla cui osservanza il giudice era tenuto. Qualora la legge
parlasse a favore di un avversario del Terzo Reich, la si doveva
accantonare. “ Chiunque ritenesse di poter attentare alla sicurezza
del Reich nazionalsocialista, ricorrendo agli ambagi degli abusi
legali, può da ora in poi dare l’addio a tutte le sue speranze, ”
avvertì il dottor Frank. “ L a tutela del diritto e i suoi mezzi coer­
citivi non sono la corazza di un’eventuale opposizione allo stato na­
zionalsocialista, bensì servono al rafforzamento del diritto e del­
l’autorità statale nazionalsocialista. ” Il “ sano istinto popolare ”
divenne così ausiliario all’interpretazione e applicazione della
legge. Identificandosi con i disegni nazionalsocialisti e l’interesse

7 Nel 1938, celebrandosi la ricorrenza delPinsediamento del Tribunale del Popolo,


il Pubblico Ministero dottor Parisius, in un suo discorso, affermò essere compito del
tribunale stesso, non già quello di interpretare la legge, bensì di distruggere i nemici
del nazionalsocialismo. (Nota del 1948).
8 Si tratta del processo intentato, in seguito al crollo di una sezione della ferrovia
sopraelevata in via di compimento, al direttore dei lavori.

160
IL T O T A L IT A R IO ST ATO D E L L ’A R B I T R I O

borghese-capitalista, intervenne ogniqualvolta non si potesse spun­


tarla su un nemico dello stato, seguendo la lettera o lo spirito della
legge. Per giudicare rettamente di un caso, scriveva neirottobre
1936 il segretario di stato Freisler, giudice e pubblico Ministero
non devono guardare principalmente alla legge, “ ma prestare
orecchio alla voce della coscienza popolare, del sano istinto popo­
lare. Solo quando, definito chiaramente il caso rapportando l’atto
c il suo autore alla fonte ultima del diritto — la coscienza popo­
lare —, il giudice ne abbia determinato la criminalità e la penalità,
egli potrà rivolgere la sua attenzione alla legge scritta, per con­
statare se essa minaccia sanzioni nel caso in esame. Qualora la pena
l'rovista dalla legge non sia adeguata, il giudice dovrà far ricorso,
por la formulazione della sentenza, ai dettami del sano istinto po­
polare. ” Il senatore amburghese dottor Rothenfelder nel 1936
compendiò con sufficiente chiarezza le linee direttive della giuri­
sprudenza nazionalsocialista; le leggi, egli dice, devono essere in­
terpretate tutte all’esclusiva luce dei fondamentali principi nazio­
nalsocialisti; la parola di Adolfo Hitler, se anche non espressa in
forma di legge, è la fonte principale dell’interpretazione; gli or­
dini del Fùhrer devono essere considerati fonti di diritto di ugual
valore della legge; il loro contenuto è jus di immediata appli­
cazione; qualora vi sia contraddizione tra una legge emanata in
periodo anteriore al 1933 e “ l’istinto popolare,” bisognerà optare
per quest’ultimo. “ Diritto e volontà del Fùhrer sono tutt’u n o,”
disse Gòring nell’estate del 1934 ai Pubblici Accusatori riuniti a
convegno, “ ne deriva che lor signori devono patrocinare con la
massima energia questo diritto dello stato nazionalsocialista. D ’ora
in poi, non userò più nessuna indulgenza nei confronti di quei
funzionari i quali a tale proposito non compiano appieno il loro
dovere. ”
Il popolo, giunse ad affermare il sottosegretario di grazia e
giustizia dottor Schlegelberger, individuo di ben rara duttilità, non
si contenta del fatto che una norma sia convalidata, quando il
mutamento intervenuto nel concetto del mondo richiederebbe ben
altra regola; ne consegue che l’amministrazione della giustizia è
condizionata solo in apparenza e con riserva dalla legge: più pre-
i isamente, soltanto finché questa non contraddica al “ sano istinto

161
L A T IR A N N ID E

popolare. ” La legge cessa cosi di essere norma per il riconosci­


mento e la valutazione del delitto, della colpa e della sua penalità:
il “ sano istinto popolare ” sente ciò che è ingiusto e ciò che va
punito, intuisce quale punizione sia commisurata al crimine. L a
nuova procedura penale tedesca incarica espressamente il magi­
strato “ di applicare la giustizia, qualora la legge non dia precisa
risposta al problema ‘ colpevole o innocente, ’ sondando il sano
istinto popolare. ” Quanto a questo, si tratta del compendio del­
l’istinto di classe borghese-capitalistico, di cui l’amministrazione
della giustizia diviene l’immediato, scoperto strumento bellico. Lad­
dove l’ordine fascista si senta minacciato, o vulnerato, il tribunale
senza tanti preamboli emanerà una sentenza di condanna. “ Il
diritto penale, ” affermò Freisler all’Istituto Superiore Lessing, “ è
uno dei mezzi fondamentali per difendere attivamente l’esistenza
e il lavoro del popolo. ” Se finora l’ordine borghese aveva masche­
rato l’affermazione della propria volontà di potenza dietro il mi­
nuto e complesso meccanismo delle leggi, ora, giunto allo stadio
del fascismo, si scrolla di dosso tale zavorra, mena colpi all’in­
torno, come gli ordina la sua volontà di potenza: l’amministra­
zione della giustizia si muta in una serie di scrolloni disperata-
mente caotici, avventati, grazie ai quali l’ordine borghese tenta
di sottrarsi alla prossima rovina; l’amministrazione della giustizia
cessa di essere qualcosa di razionale, di sistematico, per scadere a
cieco attivismo. Cosi il Terzo Reich, calpestando ogni sano senso
del diritto, emana leggi punitive di valore retroattivo. La conse­
guenza è il crollo dei fondamenti stessi di una effettiva condizione
di diritto: nulla poena sine lege.
Se non v’è pena senza legge, significa che vanno osservate cer­
te regole di gioco, quelle che permettono al sospetto di uscirsene
senza macchia: è innocente, finché non si riesca a scovare una
norma che egli abbia violato.
Il Terzo Reich e i suoi manutengoli, al contrario, si sentono
troppo esposti al rischio per potersi mostrare magnanimi e caval­
lereschi nei confronti dei sospetti: di chi lo sia, impossibile fidarsi,
quando meno te l’aspetti può darti lo sgambetto. Indifferenza,
freddezza, atteggiamento critico nei confronti di chi detiene il
potere: tutti indizi di una segreta ostilità verso lo stato. Ma ogni
IL T O T A L IT A R IO ST ATO D E L L A R B IT R IO

forma di ostilità allo stato è crimine; e nessun crimine deve sfug­


gire alla pena.
È nella logica istituzionale della giurisdizionalità, che anche
l’arbitrio possa presentarsi nei panni della giustizia: il metodo
d’interpretazione analogico è il sotterfugio, l’incantesimo col cui
aiuto essa, con la pretesa di assolvere una “ più alta giustizia, ”
può promuovere il proprio contrario. Se, nonostante tutti gli sforzi
compiuti dal “ sano istinto popolare, ” non riesce a trovare un
solo articolo del codice da allargare, rigirare, stiracchiare, da man­
darci in rovina un nemico dello stato e del popolo, a carico del
quale nulla esista, allora verrà al soccorso l’analogia giuridica.
“ Se all’atto commesso non si applica direttamente alcuna disposi­
zione punitiva, in tal caso l’atto sarà punito sulla scorta della legge
i cui fondamenti meglio s’applichino al fatto stesso. ” In altre pa­
role, il pensiero giuridico è ammaestrato a rintracciare alla fin fine
una legge la quale, tramite audaci illazioni analogiche deforma­
trici del jus, permetta di mandare alla malora ogni onest’uomo.
L ’analogia giuridica è la perfida astuzia che permette di spedire
in galera ogni avversario deciso, il quale si rifiuti di marciare al
passo con gli altri, anche se non esiste legge che obbiettivamente
egli abbia offeso. Per il potere giudiziario, l’analogia giuridica co­
stituisce ciò che, per l’esecutivo, è la polizia segreta di stato: il
colpo alla nuca a tutti quei nemici dello stato i quali si siano ben
guardati dall’incappare nelle panie della legge.
Muta dunque il significato di delitto, il quale non è più in
necessario rapporto con la legge. Delitto è tutto ciò che tange gli
interessi del capitalismo e del suo apparato costrittivo fascista, tutto
ciò che non si lascia armonizzare con questi. Qualunque tendenza
contraria è fondamentalmente criminosa. E la pena, in conclu­
sione, non è che la bruta procedura da guerra civile della distru­
zione fisica dell’avversario. I tribunali non sono che i commandos,
ai quali incombe l’obbligo di liquidare alla spicciolata i nemici
del potere fascista; essi sono agli ordini di chi dirige la guerra ci­
vile. L ’apparato della giustizia è il tranello nel quale l’avversario
viene attirato, la sentenza è la pugnalata alla schiena, il giudice il
bravo assoldato per la bisogna. La magistratura tedesca era pronta
il tutte le mascalzonate che le fossero comandate: e la si vide spe-

163
LA tlftANNlCfi

dire ai lavori forzati dei proletari solo per una parola di critica,
la distribuzione di un manifestino, una riunione con altri com­
pagni di fede; contro i pochi tedeschi che non s’erano ridotti a
marionette prive di nerbo, essa pronunciò la sentenza del disonore.
In questa guerra di sterminio, si perseguitarono le opinioni;
chi la pensava in maniera diversa e non lo nascondeva, dava l’ad­
dio alla libertà, spesso addirittura alla vita. Il nuovo diritto penale
tedesco era in realtà un complesso di norme repressive delle opi­
nioni, benché esso pudicamente si autodefinisse diritto volto a pu­
nire le intenzioni delittuose. Era insomma il codice di una teocra­
zia secolarizzata. Il problema deH’imputabilità aveva un unico
contenuto: appartenere o no al giusto, al legittimo fronte, con­
dividere o no la fede, essere o no un eretico; su suolo tedesco, lo
spirito dell’inquisizione era rinato a nuova vita; i tribunali non
si rifacevano più al diritto, e pazzo chi da essi s’aspettava giu­
stizia; i giudici erano li per commettere abusi e prevaricazioni, la
loro “ giurisdizione ” era il continuo, servile, orpellato rifiuto della
legalità. In circostanze simili, l’avvocatura diveniva una profes­
sione poco pulita, tutt’altro che onorevole; all’avvocato non era
concesso di salvare la vittima, che il potere dominante consegnava
ai tribunali perché la togliessero di mezzo; non meno del giudice
egli era una creatura di quel potere, era insomma advocatus dia­
boli ; a lui di far balenare agli occhi del patrocinato l’illusione che
ci fosse ancora alcunché da fare a suo prò’. L ’uomo che sta per
annegare s’attacca anche a un fuscello, e l’avvocato cava il suo
utile da questo spasimo della speranza, si fa pagare per fomentare
ancora qualche vana illusione. L a professione di avvocato presup­
pone un clima liberale, se non vuol cadere preda alla corruzione;
le occorre un’atmosfera in cui sostenere, stando sulla stabile roc­
cia della legalità, il suo difeso contro il prepotere dello stato.
Il duce supremo, in conformità ai propri poteri, tratta con la
stessa, soggettiva capricciosità, tanto la giustizia quanto l’esecutivo.
Egli è signore e padrone del legislativo. L a volontà del Fùhrer è
suprema legge, il suo comando ha la forza di legge. L a rappre­
sentanza del popolo, il Reichstag, il consiglio di stato prussiano,
non son che fregi, ornamenti. Non più operanti, la loro funzione
rappresentativa si riduce a essere di tanto in tanto convocati, per

164
rr

IL T O T A L IT A R IO ST A T O D E L L ’A R B I T R I O

ascoltare un discorso, approvare una legge alla quale si attribuisca


particolare importanza, cantare il “ Horst Wessel. ” 9 “ Il consi­
glio di stato, ” decretò Goring, “ non può avere opinioni discordi,
perché questa è la caratteristica del parlamentarismo. Il consiglio
di stato deve consigliare, coadiuvare, collaborare — ma, egregi si­
gnori, la responsabilità ce l’ho io, che a questo ufficio sono stato
chiamato dal mio Fiihrer. ” Era cosi che il presidente del consiglio
dei ministri prussiano inculcava ai suoi consiglieri di stato il prin­
cipio secondo il quale essi non erano altro che le sue guardie del
corpo politiche, i suoi giannizzeri, i suoi mammalucchi, gli zim­
belli, i ben pagati buffoni di corte. Il mandato al Reichstag, la
carica di consigliere di stato, sono delle semplici sinecure, riser­
vate a quei membri del partito ai quali, non essendo riusciti a far
loro abbastanza spazio alla mangiatoia, bisognava riempir le ta­
sche col denaro pubblico. Sono ora quei funzionari del partito na­
zionalsocialista, che avevano rinfacciato ai “ mangia a ufo ” della
repubblica di Weimar le loro indennità parlamentari (le quali,
tuttavia, ripagavano un’attività piuttosto intensa), ad abbeverarsi
alle stesse fonti, senza in compenso dover contribuire neppure con
un fervorino alla “ bottega delle chiacchiere. ”
Il Terzo Reich ha cosi posto fine alla “ divisione dei poteri.”
Presupposto fondamentale del liberalismo, era che il potere stata­
le provenisse dal popolo; ma, poiché questi non è direttamente in
grado di esercitarlo, ha bisogno di organi che, “ nell’ambito della
loro competenza, incarnino solo una determinata frazione dell’in­
tero potere statale. ” 10 Che i singoli organi investiti di una parte
del potere statale siano obbligati a un reciproco equilibrio, che
sian ben dosati, che siano siffatti da controllarsi a vicenda, è cosa
che, tenendo conto delle dolorose esperienze del popolo, costituisce
un ovvio precetto di saggezza politica. Bodin, Locke e Montes­
quieu avevano portato questa saggezza alla luce della coscienza
umana. Troppo facilmente ogni potere prende la mano al popolo
dal quale pure è espresso; la sua superiorità consiste nell’essere
articolato e duttile, laddove il popolo è ancora informe sostanza

° Inno nazista. [N. d. T .]


u b e r (K i e l ), Reichsgewalt und Staatsgerichtshof, [Potere
Prof. E r n e s t R u d o l f H
ilei Reich e corte di giustizia di stato\ Stalling, Oldenburg, 1932.

165
L A T IR A N N ID E

originale. È un dato dì fatto, e non una semplice teorìa, come in­


vece sostengono i giuristi di corte nazionalsocialisti, che il potere
statale è, nella sua interezza, in mano al popolo. Benché si mani­
festino una serie di poteri politici, il potere dello stato, unito e in­
diviso, s’identifica con l’esistenza del popolo. La suddivisione dei
poteri aveva posto limite all’assolutismo dell’aristocrazia feudale;
certo, questa dominava l’esecutivo, ma d’altra parte era costretta
da leggi imbevute di spirito borghese, e, attraverso l’amministra­
zione della giustizia in cui erano penetrati i borghesi, infrenata
e controllata.
Dal momento che di avversari feudali la borghesia non ne ha
piu, potrebbe essa stessa raggiungere l’assolutismo, se inaspettata­
mente la classe operaia non pretendesse far di testa sua. E, poiché
questa, a partire dal 1918, s’era procurata accesso in primo luogo
al legislativo e poi anche all’esecutivo, alla borghesia poco serviva
di poter far conto sulla magistratura. La suddivisione dei poteri
tornava dunque a danno della borghesia, ponendo alla sua volontà
di potenza gli stessi vincoli che un tempo aveva essa imposto alla
volontà feudale-aristocratica.
Ecco perché le dottrine costituzionali nazionalsocialiste si
volsero a vituperare il principio della suddivisione dei poteri.
Poiché questo, oltre ai prevalenti interessi borghesi, rispettava an­
che quelli proletari, lo si accusò di voler minare l’unità del potere
statale, unità che il borghese intendeva come obbligo per il potere
statale di cedere alle istanze del capitale privato. Da questo punto
di vista, l’unità del potere statale era realizzabile solo a patto di
eliminare la divisione dei poteri; e dal momento che finora la
classe operaia s’era fatta valere attraverso l’esecutivo e il legi­
slativo, ne derivava che politicamente sarebbe stata paralizzata, non
appena si fosse negata l’indipendenza dei due poteri. L ’intero com­
plesso delle competenze legislative, esecutive e giudiziarie, si sa­
rebbe raccolto in un unico pugno: e allora la promulgazione delle
leggi, l’amministrazione, la giurisdizione sarebbero state intera­
mente sottomesse all’interesse borghese-capitalistico. “ Il reggi­
mento politico della cosa pubblica, richiamato in vita dal nazional­
socialismo è il potere che compendia tutte le funzioni e compe­
tenze civili, e garantisce l’unità del potere statale rispetto ai fram-

166
IL T O T A L IT A R IO ST A T O D E L L ’A R B I T R I O

mentarismi organizzativi e alle astratte differenziazioni. ” 11 Dal


potere politico del Fiihrer, legato agli interessi borghesi, proce­
dono tutte le singole funzioni dello stato. “ Il potere del Fiihrer si
manifesta in ugual misura nel campo della formulazione come
dell’applicazione e amministrazione della legge: la volontà statale
del Fiihrer determina e impregna di sé tutte e tre le funzioni. ”
Lo “ stato del popolo ” che cosi si crea, non è in realtà che lo stato
di polizia borghese.
L ’accentrato potere del duce supremo non ha controlli. Il con- <
trollo costituisce una limitazione che, se da un lato ne diminui­
rebbe la forza d’urto, dall’altro potrebbe servire a mascherare ten­
denze antiborghesi. Poiché il potere del Fiihrer ha sostanza bor­
ghese, il suo elemento è la sete di guadagno e la ricerca del pro­
fitto; ma in tale ambito tanto più rapidamente esso è preda alla
corruzione, quanto più libero si sa da controlli. La suprema Corte
dei conti ha esaurito la propria funzione: semmai pretendesse di
sminuire il potere del duce, i suoi magistrati imparerebbero a loro
spese, in quattro e quattr’otto, che il Terzo Reich evidentemente si
c vietata la scrupolosità e i riguardi che, in materia finanziaria,
erano nella tradizione prussiana. “ Non è concepibile che un fun­
zionario possa negare al Fuhrer quei mezzi che egli intenda im ­
piegare nelle sue funzioni di guida del popolo. ” 12 Ma altrettanto
liberamente dispongono delle casse dello stato i Fuhrer in sottor­
dine che, ai vari livelli della classe gerarchica, sono arbitri delle ri­
spettive giurisdizioni, e, sapendosi pubblici funzionari, si sentono
irresistibilmente attratti dal pubblico denaro. Han disimparato a
far di conto; nessuno chiede loro ragione di alcunché; essi attin­
gono al pieno; sostengono spese di rappresentanza, costruiscono,
concedono sovvenzioni, come gira loro pel capo; il denaro corre,
c costoro si considerano membri di quella comunità alla quale esso
é destinato. Eccoli, ad esempio, regalarsi pezzi appartenenti a col­
lezioni nazionali senza farsi il minimo scrupolo di metter le mani
sulla roba altrui; lo stesso Hitler preleva quadri e statue da musei
cittadini e statali. I Fuhrer si lasciano “ ungere” in proporzioni

" FI u h i -u , <>p. cit.


Ilti.lIN, op. cit.

167
«■svFWffljl

L A T I R A N N ID E

davvero sorprendenti: sposandosi Gòring, ecco l’industria obbli­


gata a offrirgli splendidi regali. Hitler è il maggior azionista della
Eher-Verlag; la rovina delle vecchie case editrici di giornali e libri,
assorbita dalla Eher-Verlag, aggiunta alla vendita forzosa del Mein
Kampf, moltiplicano i dividendi di Hitler: la pressione dei pub­
blici poteri fa fiorire la Eher-Verlag. Dietro la splendida facciata, il
Terzo Reich si cangiò nella palude di una immane corruzione:
l’industria bellica salassò lo stato, i funzionari arraffarono bottino
riscuotendo gli appannaggi da molteplici fonti, sotto forma di sti­
pendi statali, indennità, casuali, diarie, emolumenti per speciali
servizi resi alla SA, e alle SS, prelievi di cassa dai fondi del
Fronte del lavoro; altrettanto scarsa la loro capacità a risparmiare
il denaro proprio e quello pubblico; ben di rado accadde di veder
maneggiare più a cuor leggero il denaro del contribuente. Qua­
lunque forma di controllo rientra, infatti, nella categoria delle
“ mormorazioni, ” e il Terzo Reich le elimina, esso che pretende
di far la casa in piazza, si, ma senza che nessuno dica che è alta o
bassa.
Poiché il potere personale del Fuhrer incarna l’unità dello sta­
to, vorrebbe in pari tempo essere l’organo più diretto della vo­
lontà dello stato; esso pretende di dare alla volontà popolare espres­
sione più pura, chiara e continua, che non lo stato basato sulla
divisione dei poteri. “ Sento che nei paesi anglosassoni,” ebbe ad
affermare Hitler, “ molta gente si lamenta perché la Germania si
sarebbe allontanata da quei principi della costituzione statale de­
mocratica tanto venerati nei suddetti paesi. Opinione, questa, che
si fonda su un grosso errore. Anche la Germania infatti ha una
4costituzione democratica ’. ” Il regime nazionalsocialista sarebbe
insomma voluto dal popolo e si saprebbe responsabile di fronte
al popolo. “ In altri paesi, a un deputato toccano 5.000, 10.000,
20.000, 60.000 voti. ” Il popolo tedesco, dando 38 milioni di voti
a un singolo rappresentante, ha scelto come tale appunto lui, il
Fiihrer.
Il proprio del potere assoluto del Fuhrer nazionalsocialist:i,
consiste nell’essere in realtà il più affilato strumento di guerra ci­
vile del prepotere borghese, e tuttavia nell’aver sempre sulle lab
bra l’ingannevole affermazione del “ più profondo legame col po

168
... r r o v - r ------T .- — ; -v ........ 5 j n . T 7 . ^ T T " ^ ’T ^ 1'15"

I L T O T A L IT A R IO STATO D E L L ’A R B IT R IO

polo. ” Il quale legame viene dimostrato al mondo dai risultati dei


suffragi. Ma i suffragi in questione non devono celare rischi. Il
regime, assicurano di continuo i Fidarer del Terzo Reich, non se
ne andrà più, per nessuna ragione. E fra gli obblighi politici che
incombono alla potestà del duce, v’è anche quello di predisporre i
suffragi per modo che essi diano al mondo l’impressione di espri­
mere l’assenso del popolo, a questo la convinzione che se ne sia
chiesto il parere, ma in realtà escludendo ogni altra scelta all’in-
fuori del rassegnarsi, con pazienza e tolleranza, alla situazione vi­
gente. Il Fiihrer, è vero, fomenta l’illusione di essere egli respon­
sabile di fronte al popolo, e tuttavia qui si tratta “ non già di re­
sponsabilità nel senso che al popolo tedesco sia lecito deporre il
Fiihrer, perché questo equivarrebbe al concetto democratico-parla­
mentare della responsabilità. ” 13 L ’oligarchia borghese è il fulcro
dell’intero divenire; il popolo è il corpo delle comparse, chiamato
di tanto in tanto alla ribalta, a seconda dell’opportunità, perché
con la sua imponenza numerica favorisca la illusione ottica d’es­
sere esso la forza che in ultima istanza tutto muove, determina, de­
cide. Non è il popolo sovrano, quello che nei suffragi manifesta la
propria potenza: esso accorre come a un appello, e già in questo
li vela quanto misero e assoggettato sia. Il suffragio è una farsa;
i capi fascisti sono cosi sicuri della loro forza, da potere di tanto in
tanto correre il rischio di concedere, per un’intera giornata, libera
uscita ai loro schiavi, ai quali è stato cosi profondamente inculcato
il rispetto per l’autorità, che non produrranno guasto alcuno; sono
schiavi addestrati a non dare il minimo segno di resistenza, anche
se, per caso, ne sentissero il prurito. Il suffragio, lungi dal poter
portare alla luce vistose opposizioni al regime, deve conservare la
finzione di un popolo che unanime segue i suoi capi. È quindi ele­
mento sostanziale della regia dei suffragi il guardare le urne dai
vóti dell’opposizione: di questi semplicemente non si terrà conto.
. Il questionario è compilato in modo da stigmatizzare quale
traditore della patria chiunque si schieri con l’opposizione; e
basta che uno accetti la scheda, per trovarsi obbligato a seguire i
iapi, per essere già preso nella rete. La propaganda elettorale sot-

Ilo lIN , o p . C Ìt.

169
L A T IR A N N ID E

topone il popolo a una violenta pressione psicologica e morale;


essa mette in dubbio a priori l’onorabilità dei potenziali opposi­
tori, li sgomenta con oscure minacce: l’artiglieria pesante che con­
tro di loro vien messa in posizione, servirà ad intimidirli, a far si
che si sentano essi stessi traditori della patria e del popolo. Funzio­
nari d’ogni grado spargono la voce che ci sono i mezzi per pene­
trare il segreto elettorale; fino al giorno delle votazioni ondate di
implacabile terrore morale spazzano il paese. Nessun elettore avrà il
fegato di manifestare il proprio dissenso; ed ecco, il popolo è con­
dotto alle urne in tremebonde greggi che belano il loro collettivo
“ si. ” Se poi i risultati non sono soddisfacenti, si provvede a falsarli,
metodo inaugurato già in occasione delle prime elezioni del 5-3-1933,
e che vien messo in opera con sempre maggiore impudenza, fin­
ché, il 29 marzo 1936, non se ne fa più mistero: chi, per non dare
il suo assenso, ha preferito infilare nell’urna scheda bianca, deve
rassegnarsi a vedersi contato tra gli assenzienti. Milioni di indi­
vidui, accostatisi ai seggi elettorali quali “ nemici dello stato ” se
ne allontanano cangiati in “ sostenitori del regime. ” Le fonda-
menta della tirannide sarebbero infatti scosse, se essa ammettesse
ufficialmente di avere degli avversari: la falsificazione dei risultati
elettorali rappresenta una misura atta a garantirne la sopravvi­
venza. Perché, se mediante uno scrupoloso scrutinio accertasse di
aver contro il popolo, darebbe essa stessa a questo il segnale della
rivoluzione. La falsificazione dei risultati elettorali è uno dei mezzi
decisivi per il mantenimento del potere; maneggioni e brogliatori
sono validi pilastri del regime. I funzionari dello stato sono tra­
sformati d’ufficio in falsari; ed ogni suffragio serve a svelare la
sostanza del Terzo Reich: inganno astutamente tramato, mano­
vra diversiva. Laddove, per un motivo qualsiasi, il falso non riesca
e la reale forza dell’opposizione concretamente appaia alla luce
del sole, il regime si sente toccato nel suo tallone d’Achille, imbe­
stialito si agita convulsamente, si smaschera. Il 19 agosto 1934 più
del 5 0 % dei degenti del cattolico Marienhospital di Dusseldorf
vota contro H itler; ed ecco quanto si legge in una circolare diretta
dall’ordine dei medici di Dusseldorf ai suoi membri: “ Tale scru­
tinio rappresenta una vera e propria sfida alla categoria, alla cit­
tà, allo stato. I medici di Dusseldorf risponderanno a quest’attcg-

170
IL T O T A L IT A R IO ST A T O D E L L A R B IT R IO

giamento antitedesco col più deciso boicottaggio dell’ospedale, fino


a distruggerlo economicamente.” Chi vota contro, si rifiuta di
collaborare, e dunque va schiacciato: un principio della Gestapo,
che dappertutto ha fatto scuola; si tratta di un “ disertore, ” sog­
getto quindi alle leggi di guerra. È uno che si rifiuta di starsene
nei ranghi, quando si fa la rassegna delle schiere; la cosa salta
spiacevolmente all’occhio: o si piega alla disciplina, o si toglie
di mezzo. Fu cosi che il suffragio universale divenne, per dirla con
Engels, “ strumento per l’oppressione delle masse. ”
Peggiore ancora di chi dà un voto negativo, è colui che il
giorno delle elezioni se ne resta a casa. Il primo perlomeno ri­
sponde all’appello, perlomeno si lascia prendere nell’ingranaggio
del comando e dell’obbedienza; risponde, sia pure da oppositore,
al questionario. Il suo “ no, ” che alla fin fine il broglio trasfor­
merà in un “ si, ” è una mano stretta a pugno, si, ma solo nel se­
greto della tasca, e che non rappresenta alcuna minaccia.
Chi invece s’astiene dal voto, dà a vedere chiaramente che lui
non risponde alla domanda del regime, che lui non collabora, che
lui se ne sta per conto suo, che lui non c’entra affatto; egli in­
somma si palesa per combattente di un altro fronte. Chi non si
lascia addurre alle urne, non serve più nemmeno da comparsa e,
peggio, svela qual è il punto debole del regime. Se una forte per­
centuale delle masse popolari non rispondesse più all’appello, per
il regime sarebbe la bancarotta. Se la facciata democratica crol­
lasse, sfumerebbe l’incantesimo della grinta grossoborghese che
dietro ad essa si cela. “ Chi sa di pensarla bene, rettamente,” af-
ferma il professor Lange, “ non ha bisogno dell’approvazione del­
la maggioranza” : ma, non appena a ognuno risulti chiaro che la
maggioranza in questione non vuole aver a che fare col vigente
sistema, il gruppo, fattosi sparuto, di chi “ la pensa bene, retta­
mente,” si smaschera, in quattro e quattr’otto si rivela per una
i ricca di profittatori capitalistici. È cosi che chi s’astiene dal voto
diventa uno dei più pericolosi avversari del Terzo Reich; si danno
allora degli esempi, atti a intimidire: l’astensionista non deve tro­
vare seguaci. Il più delle volte, a questo “ dovere” provvederà il
"sano istinto popolare” nazionalsocialista, mentre la stampa ne
darà notizia a monito dei “ malintenzionati.” “ Masse popolari ec-

171
X ,A T IR A N N ID E

citate ” si raccolgono davanti alle abitazioni degli astensionisti, che


a volte sono trascinati per le strade, costretti a portare, sulla schie­
na e sul petto, cartelli con la scritta, “ Sono un porco : non ho
votato.” L a polizia arresta gli zimbelli per ragioni di sicurezza:
esemplare davvero la serietà con cui le autorità provvedono alla
libertà e segretezza del voto, da loro stesse espressamente garan­
tite. L ’astensionista ha dato un esempio pericoloso: ha dimo­
strato che magia e incantesimo nazionalsocialisti han chiari limiti,
e che sono vani, ogniqualvolta incontrino un uomo cui non
manchi il coraggio civile; contro chi abbia una spina dorsale, il
Terzo Reich, per ragioni di autodifesa, è inesorabile.
Si è voluto vedere, nel Terzo Reich, la realizzazione dello stato
totale, poiché esso eliminava la suddivisione dei poteri e, abban­
donato il terreno della rigorosa legalità, inaspriva a onnipotente
tirannide il cesarismo, la monocrazia, portava alle estreme con­
seguenze la centralizzazione dell’organismo politico, estirpava i
diritti dell’individuo, regolava i rapporti fra lo stato e il singolo
non più quali condizioni giuridiche. Questo modo di vedere, però,
non tiene affatto conto di quel che, in realtà, lo stato è secondo la
propria nozione: macchina impersonale, la quale fissa limiti quan­
to mai precisi alla libera discrezione e funziona in maniera pre­
vedibile, in ragione delle norme e leggi cui è legata, e regola anche
la tutela del diritto privato, in maniera che entro certi limiti, non
tange la “ sfera extrastatale. ” A l contrario, lo “ stato totale ”
sarebbe quell’organismo che, sopprimendo la libera discrezione,
non lascerebbe sussistere ambito alcuno che non fosse investito
dalla normatività della legge: stato che insomma cassa la sfera
extrastatale, non però i diritti del singolo: diritti che, fondati sulla
legge ed esattamente formulati, avrebbero la stessa ferma intoc-
cabilità dell’universale dominio della legge; stato che quindi non
escluderebbe l’esame, da parte dei suoi organi amministrativo-giu •
diziari, di iniziative politiche individuali, a volte magari inevitabili;
piuttosto, è nella sua logica di non deviare di un ette dallo spirilo
dell’inderogabile legge. Il Terzo Reich è, per quel tanto che è uno
stato, stato dell’arbitrio: la natura dello stato totale non consiste
affatto nel dischiudere in ogni campo le cateratte dell’arbitrio.

172
IL totalitario stato d ell ’arbitrio

L ’esercizio dell’arbitrio senza legge da parte dello strapotente dit­


tatore, è totale anarchico terrore, non già stato totale.
L ’ideologo di partito Alfred Rosenberg non era del tutto di­
giuno da tali considerazioni, se nel gennaio 1934 espressamente
negò che il Terzo Reich fosse uno “ stato totale.” Si sarebbe, egli
sosteneva, perso di vista “ che lo stato astratto fu solo un’idea del-
l’cpoca liberale e, quale strumento tecnico del potere, presentato
come alcunché di autonomo accanto all’economia e alla cultura, e
ili conseguenza adorato ovvero, da altre correnti, aspramente com­
battuto. ” L a “ rivoluzione del 30 gennaio 1933 ” non sarebbe per
niente la continuazione, sotto altri segni, dello stato assolutistico.
" Lo stato non è piu un qualcosa che deve sussistere accanto al
popolo e accanto al movimento, vuoi quale meccanismo e appa­
ialo, vuoi quale strumento di dominio, ma è l’organo della Welt-
anschauung dominante del nazionalsocialismo.” Non bisogna
1 he “ il concetto di stato torni a far centro su se stesso. ” Sono la
Wcltanschauung e il movimento nazionalsocialisti “ che rivendi­
ta no il diritto alla totalità.” D i quella Weltanschauung, di questo
movimento, “ lo stato è a disposizione, come lo strumento piu po­
lente e piu gagliardo. ” Conviene quindi non “ più parlare di stato
Inlale, bensì dell’insieme (totalità) della Weltanschauung nazional­
socialista della N SD A P, come corpo di questa Weltanschauung,
e dello stato nazionalsocialista come strumento di difesa dell’ani-
iiiii, spirito e sangue del nazionalsocialismo, inteso quale manife­
stazione dell’Era che ha avuto inizio nel ventesimo secolo.”
Totale, dunque, è la Weltanschauung, la fede secolarizzata:
il Terzo Reich è edificato secondo i principi informatori d’una
mmunità religiosa, statalmente organizzata. Esso è, per costi-
lil/,ione, una chiesa mondanizzata. Ideologie e atti di fede esal­
timi) il vigore delle anime, chiamano a raccolta gli zelatori. L ’in-
lilesse della grossa borghesia, vestendosi della Weltanschauung
11,1/i<malsocialista, mobilita a suo prò’ lo zelo dei bigotti, il fana­
tismi) dei missionari. Contro la oligarchia feudale-aristocratica, la
linigliesia agi con le leggi dello stato; la base proletaria, essa vuole
1 niltingerla ad abbandonare il campo, facendo propria l’intolle-
Mli/.a della chiesa. Sono di conseguenza le forme organizzative
della chiesa cattolica il modello di proposito seguito. N el suo

173
L A T IR A N N ID E

scritto Dcr Staat in nationalsozialistischen Weltbild [Lo stato nella


concezione nazionalsocialista], l’ex-presidente del consiglio N i­
colai precisa quali, fra le istituzioni cattoliche, sono state prese a
esempio dallo stato nazionalsocialista: “ i) L a preminenza epi­
scopale del papa, quale archetipo del massimo e assoluto potere
del duce; 2) Il clero, quale archetipo della guida psicologicamente
adatta al popolo per mezzo della direzione politica della N SD A P ;
3) Il collegio dei cardinali e il capitolo della cattedrale, quale ar­
chetipi per l’organizzazione degli organismi consultivi. ” In tali
istituzioni cattoliche si incarna “ il concetto dell’autorità del go­
vernante, che è servito da modello al principio cesareo nazional­
socialista. ” Non meno cattolico è “ il concetto dell’immutabilità di
un dogma trasposto nel programma della N SD A P. ” L ’origine cat­
tolica di Hitler dà l’impronta all’ “ idea dello stato ” nazionalso­
cialista; il cattolicesimo nella sua forma secolarizzata, nazionalso­
cialista, rende cosi pan per focaccia al protestantesimo per gli scac­
chi che gli sono stati inflitti, su suolo tedesco, come organizzazione
religiosa. Hitler si ritiene un infallibile papa politico; i suoi fun­
zionari si comportano da sacerdoti consacrati, le somme gerarchie
quali cardinali e preposti. “ Si deve fin d’ora richiamare l’atten­
zione sul fatto, ” affermò in una sua circolare il direttore gene­
rale del personale, Neef, “ che l’organizzazione dei funzionari se­
gue il sistema della chiesa cattolica, la quale unisce i fedeli in una
grande comunità, nel cui ambito però gli atti ufficiali spettano
unicamente ai sacerdoti consacrati. Tali sono, nella ricostruenda
comunità di funzionari, i membri della N SD A P. ”
A ll’apostata, la chiesa non concede diritti, indulgenza, pietà:
lo maledice e bandisce, implacabilmente ne persegue la distruzio­
ne. Altrettanto fa il Terzo Reich con chi rifiuta l’inquadramento
nell’ordine fascista.
Il valore dell’individuo, le sue capacità, la sua dignità, perdono
ogni valore; solo la rettitudine della fede gli vien contata a me­
rito. E se egli si mostra tiepido, vuol dire che è maturo per la
dannazione. Ed è significativo che questa formazione politica si
dia un nome dal sapore escatologico: il “ Terzo R egn o” era, nel
medioevo, il compendio delle speranze finali degli uomini esaltati
dalla fede. Le fantasticherie del profeta calabrese Gioachino da

174
IL T O T A L IT A R IO ST A T O D E L L ’A R B I T R I O

Fiore rifanno capolino nell’idea del Terzo Reich: le stesse estasi,


la stessa sconfinata aspettativa spirituale, che furono madrine di
quella repubblica romana che infiammò tanto Cola di Rienzo
quanto Petrarca.
Tuttavia, la chiesa nazionalsocialista del Terzo Reich non oc­
corre che provveda a prendere in prestito un braccio secolare:
questo organicamente le appartiene come proprio membro. Essa
stessa scomunica e insieme abbrucia; i suoi soldati della fede mi­
litano tanto in senso spirituale che corporale, combattono con armi
materiali oltreché morali. Il “ militante politico ” è una specie di
gesuita, un soldato della fede, ma lo è doppiamente, poiché di­
rettamente maneggia la spada temporale. Il fedele è anche e in
pari tempo in servizio militare; il Terzo Reich non è che un unico
immenso accampamento; e, qualora il funzionario non sia sa­
cerdote della Weltanschauung, sarà perlomeno un superiore mi­
litare. Non esiste più il libero cittadino; come il capitano può
spedire agli arresti le reclute senza nessuna formalità legale, cosi
la Gestapo danna alla galera. Saper tenere la bocca chiusa diventa
la massima virtù, e l’obbedienza cieca l’amara sorte che a nessuno
è risparmiata. La oligarchia nazionalsocialista non tollera obbie­
zioni; ognuno deve, esteriormente e interiormente, vestire la di­
visa, sicché smetta il vizio di voler essere qualcosa di particolare.
Ne consegue che il Terzo Reich è una mostruosa sintesi di
Roma e Potsdam, di chiesa e accampamento, di pulpito e caserma,
di curatori d’anime e sergenti, di pretume e “ naja, ” di catechi­
smo e frusta, di-dogmatica e cieca obbedienza. Tutti la pensano
allo stesso modo, e tutti fanno le stesse cose. Roma e Potsdam per­
vengono, in questa sintesi, alle loro estreme conseguenze. Lo spi­
rilo viene addestrato come il corpo dell’uomo; tramontata ormai
è la Prussia di Federico II, la quale almeno permetteva a ognuno
ili essere felice a modo suo. Si diventa uniformi, spiritualmente
come fisicamente; si è fisicamente vessati, spiritualmente tenuti al
^uii'izaglio. E se non esiste più una sfera extrastatale, allo stesso
modo cessa di esistere, se così si può dire, addirittura una zona
umana; in ogni momento si è guidati o comandati, ammoniti o
rimbrottati, non c’è momento in cui non si debba cadere in gi­
nocchio o scattare sull’attenti, pregare od obbedire. Nemmeno per

175
L A T IR A N N ID E

un istante si è più liberi di disporre di se stessi, non si è più uo­


mini. Il popolo è solo uno stupido gregge di ciechi, fanatici, dis­
sennati, di reclute ossequiosamente striscianti. Le masse s’umiliano
allo stivalone militare o alle insegne del partito: è cosi che si alle­
vano schiavi fedeli, “ eroi ” scervellati.
Il giuramento prestato dai funzionari di partito e di stato, se
da un lato è un sacro impegno contratto coi profeti della nuova
fede, la Weltanschauung nazista, dall’altro è il “ giuramento alla
bandiera prestato dal militare politico. ” Non si giura fedeltà alla
costituzione, alla patria: ci si vota a quell’essere umano, quanto
mai dubbio, che è Adolfo H itler; la fedeltà sarà assoluta, incondi­
zionata l’obbedienza, e il giuramento impegnerà per tutta la vita.
Questo stato ecclesiastizzato, questo cesaropapismo, non sono
né germanici né tampoco nordici: sono orientali, bizantini, siriaci,
asiatici. Solo un guazzabuglio razziale privo di dignità e di orgo­
glio, povero d’istinti quale il popolo tedesco, può lasciarsi costrin­
gere in forme politiche cosi infamanti.
Il cesaropapismo nazionalsocialista reca i tratti della teocrazia
ebraica e dei sultanati islamici; l’ombra di Maometto, alla quale
Hitler sacrificava già nel suo Mein Kampf, aduggia il Terzo Reich.
Si parla, è vero, ancora di stato, di libertà, di legge; ma tali
venerabili espressioni assumono un diverso significato. Dal preme­
ditato palliamento di tale significato, procede quella pesante atmo­
sfera di disonestà che grava sul Terzo Reich.
Il tallone d’Achille dello stato legalitario weimariano era rap­
presentato dall’articolo 48 della costituzione, che dava facoltà al
presidente della repubblica di prendere le misure atte a ristabilire
l’ordine e la sicurezza, e quindi a invalidare “ temporaneamente ”
alcuni fondamentali diritti.
L ’articolo, dunque, veniva a concedere un certo gioco all’ar­
bitrio della suprema autorità dello stato, gioco che, a causa del ­
l’imprecisione dei suoi limiti, costituiva una forte tentazione p e l ­
le tendenze sovvertitrici. Ebert non sempre seppe respingere la
tentazione, e Hindenburg, ispirato da Briining e da Papen, con
siderava l’articolo 48 quale la componente fondamentale dell’in
tera costituzione. Per cui Hitler aveva dei precursori in fatto di
“ fedeltà alla costituzione, ” che gli insegnarono come ci si potesse

176
IL T O T A L IT A R IO ST A T O D E L L ’A R B I T R I O

sbarazzare, pur col pieno rispetto delle forme, dei molesti obblighi
verso la legge fondamentale dello stato. Hitler rese “ totale ” l’arti­
colo 48 : formula elevata a significato universale, che esaurisce l’in­
tera costituzione del Terzo Reich. Cosi avvenne che il dominio del­
la legge fosse sostituito dal dispotismo di un uomo. L ’articolo 48
era, in un certo senso, la porta attraverso la quale potevano irrom­
pere i conquistatori del popolo tedesco, per ridurlo in tirannica
servitù.
E il partito, infatti, si considerava un’orda di conquistatori,
un “ ordine dominante ” ; gli “ ex-combattenti ” costituiscono la
nuova nobiltà : schierandosi con Hitler, manifestano il loro “ no­
bile sangue nordico, ” e Hitler è il mago che, con mistiche for­
mule, sa portare quel sangue a bollore, non appena lanci il suo
appello. Chi non lo accolga subito o affatto, vuol dire che non è né
un chiamato, né un prescelto. Il conquistatore nazionalsocialista
usa dello stato nel senso del Principe machiavellico: lo stato per
lui è l’apparato di dominio capitatogli tra le mani, col quale doma
e opprime i sudditi. Per preservare tale macchinario, grazie al quale
si regge e con cui cadrebbe, gli è lecito ripudiare tutti i doveri
della lealtà, misericordia, verità, umanità, religione. E cosi si chiu­
de il cerchio e si compie il ciclo: al tramonto dell’epoca borghese,
ricompaiono gli stessi feroci despoti che all’alba dell’epoca, nel
Rinascimento, con la violenza, il ladrocinio, l’assassinio avevano
conquistato e tentato di conservare il potere.
N é il partito fa mistero di questo suo carattere banditesco;
“ noialtri abbiamo conquistato lo stato, ” afferma, e assicura che
non si lascerà più sfuggire la preda: “ Quando avremo in nostre
mani il potere, ” ammette Goebbels in un suo articolo del 6 ago­
sto 1932, dal titolo Dalla Corte del Kaiser i}lla cancelleria del
Reich, “ mai più lo cederemo, a meno che non ci si voglia tra­
scinare cadaveri fuori dpi nostri uffici. ” Son gli stessi nazisti a dire
clic, per liberarsi di loro, bisogna sopprimerli; essi sono “ i fon­
datori di un nuovo stato, ” essi dan vita a “ un nuovo ordine, ” non
sono semplicemente degli “ eredi. ”
L ’educazione della nuova generazione viene organizzata a mo’
di allevamento d’una casta signorile; accolti nelle “ Ordensbur-

177
L A T IR A N N ID E

gen, ” ” i prescelti cresceranno a una dura scuola, preparandosi


all’ “ ufficio di duce. ” Le Ordensburgen sono una via di mezzo
fra il seminario e l’accademia militare. “ Non è certo mia inten­
zione, ” affermò Ley, “ quella di allevare un nuovo sacerdozio:
il mio ideale è il soldato politico, il quale compendi in sé la qua­
lità di milite e di predicatore. ” D all’Ordine, si assicura nel circolo
dei fedeli di Ley, “ non si può uscire. “ Chi intenzionalmente lo
abbandoni, sarà distrutto lui e tutti i suoi familiari. ” Per metterla
con altre parole, non può esser lecito a chicchessia ridire ciò che
non deve.

18 Fortezze dell’Ordine: istituti per l’educazione politica della futura élite nazio­
nalsocialista. [N. d. T .]
14 V. la “ Schleisische Volkszeitung ” di Breslavia del 28 aprile 1956.

178
Capitolo quindicesimo

I personaggi

Si danno, nel corso della storia, certe basse funzioni che pos­
sono essere solo di uomini infimi essi pure nello stesso senso e mi­
sura: uomini nati per le “ bassezze” che si devono compiere, cosi
come, in tempi migliori, altri erano nati per nobili imprese. “ Ogni
periodo, ” scriveva Helvetius, “ ha i suoi grandi uomini e, quando
non li abbia, li inventa. ” Se il periodo storico impone compiti in­
fami, delinquenti e canaglie possono assurgere a personaggi politici.
L ’ordine borghese ha perduto la sua naturale autorità, non è
piu nel fiore delle forze; più non desta entusiasmi, più non trova
abnegazioni. È scosso da febbri, geme pus, il cancro ne rode le
viscere; solo con la malizia può ancora conservare la propria auto­
rità, e deve mascherarsi, imbellettarsi, ingannare, recitare, perché
gli sguardi non penetrino la cruda indecenza del suo interno mar­
ciume. E tuttavia, nonostante la pompa esteriore, non sempre è
cosi accorto da non svelare inopinatamente il proprio sudiciume,
la propria debolezza. G li occorrono uomini abietti, capaci di in­
durre all’obbedienza spargendo il terrore, ha bisogno di saltim­
banchi, truffaldini, ciarlatani che montino l’imbroglio con cui getta
fumo negli occhi di tutti, è costretto a tollerare i foschi figuri che
ne manifestano la putredine.
Il Terzo Reich è la cura violenta, mediante la quale la società
borghese vorrebbe riprendere la perduta autorità, la falsa facciata
col cui aiuto conta di acquistarsi nuovo prestigio; ma col Terzo
Reich essa si smaschera mentre tenta di nascondere la sua sinistra
abiezione. I potentati nazionalsocialisti simboleggiano, nella loro
umanità, ciò che la società borghese in sostanza pretende dal Terzo
Reich, mostrano come essa, nel Terzo Reich, riveli inevitabilmente
la propria natura. Se è vero, come afferma Nietzsche, che nel corso
della storia umana in genere le cose dipendono dai grandi crimi-

179
L A T IR A N N ID E

nali, “ ivi compresi quei molti che, pur capaci di un delitto, per
caso non lo commisero” : se questo è vero, è certo che la “ nuova
epoca” era la grande stagione per le nature criminali; e in aiuto
di esse tutte venne il felice caso d’un nazismo che favoriva la feccia:
bisognò essere sostanzialmente bacati, moralmente sbandati, per
trovare accoglienza presso l’oligarchia dominante.
N ulla forse rivela in maniera più palpabile lo sbandamento
spirituale, il disfacimento del senso morale, il turbamento di sen­
timenti e istinti, i vaneggiamenti e l’alterazione del rapporto con
la realtà, di cui son preda i ceti borghesi tedeschi, meglio del loro
inspiegabile difetto di capacità fisionomica, della loro generale in­
sensibilità all’univoco linguaggio dell’umano sembiante. N ei volti
dei suoi governanti si riflette l’essenza del Terzo Reich; in quegli
sguardi vacillanti, in quei crani fantasticamente o ridicolmente
deformi, si indovina la realtà di un tempo sconvolto.
Grazie alla cinematografia, oggi si è in grado di aver sott’oc-
chio la “ vera immagine ” degli uomini del giorno. Il film ci pre­
senta i governanti responsabili nelle situazioni più varie, da soli o
in gruppo, fermi o mentre si muovono, che parlano o gestiscono:
uomini che non si sono messi in posa, individui allo stato natu­
rale, che perciò mettono a nudo il “ fondo ” dell’animo loro.
Con spaventosa pervicacia, la feccia nazista si rivela alla luce
del sole. “ L ’aborto ridicolo... fatto di melma e fuòco, ” 1 lungi dal
costituire eccezione, errore, è anzi tipo dominante; ciascuno an­
nusa nell’altro il “ suo simile. ” Difficile trovare qui chi non porti
in fronte il marchio di passioni rovinose, di abiette intenzioni, di
animaleschi eccessi, della nullità; non v’è chi non sia in qualche
modo un “ sicario della Verna12” ; e, se ancora nessun assassinio gli
si può ascrivere, o ne sarebbe capace, o potrebbe averlo commesso.
Ed è proprio quest’impronta di bassezza il segno segreto che dà
adito alla cerchia degli iniziati. Quando questi sono riuniti, Fuhrer
accanto a Fuhrer, paladino accanto a paladino, ministro con mi­
nistro, funzionario con funzionario, vedi disporsi come una sara­
banda di spettri, larva accanto a larva, genia infernale dalle tene­
bre salita alla luce del giorno. In quelle adunate sono rappresen-
1 G o e t h e , Faust. [N. d. T .]
2 Tribunale segreto medievale. \ N .d .T .]

180
I P E R SO N A G G I

tati tutti i tipi di esistenze sballate: un panorama di torvi cipigli,


volti di ottusi carnefici, maschere demoniache, lo spurgo bizzarro
e sconvolto, la loia dell’umanità.
Indipendentemente dalle persone investite delle fondamentali
funzioni d’una comunità, esse funzioni vogliono in ogni caso es­
sere assolte. Certo, vi sono delle differenze: si può assolverle infat­
ti con serietà, competenza, coscienza, attento scrupolo, ampia vi­
sione delle cose, ovvero con superficialità, meschinità, dilettantismo,
impreparazione, pignolesca miopia. Il sacerdote può essere una
guida spirituale o un pretaccio settario; il soldato un difensore dei
sacri principi o una belva prepotente, assetata di sangue; il giudice
un servitore della giustizia o il mercenario dei potenti; il pubblico
funzionario un curatore dei comuni interessi, o un briccone senza
scrupoli; il poliziotto il guardiano di un ordine legale, oppure lo
sbirro, lo spione, lo strumento dell’arbitrio, il carnefice della liber­
tà; il politico un cultore di machiavelliche sottigliezze o un
gangster senza coscienza. L ’uomo politico può sentirsi organo di
una ragione istituzionale, sia questa della sua condizione, del suo
stato, o ancora della sua classe; e, se una “ causa” ne ha preso l’a­
nimo, egli potrà arricchire, sempre però conservando le mani pu­
lite; ma potrà anche essere un volgare predone, un tagliaborse
avido di bottino. Può semplicemente dominare le cose perché se
ne intende, ma anche essere un miserabile ciarlatano che coi suoi
strani intrugli arreca danno laddove era chiamato a “ guarire. ” I
potentati nazionalsocialisti assolvono le fondamentali funzioni so­
ciali e politiche con caricaturale eccesso: a predicare è un fanatico
dal cervello in bollore; a dare ordini, un sadico testardo; a emanare
leggi, un venduto; ad amministrare, un intrigante malintenziona­
to; a impartire direttive, uno sbirro cui ha dato di volta il cervello;
a far della politica, un incendiario e un tagliagole; a reggere la
cosa pubblica, un folle privo di controllo. È nei ceffi da forca dei
reggitori del Terzo Reich, che questa sentina del vivere civile trova
espressione.
L a caratteristica più saliente di questi uomini è che il loro
aspetto, ciò che si palesa nelle loro figure, il significato delle loro
fisionomie sta in aperto contrasto con l’etica tradizionale dei posti
ili responsabilità che essi occupano; come persone e per ciò che

181
L A T IR A N N ID E

essi appaiono, sono spesso l’opposto di ciò che pretendono di rap­


presentare. L a loro persona, impronta del loro spirito, nega la
tendenza e l’intimo significato delle dignità di cui sono investiti:
contraddizione che getta una fosca luce sulla struttura dell’orga­
nismo statale, le cui funzioni vitali sono gravemente turbate, nel
cui contravvenire alla propria logica organica si rivela la corruzione
dell’intero corpo sociale. Nella canzone di Horst Wessel, l’inno
nazionalsocialista, la linea melodica scende, proprio mentre nel
testo si parla di salires; allo stesso modo avviene con tutti i “ pro­
grammi di ricostruzione,” con tutte “ le misure e gli atti saluti­
fe r i” : ottimistiche vociferazioni, contraddette dalla realtà del ra­
pido decadere della società borghese tedesca. Le funzioni basilari
dell’intero organismo economico ne negano la sopravvivenza, or­
mai non ne sono che gli spasimi d’agonia. Perciò il potere cadde
in mano a uomini i quali,- vista la loro natura, non potevano che
farne cattivo uso.
Questi “ uomini del popolo ” ribadiscono le catene al popolo,
e intanto lo lisciano e lo vezzeggiano; questi “ profeti della liber­
t à ” lo riducono in schiavitù; gli “ apostoli della pace” organizza­
no la guerra, i “ socialisti ” restaurano il capitalismo, gli “ ideali­
sti ” si crogiolano nella corruzione, e gli stessi che hanno promesso
pane, evocano la carestia. G li uomini che stanno al vertice dello
stato non sono che provocatori, pronti a dar fuoco a pubblici edi­
fici, per avere il pretesto di mandare a morte degli innocenti;
esaltano se stessi quali uccisori di draghi, ogniqualvolta siano
riusciti a schiacciare un debole il quale, alle loro armi, al loro
apparato di forza, non possa opporre che la forza del proprio
carattere; di regola attribuiscono alle loro vittime i crimini di
cui essi si son macchiati. Esattamente come, prima di essere riu­
sciti a impadronirsi del potere, buttavano all’aria i comizi degli
avversari, per fornire la prova che il loro movimento si trovava
nella necessità di difendersi da solo, cosi ora scatenano guerre
civili in paesi stranieri, per persuadere altri che il loro inter­
vento è necessario allo scopo di ristabilire l’ordine. Per ogni dove

8 Die Fahne boch / Die Reihen jest geschlossen (In alto la bandiera / saldamente
raccolte le schiere.)

182
i ; r ^ ‘*rr? 7

I P ER SO N A G G I

provocano disordini, per procurarsi il modo di metter radici in


veste di tutori dell’ordine.
N ella fisionomia dei reggitori del Terzo Reich, si riflette il
travolgimento di tutti i rapporti, ed appare manifesto come rin ­
fililo diventi il primo, e come le pecore siano affidate da guar­
dare ai lupi.
L a gioventù tedesca, i suoi sogni e aneliti, spirito d’avven­
tura e curiosità, schiettezza e ardore, inesauribilità e disponibi­
lità, trovano il loro “ uomo di punta ” nella specie di un gau­
dente gonfio e lustro, uno gnocco di grasso dall’aspetto eunucoide,
il quale si è scelto la professione dell’eterno “ giovane hitleria­
no. ” L a figura di Baldur von Schirach è davvero un programma:
cosi il Terzo Reich vorrebbe la sua gioventù, cosi innocua e cosi
logora, pieghevole come un cinedo e scrupolosamente levigata.
Ma Schirach è, d’altra parte, anche un sintomo: ché, se questa
gioventù, fra la quale prospera il vizio omosessuale, non fosse già
corrotta fin nel midollo, a dispetto della dittatura, se lo scuote­
rebbe di dosso.
Se Schirach non è affatto un “ giovane tedesco, ” altrettanto
poco è Darré un contadino tedesco. Darré è un contadino da
caffè concerto; lui non lavora le zolle, si limita, semmai, a ro-
inanticizzare la fatica dei campi, e ritiene che l’essere contadino
consista nel vestire un antico costume e nell’intrecciare danze po­
polari. Egli ha preso in appalto la mistica del sangue e del suolo,
c pretende per sé il diritto civico della remota antichità tedesca,
essendo egli un dolicocefalo dalle normali misure nordiche. Die­
tro il suo “ b e l” viso, non v’è che vuotaggine, fumo, arroganza:
lineamenti nei quali non v’è niente della pesantezza e impene­
trabilità della terra, bensì soltanto la levigatezza dell’asfalto senza
misteri. Darré non è che il dirigente operativo d’un monopolio
capitalistico, cui sia stato affidato il “ dipartimento agricoltura; ” il
" carrozzone ” di cui è alla testa, ha come scopo quello di ripor­
tare i contadini alla schiavitù della gleba. Egli non guida: vessa
il villaggio; rievoca le tradizioni del contadino, allo scopo di man­
darlo in rovina. L a legge nazista sull’indivisibilità ereditaria del
fondo non è un’ancora di salvezza, ma una remora. Il “ Fiihrer
dei contadini, ” Darré, simboleggia il fatto che nell’ambito del-

183
L A T IR A N N ID E

l’ordinamento capitalista il contadino tedesco ha perso ormai la


bussola ed è caduto tra le grinfie di falsi profeti.
Singolare coincidenza: la mistica del sangue, del suolo e della
razza nordica di Darré è condivisa e fatta propria dalle SS e dal
loro capo Himmler. L a gleba tedesca, rinnovata dal nazismo,
deve tollerare il contatto con la polizia segreta. Il romanticismo
agricolo di Darré e quello poliziesco di Himmler traggono ali­
mento dallo stesso concime nordico; Darré dirige e regola l’agri­
coltura coi metodi di un poliziotto, e Himmler falcia chi fa di
testa sua, come un contadino le messi. Himmler, capo supremo
delle forze di polizia, è un uomo privo di istinti d’ordine, che
pretenderebbe, mediante sterilizzazione, di depurare il sangue
tedesco da tutte le componenti non germaniche, e fantastica di
notti di S. Bartolomeo. Il suo volto manca completamente di
coerenza: sotto le ciglia s’acquatta un furetto; sopra le ciglia al­
manacca un professorucolo piccoloborghese. E, mentre il fu­
retto s’ubriaca di sangue, il professorucolo sforna assurde ideo­
logie.
Altra testa i cui tratti rivelano la stessa sete di sangue è quella
di Hess, il vice-Hitler. Costui ha l’aria di un uomo che cammini
sui cadaveri, e il tono di voce cantante e patetico cui fa ricorso
aumenta le diffidenze che invece egli vorrebbe acchetare. Hess
porta, nelle supreme gerarchie statali, l’atmosfera di un antro
di briganti levantini.
Ley non è affatto il lavoratore, ma solo un lavativo scansa­
fatiche; Rosenberg non è il filosofo: è un pollo frenetico che
leva gran schiamazzo per un minuscolo granello. Goebbels vor­
rebbe passare per la lingua dello spirito tedesco: è un bastardo
malnato che con tedesca pesantezza, impunemente e cinicamente
inscena le arlecchinate più sanguinarie. Mai forse la fola della
purezza nordica fu più sfacciata beffa, di quando questo tristo
nanerottolo magnificò la razza germanica davanti a una schiera
di statuari uomini delle SS.
Frick, ministro degli interni, il quale approfitta della sua
lunga pratica di burocrate per versare in ogni ingranaggio della
macchina burocratica la sabbia dei “ vecchi combattenti,” ha
l’aria di un pedante monomane; per la bocca di Streichcr, colui

184
I P ER SO N A G G I

che vigila sulla purezza del sangue tedesco, grugnisce il porco;


e Lutze non incede quale il comandante di un’armata rivolu­
zionaria, ma trotterella umile come un soldatino in divisa bruna.
Si potrebbero esaminare i connotati dei capifila dell’oligar­
chia nazionalsocialista, uno a uno: ministri e Gauleiter, capi­
sezione e capi della polizia, funzionari e commissari del Reich:
in ben pochi tra loro si riuscirebbe a rintracciare tratti umani.
Ma tutti i bassi demoni che fan capolino nel volto dei “ pala­
dini ” sembrano compendiarsi in due fisionomie, quella del brac­
cio destro di Hitler, Gòring, e quella di Hitler stesso.
Gòring appartiene a quel tipo d’uomo di flaccida comples­
sione e viscido aspetto cosi comune sotto il nazionalsocialismo;
tale era stato Rohm, e allo stesso tipo appartengono Schirach e
Blomberg, Hitler ne è un esemplare. Si tratta di uomini che fan
mostra di virilità, di eroiche qualità, mentre le loro forme si
sciolgono nell’indistinto, nella mollezza femminile; nel loro sfog­
gio di virilità, si sazia il bisogno di affermare la propria maschi­
lità; non sono uomini che si danno semplicemente a vedere per
tali, ma “ ragazzi ” che si mettono in vista con insolenza. L i vedi
dediti senza tregua, in modo alquanto femminile, a ciò di cui
l’uomo vero consiste, quasi anelassero al “ vero uomo, ” proprio
come fa la donna. Per mostrarsi maschi sentono il bisogno di far
la ruota, come se non fossero ben sicuri di esserlo.
Gòring s’è assunto il ruolo del guerriero furibondo, dell’uomo
d’azione cui ogni cosa riesce, per il quale niente è impossibile,
capace di ripulire qualunque stalla di Augia, e al quale il Fiihrer
può affidare i compiti più ardui. Fa tutto lui: prepara incendi
e assassini, costruisce l’aviazione, scova materie prime dai nascon­
digli più impensati, organizza la miseria tedesca, a Natale fa
venire a sé i pargoli. H a a sua disposizione un gigantesco appa­
rato, di cui si serve senza limitazioni di sorta; non soggiace ad
alcun controllo, e non risparmia denaro. Naturalmente, a questo
modo qualcosa “ combina. ” Non che sia un “ uomo forte, ” ma
come tale si comporta; e poi nei momenti decisivi, ha sempre
pronta la siringa di morfina. Poiché non si fa scrupolo di scate­
nare l’intera macchina repressiva dello stato contro un solo av­
versario, logico che lo si tema. Con lui, bisogna essere pronti a

185
L A T IR A N N ID E

tutto: chi gli dà un consiglio, non sa mai se sarà colmato di fa­


vori o incarcerato quale nemico dello stato. Hitler non lo perde
d ’occhio un istante: Gòring è infatti il procuratore della reazione
industriale e militare; e, se dovesse accadere che la reazione ne
abbia abbastanza di Hitler, Gòring non esiterebbe un istante a
mettere alla porta il suo Fuhrer e a prenderne il posto. Ma senza
Hitler, questo lanzo non sarebbe stato niente; se avesse dovuto
contare solo su se stesso, sarebbe scappato a gambe levate al mi­
nimo segno di pericolo, come del resto ha già fatto nel 1923. In
un’unica cosa crede: nella necessità di salire sempre più in alto.
Vuol essere un idolo di fronte al quale tutti cadano in ginocchio;
la pompa e il lusso di cui si circonda, i titoli e le cariche, le uni­
formi e le medaglie di cui fa sfoggio, le imprese e i progetti, la
sua neroniana prodigalità servono a dargli quel lustro col quale
vuole abbagliare le masse.
Il potere che egli esercita ha esasperato quanto di dissoluto
si celava da sempre in lui. Cosi Gòring diviene qualcosa di più
del semplice villan rifatto tedesco, reso insopportabile dalla pro­
pria prosopopea: perché Gòring non è solo rozzo e grossolano,
ma anche maligno. Si può vederlo alle adunate, dove, con quel
corpaccio disfatto e il testone pesante, fa le sue fiabesche appari­
zioni: un bestione, uscito da chissà quale primordiale palude,
la cui presenza getta il gelo in ogni cuore. Quella vasta boccaccia
si apre e chiude come una trappola per accalappiare i gonzi, e
sotto il gioco mimico si scoprono ora i perfidi tratti della strega
che attira a sé i bambini per mangiarseli, ora l’immondo rettile
intento a paralizzare con mobile sguardo le vittime che si pre­
para a inghiottire. Gòring non è affatto uno splendente eroe
germanico, ma tutt’al più una massiccia salamandra velenosa che,
spalancando studiosamente gli occhi in uno sguardo da buon
tedesco leale, cerca di accattivarsi una fiducia che non si merita
affatto.
Il signore supremo di quest’orrida schiera è Hitler. Egli sostie­
ne di essere il tedesco per antonomasia, e il popolo tedesco non
avverte quanto si contamini, legittimando tale pretesa. Hitler non
è né nordico né tanto meno germanico. G ià parecchi anni prima
della “ conquista del potere, ” Hans von Gruber richiamava l’at-

186
I P E R SO N A G G I

tenzione sull’ “ immondo miscuglio razziale di questo meticcio


dinarico-balcanico. ” L ’uomo il cui ritratto pende dai muri di mi­
gliaia di case tedesche, l’uomo dal quale milioni di donne tedesche
vorrebbero avere un figlio, ” rivela i tratti somatici di un ruf­
fiano. Egli è “ popolo ” solo nel senso di “ plebaglia, ” quale s’in­
contra al “ T a l ” o a “ P la z l,” due locali malfamati di Monaco.
E la qualifica di ruffiano spetta a buon diritto a chi ha scelto, come
scopo della propria attività politica, quello di sedurre il popolo,
che gli si è rimesso, a sconciamente degradarsi, ad arrendersi. F al­
liti Briining, Papen e Schleicher, l’ultima carta della borghesia era
l’uomo proveniente da un simile milieu. E, quando Hitler si rese
conto a sua volta di costituire l’unica speranza della borghesia te­
desca, mirò a non lasciargliene davvero alcun’altra; brutale e pri- -
mitivo come un pugile, mise k.o. chiunque, oltre a lui, pretendesse
di aver voce in capitolo; voleva essere non un campione, ma il
solo campione. Nella misura in cui la borghesia tedesca passò a
Hitler, essa ne fece propri gli orizzonti mentali, l’immagine del
mondo, il credo politico, i pericolosi istinti, la banalità, l’elemen-
tarità dei metodi; decadde insomma al livello della sua ristrettezza
mentale e bassezza morale. Hitler non sa assolutamente figurarsi
un mondo diverso dal proprio: e ciò deve valere per tutto il popo­
lo. “ Da quando egli sta alla ruota del timone, primaverili brividi
corrono la terra di Germania: ” la società borghese tedesca è
giunta al punto di abbandonarsi al fiume della storia, avendo alla
scotta un vagabondo.
L ’idealismo tedesco si era spinto ad affermare baldanzosamen­
te, con Fichte, essere “ il mondo opera mia. ” L a consapevolezza
borghese, con la sua grandezza spirituale, il suo cosmopolitismo,
la sua libertà, avvertiva in sé forze immense da impiegare nella
costruzione del proprio mondo, il mondo borghese. Il Mondo-Io
di Fichte era il borghese, il quale non lasciava sussistere altro
ordine all’infuori di quello che egli stesso intendeva instaurare. Il
passato feudale fu relegato nell’irrealtà, perché potesse essere reale
solo ciò che s’addiceva all’Io borghese. Ma con l’andar del tempo
il “ Mondo-Io” si è esaurito, è diventato impotente: l’assoluto, do­
vizioso, fruttuoso solipsismo dei primordi borghesi si disseccò,
fu non meno assoluto ma limitato, gonfio d’astio, negatore della

187
L A T IR A N N ID E

vita; ed ecco il Mondo-Io borghese pensare, sentire e agire secon­


do il pietoso metro mentale di H itler: non più crea una doviziosa
realtà, ma solo impoverisce l’esistenza, in quanto frustra le gran­
di imprese che si potrebbero compiere, e, con eroica intolleranza,
più non concede che si compia l’inevitabile. Dell’idealismo di
Fichte non resta che la propaganda di Hitler, per la quale l’unica
realtà non sono le grandi imprese, ma gli effetti propagandistici.
Poiché Hitler in sé è nulla, egli si fa qualcosa mediante gli
effetti che produce; Hitler è mera esistenza pubblica. Solo con
se stesso non ci si ritrova, e per scacciare il tedio si chiude nel
suo cinematografo privato. Crede in se stesso solo nella misura
in cui ci credono gli altri. Per questo egli è implacabile con gli
increduli, che nulla di lui lasciano sussistere. È spinto dal biso­
gno impellente di portar tutto e presto al limite estremo, all’esa­
gerazione; sente che gli manca il tempo di lasciare che le cose
giungano a spontanea maturazione: queste devono sorgere dal
niente, bisogna inventarle di sana pianta; l’esercito, i colossali
edifici, l ’industria degli armamenti sorgono nel giro di pochi
anni. Per un periodo di tempo, i colpi di scena serviranno a
togliersi dagli impacci. I primati si succedono in campo econo­
mico, politico e diplomatico; in un certo senso, si ha l’impres­
sione di essere di continuo sull’arena dei giochi olimpici. Si pre­
tende alla supremazia in tutto, si vuole essere maestri a tutto il
mondo e, come un onnipresente K arl May*, mostrarsi padroni di
qualunque situazione. Poiché il terreno sul quale si opera è fria­
bile, ogni impresa è un rischio; ma, con animo da avventurieri,
ci si getta a capofitto in tutti i pericoli; si è sempre cosi dispe­
ratamente agli estremi, da potersi paragonare solo al giocatore
d’azzardo.
Solo una natura che non abbia alcun legame con il concreto
e che di conseguenza sia “ incondizionata” ; una natura ai cui
occhi le cose si dissolvano in trucchi propagandistici, in mezzi
per buggerare le masse; un uomo che, se accende un’esca pro­
pagandistica, si frega soddisfatto le mani, senza chiedersi cose
che realmente va a fuoco; solo una natura simile, cosi intima-

4P o p o la r e s c r it t o r e te d e sc o d i rom an zi d ’a v v e n t u r a . [N. d. T.]


I P ER SO N A G G I

mente priva di principi, può introdurre un popolo di sessanta


milioni quali semplici figuranti nella patetica farsa intitolata
“ Terzo Reich. ” Solo una natura che in sé non sia affatto una
personalità di uomo autosufficiente, può fare della libertà e dei
valori umani lo zimbello d’ogni petuzzo. Hitler, abituato com’è
a prostituirsi davanti a quelle stesse masse che inganna, sconosce
il significato di “ dignità. ” Poiché ha negli occhi solo la propria
immagine, tutt’attorno a sé non scorge che suoi simili. Egli è
esclusivamente il profeta di se stesso; forse non è mai esistito
popolo che abbia elevato al trono l’incarnazione di tanta intolle­
rante, tirannica vuotaggine e mancanza di valore.
G li esseri moralmente più bassi, eccoli d’un tratto schierarsi
alla testa, degno seguito di Hitler.
Lo sbirro, il baro, il mentitore, il truffatore, lo scassinatore, il
cavaliere d’industria, il bullo, Favventuriero, il ciurmatore,? il
settario, l’attaccabrighe, l’attore, il chiacchierone, il tortore, il
tagliagole — tali i personaggi del Terzo Reich, usciti dalle loro
oscurissime tane al grido di soccorso della società borghese, tale
il serraglio di belve feroci, in pasto alle quali vengono gettati i
testimoni antifascisti.
È questo il mondo che si riflette nel volto molliccio di Hitler,
nella sua fronte ordinaria, in quel suo naso da babbeo, nella
bocca volgare, nello sguardo ambiguo, nel ciuffo alla brava, nelle
pieghe incise sui suoi tratti come i misteriori segni d’un alfabeto
della criminalità. Nella sua fisionomia, non una fattezza limpida,
aperta, nobile, ampia, grande: né vi si cela certo l’ironia. Le sue
guance sono come una sudicia parete sfiorata dalle ombre di pre­
potenze, spergiuri, tradimenti, bassezze, attentati contro l’umanità,
c cui aderiscono, incancellabili, le tracce di turpi pensieri, piani
maliziosi e sangue, troppo sangue.
Questo il signore dei borghesi tedeschi! Egli è la Verità e
la Vita della società borghese tedesca, il messia secolarizzato, al
quale cedono gli spiriti e gli eserciti. Egli è il Maligno al quale
la borghesia tedesca ha venduto l’anima, e il quale in compenso,
con l’aiuto dei suoi spiriti servizievoli e demoni, la mantiene in
possesso dei tesori di questa terra, finché non rintocchi mezza­
notte e irrevocabilmente l’attragga l’inferno.

189
Capitolo sedicesimo

SA e SS

L a discussione non merita affatto le croci che al presente le


si tirano addosso; la fisionomia di intere epoche è determinata
dal come esse accettano la discussione. Chi discute deve sentirsi
molto sicuro e ben ferrato; deve riporre incrollabile fiducia nella
propria causa. Concede infatti all’avversario uguali vantaggi, tol­
lera d’essere messo in questione, rischia di vedersi confutati i
fondamenti e i presupposti della propria esistenza. Ogni discus­
sione è un rischio; se per caso ci si ingannasse sulla entità delle
proprie riserve, sulla propria saldezza, sulla propria capacità di
resistenza, si corre il pericolo di vedersi perduti: non si cerca
difesa nel tener tutti discosti, e ci si espone ad ogni assalto. Non
ci si trincera dietro ad alcuna santità e tabu, sui quali nulla sia
lecito ridire. N on si vietano colpi, ci si fida solo, per pararli, della
propria abilità. L a discussione presuppone un contegno generoso:
una superiorità tale, da permettere qualunque mossa all’avversa­
rio, una ricchezza tale, da poter vivere e lasciar vivere.
Donoso Cortés definì la borghesia “ la classe che discute ” :
affermazione che esprimeva l’amarezza del feudatario represso.
Ma anche la borghesia discute solo finché è in posizione di van­
taggio; essa sta, rispetto alla discussione, nello stesso rapporto in
cui sta rispetto al liberalismo e all’umanitarismo. Finché era al­
l’attacco, finché era in fase ascendente, finché la manna le pio­
veva dal cielo, poteva a cuor leggero ingolfarsi in qualunque
discussione col feudalesimo, essa aveva sempre gli argomenti mi­
gliori, più persuasivi e più validi. N ella discussione, la causa
borghese aveva dalla sua le condizioni e le tendenze del tempo,
sicché all’avversario feudale toccava ogni volta la peggio, e ad
aver partita vinta era sempre il borghese; la discussione scosse:
e scalzò il feudalesimo dalle fondamenta. Logico, quindi, che

190
.. .... , , .....

SA E SS

l’uomo feudale odiasse la discussione, nella quale era tirato in


stato di inferiorità e controvoglia, con lo stesso calore appassio­
nato con cui invece l’amava il borghese, al quale andavano le
vittorie.
A partire dalla metà del XIX secolo, s’apre la discussione
fra borghese e operaio, e di decennio in decennio risultò sempre
più evidente che era quest’ultimo ad andare in vantaggio: egli
infatti aveva dalla sua le conseguenze di tutti i principi libertari e
umanitari della borghesia. Il borghese soccombeva: cominciò lui
ad averne abbastanza della discussione, e la voglia di discutere del
suo avversario a crescere in proporzione inversa. E all’improvviso,
ecco che sulla discussione si getta il discredito, se ne fa una
cosa spregevole, e ciò perché il borghese non può più ricavarne
alcun alloro; egli smette la discussione con la stessa arroganza con
cui l’aveva fatto il feudale Donoso Cortés.
Il fascismo italiano diede l’esempio del come chiudere la di­
scussione: occorreva un rozzo pugno da pestare sulla bocca di
chi accennasse ad aprirla per discutere.
Il nazionalismo tedesco condivideva la persuasione secondo
cui “ la discussione ha fatto il suo tempo, ” dando a vedere di
buon’ora di conoscere l’arte di tagliar corto. Lo si vide alle adu­
nate, alle quali nessun avversario dovette mettere più becco, e che
si ridussero a “ rapporti, ” dai quali fu bandito il contraddittorio.
Non passò molto tempo, ed ecco pronti i maestri del nuovo stile
di adunata.
Risale all’estate del 1920 la formazione della prima squadra
di vigilanza nazionalsocialista, con l’incarico di chiudere la bocca
a chi la pensasse diversamente, di soffocarne la voce, di picchiare 1
chi interrompesse, di espellerli dal locale. Cosi, ad esempio, l’in­
gegnere Ballerstedt, esponente dei separatisti bavaresi, durante
una riunione nazionalsocialista a Monaco “ fu allontanato dalla
sala dai partecipanti indignati, non senza che gli fosse lasciato
un ricordino. ” G li squadristi irruppero alle riunioni degli avver­
sari, disperdendole; sotto la guida di Hitler in persona, buttarono
al l’aria un comizio del suddetto ingegnere Ballerstedt, provocan­
do tumulti e risse. Il 4 gennaio 1921, nella birreria “ Kindl, ” H i­
tler rese noto ai suoi fedeli che “ a Monaco, d’ora in poi, il mo-

191
LA. T IR A N N ID E

vimento nazionalsocialista reprimerà implacabilmente, se neces­


sario con la forza, tutte le manifestazioni e i comizi suscettibili
di azione disgregatrice sul morale, già abbastanza basso, dei no­
stri compatrioti. ” G li squadristi sparsero il terrore voluto da
H itler; dovunque apparissero, v’erano grida e tumulti. La loro
ribalderia era cosi sfrenata, che perfino il Vól\ischer Beobachtcr,
almeno all’inizio, non potè condividere tanta rozzezza, e il 20 lu­
glio 1920 deprecava il contegno dei perturbatori i quali, “ impe­
dendo la parola agli avversari a tante nostre riunioni, le trasfor­
mano in spettacoli cosi disgustosi. ” Presenti gli squadristi, cessa­
va ogni forma di discussione; le dispute si concludevano a colpi
di sedia.
Tra questi squadristi si reclutò la Sezione ginnico-sportiva
fondata il 3 agosto 1921, che, due mesi più tardi, divenne la Se­
zione d’assalto, S A .1 L a SA è chiamata a compiti che trascendo­
no i limiti delle riunioni in luogo chiuso. Essa è dunque la prima
formazione organizzata in vista della guerra civile cui si tende.
“ L a SA , ” insegna Hitler nel suo proclama alle nuove reclute,
“ non deve essere solo uno strumento per la difesa del movimen­
to, ma deve, in primissimo luogo, essere la propedeutica alla lotta
per la libertà che avrà luogo tra poco in Germania. ” In una
circolare del 17 settembre 1922, si parla della SA come di un
reparto “ che non solo difende incondizionatamente le adunate-
dei nostro partito dagli attacchi avversari, ma che inoltre pone
il movimento in grado di passare esso stesso, in ogni momento,
all’offensiva. ” Il comando di questi reparti addestrati alla guerra
civile passò ben presto nelle mani di Gòring. “ La giovanile, spen­
sierata aggressività di questo esperto ufficiale d’aviazione, ” rife­
risce Rohm nelle sue memorie, “ rinfocolò il morale dei nostri
uomini, già cosi lieti di menar le mani. Nella SA ai suoi ordini,

1 In nessuna delle pubblicazioni nazionalsocialiste di quegli anni si trova la deno


minazione di Sicherheitsabteilungen (sezioni o reparti di sicurezza); il “ Volkiselirr
Beobachter ” aveva una rubrica, intitolata Nachrichten . der Sturmabteilung (Noti/.ir
della sezione d’assalto). Solo piu tardi, quando si rese necessario dimostrare davanti .11
tribunali la legalità della N SD A P, fece la sua apparizione il nome di Sichcrhdtstib
teilungen, cui Hitler, al processo contro Scheringer, sostituì, giurando il falso, quello
di Sportabteilung (Sezione sportiva). Di “ reparti d’assalto, ” affermò, lui non ne
sapeva nulla.

192

I
SA E SS

egli portò un’aria nuova, benché forse ne accrescesse un po’ trop­


po l’autocoscienza. ”
Dappertutto la SA ingaggiò scaramucce, avvisaglie della guer­
ra civile. Di notte, gli ebrei furono sorpresi per le strade e pic­
chiati; la SA perfezionò il proprio addestramento alle riunioni
di massa. Il sogno dell’uomo d’arme è la battaglia: qui ha voce
in capitolo, qui si muove nel suo elemento. A ll’inizio v’era stato
solo da togliere di mezzo qualche disturbatore delle adunanze
naziste — vittorie evidentemente troppo facili; un passo avanti
10 si compì verso la fine del 1921, quando i marxisti tentarono
di buttare all’aria una riunione nazista al “ Hofbrauhaus. ” Fino a
quel momento, il nemico, per quanto di continuo provocato, si
era mantenuto passivo; ma adesso finalmente accettava battaglia,
e adesso ci si poteva finalmente misurare con lui, ingaggiare una
vera e propria rissa da osteria. Lo “ scontro del Hofbrauhaus ”
divenne leggendario: tra boccali di birra si ebbe il battesimo del
fuoco, fra i panconi si eseguirono operazioni tattiche e strategi­
che, tra il fumo delle pipe splendette il valore dei figli del nord;
gli eroi delle adunate assursero alla statura di generali delle risse.
La gloria degli ex-combattenti delle trincee impallidi, il milite
da osteria sali ai più alti onori.
Adesso che il nemico usciva in campo e qua e là si spingeva
perfino al contrattacco, si poteva far sul serio; ora s’offriva l’oc­
casione di dar mano al coltello. Cominciò a correre il sangue, e
le cose presero finalmente una piega seria.
Col fragore delle battaglie che giungeva ormai a troppi orec­
chi, il movimento nazionalsocialista non poteva più essere igno­
rato, e anche se si attirava l’attenzione della polizia e si provocava
l’ira della stampa s’era fatto pur sempre un bel colpo propagan­
distico. Chi facesse prudere a tutti le mani; chi facesse venire la
voglia di prenderlo a calci anche all’uomo più posato; chi avesse
11 coltello facile: quest’era la sua occasione. Qui entrava lui nel
conto, qui dove occorrevano “ uomini d’azione,” e dove non si
“ blaterava,” non si “ chiacchierava,” non si perdeva tempo: qui
“ si faceva fuori. ” Ed ecco affluire i bravi dell’O.C. di Ehrhardt,2

u Organisation Consul, l’organizzazione segreta di Ehrhardt.

193
V

L A T IR A N N ID E

che tanti operai avevano “ stesi, ” che tanti omicidi avevano sulla
coscienza. Non ci fu tagliagole, avventuriero disposto a cammi­
nare sui cadaveri, testa calda che non desse un quattrino della vita
altrui, individuo dagli istinti sanguinari e dagli appetiti sadici,
che non si sentisse di casa nella SA. Quanto più eri brutale, tanto
più ti stimavano; nella SA potevi a tuo piacimento esser bestia.
E la bestialità fu nobilitata ad altissima espressione di patriot­
tismo.
Gradualmente, la SA crebbe a reggimenti. Dopo il 1923, è ve­
ro, subi un duro rovescio, ma dal 1926 si riorganizzò: brigate,
divisioni, interi corpi di armata: l’armata della guerra civile era
in marcia.
Prima però che potesse aver luogo la riorganizzazione della
SA, a partire dal '25, furono costituiti piccoli reparti incondizio­
natamente fidati e fedeli a H itler: le Schutzstaffelns, le SS.
“ L a guida del partito si basa sul presupposto che un pugno di
uomini scelti fra i migliori e i più decisi è molto più utile, che
non una massa di seguaci incapaci di iniziativa. I principi orga­
nizzativi delle SS sono quindi rigorosamente tracciati, e la loro
entità numerica esattamente limitata. ” Le SS esistevano quindi
già quale élite, quale “ guardia del corpo, ” quando rullò nuova­
mente il tamburo della leva, a rinsanguare le file della SA con
elementi tratti “ dalla grande massa dei seguaci. ”
Una volta portata la SA agli effettivi di vere e proprie brigate,
divisioni e corpi d’armata, le sale di riunione non bastarono più
come campo di battaglia; per potersi spiegare, i reparti richiede­
vano ampie estensioni, e la SA invase le strade, organizzò marce
dimostrative nei sobborghi, le sue divise apparvero nei rioni co­
munisti. L a camicia bruna, le brache e il berretto alla bravaccia
della stessa tinta, avevano il colore della sabbia dei deserti: uni­
formi che, per il taglio come per il colore, facevano a pugni con
la tradizione e il paesaggio tedeschi; reparti che nel mondo te­
desco fecero l’effetto di conquistatori stranieri, di legioni merce­
narie. Loro intenzione era quella di provocare gli operai e, se
quelli non raccoglievano la sfida, di demoralizzarli. Il proletariato

3 Lett.: Scaglioni o corpi di difesa. [ N . d . T . ]

194
SA E SS

intuì appieno il significato di quegli spiegamenti; ebbero luogo


battaglie di strada; qui, sotto il cielo aperto, si poteva anche
estrarre la pistola: sul selciato restarono dei morti. L a guerra
civile, tramata dalla SA, trovava così il suo piu connaturale ter­
reno di battaglia.
Da quel momento la discussione fu totalmente bandita dalla
vita pubblica: la SA mise fine alle composizioni amichevoli fra
gruppi e classi sociali. Dovunque riuscisse a subodorare l’avver­
sario, subito cercò di venire con lui alle mani.
Con quei morti, il movimento nazionalsocialista trovò i suoi
martiri; ebbe a disposizione il sangue, con cui cominciare la sua
mitologia. Ribaldi, cui era toccata la sorte che meritavano, ebbe­
ro la corona degli eroi.
Ma a questo punto apparve chiaro da quale abisso d’abiezione
fossero stati alimentati il movimento e i suoi reparti d’assalto. L a
SA aizzò, provocò, aggredì; finché gli operai non si decidevano
a ripagarli della stessa moneta, gli uomini della SA se la sareb­
bero sempre cavata con poco. Quando la classe operaia oppose,
a brigante, brigante e mezzo, la SA non solo ebbe a lamentare
perdite, ma assai spesso fu posta in rotta; poiché cavalleria e
onore erano loro sconosciuti, gli uomini di Hitler presero a stril­
lare che erano stati assaliti, che loro s’erano solo difesi, che quelli
rimasti sul selciato erano vittime della “ sete di sangue dei comu­
nisti. ” G li uomini della SA avevano, in altre parole, la non troppo
degna ambizione, dopo ogni fattaccio, di passare per agnelli agli
occhi dell’osservatore, e avevano l’abilità di gettar sempre la colpa
addosso ai “ rossi ” : loro non avevano neppure avuto l’intenzione
di torcere un capello a chicchessia; godevano, da canaglie che
erano, a gettar fango sulle vittime, e chi osava difendersi dai
loro attacchi veniva denunciato quale violatore di pace; la loro
sete di vendetta, esasperata, li spingeva ad architettare disegni
•intesi a farla pagare col sangue a chiunque avesse osato mostrar
loro i denti. Sognavano la “ notte dei lunghi coltelli. ”
La SA era una sentina che attirava tutte le nature in cui vi
Cosse del marcio e del corrotto. Non v era tendenza criminale che
non potesse trovarvi libero sfogo. Le caserme della SA erano tur­
pi taverne; scansafatiche, ubriaconi, falliti, omosessuali, attacca-

195
L A T IR A N N ID E

brighe, assassini, tramavano qui i piani destinati a “ svegliare ” la


Germania. Per le strade echeggiava il loro grido: “ A morte i
Giuda ! ” Il loro linguaggio faceva alla pari, per rozzezza, con
le loro canzoni: di primo acchito era dato capire con che razza di
gente s’avesse a che fare. Essendo essi stessi pendagli da forca, lo­
gico che minacciassero di impiccagione ogni avversario. Nella
qualità della bruna turba, accompagnandosi alla quale i rampolli
della borghesia tedesca crescevano alla scuola della malavita, si
rifletteva lo sconsolato decadimento della borghesia stessa; alla
causa borghese non si poteva più portare aiuto con mezzi onesti,
e il “ rinnovamento tedesco ” andava pertanto concepito come un
grosso colpo banditesco.
A llo studente Horst Wessel si deve la canzone che, dapprima
della SA , sarebbe stata considerata successivamente degna del Ter­
zo Reich. “ Camerati accoppati da reazione e Fronte rosso, mar­
ciano in spirito nelle nostre file ” : tipica poesia da taverna. “ Alta
la bandiera davanti ai morti che ancora vivono” : alla lingua si
usava la stessa violenza che agli avversari politici. Horst Wessel
era una figura ambigua, finito non già martire, ma vittima della
gelosia, sotto i colpi di pistola di un lenone cui aveva sedotto la
ganza; egli pagò con la sua giovane vita per essersi abbassato
al mondo dei furfanti. E il Terzo Reich, accogliendo nel proprio
Walhalla un Horst Wessel, dava a vedere quale tipo di gesta s’at­
tendesse dai propri eroi esemplari.
Fu il disegnatore nazionalsocialista Schweitze-Mjòlnir a creare
il tipo ideale dell’uomo della SA. Dai manifesti, questo appare
privo di fronte: non ha bisogno di un organo per pensare, chi
ciecamente obbedisce al suo Fùhrer. Ma, per quanto è scarso il
cervello, altrettanto abbondante è la mandibola, compendio della
maschia energia con cui l’uomo si butterà sul nemico contro il qua­
le lo si aizzi. Le guance sono sbozzate da angoli: la tensione è il
suo elemento, e il volto ne è il riflesso. Il cranio è rigorosamente
nordico: l’uomo della SA ha infatti la pretesa di essere il fiore
dell’ “ essenza nordica” ; e pretendendolo corre il rischio di far
considerare in ogni tempo l’essenza nordica un flagello dell’uma­
nità. Sta con i gomiti in fuori, i pugni contratti: chi non s’affretta
a toglierglisi dai piedi, avrà una gomitata allo stomaco o un caz-

196
SA E S S

zotto sul “ grugno. ” L ’andatura rigida, a petto in fuori, non lascia


dubbio sul fatto che l’SA è sempre in forma, pronto alla baruf­
fa ; in qualunque momento egli s’aspetta che “ scoppi qualcosa. ”
Le sue brache stanno infilate in enormi stivaloni: egli marcia. L a
SA marcia sempre con “ passo calmo e fermo. ” L a SA, la vita la
tratta a calci, i suoi militi non pensano, non discutono mai, solo
avanzano; quanto ai problemi pratici, non ci si rompe il capo per
risolverli: si fa arrivare la punta dello stivale sul sedere di chi li
pone; non ci si ingolfa nelle cose dello spirito: le si schiaccia sotto
i piedi. In questa trista, sfrontata figura si rivela l’arrogante, ag­
gressivo orgoglio di essere grossolano, abietto, limitato, fanatico;
l’uomo della SA si sente nato per le grandi imprese, semplicemen­
te perché trova cosi facile saltare alla gola di chiunque.
Ancora prima della conquista del potere, Hitler, nella sua
qualità di capo supremo della SA, di Osaf, 1 ebbe a dichiarare di
prendere molto sul serio i doveri che gli erano imposti dal “ tipo
ideale ” della SA.
In località Potempa, nell’Alta Slesia, l’operaio Pietrzuch, polac­
co oltre che comunista, si era attirato l’odio di un suo vicino, mem­
bro della SA. Costui aggregò una banda di degni compari, disposti
a far fuori il polacco; offri loro da bere, li ubriacò al punto che
uno dei camerati, a mo’ di battesimo per la prossima impresa, si
versò per la schiena un intero boccale di birra, ed espose loro il suo
piano, fissando il luogo, il momento e le modalità dell’assassinio.
A ll’ora stabilita, la banda irruppe in casa del Pietrzuch che dormi­
va nel suo letto. Cinque eroi della SA gli si scagliarono addosso,
infierendo su di lui sotto gli occhi della madre, fino a ucciderlo.
Nel referto medico si legge: “ Il cadavere mostra in tutto venti-
nove ferite, di particolare gravità quelle al collo.-La carotide ap­
pare recisa. L a laringe presenta un largo squarcio (prodotto da un
calcio). L a morte è avvenuta per soffocamento, e devesi attribuire
•al fatto che il sangue sgorgato dalla carotide è penetrato attra­
verso la laringe nei polmoni. A parte tali ferite, il corpo del
Pietrzuch è coperto di ecchimosi; colpi violenti gli sono stati sfer­
rati sul capo con una picozza o un bastone, mentre certe ferite visi-

* Olx-rsturmaljteilungenfùhrer. [ N . d . T . ]

197
L A T IR A N N ID E

bili sul volto si direbbero prodotte con la punta di una stecca da


bigliardo. ”
I sicari della SA furono arrestati e nell’autunno del 1932 com­
parvero davanti al tribunale di Beuthen, dove mantennero un con­
tegno da miserabili vigliacchi: spergiurarono, scaricarono la colpa
su assenti, invocarono l ’attenuante deU’ubriachezza. Circostanze ed
entità del bestiale delitto richiedevano la pena di morte, che infatti
fu pronunciata.
Ma la morale dei tempi era tale, che la sentenza provocò fer­
mento e indignazione tra le masse borghesi che, sentendosi ormai
in piena guerra civile, ritenevano giustificato qualunque orrore; es­
sendo comunista, Pietrzuch era un fuorilegge.
F u a questo punto che Hitler volle dire la sua: con una pub­
blica dichiarazione, aizzò il popolo contro il cancelliere von Pa-
pen: “ Signor von Papen,” disse, “ ora conosco la sua sanguinaria
obbiettività. ” E, benché la sentenza non fosse stata ancora eseguita,
aggiunse con tono solenne : “ Con questo il signor von Papen ha
iscritto il suo nome nella storia tedesca, col sangue dei combattenti
nazionali. ” A gli assassini, invece, inviò un telegramma cosi con­
cepito: “ Camerati! D i fronte a questa infame sentenza mi sento
a voi unito da una fede senza limiti. ”
Quando mancavano si può dire ore, al momento in cui avrebbe
fatto lo sforzo decisivo per conquistare a sé il potere, ecco Hitler
rivelare il suo vero volto. L a borghesia tedesca non avrebbe com­
prato la gatta nel sacco: drasticamente bisognava metterle sotto
gli occhi chi era colui al quale essa intendeva affidare la cura dei
propri interessi politici. Doveva esserle impedito, e per sempre, il
ricorso al sotterfugio, di affermare d’esser stata ingannata, d’aver
preso un abbaglio quanto all’uomo che voleva il potere assoluto.
Ognuno doveva sapere che il futuro dittatore era il condottiero di
bande di assassini, che i suoi accoliti si sarebbero decretati “ militi
della nazione, ” e che egli, Hitler, avrebbe fatto passare per “ rin­
novamento della Germania ” i sanguinosi colpi di mano e le
azioni terroristiche che andava tramando.
Certo, l’autosmascheramento di Hitler non potè non produrre
uno choc alla grossa borghesia che, sia pure per un istante solo,
si senti un freddo brivido alla schiena; Papen e Schleicher si chie-

198
S A E SS

sero se non dovessero togliersi di torno questo complice degli omi­


cidi. Ma vi rinunziarono, e gli assassini di Potempa furono gra­
ziati.
Potempa anticipò quello che sarebbe stato lo stile della “ rivo­
luzione nazionale” ; quale partecipe e capo di questa, Hitler si
sentiva “ unito da una fede senza limiti ” a chi calpestasse inermi
operai. Potempa fu il prologo del Terzo Reich.

19 9
Capitolo diciassettesimo

Il terrore

L ’alba del movimento nazionalsocialista è segnata da un libello


politico, l’aurora del Terzo Reich da una mascalzonata. N el suo
Metti Kampf, Hitler aveva scoperto “ il principio, profondamen­
te esatto, ” secondo cui “ le dimensioni della menzogna rappre­
sentano sempre un fattore di credibilità ” ; le grandi masse, data
la “ primitività della loro indole, ” sono più facilmente vittime di
una grossa che non di una piccola menzogna. Esse, infatti, “ non
possono credere alla possibilità di una cosi enorme spudoratezza
e cattiveria nel falsare la verità. ”
L ’incendio del Reichstag era stato un delitto compiuto con
tale sfrontatezza, che le masse borghesi, a dispetto sia della inop­
pugnabile logica del buon senso, sia della evidenza, prestarono
ascolto al regime colpevole del misfatto e caddero nella trappola
della nazistica “ spudoratezza e cattiveria nel falsare la verità.”
Lutero aveva santificato l’autorità, e la borghesia tedesca si ribel­
lò all’idea di attribuire alle sue autorità cosi diabolico sacrilegio;
respirò di sollievo, quando le autorità s’adoprarono a scaricare
la colpa addosso a quelle forze che per altre ragioni da tempo
riuscivano sospette e ripugnanti alla borghesia. Su questo aveva
contato Hitler, e fu cosi che il colpo gli riusci. Ora aveva il pre­
testo per quelle violazioni della costituzione che a lungo aveva
meditato. Elm i d’acciaio e nazionalisti non poterono più valersi
di quelle garanzie legali, cui finora non avevano voluto rinun­
ciare, mentre il presidente Hindenburg aveva pretesti per acquie­
tare la propria coscienza se violava la costituzione solennemente
giurata. N é nel 1932 né agli inizi del 1933, si era creato uno stato
d’emergenza che potesse giustificare violazioni della costituzione
e illegalità da parte delle autorità; solo l’incendio del Reichstag
avrebbe infuso nella borghesia un senso di catastrofe, convincen­

do
IL T ER R O R E

dola che lo stato d’emergenza era realtà. Chi volesse ancora farsi
paladino della costituzione weimariana, passava per complice
dei “ criminali comunisti ” : un “ colpo ” banditesco invero geniale.
Migliaia di borghesi tedeschi fecero violenza alle proprie co­
scienze e tacquero: è da questo momento che cessano di esistere
tra la borghesia tedesca gli uomini d’onore, da questo momento la
borghesia tedesca è nello stesso mazzo con la canaglia nazionalso­
cialista. Quando, il 23 marzo 1933, Hitler osò, in pieno Reichstag,
attribuire il “ decadimento della nazione ” all’ “ errore marxistico, ”
nessuno si levò a contraddirlo. Egli continuò: “ Il processo stori­
co, inaugurato dal liberalismo dello scorso secolo, trova la sua
naturale conclusione nel caos comunista. L a mobilitazione degli
istinti più primitivi porta all’unione tra le interpretazioni di un’idea
politica e gli atti di veri e propri criminali. Dal saccheggio all’in­
cendio, dal sabotaggio all’attentato, tutto nell’idea comunista ri­
ceve sanzione morale. ” Quel giorno che Hitler, capo supremo
degli incendiari del Reichstag, diffamò gli onesti, fu pesato e va­
gliato quanto ancora restava nel popolo tedesco; e chi approvò
Hitler 0 lo copri, scelse il mucchio dei rifiuti.
Hitler mise fuori legge i proletari classisti. Già il giorno suc­
cessivo a quello dell’incendio del Reichstag, veniva emanato il
decreto “ per la protezione del popolo e dello stato, ” ovvero “ per
la repressione delle violenze comuniste contro la sicurezza dello
stato. ” I fondamentali diritti del popolo tedesco venivano abro­
gati; l’intoccabilità delle persone, l’inviolabilità del domicilio, il
segreto epistolare, la libertà di stampa, di associazione e di riunio­
ne annullati; le proprietà private dei “ nemici dello stato ” non più
protette; per 1’ “ alto tradimento,” l’avvelenamento, l’incendio do­
loso, l’attentato dinamitardo, l’allagamento, il sabotaggio del ma-
leri ale ferroviario, veniva decretata la pena di morte; le pene
spettanti ai colpevoli di attentati contro i rappresentanti dell’auto­
rità, di atti di sedizione, di turbamento dell’ordine pubblico, di
pregiudicamento della libertà personale, aggravate. Il decreto met­
teva a disposizione del regime nazionalsocialista terribili armi con­
tro i suoi avversari politici, e le SA si apprestarono a farne uso.
ha sognata “ notte dei lunghi coltelli” diveniva realtà: gli uomini
vestiti di bruno assassinavano, torturavano, saccheggiavano; non

201
L A T IR A N N ID E

vi fu abitazione proletaria che ne fosse al sicuro. L a “ nazione ri­


suscitata” esercitò il più feroce terrore e, arbitrariamente defrau­
dando delle sue libertà il nemico di classe, celebrò la propria “ ri-
conquistata libertà. ” L a legge “ per sopperire ai bisogni del popolo
e dello stato, ” diede il colpo di grazia alla costituzione weimariana
e forni la base “ legale ” alla dittatura hitleriana; il progetto di
legge fu presentato ai neodeputati del Reichstag, perché lo appro­
vassero a maggioranza di due terzi. I comunisti non furono am­
messi al Reichstag: la loro presenza avrebbe offerto il destro al
Zentrumspartei di fungere da arbitro della situazione e di porre
condizioni ai nazisti. Prima che si desse inizio alla votazione, H i­
tler aveva fatto adunare sulla Kònigsplatz davanti alla Krolloper,
masse popolari e formazioni di SA le quali, lanciando minacciose
grida di “ Vogliamo i pieni poteri! ” avrebbero incusso un salutare
timore ai deputati borghesi ancora recalcitranti. Approvando la
legge, la rappresentanza popolare si autoevirò, i partiti si suici­
darono. 1
Animato dalla precisa volontà di annichilirli, Hitler si scagliò

1 II gruppo socialdemocratico al Reichstag oscillava tra il proposito di emigrare a


Praga, donde lanciare un proclama denunciando Hitler quale fomentatore di guerra, e
quello di restare a Berlino, agendo in modo da minare il prestigio di Hitler in campo
internazionale. Poche ore prima che il testo della legge sui pieni poteri fosse presentato
al Reichstag, il ministro del Reich dottor Frick convocò nel suo ufficio l’ex-presidente del
consiglio Paul Lóbe. L a Germania, affermò Frick, si trovava sull’orlo della guerra. Se
la socialdemocrazia avesse preso l’iniziativa, il governo del Reich non avrebbe esitato
di fronte a misure draconiane, che non avrebbero risparmiato le vite umane. Grave minac­
cia che non restò senza effetto presso i deputati socialdemocratici, i quali tuttavia persi­
stettero nel loro rifiuto di votare a favore della legge speciale. Decisione che fu loro
facilitata dal fatto che Hitler non faceva alcun conto sul voto socialdemocratico.
Totale invece il crollo dei partiti borghesi. L ’ex-cancelliere del Reich, dottor Briining,
cercò dei complici, avvicinando, fra gli altri, alcuni deputati del gruppo socialdemocratico,
che tentò di convincere a votare la legge sui pieni poteri. A lla seduta decisiva, presero
la parola: per la Zentrumspartei il dottor Kaas; per la Bayerische Vol\spartei von L ex;
per la Staatspartei il dottor Maier; per il Volksdienst Simpfendòrfer. Dai verbali della
seduta risulta che i più accesi interventi furono quelli di von Lex, del dottor M aier e di
Simpfendòrfer i quali, pur avanzando qualche cauta riserva, si dichiararono entusiasti
della legge. A l coro delle voci favorevoli, si unirono il dottor Bolz, deputato di Stoccarda,
il dottor Dessauer, Imbusch, Jacob Kaiser, la signora Tensch, il dottor Wirth c il
dottor Horlacher. G li uomini che erano stati eletti dal popolo per difendere la causa
della democrazia non se la sentirono di mettere a repentaglio le loro vite; in un ino
mento storico decisivo, essi rifiutarono la dirittura morale, rifiutarono di cadere mar­
tiri della democrazia; e, rendendo operante la legge speciale, essi diedero il crisma
della legalità alla dittatura, si fecero complici del colpo di stato hitleriano. (Nota re­
datta nel 1946.)

202
IL TER R O R E

contro tutti gli avversari che impacciassero la restaurazione borghe­


se. Le organizzazioni da parte delle quali c’erano da aspettarsi
resistenze, furono liquidate, il popolo trasformato in un’informe
massa di atomi. Il partito comunista aveva già ceduto sponta­
neamente il campo; il partito socialdemocratico aveva sperato di
ottenere la grazia con la sua passività, ma poco gli servi: an-
ch’esso fu spazzato via; il corpo dei funzionari’ dello stato fu
sbarazzato degli uomini di fiducia delle organizzazioni operaie;
gli ebrei, legati a doppio filo alla causa dello spirito, della libertà,
dell’umanitarismo, del marxismo, e le cui posizioni economiche
rappresentavano altrettante ambite prede, subirono i primi duri
colpi; 1’ “ intellighentzia ” fu avvilita, le si fece capire che, se non
voleva morir di fame, doveva nutrirsi alla mangiatoia della ditta­
tura; le chiese cristiane furono informate che le loro dottrine del­
la carità verso il prossimo costituivano elementi di disgregazione
del morale della classe borghese; la borghesia, mentre scatenava
la guerra civile, derise la teoria della lotta di classe; la libera stam­
pa fu distrutta, la libertà di parola brutalmente conculcata. G li
avversari politici senza tante cerimonie furono stigmatizzati quali
criminali; chi tentasse una critica era considerato perturbatore del­
l’ordine pubblico, congiurato chi si riunisse con dei simpatizzanti.
Gli atteggiamenti antiborghesi divennero depravazioni perseguite
dalla legge, vaneggiamento e follia di ideali antiborghesi. Chi non
volesse adeguarsi al modello borghese fu reso innocuo mediante
la lotta di classe; la polizia segreta di stato organizzò gruppi che
davano la caccia a chiunque riuscisse sospetto di tendenze anti­
borghesi. L a potenza di classe della borghesia s’accrebbe talmente,
che nessuna forza opposta osò più neppure manifestarsi; essa era
illimitata, nulla poteva impedirle di distruggere moralmente e
fisicamente ciò che non le si inchinava.
Durante le guerre civili cavalleria e generosità non sono mai
molto in auge: l’oligarchia spietatamente infuria sui ribelli, non
riconosce circostanze attenuanti a chi scuote i fondamenti del
potere costituito; vuol dare degli esempi, e non arretra di fronte ad
alcun orrore, quando si tratta di paralizzare col terrore le classi
inferiori. Intimidirle vuol dire soffocare d’ora in poi sul nascere
ogni nuova tendenza sediziosa. Essa trae spaventose vendette; go-

203
L A T IR A N N ID E

de di troppi agi, di un troppo elevato tenor di vita, che non con­


cede clemenza a chi li usurpi; essa quindi fa scempio degli avver­
sari a sangue freddo, il terrore bianco fa gelare a chiunque il san­
gue nelle vene. Le masse in rivolta non sono mai premeditatamente
spietate, ma ricorrono alla violenza solo quando vi siano spinte:
agiscono cioè per impulso passionale. Ma da tempi immemorabili,
nel bagaglio propagandistico da guerra civile dell’oligarchia v’è
la calunnia contro i rivoltosi, l’accusa di esser bestie assetate di
sangue; se la classe dominante nuota nel sangue, essa non fa che
infliggere “ una meritata punizione” ; il suddito che abbia dato il
fatto suo a un provocatore, commette un “ atroce crimine, ” “ atro­
ci calunnie ” diffonde chi riveli le efferatezze dell’oligarchia.
Quando, dopo il colpo di stato nazionalsocialista, numerosi la­
voratori d’ambo i sessi furono arbitrariamente arrestati e torturati,
l’Allgemeine Deutsche Gewerkschaftsbund2, la maggiore fra le
libere organizzazioni sindacali, provvide a fare scrupolosamente
verbalizzare da un legale le dichiarazioni di quelle vittime del
terrore bianco, che avevano riacquistato la libertà e non avevano
perduto il senno; i verbali furono rimessi al ministro degli interni
e al presidente del Reich, Hindenburg; quei candidi sindacalisti
vivevano nell’illusione di guadagnarsi la riconoscenza delle auto­
rità, richiamandone l’attenzione sugli abusi dei loro organi ed
esecutori.
In realtà, tali atti bestiali non erano semplici abusi: erano si­
stema. Rispose il ministro degli interni, dottor Frick, che i ver­
bali rimessigli erano espressione della campagna di calunnie che
si conduceva contro la Germania nazionalsocialista; e aspramente
proibiva che la si continuasse. A i supremi vertici dello stato, si
videro accedere individui appartenenti alla feccia dell’umanità, che
di lassù poterono tranquillamente ammorbare l’atmosfera tedesca.
L a situazione era davvero tragica: nelle caserme delle SA, donne
venivano bastonate a morte, uomini chiusi in sacchi e annegati;
nelle prigioni di stato, gente inerme era oggetto di sadici eccessi.
Chi sfuggiva a quegli inferni doveva impegnarsi per iscritto a
non riferire le proprie esperienze, e ad attestare che il trattamento

2 Confederazione generale tedesca dei sindacati. [N . d. T.]

204
IL T ER R O R E

inflittogli non dava motivo ad alcuna lamentela: le vittime della


violenza dovevano insomma disonorare se stesse. G li organi dello
stato si trasformarono in accolite di angariatori; la verità era igno­
bile e bisognava dunque soffocarne la voce; constatare dei fatti era
atto da nemico dello stato nazionalsocialista, uno stato fondato sul­
la menzogna, costretto a fuggire la luce. Chi chiamava le cose col
loro vero nome era necessariamente un accusatore: il Terzo Reich
non tollerava che diventasse di pubblico dominio un conto debiti
sul quale, accanto all’incendio del Reichstag, s’ascrivevano innu­
merevoli assassini.
Le atrocità del “ movimento di sollevazione nazionale ” erano
tanto più riprovevoli, in quanto dirette contro uomini che ormai
avevano rinunciato ad ogni resistenza. Il calore della mischia giu­
stifica molte cose, ma qui non v’era stata mischia alcuna, il prole­
tariato cosciente aveva volontariamente deposto le armi; i “ vecchi
combattenti ” le loro imprese eroiche le commettevano dunque
a spese di uomini che non rappresentavano più una minaccia. Non
fu uno scontro, ma un macello, e i “ vecchi combattenti ” non
fecero sfoggio di valore ma di crudeltà. Risultavano vincitori di
un nemico che non era nemmeno entrato in campo. Non erano
“ combattenti, ” ma aguzzini e boia.
Non era difficile far prigionieri, in quella guerra civile; e i
prigionieri finivano nei campi di concentramento. L ’istituzione
dei quali equivaleva a confessare che si stava conducendo una
guerra civile; in essi era dato sfogare la propria bile sui prigio­
nieri della guerra civile, catturati non già sul campo di battaglia,
ma sorpresi nel sonno, nei loro letti: azioni per le quali non oc-
iorreva del fegato, bastava un mandato di cattura spiccato dalla
polizia segreta di stato. Si ebbe cosi la prova che v’erano uomini
tedeschi per ì quali la legge non esisteva, uomini posti al bando.
Migliaia furono gli individui in modo del tutto arbitrario privati
della libertà, strappati alle famiglie e alle professioni senza che
fosse provata una loro colpa, in mancanza di una sentenza. Con­
ilo le disposizioni della polizia segreta di stato, non esisteva pro­
tezione legale, e chi veniva preso di mira, era spacciato. Per la
mentalità e le violenze poliziesche non vi erano ostacoli legali;

205
L A T IR A N N ID E

la polizia poteva schiacciare chiunque la contrariasse o le fosse


d’ostacolo.
Il campo di concentramento non era affatto uno strumento me­
diante il quale mettere momentaneamente fuori combattimento,
per ragioni di forza maggiore, dei sospetti, rispettati tuttavia quali
membri della stessa nazione e portatori di un’idea politica. I “ libe­
ratori ” della nazione non andavano troppo per il sottile, e a chi
tenevano in pugno, volevano far bene sentire la stretta. E apparve
cosi chiaro quanto fango, bestialità e barbarici istinti giacessero nel
fondo dell’anima tedesca.
I comunisti che, prima del 1933, avevano posto in rotta gli
uomini della SA, furono tratti ora in arresto; e a guardia dei
campi di concentramento trovarono gli stessi uomini della SA,
bramosi di trarre esemplare vendetta sui loro avversari; qui i pri­
gionieri furono torturati, avviliti al limite della sopportazione fi­
sica e morale; il loro orgoglio d’uomini fu profanato: erano niente
altro che oggetti, grazie ai quali coltivare gli impulsi del gangste­
rismo nazionalsocialista. Ancora nell’autunno del 1935, ai detenuti
del campo di Esterwergen, nel quale era rinchiuso fra altri il paci­
fista Ossietzky, si vietava di uscire dalle baracche in posizione
eretta: gli schiavi dovevano procedere a passo di corsa, le mani
incrociate sul petto, e il capo chino. Erano addetti ai lavori piu
assurdi, come trasportare rapidamente ghiaia, in continuo andiri­
vieni, da un’estremità all’altra del campo: se cedevano alla stan­
chezza, venivano fatti segno a colpi d’arma da fuoco. Giovani de-
linquentelli infliggevano punizioni corporali a uomini per i quali
già Tesser privati della libertà costituiva una grave, imperdonabile
offesa alla loro dignità. Si videro dei religiosi comandati a costruire
modelli di chiesa di sterco umano; l’ex-deputato socialdemocratico
dottor Leber fu obbligato a mangiarne. SA, SS, perduta ogni trac­
cia di umanità, facevano i propri bisogni addosso ai prigionièri;
l’ebreo Heilmann aveva l’obbligo, se interrogato, di abbaiare come
un cane o di imitare il verso del cuculo. G li intellettuali detenuti
non avevano alcuna speranza di uscir vivi: se ne temevano i me­
moriali, perciò venivano distrutti fisicamente, spiritualmente, mo­
ralmente e qui indotti al suicidio, là, come nel caso di Ericli
Miihsam, uccisi a sangue freddo.

206
IL T ER R O R E

Con ripugnante ipocrisia, però, le autorità spiegavano all’opi­


nione pubblica che “ i campi di concentramento sono stati creati
allo scopo di inculcare nei detenuti le qualità rispondenti allo
spirito dei nuovi tempi. Essi vi saranno abituati alla laboriosità e
a considerare preminente il bene comune, vi saranno avviati al
lavoro, in vista di particolari compiti. L ’istituzione dei campi di
concentramento ha dunque compiti espressamente educativi. ”
L ’infamia dell’incendio del Reichstag e l’orrore dei campi di
concentramento rivelano l’altezza morale del Terzo Reich. Ogni
struttura sociale ha la propria cloaca; ma questa può essere l’inevi­
tabile tributo all’elementarità, al caos, o viceversa essere diretta
rappresentante della struttura stessa. L a cloaca del Terzo Reich
ne è appunto la rappresentazione; la Germania intera non è che
un campo di concentramento, in cui le creature della grossa bor­
ghesia soddisfano a spese del proletariato le proprie libidini sadiche.
A partire dall’incendio del Reichstag, il crimine costituisce la nor­
ma dell’arte di governo nazionalsocialista, e l’esistente situazione
da guerra civile offre graditi pretesti per sbarazzarsi di ogni freno
morale, umanitario e legale.

207
Capitolo diciottesimo

La persecuzione degli ebrei

A ll’ebreo emancipato s’era rivelata in pieno l’essenza del XIX


secolo, cosi liberale e umanitario, da liberare perfino l’ebreo e con­
cedergli parità di diritti. “ L ’emancipazione degli ebrei non è
opera degli ebrei, ” si legge in una lettera indirizzata ad Arnold
Zw eig da K urt Tucholshy, poco prima del suo suicidio; “ di que­
sta liberazione fu fatto dono agli ebrei dalla Rivoluzione francese,
cioè dai non ebrei: per essa i primi non hanno avuto da combat­
tere. ” Essa ebbe luogo perché lo spirito borghese-capitalistico si
sentiva in perfetta armonia con quello giudaico, e perché l’ebreo,
date le sue condizioni di vita, era l’alleato naturale di chi levava
la bandiera del liberalismo e umanitarismo: in quanto infatti gli
ebrei costituivano una minoranza costretta nei ghetti, era loro
consono l’appello ai sentimenti umanitari e alle istanze di libertà;
dove si pensava umanamente e si aspirava alla libertà, gli ebrei ave­
vano tutto da guadagnare, nella prospettiva di veder sciogliersi le
catene sotto le quali gemevano. Dovevano essere essenzialmente
liberali e umanitari perché a essi premeva acquistarsi indulgenza;
e, quanto più i principi del liberalismo e deH’umanitarismo diven­
tavano patrimonio comune, tanto più i vincoli imposti alle mino­
ranze sarebbero caduti, tanto più compiutamente la si sarebbe fatta
finita col ghetto. Allorquando il borghese si propose di liquidare
l’aristocratico con le armi del liberalismo e dell’umanitarismo, l’e­
breo entrò in gioco, quale suo naturale consigliere. Era quindi
inevitabile che l’alterazione dei rapporti sociali avesse profonde
conseguenze sul destino degli ebrei: come ebbe a dire Goebbels,
cancellato dalla storia l’anno 1789, all’ebreo toccava ritornarsene
nel ghetto. Il Terzo Reich, mirando a semplificare le cose dello
spirito, usava la massima evidenza; quanto intendeva far capire,
lo voleva scritto a caratteri di scatola. Per questo per l’esilio degli

208
L A P E R S E C U Z IO N E D E G L I E B R E I

ebrei nei ghetti si batté tanto la grancassa e si fece sfoggio di tanta


aggressività. Il ghetto divenne il deserto nel quale l’ebreo veniva
rimandato, capro espiatorio, perché il borghese potesse togliersi
1’ “ onta ” del liberalismo e umanitarismo; e il modo in cui il
borghese trattava l’ebreo doveva mostrare quanto radicata fosse
la sua decisione di farla finita con tali peccati.
G li ebrei non potevano certo gettare fra i ferri vecchi i principi
liberali-umanitari, dopo che questi avevano assolto il loro compito
nei confronti della società feudale, con la stessa spensieratezza del­
la borghesia, solo perché quegli stessi principi si erano trasformati
in strumenti al servizio del proletariato classista: cosi facendo, gli
ebrei avrebbero trasgredito agli imperativi della loro condizione
di minoranza etnica e, piu ancora, si sarebbero consegnati, mani e
piedi legati, al popolo del quale erano ospiti. Ma la fedeltà a quei
principi comportava anch’essa fatali conseguenze: poiché infatti
tali principi andavano a vantaggio del proletariato, l’ebreo ne di­
ventava il compagno di strada, volente o nolente si schierava, nella
lotta di classe, dalla sua stessa parte.
La cultura ebraica coadiuvò il proletario nell’assumere coscien­
za del proprio stato. Essa conosceva come nessun altro l’ordine e
la legge capitalistici, ai cui più riposti segreti non si peritò di
ammettere gli operai. E cosi fu che questi riuscirono a identificare
il tallone d’Achille, i punti dolenti della società borghese; le loro
tendenze insurrezionali cessarono dall’essere cieche esplosioni sen­
za meta, ma puntarono al cuore dell’ordine capitalista. L ’ebreo
aveva dato occhi all’odio rivoluzionario delle masse operaie. Il
marxismo, mettendolo a nudo, aveva reso vulnerabile l’ordine
capitalistico; al quale, per sopravvivere, era indispensabile che
l’operaio gli si inchinasse come a un destino eterno, obbiettivo,
intangibile. Ma l’operaio si accorgeva invece che quell’ordine era
cosa mortale, e che egli poteva contribuire ad accelerare la fine
di quel dominio. Se la borghesia aborriva dal marxismo, non era
perché questo fosse “ giudaico,” bensì perché dava in mano agli
operai la chiave per la rovina dell’ordine capitalistico. Quanto
all’ebreo, era il “ traditore” della società capitalistica. Si trattava
di un tentativo di salvataggio: diffamare a tal punto la dottrina
marxista, che le masse ribelli si vergognassero di farne uso. A tal

209
L A T IR A N N ID E

fine, occorreva bollarlo quale strumento della congiura ebraica


contro il “ nobile sangue ariano. ” Il marxismo riposava su una
sobria, fredda, spietata, approfondita analisi scientifica, dalla quale
il capitalismo aveva tutto da temere; e quindi si premunì, accu­
sandola di essere una scellerata speculazione, con cui l’ebreo si
riprometteva di intossicare il sobrio buon senso dell’ariano. Una
volta che il marxismo fosse considerato il velenoso aborto dell’odio
razziale ebraico, non avrebbe più avuto presa; ed era mercenario
al soldo degli ebrei chiunque s’azzardasse a immergere, nel corpo
dell’ordine capitalista, lo scalpello anatomico della scienza marxi­
sta; quanto più cruda fosse la luce gettata sulla “ abiezione giu­
daica, ” tanto meno attraente sarebbe apparso l’essere al soldo
dell’ebreo. E il borghese si trovò cosi in una posizione di favore,
potè metter fuori legge il proletario classista non già perché fosse
animato da intenti rivoluzionari, ma perché era “ al servizio del- '
l’ebreo. ” Cosi Julius Streicher, con le storie di omicidi rituali del
suo Stùrmer, portò legna al rogo sul quale un giorno si sarebbe
dovuto bruciare il rivoluzionario marxista. Quanto al giudeo, tanto
più facile era farne il capro espiatorio, dal momento che s’era pub­
blicamente reso colpevole di ingratitudine ingannando i suoi bene­
fattori borghesi. La borghesia aveva fatto dono della libertà al­
l’ebreo, e poteva sempre ritogliergliela qualora quegli rifiutasse di
far proprio il voltafaccia contro il liberalismo e l’umanitarismo.
L ’ebreo non era un rinnegato — lo era semmai il borghese —, ep­
pure come tale fu trattato.
Le antiche forme di dominio, che, quando si sentivano porre in
discussione, trovavano nell’assolutismo la loro “ costituzione d’e­
mergenza, ” il loro “ dittatoriale ” consolidamento, erano state di
peso cosi al borghese come all’ebreo. Liberalismo e umanitarismo
avevano costituito, nei riguardi di tale coercitivo dominio, i prin­
cipi della dissoluzione e decomposizione. L a società borghese
aveva preteso a uno sviluppo autonomo, senza essere a ogni passo
lesa nei suoi interessi dalle prepotenze dell’ordine feudale; le sa­
rebbe stato quindi utile determinare con esattezza i limiti del­
l’attività statale, limiti che dovevano essere assai ristretti, se la
società non doveva render conto a nessuno delle proprie azioni;
sicché la sociologia aveva assunto importanza maggiore della

210
L A P E R S E C U Z IO N E D E G L I E B R E I

scienza politica: essa era assieme dottrina e teologia. L a sociologia


era patrimonio spirituale di una società che si era imbevuta dello
spirito del liberalismo e dell’umanitarismo. E qui l’ebreo si trovava
nel suo elemento, egli che, in quanto vittima predestinata, è il
nemico giurato di ogni autoritarismo, e per il quale quindi le
tendenze autoritarie dei popoli dei quali è in balia, per forza di
cose, devono essere una spina nell’occhio. N ell’era fascista e na­
zionalsocialista, quando non è più necessario scalzare un’autorità
feudale, ma mettere al bando i ribelli proletari, il borghese pre­
tende di signoreggiare secondo il modello aristocratico; e, poiché
ora l’apparato statale gli appartiene, non deve più imporsi la
moderazione: l’apparato colpirà con decisione e senza indugio,
ogniqualvolta si manifesti una resistenza proletaria. La società,
nel cui ambito il movimento proletario classista aveva assunto
proporzioni vastissime, non può più essere lasciata a se stessa,
ma imbrigliata per mezzo di misure coercitive. L ’ebreo con la sua
sociologia si trovò solo e allo scoperto: all’improvviso, ora che
il borghese aveva perduto ogni interesse a essa, la sociologia di­
venne mera scienza ebraica, benché da un non ebreo, Max Weber,
fosse stata condotta alla massima fioritura. L ’ebreo doveva pa­
gare il fio per non aver voluto abbandonare il principio dell’auto-
governo della società che creava tante difficoltà al borghese, in
quanto era stato all’ombra di tale principio che s’era sviluppato
il movimento di emancipazione operaia.
Il regresso a forme feudali, intrapreso dal Terzo Reich, non
costituiva affatto una fuga dalla società borghese-capitalistica. Do­
lio il naufragio che tale società aveva subito, in una con le forme
di vita da essa espresse, eccola riproporsi di sanare la propria si­
tuazione col ricorso alle forme di vita feudali, naturalmente senza
assumerne la sostanza rurale. Lo spirito borghese-capitalistico si
gettò sulle spalle la pelle dell’ordine feudale; il borghese tedesco
pretese di rimettersi a galla grazie alle proprie tradizioni medioe­
vali. L ’ordine economico borghese-capitalistico, dunque, restò so­
stanzialmente intatto, ma seppe talmente mascherarsi alla me­
dioevale, da far sembrare giustificata la sua denuncia dell’alleanza,
valida fino a quel momento, con l’ebreo.
Finché il patrimonio feudale aveva riposato sulla inamovi-

2 11
L A T IR A N N ID E

bilità del possesso terriero, borghesia ed ebrei avevano proceduto


concordemente verso la mobilità di tutti i valori economici: nulla
doveva più esistere che non avesse un prezzo e non fosse oggetto
di compravendita. Ora che la borghesia aveva ridotto in suo po­
tere il mondo intero, poteva aspirare a rendere stabili e intocca­
bili le basi economiche della sua supremazia politica, secondo il
modello dell’ordine feudale; la proprietà, continuamente flut­
tuante e che non è concresciuta col padrone, risvegliava nel nulla-
tenente la voglia dell’espropriazione; il passaggio di proprietà è
un atto che si compie troppo facilmente, per non prenderlo alla
leggera. Quanto più la proprietà è legata, intoccabile, tanto mag­
giore sarà il rispetto che ispira. Questo rispetto bisognava tornare
a imporlo agli operai. Il capitale industriale aspirava alla stabilità
del legame alla terra; l’esempio del patrimonio fondiario sugge­
riva di cercare il suo contraltare nell’ereditarietà dell’impresa. Il
capitale finanziario col suo vagabondare perdette credito, le leggi
in materia monetaria, borsistica e bancaria formarono la rete in
cui lo si imprigionò; ma bloccare il capitale finanziario signifi­
cava rovinare l’ebreo. L ’immobile capitale industriale potè cosi,
mandando in rovina il capitale finanziario ebraico, liberarsi da
un rivale dal quale aveva sempre dovuto attentamente guardarsi;
non gli fu più necessario essere sempre disperatamente sul chi
vive.
Ma la borghesia non aveva la coscienza del tutto tranquilla.
Il suo antico compagno di strada sapeva troppe cose, per non
considerare la metamorfosi borghese una semplice finzione capi­
talistica. L ’oppresso, il quale giunga a rendersi conto della propria
situazione, abbandona ogni forma d’idealismo. L ’idealismo del­
l’oppresso è l’imbecillità che permette ai dominatori di cavarne
ricchi tributi. L ’ebreo aveva troppo spirito, non era abbastanza
imbecille per essere idealista. Il ghetto gli aveva insegnato'lo
scetticismo, e in primo luogo aveva appreso che, nell’urto fra il
vaso di ferro e quello di coccio, è sempre il vaso “ ebreo ” a rimet­
terci. L ’invocazione dell’autoritarismo, che all’improvviso parti
dai petti dei buoni borghesi, la nuova fede popolare, il vangelo
dei comuni interessi borghesi non ingannarono neppure per un
momento l’ebreo. Ciò cui si dava il magnifico nome di rinnova-

2 12
L A P E R S E C U Z IO N E D E G L I E B R E I

mento morale e nazionale era una quinta al riparo della quale


la cricca dei capitani d’industria lavoravano di buzzo buono, per
rimettere in sesto e aggiornare la macchina dello sfruttamento
capitalistico; e l’ebreo sapeva perfettamente quel che c’era da aspet­
tarsi dal socialismo nazionale e dall’idealismo popolare. Siccome
aveva la netta sensazione che queste ideologie si sarebbero, per
forza di cose, rivolte contro di lui, ovvio che, sull’esempio di Marx,
cercasse di aprire gli occhi alla classe operaia. Il borghese aveva
tanto piu ragione di temere l’illuminismo e lo scetticismo ebraici
dal momento che era una sudicia commedia, quella con cui, pre­
sentandosi in veste di eroe popolare, intendeva imbonire il pub­
blico, per sopraffarlo ancora più compiutamente. L ’ebreo, quale
spettatore disincantato, dava fastidio, quale commentatore dell’equi­
voco spettacolo, era troppo inquietante; bisognava dunque colpirlo
con tale forza, da renderlo cieco e sordo, e gli passasse la voglia di
porre la propria esperienza al servizio del proletariato.
Per intimidire definitivamente gli ebrei, l’oligarchia borghese
diede mano libera aH’antisemitismo dei piccoli borghesi invidiosi.
Da quando, caduta con le corporazioni medioevali la sicurezza
del pane, l’ebreo dalle larghe vedute economiche ha sopravanzato
il ceto medio, fra gli strati piccoloborghesi l’antisemitismo è ende­
mico. Il “ grande magazzino ” divenne, agli occhi dell’artigiano,
del minutante, del modesto commerciante, il mostro che succhiava
loro il sangue dalle vene. E fra i rampolli della classe media desi­
derosi di farsi strada, l’antisemitismo trovò nuovi gladiatori, quan­
do quelli si trovarono a dover fare i conti, anche nelle professioni
liberali, con i concorrenti ebrei; era un pane che spettava loro,
t]uello che medici, avvocati, pubblicisti e artisti ebrei mangiavano,
li, finché la piccola borghesia se la prendeva con gli ebrei, sfogando
su questi i propri livori anticapitalistici, la grande borghesia po­
lova tranquillamente continuare a pescar nel torbido.
Tale antisemitismo era reso tanto più pesante e feroce dal suo
potersi basare sull’estraneità e diversità del sangue giudeo; le carat­
teristiche cui di continuo faceva ricorso per trarre nuovo vigore
dalla loro vista, erano il naso adunco, le labbra tumide, i capelli '
cresputi, i piedi piatti. Astiosamente si rinfacciò all’ebreo il suo
aspetto fisico, quasi fosse una colpa apparire quel che egli appariva.

213
L A T IR A N N ID E

Il sangue che gli scorreva nelle vene metteva l’ebreo al bando e


con ambigui argomenti si nutriva la disumana convinzione che
essere ebreo fosse una orrenda maledizione, promanante dalle
profondità del cosmo. Il Terzo Reich impresse all’ebreo il marchio,
ne fece un lebbroso che la comunità tedesca doveva espellere dal
proprio seno, perché la sua sola esistenza era abominio al creato.
Incrociarsi con lui voleva dire inquinare la purezza del sangue;
un attentato alla razza, che trasgrediva le leggi cosmiche, cosi co­
me la crocefissione del figlio di Dio trasgrediva i divini disegni di
salvazione. Contro coloro che attentavano alla razza, il nazista
provava lo stesso segreto orrore metafisico che l’uomo medioevale
ostentava nei confronti degli uccisori del Cristo. L ’ “ attentato alla
razza ” veniva commesso con l’atto sessuale : ragion per cui assunse
fisionomia di “ delitto sessuale. ” Chi attentava alla razza era un
delinquente sessuale, e si strappava la maschera dal volto del­
l’ebreo, mettendone in piazza i segreti d’alcova. E quanto più fetide
e oscene le storie di donne che s’attaccavano alle falde dell’ebreo,
tanto più meritamente ci si affermava quali guardie giurate ariane
del creato.
Il senso dell’ascesa umana dalla barbarie consiste nell’infrenare
il caotico, l’istintivo, nel dar forma alla sostanza primitiva. Sem-
preché la differenza tra cultura e civilizzazione1 sia valida, deno­
terà la prima l’attivo processo di infrenamento e di formazione nel
suo farsi palese, la civilizzazione dal canto suo l’atto compiuto,
l’inventario delle sue risultanze. Il caotico-istintivo, la sostanza
originale, è un dato eterno, la materia prima che, accolta nella cul­
tura, viene civilizzata e che, grazie all’inesauribilità della propria
primigenia energia e dinamica, torna sempre a farsi valere. Cui
tura e civilizzazione sono il compendio degli sforzi intesi a con­
trollare l’eruzione di tali dati elementari, a impedire che spon­
taneamente, violentemente, erompano. È più comodo abbando­
narsi ad essi che non tenerli in freno; cultura e civilizzazione sono
ardue imprese e l’erompere dell’elementarità è il segno clic non
si è più alla loro altezza. Basta che per un momento gli cle­
menti primigeni non siano più domati, perché prendano il cani

1 Ktiltur e Zivilisation-, cultura intesa, naturalmente, in senso oggettivo. \N .il.'l'.\

214
L A P E R S E C U Z IO N E D E G L I E B R E I

po: l ’originale, l’informe trionfa, laddove la forza formatrice si


faccia fiacca, si spossi.
Il sangue è qualcosa di elementare, è un dato di fatto — non già
un principio. Qualora a principio lo si “ elevi, ” si può star certi
che è implicata la volontà di scendere in basso, di degradarsi. Il san­
gue viene eletto a “ principio ” quando non si vuole ammettere fran­
camente di aver capitolato di fronte ai propri istinti, al proprio
sangue; l’occhio, rivolto al profondo, al caotico, più non si affisa
all’altezza, alla libertà, più non ha un orizzonte e, ovunque si
rivolga, altro non scorge che il caotico elemento del sangue. Il
sangue diviene cosi l’esclusiva chiave che dà accesso a tutti i se­
greti, l’unica causa prima di tutti gli avvenimenti. Per quanto
anche cultura e civilizzazione affondino radici nel sangue, tuttavia
la loro essenza consiste nel levarsi da questa base e, staccando­
sene, nel puntare verso il cielo; i fiori della cultura e della civi­
lizzazione sono tanto più delicati, più profumati, più preziosi,
quanto meno conservano l’odore del sangue originario, quanto
più generosamente ricoprono le differenze di razza, popolo, stir­
pe, quanto più universalmente validi si rivelano. Il “ naturale ”
non è affatto, come invece sostengono i profeti deH’arianesimo,
“ ciò che di più alto e di meglio ” vi sia; la “ quadrimillenaria cor­
rente religiosa ” del sangue ariano è un’assai incontrollata, agitata
marea. Se al sangue si lascia libero corso, esso travolgerà le crea­
zioni della cultura e della civilizzazione. Il primitivo, l’istintivo,
l’immediato, il nudo, è sempre bestialmente rozzo: cultura e ci­
vilizzazione lo vestono. Mettere allo scoperto le zone elementari,
fisiologiche, dell’esistenza ha sempre dell’impudico. “ Quanta fal­
sila e bassezza ci vogliono, per proporre, a quel guazzabuglio che
è l’Europa dei nostri giorni, questioni razziali;” osserva Nietz­
sche; e stabilisce il principio: “ romperla con chiunque abbia par­
ie nella infame frode razziale. ” Coperture e velami vengon tolti
di mezzo? Ecco subito apparire la bestia. Cultura e civilizzazione
placano e pacificano il caos primigenio: riportarlo alla luce, si­
gnifica far prorompere ribollenti gli elementari impulsi barbarici,
l'astio, l’odio assetato di sangue.
L ’odio razziale, che il Terzo Reich scatena nei confronti degli
ebrei, mobilita fin l’ultima riserva di quell’odio che la borghesia,

215
L A T IR A N N ID E

ai fini della sua lotta di classe, vorrebbe puntare addosso al pro­


letariato.
L ’uomo che riuscì a spingere all’esasperazione il livore anti­
semita fu il Gauleiter di Norimberga, Julius Streicher. Questo
antico maestro di scuola era un pericoloso pregiudicato, un ma­
niaco sessuale condannato per turpi reati: una figura volgare e
abietta, preda di una smodata ambizione politica; ad esercitare il
potere era un uomo che non faceva mistero alcuno del sudiciume
che gli ingombrava l’animo, un semifolle, attratto da ogni im­
maginabile stramberia: manutengolo di ciarlatani, avallò la truffa
scientifica partorita dalla mente di un medico, lo “ scopritore del­
l’agente patogeno del cancro, ” sparse a piene mani quel segreto
concime grazie al quale i visionari si proponevano di cavare dalla
terra la riforma dell’umanità. In lui era sempre vivo il risenti­
mento del maestro di scuola per la buona società e il mondo della
cultura accademica, che egli amava umiliare. Potè così accadere
che Streicher desse in pubblico la precedenza ad una sguattera
piuttosto che a un presidente dei ministri o posponesse un indu­
striale al più umile dei suoi operai: ma questo non già perché
volesse onorare la sguattera e l’operaio, ma solo perché così con­
tava di fare uno sgarbo ai due personaggi. Voleva assaporare in­
somma il suo potere di beniamino delle plebi; per diventare po­
polare, parlava grosso e grasso. Raggiungere il potere, significò
anche per Streicher perdere completamente l’equilibrio; anche
egli fu illuminato da quella luce di follia che Roma, prossima al
crollo, aveva visto splendere sul trono e attorno al trono. Ed ecco
Streicher, in veste di alto funzionario dello stato e del partito,
penetrare nella cella di un detenuto e colpire l’inerme con lo scu­
discio per poi, nel corso di una adunata, apertamente vantarsi di
questo vile, spregevole abuso di potere. Streicher, nato per l’orgia
e la gozzoviglia, è un uomo dal quale emana il lezzo di ogni vizio,
lui che esalta la purezza germanica.
L ’ebraico “ attentato alla razza ” era per lui la miniera da cui
trar materia per soddisfare le sue inclinazioni di pornografo; lo
Stiirmer era redatto da sporcaccioni, e sporcaccione si diventava a
leggerlo — a meno di non esserlo già prima: un foglio che avve­
lenava le fantasie di uomini, donne, ragazzi e ragazze, che cresceva
L A P E R S E C U Z IO N E D E G L I E B R E I

i bambini all’atmosfera e al gergo del lupanare. L o Stiirmer, che


godeva di speciali considerazioni da parte di Hitler, stava a pro­
vare, con la sua enorme tiratura, che al buon nazista s’apparteneva,
tanto di dare in popolaresche corbellerie, quanto di scadere nel
sesso e nella pornografìa. Ragazzi e ragazze della Hitlerjugend,
ancora in tenerissima età, venivano indotti e abituati a spiare con
occhio bramoso dal buco della serratura i segreti dell’alcova ebraica.
Per anni e anni, settimana per settimana, Streicher riempi il
suo foglio con la maligna broda che costituiva il suo elemento;
attizzò l’odio razziale con la cronaca degli scandali sessuali che
imbandiva al lettore; il suo antisemitismo si riduceva alla formula,
doversi sopprimere gli ebrei perché ardevano dal desiderio di vio­
lentare vergini bionde. L ’ebreo divenne il diavolo, sempre alla
ricerca del modo in cui insozzare il puro sangue germanico; con­
tro di lui fu aizzato l’odio del sangue, si gettò olio sul fuoco del
disgusto fisico. L ’ebreo fu marchiato quale radice di tutti i mali
corporali e morali, perché ogni buon tedesco guardasse a lui solo
con ripugnanza, conscio dell’insuperabile abisso che da lui lo di­
videva. Cosi si andava preparando l’atmosfera morale per l’esilio
degli ebrei nel ghetto: chi s’abbeverava alla fonte dello Stiirmer
finiva per abominare il giudeo quale sozzo rigurgito da scansare
per “ motivi igienici, ” dal quale non ci si dovesse fare avvicinare,
cui non si potesse concedere parità di diritti. Una volta portate le
masse a questo punto, era finita per tutto ciò che, dal socialismo
d’ispirazione marxista al collettivismo, s’accoppiasse al giudeo:
cose ugualmente sozze, ugualmente putride.
L ’antisemitismo è in genere la mobilitazione degli animi in
una situazione di guerra: ci si azzuffa con un nemico, la battaglia
è in pieno svolgimento. Ponendo l’ebreo in una luce sconcia, ve­
dendo in lui non solo il disgregatore della società borghese, l’istiga­
tore e il promotore dell’odio di classe, ma anche il corruttore del
• mondo e dell’umanità, messo al bando dal cosmo tutto, si giustifica
la rabbia ossessiva con cui gli si dà addosso.8
La politica del Terzo Reich nei confronti degli ebrei fu, nella
sua bassezza e viltà, schifosamente meschina.

y È cosi che si finisce per giustificare anche le camere a gas (1946).

217
L A T IR A N N ID E

• Anche gli ebrei, durante la guerra del ’ i4-’ i8, s’erano battuti per
la Germania nel fango delle trincee. Fritz Haber con i suoi ritro­
vati chimici, Rathenau provvedendo ad organizzare l’economia di
guerra, avevano permesso alla nazione tedesca di resistere per ben
quattro anni. Chi parlava di estraneità degli ebrei, pretendendo di
trarne precise conseguenze d’ordine politico, doveva attribuire an­
cora maggiore valore a tali meriti ebraici: che i giudei, quelli
stessi che si voleva defraudare della patria, avessero per questa
messo a repentaglio la vita, era “ più eroico ” di quanto non aves­
sero fatto i “ v e ri” tedeschi; che l’uomo “ nelle cui vene scorre
sangue tedesco ” versi il suo sangue per la grande Germania è del
tutto naturale. Nessun tedesco poteva quindi permettersi un atteg­
giamento di disprezzo nei confronti dell’ebreo, senza prima averne
onorato le imprese, senza avergli saldato il suo debito per queste:
altrimenti era un farabutto.
A ll’inizio non mancò infatti chi aveva la sensazione che l’ex-
combattente ebreo si fosse guadagnato il diritto alla parità con gli
“ ariani. ” Bisognava dunque usargli dei riguardi, sul terreno eco­
nomico o delle libere professioni. Un po’ alla volta, tuttavia, simili
prerogative furono aggirate: le organizzazioni di partito proibi­
rono in pratica ai loro membri di consultare medici e avvocati
ebrei anche se a questi, in virtù dei loro meriti di combattenti, era
tuttora permesso l’esercizio della professione: una meschinità della
quale al popolo tedesco resterà per anni la vergogna.
N ell’euforia degli iniziali successi nazionalsocialisti, Streicher
aveva reclamato il boicottaggio generale contro gli ebrei, e i pic­
coli borghesi si leccarono le labbra all’idea del ricco bottino che
se ne promettevano. Ma l’eco che la proposta trovò soprattutto in
Inghilterra e in America, tolse il coraggio a Hitler, il quale am­
biva al plauso dell’opinione straniera non meno che a quello delle
masse tedesche; un boicottaggio d’un sol giorno avrebbe mostrate
di che fosse capace il Terzo Reich, senza però dar motivo di du­
bitare del realistico senso di misura dei nuovi signori di Germania.
Con povera astuzia, il boicottaggio fu inscenato quale “ avverti­
m ento” rivolto contro l’atteggiamento calunnioso della interna­
zionale ebraica. Le si tirava insomma un colpo d’avvertimento:
le si sarebbe concessa un’ultima istanza, e solo se non si fosse decisa

218
L A P E R S E C U Z IO N E D E G L I E B R E I

a emendarsi, le si sarebbe scatenata addosso tutta l’ira nazista.


“ A llo scopo di offrire agli ebrei un’ultima occasione per rivedere
le proprie posizioni, ” affermò Goebbels, “ daremo tregua al boi­
cottaggio dalla sera di sabato alle dieci del mattino di "mercoledì,
con la speranza che in questi tre giorni si ponga fine alle calunnie
contro la Germania e il nazionalsocialismo. In caso affermativo,
siamo disposti a ristabilire normali rapporti, in caso contrario, il
boicottaggio sarà condotto in modo da distruggere i giudei tede­
schi. ” Così il Terzo Reich sperava di trarsi d’impaccio agli occhi
delle masse bramose di “ sguazzare nel sangue giudeo ” ; pauroso
dell’opinione pubblica straniera, era ben lieto di aver interrotto il
boicottaggio, né aveva intenzione di riprenderlo. L a minaccia di
Goebbels non era che l’indegna menzogna di un demagogo privo
di scrupoli: gli ebrei non dovevano essere massacrati nel corso di
pubblici pogrom, ma strangolati un po’ alla volta; come in tante
altre occasioni, il Terzo Reich si propose di raggiungere il suo
scopo non già con un atto di aperta violenza, ma con ipocrita bas­
sezza. N el giorno del boicottaggio, si videro in tutto il paese gli
uomini della SA montare la guardia da mane a sera alle case della
gente d’affari ebraica; illudendosi così di demoralizzare i giudei,
non fecero che disonorare se stessi. Nei campi di concentramento,
ebrei malvisti vennero sottoposti a trattamenti inumani, non di
rado tormentati a morte. A Norimberga, Streicher ne fece radu­
nare un centinaio su un prato, obbligandoli a brucare l’erba. An- ^
cora nel 1935, il comandante del raggruppamento SA_ Ostmark
«.lava atto in un documento ufficiale, a un suo sottoposto, che questi >
“ in occasione di uno scontro con elementi giudei alla taverna
‘ Augustiner ’ in via Anhalt, si è distinto per il suo valore : incu­
rante della supremazia numerica della canaglia giudea, ben deciso
a non cedere la posizione, ha distribuito colpi poderosi, come si
usava dagli SA nei giorni della lotta. ”
Passo passo, la nuova legislazione antiebraica mise alle strette
la minoranza israelita; i matrimoni misti potevano essere impu­
gnati per iniziativa del solo contraente ariano; si sostenne che solo
il Terzo Reich era riuscito a far luce sulla realtà della questione
razziale. A gli ebrei si proibì di servirsi dei bagni pubblici; si doveva
persuadere il pubblico che il giudeo diffondesse all’intorno miasmi

219
L A T IR A N N ID E

pestiferi. Nelle scuole statali fu introdotto il principio della sepa­


razione razziale; le libere professioni furono sbarrate ai giudei, si
crearono degli uffici di ricerca, col compito di scoprire e sradicare
le influenze ebraiche nelle varie discipline. Fu visto con sospetto
chi praticava con ebrei o comprava in negozi da essi gestiti. Com­
mercianti ebrei furono incarcerati, per proteggerli dal popolo pro­
vocato dalla loro condotta. I funzionari ebrei, privati dei privilegi,
dovettero rinunciare a ogni loro diritto: impossibile infatti preten­
dere, da un ariano, che lavorasse al loro fianco. Le “ leggi di N o­
rimberga ” minacciavano il carcere per gli “ attentati alla razza ” :
l’ebreo che intrattenesse rapporti sessuali con un’ariana recava
guasto al sangue ariano; a sua volta, l’ariano che “ s’unisse carnal­
mente con un’ebrea ” vulnerava l’onore tedesco. La semplice inten­
zione era passibile di pena, e bastava a ravvisarla che il nome o il
cognome o il semplice aspetto esteriore permettessero di concludere
per la diversità razziale dell’uomo o della donna; commetteva ille­
galità il giudeo che si accoppiasse a un’ebrea, nella persuasione che
si trattasse di un’ariana; il semplice tentativo su oggetto improprio
veniva punito.
I tribunali si trasformarono in strumenti al servizio degli istinti
antisemiti delle plebi. Si negarono alle istituzioni ebraiche il carat­
tere di utilità pubblica e le conseguenti facilitazioni fiscali. N el
Terzo Reich non v’era iniziativa, per quanto caritatevole, la quale
non s’accordasse col punto di vista del razzismo, che potesse godere
di privilegi fiscali. L a nomina, da parte di un ariano, di eredi
ebrei, fu dichiarata illegale e quindi priva di validità. Un ebreo
sessantenne fu condannato per infrazioni alla legge per la purezza
del sangue tedesco, perché una ragazza “ ariana, ” disoccupata e
dedita al vagabondaggio, cui egli caritatevolmente aveva offerto
ospitalità, nonostante il suo espresso divieto aveva dato una mano
nelle faccende domestiche : la mera proibizione infatti non bastava,
l’ebreo avrebbe dovuto provvedere a che la ragazza in casa sua non
muovesse neppure un dito. Un ebreo invocava giustizia ? Di regola
gli veniva negata; se era lui l’accusato, gli articoli della legge ve­
nivano distorti, finché non si scoprisse l’appiglio alla condanna.”
3 L a minaccia di Goebbels di distruggere gli ebrei, cominciò a divenire atroce
realtà a partire dalla Kristallnacht del 1 9 3 8 : la stella di David servi a distinguere i

220
L A P E R S E C U Z IO N E D E G L I E B R E I

Su 530.000 ebrei, quanti ne vivevano in Germania nel 1933,


100.000 fuggirono o emigrarono all’estero. Enormi furono le ric­
chezze confiscate agli emigrati; se l’ebreo che s’ostinò a restare
nell’inferno tedesco fu calpestato, quello che alla Germania voltò le
spalle fu derubato.
Il Terzo Reich aveva dunque aperto le ostilità contro il giudai­
smo; tuttavia, seguendo il gesuitico sistema di appiccare il fuoco
per poi indicare come colpevoli le vittime del crimine, la Germania
nazista, non appena incappò in una reazione, assunse l’aria dell’in­
nocenza perseguitata, protestò contro le calunnie ebraiche, benché
essa stessa avesse mosso contro di sé la guerra degli ebrei, e smaniò
al vedere questi rivelare al mondo le proprie ferite. “ Il nostro
boicottaggio, ” dichiarò Goebbels, “ è stato un gesto di legittima
difesa. ”
Di contro al Terzo Reich, gli ebrei di tutto il mondo si fecero
difensori del liberalismo, dell’umanitarismo, della democrazia par­
lamentare borghese europea. Anche per la borghesia occidentale
la scappatoia del nazismo era, tutto sommato, praticabile; ma non
per gli ebrei, che pertanto si schierarono in prima fila tra i paladini
della democrazia liberale, non lesinando certo i martiri. Era loro
intento di provocare il crollo del Terzo Reich prima che questi
potesse far scuola fra le democrazie occidentali; essi organizzarono
l’isolamento economico contro la Germania, bloccando crediti e
mercati, con l’intento di rovinarla; agli impetuosi assalti di Hitler
opposero una tattica elastica, contando sul tempo, mirando al lento
dissanguamento del Terzo Reich che, per quanto forte si desse a
vedere, avrebbe finito per cadere esausto.
David Frankfurter, l’autore del delitto di Davos, fu il primo
ebreo che ripagò occhio per occhio. Se Frankfurter non era un
Teli, d’altronde Gustloff4 era solo un pessimo soggetto e niente
affatto un Gessler. Tuttavia il gesto bastò a incutere non poca paura

«imlci a prima vista dal resto della popolazione; e ben presto si organizzò e incominciò
la sistematica distruzione fisica degli ebrei. In Germania, come nei territori occupati,
«li ebrei furono fucilati, impiccati, gettati nelle camere a gas; assistendovi imperterrita,
l'intera popolazione tedesca recò la macchia di tali misfatti (1946).
1 Allora Gauleitcr della Turingia. Col suo nome furono successivamente battezzate
le fabbriche di materiale bellico annesse al campo di concentramento di Buchenwald.
|N.d.T.J
L A T IR A N N ID E

agli uomini del Terzo Reich, persuadendoli che anche un non


ariano all’occorrenza sa servirsi della pistola: di fronte alle pallot­
tole, il loro coraggio svani.
Il Terzo Reich, misurandosi con il giudaismo, lo elevò senz’al­
tro al rango di una potenza mondiale. Dacché l’intera dinamica
del Terzo Reich gli si volse contro, il prestigio del giudeo aumentò;
egli s’avvantaggiò dall’essere divenuto lo spauracchio di ogni na­
zionalsocialista, crebbe alle dimensioni del Terzo Reich, che lo
eleggeva a proprio avversario. N el Terzo Reich un ebreo valeva
ben centoventi “ ariani, ” i quali paventavano in lui la “ causa
comune ” delle loro infelicità, mentre sul piano mondiale un ebreo,
(il numero totale degli israeliti non supera i quindici milioni) ve­
niva ad avere lo stesso peso di quattro tedeschi hitleriani. Il Terzo
Reich, elevando l’ebreo al ruolo di nemico pubblico numero uno,
10 gonfiava fino a farne una figura campeggiante sulla scena mon­
diale. Il giudeo incarnava la tesi, il Terzo Reich l’antitesi. Il “ san­
gue nordico ” fu messo in scacco dallo spirito ebraico, la ristrettezza
mentale razzistica dall’apertura di orizzonti ebraica, la segreta della
Gestapo dal liberalismo ebraico, la bestialità di SA ed SS dall’uma­
nitarismo ebraico. A ogni ponderata mossa ebraica, il Terzo Reich
rispose con una goffa contromossa, che si compendiava in un ri­
cattatorio ultimatum. Il Terzo Reich era insomma una Germania
ridottasi a voler essere nient’altro che Tanti-Giuda: non appena
perdeva di vista l’ebreo che perseguitava, il Terzo Reich non sapeva
piu come definirsi, esso poteva determinarsi solo col metro ebraico.
Erigendosi quale contraddizione statalmente organizzata all’ebreo,
11 Terzo Reich rese a questi il massimo onore che mai gli fosse
stato tributato.

222
Capitolo diciannovesimo

Inquadrarsi!

U n’ansia di “ inquadramento ” s’impadroni del popolo tutto.


Non ci fu pubblica o privata istituzione, organizzazione, corpora­
zione, impresa economica od associazione culturale, lega o unione,
che non si “ inquadrasse. ” Scopo dell’inquadramento, la creazione
della “ comunità del popolo. ” La quale non costituisce affatto
un’organizzazione sociale di tipo superiore: mai apparenza fu più
ingannevole; mai, dietro un’ “ idea” cosi pretenziosamente formu­
lata si celò maggiore vuotaggine. I prodotti di scarto, l’immondezza
di tutti gli strati sociali, ambigue figure di declassati e di falliti
s’incontrarono sullo stesso terreno, quello della livida disperazione
pronta a ogni avventura e a ogni delitto, perché ha ormai solo da
guadagnare e più nulla da perdere. E, ritrovatisi nella stessa fossa
di spurgo, ex-ufficiali, funzionari, commercianti, artigiani, impie­
gati, operai s’avvidero d’esser tutti putredine d’una medesima so­
stanza. Il più turpe risultato della loro vendetta fu di aver elevato
a norma di legge la comunanza del loro essere di reietti; nella
“ comunità del popolo, ” l’intera nazione sarà ridotta al livello
esistenziale della feccia dell’umanità. Senso e contenuto della co­
munità del popolo è unicamente lo spirito di solidarietà della ca­
naglia sottoproletaria.
Ed ecco qua e là piccoli funzionari e burocrati d’un tratto trar
di tasca la tessera del partito nazista, fino a quel momento tenuta
accuratamente nascosta, e farsene vanto; a volte era il portiere che
inaspettatamente si rivelava per uomo di fiducia della rivoluzione
nazionale, e da un giorno all’altro diventava li dentro il pezzo
grosso. Tessera del partito e camicia bruna erano l’attestato dal
quale chi ne fosse in possesso si sentiva autorizzato a afferrare le
redini e porsi alla testa. L a volontà dell’elettore, che finora s’era
espressa nella composizione del parlamento, non ebbe più alcun

223
L A T IR A N N ID E

valore, le personalità che lo avevano rappresentato sparirono dalla


circolazione; unico portavoce della volontà popolare fu l’uomo con
la tessera in tasca e la camicia bruna. G li esperti più meritevoli e
provati, gente che aveva dedicato la vita all’attività in un partico­
lare campo, furono semplicemente, senza tanti scrupoli, messi da
parte e sostituiti con elementi del partito, il cui unico merito con­
sisteva nell’essere in regola col pagamento dei bollini. Cosi le uni­
versità ebbero nuovi rettori, i complessi economici nuovi dirigenti;
nuovi presidenti le camere di commercio, le associazioni culturali,
le fondazioni, i consigli d’amministrazione; e le organizzazioni
professionali e di categoria nuovi responsabili.
Subito dopo le elezioni del marzo 1933, si era manifestata la
tendenza nazista di spezzare le reni ai suoi due complici, Partito
popolare nazionale tedesco ed Elm i d’acciaio: per Hitler non con­
tavano più, era ormai tempo di farla finita anche con loro.
L a grande borghesia si era data a Hitler, lo spirito di Helfferich
si era tradotto nel movimento nazionalsocialista. Del Partito popo­
lare tedesco viveva ancora solo la volontà di autoconservazione
d’un vuoto scheletro; come uno spettro, vi si agitava ancora vana­
mente Hugenberg, che, uno alla volta, i suoi seguaci piantarono
in asso, desiderosi di assicurarsi le prebende del Terzo Reich.
Hugenberg finiva per essere un reazionario, spauracchio al cui
cospetto ogni vecchio combattente si sentiva battere in petto un
cuore di rivoluzionario. Ma non occorreva che Hitler avesse nei
suoi riguardi peli sulla lingua: un ministro dell’economia come
Hugenberg era una soma che obbligava a segnare il passo. Cosi
Hitler riusci a superare le difficoltà di quelle prime, febbrili setti­
mane; e quando poi Hugenberg diede le dimissioni, le prospettive
“ socialistiche” dei vecchi combattenti ebbero nuovo alimenta : un
pilastro della reazione era crollato. Il Partito popolare nazionale-
tedesco si sciolse; i vessilliferi del monarchismo bianco rosso e nero
s’acconciarono a Hitler e alla sua croce uncinata; coloro che borio
samente avevano preteso fornire gli “ ufficiali ” della politica, igno
miniosamente si diedero ad accattare il favore di non esser dimcn
ticati nella spartizione del bottino.
Col Partito nazionale tedesco sparirono anche gli Elm i d’acciaio
che, avendone condiviso gli “ ideali,” ne condivisero inevitabil

224
'R;

IN Q U A D R A R S I

mente il destino. Il capo della associazione, Seldte, si inquadrò


con una lestezza tale da lasciar senza fiato i suoi seguaci. Quella
degli Elm i d’acciaio era stata l’unione degli ex combattenti del
fronte; non si può certo affermare che questi “ ero i” sapessero
cadere con onore. Seldte era un uomo piatto, insignificante, di
quella mediocrità che nulla ha da mantenere perché nulla ha da
promettere; in lui non v’era cosa che facesse spicco, né il carattere,
né lo spirito, né le idee; il suo orgoglio era in stridente, crasso con­
trasto con la sua reale pochezza. Eleggendo loro capo questo me­
schino ometto, i combattenti avevano dato a vedere che, sul piano
politico, diffidavano delle proprie forze. Non avevano niente da
dire, in politica, e pertanto il loro capo doveva essere un individuo
che non dicesse nulla, qual era appunto Seldte. Gli Elm i d’acciaio
non avevano mai acquistato un proprio peso politico, e perciò era
inevitabile che si trascinassero al rimorchio di altre potenze poli­
tiche. Seldte era uomo da attaccarsi a chiunque fosse disposto ad
accettarlo; gli Elm i d’acciaio amavano riposare sui vecchi allori,
amavano raccontare delle imprese d’un tempo, non compierne di
nuove. E Seldte, come narratore la sua figura la faceva: nel suo
libro di guerra — tre volumi — offre alla compagnia il suo “ eroico
passato, ” nello stile caro agli amici di birreria. Ma Hitler lo su­
bissò; l ’empito dei veterani delle trincee dovette capitolare di fron­
te all’empito dei veterani delle risse. I combattenti delle trincee
s’azzittirono, allorché i combattenti delle bettole e delle piazze
non si fecero scrupolo di tradire in modo infame dei vecchi, fedeli
camerati: davvero sorprendente la facilità con cui si raccapezzavano
nell’atmosfera mefitica del gangsterismo nazionalsocialista. Nei
confronti di Dusterberg, Seldte si comportò in maniera indefini­
bile: quando i chiassosi adepti dell’antisemitismo pretesero che
l’ex vicepresidente e attuale candidato alla presidenza degli Elm i
d'acciaio fosse eliminato, provvide Seldte a dargli l’ultimo colpo,
che lo fece sparire dalla scena. Seccati, gli ex combattenti borbot­
tarono, ma nessuno di loro mosse un dito.
Ecco quanto scriveva a Seldte, in data 30 luglio 1935, il capo
di S. M. dell’esercito, generale von Fritsch: “ L ’esercito non ha
pili interesse alla conservazione degli Elm i d’acciaio quale rappre­
sentanza combattentistica del vecchio organismo militare. Non

225
L A T IR A N N ID E

intendo affatto disconoscere i grandi meriti e l’importanza che


l’associazione ha avuto nel passato. Ma, col ripristino della coscri­
zione obbligatoria e con la ricostruzione dell’esercito voluta dal
Fuhrer, si è raggiunto ciò per cui in passato anche gli Elm i d’acciaio
hanno lottato tenacemente, con un lavoro spesso misconosciuto. Il
nazionalsocialismo ha strappato la vittoria finale. E, a torto o a
ragione, sta di fatto che oggi gli Elm i d’acciaio sono ritenuti per
più aspetti in contrasto con lo stato nazionalsocialista. Ma ciò che
importa per noi, ai fini della difesa della Patria, è la massima, la
più ferma unità della nazione. ”
Una logica alla quale gli Elm i d’acciaio si arresero. Ora che il
nazionalismo ce l’aveva fatta, e perfino l’esercito attaccava sulle
proprie uniformi il “ segno nobiliare ” del partito, non restò loro
che tirarsi in disparte; e, svestita la divisa grigia, si infilarono nei
panni bruni. I veterani delle trincee, i quali nel frattempo si erano
rammentati dei loro doveri verso quella proprietà borghese, nei
cui confronti il fango delle trincee li aveva resi quasi indifferenti,
si lasciarono convincere che la “ rivoluzione nazionale ” aveva ben
altra importanza che non la guerra mondiale; e, senza opporre
resistenza, affondarono nella vasta massa bruna.
L a spinta all’ “ inquadramento ” ormai si faceva sentire per
ogni dove; milioni di individui, sbarazzatisi delle convinzioni nu­
trite fino a quel momento, s’affrettarono a ritirare lo scudetto
presso le sedi del partito nazionalsocialista. Essi stessi si sentirono
nauseati da ogni particolarità, ogni singolarità; si affrettarono a
trasformarsi in uomini normativamente nazionalsocialisti. Come
l’aristocrazia francese nella notte del 4 agosto 1789 aveva sacrificato
i propri privilegi sull’altare della patria, cosi ora le masse borghesi
deponevano, ai piedi del duce della “ rinascita nazionale” la loro
personalità. Ognuno aspirò ad essere come gli altri, perché d’un
tratto ecco fatto oggetto di sospetti chi fosse diverso. Venne allora
alla luce il suddito tedesco,, che senza discutere indossa qualsiasi
uniforme se glielo impone l’autorità; non succede mai che sia
troppo stretto lo stivale che gli vien consegnato dal furiere: è il
suo piede troppo grande. E, visto che l’autorità s’era messa a fare
la voce grossa, ecco subito il suddito inquadrarsi, e guardarsi bene,
rifiutandosi al conformismo, dall’attirarsi addosso la tempesta.

226
IN Q U A D R A R S I

L ’inquadramento imposto dalla “ rivoluzione” nazionalsocia­


lista era la maniera tedesca di quell’uguaglianza che la rivolu­
zione francese aveva proclamato nel 1789. Quest’era parità di
diritti, per cui non restava più posto per i privilegi feudali. L ’in­
quadramento è uniformità dei punti di vista, livellamento delle
opinioni.
Esso è simile a un procedimento tecnico: si abbassa una leva,
e l’intera sostanza umana si trova ad essere ridotta a un unico
modello. Nessuno più si discosta dal suo vicino, l’uomo si com­
porta come un elemento meccanico, mosso dall’esterno e che dal­
l’esterno riceve la propria forza. Fino alla maniera di salutare
egli risponderà allo schema imposto dalle autorità: ovunque in­
contri il vicino, notte o giorno, il suddito leverà il braccio, urlando
Heil Hitler!
Il punto d’appoggio della leva destinata a inquadrare l’indivi­
duo, fu il problema della pagnotta: a chi non funzionasse a dove­
re, fu negato il cibo. Mai si erano presi più scopertamente gli uo­
mini per lo stomaco, per angariarne le coscienze. L ’impiegato
tremò per il suo stipendio e il suo sostentamento, dopo che la legge
“ per la reintegrazione della burocrazia ” ebbe scosso dalle fonda­
menta la salda torre dei suoi “ legittimi diritti” : bastò che egli
mettesse in mostra più carattere di quanto non fosse consono ai
tempi, perché subito si elevasse stridulo il malevolo coro della
massa piccoloborghese ad accusarlo di volersi “ approfittare del
denaro del nostro stato nazionalsocialista” ; come lupi affamati,
i “ vecchi combattenti ” si accalcarono agli uffici, in caccia di posti,
spiando le debolezze dei funzionari, pronti a puntare il dito con-
tro chi desse adito a dubbi circa la misura del suo inquadramento.
Lo sdegno nazionalsocialista contro i “ ragionieri dei partiti marxi­
sti” si rivelò mera gelosia del mestiere, e la “ reintegrazione della
burocrazia ” consistè unicamente nell’inondare gli uffici di “ ragio­
nieri del partito nazionalsocialista. ” L ’inquadramento della buro­
crazia fu solo una propedeutica al “ dominio dei bonzi. ”
Né meglio andò a operai e impiegati delle imprese private,
die perdevano il posto se il loro entusiasmo per l’inquadramento
sembrava tiepido. L ’operaio si rifiutava di partecipare alla adu­
nata? Si vedeva licenziato su due piedi: “ nemico dello stato,” non

22 7
L A T IR A N N ID E

era degno di partecipare al processo produttivo nazionale. L a coa­


zione organizzativa, cui furono soggetti chi esercitava una libera
professione o un mestiere, imprenditori, artigiani, o commercian­
ti, offriva il destro a ogni forma di vessazione; essere espulsi dalla
rispettiva “ camera, ” equivaleva a essere privati del diritto all’e­
sercizio della professione, a perdere, col pane, la posizione sociale.
L a Weltanschauung nazionalsocialista traeva la forza del suo im­
perio dalla preoccupazione per il pane quotidiano; e, avendo il
padrone nazionalsocialista monopolizzato la paniera, ecco tutti
intonare la sua canzone.
Inquadrarsi significava per l’uomo imboccare una strada nuo­
va, una strada “ migliore ” : egli si convertiva. Chi era troppo
suscettibile per convenire con se stesso che a persuaderlo a unirsi
al gregge era stata la banale preoccupazione del pane quotidiano,
poteva salvare la stima di sé facendo derivare il proprio cedimento
da moventi d’ordine spirituale e “ più elevati. ” Poteva addurre
che ad accattivarne l’animo erano stati la figura pedagogica del
Fiihrer e i suoi edificanti scritti: il suo passaggio al nazionalsocia­
lismo preferiva considerarlo il risultato di una educazione anziché
un esempio di codardia.
Il Terzo Reich teneva nel debito conto queste debolezze umane;
1’ “ educazione ” era una proposta amichevole che esso faceva;
bisognava ascoltare la ragione e lasciarsi erudire, evitando cosi di
farsi prendere brutalmente per lo stomaco. Il Terzo Reich prefe­
riva “ educare, ” tanto più che le masse borghesi han sempre osse­
quiato la passione del pedagogo. Oltre al Contratto sociale, Rous­
seau scrisse anche YEmilio; ed Emilio è stato il ragazzo modello
borghese, che ha aduggiato l’intero secolo. A l borghese piace ri­
promettersi il successo, quando si fa opera di persuasione: l’appel­
lo alla ragione è destinato a produrre miracolL
Certo la pedagogia nazionalsocialista è più primitiva di quanto
non fosse la liberal-democratica; tra gli strumenti del maestro
conta infatti anche il bastone. I vecchi combattenti si pretendono
anche educatori; è per loro motivo di soddisfazione, inculcare nei
cervelli altrui ciò che ad essi sembra saggio. Hitler non ha solo
l’ambizione di padre della patria, ma anche il talento del maestro
del popolo, e non v’è mezzemaniche che, nella sua cerchia ristrct

22S
IN Q U A D R A R S I

ta, non aspiri, in veste di “ piccolo Hitler, ” a essere insieme pa­


triarca e maestro. Il fichtiano “ educatore dell’umanità ” è divenuto
un bullo semplicistico e intollerante, incapace di sopportare che
vi sia ancora chi non unisca la sua voce al coro di Horst Wessel.
Chiunque erri, dev’essere riportato sul cammino della virtù na­
zionalsocialista; fallisca la clemenza, ne compirà l’opera il rigore
robespierrano. Il Terzo Reich è un’enorme istituzione pedagogi­
ca; il tedesco viene ammaestrato, più che dominato, e compiti
educativi ha non solo la scuola, ma ogni pubblica istituzione:
partito, SA, SS, Gioventù hitleriana, Servizio del lavoro, Arbeits-
front e Kraft durch Prende, 1 governo e burocrazia, ma soprattutto
polizia, caserma, carcere, campo di concentramento. Ovunque si
trovi, ovunque vada, che lavori o riposi, sempre il tedesco trova
chi lo educa; egli non può e non deve essere ciò che spontanea­
mente è, ma ciò che di lui vuol fare il suo maestro nazionalsocia­
lista. Il suo educatore è onnipresente: il tedesco del Terzo Reich
non ha più scampo, è sottoposto a costante controllo, perfino nella
sua intimità è regolato da disposizioni, ordinanze, comminatorie,
sorretto dalle dande.
Ma l’incubatrice educativa del Terzo Reich è il campeggio:
qui l’inquadramento è perseguito sistematicamente, “ scientifica-
mente ” realizzato; lettori e docenti universitari, magistrati e bu­
rocrati, impiegati, rappresentanti di categoria, ragazze e donne
lavoratrici, vengono impregnati dello “ spirito del nazionalsocia­
lismo” e ridotti moralmente, a furia di esercizi, alla misura pro­
pria del Terzo Reich. L i si immerge in quella tetra atmosfera in
cui si finisce col perdere una volta per tutte il gusto della libertà
spirituale e politica, in cui si disimpara il dubbio e ci si abitua
all’ebbrezza, in qualunque forma. Qui si apprende che dalle mar­
ce forzate si ricava assai più che dalle problematiche, e che da
qualsiasi livello spirituale è fin troppo facile sdrucciolare nelle
regioni dell’infamia sociale e politica. Qui si parla e s’insegna ele­
mentarmente; l’intelletto più limitato si persuade che i suoi oriz­
zonti sono obbligatori per tutti. Tutto soddisfatto, il periodico

1 Arbcitsjront — Fronte del lavoro: organizzazione nazista intesa ad inquadrare


Ir forze operaie in organismi di tipo paramilitare. L a Kraft durch Freude (lett. Forza
mediante gioia) corrispondeva all’Opera nazionale dopolavoro fascista. [ N .d .T .]

229
L A T IR A N N ID E

Hebammerschaft Deutschlands2 al termine di un “ campeggio


delle levatrici ” rendeva grazie del fatto che il corso avesse contri­
buito a fare, di ogni levatrice, un’animosa combattente per la causa
del Terzo Reich; onorate e gloriose sono le 25.000 levatrici tede­
sche di poter servire non già l’internazionale rossa o di altro colo­
re, ma la Grande Madre Germania: “ serve fedeli del popolo, in
gara di emulazione nella colossale opera di ricostruzione del nuovo
Reich, soccorrevoli spose del Fiihrer Adolfo H ider: ecco quello
che noi tutte vogliamo essere. ”
Solo il tedesco inquadrato è il tedesco come si deve; dove nel
processo di inquadramento vi sia un intoppo, gatta ci cova: vi
è un’incrinatura morale. L ’inquadramento forma anche il carat­
tere, il quale è tutt’uno con la fede nazista. È uomo di carattere
chi pensa, sente, parla e obbedisce ciecamente, come fa ogni altro
nazionalsocialista; è uomo di carattere chi bela in coro con le
pecore naziste o ulula in coro coi lupi nazisti. Chi invece sbanda,
chi imbocca una strada sua propria, non ha carattere, è un reietto.
In Germania, è diventato comodo e redditizio avere del “ carat­
tere” ; chi corre dietro al Fiihrer, fa carriera in tutti i sensi; chi
invece sta da parte, chi fa da sé, è chiaro che non ha un briciolo
di carattere; e se creperà di fame, dovrà ringraziarne solo la sua
“ mancanza di carattere, ” che tale scandalo costituiva agli occhi
dei benpensanti e dei galantuomini. N el tedesco inquadrato, logi­
camente s’incarna il “ sano istinto popolare. ”
Il processo d’inquadramento si compì con sorprendente rapi­
dità e facilità: bastò appena qualche lieve spinta, per avere a dispo­
sizione una massa unitaria di tedeschi nazionalsocialisti. N on bi­
sognò che Hitler li creasse: gli bastò soffiar via la polvere che
copriva questo tipo d’uomo medio. L a pluralità e la multiformità
delle esistenze tedesche, la dovizia di personalità, il fascino del­
l’individualismo, l’originalità e la seduzione dell’iniziativa erano
a manó a mano diventate, già a partire dal 1871, mera, esteriore
apparenza, al di là della quale traspariva l’ossequioso suddito,
qual era venuto coniandolo lo stato oligarchico tedesco. Non è
ima figura molto degna; facile riscontrare come i colpi e le pedate

Lett. L e levatrici di Germania.

230
IN Q U A D R A R S I

dell’oligarchia lo abbiano deformato, represso. In realtà, nessun


altro popolo come il tedesco è cosi poco rappresentato dai suoi
grandi uomini di cultura: in Germania, a costoro la andò sem­
pre male, vita naturai durante; il popolo li senti stranieri, remoti.
Quanto fecero fu a dispetto di questo popolo politicamente e mo­
ralmente suddito, il quale non vi ebbe parte alcuna, e lasciò gli
autori nelle angustie. G li anatemi di Winckelmann alla Prussia,
il disprezzo di Nietzsche per i tedeschi, son ciò che ogni grande
uomo vorrebbe dire. Ma, se questo popolo tratta con insolenza i
grandi, ricorre però all’inganno e al falso quando debba render
conto del proprio valore, delle proprie qualità. Allora indica que­
sti uomini come prova, per farsi stimare all’ingrosso un nobile
metallo, benché in realtà sia soltanto materiale avariato, scoria.
L ’inquadramento si ha sul piano della più scoperta bassezza
spirituale, umana, morale; gettando ogni distinzione s’abbandona
ogni raggiunta altezza. Ci si costringe alla mancanza di pretese
d’ordine spirituale; si sottoscrive qualunque frode propagandisti­
ca, e in pari tempo se ne è vittime; si perde coscienza del fatto
che vi son cose difficili a farsi; si ammira la banalità, pur che si
sposi al gigantismo; ci si sente bene, ora che si è riusciti a sbaraz­
zarsi della libertà e dei pesanti doveri ch’essa impone; non si sa
più distinguere ove finisca la politica e cominci la scelleratezza e
il delitto. Il nazionalsocialismo è simile a un enorme sistema di­
gerente: dei bocconi più saporiti, dei più preziosi frutti della cul-
tura, non appena li abbia ingeriti non restano che mucchietti di
bruniccia lordura. N el processo d’inquadramento, l’uomo viene
ridotto alle sue ultime componenti: deve diventar feccia e fon­
diglio se non vuole restare corpo estraneo.
Ciò condizionava anche lo stile politico del Terzo Reich; a
dare il “ la ” era la canaglia, nelle piazze come nelle misure e di-3

3 Nel 1928, l’avvocato Edgar Jung aveva dato alle stampe un libro, in cui attac­
cava gli esponenti della socialdemocrazia, Die Herrschaft der Minderwertingen [Il do­
minio degli inferiori], con cui voleva dimostrare che al timone dello stato s’era messa
la " feccia. ” A ll’autore nulla accadde, i socialdemocratici non si sentirono toccati. In
compenso, furono più tardi i “ vecchi combattenti” nazisti a sentirsi offesi a sangue,
r a schizzar rabbia perché Jun g aveva denunciato il fatto che feccia e inferiori fossero
al potere. Il 30 giugno 1934 , Jung, quale fiduciario di von Papen, fu assassinato dalle
SS; benché altro fosse l’obbiettivo al quale aveva mirato, erano stati i nazionalsocialisti
a sentirsene colpiti.

231
L A T IR A N N ID E

sposizioni delle autorità.3 I delatori vissero grandi giornate; la


polizia segui tutte le tracce indicatele dagli informatori. A l capo
della polizia di Dusseldorf davano noia volantini e manifestini
comunisti : ed eccolo emanare un’ordinanza per cui “ d’ora in poi
affissi e simili sudiciumi dovranno essere rimossi dai detenuti po­
litici della tendenza politica di cui quelli sono espressione: onde
evitare il ripetersi di tali fatti, [il capo della polizia] ha inoltre di­
sposto che, qualora dovessero ancora verificarsi, automaticamente
entrino in vigore misure repressive nei confronti degli attuali de­
tenuti, mediante irrogazione del più duro regime carcerario. ”
N egli stessi giorni, la Essener Nationalzeitung tutta soddisfatta
offriva un ampio resoconto illustrato del trattamento toccato al­
l’ex ministro prussiano della pubblica assistenza, Hirtsiefer. In­
vitato alla centrale di polizia, mentre ne usciva Hirtsiefer si trovò
circondato da una masnada di SA e SS, i quali gli appesero al
collo, per mezzo di un nastro rosso, un cartello con la scritta:
“ Io sono il morto di fame Hirtsiefer, ” e ciò perché l’ex ministro
aveva reclamato per la sospensione dei suoi assegni e aveva affer­
mato che cosi lo si riduceva alla fame. Infine, Hirtsiefer fu con­
dotto cosi conciato per le strade cittadine. N é fu quello un caso
isolato; la stessa sorte toccò infatti a innumerevoli ex funzionari
della repubblica di Weimar. Il seguente brano, tratto dalla Schle-
sische Tageszeitung, a proposito dell’ex primo presidente della
Slesia, Lùndemann, costituisce un chiaro sintomo dello spirito
dei tempi:

Dopo essere stato sottoposto, a Berlino, a un particolareggiato interro­


gatorio, Lùndemann, scortato dei funzionari di Breslavia, veniva tradotto
in questa città, portato alla centrale di polizia e introdotto nell’ufficio ilei
Pg4 Heines, capo della locale polizia, nel quale si trovavano anche il vici-
capo della polizia, consigliere di stato Pg dottor Patschowskj, alcuni fini
zionari della polizia di stato e alcuni altri esponenti delle locali formazioni
SA. Con un linguaggio che piu chiaro non avrebbe potuto essere, il capo
della polizia stigmatizzava le criminose attività di Lùndemann, il quale
con ogni mezzo a sua disposizione si è opposto al risveglio della Germania
e ha fornito, alla lotta contro il movimento di liberazione di Adolfo Ilitici',

4 Pg: abbreviazione per Parteìgenosse, membro del partito nazionalsocialista.


[N . d. T .]

232
IN Q U A D R A R S I

la parola d’ordine: “ Colpire il nazismo ovunque si trovi! ” Il capo della


polizia si soffermò soprattutto sulla vergognosa repressione della stampa
slesiana, condotta da Lundemann, e concluse: “ Lei che ha vessato la
nuova Germania, lei è un nemico del popolo tedesco, e come tale sarà trat­
tato. Lei finirà in un campo di concentramento, dove troverà quelli che lei
stesso ha traviato. Spero che vorrà dividere con questi piccoli socialdemo­
cratici la pensione che tuttora precepisce. A parte questo, lei sarà condotto,
sotto scorta degli SA, a fare un giro per la città, e ciò le servirà da prome­
moria delle sue colpe, dato che nel corso della vita si è indotti a dimenti­
care. Fuori dai piedi, detenuto Lundemann! ”
Lundemann usci dalla centrale di polizia accompagnato da dieci SA.
Il piccolo corteo, chiuso daH’automobile del dottor Patschowskj, percorse i
bastioni di Schweidnitz, prendendo quindi per via Graupen. Non c’è da
meravigliarsi che lo spettacolo provocasse non poca sensazione nelle strade
affollate. Gruppi di curiosi si accalcarono sul Ring e lungo via Schweidnitz;
centinaia di persone, serratesi attorno a Lundemann, lo coprirono di insulti.
Davanti al monumento all’imperatore Guglielmo, stava schierata la banda
del II 0 Raggruppamento SA ed erano convenuti migliaia di cittadini. Il
capo della polizia, Obergruppenfiihrer Heines, ordinò l’alt, e rivolse una
breve allocuzione alla folla, la quale in risposta intonò il “ Horst Wessel. ”
Dopodiché il corteo riprese il cammino, dirigendosi, per via Schweidnitz
Nuova e via Sadowa verso Durrgoy al campo di concentramento. Quando
si riseppe la notizia del prossimo arrivo di Lundemann, gli internati furono
fatti uscire dalle baracche e raccolti sul piazzale.
Poco dopo l’ingresso di Lundemann, apparve il capo della polizia,
Obergruppenfiihrer Heines, il quale arringò cosi i detenuti:
“ In occasione dell’arrivo dell’uomo che, in qualità di primo presi­
dente, ha preso la maggior parte delle misure intese a bloccare la marcia del
movimento di liberazione nazionalsocialista in Slesia, farò rilasciare dal
campo dieci detenuti, e precisamente dieci miseri operai, traviati dai loro
bonzi. Lundemann si è già dichiarato disposto a provvedere al sostenta­
mento degli altri detenuti, con la pingue pensione che purtroppo continua
ancora a ricevere — ma non sarà per molto. Nevvero, Lundemann? ”
“ Ma, signor questore, non posso disporre di quel denaro a scapito dei
mici familiari!”
“ Già, e i milioni che ha intascato? Ancora poche settimane fa, a Ber­
lino, lei gozzovigliava al Kempiski! Sappiamo anche questo, Lundemann!
I )i qui escono solo i lavoratori manuali, i capi ci restano. Com’è il tratta­
mento? ”
“ Buono, ” risposero i detenuti a una voce sola.
“ Bene, quando sarà ultimata la costruzione del nuovo stabilimento
balneare, rilascerò alcuni altri di voi. Heil Hitler! ”

233
L A T IR A N N ID E

Solo allora Liindemann venne condotto al magazzino vestiario, dove


gli fu consegnata la sua nuova divisa. Già il giorno dopo, Liindemann, la­
vorava di pala al nuovo stabilimento balneare!

Quando i malcontenti delle masse danno grattacapi al regime,


Goebbels organizza “ gli scoppi di collera popolare. ” Il capro espia­
torio è una figura della buona società, alla quale ci sian da rive­
dere le bucce. L a plebe viene guidata alla casa del designato; gli
altoparlanti vomitano ingiurie, e la polizia, lungi dal disperdere
gli offensori, “ ferma ” l’offeso. Queste “ azioni ” contro persone
altolocate, servivano a distrarre le masse: un socialismo stradaiolo
inteso a rabbonirle gettando loro in pasto un individuo di nascita
insigne. Goebbels in persona tolse di mezzo, mediante una “ azio­
ne ” del genere, il procuratore della Banca del Reich, Kdppen, il
quale, in lite con un suo inquilino, aveva approfittato delle dispo­
sizioni di legge. Goebbels, lungi dal prendersela con la legge, sca­
tenò l’assalto all’uomo che di quella si serviva; Kòppen fu arresta­
to: l’arbitrio commesso nei suoi riguardi testimonia della corruttela
demagogica del potere statale. Quando poi lo si rimise in libertà,
si passò la cosa sotto silenzio, senza dare soddisfazione all’inte­
ressato. Le copie di una circolare, nella quale il presidente della
Reichsbank, Schacht, giustificava l’operato del suo subordinato,
furono sequestrate per ordine di Goebbels.
Anche il risentimento delle plebi piccoloborghesi contro i ceti
colti ebbe libero sfogo. Esemplare, a tale proposito, un episodio
avvenuto a Heidenheim nel Wiirttenberg, nei cui pressi, nell’au­
tunno 1933, si erano riuniti a convegno alcuni intellettuali. Duran­
te i dibattiti si erano affrontati con spregiudicatezza certi proble­
mi filosofici, cosa che inquietò il Terzo Reich, per cui i partecipanti
al convegno furono tutti fermati nel corso di una retata. Ecco
il resoconto ufficiale della massima autorità del circondario: “ I
sospetti della polizia wiirttenburghese si sono dimostrati perfet­
tamente fondati: un gruppo di ‘ raffinati’ intellettuali, esattamente
quarantun signori e signore, provenienti da varie località della
Germania, si erano dati convegno in veste di villeggianti nel
locale castello, sfruttando l’ospitalità del proprietario, per dedi
carsi, come facevano già da una settimana, a un vasto scambio

234
IN Q U A D R A R S I

d’idee e programmi sulle loro ideologie altamente ‘ spirituali ’ e


opposte alla attuale organizzazione statale nazionalsocialista, non­
ché ad azioni proditorie contro lo stato popolare, nazionale e so­
ciale, edificato dal nostro Fiihrer Adolfo Hitler. Con nostra som­
ma sorpresa, del gruppo faceva parte un alto funzionario dello
stato, da anni abbastanza noto, con la sua famiglia, in quel di
Heidenheim; tutti i componenti la cricca, del resto, appartene­
vano esclusivamente agli alti gradi della burocrazia, del corpo
insegnante e della magistratura, nonché ai circoli nobiliari.”
Significato del tutto nuovo si ebbe il concetto di libera ini­
ziativa, di volontarietà, e doveva averlo: la canaglia non ha nulla
da spartire con la libertà. Rispetto ad attività quali la raccolta di
fondi od oboli, adunate, manifestazioni di partito, plebisciti, era
ben diverso l’atteggiamento di chi vi partecipava spontaneamen­
te, senza esserne stato indotto da preventive misure coercitive,
e di chi da tali misure, fosse la sua incoscienza o coraggio, non si
lasciava intimidire. La volontarietà consistette dunque nell’agire
in modo da prevenire le misure coercitive stesse; la volontarietà
si ridusse a un periodo di prova: chi lo superava, evitava le ma­
nette. Volontarietà era insomma la decisione di mettersi a rigar
diritto a tempo debito, prima di esservi obbligati nel campo di
concentramento. Molte le amministrazioni comunali che decise­
ro di stigmatizzare sull’albo municipale, quale sabotatore, chi si
fosse rifiutato, nel corso di “ volontarie ” raccolte di fondi, di
sottoscrivere la somma richiesta, raccomandandolo al boicottag­
gio, denunciandolo nel corso di pubbliche riunioni; a volte i
“ sabotatori ” vennero arrestati. Volontaria era l’appartenenza al
Fronte del lavoro, ma il lavoratore che si fosse rifiutato di avere
a che fare con la dubbia associazione finiva sul lastrico. Si era
invitati a entrare volontariamente nelle organizzazioni assisten­
ziali nazionalsocialiste, ma chi faceva orecchio da mercante ri­
schiava posto e salario; ai funzionari si proponeva di iscrivere i
loro figli a quella corruttrice organizzazione che era la Hitlerju-
grncl: se non se ne davano per intesi, si vedevano minacciato il la­
voro e il pane.
La canaglia piccoloborghese faceva la rivoluzione cosi come se
l'era sempre figurata: si può essere infami senza perdere la repu-

235
L A T IR A N N ID E

tazione, sfogare il proprio livore sugli inermi, all’occasione pren­


dersela con un sindaco per cui si nutra dell’antipatia, atteggiarsi
a smargiassi, farsi vanto del potere, indisturbatamente ridersene
della legge, quando si abbia il coltello per il manico; e la cana­
glia piccoloborghese si pavoneggiò, quasi in ogni momento fosse
intenta a fare la storia. Quando fosse riuscita a detronizzare uno
stipendiato, riteneva di aver “ nettato una stalla di Augia ” ; com­
mentando, alla sua maniera stolta o fantastica, gli avvenimenti
mondiali, lo fece con aria pomposa, persuasa che l’intero gene­
re umano pendesse dalle sue labbra.
Ma ciò con cui la canaglia aveva maggior dimestichezza, era
la “ m orale,” che essa aveva preso in appalto. Tutto ciò che fa­
ceva era ben fatto; chi da essa si separasse, era un infame ribaldo.
Messo con le spalle al muro fu chiunque non si lasciasse inti­
midire dal pathos tonante e inamidato del suo sdegno morale.
Con la morale le cose vanno come con il diritto: senza forza,
non se ne fa nulla, ma chi ha la forza, riuscirà ad aggiogarsi
lu n a e l’altro. Una volta che la canaglia piccoloborghese si trovò
ad aver la forza, si annesse senz’indugio l’intera morale: trasudò
morale quando ancora il suo volto era annerito dalla fuliggine
dell’incendio del Reichstag, e le sue mani rosse del sangue degli
operai.
Mai che la canaglia fosse colpevole — i conti doveva renderli
sempre l’avversario debole e indifeso. L a canaglia piccolobor­
ghese è cresciuta alla scuola del lupo, ed è di regola l’agnello
destinato a servirle da pasto, che ha intorbidato l’acqua. Essa
mente, nega qualunque infamia, anche qualora sia stata sorpre­
sa con le mani nel sacco; non si ritrae di fronte ad alcuna bas­
sezza, e non è mai in imbarazzo quanto a trovare un paio di
spalle che si prestino a sobbarcarsela. Tanto è abietta quanto è
vile: per presentarsi con mani pulite, eccola sempre a gettar
fango sull'innocente.
Il movimento nazionalsocialista aveva profittato delle debo­
lezze della democrazia weimariana; se aveva potuto svilupparsi,
era stato perché la repubblica non aveva rinnegato i propri pre­
supposti liberali neppure nei confronti dei suoi denigratori; se
il movimento nazionalsocialista era stato molestato, mai però

236
IN Q U A D R A R S I

aveva subito vere persecuzioni. Dopo il suo tradimento Hitler si


era visto trattare con più indulgenza di quanto non gli fosse le­
cito sperare. Quei “ vecchi combattenti ” che emigrarono, fuggi­
rono perché temevano perfino giudici miti e benevoli; mai ne
andò della loro vita, mai neppure del loro onore: nella peggiore
delle ipotesi, li attendeva la custodia honesta, l’arresto in fortezza.
Erano stati i loro morti e feriti a provocare le risse in cui avevano
avuto la peggio; il movimento nazionalsocialista insidiava la
vita stessa della costituzione weimariana, e ciò nonostante preten­
deva sistematicamente di passare per l’innocenza perseguitata;
Hitler anelò astiosamente alla vendetta, perché già la scarsa resi­
stenza che aveva incontrato gli era costata angosce e sudori.
Ben di rado fin allora un movimento traditore aveva cosi pia­
namente toccato la meta; delle poche penne che vi aveva lascia­
to, metteva appena conto di parlarne; e pur tuttavia, il 23 marzo
1933, in pieno Reichstag, Hitler, falsando la verità, rinfacciava al
deputato socialdemocratico Wels: “ Proscritti, siamo stati, finché
voialtri avete avuto il potere. Lei parla di persecuzioni! Ma sono
pochi fra noi coloro che non hanno dovuto soffrire in carcere le
persecuzioni inflitteci dalla sua parte, sono pochi fra noi coloro
cui non sia toccato sentire tali persecuzioni in mille e mille vessa­
torie oppressioni. E al di fuori di noi che siamo qui, so di una folla,
centinaia di migliaia, soggetta a un sistema persecutorio, che più
volte in maniera avvilente — si, vigliaccamente ! — si scatenò contro
di essa. Lei sembra avere completamente dimenticato che per anni
c anni si strapparono le camicie il cui colore fosse bruno... A par­
tire dal 1918, lei ha dato addosso a chi nulla le aveva fatto. Noi
sappiamo dominarci, frenare l’impulso a scagliarci contro chi per
quattordici anni ci ha straziato e martoriato. ” Fino alla nausea
gli ingloriosi vincitori del 1933 ripeterono la bugiarda, sentimen­
talistica doglianza: cosa non ci è toccato subire, durante questi
quattordici anni di lotta! Torna alla mente l’affermazione di De
Maistre: “ C’è qualcosa di più insopportabile ancora del carne­
fice, ed è il martire. ” L a canaglia nazionalsocialista fece in pari
tempo da carnefice e da martire.
La “ riscossa nazionalsocialista ” pretese, con la sua querula
vanteria, di farsi accettare quale miracolo nazionale. Attori, ma-

237
L A T IR A N N ID E

ghi, settari, cavalieri d’industria, mentitori e truffatori trovarono


in quest’ “ inquadrata ” canaglia il pubblico ad essi perfettamente
conforme e che tributava frenetici applausi ai più arrischiati gio­
chi di prestigio.
Quando la canaglia incontra un essere che le sia superiore, e
che con nessuno dei mezzi a sua disposizione riesca a ridurre alla
propria statura, eccola appellarsi ai tribunali, eccola imporre leg­
gi a chiunque in qualunque circostanza, per poter punire chi non
si lascia inquadrare. F u il prorompere di una vera e propria fre­
nesia legalistica: le leggi invasero sfere che finora il diritto divi­
no, naturale o direttamente umano, aveva protetto dall’usurpazio­
ne dei poteri costituiti. Più non bastò che già il campo di con­
centramento in sé fosse un inespiabile delitto perpetrato dal po­
tere statale a danno dei singoli: anche il tentativo d’evasione fu
a cuor leggero fatto oggetto di sanzioni. I parenti prossimi e i
coniugi erano punibili se in determinati casi non provvedevano
a denunziarsi l’un l’altro. L a riforma, introdotta nell’istituto ma­
trimoniale previde l’annullamento a richiesta della procura di
stato, qualora i coniugi facessero propaganda comunista. “ È una
morbosa tendenza dei nostri tempi, ” scriveva nel febbraio 1900
il cancelliere del Reich, Hohenlohe, “ quella di voler rendere vir­
tuosi gli uomini mediante leggi punitive. ” Questa “ morbosa
tendenza” nel Terzo Reich era diventata epidemia. Ogni avver­
sario doveva essere costretto nell’ambito della criminalità; il ri­
spetto per la soggettiva onestà delle opinioni gli fu sostanzialmen­
te negato. Chi era colpevole d’avere una convinzione, fu infama­
to, l’arresto in fortezza abrogato. Benché Hitler avesse a suo tem­
po usufruito delFarresto sulla parola, fu tanto ingeneroso da abo­
lirlo: chi gli si mostrasse renitente, doveva essere radiato dal
novero delle persone rispettabili; chi non avesse la sua stessa
opinione e fede, non poteva non essere animato da perversi, mali
ziosi intenti. Uomini che politicamente riuscissero importuni,
furono liquidati mediante processi per attività sovversiva. Se i1
delitto non era comprovabile, provvedevano polizia e tribunale
a costruirne ad arte le evidenze: le autorità fornivano il materiali
propagandistico e aizzavano il sentimento popolare contro l’iii
felice votato alla distruzione.
IN Q U A D R A R S I

Ogni tedesco, per quanto incensurato, doveva trovare il suo


giudice: anche questo era inquadramento fn atto. L a ladrone­
sca, incendiaria fantasia dei “ vecchi combattenti, ” inesauribil­
mente continuò a escogitare delitti: cosi si poteva fare incappare
nei rigori della procedura criminale chi si voleva mandare in
rovina politicamente.
L ’inquadramento, orgia di degradazione virile, divenne cosi
rapidamente realtà perché tutti i ceti sociali si erano in sostanza
trasformati in borghesi, sferzati dalla paura sociale e privati del
comprendonio e della dignità. Per ricorrere al linguaggio dei
simboli, il nazionalsocialismo ha, grazie all’inquadramento, dav­
vero attuato la sintesi di Roma e Potsdam, di settentrione e me­
ridione, di cattolica garbatezza sud-germanica e protestante bar­
barie nord-tedesca, di gesuitismo renano e spirito casermiero
prussiano.

2 Vi
Capitolo ventesimo

Nuove fonti di lavoro

Facile constatare come il programma economico di Hitler fos­


se combinato in modo da pagare subito il debito di riconoscenza
verso i ceti che avevano aiutato il movimento nazionalsocialista a
conquistare il potere. Ogni dubbio sul sostanziale carattere bor­
ghese-capitalistico del nuovo regime, fu subito bandito. “ In so­
stanza, ” affermò Hitler in un suo discorso al Reichstag del marzo
1933, " in sostanza il regime curerà gli interessi economici del po­
polo tedesco non già ricorrendo agli ambagi di una burocrazia
economica da organizzarsi statalmente, bensì promovendo al mas­
simo l’iniziativa privata e favorendo la proprietà. ” Hitler si sen­
tiva soprattutto obbligato verso gli agricoltori, il cui “ salvatag­
gio ” doveva essere a ogni costo mandato a effetto. Una politica
di dazi protezionistici avrebbe mantenuto i prezzi dei prodotti
agricoli a un livello tale da garantire il guadagno al contadino
tedesco. Le conseguenze erano scontate: “ Far si che le imprese
agricole tornino a essere redditizie può riuscire gravoso per il
consumatore. ” Il contadino tuttavia meritava il tributo che ora
gli si doveva versare, soprattutto perché aveva deciso del destino
del borghese tedesco: “ Senza i contadini tedeschi a far da con­
trappeso, la follia comunista avrebbe ormai travolto la Germania,
definitivamente distruggendo l’economia tedesca. Ciò che l’in­
tero processo produttivo, comprese le nostre industrie che lavo­
rano per l’esportazione, deve al buon senso del contadino tede­
sco, nessun sacrificio d’ordine economico riuscirebbe mai a ri­
pagarlo. ”
Certo, i ceti medi che in Hitler veneravano il loro Messia, non
potevano aspettarsi un aiuto altrettanto valido e duraturo; ma
dimenticarli, questo non lo si doveva fare! “ In Germ ania,” ave­
va assicurato Hitler nel suo discorso del i° Maggio, “ entro l’anno

240
N U O V E F O N T I D I LAVO RO

si porrà mano a una grande, una gigantesca opera, destinata a


riassettare l’edilizia, le case tedesche. ” E le sovvenzioni statali
all’attività edile furono il balsamo sulle ferite economiche di pic­
coli e medi imprenditori.
Il cardine del programma economico hitleriano era natural­
mente la creazione di nuove fonti di lavoro, destinate a reinserire
nel processo produttivo milioni di disoccupati. “ Il dover rinun­
ciare a milioni e milioni di ore-lavoro, ” aveva detto Hitler, ' nel
discorso del marzo, “ è una follia e un crimine, destinato a portare
al depauperamento. Quali che siano i beni creati da un impiego
delle nostre esorbitanti forze lavorative, essi rappresenterebbero
pur sempre generi di prima necessità per milioni di uomini che
oggi stentano l’esistenza.” N el discorso del maggio 1935, Hitler
aveva annunciato il secondo dei principi che “ guidano la nostra
rivoluzione ” : “ Soluzione dei più gravi problemi sociali mediante
la reintegrazione dell’enorme esercito dei nostri poveri disoccupati
nel ciclo produttivo. ” Colossali commesse statali avrebbero vivifi­
cato l’economia. “ Già entro l’anno dovremo porci e risolvere co­
spicui problemi di carattere pubblico, in primo luogo un gigantesco
programma, che non vogliamo lasciare ai posteri, ma che noi stessi
dobbiamo attuare, un programma che esige miliardi e miliardi:
la ricostruzione della nostra rete stradale ! ” Ma le strade sarebbero
state solo un inizio: “ In pari tempo sarà intrapresa tutta una
serie di lavori pubblici, che contribuiranno a ridurre sempre più
il numero dei senzalavoro. ”
I disoccupati potevano sentirsi giustamente remunerati: erano
accorsi in folla alle adunate di Hitler, avevano cercato ricetto nelle
file della S A ; e adesso, a quanto si diceva, ecco che Hitler mante­
neva la sua promessa e procurava “ pane e lavoro. ” Lo stato d’a­
nimo dei disoccupati, per Hitler era una vera manna; le privazioni
degli anni passati, le amarezze di un’esistenza da mendicanti, ave­
vano indotto i disoccupati alla modestia; erano gente umiliata;
ormai s’aspettavano ben poco dalla vita. L ’ambizioso sogno della
rivoluzione mondiale era svanito: preferivano un po’ di carne in
pentola. Bastava solo che Hitler riuscisse a procurar loro del la­
voro, e avrebbero avuto tutto ciò che bramavano. Del marxismo,
tiuale l’avevano sperimentato in Germania, ne avevano il gozzo

241
L A T IR A N N ID E

pieno; avevano dovuto andare a ritirare il sussidio di disoccupa­


zione : tale per loro il risultato della “ vittoria del popolo su tutta
la linea. ”
Cosi avvenne che i quartieri operai issassero bandiera uncinata,
e che ormai anche nelle fabbriche penetrassero nazisti convinti.
Il riavere un lavoro abbagliò milioni di occhi proletari, i quali
vedevano ormai solo la busta-paga che dopo tanto tempo torna­
vano a ritirare, e non vedevano più affatto ciò che dietro la bu­
sta-paga accadeva.
Per la borghesia i disoccupati erano oggetto delle più gravi
preoccupazioni, un grosso peso al cuore. La loro presenza costi­
tuiva una chiara denuncia del sistema capitalistico. Se l’ordine
borghese non riusciva a occupare e nutrire cospicue frazioni della
popolazione operaia, esso ordine era un vicolo cieco, l’iniziativa
privata disordine e improvvisazione, la proprietà privata sfacciata
rapina. Poiché la piaga della disoccupazione alla maniera capita­
listica non la si poteva scongiurare, difficile respingere le urgenti
istanze di quanti consigliavano di accettare la scappatoia comuni­
sta. La disoccupazione era il punto dolente dell’ordine borghese­
capitalistico, a partire dal quale un giorno poteva prendere il via
il sovvertimento comunista.
Certo, già dal 1930 Hitler aveva in larga misura neutralizzato
la pericolosa minaccia dei senzalavoro, se a centinaia di migliaia
costoro avevano riposto maggior fiducia nella croce uncinata che
non nella stella rossa. Ciò nondimeno erano infidi pur nella scia
di H itler: in ogni istante potevano sbandare verso il comuniSmo.
Bisognava dunque toglierli dalla strada, inserirli in un ordine sta­
bile: solo cosi si sarebbe data la prova che l’ordine borghese-capi­
talistico era pur sempre all’altezza del suo compito.
Senza dubbio, la ripresa dell’economia grazie alle commesse
statali non era affatto una genuina, naturale soluzione del critico
problema della disoccupazione: interventi artificiali colmarono le
manchevolezze della società capitalistica. Innegabilmente, tuttavia,
un passo avanti lo si era fatto; dalla propria si aveva l’apparenza:
chi, il giorno di paga, intascava salario o stipendio, non si curava
di chiedere se lo stabilimento in cui lavorava aveva bisogno o no
delle grucce delle sovvenzioni statali, ma aveva l’impressione clic

242
N U O V E F O N T I D I LAV O R O

il capitalismo avesse ripreso a funzionare e che anch’egli, ne traeva


dei vantaggi. Tirate le somme, doveva concludere che per il lavo­
ratore il capitalistico fosse il sistema ideale.
A mano a mano che le fabbriche si riaprivano all’esercito dei
disoccupati, l’orizzonte della borghesia si rischiarava, le tensioni,
che cosi cupa avevano resa l’atmosfera sociale, andavano allentan­
dosi; la nuvolaglia comunista si dileguò prima di scaricarsi. L a
borghesia approfittò spensieratamente dell’aiuto statale, sperò di
poter con ciò far scoccare la scintilla d’avviamento dell’economia;
la congiuntura artificialmente indotta dall’intervento dello stato
doveva mettere in moto l’autentica congiuntura capitalistica, ca­
pace di assorbire disoccupati spontaneamente, senza piu bisogno
di spinte.
Ma la medaglia, la creazione di nuove possibilità di lavoro, ri­
velò un singolare rovescio. Era parsa una soluzione dello scottante
problema sociale; risultò invece che l’aspetto sociale delle misure
intraprese serviva solo a mascherarne la vera sostanza, che era di
natura politico-militare: il riarmo. L a creazione delle nuove pos­
sibilità di lavoro non era che un’ampia premessa alla mobilitazione
di tutto il popolo. Il contadino fu “ salvato ” perché si coltivava
l’idea di garantirsi cosi, in caso di guerra, l’autarchia alimentare.
Il tracciato delle autostrade obbediva a criteri strategici. Le Volks­
wagen dovevano costituire una riserva di automezzi, a disposi­
zione dell’esercito. Il Nationalsozialistische Kraftfahr\orps1 diede
inquadramento militare, già in tempo di pace, ai civili proprietari
di automezzi. Dappertutto si costruirono caserme e si tracciarono
aeroporti. Il riarmo assunse proporzioni grandiose: si fabbricarono
navi da guerra e motori, aerei e cannoni, carri armati e fucili,
munizioni e divise; si accumularono riserve di ferro e carbone,
destinate all’industria bellica. La congiuntura, a conti fatti, non era
clic una congiuntura di riarmo, il grande affare dell’industria pe­
sante. Fu la grande borghesia infatti a trarne i profitti più cospicui;
ciò che a contadini, ceto medio e proletariato ne restò, non erano
che briciole, minuscole provvigioni e percentuali, pillole tran­
quillanti, mance per comprarne il silenzio. Grande borghesia ed

1 Associazione nazionalsocialista dei conducenti di veicoli a motore. [N. d. T .]

243
LA. T IR A N N ID E

esercito ebbero tempi d’oro: per essi andava a gonfie vele, i denari
che prima del 1933 s’erano investiti nell’impresa nazionalsocialista
pagavano lauti dividendi, e l’alleanza fra Reichswehr e Hitler,
combinata a suo tempo da Rohm e da Hindenburg e solenne­
mente sancita nel gennaio '33, colmava la Wehrmacht di benedi­
zioni che persino a essa, dopo la sconfitta del ’ i8, dovevano appa­
rire sorprendenti.
N el ’i8 essa aveva perso la sua guerra: aveva mancato il suo
scopo. Il tedesco, che con paziente spirito di sacrificio si era assog­
gettato alla dura disciplina dei cortili di caserma prussiani, aveva
senza costrutto lasciato che si mortificasse la sua dignità di citta­
dino e di uomo. G li ufficiali avevano goduto di un altissimo cre­
dito sociale, che nell’ora decisiva non avevano saputo giustificare
con le prestazioni attese e tacitamente presupposte. Il denaro dei
contribuenti per decenni era finito nel budget dell’esercito, ma
nel 1918 questo si era rivelato un investimento sballato.
Hitler risparmiò alla Wehrmacht la necessità di riparare ai
suoi deplorevoli errori, le restituì il perduto prestigio sociale, la
provvide di illimitati mezzi finanziari. L ’esercito fu insomma ri­
portato all’antica posizione sociale, politica ed economica, senza
esser prima costretto a farsi l’autocritica: con meno dolore e piu
tatto non si sarebbe potuto nascondere al mondo la sua bancarotta
del ’ i8. Hitler non aveva dunque deluso: l’esercito gli doveva la
riconoscenza e la devozione più tardi manifestategli, con tono da
Hitlerjugend, dal Feldmaresciallo Blomberg.
Si attuò cosi la mobilitazione totale; il potenziale bellico tede­
sco fu portato al massimo livello.
Brockdorff-Rantzau aveva preteso di inserire la Germania nel
novero delle nazioni proletarie: non già per imporle modi di vita
proletari, bensì, servendosi del malcontento sovversivistico dei
tedeschi, per intimidire i popoli ricchi. Mussolini, tra parentesi,
aveva fatto ricorso, per l’Italia, alla stessa astuzia tattica. In realtà
simili popoli proletari non volevano affatto la bolscevizzazione; se
si davan l’aria di proletari, era solo per far capire ai popoli ricchi
che a loro non si posavano mosche sul naso: servendosi di questo
demagogismo diplomatico, insomma, potevano tentare il ricatto.
A partire dal 1930, la grande borghesia tedesca sdegnò di con-

244
N U O V E F O N T I D I LAVO RO

tinuare a mostrarsi in miseri panni proletari ; riteneva il suo potere


politico a tal punto rinsaldato, da non voler piu condiscendere a
cercar scampo nell’avvilimento, da non dover più cercare la sal­
vezza nell’ufniliazione; lo stratagemma politico consistente nel
pretendersi a “ popolo proletario, ” adesso lo si riteneva compro­
mettente. Non più nazione proletaria, ma popolo di signori ancora
represso. E la mobilitazione totale era la rincorsa che la grande
borghesia tedesca prendeva per balzare alla dignità del dominio
imperialistico cui aspirava.
La mobilitazione totale subordina al punto di vista della guerra
futura l’interno processo vitale di un popolo: ogni sua espressione
non è che propedeutica alla guerra. L a produzione intera è alle­
stimento dell’occorrente per la guerra: l’operaio è un militare co­
mandato a fornire strumenti bellici, la fabbrica un fortino in cui
si produce a comando, cosi come in caserma a comando si fanno
gli esercizi; uomini e donne si sposano per produrre nuovi soldati.
La pedagogia diviene un’interminabile lezione di teorica militare.
Letteratura e filosofia servono ad accendere gli spiriti guerreschi;
la scienza, quando non è chiamata a elaborare le basi teoriche per
il perfezionamento dei mezzi bellici, deve sfornare il materiale
propagandistico destinato ad affermare la giustezza della propria
causa e a smascherare la scelleratezza di quella avversaria. Ogni
organizzazione, corporazione, istituzione, è inserita quale compo­
nente nella totalitaria macchina da guerra, ogni riunione di massa
concepita quale prova, su scala ridotta, della mobilitazione gene­
rale. Si scatenano battaglie anche nell’ambito delle attività più pa­
cifiche: battaglia per il grano e il burro, battaglia demografica. In
ogni istante si è al fronte: fronte del lavoro o “ fronte di tutti i
tedeschi onesti” e si percorre, ovunque si volgano i passi, un sen­
ile ro di guerra.
La mobilitazione totale è un procedimento di guerra; una volta
clic essa abbia avuto il via, non si vive più, sotto nessun aspetto,
da civili, in pace. N ell’atmosfera della mobilitazione totale, depe­
riscono tutte le arti, gli ordinamenti, le forme di vita che per
prosperare abbisognano dell’aria della pace: per l’umanitarismo e
il liberalismo suona campana a morto.
La mobilitazione totale fascista funziona solo a patto che la

245
L A T IR A N N ID E

classe operaia collabori: bisogna dunque obbligarla a collaborare.


Essa non può restare nell’esilio della contemplazione della sua par­
ticolare condizione di vita; non può attenersi a un autonomo
principio e senso della sua esistenza sociale: deve, al contrario,
rassegnarsi a un’incondizionata sommissione alla grande borghesia.
E la riduzione in schiavitù sarà attuata in parte col ricorso a trucchi
ideologici del tipo “ socialismo tedesco, ” “ socialismo nazionale, ”
“ comunità nazionale, ” in parte mediante l’uso della nuda forza,
in parte ancora col concorso di entrambi i metodi. L a rivoluzione
fascista, la mobilitazione totale, secondo la loro propria natura,
non possono mai andar disgiunte da una vittoria sul proletariato
cosciente. Ammanettare il proletariato: ecco il primo risultato cui
tende l’azione fascista.
Ma l’azione fascista avrebbe toccato la meta solo a patto di to­
gliere prima di mezzo i sindacati.
I sindacati erano stati organizzazioni liberistiche. Avevano
imposto aH’economia di mercato capitalistico-borghese una svolta,
grazie alla quale d’un tratto anche i lavoratori dell’industria si
erano trovati a poterne trarre beneficio. L a forza-lavoro fu trattata
alla stregua di una merce, di cui il salario rappresentava il prezzo;
e i sindacati erano intesi a influire sulle condizioni di mercato, nel
senso che la merce “ forza-lavoro ” raggiungesse la massima quo­
tazione possibile volta a volta in quelle date condizioni congiuntu­
rali. A i prodotti e alle materie prime, grano, cotone, gomma, ferro,
petrolio, un’altra materia prima s’era aggiunta, la “ forza-lavoro. ”
I sindacati procedevano come i cartelli, i trusts, che sui mercati
mondiali agiscono monopolizzando le materie prime; si muove­
vano in ambiti rigorosamente pacifici; trattative e contratti erano
l’elemento che meglio si confaceva loro. Lungi da essi l’idea della
guerra di classe: incrollabile il loro pacifismo, e per essi lo sciopero,
più che un’arma favorita, costituiva un impiccio.
Qualunque sciopero, in sostanza, non era che un tentativo di
autodifesa, dettato da impulsi primitivi e distruttori dell’ordine
costituito; i sindacati non potevano impedirlo, qualora l’esaspera
zione operaia non riuscisse a trovare altro sfogo. Mai però getta
vano olio sul fuoco e anzi si davan da fare per placarlo e control
larlo; e a conti fatti non c’era sciopero nel quale il proletariato

246
N U O V E F O N T I D I LAVO RO

non si sentisse tradito e venduto dalle sue organizzazioni sindacali.


Lo sciopero doveva essere inteso non come atto di lotta per il potere,
di lotta di classe, bensì in termini di lotta economica: la forza-la­
voro spariva momentaneamente dal mercato, se ne cessava la for­
nitura, e ciò per farne salire il prezzo. N on v’era sciopero che ve­
nisse promosso dagli stessi sindacati: esso scoppiava perché il
proletariato era sfuggito alla tutela. L ’unica responsabilità attri­
buibile ai sindacati, consisteva nel fatto che il proletariato si sen­
tiva abbastanza forte da attaccar briga coi datori di lavoro, solo
perché si sapeva sindacalmente organizzato; la coscienza della
propria forza, che all’operaio veniva dall’organizzazione sindacale,
gli facilitava la decisione di incrociare le braccia. In ogni caso tut­
tavia i sindacati s’affrettavano a incontrare quanto prima gli im­
prenditori al tavolo delle trattative, onde placare la rivolta degli
elementi. Lo sciopero non doveva assumere alcuna punta politica,
ché altrimenti sarebbe inevitabilmente trasceso ad azione di guerra
tra classi. “ Lo sciopero generale è insania generalizzata,” era
stato il brusco commento di Legien alla propaganda classista di
Rosa Luxemburg.
Durante la guerra ’ 14-18, i sindacati erano stati i più fedeli
garanti della pace sociale; essi non desideravano il crollo del si­
stema borghese-capitalistico, nel quale erano riusciti a inserire il
proletariato, come non volevano la rivoluzione mondiale. Avve­
nuto il crollo tedesco, i sindacati conclusero con le associazioni pa­
dronali l’accordo del 15 novembre 1918, in calce al quale, accanto
a quella di Legien, v’era la firma di Stinnes. L ’accordo sancì lo
stato di pace sociale: nell’ora di maggior debolezza della borghesia
tedesca, il proletariato rinunciava alla sua rivoluzione; l’accordo
salvò l’ordine borghese tedesco. Le organizzazioni operaie vi ven­
nero riconosciute quali “ legittime rappresentanti della classe
operaia” ; la limitazione alla libertà d’associazione dei lavoratori
«li ambo i sessi, dichiarata inammissibile; riconosciuta la parite­
tici tà negli uffici di collocamento; da ambedue le parti, sostanzial­
mente ammesso il principio della fissazione delle tariffe mediante
commissioni arbitrali paritetiche delle divergenze in proposito;
(u introdotta la giornata lavorativa di otto ore: tali i meschini
bocconi gettati dalla borghesia al proletariato, nel momento in

247
L A T IR A N N ID E

cui questo avrebbe potuto una volta per tutte sloggiare dalla ta­
vola imbandita il nemico di classe e sedervisi solo, per sempre, da
padrone. Il risultato dell’accordo fu che i sindacati, quali trusts
detentori del monopolio della forza-lavoro, furono espressamente
accolti, a parità di diritti, nella cerchia degli oligopoli. Da quel
momento la repubblica di Weimar fu uno stato fondamental­
mente borghese, che ammetteva la partecipazione al potere di un
sindacalismo capitalistico-borghese. “ L a libertà di associazione,
per la determinazione e lo sviluppo delle condizioni di lavoro e
retribuzione, è garantita a ognuno, qualunque ne sia la profes­
sione, ” affermava l’articolo 159 della costituzione weimariana;
e, dopo il patto del novembre ’i8, non v’era più da dubitare
trattarsi di condizioni di lavoro e retribuzione nell’ambito del­
l’ordine borghese-capitalistico.
Tuttavia, per quanto le organizzazioni sindacali s’ostinassero
a rimanere su tale terreno, la loro esistenza pur sempre contrad­
diceva nel senso più profondo allo spirito dell’ordine borghese­
capitalistico: il capitalismo vive grazie al plusvalore che esso si
procaccia a spese della forza-lavoro e limitare le sue tendenze
sfruttatrici significa mettergli le pastoie, negare i suoi principi.
Non appena ripreso fiato, la borghesia tedesca tentò di sbaraz­
zarsi dell’accordo di novembre; finché le organizzazioni sinda­
cali a parità di diritti continuassero a perseguire per la forza-
lavoro la stessa politica dei prezzi che la borghesia faceva per il
carbone e il ferro, l’intero ordine capitalistico era in istato di
squilibrio; la borghesia inciampava nei contratti di lavoro laddo­
ve avrebbe voluto, al cospetto di eserciti di disoccupati, partire
lancia in resta contro il livello dei salari; doveva scendere a patti,
mentre già si sapeva forte abbastanza da imporre dettami. Lo
stesso Stinnes che nel 1918 era apparso a braccetto di Legien, non
riconobbe più la propria firma, quando la grande borghesia si
fu ripresa dagli spaventi di novembre: Stinnes pretese di farsi
gioco dell’accordo, di negare ai sindacati la conquistata parità di
diritti. Il contratto di lavoro e la giornata di otto ore divennero
per ogni grosso borghese il panno rosso che lo mandava in be­
stia; contro di esso Stinnes e Helfferich e Hugenbcrg si scaglia
vano con cieca furia.

248
N U O V E F O N T I D I LAVO RO

A ll’improvviso ecco la grande borghesia lasciarsi cogliere da


ghiribizzi moralistici e umanitaristici, eccola dal profondo del
cuore ribellarsi all’idea di inserire nei bilanci l’operaio quale
forza-lavoro; eccola incalzare i sindacati con argomenti di ordine
sentimentale, ora che non poteva più attaccarli sul piano legale;
il salario dell’operaio non doveva più essere fissato secondo gli
stessi principi di cui si serve l’imprenditore per stabilire i prezzi
del ferro e del carbone: l’operaio avrebbe dovuto affidarsi ai sen­
timenti umanitari del suo datore di lavoro. Erano uomini come
Seldte e Hitler gli araldi della morale intenti a edificare gli orec­
chi borghesi con accenti di indignato stupore per la “ degradazio­
ne dell’operaio a merce, a forza-lavoro ” ; la fame di guadagni
della borghesia si fece sempre più sensibile al cospetto della poli­
tica salariale condotta dai sindacati secondo le regole della poli­
tica dei prezzi valida per le materie prime monopolizzate; ciò
che liceva al Giove grossoborghese, non ancora si concedeva al
bove proletario.
L ’odio di Hitler per le organizzazioni sindacali scaturiva dal­
le ambasce della grande borghesia; e, una volta giunto egli al
potere, ai sindacati non restò più speranza alcuna. Il padronato
industriale non volle più saperne di accordi sindacali, dal mo­
mento che poteva far repulisti.
Per decenni i sindacati avevano goduto fama di invincibili;
ma quella fama era morta. N el luglio 1932 i sindacati non ave­
vano difeso la democrazia prussiana, non erano accorsi sulle
barricate a prò’ della repubblica di Weimar; ma con ciò avevano
abbandonato quei fondamenti costituzionali sui quali riposava
la loro posizione di forza. E, dal momento che avevano rifiutato
di impegnarsi per tali principi, più nulla v’era per cui in futuro
valesse la pena di farlo. Si sapeva ormai che i sindacati si rifiu­
tavano di battersi sul serio; e poiché non si difendevano, si po­
teva senza preoccupazioni dar mano all’opera intesa a liquidarli.
I sindacati erano in istato di disperato isolamento: borghesia e
contadini avevano fatto lega; il disoccupato agiva da Giuda nei
loro confronti. Poiché erano cresciuti nelle abitudini della lega­
lità, eccoli paralizzati non appena i poteri statali presero posi-

249
L A T IR A N N ID E

zione contro di essi; l’atmosfera dell’illegalità riusciva loro irre­


spirabile.
Perplessi stavano dunque i sindacati di fronte alla nuova si­
tuazione; per lungo tempo non si resero conto che la loro ultima
ora era scoccata. Non potevano forse invocare il diritto all’indul­
genza, essi che un tempo avevano preservata la pace sociale e
allontanata dalla terra tedesca la rivoluzione mondiale? Goffa­
mente lasciarono intendere di essere disposti, anche nel Terzo
Reich, a esercitare una funzione di sostegno, purché si facesse
loro sia pure un solo ponte d’oro; i funzionari ebrei furono pron­
tamente licenziati; ci si voleva accattivare le grazie di Hitler,
dando spontaneamente prova di zelo antisemita.
Ma i sindacati non si rendevano conto di rappresentare ne­
cessariamente un ostacolo al totalitarismo fascista, fintantoché in
essi sopravvivesse un resto di indipendenza. Potevano ben essere
disposti ai più radicali compromessi: con la loro autonomia, le
loro proprietà, le loro finanze, le loro tradizioni, i loro legami
internazionali, erano pur sempre, sul suolo fascista, un esercito
permeato di spirito estraneo. Potevano ben prestare giuramento
di fedeltà ed essere sinceramente decisi a considerarlo inviola­
bile; ma come escludere che intervenissero delle crisi, nelle quali
i sindacati indovinassero la loro buona occasione e quindi riab­
bracciassero la causa d’un tempo? E non avrebbero preso tutt’al-
tra direzione, non appena il destino del fascismo dipendesse dal­
la loro fedeltà? Dal punto di vista del nazionalsocialismo, dun­
que, le organizzazioni sindacali erano una quinta colonna bolsce­
vica in campo fascista; con esse Hitler non poteva scendere a
patti: doveva distruggerle.
E il 2 maggio 1933, ecco il dottor Ley sferrare l’attacco ai
sindacati, come a un esercito nemico; aveva il nullaosta di Eli
tler, ma nessun titolp legale, e ricorse alla nuda violenza, come
si fa da soldati e malviventi. Le sedi sindacali furono occupale
quasi si trattasse di punti fortificati; le proprietà dei sindacali
confiscate, come si usa con la cassa trovata nel quartier generale
nemico espugnato; le organizzazioni sbaragliate a guisa di re -
parti di truppa sbandati. I poteri dello stato non mossero un
dito in difesa degli sconfitti; permisero che avvenisse, come in

250
N U O V E F O N T I D I LAVO RO

controllata azione rivoluzionaria, ciò che quale azione legale


avrebbe svelato il suo carattere borghese e classista. Ma intatte
rimasero sedi, uffici, casse delle confederazioni industriali e delle
organizzazioni imprenditoriali; non contro di esse Ley guidò le
sue schiere: da quelle sedi e da quegli uffici si era concertata la
campagna contro i sindacati, da quelle casse Ley era stato finan­
ziato.
Il Fronte del lavoro era la costruzione nel cui ambito l’operaio
avrebbe potuto, si, continuare ad avere il senso della propria forza
collettiva, ma che quella forza collettiva avrebbe snervato, dissol­
vendola in vuota apparenza. “ Mi si è rinfacciato, ” disse Ley nel
settembre del 1933, “ di aver trasferito le vigenti organizzazioni
sindacali nel Fronte del lavoro e di non aver accondisceso al desi­
derio di chi le voleva distrutte. Resici conto come la parte mi­
gliore dei lavoratori tedeschi fosse, oltre che nelle formazioni SA
e SS, organizzata nei sindacati, abbiamo, riconosciuto l’alto va­
lore di questo materiale umano, preferito prendere sotto la nostra
egida i sindacati : per chi intenda il significato della parola ‘ orga­
nizzazione, ’ era doveroso che essi divenissero parte integrale del
Fronte del lavoro. ”
Il Fronte in questione divenne “ l’organizzazione dei tedeschi
die operano colla mente e col braccio” ; esso riunisce liberi pro­
fessionisti, funzionari di tutti i gradi, imprenditori e operai; da
un lato, dunque, piccoli, medi e grossi borghesi, dall’altro masse
proletarie, quali membri tutti “ con gli stessi diritti. ” È un calde­
rone in cui convergono gli elementi più disparati e contrastanti,
non certo uno strumento di lotta. V i si schiera infatti anche la
grande borghesia, e ciò per rendere impotenti gli operai. “ Ob­
biettivo del Fronte del lavoro tedesco è la creazione di un’effettiva
comunità nazionale e del lavoro tra tutti i tedeschi. ” Ognuno de­
ve, “ quale membro della vita economica della nazione, occupare
il suo posto nell’organizzazione spirituale e fisica, ” la quale “ lo
abilita alle più alte imprese.” Non v’era stato finora imprenditore
clic non avesse incolpato i sindacati di avere impedito all’azienda
di produrre a pieno regime, e ciò perché da essi gli operai veni­
vano indotti a idee errate; il Fronte del lavoro tedesco assicura,
in senso grossoborghese, la pace tra i partecipanti al processo pro-

25 1
■ - — : ‘ ' ^

LA TIRANNIDE

duttivo, in quanto “ nel capitano d’industria si promuove la com­


prensione per le legittime aspirazioni dei sottoposti, e nei sotto­
posti la comprensione per la situazione e le possibilità dell’azien­
da. ” Era nello spirito proprio del Fronte del lavoro che, già pa­
recchi decenni prima, Alfred Krupp aveva redatto il suo General -
Regulativ1: “ S i,” vi aveva scritto, “ si, voglio lavorare con gente
modesta, che mi dimostri di volersi e potersi far dal niente, senza
mezzi di fortuna. Fedeltà: ecco il supremo comandamento. Perciò
voglio avere solo operai fedeli, che mi siano grati, col cuore e coi
fatti, per il pane che io offro loro. Dal canto mio, io intendo trat­
tarli con tutto l’amore, provvedendo a essi e alle loro famiglie. ”
L a legge “ per l’ordinamento del lavoro nazionale, ” conferma­
va l’imprenditore duce dell’azienda, facendo di impiegati e operai
i gregari. “ Il Fiihrer dell’azienda decide, nei confronti dei sotto­
posti, in tutte le questioni aziendali secondo le disposizioni di
legge. Egli deve provvedere al benessere dei sottoposti, i quali a
loro volta gli devono completa lealtà nell’ambito della comunità
aziendale. ” L a commissione interna sarà, si, composta di dipen­
denti dell’azienda, ma sarà il Fiihrer dell’azienda a compilare la
lista scegliendo con cura tra le sue creature. I sottoposti hanno solo
da “ prendere posizione nei confronti della lista con votazione se­
greta. ” L a commissione interna ha il dovere di “ rafforzare la
reciproca fiducia nell’ambito della comunità aziendale. ” A sovrin­
tendere alla pace del lavoro nei principali settori produttivi, sono
chiamati i “ fiduciari del lavoro” ; costoro, in quanto legati ai
principi e alle direttive del regime, devono intervenire in veste di
pacieri ogniqualvolta gli attriti tra imprenditore e operai minaccino
di assumere proporzioni tali da compromettere l’intero sistema so
ciale; essi devono far ricorso a quella tattica sorniona e compassata,
cosi caratteristica della politica del Terzo Reich, a quella tattica
cioè che, facendo spreco di complimenti a buon mercato, lusinga
gli operai a servire in realtà solo gli interessi della grande borglie
sia. E se per caso l’inequivocabilità dei fatti esigesse uno sforzo cc
cezionale per ributtare fumo negli occhi agli operai, si provvcdcrà
a mettere alla berlina un imprenditore “ reazionario,” un imprcn-

1 Lett. Regolamento generale. [N. d. T .]

252
N U O V E F O N T I D I LAV O R O

ditore cioè che si rifiuti di rendere i dovuti onori al rituale nazi­


sta. Poiché costui non è devoto a Hitler, gli toccherà far da capro
espiatorio, sulle sue spalle sarà scaricato l’intero peso dei peccati
del capitalismo. L ’operaio potrà cosi vedere che si fa una distin­
zione fra capitalisti buoni e capitalisti cattivi. Coi primi il bene
dell’operaio è in ottime mani. “ Uomini illibati, principi illibati,
equità, buon cuore — ecco ciò che deve governarci, e allora tutto
procederà bene e sempre meglio, ” si legge nel General - Regulativ
di Alfred Krupp; al cattivo capitalista, invece, toccherà la puni­
zione. Piu di un imprenditore, il cui albero genealogico lasciasse
a desiderare quanto a legittimità ariana, piu di un Junker il quale
rifiutasse al Terzo Reich l’accesso ai propri fondi, fu chiamato a
render conto del suo “ scarso spirito sociale. ” Il tribunale della
rispettabilità sociale, che metteva nell’incapacità di nuocere, col
pretesto della “ oltraggiosa infrazione ai doveri sociali imposti dal­
la comunità aziendale, ” l’operaio il quale incautamente, sul luogo
di lavoro, desse prova di una coscienza di classe, si levava, spada
di Damocle, anche sul capo di quei datori di lavoro che s’ostinas­
sero a voler restare capitalisti alla loro propria individualistica
maniera. Il capitalismo deve procedere in punta di piedi, e ogni
imprenditore il quale avanzi troppo pesantemente, induce gli ope­
rai, che il nazionalsocialismo vuole addormentare, a drizzare
nuovamente gli orecchi. Si dimostra troppo caparbio e deciso a
lare di testa propria? Lo minaccia “ la revoca dell’abilitazione a
Fiihrer dell’azienda.” In caso di necessità il capitalismo dovrà es­
sere salvato contro i capitalisti i quali non vogliono intendere ra­
gione.
L ’errore psicologico dei “ nazionalisti puri ” era stato di non
far tante cerimonie con le masse piccoloborghesi e proletarie. “ Il
nazionalsocialismo, ” scriveva nel 1930 il capitano Ehrhardt, “ do­
vrebbe d’ora in poi avere il coraggio di dire cose capaci, al momen­
to, di riuscire impopolari alle masse. ” Il suo cervello da spadacci­
no non afferrava il senso delle finezze nazionalsocialiste; e, soste­
neva egli, “ il movimento nazionalsocialista è il risultato di una
mossa propagandistica che allora fu quanto mai astuta, ma insie­
me il rampollo del compromesso. Si è coniata una nuova parola
d'ordine di straordinaria efficacia quanto al mero aspetto tecnico-

253
L A T IR A N N ID E

reclamistico, e alla quale s’apriva un vastissimo terreno sperimen­


tale, perché era destinata a operare tanto nell’uno che nell’altro
dei campi fondamentali della politica tedesca. Ma una parola d’or­
dine, cui è immanente una certa malizia, non rappresenta affatto
una soluzione del problema, che può essere deciso solo con la lotta
aperta. ”
L a malcelata goffaggine del governo Papen per poco non aveva
sospinto le masse piccoloborghesi e proletarie nelle braccia dei co­
munisti. Invece i nazionalsocialisti, anche se a volte venivano, per
dirla con Ehrhardt, riguardati “ dalla intera classe operaia sup­
pergiù quali dei truffatori, ” chiudevano un occhio.
“ Onorate il lavoro, e rispettate i lavoratori! ” proclamò Hitler
il i° maggio 1933. “ Noi ci siamo assunti i sindacati, ” afferma di
li a pochi giorni, “ per far si che il lavoratore tedesco cooperi con
parità di diritti alla creazione della nuova realtà, per offrirgli la
possibilità di marciare al nostro fianco con parità di diritti.” L ’o­
peraio non doveva avere l’impressione di “ essere, qui da noi, pro­
scritto, infamato, bandito.”
F u cosi, con temerario estro, che la realtà di fatto venne rove­
sciata: l’operaio doveva convincersi che i sindacati, le sue proprie
organizzazioni d’autodifesa, lo avevano soggiogato, e che la parità
di diritti gli fosse stata concessa nel momento in cui si scacciavano
i capi che s’era dato, si depredavano le casse delle organizzazioni,
si faceva strame delle sue libertà e diritti politici.
Come se niente fosse, si tolsero all’operaio le sue ideologie, per
restituirgliele impregnate di sottintesi capitalistici. “ Il socialismo, ”
disse Goebbels, “ significa che il denaro viene ridotto al servizio
dell’economia, e l’economia al servizio del popolo. ” Il socialismo
mendicante della raccolta di fondi per il soccorso invernale, Goeb­
bels lo definiva “ socialismo di fatto. ” A ll’opposto, Ley afferma­
va che “ con la cultura libresca e i discorsi, i manifesti e i procla­
mi, non si definisce il concetto di socialismo. Non è una faccenda,
questa, che si possa investigare in termini razionali: bisogna arri
varci col cuore. Socialismo non significa altro che fratellanza, soli
darietà, fedeltà e consanguineità.” Ogni parola, ogni definizione,
ogni interpretazione, è un gioco di mano inteso a sbalordire l’o
peraio. Un trucco del genere, e assai in grande, era stata la proda

254
N U O V E F O N T I D I LAVO RO

inazione del Primo Maggio a festa nazionale; aveva l’abitudine,


l’operaio, al suo Primo Maggio, e doveva conservarsela, e insieme
restar trasecolato da ciò che se ne sarebbe fatto. Sempre quel giorno
10 si era dedicato alle manifestazioni: anche in avvenire lo si sa­
rebbe fatto; ma non più da milite della lotta anticapitalistica, sa­
rebbe sceso l’operaio nelle strade: le sue sterminate colonne vi
sarebbero apparse al comando della dittatura borghese che lo sog­
giogava. Hitler tradusse al cospetto della grande borghesia i pri­
gionieri catturati nell’impresa di guèrra civile che a prò’ di quella
egli aveva vittoriosamente condotto. Il i° Maggio, che per il prole­
tario cosciente finora era stato il giorno dell’esaltato orgoglio del
combattente di classe, divenne da allora la giornata della sua più
profonda umiliazione e ignominia.
Che a questa giornata anche il borghese dovesse, quale “ lavo­
ratore ” vuoi della mente vuoi del braccio, accostumarsi, tale il pic­
colo scotto che doveva lasciarsi addebitare: l’operaio era incatenato
all’ordine borghese.
Altamente significativa la scelta della persona del Terzo Reich
proposta alla guida degli operai. Dal punto di vista borghese, il
dottor Ley era persona poco raccomandabile; era, a farla breve,
mio sbandato: un prodotto della putrefazione borghese, e non v’era
proletario cosciente il quale non s’insozzasse la mano che tendeva
al Fùhrer del Fronte del lavoro. Ma tale è la stima che il borghese
fa del proletario, da considerarlo scoria ai margini della società
borghese: e, proprio perché di questa società era feccia, Ley sem­
brò essere l’uomo che ci voleva per il proletariato. N el fumo della
bettola, nell’afa del bordello, Ley era di casa; ubriacone, puttaniere,
buffone: e dunque non avrebbe incontrato difficoltà a far co­
munella con la “ canaglia proletaria. ” Ley ignorava le distanze so­
nali: tanto più facilmente avrebbe, nel sottosuolo sociale, toccato
la sua meta.
Ley era un generale che doveva condurre alla catastrofe, con
11 calda determinazione, l’esercito cui era alla testa, che comandava
con l’intènto di liquidarne la combattività; scialacquava il tesoro
tlcH’armata a danno dei battaglioni di lavoratori che lo avevano
crealo coi loro oboli;-immediatamente traduceva in operazioni
l.iltichc i concetti strategici di Hitler. A lui si permetteva qua-

255
L A T IR A N N ID E

lunque contraffazione sul piano della psicologia di massa, qua­


lunque inganno perpetrato a spese dell’operaio, a patto che le
masse ne fossero abbindolate senza che subodorassero i suoi arti­
fizi. Finché trovava credito, poteva spararle grosse a piacere; le
masse mostravano di lasciarsene prendere, e a Ley si rimettevano
gli eccessi sentimentalistici. Mera frode il suo idealismo; egli di­
sprezzava cosi profondamente le masse cui lo proponeva, da non
farsi scrupolo a presentarsi loro in istato di ebbrezza alcolica. Men­
tiva loro pur piaggiandole; nel mentre le tradiva se ne faceva beffe.
“ Meta suprema dev’essere quella di procacciare al proletario, al
contadino, alla inferiorità sociale secondo l’odierno concetto, una
condizione tale, che con orgoglio essi possano procedere a testa
alta se il loro volto è annerito e la loro mano callosa, se provengono
dal pozzo o dall’aratro. ” Ley era imbevuto della convinzione che
alle masse tutto si potesse senz’altro offrire, e osava le piu azzardose
sperimentazioni trufifaldine. “ Non vi sarà più imprenditore, ope­
raio, impiegato, ” mentiva loro sfacciatamente in faccia : “ ci sarà
il concetto di lavoratore — di lavoratore tedesco. ” Indusse le masse
a decretare onori divini a H itler; martellava loro in capo 1’ “ H i­
tler ha sempre ragione. ” Non di rado i suoi discorsi si smarrivano
nel balbettio di un uomo che non sia più in sé; le sue parole
erano frasi senza senso: poteva solo speculare sui sentimenti del
suo uditorio, approfittare della sua povertà di spirito critico. “ A
voler caratterizzare in pieno la vittoria della rivoluzione nazio­
nalsocialista, ” ebbe ad affermare al berlinese Sportpalast, “ la si
deve definire vittoria sull’insensatezza che un tempo possedeva
la Germania, vittoria sul minuscolo Io individuale. È ormai tra
montato il tempo in cui l’uomo era ridotto a semplice entità nu
merica, il tempo in cui solo l’orologio marcatempo dava all’uomo
il senso del suo valore. Ora l’uomo può riacquistare coscienza del
suo valore. La Germania lotta appunto per dare all’uomo il
senso del valore. ” Simile a un fattucchiero da fiera, Ley abusava
della credulità del suo pubblico, coi mezzi più banali produceva i
suoi miracoli. Il Fronte del lavoro divenne, grazie al suo duce, mi
apparato per la produzione di frode e inganno a caterve, per le cui
esalazioni le masse smarrivano la visione della realtà, ogni discei
nimento per l’evidenza e l’onestà, il senso dell’umana dignità, l’i

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N U O V E F O N T I D I LAVO RO

stinto infine per riconoscere dove stavano i loro veri interessi. Era
insomma un circo nel quale, a sollazzo e vantaggio della grande
borghesia, s’ammaestravano le masse a drizzarsi sulle zampe di
dietro, a far numeri di bravura, a eseguire evoluzioni al cenno della
frusta, a muoversi ormai solo in formazione serrata, agli ordini
dell’ambigua figura, guida preposta al Fronte del lavoro. In tale
figura s’incarnava intera la miserabilità del proletariato; subita la
sconfitta, era ormai suo destino lasciarsi menar per il naso da un
pessimo soggetto borghese; da milizia di classe tutta tesa al futuro,
mutarsi in plebe senza avvenire.
L a grande borghesia accarezzava il progetto.di nuove forme
statutarie; le tornavano alla mente gli organismi medievali, si rifa­
ceva all’età di mezzo; il feudalesimo industriale le appariva il porto
in cui sperava di trovare quella pace sociale che le permettesse l’in­
disturbato godimento dei suoi privilegi. Essa aspirava a edificarsi,
nell’ambito dell’azienda, quella posizione di dominio, raggiunta
dal proprietario terriero feudale nei suoi fondi. Il “ germanico or­
goglio signorile” si levava dai sepolcri; ci si congedava dal pro­
gresso, che presentava ormai solo “ aspetti bolscevichi, ” e ci si
rivolgeva al passato, che era pur sempre il compendio dei tempi
migliori, dell’età dell’oro.
Il feudalesimo industriale era stato a suo tempo la ricetta so­
ciale di Alfred Krupp e del signor von Strumm, dal cui paterna­
lismo aveva preso le mosse la rivoluzione nazionalsocialista. L ’ope­
raio è un minorenne; egli non ha né da esprimere parere, né da
combattere: non ha nessun diritto da esigere, deve semplicemente
accettare riconoscente ciò che gli viene assegnato, e per il resto ub­
bidire. È un “ fam iglio” ; un ordine di servizio ne fisserà le man­
sioni nell’ambito dell’azienda; non piu contratti di lavoro frutto
di trattative: “ Qualora urgentemente si richieda, a protezione dei
dipendenti d’un gruppo di aziende nell’ambito del distretto di per­
ii ncnza d’un fiduciario del lavoro, la stipulazione di condizioni
minime regolanti i rapporti di lavoro, il fiduciario stesso potrà,
previa consultazione con un comitato di esperti, con ordinanza
scritta, fissare l’entità dei salari. ” Il salario assegnato resta, senza
sbalzi, al livello del minimo vitale; respinta è la pretesa dell’ope­
raio a una partecipazione agli utili congiunturali: chi tali utili
L A T IR A N N ID E

d’ora in poi intascherà, sarà il solo imprenditore. A gli operai toc­


cano “ salari di produzione, ” non già “ salari di congiuntura ” :
bel nome che maschera una odiosa realtà. L a libertà di spostamento
dell’operaio viene limitata, più tardi forse sarà revocata; l’operaio
a poco a poco scade in uno stato di legame all’azienda, corrispon­
dente all’antica servitù della gleba. È un legame che lo annichilisce
quale libero individuo; più non dipende da lui di voler lavorare o
meno: l’esecuzione delle sue mansioni è una corvée, cui è obbligato
nei confronti del suo padrone industriale-feudale ; già il rifiutarsi
al lavoro è contravvenire alle leggi, è rivolta. L ’onore del proletario
cosciente si poneva all’estremo opposto delle misure di valore bor­
ghesi, consistendo esso nel far prova di sé nella lotta contro l’ordine
borghese e in questa nell’accettare qualsiasi rischio. L ’onorabilità
dell’operaio in epoca industrial-feudale è al contrario quella del
servo e del lacchè, consiste nell’esser egli il fedele, docile seguace
del feudatario industriale. A l lavoratore dell’industria, si prospetta
dunque un più moderno sistema di servitù e legame alla gleba.
Il feudatario medioevale era insieme duce militare ; la sua corte
era entità militare, i fanti di guerra egli li levava dai suoi famigli
di sesso maschile; con essi egli muoveva in campo, quando l’impe­
ratore avesse dichiarato la guerra. Il moderno complesso industriale
è parte integrante della economia di guerra, è in essa che si forgiano
le armi. Il feudatario industriale si fa a produrre per la guerra, di­
viene duce dell’economia bellica; in veste di ufficiale preposto alla
produzione, fornisce la apparecchiatura meccanica, necessaria alla
guerra moderna. I suoi operai sono truppe combattenti, soggetti
quindi alla disciplina di guerra e alla legge marziale; stanno, militi
della produzione, schierati in faccia al nemico. “ Le masse operaie
concentrate nelle officine,” dice il Manifesto dei Comunisti, “ veti
gono militarmente organizzate. Quali semplici soldati deH’indu
stria, gli operai sono sottoposti alla tutela di tutta una gerarchia di
ufficiali e sottufficiali. Essi non sono solo i servi della classe bor­
ghese, dello stato borghese, ma quotidianamente, ora per ora, sono
asserviti dalla macchina, dal sovrintendente, ma soprattutto dal
singolo borghese in veste di produttore.” Non ricevono piu mr-
salario, ma un soldo. Davanti alla loro macchina compiono servizio
militare; l’ordine del loro padrone diviene per essi suprema legge.
N U O V E F O N T I D I LAVO RO

“ In futuro, ” assicurava il dottor Ley, “ non si dovrà più lavorare


in maniera frammentaria e disorganizzata, secondo i principi della
lotta di classe: operai, impiegati, imprenditori, procederanno tutti
assieme. E se non lo vorranno, ebbene, li salderemo l’un l’altro
con le catene. ” E infatti: la politica del Terzo Reich lega operai e
impiegati alla catena dell’imprenditore.
L ’obbligatorietà del servizio del lavoro è un preannuncio della
meta alla quale si va a parare. V ’erano stati profittatori di guerra,
dell’inflazione, della deflazione, delle riparazioni; l’obbligatorietà
del servizio del lavoro diede origine ai profittatori del servizio
del lavoro. Il servizio del lavoro non poteva certo far sorgere, nel
deserto capitalistico, oasi anticapitalistiche. L ’obbligatorietà del ser­
vizio del lavoro sconfina nel lavoro coatto, abitua il tedesco al lavoro
da schiavo: è anzi ricaduta nella schiavitù.
Il campo di lavoro è il modello sul quale un po’ alla volta si
riformerà l ’azienda; il lavoratore dell’industria sarà, vita naturai
durante, obbligato al servizio del lavoro. Il piglio militaresco com­
penetra l’azienda; lo “ Spatenexerzicren ' ” mostra come un ser­
gente pignolo possa trasformare in oggetto casermiero un pacifico
strumento da lavoro.
Il servizio del lavoro è un esperimento: si mette alla prova
una nuova struttura sociale. Chi è comandato a compierlo è insieme
schiavo e soldato, lavora e fa i comandati esercizi militari. Per so­
prammercato, poi, c’è sempre un imprenditore privato, il quale ne
trae profitto.

* Ivserci/.i militareschi eseguiti con la pala nell’ambito del servizio del lavoro.
\N.,I. r . j

250
'y ? V 7 ','’ .-v v Y r J^ rr- -v

Capitolo ventunesimo

Catinoni, non burro

Poiché il Terzo Reich si disponeva alla lotta su due fronti, sul­


l’orientale antibolscevico e sull’occidentale antidemocratico, non po­
teva sfuggire all’isolamento; nessuno lo avrebbe soccorso, doveva
quindi aiutarsi da sé.
Dal punto di vista del mondo liberal-democratico, per lungo
tempo costituì un enigma come la Germania finanziasse il proprio
riarmo. Non v’è ministro delle finanze, sia pure dei più ricchi
stati liberal-democratici, il quale non viva ore d’angoscia qualora
l’amministrazione statale pretenda di veder soddisfatte esigenze
straordinarie; per lui ha valore di legge indiscutibile l’intoccabi-
lità del livello di vita del popolo; egli quel denaro dovrà quindi
raggranellarlo senza che abbia a risentirne il popolo. G li osserva­
tori delle democrazie occidentali erano tutt’occhi per un miracolo
annunciato da H itler: bisognava che imparassero dal nazionalso­
cialismo come si fa a finanziare imprese colossali, senza ridurre il
popolo in miseria. Ma il miracolo di Hitler non si verificò. Il tenore
di vita del popolo tedesco fu compresso; l’equivalente della ridu­
zione potè, una volta questa operata, essere reinvestito. A i consumi
popolari s’apportava un taglio del dieci per cento? Il regime si
trovava in mano decine di miliardi liquidi. Non appena il conte­
nuto del calderone delle finanze cosi procacciato fosse agli sgoc­
cioli, ecco pronto l’espediente: si stringesse d’un altro buco la cin
tura del popolo, e ogni volta altri miliardi piovevano. Il tenore di
vita del popolo tedesco era all’origine cosi alto, che lo si poteva
sostanzialmente ridurre di un 35-50 per cento, a patto di farlo coi
dovuti riguardi e gradualmente.
L a politica economica e finanziaria del Terzo Reich mise dun
que immediatamente mano al livello di vita allora goduto dal po­
polo tedesco, e che fu consciamente e via via più spietatamente

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' C A N N O N I, N O N B U R R O

sgretolato. Da anni la grande borghesia tedesca reclamava che, dal


“ livello bistecca, ” il proletariato industriale fosse ridotto al “ li­
vello farinacei” : ed ecco il Terzo Reich disporsi a soddisfare la
pretesa.
L a Germania riarma per poter dare l’assalto ai tesori che la
natura ha concesso ad altri popoli; essa ha intenti aggressivi, spe­
cula sulla fortuna delle armi, e quindi diverrà sempre più povera,
finché la fortuna delle armi non si volga dalla sua. Finché non
abbia compiuto la conquista, finché nessun atto di rapina le sia riu­
scito, la Germania dovrà sovvenzionare il suo apparato offensivo
con la miseria tedesca; e quanto è più dura, tanto più disperate
sono le prestazioni che essa deve imporre alla propria debolezza.
La Germania deve autofagocitarsi, finché una preda non le cada
tra le mani. Le armi che cava dalla propria fame non possono
certo essere armi di difesa: con esse la Germania miseramente pe­
rirà, a meno che non attacchi prima un popolo più ben fornito,
c lo divori.
È con tedesca esattezza che il Terzo Reich organizza l’impove-
rimento delle masse popolari. Succhia il sangue al popolo, e lo
trasforma in cannoni e proiettili, carri armati e velivoli, caserme
c monumenti, stadi e autostrade, fondi destinati alla corruzione e
stipendi principeschi, e — non ultimi — in favolosi profitti per
la grande borghesia. L a dittatura si sbarazza di qualsiasi controllo
finanziario da parte del popolo; dal popolo si deve spillar sangue,
ma quello non avverte ciò che vien fatto della sua linfa vitale. Le
masse piccoloborghesi si erano ribellate alla mite pressione dello
stato weimariano; ora sono inserite in un ingranaggio che suc­
chia dal loro organismo fin l’ultima goccia di sangue.
Il processo d’impoverimento del popolo viene palliato da dispo­
sitivi atti a stornare, sviare, confondere: le masse non dovevano
accorgersi di ciò che di loro si faceva.
A suo tempo, l’inflazione non aveva fatto digressioni di sorta:
con successivi deprezzamenti della moneta, aveva mandato a ef­
fetto la sua rapina a spese dei redditi e dei risparmi del popolo.
Alla repubblica di Weimar non si era mai perdonato di non avere
efficacemente interdetto alla grande borghesia l’esercizio dell’in­
flazione: è per questo che alla fine crollò. Il Terzo Reich si guardò

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L A T IR A N N ID E

bene dallo scottarsi le dita al fuoco di un’aperta inflazione, dando


la preferenza a metodi di spoliazione più sottili, più sornioni.
Proclamò, quale uno dei suoi più incrollabili principi di poli­
tica sociale, l’impossibilità di elevare i salari, a meno di non scon­
quassare l’impalcatura dei prezzi. E a tale assioma si attenne
rigorosamente, nonostante l’aumento della produzione e il prolun­
gamento della giornata lavorativa. Come al solito, provvide Ley
a offrire agli operai una teoria che riempisse loro il capo, lascian­
done vuoto lo stomaco. “ Il salario, ” egli disse, “ non è solo que­
stione di contanti, il compenso in denaro ne è anzi solo una
frazione. Il salario è in realtà il compendio della posizione del­
l’individuo nell’ordine sociale d’un popolo. Quant’è la paga di un
soldato? Ventun Pfennig; a un tenente, settanta marchi: questo
il loro salario, e non c’era tenente o militare di truppa, disposto a
cambiare col più pagato dei direttori generali, perché erano soldati,
perché vestivano una divisa onorata, perché al concetto di ‘ soldato ’
ineriva quello di onore. È cosi che si devono vedere le cose, entro
questa cornice. Per la prima volta, e fra tutti i paesi solo in Ger­
mania, si dà oggi il concetto di onore sociale, quale è fissato nella
legge per l’ordinamento del lavoro nazionale. ” Cosi l’operaio fu
preparato al soldo — ventun Pfennig al giorno — della recluta:
quello l’ideale, l’equo salario, che nessun grosso borghese intendeva
rifiutare al suo dipendente. Se l’operaio lasciava perdere i quat­
trini dei direttori generali e si teneva alla bella schiuma dell’onore
sociale, era un bene per tutti.
Naturalmente, nonostante tutto, l’impalcatura dei prezzi ebbe
dei crolli; rincararono i generi di prima necessità. Se le merci
conservavano inalterato il prezzo, ne peggiorava la qualità; il la­
voratore riceveva, in cambio del suo buon denaro, scarti e surrogati.
Nella corsa coi prezzi, perdette terreno il salario dell’operaio: di­
minuire la capacità di acquisto, anche questo era in programma.
Mentre l’importazione dall’estero di generi di prima necessità
e voluttuari, come pure di manufatti industriali, veniva bloccata
allo scopo di accumulare divise per l’approvvigionamento delle
materie prime necessarie alle industrie belliche, agli acquisti di
beni di consumo popolari si impose la lesina e la riduzione delle
voci; le cose che rendono piacevole la vita d’ogni giorno si fecero

262

i
C A N N O N I, N O N B U R R O

piu rare e costose, le masse furono indotte a molte rinunce, e fi­


nirono per lasciarsi dire senza protestare da Goebbels che le gra­
nate contavano perfino piu del burro, piu delle uova.
L a scarsità di materie prime angustiava il Terzo Reich preso
dalla febbre del riarmo: a ogni costo bisognava esportare, onde
accaparrare divise, e le merci tedesche giungevano all’estero a
prezzi inferiori al costo, le si svendeva per qualunque importo di
valuta. L ’esportatore veniva indennizzato dal Reich, e alle masse
popolari toccava star garanti del risarcimento. In sostanza era sul
loro conto che si caricava il vii prezzo pagato dall’importatore
straniero per merci tedesche: la loro capacità di acquisto era dun­
que da ogni lato intaccata e ridotta.
N ulla forse aveva incusso maggiori timori alla borghesia capi­
talistica della radicalizzazione del villaggio. Se il contadino s’in­
fiammava di collera contro il capitalismo che l’opprimeva di tasse,
per la società borghese era finita. Il contadino doveva essere più
intimamente che mai legato all’ordine capitalistico, la sua rovina
sociale ed economica arrestata, occorreva restituirgli la sensazione
di sicurezza, il senso di fiducia.
L a difficoltà stava in ciò: che in Germania l’economia agricola
su basi private non è vitale, indipendentemente dalla estensione,
piccola grande o media, del fondo. Immessa senza protezioni nel
meccanismo dell’economia mondiale, essa ne sarebbe frantumata:
non può sostenersi di contro alla concorrenza delle organizzatis-
sime farms americane e australiane. H a bisogno di soccorsi: dazi
protettivi, facilitazioni fiscali e creditizie, sovvenzioni, per cui essa
conduce un’esistenza artificiosa, e tocca al resto della popolazione
di puntellarla. Le sue proprie risorse non bastano a tenerla a galla.
In sostanza, l’agricoltura organizzata su basi private in Germania
ha fatto il suo tempo, e già da un pezzo anche il latifondo: l’una
c l’altro vivono a scrocco, per questo solo non rovinano. Il “ pec­
cato” della repubblica di Weimar era consistito nell’esigere che
l’economia agricola, la quale i conti li faceva in termini privati, ci
si raccappezzasse anche da sola, tirando le conseguenze dei suoi
principi economici — esigenza cui quella non era stata all’altezza:
trovò rifugio nel nazionalsocialismo, che le prospettava l’eventua-

263
L A T IR A N N ID E

lità di nuovi sussidi. Coi suoi “ Osthilfe,1 ” la repubblica di Weimar


giunse troppo tardi; gli Junker li intascarono, li dilapidarono, e
tornarono a piantarsi, la mano ancora una volta stesa, di fronte
a Hitler.
L a politica agricola nazionalsocialista venne al soccorso della
proprietà terriera innanzitutto cancellandone i debiti. La politica
economica di prezzi, mercato e dazi sacrificò il consumatore; allo
scopo di agevolare il contadino, promosse una situazione di mer­
cato favorevole ai prodotti agricoli. Tuttavia, il contadino non
poteva cavarsela a troppo buon mercato: lo si aiutava, ma non
doveva essere invano. Avrebbe goduto della sua riguadagnata si­
curezza, e però con la legge sull’indivisibilità del fondo gli si tar­
parono le ali: il contadino non avrebbe mai più avuto la capacità
né la libertà di volarsene dagli angusti recinti del podere capi­
talistico.
L a legge sull’indivisibilità del fondo mette il contadino sotto
tutela; il fiduciario del distretto agricolo e il tribunale competente
di là dalla siepe gli tengono gli occhi addosso; il contadino ammi­
nistrerà il suo con parsimonia e perizia: il Terzo Reich non vuole
versare le sovvenzioni in un vaso delle Danaidi. Le prescrizioni
del Reichsnàhrstand per il contadino hanno forza cogente: il
contadino soggiace a costrizioni sia riguardo alle colture che alle
consegne; si conosce il provento del suo podere e si determina il
livello di vita che gli si addice, e con maggior precisione si esigono
da lui, in proporzione agli sgravi a suo tempo accordatigli, tasse,
imposte, gabelle. Ogni scarto e opposizione al regime gli son d’ora
innanzi preclusi: senza via di scampo il contadino è consegnato
agli organi del Terzo Reich. Se è uno “ scialacquatore ” o un ne­
mico dello stato : avrà la “ disdetta. ”
In tal modo il contadino è, quale soldato del lavoro, buttato
nella battaglia per la produzione agricola. Coltivando, non farà
più di testa sua, ma seguirà il comando impartitogli dall’alto. Ob­
biettivo: l’autarchia alimentare per il caso di guerra; il fondo ere­
ditariamente indivisibile è il podere convertito, secondo i principi
della mobilitazione totale, a scopi di economia di guerra.1

1 Sovvenzioni statali all’agricoltura delle regioni orientali. [ N .d .T . ]

264
■ r> r!R '

C A N N O N I, N O N B U R R O

Con una fava si prendono cosi più piccioni: la situazione del


contadino viene risanata, ma in pari tempo egli viene sottoposto alla
curatela dell’economia di guerra. G li si garantisce una certa misura
di sicurezza sociale, nondimeno dovrà fare il passo secondo la
gamba; i suoi fratelli e sorelle sono ridotti a famigli. Non è più
lui a scegliersi il modo di vita che gli talenta: a prescriverglielo è
il Reichsnàhrstand. Tale modus vivendi viene reso più primitivo,
qualora con altri mezzi non si possano spremere dal contadino
tasse e gabelle. Ogni evasione fiscale gli è impedita, l’abolizione del
servaggio tributario destinata a restare un sogno irrealizzato. I
sussidi che l’agricoltura pur cosi riformata continua a inghiottire,
vengono pompati ai consumatori cittadini, costretti ad acquistare
i generi alimentari ai prezzi imposti dal Reichsnàhrstand. “ Il po­
dere tedesco, l’intera superficie arabile tedesca, è posta al servizio
della collettività” : tale la formula coniata, alla solita maniera
fumosa e idealizzante, a Norimberga nel 1936, al congresso del
partito nazionalsocialista.
A l latifondista, non s’applica la legge sull’indivisibilità del fon­
do: egli è grosso borghese e ha in sé ciò che l’interesse grosso­
borghese esige; non accadrà mai ch’egli dia di capo nel comuni­
Smo. Solo qualora riesca incomodo per certi suoi feudaleschi par­
ticolarismi, si darà tramite suo un esempio. “ Laddove il singolo
latifondista conduce con i suoi propri mezzi una azienda efficien­
te, ” disse Darré, “ la proprietà dovrà essergliene conservata. D ’altro
canto però il latifondo che si riveli antieconomico dovrà cedere il
passo a una struttura economica capace di sopravvivenza. ”
Destarono meraviglia gli ingegnosi espedienti escogitati per
vuotare le tasche alle masse popolari dal regime, il quale seppe
trar partito anche dal gusto del variare. Tasse e aumento dei prezzi
non perdono certo il loro saporaccio: ma è eroico che il popolo
" volontariamente ” deponga i propri averi sull’altare della patria.
Ebbe vita un complesso sistema per la raccolta di contributi
" volontari. ” Soccorso invernale, “ Eintopfgericht, ” questue per la
protezione antiaerea, per la gioventù, per le industrie tedesche in
dissesto, per la madre e il fanciullo, domenica per domenica si da­
vano il cambio; non passava fine settimana senza che per le vie
di città c villaggi, davanti all’uscio delle abitazioni, non tintinnas-

265
L A T IR A N N ID E

sero i salvadanai. L ’accattone era diventato braccio dello stato al


pari dell’usciere. Si faceva appello al senso di responsabilità sociale,
onde poter esprimere un giudizio morale sul conto di chi si mo­
strasse tirchio. Solo una piccola frazione delle somme cosi raccolte
venne spesa per gli scopi sociali addotti a pretesto; la maggior
parte fu destinata alla “ creazione di nuove fonti di lavoro. ” E fu
con ambigua, involontaria autoironia, che Goebbels potè afferma­
re, a un convegno della Volkswohlfahrth “ il ceto meno abbiente
del nostro popolo è divenuto oggi l’assertore fanatico della nostra
Weltanschauung. È questo in verità il maggiore dei miracoli della
nostra azione socialistica e propagandistica. ” L o era, un miracolo:
perché a questi concittadini più poveri non toccava in effetti nep­
pure una briciola dei milioni accumulati grazie all’appello loro
rivolto. I contributi erano una sorta di mascherate imposizioni di
guerra; perciò passava senz’altro per evasore fiscale e nemico dello
stato chi all’appello rispondesse mettendo alla porta 1’ “ accattone
patriottico. ”
Ognuno fu costretto in più d’una organizzazione; e bisognava
versare cospicui importi alle casse delle associazioni professionali,
del partito e relativi organismi, della Volkswohlfahrt. Operai e
impiegati vennero salassati dal Fronte del lavoro, e anche questi
milioni confluirono nella “ creazione di nuove fonti di lavoro ” :
anch’essi erano una forma di imposizione fiscale. Chi non si la­
sciasse organizzare, richiamava su di sé i sospetti; chiunque s’at­
tirava il corruccio dello stato, se scantonava quando lo si voleva
tosare. N ella raccolta delle imposte, statali o comunali, si proce­
dette con rigore; a mano a mano il fisco strinse la vite. Laddove
il regime fosse riuscito a rimettere a galla, mediante commesse
statali, un settore economico, non gli riusciva difficile, tramite il
fisco, ricuperare qualcosa. Il gettito fiscale aumentò nella misura
in cui precedentemente il governo aveva gettato denaro nei set­
tori produttivi.
I denari arraffati alle masse popolari furono però ben lungi
dal bastare al finanziamento delle “ nuove fonti di lavoro ” create

3 Lett.: “ Benessere del popolo,” associazione assistenziale nazionalsocialista.


[N. d. T .]

266
C A N N O N I, N O N B U R R O

■ dallo stato. Il governo emise obbligazioni, ponendo gravissime ipo­


teche sul futuro del popolo tedesco. L a circolazione dei titoli creb­
be a dismisura; banche, casse di risparmio e società d’assicurazioni
cedettero le proprie riserve, accettando in cambio titoli di stato.
Poiché il riarmo non è mai un investimento produttivo, esso non
dà luogo ad alcun accrescimento del reddito nazionale che possa
coprire il debito pubblico. Che poi un giorno o l’altro i titoli siano
senza tante cerimonie dati alle fiamme ovvero assorbiti con remis­
sione di carta moneta inflazionata, non fa molta differenza: con
l ’una e l’altra forma si attua pur sempre la riduzione del tenore di
vita generale, e le cartelle dello stato non sono che anticipazioni e
premesse alla futura riduzione.
L ’impulso artificialmente impartito al processo economico com­
portò un assorbimento di mano d’opera disoccupata: avendo il
regime dilapidato miliardi, non v’era molto da meravigliarsi che
avesse sconfitto la disoccupazione. Le sovvenzioni delle opere as­
sistenziali si mutarono in salari, che di poco o punto superarono
l’entità dei'sussidi stessi. Più di una volta gli osservatori stranieri
ebbero modo di constatare come, mentre le nuove leve del lavoro
erano milioni, in proporzione risultava di poco conto l’aumento
dell’importo totale dei salari. I proletari lavoravano, ma non gua­
dagnavano. Quanto più aumentava il numero delle imprese non
rimunerative, quanto più i materiali di scarto impiegati e i sur­
rogati prodotti o convertiti, tanto più difficile e stentata si faceva
l’esistenza delle masse popolari. A ll’opera di ricostruzione dei
piani quadriennali hitleriani faceva riscontro il destino di decadi­
mento cui andavano incontro le masse popolari. Il riarmo tede­
sco non aveva uguali, e le industrie dei surrogati fiorirono: le mas­
se popolari in compenso erano ridotte allo stremo.
L ’operaio era non solo condannato alla fame: egli perdette an­
che la libertà di scegliersi il posto di lavoro e il diritto di disporre
della propria forza-lavoro. I poveri cristi divennero dei lazzaroni,
che i fiduciari dell’ordine capitalistico maneggiavano a piacimento.
Fin la vita privata delle masse piccoloborghesi e proletarie fu rego­
lamentata e sottoposta a disciplina militare; le masse perdettero
ogni residuo di libertà politica, sociale, economica. N on solo non

267
L A T IR A N N ID E

avrebbero potuto più agitarsi ma, come soldati al fronte, neppure


più potuto mormorare.
L a Germania organizzò la sua economia di guerra in modo da
farne un colossale affare per una ristrettissima oligarchia. Le limi­
tazioni alla libertà personale, al tenore di vita, all’indipendenza
economica, toccarono solo le masse piccoloborghesi e proletarie.
Lo stato divenne il sollecitatore dei profitti grossoborghesi; lo stato
si sobbarcò, si, l’organizzazione dell’economia di guerra, ma in mo­
do che la grande borghesia vi mietesse largamente; era tanto oc­
cupato a imbavagliare le masse, da non poter più nutrire interesse
alcuno per la verifica della contabilità dei suoi fornitori.
Quanto alla Wehrmacht, essa si sentiva gendarme e mercenario
dei monopoli. N ell’aprile del 1936, il capo dell’ufficio economico
del ministero della guerra del Reich, colonnello Thomas, affrontò
il problema dell’opportunità o meno di nazionalizzare l’industria
degli armamenti, concludendo con lo sconsigliare nel modo più
assoluto una simile misura: una volta evocato il fantasma della
nazionalizzazione, impossibile liberarsene; bastava concedergli un
dito, che quel fantasma t’aveva preso il braccio. Impegnarcisi,
avrebbe significato dover estendere la nazionalizzazione all’intera
struttura economica: l’industria pesante, le industrie ottica e chi­
mica, aeronautica e automobilistica, tessile, mineraria e mecca­
nica, perfino l’agricoltura — nulla sarebbe sfuggito alla naziona­
lizzazione.
Regolamentate e controllate, le masse sostengono dunque l’in­
tero carico e il peso dell’attività produttiva: a esse di sacrificare
la propria piccola felicità per armi create dalla loro abilità, pa­
gate dalla loro miseria, e che infine vengono loro affidate perché
trovino morte “ eroica. ”

268

I
Capitolo ventiduesimo

Il 30 giugno ig i4

Le organizzazioni sindacali erano in frantumi, i partiti socia­


listi divelti e sradicati; le tendenze anticapitalistiche non dovevano
avere più alcun organo, neppure trovare più espressione. Era am­
bizione di Hitler, di farne piazza pulita in Germania: unico,
esclusivo padrone del campo sarebbe stato il capitalismo tedesco.
A lla fine del 1933, l’obbiettivo sembrò raggiunto; ma impen­
satamente s’era nel frattempo venuto formando, e proprio nel­
l’ambito del movimento vittorioso, un focolaio di tendenze anti­
capitalistiche, le quali certo non avevano punte marxiste, tempe­
rate com’erano alla maniera piccoloborghese, romanticamente am­
bigue, vaporosamente utopistiche, caricate di profondi risenti­
menti contro i ricchi. I portatori di tale tendenza si ritenevano
gli organi eletti ad attuare davvero il programma nazionalsocia­
lista, si consideravano la quintessenza d e l. movimento nazional­
socialista.
Ancora non si erano tolte di mezzo le rendite ottenute senza
lavoro e fatica, la schiavitù fiscale ancora non era stata abolita.
Finora non si era mosso un dito nel senso della “ totale confisca
dei profitti di guerra” ; nulla si era fatto per nazionalizzare le
grandi anonime; la promessa partecipazione agli utili delle mag­
giori imprese era ancora di là da venire. L a “ immediata muni­
cipalizzazione dei magazzini all’ingrosso e la loro locazione a
condizioni modeste a piccoli imprenditori,” ritardava più del
dovuto; la riforma agraria continuava a farsi attendere; la legge
“ per l’espropriazione senza indennizzo di terreni a scopi di pub­
blica utilità, ” non era stata ancora promulgata, la speculazione
edilizia non veniva infrenata; usurai e accaparratori non erano
messi a morte. Certo, il Mein Kam pf di Hitler non aveva mai
prospettato misure del genere, ma quel libro era stato letto da

269
L A T IR A N N ID E

un’élite, i pochi all’altezza delle esigenze di un’opera teoretica.


L a piccola gente s’atteneva al “ programma del partito del 20
febbraio 1920 ” : lo aveva preso per oro colato, ne aveva interpre­
tato alla lettera i venticinque punti, leggendo quel testo si era ad­
dottrinata sulle intenzioni del nazionalsocialismo, sulla sacra invio-
labilità di quei paragrafi si fondava la sua dedizione a Hitler, la
sua fede in lui.
Ma se Hitler aveva messo le carte in tavola nel suo libro, non
meno consciamente mediante il programma aveva inteso sviare
i seguaci; a suo avviso era meno dannoso “ tener fede a un atteg­
giamento, anche se questo più non corrisponda integralmente
alla realtà, anziché, apportandovi emendamenti, abbandonare al­
la discussione generale con tutte le sue gravissime conseguenze,
questa o quella legge fondamentale del movimento, la quale fi­
nora abbia avuto fermezza granitica. ” Le componenti socialisti-
che del programma dovevano essere lasciate cadere in silenzio:
erano state semplicemente il lardo col quale s’eran presi i topi
piccoloborghesi e proletari.
A vero dire, i topi non parevano disposti a lasciarsi appagare
a cosi buon mercato. Ed erano nel loro diritto: avevano i loro
meriti, riempivano le file della SA . E la SA aveva compiuto il
lavoro principale; era essa che s’era data più validamente da fare,
quando s’era trattato di dare il colpo di grazia al marxismo, essa
che aveva respinto il socialismo marxistico per far posto a quello
nazionale. Del Manifesto dei Comunisti si era fatto un rogo,
onde permettere che, sulle fondamenta del programma di feb­
braio, la nazione socialista edificasse la propria unità, la propria
comunità. G li uomini della SA erano per lo più poveri diavoli
non certo visti di buon occhio dal capitalismo; costoro non si
erano certo proposti di spacciare il marxismo in cambio della
restaurazione capitalistica; ora che il primo era stato messo a
tacere, loro volevano darle al secondo; erano sordidi e capaci
delle più sfrenate azioni contro i borghesi che già, imprudente­
mente e con fare di sfida, erano montati sul destriero capitali­
stico sellato per loro da Hitler. L a SA aveva travisato da cima a
fondo la sua rivoluzione, sognava castelli in aria socialistici, quan­
do già i monopoli si erano appostati dietro solidissime mura. G li

270
IL 30 G IU G N O I 934

uomini della SA si sentivano soldati della rivoluzione, i chiamati


a darle un senso. Ciò che in precedenza se ne era fatto, lo ripro­
vavano: per fortuna che c’erano ancora i loro reggimenti, le loro
brigate. Se il borghese capitalista pretendeva di far vendemmia
di ciò che si doveva ai loro sudori, bene: era scoccata l’ora della
seconda rivoluzione, quella che avrebbe una volta per tutte messo
a posto il borghese.
L a rivoluzione nazionalsocialista non era forse finora stata
cosi incerta, da non aver ancora assicurato il monopolio della po­
tenza militare al suo proprio esercito? L a rivoluzione di Crom-
well aveva dato vita alla sua guardia di ferro, quella francese al
suo esercito giacobino, quella bolscevica alla sua Armata Rossa.
N el Terzo Reich, invece, ad avere l’ultima parola era tuttora
la Reichswehr, legata a filo doppio con quella stessa grande bor­
ghesia che pretendeva di gabbare la SA e il socialismo nazionale,
e contro la quale doveva, quando fosse necessaria, farsi la secon­
da rivoluzione. L a Reichswehr era altrettanto reazionaria della
borghesia capitalistica, dava manforte alla grande borghesia che
ricalcitrava al socialismo nazionale; le forze armate di cui abbi­
sognava la rivoluzione, eran solo il bruno esercito della SA , e
solo quando questo avesse detronizzato la Reichswehr, la rivolu­
zione sarebbe sostanzialmente riuscita; l’esercito bruno doveva
assumere nel Terzo Reich il posto dell’Armata Rossa nell’Unione
Sovietica: esso, non già la Reichswehr, aveva attuato la rivolu­
zione. Se il soldato della rivoluzione non era padrone di ciò che
questa aveva creato, significava che la sua fatica rivoluzionaria
era stata invano.
Quasi tutte le forme organizzative che il Terzo Reich ancora
tollerava, avevano direzioni che si contrapponevano alla base.
L ’organizzazione non doveva servire a far valere la volontà delle
masse che essa riuniva, ma era, per cosi dire, una parete la quale
rimandava l’eco di ciò che Hitler andava gridando. I vertici delle
organizzazioni ne erano i tutori, comandati ad adulare Hitler e
a negare alle masse ogni possibilità di far udire le proprie pro­
teste. Essi soffocavano insomma nelle masse ogni impulso che
non fosse in perfetta armonia con le direttive di Hitler: parlan-

271

L
L A T IR A N N ID E

do a nome delle masse da essi governate, impedivano loro di pren­


dere direttamente la parola.
N ella persona del capitano Rohm la SA aveva tuttora un
“ capo di stato maggiore ” che non le impediva, alla maniera
testé illustrata, l’esercizio dei suoi diritti. Rohm sentiva il polso
degli uomini affidatigli, e il suo cuore batteva all’unisono con loro;
i loro atti di volontà erano i suoi; ciò che muoveva gli affetti della
SA, muoveva anche i suoi; Rohm ambiva soprattutto ad essere
tutt’uno con i milioni di camicie brune di cui era alla testa, e solo
subordinatamente a trovare l’accordo con Hitler. In caso di neces­
sità, era disposto a propugnare la causa delle SA al cospetto di
Hitler, nella speranza di riuscire ad averne ascolto e plauso.
Rohm, uno dei pochi intimi di Hitler, aveva al suo attivo, co­
me nazionalsocialista, suppergiù altrettanti anni di Hitler. Aveva
contribuito a far di questi un duce nazionale, rendendolo inte­
ressante agli occhi della Reichswehr e dei finanziatori. Era ini­
ziato ai primi segreti del movimento, aveva scrutato nell’animo
dell’uomo Hitler. A suo tempo, s’era sfilata l’uniforme onde ser­
vire il movimento; fin dal momento in cui aveva pensato di fare
della SA un corpo di difesa, doveva essergli balenato il proposito
di fornire al futuro Reich un’armata rivoluzionaria.
Mentre, quale capitano della Reichswehr curava i collegamenti
con Hitler, si era impicciato in certe iniziative illegali. L ’atmosfe­
ra dell’illegalità lo attraeva, e fu con compiacenza che intitolò
il suo libro di memorie Geschichte eines Hochverr'àters [Storia
di un traditore\. Trovava gusto a farsi beffe dell’ordine costituito,
si confessava “ traditore ” per passione. Non lo turbava il fatto
di essere un avventuriero, e la sete d’avventure la saziò andando­
sene in Bolivia e prendendovi servizio nell’esercito. N el suo libro
egli si rivela in tutto e per tutto prigioniero dei punti di vista e
delle frasi fatte borghesi-nazionali del suo tempo, ma ne scansa
almeno la verbosa pateticità; la sua schiettezza ha il sopravvento
sulla retorica patriottarda cui Rohm pure non rifiuta il suo tri­
buto. A volte vi balena un’intuizione autonoma, vi si esprime un
giudizio originale, indipendente. Cosi, a esempio, Rohm affer­
ma di provare simpatia per i comunisti, i quali nel 1919 non ab­
bandonarono al nemico, come invece i socialdemocratici, i depo-

272
;
IL 30 GIUGNO I934

siti di armi; i comunisti, continua Rohm, non erano mai corsi dal
“ cadi ” o dal “ grande fratello di Berlino ” per fare la spia ; re­
sistenza di formazioni patriottiche armate aveva costituito “ per
il proletariato un motivo di più per condurre compatti la lotta. ”
Rohm deve dirlo: “ quest’atteggiamento da parte dei comunisti
mi è sempre piaciuto. ” Allora disponeva di mezzi adeguati per
far eseguire la confisca delle armi comuniste: “ per lo più però
mi limitai a individuare i depositi stessi e a tenerli sotto vigilan­
za. ” Il suo cervello, come si vede, non è impastato di fraseologia
patriottarda, ma anzi Rohm è ancora, a volte, capace di una
visione personale delle cose. Egli racconta con sobrietà, anche se
qua e là è dato constatare che sfiora i confini dell’infantilismo.
Le sue considerazioni non si possono mai dire ragguardevoli; mai
che vada a fondo dei propri impulsi, ma per lo meno ciò che
delle cose egli pensa è abbastanza sensato. Non è certo uno sciocco
e, anche se certe realtà le ignora, lascia almeno sperare di poter
apprendere. Il suo stile è chiaro e preciso, contrassegnato com’è
più da franchezza che da ricchezza d’espressione. Abbondano le
citazioni, segno che l’autore non è digiuno di buone letture. Egli
ha l’ambizione della cultura, e non è privo di intelligenza per le
cose dell’arte; lui stesso si diletta di poesia, e nel suo libro offre
assaggi dei suoi distici e rim e; e, benché nei versi lo spirito non
brilli, innegabilmente non manca neppure del tutto: i versi rive­
lano che l’autore ha idea di cosa sia componimento poetico; si
cimenta perfino nell’elegia, e v’è qualcosa di toccante, nell’orgo­
glio con cui presenta i parti legnosi e sgraziati della sua musa.
Nel suo ambiente fa spicco; la duttilità del suo spirito, la sua
sensibilità, il suo carattere non equivoco superano, benché nel
complesso rientrino negli schemi della mediocrità, la misura delle
qualità umane proprie agli altri gerarchi nazisti.
Certo, Rohm ha morbose tendenze omosessuali; la sua cul­
tura e sensibilità sono, come spesso accade tra ufficiali, la brillan­
tezza psico-intellettuale dell’invertito. E le sue deviazioni sono
sempre state un segreto di Pulcinella. Hitler ne è al corrente, ed
è difficile far tacere le voci secondo cui i suoi rapporti con Rohm
non sarebbero esenti da una certa coloritura erotica. Hitler non
nc piglia scandalo: le faccende private dei suoi sperimentati ge-

273

[___
L A T IR A N N ID E

rarchi non lo riguardano affatto, afferma un giorno con tono che


non ammette repliche. N el 1932, certe lettere d’amore, indiriz­
zate da Rohm allo psichiatra Heimsoth, erano cadute nelle mani
della polizia prussiana, e un membro del Republikanischer Schutz-
bund1, Helmut Klotz, le pubblicò raccolte in fascicolo. V i fu un
certo scalpore: in certe lettere dalla Bolivia, Rohm confessa di
rimpiangere gli efebi di certi malfamati ritrovi notturni tedeschi,
e fa capire che, ad aprirgli le porte dell’esercito boliviano, è stato
proprio il suo vizio.
Ma la rivelazione non rovinò affatto la posizione di Rohm
nell’ambito del movimento. Hitler fece orecchio da mercante, la
stampa del partito tacciò Klotz di diffamatore, e nel 1933 questi
sfuggi giusto in tempo all’assassinio, riparando all’estero. Accusa­
to di aver messo in mano alla polizia le lettere di Rohm, ancora
nella primavera del '34 veniva soppresso in maniera oscura Heim­
soth. Non v’era comunque chi non sapesse come, sull’esempio del
capo supremo della SA, in questa e nella Hitlerjugend numerosis­
simi fossero gli adepti del vizio greco.
Rohm dunque conserva il suo comando, ed è in compagnia di
Rohm che nel 1932 Hitler si presenta a Hindenburg; impermalito,
il feldmaresciallo borbotta, ma il i° dicembre 1933 nomina Rohm
ministro del Reich senza portafoglio.
A ll’inizio, Rohm procede in perfetto accordo col cancelliere del
Reich Adolfo Hitler. N ell’ottobre '33, ebbe a dire al corrispon­
dente berlinese dell’Allgemeenen Handelsblad : “ L a Reichswehr
è l’unico scudiero del Reich, la SA è la portatrice dell’idea e vo­
lontà della rivoluzione nazionalsocialista tedesca ” ; la SA difende­
rebbe dal bolscevismo non solo la Germania, ma l’Europa tutta, e
la sua disciplina non sarebbe di natura bellicistica. Il compito di
Rohm quale ministro del Reich, è quello di garantire la più stretta
collaborazione tra SA e pubblici poteri.
E tuttavia Rohm si trovava in una posizione difficile: un uomo
con quell’ “ imperfezione morale ” non poteva, secondo i concetti
borghesi, che essere nel suo ambiente la pecora nera. La Reichswehr
si mostrava fredda nei suoi riguardi, la grande borghesia lo trattava

1 Lett., “ Lega di difesa repubblicana. ” [AI. d. T.]

274
It 30 GIUGNO I934

con compassato sussiego: a mostrargli le spalle erano le stesse forze


della reazione che volevano depredare l’uomo qualunque in veste
di SA dei frutti della sua rivoluzione, e gli dava ai nervi la mora­
listica alterigia di quei diecimila padroni, che ovunque tanto posto
occupavano; si sentiva declassato, perché quelli lo scansavano.
Si, Rohm lo capiva, il gregario della SA invero ci scapitava.
A poco a poco, Rohm cercò di portarsi alla ribalta. Non rispar­
miava frecciate alla pruderie delle vecchie zie brontolone ; prendeva
partito per il vigoroso gregario della SA cui gli apostoli della mo­
rale stavano sullo stomaco. E Rohm esasperò l’orgoglio della S A :
questa non doveva lasciarsi mettere da canto. Voleva che la Wehr-
macht arruolasse ufficiali della SA, e fini per non far mistero della
sua aspirazione a un ufficio di ministro della difesa del Reich,
da cui dipendessero tutte le truppe e forze armate tedesche. La
Reichswehr non si sarebbe lasciata togliere di mezzo senz’altro,
e Rohm intendeva disgregarla un po’ alla volta: la SA doveva
prima penetrarla, poi assorbirla.
La Reichswehr cominciò a inquietarsi e insospettirsi. Trovò
da obbiettare sull’aumento dei quadri della SA, progettato da
Rohm : capi quel che bolliva nella pentola del “ capo di stato
maggiore. ” La grande borghesia condivideva le preoccupazioni
della Reichswehr: se la SA diventava il braccio armato della
nazione, la difesa delle casseforti sarebbe stata in cattive mani.
Le tensioni tra SA e Reichswehr aumentarono; quest’ultima fu
accusata d’essere la roccaforte della reazione; una prova di forza
tra le due potenze sembrava ormai inevitabile, già circolavano
voci sulla “ seconda rivoluzione. ” Rohm permise che anche tra
partito e SA si creassero dissapori, dagli SA si cominciò a par­
lare con disprezzo dei funzionari, la SA si convinse di avere
ancora un compito rivoluzionario da svolgere. Era chiaro che
Rohm “ consapevolmente contribuiva al distacco della SA dal par­
tito e dalle altre istituzioni dello stato. ” E la più importante “ fra
tutte le istituzioni dello stato” era la Reichswehr.
Nella SA s’incarnava pur sempre la volontà d’affermazione
della piccola borghesia, che si rifiutava di lasciarsi degradare a
mera comparsa, pretendendo anzi di essere lei la figura domi­
nante della scena rivoluzionaria. E per i lanzi con un “ passato, ”

275

»
L A T IR A N N ID E

con precedenti penali o amnistie per assassini politici, la volontà


d’affermazione piccoloborghese torna a proposito; la reazione fa
loro capire di continuo che essi rappresentano un pesante fardello,
sanno che ci si sbarazzerà di loro non appena la grande borghesia
sia salda in sella e la Reichswehr abbia definitivamente le redini
in mano. G li umori socialistici del piccolo borghese lasciano
sempre una porta aperta al proletariato industriale: è una carta
che la SA non vorrebbe farsi sfuggir di mano. Queste le correnti
di cui Rohm si è fatto portatore e avvocato.
A gli occhi della grande borghesia esse sono “ nazionalbolsce-
vistiche ” ; agli occhi della Reichswehr minano la forza e la resi­
stenza del popolo.
Hitler vorrebbe appianare i contrasti che di mese in mese si
inaspriscono. È indotto a ritenere il contegno di certi gerarchi
della SA, i quali provocano conflitti con le forze reazionarie, “ non­
nazista, ” a volte “ addirittura disgustoso ” ovvero “ quantomai
detestabile. ” Questi uomini son tanto più fonte di irrequietezza
per tutto il movimento, “ in quanto il loro manchevole nazional­
socialismo tentava di ammantarsi di nuove, assurde pretese rivo­
luzionarie. ” Egli richiama l’attenzione del “ capo di stato mag­
giore ” Rohm “ su questi e su tutta una serie di ulteriori inconve­
nienti, senza che tuttavia si provvedesse a porvi riparo o semplice-
mente a darsi per intesi delle mie censure. ” Si giunge ad alterchi
veri e propri, durante i quali in Hitler sorgono “ per la prima volta
dubbi sulla lealtà di quest’uomo. ” Non gli mancano gli avverti­
menti, i quali gli instillano “ pensieri che io non ero più, con la
miglior volontà, in grado di scongiurare. ” A partire dal maggio
1934, Hitler è convinto “ che il capo di stato maggiore Rohm
fosse intento a elaborare ambiziosi piani che, se realizzati, avreb­
bero potuto comportare gravissimi sconvolgimenti. ” L ’intrigo
ordito a spese di Rohm, intrigo cui Hess presta mano, è dunque
riuscito, e Rohm si rende conto che Reichswehr e grande borghesia
hanno ormai il sopravvento presso il Fùhrer: è certo che si vuol
fiaccare la forza rivoluzionaria della S A ; scrive a Hitler lettere
infuocate, teme che i suoi reparti possano addirittura venir sciolti.
Rohm ha con Hitler un abboccamento che dura quasi cinque ore;
il Fùhrer si scaglia contro i piani di una “ azione nazionabolscevi-

276
IL 30 G IU G N O 1934

stica” ; definisce una “ infame menzogna” l’asserzione che si


voglia sciogliere la S A ; si lagna degli eccessi commessi da uomini
della SA , e ne pretende l’espulsione. “ Il capo di stato maggiore
della SA lasciò il mio ufficio con l’assicurazione che le vocifera­
zioni erano in parte false, in parte esagerate; avrebbe fatto del
suo meglio, mi disse, perché le cose d’ora in poi filassero a do­
vere. ”
N el discorso del 15 luglio 1934, col quale Hitler giustificò,
agli occhi del popolo tedesco e del mondo, le stragi di giugno,
nascose che con Rohm aveva concertato per il 30 giugno una riu­
nione a Wiessee di tutti i maggiori gerarchi della S A ; si limitò a
rilevare, di passaggio, che improvvisamente si era deciso a “ re­
carsi personalmente a un convegno di gerarchi SA , convocato a
Wiessee. ” A tale scopo, alla fine di giugno Rohm e Heines si tro­
vavano a Wiessee: gli altri gerarchi della SA stavano per giungervi.
L ’aiutante di Hitler, Briickner, il 28 e 29 giugno aveva espressa­
mente ordinato per telefono a parecchi di essi, tra gli altri a Hey-
debreck e a Killinger di portarsi a Wiessee: nessuna assenza sa­
rebbe stata giustificata. Hitler in persona organizzò il raduno: il
30 giugno la SA in Germania sarebbe rimasta senza capi; Hitler
non temeva per quel giorno alcuna iniziativa del “ capo di stato
maggiore, ” e del resto non aveva ragione alcuna di temerla: Rohm
sperava ancora, nel corso della discussione, di tirare Hitler dalla
sua; e s’aspettava che Hitler esprimesse con chiarezza i suoi pro­
positi circa le sorti della SA.
Rohm non aveva contemplato l’eventualità di alcuna intrapresa
contro Hitler: a tanto non erano giunti i suoi piani, a un passo
simile egli non era ancora deciso. Fino a quel momento s’era limi­
tato a cercare alleanze, a chiarire la situazione, a rafforzare la pro­
pria posizione. Era in contatto col generale Schleicher, ma non si
poteva certo parlare di complotto: Rohm cercava semplicemente
adepti fedeli. Oscuramente presentendo le conseguenze delle sue
iniziative, aveva fatto iniziare da intermediari cauti contatti con
l’Unione Sovietica. Ma tutto restava pur sempre nel nebuloso, nel­
l’inafferrabile, nulla era ancora accaduto, nessuna azione era ancora
prevista. I pensieri di Rohm erano interamente rivolti all’immi-
ncnte chiarimento con H itler; cosi immacolata era la sua coscienza,

277
L A T IR A N N ID E

che non aveva fiutato alcun vento infido quando il 24 giugno Hess,
al congresso del partito del Gau di Essen, aveva profferito chiare
minacce: “ L ’ordine del Fùhrer, cui noi giurammo fedeltà, è il
solo che abbia valore, ” aveva detto Hess. “ Guai a colui, ” aveva
soggiunto, “ che manca alla fede, credendo di servire la rivoluzione
con la rivolta ” : Adolfo Hitler, ecco il sommo stratega della rivo­
luzione, e “ guai a colui il quale goffamente s’inserisca, calpestan­
dole, tra le fila sottili dei suoi piani strategici, nell’illusione di
accelerare il corso degli eventi. Costui è nemico della rivoluzione,
anche se agisce in assoluta buona fede. ” Questa era diretta contro
Rohm, il quale però non se ne diede per inteso: non erano cose
che lo riguardassero. E Rohm rimane inoperoso a Wiessee, atten­
dendo l’arrivo di H itler; vi dormi placidamente, quando il colpo
destinato a distruggerlo era ormai cosa decisa.
Grande borghesia e Reichswehr guardavano preoccupati, non
già ai piani di Rohm per l’oggi, bensì a ciò che egli — a meno di
non arrestare il braccio agli impulsi di cui era l’organo — in corso
di tempo avrebbe tramato e messo in atto. Rohm era troppo cieco
per accorgersi di ciò che egli significava in Germania, non aveva
idea della funzione politica che svolgeva, non indovinava affatto
la portata della parte che gli era toccata. Attorno gli si raccoglie­
vano tutte le forze e potenze che si mettevano sulle difese contro
la restaurazione dell’imperialismo grosso borghese, contro la tra­
sformazione della malintesa dittatura. nazionale di Hitler in aperta
conquista del potere da parte del capitalismo monopolistico; se è
lecito dirlo, egli era assurto a rappresentante e fiduciario delle
istanze concretamente socialrivoluzionarie su suolo tedesco. Rap­
presentava un pericolo ben più grosso di quanto egli stesso non
supponesse; la sua intelligenza non giungeva a penetrare il si­
gnificato storico che intanto la sua esistenza aveva assunto. G li
avversari borghesi non erano disposti a concedergli attenuanti
per questa cecità: Rohm è l’uomo dal quale la SA attende il se­
gnale della seconda rivoluzione; ciò basta perché egli sia giudicato
colpevole. G li si imputerà d’ora in avanti non ciò che soggettiva­
mente vuole, ma ciò che obbiettivamente rappresenta. Egli deve
cadere, perché la seconda rivoluzione sia soffocata prima che possa
scoppiare.

278
IL 30 G IU G N O 1934

Non riuscì difficile persuadere Hitler che, dalla seconda rivo­


luzione, egli aveva solo da perdere e nulla da guadagnare. Hitler
è cancelliere del Reich con poteri dittatoriali. Hindenburg
ha i giorni contati: il Fiihrer non ha che da stendere la mano e
sarà il signore del Reich, il capo supremo delle forze armate. La
Reichswehr gli offre ciò cui il suo cuore anela, e la grande bor­
ghesia annuisce.
Senza pene, in assoluta legalità, la manna gli cade in grembo:
non ha bisogno di una seconda rivoluzione, lui. Egli non deve
conquistarsi con le armi il premio: il più ambito glielo regala anzi
la rinunzia alla lotta. La seconda rivoluzione è rivolta contro di
lui : gli vuole impedire di compiere pacificamente, tranquillamente,
l’ultimo passo verso la suprema cima del potere; e, peggio, essa
lo espone al pericolo di riprecipitare nell’abisso, quando sta per
toccare la meta suprema. L ’esperienza di quindici anni gli ha in­
segnato che gli è sempre andata bene, quando è proceduto gomito
a gomito con la Reichswehr e la grande borghesia: sarebbe quindi
presunzione e follia voler strappar loro con lo sforzo rivoluzionario
ciò che esse spontaneamente gli offrono. Dalla seconda rivoluzione
Hitler ha da temere quanto la grande borghesia e la Reichswehr:
dunque, le schiaccerà la testa.
Non è possibile controllare se risponda a verità la diceria secondo
la quale, in occasione di un abboccamento tra Hitler, il ministro
della propaganda del Reich, il ministro della guerra e il capo di
stato maggiore dell’esercito, il discorso sarebbe caduto sui pregiu­
dizi derivanti dalle macchinazioni di Rohm al morale tedesco; il
generale Fritsch avrebbe sottolineato l’impossibilità di affidare a
Rohm le forze militari; a tali affermazioni sarebbe succeduto un
lungo silenzio, rotto alla fine da Goebbels con le parole: “ Allora
deve morire. ” È certo comunque che la decisione di liquidare
Rohm risale a ben prima del 30 giugno ; spettò a Goebbels di prov­
vedere a un’adeguata regia. La SA sarebbe stata assoggettata a una
violenta cura, tale da toglierle l’albagia rivoluzionaria; d’un colpo
nolo sarebbe stata precipitata nelle bassure dell’impotenza politica;
(l’ora in avanti non avrebbe più angosciato la grande borghesia col
mio nazionalboTscevismo."ne sfidato la Reichswehr con le sue mi­

litaresche sparate.

279
!
L A T IR A N N ID E

Non era questione di deporre e arrestare Rohm: bisognava an­


che giungere a evitare che a tempo opportuno pigliasse la fuga.
Prigioniero, sarebbe assurto agli occhi della SA a martire dell’idea
rivoluzionaria; emigrante, avrebbe saputo troppe cose: se Rohm
avesse scritto le sue memorie, sarebbe stata finita per la reputa­
zione morale e politica di Hitler.
N é maggior clemenza si poteva usare nei confronti dei piu
intimi seguaci di Rohm, tra i quali più d’uno ve n’era che avrebbe
potuto benissimo raccontare come si fa a incendiare un Reichstag.
Troppi gli iniziati al crimine di febbraio; trattandosi per lo più
di psicopatici, chi poteva giurare che avrebbero per sempre ta­
ciuto ? La ragion di stato da tempo ormai ingiungeva di farne piaz­
za pulita; prima che Hitler divenisse supremo reggitore dello stato,
occorreva che fossero sterminati gli autori materiali dell’incendio
del Reichstag. Come nel febbraio 1933, anche stavolta si predi­
sposero le cose in modo che le vittime votate alla distruzione fossero
duramente stigmatizzate quali ree di un delitto capitale. A i recalci­
tranti gerarchi della SA, stavolta non s’imputarono incendi, bensì
atti terroristici, preparativi ad attentati contro la persona del Fùhrer,
alto tradimento.
Per il mese di luglio alla SA fu data licenza; quella la intese
come una misura disciplinare, una prova in vista della dissoluzione
definitiva. Tuttavia si rassegnò: a Wiessee, tanto, Rohm avrebbe
patrocinato col massimo vigore la sua causa. Le strane vocifera­
zioni di oscura fonte che correvano, le facevano torto; si riferiva di
concentramenti di formazioni S A : imminente l’assalto alle caser­
me, la sollevazione di reparti della Reichswehr; per prevenirlo le
truppe sarebbero state messe in istato d’allarme. Si sentiva chiara­
mente che qualcuno era all’opera per caricare l’atmosfera di mali­
gne tensioni.
Nessun gerarca SA premeditava assalti alle caserme; gli itine­
rari di gran parte di essi erano stati turbati dall’invito al convegno
di Wiessee. Ancora il 29 giugno, Hitler aveva ispezionato un cam­
po di lavoro in Westfalia; l’azione di sorpresa che egli aveva in
animo, era stata architettata nel più assoluto segreto con Gòring,
Himmler, Heydrich, Goebbels e il ministro degli interni di Ba­

280
IL 30 G IU G N O 1934

viera, Wagner, e il suo viaggio d’ispezione all’ovest era inteso a


impedire che Rohm pigliasse sospetto.
G ià nella notte dal 29 al 30 giugno, mentre i velivoli che por­
tavano Hitler e il suo seguito erano in rotta verso Monaco, il mini­
stro degli interni Wagner iniziava l’azione, arrestando il capo della
polizia di Monaco, Schmid, uno degli uomini di fiducia di Rohm,
e prendendo disposizione per l’arresto dei gerarchi SA che dalle
varie regioni del Reich giungessero a Monaco in auto o per fer­
rovia, e la loro traduzione al carcere di Stadelheim. A i militi delle
SS, di ricordare ai gerarchi SA, “ in nome della legge, ” la fuga­
cità e fragilità della grandezza politica. A Wiessee, Rohm non
macchinava affatto terroristici, traditoreschi colpi di mano: gia­
ceva ignaro a letto, quando le formazioni SS invasero la casa e si
impadronirono di lui. Non oppose resistenza, non si rese conto
della situazione. Anche Heines fu qui arrestato. Analoga azione
conduceva intanto Gòring in Prussia.
Subito ebbero inizio le fucilazioni. Non si istruirono procedi­
menti, non si produssero prove, non si istituirono tribunali. Evi­
dentemente, i plotoni di esecuzione agivano seguendo una lista
nera, compilata in precedenza. “ Ho impartito io stesso il coman-~f
do, ” disse Hitler al Reichstag, “ di fucilare i maggiori responsa­
bili del tradimento, come ho dato l’ordine di cauterizzare e sradi­
care gli ascessi che avvelenavano l’atmosfera tedesca e quella di
altri paesi. E ho impartito inoltre l’ordine di liquidare armata manti
i ribelli che avessero osato opporre resistenza all’atto dell’arresto. ” J
Non v’era nessuna legge, nessuna procura di poteri che autorizzas­
se Hitler a giocare cosi con la vita di cittadini tedeschi. Aveva un
beH’affermare che “ in quest’ora ero responsabile del destino della
nazione tedesca, ed ero quindi il supremo giudice del popolo te-
. desco. ” Perché anche il supremo giudice era pur sempre legato
alle norme giuridiche: poteva, sulla scorta di leggi eccezionali,
emanare un verdetto, non già semplicemente sterminare. Senza
contare che i gerarchi SA erano giunti a Wiessee non per insce­
nare tradimenti, ma per conferire con Hitler, e che quindi non
v’era situazione d’emergenza, né si profilava pericolo alcuno; una
volta messi sotto chiave, gli arrestati non avrebbero potuto più
nuocere, e si sarebbe quindi potuto processarli con tutta tranquil­

28f
L A T IR A N N ID E

lità. “ Se qualcuno volesse obbiettarmi, ” sostenne Hitler, “ che


solo un procedimento penale avrebbe potuto permettere una esat­
ta valutazione delle colpe e delle pene, a tale opinione opporrei le
più fiere proteste. Chi si leva contro la Germania, commette alto
tradimento. E chi lo commetta, non va punito secondo l’estensione
e la misura del suo atto, ma secondo i propositi che ha rivelato.
Chi ha l’audacia, infrangendo la fede e il suo credo, di macchi­
nare congiure, altro non può attendersi se non di esserne lui la
prima vittima. ” Questo può essere il punto di vista o d’un boia
che abbia per mestiere di versare sangue umano, o del criminale
nel cui animo mai non albergarono sensi d’ordine e giustizia, ov­
vero ancora d’un tiranno preda di cesaromania e in cui tali sensi
andarono distrutti.
Gli assassini del 30 giugno son degni del basso impero roma­
no; nella storia più a noi vicina, trovano riscontro solo in quel
misfatto di Senigallia, dove Cesare Borgia, il 3 1 dicembre 1502,
invitò presso di sé Orsini e Vitelli, per poi farli catturare e massa­
crare. Hitler si era compiaciuto dello stile politico di Cesare Borgia.
Poiché i registi dei fatti di sangue non erano in grado di dire
con sicurezza fino a che punto fosse loro riuscito, a quello stadio
del loro dominio, di soffocare il senso di giustizia del popolo
tedesco, montarono un vero e proprio “ giallo. ” Le loro vittime
erano state subito tolte di mezzo, di conseguenza la verità non
sarebbe venuta tanto presto a galla. Una riedizione del processo
per l’incendio del Reichstag non la si osò: si preferì la giustizia
sommaria, acciocché la trama di menzogne non potesse esser la­
cerata da nessuno.
Già il primo annuncio ufficiale, di cui a quanto pare è respon­
sabile Goebbels, mostra le grandi linee di quel romanzo giallo
che più tardi è stato sviluppato a insieme perfetto da Hitler, nel
suo discorso al Reichstag. Poiché non si poteva seduta stante pre­
vedere quale sarebbe stata la reazione della SA alla strage dei
suoi capi, si pensò bene di mobilitare contro di essa la sensibilità
morale del popolo. L a SA fu posta in cattiva luce; se si fosse
mossa, dal giorno alla notte la camicia bruna sarebbe divenuta
diffamato simbolo di vizio, feccia immonda. “ L ’esecuzione degli
arresti, ” così si proclamò, “ ha rivelato tali brutture morali, da

282
IL 30 G IU G N O X 934

far sparire ogni traccia di pietà. Alcuni di questi gerarchi della


SA, avevano condotto seco i loro amasi; uno fu sorpreso e arre­
stato mentre compiva atti innominabili.” Solo più tardi, essendo
la SA rimasta tranquilla, si tentò di scongiurare il fantasma con­
tro di essa evocato.
Subito Goebbels cominciò a tirare le fila della saga hitleriana;
alle sette del mattino il Fùhrer sarebbe giunto con lui, Brùckner,
Schaub, Schreck e Dietrich, a Wiessee. “ Senza incontrare resi­
stenza, riusciamo a metter piede nella casa e a sorprendere la
banda di congiurati ancora immersi nel sonno e a impadronir­
cene. È il Fùhrer in persona che, con coraggio senza pari, prov­
vede agli arresti. ”
Col romanzo giallo, che Hitler presenta al Reichstag alla
metà di luglio, egli perfeziona la propria leggenda. Ora schiuma
indignato contro l’omosessualità di Rohm, sulla quale per anni
ha steso la mano protettrice; l’eroico resoconto di Goebbels trova
conferma: Hitler in persona ha affrontato il mostro nella sua
tana. “ Mi era chiaro ormai che il capo di stato maggiore della
SA andava affrontato da uomo a uomo: egli aveva mancato di
fede a me, e io solo quindi dovevo chiamarlo alla resa dei conti. ”
G li uccisi, continua Hitler, erano congiurati, individui che s’e-
rano impacciati in oscure trattative con Francois “ Poncet. L ’eli­
minazione di Hitler sarebbe stata ormai cosa decisa, il sicario già
assoldato. “ Ancora poche ore prima della propria morte, lo
Standartenfuhrer Uhi ammise di essere stato disposto a dare ese­
cuzione a un ordine sim ile.” Rohm avrebbe progettato, d’accor­
do con gli oppositori di Hitler, una sollevazione, destinata a du­
rare più giorni e quanto mai sanguinosa. “ Solo un intervento
spietato e cruento era forse ancora in grado di impedire l’esten­
dersi della rivolta.” I cento congiurati uccisi, lo sarebbero stati
per impedire che “ diecimila SA ” dovessero “ versare al loro po­
sto sangue innocente. ” Hitler ha dunque preservato il popolo te­
desco dal dolore “ che forse avrebbe colpito diecimila spose te­
desche, se quel proposito fosse riuscito.” Come già tante altre
volte, Hitler era ancora il salvatore, il messia.
In Rohm e nei suoi accoliti, erano state soppresse tendenze
clic Hitler, poiché si era alleato con la grande borghesia e la

283
L A T IR A N N ID E

Reichswehr, ben doveva avvertire dirette contro se stesso. In con­


crete azioni, cui si dovesse “ fulmineamente” por riparo, tali
tendenze non si erano ancora tuttavia tradotte; e in sostanza
Hitler stesso ammetteva di aver fatto vendetta di intenzioni, non
di atti effettivi. Cosi la SA fu intimidita, piegata, ridotta all’ob­
bedienza, umiliata nel suo orgoglio.
Invero si trattava di un’operazione di guerra civile; quale co­
mandante dalle fulminee decisioni, Hitler aveva messo fuori com­
battimento l’incauto e ignaro generalissimo e lo stato maggiore
delle forze avversarie; l’uno e l’altro erano caduti nel suo tra­
nello, e lui allora li aveva tolti di mezzo. Per grande borghesia e
Reichswehr, la SA era divenuta l’esercito nemico, “ marxista ” :
era “ infettata di bolscevismo ” ; per il borghese capitalista non
era più degna di fiducia, ma divenuta altrettanto pericolosa dei
bolscevichi. Lo stato di guerra civile rendeva lecito dare addosso,
armata manu, alla S A : chi metteva al muro il gerarca SA era
un milite della guerra civile, non già un assassino.
La Reichswehr che dietro le quinte aveva macchinato la ca­
strazione della SA e freddamente commesso a terzi il massacro
dei gerarchi SA, preferì un astuto riserbo e non immischiarsi in
quelle esecuzioni da guerra civile: era il principio di maggior
momento della rivoluzione nazionalsocialista, che mai la rea­
zione capitalistica dovesse farsi cogliere in flagrante, era condi-
| zione per il successo che alla ribalta apparisse solo il suo uomo di
> paglia nazionalsocialista, in questo caso la SS.
La SS aveva altra composizione della SA , essendo di estra­
zione migliore, più rispettabile. Essa accoglieva la jeunesse dorée,
la “ bella gente,” la borghesia beneducata, gli agrari benestanti.
L a sua rivalità con la SA non era esente da una coloritura so­
ciale; l’istinto di proprietà degli SS era messo in allarme dal
fondo proletario — per quanto riverniciato di nazismo — della
SA. E tanto maggiore fu il trasporto con cui i militi SS esegui
rono la loro opera di morte, in quanto si sentivano solidali col
sistema di proprietà con cui la SA aveva voluto attaccar briga.
Quali “ fiori dell’arianesimo, ” gli SS erano stati comandati a pu­
nire col sangue, e dimostrarono di essere abili come lo furono le

284
IL 30 GIUGNO 1 9 3 4

loro attuali vittime nel *33, contro i proletari coscienti: e cosi la


SS senza volerlo era il braccio della giustizia riparatrice.
La scintilla rivoluzionaria che aveva brillato nella SA , fu
soffocata. Il sinistrismo radicale, che ogni rivoluzione eleva agli
onori, fu abbattuto. Cosi erano stati spazzati via anabattisti e
leveller, cosi Cavaignac s’era scagliato sugli operai francesi, cosi
Noske sugli spartachisti tedeschi. L ’idea della seconda rivoluzione
era morta; indisturbata, la rivoluzione nazionalsocialista può ormai
adempiere al proprio scopo originario: consegnare le redini alla
grande borghesia e all’esercito di questa.
La SA non fu disciolta, ma potè sopravvivere nell’onta e nella
vergogna. Non aveva opposto la minima resistenza, non si era
certo comportata meglio di quanto nel 1933 avessero fatto i lavo­
ratori socialisti, i loro partiti e sindacati. Ancora il 30 giugno, fa­
cendo Obergruppenfiihrer2 Lutze, una delle sue scialbe creature,
Hitler gli espresse la sua aspettativa di “ veder fare della SA, gra­
zie la Sua fedele e devota opera, lo strumento di cui la nazione
ha bisogno. ” A l successivo congresso del partito a Norimberga,
Hitler elencò le caratteristiche che si richiedevano dalla SA quale
strumento della restaurazione capitalistica tedesca: “ Il gregario
e il gerarca della SA non possono non essere fedeli, obbedienti,
disciplinati, modesti, pronti al sacrificio — o altrimenti non ap­
partengono a questo corpo. ” La deviazione rivoluzionaria è, agli
occhi di Hitler — tale l’insegnamento del 30 giugno — un crimine
punibile con la morte.
Ma mentre cosi esemplarmente la si faceva finita, all’interno
della SA, con l’ala “ socialista, ” logicamente non si potevano per­
dere di vista eventuali effetti ritardati sulle masse piccoloborghesi.
La faccenda si sarebbe fatta imbrogliata, se tali masse avessero
all’improvviso afferrato la funzione grossoborghese del nazional­
socialismo del Terzo Reich. Bisognava dunque confondere loro le
idee, condurle su false piste. E ciò avvenne tramite gli assassini di
cui furono vittima certi “ reazionari. ”
In effetti, la “ reazione ” in quegli ultimi mesi aveva trascurato
le prescritte precauzioni. Illusa di avere ormai superato i maggiori

B Lctt., “ Comandante supremo di gruppo.” [A/-, d. T.]

285
Là TI&àNNIDI

ostacoli e di essersi saldamente affermata, non faceva misteri del


suo dispregio per i “ piccoli Hilter ” ; dava a vedere di ritenere che
ormai fosse giunto il tempo in cui tornare a provvedere da sola
ai propri affari politici, e che non ci fosse più bisogno del pallia-
mento demagogico. Non voleva insomma più pagare il prezzo
convenuto e che finora s’eran messo in tasca i vecchi combattenti,
i quali dal giorno alla notte erano assurti a favolosi uffici. E aveva
fornito alimento al nazionalbolscevismo della SA, il fatto che i
villan rifatti nazionalsocialisti si sentissero nei loro uffici e inca­
richi minacciati dagli “ esperti della reazione. ” Perfino i monar­
chici si agitavano: la preda politica, fatta nel 1933 dai vecchi com­
battenti, s’attirava da ogni parte sguardi di brama e invidia, cui i
vecchi combattenti erano particolarmente suscettibili.
Il compendio della reazione era il vicecancelliere von Papen.
In lui convenivano tutte le varietà della reazione: cattolico, voleva
stabilire una identità di interessi tra chiesa di Roma e Terzo
Reich; era l’uomo di fiducia della grande borghesia, e aveva l’ap­
poggio della Reichswehr. L a causa del feudalesimo era in mani
sue: i monarchici potevano contare su di lui.
Non era mai stato un segreto: i “ socialisti ” del Terzo Reich lo
odiavano. N el suo celebre “ Discorso di Marburgo, ” aveva osato
molto, facendosi portavoce della pretesa dei circoli reazionari a
una completa normalizzazione politica. Goebbels proibì la diffu­
sione del discorso; sentiva che, se avesse lasciato uscire il gatto
dal sacco, la borghesia avrebbe prodotto a se stessa il massimo dei
danni. Per la sua tracotanza, Papen si meritava il ricordino che
di fatto gli fu porto il 30 giugno.
Se il signor von Papen non fosse stato avvertito in tempo dalla
Reichswehr — e preso sotto la sua protezione — anche lui ci avreb­
be rimesso la pelle; per parecchi giorni restò in casa sua, guardato
da un drappello armato. Ma non sfuggirono, alla sorte a lui riser­
bata, i suoi collaboratori: Edgar Jung, compilatore del “ Discorso
di Marburgo, ” perì quale intermediario tra Papen e grande bor­
ghesia; il consigliere ministeriale Klausener quale intermediario
tra Papen e chiesa cattolica; il capitano Bose, quale intermediario
con feudalesimo e monarchici. Anche in provincia, i plotoni di
esecuzione sfogarono la propria bile su numerosi “ reazionari ”

286
I
IL 3 0 GIUGNO I 9 3 4

che troppo sfacciatamente s’eran messi in mostra. L a reazione


tutta doveva saperlo: il Terzo Reich le faceva, si, trovare la pappa
pronta, ma i suoi fondatori, dotatori e registi non intendevano per­
mettere a nessuno di mettere la falce nel loro campo: pretende­
vano che li si lasciasse fare a modo loro. Le prestazioni reazionarie
essi le fornivano con correttezza e sollecitudine: in compenso
difendevano, con le unghie e i denti, uno strumento politico che
sapevano maneggiare con più destrezza di chiunque altro.
A gli occhi delle masse piccoloborghesi, i cadaveri dei “ reazio­
nari ” costituivano un alibi davvero ideale: ora quelle non pote­
vano più dubitare che la botta del 30 giugno non fosse diretta
contro la reazione. Con sicuro istinto propagandistico, Goebbels
aveva ufficialmente comunicato: “ Il Fùhrer ha impartito al pre­
sidente del consiglio dei ministri prussiano, Gòring, l’ordine di
condurre un’azione simile a Berlino, per snidarvi soprattutto gli
alleati reazionari di questo complotto politico. ” Di alleati “ rea­
zionari ” di Rohm non se n’erano mai dati, ciononpertanto Rohm
divenne per antonomasia lo staffiere della reazione: una volta di
più, il bianco diventava nero, il nero bianco. L a battaglia che a
beneficio della grande borghesia Hitler aveva condotto contro le
ultime posizioni di forza delle tendenze socialistiche su suolo te­
desco, assurse cosi, agli occhi delle masse piccoloborghesi, al si­
gnificato di una lotta per il socialismo contro la reazione capita­
listica.
N el tardo pomeriggio del 30 giugno, Gòring aveva invitato
i giornalisti stranieri al Ministero per la propaganda del Reich.
Gòring, che “ sprizzava energia ” e nelle cui parole non si notò
il minimo segno di nervosismo, raccontò ai cronisti la storiella
die aveva architettato assieme a H itler; non mancò di assicurare,
fon smanceria, di esser uomo noto perché, quando interveniva
direttamente, lo faceva con “ durezza ed energia.” Già era sul-
Iùscio quando, voltatosi, aggiunse con tono drammatico : “ U n’ul-
lima precisazione: il generale Schleicher, ex cancelliere del Reich,
ha opposto resistenza al momento dell’arresto: è m orto.”
Schleicher non aveva opposto resistenza alcuna: non gliene
rra stata neppure offerta l’occasione. Il ministro Gòring aveva
udentemente affermato il falso. Fatta irruzione in casa di Schlei-

287
t A T IR A N N ID E

cher, gli assassini avevano bruciato le cervella a questi e alla


moglie; in auto, erano fuggiti alla volta di Berlino; poiché la
polizia di Potsdam subito ne aveva segnalato i connotati a quella
della capitale, li si sarebbe potuti senz’altro assicurare alla giu­
stizia; la polizia di Berlino non si mosse: essa non aveva nessuna
intenzione di prenderli.
Schleicher non aveva complottato né con Rohm né con Papen:
fu, da parte nazionalsocialista, il saldo di un conto particolare. A
suo tempo, Schleicher aveva preteso di giocare col nazionalsocia­
lismo e con H itler: il nazismo avrebbe dovuto essere prematura­
mente abilitato al potere, di modo che da solo si sbarrasse la
strada all’autocrazia. Schleicher non era affatto un nemico della
grande borghesia, solo non voleva che questa facesse il passo più
lungo della gamba. Accalappiare più saldamente ancora il prole­
tariato, era anche nei suoi piani; legargli mani e piedi, però, lo
riteneva rischioso: ciò che gli aveva acquistato la fama del “ gene­
rale sociale. ” Schleicher, che aveva in mente il caso di guerra, era
restio a spingere l’asservimento della classe operaia al punto che
il proletario, ridotto alla disperazione, dovesse salutare in ogni ne­
mico della patria il proprio liberatore, redentore, alleato; col nazio­
nalsocialismo, aveva inteso educare alla modestia partiti marxisti
e sindacati; inversamente, però, il marxismo organizzato doveva
tenere in iscacco il nazionalsocialismo. Allorché questo minacciò
di sopraffarlo, volle liquidarlo con l’ausilio di Gregor Strasser; in
seguito al telegramma di Hitler per i fatti di Potempa, aveva per­
fino pensato di mettere nell’incapacità di nuocere l’intero corpo
dei gerarchi nazisti; nel gennaio 1933, aveva progettato un colpo
di stato, mediante il quale sperava di allontanare Hitler dal potere,
e solo perché non agi con abbastanza rapidità, Hitler, con l’appog­
gio di Papen e di Hugenberg, potè prevenirlo. Schleicher non fa­
ceva misteri del disprezzo che nutriva per Hitler e il suo milieu :
non si faceva scrupolo, davanti a testimoni auricolari, di definire
il primo un “ idiota” ; conosceva il retroscena dell’incendio del
Reichstag: sperava, una volta preso il posto di Hitler, di poterne
mettere al corrente il popolo. Schleicher era un residuo della
Reichswehr del periodo prefascista, in cui questa era stata in

288
r ..........
IL 3 0 GIUGNO I 9 3 4

buona con Mosca e aveva saputo valutare appieno il peso di un


proletariato sindacalmente organizzato.
Schleicher cadde vittima di una vendetta nazionalsocialista. In
pari tempo, con questa morte la Reichswehr si redimeva dai suoi
ultimi “ peccati” weimariani: pagò il fio per aver mostrato di
tempo in tempo qualche comprensione per il proletariato, per non
essersi data anima e corpo alla grande borghesia reazionaria, per
aver giocato in politica estera la carta russa. D ’ora in poi non si
sarebbero più visti generali “ sociali, ” ma solo generali fascisti.
Più tardi, il senso d’onore dell’ “ Unione tra gli appartenenti al
Terzo Reggimento di fanteria della G u ardia” pretese spiegazioni
sul caso Schleicher, per radiare il morto dai ranghi quale traditore
ovvero per riabilitarlo; la Reichswehr si comportò miseramente,
accontentandosi di far fornire da Mackensen, nel corso di una riu­
nione tra membri della Schlieifen-Gesellschaft, un circolo di ge­
nerali, la spiegazione che anche Schleicher era caduto nella lotta
per la nuova Germania.
Il discorso col quale Hitler rese conto alla nazione del suo
operato, iniziò con una filippica contro il sistema weimariano;
nel *33 il partito nazionalsocialista, egli disse, s’era addossato uno
stato che “ politicamente ed economicamente era in pieno decadi­
mento. ” I partiti weimariani avevano “ ignominiosamente falli­
to ” : “ un regime nuovo ha spazzato via un’epoca di vecchiume e
malattia. ” G li assassini di giugno rivelavano gli splendori del
nuovo regime, e non s’addiceva troppo, all’uomo le cui braccia
grondavano ancora del sangue degli innocenti trucidati, erigersi a
giudice morale del passato weimariano. Il Times, fonte indubbia­
mente seria, aveva notato, a commento dei fatti atroci, come al
vertice della Germania ci fosse una banda di gangsters: constata­
zione che, data l ’autorità di chi la faceva, non si sarebbe più riu­
sciti a far dimenticare al mondo.
Quanto alla Germania borghese, essa non aveva più sensibilità
alcuna per questo raccapricciante stato di fatto. Il 3 luglio si riuni
il consiglio dei ministri del Reich, decretando una legge il cui
unico articolo era del seguente tenore: “ Le misure attuate per
respingere proditori attacchi il 30 giugno, il i° e il 2 luglio 1934,
sono di diritto atti di legittima difesa dello stato.” Il generale

289

A
L A T IR A N N ID E

Blomberg ringraziò il Fiihrer a nome del consiglio dei ministri


e della Wehrmacht, “ per il suo contegno deciso e coraggioso, col
quale ha preservato il popolo tedesco dalla guerra civile. Il Fiihrer
si è rivelato, quale uomo di stato e quale soldato, di una gran­
dezza che in queste ore difficili ha fatto germogliare, nel cuore dei
membri del gabinetto e di tutto il popolo tedesco, un voto di ef­
fettiva dedizione e fedeltà. ” L a Reichswehr dava quietanza, rin­
graziando, di essere stata liberata dagli incomodi concorrenti in
camicia bruna. A llo sfinito presidente del Reich furono presentati,
perché li firmasse, documenti in cui egli esprimeva a Hitler e
Gòring il suo ringraziamento e la sua riconoscenza per “ la ma­
niera coraggiosa con cui avevano messo a repentaglio la propria
persona, ” per la loro “ condotta energica ed efficace gli assassini
e i loro complici non solo si autoamnistiavano, ma per giunta si
autoincensavano.
N el suo sconfinato terrore sociale, la Germania borghese aveva
insomma perduto ogni norma morale. Hitler imparò che non v’era
semplicemente crimine, commettendo il quale potesse attirarsi l’e­
secrazione della borghesia tedesca. In nessuna parte si manifesta­
rono resistenze morali: la classe borghese aveva il regime che
le si addiceva e che si meritava. Il 30 giugno squarciò il velo: agli
occhi di tutti fu evidente la spaventevole misura del disfacimento
e marciume delle masse borghesi tedesche.
r

Capitolo ventitreesimo

“ Veste vedo e celebrazioni...

L ’esistenza del Terzo Reich è legata al permanere, nei cervelli


delle masse piccoloborghesi e proletarie, di un distorto intendi­
mento delle cose. Le realtà del Terzo Reich son di natura sospet­
ta: a lungo andare, non potrebbero, allo sguardo spregiudicato che
le penetri nel loro nudo essere, non indurre esecrazione e ripu­
gnanza. Ma il Terzo Reich seduce le masse al vizio intellettuale
consistente nel badare non già alle cose in sé, ma ai loro orpelli.
Si è detto una volta che, con l’ausilio dei suoi odori, un buon cuoco
può di un vecchio guanto di pelle fare la più deliziosa fricassea;
altrettanto versati sono i cuochi politici del nazionalsocialismo nel­
l’arte di stuzzicare i palati, atta a far scordare che si è profendati
di cibi indigeribili. Il Terzo Reich apparecchia esclusivamente piat­
ti immangiabili, però li serve in tavola conditi di raffinati intingoli.
Distrae l’occhio dal nocciolo vero di ogni cosa, con le accattivanti
esalazioni che in abbondanza diffonde; con maestria adopera ad­
dobbi, sfarzosità, effetti scenici. Le masse, perse dietro quella pac­
cottiglia, si infilano ciecamente e senza accorgersene nella trappola,
in cui sono serrate e rattrappite; e, intanto che si lussano le mem­
bra, se la spassano alle buffonerie inscenate dai carnefici del Terzo
Reich: la gravità della loro situazione, non l’afferrano.
La storia patria è un inesauribile ripostiglio, dal quale il Terzo
Reich trae, per la sua maligna mascherata, la porporina storica, le
faci, le bandiere, i costumi; essa fornisce il magniloquio dei sim­
boli, che sempre s’impone ovunque risuoni e dal quale le masse,
clic si vuole abbindolare, si lasciano imbalordire. Il più miserabile
cozzone guadagna pur sempre lustro di grandezza, quando so­
vrasti le proprie vittime dall’alto dei suoi coturni storici.
Il primo effetto teatrale del Terzo Reich riuscì quando il colpo
ili stato della primavera del 1933 fu messo in scena quale “ rivolu-

29 1

i
L A T IR A N N ID E

zione nazionale. ” A lla “ giornata di Potsdam ” s’opponeva la


tradizione prussiana; come un fuoco d’artificio quella tradizione
fu consumata in poche ore: non ne restarono che cartocci vuoti,
pezzi di cartone bruciacchiato. L a dittatura borghese si fece alla
ribalta nell’attillata uniforme del Vecchio Fritz, cosa che le fruttò
il giubilo delle masse, le quali sempre si commuovono qualora
si imbattano, vuoi in strada, vuoi nel circo, sullo schermo, sul pal­
coscenico, nel loro “ grande passato. ” Il sarcofago del re di Prus­
sia, quando Hitler gli si impalò davanti in “ rispettosa preghiera,”
scadette ad attrezzo scenico, e la chiesa della Guarnigione di
Potsdam a ritrovo di uomini di onore incerto.
Hindenburg fece la parte di padre nobile: in paga si ebbe la
donazione di Neudeck, sulla quale non gravavano tasse. L ’impe­
rialismo borghese festeggiò la totale, spontanea metamorfosi del
popolo libero e sovrano in sottomessa carne da cannone, preoccu­
pata di armarsi moralmente per le eroiche imprese di cui quello
necessitava per motivi finanziari.
Da quel momento, la Prussia come tradizione fu morta: un
solo giorno era bastato a Hitler per succhiarle dalle ossa tutto il
midollo simbolico. L a bandiera bianco e nera fu ammainata alla
pari di quella bianco-rosso-nera: per feudale e junkeriana che
fosse stata la Prussia, non era più abbastanza medioevale per gli
scopi della grande borghesia tedesca. A mano a mano essa aveva
ceduto alle tendenze emancipatrici dei servi della gleba, e Fede­
rico fu .uno spirito libero; imbevute di liberalismo erano state le
grandi personalità dell’epoca napoleonica. Tutto ciò contraddiceva
all’inclinazione del Terzo Reich. La giornata di Potsdam fu la
debita riverenza alla Prussia, dopo di ché ci si buttò nel medioevo,
che si trovava ben più indietro della Prussia. Il medioevo: vale a
dire i secoli dei grandi signori feudali e del popolo servo, dell’o­
scurantismo, del dogmatismo, della tortura e dell’inquisizione. È in
questo medioevo che d’ora in poi si prenderà soggiorno: i costumi
e le usanze degli avi vengono rispolverate, rimesse a nuovo fogge-
tramontate, si ripassano “ danze popolari, ” si rifà onore al “ Mci-
stertrunk. ” Enrico il Leone tornò attuale; il Guelfo rimontò
l’Hohenzollern. Ci si gettò infine senza rispetto sulle peste di Ottone
il Grande e di Enrico I: nelle specie di Hitler i due grandi sassoni

292
“ F E S T E V ED O E C E L E B R A Z IO N I. . . ”

erano riapparsi. A pescare al fondo della vecchia storia tedesca, si


rintracciava la fisionomia del “ duce” ; tutte le ricorrenze storiche
assunsero ad un tratto contorni nazionalsocialisti: la storia europea
a partire da Carlo Magno divenne l’Antico Testamento del popolo
tedesco, Braunau1 la Betlemme tedesca, e il Cristo, meta finale
dell’intera storia europea, Adolfo Hitler. Non vi fu più simbolo
storico tedesco, che non fosse rimpiastricciato della sua brava croce
uncinata. Il soldato della guerra mondiale era caduto per la stessa
Weltanschauung nazionalsocialista, per la quale, correva l’anno
782, i tremila nobili sassoni avevano versato il nobile sangue a
Verden sull’Aller. Dal tempo dei tempi Dio aveva creato i te­
deschi quali nazionalsocialisti; e chi non credeva in Hitler, rinne­
gava la fede negli avi. Per tal modo ogni ricorrenza storica divenne
manifestazione nazista, e a sua volta ogni manifestazione nazista
trovò un precedente storico, dal quale assumere potente, venerando
rilievo. Ogniqualvolta il Terzo Reich voleva annegare le tribola­
zioni delle masse in una festosa ebbrezza, si metteva nel fascio di
luce di una grande tradizione storica; e quando le trombe squil­
lavano, e le bandiere garrivano, e gli oratori prendevano la parola,
balzava a ognuno il cuore in petto, e ognuno subito si sentiva
afferrato per il ciuffo dall’impetuoso vento della storia. Il grigiore
quotidiano era sommerso dallo splendore irradiante da questo o
quel glorioso avvenimento del passato, e l’occhio ne era accecato e
scorgeva meraviglie in un cielo che invece era obnubilato da scon­
fortanti velari di nebbia. Per drogare le masse, fu cosi ridotta in
polvere la simbologia nazionale. Come Potsdam, la città degli
Hohenzollern, anche Norimberga, la città dei Maestri cantori,
Coslan, la città degli imperatori sassoni, Biickeburg, il paesaggio
di Arminio il cherusco furono compromessi per sempre. Non restò
angolino tranquillo e segreto della storia tedesca, che non fosse
nazisticamente imbrattato; necessariamente ogni onest’uomo si
senti profondamente nauseato della storia tedesca: alfine non vi fu
periodo del passato tedesco che non emanasse lo stesso, penetrante
lezzo bruno. Colui al quale il Terzo Reich andasse a contraggenio,
doveva girare alla larga dall’intera storia tedesca.

1 Luogo natale di Hitler. [IV. d. T .]

293
L A T IR A N N ID E

L a borghesia l’ha nel sangue, di cacciarsi nel guardaroba della


storia: fin dalle origini, ha invidiato la sua pompa all’ordine
feudale. Le masse volentieri s’inchinano ai roboni guarniti d’oro
e d’argento e bordati d’ermellino. Napoleone primo, benché fosse
un gran plebeo, si gettò sulle spalle il manto imperiale: la corona,
di cui il suo avvocato corso s’era cinta la testa, spalancò alla bor­
ghesia gli usci più nobili. Un re, un imperatore, più non bastano
ad appagare il Terzo Reich, che deve ogni giorno solennemente
sfoggiare un nuovo adornamento cavato dal tesoro del passato te­
desco. Il maggior plebeo del X IX secolo — Napoleone — sul trono
imperiale: cosi ebbe inizio il primo atto del dramma borghese
europeo. L a più sfrenata figura d’Averno del XX secolo, Adolfo
Hitler, nei panni di un Salvatore, nel quale dopo un millenio di »
storia tedesca, il tempo si compiva: tale il personaggio che domina
l’ultimo atto dello stesso dramma. L a boccaccia dello sconsiderato
tribuno sa produrre il più enfatico pathos storico: è questa l’ultima
pifferata acchiappa-ratti della borghesia, che non abbia perduto
del tutto il suo potere di seduzione sulle masse.
Le masse non avevano un attimo di respiro, dovevano restare
in una perpetua condizione di euforia; il problema di psicologia
delle masse, è come riuscire a evitare che ridiventino sobrie. A
intervalli ben calcolati, la nazione intera viene trascinata in feste
universali: bandiere, parate, atti solenni sono il diletto per l’occhio,
gli oratóri il diletto per gli orecchi. Nei luoghi pubblici son piaz­
zati altoparlanti, di modo che nessuno possa sfuggire al rumore e
al tumulto. Il Primo Maggio, “ festività nazionale, ” menava tutti
a far festa sui prati : “ e cosi, ” disse Hitler, “ in questo giorno ci
siamo radunati non solo a festeggiare il lavoratore tedesco, ma
anche, in pari tempo, un nuovo uomo tedesco. ” L a Germania è
una nazione povera, commentò Goebbels, “ ma, benché il regime
nazionale sotto il cancellierato di Hitler non si sogni neppure di
maneggiare i quattrini del contribuente con la leggerezza con cui
ciò veniva fatto sotto il dominio dei partiti socialdemocratici, tut­
tavia il regime non ha rinunziato a coronare la giornata del lavoro
nazionale, il T Maggio, con uno spettacolo colossale di fuochi d’ar­
tificio sul Tempelhofer Feld di cui mai si è visto prima l’uguale.
Anche questi fuochi d’artificio devono contribuire ad affratellare,

294
“ F E S T E VEDO E C E L E B R A Z IO N I. . . ”

in un’ora di festa e di gioia, i lavoratori del braccio e i lavoratori


della mente secondo la volontà del regime nazionale e del cancel­
liere del Reich Hitler, ad annullare le vecchie contraddizioni di
classe, a fondere gli individui in una comunità nazionale unitaria,
che più nulla riesca a distruggere. ” L a giornata del partito è in­
vece la grande feria d’autunno, che per otto giorni di seguito
scaccia il tedio alla nazione. In ottobre si celebra la festa della
trebbiatura: contadini e contadine sono invitati a Biickeburg alla
“ giornata dell’agricoltore tedesco. ” Tale giornata, spiega il regime,
“ riposa sul fondamentale riconoscimento dell’importanza' degli
agricoltori tedeschi, e deve por fine a un’epoca in cui il contadino
era condannato, sulla scorta di una concezione statale liberalistica,
a sostenere una parte subordinata nell’ambito dello stato. Il T ot­
tobre il popolo intero deve fare ossequio al contadino che rappre­
senta la fonte di sussistenza della nazione tedesca e le garantisce
sicure basi alimentari. ” Prati e campagne al pari della città devono
esser presi nel pazzo vortice del grande attivismo universale.
Fra una festa e l’altra, a fornire l’incessante stimolo dei nervi
son “ le pietre miliari della ricostruzione nazionalsocialista. ” L ’i­
naugurazione del soccorso invernale è “ solenne atto pubblico. ”
Una domenica son le SA e le SS a importunare i passanti chiedendo
l’elemosina agli angoli delle strade, la prossima i militari, la terza
attori di teatro e di cinema, la quarta perfino ministri e alti fun­
zionari dello stato, del comune e del partito: avvenimenti sensa­
zionali, che distraggono e divertono. Ogni inaugurazione di auto­
strade ha un significato edificante. “ E cosi,” proclama Hitler a
Francoforte sul Meno, “ in quest’ora nulla di più bello riesco a
pensare se non che essa non è solo l’ora dell’inizio della costruzione
della più grande rete stradale del mondo, ma è in pari tempo una
pietra miliare nell’edificazione della comunità popolare germa­
nica. ” L ’inaugurazione di mostre, l’apertura di congressi, sono
occasioni per spiegare sfarzo e pompa; viaggi ferroviari a buon
mercato portano a branchi da ogni parte le moltitudini stupite.

295
L A T IR A N N ID E

Feste seh’ ich und Feiern, ich hore Marsche, Gesange, Bunt ist von Fahnen
die Stadt, immengleich summet der Schwarm.3

Perfino dalla morte si riesce a trarre abbondante profitto; non


v’è nullità nazista — fosse pure solo un ambiguo bullette, che il
rivale geloso ha freddato all’osteria — che non riesca a trascinare
le masse, qualora alle sue spoglie si decretino funerali a spese dello
stato.
È il Fiihrer del Fronte del lavoro, il dottor Ley, che finalmente
conia il motto che s’attaglia a questa fantastica frenesia di festoso
eccitamento: Freut Euch des LebensV II Terzo Reich inaugura
l’età dell’oro e dichiara nemico dello stato chi non trovi il mondo
più bello di quanto mai fosse.
È Ley in persona che organizza la gioia di vivere e l’esultanza.
Nel novembre 1933, egli fonda la grande opera dopolavoristica Kraft
durch Freude . 4 “ Poiché la giornata lavorativa, ” ebbe a dire, “ ri­
chiede da parte dell’uomo prestazioni d’alto livello quantitativo e
qualitativo, bisogna offrire nel periodo di riposo il meglio che
c’è, a nutrimento dell’animo, dello spirito e del corpo. ” L ’orga­
nizzazione dopolavoristica incolla il funzionario nazionalsocialista
ai calcagni del lavoratore perfino nelle ore di svago; a essa di
scacciare la noia, perché da questa “ sgorgano pensieri e idee stu­
pidi, molesti, in ultima analisi crim inali.” I divertimenti, la ri­
creazione, gli hobby del lavoratore vengono uniformati al canone
nazionalsocialista; a centro della sua vita associata assurge la “ Casa
del lavoro. ” Anche quand’è in ferie, egli non deve rientrare in
sé: i suoi viaggi e le sue gite vengono avviati su binari legittimati
dal partito. “ Gite di fine settimana e viaggi devono rendere possi­
bile al popolo di spostarsi con modica spesa dal nord al sud, dal­
l’est all’ovest, e dappertutto devono essere creati appositi servizi
che accolgano le comitive e illustrino loro le bellezze locali.” Si
costruiscono campi dove “ i tedeschi trascorrono in disciplina e
spirito cameratesco il periodo di ferie. ” Infine il lavoratore dovrà

s Feste vedo e celebrazioni, marce, canzoni odo. Variopinta di bandiere c la


città, come d’api ronza lo sciame. F r ie d r ic h G eorg J u n g e r , Poesie (Der Mohn ,
[Il papavero]), Widerstandsverlag, Berlino, 1934.
3 Lett., Gioite della vita! [ N .d .T .]
1 Lett., Forza mediante gioia. [ N .d .T .]

296
“ F E S T E V ED O E C E L E B R A Z IO N I. . . ”

avere i suoi piccoli passatempi anche nell’ambito dell’azienda: l’of­


ficina viene “ abbellita, ” la radio penetra nella sala macchine, in
modo che nelle grandi occasioni l’operaio oda il suo Fuhrer; nelle
pause di lavoro, ascolti ballabili. La “ bellezza del lavoro ” lo risar­
cisce, insomma, della pochezza del salario.
L a Kraft durch Freude esprime “ quell’affermazione di vita
che ci pulsa dentro e che prende il posto di quella negazione della
vita, che per un secolo ha posseduto il mondo e il nostro popolo. ”
Essa è il “ magnifico esempio del nostro lavoro sociale. ” N el 1936,
sei milioni di lavoratori partecipano ai viaggi, un. milione alle gite,,
cinque milioni alle manifestazioni sportive della NS-Gemeinschaft
Kraft durch Freude. Questa organizza viaggi per Madera e la
Norvegia, costruisce navi passeggeri, per permettere ai proletari
in ferie di vedere “ paesi lontani” ; cinque stabilimenti balneari
marini con 20.000 posti l’uno, trenta navi, ognuna capace di ospitare
almeno 1.500 viaggiatori, nuovi convalescenziari per complessivi
85.000 letti : tale il programma del suo “ piano triennale, ” annun­
ciato dalla Kraft durch Freude ; le vengono messi a disposizione
dal Fronte del lavoro, 100 milioni di marchi.
A torme i turisti della Kraft durch Freude invasero i luoghi
di cura; viaggiavano a buon mercato e a buon mercato erano as­
sistiti. A mandrie li si menò a contemplare bellezze naturali e
monumenti: s’avviarono ai piaceri della vita come gli altri giorni
al lavoro.
L a Kraft durch Freude deforma il mondo del riposo, dell’ozio
proletario, in un Luna Park, dove l’operaio perde il ricordo del
campo di battaglia sociale. Nelle casse sindacali, un tempo egli
accumulava il tesoro per la sua guerra sociale; d’ora in poi, egli
finanzierà, coi suoi contributi, spettacoli di fiera e uno sbracato
turismo di massa. L ’operaio animato da coscienza di classe ha una
vocazione, un’esistenza pregna di significati; ha un orgoglio, un
onore; la sua vita ha un contenuto. In uno con la coscienza di
classe, l’operaio perde la sua umana dignità: diviene plebe. E la
plebe non ha per la testa che panem et circenses. L a Kraft durch
Freude dà impulso ai giuochi, come nell’antica Roma facevano
ambiziosi politicanti bramosi del favore delle masse. Cosi come,
in politica estera, il nazionalsocialismo pretende di colonizzare e

297
L A T IR A N N ID E

ridurre in schiavitù il popolo russo, la Krajt durch Freude vuole


render plebe il proletariato cosciente. Essa stende nel mezzo del
penitenziario nazionalsocialista un verde praticello: lo sguardo ne
viene attratto, e non noterà più i muri grigi e le inferriate. Buffo-
nate, fronzoli, romorio di masse, l’incanto dei viaggi, con cui la
Krajt durch Freude satura le ore libere del lavoratore devono in­
durlo ad appagarsi di essere, sul lavoro, la creatura senza diritti
del capitalismo. L a Krajt durch Freude è dunque per lui il surro­
gato della democrazia : poiché gli si permette, a prezzi modicissimi,
di mettere il naso in tutti i posti del mondo; dal momento che a
sud e a nord, a est e ad ovest, gli è concesso dormire in letti in cui
finora si stendeva solo gente ricca; poiché c’è sempre in moto qual­
cosa per divertirlo, egli dovrebbe sentirsi uomo libero; poiché gli
si fa passare il tempo, quando non abbia nulla da fare, ecco che
può andare a testa alta, supporsi investito di parità di diritti. In
realtà, non già uomini liberi, bensì servi ubriachi, sorvegliati anche
mentre si divertono, si danno in pubblico alla festosa gazzarra. La
tirannide, si dice nella Politica di Aristotele, provvede a che “ i
cittadini, quando siano in patria, si mostrino sempre in pubblico
e si trattengano davanti ai loro usci, poiché così resta celato punto
o poco di ciò che fanno e, quali permanenti schiavi, essi a umili
sentimenti vengono accostumati. ”
Con le Olimpiadi del 1936, le feste, le celebrazioni, le manife­
stazioni tedesche acquistarono orizzonti mondiali; per mesi l’orga­
nizzazione delle competizioni sportive è al centro dell’intera atti­
vità statale tedesca. Per il popolo, la burocrazia, i supremi poteri
dello stato, diviene affare d’importanza predominante chi conquisti
il primato nella corsa, nel salto, nel nuoto. La Germania è diventata
l’arena del globo terracqueo, da ogni parte vi affluiscono folle spor­
tive e campioni. Il Terzo Reich non manca di mettere innanzi
agli occhi dei sudditi l’importanza che l’estero attribuisce al parco
dei divertimenti tedesco: e la consapevolezza di ciò deve sollevare
il tedesco “ benpensante ” dalla più dura miseria. I circenses nazio­
nalsocialisti vogliono essere intesi quale elemento della politica
mondiale tedesca; trombe e tamburi tedeschi son più utili che non
le note diplomatiche. Quelli che per gli uomini di stato stranieri
son rompicapi, Hitler li risolve “ giocando. ”

298
I
F E S T E V ED O E C E L E B R A Z IO N I. . .

M a anche qui fa capolino il carattere bifronte di tutte le cose


tedesche. I trastulli civili inopinatamente appaiono quale premessa
e addestramento al bagno di sangue. L a plebe è su falsa strada, se
si illude che tutto quel daffare sia a suo esclusivo sollazzo: non scor­
ge quanto di terribilmente serio si prepara sotto il velo della festevo­
lezza. Con le adunate oceaniche si addestrano le folle a muoversi
secondo gli ordini; palestre e stadi tedeschi sono i terreni sui quali
s’esercita la psicologia di massa. In caso di guerra, le masse si
muoveranno in risposta ai segnali convenuti, come si sono allenate
a fare in tempo di pace; le parate servono a non far perdere loro
l’abitudine alle marce; se ciecamente obbediscono anche nei diver­
timenti, un qualunque sottufficiale ne verrà a capo. Le ferrovie av­
viano migliaia di persone alle grandi manifestazioni nazionali,
cosi accumulando esperienze in vista della mobilitazione generale
quando si hanno da trasferire, nel giro di pochi giorni o di poche
ore, masse sconfinate da questa a quella località. Le masse, accam­
pate in tende e sfamate dalle cucine da campo, si conformano alla
vita del campo; gli ufficiali di stato maggiore dall’oggi al domani
provvedono acquartieramenti per centinaia di migliaia di persone,
le vettovagliano con incredibile rapidità, acquistando il colpo d’oc­
chio e la decisione necessari a manovrare milioni d’uomini. Stabi­
limenti balneari e convalescenziari son futuri ospedali da campo,
le navi da diporto futuri trasporti truppa. Tutt’in una volta, ecco
il villaggio olimpico offrire ricetto alla Scuola superiore di guerra,
nell’organizzare l’olimpiade la Wehrmacht ha sperimentato la pro­
pria abilità organizzativa: i giochi non sono che mascherati ca­
roselli.
Non contraddice cosi all’unitarietà dello stile, se la Wehrmacht
stessa si presenta nell’arena, a eseguire il proprio numero al cospetto
del pubblico curioso: dal momento che le festività nazionali non
son che manovre militari travestite, è legittimo che l’esercito vi si
immischi coi suoi reparti blindati e le squadriglie aeree. Che le
masse siano richiamate, lavorino o faccian festa, son sempre in
servizio militare: i confini fra l’andare in civile e l’uniforme sono
cancellati. Anche recandosi a Madera, le masse restan sempre sotto
la disciplina del sergente; nelle “ giornate della Wehrmacht, ”

299
L A T IR A N N ID E

viene per un istante alla ribalta il vero regista, che per incarico dei
suoi sovvenzionatori borghesi tiene in pugno tutte le fila.
Le quinte davanti alle quali sfila l’individuo annegato nella
massa, son le costruzioni monumentali e rappresentative. Si disten­
dono qui immani edifici, si aprono pomposi saloni, anfiteatri e
colossei, là giganteschi aerodromi, spropositati simboli di potenza
militare. L ’occhio è attratto dallo smisurato, diviene sensazione
generale quella di vivere nello straordinario. S’ammassano pietra
e cemento cosi come a masse si congregano uomini; e l’individuo
che prima faceva mostra di sé in un salotto, ora nella “ Kon-
gresshalle” capace di decine di migliaia, si sente schiacciare: qui
più non si conversa, non si tengono dibattiti, non si discute, qui
solo si urla la propria approvazione, si cantano gli inni nazionali,
si tributano onori, si assimilano le parole d’ordine, qui l’individuo
viene cosi radicalmente cancellato da esser poi pronto, quando lo
si richiamerà alle armi, a fare sconsideratamente getto della vita
per qualsiasi insania o delirio. Nelle costruzioni monumentali, lo
spirito delle masse ebbre celebra la sua vittoria sullo spirito del­
l’individuo sobrio, avveduto, capace di critica, dotato d’un conio
personale. L ’uomo si crea una cornice “ estetica ” in cui, se vuole
passare all’azione, possa farlo solo come massa. Cosi non seguirà
alcuna sua via propria, cosi non vagheggerà alcuna idea partico­
lare. A ogni tirannide s’appartengono gigantismi costruttivi, a
simboleggiare che l’individuo ha perso fin l’ultimo angolo intimo,
nel quale egli coltivava la sua privata esistenza. Aristotele accenna
alle piramidi d’Egitto, ai monumenti dei Cipselidi, alla costruzione
dell’Olympieion da parte dei Pisistrati, alle opere di Policrate a
Samo: ognuna di esse, egli dice, “ persegue lo stesso scopo: l’inin­
terrotta occupazione e l’impoverimento dei sudditi. ”

300
I
r
Capitolo ventiquattresimo

ho spirito della menzogna

Conquistata la vittoria, il Terzo Reich istituì ben presto un


nuovo ministero, quello della propaganda; il ministro “ nato” per
tale ufficio era il dottor Josef Goebbels. Costui era cresciuto alla
scuola dei gesuiti, dove s’era fatto un concetto della “ propaga­
zione della fede. ” Il ministero della propaganda del Reich era la
versione secolare della Congregano de propaganda Fide fondata
nel 1621, pontefice Gregorio XV.
Se già i gesuiti erano famigerati maestri di menzogna, il na­
zionalsocialismo semplicemente non ha, quale gesuitismo secola­
rizzato, rapporto alcuno con la verità. Per la gesuitica propaga­
zione della fede, spesso il fine santificava il mezzo, ma essa era pur
sempre assoggettata al controllo di salde tradizioni e d’un sicuro
senso morale. La mancanza di scrupoli della propaganda nazional­
socialista può non aver limiti, perché le tradizioni non hanno più
peso alcuno e di conseguenza lo sbandamento morale ha preso
ovunque piede. Nella causa al cui servizio sta la propaganda na­
zionalsocialista non c’è alcuna forza d’attrazione, anzi la propa­
ganda deve addirittura rinnegare pudicamente tale causa: se la sua
correlazione con la causa dovesse venire alla luce essa andrebbe a
vuoto. Il suo successo consiste nel far sì che il piccolo borghese resti
vittima d’una traviante interpretazione delle cose, il proletario del
miraggio di false realtà. I suoi sforzi e i suoi preparativi dovranno
essere ancor più febbrili, dal momento che deve rendere in tutto
e per tutto impossibile alle masse, che essa fanatizza, di penetrare
la verità; entusiasma le masse, per poi tradirle: a conti fatti, è
mera tecnica dell’inganno delle masse. Quanto più perfetto è il
maneggio di tale tecnica, tanto maggiore è il vilipendio delle masse
che si lasciano menar per il naso, e ogni campagna propagan­
distica che raggiunga il segno, aumenta il dispregio per le masse.

30 1
LA TIRANNIDI

Hitler e Goebbels sono profondamente convìnti che la propaganda


basti da sola ad avvincere le masse e sia in grado di condurre alla
vittoria la più infame delle cause: la propaganda, a patto che sia
abile, rende tutto buono ciò per cui s’impegna; la propaganda è
onnipotente, e quel che importa non è la qualità di una causa, ma
esclusivamente la qualità della propaganda.
Cosi la propaganda politica è svuotata e ridotta a una forma
di pubblicità; e il propagandista si identifica col pubblicitario, al
quale spetti di trovar l’acquirente, per qualsiasi robaccia. Ciò che
egli dice della merce, non ha più nulla a che fare con le reali qua­
lità della stessa; ogni sua parola è intesa solo a indurre all’acquisto:
ogni inganno è lecito, purché raggiunga tale meta.
L a propaganda della restaurazione borghese si pone come com­
pito quello di diffondere una falsa coscienza. Razza, popolo, comu­
nità nazionale: ecco la moneta fasulla che essa mette in circola­
zione. Essa vuole, costi quel che costi, introdurre la falsa coscienza
proprio laddove quella giusta sia già penetrata.
La propaganda nazionalsocialista avverte il vacillare delle pro­
prie fondamenta e deve temere ogni analisi dei dati reali, ogni pe­
netrazione critica dei suoi concetti e delle sue idee, perfino la più
semplice discussione. Basterebbe la più sobria constatazione di fatto
per frantumarne le chimere, fugarne l’incantesimo. Perciò essa
non permette obbiettività, critica, discussione alcuna, non tollera
che adunate e sfilate. Ogni schiarimento è per essa una sorta di
acido, cui non potrebbe un solo istante resistere, dal quale la sua
pompa ideologica sarebbe senz’altro corrosa; basta un’occhiata
curiosa a metterla in allarme. Essa afferra l’uomo solo se la sobrietà
cede all’ebbrezza, la chiarezza alla nebulosità, l’aria pura ai foschi
vapori. Non può tollerare alcuno spirito acuto, non può permet­
tersi un contraddittorio con lui; e, se quello non si dà per vinto, se
non si umilia, essa ne farà rendere inoffensivo con una palla il
pericoloso cervello. Tagliato per tale genere di propaganda è solo
colui che, quale un temerario pirata, dinanzi a nessun fatto am­
maini le vele, che non capitoli di fronte ad alcun superiore inten­
dimento, che con fredda imperturbabilità sappia replicare all’evi­
denza più clamorosa.
Se la chiesa medievale aveva mantenuto ottuso lo spirito umano,

302
J
LO S P IR IT O D E L L A MENZOGNA

toccava ora nuovamente alla propaganda nazionalsocialista di ot­


tunderlo; le teste, che finora venivano illuminate, essa doveva
annebbiarle e riempirle di impenetrabile fumo. La propaganda
martellava nei crani quelle superstiziose credenze per far si che le
masse piccoloborghesi e proletarie fossero penetrate, al cospetto
dell’ordine dominante capitalistico, dallo stesso timoroso rispetto
che l ’uomo dell’età di mezzo, dominato dalle sue idee religiose,
provava di fronte all’ordine feudale. Con intolleranza davvero
medievale, fu impedito l’esercizio della critica: il critico si vide
d’un tratto pubblicamente tacciare di corruttore, sabotatore, scoc­
ciatore, piagnone.
I maggiori propagandisti prodotti dal nazionalsocialismo, sono
Hitler e Goebbels. Ambedue sono persuasi dell’onnipotenza della
propaganda: la propaganda rende tutto possibile, avrebbe potuto
perfino far vincere la guerra mondiale. Essa può, nell’opinione di
Hitler, apparire in un primo tempo “ pazzesca nell’impudenza
delle sue affermazioni, ” in un secondo tempo ancora risultare spia­
cevole, ma finirà sempre per trovare credito. Ciononostante Hitler
e Goebbels divergono indubbiamente su un punto di fondamen­
tale importanza.
Hitler si è fin dal principio venduto, alla grande borghesia im­
perialistica, ne ha fatto propria la causa. Il lettore avvertito del
Mein Kam pf sapeva che mai era stato un socialista, e sempre un
tamburino al soldo della borghesia: aveva giurato sul vitello d’oro
del capitalismo monopolistico. Mai aveva voluto perdere il con­
tatto con borghesia e Wehrmacht; aveva occupato una salda posi­
zione sociale, alla quale s’aggrappava irremovibilmente. Nella
chiarezza di tale atteggiamento v’era, nonostante ogni isterismo
propagandistico, qualcosa di solido, che accattivava la fiducia. Ben­
ché Hitler avesse solo adottato la causa del monopolismo, le era
fedele come a un “ proprio fig lio ” ; vedeva, nelle essenziali que­
stioni della grande borghesia, più a fondo di quanto non facesse
questa. G li interessi del capitalismo monopolistico e la passionalità
propagandistica di Hitler avevano concluso un’indissolubile al­
leanza. Hitler era partito quale agente della Wehrmacht; agente
della grande borghesia restò tanto alla Casa Bruna quanto alla
Cancelleria del Reich. Fanaticamente convertiva a una falsa fede,

303
L A T IR A N N ID E

ma pur agendo in ciò da profeta d’inganni, serbava tuttavia una


lieve vernice missionaria.
Goebbels non era legato a una causa alla stessa maniera. In un
certo senso egli si era offerto sul mercato, per ricavare il miglior
prezzo possibile dal suo talento propagandistico. Per qualche
tempo s’era venduto alla Deutsch-vblkische Vreiheitspartei [Partito
tedesco-popolare della libertà], e anche dopo aver optato per Hitler,
nei momenti critici tornò ogni volta a ponderare se stesse o meno
dalla parte giusta. Era stato scoperto da Gregor Strasser, e all’ini­
zio tenne dalla sua. A Otto Strasser fece credere che avrebbe “ ab­
bandonato il partito assieme ai socialisti; ” poi, d’un tratto, eccolo
mutar consiglio, una volta resosi conto come qualsiasi ribellione al
partito non offrisse prospettive di sorta: piantò in asso il vecchio
protettore, stette alla larga dall’opposizione strasseriana. Ancora
nel suo scritto Fora Kaiserhof zur Reichsbanzlei [Dalla corte im­
periale alla cancelleria] è intento a piaggiare il capo di stato mag­
giore della SA, Rohm. Fino al giugno '34 è incerto: con Rohm o
prender parte al massacro, al seguito di Hitler, ed è egli stesso
a stilare quel velenoso comunicato, che, come un romanzo d’ap­
pendice, fa apparire al popolo attonito, le “ immagini di miseria
morale, ” i “ ragazzi di v ita ,” la “ nauseante situazione, ” dalla
quale Rohm coi suoi accoliti sarebbe stato “ stanato e tratto in ar­
resto, ” e che dà notizia della “ spietata estirpazione di questo bub­
bone. ” Goebbels che, al congresso del partito del 1936 a Norim­
berga, passò ogni misura nell’infangare il bolscevismo, nel numero
del Vòlbischer Beobachter del 14 novembre 1925 si era espresso
addirittura come un “ nazionalbolscevico ” : la Russia, aveva scrit­
to, è oggi più russa che mai; ciò che si usa definire internazionali­
smo bolscevico non è che panslavismo “ nella forma più chiara ed
evidente ” ; egli non pensa affatto di unirsi “ al coro dei borghesi
ignoranti e bugiardi, ” per cantare che la Russia bolscevica è pros­
sima al crollo; a suo avviso, il sistema russo dei Sovieti si sostiene
perché nazionale; nessuno zar ha mai afferrato il popolo russo nei
suoi istinti nazionali al pari di Lenin: Lenin ha dato la libertà e
la terra al contadino, la libertà alla Russia; anche l’ebreo russo
furbescamente e tempestivamente sotto “ 1’incalzare della necessi

304
!W

r
tO S P IR IT O & E LL A M E N Z O G N A

t à ” si è schierato con “ lo stato nazionale russo” ; sicché l’ebreo


russo rompe le uova nel paniere all’ebreo capitalista dell’occiden-
te, donde l’implacabile odio occidentale per la Russia dei Sovieti;
il problema ebraico anche in regime sovietico appare piu comples­
so di quanto non si creda: “ probabilmente non risponde al vero
che l’ebreo capitalista e l’ebreo bolscevico siano tutt’uno. ”
L o scritto aveva fatto effetto sulla gioventù comunista, e del
resto in quegli anni anche sul periodico della casa editrice Stras-
ser, a volte Goebbels aveva fatto sfoggio di un radicalismo rivo­
luzionario da lasciar senza fiato ogni comunista. Era come se
Goebbels volesse tenersi aperta una strada verso il partito comuni­
sta, per il caso che questo la spuntasse nella competizione politica.
Cosi Goebbels faceva brillare il suo talento propagandistico,
senz’ancora essersi dato anima e corpo alla grande borghesia impe­
rialista. Hitler aveva prescelto una causa e, propagandola, le restava
fedele; Goebbels non contraeva indissolubili impegni con lo scopo
per cui inscenava la campagna propagandistica: al contrario tanto
più splendido era il suo brillio di artista della réclame, quanto più
egli stesso fosse convinto di dover conferire un irresistibile potere
attrattivo a della robaccia. Cosi egli era l’imbattibile, quel diavolo
d’un uomo che sapeva rimestare cosi bene ogni brodaglia, da farla
sembrare al punto al palato di tutto il popolo.
Goebbels era un virtuoso, un maestro della propaganda: per
lui essa era Vari pour l’art. In questo senso, il propagandista è
l’assoluto mentitore. Su nessuna delle sue parole c’è da fare asse­
gnamento, chi se ne fida vi resta impaniato: Niente è detto o pen­
sato sul serio, ogni frase è un amo, ogni argomento un’insidia per
la giacchiata, in grande o in piccolo, di uomini; le idee motrici
dell’umanità, i grandi concetti, i valori morali, gli elevati senti­
menti sono ai suoi occhi nient’altro che oggetti decorativi per gli
spettacoli propagandistici. Il suo mondo è simile a quello di cui
Taine ebbe a scrivere : “ I marioli parlano di morale, le etère di
virtù civica, i soggetti più spregevoli di dignità del genere umano. ”
Quei sacri principi un tempo erano vissuti in saldo, legittimo, ni­
tido rapporto con l’ordine costituito; erano, ci sia lecita l’immagi­
ne, “ regolarmente coniugati ” con la vigente forma di sovranità.
Ma ciò è ormai finito da secoli: quei principi, nel corso del tempo,

305
La tiran n id e

mutaron spesso di letto, e il “ sospetto ideologico ” fu il benservito


che se ne ebbero in cambio, e che ne rese evidente il logorio “ mo­
rale. ” Nei confronti delle grandi idee, Goebbels lasciò cadere ogni
riguardo, le trattò quasi fossero cocottes disposte, per pochi soldi,
a qualunque libidine, e ne venne anche benissimo a capo. Gli
uomini sono, per Goebbels, unicamente degli imbecilli da tirare
con splendide parole sul ghiaccio, e lo spirito della cosa consiste
nel farne andare a gambe albana quanti più si riesca.
Dal canto suo, la storia s’è già permessa il bello scherzo di bol­
lare Goebbels quale mentitore patentato: nel 1930 aveva calun­
niato Hindenburg ed era stato tratto davanti alla corte. In tribunale
affermò di esser stato, durante l’occupazione della Renania, get­
tato in carcere e frustato a sangue dai belgi, e ciò perché preten­
deva all’onore di martire nazista. Non una parola era vera: Goeb­
bels aveva inventato il racconto di sana pianta ed ebbe la disdetta
d’esser, seduta stante, colto in fallo.
Nei suoi libri, non c’è un solo moto spontaneo dell’animo, una
sola osservazione originale. L a sua è un’intelligenza agile e affi­
lata, ma che resta alla superficie, che non ha adito alla profondità.
Egli non ha in sé nulla di proprio, e quindi nulla di proprio da
dire. Sulle severe cose dello spirito avanza i giudizi d’un liceale:
“ il gigante W agner,” scrive nel suo diario in data 1 agosto 1932,
“ vola cosi alto sopra tutti i moderni impotenti, che un confronto
con costoro suonerebbe già offesa al suo genio ” ; i suoi son pen­
sieri dozzinali, sentimenti canonici; ciò che lo distingue è solo
l’abilità a esporli bellamente in vetrina. A volte lo si è sopravva­
lutato, o addirittura ritenuto considerevole. Giusta il suo contenu­
to umano e spirituale, egli è altrettanto nullo delle masse piccolo­
borghesi che pendono dalle sue labbra. Chi abbia mai discusso con
lui ha compreso perché egli, sull’esempio di Hitler, sia cosi radi­
calmente nemico della discussione. Non è già il peso di punti ili
vista e giudizi personali a dargli la spinta, bensì solo gli scate­
nati istinti delle masse che in lui confluiscono. Goebbels obbli­
gato a basarsi unicamente su se stesso? Ma già sarebbe esaurito,
e quell’affilatezza mentale che ha preso dai gesuiti e da Gundolf,
il suo maestro ebreo, sarebbe smussata. L a sua intelligenza è un
meccanismo che converte in abili formulazioni le più torbide

30é
i J
LO S P IR IT O D E L L A M E N Z O G N A

passioni e istinti delle masse: se gli venisse a mancare l’afflusso


dei sentimenti delle masse, girerebbe a vuoto; in Goebbels in sé
non vi è nulla che possa fornirgli nutrimento. A volte, egli si
scopre con una ingenuità che sarebbe cinismo, se egli avesse suf­
ficiente distacco da se stesso da potere umoristicamente penetrare
il proprio ridicolo. “ Me ne sto tra i deputati dei partiti di centro
e dò libero sfogo alla mia facondia, ” annota, presuntuoso, il 12
maggio 1932.
Il suo romanzo Michael è l’esauriente confessione di un’anima
dalle brucianti vanità, la quale però, per quanto pretenziosamen­
te si agiti, non può che produrre quella banalità di sentimenti
che le giace al fondo. L a sua “ narrazione storica su fogli di dia­
rio, 1 ” non è affatto ciò che pretende, bensì un romanzo d’intrighi
politici redatto, ad avvenimenti superati, in forma di diario. E
fornisce una chiave per capire la figura dell’autore, non già i fatti
narrati. Un libro nel quale non s’avverte afflato umano, ogni
annotazione è calcolata a produrre un effetto; non v’è passo in
cui ci s’imbatta nell’impressione di prima mano: ovunque scorgi
il belletto e l’acconciatura. Con ridondante, invero insopporta­
bile copiosità s’ammonticchiano i bizantinismi relativi a Hitler,
costruiti tutti, va da sé, secondo un’unica ricetta: come sempre
il Fiihrer è intelligente, duna logica cristallina, granitico, deciso,
grande, affascinante, di una tenacia che mai non piega, intrepido,
dai nervi d’acciaio, traboccante di sempre nuovi pensieri, idee,
iniziative. Hitler esce dalla stanza dove si trovava? I rimasti si
chiudono in riverente silenzio. “ Si, egli è e sempre sarà il nostro
Fiihrer, ” scrive Goebbels col tono d’una adolescente. Ma non è
l’unica effusione nello “ stile da album ” : “ Chi ha la fortuna di
trovarsi spesso col Fiihrer, lo ama ogni giorno di più; ciò non
solo perché in tutti i problemi il Fiihrer decide giustamente, ma
anche perché egli personalmente è di una cosi ineffabile bontà
c di un cosi cordiale cameratismo, da accattivarsi chiunque gli
si accosti. ” Goebbels si ripromette qualcosa dalla sua elaborazione
della leggenda hitleriana, dall’essere l’Omero di Hitler. Le im­
prese degli eroi nazionalsocialisti sono viaggi collettivi, gite col­

1 J o s i a 1G o e b b e l s, Vom Kaiserhof zur Retchs\anzlei.

307
LA TIRANNIDE

lettive, discorsi alle adunate; gli eroi in camicia bruna preten­


dono all’immortalità solo perché hanno urlato tanto da affiochir­
si; tra l’una e l’altra impresa, imprendono una bastonatura: da­
vanti alla stazione di Lehrt, un deputato socialdemocratico riceve
“ seduta stante due ceffoni bene appioppati che gli fan passare
i bollori” ; oppure fanno correre il sangue: “ Il giorno dopo, a
Kònigsberg, scoppiano le bombe, sparano le pistole. Due capi del
partito comunista locale vengono abbattuti per la strada: è questo
l’unico mezzo per ridurre alla ragione i rossi: gli altri non gli
fanno né caldo né freddo. N el futuro prossimo e remoto, assiste­
remo a ben altri casi del genere. ” Segrete negoziazioni politiche
con misteriosi intermediari, sono più accennate che rivelate; sono
invece intrapresi, ché vogliono essere esattamente registrati e de­
bitamente valorizzati, la stesura d’un manifesto elettorale o d’un
articolo di giornale. Le ombre di oscuri sovvenzionatori sfiorano
per qualche istante la scena e i rapporti con la reazione vengono
in parte palesati, in parte occultati. L ’intero mondo sfidano, que­
sti assetati di potere; solo un avversario temono: il conoscitore,
l’esperto, e gli stanno alla larga, quegli li rende inquieti. “ So­
prattutto con gli esperti è una faccenda delicata. Passa sempre
per esperto chi una cosa la conosca a mente come l’avemaria. ”
Lo sgomento di fronte all’esperto il Terzo Reich non è mai riu­
scito a superarlo: la sua competenza è sentita dal Terzo Reich
come la perfida, antistatale intenzione di gettare proditoriamen­
te e sornionamente il ridicolo su di esso.
Il colossale spettacolo propagandistico era, poiché la Germania
ne rimbombava tutta, “ un evento storico mondiale, ” e un gran­
d’uomo Goebbels che ne caricava il meccanismo. Egli non manca
occasione di sottolineare quant’egli stesso si senta grande: sem­
pre nuove montagne di lavoro trova sulla propria scrivania, egli
è sempre sotto pressione. “ Poter solo respirare sole, luce, aria,
riposo, ” e “ dormire, dormire, dormire, ” rimane la sua mai sa­
ziata nostalgia. Egli è il circospetto generale della propaganda;
è solo un caso se il suo profilo ricorda alla lontana quello del
grande Re di Prussia? “ A mezzanotte è tutto finito. Finito il
rumore, il tumulto. Leggo le lettere di Federico il Grande. ” Lo
slogan è bell’e coniato: Goebbels combatte come faceva Federico

308
LO S P IR IT O D E L L A M E N Z O G N A

Secondo nella Guerra dei Sette Anni. Il 1 6 settembre 1932, an­


nota: “ Federico il Grande ha fatto guerra per sette anni. Presso
Kunersdorf perdette quasi tutto l’esercito prussiano, tutti gli amici
lo abbandonarono, e dovette far conto solo su se stesso. Se allora
avesse perso la testa e sottoscritto una pace vile, allora la Prussia
non sarebbe mai assurta a potenza mondiale. ” Il carattere e il
coraggio federiciani si sono reincarnati negli eroi della propa­
ganda nazionalsocialista.
Oscuri avvenimenti d’ogni specie compongono lo sfondo di
questi “ fogli di diario” ; personaggi importanti quali Briining,
Papen, Schleicher, Hindenburg, compaiono sulla strada di Goeb-
bels. È sorprendente quanto priva di plasticità sia la narrazione:
non si apprende mai cosa avvenga al di là dell’azione delle masse,
non v’è osservazione azzeccata che faccia luce sui personaggi:
questi restano schemi, Goebbels non riesce a farsene un’immagi­
ne. Già molto se vede la cute, il suo sguardo non penetra in pro­
fondità, al fondo delle cose o dei cuori che sia. G li manca la vista
per il caratteristico, l’individuale; quale capomassa, afferra solo
la turba, che è senza volto: nota solo i contorni maggiori, che si
perdono nell’informe.
Per ciò che si attiene al pensiero, si mostra altrettanto man­
chevole che per sensibilità e intuizione; il libro non contiene un
solo, illuminante giudizio sulla situazione politica: è altrettanto
sentenzioso che tendenzioso, ma le sentenze son vuoti luoghi
comuni, logore banalità. Mai che, al di là del suo “ campo ” spe­
cifico, la propaganda, Goebbels sappia dire una parola assennata
c originale: ripete Hitler, e quest’è tutto. Anche nei discorsi, nei
quali abbia tentato di stupefare con le sue idee propagandistiche,
non supera i limiti del capitolo sulla propaganda nel Mein Kampf
hitleriano. “ L ’essenza della propaganda, ” disse all’incirca ai gior­
nalisti berlinesi, il 16 marzo 1933, “ è la semplicità, che presuppone
il rifiuto di ogni arabesco e fioritura, nell’esporre al popolo le
idee nella loro primitiva chiarezza, ma anche il rendere tali idee
di pubblico dominio con tale energia e tale forza d’urto, che
alla fine anche l’ultimo uomo della strada sappia di cosa si tratta. ”
Se Hitler è il diabolico nulla, Goebbels è il nulla civilizzato, li­
mato, educato all’università; non appena s’arresta, subito lo so-

309
L A T IR A N N ID E

prafTà il sentimento della sua vuotaggine. “ Non mi resta allora


altro che tentare, col lavoro, di superare questo vuoto. ” Con se
stesso non riesce a starci. “ Se ora non esistesse il movimento e
non si avesse la speranza e la fede che esso perverrà alla vittoria,
la vita diverrebbe del tutto priva di significato.” Senza lo stre­
pito delle masse nazistificate, Goebbels non saprebbe dove dar di
capo. “ La nostra esistenza tutt’intera, ” confessa, “ non è che una
furibonda caccia al successo e alla potenza. ”
L a conseguenza è l’uniformità, l’aridità, la noia, la mancanza
di colore e di fascino, la povertà dei suoi fogli di diario. Solo
quando odia e anela alla vendetta — solo allora Goebbels diviene
plausibile: forse la sete di vendetta è l’unico suo sentimento na­
turale. H a un piede cavallino: stando alla legge sulla sterilizza­
zione, se questa fosse applicata senza riguardi personali, Goebbels
dovrebbe essere castrato. Egli non perdona al mondo e all’uma­
nità di dover trascinar un’esistenza da storpio ripugnante, e cal­
pesta le masse col suo piede equino, per far dimenticare a se stesso
tale menomazione. Lo sfida, quel suo piede cavallino, e la forsen­
natezza della sfida si rivela nella su a, struggente boria, nella sua
divorante ambizione. Sfoga sulle masse, come ebbe a dire una
volta Strasser, la “ vendetta dello storpio. ” Sfoga, nelle adunate
di massa, “ tutto l’odio e l’ira che ha in corpo” ; con i suoi urli
vuol mettere “ al muro il poliziotto marxista, ” aizza “ le masse
contro il sistema. ” Quando i giornalisti lo stuzzicano, una volta
gli verrebbe voglia di “ stender morto a revolverate un simile
verme, ” un’altra “ di mandare un reparto SA a snidare dalla
sua redazione quello scribacchino e bastonarlo pubblicamente. ”
Annota minacciosamente : “ La vendetta è una vivanda che va
servita fredda ” : e Goebbels è uomo da gustarsela, quando giunga
il momento.
Naturalmente, vuol farlo senza esporsi a rischi: egli — e con
aborti del genere la cosa va da sé — è vigliacco. Un giornalista
ha, “ nella maniera piu infame, ” toccato' l’onore della moglie
di Goebbels: “ Un SA gli si fa annunciare e lo frusta con lo seri•
discio finché quegli non cade a terra grondante sangue. ” Gocb
bels questo bravo se lo assolda: lui personalmente non è abba­
stanza cavaliere e uomo da aggiustare la partita con l’offensore

310
i
LO S P IR IT O D E L L A M E N Z O G N A

di sua moglie. Dove non possa farcela con la sua facondia, il suo
coraggio finisce. Se tanto volentieri parla di fruste e pistole, è
perché darebbe chissaché per essere uomo da usarle: se lui frusta,
lo fa con frasi cariche d’odio; se tira, son frecce avvelenate, in una
imboscata.
N el suo diario mostra come elimina le sue vittime. Sistemati­
camente demolisce il prestigio di Gregor Strasser: Strasser è
falso, sornione, è l’uomo di tutti i compromessi; dappertutto se
ne trovano le tracce, egli non fa che affliggere il magnanimo
Fiihrer. Le annotazioni su Strasser s’accumulano: qualunque cosa
si faccia con lui bisogna sempre stare sul chi vive. Strasser mina
e sabota : “ Bisogna solo badare che Strasser non faccia uno scarto
improvviso. ” Un po’ alla volta il ritratto di Strasser prende for­
ma: è il Giuda del partito; alla fine la sua abiezione diviene ma­
nifesta, e Goebbels grida, a gran voce : “ È quello che ho sempre
supposto! ” Il Fiihrer è profondamente ferito di tanta slealtà: per
ore ed ore, “ a grandi passi, ” misura su e giù la sua stanza d’alber­
go. “ Non riusciamo a raccapezzarci, di fronte a tanta infamia. ”
L a fine di Gregor Strasser è dunque propagandisticamente ap­
parecchiata. Goebbels presenta qui l’esempio, vero pezzo da colle­
zione, di come si sopprima un uomo con l’arma della finezza pro­
pagandistica. Il rovello contro Strasser, che i fogli di diario avevano
esasperato, si concretizza il 30 giugno 1934: le SS erano pronte a
“ liquidare il traditore smascherato. ” L a morte di Strasser ce l’ha
sulla coscienza il propagandista Goebbels.
La forza traviante della propaganda goebbelsiana è tanto più
stupefacente, dal momento che un’occhiata all’uomo basterebbe per
metterne chiunque in guardia. Vien fatto, questo meschino ometto
arrancante, di prenderlo per un impiegato del reparto pubblicità di
un grande magazzino. Tutto ciò che egli ingiuria, sembra esser
lui stesso: egli ha l’aspetto fisico del “ giudeo,” è menomato co­
me chi rechi una tabe ereditaria, psicopatico come un sottuomo,
riunisce in sé le caratteristiche somatiche e spirituali della “ razza
inferiore” ; è privo di consistenza come un “ intellettuale,” senza
radici come un “ letterato ebreo, ” infido come un “ meridionale. ”
Proprio qui si ha la riprova più brillante’ deh suo virtuosismo prò "
pagandistico, nell’essere la sua esistenza fisica in stridente contra-

311
L A T IR A N N ID E

sto con le idee “ nordiche ” che egli annuncia, e nel fatto che cio-
nonpertanto gH si creda. Mentre sbandiera la solare figura sigfri-
\clea, egli sta al cospetto dell’auditorio quale un rigurgito d’Ache­
ronte; e fa quasi ribrezzo vedere come ubriachi la folla, benché
confuti la Weltanschauung nazista con la manifestazione della sua
esistenza, e la manifestazione della sua esistenza con la Weltan­
schauung nazista. Può esser fiero — e lo è — d’un simile risultato.
Più non s’accontenta di menare per il naso le masse, di farle bal­
lare al suono del suo piffero: giunge a ostentare, mentre fredda­
mente contempla il risultato delle sue manifestazioni oratorie, la
diabolica presunzione che a lui nessuna manovra illusionistica va
a traverso. È un machiavellico, il quale si vanta di placare i so­
spetti che fa nascere con la vanità di cui fa sfoggio, e si pasce della
stoltezza degli ascoltatori che ha abbindolato. Le masse sono
marionette, che Goebbels obbliga a pensare, sentire, credere, ri­
dere e urlare come meglio gli aggrada; ciò che agli occhi di
quelle è cosa sacra, per lui è solo motivo di dar prova del suo
virtuosismo e d’impiegare la sua potenza; ciò che commuove le
masse, ciò che esse vogliono e credono, lo interessa appena: gli
basta riuscire a tenerle in mano proprio perché si commuovono,
vogliono, credono. N e deriva che con la totalità del suo essere
Goebbels effettivamente si libra nell’elemento dell’improbabili­
tà, dell’improbità, dell’impulitezza: mentisce nel scegliere le pa­
role, nel pronunciarle, nell’accentuarle, in quel suo far boccuccia,
nello snodare la lingua, nello stirare il collo, nel girare il capo,
nello sbarrare gli occhi, nel sorridere o aggrondarsi, spianare o
aggrottare la fronte, muovere il corpo e piegare le braccia, allar­
gare le dita e chiudere le mani a pugno, sollevarsi sulla punta
dei piedi a batterne uno — in tutto questo mentisce, se ne com­
piace e disprezza le masse sulle quali ha virtù.
Solo quando Goebbels parla delle masse, si scopre la sinistra
funzione sociale che egli esercita. L a sua bocca si spalanca quant’è
larga, quell’uomo senza mento diviene nuli’altro che una boc­
caccia clamante, che si apre quale un cratere, da cui fiotta a va­
langa verso le masse la lordura finora rattenuta nel fondo del
loro essere: la bestialità, che ad esse finora non era lecito mostra­
re, prorompe adesso scopertamente, spudoratamente, dallo spacco

312
1 J
LO S P IR IT O D E L L A M E N Z O G N A

urlante parole, dietro al quale spariscono perfino il volto, la figu­


ra deH’uomo. Le masse si vedono comprese e incoraggiate nei
loro peggiori moti e impulsi, ed è per questo che pendono da
quelle labbra, per cui possono lasciarsi andare. È un baratro infer­
nale, quello attorno al quale fittamente s’aggrappolano: esalta la
bassezza e l’abiezione gettandole con arrogante pateticità, a far
da misura di tutte le cose, in pasto al pubblico. Cosi è che Goeb-
bels ha dalla sua ogni più perfido e velenoso istinto. Egli ne è il
liberatore e l’idolo; la sua bocca schiumante è la “ porta sacra,”
attraverso la quale quegli istinti, rotto ogni freno, si sprigionano
a travolgere d’ora in poi il mondo intero.
Benché Goebbels trascini le masse che egli fanatizza su un
sentiero che, accecate, le mena nelle braccia del capitalismo mo­
nopolistico, pure la grossa borghesia non sa superare la diffidenza
che nutre nei suoi confronti: essa intuisce che egli in fondo in
fondo non le appartiene e che, in caso di crisi, la venderebbe alle
masse a cuor leggero, come a cuor leggero ha vendute queste a
lei. Lo ritiene persona di cui non si può far conto, la quale, mu­
tando la situazione, sarebbe capace di intendersela anche col co­
muniSmo. Certo, nell’agosto 1932 egli osserva: “ Se non ci si dà
la possibilità di fare i conti col marxismo, allora per noi la con­
quista del potere sarebbe senza scopo ” ; ma basta che, nel set­
tembre, il governo Papen faccia sentire la propria forza al movi­
mento nazionalsocialista, perché Goebbels s’affretti a scrivere nel
suo diario : “ In un articolo di fondo muovo aspre critiche alla
gente altolocata. Se vogliamo conservare intatto il partito, ecco
che dobbiamo far nuovamente appello ai più primitivi istinti del­
le masse. ” Prima delle elezioni del novembre 1932, amerebbe
mostrare ancora una volta al mondo “ che la nostra tendenza
antireazionaria è profondamente sentita e voluta. ” A llo scio­
pero dei tranvieri berlinesi, lo attraggono subito le possibilità de­
magogiche che vi scopre: lo appoggia, perché cosi ha modo di
accostarsi alle masse operaie. “ Se non avessimo fatto cosi avremmo
cessato di essere. ”
“ Se non avessimo agito in questo modo, non saremmo più un
partito socialista, un partito di lavoratori. ” Quando lo sciopero
fallisce, si affretta a menar ceffoni alla socialdemocrazia e ai sin-

313
L A T IR A N N ID E

dacati, addossando loro la colpa con tortuosi cavilli e trasparenti


arti di falsario. “ Il partito socialista lo ha tradito. Come il gatto
non rinuncia al topo, cosi il marxismo non rinuncia al colpo di pu­
gnale. ” Dal punto di vista dell’alta borghesia, Goebbels appare
come un demagogo che tiene il piede in due staffe; la sua opera
di propaganda, per il capitalismo monopolistico-che non può fare
a meno d’ingannare le masse, è indispensabile; ma il suo virtuosi­
smo puro risveglia tuttavia qualche dubbio sulla schiettezza e inte-
grità del suo attaccamento alla causa borghese-capitalistica.

I
La sua propaganda lavora sullo sfondo di un’ideologia che
conosce solo il contrasto fra bianco e nero, rispettabile e abbietto,
amico e nemico. G li anni precedenti al 1933 sarebbero l’età della
rovina; allora ci si sarebbe trovati immediatamente di fronte alla
bancarotta morale, politica, economica, finanziaria; la sostanza di
questa bancarotta sarebbe il bolscevismo. Retrospettivamente, la
repubblica di Weimar appare come il regno di Satana, in cui il
bolscevismo riscalda il paiuolo per farci bollire i bravi borghesi;
li rievocandone il ricordo, si diffonde la paura del diavolo. I propa­
gandisti nazionalsocialisti non possono rinunciare agli spettri in­
fernali, cosi come i preti cristiani non possono rinunciare ai propri.
Il 30 gennaio 1933 è il giorno del miracolo; allora ha inizio la re­
denzione. Satana giace smembrato al suolo; il Terzo Reich è la
comunità dei Santi. Certo il demonio brontola ancora nelle anime
perdute e ostinate: i nemici di Hitler, i nemici del nazionalsociali­
smo sono spiriti infernali : devono essere stanati, maledetti, torturati
a morte dagli uomini delle SA e delle SS.
In questo schema ideologico dispone Goebbels la sua azione
propagandistica; è una crociata contro gli eretici, contro le forze
infernali di Lucifero. Il boicottaggio contro gli ebrei, nell’aprile
1933, è da lui bandito come una campagna contro la potenza del
semitismo internazionale, come un’offensiva nel quadro della
grande guerra antigiudaica. L ’opera di soccorso invernale è da lui
organizzata quale “ battaglia contro il freddo e la fame. ” Per l’ot­
tobre 1933 annuncia una grande “ campagna propagandistica” ;
I “ terremo in due mesi 150.000 pubbliche assemblee. ” In poderose
battaglie oratorie egli vuole sgominare i piagnoni e gli sputasen­
tenze; alle “ disoneste mene degli allarmisti e dei cavillatori che

314
LO S P IR IT O D E L L A M E N Z O G N A

qua e là ancora si fanno sentire ” è dichiarata “ guerra senza quar­


tiere. ”
L a campagna propagandistica per le elezioni del 29 marzo
1936 prese forme addirittura fantastiche. Nemici da scoprire non
ne esistevano; tuttavia l’intera popolazione fu messa sottosopra.
La propaganda simulò fìnti nemici; e riuscì a render così vive
queste figure di pura immaginazione, che si diffuse una vera e
propria atmosfera di guerra; con la sacrosanta serietà di un Don
Chisciotte tutto il popolo si precipitò contro fantasmi di nebbia
che non erano nemmeno così reali come i mulini a vento del
cavaliere spagnolo. G li oratori non erano derisi, quando con su­
blime pathos battagliero compivano i loro finti attacchi e mena­
vano arditi colpi nel vuoto. Era una prova generale : le masse erano
ormai giunte a tal punto di credulità, che avevano perduto il senso
del reale; non chiedevano più fatti concreti; le fittizie e invisibili
figure della metafisica nazionalsocialista erano già per loro più evi­
denti di tutto il mondo sensibile. Di fronte alla nuova fede, la real­
tà non aveva piu peso: neppure la Chiesa medievale aveva fatto
un miglior lavoro. La propaganda divenne una forma quasi irresi­
stibile di terrorismo: furono coniate le parole d’ordine che sareb­
bero poi venute in voga, e chi non le accettava senza indugio e
non si sottoponeva alla regola, era smascherato come “ miscreden­
te. ” E poiché sapeva di aver contro tutto il popolo, era naturale
che si lasciasse prendere dall’angoscia e dal terrore. Non si poteva
mai prevedere in che modo il potere statale avrebbe colpito l’indi­
viduo isolato, che non ricambiava il “ saluto germanico, ” non espo­
neva “ spontaneamente ” alla finestra, al minuto prestabilito, la
bandiera con la croce uncinata, non leggeva il giornale del partito,
non infilava all’occhiello il distintivo del soccorso invernale, non
mangiava il piatto unico in determinate domeniche, non si univa
alla sfilata del 1° Maggio, non installava l’altoparlante per le au­
dizioni collettive, non leggeva il libro del giorno, non viaggiava
con la “ Kraft durch Freude, ” non partecipava al “ benessere popo­
lare, ” al Fronte del Lavoro, alla Lega antiaerea, non compariva il
giorno del plebiscito alla sede elettorale, non riceveva amichevol­
mente l’ispettore dell’isolato, appena questi gli veniva in casa a
spiare.

.315
L A T IR A N N ID E

Poiché la propaganda s’impadronisce di ogni iniziativa, di ogni


istituzione per rivestirle di panni nazionalsocialisti, entra pure,
com’è naturale, in rapporti particolarmente intensi con tre istitu­
zioni che sembrano fatte apposta per divenire mezzo, arma, stru­
mento, organo allo spirito della propaganda: la stampa, il cinema
e la radio.
In origine la stampa era stata il portavoce delle tendenze bor­
ghesi contro lo stato feudale, medievale: e non importa se all’ini­
zio espresse la sua “ concezione eterodossa ” solo con estrema pru­
denza e circospezione. Il suddito borghese prese la parola contro
le autorità feudali; dove esisteva spirito borghese, questa parola fu
raccolta: così, lentamente e per gradi, si formò l’opinione pubblica
orientata in senso borghese. La libertà di pensiero era la libertà di
sostenere la propria opinione borghese, la libertà di stampa era la
libertà di diffondere anche per iscritto questa opinione. G li Junker
odiavano il giornale, poiché sentivano con retto istinto che in fondo
esso prendeva di mira soltanto loro. Lo spirito che nel giornale
aguzzava i suoi strali e commentava uomini ed avvenimenti, era
uno spirito borghese. L a stampa abituò i suoi lettori ad osservare
il mondo con occhi borghesi e a valutarlo con criterio borghese.
Con cautela, gradatamente, quasi insensibile sul momento, essa
distrusse il prestigio degli istituti e delle forme di vita feudali, e
creò leggende intorno a persone e fatti che appartenevano alla
corrente del progresso borghese. Questo processo durò per secoli.
Mai la stampa avrebbe potuto essere designata come il quinto po­
tere, se alla fine non fosse venuta alla luce l’opera corrosiva con cui
essa aveva dappertutto dissolto gli ordinamenti feudali. L a Santa
Alleanza non poteva più farci nulla. Per quanto pubblicisti come
Genz, Adam, Miiller potessero essere conservatori, proprio perché
erano pubblicisti con loro il lupo borghese si faceva pastore del
gregge. ^
L a libertà di stampa era una mina borghese contro il feudale­
simo; la polemica fra pubblicisti conservatori e liberali si limitava
a dibattere fin dove la mina dovesse arrivare, e quanto grande do­
vesse esser la carica; senza libertà di stampa nemmeno un giornali­
sta conservatore avrebbe potuto scrivere. Era naturale che la stampa
fosse “ capitalistica” ; ma la dipendenza dai finanziatori non limi­

316
L O S P IR IT O D E L L A M E N Z O G N A

tava la sua libertà intellettuale, perché era calcolata su lettori bor­


ghesi-capitalisti, e scritta da giornalisti di idee borghesi-capitaliste.
Era nata come frutto dell’unione fra intelligenza e denaro, e si sen­
tiva perfettamente libera, quando poteva battersi con intelligenza
per la causa del denaro. Il pathos accusatorio che pervade il libro
di Upton Sinclair, Il denaro scrive, non ha mai impressionato i gior­
nalisti borghesi; una volta che il denaro aveva posto tutto il suo
onore neH’esprimersi con intelligenza, tutto il resto era in perfetto
ordine.
L a libertà di stampa cominciò a rappresentare un problema per
la società borghese solo quando la volontà di lotta della classe pro­
letaria si creò un portavoce nei giornali dei lavoratori. Quando l’iri-
telligenza si separò dal denaro, la borghesia, che teneva al denaro,
perdette ogni interesse per l’intelligenza; e quando questa, in lega
con gli strad operai piu consapevoli, cominciò ad attaccare il de­
naro, ad aizzare e incitare il popolo contro di esso, dovette porle i
bastoni fra le ruote. L a libertà di stampa aveva senso per il bor­
ghese solo finché rendeva la vita difficile alla società feudale; la
libertà di stampa che infrangeva l’ordine borghese, era un infame
abuso, un intollerabile scandalo.
Il nazionalsocialismo, facendo valere nel modo più diretto, im­
mediato e brutale l’interesse borghese, divenne il carnefice della “ li­
bertà di stampa ” : da ora in poi i giornali dovevano esser posti in
soggezione. Durante l’agonia dello Stato di Weimar si servi ancora
della libertà di stampa per preparar la tomba a quello stesso regime
politico che essa aveva garantito. “ Si è lasciata a questo giornale
una libertà quasi incredibile di dire quel che voleva, ” leggiamo
nell’introduzione alla raccolta di saggi pubblicati da Goebbels nel-
YAngriff.
Il Terzo Reich distrusse immediatamente tutta la stampa ope­
raia; il punto di vista proletario non doveva più nemmeno farsi
udire. Anche i giornali borghesi che avevano dimostrato benevo­
lenza per le tendenze socialiste e proletarie furono soppressi. Allo
stesso modo vennero eliminate le riviste. Lo scopo della stampa
divenne quello di adulare il restaurato ordine borghese, di magnifi­
carlo, di procurargli amici, seguaci, difensori. Il giornalismo nel
nuovo Stato, disse il direttore della stampa del Reich, dott. Dietrich,

317
1
L A T IR A N N ID E

è assolutamente impensabile senza la fede nazionalsocialista, e il


giornalista deve essere educato al nazionalsocialismo. A lla stampa
furono cosi imposti “ paraocchi confessionali ” ; i giornali si mu­
tarono in trattatelli dove i fatti del giorno erano considerati esclu­
sivamente nello spirito di quell’ideologia che pretendeva d’esser
unica via alla felicità.
Ogni giorno il Ministero della Propaganda diramava precise
istruzioni che prescrivevano ai giornali quale dovesse essere il con­
tenuto e l’interpretazione dei fatti. “ La parola ‘ annessione austro­
tedesca ’ non deve più essere adoperata, ” suonava uno di questi
ordini. U n’altra volta si aggiunse : “ Il Ministero degli Interni ha
diramato alle autorità regionali una circolare, in cui richiama la
loro attenzione sul fatto che alcuni giornali e riviste continuano
a descrivere e a rappresentare con l’immagine e la parola le SA o
le SS in veste militare. Contro tali abusi si interverrà per il futuro
nel modo più severo, e le persone responsabili dovranno aspettarsi
l’accusa di alto tradimento. Lo stesso vale per il servizio di lavoro. ”
E s’imponeva: “ Nei reportages sulle organizzazioni cui partecipano
diplomatici stranieri, deve darsi particolare risalto ai loro nomi. È
vivamente desiderata una diligente nota dei nomi; formulazioni ge­
neriche devono evitarsi. ” Quando l’aviatore tedesco Poss venne ab­
battuto, giunse l’ordine di non dare particolari sull’incidente oltre
il puro e semplice annunzio. “ La sciagura non dev’essere menzio­
nata né in grassetto, né in titolo a più colonne. ” N el 1936 Eckener
s’era rifiutato di far adoperare uno dei dirigibili Zeppelin per
scopi di propaganda nazisti; da allora fu vietato scrivere il suo nome
nei giornali.
I fogli dovevano sottolineare, abbreviare, inventare le notizie,
commentarle in modo da trarre in inganno e darne un’interpreta­
zione falsa; dovevano diffondere storie menzognere su carestie e
rivolte nell’Unione Sovietica e sul terrore comunista in Spagna;
dovevano arricchire l’idea nazionalsocialista e le opinioni sanzionate
dal partito, fomentare le paure, elaborare il mito Hitler e dei suoi
“ paladini, ” circondare di rispetto i “ capi dell’economia nazionale ”
e il loro “ capitale nazionale, ” suscitare orrore di fronte alle riven­
dicazioni salariali e agli scioperi della classe operaia, velare le tristi
conseguenze della dilettantesca politica nazista, abbellirla, agghin-

318
Lo SÌ’IRlL'O della MENZOGNA

darla. Perfino le critiche, qua e là azzardate, erano suggerite dal


ministero: “ Si desidera,” rese noto il Ministero della Propaganda
ai giornali, dopo che si era cercato di rimediare, intensificando i
programmi di musica da ballo, alla diminuzione degli abbonati ra­
diofonici, “ che le critiche ai programmi della radio siano esercitate
con maggior cautela e benevolenza di quanto si è fatto finora, e
che le innovazioni introdotte siano salutate come un progresso de­
gno di plauso. ” Anche quando gli organi di stampa brontolavano,
era perché il governo ne aveva dato ordine.
Questa specie di stampa aveva bisogno di giornalisti apposita­
mente addestrati. La legge per i direttori dei giornali del 4 ottobre
1933 offri al Terzo Reich la possibilità di coltivarsi le creature di cui
aveva bisogno. Il redattore divenne un impiegato che aveva da
mangiare solo finché godeva del favore del Ministero della Propa­
ganda. Per esercitare la professione, per trovare un impiego, doveva
essere iscritto nell’albo dei redattori. I giornalisti di origine ebraica o
di passato marxista, ma anche i pubblicisti la cui indipendenza in­
tellettuale riusciva sospetta, non furono accolti nell’albo: “ Lasciali
andare in giro a mendicare, se hanno fame. ” Redattore diventa solo
chi “ possiede le qualità richieste dal compito d’influenzare l’opi­
nione pubblica ” ; si trattava in verità di pessime doti, tollerate solo
dal pubblico nazionalsocialista. Il giornalista tedesco divenne un
moschettiere intellettuale, che sbrigava il suo lavoro senza alcuna
responsabilità personale; ripeteva quel che gli era imposto dal suo
superiore; compiva ogni incarico alla lettera; sparava le sue mu­
nizioni intellettuali solo a comando e contro un obiettivo prestabi­
lito; ripuliva tutte le latrine naziste e accomodava qualsiasi canaglia
nazista nel modo in cui i gerarchi della propaganda volevano pre­
sentarla al pubblico. Scriveva i suoi articoli e le sue note come
l’ergastolano incolla i sacchetti: tutti secondo lo stesso schema e
secondo le istruzioni impartite. L ’articolo 13 della legge sui redattori
era la menzogna vitale, cui i giornalisti si aggrappavano quando
cercavano di consolarsi della loro umiliante posizione : “ I giorna­
listi hanno il compito di rappresentare in modo veritiero e di giu­
dicare con tutta la loro scienza l’oggetto di cui trattano.” Nessun
redattore era cosi spericolato da precipitare nel trabocchetto di que-

319
LA TIRANNIDE

st’articolo: ognuno era cosciente che nel fondo stava in agguato


il destino dei campi di concentramento o della morte per fame.
Anche quando lo spirito è legato alla catena del denaro, non tol­
lera tuttavia che questa sia troppo corta; ha bisogno di spazio per
saltare, e fare capriole, di correre rischi e spingersi fino al limite
della ambiguità; solo cosi dà il meglio di sé. N el quadro della
stampa borghese-liberale allo spirito era stato concesso di giungere
fino ai limiti estremi. A lla fine esso si era sciolto anche dalla catena
ed era passato nel campo avversario del proletariato. Il Terzo Reich
fu più energico: non si limitò a ricondurre lo spirito alla catena del
denaro, ma lo legò cosi corto, che esso non potè più muovere un
passo di sua iniziativa. Cosi la stampa tedesca cessò di essere quello
che era; il giornale conservava sempre la sua fisionomia esteriore,
ma il contenuto era totalmente mutato. Si fiutavano da lontano
gli scopi che perseguiva: era monitore dei funzionari in camicia
bruna, voce tonante dei pontefici della svastica, “ tesoretto ” dei raz­
zisti d’incontaminata origine, tromba della gioventù hitleriana, or­
gano di collegamento degli ex-combattenti, ordine militare del co­
mando supremo, foglio d’ordine delle sovrane autorità, specchio
politico e morale dei tedeschi “ perbene, ” panorama d’attualità con­
trollato dal partito, notiziario da tutto il mondo epurato dal mini­
stero, segnavia del Terzo Reich.
Lo Stiirmer divenne l’organo rappresentativo del Terzo Reich;
ne era il più genuino fiore spirituale; ne aveva tutta la profondità,
l’intelligenza, la pulizia, il profumo. Nella sua monomania anti­
semita, nel suo luridume pornografico, nel suo puzzo di fogna, nella
sua patologica ottusità, nella sua follia settaria, nella sua idiozia
esemplare, nella sua piattezza stilistica, nella sua volgarità ricatta­
toria, ma anche nella sua abilità senza scrupoli esso serviva setti­
mana per settimana l’estratto morale e intellettuale del Terzo Reich;
i “ corifei ” dell’ambiente intellettuale, sullo stampo di Cari Schmitt
e di Alfred Baeumler avevano in questo giornale il barometro su
cui ogni volta leggevano fino a quale gradino spirituale dovessero
abbassarsi.
Bisogna essere proprio un umile gregario delle prime ore, per
poter ancora aprire il proprio giornale con ansiosa aspettativa. Sol­
tanto la Frankfurter Zeitung, come il miglior esemplare della

320
LO S P IR IT O D E L L A M E N Z O G N A

stampa liberale, trascinava ancora una penosa esistenza; era il fe­


nomeno curioso, con cui gli stranieri dovevano venir appagati e sod­
disfatti. Era l’argomento decisivo adoperato all’estero per smentire
lo “ spauracchio ” dell’asservimento degli intellettuali tedeschi. Cer­
to, neppure a lui veniva risparmiato il foraggio nazionalsocialista;
tuttavia, negli intervalli, poteva ancora brucare a piacer suo nelle
libere praterie qualche fiorellino, qualche erbetta.
L a stampa era fiorita nel clima liberale e sul terreno ricco di
fermenti del manchesterianesimo. Era strumento della propaganda
borghese, ma tanto più efficace per la discrezione con cui la propa­
ganda era presentata. Ma conservar la misura nel campo propa­
gandistico non era affare del Terzo Reich. Tanto più concime pro­
pagandistico Goebbels ammucchiava, tanto più la stampa che
vi cresceva sopra diveniva priva d’attrattive, monotona, incolore; co­
stretta ad avvertire i lettori a colpi di bastone, e scritta con manici
di scopa, decadde completamente.
Il nazismo non aveva prodotto nessun giornale di valore, nes­
sun notevole giornalista; i suoi sottufficiali intellettuali, che sape­
vano solo drizzar le orecchie per intendere le parole del Fuhrer,
quando scrivevano un giornale riempivano le colonne con invettive,
prediche moralistiche, terrificanti fole antisemite, applicazioni di­
dattiche, notizie storiche condite di straordinario eroismo, e il so­
lito focoso appello all’azione. Quando finalmente Goebbels mono­
polizzò l’arma della stampa, essa si rivelò piena di tacche; adope­
rata fino alla consunzione per gli scopi della propaganda, si ri­
dusse allo stremo. Mentre Goebbels la conduceva sulle alte vette
della propaganda, essa deluse le aspettative che il Terzo Reich aveva
riposto in lei. A dire il vero la sua malleabilità era senza limiti —
ma poiché questo era un segreto di Pulcinella, ognuno sapeva quali
fossero i suoi rapporti con Goebbels, e stava in guardia. Poiché la
stampa, fuori della sfera liberale, non rimase più quella che era
stata una volta, perdette la sua utilità propagandistica proprio nel
momento in cui si cominciò a specularci sopra. In certo modo il
Terzo Reich fece le stesse tristi esperienze col cinema.
Hugenberg aveva acquistato la società per azioni Universum
Film (UFA), perché 'considerava il cinema come un “■ canale
per giungere al cervello delle masse.” Ogni film è lo squarcio di

321
L A T IR A N N ID E

un determinato ambiente sociale e rappresenta in modo sensibile


un intero sistema di valori sociali. L a commessa di negozio e il suo
cavaliere dal colletto duro, che con gioioso abbandono seguono i
prediletti eroi dello schermo carichi di denaro nelle loro avventure
amorose o nelle pene della loro oziosa esistenza, si votano all’ideale
della ricchezza e del benessere da raggiungere attraverso il sanzio­
nato itinerario capitalistico, precludendosi cosi agli incitamenti so­
ciali o rivoluzionari. I film patriottici invece, se condotti con abilità,
persuadono le masse ad accettare l’ideologia della borghesia capi­
talistica. Le rassegne settimanali rendono popolari le autorità, che
sono i pilastri dell’ordine capitalistico; mentre il cuore delle masse
si estrania dai poteri, dalle istituzioni e dalle personalità che i di­
rigenti borghesi guardano con sospetto. Già nella scelta del soggetto
si può indovinare l’intento dell’opera, che sa scavare un letto alla
corrente delle simpatie e antipatie popolari.
Si comprende come Goebbels si precipitasse subito, con parti­
colare interesse, là dove perfino Hugenberg aveva annusato odor
d’arrosto propagandistico. Il Terzo Reich voleva incatenare gli ani­
mi anche attraverso l’immagine; ma l’esagerazione annulla, invece
di aumentare, l’efficacia dello strumento. Quando giornali e cinema
diventano troppo espliciti, il pubblico fa sciopero.
Mai riuscì all’industria cinematografica del Terzo Reich di pro­
durre un’opera di delicatezza e potenza artistica come La corazzata
Potem\in. La potenza del capitale non può mostrarsi così aperta ed
ingenua come la forza della massa rivoluzionaria; si farebbe, invece
che amici, dei nemici. La potenza del capitale deve prendere vie
tortuose, deve usare l’astuzia, deve mascherarsi, deve pescare nel
torbido, per poter trarre gli uomini nella sua rete; deve affascinarli
con argomenti di secondaria importanza, in cui nessuno vede chia­
ramente il nocciolo. Ma gli argomenti secondari sono il sentimen­
talismo e la paccottiglia di cattivo gusto. I film del Terzo Reich
erano una pappa composta dall’allegria di Leysch, dalla forza di
Gòring, dallo spirito di Goebbels, dal sentimento di H itler; erano
triviali, ottusi, provinciali. Ma poiché questi film non attraevano
molto, bisognava sempre lasciar via libera a film stranieri e, dal
punto di vista della propaganda, neutrali : il “ trionfo della volontà ”
era la catastrofe della cassetta.

.122
J
LO S P IR IT O D E L L A M E N Z O G N A

Talvolta il pubblico non si limitava a disertare gli spettacoli;


manifestava il suo malcontento con vibrate proteste per i film fa­
voriti dal Ministero. E il ministro degli Interni rispondeva indi­
gnato a questi disturbatori della quiete. Si sono verificati, egli dice
in un decreto ai governi regionali, alcuni tentativi di disturbare la
proiezione di film, “ sebbene questi siano stati approvati dalla cen­
sura ministeriale, ” e in qualche caso perfino dal Fiihrer e cancel­
liere del Reich. “ Tali manifestazioni sono dirette, in alcune cir­
costanze, contro l’espressa e notoria volontà del Fiihrer, e sono
estremamente adatte a minacciare l’autorità dello Stato e a provo­
care disordini nella popolazione. ” L a polizia dovette agire contro i
protestatari. La critica del pubblico era ribellione contro la saggezza
propagandistica delle alte gerarchie naziste, per cui il “ Fùhrer ”
rappresentava la suprema autorità cinematografica. Anche dinanzi
allo schermo nessuno era libero di saperla più lunga o di alzar la
cresta. Il film approvato dagli uffici competenti era un prodotto go­
vernativo, che godeva della protezione dei randelli polizieschi.
Tutti quelli che erano stati attratti dal film principale, dovevano
poi subire il panorama d’attualità. Qui la propaganda aveva campo
libero; qui poteva rappresentare in tutte le salse la storia contem­
poranea nazista. Intanto, però, era perseguitata da una sfortuna as­
sai sorprendente. La macchina da presa è spietata, e con l’élite diri­
gente nazista non si poteva certo mettere insieme uno Stato. L ’at­
tento osservatore scopriva facce di spioni, grinte patibolari, demoni
malvagi, figure di mascalzoni, sordidi commedianti. Ci si persua­
deva personalmente che, dappertutto, era la stessa equivoca pleba­
glia che con la stessa commedia teneva il paese intero col fiato
sospeso. Questi figuri erano cosi sozzi che anche la più lusinghiera
propaganda poteva cavarne solo effetti raccapriccianti.
In contrasto col cinema e la stampa, accolti come eredità di
forma ormai ben definita dal patrimonio del passato, la radio rap­
presentava uno strumento per giungere al cervello delle masse, che
il Terzo Reich poteva plasmare secondo i suoi bisogni e le sue pos­
sibilità. Qui poteva cominciare dal principio, qui trovò un terreno
ancor quasi vergine. Davanti al microfono la Repubblica di W ei­
mar era rimasta perplessa; considerava con un certo disprezzo
questa conquista della tecnica come u n o. strumento livellatore, e

323
ia Tirannide

perciò non privo di pericoli, per istruire e intrattenere le masse;


soltanto con cattiva coscienza e assai tardi essa cedette il microfono
a personalità politiche, e anch’esse furono obbligate a mantener
l’apparenza di neutralità politica e di estrema obiettività. L a radio
non doveva essere “ politicizzata” : la repubblica di Weimar sentiva
che altrimend avrebbe perso la partita, che la radio mal si conci­
liava con la sua atmosfera liberale.
La radio non si rivolgeva all’ascoltatore più o meno colto. Que­
sti, già da tempo, si era scelto criticamente il giornale in cui ogni
giorno poteva trovare quel che davvero “ pensava anche lui ” e che
in fondo al cuore era “ la sua opinione personale. ” Nei fogli popo­
lari la stampa s’era poi adeguata alla democratizzazione delle re­
lazioni pubbliche, e gli strati popolari finora privati dei loro diritti
avevano invaso l’arena politica; la democrazia conservava ancora
il suo carattere liberale. La stampa intellettuale corrispondeva al
parlamento passato al vaglio delle elezioni per censo, la stampa
popolare al parlamento dei partiti di massa. Il cinema era al tempo
stesso il teatro al livello della stampa popolare e della democrazia
parlamentare di massa.
L a radio va benissimo perfino con gli analfabeti. L ’ambiente
della democrazia cesarista le è naturale; è soprattutto la radio a
fornirle l’armamentario tecnico senza il quale non sarà mai vera­
mente perfetto. Grazie alla radio la voce del Cesare diviene onni­
presente; penetra nelle contrade più lontane, negli angoli più na­
scosti; nessuna casa le si chiude ormai. Quando risuona, subito tutto
il popolo le porge orecchio; il popolo è una sola massa ascoltante.
Ode soltanto quel che Cesare vuol fargli udire; nello stesso minuto
accoglie in sé i suoi pensieri, le sue decisioni, i suoi ammonimenti,
i suoi appelli, il suo biasimo, le sue lodi, le sue promesse, le sue
miriacce, i suoi ordini. In un momento Cesare ha in pugno il popolo
intero, quando vuol frustarlo, spaventarlo, entusiasmarlo; lo unisce
in un solo sentimento e in una sola volontà. A l microfono egli as­
sume il comando con cui domina le masse, sale sul pulpito da cui
le edifica come predicatore nazionale, come gran sacerdote, come
vicario di Dio. L a radio elimina ogni obiezione, ogni contraddi­
zione, ogni discussione; come in chiesa e in caserma, tutti devono
tener la bocca chiusa, mentre Cesare parla. Davanti all’altoparlante

324
A
LO S P IR IT O D E L L A M E N Z O G N A

la meschinità dei sudditi si fa evidente: l’obiezione dell’ascoltatore


non è accolta, si perde, come se non fosse mai stata espressa.
L a radio non fa differenze; stima ogni “ camerata” allo stesso
modo di un qualsiasi vagabondo; davanti al Fiihrer, come a Dio,
non esistono differenze. L a radio adopera una lingua comprensibile
a tutti; e chi non vuole ascoltarla, non può fare a meno di sentirla.
Attraverso la radio il Fiihrer giunge dappertutto, perseguita cia­
scuno fino nell’angolo piu intimo e privato col suo terrorismo dit­
tatorio. L a radio infrange la quiete della “ tranquilla cameretta” ;
anche in questa pace il Fiihrer biascica le sue parole.
Il Terzo Reich comprese subito che il microfono era la voce
della sua propaganda. Come massimo premio della conquista del
potere, Goebbels aveva bramato di diventar padrone della radio.
L a radio doveva essere politica e solo politica, perfino nella musica
da ballo, che escludeva il jazz e i compositori ebrei. In un batter
d’occhio il ritegno della repubblica di Weimar fu gettato a mare, e
gli eccessi propagandistici del Terzo Reich insozzarono l’etere. A i
sudditi, per poterli comodamente raggiungere, fu appioppata la ri­
cevente popolare; furono istituite audizioni per le collettività, cui
nessun impiegato, funzionario od operaio poteva rimanere estraneo;
furono installati altoparlanti sulle pubbliche piazze; nei laboratori
delle officine non tacevano mai. Chi non apriva il proprio appa­
recchio radio, sentiva dall’abitazione del vicino o dalla strada il
piagnisteo dei discorsi del Fiihrer, l’urlo delle masse eccitate, il re­
portage delle cerimonie. Attraverso la radio le masse popolari erano
mantenute sotto la suggestione del Terzo Reich. Bisognava esco­
gitare stratagemmi davvero ingegnosi per sfuggire a questa sata­
nica organizzazione tendente a creare psicosi di massa.
Il Ministero della Propaganda era il quartier generale che diri­
geva le battaglie propagandistiche; esso “ conquistava” le masse
alla politica del Terzo Reich e alla “ idea nazionalsocialista.” Esso
tracciava gli schemi in cui si coordinavano le funzioni spirituali e
intellettuali delle masse, costruiva letti di Procuste per ridurre la
multiformità dello spirito ad una misura unitaria normale, river­
sava la mentalità nazista nelle formule piu commerciali. Creò un
insuperabile sistema di réclame, che non trascurava alcun mezzo
per impadronirsi degli spiriti: né la soave persuasione, né la più

325
L A T IR A N N ID E

brutale pressione morale, né l’intimidazione velata o violenta, né


le lusinghe, né l’insulto, né l’adescamento con onori e vantaggi so­
ciali, né la minaccia di togliere il pane o anche della più completa
rovina economica. Esso accelerò il generale processo di adegua­
mento: chi si lasciava impressionare da una parola altisonante, ca­
deva nella massa: ma quando era caduto nella massa, diveniva uno
zero, pronto a seguire, da allora in poi, qualsiasi bonzo nazista.
Una fede veramente cieca doveva oscurare i cervelli. L a propa­
ganda aveva il compito di creare questa fede cieca; non avrebbe
mai avuto successo in questo campo se in precedenza non avesse
stordito le masse fino a farle divenire, appunto, cieche. Cosi esso
fece delle masse il solo gregge per il solo pastore, quel gregge che
pieno di fiducia corre dietro al pastore, dovunque egli lo con­
duca. “ Il Fiihrer comandi, noi obbediremo. ”
Capitolo venticinquesimo

Scienza militante

Dalla teoria della conoscenza di Kant fino alla “ dottrina na­


zionalista” di Hitler: questo è l’itinerario dello spirito borghese
tedesco dal principio del secolo decimonono fino alla metà del
ventesimo.
Quando la borghesia, nel fascismo e nel nazismo, proclamò il
suo aperto predominio di classe organizzato secondo i principi della
guerra civile, chiari anche la sua nuova idea della scienza. Il do­
minio assoluto sullo spirito, che nel Medioevo era stato esercitato
dal dogma cristiano-ecclesiastico, viene nuovamente instaurato dal
dogma razzista del nazismo.
L a spregiudicatezza e la libertà di valutazione, l’obiettività e
l’autonomia della scienza furono coraggiosamente gettate a mare.
“ L ’accusa di ostilità alla scienza colpisce a ragione il nazionalso­
cialismo, ” disse Rust nel 1936 ad Heidelberg, “ posto che la spre­
giudicatezza e la libertà di valutazione siano effettivamente attri­
buti essenziali della scienza. ” L ’idea di una scienza libera e senza
pregiudizi aveva avvantaggiato l’avversario marxista rispetto alla
società borghese: era diventata troppo pericolosa, per poterla an­
cora coltivare. “ Non siamo stati noi, ” assicurava Rust, “ ad offen­
dere la dignità della scienza libera, quando combattevamo l’avver­
sario politico anche là dove si ammantava di autorità spirituale.
Noi l’abbiamo eliminato, non perché sosteneva la libertà della scien­
za, ma perché abusava del suo nome. ” È necessario ricordare, spie­
gava Walter Frank, — quel leccapiedi, quello storico da strapazzo,
che nel suo “ Istituto nazionale per la storia della nuova Germania ”
scelse come professione la falsificazione storica — “ che il nazio­
nalsocialismo non è fatto per gli schiavi, ma per le tempre di do­
minatori. ” Perciò il Terzo Reich è pronto, anche nel campo spi­
rituale, “ a schiacciare la ribellione degli schiavi di Spartaco, do-

327
L A T IR A N N ID E

vunque la incontri. ” L a scienza libera e spregiudicata, in quanto


tollera gli studi marxisti, è responsabile della “ insurrezione degli
schiavi” spirituale; per questo il nazismo non riconosce più la
mancanza di preconcetti e la libertà di giudizio come attributi es­
senziali della scienza. “ Il nazionalsocialismo ha compreso, ” diceva
Rust, “ che una scienza priva di ipotesi e di principi di valutazione
non è in genere possibile. ”
L a scienza fu quindi legata alle ipotesi e ad una scala di valuta­
zione. “ L a scienza, dunque, ha le sue radici nell’ideologia, ”
dichiara Ernst Krieck nel 1936 a Heidelberg nel suo discorso d’inau­
gurazione. Non esiste, si aggiungeva da un’altra parte, nessuna
scienza libera da pregiudizi “ che ricerchi la verità oltre la realtà
nazionale e politica.” Con piena coscienza si ripiombava in un
nuovo Medioevo spirituale; quel che allora era stata una condizione
creatasi in modo organico, divenne adesso una ricetta. L a scienza
doveva ridivenire “ ancella. ” Aveva servito spontaneamente la
teologia medioevale-cristiana, ora invece vi fu costretta. E poiché
questo accadde senza che si difendesse col coraggio della dispera­
zione, divenne una prostituta. A lla scienza medioevale non riusciva
gravoso essere ancella della teologia, poiché i suoi stessi intimi im­
pulsi erano cristiani. L a scienza moderna invece si avvili e si mac­
chiò, quando perdette la sua libertà a causa dell’ideologia nazional­
socialista.
Nucleo essenziale di quella concezione da cui la scienza venne
asservita fu proclamato il razzismo, che è la versione materialistica
dell’ “ uomo figlio di Dio ” cristiano. I moti spirituali devono ap­
poggiarsi “ ad una umanità rispondente al loro orientamento fon­
damentale, e che li rappresenti, ” esortava Rust. Chi non appar­
tiene al popolo germanico “ per sangue e razza, ” non possiede
la facoltà di “ formare la scienza secondo lo spirito tedesco. ” “ Al-
l’autoriflessione e all’autointerpretazione della scienza è additato
il cammino dal substrato vitale del popolo tedesco, ” cui ogni atto
del pensiero deve pagare il suo tributo. “ Noi chiediamo alla scien­
za, ” dice Krieck, “ non solo distinzione, ma anche decisione. ”
Vero è soltanto quel che giova al popolo tedesco. La verità, come
il diritto, diventa soltanto un’occasione per avvantaggiare la na­
zione; quando la volontà nazionale esige che una cosa sia vera, la

328
S C IE N Z A M IL IT A N T E

scienza è li pronta a provarla come vera: cosi diviene “ scienza


militante. ”
Nel suo discorso sulla cultura pronunciato nel 1933 a Norim ­
berga, Hitler defini come contenuto della concezione nazionali-
stico-razzista la “ dottrina eroica ” del “ valore del sangue, della
razza e della personalità, come pure delle eterne leggi della sele­
zione. ”
Nessuna scienza potè sottrarsi all’obbligo di strisciare sotto il
giogo dell’ideologia nazista. Con progressivo sviluppo, cosi si disse
nel novembre 1936 al congresso del “ Centro nazionale per l’in­
cremento della letteratura tedesca, ” non soltanto lo storico, ma
il filologo e il teologo si sarebbero attenuti, nelle loro ricerche
scientifiche, sempre più strettamente alla dottrina razzista. Perfino
le scienze naturali dovettero piegar la testa. Lenard scrisse una
Fisica tedesca, in cui né Einstein né alcun altro scienziato ebreo
vedono riconosciuti i loro diritti: tedesca è la fisica pura, ebrea
quella che si serve della speculazione matematica. Soltanto la
scienza razzista, egli afferma, può dare i suoi frutti anche nella
fisica. L ’ordinario berlinese Biberbach pubblicò all’improvviso una
“ matematica razziale” : quello stesso Biberbach, che poco prima
del gennaio 1933 aveva dichiarato pubblicamente che, se un uomo
come Hitler fosse salito al potere, sarebbe ritornato in Svizzera,
dov’era nato.
Le scienze dello spirito, specialmente, divennero le più abbiette
prostitute dell’ideologia nazista; dovevano semplicemente svolgere
la propaganda in favore del dogma nazionalistico-razzista. L a storia
vi assunse il ruolo della filosofia medioevale; divenne, anch’essa,
terrestre fiamma accanto alla luce celeste. L a storia rinvigorisce la
concezione nazionalsocialista; il passato, inteso nel suo giusto senso,
accoglie fra le braccia l’intuizione nazionalistico-razzista di Hitler.
“ Cinque parole, ” disse il presidente del Consiglio del Braun-
schweig, Klagges, “ devono illuminare, a guisa di fari, la storia:
lotta, Fùhrer, Stato nazionale, popolo, razza. ” L a loro applica­
zione al processo storico deve dar luogo ad una nuova concezione,
in cui non si tratta più di una semplice sistemazione delle cono­
scenze. L a storiografia, affermava Frank, deve cantare al popolo
in lotta il suo “ inno di battaglia” — essere quindi poesia che si

329
L A T IR A N N ID E

canta durante una marcia. L ’ideologia nazionalistico-razzista di­


venta cosi la gemma della fede, custodita dal popolo tedesco nella
profondità del suo spirito fin dai giorni di Viduchindo e giunta alla
luce soltanto il 30 gennaio 1933. L a presa del potere da parte dei
nazisti diviene quindi l’episodio culminante, cui tutta la storia te­
desca tende fin dai tempi di Ottone il Grande e da cui, per la prima
volta, il passato riceve il suo vero senso; Hitler è l’uomo in cui tutta
la storia tedesca trova il suo compimento. Si è addirittura felici
di aver perso la guerra mondiale, poiché solo a tal prezzo è stato
possibile avere Hitler.
L ’idea nazionalsocialista della scienza ebbe gravi conseguenze
per il destino delle università tedesche.
L ’università medioevale poggiava sull’idea fondamentale che la
verità fosse di natura divina, e rivelata agli uomini per grazia di­
vina; lo studente doveva accostarlesi pieno di reverenza e accoglierla
umilmente in sé. Uomo colto era chi racchiudeva nel cervello, in
abbondante quantità, il bene della rivelazione. L ’unità sistematica
del sapere era il riflesso spirituale dell’ordine articolato della crea­
zione divina. La cultura era quasi esclusivamente un fatto di me­
moria, l’uomo doveva assimilare passivo il materiale erudito, e sa­
liva tanto più in alto sulla scala della gerarchia intellettuale, quanto
più multiforme ed esteso sapere aveva accumulato: i gradi supremi
erano riservati all’enciclopedista, al polistore, all’onnisciente. A n­
che Leibniz era stato, in questo senso, un polistore. Il giudizio
umano, davanti alla ricchezza del tesoro di sapienza, doveva ta­
cere; se vi si immischiava 0 addirittura si voleva imporre, era
posto al bando come manifestazione di peccaminoso orgoglio: il
diavolo voleva contraffare la verità per volgerla contro Dio. •
Col rafforzamento delle correnti borghesi ha inizio la battaglia
contro l’antica università. Il polistore, che sa tutto e insegna tutto ai
giovani, diviene oggetto di derisione; si comporta come se volesse
prima masticare i cibi e poi ficcarglieli in bocca. La memoria in­
ghiotte ciecamente quel che è dato e tramandato: proprio di questo
il borghese è sazio. Egli vuol cambiare, e di fronte all’ammasso di
nozioni deve comportarsi da critico e avere un proprio giudizio.
Affinare la capacità di giudizio è per lui più importante che colti­
vare la memoria. Il polistore non gli fa più impressione, vuole lo

330
j
S C IE N Z A M IL IT A N T E

studioso e lo scopritore. “ Cavallette e bruchi e simili insetti sono fla­


gelli meno gravi di quelle persone che si pretendono dotte, ma non
lo sono. ” Il “ sano intelletto umano ” è stimato più che “ qualsiasi
parolaio ed erudito libresco. ” Poiché l’università trascura le neces­
sità dei tempi, sorgono scuole professionali e specializzate: l’acca­
demia mineraria, la scuola di veterinaria, la pépinière per medici
militari, l’accademia di belle arti, l’accademia di architettura, l’isti­
tuto agricolo.
A poco a poco la borghesia sviluppò la propria idea della cul­
tura in contrasto con quella medioevale-cristiano-feudale. Poiché le
importava soprattutto la formazione del giudizio e dell’intelletto,
si volse contro “ l’illusione del sapere enciclopedico. ” Sostenne
l’indipendenza del pensiero, l’unità di teoria e di pratica, la ricerca
creatrice e consapevole come unico metodo fruttuoso di apprendi­
mento e di insegnamento. L ’unità del sapere derivava ora dalla
naturale correlazione delle cose. Dal pensiero di questa unità sorse
l’impulso a penetrare e dominare il mondo come un tutto; alla ra­
gione erano accessibili tutte le leggi del cosmo. Se fino allora i pro­
fessori avevano letto o dettato libri di testo, scritti da altri, ora nelle
lezioni venne in uso la libera e personale interpretazione.
Lo spirito di riforma borghese trovò la sua più forte personalità
in Fichte; egli elaborò piani per l’università di Berlino come per
quella di Erlangen. N ell’università egli vedeva abolita ogni sepa­
razione tra l’elemento terrestre e il trascendente; essa era, diceva,
“ la rappresentazione sensibile dell’unità del mondo come epifania
di Dio, e Dio stesso. ”
Come la Chiesa era la rocca della fede, cosi l’università doveva
diventar la rocca della ragione; per questo la borghesia ne ebbe
un cosi alto concetto. L ’istruzione borghese divenne surrogato della
religione, il professore sacerdote dello spirito.
L ’atmosfera spirituale del mondo e della sfera feudale era la
fede inviolabile; il capitale mobile invece trasportò il suo ambiente
nell’elemento progressista deU’illuminismo. L ’intellettuale illumi­
nato divenne per il borghese ciò che il prete era per l’aristocratico.
L ’intelligenza amministrò il capitale spirituale, come il borghese
quello materiale. Il borghese concesse al capitale dello spirito i dirit­
ti di quello materiale, poiché comprese che il dominio del denaro

331
L A T IR A N N ID E

non poteva dirsi solidamente fondato, se prima non avesse avuto in


suo potere anche i cervelli. L a sfacciataggine della speculazione in­
tellettuale andava di pari passo con la mancanza di scrupoli di quel­
la finanziaria: cultura e denaro lavoravano tenendosi per mano, in
pieno accordo. Il supremo simbolo terreno dell’ordinamento feu­
dale era il trono. G li stretti vincoli di parentela che univano il
trono e l’altare, unirono adesso la borsa e l’università. Quanto più
valori spirituali uscivano come “ materiale ” dalla università, tanto
più valori industriali e finanziari affluivano alla borsa. Una sola
cattedra poteva, se opportunamente occupata, produrre un nuovo
ramo industriale. L a borghesia era affezionata alla sua università,
perché questa rocca della ragione, questa oggettivazione della scien­
za positiva riduceva in frantumi tutta la concezione della società
feudale.
G li attriti fra università e potere statale, che non cessarono mai
per tutto il secolo XIX, erano comprensibili. Le autorità feudali
non volevano capitolare senza resistenza, e ogni tanto, durante
la ritirata, impegnavano con lo spirito borghese qualche nuovo
combattimento. L a polemica sull’ateismo, in cui Fichte venne
coinvolto, fu una di tali battaglie, e il coraggio spiegato dai
Sette di Gottinga era un coraggio pieno d’orgoglio borghese.
Quando Wilhelm von Humboldt, diffidando dello Stato prus­
siano, volle assegnare alla nazione il possesso dell’università di
Berlino, era spinto da un sentimento borghese; la “ nazionè” era
la società borghese, che egli sentiva più vicina a sé della buro­
crazia statale degli Junker prussiani.
L ’idea nazionalsocialista della scienza non si limita ad intro­
durre una riforma dell’università: l’università viene trasportata
su un terreno completamente nuovo.
N el Medioevo l’università viveva all’ombra della Chiesa cri­
stiana, era il lusso spirituale che la Chiesa si concedeva. D i per
sé non significava nulla; contro la Chiesa niente le era permesso.
In tale condizione deve ricadere l’università; rispetto al partito
nazista si viene a trovare nello stesso rapporto, in cui viveva l’uni­
versità medioevale rispetto alla Chiesa. L a Borsa, il parlamenta­
rismo, l’università decadono nello stesso tempo. Il dittatore, il
Fiihrer, il papa dell’ideologia sono le figure, adeguate ai tempi,

332
i
S C IE N Z A M IL IT A N T E

della situazione monopolistico-capitalista. Il nazismo cambiò la


cultura liberatrice di tutte le forze nella mentalità coercitrice di
queste forze. Possedere la mentalità del “ combattente ” nazional­
socialista controbilancia tutta la cultura accademica. L ’università
non dispensa più cultura, ma principi politici; al binomio denaro
e cultura subentra quello denaro e politica. Il partito unico si
innalza al rango che nel Medioevo si era arrogato la Chiesa.
L ’università deve vivere d’elemosine. Diventa istituto per i cre­
simandi nazisti, corso d’istruzione nazionalsocialista. Riesce a con­
servare ancora qualche importanza pratica, trasformandosi in scuo­
la professionale ad alto livello; ma anche qui il sapere specializ­
zato è servito in salsa ideologica nazista. L ’università medioevale
strapazzava la memoria; quella liberale, la ragione; quella nazista
violenta la volontà.
Con l’università cambia il tipo del docente universitario. Il suo
istinto per le imminenti esigenze dei tempi aveva spinto Nietzsche
ad attaccare tanto il professore liberale, quanto l’università libe­
rale. Ormai il docente universitario non è più né. un poligrafo,
un dotto, né un ricercatore e un libero pensatore: è soldato po­
litico, che compie a comando le prescritte operazioni intellettuali
e che, dinanzi ai suoi uditori, interpreta il cosmo secondo i prin­
cipi nazisti. “ Da ora in poi, ” aveva detto Hans Schemm ai pro­
fessori dell’università di Monaco, “ il Loro interesse dev’essere volto
non a determinare se una cosa è vera, ma se è nel senso della ri­
voluzione nazionalsocialista. ” Il professore è un “ poeta di corte, ”
che rappresenta il mondo in rima, secondo le parole d’ordine del
suo duce. Il suo cervello funziona su comando delle superiori au­
torità. Bisogna esser versati non tanto nelle scienze, quanto nella
marcia, nel tiro e nella disciplina, se si vuol diventare Dr. habil.,
docente universitario; prima di raggiungere questo grado, bisogna
esercitarsi sul campo a quella stupidità, in cui più tardi si manter­
ranno i propri studenti. Se ancora qua e là si trovassero alcuni
coraggiosi come i “ Sette di Gottinga, ” avrebbero ben presto rotta
dai manganelli la spina dorsale — fisica e spirituale.
La classe dei professori era stata ammonita da un oscuro pre­
sentimento di quale destino la attendeva; produsse solo pochi
“ vecchi combattenti. ” Si trascinò dietro agli avvenimenti con ben

333
tA tirannide

altro spirito che nel 1848. Certo da molto tempo il suo pensiero
era di casa sul terreno fascista; i sentimenti che la riempivano, i
punti di vista e le idee verso cui si orientava, il metro di valuta­
zione che applicava, e in genere gli elementi spirituali fra i quali
si muoveva, erano di natura completamente fascista. In certo modo,
tutti i professori borghesi sono padrini del fascismo. E questo vale
per Heidegger come per Freyer. Dopo la rivoluzione nazionalso­
cialista, uomini come Spranger si preoccuparono di compiere in
modo non troppo compromettente il proprio adeguamento all’or-
todossia nazista. Dopo un periodo di esaurimento, dal 1928 circa,
cosi dichiarò Sprenger dinanzi all’Accademia di scienze prus­
siana: i momenti positivi impliciti nella guerra mondiale produ­
cono finalmente un effetto deciso e fruttuoso. Domina ormai la
nuova idea di popolo, legata al divenire di un nuovo tipo umano,
indigeno, popolare, attivistico-eroico; ambedue sono nati dall’espe­
rienza di guerra. Ambedue comportano una nuova idea dello Sta­
to, una res publica militans, che non è più il prodotto di una
“ integrazione” dei diversi orientamenti in seno alla società; al
contrario, rappresenta la volontà dello Stato attraverso il duce cari­
smatico, che concepì la nuova idea di nazione, e in forma di
“ emanazione ” dà alla società un’impronta gerarchica. Anche nel­
l’economia la volontà politica ottiene il primato; attraverso la pia­
nificazione, essa tende nell’interesse della popolazione al più alto
grado possibile d’autarchia, quale s’era annunciata durante la
guerra. N el campo tecnico la concezione sentimentale, per cui la
tecnica rappresenta il nemico dello spirito, è “ posta in fuga dall’ac­
cettazione eroica dei mezzi tecnici, e da una tecnocrazia piani­
ficatrice. ”
Questo era certo nazionalsocialismo, ma era un pomposo, to­
gato nazionalsocialismo; quegli uomini volevano pur sempre con­
servare il livello tradizionale della scienza e della filosofia liberale.
Il contenuto materiale del fascismo doveva esser presentato in una
forma elaborata alla maniera liberale; la forma elevata doveva
rendere digeribile la torbida follia. Essi non capivano che il fa­
scismo, come il liberalismo, possiede un suo naturale livello; e si
travisa il fascismo secondo criteri liberali, non appena lo si innalza
dal piano che gli è confacente. Presto o tardi i professori destarono

334
sc iè n z a m il it a n t e

sospetto per la loro dignità formale. Per quanto fossero desiderosi


d’inserirsi nelle file e nel corpo nazionalsocialista, assai cattiva
impressione suscitavano le loro teste, che superavano tutte le altre.
I rapporti si guastarono: nonostante le loro migliori intenzioni,
si cominciò a trattarli come simpatizzanti di dubbia fedeltà; furo­
no sorvegliati, invece che richiesti di consiglio. Cosi respinti, essi
si vendicarono commentando ironicamente che nessuno volesse più
ascoltarli.
Alcuni professori tuttavia avevano capito a tempo che si po­
teva essere perfetti nazionalsocialisti solo adeguandosi al “ for­
mato ” richiesto dal fascismo, e con un colpo energico sfrondarono
la sovrabbondanza intellettuale che da quel momento in poi
avrebbe soltanto disturbato. Cosi instaurarono il più completo con­
tatto col partito; si fusero con esso e per conseguenza poterono
prendere la parola in suo favore. Soltanto questi professori erano
nazisti fino al midollo; soltanto per loro il nazismo era qualcosa
di più del prescritto colore bruno.
Il professore di diritto pubblico Cari Schmitt, il filosofo A l­
fred Baeumler, il pedagogo Ernst Krieck erano probabilmente le
più ragguardevoli figure di questa specie; in un batter d’occhio
si trovarono sulla breccia, quando il Terzo Reich ebbe bisogno di
“ uomini di legge ” accademici. Accadde proprio in un batter
d’occhio : infatti Schmitt e Baeumler erano della “ leva del 1933 ”
e Krieck era un “ veterano ” del 1931. In verità anche gli “ uomini
di m arzo” Schmitt e Baeumler già da qualche tempo stavano in
agguato per non perdere l’occasione di unirsi al partito e avevano
cercato i contatti attraverso le vie più tortuose; il salto però lo
fecero soltanto quando furono sicuri di atterrare in un caldo nido.
In Cari Schmitt il nazionalsocialismo conquistò senza dubbio
il suo spirito più brillante; l’acquisto gli era già abbastanza pre­
zioso per non lasciarsi guastare la gioia dall’ambiguo passato di que­
sto ingegno. Schmitt, secondo le sue stesse parole, è “ romano di
lingua, di origine e di diritto! ” Cosi interpretava la sua discen­
denza romanica, e la sua confessione cattolica, la sua predilezione
per la letteratura latina e francese, la sua professione di docente
di diritto romano. Il suo istinto sociale è impressionante. Non ot­
tenne subito il successo; di lui rimane un melenso scritto giova-

S35
L A T IR A N N ID E

nile, Schattenrisse (Ombre cinesi), che ancora non mostra, da


nessun punto di vista, gli “ artigli del leone. ” Ma già il suo li­
bretto Cattolicesimo romano e forma politica fa spicco per il suo
charme giornalistico e un’eleganza stilistica insolita in Germania.
Alcuni ebrei, che di rado si lasciano sfuggire i bocconi prelibati,
si occuparono di lui; l’economo nazionale M. J. Bonn divenne suo
amico e per prima cosa gli procurò la cattedra del defunto Greifs-
wald all’università di Bonn e in seguito all’università commer­
ciale di Berlino. Schmitt dedicò i suoi libri a protettori ebrei e non
si sottrasse mai, di fronte ad autori ebrei, all’obbligo di gratitu­
dine di citarli là dove si era giovato del loro insegnamento.
È uno spirito educato latinamente alla severità e alla disci-
piina e possiede un senso sviluppatissimo dell’importanza della

I magnificenza formale. Egli offri motivo al cattolicesimo politico


di riporre in lui grandi speranze; come pio figlio della Chiesa si
tenne in stretti rapporti col partito di centro cattolico. Tuttavia,
nonostante il divieto della Chiesa, sciolse il suo primo matrimonio;
! e quando essa gli negò la dispensa, lo assali, come un nuovo En-
| rico V ili, il diabolico desiderio di fargliela pagare. Da cattolico
praticante divenne cattolico secolarizzato: tuttavia rimase sempre
j fedele, ché li aveva nel sangue, alle forme del pensiero latino, ai
1 sentimenti antigermanici e all’odio contro i barbari proprio dei
i romani.
In quegli anni il suo spirito abbagliante raggiunse la sua mag­
gior fecondità. Quel che Hitler sentiva per istinto, Schmitt lo con­
cepiva con l’acutezza del suo intelletto: cioè che la Germania si
trovava in una situazione di guerra di classe. Partendo da questa
constatazione, all’improvviso, tutti i concetti e le idee, scientifiche,
filosofiche, artistiche e anche immediatamente politiche, appar­
vero sotto una luce completamente nuova — erano armi camuffate,
travestimenti della volontà di guerra civile. Era raro vedere un
dotto borghese indagare sui concetti e le idee non più secondo il
loro significato oggettivo-contenutistico, intellettuale-astratto, ma
soltanto secondo il loro riposto senso politico. A Schmitt si erano
aperti gli occhi su questa visione delle cose attraverso lo spagnolo
Donoso Cortés.
L ’aristocratico conservatore Cortés aveva considerato il contra-

336
S C IE N Z A M IL IT A N T E

sto sociale fra la borghesia europea e il feudalismo europeo nel


quadro metafisico della lotta cosmica fra Satana e Dio. Si deve
ad un lampo di genio di Schmitt, se questo tema potè dargli in
mano la chiave della situazione tedesca. N el suo scritto, che ebbe
molta risonanza, Il concetto di politica egli definì il fatto politico
come distinzione fra amico e nemico.
Qui, partendo dalle sue basi borghesi-cattoliche, si ritrovò d’ac­
cordo con Carlo Marx. Per un momento esitò a schierarsi prati­
camente con l’uno o l’altro fronte. Lesse M arx e anche Lenin, e si
proibì l’uggiosa tiritera nazionalistica contro il marxismo; bisogna
riflettere, gli capitò allora di dire, se anche noi non potremmo
diventare marxisti. Ma egli era nato per Roma, non per Mosca;
già lo attirava il magnete di Hitler. Solo lentamente e per gradi
si mosse verso il luogo cui era destinato. Come Hitler, cercò di
acquistare una solida posizione nell’esercito ; prese contatti personali
con i generali. Il governo autoritario lo affascinò talmente che,
nonostante il suo dissidio con la Chiesa cattolica, si schierò dalla
parte dell’autoritario cancelliere Briining. Entrò nelle file nazio-
nalsocialiste quando Otto Strasser e Ludendorff lo colsero “ en
passant. ” Otto Strasser era il demagogo colto; era di un gradino piu
giu di Hitler, ma socialmente era più serio. Schmitt andò a scuola
da Ludendorff, quando si decise a scendere dall’alto livello della
spiritualità liberale e cattolico-umanistica alla primitività fascista.
Come cattolico era preparato al “ sacrificium intellectus, ” e le
potenze metastatali, ebrei, massoni e gesuiti, erano solo le assur­
dità proprie alla fede nazionalista, come l’immacolata concezione,
l’ascensione e l’infallibilità del papa lo sono a quella cristiano-cat­
tolica. Chi è stato abituato dalla sua professione cattolica al “ credo
quia absurdum est ” non può negare la stessa fede incrollabile
neppure ad una ideologia nazionalistico-razzista, non appena ab­
bia motivo di seguirla.
Certo, prima di entrare definitivamente nel porto nazionalso­
cialista, Schmitt veleggiò ancora sotto il vento autoritario del go­
verno nazionale tedesco. Egli rappresentò davanti al Tribunale di
Stato il governo Papen, adulatore dello Stato, contro le regioni di
Prussia e Baviera che avevano sporto querela. Appena Hitler muo­
veva un passo, subito Schmitt gli era alla pari: e fu cosi lesto a

337
L A T IR A N N ID E

infilare le porte del Terzo Reich, da non poter essere ignorato


quando esso ebbe bisogno di un giurista. Schmitt riusciva sempre
a prevenire, in un modo stupefacente, la realtà politica. Di con­
seguenza era una specie di quartiermastro spirituale, previdente e
cauto, che sapeva guadagnarsi la riconoscenza dei borghesi ad
ogni fase della loro restaurazione: non gli era quindi difficile ogni
volta “ piazzarsi ” vantaggiosamente. Però, alla vigilia di ogni
nuovo rivolgimento, si precipitava alla prossima meta; cosi restava
un precursore. Poiché preannunziava regolarmente il corso degli
avvenimenti con i suoi “ traslochi, ” non era tanto un soldato —
si era tenuto lontano dalle battaglie della guerra mondiale come
da quelle delle birrerie — quanto piuttosto un diplomatico, che
da nulla si lasciava sorprendere e aveva dappertutto il suo zam­
pino.
Schmitt aveva previsto la guerra civile, quando con lo scon­
volgimento dell’equilibrio di classe la repubblica di Weimar pre­
cipitò verso la rovina. Sapeva che al Terzo Reich era connaturata
la tendenza di organizzarsi come chiesa mondana e sentiva di es­
ser per questo l’uomo più adatto. Roma vive anche nel cattolice­
simo laicista. Si può erigere una Chiesa romana sulla base di un
dogma nazionalistico come su quella di un dogma cristiano,
senza che la differenza si mostri necessariamente nelle linee
fondamentali e nel profilo dell’edificio. Roma era il grande mo­
dello, nella cui reverente contemplazione Schmitt era cresciuto;
il Reich doveva diventare una Chiesa latino-romana, ed egli
avrebbe posto a sua disposizione la sua abilità di giurista. Sapeva
che cosa significa il dogma per una Chiesa; nessuna follia popo­
lare poteva preoccuparlo, poiché era troppo cattolico per non
possedere la incrollabile convinzione che non importa quel che
si crede, purché si creda. Tanto più solida è la Chiesa, quanto più
superstiziosa, letterale e massiccia è la fede; la spiritualizzazione-
delia fede è già una mezza rovina. Perciò Schmitt scelse la via del
più crasso e volgare antisemitismo.
Fin dove giungeva la sua influenza, essa aveva carattere latino­
ecclesiastico. Dava il suo consiglio giuridico per imprimere alle
amministrazioni pubbliche il “ character indelebilis, ” per organiz­
zare la giustizia penale come un’inquisizione contro gli eretici, per

338
s c ie n za m il it a n t e

fare del Fùhrer un papa infallibile, per consolidare la devozione


verso le sacre istituzioni, per infrangere la libertà di coscienza, per
sottomettere la scienza al dogma nazionalistico, per costringere la
gioventù ad una cieca obbedienza: si trasformò in un cardinale
di curia, che voleva vedere la gioventù studiosa sottoposta alla di­
sciplina del più severo noviziato.
La Chiesa romano-cristiano-cattolica trovò nel Terzo Reich la
sua concorrente non meno romano-nazionale-cattolica; anche qui
il latino Schmitt poteva sentirsi a casa propria e consolarsi della
scomunica.
Certo, gran danno arreca ad uno spirito il possedere solidamente
la verità, invece di cercarla. Diventa sazio e pigro, la sua tensione
interna si rilassa e perde il mordente.
Il fascino degli scritti di Schmitt precedenti al 1939 consisteva
nel fatto che mostravano sempre un lato sorprendente delle cose
e portavano alla luce elementi fino allora nascosti. Cavavano fuori
quel che era celato ed esponevano alla luce del sole quel che era
oscuro. Schmitt era un cacciatore che dalla battuta riportava di
solito una rara selvaggina: bisognava sempre esser preparati a una
sorpresa. Sebbene le sue “ rivelazioni ” giovassero in definitiva al
Terzo Reich ormai prossimo, tuttavia gli si era grati per quegli
effetti che non mancano mai, quando cadono dei veli.
Dall’avvento del Terzo Reich lo spirito avventuroso di Schmitt
si calmò e divenne uno spirito servile. Non s’inoltrava più, con
l’agilità, l’elasticità e la grazia di un animale da preda, sulle piste
da lui stesso tracciate, ma, come un animale domestico del dogma
nazionalsocialista, si abituò alla catena. Non insidiava più la preda
a proprio rischio e pericolo, ma si limitava ad assolvere incarichi.
Divenne privo d’interesse, come lo è qualsiasi lunga mano dei go­
vernanti.
A l dogma nazionalista manca di gran lunga la dignità spi­
rituale che riveste pur sempre il dogma cristiano, temprato al
fuoco della filosofia greca. Come la base più profonda della Chiesa
cristiana, a malgrado di ogni eccesso del potere clericale, è l’uma­
nità, quella della Chiesa nazionalistica è la bestialità. Nella stessa
bassezza spirituale in cui sono concepiti questa Chiesa e i suoi
dogmi è trascinato anche lo. spirito che consacra loro i suoi voti.

339
LA T IR A N N ID E

Schmitt rinnegò gli amici ebrei del passato: cancellò nelle nuo­
ve edizioni delle sue opere i nomi dei protettori ebrei, si pose alla
testa del movimento per epurare da ogni traccia di ebraismo la
letteratura giuridica. Piombò come un membro dell’inquisizione
in ogni nascondiglio ebraico. L ’intensità che era stata una volta pre­
rogativa del suo spirito si tramutò ora nell’intensità di una mania;
come un povero, fanatico settario, scorgeva dietro ogni pietra e ogni
cespuglio lo spettro giudaico. La storia dell’ebraismo sul suolo tede­
sco e anche in altri paesi europei, egli disse nell’ottobre 1936 di­
nanzi ad un congresso di professori universitari, è strettamente le­
gata a quella della criminalità. Il punto culminante della crimi­
nalità ebrea fu raggiunto nel 1800 con le bande armate di briganti,
che, montati spesso su più di cinquanta cavalli, rendevano mal­
sicura la regione renana. Solo una migliorata organizzazione della
polizia dopo le guerre di liberazione e le maggiori possibilità di
guadagno nella società capitalistica offersero ai criminali ebrei l’oc­
casione di volgersi a metodi ladreschi meno vistosi e più proficui.
La successiva generazione ebrea svolse, ai primordi, un’attività di
speculazione o di truffa, o allargò su più vasta scala la collabo-
razione con i criminali marxisti. L ’ebreo Baal Massematte, l’ispi­
ratore dei furti commessi intorno al 1800, fu il precursore dei
successivi agitatori e commissari bolscevichi ebrei, che continuarono
su più vasta scala il “ decalaggio ” del loro avo nei confronti dei
beni non ebrei. È compito dello storico della famiglia stabilire che
cosa sia divenuto della numerosa discendenza delle antiche bande
di masnadieri ebrei. Bisogna anche osservare che tutte le tendenze
introdotte dagli ebrei nel diritto penale per proteggere il delin­
quente, non rappresentano altro che la continuazione dell’unione
fra semitismo e criminalità; inoltre bisognerà rilevare la tradi­
zione ebrea, soprattutto dall’Antico Testamento, nel suo contenuto
fondamentalmente criminale, senza troppi riguardi diplomatici.
Soltanto riconoscendo apertamente il giudaismo come delinquenza
o r m ai a s s i m i l a t a al suolo nazionale^ e iTsuo Jahvè comecèlestc
Baal Massematte, si può risolvere l’enigma di questo popolo.
Dopo aver cosi ritrovato la traccia di Baal Massematte, Schmitt
cominciò a strisciare, come un ben aizzato segugio nazionalso-

340
S C IE N Z A M IL IT A N T E

cialista, nell’edificio della scienza giuridica, per stanarvi il mostro


giudaico.— '
Schmitt intendeva il dogma razzista quasi esclusivamente come
antisemitismo, quando parlava di origine pura, intendeva solo:
“ non essere ebreo. ” Non conteneva nessun positivo elemento ger­
manico : il wotanismo lo faceva ridere. In certi periodi storici anche
i più ferventi cattolici divennero furibondi odiatori degli ebrei; al­
lo stesso modo Schmitt era un antisemita nazionalista. L ’antisemi­
tismo tedesco può significare ribellione del barbaro sangue germa­
nico contro la prudenza dello spirito ebraico: però bisogna avere
sangue germanico nelle vene. Schmitt non ne possiede neppure
una goccia. L ’antisemitismo di Schmitt è una presa di posizione
nella secolare, sempre rinascente lotta di Roma contro Giuda.
Schmitt non difende la purezza e la forza germaniche, ma assedia
Gerusalemme. È spinto dall’odio, perché il giudeo ha infranto la
grande forma romana, non perché ha raggirato con la sua astuzia
il barbaro germano.
Questo divide Cari Schmitt da Alfred Baeumler. Baeumler era
in origine cattolico tradizionale dei Sudeti tedeschi; e la sua dote
ereditaria era un debole risentimento germanico contro Roma.
Tuttavia era sempre abbastanza cattolico per soggiacere all’anti­
patia contro Lutero e Bismarck, contro la Riforma e la Prussia.
Dal principio non sapeva bene a che punto dovesse fermarsi
nella sua marcia a ritroso nella storia. Il suo impulso reazionario
non trovava soddisfazione; gli oscuri giorni del matriarcato lo atti­
ravano; scrisse allora l’introduzione all’edizione di Bachofen, la
cosa migliore che mai abbia fatto. La preistoria germanica e
quella greca gli si confondevano insieme. Dopo questo tuffo pu­
rificatore e ristoratore nei secoli al di là della storia lo prese il
. desiderio della terraferma del patriarcato. Da Bachofen risali a
Nietzsche. G li dèi pagani degli antichi e dei ceti superiori germa­
nici erano pure gli dei che la bestia bionda di Nietzsche adorava:
a malapena potè radicarsi più profondamente dal punto di vista
storico e filosofico. Con serietà comico-patetica Baeumler esponeva
la sua dottrina dell’eroismo e dell’alleanza virile. Quando Baeum­
ler si accorse che la borghesia sogguardava con desiderio le
forme di signoria feudale del Medioevo, superò la repulsione che
L A T IR A N N ID E

fino allora aveva provata verso la storia cristiana, ed incluse nella


lista dei suoi eroi i grandi imperatori dell’antica storia tedesca.
Zeus e Wotan accolsero Heliand, Achille e Arminio Ottone I co­
me loro pari. Il risentimento germanico contro lo spirito ebreo e
la potenza romana, il romanticismo aristocratico della Grecia an­
tica, i miti etnici di Bachofen, l’isterismo zaratustriano di Nietz­
sche, la pederastia di Platone e di George, la mistica imperiale
della vecchia Austria, la memoria e gli orizzonti cattolici-univer­
salistici confluivano insieme e si mescolavano in una concezione
nazionalistico-razzista di particolare impronta. Come l’idea “ na­
zionale ” di Schmitt era univoca e radicale nel suo antisemitismo,,
logica, chiara e fredda, cosi quella di Baeumler era confusionaria
e molteplice, fantasiosa, di una illogicità intuitiva. Ma il contrasto
non è solo qui: Schmitt restava irremovibile al polo latino-ro­
mano; Baeumler invece costruiva la cangiante unità di un opposto
polo greco-germanico, che alla fine comprendeva in sé anche il
pensiero universalistico cattolico-imperiale.
Per Schmitt il Terzo Reich doveva essere la fedele riprodu­
zione della Chiesa cattolica; l’elemento nazionale era soltanto la
sostanza terrena, materiale, collocata al posto di quella cristiano­
spirituale nell’involucro del dogma. L a scala, per cosi dire, verso
il trascendente, era interrotta, e limitata al piano del mondo ter­
reno. Certo, contro il dogma nazionalista schmittiano perdurò
sempre una certa diffidenza germanica, che il nazionalsocialismo
non riusci mai a superare nei confronti del suo giurista. Baeumler
riusci ad evitare questa diffidenza, che avrebbe potuto risvegliarsi
anche verso di lui, seppellendo le tendenze cattolico-universalisti­
che della sua ideologia nazionalista sotto la mitologia nordica e la
leggenda germanica. Il cattolicesimo “ nazionale ” di Baeumler
soddisfaceva alle più sensibili esigenze germaniche; qui Baeumler
andava a braccetto con Rosenberg.
Se il protestantesimo era il modo tedesco di restare ancora cri­
stiani, il cattolicesimo nazionale è il modo germanico di ridiven­
tare cristiano-cattolici. Schmitt sollecitò la restaurazione, gradita
all’alta borghesia, del mondo formale cattolico-medioevale come
un legato latino-romano, che esteriormente subisce qualsiasi adat­
tamento, ma conserva in modo rigido ed, inflessibile la propria es-

342
S C IE N Z A M IL IT A N T E

senza fondamentale; Baeumler invece era un alchimista, che pre­


sumeva di trarre da ogni vile materia pagana oro germanico.
Sull’uomo Baeumler non c’è molto da dire. È uno spirito vo­
lubile, non un valido e coraggioso carattere. H a l’aspetto di uno
gnomo e, personalmente, non è né eroico né virile. Fra gli splen­
denti Sigfridi nordici, cui presta la fede che lusinga la loro idea di
razza, egli sta come un deforme, tetro nibelungo. In divisa è una
caricatura; celebra il carattere soldatesco perché non lo possiede.
Non pensa in modo sistematico, procede per idee improvvise.
Tutti quelli che non collaborano, che non “ credono,” suscitano
il suo risentimento; è come se avvertisse in loro, nel caso di un
eventuale rivolgimento della situazione, dei giudici cui non po­
trebbe tener testa. Vuol vedere intorno a sé soltanto dei complici;
chi non ha peccato con lui gli opprime la coscienza. Fa lo sgam­
betto a tutti quelli che ancora camminano eretti; dopo le ele­
zioni del marzo 1933 abbaiò a voce e per iscritto contro Oswald
Spengler, senza che questo reazionario, infinitamente più grande
e onesto di lui, ne avesse il minimo sentore. A Baeumler venne
affidata a Berlino l’eredità nazionale di Fichte; la cattedra di pe­
dagogia politica. Il suo primo atto fu quello di innalzare un rogo
a bruciare la “ letteratura indesiderabile ” : nella controversia sul
l’ateismo si sarebbe schierato a fianco dei preti contro il suo pre­
decessore. A lla fine dell’età liberale un velenoso croco autunnale cre­
sceva là dove, all’inizio, era fiorito il grande, puro Fichte. Su Fichte,
e anche su Hegel, egli trionfa insieme con Jahn; questa fluente
barba germanica aveva già capito che è più facile governare dei
ginnasti che dei pensatori. N on potendo gettare alle fiamme gli
scrittori, come fa coi loro libri, Baeumler li denuncia. Mentre
Schmitt è uno stratega dell’idea nazional-cattolica, Baeumler ne
è il franco tiratore. Dalla sua posizione nascosta osserva gli infe­
deli, per poi farli ammazzare: non potè mai consolarsi di non
aver avuto nel suo campo di tiro VArbeiter di Ernst Jiinger.
' Uno spirito metodico può portare, nonostante l’obbligo di fede
e il giuramento modernista, ad un Tommaso d’Aquino. Un im­
provvisatore come Baeumler può prosperare soltanto nel clima li­
berale, privo di coercizioni. Ogni fede è seria e difficile; alla sua
solennità mal si conviene il sibilo dei fuochi artificiali. La scin-

343
L A T IR A N N ID E

tilla d’ingegno non brilla, vista attraverso gli occhiali della fede,
e le belle trovate sparse a piene mani hanno ben poco slancio
quando si tratta di mani incatenate. I motti di spirito su ordina­
zione ricadono in terra, perché troppo pesante è il granello di
propaganda politica per cui furono ordinati. “ Dove c’è libertà di
pensiero, ” osserva il divino Lichtenberg, “ ci si muove facil­
mente nel proprio circolo; dove i pensieri sono obbligati, anche
quelli permessi hanno un’aria piena di soggezione. ” Lo spirito
che cela un aggancio dogmatico diventa insipido, e l’ironia che
segue le vie del proselitismo risulta acidula. A d un inquisitore
poco si conviene l’organizzare fuochi d’artificio spirituali, ma se-
lo fa, non può impedire che lo si sospetti di giocare al gatto e
al topo: la gente diffida dell’innocuità delle esplosioni e delle
piogge di fuoco. Le maledizioni che Baeumler scagliava contro il
liberalismo inquinavano proprio quell’aria che sola si confaceva alla
sua mentalità; Baeumler si precludeva il rifornimento d’ossigeno
di cui la sua fiamma aveva bisogno, se voleva ancora brillare.
Fin dal principio, molto più insignificante e meschino di Cari
Schmitt o addirittura di Alfred Baeumler si rivelò Ernst Krieck.
Krieck era un ex maestro di scuola; si era guadagnato gli onori
scientifici grazie alle sue ricerche pedagogiche; le fatiche e le
cure che dedicava a questioni pedagogiche, che del resto non in­
teressavano nessuno, destarono il sospetto che non avesse solo pe­
stato l’acqua nel mortaio. I suoi libri erano pedanti, aridi e pieni
d’inutile erudizione; ma, poiché si attribuiva all’ostica materia la
colpa della sua aridità, alla fine si riconobbe a Krieck il merito di
aver salvato l’onore della scienza in un campo che tutti sorvolavano
con un ampio volo. A poco a poco egli varcò i confini della sua
specialità pedagogica e sviluppò una filosofia nazionalistica, la cui
astrattezza non trascurava però di armonizzare con il conserva­
torismo rivoluzionario di Hitler. “ Quando il signore, ” scrive
Krieck, “ concepisce il suo rapporto con lo schiavo in prima linea
come obbligo, questi può raggiungere il naturale sviluppo della
sua personalità e autodeterminazione, mentre attraverso la for­
male eguaglianza giuridica dello Stato borghese, il libero contratto
di lavoro e l’assolutismo dell’economia privata il lavoratore, in
seguito alla sua effettiva debolezza e miseria, deve lasciarsi sfrut-

344
S C IE N Z A M IL IT A N T E

tare a sangue, ricevendo come compenso solo il diritto di morir


di fame. Sotto un sovrano assoluto i sudditi, in quanto il signore
concepisce il suo ufficio in primo luogo come obbligo, hanno
maggiori possibilità di sviluppo che sotto una democrazia formale,
che serve a nascosti poteri come strumento e pretesto per un di­
spotismo assoluto, per una forma velata di schiavismo e di sfrut­
tamento. ”
L ’alta borghesia non si peritò di assicurare che essa considerava
la propria posizione come un obbligo: se avesse ricevuto i pieni
poteri per ridurre a schiavitù il lavoratore, questi non ci avrebbe
perduto nulla: la perdita della libertà sarebbe andata a vantaggio
della sua personalità e autodeterminazione. Qui è evidente come
Krieck potesse divenire il vero filosofo scolastico del Terzo Reich.
Krieck proviene dal liberalismo dei maestri elementari; una
volta era un attivo protestante e un acerrimo nemico dei cattolici.
La libertà di coscienza era per lui un bene prezioso, e sapeva che
l’ascesa sociale del maestro di scuola poteva compiersi soltanto nella
scia deH’illuminismo liberale. L a sua conversione all’idea nazional­
socialista rappresentò necessariamente una rottura nella sua linea
spirituale; era un vero e proprio rinnegato. Ma non lo era tanto
perché, mentre scopriva 1’ “ idea di popolo, ” piantava in asso il
popolo vero — tutti i liberali divennero in questo senso nazional­
socialisti — quanto perché rinunciò all’opposizione radicale del­
l’uomo responsabile contro ogni specie di tutela ecclesiastica. L a
cattolicità nazionalista-clericale del Terzo Reich contraddice al
passato di Krieck cosi brutalmente, come la soggezione della co­
scienza al dogma, l’imbavagliamento della scienza e della libertà
di parola. Krieck avverte l’ambiguità della sua posizione e cerca
di padroneggiare il proprio disagio, mentre con selvaggia risolu­
tezza chiude gli occhi dinanzi alla forza dei fatti e brama arden­
temente il giorno in cui il “ vero socialismo ” gli permetta di nuovo
di essere un uomo onesto. N ell’attesa, vuota fino all’ultima goccia
il calice del destino dei rinnegati: è il capo della sezione culturale
del servizio di sicurezza; come addetto alla polizia intellettuale
sorveglia l’ortodossia nazionalsocialista dei docenti universitari
tedeschi ed è tanto più intransigente verso di loro, quanto più si
sente esitante.
L A T IR A N N ID E

Se Schmitt foggia per l’inquisizione nazionalsocialista gli stessi


mezzi giuridici d’annientamento, e Baeumler esercita il suo me­
stiere di delatore nel quadro della suprema “ commissione dell’In­
dice ” nazista, Krieck diventa, nella toga professorale, agente di
polizia contro i suoi colleghi. Questi tre sono i frutti umani che
inevitabilmente dovevano maturare sull’albero dell’idea nazista
di scienza e di università, e con i quali ora la gioventù studiosa
doveva placare la sua sete di conoscenza.
Per forza di cose nella gioventù colta si rispecchiano i moti
del tempo; nella sua sensibilità essa li accoglie e dà loro l’impronta
del suo temperamento. L a divisione delle corporazioni studente- -
sche in “ Korps ” e “ Burschenschaften ” era sorta un giorno da
motivi più profondi di un semplice casuale umore giovanile. Le
“ Burschenschaften ” riunivano in sé i giovani della borghesia li­
berale. L ’appello: “ Burschen heraus” (“ Fuori, ragazzi” ) risuo­
nava contro le potenze feudali, e il “ libero studente ” era l’udi­
tore di cui il professore spregiudicato aveva bisogno. Le autorità
sapevano, senza farsi illusioni, che l’entusiasmo degli studenti per
la libertà e la patria, per l’onore e la grandezza della nazione era
l’esplosivo borghese contro l’ordinamento della società feudale; in
ogni studente si celava un giacobino. Le persecuzioni poliziesche
non erano affatto rivolte contro fanciullaggini e banali ragazzate,
bensì contro lo spirito della rivoluzione borghese. Il “ filisteo ” era
lo studente di una volta, che mieteva nel campo economico ciò
che aveva seminato intellettualmente, e che ora non voleva essere
ostacolato nel guadagno finanziario, come non lo era stato nella
ricerca scientifica. Come studenti si acquisiva il diritto di diven­
tare filistei; biasimevole era soltanto il divenirlo anzitempo. Biso­
gnava aver versato allo spirito il proprio tributo, prima di potersi
consacrare con la coscienza tranquilla al culto del denaro.
I “ Korps ” studenteschi erano, come dichiaravano essi stessi
con orgoglio, “ più feudali ” delle “ Burschenschaften. ” In origine
accoglievano soprattutto i rampolli dell’aristocrazia, i quali capi­
vano benissimo che con la libertà e la patria sarebbero stati loro
ritolti gli ereditari privilegi aristocratici. -Più tardi, quando la
grande borghesia ebbe conquistato potenza economica e politica,
e non ebbe più bisogno di combattere il feudalesimo, mandò an-

346
S C IE N Z A M IL IT A N T E

ch’essa nei “ Korps ” i suoi rampolli. L à i suoi figli impararono*


l’educazione della piu eletta società e si procurarono relazioni ari­
stocratiche, grazie a cui le figlie dei magnati industriali venivano
impalmate conformemente alla loro condizione. Il suono del de­
naro migliorava in modo stupefacente, quando si poteva scrivere
un “ von ” davanti al proprio nome.
L ’ordinamento economico feudale era ormai ridotto a tal
punto, che la media borghesia non aveva piu ragione di mostrarsi
aggressiva ; quel che per le “ Burschenschaften ” era stata serietà
piena d’amarezza, ora divenne tradizione e scherzoso simbolismo.
Il liberalismo si faceva da sé, nessuno aveva bisogno di mettere
un’altra posta in gioco per lui. Le “ Burschenschaften ” godevano
della benevolenza della polizia; passato era il tempo in cui essa
rappresentava il loro spauracchio. Il loro compito politico era fi­
nito, potevano riposare sugli allori dei predecessori. Come i
“ Korps, ” divennero semplici collegamenti sociali : chi aveva mol­
to denaro diventava membro del “ Korps, ” chi ne aveva di meno
membro della “ Burschenschaft. ”
L ’improvviso cambiamento di clima intorno al 1933 colpi le
“ Burschenschaften ” prima e più duramente dei “ Korps. ” Esse,
come fenomeni di cristallizzazione borghese-liberale, vennero su­
bito colpite nella loro stessa esistenza, appena immerse nell’acido
dell’antiliberalismo dappertutto diffuso. L ’antiliberalismo era la
corrente in cui il liberalismo borghese si dissolveva da sé, era l’ul­
tima decisione che la borghesia aveva preso “ liberamente ” — e
implicava per le “ Burschenschaften ” la necessità di sciogliersi
di propria iniziativa. In un’epoca antiliberale alla gioventù non
poteva più essere permesso di coltivare la tradizione liberale. Le
“ Burschenschaften ” erano troppo stagionate, come i partiti bor­
ghesi. Lo erano tanto più in quanto lo stato nazionale, perfezio­
nato dal nazionalsocialismo, rappresentava senza dubbio l’estrema
pratica conseguenza dell’idea dello Stato nazionale, ma, cionono­
stante, nella sua forma cesaristica non era mai stato contemplato dal­
le associazioni studentesche. Poiché di fatto era impossibile che le
“ Burschenschaften ” sopravvivessero in veste nazionalsocialista, era
logico che i loro membri diventassero nazionalsocialisti. Quando
questo fu accaduto, dovettero alzare essi stessi la mano contro le loro

347
L A T IR A N N ID E

corporazioni; come borghesi antiliberali scavarono di loro ini­


ziativa la tomba al sacrario liberale che avevano prima custodito.
Con l’era liberale, anche le associazioni studentesche germaniche
dovevano cadere.
Invece i “ Korps ” si difesero contro la minaccia di assimila­
zione e di scioglimento. La loro resistenza non era di natura po­
litica, ma sociale. Non volevano che la gente dimenticasse che
erano “ qualcosa di meglio ” dei tribuni popolari, i quali agivano
indisturbati. I Saxo-Borussi1 di Heidelberg, che imprudentemente
avevano lasciato scappar dal sacco la gatta dei corpi studenteschi,
non erano rivoluzionari; avevano sabotato l’ascolto radiofonico di
un discorso di Hitler e sollevato la scherzosa questione di come il
Fiihrer mangiasse gli asparagi. I parvenus nazionalsocialisti furono
colpiti nel modo piu profondo da questo esempio di disprezzo
sociale; di fronte a simili puerili sciocchezze la polizia, prima del
marzo, era stata più indulgente. Diversi Saxo-Borussi subirono ar­
resti degradanti: la boria doveva abbassare la cresta. L a gioventù
hitleriana schiumava di rabbia: un antiquato romanticismo tipo
“ vecchia Heidelberg ” e un ordinamento feudale, nemico dei la­
voratori, sono gli ideali di queste corporazioni, “ che devono la loro
sopravvivenza solo ed unicamente alla magnanimità del Terzo
Reich. ” Esse stanno al di fuori della comunità popolare e sono
nemiche della nazione socialista. Il capo della gioventù hitleriana
gonfiava all’infinito la mancanza di tatto dei corpi studenteschi;
esse offrono, dichiarava con folle magniloquenza cesaristica, “ un
quadro spaventoso della rozzezza e indisciplina, anzi dell’abissale
volgarità di una piccola setta di studenti, che trinca e schiamazza
mentre la Germania lavora. Se tali elementi, nella loro abiezione,
non si fermano neppure davanti alla persona del Fiihrer, per noi
sacra, si fanno giustizia da soli. ”
Cosi il Terzo Reich trovò il pretesto di strangolare anche i
“ Korps ” ; sotto la pressione statale essi si decisero ben presto a
farla finita.
Per l’avvenire la gioventù studiosa doveva esser sottoposta sol­
tanto all’influenza nazista. Non si pensa più, non si studia più, si

1 Corporazione studentesca, [N . d. T .]

348
^f*wjpg*]$|5£V ^ JT Wm?7T,'<.

La Lira^n im

svolge solo la propria brava attività di partito. Il lavoro di partito


ha il suo peso negli esami: colma le lacune del sapere. L ’associa­
zione studentesca nazista era diventata la “ Burschenschaft ” del­
l’epoca antiliberale. Nel Terzo Reich essa innalza la pretesa di in­
corporare in sé tutta la massa studentesca. Voleva legare gli stu­
denti alle dande, per sorvegliarli durante il lavoro e il riposo e
poterli dirigere. Bisognava creare un nuovo “ tipo di comunità
studentesca ” ; il “ libero goliardo, ” come fu proclamato, “ non
vincolato da obblighi, non trova più posto nell’università nazional­
socialista. ” Mentre l’università si tramutava in un seminario sa­
cerdotale nazista, l’associazione studentesca nazionalsocialista vo­
leva provvedere a che gli allievi si mantenessero, anche al di fuori
della sfera scientifica, nella soggezione al padrone in camicia bruna.
Mediante corsi regolari dovevano essere istruiti all’infinito nel­
l’idea nazionalista; attraverso il “ lavoro d’istruzione politica ele­
mentare ” si arrivava alla formazione dei quadri dirigenti. Il gio­
vane veniva fatto passare da un esercizio di ortodossia politica al­
l’altro, si studiava la pedagogia dei gesuiti e la loro propaganda. La
casa dei camerati, in cui si sarebbe attirato volentieri ogni studente,
era il convento dove dalla mattina alla sera si viveva secondo la
regola del partito e nella pia contemplazione del Fùhrer.
Ma l’università era tanto seminario religioso quanto accademia
militare; lo studente doveva essere svelto nel maneggiare sia il
fucile che il programma nazionalista del partito. G li esercizi gin­
nastici divennero obbligatori. Non era permesso cominciare gli
studi prima di essersi esercitati per sei mesi, con la vanga, nel ser­
vizio del lavoro; e si poteva continuare solo dopo essersi provati
alla boxe e aver raggiunto, nel tiro, il prescritto numero di punti.
Ogni studente, che non si assoggettava alla disciplina militare del­
le SA, SS, del N S K K e della H J, era per l’associazione una trave
nell’occhio; “ e in futuro,” disse una volta un capo della lega stu­
dentesca, “ solo chi avrà sempre aderito a questa comunità potrà
entrare nelle università tedesche e accostarsi alle scienze. ” Du­
rante le vacanze lo studente era comandato dall’associazione al
servizio agricolo o di fabbrica, oppure spedito in un campo d’istru­
zione. Il corpo veniva esercitato finché lo spirito s’infiacchiva, disa­
bituandosi alla pericolosa curiosità. Lo studente entrava nell’aula

349
L A T IR A N N ID E

come privilegiato bigotto nazionalista e come soldato politico in


congedo; la scienza era un passatempo fra il culto politico-razzi­
sta e le marce militari. Questa era la necessaria logica delle cose,
che non poteva più mutare, sebbene ogni tanto si levasse un ti­
mido ammonimento contro una cosi esagerata astinenza culturale.
Anche Goebbels avvertiva che il necessario rifiuto e disprezzo del-
rintellettualismo non doveva condurre, alla fine, al disprezzo della
cultura in se stessa. Fu lui a coniare il significativo slogan: “ Libro
e camicia bruna devono completarsi. ” A lla fine del 1936 Rust
proclamò la parola d’ordine “ Scienza, ” e imparti l’ordine: “ Tutti
in laboratorio. ”
N é Goebbels né Rust introdussero con queste “ ragionevoli ”
parole mutamenti di rotta. La rotta, che si fonda su un’obbedienza
cieca, spirituale-politica e fisica-militare, è ormai stabilita; il Terzo
Reich rinuncerebbe a se stesso, se deviasse o addirittura tornasse
indietro. Quel che sembrava una concessione, era solo un sondag­
gio e una finta tattica. Con sua grande meraviglia, i gerarchi nazi­
sti incontrarono negli studenti innegabili segni di opposizione;
solo una piccola parte di essi prestava servizio volontario nel par­
tito, e la lega studentesca nazista aveva scarso seguito. N on si po­
teva negare che nell’atteggiamento di innumerevoli giovani verso
il Terzo Reich, le considerazioni di carriera erano più decisive
che l’entusiasmo dei cuori, e che l’idea nazionalista riusciva a per­
suadere davvero soltanto pochi. Era un problema come questa gio­
ventù potesse venir commossa nell’intimo e incatenata alle illu­
sioni nazionalsocialiste ; dei convertiti per forza non c’era da fi­
darsi. Ogni semestre si sperimentavano e si cercavano nuovi mezzi.
Le disposizioni si succedevano l’una all’altra: lo scopo inespresso
che perseguivano era quello di precludere per sempre l’università
a chi non fosse nazista.
In fondo alla coscienza, questa gioventù che frequentava i
corsi universitari era rosa dall’oscuro e sinistro sentimento di esser
finita in una situazione senza sbocco, in un vicolo cieco.
Cosi si comprende la mistica della morte di questi giovani e
perché volessero vivere per morire. L a mistica della morte è una
necessità fatta virtù. N ell’intimità del proprio essere si è consape­
voli che la qualità della propria esistenza è divenuta troppo proble-

350
S C IE N Z A M IL IT A N T E

matica, e che la cosa migliore da fare è gettar via l’intera vita. Uno
di questi giovani, Heinrich Anacker, confessa:

Was gilt dein Gliick und meines?


Und was gilt unser Leid?
Wir kennen nur noch eines:
Marschtritt im Ehrenkleid.

Versunken und vergessen


Ist all, was uns verdross,
Wenn sich die Fauste pressen
Ums blanke Koppelschloss.

Ob morgen wir noch leben?


Ob heut der Tod uns bricht?
Wir fragen kaum ■—■ wir heben
den Kopf ins kiihle Licht.

Das ist die herbe Weihe


Die unsern Weg verschont:
Magie der Viererreihe
Wenn vorn die Trommel drohnt. *

Cosi putrida era diventata ormai la causa borghese per gli stessi
figli della borghesia, che riuscivano solo ad aggrapparsi, come al­
l’ultimo arbusto, all’ottusità di una marcia militare; ma ogni cer­
vello un po’ più raffinato è ormai talmente sazio della “ magia della
fila per quattro ” divenuta fine a se stessa, da andare incontro alla
morte con entusiasmo pur di sfuggirle. Ma tutto ciò non avviene
senza la compiaciuta vanità di un piccolo bluff. Non si vuol ricono­
scere di esser nauseati della propria vita, quasi soffocati dalla sua
. mancanza di senso sociale. Il volontario sacrificio della vita, invece,
acquista un accento di eroismo; si fa la fine del bancarottiere, mo­
strandosi però in posa da eroe. Questo eroismo è la fuga in un ma-

2 A che vale la tua felicità e la mia? — e a che vale il nostro dolore? — Solo una
cosa sappiamo: — marciare in tenuta di gala. — Caduto e dimenticato — è quel che
ci mosse ad ira — quando i pugni si stringono al cinturone.
— Vivremo ancora domani? — O prima ci coglierà la morte? — N oi non ce Iq
chiediamo — alziamo il capo nella fresca luce. — Tale è l’acerbo voto che abbellisce il
nostro cammino: — magia della fila per quattro — quando in testa rulla il tam­
buro.

351
là Tirannide

cabro effetto scenico, che deve assicurare alla triste creatura almeno
una buona fama postuma.
“ Come per la conservazione di ogni società umana è necessario
difendere certi principi, ” disse una volta Hitler a Norimberga,
“ senza preoccuparsi di ottenere il consenso di ognuno, cosi anche i
quadri culturali di un popolo devono essere formati con i suoi mi­
gliori componenti. Ma quel che manca a coloro che vi sono desti­
nati come intima capacità di comprensione, quel che essi non giun­
gono a comprendere col cuore e con l’anima, questo, attraverso una
consapevole educazione, deve porli in rispetto. ”
Questo programma di stupro pedagogico è posto sistematica-
mente in atto dal Terzo Reich. Se non era la scuola a impadro­
nirsi del fanciullo, erano le associazioni giovanili, la gioventù hitle­
riana, la lega delle ragazze tedesche, in cui ragazzi e fanciulle ve­
nivano ammassati per legge. Scuole elementari e medie divennero
scuole politiche, “ scuole di chiesa ” ; la scuola confessionale catto­
lica fu messa da parte, facendo posto alla scuola confessionale na­
zionalsocialista — poiché altro non era la “ scuola collettiva laica ”
istituita allora. Il partito divenne, accanto alla scuola e alla famiglia,
il terzo potere educativo, e non rifuggi da nessun pretesto appog­
giato dallo Stato per prendersi la parte del leone. Il capo della
gioventù hitleriana rubava il mestiere al maestro; e mobilitava i ra­
gazzini, quando il maestro, difendeva la sovranità della sua aula.
Questa tripartizione del compito educativo gravava soprattutto sulle
funzioni dei maestri elementari; che a poco a poco furono ridotti
semplicemente ad insegnare a leggere, scrivere e far di conto. Lo
scatenamento illuministico delle forze spirituali urtò contro la
ragione del Terzo Reich. Allo scolaro delle elementari occorreva
per la vita, oltre che un po’ d’ortografia e d’aritmetica, anche la
capacità di leggere la bibbia nazionalsocialista, il Meìn Kam pf di
Hitler. L a scuola elementare dell’età liberale aveva messo in testa
alla gente semplice idee troppo grandiose. Il caporale federiciano,
che non aveva mai traviato un animo semplice verso la voluttà delle
gozzoviglie intellettuali, assurse a nuova considerazione; ma una
volta giunti a magnificare i suoi meriti pedagogici, nulla più im­
pediva che un giorno fossero inviati nelle aule scolastiche i. coman­
danti delle truppe d’assalto bisognosi di sistemazione. Si poteva esser

352
s c ie n z a M il i t a n t e

sicuri che il comandante delle truppe d’assalto, abituato alla cieca


obbedienza, conosceva quale fosse nel Terzo Reich la misura intel­
lettuale regolamentare, e sapeva sulla punta delle dita quanta “ istru­
zione ” fosse necessaria ad un buon seguace di Hitler. I maestri ele­
mentari si sopravvalutano, quando immaginano che il Terzo Reich
abbia bisogno di loro. Stanno seduti su un ramo secco che, per
quanto essi ne abbiano coscienza, li trascinerà, non appena spezzato,
in una precipitosa caduta.
Capitolo ventiseiesimo

Poesia ed arte degenerate

Se il liberalismo dev’essere liquidato, non bisogna trattare con


troppa delicatezza la letteratura del XIX secolo, che, nelle sue più
dignitose espressioni, ne è carica fino a scoppiare. Essa offre una
vera lista di Leporello di rovinosi eccessi. Già Schiller è una cattiva
lettura. D i fronte al cappello di Gessler sulla piazza del mercato di
Altdorf, la tormentata creatura del Terzo Reich si ricorda anche
troppo facilmente degli innumerevoli cappelli di Gessler innalzati
dal nazismo in tutte le città e i paesi, e la gola di Kùssnacht fa
venire i brividi ad ogni piccolo Hitler, per non parlare del grande.
La Defezione dei Paesi Bassi risveglia il desiderio di scuotere il
giogo bruno; il plauso che il marchese di Posa incontra, rende ine­
vitabile il cancellare la sua frase migliore: “ Conceda libertà di pen­
siero, Sire, ” e l’odio contro i tiranni dei Masnadieri è un sacrilego
scherzar col fuoco. Bisogna onorare il classico Schiller, ma non
leggere più il poeta della libertà Schiller: si potrebbe dimenticare
la differenza che passa tra un aristocratico assolutista ed un dittatore
borghese.
A d ogni modo, Schiller dava al borghese quel che è del bor­
ghese; la Canzone della campana è da lui intonata in suo onore.
Lieto e fiducioso il borghese guardava al futuro, che si stendeva
roseo dinanzi a lui; nessuno ancora gli guastava la compiaciuta
soddisfazione di sé.
N ei secoli successivi, le cose cambiarono. L a mancanza di ri­
spetto di fronte alle autorità borghesi dilagava impetuosa. L a lette­
ratura smascherava il borghese in modo da fargli perdere, in mezzo
alle sue ricchezze, la pace della coscienza. L o “ sfacciato giudeo ”
Heine incitava già all’odio di classe:
Wir wollen auf Erden gliicklich scin
Und wollen nicht mehr darben;

354
P O E S IA ED A R T E D E G E N E R A T E

Verschlemmen soli nicht der faule Bauch


Was fleissige Hande erwarben.1

I Tessitori di Gerhart Hauptmann mettevano a nudo il capitali­


smo. Si aizzava l’invidia della cucina contro la sala da pranzo padro­
nale: “ Perché io devo pulire gli stivali, mentre i padroni man­
giano ananas ? ” fa chiedere Holtei ad uno dei suoi personaggi tea­
trali. I malfattori geniali sono benvoluti, e i piu rappresentativi pi­
lastri della società vengono smascherati come fradice canaglie.
L ’ironizzazione del borghese passò infine i limiti del tollerabile:
“ E lei sarebbe un eroe ? ” chiede in Tamburi nella notte di Brecht il
borgomastro al reduce dal fronte. “ Sarà scritto sul libro di storia. ,
N el libro mastro invece non c’è niente. Per questo l’eroe andrà in
Africa. Punto. ”
II borghese che proteggeva e favoriva questo genere di lettera­
tura si dava la zappa sui piedi. Essa offendeva, non dietro le spalle,
ma apertamente e senza ghirigori, i suoi interessi, e spianava la
strada al “ bolscevismo. ” Per questo fu eliminata nel momento
stesso in cui il nazionalsocialismo giunse al potere.
L a “ letteratura sovversiva ” fu spietatamente sequestrata, proi­
bita, segregata, bruciata, mandata al macero; su interi camion la
polizia segreta di Stato trasportava nelle sue cantine la letteratura
proibita; ex-combattenti, che riuscivano a stento a decifrare i titoli
dei libri, epuravano le biblioteche ; il loro sguardo di rimprovero am­
moniva i colpevoli che piuttosto di un libro proibito, era meglio
non leggerne nessuno: questo distingueva l’uomo dabbene. Il bor­
ghese si senti risalire in gola tutti gli amari bocconi che per anni
aveva dovuto mandar giù in silenzio: ora faceva i conti con gli
autori, morti e viventi, vecchi e giovani. Gli autori che l’avevano
schernito e provocato, e che egli chiamava “ letterati senza patria, ”
divennero per lui ben presto il panno rosso contro cui si scagliava
ciecamente. Anche le più eccelse finezze della forma artistica e le
più straordinarie doti di forza creatrice non valevano più come cir­
costanze attenuanti.
H a inizio per lo scrittore tedesco un martirio senza nome. I

1 Vogliamo esser felici sulla terra -—- e non vogliamo pili stentare; — il pigro pan­
cione non deve dissipare — quel che solerti mani han guadagnato.

355
LA T IR A N N ID E

“ piu infami letterati sovversivi ” emigrarono per lo scusabile ti­


more che la loro sostanza cerebrale, sotto gli stivaloni dei “ magni­
fici ” uomini delle SS e delle SA, facesse una brutta fine. G li altri
furono costretti a tacere in modo assai radicale. Nessuno scrittore,
che non sia iscritto nei ruoli della Camera culturale del Reich,
viene più tollerato. È la tessera, non la dote artistica, a fare il grande
scrittore. Un passato marxista o liberale è un gravissimo peso, al­
meno quanto una nonna ebrea : lo scrittore non viene “ immatri­
colato, ” è soppresso. Nessun giornale, nessuna rivista porta più
una sua riga, nessuna casa editrice gli accetta più un libro. Non
esiste più nel regno dello spirito, e chi non possiede dalla culla una
seconda, più stabile capacità professionale, resta arenato. G li scrit­
tori immatricolati devono impegnarsi ad osservare la tavola dei
comandamenti della Chiesa nazionalista e il regolamento militare
del partito: “ Io mi batterò sempre, ” suona il giuramento, “ per la
letteratura tedesca nel senso del governo nazionale. ” L ’espulsione
dalla Camera di cultura è per lo scrittore un salto nel vuoto.
Ancora nella-sua agonia il liberalismo trionfò su quegli scrittori
“ nazionali ” di destra, per cui la tradizione spirituale classica era un
ovvio possesso, ma che, nell’accecamento del loro disperato istinto
borghese, avevano fatto da balia al nazionalsocialismo, finché que­
sto fu tanto cresciuto da togliere di mezzo anche loro, attraverso il
Terzo Reich. Di giorno sempre più li afferrava il presentimento di
dover morire soffocati anche loro, mentre il liberalismo agonizzante
si dibatteva cercando l’aria. A d un tratto, vollero cancellare le tracce
della loro complicità; davanti alle conseguenze delle loro azioni
atteggiarono il volto a dolore. Hans Grimm, che aveva commesso
un inespiabile tradimento contro lo spirito, Carossa, Wiechert —
per citare solo i migliori — vedevano la buia nebbia che calava su
ogni creazione artistica e sentivano il gelido soffio del Terzo Reich,
che paralizzava qualsiasi autentico stimolo spirituale, prima che
potesse giungere a dar fiori e frutti. Divennero i “ criticoni, ”
quando la Germania si trovò imprigionata nel destino che essi stessi,
poetando, cantando e parlando, avevano provocato; con le lacrime,
con cui piangevano la sciagura tedesca, volevano lavarsi della loro
colpa, quando era ormai troppo tardi.
È strano, eppure il Terzo Reich non aveva un cosi pieno co-

356
P O E S IA ED A R T E D E G E N E R A T E

raggio della sua barbarie e ottusità, da non sentire il bisogno di


giustificarsi dinanzi allo spirito; in ultima analisi riconosceva la
statura dell’epoca liberale, mentre, tormentato da un curioso senso
d’inferiorità, cercava di gareggiare spiritualmente con essa nel
campo artistico e letterario.
In tal modo s’inviluppò in una rete di contraddizioni. Lo spirito
doveva depositare uova culturali, ma fra queste non doveva es­
serci nessun uovo di cuculo liberale. Ora gli s’intralciava il cam­
mino, ora lo si colmava di goffe adulazioni. Federico Guglielmo I
bastonava/ sudditi che volevano fuggire davanti a lui, e gridava,
mentre il bastone strapazzava le loro schiene: “ Dovete amarmi,
non temermi. ” Allo stesso modo il Terzo Reich trattava lo spirito.
La Camera culturale del Reich esercitava le sue funzioni come
istituzione della “ direzione culturale ” tedesca. La direzione cul­
turale però non faceva altro che ricacciare nell’impenetrabile te­
nebra dell’anonimità qualsiasi artista creatore che si muovesse fuori
delle file e coprire di gloria e di denaro miserabili politicanti me­
diocremente dotati, e fedeli del regime affatto privi di doti. Goeb-
bels, che si faceva celebrare come “ rappresentante della coscienza
artistica e culturale contemporanea della nazione, ” faceva* subito
un fischio all’autorità statale, non appena avvistava al di là dello
steccato nazionalsocialista una testa degna di nota. L ’ “ Ufficio per
l’incremento della letteratura tedesca ” compiva la sistematica de­
vastazione di questa letteratura; i suoi lettori erano spie che denun­
ciavano alla polizia segreta ogni opera oltrepassante gli orizzonti
dell’ideologia nazista. Fu istituito il “ Senato culturale ” come
“ congregazione di uomini responsabili della creazione artistica” ;
tuttavia alla sua competenza furono subito imposti limiti assai ri­
stretti: gli fu comunicato che non poteva prendere deliberazioni
ma soltanto accrescere, con consigli non impegnativi, “ la grande
riserva d’idee e d’esperienza della Direzione. ” Mentre veniva teso lo
zuccherino, la frusta continuava a fischiare. A gli intellettuali fu­
rono promessi mari e monti nel caso che si fossero asserviti alla
svastica; è affare dello Stato, disse Goebbels, “ tendere all’arte la
sua mano protettrice e incoraggiante, scoprire i talenti e agevolare
loro la via verso l’alto. ” Lo Stato è il mecenate degli artisti.
Ma il vero talento non si può corrompere. Erano pietose figure

357
L A T IR A N N ID E

quelle insignite dei premi statali; piccoli poetastri dell’associazione


ottennero il lauro. G li “ Olimpii ” nazionalsocialisti non valevano,
intellettualmente, più d’un soldo di cacio. Hanns Johst, il “ Pre­
sidente della Camera letteraria del Reich, ” era un talento assai me­
diocre, che già nel 1933 s’era lasciato indietro il suo periodo mi­
gliore. Durante la guerra mondiale era stato un poco eroico imbo­
scato, e nei primi anni della repubblica di novembre un “ espres­
sionista assetato di distruzione. ” Ben presto non si fidò più delle
proprie forze e senti di aver bisogno delle grucce dell’appoggio
governativo, se voleva restar di moda. Si adattò al nazionalsocia­
lismo, e in modo radicale. “ Quando sento parlare di civiltà, ” fa
dire nel suo dramma Schlageter ad un lanzichenecco, “ tolgo la
sicura alla mia Browning ” ; smargiassate cosi enormi non uscirono
mai di bocca neppure a Goebbels. Johst era pieno di furore contro
quei migliori cervelli, che non soggiacevano alla tentazione di dive­
nire suoi complici; e come un arrabbiato sicario della “ Santa
V erna” strepitava contro coloro che erano troppo orgogliosi per
brucare nel cavo della mano al Terzo Reich, al contrario di lui,
privo di ogni dignità. “ Chi non collabora in letizia alla stesura del
nuovo piano, al raggiungimento dei nuovi scopi, ” dichiarava, “ an­
che se è davvero grande come presume di essere, davanti al popolo
e al nostro tempo è sempre troppo meschino. Questo tempo e il
suo Reich non ammettono più alcun egoismo. Davanti a chi si ritira
in se stesso, si ritirerà anche la mano protettrice del popolo. ”
U n’altra stella di questo firmamento poetico, Richard Euringer,
nella sua Passione tedesca che fu coronata da premio fece escla­
mare allo spirito maligno:

Das auch noch! Da zerplatz doch gleich!


Das also gibts: ein Drittes Reich?!a

Era detto sul serio; bisognava misurare come profondo fosse il


terrore che correva per Tossa del Maligno alla vista dell’opera Si
Hitler. Tuttavia l’humor che aleggia in queste righe non era nelle
intenzioni del poeta: è involontario.
Il rendimento poetico delle somme elargite dallo Stato per aiur

2 Anche questa, adesso! Ma allora è la fine! —■ Esiste dunque un Terzo Reich?!

358
P O E S IA ED A R T E D E G EN ER A T E

tare i geni “ che in versi, quadri o musiche rivoluzionarie incidano


il volto della nostra epoca,” era deludente; invece di grano, Goeb-
bels raccoglieva gramigna. Di anno in anno la sua impazienza si
faceva più pressante; e si lamentava clamorosamente, ogni volta
che paragonava tutta la schiera dei suoi protetti ad un Thomas
Mann. “ I grandi geni del nostro tempo non sono ancora apparsi,
ma un giorno verranno, ” disse alla fine del 1936. “ Forse marciano
ancora tra le file della nostra gioventù hitleriana o del servizio di
lavoro, forse sono già qui, ma non hanno ancor preso la parola.
Forse un giorno cominceranno a cantare e a poetare; allora verrà
il grande raccolto. Il desiderio più ardente di tutti noi è di poter
partecipare a quell’ora. Io sono convinto che in quell’ora tutta la
nazione presterà devotamente orecchio alle loro parole. Felice
colui che assisterà all’ora in cui Iddio prenderà la parola nel nostro
popolo. ”
L ’essenza della grande poesia è la verità, è illuminare la realtà in
tutte le più riposte pieghe. Essa ci mostra come l’aspetto più grave
e severo della vita sfiori il ridicolo, e il ridicolo la più amara serietà.
Ogni idealizzazione è piatta, e, quando incede nella toga della so­
lennità, è falsa.
Il Terzo Reich si oppone al corso delle cose, vuole di nuovo per­
petrare, come la Germania durante il Rinascimento, “ un delitto
contro la civiltà ” ; per questo è diffidente e malsicuro, ha una cat­
tiva coscienza, si circonda continuamente di baionette, vive eterna­
mente in stato provvisorio.
Il genio atteso da Goebbels non può avere alcun rapporto con
la verità. Dovrebbe riversare nei- personaggi quel che finora la sua
lingua avvezza a colossali menzogne ha saputo esprimere solo in al­
tisonanti frasi demagogiche, dovrebbbe essere soltanto un patetico
Munchhausen. Un genio di questa fatta resterà certo una insoddi­
sfatta necessità propagandistica: essere un genio significa innanzi
tutto far saltare in aria da ogni lato l’intelaiatura nazista.
La politica culturale del Terzo Reich non si accontentò di met­
tere sotto controllo l’autore della letteratura “ liberale e bolsce­
vica, ” il poeta e lo scrittore: con metodica pedanteria volle rive­
dere le bucce anche al “ distributore, ” all’editore e al libraio.
Editori e librai erano, come gli scrittori, membri obbligati della

359
L A T IR A N N ID E

Camera di cultura del Reich, ed erano annientati economicamente


se venivano radiati dalla lista. L ’attività editoriale era severamente
sorvegliata, i libri sospetti erano subito sequestrati dalla polizia,
spesso senza alcuna disposizione e richiesta ufficiale. Queste scor­
rerie poliziesche erano peggiori di una censura, la cui istituzione
fu respinta con ipocriti pretesti: bisognava conservare l’apparenza
di una libertà da molto tempo soffocata. L ’editore che manteneva
la sua impresa pulita ed estranea alla letteratura nazista, non era
mai sicuro di non esser ridotto sul lastrico da espropriazioni
forzose.
Fu istituito un indice dei libri più vasto, più perfido, più me­
schino di quello della Chiesa cattolica, di cui però soltanto gl’ini­
ziati e gli eletti potevano prender visione. Goebbels temeva lo
scherno del mondo, e a ragione. Nessuno soffriva di questa misti­
ficazione più del libraio, che non sapeva più cosa fosse lecito
vendere; se sbagliava, gli chiudevano il negozio. Viltà e paura do­
vevano spingerlo ad esporre, offrire e raccomandare ai clienti solo
la letteratura nazista. “ Io non tollererò più a lungo,” minacciò,
Johst ai librai, “ l’assioma della dittatura del pubblico acquirente,
poiché il pubblico acquirente è il popolo, ma il popolo vuol essere
persuaso. Nemmeno l’arte cristiana era attesa dal mondo; essa gli
fu imposta con dolce violenza. ”
Case editrici e librerie furono ridotte in una stuazione, in cui a
poco a poco dovettero atrofizzarsi e morire da sé: un bel giorno
sarebbero cadute, come, un frutto maturo, e indegne perfino di
una ricompensa, in grembo all’Eher-Verlag: questa casa editrice,
in quanto statale, col suo principale azionario Hitler voleva at­
trarre a sé, monopolizzandoli senza concorrenza, la . direzione, il
soddisfacimento, il prodotto di tutte le necessità spirituali tedesche.
In ogni campo, sia artistico sia letterario, il genio doveva la 4
sciarsi dominare dal Terzo Reich. Come Goebbels il poeta geniale,
cosi Hitler cercava il geniale artista.
Poiché Hitler in gioventù aveva avuto qualche familiarità col
pennello, si sentiva come un figlio delle Muse, che, giunto al po­
tere politico, fosse chiamato ad inaugurare un’età periclea. Nel
1930 aveva detto: “ Se gli artisti tedeschi sapessero quel che un
giorno faremo per loro, non ci combatterebbero, ma si schiere-

36b
P O E S IA E D A R T E D E G EN ER A T E

rebbero al nostro fianco. ” Aveva il “ pallino dell’arte, ” e si faceva


tanto più chiacchierone, quanto meno la gente osava armarsi
d’ironia per contraddirlo.
Certo, Hitler non avrebbe lasciato i suoi artisti dipingere, mo­
dellare, costruire con la libertà con cui l’uccello canta fra i rami.
Il pittore medioevale traeva i suoi motivi dalla Bibbia; il pittore
del Terzo Reich doveva attingere i suoi dal Mein Kampf.
Hitler redasse il regolamento per gli artisti, cosi impegnativo ri­
spetto all’ideologia nazista come per qualsiasi aspirante fun­
zionario.
Nel patrimonio ereditario dell’uomo nordico-ariano, tale era
la sua precipua convinzione, è radicato sia l’ideale antico della bel­
lezza sia quello che compete al rinato popolo tedesco. “ I greci e i
romani allora si rivelano cosi vicini ai germani, perché tutte le
loro radici sono da ricercare in una razza comune. ” Soltanto
l’idea nordica, in avvenire, avrà diritto di cittadinanza nel­
l’arte tedesca. Quel che non è compatibile con essa viene estromesso
senza riguardi. Il “ culto cubista-dadaista della primitività ” è
nihilismo marxista; è il segno della degenerazione, di un “ sem­
pre più corrotto e morboso abbrutimento. ” Nessun’anima inge­
nua ed incorrotta trova la sua espressione nei quadri e nelle scul­
ture “ dei nostri dadaisti, cubisti e futuristi o di presuntuosi im­
pressionisti ” ; i “ fabbricanti” di queste opere sono “ incapaci,
imbroglioni, pazzi. ” Il compito dell’arte non è “ ricordare all’uomo
i suoi fenomeni di degenerazione, bensì ovviare ai fenomeni di
degenerazione indicando la salute e la bellezza eterna. ” L ’artista
si distingue per la capacità di “ innalzarsi sull’elemento primitivo
e nobilitare i grossolani lineamenti della vita. ” Soprattutto — tale
è la dottrina che Hitler ha tratto dalle proprie esperienze — l’ar­
tista è un imbianchino che ricopre di bei colori il luridume della
esistenza. Questa è la concezione dell’arte di tutti i farisei, c Hitler
è un fariseo “ nordico.”
I musei vennero epurati, e le opere che portavano il segno
dei secoli avvenire confinate in magazzino. N egli artisti “ libe-
rali-bolscevichi, ” contro cui Hitler avventa i suoi fulmini, opera già
il senso vitale dell’età post-borghese. Nella dissoluzione delle for­
me una tradizione ricade nel grembo caotico* da cui nasce un

361
L
L A T IR A N N ID E

mondo nuovo; presentimenti di questo mondo in divenire covano


nelle informi s in fo n ie ^ colori. L ’arte di Nolde ha bruciato die­
tro di sé i ponti borghesi, e Barlàch è l’annunziatore di quell’infi-
nito orientale, che bussa alle porte della Germania.
“ N oi tutti, ” dice Hitler, “ dobbiamo nutrire perciò un solo
fervido desiderio, che la Provvidenza ci doni quei grandi maestri,
i quali facciano risuonare le nostre anime delle loro armonie, e
le eternino nei loro marmi. ” Ma la grande personalità deve limi­
tarsi a tradurre in suoni, colori e figure di marmo i dogmi di
Hitler. Deve andare a scuola da Schulze-Naumburg, e deve farsi
correggere nella brutta copia le rune nordiche. Allora Hitler e
Goebbels le suoneranno i tamburi propagandistici; non avrà nes­
suna libertà di creare, ma in compenso molto denaro.
Perfino nella musica moderna rumoreggiavano i demoni “ del­
l’arte bolscevica” ; questa musica affliggeva l’orripilato orecchio
del borghese, come lamentava Rosenberg, “ con costruzioni che
contraddicevano a tutto il ritmo vitale del tedesco. ” Le nuove mu­
siche furono dunque fatte tacere con l’autoritaria violenza con cui»
il Terzo Reich metteva fuori combattimento, senza scrupoli, quel
che non si confaceva al suo stile. Per superarne il frastuono, fu evo­
cato Richard Wagner. A llo stesso tempo si eliminarono tutti i com­
positori, virtuosi, direttori, perfino librettisti ebrei : Richard Strauss,
alla fine, fu deposto da presidente della Camera musicale del Reich
perché il testo della sua opera La donna senza ombra era stato
scritto da Hugo von Hoffmansthal.
Il grande direttore Wilhelm Furtwaengler fu l’unica “ cele­
brità ” a ribellarsi contro questa “ politica culturale ” ; il suo tem­
peramento lo spingeva a spezzare una lancia, particolarmente in
favore di Hindemith. “ Soltanto una discriminazione io ricono­
sco, in ultima analisi, ” scriveva l’n aprile 1933 a Goebbels, “ quel­
la fra arte buona e arte cattiva. ” Questa discriminazione, prose­
guiva, era trascurata. Non si può contingentare la musica, come
il pane e le patate. Lo spirito antipatriottico e sovversivo possiede
anche i campioni del germanesimo. L a lotta contro i veri artisti
non è nell’interesse della vita culturale, “ non foss’altro perché gli
artisti, dappertutto, sono troppo rari, e nessun paese può permet­
tersi di rinunciare alla loro opera senza subire una perdita cultu-

362
W^swpBB^rsas

P O E S IA ED A R T E D E G EN ER A T E

rale. ” Uomini come Walter, Klemperer, Reinhardt ecc., degli


ebrei dunque, dovrebbero “ anche in avvenire aver la parola, in
Germania, con la loro arte. ”
Nella risposta Goebbels sviluppava la sua teoria dell’arte. “ Co­
me politico tedesco io non posso riconoscere soltanto la discrimi­
nazione che Lei vuol sostenere, quella fra arte buona e cattiva. ”
L ’arte deve anche “ apparire adeguata al popolo. ” Arte in senso
assoluto, come la riconosce la democrazia liberale, non può esi­
stere. Buona dev’essere l’arte : “ ma inoltre, anche pronta alle re­
sponsabilità, valida, vicina al popolo e battagliera. ”
Nessuno di questi demagoghi aveva autentici rapporti con
l’arte, in cui vedevano soltanto uno speciale strumento per effetti
propagandistici. In quanto essa dava lustro estetico alle tendenze
reazionarie, si onoravano i suoi “ maestri” ; in quanto era in lega
con le opposte correnti socialrivoluzionarie, era “ arte bolscevica. ”
L ’arte era apprezzata secondo la sua utilità nazista; la buona vo­
lontà nazista compensava in pieno, turava le falle, là dove la
potenza artistica veniva meno. Anche quando la critica chiudeva
un occhio di fronte alle “ opere d’arte ” sbocciate al sole clemente
del Terzo Reich, codesti aborti facevano cattiva riuscita; nem­
meno l’indulgenza poteva aiutarli.
Goebbels aveva osservato con disappunto come, dopo la morte
della critica politica, l’industria dei divertimenti avesse indivi­
duato una redditizia possibilità economica nel creare all’uomo un
rifugio in cui potesse senza pericolo sfogare criticamente il suo
cuore. Egli non era disposto a concedere privilegi a comici ed
umoristi; il Terzo Reich non tollerava nemmeno una “ libertà
dei buffoni. ” Quando in due cabarets berlinesi, “ Katakombe ” e
“ Tingeltangel, ” alcuni spiritosi conferenzieri cercarono di far
deU’umorismo a spese del Terzo Reich e dei suoi beneficiari, la
polizia entrò in azione. L a dichiarazione ufficiale era gonfia di
sdegno: “ Il nuovo Stato non può tollerare che le sue istituzioni,
che servono soltanto al popolo, vengano sottoposte ad una critica
sovversiva e maligna da parte di una cricca minuscola, ma appun­
to perciò tanto più sfrontata e arrogante. ” Il nazionalsocialismo
non ripeterà gli errori della Germania anteguerra, che non riu­
sciva a frenare il dileggio delle sue grandi istituzioni fondamen-

363
L A T IR A N N ID E

tali, come l’esercito, la scuola ecc., e-per questo era crollata anche
nell’ora del pericolo. Poiché risultava in modo irrefutabile che
una parte dei colpevoli — comunicò il ministro della Propagan­
da in tono di lacrimosa, finta ipocrisia e di infame farisaismo —
era solo superficialmente, o per nulla informata sulle importanti
istituzioni del nuovo Stato contro cui aveva sfogato la propria
bile, si sarebbe concessa a quella gente l’opportunità di riprendere
il tempo perduto con un decoroso e solido lavoro in un Lager.
La critica è, per sua natura, “ liberale ” ; l’uomo che esercita la
critica dispone di un proprio, libero terreno, in cui attribuisce più
importanza a se stesso che alfe autorità. L a critica limita il potere
delle autorità: per questo viene implacabilmente soffocata da
ogni Chiesa che parli in nome di un onnipotente, dalla cristiana
come dalla nazionalista. Le cose “ sacre ” non devono essere sfio­
rate da scherzi, frizzi ed ironia. Il dogmatico nazionalista-razzista
può andare in rovina a causa di uno scherzo, proprio come il dog­
matico cristiano. Il dogma, che abolisce d’autorità il dialogo e
la discussione e vorrebbe arrestare direttamente la dialettica dello ,
sviluppo, è per sua natura negato allo scherzo e all’umorismo. Per
questo Goebbels colpi si duramente il “ Tingeltangel ” e sca­
tenò con illegale arbitrio la brutalità delle SS e delle SA contro
quegli intelligenti e coraggiosi artisti.
Poiché il Terzo Reich regolava l’intera esistenza della nazione,
era responsabile di ogni fenomeno della vita politica, sociale, spi­
rituale; chi colpiva una parte, feriva il tutto. Le frecce scagliate
dalla critica artistica, dato che ogni opera artistica non poteva in­
traprendere il suo cammino senza il benestare ministeriale, face­
vano soffrire anche il Terzo Reich. La sua competenza artistica
era posta in dubbio: v’era un punto, quindi, in cui non era infalli­
bile. Sorsero opere d’arte in cui il Terzo Reich si vedeva rappre­
sentato in modo particolare: quando la critica non lasciava loro
in testa un capello sano, si trattava di un eccesso di ostilità contro
lo Stato. Il Terzo Reich si contorceva ancora sotto i colpi mortali
che nel 1876 il critico d’arte viennese Hanslick aveva inferto alla
musica di Richard Wagner. L a critica d’arte divenne lo scudo
dell’opposizione politica; il riso che l’opera d’arte suscitava, era
diretto in realtà contro il Terzo Reich, le sue istituzioni e la sua

364
P O E S IA E D A R T E D E G E N E R A T E

ideologia. È questo il prezzo che ogni sistema di governo dispo-


tico-assolutista deve pagare: alla fine non gli resta più un solo
settore, in cui non sia sensibile al dolore in misura estrema. Il mi­
nimo tocco gli fa male, e comincia a urlare non appena scopre
un dito che indica una delle sue innumerevoli ferite.
Come il Terzo Reich aveva distrutto tutte le organizzazioni
autonome — ad eccezione della Chiesa cattolica — poiché anche
la più inoffensiva poteva divenire un giorno il punto di cristalliz­
zazione di un moto di resistenza, cosi alla fine proibi anche la
critica d’arte, che, a un dato momento, avrebbe potuto avviare una
campagna contro tutto il Terzo Reich. L a critica d’arte era stato
il legittimo nascondiglio dello “ spirito di ribellione bolscevico. ”
E anche ora essa recalcitrò, poiché nulla è più contagioso di una
renitenza arditamente ostentata. Una parola dall’alto ristabilì il
rispettoso silenzio che si conviene ai credenti e ai soldati.

365
Capitolo ventisettesimo

Correnti d’opposizione borghese

A i regimi tirannici conviene porsi sotto la protezione divina;


in questo caso possiedono solide basi, perché la ribellione contro
di essi può essere punita come sacrilegio verso la maestà divina.
Il Terzo Reich non si lasciò sfuggire il supplemento d’autorità
che l’idea di Dio, ridotta a una formula di pensiero e di valuta­
zione, poteva procurargli. Esso seppe trarre da questa formula
inattese scintille, mentre la incorporava direttamente, come par­
te tangibile, nella sua vita, invece di adeguare ad essa la propria
vita, sia pure entro certi limiti come accadeva nei secoli preceden­
ti. Il Terzo Reich non voleva vivere in Dio, bensì Dio doveva vi- ,
vere nel Terzo Reich; non si accontentava di partecipare a Dio,
ma voleva essere lui stesso di natura divina. Nella sua presun­
zione ascrive a se stesso il merito esclusivo dei “ miracoli che ha
compiuto ” : bisogna esser divini per attuare simili opere. Il “ di­
vin o ” è una misura che si confà soltanto a quello che oltrepassa
le facoltà umane: il Terzo Reich reputa le proprie azioni cosi grandi
da superare ogni semplice opera umana: grazie ad esse ha dimo­
strato a se stesso e al mondo il proprio carattere divino. Ma il Terzo
Reich è creazione di H itler; soltanto un uomo divino, o un dio
fatto uomo, poteva riuscire nell’impresa. L a divinizzazione di
Hitler tradisce il desiderio del Terzo Reich di durare eterno:
dieci, venti, trenta, cinquantamila anni, come dicono gli stessi capi
nazisti. Quel che gli uomini edificano crolla; solo l’opera degli
dèi resiste al tempo.
Vereconde mature vergini cominciarono a consacrare altari
ad H itler; più tardi il suo ritratto apparve persino sugli altari
di alcune chiese evangeliche. In uno scritto di protesta indirizzato
dalla Chiesa evangelica a Hitler, si deplorava che il suo pensiero
(di Hitler) fosse preso dal popolo sempre più sfrenatamente a

366
C O R R E N T I D * O P P O S IZ IO N E B O R G H E SE

norma non solo delle decisioni politiche, ma anche morali e giu­


ridiche, “ e la sua stessa persona rivestita della dignità religiosa
del sacerdote, anzi del mediatore fra Dio e il popolo. ” Nei loro
pubblici discorsi Gòring, Goebbels e soprattutto Ley incitavano
il popolo a venerare in Hitler una figura religiosa. Il padrenostro
fu mutato in un hitlernostro. Si senti dire che i santuari avevano
acquistato un senso solo dopo aver dato diritto di cittadinanza al
culto del divino H itler: per questo erano luoghi sacri: “ Non
voglio rendermi colpevole di nessun sacrilegio, ” dichiarò nell’esta­
te 1936 il comandante in capo delle SS, Schulz, al castello di Cròs-
sinsee, “ però chiedo, chi è più grande, Cristo o Hitler ? Cristo,
morendo, aveva accanto a sé dodici discepoli, che però non gli
furono nemmeno fedeli. Hitler invece ha oggi dietro di sé un po­
polo di 70 milioni. ”
Il Terzo Reich parteggia per la Roma antica contro la Roma
cristiana. Hitler è, in contrasto col papa cattolico, il divo Augusto,
è più grande di Cristo, è Dio. Dinanzi a lui si piegano le ginoc­
chia, egli è al di sopra di ogni critica. Contro una divinità non
esiste alcun diritto alla resistenza, l’opposizione è sacrilegio, è be­
stemmia. Davanti a Dio si ha sempre torto, ed è un pensiero edi­
ficante, afferma Kierkegaard, che le cose stiano cosi. Il primo
oppositore di Dio fu Satana; poi, se qualcuno si ribella all’Onnipo-i
tente, precipita nell’inferno oppure, come Prometeo, viene inca­
tenato a una roccia e straziato da un avvoltoio. Come Dio fu im­
placabile contro il ribelle Lucifero, cosi può esserlo Hitler cóntro
ogni saccente brontolone. L ’opposizione contro Hitler è un delitto
metafisico, è nefanda ed urta contro le leggi cosmiche; l’opposi­
tore non viene propriamente punito, ma maledetto. La suprema
gerarchia trova qui un terreno facile e comodo, non ha bisogno
d’essere giusta. Il blasfemo è messo in fuga con pece e zolfo, per
lui non c’è altra giustizia che la morte fra le torture. Quando
Hitler parla, chi non lo ascolta è perduto. Il Fùhrer ha sempre
ragione, ripetono i dirigenti nazisti; davanti a lui in ogni caso si
ha sempre torto, e dà scandalo chi gli si dimostra ostinatamente
contrario. Egli chiede un’obbedienza assoluta, un’obbedienza che
tanto più nobilita l ’uomo, quanto più va contro il suo pensiero,
anzi la sua vera natura e tutti i suoi istinti. L ’oppositore non trova

367
La tirannide

alcuna scusa e giustificazione, è un rinnegato, un traditore della


patria, un nemico dello Stato e non sfugge agli angeli vendicatori,
agli uomini delle SS e della Gestapo.
L a deificazione di Hitler non avviene naturalmente, è imitata
dall’esempio di Roma antica. Come si era abbozzato il disegno
di una bandiera artificiale e di una bizzarra uniforme, allo stesso
modo s’inscena la divinità di Hitler. E lo si fa perché “ la storia
insegna ” che il divinizzato si sottrae alla sfera dell’insicurezza,
dell’inquietudine, della problematica, che diventa un feticcio, un
tabù, e con lui anche i suoi preti e la sua chiesa. Si sfrutta la po­
tenza d’un tratto acquistata per organizzare subito quel sistema
di difesa di cui il potere si circondava nei secoli precedenti. Non
si costruiscono i bastioni dopo essersi bene installati, ma subito,
non appena prese in mano le redini. L a divinizzazione di Hitler
è un accomodamento frenetico; tradisce paura e debolezza, non
forza e coraggio.
Si arriva a gettar la colpa su quell’opposizione che leva la sua
protesta contro evidenti e tangibili orrori e mostruosità come 1
campi di concentramento e le uccisioni del giugno. Nessun Voltaire
deve più fare, dell’esecuzione di un innocente, un “ caso Calas, ”
nessuno Zola un “ caso Dreyfus ” dell’espulsione di un uòmo mal­
visto; nessun “ j'accuse” deve più sobillare i sudditi contro i loro
sovrani. Tollerare le infamie dei tribunali è “ sacrificio offerto alla
Giustizia. ” G li assassini giudiziari non esistono; si tratta di male­
vole sviste di nemici dello Stato, di “ favole ” e di astiose, errate
interpretazioni. Chi si fa avanti ad accusare un assassinio giudizia­
rio, o un “ crimine poliziesco ” o un “ arbitrio ministeriale, ” si
rivela da sé come un puzzolente insetto, che l’autorità statale pre­
ferisce senza troppi complimenti schiacciare contro il muro. La
protesta umanitaria è alto tradimento, e chi infastidisce il Terzo
Reich nella sua opera sanguinosa con fioretti umanitari, è un uo­
mo senza onore e maturo per il carcere.
Nei tribunali, un governo dispotico ostenta con grande e ce­
rimonioso apparato il suo potere di vita e di morte. Il prestigio,
l’autorità di un regime tirannico vengono profondamente colpiti,
quando la sua giustizia ha un punto debole, e tanto più quando

368
^ ' " t; "

C O R R È N T I d ’o p p o s i z i o n e B O R G H E SE

questo punto debole viene scoperto. L a rivelazione di tali maga­


gne è autentica lotta politica.
Quando si cominciarono a compiere assassini giudiziari e infa­
mie poliziesche in favore della società borghese, la coscienza del-
1’ “ umanitarismo ” borghese si mostrò di una robustezza sorpren­
dente. Già le spaventose violenze commesse contro i lavoratori
nel periodo dal 1918 al 1923 non avevano arrecato nessuna inquie­
tudine al borghese che allora aveva provato una gioia maligna
nel vedere cosi posti in fuga gli avversari. Il libero docente di
Heidelberg, Gumbel, che aveva compilato una rassegna statistica
degli assassini rimasti impuniti, fu trattato non come un eroe del­
la verità e della giustizia, al pari di Zola, ma come un cane ro­
gnoso. A queste accuse il borghese chiudeva le orecchie, gridando
che in tal modo si tradivano segreti di Stato. Il pathos del faccuse,
rivolto contro di lui, non gli faceva alcuna impressione; conosce­
va bene questa solfa e sapeva che era tutta composta di note false.
L ’ “ appello alle sue ghiandole lacrimali ” falliva, quando si trat­
tava di piangere i propri misfatti. Soltanto perché, dopo il 1933, i
servi delle Chiese furono talvolta colpiti dagli abusi delle autorità,
le Chiese osarono qua e là in modo prudente e riservato, richia­
marsi ai sentimenti umanitari. Osservava un memoriale della Chie­
sa confessante (Bekennende Kirche) : “ La coscienza evangelica, che
si ritiene responsabile per il popolo e il governo, viene assai du­
ramente colpita dal fatto che esistano ancora i campi di concen­
tramento e che le misure della polizia segreta siano sottratte ad
ogni controllo giudiziario.”
Come era inutile protestare contro le torture inquisitorie della
Chiesa cattolica in nome della dottrina dell’amore, cosi non era
possibile opporsi alle azioni di guerra civile della società borghese,
alle torture inflitte dal Terzo Reich, facendo appello allo spirito
d’umanità.
Il Terzo Reich costringe, se cosi si può dire, tutta la Germania
nella gabbia del partito. Chi si rifiuta di entrarci, smette di esser
tedesco, poiché al di fuori della gabbia non v’è piu nessuna Ger­
mania. La Germania fu rimpicciolita con la violenza; solo quella
nazista potè sopravvivere. A nessuno fu risparmiata la decisione,
se diventare nazista o non esser più tedesco. Con noncuranza dav-

369
LA t ir a n K IL E

vero grandiosa il Terzo Reich si sbarazzò della zavorra di quella


prepotente multiformità tedesca, che non si lasciava imprigionare
né livellare. Esso ridusse tutte le cose tedesche alla formula di una
semplicissima polarità: da una parte la croce uncinata, dall’altra
la stella sovietica. Chi stava nel mezzo, doveva scoprir le carte.
Grazia e perdono non erano concessi: chi sfuggiva alla croce unci­
nata, era assegnato alla stelL rossa, divenendo nemico del popolo e
dello Stato, tedesco rinnegato, uomo senza onore, fuorilegge.
G li strati borghesi che ancora seguivano le tradizioni spirituali
dell’idealismo germanico e conservavano ancora l’orgoglio liberale
dell’istruzione e della proprietà — il loro “ orgoglio di classe ” —
all’inizio si rifiutarono di sottostare a questa alternativa che ridu­
ceva tutti sullo stesso piano; volevano, nonostante tutto, rappresen­
tare un gruppo a sé. Il nazionalsocialismo poteva pure compiere
la sua funzione rispetto alla piccola borghesia e alla classe operaia,
ma loro non volevano essere trascinati insieme nel suo vortice ; pen­
savano di poter disporre di “ ufficiali ” che avrebbero riportato il sei*
vaggio tumulto del primo momento di esaltazione nei binari del­
l’ordine. Se per il “ nero-rosso-oro, ” la bandiera “ insudiciata di
marxismo ” della republica di Weimar, non c’era piu posto nel
Terzo Reich, tuttavia a nessun costo doveva essere ammainato il
nero-bianco-rosso; solo a malincuore fu ammessa l’equiparazione
imposta all’inizio dalla croce uncinata. L a bandiera della svastica
ha un largo sfondo rosso sangue; sventola in testa a un moto po­
polare, sa di rivoluzione, di sudore delle masse. L ’istinto antidemo­
cratico trovò indicibile difficoltà ad abbassarsi sul terreno della de­
magogia cesarista di H itler; il disagio che si osservava di fronte a
questa costrizione, si rivelò come opposizione dei nazionalisti te­
deschi e dell’ “ elmo d’acciaio ” — come opposizione della reazione.
“ La reazione abbraccia tutto ciò che ci oppone una resistenza po­
sitiva e non collabora volentieri con noi, ” disse una volta il consi­
gliere di Stato Gorlitzer. Reazionario era chi recalcitrava, chi voleva
sempre “ farsi cuocere una salciccia extra, ” chi non capiva che in
avvenire la gente distinta sarebbe rimasta gente distinta, solo se si
fosse comportata poco distintamente, “ in modo popolaresco, come
qualsiasi uomo della strada. ”
N el suo discorso pronunciato a Marburgo il 17 giugno 1934

370
C O R R E N T I D ’O P P O S I Z I O N E B O R G H E SE

■ Papen prestò voce alle lamentele di questa reazione. Il “ processo


d’epurazione,” cominciato nel febbraio 1933, egli disse, aveva
pure prodotto delle scorie, da cui ora doveva purificarsi. In realtà
sarebbe compito della stampa informare il governo, “ dove si
sia annidata la corruzione, dove uomini disadatti occupino posti
sbagliati, dove si pecchi contro lo spirito della rivoluzione. ” Ma
poiché la stampa non illumina queste tenebre misteriose, deve in­
tervenire di persona l’uomo politico e chiamar le cose con il giusto
nome. Il governo mostrerebbe cosi di ricordare l’antico detto, “ se­
condo cui soltanto i deboli non tollerano critiche. ”
La necessità di un radicale mutamento d’indirizzo è stata ri­
conosciuta anche da uomini che “ rifuggivano dalla via di una con­
versione verso il partito di massa.” Questo moto conservatore-ri­
voluzionario si è differenziato dal nazionalsocialismo per la sua
tattica. La storia ha dato ragione alla tattica nazista, che percorse
fino alla fine la via della democrazia, “ per poi arrestarsi al non
facile problema di come fosse possibile attuare le idee della ditta­
tura assoluta, dell’autorità totale, del principio di selezione aristo­
cratica e dell’organico ordinamento nazionale.” L ’uomo di Stato
deve capire con chiarezza che a lui è dato soltanto riformare lo
Stato, non la vita stessa. Non tutta la vita può essere organizzata,
a rischio di meccanicizzarla. L a vera rivoluzione del ventesimo se­
colo è quella della personalità eroica e divina contro ogni costri­
zione nemica della vita, contro il soffocamento della divina scin­
tilla, contro la collettivizzazione e la meccanicizzazione, che non
sono altro se non l’ultima degenerazione del liberalismo borghese.
Lo Stato può favorire una certa concezione della storia, ma non
la può comandare. Il senso del nostro tempo è chiaro: si tratta di
decidere fra l’uomo credente e il non credente, fra santità e monda­
nità. L a vita dev’esser sottoposta nuovamente alle leggi naturali
della creazione. Da qui derivano chiare istanze : “ Il tempo del­
l'emancipazione della classe più umile da quella più elevata è fi­
nito. ” Il principio della sovranità popolare dev’essere abbando­
nato. Infine lo Stato germanico deve trovare un’autorità suprema
che sia sottratta, una volta per tutte, alle lotte politiche della dema­
gogia. Bisogna fondare un nuovo ordine sociale. Ora il nazional­
socialismo ha ripristinato il contatto con le masse. “ È sorta cosi

371
L
La T irannide

una specie di democrazia diretta, per ricondurre allo Stato le


masse che se ne allontanavano. ” Dietro questa necessità sta una
meta più alta : “ L ’istituzione di un ordine sociale che si fonda su
forme organiche generalmente valide, e non soltanto su un abile
dominio delle masse.” A l Parlamento deve subentrare una rap­
presentanza degli stati. L a coscienza popolare, che venera le tradi­
zioni nazionali, non ostacola la creazione di grandi aree econo­
miche. A d ogni modo a questa ^fissione imperiale appartiene la
conoscenza della natura dello Stato sovrano, “ che certo non per­
mette nulla che sia di danno allo Stato, ma nemmeno pretende
che tutto passi attraverso lo Stato. ”
La logica storica esige che allo Stato laico liberale del 1789 se­
gua lo Stato religioso della controrivoluzione tedesca. N oi do­
vremmo esser felici di trovare nel cristianesimo una base unitaria.
E si lotterà per decidere se il nuovo impero tedesco sarà cristiano
o si perderà nel settarismo e in un materialismo semireligioso. Le
lotte religiose, cosi provocate, scatenerebbero forze contro cui ogni
potere s’infrangerebbe. N oi non possiamo operare nella sfera eu­
ropea, “ se ci escludiamo volontariamente dalla schiera dei popoli
cristiani. ” Nelle più nobili anime e nei migliori cervelli d’Europa
germina l’idea di un nuovo partito ghibellino europeo, “ che però
porta in sé l’ideale di quella concezione aristocratica della natura,
di cui parla il Fuhrer. ”
Certo, fra la volontà spirituale e la prassi giornaliera della rivo­
luzione tedesca s’è scavato un abisso. L a parte intellettuale lotta per
realizzare l’ideale aristocratico della natura, quella sociale invece
è influenzata dalla dinamica “ che a suo tempo portò, nel campo
politico, al marxismo.” L a suprema autorità deve vegliare a che,
sotto altre insegne, non si rinnovi la lotta di classe. Anche i pro­
motori del principio rivoluzionario non devono diventare una
classe privilegiata. La divisione del popolo secondo il modello
greco in spartiati ed iloti non deve ripetersi. Non è possibile li­
quidare lo spirito con l’etichetta “ intellettualismo. ” “ Un intel­
letto deficiente o primitivo non giustifica ancora la lotta contro
l’intellettualismo. ” Tutto ciò che è grande viene dallo spirito, an­
che in politica. Intellettualismo della peggior specie è, comunque, il
predominio dei paroioni ad effetto. L ’umanitarismo è frutto della

372
C O R R E N T I D ’O P P O S I Z I O N E B O R G H E SE

civiltà antico-cristiana, la libertà di quella antico-germanica, la


eguaglianza davanti al giudice è necessaria premessa di ogni giusta
sentenza : non si possono screditare questi concetti come “ libe­
rali. ” Accuse di tal genere vanno “ contro la sicurezza e la libertà
della sfera di vita privata, che il tedesco ha conquistato dopo secoli
di durissime lotte. ”
11 falso culto personale non è prussiano. “ I grandi uomini non
si creano con la propaganda, bensì s’impongono per le loro azioni
e sono riconosciuti dalla storia.” L a violenza s’arresta dinnanzi
alla volontà di autoaffermazione della vera personalità. L ’appli­
cazione della disciplina militare a tutta la vita di un popolo deve
restar entro limiti che non vadano contro la condizione umana.
Errato sarebbe credere di poter unificare un popolo col terrore. Il
governo sa “ che ogni terrorismo è emanazione di una coscienza
sporca. ”
Non bisognerebbe parlar tanto di una futura socializzazione.
“ Abbiamo forse condotto una rivoluzione antimarxista, per poi
attuare il programma del marxismo ? ” Marxismo è ogni tentativo
di risolvere la questione sociale mediante la collettivizzazione della
proprietà. La mancanza di responsabilità collettiva non dev’essere
innalzata a principio dominante. È collettivismo anche il princi­
pio di un’economia pianificata, che non permette alcuna iniziativa e
responsabilità individuale e “ porta ad una irrimediabile corru­
zione. ”
Nessun popolo può prestarsi all’eterna spinta insurrezionale
dal basso, se vuol sussistere davanti alla storia. “ Prima o poi il
moto deve pure arrestarsi, deve pur sorgere una solida compagine
sociale, tenuta insieme da una incorruttibile amministrazione della
giustizia e da una incontestata autorità statale. ” Il governo è in­
formato su “ tutto ” l’egoismo, la debolezza, la menzogna, la man­
canza di cavalleria e la presunzione che possono nascondersi sotto
il manto della rivoluzione tedesca.” Il ricco tesoro di fiducia che
il popolo dona al governo è minacciato. Il popolo ha un senso
sottile della giustizia e dell’ingiustizia, e sorride dei goffi tentativi
d’ingannarlo con falsi orpelli. Non si può stimolarlo con l’istiga­
zione e le minacce contro innocenti connazionali. Non si dovrebbe
tacciare di malevolenza ogni parola di critica, non si dovrebbe bol-

373
L A T IR A N N ID E

lare dei disperati patrioti col marchio di nemici dello Stato. Un


popolo privato dei diritti civili non ha alcuna fiducia da donare.
I fanatici dottrinari dovrebbero esser costretti a tacere. “ Se noi
rinneghiamo la grande eredità culturale, se disprezziamo o mal­
trattiamo la storia millenaria dU nostro popolo, quella trimille­
naria del nostro continente, dimenticheremo anche le grandi pos­
sibilità che il ventesimo secolo offre ancora una volta alla parte
migliore del popolo. ”
Il discorso di Papen a Marburgo è uno dei piu importanti do­
cumenti del Terzo Reich. Esso portò le tendenze reazionarie del
Terzo Reich ad una chiara e schietta espressione, formulando in
modo limpido ed inequivocabile ciò che il ceto dirigente borghese
attendeva da Hitler. Papen parlava come rappresentante dei veri
capi della rivoluzione nazista; Hindenburg, i generali dell’esercito,
i grandi industriali erano stati già consacrati prima. Hitler doveva,
dopo aver raggiunto il punto estremo della democrazia, tornare»
indietro e spianare la via alle forme di dominio feudale, doveva
consolidare in modo stabile la gerarchia sociale, la diversità del
censo. Le forme di dominio feudale culminano in un re e, alla fine,
in Dio.
Papen fece capire che il ceto dirigente borghese era disgustato
della facciata demagogica. Certo lo sviluppo degli avvenimenti ave­
va dato ragione alla tattica di Hitler: ma era ora di finirla con
questa tattica. I piccoli ras, che dappertutto arruffavano le penne,
dovevano esser cacciati via a calci. I caporioni erano impazienti e
spilorci, volevano ridurre le spese che la demagogia inghiottiva.
Non facevano alcun mistero del loro disprezzo per la demagogia
piccoloborghese.
Ma il discorso di Papen era prematuro; le cose non erano an­
cora arrivate a tal punto da costringere le alte sfere a parlare col
cuore in mano. Ancora non erano stati creati né coordinati gli ob­
blighi che avrebbero dovuto consegnare gli uomini indifesi alla
tirannia capitalista, organizzata secondo il sistema della società
feudale. Troppo presto l’alta borghesia voleva sottrarsi alle sue
responsabilità. Il discorso di Papen era una violazione dei patti;
ogni vecchio combattente capiva che si voleva imbrogliarlo sulla
mercede. Le illusorie imprese del Terzo Reich diventavano più

374
C O R R E N T I D ’O P P O S I Z I O N E B O R G H E SE

difficili, se con goffa franchezza si faceva pigliar ombra alle masse


prima del tempo; fu lacerato il velo di cui il Reich aveva bisogno
per nascondere al popolo la schiavitù cui andava incontro ebbro
d’entusiasmo. Non per il suo programma Papen fu tacciato di “ rea­
zionario, ” bensì per averlo spiattellato in modo cosi imprudente.
I capi nazisti erano indignati perché Papen aveva scoperto le carte
e aveva voluto mangiarseli a troppo basso prezzo.
Goebbels proibi la diffusione del discorso del suo vicecancelliere,
e appena quindici giorni dopo l’alta borghesia ricevette un buffetto
sul naso; l’assassinio di Edgar Jung doveva mostrare a Papen che
cosa in verità egli avesse meritato. Il movimento nazista era im­
pegnato a compiere gli ordini e gl’incarichi del ceto dirigente bor­
ghese, ma chiedeva che gli si desse tempo. Esiste anche una di­
pendenza del padrone dal servo; se il servo lo sabota, il padrone
è impotente. La borghesia aveva tirato troppo la corda; in cambio
le veniva inflitta una lezioncina, attribuendo a lei tutta la soz­
zura della demagogia che le faceva da serva. Doveva onorare la
bandiera rossa contro cui sputava veleno; era obbligata, come
aveva preconizzato il Vorwàrts già nel 1918, ad ammainare la sua
bandiera nero-bianco-rossa e ad abbandonarla.
La demagogia nazionalsocialista non rifuggi neppure dalla
prova di forza con l’esercito: e l’esercito si piegò. Quando la ban­
diera con la croce uncinata si liberò dalla concorrenza di quella
nero-bianco-rossa, era inteso che gli strati ostinatamente antidemo­
cratici della borghesia abbandonassero le loro riserve contro la
demagogia; insieme con l’esercito, desistettero dalla loro opposi­
zione clandestina. Mentre Hitler indirizzava ed impegnava le
masse, che l’alta borghesia temeva, esclusivamente verso la croce
uncinata, questa divenne il compendio di tutti gl’interessi borghesi.
Se le masse si schieravano solo con la croce uncinata, l’alta bor­
ghesia doveva affidare i suoi affari alla protezione di questo sim­
bolo; altrimenti non poteva contare su nessuna garanzia. Se la
causa borghese cercava protezione nelle masse, era costretta a le­
varsi il cappello davanti alla loro insegna.
Ciò ebbe gravi conseguenze per le chiese cristiane.
Per varie ragioni di carattere generale le chiese cristiane erano
d’ostacolo al Terzo Reich. Esse si richiamavano a un’istanza che, a

375
L A T IR A N N ID E

loro avviso, doveva impegnare l’uomo in modo piu profondo ed


esclusivo della comunità politica, e che perfino in caso di con­
flitto giustificava la resistenza contro di essa: bisogna obbedire a
Dio più che agli uomini. Per il Terzo Reich era insopportabile
esser cosi spinto in seconda fila. Pieno di gelosia il capo delle SS,
Schulz, dichiarò allo stesso campo d’addestramento di Cròssinsee:
“ Il nazionalsocialismo avanza in tutta serietà questo diritto: io
sono il Signore Dio tuo, tu non devi avere altro Dio fuor che me. ”
Inoltre le chiese eran organizzazioni autonome, che avevano vo­
luto porre un freno alle tendenze polverizzatrici e disgregatrici
del Terzo Reich: “ Non possiamo tollerare che accanto a noi esi­
sta un’organizzazione il cui spirito è diverso dal nostro. ” Altro,
infatti, era il suo spirito. Il Terzo Reich vuol essere una comunità
di sangue; l’unità della fede nazionale sorge dall’unità del sangue
nordico. La Chiesa è una comunità spirituale; al di sopra di ogni
diversità di sangue e di razza, l’unione nello spirito di Cristo getta
un ponte. Essa dissolve la consanguineità: “ Chi ama il padre e la
madre più di me, non è degno di m e.” L a sua idea dell’uomo fi­
glio di Dio è un elemento d’umanità, che deve trovarsi necessa­
riamente in contrasto con il principio nazista della bestialità nor­
dico-pagana: solo con difficoltà il santo cristiano può andar d’ac­
cordo con la bestia bionda. Il ruolo dell’Antico Testamento come
rivelazione divina e l’origine ebrea di Cristo non si conciliavano
con l’antisemitismo.
Sebbene la concezione nazionalistico-razzista si delineasse in
completo contrasto con i principi del cristianesimo, sebbene essa,
per il suo interno processo dinamico, mirasse a soppiantare il cri­
stianesimo, tuttavia il Terzo Reich non accettò di entrare in aperta
lotta con le chiese cristiane. Poiché anche il cristianesimo rimaneva
un valido strumento dell’interesse borghese, non si trattava di scon­
figgerlo, bensì soltanto di accordarlo con le esigenze di guerra
civile del Terzo Reich. L ’ideologia pagana era un mezzo di pres­
sione per indurre le chiese ad abbassare la cresta. Per quanto inva
licabile sembrasse l’abisso fra le chiese e il Terzo Reich, tuttavia
esistevano passaggi segreti, che non saltavano subito agli occhi,
ma non erano un mistero per gli esperti. Si rappresentava l’intro­
duzione del cristianesimo in Germania come un’invasione di elc-

376
C O R R E N T I D ’O P P O S I Z I O N E B O R G H E SE

menti stranieri antitedeschi, per fargli capire che attualmente


molte delle sue tendenze e tradizioni erano inopportune: il suo
spirito umanitario dava fastidio e i suoi elementi ebraici erano
d’impaccio. L ’autonomia delle chiese era intollerabile finché i loro
servi non si fossero trasformati in volonterosi e fidati funzionari
del Terzo Reich. Carlomagno perdette il suo prestigio storico e fu
messo alla gogna come Carlo il macellaio: cosi si fece presente al
cristianesimo che la generale necessità di sovvertire i valori e le
interpretazioni dell’antico patrimonio di tradizioni era nel corso
naturale delle cose, e che non poteva essergli risparmiato di la­
sciar cadere molte santità e molti santi. Se il cristianesimo non
voleva piu apparire straniero nel quadro del Terzo Reich, doveva
lasciarsi coinvolgere in quel moto di barbarie e di inciviltà, con cui
tutta la società borghese s’era vaccinata. Il cristianesimo doveva
addirittura, se non voleva capitolare di fronte all’ideologia nazio­
nalista, accogliere in sé una parte di essa; ma, cosi facendo, cadde
in una condizione che era la più adatta allo stato di guerra della
società borghese. Le chiese dovevano diventare organi del Terzo
Reich, come l’esercito, le SA e le SS; come tali potevano poi, poi­
ché il Cristo e il redentore avevano ancora posto in molti cuori,
seguitare a coltivare la loro specialità cristiana, impregnata di na­
zionalismo. Il Cristo di questa Chiesa, a ben guardare, era soltanto
un pupazzo storico, in cui Hitler soffiava la vita.
A d ogni modo era inevitabile che spiriti primitivi prendessero
alla lettera l’ideologia nazionalista, e l’agitassero con grande stre­
pito, non per intimidire il cristianesimo, ma per cacciarlo via del
tutto. In parte osarono attaccare apertamente: il presidente del
consiglio dello Schleswig ordinò, circa nell’autunno del 1933, di
cancellare dai programmi di studio la storia del sacrificio d’Isacco,
“ poiché l’idea di Dio in essa rappresentata non è germ anica” ; il
luogotenente del Reich di Oldenburg ordinò alla fine del 1936 di
togliere i crocifissi dalle aule scolastiche. Di solito, però, cercavano
di giungere al loro scopo per vie traverse. I fanatici nazionalisti
volevano con machiavellica astuzia scavare pian piano sotto le
fondamenta del cristianesimo, e, con l’andar del tempo, smontarlo
del tutto. Nei campi di istruzione furono covati i machiavellici pro­
getti. Là dovevano formarsi “ truppe d’assalto ideologiche. ” L ’ideo-

377
L A T IR A N N ID E

logia nazionalsocialista, cosi si diceva, esclude senza possibilità di


compromesso quella cristiana. Solo alla razza germanica è destinata
la concezione nazionalsocialista. L ’illusione cristiana è-nociva alla
collettività popolare, perché di origine straniera. La trinità nazista:
onore, diritto e patria, si oppone alla cristiana; padre, figlio e
spirito santo e alla marxista: libertà, eguaglianza, fraternità. Come
una volta si contavano gli anni dalla nascita di Cristo, in avvenire
si conteranno dalla nascita del Terzo Reich. È sbagliato dire che il
Terzo Reich vuol fondare una nuova ideologia; lo è già per se
stesso. “ Ma è meglio che Lei non ne parli, fuori. ”
Si fecero pressioni sugli uomini delle SS perché rinnegassero le
chiese, e si dedicassero anima e corpo al loro Dio Hitler. Il capo
delle SS, Himmler, seguiva anche lui concezioni infantilmente in­
genue, nordiche-wotaniche; ma la sua origine cattolica lo spin­
geva a dogmatizzarle.
Sulle ferite che il cristianesimo aveva in tal modo ricevute, Hitler
spargeva ogni tanto unguenti lenitivi, per impedirgli di rifugiarsi,
disperato, nelle catacombe e intraprendere, dal sotterraneo nascon­
diglio, una lotta per la vita o la morte. Egli ricordava il programma
del partito, che riconosceva il cristianesimo positivo e ne traeva
forza, ricordava d’aver promesso il suo appoggio alle chiese, se
avessero collaborato ad edificare il popolo e la patria. Talvolta ri­
chiamava alla memoria che nel suo libro s’era presentato solo come
riformatore politico, non religioso. Implorava davanti ai contadini,
devoti della Chiesa, la benedizione di Dio per la sua opera e sfrut­
tava l’invocazione al cielo come un bel gesto patetico. Goebbels e
Ley talvolta gonfiavano il petto, alzando piamente gli occhi al cielo
come perfetti modelli di cristiani, mentre celebravano il soccorso
invernale come la più gigantesca opera di carità del secolo.
Cosi il Terzo Reich persisteva in una torbida ambiguità ideolo­
gica. Mentre cercava di piegare il cristianesimo, mentre strizzava
l’occhio a rappresentazioni pagano-germaniche, suscitava l’impres­
sione di aver abbracciato queste concezioni ; in realtà il cristianesimo
doveva esser posto in grado, mescolandosi con elementi pagani e na­
zionalisti, di continuare la sua esistenza come religione della guerra
civile. Se il cristianesimo si fosse riempito a sufficienza di elementi

378
C O R R E N T I D ’O P P O S I Z I O N E B O R G H E SE

nazionalistico-razzisti i contrasti fra esso e la pura “ ideologia nazio­


nalsocialista ” si sarebbero pian piano cancellati da sé.
Era nella natura delle cose che il disaccordo fra il nazionalso­
cialismo e la Chiesa cattolica prendesse forme diverse rispetto alle
Chiese protestanti.
La Chiesa cattolica indovinò subito, dietro la maschera nordica
e nazionalista, lo spirito romano del Terzo Reich: c’era il ponte­
fice infallibile, intermediario fra la massa e il supremo bene della
nazione, c’erano i sacerdoti politici consacrati, che si garantivano
privilegi di fronte ai laici non socialisti, c’erano il dogma e la fede
cieca, l’inquisizione e la pia menzogna, l’Indice e la servitù spiri­
tuale, c’erano gli stendardi, le processioni, i riti, la pompa, i mar­
tiri, c’era l’obbedienza incondizionata e la grandiosa propaganda,
insomma c’era tutto quello che aveva arrecato alla Chiesa potenza
e grandezza. N el Terzo Reich la libera coscienza protestante do­
veva morir soffocata; cosi, indirettamente, attraverso la politica, la
Riforma veniva liquidata. Il Terzo Reich sradicò in Germania l’uo­
mo della Riforma protestante, sottoponendolo all’osservanza ro­
mana del dogma nazionalista. Lo zelo religioso secolarizzato, cui
egli venne costretto, diede certo ancor molto filo da torcere alla
Chiesa cattolica; essa però non dubitava che, una volta abituato alla
disciplina dogmatica, avrebbe trovato il dogma cristiano-cattolico
più sostanzioso, più succoso e conveniente di quello nazionalista-cat­
tolico. L ’eresia nazionalista-cattolica era per la Chiesa cattolica più
vantaggiosa e ricca di prospettive che per quella protestante. Il
Terzo Reich entrò nell’ordine di Rom a; riportò i tedeschi, dalla
sfrenatezza luterana, alla forma romana. Questa era una vittoria
della Controriforma, decisiva e fondamentale per l’avvenire.
Cosi, fra tutte le potenze estere, la Curia fu la prima a presen­
tarsi, quando Hitler ebbe bisogno di un riconoscimento diploma­
tico: già il 20 luglio 1934 venne concluso il concordato. Il patto la-
teranense, che Mussolini aveva firmato, servi da modello; il Terzo
Reich, per dimostrare subito la sua abilità nelle trattative, fu più
generoso nelle concessioni, cui pensava di sottrarsi a tempo oppor-
. tuno. In particolare accordò alla Chiesa ogni sorta di diritti sulla
gioventù tedesca. L a Chiesa cattolica non voleva combattere contro
il Terzo Reich: a causa dei risultati delle elezioni, non si sentiva

379
L A T IR A N N ID E

abbastanza sicura dei suoi fedeli nelle regioni cattoliche. Voleva


trovare un accomodamento col Terzo Reich, ritirandosi dapprima,
in larga misura, dagli affari mondani. Il vescovo di Osnabriick,
Berning, divenne consigliere di Stato prussiano, e altri vescovi non
nascosero che anch’essi sarebbero stati degni di divenirlo.
Certo, la Chiesa cattolica non poteva sgomberare spontanea­
mente da tutte le posizioni. I fedeli esigevano una difesa del pa­
trimonio religioso cattolico contro l’ideologia nazionalista, vole­
vano una riabilitazione di Carlomagno. Il cardinale arcivescovo
Faulhaber tenne una serie di prediche contro la concezione nordica
della storia, e in un’opera più ponderosa il clero cattolico svelò
la fragilità delle basi del “ mito del XX secolo. ” Ma, pur facendo
i conti con Rosenberg, bisognava lasciare aperta la porta della com­
prensione a certe errate interpretazioni, a certe adulterazioni del
cristianesimo. Il vero amore di Cristo, diceva il vescovo Berning,
ha vari punti di contatto con il genuino carattere nazionale te­
desco, la cui fedeltà e sincerità, la cui soccorrevolezza e abnegazione
è diventata proverbiale, come la fedeltà nibelungica. Tale spirito
di sacrificio ha in sé qualcosa di eroico. Per questo è falsa l’accusa
che si rivolge al cristianesimo di non essere eroico, come il germa-
nesimo esige. Cristo non disonora i suoi discepoli, e quando una
volta dice in lingua biblica: se ricevi uno schiaffo sulla guancia
destra, porgi anche la sinistra, non pretende che noi chiniamo il
capo senza difenderci davanti all’ingiustizia, bensì che non per-,
diamo il dominio di noi stessi.
Lo scioglimento del partito di centro e la persecuzione del cat­
tolicesimo politico, la cacciata delle organizzazioni giovanili cat­
toliche, l’annientamento della stampa cattolica, il dispregio delle
dottrine religiose cattoliche colpì tante abitudini ed interessi, da
suscitare nella popolazione cattolica violente reazioni di malcon­
tento. Il basso clero metteva spesso il dito nella piaga dei suoi fedeli :
qui i preti si rifiutavano di innalzare nei giorni di festa la croce
uncinata, altrove osavano pronunciare dal pulpito attacchi più o
meno velati contro il regime di terrore; a volte.dichiaravano il loro
orrore per l’enormità dei delitti politici. Scoppiò una guerriglia fra
Stato e Chiesa. Preti cattolici furono arrestati e giudicati per “ ol­
traggio alla bandiera del Reich, ” per “ diffusione di notizie allar­

380
C ó r r e n t i d 'o p p o s i z i o n e bo rg h ese

mistiche, ” per inosservanza degli articoli concordatari. Un sacer­


dote, che aveva prestato le sue cure spirituali prima dell’esecuzione
ad un comunista condannato a morte innocente, aveva risvegliato
in lui, come dice il rapporto ufficiale, “ l’idea di essere un martire,
eguale al Salvatore, e di poter iniziare in pace il suo ultimo cal­
vario, avendo vuotato il calice come il suo Signore e Salvatore. ”
Il prete fu subito messo agli arresti e interdetto dal suo ufficio. Con
vera, lacrimosa indignazione, 1’ “ Ufficio centrale di stampa ” co­
municò che il prete, con quest’ultima preghiera, aveva cercato sotto
la maschera del pio sacerdote, di aizzare contro la giustizia terrena
un comunista assassino. Il paragone di un assassino con Cristo rap­
presenta, inoltre, una volgare bestemmia e mancanza di buon gu­
sto, atta a gettare il più grave discredito sulla veste sacerdotale agli
occhi degli uomini e dei cristiani benpensanti. Per certi preti non
c’è posto nel Terzo Reich.
Ogni tanto anche un vescovo usciva dal riserbo diplomatico.
Il vescovo Galen di Miinster proibì ai suoi fedeli d’intervenire ad
un’adunanza convocata da Rosenberg, facendo cosi andare in bestia
tutti i funzionari nazisti, fino al ministro dell’Interno Frick. “ La
limitazione della libertà esterna, ” disse Galen in un’altra oc­
casione, “ e addirittura certe forme della cosiddetta servitù della
gleba, possono in qualche modo conciliarsi con la dignità umana,
che in tal modo viene compromessa, ma non rinnegata e annientata.
Ma un’obbedienza che rende schiave le anime, che colpisce il più
intimo santuario della libertà umana, la coscienza, è barbaro schia­
vismo. Questo è peggio di un assassinio, poiché è un far violenza
alla personalità umana. ” “ Iddio, ” continuava, “ ci conceda pru­
denza e forza eroica, affinché non macchiamo mai la nostra co­
scienza di egoismo e rispetto umano, per guadagnare e conservare
il favore dei potenti della terra. ”
In tali discorsi, non importa se intesi come semplici mosse di
scacchi o come serie dichiarazioni di guerra, i sepolti sentimenti di
libertà del popolo oppresso rinascevano a nuova vita. Il piccolo bor­
ghese, il contadino, l’operaio, tutti coloro che, nonostante le pro­
grammatiche bolle di sapone naziste, sentivano di giorno in giorno
farsi più stretta la corda intorno al collo, vennero di nuovo in­
citati a farsi animo e ad opporsi alla violenza del Terzo Reich;

r
381
l a t ir a n n id e

perfino tra le file comuniste si era pronti ad alleanze tattiche con


la Chiesa dell’opposizione. L ’autorità del Terzo Reich subi gravi
danni, mentre i limiti della sua onnipotenza diventavano visibili.
Anche se la Chiesa non era mai scesa a patti con i comunisti, questi
vedevano negli oppositori ecclesiastici un*appoggio.
Alcune lettere pastorali della conferenza episcopale di Fulda
erano atte ad irrigidire la resistenza della popolazione cattolica.
Pieno d’inquietudine il Terzo Reich guardava alla Città del Vati­
cano, se per caso non partisse di là un movimento internazionale
contro le persecuzioni dei cattolici in Germania. Piu di una volta
si temettero dichiarazioni papali contro le violazioni del concordato
commesse dai nazisti.
Il Terzo Reich passò all’offensiva. Dove sente avvicinarsi un
colpo, colpisce esso stesso per primo. La Chiesa cattolica doveva
tremare.
L ’uno dopo l’altro funzionari dell’ufficio scambi con l’estero fe­
cero capolino nei conventi. N egli anni passati i conventi avevano
aperto un credito presso fedeli residenti all’estero. L a legislazione
tedesca sulle valute estere sembrava loro iniqua e ladresca, e si af­
frettarono a restituire i loro debiti; non volevano essere debitori
disonesti. I tribunali si precipitarono sulle infrazioni legali che non
sempre erano state evitate; abati e badesse, monaci e suore, infine
perfino il vescovo di Meissen furono tratti sul banco degli accusati.
Esultanti i procuratori dello Stato nazisti si accingevano all’opera
d’incriminare i pii f^ligiosi; uomini innocui ed ingenui, che rispet-_
tavano i contratti certo più del Terzo Reich, irretiti nella sudicia e
immorale legislazione tedesca sulle divise estere, vennero portati
alla rovina.
A l tempo stesso si scoprivano segreti d’alcova. Fino al 1934 la
morale virile nazista era stata l’omosessualità; anche più tardi, nella
gioventù hitleriana, non si riuscì ad estirparla. Era strano vedere
questi incalliti pederasti irrompere a un tratto nei conventi come
censori e giudici di moralità. Scopersero un paio di “ casi, ” e le
loro grida scandalizzate salirono al cielo. Si smascherò la Chiesa
nello stile dello “ Specchio* dei preti ” corviniano ; i francescani
erano “ porci, ” e tutti i monaci e le suore contrabbandieri di va­
luta. I giudici nazisti perseguitavano con tanta foga la loro selvag-

382
Córrenti deposizione borghese

gina in cotta e saio, da non aver neppure coscienza di costituire,


personalmente, un miserando esempio di prostituzione politica.
L a Chiesa, è comprensibile, divenne nervosa, poiché una istitu­
zione come quella dei conventi cela inevitabilmente fra le sue mura
debolezze anche troppo umane, e chi alza i veli senza scrupoli,
troverà sempre qualche macchia. Essa comprese, almeno per il
momento, di non potersi misurare col Terzo Reich, che si serviva
senza riguardi di ogni strumento di potere e non conosceva alcuna
remora morale ed umana. Si ritirò per salvare il salvabile; si ras­
segnò aH’eliminazione degl’insegnanti religiosi dalle scuole pub­
bliche elementari, rinunciò ai diritti sulla gioventù cattolica che le
spettavano in virtù del concordato. Presero la parola pedagoghi ec­
clesiastici, spiegando come il Terzo Reich e la Chiesa traessero ori­
gine dallo stesso Dio e non avessero perciò bisogno d’inimicarsi
fra loro. Quanto più grande era la tensione tra la Chiesa cattolico­
nazionalista del Terzo Reich e quella cristiano-cattolica, tra lo
Stato secolare e quello santo di Dio, quanto più violento era lo
sdegno dei preti nazionalisti contro quelli cattolici, tanto meno
mancavano le premesse per giungere, in particolari condizioni, ad
una sintesi vantaggiosa per ambedue le parti. Essa si compie anzi­
tutto sulla piattaforma dell’antibolscevismo.1
Non pregiudicata dai processi sulle valute e sugli ordini reli­
giosi, la lettera pastorale della conferenza episcopale di Fulda, nel­
l’estate 1936, metteva in guardia contro il “ bolscevismo. ” Il Terzo
Reich, che interveniva in Spagna, dove la Chiesa si trovava in
pericolo di perdere i suoi latifondi e i suoi privilegi, divenne im­
provvisamente prezioso per la Curia. Proprio nell’ora presente,
dicevano i vescovi, il comuniSmo e il bolscevismo hanno cercato con

1 II patto lateranense, il concordato con Hitler, l’ appoggio a Franco in Spagna da


parte della Curia sono prove significative di come in realtà la Chiesa tendesse ad una
sintesi, in cui il fascismo avrebbe potuto fondersi con essa; considerava il fascismo come
la forma statale per lei più conveniente. Se la Chiesa si compiaceva di occasionali dimo­
strazioni contro il fascismo, queste non erano mai di natura radicale; in esse si faceva
valere soltanto la concorrenza della gerarchia ecclesiastica contro quella secolare delle
camicie brune. Erano rivalità del genere di quelle che s’accendevano nel Medioevo fra
aristocrazia laica ed ecclesiastica. Inoltre la Chiesa perseguiva anche lo scopo di sottrarsi
ad ogni responsabilità degli orrori del Terzo Reich, da essa riconosciuto. Ingolfandosi in
una controversia con Hitler, aveva un alibi di fronte ai suoi fedeli, ogni volta che questi
s’indignavano per le sofferenze inflitte loro da Hitler per mezzo della Gestapo.

383
LA TIRANNIDE

diabolica abilità e tenacia di colpire da oriente e da occidente la


Germania, cuore d’Europa, per imprigionarla in una morsa fatale.
Se la Spagna soccombesse al bolscevismo, il destino d’Europa corre­
rebbe un angoscioso pericolo. Quale compito spetti ora al popolo
tedesco, è cosa che risulta da sé. “ Possa il nostro Fùhrer riuscire,
con l’aiuto di Dio, in quest’opera di immane difficoltà con la colla­
borazione più incrollabile e fedele di tutti i connazionali. ” La fede
religiosa cristiana forma “ la base granitica su cui costruire il potente
e vittorioso baluardo contro il bolscevismo. Non lotta contro la
Chiesa cattolica, bensì pace e concordia con essa, per eliminare la
premessa spirituale del bolscevismo. ”
Appena la Chiesa cattolica cominciò a tremare per il suo patri­
monio spagnolo, stese senza esitare la mano a Hitler in segno di
riconciliazione; lo incoraggiò ad inviare i suoi lanzichenecchi in
Spagna, gli promise la benedizione divina e fece credere alla società
borghese di essere il baluardo granitico contro la rivoluzione sociale
bolscevica.a
L a situazione delle Chiese protestanti nel Terzo Reich non si
può paragonare a quella della Chiesa cattolica.
Il protestantesimo inizia in campo religioso quel che il libera­
lismo porta a termine sul piano politico e sociale. Esso rappresenta
il primo passcrTerso la ribellione e la distruzione, il vero peccato
originale; tutto ciò che vien dopo ritrova qui la sua origine. L ’uomo
fa saltare in aria la grandiosa forma tradizionale, si ribella contro
l’ordine obiettivo, infrange la disciplina della fede che tutto vincola
e' si appella alla propria coscienza, al diritto della sua responsabilità
personale, della sua autodeterminazione. L a riforma religiosa apre
la serie di tutte le successile rivoluzioni sociali e politiche: in que­
sto senso il protestantesimo è anche l’antenato religioso del boi-

2 Dopo il 1939 la diplomazia curiale fu abbastanza astuta da capire che la causa


di Hitler era perduta. Era tempo di cancellare ogni traccia dei suoi precedenti accordi con
il Terzo Reich. Come le vergogne del regime franchista l’avevano ben poco scandaliz­
zata, così ora si sforzò di ostentare il suo . orrore per l’hitlerismo. La Chiesa dovette
accentuare al massimo il suo distacco dal nazismo, quando l’evidenza di 'u n ’effettiva
intesa con esso cominciò a diventare estremamente compromettente. Tanto meno deside­
rava compromettersi, in quanto poteva sperare di accogliere e consolare maternamente,
nel suo seno cristiano-ecclesiastico, i disillusi che alla scuola del nazionalsocialismo erano
diventati cattolici secolarizzati. È sintomatico che dopo il 1945 molti- uomini delle SS
si fecero preti. (1946)

384
L
C O R R E N T I D ’O P P O S I Z I O N E B O R G H E SE

scevismo. Naturalmente al protestantesimo non va attribuita nes­


suna “ colpa. ” È un sintomo della valanga, ormai irrompente, che
infine seppellisce sotto di sé tutta la società feudale. N ella libertà
dell’uomo cristiano la ribellione borghese conserva ancora un volto
religioso, nella libertà dell’uomo economico del capitalismo si sfoga
senza più ritegno, nella libertà dell’uomo proletario la segue a
distanza la rivincita. Il liberalismo è protestantesimo secolarizzato
come il fascismo è cattolicesimo secolarizzato.
È senza dubbio vero che l’ortodossia protestante si è sempre ver­
gognata del liberalismo e non ha mai voluto confessare che esso è
suo legittimo rampollo. Lutero era un uomo medievale, e il pro­
testantesimo non ha mai avuto cosi profonde radici nell’età mo­
derna, come si vuol far credere. Poiché il primo stadio della ri­
bellione riformista si è cristallizzato nell’ortodossia protestante,
esso non può più aver nulla a che fare con gli stadi successivi. Il pro­
testantesimo ortodosso non vuole esser legato in un sol fascio con le
necessarie conseguenze del suo proprio principio vitale. Falsamente
ritiene l’abisso fra sé e la Chiesa cattolica meno profondo di quello
fra sé e il liberalismo; vuol negare che già all’inizio, nel primo
passo, sia implicita tutta la decisione. Poiché il liberalismo era
sgradito all’ortodossia protestante, essa fraintese la tendenza di fondo
antiliberale del nazismo e credette di esser legato con questo allo
stesso carro. Preti protestanti resero al Terzo Reich servizi di balia
molto più efficaci di quanto non fecero i preti cattolici. Il protestan­
tesimo liberale si comportò allo stesso modo della borghesia liberale,
che vedeva nel nazionalsocialismo le sue ultime riserve e si preci­
pitò a capofitto a fianco di queste riserve, quando non fu più pos­
sibile negare la prospettiva bolscevica del liberalismo.
Ma appena il Terzo Reich fu fondato, il protestantesimo capi
che tirava aria cattiva. Era impossibile stroncare il liberalismo, senza
dare il colpo di grazia anche al protestantesimo; inoltre la libertà
di coscienza protestante era sopravvissuta, come lo erano la libertà
di pensiero, la libertà di parola, d’indagine, di cittadinanza. La
libera coscienza protestante era il nascondiglio dell’opposizione, e
nessuno poteva dire che cosa si tramasse là dentro. Il protestante­
simo contraddiceva alla situazione fascista della borghesia né più

38 5
L A T IR A N N ID E

né meno che il liberalismo; se la borghesia cercava nel Terzo Reich


il suo nuovo Medioevo, bisognava anzitutto che togliesse di mezzo
il protestantesimo. Non era necessario far ricorso alla violenza,
poiché nel clima del Terzo Reich era inevitabile che soggiacesse
al processo di autodistruzione.
Il Terzo Reich favori con tutte le sue forze questo processo. Se­
condo l’entità delle porzioni di nazionalismo che i singoli gruppi
trangugiavano, sorgevano varietà più o meno pagane del protestan­
tesimo. Il “ moto religioso tedesco ” aveva inghiottito quasi tutto
il “ mito del XX secolo. ” I “ cristiani tedeschi ” lasciarono perdere
l’antisemitismo e si accontentarono di riserve contro il Vecchio T e­
stamento. I cristiani moderati cercavano di cavarsela con poco, in­
trattenendo, con simulata ingenuità, rapporti di buon vicinato fra
le loro dottrine cristiane e quelle nazionaliste. L a Chiesa evangelica
in Sassonia abolì dal servizio divino 1’ “ amen ” e 1’ “ alleluja, ”
sostituendoli con un “ così sia ” e “ lodato sia il Signore. ”
In tal modo il protestantesimo si sgretolò in innumerevoli sette.
Con la polemica fra i vescovi e la controversia fra i preti, inoltre,
perdette la sua dignità.
Il cappellano militare prussiano Ludw ig Mùller, che già nel
1930 s’era sentito attratto verso il nazionalsocialismo, aveva spesso,
nel corso degli anni, offerto ospitalità a Hitler a Kònigsberg, facen­
dogli conoscere in parficolar modcfTallora comandante le forze
militari del distretto, Blomberg. Mùller, un cervello limitato e sem­
plicione, aveva in tal modo reso un incommensurabile servizio al
capo del partito nazista e Hitler gli era profondamente riconoscente.'
Hitler che, da vero cattolico, non aveva la minima idea della men­
talità protestante, abbozzò il progetto di una Chiesa tedesca uni­
ficata che doveva rappresentare il lato spirituale del Terzo Reich.
Il protestantesimo doveva riempirsi di spirito cattolico per esser
capace di una formazione ecclesiastica severamente disciplinata e
soddisfare al tempo stesso i cattolici tedeschi, che sarebbero stati
sottratti alla Chiesa internazionale del papa: doveva sorgere una
specie di Chiesa anglicana. Mùller, che non era mai stato più di
un funzionario ecclesiastico appena mediocre, si mise di buona
volontà a sua disposizione e volle fondare la “ Chiesa germanica. ”
Divenne vescovo del Reich e pensò di poter imporre dall’alto la

386
C o r r e n t i d 'o p p o s iz io n e b o r g h e s é

costituzione di questa Chiesa. In tutte le regioni furono insediati


nuovi vescovi, s’iniziò una ripugnante gara per la conquista dei
supremi uffici della gerarchia ecclesiastica, gentucola arrivista si
mise a correggere Lutero. I pastori che si precipitavano sulle sedie
episcopali, erano per lo più tipi loschi, di cattiva fama, dello stesso
conio dei funzionari nazisti. Era dappertutto il medesimo tipo che il
Terzo Reich innalzava dalla polvere sugli altari: il primo uno
sporco affarista, il secondo un notorio ubriacone, il terzo, il vescovo
del Braunschweig Beye, solo per mancanza di prove sfuggi all’ac­
cusa di aver sottratto denaro delle collette e aver fatto pagare alla
parrocchia di Kassel, sulla base di un falso conto, le riparazioni
della sua auto privata. Il vescovo, disse il procuratore, “ nella sua
disperazione cercò di cavarsela di fronte alle autorità giudiziarie
con mezzi brutali. ”
Le parrocchie protestanti dovevano difendersi contro questi lo­
schi superiori e le loro intenzioni; si accese una mischia generale.
Il vescovo del Reich nella sua inettitudine, non faceva che com­
binare sciocchezze, tutti i suoi tentativi andavano a finir male. Né
gli arresti dei pastori e le misure finanziarie, né le opere di me­
diazione diedero alla fragile materia protestante quella malleabilità
cattolica che avrebbe dovuto divenirle naturale, se lo stampo della
“ Chiesa germanica ” fosse riuscito. Hitler dovette rinunciare al
vescovo del Reich; il caos da lui provocato era troppo grande; non
riuscì a dominarlo nemmeno il “ ministro per gli affari ecclesia­
stici del Reich, ” Kerrl, chiamato come pacificatore spirituale, per­
ché nella serie dei grandi paladini era l’unico che “ leggesse ancora,
talvolta, la Bibbia. ”
Kerrl aveva formato un comitato per gli affari ecclesiastici del
Reich, che voleva conciliare fra loro tutte le tendenze protestanti.
Anche l’opera di conciliazione fallì. Allora una “ Lega per il cristia­
nesimo tedesco ” riprese gli sforzi per la formazione di una Chiesa
nazionale germanica: voleva riunire tutti i movimenti cristiani
“ in vista di un rinnovamento della vita religiosa tedesca in senso
cristiano, imprimendole il suggello del gemanesimo. ” I concetti
ispiratori della lega vennero formulati dal decano di Turingia Lef-
fler : “ Due piccole parole si accendevano spesso ogni giorno nella
nostra anima: Germania e Cristo. ” È il Cristo che soprattutto si ri-

3S7
\

L a t ir a n n i M ;

vela nel movimento nazionalsocialista e nell’odierno rivolgimento.


Tutto il significato di una nuova esistenza tedesca si riassume nella
profetica figura di Adolf Hitler, che al tempo stesso è l’unico sal­
vatore della causa di Cristo in Germania.
La lega riesumò il motto coniato già nel 1933: “ Un solo duce!
Un solo popolo! Un solo Dio! Un solo Reich! Una sola Chiesa! ”
Qui il protestantesimo s’era già arreso spontaneamente; non solo
professava l’uniformità del dogma e dell’organizzazione, ma era
passato dalla sfera della morale soggettivo-spirituale-ecclesiastica sul
terreno oggettivo-nazionale-mondano delle istituzioni politiche.
Si rifiutarono a questo passo gli altri protestanti, che piu molli,
liberi e ricchi di sfumature erano riuniti nella “ Chiesa confes­
sante. ”
Esisteva una concezione ecclesiastico-liberale, che, come l’ortodos­
sia, rappresentava uno stadio d’evoluzione giunto a un punto fermo,
solido e duraturo, comunque più tardo; come l’ortodossia non era
stata disposta a confluire nel liberalismo, cosi il liberalismo clericale
non voleva sboccare nel fascismo. Ambedue le correnti, ortodossia e
liberalismo clericale, si ritrovarono ora nelle comunità confessanti.
La “ Chiesa confessante ” doveva tener duro sotto la pressione
del Terzo Reich, dell’ideologia nazista e delle altre tendenze evan­
geliche contagiate dallo spirito delle correnti nazional-clericali. In
tale atmosfera la libertà di coscienza protestante non era un bene
che si potesse difendere, un’autorità che procacciasse onore o addi­
rittura si potesse imporre ; se non si possedeva un appoggio più im­
portante, più massiccio ed obiettivo, in un momento si andava a
gambe all’aria. L a Chiesa confessante si preoccupò di trovare un
terreno oggettivo su cui piantarsi solidamente e mettere profonde
radici. Si armò del Vangelo, pose impavida il dito sulla parola rive­
lata di Dio e si mostrò incrollabile nel diffonderla ed attestarla. Le
comunità cantavano: “ Un solido baluardo è il nostro D io ” e in
coro pronunciavano forte e in tono di sfida la professione di fede
* apostolica. A ll’inizio K arl Barth la provvide di una teologia: bi­
sognava prendere il cristianesimo tragicamente sul serio e guar­
darsi, nella propria scelta religiosa, da ogni concessione alla mon­
danità. Contro il potere statale furono posti limiti sul ristretto
terreno dove l’anima individuale, lottando carica d’affanno, incon-

388
C O R R E N T I D ’O P P O S I Z I O N E B O R G H E SE

tra va direttamente il suo Dio. Poiché il Terzo Reich s’immischiava


anche in questi rapporti, venne in urto con la Chiesa confessante.
Questo terreno oggettivo era quasi soltanto una fune su cui era
facile perdere l’equilibrio, se non si era forti nell’arte acrobatica.
G li spiriti più sofisticati se la cavavano, mentre l’animo semplice
restava con un pugno di mosche. Per quest’animo semplice il Van­
gelo, la sua predicazione e testimonianza erano abbastanza poco,
giacché ognuno poteva esporre, predicare ed attestare la Bibbia
come meglio gli pareva; e siccome non si voleva indulgere al papi­
smo, era impossibile scoprire in nessun luogo un giudice obbiettivo.
Se nello sfondo non vi fosse stata la tenace volontà di non piegarsi
davanti alla pagana cattolicità del Terzo Reich, non si sarebbe sfug­
giti alla capitolazione. Col Vangelo operavano anche i cristiani na­
zionalisti — di cui uno aveva perfino minacciato di “ sbattere il
Vangelo sul grugno ” a tutti gl’impenitenti. L ’opposizione della
Chiesa confessante s’era nutrita più dalle fonti del coraggio virile
che da quelle della forza della fede, e l’antipatia aristocratico-bor­
ghese-liberale verso la plebe e il livellamento le era più connatu­
rata dell’ortodossia cristiana. La Chiesa confessante portava innan­
zi la ritirata che 1’ “ elmo d’acciaio ” e il “ partito popolare nazio­
nale tedesco ” avrebbero voluto interrompere anzitempo.
Certo questa opposizione non mancava di ammirevole impa­
vidità. “ Se qualcuno ” è detto nella dichiarazione dei pastori di
Altona, “ vuole che la Chiesa sia presente a manifestazioni militari,
civili o di partito solo per accentuare la solennità della festa, abusa
della Chiesa. Se la Chiesa è chiamata a tali feste, non può pronun­
ciare che sentenze e promesse, e non per gli altri, ma per coloro
che sono presenti. ” Chi vuol sottoporre la Chiesa nella sua predi­
cazione all’influsso di un potere politico, fa del potere politico una
religione ostile al cristianesimo. L a fede in uno Stato futuro perfet­
tamente giusto e confacente rinnega i limiti posti da Dio, altera
l’azione politica e insegna a disprezzare la redenzione di Cristo.
Ogni divinizzazione dello Stato è spregevole; se l’autorità statale
s’impone come padrona delle coscienze, è illegittima.
Nelle prediche dal pulpito il vescovo del Reich e i suoi vescovi
furono accusati di aver traviato la coscienza dei fedeli evangelici
con false dottrine, di aver pubblicamente profanato e offeso la sacra

389
LA T IR A N N ID E

Scrittura. Si chiese allo Stato di cessare dal continuo spionaggio


sull’attività ecclesiastica, di abolire i divieti di raduni ecclesiastici
in luoghi pubblici, di sciogliere i vincoli che legavano la stampa
ecclesiastica e l’attività caritatevole cristiana, di rinunciare alle in­
gerenze statali nella vita interna delle Chiese in favore di quelli
che operavano, con la loro vita e le loro azioni, la distruzione della
Chiesa evangelica, di non organizzare più le marce, i cortei, le
assemblee, le attività politiche e sportive la domenica mattina.
Ogni memoriale della Chiesa confessante a Hitler era una resa
dei conti che nonostante il tono misurato manteneva una rigida in­
transigenza sui punti essenziali. Si chiede a Hitler “ se il tentativo
di scristianizzare il popolo tedesco diventerà il corso ufficiale del
regime, grazie ad un’ulteriore collaborazione di uomini responsa­
bili del governo o anche soltanto alla loro indulgenza e garanzia. ”
Goebbels aveva interpretato come cristianesimo positivo ciò che
era soltanto opera umanitaria. Il danno di tali dichiarazioni era
tanto maggiore, in quanto alla Chiesa non veniva mai data la possi­
bilità di “ controbattere a pari condizioni le errate interpretazioni
della fede cristiana provenienti da alto loco. ” Ufficialmente si ne­
gava ogni interferenza nella compagine interna della Chiesa, ma
in effetti le ingerenze si susseguivano. L ’opera ufficiale di concilia­
zione mirava a porre la Chiesa, nel campo amministrativo e finan­
ziario, alle dipendenze dello Stato, a toglierle la libertà di predi­
care e di organizzarsi e a costringerla a tollerare l’eresia. Dietro il
motto “ superamento dello scisma confessionale ” si rendeva impos­
sibile alla Chiesa ogni attività pubblica. Si toglievano alla Chiesa le
sue organizzazioni giovanili, la fede cristiana della gioventù veniva
soffocata. Nelle università la formazione teologica della nuova gene­
razione era affidata a maestri eretici, la scristianizzazione dilagava
attraverso la radio, la stampa quotidiana, le conferenze. L ’esalta­
zione dell’uomo ariano non era compatibile con la colpevolezza di
tutti gli uomini, attestata dalla parola di Dio, e all’odio contro gli
ebrei, pubblicamente favorito, si opponeva il comandamento cri­
stiano dell’amor del prossimo. Una moralità essenzialmente estra­
nea al cristianesimo penetrava nel nostro popolo e lo sovvertiva.
Il principio “ giusto è quel che giova al popolo, ingiusto ciò che
gli nuoce, ” deriva dallo spirito di una morale utilitaria nazionalista,

390
C O R R E N T I D ’O P P O S I Z I O N E B O R G H E SE

che disprezza il comandamento della verità. Il giuramento, come


impegno e obbligo di fedeltà, è divenuto terribilmente frequente
e come tale subisce uno spaventoso deprezzamento. L ’arbitrio negli
affari giudiziari, e il rifiuto della giustizia, è rinnegare Dio. “ La
coscienza evangelica che si riconosce responsabile per il popolo ed
il governo, viene assai duramente colpita dal fatto che in Germania,
la quale si autodefinisce Stato di diritto, esistano ancora campi di
concentramento, e che le misure della polizia segreta siano sot­
tratte ad ogni controllo dei giudici.” I cristiani evangelici spesso
non potevano trovare nessuna protezione al loro onore.
Il piu temerario nel gettare in faccia al Terzo Reich le sue ac­
cuse “ nemiche dello Stato ” fu il pastore berlinese Niemòller. Du­
rante la guerra era stato comandante di un sottomarino; per le
sue gesta era diventato una figura della leggenda nazionale. Questo
10 protesse, fino al 1937, dall’arresto. I suoi confratelli, a più ripre­
se, riempirono a centinaia le prigioni e i campi di concentramento.
Dopo che si era dimostrato senza alcun dubbio che le parroc­
chie non potevano essere piegate con l’arresto dei pastori, il Terzo
Reich fece orecchio di mercante davanti alle accese rimostranze
dei protestanti più bellicosi. Le parrocchie, pensava il governo, si
sarebbero stancate di fare opposizione, se i preti non fossero più
stati toccati. Se i pastori non avessero più ottenuto gli onori del
martirio, probabilmente, alla fine, sarebbero rimasti soli sul loro
pulpito come noiosi brontoloni. Il protestantesimo rotto in mille
cocci sarebbe morto, se abbandonato a se stesso; le persecuzioni
non servivano che a rianimare il nucleo ancora intatto, la Chiesa
confessante.
In questo calcolo si celava un’astuzia di tipo più sottile. Appena
11 “ bolscevismo ” bussò alle porte, anche la Chiesa confessante,
infatti, prese il suo posto nella fortezza del Tefzo Reich, allo stesso
modo della Chiesa cattolica.
.C ’è una circolare del vescovo della Chiesa confessante, Marah-
rens, in cui la grottesca danza sulle uova, che non è risparmiata
nemmeno all’opposizione protestante di fronte allo spettro insor­
gente del bolscevismo si fa chiaramente visibile. Qui Marahrens,
nel novembre 1936, si lamenta dell’esistenza di un ordine della

391
L A T IR A N N ID E

SA, per cui nei matrimoni e nei battesimi è vietato portare l’uni­
forme e nei funerali non si possono inalberare bandiere e stendardi
“ finché siano presenti membri della Chiesa.” Egli sospira: “ Che
cosa diranno i nostri figli, che con tutto il cuore militano nella SA ?
Che cosa proveranno quei giovani teologi, che proprio in quanto
tali si sentivano impegnati al servizio della SA — nonostante ciò
che talvolta hanno dovuto subire, incrollabili nella loro volontà di
servire il Fuhrer, il popolo e la Chiesa? Dobbiamo davvero ad­
durre testimonianze della sincerità e risolutezza della loro dedi­
zione? ” Il doppio gioco di tutta questa opposizione viene alla luce:
la Chiesa riceve calci, si piega anche, ma tuttavia collabora e non
è capace di una totale rottura con il Terzo Reich — coltiva il senso
di una comunità che lega tutti quanti. “ Nella dura battaglia spi­
rituale che la Chiesa, da quando è sceso in campo il bolscevismo,
combatte contro di esso, le sono state da Dio concesse esperienze
tali da renderla un’alleata davvero importantissima e solidamente
fondata in questa lotta, ” dice Marahrens.
L ’opposizione dei monarchici e dei nazionalisti tedeschi, dei
generali dell’esercito, dell’ “ elmo d’acciaio, ” dei protestanti e della
Chiesa cattolica contro il Terzo Reich rimane estremamente con­
dizionata, una lite di famiglia, non di piu. In fondo tutti quanti
sono gli stessi fratelli borghesi. Sono gelosi l’uno dell’altro, ma non
si fanno del male fra loro. Sono nella stessa barca. L a discordia tace
nel momento preciso in cui appare in cielo il temporale bolscevico.'
Allora issano la svastica su chiese e palazzi, su caserme e ciminiere
di fabbrica, e nell’unità di questo simbolo tutto ciò che prima era
sacro cade: la corona, la croce, le loro tradizioni nero-bianco-rosse,
e tutti i simboli consacrati delle loro battaglie. In quanto legitti­
misti, nazionalisti, “ elmi d’acciaio, ” protestanti o cattolici, bor­
ghesi, si può talvolta litigare con la croce uncinata, ma, se si è con­
sapevoli del proprio interesse borghese, non si può rompere con
essa. Se tuttavia qualcuno si decide a farlo, è solo per inseguire
una chimera.
Due strani gruppi borghesi d’opposizione ebbero il coraggio di
queste chimere e rifiutarono ogni compromesso; i “ credenti tede­
schi ” e i “ veri studiosi biblici. ”
I “ credenti tedeschi ” portano il protestantesimo alle sue estre-

392
t r?» .t w t .
t -'

C O R R E N T I D ’O P P O S I Z I O N E B O R G H E SE

me conseguenze, sono i soli che conducano a termine la Riforma.


Fanno della semplice ribellione tedesca contro l’invasione romana
il loro sistema ideologico. La loro impronta nazionalistica non è
una sorta di dogmatica terrena, bensì immediato scatenamento del­
l’elemento barbarico-primitivo. Ludendorff sta a Hitler come L u ­
tero al papa. In lui prende corpo, sulla base generale di un uomo
del ceto dirigente, l’istinto protestante-barbarico nella sua cristal­
lina purezza; perciò egli non rappresenta alcun gruppo sociale e
rimane soltanto un ridicolo settario. Dato che è il “ capitano ” e
antico compagno di Hitler, il Terzo Reich lo lascia stare e si ac­
contenta di infastidire i suoi seguaci, rinunciando ad eliminarli.
Come i “ credenti tedeschi ” tessevano il filo pagano del prote­
stantesimo, cosi, in modo altrettanto esclusivo, gli “ studiosi della
Bibbia ” si attenevano al suo filo cristiano-biblico. Per loro la Bibbia
è la parola di Dio, che devono prendere alla lettera, senza sofisti­
carla ed annacquarla, come fanno di solito i pastori protestanti. Si
considerano come i “ testimoni di Jehova” ; accanto a Jehova
non esiste alcuna autorità cui debbano prestare sottomissione e
obbedienza. Essi ignorano il Terzo Reich: poiché il Vangelo vieta
lo spargimento di sangue e comanda l’amor del prossimo, si rifiu­
tano al servizio militare. Il codice penale è, per loro, presunzione,
e i procedimenti giudiziari a loro danno illegali atti di violenza.
Non riconoscono l’autorità del Terzo Reich.
I “ testimoni di Jehova ” sono piccoloborghesi, e capiscono su­
bito che il Terzo Reich li lascerà andar via a mani vuote. L a loro
dottrina è il pretesto teoretico di un’opinione rigida e ostinata,
che è frutto soltanto di cervello limitato e di povertà spirituale.
Sono irriducibili, allo stesso modo dei “ credenti tedeschi, ” il loro
fanatismo è inflessibile, e finiscono, uomini e donne, per molti anni
in prigione;8 dimostrano in modo rozzo come l’uomo borghese,
nella decadente società capitalista, sia un grande imbecille, quando
vuole ostentare un carattere forte. I “ credenti tedeschi ” e gli “ stu­
diosi della Bibbia” sono i poveri resti borghesi che, nell’orgoglio
della loro libera coscienza protestante, si scelgono il Dio più conve­
niente e interpretano la Sacra Scrittura a lume di naso; e mentre

3 Piu tardi saliranno impavidi sul patibolo e moriranno da eroi. (1946)

393
L A T IR A N N ID E

con fiera impavidità si ostinano, di fronte al Terzo Reich, nel loro


“ Io sto qui fermo non posso altrimenti, Dio aiutami, amen, ” sono
destinati, poiché rifiutano di entrare sul terreno delle nuove cor­
rente politiche, a finire come bizzarri esempi di santità.

394
Parte terza

Verso la guerra
Capitolo ventottesimo

Politica estera aggressiva

Revisionismo ed antirevisionismo erano schierati su due fronti


contrapposti, e il problema che accaparrava l’attenzione dell’Europa
era quello del contegno della Germania nei confronti del trattato
di Versaglia. La Germania era per la revisione, atteggiamento che
ormai il mondo intero era disposto a condividere, a patto però che
il revisionismo, gli emendamenti e mitigamenti delle condizioni
previste dal trattato intendesse realizzarli con mezzi pacifici e
accordi bilaterali fra le potenze: la strada appunto sulla quale s’era
incamminata la democrazia di Weimar, entrando a far parte della
Società delle Nazioni.
L ’opposizione nazionalistica tedesca, al contrario, era giusta­
mente sospettata di favorire atteggiamenti revisionistici violenti.
Essa aborriva dalla Società delle Nazioni, in quanto questa costi­
tuiva la diga opposta alla sue tendenze, al revisionismo violento, e
in quanto paladina di idee e istituti democratici. Ma si sarebbe
sbagliato chi avesse creduto che quell’opposizione, con la sua ir­
ruenza revisionistica, mettesse in pericolo gli istituti borghesi capi­
talistici.
Mentre la tattica del comuniSmo in politica estera consisteva nel
lasciare che, nella lotta contro Versaglia, l’ordine borghese si esau­
risse e finisse per crollare, l’opposizione nazionalistica tedesca ten­
tava di convincere le coscienze europee che non valeva la pena di
difendere il trattato di Versaglia, se cosi si metteva in forse l’in­
tera società borghese. In altre parole, l’opposizione tedesca voleva
dare scacco matto al trattato di Versaglia, in nome di una piu
attenta considerazione degli interessi borghesi: il trattato sarebbe
diventato tanto più inutile quanto maggiore diventava il pericolo
che minacciava la società borghese. Proprio perché il comuniSmo,
con le frecce incendiarie da esso scagliate contro il trattato di

397
V E R SO t A G U E R R A

Versaglia, intendeva evidentemente appiccare il fuoco all’edificio


della borghesia, le potenze europee occidentali avrebbero dovuto
comprendere che la miglior cosa da fare era di insabbiare la pole­
mica attorno al trattato. Il nazionalsocialismo, abbracciando con
ardore questi punti di vista, superò la vecchia destra tedesca, per
la quale Versaglia era stata un’esperienza troppo sconvolgente, per­
ché si convincesse finalmente a considerarla, con animo sgombro,
questione di secondaria importanza.
Anche in altri stati europei, del resto, si attuavano lente trasfor­
mazioni, tali che le sorprendenti affermazioni dell’opposizione te­
desca cominciavano a trovare una certa eco. Prima, il comuniSmo
era stato niente altro che un’idea, e come tale non era certo bastato
a impedire alle potenze imperialistiche di manifestare le proprie
contraddizioni, esse che mai finora avevano dovuto temere le idee.
E troppo tardi s’erano accorte che quella idea s’era data sostanza
e potenza nell’Unione Sovietica. L a Russia “ anarchica ” non s’era
affatto sottoposta a un processo di decantamento in senso demo­
cratico; anzi, in quel paese il potere era passato ad ordinamenti di
un tipo completamente nuovo, altrettanto stranieri al mondo bor­
ghese, di quanto questo a suo tempo lo era stato nei confronti del
mondo feudale. L a “ rivoluzione mondiale ” non era più affatto
“ una chimera di letterati stravaganti e di arruffapopoli déracinés, ”
ma, al contrario, la sostanza di tutto ciò che, irraggiando manife­
stamente dalla formazione politica russo-bolscevica, feriva cosi do­
lorosamente il corpo degli stati borghesi. Le conseguenze psicolo­
giche, politiche ed economiche della guerra mondiale si erano ma­
nifestate in tutte le nazioni sotto forma di crisi; e, a sua volta, una
situazione di crisi aumentava la sensibilità alle radiazioni di origine
bolscevica, senza che la Russia dovesse pensare a immischiarsi di
proposito, secondo un piano prestabilito, nelle faccende d’altri stati.
Tuttavia, si attribuiva alla Russia la responsabilità dei mali che
travagliavano tali organismi, solo perché in realtà questi avevano
cessato da tempo di essere sani.
Il fascismo italiano era stato il primo baluardo eretto dalla bor­
ghesia contro il bolscevismo; esso però non degenerò in una of­
fensiva borghese senza limiti, come doveva fare più tardi il nazio­
nalsocialismo tedesco, il quale perdette il senso della misura, per­

398
P O L IT IC A E ST E R A A G G R E S S IV A

ché alla borghesia tedesca l’avvertita precarietà della propria situa­


zione faceva di continuo trattenere il fiato.
Dappertutto ormai si rafforzavano le simpatie profasciste; an­
che laddove la borghesia non si sentiva cosi immediatamente mi­
nacciata da dover far getto della democrazia liberale, non si man­
cava di dar mano ai movimenti totalitari. G li stati europei erano
tutti sul chi vive; il bolscevismo non era più una mera idea ma,
incarnatosi in una grande potenza, faceva ormai da terzo incomodo
destinato a cavare un profitto, ogniqualvolta gli stati borghesi si
prendessero con troppa furia per i capelli. E questi, nonostante i
loro profondi antagonismi, si sentivano di anno in anno sempre
più solidali di fronte al bolscevismo; tra essi non esistevano diver­
genze altrettanto insuperabili di quelle che li separavano dal bol­
scevismo.
Era questo il momento in cui Hitler poteva conquistare il po­
tere in Germania. N el 1930 l’Europa occidentale all’A ja aveva
mostrato di temere solo l’antirevisionismo violento; ormai però già
le serrava il cuore la paura del bolscevismo. Il fascismo meritava
qualche considerazione: non era più la scogliera contro la quale
naufragava la democrazia liberale, ma era diventato l’isola della
salvezza borghese. L ’opposizione di fascismo e bolscevismo sembra­
va ai borghesi ben più vitale e decisiva di quella tra revisionismo
ed antirevisionismo, Versaglia ed antiversaglia. Dal momento che
la Germania nazionalsocialista montava la guardia all’Europa per
difenderla da Mosca, bisognava esser molto indulgenti con lei.
Certo, il Terzo Reich costituiva una posizione perduta per la de­
mocrazia liberale, ma non già per l’ordine borghese. Il Terzo Reich
trasformava la Germania in un fermo bastione antibolscevico, e
questo risultava senza dubbio più sopportabile, agli occhi dei de­
mocratici occidentali, che non il pericolo di una Germania som­
mersa dal bolscevismo. L a Francia rifiutò di applicare le sanzioni
alla Germania dopo la conquista del potere da parte dell’hitleri-
smo, ammettendo cosi che si faceva scrupolo di ostacolare la. mis­
sione antibolscevica della Germania; la Francia era come paraliz­
zata, sbalordita dalla constatazione che le necessità vitali della so­
cietà borghese e le forme della democrazia liberale non procede­
vano più in ogni circostanza all’unisono. E se da un lato la Francia
V E R SO L A G U E R R A

avvertiva che la sua posizione sarebbe stata scossa qualora il trat­


tato di Versaglia e la democrazia liberale avessero, perso in forza
necessitante, in pari tempo si rendeva conto come Hitler fosse stato
portato ciononostante "al sommo del potere proprio dall’elementare
necessità di difesa degli interessi borghesi; la scappatoia francese
fu l’inerzia^ la Francia restò alla finestra, incapace di iniziativa
perché le mancava la chiave della situazione.
Era proprio questa la chiave di cui i capi nazionalsocialisti era­
no in possesso; lungi dall’obbedire semplicemente a un oscuro
istinto, essi avevano precisa coscienza della situazione politica. Su­
bito dopo la conquista del potere, fu Goebbels stesso che svelò, ad
un ristretto circolo di scrittori, giornalisti ed editori, come inten­
deva comportarsi in politica estera il Terzo Reich. Il Terzo Reich,
spiegò Goebbels, per prima cosa l’avrebbe spuntata con la sua ri­
chiesta di parità dei diritti circa gli armamenti; dati i suoi fonda­
menti democratico-parlamentari, la Società delle Nazioni di Gine­
vra sarebbe stata impotente a respingere l’istanza, e a lungo andare
avrebbe dovuto inchinarsi alla volontà tedesca. L a repubblica di
Weimar si era lasciata aggirare dalle proteste di legalità del nazio­
nalsocialismo; vista la sua costituzione, aveva dovuto dar carta
bianca al suo nemico mortale, finché questo non era stato pronto
per lo scontro finale sul terreno della legalità. Ciò che in politica
interna erano state le promesse di legalità, sarebbe stata in politica
estera, la pretesa alla parità dei diritti. Cosi il blocco delle potenze
firmatarie del trattato di Versaglia sarebbe stato disgregato e infine
travolto, esattamente com’era accaduto al blocco dei partiti weima-
riani.
Ed effettivamente il Terzo Reich aveva fondati motivi per ri­
tenere di potersi porre, rispetto agli stati borghesi d’Europa, nello
stesso rapporto in cui il movimento nazionalsocialista si era trovato
coi partiti borghesi della repubblica di Weimar. Il nazionalsociali­
smo era stato spesso, per questi ultimi, come il fumo negli occhi;
più di una volta avevano trasalito, stupiti della maniera con cui
il nazismo calpestava i loro principi liberali. Tuttavia, non ave­
vano voluto conferire alla socialdemocrazia i pieni poteri per di­
struggerlo; al contrario, se pubblicamente lo biasimavano, segre­
tamente gli facevan scudo, e questo perché il nazionalsocialismo

400
P O L IT IC A E ST E R A A G G R E S S IV A

costituiva l’estrema ratio da tenere in serbo contro il proletariato.


Dal momento che non si voleva assolutamente metterlo al bando,
l’avanzata del nazismo, a patto che questo fosse abbastanza tenace,
sarebbe stata inarrestabile; in quanto non si era disposti a liqui­
darlo, in tanto risultava inevitabile che il movimento nazista, passo
passo, conquistasse di fatto anche quelle posizioni che non gli si
erano volute cedere di buon grado. Per le democrazie europee, il
Terzo Reich valeva quale estrema riserva contro la Russia bolsce­
vica, cosi come il nazionalsocialismo era stata l’ultima carta dei
partiti borghesi weimariani contro il socialismo e il comuniSmo.
Questo era il motivo per cui il Terzo Reich poteva rischiare forte:
si trattava pur sempre di uno strumento dell’Europa, che nessuno
avrebbe pensato sul serio di distruggere, perdurando quelle date
condizioni. Se quindi il Terzo Reich s’incaponiva nella sua pretesa
di parità di diritti, se la affermava contro vigenti trattati, nessuno
più avrebbe osato imporne il rispetto mediante sanzioni, le quali
avrebbero inevitabilmente condotto a un conflitto disperato.
Il discorso di Hitler del T maggio 1933 era inteso a informare
l’opinione pubblica straniera che egli non era affatto un fautore
della rivoluzione mondiale. Era un errore, aspettarsi di vederlo
fare a pezzi il trattato di Versaglia; la sua psicologia di uomo poli­
tico non era cosi primitiva. Egli non smentiva, no, di coltivare
propositi revisionistici, e dipingeva con i più neri colori le intolle­
rabili, le insostenibili conseguenze del trattato. “ Tuttavia, ” con­
tinuava Hitler, “ mai governo tedesco si indurrà a violare un ac­
cordo che non può venir tolto di mezzo senz’essere sostituito da
uno migliore. ” Hitler si guardava bene dall’offrire il fianco a chi
era in agguato, pronto a inferirgli un colpo mortale; ciò di cui
egli aveva bisogno soprattutto, erano armi, e solo quando ne fosse
stato in possesso, avrebbe avuto inizio un nuovo capitolo della
politica europea. L a peggior conseguenza dell’ordine uscito da
Versaglia, consisteva “ nell’essere una nazione obbligata a restare
inerme, di fronte ad altre traboccanti di armi. ” Ma Hitler vuol
dare l’impressione che il trattato di Versaglia lo preoccupi assai
meno del bolscevismo : “ Un’Europa travolta dal caos comunista
dovrebbe affrontare una crisi senza precedenti e di durata impre­
vedibile” : se dunque Hitler potesse sedurre l’Europa a preconiz-

401
V E R SO L A G U E R R A

zarlo suo salvatore dal bolscevismo, a conferirgli pieni poteri per


l’assalto all’Unione Sovietica, il trattato di Versaglia andrebbe in
fum o; all’antibolscewsmo gli ambiti frutti del revisionismo cadreb­
bero da soli in grembo. Per istinto, Hitler avvertiva che i terrori
sociali del borghese europeo erano il punto debole della struttura
politica europea; da qui prendeva le mosse, per squassare l’intero
edificio. Se a tanto si arrivava, i pilastri di Versaglia si sarebbero
crepati, senza fare ricorso ad arieti.
Bastò che Hitler ripudiasse l’aperta rottura del trattato, perché
la Francia dimenticasse le proprie preoccupazioni; alla Germania
si poteva concedere una dilazione. E la dilazione significava ripren­
der fiato, e la Germania seppe profittarne. Il riarmo tedesco ebbe
immediatamente inizio; già nell’autunno 1933, Hitler si sentiva
ormai cosi sicuro, da osare una mossa destinata a scandagliare la
sopportabilità delle potenze europee.
Le trattative fra le nazioni partecipanti alla conferenza per il
disarmo di Ginevra, alla quale erano presenti anche i rappresen­
tanti tedeschi, erano giunte a una conclusione sulla quale s’erano
trovati d’accordo Inghilterra, Francia e Stati Uniti, e che era stata
sottoposta al governo della Germania: quest’ultima avrebbe avuto
un esercito di duecentomila uomini, con ferma limitata; ancora,
era fatto divieto alla Germania di possedere armamenti superiori-
ai bisogni di quest’esercito. Una commissione di controllo interal­
leata avrebbe vigilato sul rispetto della convenzione da parte tede­
sca; dopo un periodo di prova della durata di quattro anni da parte
della Germania, gli altri stati avrebbero dato mano al proprio
disarmo; cosi la Germania avrebbe raggiunto la parità.
Il piano fu accolto a Berlino con indignazione. Il 16 ottobre,
ai rappresentanti della stampa straniera, Neurath dichiarava che
esso costituiva una “ indiscutibile diffamazione, ” che gli argomenti
su cui si basava erano “ una oltraggiosa calunnia all’indirizzo del
governo tedesco ” e una “ insinuazione senza fondamento sulle sue
mire politiche ” ; imputare alla nuova Germania la minaccia alla
pace europea, ecco un “ affronto inaudito. ” Due giorni prima, il
14 ottobre, la Germania aveva abbandonato la conferenza per il
disarmo, annunciando il suo ritiro dalla Società delle Nazioni. I
rappresentanti ufficiali degli altri stati, sosteneva il regime hitlc-

402
P O L IT IC A E ST E R A A G G R E S S IV A

riano, avrebbero notificato “ che alla Germania qual è adesso, non


si può concedere la parità ” : atteggiamento che costituiva “ una
illegale e degradante discriminazione nei confronti del popolo te­
desco” ; il quale, viste le circostanze e nella sua qualità di “ nazio­
ne fuori legge e di secondo rango, ” cessa dal partecipare alle trat­
tative. Lo stesso giorno, Hitler si produceva davanti al Reichstag
nel ruolo del grande incompreso. “ Il popolo tedesco e il regime
tedesco non hanno chiesto armi, ma solo parità di diritti. ” Il po­
polo tedesco, continuava Hitler, era animato dal sincero desiderio
“ di sradicare un’inimicizia la quale comporta sacrifici nemmeno
lontanamente in rapporto con gli utili che se ne ricava. ” Una volta
tornato il territorio della Saar in seno alla patria tedesca, “ solo
un pazzo potrebbe pensare all’eventualità di un conflitto tra Ger­
mania e Francia ” ; allora non si potrebbe piu invocare “ alcun mo­
tivo morale o ragionevole. ” L a Germania vuole semplicemente
contribuire alla ricostruzione di un mondo, oggi, tutt’altro che
perfetto: “ Ma questo mondo, al quale noi non facciamo torto al­
cuno, e al quale chiediamo solo che ci lasci lavorare in pace, questo
mondo ci perseguita da mesi e mesi con un diluvio di menzogne
e calunnie. ” L a gioventù tedesca partecipa a sfilate e manifesta­
zioni rivolte, non contro la Francia, ma solo contro il comuniSmo:
è questo l’unico nemico delle istituzioni nazionalsocialiste. Pri­
ma del 1933, la Germania si era trovata sull’orlo della catastro­
fe: “ Se allora il sovversivismo rosso avesse infuriato come un in­
cendio sulla Germania, anche nei paesi civili dell’Europa occiden­
tale si sarebbe compreso che non è la stessa cosa se al Reno o sulle
coste del Mare del Nord stanno gli avamposti di un impero mon­
diale asiatico, fondato su concezioni rivoluzionarie-espansionistiche,
ovvero se i pacifici contadini e operai tedeschi, in sincera comunità
di intenti con gli altri popoli appartenenti alla nostra civiltà euro­
pea, mirano ad assicurarsi un pane onesto.” Il movimento nazio­
nalsocialista non ha salvato solo il popolo tedesco, “ ma si è gua­
dagnato un merito storico anche nei confronti del resto dell’Euro­
pa. ” Se la Germania ha abbandonato la Lega delle Nazioni, è
stato solo in segno di protesta contro “ la perpetuazione di intolle­
rabili discriminazioni. ”
L a Germania, stando alle spiegazioni di Hitler, si sarebbe allon-

403
£ 0 L A G U E R R A

tanata dalla Società delle Nazioni come da una situazione indegna


di essa; nessun intento provocatorio, nei suoi propositi, ma soltanto
il desiderio di promuovere un generale risveglio di coscienze, onde
porre finalmente valide premesse per un accordo tra tutte le nazioni
europee.
Come era già accaduto il 17 marzo 1933, le parole di Hitler
furono olio sparso sulle onde minaccianti. Le potenze firmatarie
del trattato di Versaglia si rassegnarono al fatto compiuto di fronte
al quale la Germania le aveva poste ; era come se le dichiarazioni di
Hitler avessero in qualche modo tolto significato al fatto stesso.
Le potenze europee erano grate a Hitler, perché, pur rinfacciando
loro con brutale franchezza gli interessi che esse servivano, non
prendeva senz’altro per le corna il toro di Versaglia, ma in veste
di S. Giorgio partiva lancia in resta contro lo spauracchio bolsce­
vico: in tal modo il dittatore tedesco risparmiava alle altre na­
zioni europee la necessità di difendere i trattati infranti, chiamando
lui, Hitler, alla resa dei conti : potevano insomma ancora rimettere
tutto al tempo e a qualche favorevole costellazione.
Sbattendosi alle spalle la porta della conferenza ginevrina, sde­
gnosa quietanza per il rifiuto della parità, la Germania dava a
vedere di avere abbandonato l’idea di lottare ancora per essa sul
terreno democratico della Lega delle Nazioni; più presto di quanto
non fosse dato di sperare all’inizio, la Germania poteva dunque
gettare tra i ferrivecchi lo strumento delle ideologie democratiche.
L a Germania la parità se la prendeva: essa non costituiva più un
problema. G li stati, che il 14 ottobre avevano lasciato che Hitler
ne uscisse impunito, non incutevano più paura. D al momento
che una simile inusitata politica non era bastata a provocarli a un’a­
zione armata, bisognava arguirne che essi non avrebbero fatto caso
all’arbitrario riarmo tedesco. Poiché la guerra non la volevano
fare, facile persuaderli che non v’era, alla guerra, alcun motivo
necessitante. Hitler protestava il suo amore per la pace, ogniqual­
volta quegli stati sentissero il bisogno di farsi lisciare. Il Terzo
Reich aveva compiuto una nuova tappa ricca di promesse; il Terzo
Reich non aveva più nessuna opinione della democrazia europea,
la considerava ormai solo un fetente cadavere. Tuttavia, era tanto
accorto da ignorarla finché non fosse venuto il momento di sba­

40 4
P O L IT IC A E ST E R A A G G R E S S IV A

razzarsene come della democrazia tedesca. Se il Terzo Reich aveva


voltato le spalle a Ginevra, era stato perché non lo si sospettasse nep­
pure di rispettare la democrazia europea. Il Terzo Reich usciva
insomma volontariamente dalla comunità delle nazioni democra­
tiche, il cui trionfo, nel 1918, era consistito nell’imporre finalmente
i loro metri anche alla Germania. Ma la crociata democratica era
fallita, non appena la Germania, con aperto, ironico disprezzo,
aveva abiurato la fede democratica, oblando vittime all’altare della
dittatura. Allontanandosi da Ginevra, ancora, il Terzo Reich vo­
leva rinfacciare alle nazioni democratiche che il loro peana di vit­
toria era stato di assai breve durata; e, se erano addentro al lin­
guaggio dei simboli, esse si sarebbero rese conto che l’intero
lucro della guerra mondiale era messo in forse. Se la Germania
fuggiva oggi la vicinanza — considerata un insulto — della demo­
crazia, non sarebbe stato difficile ormai indovinare che essa si pre­
parava ad aggiustare domani la partita. Ginevra era la cittadella
e la scolta del trattato di Versaglia; poiché il calcio che il Terzo
Reich tirava alla Società delle Nazioni era inevitabilmente desti­
nato a colpire anche il trattato, chiaro che la Germania poteva
astenersi dal prenderlo propriamente di mira. Il Terzo Reich, in
altre parole, non piativa piu con la democrazia europea, semplice-
mente stivava l’esplosivo con cui un giorno mandarla all’aria. “ L a
parità ” non costituiva piu affatto un argomento serio, ma soltanto
la formula a buon mercato destinata ad assopire i sospetti per la
diabolica industriosità con cui la Germania organizzava il totale
annientamento delle istituzioni democratiche. Mandando ovunque
in malora la democrazia europea, la Germania imperialistica a-
vrebbe avuto la sua revanche per la sconfitta del 1918.
È sorprendente constatare quanto poco la Francia avvertisse
che politica e successi del Terzo Reich scuotevano le basi stesse della
potenza francese. L a democrazia liberale è il capolavoro della sto­
ria francese; essa costituisce la forma necessaria in cui vive e si
manifesta nel modo più naturale e completò la volontà di potenza
e l’impulso all’affermazione di sé del popolo francese; essa s’addice
perfettamente alla Francia, ed è insieme il dono che questa ha
fatto al mondo. L a Francia con ciò aveva obbligato il mondo in­
tero, di qua e di là degli oceani, la Francia era la nazione-guida

40 5
V ER SO L A G U E R R A

della civiltà, poiché la democrazia liberale era sangue del suo


sangue. Per altri popoli, la democrazia liberale è un abito, che, se
l’opportunità lo esige, ci si può sfilare di dosso, un apparato che è
possibile sostituire; per la Francia, invece, è la pelle con la quale
uno nasce e dalla quale non è lecito sgusciare. Non appena il corso
della democrazia liberale ribassi, calano anche la fama, la potenza
e la gloria francesi. L a Francia marcia alla testa delle nazioni solo
finché gli altri popoli seguano con ardore e passione la bandiera
della democrazia liberale, e se questa vien gettata nel fango, cadono
con essa il fascino e lo splendore della Francia. L a Germania in
veste di repubblica di Weimar aveva tratto conseguenze politiche
e costituzionali dal fatto che, attraverso il trattato di Versaglia, era
stata fondata la supremazia europea della Francia; in quanto la
Germania era diventata una democrazia liberale, in tanto si era
innestata nel nuovo equilibrio europeo, creato dal trattato di Ver­
saglia, garantito dalla Società delle Nazioni, e nel quale la Francia
dettava legge.
Già la nascita del Terzo Reich era stata uno scapito della po­
tenza francese; la distruzione degli istituti democratici tedeschi
era in funzione antifrancese; sbarazzandosi di Ginevra, la Ger­
mania si liberava di Parigi. In quanto il trattato di Versaglia, al
cospetto dell’opposizione tra fascismo e bolscevismo, perdeva in
forza necessitante, importanza e persuasività, in tanto la Francia
scadeva alla retroguardia; e se la lotta contro il bolscevismo diven­
tava più impegnativa e di maggior attualità che non la difesa di
Versaglia, il peso della Germania si faceva preponderante rispetto
a quello della Francia. Brutto segno, per la Francia, il moltipli­
carsi di voci proclamanti che il trattato di Versaglia era ormai
sorpassato e fuori moda. Chi dal trattato stesso si ritraeva, favoriva
il decadere della potenza francese in Europa: il cui sbriciolamento
tanto più risultava inarrestabile, in quanto la Francia non si appa­
recchiava affatto a difenderla con impegno.
Lo stato che per primo se ne avvide fu la Polonia. Per Varsavia
la Germania nazionalsocialista rappresentava l’astro nascente, che
prometteva ben più di quanto la Francia potesse tuttora dare. E
dal momento che questa non fermava con la forza le infrazioni
tedesche dei paragrafi di Versaglia relativi agli armamenti, divenne

406
P O L IT IC A E ST E R A A G G R E S S IV A

ben presto opinione comune che la Francia non ne fosse più ca­
pace; si cessò insomma dal temere la Francia.
Questa non faceva che richiedere, con sempre maggiore insi­
stenza, garanzie di “ sicurezza ” ; ma ciò equivaleva ad una confes­
sione di debolezza. L a Francia non incuteva terrore alcuno, la
Francia si faceva oggetto di compassione: divenne convinzione
comune, in Germania, che il popolo francese era impossibile indurlo
a scendere in campo. E il Terzo Reich era tentato a peccare ardi­
tamente contro l’incondizionato amor di pace del popolo francese.
Democrazia liberale, inviolabilità dei trattati, Società delle Nazioni,
erano le componenti dell’ideologia della potenza francese, eclis­
sate ormai dall’ideologia della potenza tedesca col suo contenuto:
la crociata contro il bolscevismo,, Fu manifesto allora che la po­
tenza tedesca era in ascesa, in regresso quella francese. E già il
Terzo Reich non faceva scrupoli di lasciar capire che considerava
la democrazia liberale come un gradino, prima all’anarchia e
poi al bolscevismo; di anarchia e bolscevismo si può venirne a
capo, qualora prima la si sia fatta finita con la democrazia liberale.
Il programma di Hitler in politica estera venne alla luce: in
primo luogo distruggere la Francia, per pòi conquistare senza
ostacoli la Russia; mobilitare le proprie forze in vista di “ una
definitiva spiegazione con la Francia, ” premesso che “ la Ger­
mania vede, nella distruzione della Francia, solo un mezzo per
permettere al nostro popolo una possibilità di espansione in al­
tri luoghi. ”
L a Francia preferì chiudere gli occhi, quando la Germania,
con la sua politica chiaramente ispirata aH’antiginevrismo e all’anti­
democratismo, le gettò ai piedi il guanto di sfida del revisionismo.
Se la Francia, chiuse gli occhi, fu per non doverlo raccogliere, e
ancora, se la Francia non lo raccolse, fu perché non si sentiva del
tutto sicura dell’appoggio inglese.
L a guerra mondiale aveva fatto pericolosamente scricchiolare le
giunture dell’impero britannico; per l’Inghilterra, il bolscevismo
era molto di più la somma delle tendenze sovvertitrici dei popoli
di colore, che non il compendio del movimento di rivolta prole­
tario e socialista; per Londra, il bolscevismo costituiva soprattutto
un problema di politica estera e di predominio mondiale, e assai

407
V E R SO L A G U E R R A

meno un problema interno, di carattere sociale. L ’impero sentiva


l’inquietante mano di Mosca assai più in Asia che non nei suoi
complessi industriali. Se l’Inghilterra necessitava di un contrap­
peso all’Unione Sovietica, era non già perché questa, quale stato
comunista-tipo, istigasse a sedizione il proletariato classista, bensì
perché, quale potenza decisa a sostenere fino in fondo la propria
lotta, offriva appoggio ai popoli coloniali. Se dunque il Terzo Reich
si metteva a perseguire una politica offensiva nei confronti dell’o­
riente, ciò voleva dire che c’era qualcuno a far sì che l’Unione
Sovietica non alzasse troppo il capo. Era nell’interesse inglese non
fare orecchio da mercante alle grida d’allarme tedesche per avver­
tire del pericolo bolscevico; ne conseguiva che anche gli altri stati
firmatari del trattato di Versaglia erano indotti a essere più com­
prensivi con la Germania che febbrilmente riarmava. Loyd George
si preoccupava di diffondere ogni tanto in tutto il mondo i lai delle
ambasce britanniche per il bolscevismo, contagiando quegli stati di
Versaglia, che nonostante tutto s’ostinavano a diffidare della Ger­
mania. “ Se la Germania, ” ebbe a dire Loyd George, “ piegasse
le ginocchia davanti al comuniSmo, o il comuniSmo conquistasse
la Germania, toccherebbe poi all’Europa, perché sarebbero i tede­
schi a portare a termine, e meglio di chiunque altro, l ’impresa. ”
L ’Inghilterra bloccò ogni energica iniziativa francese nei ri­
guardi della Germania. L a Francia era, dalla fine della guerra,
troppo debole, troppo demoralizzata, per poter dare addosso alla
Germania a proprio rischio e pericolo. Talvolta Londra censurava
le infrazioni al diritto commesse da Berlino, ma si trattava solo
d’un balsamo per le ferite francesi, d’un modo di persuadere il
popolo francese a non perdere la fiducia nell’amicizia inglese. Ma
per il resto, l’Inghilterra si limitò a provocare un interminabile
scambio di note diplomatiche tra Berlino, Londra, Parigi e Rom a;
si rimisero memorandum, si intrapresero passi diplomatici, i ministri
si misero in viaggio, si convocarono conferenze. Così passarono i
mesi, e la Germania ebbe il tempo di armarsi; e, quanto più forte
essa diventava, tanto più s’allontanava il pericolo di un colpo di
testa francese. L a sostanza dell’alleanza anglo-francese si riduceva
ad abbonire amichevolmente la Francia, quand’essa faceva il viso
dell’arme alla Germania; era il mantello, al riparo del quale l’In-

408
P O L IT IC A E ST E R A A G G R E S S IV A

ghilterra offriva alla Germania modo di riarmarsi, mentre, con la


lusinga di passi in comune, la Francia era indotta a non muovere
un dito.
Per l’Inghilterra era assai vantaggioso che, nel sempre più forte
Terzo Reich, andasse crescendo un efficace contrappeso all’Unione
Sovietica, non solo, ma anche una garanzia contro l’alleata fran­
cese. L a Francia è troppo vicina alle coste dell’Inghilterra, perché
questa possa concederle una eccessiva libertà d’azione, e soprattutto
tollerare che faccia lega con i suoi nemici. Che le cose vadano
male o bene, la Francia dev’essere sospinta tra le braccia dell’In­
ghilterra; dev’essere inevitabilmente obbligata a cercare il soccorso
inglese, si da permanere al rimorchio della Gran Bretagna; quale
potenza politica, bisogna rovinarla, al punto che non ne resti nulla
di più che una seconda Spagna o un Belgio di maggiori propor­
zioni. Il riarmo tedesco doveva porre la Francia in condizioni di
sussistere solo come cliente dell’impero britannico — cliente che
vive sotto protettorato inglese e, se mai combatte, lo fa ormai solo
nell’interesse della Gran Bretagna. Dal deperimento della demo­
crazia liberale europea, l’Inghilterra trasse la logica conseguenza
che la Francia non era più autorizzata a condurre un’esistenza da
grande potenza indipendente e autonoma. Fossero state le frontiere
inglesi, col consenso e il benestare francesi, spostate fino al Reno,
allora la Francia sarebbe divenuta provincia britannica; il Terzo
Reich riarmato era il babau, pronto ad apparire al cenno inglese
non appena la Francia orgogliosamente si intestardisse ad affer­
mare la propria autonomia. Hitler, che aveva un senso fine per
le esigenze inglesi, non si lasciò sfuggire nessuna delle occasioni
che — per terra, in mare, in cielo — l’Inghilterra gli andava
offrendo.

409
Capitolo ventinovesimo

La contromanovra francese

Veramente la Francia tentò, ancora una volta, di evitare la de­


cadenza politica tramata a suo danno dalPInghilterra e che la Ger­
mania intendeva prepararle. Barthou fu l’uomo che cadde tra i
raggi della ruota d’un destino al quale la Francia sembrava ormai
votata. In Barthou s’incarnò una volta ancora lo spirito della grande
rivoluzione francese, della fiera, impavida tradizione giacobina;
Barthou era francese nel senso in cui lo era stato ancora Clemen-
ceau; egli era penetrato dalla convinzione che a partire dal 1918
la posizione mondiale della Francia riposasse sulla forza della de­
mocrazia liberale, sull’autorità della Società delle Nazioni, sull’in­
violabilità del trattato di Versaglia; su queste basi, egli intendeva
dar prova di sé, difendendo la grandezza francese e riparando alle
perdite di prestigio che la poca vigilanza aveva causato alla Francia
dal momento in cui Hitler aveva conquistato il potere. A Bar­
thou non sfuggivano affatto le trame inglesi, ed era ben deciso a
mandarle a vuoto. L ’Inghilterra aveva sempre condiviso, in un
primo momento, lo sdegno francese per le infrazioni tedesche al
trattato, e l’Inghilterra s’era sempre dichiarata per quegli stessi
principi che la Francia voleva difendere; ma l’Inghilterra aveva
sempre trattenuto la Francia da “ passi precipitosi, ” e l’Inghilterra
aveva cosi impedito ogni azione decisiva contro la Germania; e
alla fine, a beneficio della Germania, aveva mandato in fumo tutta
l’eccitazione francese. “ In diplomazia, ” disse Barthou nel suo db
scorso alla Camera francese del 25 maggio 1934, agli ascoltatori
d’oltre Manica “ vi sono due modi di affrontare i problemi e di
cercarne la soluzione. L ’uno è quello di dire no se è no, e non di
pronunciare un no, al quale faccia seguito un si; consiste nel dire
si quando è si, e non un si che poi divenga un no. Questa è la
politica della chiarezza. E ce n’è un’altra, di politica, la quale fa

410
L A C O N T R O M A N O V R A F R A N C E S E

suo iin principio, ma riserbandosi di distruggerlo nei particolari.


N on è stato nostro intendimento di seguire quest’ultima politica,
e lo abbiamo detto chiaramente all’Inghilterra. ” Veniva cosi illu­
minato di luce crudissima il metodo diplomatico perseguito dal­
l ’Inghilterra, e Barthou si proponeva di metter fine, una volta per
tutte, alla curatela inglese sulla Francia.
Barthou non intendeva tollerare che si differisse oltre il problema
della politica europea, problema che si chiamava “ Versaglia, ” non
“ bolscevismo. ” Se il mondo si preoccupava del problema bolscevico,
era chiaro che non poteva aver occhi per quello di Versaglia, e che
avrebbe visto la realtà più attraverso gli occhiali tedeschi, che non
attraverso quelli francesi. A Ginevra, Barthou accoglie Litvinov
con straordinario calore. “ Litvinov — il mio giudizio è dettato da
amore della verità — non è certo un uomo che vuol piacere a tutti.
Egli mi ha detto, con una brutalità che tuttavia non esclude l’abilità,
delle verità quali egli le vede, e quali non sono apparse alla com­
missione generale. Litvinov si è presentato in veste di uomo pratico,
ed io non dubito che lo sia. È un uomo che ha di mira la realtà;
e se anche nel suo discorso vi sono passi sui quali io ben difficilmente
potrei trovarmi d’accordo, devo tuttavia riconoscere che v’èrin lui
un pensiero che domina su tutto, proprio su tutto il resto — spero
di essermi spiegato chiaro — un pensiero che, a mio avviso, è il
fulcro di tutto il suo discorso: l’idea della sicurezza.”
N el suo libro, Hitler ha preannunziato l’invasione della Russia
e l’abbattimento della Francia; ambedue gli stati hanno dunque le
stesse esigenze di sicurezza nei confronti del Terzo Reich. Demo­
crazia liberale e bolscevismo hanno nel nazismo il comune nemico.
Una volta ancora era maturo, tra U R SS e Francia, un patto difen­
sivo; i minacciati ritrovavano una comunanza Contro il criminale
aggressore tedesco.
Barthou e Litvinov aspiravano ad un patto tra i paesi dell’Euro­
pa nordorientale, i cui firmatari si sarebbero impegnati a prestarsi
mutuo soccorso facendosi cosi mallevadori l’uno della sicurezza
dell’altro; anche la Germania fu invitata ad aderire. Chi si fosse
rifiutato di parteciparvi, avrebbe dimostrato di nutrire l’intenzione
di turbare la pace. Il patto era insomma pensato come un rafforza­
mento del sistema di Versaglia; l’Unione Sovietica, mostrandosi

411
V E R SO L A G U E R R A

disposta- a sostenerlo, definitivamente si schierava, abbandonando


quello revisionista, sul fronte dell’antirevisionismo.
Barthou, da Ginevra andò a Bucarest e successivamente a Bel­
grado. La Piccola Intesa doveva rendersi conto che la politica ri­
nunciataria francese apparteneva al passato. Per gli stati nati dallo
smembramento dell’impero austro-ungarico, eretti sui principi di
Versaglia, il revisionismo costituiva un’aperta minaccia alla loro
esistenza. L a vigorosa offensiva di Barthou contro il revisionismo
consolidò la fiducia della Piccola Intesa nella Francia, se Benes, il
2 luglio 1934, poteva dichiarare: “ È in preparazione un nuovo
raggruppamento delle potenze europee, un raggruppamento che,
si può dirlo, nelle ultime settimane si è rivelato a chiunque, in
maniera improvvisa, inaspettata, e che sembra destinato a sovver­
tire, entro certi limiti, i rapporti prima esistenti in Europa. ”
A sua volta, Barthou affermava a Parigi: “ L a politica revisio­
nistica non solo è illegittima e contraria alle aspirazioni dei popoli,
ma è gravida di pericoli e reca in se stessa il germe della guerra. ”
Il blocco antirevisionistico qual era nelle intenzioni di Barthou,
avrebbe però raggiunto un grado sufficiente di solidità, solo quando
anche l’Unione Sovietica fosse accolta nell’istituzione ginevrina.
Nel luglio 1934, persuase da Barthou, Cecoslovacchia e Romania
riconoscevano il governo sovietico, e il 18 settembre dello stesso
anno, l’Unione Sovietica entrava a far parte della Società delle
Nazioni.
Il nazionalsocialismo, con il sorgere della combinazione poli­
tica antirevisionistica tra Francia, Unione Sovietica e Piccola In­
tesa, e come questa, animata dall’energia di Barthou, cominciò a
far sentire il proprio peso, cessò dall’avere il coltello per il manico.
Sotto la guida della Francia, la democrazia liberale passò all’offen­
siva; l ’Unione Sovietica le garanti il suo appoggio. L ’Europa as­
sunse un altro volto, dal giorno in cui Barthou, cosciente di tutte
le possibili conseguenze, s’oppose inflessibilmente al Terzo Reich.
“ L ’idea della guerra aleggia nell’aria, ” disse Mussolini il 24 agosto
di quell’anno. Barthou voleva mettere la Germania in ginocchio
senza dover fare ricorso alla guerra, ma era anche, qualora ogni
altra strada fosse chiusa, pronto alla guerra. Versaglia aveva cessato

412
L A C O N T R O M A N O V R A F R A N C E SE

di essere una bagatella, della quale, col pretesto dello zelo antibol­
scevico, non occorreva darsi briga alcuna.
L ’Italia aveva più volte mandato a monte il gioco della Francia;
al pari dell’Inghilterra, a più riprese aveva aiutato la Germania a
tirar fuori il collo dal cappio quando già la Francia si accingeva a
stringerlo. Come poteva Barthou placarla, sottraendola al campo
revisionista? La situazione era abbastanza propizia: in conseguenza
del riavvicinamento franco-sovietico, anche la Turchia e il blocco
balcanico erano attratti da Parigi; se dunque Mussolini non s’ac­
cordava con la Francia, lo si sarebbe potuto sloggiare dall’intera
sua zona d’influenza in Asia Minore e nei Balcani. Per l’Italia sa­
rebbe diventato difficile opporsi a una Jugoslavia sostenuta alle ^
spalle non solo da Parigi, ma anche da Mosca. Facendo da inter­
mediario fra Belgrado e Roma, Barthou avrebbe concesso a Mus­
solini quel sollievo, di cui questi aveva bisogno. Perché proprio
in quel torno di tempo Hitler e Mussolini si erano presi per i
capelli.
A lla metà di giugno, i due dittatori s’erano incontrati a Vene­
zia; personalmente i due non sentivano nessuna attrazione reci­
proca, sembrò tuttavia che sulla strada di Barthou dovesse ergersi
un neonato blocco fascista italo-tedesco. “ Ci siamo incontrati, ”
informò Mussolini, “ per tentare di spazzare le nubi che oscurano
l’orizzonte politico dell’Europa. Si può ben dire, una volta di più,
che la coscienza europea si trova di fronte ad una tremenda alter­
nativa. O l’Europa si rivelerà capace di un minimo di compren­
sione politica, di collaborazione economica, e di intendimenti so-
ciali, oppure il suo destino è irrevocabilmente segnato. ” L a pace
fascista sarebbe però, sempre secondo Mussolini, una pace virile,
una pace che s’addirebbe ai forti, non già ai deboli. “ N oi non
siamo contro i deboli, ma contro l’ingiustizia. ” Era una minaccia
in chiave revisionistica, rivolta a Parigi.
Ma poco più di un mese dopo, i ponti tra Germania e Italia
erano rotti.
A Venezia, Mussolini aveva chiesto a Hitler il non intervento
in Austria, e si era convinto di averne ottenuta la promessa. Ma
il 25 luglio, con l’appoggio del Terzo Reich, i nazionalsocialisti
austriaci si sollevavano, e Dollfuss veniva assassinato. Il Putsch si

413
V E R SO L A G U E R R A

proponeva, a soluzione del problema austriaco, il ritorno al Reich


dell’Austria sotto il segno della croce uncinata. Ma esso falli; i
nazionalsocialisti austriaci incontrarono una resistenza più dura di
quanto non avessero previsto; Mussolini mobilitò truppe e “ montò
la guardia al Brennero” ; bastava che la Germania si lasciasse in­
durre ad un gesto incauto, perché le forze italiane entrassero in
Austria. E Mussolini non era tipo da traccheggiare, al contrario
di quanto avesse fatto finora la democrazia francese; con Mussolini
non c’era da scherzare troppo: quando erano in gioco gli interessi
italiani, non compilava note sdegnate, ma sguainava la spada.
Barthou era d’intesa che si tenesse in iscacco la Germania sul
Danubio; lasciando ivi la incontestata precedenza a Mussolini, ne
solleticava l’orgoglio. In pari tempo, Mussolini era il curatore degli
interessi francesi; poteva dire il fatto suo alla Germania quanto e
come gli pareva.
Consentendo al piano per l’oriente europeo di Barthou, Musso­
lini ricambiava semplicemente un favore.
Ma i doveri della “ Guardia al Brennero ” non gli facevano tut­
tavia perdere di vista i suoi obbiettivi africani. E Barthou lo inco­
raggiava a perseguirli; Mussolini doveva essere sviato in direzione
dell’Abissinia : sarebbe stata la sua ricompensa. Il patto mediter­
raneo doveva garantire lo status quo nei Balcani, sul Danubio, e
nei mari che bagnano l’Italia; a Mussolini, l’incarico di montar la
guardia all’antirevisionismo. Se, in compenso, impadronendosi del-
l’Abissinia, non minacciava alcuna zona d’influenza francese, nulla
avrebbe più turbato la collaborazione italo-francese.
Naturalmente, questa distrazione dell’Italia in direzione del­
l’Etiopia non poteva non destare le preoccupazioni inglesi. La
grande rotta per le Indie orientali sarebbe stata minacciata sul
fianco da Mussolini; il bacino del N ilo sarebbe stato stretto nella
morsa italiana, il nesso territoriale tra Egitto e il resto dell’Africa
britannica, interrotto. Inoltre, un eventuale successo italiano in
Abissinia avrebbe potuto esasperare e sfrenare gli appetiti imperiali
di Mussolini.
Non si può certo dire che queste prospettive rattristassero Bar­
thou. Egli era deciso a mostrare i denti all’Inghilterra; secondando
l’Italia in Africa, non faceva che ripagare l’Inghilterra della infe-

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L A C O N T R O M A N O V R A F R A N C E S E

deità da questa commessa con la Germania a spese della Francia.


Ma l’Inghilterra doveva essere ben altrimenti intimorita: un’al­
leanza franco-sovietica poteva avere conseguenze in A sia; e, finché
la Germania era impegnata dalla Francia, la Russia sovietica aveva
mano libera nel vicino ed Estremo Oriente. Sauerwein. comparve
a Tokio, dove consigliò i giapponesi a considerare gli inglesi, e
non i russi, i loro veri nemici: il dominion britannico dell’A u­
stralia, dal punto di vista climatico, era più adatto alla colonizza­
zione di quanto non fosse la Siberia orientale. Barthou dunque
mirava a tutti i punti deboli dell’impero britannico; Londra do­
veva rendersi conto che ne andava dell’esistenza stessa della Gran
Bretagna, qualora avesse continuato la sua intimità con la Germania
a spese della Francia. E Londra comprese e s’affrettò a far marcia
indietro; i suoi rappresentanti a Berlino perorarono a favore del
patto orientale e dell’idea di una pace collettiva; in una parola,
l’Inghilterra si rassegnò a vedere l’iniziativa diplomatica mono­
polizzata da Barthou.
La posizione, cui alla fine assurse Barthou, era altissima. Il cer­
chio tutt’attorno alla Germania era ribadito; la Russia dei Soviet,
la Piccola Intesa, la Lega Balcanica e il Blocco Balcanico, riceve­
vano le direttive da Parigi, e Roma era d’accordo. Se anche la
Polonia, stizzita per la politica francese nei confronti dell’Unione
Sovietica, non si lasciava staccare dalla Germania, tuttavia era neu­
tralizzata, e in caso di guerra avrebbe riflettuto a lungo, prima di
legare la sua sorte a quella del Terzo Reich. Dal canto suo, l’In­
ghilterra era costretta a far buon viso a cattivo gioco: la strategia
politica di Barthou l’aveva paralizzata, e non le restava che lasciar
fare all’uomo di stato francese, che era ormai diventato il rettore
d’Europa. Una volta ancora, con lui il popolo francese s’era posto
alla testa delle nazioni ; lo stile diplomatico di Barthou possedeva
un meraviglioso slancio, era di una inarrivabile eleganza. L a Ger­
mania era in trappola; e quando il io settembre di quell’anno, essa
prese posizione contro la “ Locamo orientale, ” tirò aria da ulti­
matum.
Quattro settimane più tardi, il 9 ottobre 1934, Barthou veniva
assassinato a Marsiglia; la sua morte era una manna del cielo tanto
per l’Inghilterra, quanto per la Germania.

415
V E R SO L A G U E R R A

Barthou aveva portato la Francia ad un’altezza, alla quale que­


sta non poteva tenersi senza esser presa da vertigini; sollevarsi al
livello del suo grande passato era infatti cosa superiore alle forze
del popolo francese, e la prospettiva della guerra, di fronte alla
quale la politica di accerchiamento della Germania sostenuta da
Barthou, non si ritraeva spaventata, era più di quanto cuore fran­
cese fosse in grado di sopportare. L a Francia si sentiva tremare le
ginocchia di fronte alla durezza, aH’implacabilità della vita cui
deve acconciarsi ogni nazione mossa dall’orgoglio di un destino
eccezionale. Lavai, quell’uomo dall’aria ambigua, da levantino,
pretese di scroccare al destino la posta che spettava alla politica di
Barthou, volle raccoglierne l’eredità senza tuttavia assumersi le
responsabilità per i debiti e gli impegni da quello contratti.
I retroscena dell’attentato di Marsiglia non furono resi di pub­
blico dominio, né del resto Lavai intendeva mettersi sulle tracce
dei promotori e sobillatori, per non dover chiederne loro ragione.
Con l’Ungheria si fu molto indulgenti, le fila che si sapevano con­
durre fino a Berlino, non furono affatto seguite. G ià al principio
di gennaio del 1935, Lavai partiva per Roma col proposito di porre
la prima pietra dell’amicizia italo-francese. N el farlo, egli non
aveva cattive intenzioni nei confronti dell’Inghilterra; e trovò con
straordinaria facilità una base d’accordo con Mussolini. Il Duce
confermò dal canto suo che “ nessun paese può rettificare, con
iniziative unilaterali, gli impegni relativi all’entità degli arma­
menti ” ; respinse il revisionismo violento e, assieme a Lavai, si fece
garante dell’indipendenza e integrità territoriale dell’Austria, ot­
tenendo come contropartita l’appoggio francese per la progettata
campagna etiopica.
II patto Laval-Mussolini parve essere nello spirito di Barthou
ma l’apparenza era ingannevole. Barthou aveva fatto le carte in
modo da obbligare il fascismo italiano a servire la democrazia
francese; al contrario, Lavai, egli stesso non alieno da sommesse
simpatie per il fascismo, faceva si che fosse la democrazia francese
aggiogata al carro del fascismo italiano. G li era bastato che Mus­
solini si dichiarasse in maniera tutt’altro che impegnativa contro
le infrazioni tedesche al trattato di Versaglia, perché la questione
germanica gli apparisse sotto una luce più benigna; con in tasca

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L A C O N T R O M A N O V R A F R A N C E S E

l ’amicizia italiana, ritenne di non dover muovere un dito contro


la Germania. In vista dell’imminente plebiscito per la Saar, Barthou
aveva preteso che, da parte tedesca, si garantisse la libertà di voto,
e aveva dato il suo appoggio ai partigiani dello status quo. Lavai,
invece, evitò di inasprire con tali misure i rapporti franco-tedeschi ;
abbandonò a sé il movimento in favore dello status quo, e affidò
la intera questione della Saar nelle mani di un comitato a tre, pre­
postovi dalla Lega delle Nazioni. Allargando la Francia stessa la
morsa della tenaglia in cui Barthou aveva serrato la Germania,
Lavai si trovò improvvisamente sulla strada della distensione con
il Terzo Reich. Ciò che era solo il rovescio della medaglia d’una
debolezza francese, Lavai lo spacciò per opera del suo ingegno
politico.
Tanto Lavai che il presidente del consiglio Flandin, erano in
strettì rapporti col Comité des forges. L a grande borghesia fran­
cese non era più affatto strenuamente liberale-democratica alla ma­
niera di un Barthou; per essa prender partito per la democrazia
liberale era questione d’opportunismo, non più ragion di vita. Essa
poteva sussistere anche senza tradizioni giacobine, e né il fascismo
italiano, né il nazionalsocialismo tedesco, le riuscivano incondizio­
natamente antipatici: con essi, la grande borghesia francese poteva
andar d’accordo sempre meglio che con il bolscevismo. Se all’im­
provviso la Francia fosse tornata a staccarsi dalla Russia sovietica,
ciò avrebbe comportato il crollo di un intero sistema di politica
estera; e, essendo impossibile stimarne la portata, la Francia non
poteva permettersi di provocarlo. Non era tuttavia un segreto per
nessuno che solo a malincuore la Francia aveva onorato la cambiale
che Barthou aveva rilasciato all’Unione Sovietica, e che ora questa
presentava. Solo il 2 maggio 1935, il patto di mutua assistenza
franco-sovietico passò finalmente alla firma, e solo nella primavera
del 1936 veniva ratificato dalla Camera dei deputati francese. L ’in­
dugio frapposto alla conclusione del patto stesso era destinato a
togliere a questo ogni valore pratico: a Londra e a Berlino si do­
veva comprèndere che aveva funzioni puramente difensive, che da
esso era esclusa quell’implicàzionè offensiva che Barthou invece
aveva voluto dargli. Esso doveva regalare alla Francia una sensa­
zione di sicurezza, in attèsa del giorno in cui avrebbe potuto incon-

417
V E R SO L A G U E R R A

dizionatamente contare sull’aiuto inglese, e in pari tempo gettare


acqua sul fuoco del revisionismo tedesco. Non mancavano certo
gli indizi per affermare che Lavai, in cuor suo, era ben più pro­
penso a una riconciliazione franco-tedesca in funzione antibol­
scevica, che non a un’alleanza franco-sovietica rivolta contro il
Terzo Reich.
A Londra, Lavai fu perfettamente capito; a Londra si tirò un
sospiro di sollievo e senz’indugio si diede di piglio alle redini
sfuggite dalle mani di Barthou. L ’Inghilterra incoraggiò Lavai a
chiudere gli occhi di fronte ad una Germania che, mentre il mi­
nistro degli esteri francese continuava a trattare e stilare note di­
plomatiche, di giorno in giorno spostava a suo favore la bilancia
dei rapporti di potenza europei; l’Inghilterra narcotizzava la Fran­
cia con speranze di appoggio, si che quella non si accorgesse affatto
di come la Germania stesse intanto smantellando le posizioni ege­
moniche francesi. Lavai non recava più offesa all’Inghilterra, ma
anzi provvedeva a spazzar via tutto il materiale incendiario accu­
mulato da Barthou. Il popolo francese doveva aver pace; e il Terzo
Reich poteva, come prima, considerare il desiderio di pace fran­
cese, come la voce più sicura del suo bilancio di politica estera.
Ormai la Germania, col tacito consenso dell’Inghilterra, s’ac­
cingeva a sferrare il primo, vigoroso colpo contro il trattato di
Versaglia: il 1 6 marzo 1935, veniva pubblicata la “ legge per la
creazione della Wehrmacht. ”
Di propria iniziativa, il governo tedesco tirava un frego sul
paragrafo quinto del trattato, rimettendo in vigore il servizio mi­
litare obbligatorio. Finora mai la Germania aveva palesato tanto
sprezzo per il trattato, con la santità e l’intoccabilità del quale era
finita, se l’iniziativa del Terzo Reich fosse stata coronata da suc­
cesso. Per non diventare l’accusata, la Germania si presentò essa
stessa alla sbarra in veste di accusatrice: erano le potenze occiden­
tali, che avevano infranto il patto, poiché finora non avevano
ridotto i loro armamenti al livello tedesco; erano le potenze gine­
vrine, non la Germania, che avevano fatto a pezzi il trattato, al
quale il Terzo Reich mai più si sarebbe sottomesso.
Inghilterra, Francia e Italia, inviarono note di protesta a Berlino;
il governo italiano si senti in dovere di dichiarare ufficialmente

418
L A C O N T R O M A N O V R A F R A N C E S E

“ che, in eventuali future discussioni, esso non potrà semplice-


menti accettare situazioni simili come fatti compiuti. ” I primi
ministri dei tre stati, un mese piu tardi s’incontravano a Stresa,
esprimendo il loro rincrescimento perché “ il metodo della unila­
terale denuncia dei trattati, che il governo tedesco ha messo in atto
proprio quando si erano iniziati passi per concordare liberamente
un regolamento degli armamenti, ha scosso la fiducia dell’opinione
pubblica nella saldezza di un ordine pacifico. ” I ministri si dichia­
ravano ancora concordi nella volontà di “ opporsi con tutti i mezzi
adatti alle unilaterali denunce dei trattati, che mettono in pericolo
la pace europea; a tale scopo i rispettivi governi agiranno in stretta
e amichevole collaborazione. ” L ’assemblea della Società delle N a­
zioni il 17 aprile successivo votava una dura risoluzione contro la
Germania: questa, vi si leggeva, aveva agito in pieno contrasto con
i fondamenti del diritto internazionale, era “ venuta meno agli
obblighi, che incombono ad ogni membro della comunità interna­
zionale, di tener fede agli impegni contratti una siffatta denuncia
del trattato, non può “ non condurre alla adozione delle adeguate
m isure.” Fu nominato un comitato a tredici, incaricato di predi­
sporre l’applicazione di sanzioni. L a risoluzione era redatta in ter­
mini cosi aspri, da provocare la violenta reazione da parte tedesca;
il governo hitleriano negava ai membri della Società delle Nazioni
il diritto di “ ergersi a giudici della Germ ania” ; la risoluzione
non era altro che un nuovo tentativo di “ discriminazione nei
confronti della Germania, ” e come tale veniva quindi energica­
mente respinto. Inghilterra e Italia avevano fatto alla Francia il
piacere di ribadire i loro impegni di Locam o; esse, piu tardi, resero
noto che non potevano considerare il patto franco-sovietico in con­
traddizione con quello di Locamo. L ’Inghilterra si dichiarò d’ac­
cordo con la tesi franco-russa dell’indivisibilità della pace e forni
al governo francese tutto il necessario appoggio diplomatico. Tutte
le potenze di Versaglia, indignate come la Francia ben poteva
aspettarsi che fossero, erano moralmente in tutto e per tutto soli­
dali con Parigi.
Ma gli eserciti non si misero in marcia, e la Francia fu persuasa
a non mobilitare il suo. L a pace fu mantenuta, e non già perché
la Germania avesse riparato ai torti commessi, bensì perché la

419
1 V E R SO L A G U E R R A

Francia si rassegnò alla situazione. Solennemente il governo france­


se rimise a quello tedesco “ il peso della responsabilità per la situa­
zione di instabilità che cosi si è creata nel mondo e per le conse­
guenze che nè possono derivare, ” e assicurò con aria risoluta che
“ a nessuna condizione si sarebbe rassegnato a veder riconosciute
de jure, in qualsiasi trattativa, iniziative intraprese a dispregio
degli impegni internazionali. ” L a Germania, dal canto suo, non
temeva affatto “ il peso della responsabilità ” né la riserva di diritto
francese; l’immenso esercito alla cui creazione essa diede subito
mano, aveva spalle robuste e la sua coscienza giuridica non era
troppo sensibile. Se la Francia si limitava a protestare, a indignarsi,
a prendere posizione, la Germania aveva vinto; se indisturbata
riusciva ad avere le sua armata, allora gli strilli francesi non ne
avrebbero neppure più messo a cimento i nervi. Il trattato di Ver-
saglia era diventato una larva non già perché la Germania lo avesse
fatto a pezzi, ma perché la Francia s’era rifiutata di sguainare a
propria difesa la spada. D ’ora in poi la Francia non avrebbe più
potuto attaccare il “ valzer di Versaglia, ” senza annoiare il mondo
intero: il momento era favorevole per far tornare d’attualità il
ritmo antibolscevico.
Lo fece Hitler, col suo discorso al Reichstag del 2 1 maggio 1935.
L ’atmosfera internazionale era tesa, e col suo discorso egli tornava
a combattere una delle sue “ battaglie per la pace. ” Inghilterra e
Italia gli fornivano indirettamente ogni appoggio, pretendendo
solo che egli non facesse pazzie e non si cacciasse, nei confronti
sia della Francia, sia della Lituania, di Danzica, dell’Austria e della
Cecoslosvacchia, in avventure capaci di provocare un’esplosione
internazionale. L a situazione psicologica e militare era ancora tale,
che ogni grande potenza avrebbe dovuto, in caso di conflitto, schie­
rarsi con la Francia, per non restare essa stessa schiacciata: quanto
a meritarsi fidùcia, il Terzo Reich lasciava ancora molto a deside­
rare, e si sarebbe consegnato a un assai incerto futuro, chi avesse
legato la propria sorte a quella del Terzo Reich. Il Terzo Reich
avrebbe dovuto ben altrimenti consolidarsi, prima che ci si potesse
apertamente riconoscere suoi alleati per là vita e la morte. Hitler
accumulasse purè tutte le armi chè voleva: solo che per il momento
non ne facesse usò di sòrta.

•420
L A C O N T R O M A N O V R A F R A N C E S E

Hitler aveva abbastanza tatto da intuire qual era la linea che


non gli era lecito varcare, e sufficiente furbizia per dare alle sue
intraprese quel volto innocente atto a ingannare chi volesse farsi
ingannare. Egli prendeva a pedate il trattato di pace: si, ma solo
perché questo rappresentava un ostacolo alla pace; certo, riarmava:
però meramente allo scopo di esser forte per la pace. Il mondo
temeva che egli scatenasse la guerra? Hitler offriva al mondo un
piano di pace, che coi suoi tredici punti, poteva considerarsi un’in­
fallibile ricetta. “ La Germania nazionalsocialista vuole la pace per
intima, ideologica convinzione. ” Da ogni parte si muoveva al
Terzo Reich il rimprovero di opporsi alla collaborazione interna­
zionale; lo si accusava di essere incline a trattati bilaterali, per
conservarsi mano libera contro l’Unione Sovietica: quale torto gli
si faceva, con tanta diffidenza! E che terribile sorte non era venuta
alla Germania da quella “ collaborazione internazionale, ” attuata
secondo le idee del presidente Wilson! Non era forse stata essa,
ogni volta, un “ pretesto per edificare costruzioni, ” “ le quali ser­
vono assai meno la sicurezza collettiva che, volutamente o no, la
preparazione collettiva alla guerra ? ” N on deve dunque, proprio
chi ama la pace, respingere gli “ impegni d’intervento ? ” Questi
comportavano la paradossale conseguenza di costringere in ultima
analisi la Germania a correre in aiuto del suo mortale nemico,
l’organizzazione statale bolscevica. “ Quanto a noi, non desideriamo
l’aiuto militare dello stato bolscevico, né saremmo in grado di for­
nirglielo. ” Il Terzo Reich non favorisce il bolscevismo, ma al
contrario lo colpisce ovunque lo incontri. È del bolscevismo, non
del Terzo Reich, che dovrebbe preoccuparsi l’Europa. Hitler torna
a snocciolare l’intera “ lista dei peccati ” bolscevichi : il nazionalso­
cialismo ha “ strappato l’Europa alla più spaventosa catastrofe di
tutti i tempi. ” Poiché però l’Europa non ha ancora afferrato l’opera
storica di Hitler, questi può “ apparire forse solo come l’uomo
deriso da tutto il resto del mondo. ”
Dal 16 marzo, uno dei pilastri dell’egemonia francese in Euro­
pa, il trattato di Versaglia, giaceva infranto: nessuno osava più
prenderlo sul serio, non costituiva più l’oggetto di reali appren­
sioni europee; ed ecco Hitler levarsi a riempire l’Europa di ter­
rore per lo “ spauracchio bolscevico. ” Quanto meglio vi fosse

421
V E R SO L A G U E R R A

riuscito, tanto più sarebbe divenuto l’uomo di cui l’Europa aveva


bisogno. Lavai non era certo un avversario degno di lui, capace
di stargli al passo; e, divenuto il trattato di Versaglia ferrovec­
chio, il fascismo nella sua versione italiana e tedesca, poteva con­
tinuare a perseguire i propri obbiettivi: ora poteva muovere al­
l’assalto di Ginevra, della Società delle Nazioni stessa.
L ’offensiva fascista contro la Società delle Nazioni ebbe inizio
con l’invasione italiana dell’Abissinia.

422
Capitolo trentesimo

Capitolazione collettiva di fronte all’aggressore

L a Germania era stata accolta nella Società delle Nazioni una


volta che ebbe sottoscritto il trattato di Locam o; in quanto volon­
tariamente s’assumeva gli impegni a esso relativi, passava all’esa­
me cui era stata sottoposta la sua volontà di pace: essa si ren­
deva degna della comunità delle nazioni democratiche. Col ri­
tiro della Germania dalla Società delle Nazioni, il trattato di
Locam o aveva perduto il proprio significato, non era più che uno
spiacevole ricordo. Mal si conciliava, con l’albagia del Terzo Reich,
di esser messo alla prova su un’intenzione che esso profondamente
aborriva, e non a caso a partire dal 1933 ci si continuava a doman­
dare quando la Germania si sarebbe sciolta dagli impegni di Lo­
camo. In effetti, in quanto Locamo rappresentava il volontario
riconoscimento da parte tedesca del documento di Versaglia, in
tanto Locamo appariva intollerabile agli occhi del Terzo Reich:
neppure l’illusione doveva più sussistere, che il trattato di Versa­
glia fosse in vigore col consenso della Germania.
Era appena stato sottoscritto, nel maggio 1935, il patto franco­
sovietico, che già s’apriva in Europa la discussione sul patto di
Locamo. Fu l’Inghilterra a prenderne l’iniziativa: alla Camera
dei Comuni s’accumulavano le interrogazioni circa i riflessi del
patto di mutua assistenza franco-russo sulle “ garanzie da parte
britannica, previste dal trattato di Locam o.” Il governo inglese
confermò più volte la sua intenzione di “ tener fede nell’even­
tualità ” ai propri impegni locarnesi. Il 14 maggio, il governo
tedesco non aveva ancora sollevato proteste circa la demilitariz­
zazione della Renania; ma, una volta indotta l’Inghilterra a far
proprio il problema, rimetteva in data 25 maggio alle potenze di
Locamo un memorandum: in esso poneva le potenze di fronte
all’arduo problema “ se gli impegni contrattuali assunti or ora

423
V E R SO L A G U E R R A

dalla Francia nei confronti dell’U RSS, si mantenevano nei limiti


stabiliti dal patto renano di Locamo. ” La risposta francese re­
spingeva le eccezioni tedesche: il patto renano, essa suonava, rap­
presenta, “ quale elemento della sicurezza collettiva, un princi­
pio essenziale di tutta la politica francese, perché il governo fran­
cese possa esporsi al pericolo di vederlo messo in forse da un’ini­
ziativa unilaterale” ; il governo inglese espresse l’opinione non
esservi nel patto franco-sovietico “ nulla che contraddica a quello
di Locamo o ne modifichi in alcun modo i procedimenti” ; il
governo italiano comunicò di “ condividere, per quanto lo riguar­
dava, il punto di vista esposto dal governo francese circa il signi­
ficato del trattato franco-russo, in relazione al trattato di Locamo ” ;
il governo belga infine non credeva “ che il patto franco-sovietico
fosse in contraddizione con le disposizioni del patto renano.”
Nonostante tali tranquillanti assicurazioni delle potenze fir­
matarie del patto, al Terzo Reich premeva che la questione di
Locamo continuasse a essere un problema aperto; per tale motivo
alla fine del luglio rendeva noto ai singoli governi di “ essere
costretto a mantenere ora come prima, in tutta la sua estensione,
la propria opposizione al patto franco-sovietico e di non poter
considerare la faccenda come chiusa. ”
Già durante i dibattiti alla camera dei deputati francese del
febbraio 1936, si profilò il colpo decisivo che la Germania inten­
deva sferrare ora al patto di Locamo. Lo stesso governo tedesco
aveva ammesso, cosi aveva sostenuto Herriot, che il patto di L o­
camo non veniva affatto toccato dal patto franco-russo. Ma il
governo tedesco fece precisare che l’asserzione di Herriot era in
palmare contrasto con la realtà: si trattava infatti solo d’un’infra-
zione legale del patto di Locamo, ma ancora piu manifesta era,
“ da un punto di vista politico generale, la incompatibilità dei
due patti, fin dal principio sottolineata ” dalla Germania. Con tono
ammonitore, Hitler disse a Bertrand de Jouvernel: “ V i rendete
conto in Francia di quel che fate? V i lasciate tirare nel gioco di­
plomatico di una potenza, la quale null’altro vuole se non con­
durre i popoli europei a uno stato di discordia, dal quale essa sola
ha da guadagnare. ” Per contro, nel suo discorso alla Camera il
ministro degli esteri Flandin, che nel frattempo aveva sostituito

424
C A P IT O L A Z IO N E D I FR O N T E A L L 'A G G R E S S O R E

Lavai, ribadì ancora una volta che il patto franco-sovietico “ non


può fornire il pretesto ad una denuncia unilaterale di precedenti
stipulazioni... Del resto, ” riprese con tono ironico, “ sarebbe fare
al governo tedesco un’offesa gratuita, imputandogli il desiderio
di provocare un serio conflitto con i firmatari del patto di Locamo,
visto che non si stanca di dichiarare propositi pacifici.”
Pochi giorni dopo — il 6 marzo — Hitler informava il mondo
che i suoi “ propositi pacifici ” non gli impedivano affatto di pro­
vocare un serio conflitto con le potenze di Locamo.
Nello stesso momento in cui le truppe tedesche avevano rice­
vuto dal governo l’ordine di occupare, nelle regioni renane, le
loro future guarnigioni, al Reichstag Hitler affermava che trami­
te l’accordo franco-sovietico la minacciosa potenza militare di
uno sterminato paese aveva avuto accesso all’Europa Centrale,
comportando la distruzione di ogni effettivo equilibrio europeo.
L a colossale mobilitazione dell’oriente contro la Mitteleuropa,
continuava Hitler, era in contraddizione non soltanto con la let­
tera, ma anche e soprattutto con lo spirito del patto di Locam o;
incontestabilmente il trattato franco-sovietico era rivolto contro la
Germania, per cui risultava assodato “ che la Francia ha assunto,
nei confronti dell’Unione Sovietica, impegni tali che in pratica
prescrivono all’eventualità di agire come se né lo statuto della
Società delle Nazioni, né il patto renano, che a quello si riferisce,
fossero in vigore. ” Con ciò il patto di Locamo ha perduto ogni
senso e in pratica ha cessato di esistere : “ anche la Germania, dal
canto suo, non si sente più vincolata a questo patto privo ormai
di validità. ” In nome dell’elementare diritto d’un popolo alla
difesa dei suoi confini il governo tedesco ha pertanto “ ristabilito,
a partire da oggi, la completa e illimitata sovranità del Reich sul­
la zona demilitarizzata della Renania. ”
Francia, potenze di Locamo, Società delle Nazioni, erano ìnes-
se di fronte al fatto compiuto, si trovavano ancora una volta al
cospetto di un Hitler il quale alla violenza aggiungeva il cinico
scherno: pur mostrando loro i denti, eccolo coprirsi con la pelle
dell’agnello pacifista. Per “ togliere ogni dubbio sul carattere di­
fensivo di queste misure, ” egli disse, la Germania era pronta
“ a intavolare nuove trattative per la creazione di un sistema di

425
V E R SO L A G U E R R A

garanzia della pace europea.” Col presupposto della completa


parità, la Germania intendeva trattare la costituzione di una zona
smilitarizzata su ambedue le rive del Reno, mentre un nuovo
patto di non aggressione, della durata di venticinque anni, doveva
essere stipulato con Francia, Belgio, forse anche Olanda. Patti
di non aggressione vennero offerti anche ai paesi confinanti a
oriente con la Germania; si propose un patto aeronautico. L a
Germania era disposta a rientrare in seno alla Società delle N a­
zioni, comunque attendendosi, entro un ragionevole lasso di tempo,
la parificazione dei propri diritti coloniali.
Era uno di quei momenti in cui per decenni a venire si decide
il destino storico dei popoli. Da lungo tempo l’intera nazione
francese non veniva cosi brutalmente messa alla prova: ora si
sarebbe visto se essa conservava ancora il suo pieno valore, o se
doveva invece venir considerata di nessun momento. L ’intero
sistema dei trattati stipulati dopo il 1918, sul quale si era sostenuta
la posizione della Francia postbellica giaceva in pezzi; era come
se la Francia non avesse mai vinto una guerra. Mai finora la
Germania aveva più audacemente giocato va banque\ ora essa
aveva puntato tutto su una carta. Se il governo francese accettava
il fatto compiuto; se la Germania poteva in tutta fretta rafforzare
i suoi confini occidentali e stipare di truppe la Renania, il sistema
d’alleanze francese sarebbe stato svalorizzato: la Francia non
sarebbe più potuta entrare in Germania, per portare aiuto alla
Polonia, alla Piccola Intesa o alla Russia Sovietica; d’ora in poi
la Germania avrebbe potuto con limitate forze difendere le pro­
prie frontiere occidentali, e intanto gettarsi con tutta la violenza
sull’Oriente. In forse era messa la dignità politica che il futuro
serbava alla Francia: sarebbe stata essa una potenza di primo, di
secondo, o addirittura di terz’ordine?
Hitler, che non si nascondeva d’essersi spinto fin sull’orlo della
guerra, fece appello al giuramento di “ non retrocedere di fronte
a nessuna potenza né di fronte ad alcuna forza nella reintegra­
zione dell’onore del nostro popolo, e di soccombere onorevolmente
all’estrema calamità, piuttosto di capitolare di fronte a essa. ” Più
tardi trapelò che i generali tedeschi avevano seguito Hitler con
molte titubanze: non si sentivano ancora all’altezza d’una guerra.

426
C A P IT O L A Z IO N E D I FR O N T E A L L 'A G G R E S S O R E

Fosse la Francia rimasta irremovibile; avesse preso disposizioni


intese a scacciare dalla zona demilitarizzata le truppe tedesche
con la forza delle armi; avessero i generali tedeschi optato per
la ritirata anziché per la guerra: ebbene, per il prestigio di Hilter
sarebbe stata la fine. Forse per la prima volta dal 1935 era bale­
nata agli occhi di ognuno la possibilità della sua caduta. L a Fran­
cia non avrebbe dovuto esitare: non impartendo subito, fin dal
primo istante, l’ordine di marciare contro la Germania, essa era
atterrata, il colpo di mano tedesco riuscito.
L a Francia l’ordine non lo impartì: si dice che lo stato mag­
giore francese, mosso da simpatie fasciste, vi si sia opposto. La
Francia non lesinò dichiarazioni patetiche e solenni riserve: ma
non erano se non vuote parole. Il governo francese si era, “ senza
anticipare misure di sorta, messo in contatto con gli altri sotto-
scrittori del patto, per contrastare di comune accordo l’unilate­
rale denuncia dei trattati. ” Poiché da parte francese non si vol­
lero precorrere i tempi, la Germania guadagnò tempo, e guada­
gnar tempo era tutto ciò di cui aveva bisogno, per potersi mili­
tarmente annidare in Renania. Non solo, ma ritorcendo addirit­
tura le accuse, chiese come mai la Francia senza previo ricorso a
un arbitrato internazionale avesse, stipulando il patto con la Rus­
sia Sovietica, creato un fatto compiuto.
Fu nello stile della nobile, grande retorica classica, che il pre­
sidente del consiglio francese, Sarrant, portò di fronte all’audito­
rio mondiale la querela francese. Non fecero difetto alate locu­
zioni : il governo francese era fermamente deciso a non “ trattare
sotto la spinta delle minacce ” ; noi, vi si afferma, “ non siamo
disposti a mettere Strasburgo alla portata dei cannoni tedeschi.”
Ma, lungi dall’annunciare che avrebbe ripulito con le armi la
Renania dalle truppe tedesche, Sarrant si limitò a fare appello
alla Società delle Nazioni. Fu tutto: né superò tali limiti la di­
chiarazione della camera dei deputati francese del io marzo, che
parlava, sì, di “ improvvisa e brutale rioccupazione della zona
smilitarizzata, ” di “ violenza del fatto compiuto, ” di “ attentato
alla sicurezza internazionale,” ma in ultima analisi si limitava
anch’essa a offrire alla Società delle Nazioni le forze materiali e

427
V ER SO L A G U E R R A

morali della Francia, “ onde stornare il ripetersi di un’insanabile


sventura per la civiltà europea. ”
La Francia dunque accettò impassibile il celione tiratole dalla
Germania, e si consolò persuadendosi di avere, col proprio san­
gue freddo, salvato la pace. Dal momento che i suoi diritti vitali
non avevano ai suoi occhi tanta importanza da indurla subito e
con decisione a scendere in campo per essi, logico che ancor mi­
nore importanza desse loro la Società delle Nazioni: era troppo
pretendere da questa che fosse più francese della Francia. Il 12
marzo le potenze di Locamo si incontrarono a Londra, dove
“ concordemente ” si riconobbe costituire la rioccupazione della
zona smilitarizzata da parte della Germania un’aperta violazione
degli articoli 42 e 43 del trattato di Versaglia; ma le potenze di
Locamo si guardarono bene dal tirare in ballo anche l’articolo 44,
per il quale la violazione tedesca del trattato si sarebbe dovuta
considerare “ atto ostile nei confronti delle potenze firmatarie
del presente trattato ” e “ tentativo di turbare la pace mondiale, ”
e ad essa si sarebbe dovuto come tale rispondere. Solo Flandin
fece menzione di tale articolo, mettendo in luce con chiarezza
e determinazione l’aspetto fondamentale del problema : “ Si tratta
di stabilire se la prassi del fatto compiuto, se la denuncia unila­
terale di impegni volontariamente e solennemente contratti debba
in Europa assurgere a sistema politico.” Chiese Flandin: “ Come
tale metodo fosse conciliabile con l’esistenza della Società delle
Nazioni, ” e concluse sollecitando i governi delle nazioni firma­
tarie ad adempiere ai loro impegni d’assistenza.
La Germania fu invitata ad apparire davanti al Consiglio della
Società delle Nazioni che avrebbe avuto luogo a Londra il 16
marzo; l’applicazione dell’articolo 16 dello statuto ginevrino le
fu risparmiata: la Francia non era riuscita a imporne il ricorso.
Moralmente i delegati al Consiglio della Società delle Nazioni,
convenuti a Londra alla data predetta, diedero ogni soddisfazione
alla Francia; politicamente, tuttavia, essa trovò sufficiente soste­
gno solo presso Litvinov e Ticulescu. “ Si, ” esclamò il ministro
degli esteri di Romania, “ si, noi siamo dell’opinione che il trattato
di Versaglia e quello di Locamo siano stati violati. ” Egli si
dichiarava pronto a un accomodamento, a patto che prima i di-

428
C A P IT O L A Z IO N E D I FR O N T E A L L 'A G G R E S S O R E

ritti vulnerati fossero reintegrati. Ribbentrop ripetè i concetti di


Hitler tentando di convincere che la Germania violando i patti
servisse la causa della pace.
Se le potenze ginevrine non erano decise a costringere la Ger­
mania a ristabilire lo status quo ante, dovevano purtuttavia tro­
vare la maniera di cavarsela: a mani vuote non potevano certo
lasciare andare la Francia offesa, per non indurla alla disperazione.
L a risoluzione presa dal Consiglio, umiliava il Terzo Reich, in
quanto affermava che, con la sua iniziativa unilaterale, il governo
tedesco non s’era acquistato alcun diritto legale, e che tale ini­
ziativa non poteva non apparire quale una minaccia alla sicurezza
europea; e in quanto, ai sensi dell’articolo n dello statuto della
Società delle Nazioni, sollecitava i membri della Lega “ a intra­
prendere misure volte a un’effettiva difesa della pace tra i popo­
li. ” Le “ m isure” restarono oggetto di discussione per il futuro;
quanto più il tempo passava, e tanto meno la Francia aveva
motivo di insistere presso altri perché ci rimettessero del loro per
le vecchie bubbole. Inghilterra e Italia assicurarono Francia e
Belgio di sentirsi tuttora legate agli impegni relativi alla forni­
tura di aiuto militare e alle garanzie dei confini di cui al patto di
Locam o; oltre a ciò annunciarono consultazioni fra i rispettivi
stati maggiori. In pari tempo, tuttavia, Inghilterra e Italia inta­
volavano conversazioni con la Germania, intendendo concertarsi
con questa circa il mutamento dello statuto renano, la sicurezza
collettiva, la limitazione degli armamenti, la regolazione dei
rapporti economici e commerciali. Il governo inglese si studiò di
far mostra, nei confronti della Francia, d’una premurosa intimità,
trattando il popolo francese come un malato che bisogna tratte­
nere dal commettere sciocchezze, senza dargli a vedere che la de­
dizione e l’amorevolezza non sono se non l’espressione esteriore
d’un vigile controllo. Certo, la Francia non si nascose che le si
era negata la piena soddisfazione: “ Il governo francese avrebbe
desiderato, ” sostenne Flandin alla Camera il 20 marzo, “ che si
fosse appagato in pieno il diritto dei popoli, col ristabilimento in
Renania della situazione preesistente al 7 marzo. A ciò si sarebbe
potuto indubbiamente pervertire, se le nazioni firmatarie si fos­
sero trovate concordi nell’esercitare su Berlino una pressione ab-

42$
V E R SO L A G U E R R A

bastanza energica; ho dovuto al contrario convincermi ben presto


che su questo punto non era possibile addivenire ad alcuna una­
nimità. ” Ma Flandin porgeva anche a se stesso un’illusoria con­
solazione : “ I nostri sforzi sono per lo meno valsi a far accettare
una soluzione la quale non ha dato partita vinta al metodo del
fatto compiuto. ” Egli si sente sicuro dell’appoggio inglese: “ Se
da certe parti si è presunto di riuscire a scuotere i rapporti esi­
stenti tra Londra e Parigi, e di sfruttare tale frattura, si può affer­
mare al contrario che i nostri vicendevoli rapporti e il manteni­
mento della pace hanno rinsaldato i legami franco-inglesi. ” Sotto
quali premesse, non del tutto prive di pericoli per la Francia, ciò
fosse accaduto, lo diede a intendere Eden con una dichiarazione
alla Camera dei Comuni in data 26 marzo : “ Per l’Inghilterra, ”
egli disse, “ è di vitale importanza che l’integrità della Francia e
del Belgio sia preservata e che nessuna potenza straniera ne varchi
le frontiere.” Dove abbastanza chiaramente si accennava a che
punto appena l’Inghilterra sarebbe accorsa in aiuto alla Francia;
con molta precisione, Eden passò poi a annunciare ciò che egli
s’aspettava dalla Francia, dal punto di vista dell’interesse britan­
nico: “ Vorrei dire alla Francia che noi non possiamo assicurare
la pace, se il governo francese non è pronto ad affrontare senza
pregiudizi i problemi che tuttora lo dividono dalla Germania. ”
Rassegnatasi, Parigi si dedicò a un innocuo scambio di piani
di pace. L a Germania, la quale era animata “ dal più profondo
desiderio ” di “ contribuire largamente, una volta ristabilita la
piena indipendenza e sovranità del Reich, alla pace europea,”
aveva per prima dato inizio in questo modo letterario al “ lavoro
concreto in vista di una pacificazione dell’Europa. ” L ’Inghilter­
ra, cui sembrava opportuno attutire la tracotanza tedesca, chiuse
la tenzone delle fantasticherie pacificatorie francesi e tedesche,
rimettendo a Berlino un questionario nel quale con profonda ma­
lizia pari solo alla squisita cortesia, si dichiarava al Terzo Reich
che a Londra s’aveva un concetto estremamente basso della sua
buona fede e rispettabilità commerciale, solvibilità e fedeltà ai
trattati.
Cosi tutte le ambagi diplomatiche s’arrestarono. L a Germania
rifiutò le trattative per il ristabilimento della fiducia reciproca,

430
C A P IT O L A Z IO N E D I F R O N T E A L L ’A G G R E S S O R E

suggerite da Eden; neppur diede risposta al questionario britan­


nico. Non si giunse alla “ riedificazione d’un sistema di sicurezza
europeo, ” non a un “ accordo su una chiara e ragionevole orga­
nizzazione della pace europea. ” L a Germania non rientrò nella
Società delle Nazioni, e sabotò finché potè la Conferenza mon­
diale; eresse di contro alla Francia una sua linea fortificata, e si
diede a produrre materiali bellici in quantità illimitata. L a Fran­
cia aveva perso la partita su ogni punto; benché l’Inghilterra, come
aveva affermato Eden, non negava affatto “ né la gravità delle
perpetrate violazioni dei trattati, né le loro conseguenze per l’Euro­
pa, ” tuttavia la Francia restava con un palmo di naso. L a riso­
luzione, che le si cacciò in mano, non controbilanciava di certo il
grosso scapito arrecato alla sua potenza. Strasburgo restava pur
sempre a portata dei cannoni tedeschi; l’intera Società delle N a­
zioni era stata umiliata dal Terzo Reich; la piattaforma sulla
quale la Francia aveva eretto la propria potenza le era stata tolta
di sotto i piedi. Non un’anima badava più al trattato di Versa-
glia, e se la Società delle Nazioni dava qualche lavata di testa al
fascismo da cui l’Europa era insozzata, lo faceva con gran delica­
tezza. Chi cercasse da essa aiuto contro il fascismo, prima di poter
dire Gesummaria era al fascismo venduto; senz’effetto, si sper­
devano al vento gli anatemi lanciati dal Concilio ginevrino. A l­
lorché il fascismo, fosse esso di marca tedesca o di marca italiana,
faceva i comodi propri,1 Ginevra si inchinava al fatto compiuto:
al passo di marcia delle avanzanti colonne fasciste, replicò con
ridicole risoluzioni.
Hitler aveva occupato militarmente la Renania perché, dopo
la ratifica del trattato franco-sovietico, l’U RSS faceva sentire il
proprio peso tramite la Francia, e quindi premeva sulla Germania
anche da occidente. L ’indebolimento della Francia significava
dunque anche un indebolimento della Russia sovietica.
Nessuno, durante la conferenza di Londra, aveva guardato in
faccia la realtà con maggior realismo di Litvinov, il quale non
era tenuto a prendere, secondo le usanze diplomatiche, più sul
serio di quanto non meritassero le scappatoie e le manovre diver-
1 Anche la varietà di fascismo spagnolo fini per farsi beffe della Società delle N a­
zioni (1946).

431
V E R SO L A G U E R R A

sive di H itler: “ I modi del signor Hitler, la maniera con cui pub-
blicamente si permette di parlare del paese che io rappresento, mi
esimono dalla necessità di far ricorso alle perifrasi e alle finezze
diplomatiche. ” Il commissario del popolo sovietico aveva sma­
scherato con efficace perspicacia il simulato pacifismo tedesco; si
era richiamato al testamento politico di Hitler; aveva svelato co­
me nei patti di non aggressione proposti dalla diplomazia tede­
sca mancasse una clausola particolare in conformità alla quale
decadessero tutti gli impegni, “ se l’altra parte intraprenda azioni
offensive contro un terzo stato. ” Mostrò che il senso del principio
tedesco dei conflitti localizzati, era che “ ogni stato il quale abbia
concluso con la Germania un patto simile, dovrebbe starsene con
le mani in mano, mentre quella aggredisce un terzo stato” ; in­
dicò il nocciolo del proposto patto renano: “ Defraudando Fran­
cia e Belgio di certe garanzie previste dal trattato di Locamo,
(Hitler) mira a conservare alla Germania tutti i vantaggi che il
patto stesso era in grado di assicurarle” ; per orecchie inglesi, con
inconfutabile precisione dimostrò l’impossibilità di lottare per
l’organizzazione collettiva della sicurezza senza applicare misure
collettive contro l’infrangimento di impegni internazionali. T ra
tali misure, egli certo non annoverava la capitolazione collettiva
di fronte a un aggressore, e tanto meno un accomodamento col­
lettivo, che risultando accettabile o addirittura vantaggioso per
l’aggressore, finisse per premiare l’aggressione; impossibile soste­
nere la Società delle Nazioni, chiudendo gli occhi di fronte alle
violazioni dei trattati o limitandosi a proteste verbali, senza dar
mano a efficaci misure in difesa degli impegni internazionali, e
quando non si mettano in atto décisioni, ma al contrario si abitui
l ’aggressore ad ignorare raccomandazioni, moniti, avvertimenti.
Litvinov avvertiva come la disfatta della Società delle Nazioni
costituisse in pari tempo una sconfitta per l’Unione Sovietica, che
vi aveva aderito allo scopo di servirsene come di uno strumento
contro la Germania.

432
Capitolo trentunesimo

L ’intervento in Spagna

A causa delle apprensioni politiche causatele dallo stato sovie­


tico, l’Inghilterra preferì lasciar cadere l’Abissinia piuttosto che
affannarsi in un sanguinoso conflitto con l’Italia; col tollerare il
riarmo e il rafforzamento della Germania sul Reno controbilan­
ciò l’apparizione dell’Unione Sovietica sulla scena delle alleanze
politiche nell’Europa occidentale e a Ginevra; e fece sì che la
Lega delle Nazioni si riducesse a ludibrio del mondo intero, onde
10 stato sovietico non potesse trar partito dall’estenuante contro­
versia col fascismo borghese. Quando tutto questo fu accaduto,
tanto più certo il Terzo Reich fu d’esser sulla buona strada, dando
addosso al “ bolscevismo ” con più furia che mai.
In Germania, l’ora di Hitler era suonata nel 1933, quando le
contraddizioni con l’estrema semplificazione dei loro vertici ave­
vano comprovato non esservi altra scelta se non tra croce unci­
nata e stella rossa. In ciò s’esprimevano le bellicose tensioni della
situazione; più non esistevano contrade neutrali dalle sfumature
biancorossonere o biancorossogialle, in cui potesse evadere chi
rifiutasse di esistere nell’estremismo delle conseguenze ultime;
l ’intera Europa entrava nell’epoca della scelta tra Dio e Satana,
superuomo e sottuomo, fascismo e bolscevimo, croce uncinata e
stella rossa; il tricolore come simbolo non ha più nesso alcuno
con le potenze del momento, per esso più non si dividono gli
animi; chi ancora se ne impiccia, vuol dire che va d’accordo con
la stella rossa e dev’essere costretto a mettere le carte in tavola:
11 tricolore in sé più non rappresenta una sorte né una professione
di fede.
Bisogna francamente riconoscere a Hitler una certa destrez­
za nella maniera con cui fa comparire e sparire lo spauracchio
bolscevico: prima di mettere all’improvviso in vigore, nel settem-

433
uu
V ER SO L A G U E R R A

bre 1936, la ferma biennale, ordina con parecchie settimane d’an­


ticipo alla propria stampa di instillare all’Europa un apoplettico
terrore per il riarmo sovietico; i suoi giornalisti eunuchi debbono
con l’occasione spacciare un ingiallito pamphlet dell’ “ Antico­
mintern ” : Hitler ha tale maestria, da riuscire ad attizzare una
psicosi antibolscevica, quando ne abbia necessità, anche con ma­
teriale che sotto nessun riguardo ha plausibilità alcuna.
Non a caso l’incoraggiamento inglese all’offensiva nazional­
socialista contro il bolscevismo e i suoi “ satelliti ” liberal-demo-
cratici, le masse europee orientate a sinistra, coincide con la for­
mazione di governi di fronte popolare in Francia e in Spagna.
Le elezioni francesi del 1936 avevano prodotto un significativo
spostamento a sinistra, e Léon Blum assunse la presidenza di
un “ gabinetto di fronte popolare. ”
Il movimento dei fronti popolari rinnova il democratismo
liberistico del 1789; esso attinge alla fonte della passata grandezza
francese, per armarsi alle imprese politiche che il momento esi­
ge; in esso vive la coscienza che la Francia rinnegherebbe la
propria missione, se i fondamentali simboli del 1789 fossero get­
tati neH’immondezzaio della storia. Esso difende il senso storico
dell’esistenza francese, esso suona la diana alle gloriose tradizioni
della rivoluzione francese, perché la Francia abbia piena coscien­
za di avere alcunché da difendere. L a forza che pretende di
isolare la Francia, di costringerla ad abdicare storicamente è il
fascismo; e dietro a esso si rimpiattano tutti i nemici della rivo­
luzione francese: all’interno grande borghesia, privilegi aristo­
cratici, legittimisti orleanisti, bonapartisti, clericali; in politica
estera, il militarismo tedesco, il suo emulo italiano e, sia pure
con le dovute riserve, il vicinante britannico. Perciò il movi­
mento del fronte popolare dev’esser di necessità antifascista: le
masse piccoloborghesi e piccolocontadine francesi ricalcitrano a
unirsi alla grande borghesia europea nel suo attuale rinnega­
mento del proprio passato liberal-democratico; esse intuiscono che
con ciò segnerebbero la fine della stessa Francia. Le superbe me­
morie giacobine trattengono queste masse dal lasciarsi imbeche­
rare al fascismo, come invece è accaduto in Germania, grazie a
un ciarlatanesco panico sociale. Esse rivelarono, insomma, ancora

434
L IN T E R V E N T O IN SP A G N A

una spina dorsale liberal-democratica, quando già tutt’attorno la


borghesia umilmente s’inchinava al fascismo.
A l cospetto della situazione internazionale, la Francia rendeva
all’Unione Sovietica il maggior servigio contro il fascismo, se in
tutto e per tutto restava liberal-democratica alla sua prima manie­
ra; l’interesse bolscevico prescriveva di non turbare la Francia nei
suoi modi e regole democratiche: tanta tolleranza scaturiva dalla
logica, rettamente intesa, della difensiva, cui sia Francia sia U RSS
erano costrette.
L ’idea del fronte popolare fece scuola anche in Spagna, dove
tuttavia rivelò coloriture proprie, prettamente nazionali.
L a Spagna non era passata per l’esperienza di una rivoluzione
borghese, e viveva ancora in condizioni semifeudali. Fondi e terre
erano in massima parte proprietà di grandi latifondisti e della
Chiesa: i contadini erano in preponderanza fittavoli che misera­
mente campavano, e la cui condizione sociale si opponeva allo
sviluppo d’un senso borghese della vita; essi, come un tempo il
contadino russo servo della gleba, erano inclini a far lega con chiun­
que desse contro alle forze dominanti; se il contadino trovava l’op­
portunità di regolare i conti con mano morta e latifondisti, allora
l’operaio avrebbe potuto mettere a fil di spada la grande borghesia.
Cosi la Spagna si trovava in una situazione bolscevica: operai e
contadini andavano di concerto nei confronti dell’oligarchia bor­
ghese, terriera e clericale, e solo a fatica l’oligarchia poteva gua­
dagnare a sé masse venali, disposte a suo prò’ ad andare in bocca al
lupo.
Forse la Chiesa cattolica non ha mai come in Spagna trattato la
popolazione con tale mancanza di scrupoli e irresponsabilità: le
tornava conveniente, che gli strati inferiori restassero imprigio­
nati nell’ignoranza e nella mentalità primitiva, onde poter essere
strizzati a sangue da lei, la mano morta. Ciononostante spuntò il
giorno in cui queste miserande masse si sottrassero a quella in­
fausta tutela, e fino i più limitati fittaiuoli conobbero la frode
perpetrata a loro danno. Il fascismo di Primo De Rivera fu una
diga provvisoria, che solo per breve tempo ancora offri protezio­
ne; il dittatore fu scacciato, il re congedato. Ci fu ancora un
intermezzo, quando un governo liberale volle all’ultimo momento

435
V E R SO L A G U E R R A

torcere indietro il corso della storia. Ma a nulla giovò: contadini


e operai, la maggioranza della popolazione, erano stanchi del giogo
della loro parassitica oligarchia; nel 1936, sull’esempio dei fran­
cesi, votarono per le sinistre.
Era nella natura delle cose, che il movimento del fronte popo­
lare francese avesse un’impronta più innocua dello spagnolo; il
piccolo borghese e il piccolo proprietario francesi s’abbarbicavano
al retaggio per cui i loro padri tanto sangue avevano versato, e
gli operai volevano nella peggiore delle ipotesi certe riforme, per
le cui spese la borghesia poteva cavarsela a buon mercato.
Il movimento del fronte popolare spagnolo, al contrario, era
in violentissima contraddizione con gli ordinamenti dominanti il
paese; se esso stesso non voleva essere spazzato via, doveva spieta­
tamente distruggere quegli ordinamenti; doveva in un certo senso
per vie pacifiche e legali, riprendere la rivoluzione borghese, che
in tutto il resto d’Europa aveva ormai trionfato.
Il fronte popolare francese era fondamentalmente conservato-
re; le masse piccoloborghesi e contadine avevano più fondati mo­
tivi di difendersi dalla borghesia monopolistica che dal proleta­
riato rivoluzionario. Il fronte popolare spagnolo non poteva in­
vece evitare una lotta sociale rivoluzionaria: non poteva stare in
buoni termini con latifondisti, mano morta, aristocratici parassiti
e generali, se non voleva tagliarsi subito l’acqua con le proprie
mani. In quanto costringeva un’oligarchia alla resa dei conti, era
un atto della rivoluzione mondiale; per questo non occorreva
neppure che si proponesse esperimenti comunistici. Se avesse avu­
to fortuna e successo, ciò sarebbe ritornato a vantaggio del pre­
stigio russosovietico: all’estremo limite occidentale, la restaura­
zione sarebbe andata in fumo, come Lenin aveva previsto. Solo
collegandosi il movimento del fronte popolare francese con quel­
lo spagnolo, l’idea del fronte ' popolare prese quell’accento rivo­
luzionario contagioso e capace di scuotere, che influenzò il pro­
letariato degli stati fascisti. L a democrazia liberale, il moto di li­
bertà europeo più non parvero ridotti al lumicino, sembravano
riprendersi e, addirittura, passare al contrattacco.
Il fascismo si senti stuzzicato: non era affatto disposto a la­
sciarsi riprendere la mano dalla democrazia liberale. Agenti ita-

436
l ' in t e r v e n t o IN SP A G N A

liani e tedeschi s’accordarono con gli avventurieri dell’oligarchia


spagnola tremante per la propria esistenza di mangia a ufo, con
grandi, generali, ecclesiastici, finanzieri e trafficanti, per tramare
assieme a essi la loro cupa congiura; offrirono armi e denaro. Qui
il fascismo, prestandosi a far da sbirro all’oppressione più nera,
medioevale e rozza, non aveva bisogno d’affettare amicizia per il
popolo: qui poteva apertamente menare la sferza sui vessati ope­
rai e contadini. Il fascismo fu d’accordo nell’impiegare maroc­
chini e legionari stranieri contro la popolazione metropolitana;
d’un tratto la sua coscienza razzista più non si ribellò a veder
degli europei castigati da africani, Hitler si fece fautore del-
1’ “ onta nera. ”
Hitler e Mussolini provvidero i falangisti di aeroplani, carri
armati, cannoni, mitragliatrici, bombe, granate, ufficiali e piloti;
la rivolta militare franchista tuttavia non raggiunse di colpo la
sua meta. N ell’animo del popolo spagnolo senza sosta fermenta
un impulso alla libertà, cui son negati l’italiano prostrato dalla
servitù absburgica e l’umiliato suddito tedesco. Scoppiò cosi una
cruenta guerra civile; i ceti popolari inferiori si batterono eroica­
mente, ma i ribelli erano riforniti da Italia e Germania di schiac­
cianti mezzi tecnici. Il fascismo italiano e quello tedesco conside­
rarono come causa loro il violentamento del popolo da parte dei
franchisti: la dichiarazione di guerra di Franco al movimento del
fronte popolare, equivaleva ad attaccar briga con la democrazia
liberale francese come col bolscevismo russosovietico.
Il governo Blum intuì che, a cacciare incautamente le mani
nelle cose di Spagna, si rischiava di provocare lo scoppio d’un
conflitto mondiale come d’una guerra civile in Francia; debole e
indeciso, invitò le maggiori potenze europee a impegnarsi al
non intervento in Spagna: Italia e Germania fornirono assicura­
zioni in tal senso. Il governo legale del fronte popolare spagnolo
si trovò così alla,mercé dei ribelli fascisti; fu sottoposto a blocco,
neppure pagando oro riuscì a ottenere cannoni. Ma, mentre i go­
verni liberal-democratici già da un pezzo avevano sospeso le for­
niture d’armi alle truppe repubblicane, le navi italiane e tedesche
via Marocco e Portogallo continuavano a rifornire abbondante­
mente i franchisti di mezzi bellici. I governi dell’Europa occiden-

437
V E R SO L A G U E R R A

tale chiusero ambedue gli occhi: i dinamiteros, i decisi minatori


asturiani, non andavano loro a genio; credevano di potersi inten­
dere meglio coi macellai Franco e Mola. Cosi avvenne che i fa­
langisti, grazie alla preponderanza militare raggiunta con l’aiuto
del Portogallo fascista, poterono prendere Bajadoz, mentre le forze
governative, benché separate dalla Francia del fronte popolare
solo dalla lunghezza d’un ponte, perdevano Irun per deficienza
di munizioni.
Lo spirito del 1793 aveva perduto lo slancio, morto era lo zelo
missionario della Francia giacobina: questa non portava piu “ guer­
ra ai palazzi e pace ai tuguri, ” piu non preservava la sua tradizione
rivoluzionaria come una viva fiamma, ma ormai solo quale fredda
luce che, ricordo d’un tempo, penetri col suo raggio nel presente.
Quanto alla Lega delle Nazioni, assunse la stessa posizione fasci-
stico-restauratrice; appena prestò orecchio alle legittime proteste
del ministro degli esteri repubblicano spagnolo, in preda al peren­
ne timore d’essere coinvolta dagli avvenimenti spagnoli in un con­
flitto con le potenze fasciste; il governo del fronte popolare spa­
gnolo le puzzava talmente di bolscevico, che solo a malincuore
ne accettava il saluto.
Blum non voleva urtare né la propria grande borghesia né i
conservatori inglesi, e ricercava ogni giorno il benestare inglese,
col quale ricacciare in gola le critiche alla grande borghesia francese.
L a Spagna del fronte popolare subi il destino dell’Abissinia: la
simpatìa della Francia per gli operài e i contadini spagnoli era
stata altrettanto infruttuosa della simpatia inglese per il Negus.-
Il fascismo prosegui per la sua strada con brutalità sprezzante d’ogni
diritto, provando al mondo intero che gli bastava far mostra di
coraggio per imporsi agli avversari liberale e bolscevico.
Già in Ispagna si rivelò chiaramente lo schema che il fascismo
si proponeva di seguire nella sua marcia trionfale per l’Europa
tutta: esso intende atterrare la democrazia liberale laddove tut­
tora sussista, infiltrandola con una rete di caposaldi fascisti; quan­
do poi, al segnale convenuto, rifornito di denaro e armi da Ber­
lino e Roma, un controgoverno fascista si sollevi, troverà già un
solido terreno sul quale affermarsi. I capoccia fascisti e nazisti in
Svizzera, Olanda, Francia, Cecoslovacchia, sono gli ambasciatori

438
l ' in t e r v e n t o IN SP A G N A

segreti, che preparano la strada al regime insurrezionale e quando


il momento sarà maturo daranno il segnale d’inizio della guerra
civile. Finché non sia l’ora delle operazioni in grande stile, costoro
organizzano — si pensi a Vormis, Lessing, Jacobs — assassini,
rapimenti, attività spionistica.
Poiché la Spagna, a causa della sua costituzione feudale, rap­
presentava il punto piu debole e il piu precario dell’Europa, fu
qui che il fascismo lasciò per la prima volta cadere la maschera:
qui, dove più che altro il campo era propizio al bolscevismo, qui
il fascismo doveva esser sul posto in tempo per far violenza alla
logica delle cose.

439
Capitolo trentaduesimo

Volontà di guerra

Hitler aveva con ineguagliabile profondità, intuito e passio-


natamente predicato la necessità che la borghesia diventasse, da
liberale, autoritaria. Egli istruiva le masse a bramare l’autorita-
rismo con lo stesso calore con cui un tempo gridavano alla libertà.
Anch’egli, come nel 1917 i bolscevichi, si rivolgeva “ a tutti” : il
suo pubblico era la borghesia di tutte le nazioni, alle cui orec­
chie giungeva tramite la radio. Non parlava ai tedeschi, bensì
ai borghesi; il bourgcois francese gli era più vicino che il nonbor­
ghese tedesco; a favore dei “ bolscevichi” tedeschi, nemmeno la
“ voce del sangue ariano ” poteva mettere una buona parola presso
di lui. Se ora Hitler parlava al Reichstag 0 al Congresso del Par­
tito, il suo uditorio era l’intero mondo borghese; immagini e ar­
gomenti, insulti e fanatismi, il suo virtuosismo retorico e l’ambi­
guo jargon, con cui in precedenza aveva portato al parossismo gli
uomini nelle birrerie — tutto ciò egli traspose nel linguaggio
dell’alta politica interna e internazionale. Si rivolgeva alla bor­
ghesia internazionale con lo stesso tono ribaldo che aveva avuto
tanto effetto sulla borghesia tedesca, e presso quella incontrò non
meno che presso questa. La borghesia tedesca aveva ritenuto giu­
sto che Hitler dicesse peste e corna del comuniSmo e dei comuni­
sti: ogni intemperanza calunniosa, diffamatrice, insozzante, con­
tro il comuniSmo, gli era permessa, e la borghesia internazionale
ben presto si compiacque di udire Hitler suonare la stessa musica
nei rapporti con la formazione statale comunista, l’URSS. N ella
misura in cui egli della lotta contro il bolscevismo faceva il cardine
della politica internazionale, elevava a stile diplomatico il lin­
guaggio della gargotta. Hitler divenne ciò che già nel 1918 avrebbe
voluto essere: propagandista mondiale. L a propaganda mondiale
antibolscevica attecchiva perché tutti i borghesi temevano il bolsce-

440
V O LO N T À D I G U E R R A

vismo: essa pertanto era un efficace strumento della politica estera


tedesca. Hitler aveva trovato la situazione mondiale tagliata a sua
misura: poiché essa richiedeva ancora un propagandista, l’abile pro­
pagandista poteva assurgere a figura politica mondiale.
Tutti gli stratagemmi e “ machiavellismi” con cui il nazional­
socialismo aveva condotto con successo le sue azioni di guerra
civile sul suolo tedesco, furono ora trasposti al livello della politica
internazionale: falsificazioni della verità, simulata innocenza, ci­
nica provocazione, travisamenti, mancamenti di parola, soperchierie
furono praticati brutalmente senz’alcuna finezza e senso di conve­
nienza. L a linea divisoria, che in fin dei conti dovrebbe pur sempre
sussistere tra il politico puro e il criminale, fu senza scrupoli can­
cellata. Il caotico scatenamento, la desolata informità, la sfrenata
selvatichezza, la brutale elementarità, la bestialità, inumanità, che
tutte assieme contraddistinguono, in tempi di guerra civile, la con­
dotta della lotta e l’esito per ambedue i contendenti, d’allora in poi
il Terzo Reich li acclimatò nell’ambito della alta politica e diplo­
mazia.
Dal momento che il Terzo Reich maneggiava con estrema
abilità i “ più moderni m etodi” di politica internazionale; dal
momento che in ciò egli era molto innanzi a tutti, divenne la
“ prima potenza, ” ciò che la Francia della grande rivoluzione era
stata durante un secolo. Il Terzo Reich divenne speranza, canone,
stella polare, paese-pilota della borghesia internazionale. Per la
grande borghesia imperialistica tedesca spirava vento favorevole:
essa aveva sempre aspirato a ottenere, dall’Europa, l’incarico di
invadere la Russia: al Terzo Reich, quale prima potenza antibol­
scevica, un giorno si sarebbe ben dovuto concedere la Russia, per­
ché ne facesse la sua “ bandita. ”
Per quel giorno il Terzo Reich voleva essere armato fino ai
denti; quasi l’intero patrimonio nazionale tedesco fu gradualmente
investito in armamenti. Dai propri investimenti, la borghesia vuol
ricavare un utile, e questo in particolare può dar frutto solo a patto
di vincere una guerra; la grande borghesia tedesca avrebbe dunque
fatto un cattivo investimento, se non le venisse assegnata la guerra
contro l’Unione Sovietica, guerra che il Terzo Reich apparecchia
spiritualmente come pure in senso organizzativo, tecnico-militare,
V E R SO L A G U E R R A

diplomatico. È vero che Hitler ancora nel suo discorso del maggio
1935 aveva affermato: “ Finché il bolscevismo rimane una faccenda
interna della Russia, non è cosa che ci riguarda” ; è vero che il
memorandum tedesco del 25 maggio dello stesso anno assicura che
non si verificherà mai il caso di un’aggressione tedesca non pro­
vocata alla Russia, “ perché la Germania non pensa affatto di as­
sumere atteggiamenti aggressivi contro l’Unione Sovietica ” : ma
queste erano manovre diversive di carattere diplomatico, che se da
un lato contraddicevano al testamento politico di Hitler, dall’altro
eran già state accantonate dai discorsi tenuti al Congresso del Par­
tito di Norimberga. Il Terzo Reich poteva sussistere solo se, con
la distruzione dell’Unione Sovietica, riusciva a realizzare il proprio
significato, a sfuggire alla bancarotta delle proprie forze, provve­
dendo a procurarsene di nuove dalla colonializzazione dello stato
e del popolo sovietico.
Nella sua- storia della rivoluzione francese, R an ke1 osserva, a
proposito della situazione europea verso il 1793, che “ la politica
cercava la pace; le universali antitesi aprivano la prospettiva della
guerra.” D a un pezzo l’Europa attuale s’è lasciata alle spalle que­
sto stadio: non solo le universali antitesi aprono la prospettiva
della guerra, ma anche la politica ha già cessato di cercare la pace.
L a “ guerra ideologica ” europea, la guerra della grande borghesia
internazionale contro operai, contadini e piccoli borghesi; la guerra
del fascismo contro liberalismo, fronte popolare e bolscevismo; la
guerra della coalizione europea, capeggiata dalla Germania contro
l’Unione Sovietica, sta nella logica delle cose, e gli uomini sono
ormai propensi a obbedire a questa logica. Lenin è il simbolo di
quel momento storico in cui la guerra imperialistica si cangiò in
generalizzata guerra civile; allora la Russia riuscì a sottrarsi alla
stretta dei vincitori imperialisti, in quanto scatenò per prima la
guerra civile e la condusse fino alle estreme conseguenze.
Hitler potrebbe essere il simbolo dell’altro momento storico,
in cui la situazione di guerra civile europea torna a sfociare in
guerra imperialistica. Se sarà la Germania la forza motrice di tale
mutazione, sé saprà tenere sotto controllo il nido del bolscevismo
1 L . v. R a n k e , Ursprung der Revolutions'kriege 1791 u n i 1792 [Origine delle
guerre di rivoluzione del 1791 e del 1792], 1 8 7 5 .

442
r V O LO N T À D I G U E R R A

vittorioso, ripulirlo, presidiarlo, allora sì che la grande borghesia


tedesca sarà, dal peso dei suoi successi, dallo sbalorditivo splendore
delle sue conquiste, resa inattaccabile; stabilirà, neH’ambito dei
suoi domini, “ la pace, la tranquillità, l’ordine interni, ” in quanto
implacabilmente schiaccerà gli elementi sovversivi. N ella guerra
imperialistica, la grande borghesia storna le scatenate energie che
nella guerra civile le irrompono contro, addosso al “ nemico stra­
niero, ” nel cruento scontro in cui esse si esauriranno.
Sono prospettive che inducono a scatenare la guerra imperia­
listica. “ Dal caos della rivoluzione francese, ” disse Hitler nel 1936
a Norimberga, “ si leva un geniale dio della guerra, infuriando
sul mondo europeo, già interiormente disgregato dall’idea. ” Il
còrso era stato il Veldherr della borghesia contro il feudalesimo;
H itler vorrebbe essere il Veldherr della borghesia contro il bol­
scevismo.
$ Solo allora, quando egli si confermasse non meno “ geniale
dio della guerra, ” sarebbe davvero assicurata la sua grandezza
storica.

443
C a p ito lo tre n ta tre e sim o

Panorama del Terzo Reich

Hitler stava, come Lenin, in un punto d’intersezione al quale


per un momento storico convergevano innumeri tendenze di na­
tura universale, decisive e insieme essenzialmente contraddittorie.
Afferrò per il ciuffo l’occasione, con la stessa veemenza di Lenin,
e assurse con ciò immediatamente a esponente e signore d’una
precisa costellazione politica. In qualità di “ Antilenin, ” guidò il
movimento reazionario borghese contro il bolscevismo; in quanta
però il suo antibolscevismo non si limitava a essere mera formula
economica, ma al contrario si manifestava quale farraginoso ri­
cettacolo di innumerevoli elementi ideologici d’ordine irrazionale,
sentimentale e istintivo, in tanto esso fin dal principio ebbe un
gioco non meno ampio di quello del bolscevismo. Hitler attirò a
sé tutto ciò che si librava nell’aria d’Europa: la sua assunzione al
potere fu una “ rivoluzione popolare, ” poiché egli semplicemente
valorizzò tutti gli impulsi suscitati nel popolo tedesco.
Nessuno in Europa aveva, al pari di Hitler, un intuito cosi vivo
e desto per lo stato di guerra in cui la società borghese si trovava:
per profondità di intuizioni superava anche Mussolini. Aveva
istintivamente afferrato il senso della lotta classista del bolscevismo,
e in lui pulsava l’ardore a gettar nella polvere il nemico di classe
proletario. Anche il borghese cui Hitler desse noia, non poteva
trascurare che questo tamburino avrebbe potuto un giorno dive­
nire assai importante: non appena la società borghese si fosse messa
sul piede di guerra, Hitler sarebbe divenuto l’uomo del momento..
Egli l’aveva sempre detto, egli per anni s’era addestrato a. condurre
con perizia la guerra civile.
Il suo movimento attizzò in avvampanti fiamme la scintilla
dell’esperienza del fronte; esso era un’operazione bellica, e tutte
le guerresche passioni del popolo tedesco, ridestate, mugghiarono.

444
PANORAMA DEL TER20 REICH

I l contenuto sociale di questo richiamarsi all’esperienza del fronte


non era, del resto, se non un provvido stratagemma: affabilmente
si batteva sulla spalla del camerata, dal quale durante la battaglia
non si voleva esser lasciati nei pastìcci; si voleva cosi indurre il
povero diavolo, in mano al quale, in caso di forza maggiore si
sarebbe anche messo un fucile, a non attribuire importanza alcuna
alla differenza di grandezza del borsellino, e a usare delle armi
solo contro il nemico della patria, non contro il suo nemico di
classe. Ma appunto Fallineamento anticomunista della azione na­
zionalsocialista svelava la sua natura di difesa della gerarchia pa­
trimoniale: il nocciolo dell’esperienza del fronte, testé rimessa in
onore, era il prurito di sparare, dar di punta, distruggere, sgozzare;
all’oligarchia borghese bisognavano lanzichenecchi, pronti a tutto
per il soldo. E il soldo erano gli uffici politici, che si lasciavano ai
membri del partito. Poiché fin dal principio si era prestato giura­
mento all’interesse borghese, questo non poteva trarre se non van­
taggio dal fatto che oggi si governasse e amministrasse con crudi,
duri modi da lanzo, e coi nemici s’andasse per le spicce. I lanzi­
chenecchi in veste di funzionari politici cangiarono l’intera Ger­
mania in un cortile da caserma: da allora si comanda, si punisce,
si mette al muro; non vengono piu prese misure secondo il tenore
dei paragrafi, bensì secondo le “ circostanze ” dell’ora. L a “ inter­
pretazione del diritto in conformità alla situazione,” costituisce il
principio che giustifica quanti d’ora in poi vogliano impiparsene
della legge. Non si tollera più alcuna giurisdizione civile, alcuna
sfera privata; ognuno ha da essere lanzo al servizio del capitalismo
e nùll’altro. Lo schioppo è, per i lanzi, la chiave pel regno dei
cieli; donne e bagordi, ecco tutto il loro diletto terreno.
Se la società borghese capitalistica patrocinò i procedimenti
spicci del dominio dei lanzi, fu perché non si sentiva più sicura
di se stessa. Le masse piccoloborghesi s’abbarbicavano a una
falsa coscienza borghese, benché la loro esistenza borghese fosse
distrutta da guerra, inflazione, deflazione, economia di guerra.
Avvertendo vagamente il dissidio tra la loro esistenza proleta­
rizzata e la loro coscienza borghese esse elaborano idee riformi­
stiche con l’unico scopo di riottenere la proprietà, fondamento
del loro essere borghese. Esse pertanto vogliono procedere a ritroso,
VERSO LA GUERRA

sono istintivamente reazionarie; queste idee riformistiche, ecco


l’unico contenuto del loro “ sistema socialistico. ” A ll’oligarchia
borghese basta che le masse piccoloborghesi non smarriscano la
coscienza borghese; finché a questa restan legate, tireranno addosso-
al proletario classista. Lasciando loro la speranza di poter recupe­
rare la proprietà con piani di riforma e fantastiche teorie sociali­
stiche, l’oligarchia borghese ne farà quel che vorrà. Esse servono
l’interesse grossoborghese, proprio perché si lascia loro la libertà
di coltivare una coscienza borghese colorata di “ socialismo. ” Non
sanno ciò che si fanno, né devono avere consapevolezza di quella
causa grossoborghese,'cui cavano le castagne dal fuoco. L a fede
nel riformismo, in cui i ceti piccoloborghesi vengono confermati,
è in un certo senso il filo tirato dalla grossa borghesia, per far
danzare quelli come fantocci. Le masse piccoloborghesi nazional-
socialiste sono illusi che corrono dietro una vana insegna, e fin­
ché le restano fedeli si battono per l’oligarchia.
Dalle nebbie dell’illusione nazionalsocialista prendon forma le
azioni di guerra civile antiproletaria. L ’illusione assurge a pietra
di paragone della fidatezza borghese. Chi non crede è un avver­
sario malintenzionato, che meglio di tutto è toglier di mezzo;
sull’illusione s’organizza la chiesa del Terzo Reich, ecclesia mi-
litans che non conosce pietà per l’eretico. I lanzi nazionalsocialisti
erano in pari tempo militi della fede e “ gesuiti ” inquisitori, H i­
tler in pari tempo duce dei lanzi e papa dell’illusione, condottiero
e profeta, Cromwell e Maometto in una. Il nazionalsocialismo
reagisce contro il bolscevismo, come l’Islam aveva fatto contro
la Cristianità. L a Germania povera di materie prime, era il de­
serto dal quale i vecchi combattenti volevano, dervisci furibondi,
irrompere per fondare un impero grossoborghese, destinato ad
abbracciare tutt’Europa, dall’Atlantico agli Urali, con tutte le
sue oasi di materie prime.
Risponde a questo stato di guerra in cui si è totalmente im­
mersi, che il senso di ogni cosa politica, economica, culturale e
interna s’esaurisce nel riarmo e nella mobilitazione: morale, or­
ganizzativa, tecnica; il piccoloborghese nazionalsocialista stenta
la vita quale “ soldato politico, ” e il grosso borghese accumula
denari in veste di profittatore di riarmo e mobilitazione. L a vita

446
PANORAMA DEL TERZO REICH

pubblica si fa rozza come al campo: dove le armi risuonano, tac­


ciono le muse. L a vita umana è tenuta in dispregio: sempre a
portata di mano è il fucile, per abbattere il nemico appena lo si
scorga. N u ll’altro più distingue l’uomo, se non il maneggio delle
armi e l’essere un buon guerriero; la personalità viene umiliata,
poiché essa è causa di attriti nella macchina militare.
La superstiziosa servitù militaresca nazionalsocialista trova
sempre fertile terreno laddove l’esistenza borghese si sente in pe­
ricolo; quanto più fragile si fa la base sociale della tradizionale
condotta di vita borghese, tanto più incondizionatamente si è dei
disperati ammazzasette nazionalsocialisti. Qui sono a posto anche
quegli operai socialdemocratici o sindacalisti che, spinti dall’in­
terno rovello antibolscevico, avevano inteso la lotta di classe come
mezzo per poter metter su casa propria con bagno e giardinetto
e farsi una piccola ma solida posizione borghese. L ’intera sostanza
borghese scossa da troppe angosce sociali, indipendentemente dal­
le varie composizioni e combinazioni in cui può incarnarsi, si pre­
senta ormai solo in uniforme hitleriana. Il borghese al cento per
cento porta la sua bandoliera con lo stesso orgoglio con cui lo
faceva quel tubercolotico essere ai margini della società borghese,
che viveva dei vani fantasmi di ricordi, speranze, ideali borghesi.
L a gracilenta ambizioncella borghese, che a nessun patto permet­
teva di sentirsi proletario a chi pur da un pezzo era ormai prole­
tarizzato, si lasciò infilare da Hitler i pantaloni bruni, onde poter
con orgoglio mettere in mostra il proprio spirito di corpo bor­
ghese. In quanto Hitler formava, delle masse borghesi e dei loro
ausiliari, un’immensa schiera di soldati, la insensata angoscia
sociale borghese si mutò in altrettanto insensato, mortale odio
antiproletario. G li stessi denti, che avevano battuto di paura per
l’operaio classista, digrignano ora minacciosamente contro di lui.
L ’edificio sociale borghese capitalistico è l’ultima grande for­
ma di vita europea, la quale accentri in sé tutti i valori dell’occi­
dente e gli ordinamenti umani trasmessi dall’Ellade, da Roma,
dalla Palestina, e che anche il germanesimo ha contribuito a
creare. L ’antica eredità è senza dubbio popolarizzata, dilavata,
resa più rozza, corrotta, involgarita, imputridita, è stata tratta
nel fango e nella melma: ma i suoi elementi ci sono pur sem-

447
VERSO LA GUERRA

pre. Ciò che un tempo era tesoro gelosamente custodito di limi­


tati ceti culturali, scorre ora quale consunta moneta spicciola
tra le dita della plebe piccoloborghese. Nei triviali latrati, nella
bassa facondia di Hitler, nella sua ampollosità cartacea sordida­
mente irrazionale, splende pur sempre lo spirito di Omero, di
Platone, di Aristotele, di Cesare e di Augusto, di Ezra e Nehe-
mia, di Cristo e di Paolo, di S. Agostino e Tomaso d’Aquino,
di Carlomagno e Ottone I, di Lutero e Hegel. Se oggi è diven­
tato granguignolesco ciò che un tempo era nobile, pure le ori­
gini non si possono abbuiare. Le perle gettate ai porci sono tri­
turate in poltiglia, ma nelle scheggioline che ne restano, sfolgora
a volte un raro barbaglio.
L a fantasia storica nazionalsocialista ha costruito, chiedendo
lumi, più che ai fatti, alle esigenze della sua politica, una leg­
genda, nient’affatto povera di ampie prospettive e ardite com­
binazioni: dal 1917, tale grosso modo la spiegazione da essa for­
nita del corso delle cose, è il mondo slavo e tartaro che, tutt’uno
col bolscevismo, minaccia di provocare il crollo della società
borghese-capitalistica, l’annichilimento dell’Occidente; una volta
ancora irrompono Unni, Ungari, Mongoli e Turchi contro le fron­
tiere d’Europa. Il germanesimo ha però ritrovato la sua santa
missione, il suo compito di crociato. N el cuore dei territori slavi,
gruppi etnici tedeschi tremano per le loro proprietà: in quei
paesi essi sono i benestanti, i “ borghesi. ” L a solidarietà bor­
ghese diviene, fondandosi sul sangue, solidarietà etnica; l’idea
nazionale prende sotto le sue ali protettrici sangue e capitale.
Contro lo slavo s’avventa l’odio del sangue, perché quegli mi­
naccia la proprietà: egli è ladrone, bandito, sottuomo, bisogna
fisicamente distruggerlo, per consolidare i fondamenti economici
della superiore razza germanica: lo spavento che lo slavo in­
cute, lo si può esorcizzare, sloggiando lo slavo col ferro e col
fuoco e strappandogli ciò che è suo.
L a lotta contro il bolscevismo divenne cosi lotta degli eroici
germanici contro i servi slavi. Si volle muovere contro l’oriente,
come secoli prima i cavalieri dell’Ordine teutonico: anche Herman
von Salza si era reincarnato in Hitler. Il partito di Hitler era il

448
PANORAMA DEL TERZO REICH

Secondo Avvento dei Cavalieri teutonici: non per niente i suoi


rampolli li mandava negli Ordensburgen.1
L o zelo dei crociati antibolscevichi, il sogno dei conquistatori
dell’Oriente slavo, travolsero il senso d’inferiorità di cui si soffriva
dacché nel 1918 si era stati sconfìtti e si era poi dovuta inghiottire
l ’umiliazione di Versaglia. Versaglia aveva gettato nell’impotenza
la Germania; il borghese tedesco non godeva più di parità di diritti
sul mercato e in politica mondiale. L a presunzione borghese, che
non aveva perduto la coscienza della propria capacità industriale,
s’inalberava d i . fronte alla “ discriminazione ” e al “ disonore. ”
L ’antibolscevismo doveva servire a guadagnar merito al borghese
tedesco in Europa e giustificarne le pretese revisionistiche, in
pari tempo facendo da pretesto al riarmo. S’aveva bisogno d’un
esercito e di strumenti bellici, per poter abbattere la potenza bolsce­
vica in oriente: e una volta che si fosse riusciti a procurarsi armi
contro il bolscevismo, non ci si sarebbe più fatti mettere con le
spalle al muro; ci si sarebbe inoltre rifatto largo nella cerchia delle
potenze imperialistiche, rioccupando il posto cui s’aveva diritto.
Queste potenze andavan coi piedi di piombo: troppo poco da gua­
dagnare avevano, e tutto da perdere; perciò non dichiararono guer­
ra, per quanti trattati a pezzi si gettasse loro ai piedi. L a Germania
non s’era presa ancora la rivincita pel 1918, ma se lo faceva pagare
a cosi caro prezzo, che a conti fatti con mezzi “ pacifici ” s’era ripa­
gata d’ogni perdita. Poiché sempre si giocava va banque e ogni
volta ci si affidava all’eventualità, temuta da tutte le altre nazioni
borghesi, d’una guerra, ecco che si riusciva a strappare, alla viltà
degli stati firmatari del trattato di Versaglia, una concessione dopo
l ’altra. L a guerra non si faceva, ma mostrandosi costantemente
pronti a scatenarla, si mietevano successi quali s’ottengono con
vittorie militari; poiché il popolo tedesco era divenuto il più attivo
militante borghese, ogni potenza borghese doveva di necessità te­
mere, incaparbendosi a presentare i conti di Versaglia, di paraliz­
zare il fervore antibolscevico della Germania e di produrre con
ciò gravissimi danni alla causa borghese europea.

1 Lett., Roccheforti dell’Ordine. Si chiamavano cosi le scuole di partito nelle quali


veniva educata la futura élite nazista.

20 449
VERSO LA GUERRA

L a borghesia tedesca voleva spezzare i ceppi impostile dal trat­


tato di Versaglia. Se questo le riusciva, il popolo tedesco sarebbe
ridiventato un Herrenvol\ n o n o s t a n t e che le masse piccolobor­
ghesi e proletarie fossero schiave: comoda tradizione della bor­
ghesia, quella di identificarsi senz’altro col popolo e la nazione,
e il popolo tedesco sarebbe.stato Herrenvol\ a sufficienza, se solo
la grande borghesia si fosse nuovamente elevata a ceto signorile.
Ma, pur perseguendo tale scopo, essa viveva nella convinzione
di realizzare un urgente, altissimo compito europeo.
La guerra mondiale aveva sconvolto i rapporti di predominio,
sia di classe sia coloniali. Le masse che avevano sofferto sui cam­
pi di battaglia, si valevano dei diritti acquisiti, più non intende­
vano incondizionatamente obbedire. Il bolscevismo era l’ammu­
tinamento di popoli e classi finora oppressi contro i padroni toc­
cati loro in sorte. G li oligarchi borghesi d’ogni nazione erano
molestati dalle pretese delle masse, l’impero britannico doveva
addirittura vedersela coi popoli coloniali in rivolta. Bisognava
riabituare allò scudiscio le masse piccoloborghesi, il proletariato
classista, i popoli coloniali. “ Il tempo dell’emancipazione del ceto
più basso dai ceti superiori, è ormai trascorso, ” aveva dichiarato
von Papen. Le masse piccoloborghesi si lasciavano disciplinare di
buon grado nelle formazioni militari e paramilitari in cui le si
attirava: chi desse loro un’uniforme, ne solleticava la vanagloria
e poteva obbligarle a cieca obbedienza; s’avevano in loro, e a
schiere, i manigoldi con cui terrorizzare le masse in ribellione.
Se tale era il rigore usato nei confronti delle masse di casa propria,
non potevano certo esservi esitazioni a curare con polvere e piom­
bo l’insoddisfazione dei popoli coloniali. L ’Unione Sovietica do­
veva, quale focolaio d’infezione della generale anarchia, essere
accerchiata, arginata, e un giorno vi si sarebbe restaurato il capi­
talismo. Era questa la campagna dell’ordine contro la totale dis­
soluzione: e il catechismo popolare erano gli abbecedari che rein­
segnavano alle masse la sommissione, e l’ordine militare e il dogma,
le medicine destinate a scacciar dal corpo sociale il bacillo della
ribellione. Superate in pieno furono cosi le conseguenze disgrega-

3 Herrenvol\ — popolo di signori. [N. d. T.]

4 50
PANORAMA DEL TERZO REICH

trici e anarchiche della guerra mondiale; le tratte, presentate in


trincea dalle masse all’oligarchia borghese, non furono onorate,
bensì abbruciate quali cartacce senza valore.
L a grande borghesia tedesca fornì così un modello, fu l’esempio
vivente che voleva essere rimeritato: dalla Germania bisognava
che imparasse la borghesia d’ogni paese, l’oligarchia britannica
doveva imparare come si impone la disciplina a masse e popoli
recalcitranti; ma chi andava alla scuola della Germania, si sotto­
metteva alla sua guida.
Niente di meglio, per imporre la disciplina alle masse, che far
ricorso alle forme di dominio feudali elaborate dalla nobiltà ter­
riera, e che adesso dovevano tornare acconce alla grande borghe­
sia. Il “ nuovo medioevo ” doveva educare a quel rigore di cui il
capitalismo bisognava: l’economista tedesco, Lujo Brentano, fin
da prima della guerra aveva visto vicino il “ feudalesimo indu­
striale. ” Il borghese tedesco respirava l’aria germanica dei padri
riducendo gli operai alla condizione di servi di cui disporre a pia­
cimento, alla maniera dei signori feudali.
Hitler ebbe una funzione politico-sociale affine a quella che
aveva esercitato Lutero nel X V I secolo: ambedue simulati rivolu­
zionari, tradirono alla reazione i movimenti rivoluzionari tedeschi
per la libertà; ma tali ingannatrici manovre antipopolari non fu­
rono affatto risolutive e il non risolto continuò a bollire in pentola.
Nella Guerra dei Trent’anni, la Germania scontò l’elusiva astuzia
della Riform a; un prossimo non meno disastroso conflitto farà
inevitabilmente venire al pettine i nodi che il Terzo Reich ha pre­
teso di celare.3 Nelle alleanze del Terzo Reich col Giappone feu­
dale e medioevale, e coi ribelli latifondisti spagnoli, si svelarono i
fondamentali intenti reazionari del Terzo Reich, il quale, nello
spazio, vorrebbe farsi largo su tutti i continenti e, nel tempo, ridur­
re al silenzio tutte le tendenze eversive dal Rinascimento in poi.
Tutte le nuove correnti storiche trovano la loro prima eco
nella gioventù. L a gioventù di un popolo è la sostanza viva che
ancora non è stata rappresa e irrigidita in forme fisse; essa è così
duttile, che soggiace alla forza plasmatrice immanente all’alba d’un

Si tenga presente che queste pagine sono state scritte tra il 1933 e il 1937.
(V. d. T.]

451
V E R SO L A G U E R R A

nuovo destino. In tempo di decadenza sociale le nuove generazioni


non costituiscono il materiale umano migliore e più sano, bensì
il più frollo, il più malaticcio, in cui appare un avanzato processo
di corruzione. L a freschezza delle sue manifestazioni, la violenza
del suo temperamento, la passionalità delle sue iniziative attribui­
scono al generale processo di decadimento impulso sollecitante e
acceleratore.
L a gioventù borghese ne aveva abbastanza della libertà che
aveva rotto le uova nel paniere ai padri, e invocava quindi autorità
di polso, capaci di inculcare obbedienza e moderazione alle masse
piccoloborghesi e proletarie. Il suo ideale più non era la libertà,
bensì il recinto degli schiavi, il cortile pei cani, in cui il popolo
tedesco doveva venir costretto a suon di frusta. Come un tempo
la gioventù borghese aveva marciato, al grido di libertà, contro
le potenze feudali, cosi ora andava, spintavi dal suo istinto di clas­
se, armata di fucili e manganelli contro gli impulsi rivoluzionari
incarnantisi nelle masse proletarie; e si assistette allo straordinario
spettacolo della gioventù d’un popolo che entusiasticamente sten­
deva la mano alle catene, i cuori anelanti nell’impaziente attesa
della schiavitù.
L a gioventù borghese agi in tal senso perché vi era costretta
dall’impulso all’autoconservazione e all’autoaffermazione della so­
cietà borghese; e contemporaneamente le sue istanze individuali,
personali, erano in pieno accordo col generale interesse di classe
borghese. N on aveva dove abbiadarsi; e, se la gioventù borghese
divenne antiliberale, fu perché, in caso di un rovesciamento dei
rapporti sociali, avrebbe potuto gettar sul lastrico quali “ nemici
politici ” i titolari liberali di posti e uffici e impadronirsi delle pol­
trone cosi “ epurate” ; essa persegui il proprio sostentamento, il
proprio benessere, pur pavoneggiandosi sui trampoli d’una Welt-
anschauung; offri le proprie spalle a Hitler, 1’ “ antibolscevico, ”
perché non sarebbe riuscita a godersi una vita da jeunesse dorée,
se prima l’ordine borghese non avesse tolto di mezzo tutti gli
“ elementi corruttori bolscevichi. ”
L ’angoscia sociale della borghesia rimescolò tutto il caotico e
oscuro, il tenebroso e ambiguo, il barbarico e bestiale, il basso c
maligno celato nel fondo del temperamento tedesco. Il nazionalso-

452
1
P A N O R A M A D E L T ER ZO R E IC H

cialismo era il compendio di questo rimestato fondaccio germa­


nico. V e un passo di Balzac in cui s’esprime ciò di cui il borghese
è capace se preda delle angosce sociali: in Grandezza e decadenza
di Cesare Birotteau, Balzac fa dire dal giudice Popinot al nipote:
“ Mio caro nipote, il tuo antico principale può forse trovarsi in
una situazione d’affari cosi brutta da essere costretto a dichiarare
fallimento. Ma prima di decidersi a tanto, anche persone che hanno
dietro a sé quarantanni di vita onorata, uomini di esemplare pro­
bità, pur di difendere il proprio onore si comportano come gioca­
tori disperati; diventano capaci di tutto; vendono la loro moglie,
mercanteggiano le figlie, ingannano gli amici, impegnano la pro­
prietà altrui; recitano, si fanno commedianti e mentitori, esperti
nel darla a bere. H o visto le cose più incredibili. ” Il nazionalso­
cialismo sollecita questa autodegradazione borghese, questa di­
sperata determinazione a prostituirsi, a tuffarsi in ogni bruttura
con la primordiale rozzezza, violenza e ferocia di cui è capace la
natura germanica.
G li elementi borghesi capitalistici, antisemitici, ariani nazio­
nali, germanici, dispotici e antispirituali, barbarico-giovanili,
mistico-irrazionali, ribellistici, visionaristici, confluirono in un’u­
nica fiumana e Hitler appare quale l’uomo che ha scavato a
loro tutti l’alveo. L a sua “ grandezza ” e il suo demonismo consi­
stono nell’esser egli, nonostante la sua vuotaggine, la sua nullità,
la cassa armonica capace di consuonare col complesso di questi
farraginosi elementi e quindi di entrare in contatto con ognuno
di essi: Hitler sa esprimerli ciascuno nella sua particolare tonalità
c in pari tempo tutti assieme. Egli ha una tale carica d’odio di
classe, è tanto brutale, spietato, invasato, ha le mani tanto sporche
di sangue, è tanto intollerante, basso e poco cavalleresco, abbietto,
menzognero e imprevedibile, tanto nemico dello spirito e ciarla­
tanesco, quant’è richiesto dalla difesa dell’ordine borghese in quel­
la determinata situazione: egli incarna insomma la depravazione
dalla quale gli istinti borghesi ancora si ripromettono la salvezza.
Hitler è il “ dominatore ” contrapposto al “ sottuomo, ” ed è in
pari tempo 1’ “ uomo del popolo ” contrapposto all’ “ orgoglio di
casta, ” 1’ “ eletto ” contrapposto al “ reietto, ” 1’ “ aristocratico ” con­
trapposto alla “ sciocca' moltitudine,” ma contemporaneamente è

453
V E R SO L A G U E R R A

anche il “ beniamino delle masse ” contrapposto agli “ isolati estra­


nei al popolo, ” 1’ “ ariano ” contrapposto allo “ spurgo razziale, ”
il “ nobile nordico ” di contro al “ bastardo d’oriente, ” la “ gio­
ventù” di contro alla “ vecchiaia,” il “ galantuomo borghese” di
contro ai “ voltagabbana giudaici, ” il “ combattente del fronte ”
di contro all’ “ imboscato, ” il “ soldato ” di contro al “ borghese, ”
il “ prussiano ” di contro al “ giacobino, ” 1’ “ eroe ” di contro al
“ vigliacco, ” 1’ “ uomo d’azione ” di contro al “ parolaio ” ; ed è
naturalmente il “ rivoluzionario ” in antitesi al “ reazionario, ” pur
essendo anche 1’ “ uomo forte ” che doma gli “ schiavi ribelli, ”
1’ “ autorità ” in antitesi alla “ sedizione, ” il “ pugno di ferro ” in
antitesi al “ liberalismo, ” la “ barbarica durezza ” in antitesi alla
“ melensaggine umanitaria, ” il “ sangue ” in antitesi allo “ spiri­
to, ” “ istinto ” contro “ cultura, ” “ zolla ” contro “ asfalto, ” “ cam­
pagna ” contro “ città, ” è il “ fanatico della proprietà ” avverso al-
1’ “ espropriazione, ” 1’ “ individualista ” avverso al “ collettivismo, ”
1’ “ occidentale ” avverso all’ “ anticultura asiatica, ” senza dimenti­
care che è anche “ sacerdote dell’utile collettivo ” opposto all’ “ uti­
le del singolo. ” Hitler è insieme pagano e “ Cristo positivo, ” “ ri­
belle a Roma ” e “ papa infallibile, ” “ salvatore ” e “ boia, ” “ cu­
ratore d’anim e” e “ corruttore di spiriti,” “ taumaturgo politico”
e “ frusta ” : per farla breve, egli è il “ factotum universale ” tede­
sco, le cui buffonerie hanno effetto perché la borghesia tedesca,
col fervore d’una sorta di delirio religioso, vuole essere illusa.
Hitler impiega l’intera storia tedesca quale un colossale spet­
tacolo, per millantare riserve destinate a procurare illimitato cre­
dito alla società borghese anche nel momento della sua banca­
rotta: l’agitarsi degli evocati spiriti del passato deve nascondere
che la società borghese non ha più alcun futuro.
Per ogni capitolo della storia tedesca si danno, nel ciclo del
Terzo Reich, situazioni nelle quali esso si ripete; dall’ombra del­
l’oblio emergono, quali eroici sogni, fantasmi, le “ immagini del
passato tedesco” : e ora alla ribalta si presenta Wotan e la sua
“ caccia selvaggia, ” ora Arminio e la battaglia di Teutoburgo;
Widukind torna a ribellarsi a Carlomagno, ecco Enrico I che
torna ad “ uccellare ” ; Ottone I che sottomise l’oriente slavo, scon­
fisse le “ orde asiatiche ” ed elevò il Reich a potenza mondiale,

454
P A N O R A M A D E L T ER ZO R E IC H

suscita imitatori; le Crociate rifan capolino sulle scene; rispunte­


ranno le idee d’una politica mediterranea; la coscienza della su­
premazia tedesca considera quale suo predestinato retaggio tutti
g li angoli della terra; una fede tedesca vorrebbe sbarazzarsi di
Rom a; il bastone di Federico Guglielmo e la Guerra dei Sette
Anni di Federico II stanno davanti agli occhi di tutti; la guerra
di liberazione viene eseguita come un pezzo di repertorio, l’impe-
rialismo di Guglielmo II si ridesta; si torna a condurre, fanta­
smagoria d’ombre, la guerra ’ i4-’ i8 con la sua economia bellica,
la mobilitazione generale, fame e vittime, il culto degli eroi, i
sogni di dominazione mondiale, i capolavori tattici e gli acciabat-
tamenti strategici. N el suo Diciotto Brumaio, Carlo M arx aveva
ripreso l’idea hegeliana che ogni processo storico si svolge due
volte: una in forma di tragedia, la seconda, dopo che le impro­
rogabili decisioni son già state tratte, quale dramma satirico. E il
Terzo Reich è un’allucinante satira, che rifà beffeggiandola —
in piena pace — la tragedia della guerra mondiale sotto forma di
procedimenti polizieschi e azioni di guerra civile; ma non solo
questo: ché il Terzo Reich è, in pari tempo, anche l’orrenda satira
che ripete l’intera storia medioevale e borghese del popolo tede­
sco, grottescamente stravolta, svilita nella scelleratezza. L a satira
sta a conclusione dell’epopea feudale-borghese come una sconcia,
delirante retrospettiva che trascorre davanti allo sguardo dei di­
sperati cui l’agonia ha tolto il senno. Il Terzo Reich non inaugura
più alcuna epoca, non è una svolta del destino della Germania
feudale-borghese, bensì è, prima del suo inarrestabile tramonto,
il fugace sogno in cui per l’ultima volta guizza, con bizzarri con­
torni, l’intero contenuto del trascorso passato. Una disumanata
esistenza pretende, richiamandosi ai culmini del suo passato, di
giustificarsi. Tutti i difetti del popolo tedesco: la violenza smo­
data, la tracotanza nella fortuna e la bassezza nella sconfitta, la
mancanza di dignità e fermezza, la vile brutalità che mai rispon­
de delle atrocità commesse,* il sentimentalismo che, con simulati
affetti, vorrebbe cancellare le tracce dell’ebbrezza di sangue, la
bestiale sfrenatezza nei confronti del debole e il querulo servi-
* Giìi dal 1945 i tedeschi negavano la loro responsabilità collettiva nella creazione
del Terzo Reich e nelle sue atrocità (1948).

455
V E R SO L A G U E R R A

lismo al cospetto del forte, la mendacità radicata nel più intimo


dell’essere e che non ha idea di ciò che siano verità, rettitudine,
valore morale: tutto ciò riviene a galla più perverso che mai. Hitler
dà la colpa di tutti gli sfaceli storici accaduti al fatto che il popolo
tedesco non avrebbe messe in luce a sufficienza queste sue “ qua­
lità ” : esso sarebbe assurto a statura mondiale, se fosse stato ancor
più violento, sfrenato, brutale, sentimentalistico, strisciante, menzo­
gnero, moralmente nullo; esso si sarebbe afflosciato a un passo
dalle più alte vette della storia, perché non avrebbe posseduto la
forza per portare alle estreme conseguenze le cupe doti della sua
natura. Il Terzo Reich si sente capace di tale forza: è sua inten­
zione non arretrare di fronte a nulla e grazie al successo storico
consacrare a virtù quel che finora si considerò vizio perché il
popolo tedesco ne fu sempre portato alla rovina. L a volontà di
potenza si pone come meta il rovesciamento di tutti i valori; e
se i vizi, fattisi addirittura mostruosi, procurano la signoria del
mondo, essi assurgeranno anche, quali dispotiche forze elementari,
all’altezza delle glorie storiche.
L ’abissale bugiarderia del fascismo si rivela già nell’ipocrita,
falsificatrice interpretazione ch’esso dà della sua funzione fonda-
mentale: esso vorrebbe cioè presentarsi come un sistema difensivo,
mentre invece è un sistema di dura pratica della violenza e di
sconsiderato infrangimento dei più primitivi diritti umani. L a
sua politica interna ed estera è bestialmente predatoria: il fascismo
è cupido di bottino, tende agguati a chi è senza sospetto, i deboli
son le sue vittime. Giappone, Italia, Germania, son bestie feroci
nel senso nietzschiano, le quali saltano alla strozza di popoli che non
se ne guardino e bevono il sangue delle classi sociali che sian
riuscite ad adunghiare. Il Giappone si è gettato sulla Cina, l’Italia
sull’Abissinia, la Germania per ora sulla Spagna, e insaziabili
esse gettan gli occhi intorno per nuove prede da lacerare.
Come il proletariato dovette subire la bestiale politica di classe
nazi-fascista, cosi gli stati democratici per lungo tempo stettero
smarriti al cospetto della politica estera nazi-fascista. A lle potenze
liberal-democratiche, la guerra non va a genio, esse non hanno
ancora dimenticato la conflagrazione del ’ i4-’ i8 ; e non arretrano
di fronte alle estreme concessioni pur di evitare la guerra, dalla

456
P A N O R A M A D E L T ER Z O R E IC H

quale vedrebbero messa in forse la loro esistenza civile. Vogliono


fermare il pugno che si leva loro contro, offrendo concilianti
trattative ; s’aggrappano alla persuasione che, solo ad aver pazienza,
in ultima analisi la ragione e il senso d’umanità trionferanno pur
sempre della leggerezza di avventurieri, che non temono nessuna
catastrofe. Molto sopportano e molto ingozzano, prima che la mo­
sca salti loro al naso; largamente si può approfittare della loro
indulgenza e del loro amor di pace: esse continuano a controllarsi
perfino quando se ne calpestano gli effettivi interessi vitali, non
vogliono chiudere la porta alla pace. Cosi fu che Stati Uniti e
Inghilterra si mostrarono tolleranti quando il Giappone s’appro­
priò del Manciukuò, che l’Inghilterra menò buono all’Italia fascista
la provocazione etiopica, e la Francia si rassegnò a che il Terzo
Reich facesse a pezzi il trattato di Versaglia, riarmasse, rioccupasse
la Renania, intervenisse in Spagna. I dittatori nazi-fascisti rischia-
vano continuamente la guerra, perché erano sicuri che non vi fosse
potenza liberal-parlamentare capace di dichiararla.
“ Non è forse una vergogna,” ebbe a chiedere Voltaire, “ che
i fanatici abbiano zelo e i savi non ne abbiano? Bisogna essere
prudenti, non già pusillanimi. ” Lo zelo dei fanatici nazi-fascisti
fu spronato dalla loro crescente persuasione che le “ sagge” de­
mocrazie fossero assai piu pusillanimi che prudenti.
Quando l’Unione Sovietica si fu rafforzata all’interno, cessò
dall’essere un focolaio internazionale di perturbamenti: visse alla'
sua maniera bolscevistica antiborghese, lasciando vivere le altre
potenze alla loro maniera capitalistico-antiproletaria; essa andò a
Ginevra, dove Litvinov sfoggiò tutte le arti della sua Realpolitik
e la conseguenza politico-classista del realistico atteggiamento
dell’URSS in campo internazionale fu il concetto di fronte popolare.
Non appena le democrazie parlamentari non dovettero più
risentire il bolscevismo e l’Unione Sovietica quale minaccia imme­
diata, divennero loro intollerabili le grida di guerra fascistiche e
nazionalsocialistiche; esse s’ostinavano ad aver più caro il burro
dei cannoni: non più il bolscevismo, bensì il fascismo e il nazio­
nalsocialismo erano i perturbatori della pace mondiale. Le potenze
totalitarie, che volevano esser sempre in campo, bisognava farle
stare a dovere; ed ecco sorgere coalizioni di potenze amanti della

457
V ER SO L A G U E R R A

pace, e l’Unione Sovietica con esse. L a formula della indivisibilità


della pace l’aveva coniata Litvinov: essa dà altrettanto poco filo
alle azioni rivoluzionarie mondiali quanto allo scatenamento di
lotte di classe.
Le democrazie occidentali non sono affatto, a vero dire •— ed
è ciò che ne rende cosi ambigua e impenetrabile la politica estera
— avversarie del fascismo e del nazionalsocialismo per principio:
sotto sotto, sono perfettamente consce della comunanza della causa
borghese, e fu solo perché il nazionalsocialismo ne aveva fatte di
tutti i colori, che si giunse a una collaborazione di carattere tattico
tra potenze liberal-democratiche da una parte e U RSS dall’altra.
Naturalmente, anche il formarsi di tale costellazione politica,
per cui la Russia dei Soviet si condusse al fianco d’Inghilterra e
Francia e nella cerchia delle potenze ginevrine, fu solo una tappa
per entro il grande processo, che interessa il mondo intero, nel
quale si deciderà il contrasto tra ordine borghcse-individualistico-
capitalistico da un lato, e ordine pianificatorio-collettivistico-tec-
nicistico dall’altro — l’antitesi tra reazione e rivoluzione mondiale.
Il contrasto tuttavia continua; e, anche se la sorte ha ormai de­
finitivamente suggellato il destino dell’occidente feudale-borghese,
quest’occidente è pur sempre un organismo durissimo a morire:
per decenni, per secoli anzi, si prolungherà la sua rovina, una
rovina che avrà soste e contraccolpi, che avrà periodi d’apparente
salute. Nella generale consunzione della materia, di quando in
quando s’agglomerano in luoghi occulti forze segrete: all’improv­
viso esse erompono, fingendo guarigione, rifioritura, nuova ascesa.
Ben presto però il serbatoio delle energie sarà svuotato, e la rovina
trascinerà in un abisso, dal quale l’organismo si riteneva eterna­
mente sicuro. Una di queste spasmodiche esplosioni è il Terzo
Reich — nulla di piu: il deficit energetico del corpo sociale bor­
ghese, che esso si lascia dietro, sarà palesato solo dal bilancio che
il futuro ha ancora da stendere.

458
Conclusione
C a p ito lo tr e n ta q u a ttr e s im o

Il provocatore

Il bilancio che Hitler poteva fare alla fine del '37, gli era
straordinariamente favorevole. Credeva di non dover più temere
la guerra: le armi, con tanta rapidità accumulate, dovevano agire
d ’ora in poi come virtù magiche capaci di fargli cadere in grembo
i successi politici. S’avvicinava l’ora della revanche per il 1918;
H itler aveva “ democratizzato” l’idea pantedesca, ne aveva fatto
un’istanza delle masse. Solo non bisognava più ripetere, era chiaro,
gli errori commessi negli anni ’i4-’i8. Distrutti erano sindacati e
partiti che avrebbero potuto tirare un’altra “ pugnalata alla schie­
n a ” alla Germania; la mobilitazione psicologica delle masse,
nessuna forza al mondo poteva più stornarla, il piano Schlieffen1
doveva tornare agli onori nella sua forma originaria: forse esisteva
anche una possibilità di evitare la guerra su due fronti; l’economia
d i guerra poteva essere predisposta fin nei minimi particolari;
ciò che nel 1918 non era riuscito, doveva ora andare a segno.
Ormai Hitler si sentiva sicuro non solo della guerra, ma anche
della vittoria.
L ’andamento della guerra civile spagnola ne rafforzò la con­
fidenza in se stesso e lo incoraggiò alle imprese più temerarie.
E gli ascrisse i successi colti dal fascista Franco all’aiuto della Ger­
mania e previde che in Spagna il fascismo l’avrebbe spuntata sulle
democrazie: e tanto più conscio ne era, dal momento che Inghil­
terra e Francia vergognosamente avevano piantato in asso il go­
verno repubblicano democratico spagnolo.
Ambedue i dittatori, Mussolini e Hitler, in terra spagnola ave­
vano mietuto allori a buon mercato; la loro guerra di Spagna l’a­
vevano progettata quale “ guerra di prova, ” nel corso della quale
1 II piano Schlieffen, cosi chiamato dal nome del generale che lo elaborò, preve­
deva l’invasione della Francia attraverso il Belgio e l’Olanda. [N. d. T .]

4M
C O N C L U S IO N E

si sperimentarono le più recenti armi e gli ultimi modelli di aero­


plani. Una Spagna fascista avrebbe completato la tenaglia nella
quale la Francia era politicamente serrata quasi senza potersi
muovere. L ’Inghilterra secondò l’intervento italo-tedesco nella pe­
nisola iberica, sostenendo di non riuscire a constatare la presenza
in Spagna di truppe né italiane né tedesche, e alla londinese com­
missione per la Spagna, il premier inglese Lord Plymouth, forni
benevolo appoggio al rappresentante tedesco, Ribbentrop, quando
questi negò spudoratamente l’evidenza di fatti esposti dall’amba­
sciatore sovietico Maisky.
In un primo tempo, Hitler ritenne opportuno tenere il popolo’
tedesco all’oscuro dell’intervento in Ispagna, dando a intendere
ai sudditi che la Germania non vi mandava un solo soldato: solo'
volontari vi combattevano, accorsi in aiuto di Franco contro la
volontà di Hitler. L a partecipazione della Wehrmacht doveva
essere celata alla popolazione tedesca, perché sarebbe stata “ impo­
polare” ; avvenne cosi che i soldati tedeschi caduti in terra di
Spagna, incontrarono la loro “ morte eroica ” per cosi dire a porte
chiuse.3 N el '39, Franco era ormai saldo in sella; con l’appoggio-
di Hitler, la democrazia spagnola era sconfitta, il fascismo aveva
conquistato in Europa una nuova posizione.
V i è un documento del '37, il quale comprova con quanta de­
terminazione Hitler puntasse alla guerra : è il cosiddetto “ proto­
collo Hossbach. ” Il 5 novembre 1937 vi fu alla cancelleria del
Reich, dalle ore 16,15 a^e 20,30, una seduta alla quale erano pre­
senti, oltre Hitler, Blomberg, Fritsch, Raeder, Gòring, Neurath,
e il colonnello Hossbach, con funzioni di segretario, per stendere
il verbale della seduta. Hitler tenne un discorso programmatico,
svelando le proprie intenzioni; trattò, nella maniera che gli era
propria, della necessità d’uno “ spazio vitale ” per la Germania,
e diede a capire che intendeva procurarselo nella stessa Europa,

3 Un caso grottesco si verificò ancora nel 1939 davanti al Tribunale del popolo,
dove certo dottor Joseph Drexel fu accusato non solo di “ preparazione all’alto tradi­
mento, ” ma anche di tradimento vero e proprio per aver diffuso notizie su operazioni
compiute da soldati tedéschi in Ispagna. Un esperto nominato dalla Wehrmacht contestò-
nella sua perizia che di soldati tedeschi in Spagna ve n ’erano effettivamente, per cui
asserzioni in tal senso non potevano essere considerate “ propalazione di segreti o tra­
dimento. ” L ’accusa di tradimento fu perciò lasciata cadere (1946).

462
IL PRO VO CATO RE

dal momento che Inghilterra e Francia si rifiutavano di cedere


anche una minima parte delle loro colonie; per la Germania non
rimanevano altro che i territori poveri quali l’Angola. “ Se la sicu­
rezza della nostra situazione alimentare dovesse diventare problema
cruciale, lo spazio a tal fine necessario potrebbe essere cercato solo
in Europa e non, come vorrebbero concezioni liberali capitalistiche,
nello sfruttamento di colonie. Qui non si tratta di guadagnare
uomini, bensì terre coltivabili. ” Continuò Hitler: “ Che ogni
conquista di spazio possa avvenire solo abbattendo resistenze e
affrontando un rischio, lo ha dimostrato — impero romano, im­
pero britannico — la storia di tutti i tempi. ” Col suo tipico cinismo,
soggiunse: “ N é prima né oggi si son dati territori senza padrone,
e l ’aggressore deve sempre venire ai ferri corti col proprietario.
A soluzione dei problemi tedeschi, non v’è che il ricorso alla
violenza, cosa che mai può essere senza rischi. ” Hitler trattò
quindi del periodo piu favorevole per l’attacco agli stati confinanti.
. Dopo il 1943, sarebbe troppo tardi : da quel momento ci sarebbero
da attendersi mutamenti a sfavore della Germania. “ Se noi non
ci muovessimo prima del 1943-1945, ” ammoni Hitler, “ ogni anno
potrebbe portare una crisi alimentare in seguito alla deficienza di
riserve, per superare la quale potrebbero non esserci sufficienti
divise.” Hitler esaminò poi l’invasione della Cecoslovacchia: il
momento per farlo sarebbe dipeso dalla situazione interna della
Francia; se le tensioni sociali in Francia dovessero assumere le pro­
porzioni di una tale crisi interna, da impegnare l’esercito francese
ed escluderlo da un impiego militare contro la Germania, il mo­
mento di agire contro la Cecoslovacchia sarebbe venuto. Potrebbe
anche darsi che la Francia fosse talmente presa da una guerra da
non poter procedere contro la Germania: sarebbe l’altra occasione
favorevole. Hitler pensava a una guerra mediterranea tra Francia
e Italia, che vedeva prossima se Mussolini non avesse sgombrato le
Baleari. Con che esattezza allora Hitler valutasse la debole politica
delle potenze occidentali democratiche lo provò la sua predizione
che già allora Inghilterra e probabilmente anche Francia avessero
tacitamente depennato la Cecoslovacchia rassegnandosi a vedere
prima o poi la questione aggiustata dalla Germania. Già allora
Hitler pensava allo sterminio in massa: in Cecoslovacchia come in

443
C O N C L U S IO N E

Austria, voleva procurare spazio ai tedeschi, e calcolava che l’eva­


cuazione forzosa di due milioni di cecoslovacchi e di un milione
di austriaci, avrebbe assicurato il nutrimento a cinque, sei milioni
di tedeschi. Un intervento militare da parte della Russia sovietica
avrebbe dovuto essere sventato dalla rapidità delle operazioni te­
desche.
Nella discussione venne fuori che tanto Blomberg quanto Fritsch
erano contrari, dal punto di vista militare, ai piani di Hitler: essi
sostenevano che la Germania non poteva giungere al punto di
avere per avversari Inghilterra e Francia. Hitler s’attendeva il
conflitto fra Francia e Italia, a quanto è dato capire dal protocollo,
per l’estate 1938, ed era convinto del non intervento inglese. In
un altro passo del protocollo si rivela che Hitler non desiderava
una vittoria chiara e indiscutibile di Franco in Spagna: le tensioni
nel settore mediterraneo non dovevano essere superate, tornando
esse a prò’ della Germania; risulta ancora che Hitler considerava
Austria e Cecoslovacchia le sue prime vittime; per il momento la
Polonia rimane nell’ombra: bisognava mantenerla neutrale. Hitler
intendeva agire con fulminea rapidità, e sperava di trar vantaggi in
Europa Orientale dall’aggressiva politica mediterranea di Mus­
solini.
N el marzo 1938, si metteva in opera l’azione contro l’Austria.
Cedendo a pressioni tedesche, il cancelliere federale Schuschnigg
aveva accolto nel suo gabinetto ministri nazionalsocialisti; questi
operavano di concerto con Hitler, lavoravano per lui. Bande na-
zionalsocialiste provocavano disordini in varie località austriache,
mentre l’inviato tedesco Papen assoldava dirigenti dell’economia
austriaca.
Per consiglio di Papen, Schuschnigg era partito per Berchtes-
gaden a visitarvi Hitler; si ebbe un brusco trattamento, per qualche
istante temette addirittura di essere arrestato. Comprese quel che
Hitler andava tramando, ma volle ancora rischiare una contro-
manovra: interpellò Londra, Parigi e Roma, chiedendo se poteva
sperare nel loro aiuto. Il 6 marzo con un discorso preannunciava
un referendum popolare: intendeva fare entrare nella coalizione
governativa, quale contrappeso ai nazionalsocialisti, la socialdemo-

464
IL PRO VO CATO RE

crazia; politica che il popolo era chiamato a convalidare col refe­


rendum che avrebbe avuto luogo già il 15 marzo.
I nazionalsocialisti alzarono la voce: l’annuncio del referendum
popolare fu da loro definito una sopraffazione: provocarono scon­
tri con i socialdemocratici, affermarono che il sangue scorreva a
fiumi e che il governo Schuschnigg non era più padrone della
situazione. Hitler applicò la sua sperimentata ricetta: provocare
•dapprima il caos, per poi imporsi quale fautore dell’ordine. F u con­
certato che il ministro degli interni nazionalsocialista, Seys-Inquart,
sollecitasse l’aiuto del Reich; al presidente della repubblica Miklas fu
posto l’ultimatum: licenziare il cancelliere Schuschnigg.
Avendo Inghilterra, Francia e Italia rifiutato aiuto militare
al governo Schuschnigg, questo era inerme di fronte alla pressione
tedesca: considerata inoltre l’infiltrazione nazista nel paese, il go­
verno non poteva rischiare uno scontro armato col Reich.
N el suo discorso radiodiffuso dell’ n marzo 1938, Schuschnigg
delineò al popolo un quadro degli avvenimenti : “ Il governo del
Reich, ” disse tra l’altro, “ ha posto un ultimatum a termine al
•signor presidente della repubblica, ingiungendogli di nominare
cancelliere federale uno dei candidati da esso proposti e di formare
il governo secondo le istruzioni di Berlino: in caso contrario, si
avrà per quella data l’entrata delle truppe tedesche in Austria. Il
signor presidente della repubblica m’incarica di comunicare al po­
polo austriaco che cediamo alla violenza. ”
II giorno successivo, le truppe tedesche, salutate con giubilo
da buona parte della popolazione, facevano il loro ingresso in Au­
stria. Benché Briand avesse a suo tempo ammonito che “ VAnschluss
significa guerra, ” né la Francia, né alcun’altra delle potenze
ginevrine mantenne la parola. L ’Austria si vide piantare in asso,
come l’Abissinia dopo l’aggressione italiana, come la Spagna dopo
l’intervento fascista, come nel '37 la Cina dopo l’attacco giappo­
nese alla Manciuria.
Inghilterra e Francia protestarono a Berlino per la violenza
usata nei confronti dell’Austria, ma se la presero calma allorché
il governo tedesco respinse la protesta: Hitler trattò VAnschluss
come una questione interna tedesca, che non ledeva alcun interesse
straniero. Dal momento che anche Washington di fatto ricono-

465
u<>
C O N C L U S IO N E

sceva l’atto di forza di Hitler, questi poteva vantare un grosso1


successo internazionale.
Le potenze di Ginevra ormai non pensavano più all’Austria, già
preoccupate com’erano da altri pensieri: diffidavano delle lontane
intenzioni di Hitler. Il 14 marzo, la Francia assicurò alla Cecoslo­
vacchia il suo appoggio contro Hitler, ma di cattivo auspicio era
che il 24 dello stesso mese, l’Inghilterra rifiutasse di aderire a tale
impegno. A lla Camera dei Comuni, Chamberlain aveva dichiarato-
a proposito della questione austriaca: “ Per formulare un giudizio
sui recentissimi avvenimenti, è necessario guardare in faccia la
realtà. Comunque li si giudichi e comunque se ne vogliano valu­
tare gli influssi sulla situazione internazionale quale è oggi, è una
dura verità — e di essa ogni membro di questa Camera può con­
vincersi di persona — che nulla avrebbe impedito quest’iniziativa
tedesca, anche se noi, e altri con noi, fossimo stati pronti a far uso
della violenza per bloccarla. ”
L ’immediata conseguenza di questi avvenimenti, proseguiva
Chamberlain, non poteva non essere un aumento del senso di in­
sicurezza e di instabilità in Europa; non era però quello il momento
delle decisioni affrettate e delle frasi avventate: bisognava consi­
derare chiaramente e con freddezza la nuova situazione; egli,
Chamberlain, aveva sempre messo in rilievo il carattere di elasti­
cità del programma di difesa britannico, passibile a ogni istante
di revisione al lume delle mutate condizioni internazionali.
A prò della Cecoslavacchia, l’Inghilterra non osò certo troppo.
In Inghilterra prevaleva una corrente che condizionava le delibe­
razioni di maggior momento: già da parecchio tempo la Cecoslo­
vacchia s’era avvicinata all’Unione Sovietica; seguendo l’esempio
della Francia, il 16 maggio 1935 essa aveva sottoscritto un trattato-
ceco-sovietico di mutuo soccorso il quale conteneva, nei confronti
di quello franco-russo, una particolarità che provò la sua efficacia
nel 1938 e consisteva in una delle clausole annesse al punto 2 del
protocollo: “ In pari tempo, i due governi riconoscono che gli
impegni di mutuo soccorso avranno reciproca validità solo in
quanto alla parte aggredita sia fornito, secondo le condizioni pre­
viste da questo trattato, aiuto dalla Francia. ”
L a fiacca politica, che nel periodo successivo la Francia condusse

466
IL PRO VO CATO RE

nei confronti della Germania, mise in grave crisi la Piccola Intesa.


L a Jugoslavia era intimidita dalla Germania già dal '36, epoca
del viaggio di Gòring a Belgrado, dove questi aveva minacciato che
in caso di guerra la Jugoslavia sarebbe stata travolta al primo as­
salto dalla Wehrmacht. Il 25 marzo 1937, la Jugoslavia firmava
un trattato d’amicizia con l’Italia, mediante il quale Belgrado
veniva strappata al sistema d’alleanza francese. Mussolini s’era
accaparrato la Jugoslavia fornendo assicurazioni di rinunciare d’ora
in poi alle pretese italiane sulla Dalm azia; mediante un patto d’a­
micizia bulgaro-jugoslavo anche la Bulgaria fu attratta nell’orbita
fascista. Influenzato dalla Polonia, nell’aprile 1937 il governo ro­
meno si lasciava indurre a promettere di non sottoscrivere alcun
trattato di mutuo soccorso con la Cecoslovacchia o la Francia;
all’Unione Sovietica, inoltre, caso mai questa volesse accorrere in
aiuto della Cecoslovacchia, non si sarebbe dovuto concedere il di­
ritto di transito attraverso la Romania.
L a Piccola Intesa era demolita, la Cecoslovacchia aveva ben
motivo di sentirsi isolata e di temere per la propria sicurezza; solo
dall’Unione Sovietica, essa capi, poteva ancora venire aiuto. Con
l’avvicinamento ceco-sovietico, l’influenza dell’U.R.S.S. era pene­
trata fin nel cuore della Mitteleuropa; ma i circoli monopolistici
che dettavano la politica britannica, non vedevano affatto di buon
occhio questa penetrazione: essi si ripromettevano ben più con­
creti vantaggi da un’intesa con Hitler contro l’U.R.S.S., a spese
della Cecoslovacchia.
Da anni, la politica inglese era di netta opposizione nei con­
fronti dell’U.R.S.S. cui aveva arrecato danno in tutti i modi pos­
sibili. Ben presto l’Inghilterra si persuase di poter fare di Hitler
il capitano di ventura del suo gioco antisovietico, e solo a malin­
cuore accondiscese alle misure della Società delle Nazioni intese
a infrenare l’aggressività hitleriana, continuando tuttavia a offrire
a questa sempre nuove scappatoie, allorché sembrava serrata da
presso dagli spaventati vicini e confinanti. Il principe di Galles
approvò la decisione delle organizzazioni combattentistiche inglesi
di inviare a Hitler una delegazione; Lord Alien of Hartwood
visitò Berlino in rappresentanza dei circoli di destra inglesi; am­
bedue le parti resero dichiarazioni improntate a cordialità e ami­

467
C O N C L U S IO N E

cizia. D i contro agli sforzi francesi e sovietici per far valere il


principio della sicurezza collettiva, l’Inghilterra dimostrò aper­
tamente il suo favore al principio hitleriano dei trattati bilaterali.
Il 18 giugno 1935 veniva sottoscritto un accordo navale anglo­
germanico, che concedeva alla Germania una flotta pari al 35%
dell’intera potenza navale del Commonwealth ; in quei giorni Lord
Lothian, futuro ambasciatore britannico a Washington, promove­
va, nei più ragguardevoli clubs inglesi, un’agitazione prò Hitler.
In una nota del ministero degli esteri tedesco del 19 novembre
1937, in cui si dà notizia della visita del ministro inglese Lord
H alifax a Hitler, si richiama l’attenzione sull’inquietudine pro­
dotta tra il pubblico inglese da numerosi insoliti avvenimenti al­
l’interno del Terzo Reich; “ Nonostante tali difficoltà,” riprende
la nota, “ egli [Lord H alifax] e altri membri del governo inglese
sarebbero persuasi che il Fiihrer ha fatto grandi cose non solo in
Germania ma, distruggendo il comuniSmo nel proprio paese, ha
sbarrato a questo la strada per l’Europa occidentale, e che quindi
la Germania può essere a buon diritto considerata il bastione del­
l’occidente contro il bolscevismo.” N el corso dei colloqui, Lord
H alifax avrebbe ammesso essere Danzica, l’Austria e la Cecoslo­
vacchia tra quei punti dell’ordine europeo che necessitano di revi­
sione. “ L ’Inghilterra, ” affermò Lord Halifax, “ è unicamente in­
teressata a che tali mutamenti siano indotti coi mezzi d’una pacifica
evoluzione. ” Ed ecco quanto l’ambasciatore tedesco in Inghilterra,
Dirksen, comunicava al proprio governo in data io luglio 1938:
“ L ’attuale gabinetto inglese, primo fra tutti i governi postbellici,
ha fatto dell’accomodamento con la Germania- il punto fonda-
mentale del proprio programma; esso quindi dimostra la massi­
ma comprensione possibile alla Germania... Esso in parecchi pun­
ti si è accostato alle tesi fondamentali sostenute dalla Germania:
esclusione dell’Unione Sovietica dalle decisioni sui destini d’Euro­
pa; esclusione della Società delle Nazioni da tale compito; neces­
sità di trattative e patti bilaterali. Esso dimostra crescente com­
prensione per le posizioni della Germania in merito alla questione
dei Sudeti, e sarebbe pronto a fare grossi sacrifici in vista del
soddisfacimento delle altre legittime rivendicazioni tedesche, con

468
IL PRO VO CATO RE

l’unico presupposto, che tali obbiettivi siano perseguiti con mezzi


pacifici. ”
Con un cosi benevolo atteggiamento del governo britannico
verso la Germania, la Cecoslovacchia nulla poteva sperare da Lon­
dra: essa era d’ostacolo all’intesa anglo-tedesca e fu quindi dal­
l ’Inghilterra freddamente abbandonata.
L a corrispondenza da Londra apparsa sul N ew Y o r\ Herald
Tribune del 15 maggio 1938, in cui si affermava che l’Inghilterra
non era disposta a scendere in campo per la difesa di una repub­
blica slava, evidentemente si basava su fonti degne di fede.
Hitler non era certo l’uomo da lasciarsi sfuggire occasioni del
genere. Diede mano libera ai suoi spiriti infernali nei Sudeti;
qui la sua creatura, il maestro di ginnastica Henlein, divenne d’un
tratto figura politica di primo piano; furono provocati conflitti,
inventati di sana pianta orrori commessi dai cechi, accampate
pretese; di mese in mese Henlein si faceva più esigente, l’Inghil­
terra, invece di truppe, inviò nei Sudeti solo un osservatore, Lord
Runciman, il quale ben presto s’intese meglio con Henlein che
con Benes. In un primo tempo si era preteso, per i Sudeti, l’allar­
gamento dell’autonomia, poi l’autodecisione; con Henlein, Benes
trattava da potenza a potenza.
Il 5 settembre 1938, la Francia richiamò i riservisti, e la Ceco­
slovacchia- decretava la legge marziale: tuttavia Hitler, che si
sapeva alle spalle l’Inghilterra, non aveva motivo di temere. E il
7 settembre, il Times portava altra acqua al suo molino, scriven­
do : “ S e i tedeschi dei Sudeti pretendono più di quanto il governo
ceco sia disposto a concedere loro ufficialmente col suo ultimo
gruppo di proposte, si può concludere soltanto che i tedeschi non
s’accontentano più della mera eliminazione di certi abusi, ma che
non si trovano affatto a loro agio nella repubblica cecoslovacca.
In tal caso, varrebbe forse la pena, per il governo cecoslovacco,
di ponderare bene prima di respingere in blocco il progetto, pa­
trocinato da certi circoli, secondo il quale si farebbe della Ceco­
slovacchia uno stato omogeneo mediante cessione di quel lembo
di popolazioni allogene, poste ai confini della nazione con cui
sono razzialmente affini. In ogni caso, i desiderata della popola­
zione in causa rappresenterebbero evidentemente un elemento di

4t>9
C O N C L U S IO N E

primaria importanza nella soluzione, che è lecito sperare possa


essere di carattere duraturo, del problema. I vantaggi per la Ce­
coslovacchia, la quale diverrebbe uno stato omogeneo, superereb­
bero con ogni probabilità gli apparenti svantaggi consistenti nella
perdita del territorio di frontiera dei Sudeti. ”
Hitler dunque poteva permettersi di sfidare Francia e Unione
Sovietica e di progettare lo smembramento della Cecoslovacchia:
il pericolo di guerra non lo sgomentava affatto, lui che appunto
voleva accendere la fiaccola della guerra.
L ’Inghilterra naturalmente per il momento non voleva che le
cose giungessero a tal punto. Hitler doveva toccare la sua meta
in Cecoslovacchia, senza che però divenissero necessari conflitti
armati; un’azione diplomatica di vasta portata doveva costringere
la Cecoslovacchia alla capitolazione, assicurare alla Francia una
decorosa ritirata, infliggere una grave umiliazione all’U.R.S.S. e
fornire a Hitler una base di partenza, dalla quale organizzare con
cura il suo assalto all’oriente.
Il 9 settembre 1938, il primo ministro inglese, Chamberlain,
prendeva inaspettatamente l’aereo per l’Obersalzberg, per dare il
via di li all’azione diplomatica che aveva in mira. Hitler ebbe la
creanza di riservare cordiale accoglienza all’ospite inatteso, e gustò
appieno il trionfo — il premier dcìYEmpire britannico che bussava
al suo uscio. A i nemici interni, Hitler dava scacco matto, quelli
esterni si vedevano ridotti al silenzio. L a situazione, nel momento
in cui Chamberlain intraprendeva il volo per l’Obersalzberg, era
inasprita al massimo: truppe tedesche s’erano poste in movimento
verso i confini cecoslovacchi; al Congresso del partito di Norim­
berga Hitler aveva reclamato il plebiscito nei Sudeti; Mussolini in
una lettera aperta a Lord Runciman, aveva definito la Cecoslo­
vacchia una “ precaria formazione statale, ” appoggiando la richiesta
di plebiscito.
In una nota, relativa a certe affermazioni d’un alto papavero
del Foreign Office, trasmessa a Berlino dal rappresentante tedesco
a Londra, Kordt, in data i° settembre 1938, si legge: “ Una volta
che noi due, Gran Bretagna e Germania, ci fossimo accordate per
una regolazione del problema ceco, non avremmo difficoltà a supe­

470
IL PRO VO C ATO RE

rare la resistenza che Francia e Cecoslovacchia potrebbero opporre


alla soluzione stessa. ”
L a posizione della Francia non era tuttavia molto diversa dal­
l’inglese. Il 12 settembre 1938, il gabinetto francese deliberò circa
Patteggiamento da assumere nei confronti del problema cecoslo­
vacco. A seduta conclusa, Daladier ne comunicava all’ambasciatore
britannico a Parigi i risultati: la Francia, egli disse, non era in
condizioni di adempiere gli impegni nei riguardi della Cecoslo­
vacchia. Solo l’Unione Sovietica, la quale già da lunga pezza pos­
sedeva una chiara visione dei pericoli cui i piccoli stati erano esposti
per mano di Hitler, si mostrava intenzionata a sostenere la Ceco­
slovacchia; a Mosca si capiva perfettamente che la distruzione di
questa era la premessa a una crociata europea antibolscevica; era
dunque nell’interesse dell’U.R.S.S. che il patto di mutuo soccorso,
contratto con Praga, entrasse ora in vigore. L ’inviato sovietico a
Praga, in data 20 settembre 1938, riceveva dal commissariato agli
esteri l’incarico di informare Benes che l’Unione Sovietica avreb­
be, secondo le clausole del trattato, fornito alla Cecoslovacchia im­
mediato ed efficace aiuto, se la Francia avesse mantenuto fede ai
propri impegni e fosse del pari accorsa in aiuto. Era proprio ciò
che Chamberlain come Daladier temevano: il rispetto del trattato,
che l’U.R.S.S. prospettava alla Cecoslovacchia, avrebbe dato fiato
al governo di Praga, e da ciò Hitler avrebbe potuto essere provo­
cato a un intervento militare. Chamberlain di conseguenza consi­
derava propria missione quella di indurre la Cecoslovacchia a ca­
pitolare, convincendo Hitler, finché ciò non avvenisse, a pazien­
tare. Infranto che ebbe la Francia i propri patti, non restò al-
l’U.R.S.S. che abbandonare la Cecoslovacchia al suo destino.
Il colloquio Chamberlain-Hitler, dopo che il premier ebbe espo­
sto il proprio punto di vista, fu improntato a cordialità e amicizia.
Hitler tenne nel debito conto le necessità di pace franco-inglesi e
non respinse l’idea di impadronirsi dei Sudeti senza far ricorso
alla violenza; Daladier faceva intanto appello alla moderazione del
governo di Praga. Fu un proclama di Konrad Henlein a svelare
ciò che Chamberlain e Hitler avevano concertato: non si esigeva
ora più il plebiscito, ma il ritorno dei Sudeti nell’ambito del Reich.
Benes rimpastò il ministero.

471
C O N C L U S IO N E

Rientrato a Londra da Berchtesgaden, Chamberlain invitò Da-


ladier e Bonnet nella capitale inglese; conclusione del colloquio,
fu la nota rimessa in comune da Francia e Inghilterra il 19 set­
tembre 1938 al governo di Praga e che in sostanza era un ultima­
tum: il governo cecoslovacco veniva esortato, onde evitare una
conflagrazione europea, a cedere senza indugio i Sudeti alla Ger­
mania. Il 20 settembre 1938 il governo cecoslovacco rivolgeva in
risposta a Francia e Inghilterra la preghiera di rivedere il loro punto
di vista e di sottoporre a un collegio arbitrale la controversia ceco­
tedesca. La risposta mandò sulle furie Chamberlain, il quale fece
dire a Praga che il governo inglese avrebbe cessato di interessarsi
al destino della Cecoslovacchia, se quel governo non si fosse pie­
gato; il gabinetto francese si uni alla minaccia inglese. Nella nota
con cui, in data 21 settembre, il governo inglese replicava alle
obiezioni cecoslovacche, si diceva che “ secondo il parere del go­
verno di S. M. Britannica, la risposta del governo cecoslovacco non
s’adegua alla gravità della situazione, la quale va superata col ri­
corso alle proposte anglo-francesi; se la risposta cecoslovacca fosse
definitiva, renderla nota comporterebbe, secondo il governo di
S. M. Britannica, l’immediato intervento militare tedesco. ” La
Cecoslovacchia veniva inoltre ammonita a non appoggiarsi al-
l’U.R.S.S.: in caso contrario avrebbe potuto iniziarsi una crociata
antibolscevica nella quale, lo si lasciava capire, Inghilterra e Fran­
cia, viste le circostanze, si sarebbero trovate al fianco della Ger­
mania.
La pressione esercitata sul governo cecoslovacco era irresisti­
bile, e il 21 settembre 1938 anch’esso era costretto alla capitolazione;
nella nota di risposta a Londra, esso lamentava: “ Costrettovi dalle
circostanze e dalle pressanti sollecitazioni dei governi francese ed
inglese, il governo della Repubblica cecoslovacca accetta con ama­
rezza le proposte anglo-francesi, nella speranza che i due suddetti
governi faranno tutto il possibile, nella realizzazione delle citate
proposte, per difendere i vitali interessi della Repubblica cecoslo­
vacca. ” Quale panacea per l’umiliante perdita dei Sudeti, Inghil­
terra e Francia offrivano all’oltraggiata repubblica la garanzia delle
nuove frontiere; ipocritamente s’assicurò alla Cecoslovacchia clic

472
IL PRO VO CATO RE

Inghilterra e Francia sapevano valutare appieno la grandezza del


sacrificio che era stato imposto al popolo cecoslovacco. .
A Berchtesgaden, fra Chamberlain e Hitler era stato combinato
un secondo incontro, che avvenne a Godesberg il 23 settembre 1938.
Hitler sfruttò senza riguardo il punto debole svelato da Inghilterra
e Francia col loro ultimatum alla Cecoslovacchia. Il territorio che
egli pretendeva s’incuneava profondamente nel corpo dello stato
cecoslovacco, tagliava strade e ferrovie, rompeva perfino le linee
fortificate cecoslovacche. L a Cecoslovacchia doveva essere conse­
gnata inerme alla Germania. Ma non bastava ancora: inopinata­
mente, ecco Hitler far sue le pretese di polacchi e ungheresi su
territori cecoslovacchi, pretendendo che Inghilterra e Francia in­
frangessero anche la promessa di garanzia appena fatta al governo
cecoslovacco. Ci volle qualche ora, prima che Chamberlain si
rassegnasse a mandar giu quest’altra amara pillola; per un mo­
mento, nella notte dal 23 al 24 settembre, era parso che Cham­
berlain preferisse considerare l’eventualità d’una guerra, anziché
cedere alle pretese tedesche: anzi, Inghilterra e Francia ave­
vano fatto intendere a Praga di non poter consigliare la Cecoslo­
vacchia a non prepararsi alla difesa, e infatti questa aveva mo­
bilitato.
A conclusione della conferenza di Godesberg, Chamberlain
s’offri di rimettere al governo di Praga un memorandum tedesco,
che riassumeva le pretese tedesche. La Cecoslovacchia fece sapere
di non poterlo accogliere: parve allora inevitabile la rottura aperta
tra essa e la Germania. Chamberlain notificò che, nonostante tutto,
la via dei negoziati non era ancora chiusa, e che Inghilterra, Fran­
cia e Unione Sovietica sarebbero state al fianco del popolo cecoslo­
vacco, se Hitler avesse fatto ricorso alla violenza. In un discorso
al Palazzo dello Sport, Hitler fece intendere, tra le righe della sua
minacciosa retorica, di sperare pur sempre in una mediazione in­
glese. Il 26 settembre fu rimesso a Berlino e Praga un appello del
presidente degli U.S.A., Roosevelt, in cui s’esortava Hitler e Benes
a regolare amichevolmente il loro dissidio; il giorno dopo, il go­
verno inglese comunicava a Berlino che, d’accordo con quello
francese, intendeva muovere fervide istanze alla Cecoslovacchia
perché cedesse senz’altro i territori reclamati dalla Germania. Hi-

473
C O N C L U S IO N E

tler, che agiva in stretto contatto con Mussolini, intesosi telefoni­


camente con Roma, invitò Chamberlain, Daladier e Mussolini per
il 28 settembre a Monaco. L a conferenza vi ebbe luogo già il giorno
successivo.
Furono presi accordi sulle modalità con cui doveva avvenire il
distacco dei Sudeti dalla Cecoslovacchia. L ’intesa venne raggiunta
dopo circa otto ore di discussioni; fu stabilita l’entità della depre­
dazione compiuta a spese della Cecoslovacchia: questa non avreb­
be dovuto cedere alla Germania solo il territorio dei Sudeti, ma
anche i distretti di lingua tedesca lungo i vecchi confini austriaci.
Il i° ottobre, la Wehrmacht avrebbe varcato i confini; entro il io
avrebbe dovuto completare la presa di possesso dell’intero bottino;
la Cecoslovacchia doveva consegnare alla Germania tutte le instal­
lazioni militari in perfetta efficienza. Ma non era ancora finita,
con le tribolazioni della Cecoslovacchia: solo quando le rivendica­
zioni territoriali ungheresi e polacche fossero state soddisfatte, Ger­
mania e Italia si sarebbero unite alla garanzia territoriale, che
Inghilterra e Francia avevano proposto a beneficio della Cecoslo­
vacchia cosi gravemente mutilata.
L a rapina tedesca ebbe cosi luogo in perfetta intesa con Inghil­
terra, Francia e Italia. I rappresentanti cecoslovacchi non erano
stati ammessi alle consultazioni di Monaco; una delegazione, sotto
la guida del dottor Mastny, era stata comandata a Monaco, per
ricevervi le condizioni che la conferenza era chiamata a concer­
tare. In un memoriale del ministero degli esteri cecoslovacco sul
soggiorno a Monaco della delegazione, si dà notizia dell’indegno
trattamento riservato ai suoi membri: “ L ’accoglienza,” vi si
legge, “ che ci si fece all’aereoporto, fu all’incirca quella che tocca
a persone sospettate dalla polizia. Con un’auto della polizia, scor­
tati da elementi della Gestapo, fummo portati all’Hotel Regina,
dov’era discesa anche la delegazione inglese. L a conferenza era già
in pieno svolgimento, e ci risultò oltremodo difficile stabilire qual­
che contatto coi delegati inglesi e francesi. ” In una conversazione
col diplomatico inglese Gwatkin, il capo della delegazione cecoslo­
vacca ricapitolò le obiezioni contro l’atto di forza di cui doveva
farsi oggetto la sua patria. Gwatkin rispose “ die a suo avviso io
non mi rendevo conto di quanto fosse difficile la posizione delle

474
IL PRO VO CATO RE

potenze occidentali e quanto scomodo fosse trattare con Hitler ” ;


e aggiunse con tono minaccioso: “ Se lor signori non accettano,
vuol dire che dovranno vedersela da soli coi tedeschi. I francesi si
esprimeranno forse in termini più amabili, ma posso assicurarle
che condividono il nostro punto di vista. Da parte vostra farete
marcia indietro.”
A ll’una e trenta del mattino, presenti Chamberlain e Daladier,
la delegazione cecoslovacca fu convocata nella sala in cui s’era
tenuta la conferenza; i delegati cechi ebbero la sensazione d’essere
gli imputati ai quali si sta per comunicare la sentenza. F u Cham­
berlain a rimetter loro il memorandum; i rappresentanti della
piccola repubblica posero una serie di domande, cui Chamberlain
rispose in parte : “ Chamberlain sbadigliava di continuo, senza il
minimo segno d’imbarazzo. ” A i cecoslovacchi fu detto che le con­
clusioni della conferenza erano immutabili: “ Ci fu spiegato piut­
tosto brutalmente, e proprio da un delegato francese, che si trattava
d ’un giudizio senza appello e che non sussisteva nessunissima
probabilità di mutarlo. ” L a Cecoslovacchia era la vittima che le
potenze occidentali offrivano per levarsi d’intorno Hitler e de­
viarlo verso oriente.
Una relazione dell’inviato polacco a Londra al suo ministro
degli esteri, recante la data 16 dicembre 1938, rivela con estrema
chiarezza come la chiave di tutta la politica inglese d’allora dovesse
ricercarsi nell’ostilità di Chamberlain per l’Unione Sovietica. “ Si
ha la persuasione, ” vi si legge, “ che il premier (ci si passi questo
paragone, non del tutto calzante, con lo sport), per difendere la
porta inglese, ha deviato il gioco verso l’oriente europeo. ” G iu­
stamente, l’inviato polacco osserva: “ I dissidi dell’Est europeo, nei
quali Germania e Russia minacciano di essere in questa o quella
forma irretite, qui a Londra, nonostante gli interventi degli ele­
menti più attivi dell’opposizione, vengono giudicati un male mi­
nore, che pare fatto apposta per allontanare per lungo tempo il
pericolo dall’impero e dai possessi d’oltremare.
“ L ’atteggiamento di Chamberlain nei confronti dei Soviet è,
come prima, di freddezza. L a verità è che il premier è un uomo
oltremodo conseguente ed evita apertamente tutto ciò che potrebbe
indurre i suoi partner politici a venir meno alla collaborazione...

475
C O N C L U S IO N E

È però anche vero che il primo ministro generalmente evita d i


dichiararsi contro le aspirazioni della Germania nell’Esteuropa. ”
Prima di lasciare Monaco, Chamberlain aveva reso un’altra
visita a Hitler. Il risultato del colloquio, durato un’ora, fu uno
strano comunicato, che cosi suonava: “ Abbiamo avuto quest’oggi
un’ulteriore conversazione, e siamo concordi nel riconoscere che
la questione dei rapporti anglo-germanici è di primissima impor­
tanza per i due paesi e per l’Europa.
“ N oi consideriamo l’accordo sottoscritto ieri sera e l’accordo
navale anglo-tedesco quali simboli del desiderio che anima i nostri
due popoli, di non scendere mai più in guerra uno contro l’altro.
“ Siamo decisi a trattare anche altri problemi concernenti i
nostri due paesi, secondo il metodo della consultazione reciproca,
e ci studieremo anche in seguito di eliminare eventuali motivi di
divergenze, cooperando in tal modo ad assicurare la pace in
Europa. ”
Tale affermazione di pace svelava l’esistenza di speciali accordi
segreti che sancivano la sottintesa plenipotenza di Hitler a dare
addosso, in qualità di spada dell’Inghilterra, all’Unione Sovietica;
successivamente la Francia, messa al corrente del segreto, entrò a
far parte della bella compagnia. Chamberlain in Inghilterra si
fece festeggiare quale portatore e rafforzatore della pace, e in un
discorso affermò : “ Da questo momento in poi, la pace è garantita
per molte generazioni a venire. ” Le critiche che l’accordo di Mo­
naco sollevò alla Camera dei Comuni non potevano ormai mutare
d’un ette il fatto compiuto. Tanto Eden che Churchill si rifiutarono
di seguire Chamberlain: i due uomini politici avevano una diversa
e piu precisa opinione di Hitler, e ammonirono a non accordargli
fiducia alcuna. “ L ’Inghilterra, ” dichiarò Churchill, “ aveva la
scelta tra guerra e onta. I suoi ministri hanno scelto l’onta, per poi
avere anche la guerra. ”
Monaco segnò il culmine della potenza hitleriana. Il premier
àcWEmpire e il presidente del consiglio dei ministri francese
erano accorsi da lui, per pregarlo di mantenere la pace; l’uno e
l ’altro gli avevano tenuto mano nel suo “ colpo ” a spese della Ce­
coslovacchia; non solo, ma lo avevano anche spronato a gettarsi
prima o poi sull’Unione Sovietica, vuoi per distruggerla, vuoi per

476
IL PRO VO CATO RE

•esaurire nell’avventura le proprie forze. Se egli continuava ad avere


senno e a dominarsi, se si asteneva dall’infrangere apertamente la
parola data e i trattati, la sua posizione di forza era assicurata per
lungo tempo.
Ma la dinamica interna del Terzo Reich avrebbe permesso a
Hitler d’essere assennato, misurato, fedele ai patti?
Nella lettera aperta indirizzata da Mussolini in data 15 settem­
bre a Lord Runciman, si era detto che, “ se Hitler pretendesse di
annettere tre milioni e mezzo di cechi, allora l’Europa avrebbe
ragione di commuoversi e di porsi in movimento. Ma Hitler non
-ci pensa neppure. ”
A l Palazzo dello Sport il 26 settembre Hitler aveva dichiarato
-di aver fornito assicurazioni a Chamberlain “ che, una volta ri­
solto questo problema, in Europa non vi sono altri problemi terri­
to riali” ; enfaticamente aveva poi esclamato: “ Non ne vogliamo,
di cecoslovacchi! ” Anche in altre, precedenti occasioni, aveva
sottolineato di non desiderare minoranze ceche nell’ambito delle
frontiere tedesche: a lui importava unicamente di liberare dei
tedeschi.
Sulla base di queste solenni assicurazioni avevano edificato
Chamberlain e Daladier. Poiché l’Unione Sovietica non era ascrit­
ta all’ “ Europa, ” i piani di guerra hitleriani contro l’oriente non
significavano mancamenti alla parola data. Hitler pareva insomma
inserito nel blocco occidentale, e all’Europa poteva tornare solo a
proposito che le esacerbate energie tedesche erompessero, sotto
regia inglese, esclusivamente contro lo stato bolscevico.
Ma a Hitler l’appetito era venuto mangiando. Fagocitati che
ebbe i Sudeti, d’un tratto cominciò a non trovare più indigesti i
cechi, e, a dispetto delle sue precedenti affermazioni, gettò gli
occhi su di loro. Il punto di vista etnico, che finora gli aveva fatto
apparire inappetibili i cechi, fu messo da parte e sostituito con
quello storico. Boemi e Moravi non erano forse appartenuti per
secoli all’antico Reich? Hitler si riteneva il restauratore dell’antico
splendore germanico, cosicché non poteva essere risparmiato ai
cechi di venir inghiottiti dal Terzo Reich, e ciò doveva tanto più
inevitabilmente succedere, in quanto Hitler già covava il disegno
di aggredire la Polonia e di impadronirsi della Romania coi relativi

•177
C O N C L U S IO N E

campi petroliferi. L a Cecoslovacchia orientata a est era stato il


ponte tramite il quale l’influenza sovietica era penetrata fin nel
cuore della Mitteleuropa : d’ora in poi, Boemia e Moravia dovevano,
al contrario, diventare la posizione d’assalto, da cui la Germania
pensava di aprirsi un varco in Oriente.
Il presidente Benes aveva intanto rinunciato all’incarico. Aveva
visto sbriciolarsi l’opera alla quale aveva lavorato con Masaryk
quand’era fuoruscito, e una volta di più scelse l’esilio. Il suo suc­
cessore fu un’ambigua figura, Hacha, cui non sembrava avvilente
divenire creatura di Hitler.
Alcune isole etniche tedesche erano ancora rimaste in Cecoslo­
vacchia, e col loro ausilio, Hitler provocò nuovamente dei disordini;
i tedeschi di Brno, a esempio, furono indotti a inalberare bandiera
uncinata, e le comprensibili reazioni cecoslovacche a tale provoca­
zione costituirono per la propaganda nazista ottimo pretesto per
gridare alle violenze contro tedeschi.
In pari tempo Hitler s’era posto in contatto con l’opposizione
cecoslovacca, che provvedeva di denaro e consigli. In due individui,
Tuka e monsignor Tiso, trovò docili strumenti.
N el marzo '39, Hitler aveva spinto a tal punto i suoi prepara­
tivi, da ritenere di poter mandare all’aria l’intera Cecoslovacchia.
Il 14 marzo il mondo fu sorpreso dall’annuncio che la Slovac­
chia s’era distaccata dal corpo della repubblica. Bande di SA ed SS,
che seguivano le istruzioni di Hitler, provocarono sommosse nelle
città ceche; truppe tedesche si mossero verso i confini della repub­
blica; il ministero della propaganda del Reich mise in giro false
voci circa congiure comuniste all’interno della Cecoslovacchia;
quando il presidente Hacha fu convocato a Berlino, non osò rifiu­
tarsi; Ribbentrop e Hitler lo sgomentarono con minacce e, “ alla
fine di un colloquio notturno, il 15 marzo 1939, egli accondiscen­
deva a un accordo, in base al quale il Fùhrer prendeva sotto la pro­
tezione del Reich il popolo ceco, facendosi garante di uno sviluppo
autonomo della sua vita nazionale. ” Hacha era stato dunque in­
dotto, non senza violenza, a “ porre fiduciosamente il destino del
popolo e della terra ceca nelle mani del Fùhrer del Reich. ” H itler
proclamò l’interpretazione giuridica secondo cui col distacco della
Slovacchia da Praga, la repubblica cecoslovacca aveva cessato di

478
IL PRO VO CATO RE

esistere, né Hacha fu abbastanza forte da opporre un’energica pro­


testa. Boemia e Moravia divennero protettorato tedesco, e von
Neurath il primo Reìchsprote\tor.
Inghilterra e Francia rimisero a Berlino note di protesta, che
il governo tedesco respinse con l’usuale bigotta indignazione, espri­
mendo il proprio “ rammarico soprattutto per l’atteggiamento
deH’Inghilterra riguardo alla soluzione del problema cecoslovacco. ”
L ’Inghilterra, continuava la nota tedesca, tentava di sviluppare
nel popolo britannico sentimenti antitedeschi, e la Germania si
vedeva costretta “ a sottoporre a revisione ” i fondamenti dei suoi
rapporti con l’Inghilterra. G li Stati Uniti, il cui presidente Wilson
a suo tempo era stato onorato a Praga quale uno dei fondatori
dello stato cecoslovacco, espressero solo moderatamente la loro
disapprovazione per l’atto di forza tedesco. Solo l’Unione Sovietica
osò un’energica protesta: il commissario agli esteri sovietico, in
una sua nota indirizzata al governo tedesco, impugnava la validità
dello strumento sottoscritto da Hacha a Berlino il 15 marzo; l’oc­
cupazione della Boemia e Moravia da parte delle truppe tedesche,
come la loro trasformazione in protettorato, non potevano “ essere
considerate se non arbitrarie, forzose e aggressive.” Il governo-
sovietico, si diceva ancora, ritiene che gli atti del governo tedesco
“ non solo non allontanino nessuno dei pericoli che minacciano la
pace, ma al contrario abbiano creato ed esasperato uno di tali pe­
ricoli, scuotendo con ciò la stabilità politica della Mitteleuropa,
rafforzando gli elementi che già prima erano causa di turbamenti
e inferendo un nuovo colpo al senso di sicurezza dei popoli. ”
Pochi giorni dopo, Hitler riportava “ in seno al Reich ” con
metodi simili il territorio di Memel. Il ministro degli esteri lituano
Vrbsys, di passaggio per Berlino mentre da Roma rientrava a
Kaunas, vi fu trattenuto e, con le solite ricattatorie pressioni, forzato
a concedere per via di trattato che Memel tornasse alla Germania.
Il governo lituano non vide altra soluzione che piegarsi alla vio­
lenza tedesca.
Ma, mentre Hitler celebrava i suoi trionfi, il governo inglese
operava una conversione fatale per la Germania. Anche Cham-
berlain doveva ormai riconoscere che la firma di Hitler non la si
poteva mai scontare. Il 25 marzo egli aveva dichiarato alla Camera
{■

C O N C L U S IO N E

dei Comuni che quanto avveniva aveva “ l’assenso del governo


cecoslovacco, anche se le modalità con cui sono stati prodotti i
mutamenti non possano essere considerate in accordo con lo spirito
del compromesso di Monaco. ” In conclusione, Chamberlain accu­
sava Hitler di mancamento di parola; era evidente che ormai il
premier prendeva in considerazione l’eventualità di una guerra: gli
sviluppi degli ultimi giorni, si chiedeva il primo ministro, non erano
forse un passo sulla via del dominio del mondo con la violenza?
Le parole di Chamberlain erano dettate dall’impressione prodotta
dall’atteggiamento provocatorio assunto in ogni circostanza dalla
diplomazia tedesca dopo la conferenza di Monaco. Il governo te­
desco aveva proposto all’Inghilterra un patto aeronautico, che
doveva accordare alla Germania la possibilità di costruire una flotta
aerea due o tre volte superiore a quella britànnica; subito dopo,
ecco il governo tedesco render noto che la Germania intendeva
creare una flotta sottomarina pari per tonnellaggio a quella inglese ;
allarmanti le notizie provenienti a Londra da Varsavia: nel corso
di un colloquio avvenuto a Berchtesgaden il 24 ottobre 1938 tra
l’ambasciatore polacco Lipski e Ribbentrop, questi aveva preteso
che la Polonia iniziasse trattative in vista della restituzione alla
Germania del Corridoio e di Danzica. L a Polonia, tale l’opinione
di Ribbentrop, avrebbe dovuto risarcirsi a spese della Lituania.
Per indorare la pillola del progetto tedesco, Ribbentrop offriva la
costruzione e di un’autostrada e di una ferrovia a doppio binario
extraterritoriale, che avrebbero attraversato tanto il Corridoio quanto
il territorio di Danzica, nonché la concessione d’un porto franco
sulla costa baltica. L ’orgoglio polacco ne fu ferito; Varsavia rifiutò
di cedere alle istanze e pretensioni tedesche: essa intendeva chiu­
dere le trattative con un definitivo “ no, ” che espresse in un me­
morandum rimesso a Berlino il 25 marzo '39. V i si affermava
categoricamente non essere il governo di Varsavia disposto ad ac­
condiscendere né alla cessione del Corridoio, né all’annessione di
Danzica al Terzo Reich, né alla costruzione di autostrade e ferrovie
extraterritoriali; era però intenzionato a far tutto ciò che potesse
facilitare le comunicazioni tra Germania e Prussia Orientale. L a
situazione s’acui e divenne drammatica. Ribbentrop ammoni che
la Germania non avrebbe mai abbandonato le pretese su Danzica;

480
IL PROVOCATORE

l’ambasciatore Lipski replicò di avere in tal caso l’ingrato dovere


“ di richiamare l’attenzione sul fatto che ogni ulteriore persegui­
mento dei piani tedeschi, particolarmente in quanto si riferiscano
al ritorno di Danzica al Reich, significherebbe la guerra con la
Polonia. ” Il governo polacco era costretto a riconoscere che la sua
politica di riconciliazione e alleanza con la Germania fascista era
stata un completo fallimento; esso s’era opposto alla “ Locamo
orientale” ; s’era messo a disposizione, avido di bottino, dei piani
di razzia che Hitler ordiva contro l’Unione Sovietica; aveva avuto
parte nello smembramento della Cecoslovacchia. In breve, esso aveva
seguito senza riserve l’imperialismo tedesco, e doveva ora consta­
tare non solo che gli sarebbe stata scroccata la mercede, ma anche
d’essere la prossima vittima predestinata della nazione finora al­
leata. L a gravità della situazione polacca era accresciuta dal fatto
che la Romania, messa in ginocchio da un ultimatum tedesco, s’era
sottomessa alla Germania e legata a essa economicamente.
F u allora che Inghilterra e Francia vennero in aiuto alla Polonia.
Il 3 1 marzo, alla Camera dei Comuni, Chamberlain affermò che
in caso di aggressione tedesca l’Inghilterra avrebbe fornito assistenza
alla Polonia, sempre che questa lo desiderasse e opponesse resi­
stenza; anche la Francia offerse aiuto. A i primi d’aprile, il mi­
nistro degli esteri polacco, Beck, si recava a Londra' per trattare.
Il 6 aprile, Chamberlain comunicava alla Camera dei Comuni che
Inghilterra e Polonia avevano sottoscritto un trattato di mutuo
soccorso. L a Polonia affidava così i propri destini alle potenze oc­
cidentali; quel che era più à portata di mano, l’unione col vicino
sovietico, il governo di Varsavia non lo prese neppure in conside­
razione: era talmente irretito nella cerchia della politica antibol­
scevica, da non considerare praticabile questo ripiego, il più effi­
cace fra tutti e l’unico che promettesse salvezza.
Manifestamente ormai la situazione internazionale puntava alla
guerra. In Estremo Oriente era il Giappone, alleatosi alla Germania
nel patto anticomintern, ad attizzare la fiamma della discordia,
cosi come in Europa facevano Terzo Reich e Italia. Il presidente
degli Stati Uniti, Roosevelt, volle intraprendere un estremo ten­
tativo per salvare la pace: vedendo gravemente minacciati gli in­
teressi americani in Cina e in Estremo Oriente, il 15 aprile 1939

•181
C O N C L U S IO N E

si appellava a Hitler e Mussolini, chiedendo loro di astenersi per


un decennio da aggressioni a spese di trenta paesi da lui elencati;
una conferenza internazionale doveva, cosi proponeva Roosevelt,
essere convocata per trattare i problemi del disarmo e la regola­
zione dell’economia mondiale. N é Hitler né Mussolini consegna­
rono risposte ufficiali all’ambasciatore di Roosevelt; nei loro di­
scorsi proclamarono che mai avrebbero tollerato un’ingerenza ame­
ricana nelle faccende interne dei loro paesi. L a guerra era la grande
carta sulla quale Hitler aveva puntato: da nessuna forza al mondo
ancora se la sarebbe fatta strappar di mano.

482
Capitolo trentacinquesimo

Il patto di non aggressione tedesco-sovietico

Il governo inglese, che per anni s’era dato pena di collaborare


con la Germania in funzione anti-sovietica, doveva constatare con
sorpresa di essere stato giocato da quella stessa Germania e che
non doveva più oltre indugiare a cercarsi degli alleati. Nonostante
i buoni rapporti anglo-francesi, finora il governo britannico s’era
sempre sottratto al dovere di farsi mallevadore della sicurezza fran­
cese; solo il 22 marzo 1939,' si provvide in gran fretta, precipitosa­
mente addirittura, a sottoscrivere un trattato d’assistenza col quale
Francia e Inghilterra s’impegnavano a prestarsi vicendevole aiuto
militare in caso di aggressione dell’uno dei contraenti. Altri trattati
di mutua assistenza furono dall’Inghilterra sottoscritti, oltre che
con la Polonia, con la Romania e la Grecia; a ognuno di tali patti
diede la sua adesione la Francia.
Il grande problema era quello della fisionomia che dovevano
assumere i rapporti anglo-sovietici. Possibile che Chamberlain, al
cospetto del montante pericolo per il suo paese, acconsentisse a
una Canossa moscovita? Il 9 marzo 1939 sul Daily Telegraph
Churchill aveva preteso l’accostamento all’Unione Sovietica. “ For­
se, ” egli scriveva, “ non siamo ancora in grado di valutare e giudi­
care l ’intera forza e potenza dell’Unione Sovietica; non può tut­
tavia sussistere dubbio che l’U.R.S.S. sia uno stato poderoso, che
senza deviazioni persegue una politica di pace. ” Sotto la pressione
dell’opinione pubblica, il governo britannico il 18 marzo dirigeva
una domanda a Mosca: acconsentiva il governo sovietico a sotto­
scrivere, in comune coi governi britannico, francese e polacco, una
dichiarazione contro l’aggressione, e insieme ad assumersi l’impe­
gno a vicendevoli consultazioni? Benché il governo sovietico pre­
sumibilmente non desse molto peso a una simile dichiarazione,
si propose di associarvisi. Ma la dichiarazione neppure vide la luce:

483
C O N C L U S IO N E

i polacchi furono cosi ciechi da mandare a vuoto il progetto. Il


governo polacco calcolava che, in caso di un conflitto europeo con
la Germania, avrebbe dovuto concedere il diritto di transito a trup­
pe sovietiche, e neppur questo era disposto ad accordare. Uguale at­
teggiamento fu assunto dalla Romania. N é Inghilterra né Francia,
d’altra parte, si diedero la pena di ricondurre alla ragione il miope
governo polacco; e come, se perfino il ministro degli esteri francese,
Bonnet, non era meno contrario a una tale dichiarazione ? Egli non
voleva veder la Francia schierarsi pubblicamente su un fronte
comune con l’Unione Sovietica. Scrupoli e suscettibilità, che natu­
ralmente dal governo tedesco furono portati ad absurdum’, il 28
aprile esso denunciava l’accordo navale con l’Inghilterra, rinfac­
ciandole di aver promesso assistenza alla Polonia, dopodiché invali­
dava il trattato d ’amicizia con la Polonia del 26 gennaio 1934.
Hitler, a Londra lo si intuiva, aveva lasciato cadere ogni ritegno:
il governo inglese riteneva ora opportuno tendere a una più
stretta collaborazione con l’U.R.S.S., nella speranza che la Ger­
mania, visto formarsi un ponte Londra-Mosca, s’intimidisse. In
un passo del suo Mein Kampf, Hitler aveva affermato che la
Germania non avrebbe dovuto più lasciarsi coinvolgere in una
guerra su due fronti, e da un avvicinamento anglo-sovietico lo
spettro di un tal conflitto era appunto evocato.
A lla fine, Chamberlain si decise a far intraprendere colloqui
preparatori con Mosca; il 22 marzo 1939 il capo del dipartimento
per il commercio di oltremare, Hudson, giungeva nella capitale
sovietica, con l’incarico di spianare la strada a un’intesa. Non si
fece tuttavia alcun passo avanti verso una più stretta collabora­
zione dei due governi. Le trattative furono riprese dall’ambascia­
tore inglese a Mosca, Seeds, appoggiato dal suo collega francese,
N aggiar; successivamente, il Foreign Office ne incaricava sir
William Strang. Le trattative però continuarono a procedere a
rilento; la Camera dei Comuni, sotto l’impressione della crescente
minaccia all’Inghilterra, dava segni d’inquietudine, i deputati
dell’opposizione assalirono a più riprese il premier con richieste
di comunicazioni in merito ai negoziati di Mosca. D i regola, quando
non eludeva le domande, Chamberlain forniva risposte inade­
guate, ma nelle sue parole tornava sempre a farsi avvertire l’idea

484
IL PAT TO T E D E S C O - S O V IE T IC O

che, nelle conversazioni con l’U.R.S.S., bisognava aver riguardo


degli altri governi. Il premier intendeva riferirsi alla Polonia, alla
Romania, e talvolta persino alla Francia: la conseguenza di tanto
riguardo agli “ altri governi ” fu che l’Inghilterra respinse la pro­
posta sovietica d’un patto a tre: tra Francia, Gran Bretagna e
U .R.S.S.; nella cornice di tale patto la Russia intendeva farsi uni­
lateralmente garante deU’integrità territoriale della Polonia e della
Romania. G li attacchi alla Camera dei Comuni finirono per pro­
durre un effetto, se è vero che i negoziatori tanto inglesi che fran­
cesi a Mosca ebbero istruzione di rendere piu spedite le trattative.
In considerazione degli spettacolosi preparativi bellici di Hitler,
la diplomazia delle due democrazie occidentali avanzava nuove
proposte al governo sovietico: Inghilterra, Francia e U.R.S.S. avreb­
bero dovuto fornirsi mutua assistenza, in caso di aggressione a uno
dei contraenti; v’erano però delle divergenze, in quanto Inghilterra
e Francia non volevano prendere impegni anche nei confronti dei
paesi baltici e della Finlandia, ciò che provocava legittime diffi­
denze da parte delHJnione Sovietica: attraverso gli stati baltici,
Hitler sarebbe stato infatti in grado di effettuare un attacco contro
l’U.R.S.S., ed era comprensibile che il governo sovietico si sentisse
svantaggiato da un patto il cui meccanismo non entrasse subito
in azione, non appena Hitler avesse varcato i confini dei vicini
baltici della Russia. Churchill era dell’opinione che “ la richiesta
dei russi, di comprendere nel patto di garanzia anche quegli stati,
è ben fondata. Sarebbe assurdo che la fortezza della pace dovesse
presentare una breccia. ”
A Mosca tuttavia le delegazioni francese e inglese continua­
rono come prima a opporsi a che nel testo del progettato accordo
fosse inserita la clausola dell’obbligo di accorrere in aiuto all’U­
nione Sovietica, qualora questa fosse aggredita sia direttamente
sia indirettamente.
N ell’U.R.S.S. si andava rafforzando l’impressione che Inghil­
terra e Francia non intendessero trattare seriamente. In un articolo
di Èdanov, dal titolo “ I governi francese e inglese non vogliono
parità di condizioni con l’U.R.S.S., ” apparso sulla Pravda il 29
giugno 1939, si diceva in sostanza: “ Tutto ciò attesta che inglesi
e francesi non vogliono, con l’Unione Sovietica, alcun trattato
C O N C L U S IO N E

fondato sul principio dell’uguaglianza e della reciprocità, benché


quotidianamente essi giurino di volere 1’ ‘ uguaglianza ’ ; gli anglo­
francesi vogliono invece un trattato che condannerebbe l’U.R.S.S.
alla parte del servitore, costretto a reggere sulle proprie spalle
l’intero carico degli obblighi. ”
Solo il 25 luglio 1939, i governi delle due potenze occidentali
si decisero a inviare missioni militari a Mosca. Il 1° agosto di quel­
l’anno, l’ambasciatore tedesco a Londra, Dirksen, cosi scriveva al
ministero per gli affari esteri di Berlino: “ L ’esito delle trattative
per il patto con la Russia viene considerato con scetticismo nono­
stante o proprio a causa dell’invio d’una missione militare a Mosca,
e a favore degli scettici parla la composizione della missione mili­
tare inglese: l’ammiraglio, finora comandante della base di Ports­
mouth, è praticamente a riposo, e non è mai appartenuto allo stato
maggiore della marina; neppure il generale dell’esercito appartiene
in realtà a reparti operativi, mentre il generale di squadra aerea,
se è eccellente come pilota e istruttore di volo, non lo è come stra­
tega. Ciò significa che la missione ha più il compito di indagare
sull’efficienza dell’esercito sovietico che non di venire a concreti
accordi operativi. ”
Ben presto risultò infatti che la missione giunta a Mosca non
era autorizzata a concludere patti e accordi di natura pratica. In
particolare, tanto la missione inglese che la francese non vollero
saperne di assicurare alle truppe sovietiche, per il caso di conflitto
con la Germania, il diritto di transito attraverso Polonia e Romania;
l’obiezione del governo sovietico, che nel corso della prima guerra
mondiale inglesi ed americani avevano dovuto operare su terri­
torio francese, non fu presa in considerazione.
Mentre a Mosca si trattava, il governo inglese faceva attenzione
a non spezzare del tutto i fili che lo legavano a Berlino; sappiamo
dall’ambasciatore inglese nella capitale tedesca, Henderson, della
frenetica attività diplomatica da lui condotta in quei giorni. Il 30
giugno ’39, il ministro degli esteri, Lord Halifax, in un suo discorso,
avanzava addirittura offerte al governo tedesco: “ In un’atmosfera
simile, ” egli disse, “ potremmo trattare il problema delle colonie,
la questione delle materie prime, delle barriere doganali, dello
spazio vitale e tutte le altre che toccano gli europei. ”

486
IL PAT TO T E D E S C O - S O V IE T IC O

Dal momento che Hitler di giorno in giorno moltiplicava le


misure provocatorie nei confronti della Polonia, il governo inglese
ritenne opportuno portare a conclusione gli accordi militari con il
governo sovietico. Il 2 1 agosto, i capi delle due missioni si presen­
tarono a Voroscilov, per comunicargli di essere pronti a sottoscri­
vere una convenzione militare. Ma, con loro grande sorpresa, V o­
roscilov li informò che ormai era troppo tardi: il governo sovietico
si era accordato con la Germania.
Cos’era avvenuto?
Hitler aveva avuto sentore degli sforzi di Inghilterra e Francia,
per trovare una piattaforma d’intesa, che ne rendesse possibile la
collaborazione con l’U.R.S.S., e aveva fatto invitare l’ambasciatore
sovietico a Berlino presso il ministero degli esteri e l’addetto mi­
litare sovietico presso la sede dello stato maggiore della Wehr-
macht. Le comunicazioni ivi fatte ai due diplomatici sovietici eb­
bero per conseguenza che ambedue partirono senza indugio alla
volta di Mosca.
Hitler, tale la sostanza di quelle comunicazioni, ambiva all’a­
micizia dell’U.R.S.S.
L ’ambasciatore tedesco a Mosca, il conte von Schulenberg, era
tuttora ancorato alle idee di Maltzan, che avevano condotto al
trattato di Rapallo, e a malincuore aveva tenuto dietro al corso sin
li seguito dalla politica hitleriana. Si sentiva erede della concezione
hismarckiana, secondo la quale la Germania non dovrebbe mai
permettersi di troncare i rapporti con la Russia. F u quindi con
fervore che si dedicò all’incarico affidatogli, di dar corpo all’idea
di un patto di non aggressione russo-tedesco. Per comprarsi la
neutralità dell’Unione Sovietica, Hitler si dichiarava disposto a
riconoscere Finlandia e stati baltici quali zone d’influenza russa,
•offrendo inoltre una revisione delle frontiere russo-polacche; in­
fine, egli acconsentiva al desiderio sovietico di riannettersi la Bes-
sarabia, che nel 1920 era stata, senza il consenso russo, assegnata
alla Romania.
Il patto di non aggressione russo-tedesco fu firmato il 23 agosto
1939. Con l’articolo primo, le potenze contraenti si impegnavano
ad astenersi da ogni atto di violenza, atteggiamento aggressivo o

4K7
C O N C L U S IO N E

attacco l’una nei confronti dell’altra, tanto da sole che assieme ad


altre potenze.
L ’articolo 2 stabiliva che nessuna terza potenza, la quale aggre­
disse uno dei contraenti, poteva essere appoggiata dall’altro fir­
matario.
L ’articolo 3, che i governi delle due parti dovevano d’ora in
poi restare in continuo contatto tra loro mediante consultazioni,
onde informarsi a vicenda dei problemi che toccassero i loro co­
muni interessi. I due governi s’impegnavano ancora, con l’arti­
colo 4, a non entrare a far parte di alcuna coalizione di potenze
volta direttamente o indirettamente contro l’uno o l’altro dei
firmatari. "
Qualora, precisava l’articolo 5, sorgessero conflitti o controver­
sie tra le parti contraenti circa problemi di questo o quel tipo,
entrambe le parti avrebbero dovuto risolvere i suddetti conflitti o
controversie solo mediante scambi di vedute amichevoli o, in caso
di necessità, ricorrendo all’arbitrato duna commissione.
L a durata del patto fu stabilita di dieci anni.
La notizia della firma del documento produsse enorme scal­
pore. Sir W illiam Strang era rientrato a Londra già l’ n agosto,
il 25 partivano da Mosca le missioni militari inglese e francese.
S’impone a questo punto, è innegabile, il problema dei motivi
che avevano indotto Hitler a compiere urgentemente l’inaspettata
conversione politica rappresentata dal patto di non aggressione con
l’Unione Sovietica. Da anni, egli sfidava le potenze occidentali de­
molendo il sistema dei patti versagliesi; da parte occidentale aveva
ricevuto proteste, ma le sue provocazioni erano rimaste sempre
impunite; alla fine gli si era dovuto lasciar fare a modo suo. Tanta
indulgenza gli fu concessa perché si vedeva in lui l’uomo che un
giorno o l’altro avrebbe liberato il mondo capitalistico-borghese
dall’incubo del bolscevismo; e Hitler aveva sfruttato a usura il cre­
dito di cui godeva quale avversario del bolscevismo.
È facile constatare come egli sia incorso nell’errore di giudi­
zio, del quale a suo tempo era stato vittima Holstein, 1’ “ emi­
nenza grigia. ” Holstein, lo si sa, aveva considerato incrollabile
assioma che la balena e l’orso, Inghilterra e Russia, non potessero
mai unirsi. E anche Hitler riteneva che l’Inghilterra imperialistica

488
IL PA T TO T E D E S C O - S O V IE T IC O

e la Russia bolscevica non avrebbero mai potuto darsi la mano:


non lo sfiorava il dubbio di errare giudicando insuperabile l’anta­
gonismo anglo-sovietico.
- L ’arrivo delle delegazioni inglese e francese e delle missioni
militari a Mosca sembrò mandare a gambe all’aria tutti i suoi
calcoli: lo spettro della guerra su due fronti gli balenò davanti
agli occhi. Ogni mezzo con cui lo spettro si potesse scongiurare,
gli era bene accetto, ed egli, il fanatico dell’antibolscevismo, si
decise a bussare all’uscio di Mosca.
Poiché parallelamente ai negoziati anglo-francesi con Mosca,
erano state avviate segrete trattative tedesco-soviedche, la politica
del governo inglese e quella del governo tedesco vennero per
un certo tempo a trovarsi in una singolare condizione d’incer­
tezza. Chamberlain, il quale ancora non aveva del tutto abban­
donato l’idea di un’intesa anglo-tedesca, voleva, prendendo con­
tatti con Mosca, costringere Hitler a mutar rotta. Per questo con­
tinuò a rimandare la formale conclusione di trattati col governo
sovietico. A l contrario, Hitler aveva preso sospetto dell’Inghil­
terra; gli pareva possibile che il governo inglese, mantenendo
contatti con lui, mirasse solo a tenerlo a bada finché non si fosse
inteso con Mosca. Inghilterra e Germania si trovavano nella
condizione di due corridori, i quali in realtà non vogliono affatto
raggiungere la meta verso la quale puntano; se non abbandonano
la gara, è solo perché nessuno dei due vuol essere sorpassato dal­
l’altro. Se Hitler sottoscrisse il patto con Mosca, fu solo per rubar
la mossa all’Inghilterra — quell’Inghilterra che secondo ogni ap­
parenza non aveva per niente avuto la seria intenzione di inca­
tenarsi a Mosca. Anche per un altro motivo Hitler era partico­
larmente attratto dal patto tedesco-sovietico: perché questo rèn­
deva disperata la situazione della Polonia. Una volta sicuro della
neutralità sovietica, sarebbe stato per lui cosa da nulla provocare
Inghilterra e Francia, gettandosi sulla Polonia: si sentiva forte
abbastanza da spuntarla anche con quelle due.
Continuamente l’esistenza dell’Unione Sovietica sarebbe stata
messa a repentaglio, finché i contatti Londra-Berlino non fossero
interrotti. L ’interesse vitale sovietico esigeva che i rapporti anglo­
tedeschi venissero cosi totalmente e definitivamente minati, da

489
C O N C L U S IO N E

non doversi più temere alcuna congiura germanico-britannica


contro l’esistenza dell’U.R.S.S. Certo, il patto di non aggressione
tedesco-sovietico era una mossa temeraria, azzardosa, anzi; ma
la situazione mondiale era giunta a tal punto, che in esso solo
restava la salvezza dell’Unione Sovietica. Nel suo discorso del
3 luglio 1941, Stalin affermò che l’U.R.S.S., mediante il patto di
non aggressione con la Germania, s’era assicurata la pace per un
anno e mezzo, e il tempo di prepararsi alla difesa, caso mai la
Germania fascista osasse, nonostante il patto, l’aggressione alla
Russia.
Questa non poteva scampare all’assalto tedesco; le condi­
zioni ''dell’esistenza e la dinamica interna del Terzo Reich lo
avrebbero, prima 0 poi, reso necessario. Incerto era solo se l’Unio­
ne Sovietica vi fosse sufficientemente preparata: il patto di non
aggressione tedesco-sovietico concedeva appunto ai sovietici il re­
spiro, la perédis\a, per prepararsi a sufficienza e in maniera con­
veniente all’urto fascista.

490
Capitolo trentaseiesimo

Genocidio

F in dai suoi primi anni il Terzo Reich aveva coniato le pro­


prie sostanziali forme di vita e metodi politici, manifestando
-quale fosse lo spirito di cui era imbevuto e che ne investiva tutte
le istituzioni e gli atti.
Ciò che già all’alba della sua esistenza s’era rivelato per spa­
ventosa eruzione di perversa brutalità, si gonfiò negli anni se­
guenti a proporzioni gigantesche; i crimini con cui s’era inse­
diato al potere, non mutarono natura, solo diventarono immani.
F in dai primi giorni, l’assassinio come metodo politico era stato
connaturale al Terzo Reich, il quale vi fece ricorso d’anno in
anno con crescente mancanza di scrupoli e sconsideratezza, per
guazzare infine senza ritegno in fiumi di sangue. Il terrore, col
quale s’era presentato sulla ribalta politica, passò alla fine ogni
misura, finché il Terzo Reich si fu totalmente mutato in camera
di tortura, in stato-carnefice.
L a follia nazionalsocialista esplose nel corso degli anni in un
orripilante sistema di omicidio in massa: con ciò proprio venne
alla luce il suo fondamentale nichilismo. I campi di concentra­
mento, istituiti nel 1933, si svilupparono a veri e propri “ macelli
um an i.” La privazione della libertà, già da sola clamorosa ingiu­
stizia, ben presto più non bastò ai nazisti; i prigionieri furono
maltrattati, ridotti alla fame, mandati a morire nelle cave di pie­
tra, fucilati, impiccati, avvelenati, gasati. Parecchi campi erano
espressamente organizzati quali V ernichtungslagerl ; chi, al mo­
mento della' consegna al campo, aveva sui documenti la sigla
R. u. (Rùc\\ehr unerwiinscht),a era un condannato a morte,
niente avrebbe potuto salvarlo.
1 Lett., “ campo di distruzione o eliminazione. ” [N . d. T.]
3 Lett., “ ritorno indesiderato. ” [ 2V. d. T .]
C O N C L U S IO N E

La macabra fantasia degli SS era d’un’orrenda capacità inven­


tiva. A Mathausen, i prigionieri venivano distesi su un tavolo,
gambe e braccia legati sotto il piano, indi li si frustava, mentre,
se protestanti, dovevano cantare il corale “ Una solida fortezza
è il nostro D io ,” se cattolici l ’inno “ O caput cruentatum! ”
Quando i torturati svenivano, li si slegava, li si gettava sotto una
doccia gelata e, tornati in vita, si ricominciava la procedura. I de­
tenuti, che si fossero particolarmente attirati l’odio del personale di
guardia, venivano asfissiati nelle latrine.
Per certe grandi e famose imprese industriali, i campi di con­
centramento erano ottime occasioni per ottenere mano d’opera
a buon mercato: vi s’offrivan loro schiavi, ed essi, gli onesti im­
prenditori, tanto pochi scrupoli avevano, da afferrare senz’indu­
gio l’occasione, installando nei campi di concentramento succur­
sali, dove i detenuti venivano sfruttati fino all’esaurimento e aiz­
zati da sorveglianti sadici a insopportabili ritmi produttivi. Sia
Krupp che la IG-Farben-Industrie cavarono enormi profitti dalle
pene dei tormentati.
In seguito all’attentato compiuto nel '38 a Parigi dall’ebreo
Griinfeld contro il segretario di legazione von Rath, le persecu­
zioni antisemite degenerarono in orgia di sterminio, che ebbe il
via con le organizzate manifestazioni di piazza, distruzioni e
incendi della “ Notte di cristallo. ” G li ebrei erano considerati
fuorilegge, la “ stella di David ” doveva marcarli quali proscritti
e indiziati, che a ognuno era lecito impunemente offendere, umi­
liare, avvilire. Si proibì loro l’uso delle tranvie e dei bagni pub­
blici, li si escluse dalla frequentazione di teatri, sale da concerto,
cinema, istituzioni culturali; ai loro acquisti potevano provvedere
solo in determinate ore del giorno; per i loro figli le scuole supe­
riori erano chiuse; li si obbligava alle fatiche più basse; col favor
della notte, la Gestapo strappava alle case, saccheggiandole, uomi­
ni, donne e bambini, che avviava ai campi di concentramento
dove li si eliminava. Da tali scellerate iniziative, il pubblico doveva
essere indotto a considerare l’ebreo feccia dell’umanità, e come
tale a disprezzarlo. G li SS, questa “ élite della nazione tedesca, ”
sterminarono sei milioni d’ebrei. Loro segreto obbiettivo, l’estir­

492
G E N O C ID IO

pazione dell’intero popolo ebraico; fu un mare di sangue, che


quelli versarono: ancora oggi, impunito, esso grida al cielo.
Durante i primi mesi del dominio nazionalsocialista, i de­
tenuti dei campi di concentramento provennero da ceti comuni­
stici, socialdemocratici o radicaleggianti. Col tempo però non vi
fu cittadino il quale potesse dirsi certo di non essere tradotto a
“ scopi educativi ” al campo di concentramento quale “ bolscevico
nemico dello stato” : vi si incontravano operai, insegnanti, intel­
lettuali, alti funzionari, ufficiali, nobili, vi si fini per trovare per­
fino membri di famiglie principesche. N egli ultimi tempi della
guerra, le celle di Dachau e di Flossenbiirg diedero ricetto a uomi­
ni come il maggiorgenerale Haider, l’ammiraglio Canaris, il
consigliere ministeriale Dohnanyi, il professor Bonhoeffer, il pa­
store Niemòller, l’ex-presidente della Banca del Reich, Schacht.
Parecchi di loro, all’inizio avevano favoreggiato Hitler, per poi
vedersene completamente delusi. Anche a uomini di stato e per­
sonalità delle nazioni vinte fu riservato il destino dell’interna-
mento in Lager : cosi Herriot e Daladier furono politicamente
“ neutralizzati ” e resi inoffensivi.
L a cosciente creazione d’uno stato d’angoscia e terrore: tale
l ’esecrando mezzo cui fece ricorso il Terzo Reich per ottenere
cieca obbedienza: tremante di paura, il popolo tedesco avrebbe
sopportato la dittatura.
Era un chiaro sintomo dei tempi e niente affatto un mero
caso, che la filosofia dell’esistenzialismo, il filosofo Martin Heideg­
ger, indicassero quale “ fondamento esistenziale” in primo luogo
l ’angoscia. Già Sòren Kierkegaard aveva, nel suo Timore e tre­
more, definito l’angoscia uno di tali “ fondamenti esistenziali,”
solo che in Kierkegaard il concetto d’angoscia aveva naturalmente
una coloritura religiosa: l’uomo, tale all’incirca l’interpretazione
kierkegaardiana, si vede, nella propria debolezza, caducità, pec­
caminosità, al cospetto dell’eterno Iddio.
V ’è un saggio di Kierkegaard, dal singolare titolo: Della ven­
tura dell’uomo, d’aver sempre torto dinanzi a Dio. Qualunque
cosa l’uomo commetta o tralasci, sempre ha torto di fronte a D io:
comunque la metta, sarà sempre in errore. Già dalle fondamenta
della sua esistenza l’uomo deve pertanto sentirsi incerto ed espo-

403
C O N C L U S IO N E

sto al rischio; deve sempre vivere con l’angoscia di metter piede


in fallo, di prendere una strada sbagliata, di errare: e ciò vuol dire
che l’uomo non può sbarazzarsi della sua coscienza sporca: stato
d’animo illustrato con impareggiabile misura d’arte dal grande
Kafka. N el suo penetrante romanzo II processo, l’uomo vien
condotto alla coscienza d’aver motivo, in ogni condizione di vita
e circostanza, di sentirsi colpevole: il senso di colpa è in certa
misura l’atmosfera vitale che lo circonda, cui egli non può sot­
trarsi. Insomma, in quanto egli è, in tanto è già colpevole, e la
morte, la temporale come l’eterna, è la punizione ch’egli indepre-
cabilmente si merita.
Il moderno riscontro dell’assoluta angoscia religiosa è l’asso­
luta angoscia politica. Più non si teme l’Aldilà, ma già si trema
dell’Aldiqua; non ci si spaura più solo dell’eterno Iddio: anche,
e non meno, dell’implacabile stato; non ci si crede più solo dispe­
rati e impotenti in mano a oscure potenze: le potenze, da cui a
ogni passo ci si crede spiati, hanno divise di poliziotti, sono com­
missari di polizia, uomini delle SS, funzionari della Gestapo.
Puoi non aver commesso crimine alcuno, puoi non appartenere
ad alcuna congiura, non aver scritto né detto alcunché contro lo
stato: la cattiva coscienza non tace, non sfuggi alla sensazione
di essere in ogni istante in torto nei riguardi del dittatore, d’es­
sere minacciato da tremende punizioni.
L ’inferno non è dunque più l’infuocato abisso dell’Aldilà, ma
è l’Aldiqua del carcere, dell’aula giudiziaria, della segreta della
Gestapo, del campo di concentramento.
A l cospetto dell’angoscia religiosa, era difficile esser uomo:
ancor più difficile è mantenersi uomini nei triboli dell’angoscia
politica. Si vive in perenne inquietudine, pungolati dalla trava­
gliarne paura della catastrofe — catastrofe personale o familiare.
Ogni squillo di campanello evoca fantasmi: ti vedi già con le
manette ai polsi, sei convinto che mai più riguadagnerai la liber­
tà; col gelo nelle ossa la sera ti disponi al sonno, con ginocchia
tremanti al mattino ti alzi da letto.
Come già sui detenuti nei campi di concentramento, cosi,
scoppiato il conflitto, il terroristico regime nazionalsocialista in-

494
G E N O C ID IO

fieri contro i prigionieri di guerra: a migliaia si contano quelli


sovietici, distrutti dalla fame e dalla fatica.
N el 1942, il ministero di grazia e giustizia del Reich emanava
una ordinanza, in base alla quale “ gli zingari, ebrei, delinquenti
abituali e professionali, criminali, detenuti politici, che abbiano
subito condanne a detenzione superiore ai sei anni, ” dovevano
essere consegnati, dalle case di pena, all’Ufficio centrale per la si­
curezza del Reich.8 I detenuti in questione erano classificati “ ele­
menti asociali ” : dovevano essere “ liquidati. ” Dalle carceri fu­
rono tradotti ai campi di eliminazione, dai quali ben pochi usci­
rono vivi. Con scellerata sottigliezza, si offri a simili “ elementi
asociali” di arruolarsi nel Servizio del lavoro per la Norvegia;
in altomare alle navi furono aperte delle falle, e, mentre l’equi­
paggio si salvava, sprofondarono col loro carico vivente.
L a consegna di detenuti all’Ufficio centrale per la sicurezza
del Reich, allo scopo di farli massacrare dalle SS, mostrò come
anche la giustizia avesse finito per sentirsi organo esecutivo della
Gestapo. N ei processi politici, i giudici pronunciavano la senten­
za che la Gestapo s’attendeva da loro: alla fine si trattò quasi
solo di condanne a morte. Parey, uno dei giudici supremi del
Tribunale del Popolo di Berlino, dichiarò pubblicamente essere
scopo di quest’organismo lo sterminio dei nemici del nazional­
socialismo. Ma anche la magistratura civile e penale aveva rinun­
ciato al principio dell’indipendenza giurisdizionale; laddove fosse in
causa un interesse nazionalsocialista — ovvero l’interesse d’un
pezzo grosso del nazismo — il diritto veniva spudoratamente in­
franto. A gli avversari dichiarati del nazionalsocialismo non era più
lecito, davanti al giudice, sperare nella giustizia.
Il ministro di grazia e giustizia Thierack, finché era stato
presidente del Tribunale del Popolo, aveva dato, quale pessima
giudice, cattivo esempio. A ll’estremo tuttavia l’abuso della giu­
stizia fu spinto dal suo successore Freisler, il quale non salvò
più neppure l’apparenza dell’imparzialità: col suo fare isterico,
da psicopatico, troncava la parola agl’imputati, senza tante ceri-

* L a corte d ’assise di Wiesbaden mandò assolti nel febbraio 1952 per “ insufficienza
di prove ” dall’accusa di concorso in omicidio i consiglieri ministeriali responsabili del
provvedimento (1952).

495
C O N C L U S IO N E

monie impediva loro la difesa, esercitava il proprio ufficio quale


nemico dichiarato e astioso degli infelici il cui destino era affi­
dato in sue mani. Senza pudore egli svelò che ormai la giustizia
era solo un nudo strumento di potenza della dittatura.
Dei dibattiti davanti al Tribunale del Popolo ci restano film
e registrazioni sonore; Hitler amava assistervi nel suo cinema
privato, per deliziarsene. Soprattutto durante il processo ai
generali del 20 luglio furono fatte riprese del genere; e pellicole
e nastri magnetici, caduti piu tardi in mano americana, costi­
tuiranno per tutti i tempi la prova deH’ignominia della magi­
stratura e del popolo tedesco. L a procedura appare qui come
una specie di teatro dell’orrore, nel quale vengono inscenate, con
abilità ed efficacia, le cruente vendette cui tende il dibattito.
Come la magistratura, anche la “ medicina scientifica ” 4 si
pose al servizio della brama di sangue nazista. L a “ legge per
la prevenzione delle malattie ereditarie ” del 14 luglio 1933, fu
il punto di partenza di misure di cui caddero vittime migliaia
e migliaia di innocenti: col pretesto di favorire la “ salute del
popolo ” e garantire la “ sicurezza della popolazione tedesca, ”
fu dato il via ad un’azione di sterminio in grande stile: le boc­
che superflue, in manicomi e ospedali, dovevano essere votate a
una “ morte misericordiosa. ” Sotto pretesto dell’ “ eutanasia, ”
mortifere iniezioni furon praticate a malati di mente.
A Berlino fu formata una “ Commissione per l’indagine scien­
tifica delle gravi infermità ereditarie e costituzionali,” cui, con
decreto del ministero degli interni del Reich dell’agosto 1939, do­
vevano essere denunciati da medici e levatrici i neonati deformi e
idiotici. L a Commissione rilasciava autorizzazioni, sulla scorta del­
le quali i neonati in questione venivano “ aiutati a morire ” : i
mezzi usati erano morfina, idrocloralio e Luminal.
Ma anche neonati sani, qualora la loro discendenza fosse og­
getto di scandalo agli occhi del nazismo, come a esempio nel caso
di bimbi d’origine ebraica 0 zingaresca, furono “ scartati ” — per
mezzo di iniezioni — su istigazione della suddetta Commissione;
uno di questi luoghi d’orrore fu una clinica in quel di Hadamar.
1 M it s c h e r l ic h -M ie l k e , Wissenschaft ohne Menschlickkeit [Scienza senz'umanità],
Ed. Lambert Schneider, Heidelberg, s. d.

496
G E N O C ID IO

In una lettera indirizzata in data i° maggio 1942 dal governa­


tore del Gau Wartheland, Greiser, al Reichsfuhrer delle SS, Himm-
ler, il primo comunicava di aver tolto di mezzo con “ tratta­
mento speciale,” centomila ebrei; proseguiva scongiurando di es­
sere autorizzato a liberare il suo Gau “ da un pericolo che di set­
timana in settimana assume proporzioni sempre più catastrofiche ” :
nel Gau si trovavano 230.000 malati di tubercolosi di origine po­
lacca, 35.000 dei quali con forme manifeste. Ciò che Greiser chie­
deva era di “ poter eliminare nell’ambito del Gau i casi di T B C ma­
nifesta fra la popolazione polacca. ” Heyndrich si dichiarò d’accor­
do sul “ trattamento speciale” da riservarsi a quei polacchi; con
una lettera del 27 giugno 1942, Himmler univa il suo al consenso
di Heyndrich. L ’azione fu estesa anche a Danzica e Prussia Occi­
dentale nonché ai distretti amministrativi di Ziechenau e Kattowitz.
Ben presto la perversa fantasia nazionalsocialista era stata
presa dall’idea della castrazione e sterilizzazione di individui inde­
siderabili al Terzo Reich. “ Portatori di malattie ereditarie” ed
“ elementi asociali” dovevano essere resi infecondi; tosto si passò
a considerare l’eventualità di estirpare le “ razze inferiori, ” steriliz­
zandole. A tale categoria furono ascritti segnatamente ebrei, zin­
gari, più tardi anche slavi.
Promulgate le leggi di Norimberga, con cui gli ebrei erano
posti fuori legge, fu intrapresa la castrazione degli ebrei dei quali
fossero comprovabili rapporti sessuali con ragazze “ ariane. ” Ben
presto tale demenza fu elevata a metodo; vi furono medici che
si offrirono per sperimentare metodi atti a provocare la steriliz­
zazione senza interventi chirurgici, essendo questi inadatti al trat­
tamento in massa: i metodi considerati andarono dalla sterilizza­
zione mediante farmaci, a quella mediante applicazioni di raggi
Roentgen e mediante iniezioni intrauterine. In parecchi Lager,
Auschwitz e Ravensbriick in particolare, furono trascelte cavie
umane da sottoporre a esperimenti in vivo; si ha anche notizia di
esperimenti su ragazze giovani. Circa gli intenti perseguiti, valga
la lettera indirizzata a Himmler nell’ottobre 1941, dal medico
A dolf Pokorny, nella quale fra l’altro si legge: “ ...Qualora, sulla
scorta di tali ricerche, si pervenisse a produrre un farmaco capace
di causare, entro un termine di tempo relativamente breve, un’inav­

497
C O N C L U S IO N E

vertita sterilizzazione di esseri umani, avremmo a nostra disposi­


zione una nuova, efficacissima arma. G ià solo l’idea di poter steri­
lizzare i tre milioni di bolscevichi che al momento attuale sono
detenuti in Germania, per modo che restando disponibili quale
mano d’opera siano esclusi dalla riproduzione, apre vastissime pro­
spettive. ”
Durante la guerra, si sperimentò sistematicamente su prigio­
nieri, sperando di sfruttare i risultati a fini bellici. F u soprattutto
a Dachau che i detenuti furono sottoposti a tali inumani “ espe­
rimenti in vivo. ” Il 15 maggio 1941, il dottor Rascher s’era rivolto
a Himmler, chiedendo di essere autorizzato a scegliere, fra i de­
tenuti dei Lager, delinquenti abituali e psicopatici, elementi da
sottoporre a “ esperimenti a terra correlativi alle ricerche sugli
effetti dell’alta quota compiute dalla Luftwaffe, ” avvertendo
espressamente che gli elementi in questione “ potrebbero natu­
ralmente m orire.” A nome di Himmler, rispose il suo portavoce
personale, dottor Brandt: “ ...H o il piacere di comunicarLe che
saremo ben lieti di metterLe a disposizione detenuti per ricerche
sugli effetti del volo ad alta quota. ”
Il 24 febbraio 1942 vennero intrapresi esperimenti di surgela­
mento su uomini: la Luftwaffe voleva sapere quali effetti produ­
cesse l’acqua di mare gelata sugli esseri umani che, come gli avia­
tori abbattuti, vi potessero restare immersi per qualche tempo, e
quale fosse il metodo migliore per rianimarli. G li esperimenti fu­
rono condotti con acqua a temperatura variabile fra 2,5° e 12 °C;
per riscaldare i corpi intirizziti, ci si servi anche del calore animale
di donne. Si legge in un rapporto: “ In otto casi, gli individui sot­
toposti a esperimento furono messi a giacere in un ampio letto
ognuno fra due donne nude, le quali dovevano stringersi il più
possibile all’individuo refrigerato; sopra i tre corpi, venivano get­
tate delle coperte... ”
N ei campi di concentramento di Buchenwald e Natzweiler, si
iniettarono a detenuti culture di tifo petecchiale, a Ravensbrùck si
producevano a cavie umane ferite, nelle quali venivano immessi
“ batteri, piccoli frammenti di legno e vetro, ” allo scopo di pro­
durre dolorose suppurazioni che venivano poi trattate con sulfa­
midici.

498
Wf - t y ^fT^'TT

G E N O C ID IO

N el corso degli esperimenti promossi a Ravensbriick sugli in­


nesti e la rigenerazione ossea, alle disgraziate vittime si spezzava­
no a martellate le ossa delle gambe in piu frammenti; ricomposti
questi con l’inserimento o meno di chiodi, gli arti venivano in­
gessati.
A Dachau, si produsse in detenuti l’insorgenza di flemmoni,
per provare su di essi l’efficacia di nuovi metodi terapeutici. Altri
furono avvelenati col fosgene, e a tale proposito si legge in un
rapporto: “ ...Le quattro persone furono introdotte nel locale, nel
quale fu rotta un’ampolla contenente grammi 2,7 di fosgene. I
quattro individui restarono esposti per 25 minuti alla suddetta
concentrazione di gas.”
A lla base di questi “ esperimenti sull’uomo ” stava un fonda-
mentale disprezzo per la vita umana, una insensibilità senza pari.
Sorprende constatare come i medici facessero a gara per compiere
simili esperimenti: si ha l’impressione che, in divisa da SS, aves­
sero dimenticato la loro missione, di curare e di assistere.
In quest’ebbrezza del massacro, venne a galla l’odio per la vita
in genere, più semplicemente per l’umano; imperversò l’istinto di
una sostanziale ostilità alla vita, l’aspirazione alla morte. Cosi av­
venne che il nazionalsocialismo inevitabilmente scatenasse la più
spaventosa delle guerre d’ogni tempo, in cui potè sfogare rabbio­
samente, sfrenatamente, la sua brama di negazione della vita.

499
Capitolo trentasettesimo

Guerra e sfacelo

N el suo Mein Kampf, Hitler s’era fatto portavoce dell’idea


del dominio mondiale tedesco. Considerate le premesse, cioè la
superficie territoriale tedesca, della condizione di media potenza
e della scarsità di materie prime della Germania, tale idea era una
fantasia da megalomane, che tuttavia svelava di quali assurde stra­
vaganze sia capace il tedesco. In effetti con quell’idea Hitler s’ac­
cattivò molti cuori; l’entusiasmo con cui fu acclamato aveva, pres­
so migliaia di tedeschi, radici nella speranza che Hitler divenisse
il costruttore è il creatore di un impero universale tedesco.
L ’intera politica di Hitler ebbe di mira l’attuazione di questa
idea di dominio mondiale tedesco: la “ mobilitazione totale ” da
Hitler avviata, doveva procacciargli l’attrezzatura e la potenza mi­
litare indispensabili per assoggettare i popoli della terra alla vo­
lontà di dominio tedesca.
Fino a che punto la concezione hitleriana avesse a suo oggetto
il globo terracqueo, lo rivelò la stipulazione del “ patto antico­
m intern” col Giappone, il 25 novembre 1936.
L a singolarità di tale patto consisteva nel non sembrare esso
direttamente rivolto contro una potenza statalmente organizzata,
quanto contro un movimento sociale e ideologico a carattere in­
ternazionale, il Comintern, organizzazione centrale con sede a
Mosca, che compendiava i partiti comunisti d’ogni paese.
Non era cosa semplice trovare il nome appropriato al battez­
zando, il patto tedesco-nipponico. D ’un patto di non aggressione,
con la miglior buona volontà, non era qui il caso di parlare, poi­
ché Germania e Giappone erano troppo lontani tra di loro per
far credere al mondo di dover stipulare un patto di non aggres­
sione. L ’ispirazione a parlare d’un patto anticomintern, ebbe il
suo punto di partenza in una dichiarazione fatta dal governo

500
G U E R R A E SF A C E LO

sovietico : avendo alcuni stati, e tra questi la Gran Bretagna,


sostenuto d’aver scoperto traccia di attività sotterranee del Comin-
tern, e avendone attribuito la responsabilità a Mosca, il m i n i s t e r o
per gli affari esteri sovietico metteva in chiaro che il Comintern
era un’organizzazione affatto indipendente dal governo sovietico,
per cui l’U.R.S.S. respingeva ogni responsabilità circa eventuali
attività del Comintern.
Dopo quella precisazione ufficiale, si calcolò a Berlino, il go­
verno sovietico non aveva più motivi legali per sollevare ecce­
zioni alla costituzione d’una lega anticomintern.
I governi fascisti incontravano dappertutto indizi d’opposi­
zione comunista: era un’attività sovversiva che sfuggiva di mano,
che riusciva loro oltremodo spiacevole, e che era loro intenzione
paralizzare.
II 25 novembre 1937, l’Italia aderiva al patto anticomintern.
Già il 25 ottobre 1936, mediante un documento sottoscritto da
Ribbentrop e da Ciano, la politica italiana era stata coordinata
con quella tedesca: nasceva cosi l’ “ A sse ” Roma-Berlino. L ’ade­
sione dell’Italia al patto anticomintern faceva apparire i contorni
d’una lega mondiale di marca fascista in funzione antisovietica:
sorse a questo, modo un triangolo Berlino-Roma-Tokyo, concepito
quale contrapposto a Mosca.
G li stati fascisti si assumevano cosi la parte che un tempo, a
seguito della rivoluzione francese, avevano avuto le potenze legit-
timiste dell’Europa centro-orientale. Come i sovrani legittimisti
avevano preso risoluzioni contro lo “ spirito dell’anarchia, della
rivoluzione e della sovversione, ” ora si doveva procedere in campo
internazionale contro le idee comuniste.
Se il patto anticomintern pareva rivolto solo contro l’Inter­
nazionale comunista, non già contro l’Unione Sovietica, quest’era
una delle astuzie mediante le quali Hitler si studiava di accatti­
varsi le simpatie degli stati borghesi-capitalistici.
Con l’annessione dell’Austria, Hitler s’affacciò ai Balcani;
mandò a pezzi la Piccola Intesa, attrasse l’Ungheria fascistizzata,
mise la Jugoslavia al torchio, serrò dappresso la Cecoslovacchia.
Una volta distrutta questa e ridotta in suo potere la Slovacchia,
potè non solo disporre dell’accesso alla Romania e al Mar Nero,

501
C O N C L U S IO N E

ma s’assicurò una base di partenza da cui muovere contro l’Ucrai­


na: la Polonia era minacciata anche da Sud.
Bismarck era maestro nell’arte di scatenare le guerre, e ne usò
con impareggiabile finezza diplomatica. Ogni volta riusciva sup­
pergiù a persuadere il mondo di non essere stato lui l’aggressore.
Hitler aveva compreso Bismarck, nel senso che sarebbe funzione
dell’uomo di stato lo scatenare le guerre : il come, era naturalmente
cosa che non lo preoccupava affatto, lui che s’illudeva d’essere
tanto più grande maestro nell’arte di governo e tanto più uomo,
quanto più massicciamente e brutalmente tirava diritto alla sua
meta cruenta.
Il modo con cui il i° settembre 1939 assaltò la Polonia, aveva
assai meno delle tecniche dell’uomo di stato che di quelle del capo
d’una banda di briganti.
Prostrata la Polonia, Hitler si trovava bene addentro nell’oriente
europeo, e poteva compiere i suoi preparativi per l’attacco all’Unio­
ne Sovietica.
Grande era la superiorità degli armamenti che il Terzo Reich
s’era assicurato sulle altre potenze; sembrò, come negli anni 1866
e 1870-71, rifarsi realtà l’idea della guerra-lampo: con quanta
prontezza non era stata distrutta la Polonia, e con quale inaspet­
tata rapidità anche la Francia non era stata messa in ginocchio!
Conquistando Danimarca e Norvegia, Hitler aveva in mano
la Scandinavia, e dunque le basi dalle quali avrebbe potuto spin­
gersi verso l’Atlantico; abbattute Olanda, Belgio e Francia, aveva
a disposizione l’intero occidente europeo; in seguito all’alleanza
con l’Italia, si trovava al centro del Mediterraneo e, caduta in sue
mani anche la Grecia, aveva quasi il dominio di questo mare.
Se anche non era riuscito a coinvolgere direttamente la Spagna
fascista nel conflitto, tuttavia questa gli teneva mano, rafforzan­
done la posizione nel Mediterraneo. ,
D ’un solo slancio, dopo che il 22 giugno 1941, fatto a pezzi il
patto di non aggressione dell’agosto 1939, Hitler era penetrato
nell’Unione Sovietica, i Panzer tedeschi s’erano spinti fin nei din­
torni di Leningrado e Mosca.
Hitler si prese Finlandia, stati baltici, Russia Bianca, Ucraina,

502
I
G U E R R A E SF A C E LO

intere regioni della Grande Russia fino al V olga: quasi su tut-


t’Europa ormai aveva imperio.
Hitler non s’accontentò di conquistare tali paesi, ma li orga­
nizzò ai fini delle sue necessità belliche: le industrie furono adi­
bite a produrre armi, le fonti di materie prime sfruttate a beneficio
delle armate e della popolazione tedesche, cui le regioni agricole
dovevano fornire alimento. Hitler deportò le popolazioni autoctone
in Germania : uomini e donne vennero strappati ai campi, alle case
come si trovavano. Pubblicamente, cinicamente, Goebbels affermò
che dal territorio russo si voleva trar profitto. L ’intero continente
europeo doveva essere trasformato in unica, enorme base logistica,
sfruttata dalla Germania, e da Hitler ridotta al servizio dei suoi
piani di conquista mondiali.
Ovunque s’insediarono i governatori di Hitler, ed erano pa­
droni spietati. G li ucraini, i quali in un primo momento avevano
salutato i successi tedeschi, poiché Hitler prometteva loro l’auto­
nomia, si mutarono ben presto, schiacciati dal tallone tedesco, in
nemici implacabili, in partigiani decisi a cacciare le truppe tede­
sche. I Frank, i Kube, i Greiser, i Koch, i Rosenberg, vedevano
negli slavi una razza inferiore che era lecito sfruttare,.sterminare.
Anche norvegesi, olandesi, belgi e francesi furono indotti a un
odio rovente per l’egemonia tedesca, per un Hitler che, nei con­
fronti dei popoli soggetti, non usava meno brutalità di quanta ne
impiegasse col popolo tedesco.
I piani di Hitler trasbordavano dai confini d’Europa: già egli
s’era impiantato nel nord-Africa assieme a Mussolini, già s’affac­
ciava alle frontiere egiziane; l’Africa intera entrava nei suoi cal­
coli. L o spazio europeo bisognava d’un Hinterland africano, di
prodotti e materie prime africane e, manodopera a buon mercato,
di negri. L ’Africa sarebbe stata la succursale dello spazio vitale
europeo retto dalla Germania.
Cosi temerari apparivano i piani di Hitler, che perfino l’Ame­
rica temette per la propria sicurezza. Si riteneva possibile che H i­
tler, varcato l’Oceano, mettesse piede nell’America latina, e di li
prima o poi agisse contro gli Stati Uniti. Prima, naturalmente,
doveva portare a termine altre, più prossime imprese: se alle sue
truppe riusciva, superato il Caucaso, di penetrare nell’Armenia, e

503
)
C O N C L U S IO N E

contemporaneamente di invadere l’Asia Minore attraverso l’Egitto


e il canale di Suez, punti o pochi ostacoli gli avrebbero impedito,
traverso la Mesopotamia e la Persia, di penetrare in India. In pari
tempo, partendo dalle sue posizioni sul Volga, avrebbe potuto
impadronirsi della Siberia.
Tale concezione era intessuta di sogni: quanto più ardente­
mente la si perseguiva, quanto più terreno altrui si conquistava,
tanto più veniva meno sotto i piedi il terreno della realtà. I milioni
di sudditi, cui non si portava libertà bensì schiavitù, divennero
fieri nemici del conquistatore; quanto maggiori erano i suoi suc­
cessi, tanto più Hitler s’identificò con il nemico per eccellenza del
mondo e dell’umanità, imponendosi di conseguenza quale sacro
compito la mobilitazione di tutte le forze contro di lui. Quella
concezione appunto svelava che Hitler non era più in sé.
Non mancarono certo i generali tedeschi che si lasciarono ab­
bacinare dai piani hitleriani, e ai quali le concezioni del Fuhrer
parvero realizzabili.
Come stavano, ora, le cose con quelle truppe poste a disposi­
zione di Hitler per i suoi piani di conquista mondiali?
Nel 1933, la Wehrmacht aveva accettato la presa del potere
hitleriana senza tentare la minima resistenza. Poiché a chiamare
Hitler al cancellierato era stato il comandante in capo, Hinden-
burg, per la Wehrmacht era tutto a posto, conforme alla costituzio­
ne. Solo una parte dei giovani ufficiali nutriva simpatia per H itler;
gli ufficiali superiori, e soprattutto i generali provavano ripugnanza
per la demagogia del Fiihrer e l’atmosfera da movimento di massa
che lo circondava; in loro sopravvivevano i resti dell’antica tra­
dizione prussiana, incompatibile con lo “ spirito della massa, ” e
che altamente stimava l’atteggiamento aristocratico. Hitler, l’uomo
venuto dal basso, riusciva loro sospetto, lo consideravano figura
ambigua e non del tutto pulita; s’aggiunga che, in fondo al cuore,
erano pur sempre di sentimenti monarchici: volevano un re e
imperatore, non già un tribuno del popolo. Tuttavia gli ufficiali
erano nel complesso apolitici, e ritenevano opportuno per ora
attendere quel che il futuro avrebbe portato.
Le turbolente azioni intimidatorie compiute dalle SA dopo
le elezioni del marzo 1933 allarmarono molti alti ufficiali, senza

504
f
W $ r I y ;F 7 ''

G U E R R A E SF A C E LO

tuttavia offrir loro motivo d’intervenire: essi in ultima analisi non


erano a ciò competenti, i turbamenti dell’ordine pubblico erano di
spettanza della polizia. I tentativi di indurre il comandante la
piazza di Berlino, generale Rundstedt, a un colpo di stato, fallirono;
e, benché ciò arrecasse pregiudizio ai suoi piani di sviluppi, la Wehr-
macht si rassegnò anche quando Hitler le ordinò di rompere i rap­
porti con l’Unione Sovietica, che essa aveva coltivato fin dal 1924 : a
Lipzek, a nord di Veroneys, essa aveva addestrati i suoi aviatori;
presso Kazan ufficiali tedeschi s’erano familiarizzati con la tecnica
dei mezzi meccanizzati; nei dintorni di Saratov la Wehrmacht
aveva a disposizione un’area, sulla quale i suoi ufficiali potevano
eseguire esperimenti coi gas: cosi la Reichswehr aveva aggirato
la limitazione degli armamenti imposta dal trattato di Versaglia;
il suo interesse per il riarmo l’aveva trattenuta dall’accogliere,
prima del '33, la propaganda antibolscevica di Hitler. Ora, però,
le cose dovevano cambiare.
Compito del nuovo ministro della guerra, Blomberg, era di
innestare, con precauzione, un po’ alla volta, la Wehrmacht nel
Terzo Reich. Dalla sua posizione al vertice della Wehrmacht,
Blomberg aveva la possibilità di individuare e fiaccare le correnti
d’opposizione tra gli ufficiali, ed effettivamente non lasciò nulla
d’intentato per esaudire le speranze che Hitler aveva riposto in lui.
A ll’inizio, la Wehrmacht aveva dovuto fare i conti con la ri­
valità della SA : questa si sentiva la vera armata della rivoluzione
bruna; ai suoi occhi, la Wehrmacht appariva un residuo del passato,
un freno allo sviluppo del movimento rivoluzionario. D al canto
suo, la Wehrmacht temeva, rimpastata, disciolta, d’essere inghiot­
tita dalla S A ; divenne quindi importante per essa non inimicarsi
Hitler, non attirarsene l’ira. Considerò un bel successo che Hitler
non volesse saperne dei piani del capitano Rohm, ma dichiarasse
la sola Wehrmacht “ unica forza armata della nazione.” L a strage
del 30 giugno 1934 le tornò a proposito; fu la Wehrmacht a bene­
ficiare dell’azione cruenta. E docilmente non sollevò obiezioni al
fatto che due generali, Schleicher e Bredow, vi lasciassero la vita
e fossero infamati quali traditori della patria. Poco dopo, nell’agosto
1934, — Hindenburg era appena morto — la Wehrmacht rendeva
grazie a Hitler che le aveva tolto d’intorno la rivale, la SA : inghiottì

■505
CONCLUSIONE

l’aperto infrangimento della costituzione commesso da un Hitler


che faceva di sé il “ Fuhrer ” e assumeva la successione di Hin-
denburg. Premurosamente prestò giuramento a Hitler, con ciò le­
gandosi a lui.
Nonostante il servizio resole da Hitler il 30 giugno '34, natu­
ralmente la Wehrmacht fu, in segreto, un elemento di pertinace
resistenza. Solo a fatica tollerò lo spirito “ plebeo ” che contraddi­
stingueva “ il Terzo Reich, ” e fece distinzione fra tedeschi “ per
bene ” e tedeschi “ nazionalsocialisti. ” Avverti il pericolo che
minacciava l’antico ordinamento della proprietà e la tradizionale
struttura della società. S’era finta cieca al cospetto delle infrazioni
legali di Hitler, finché solo operai e comunisti ne erano toccati;
ma quando la polizia segreta di stato prese a dar noia anche a
“ rappresentanti della buona società, ” cessò dal far mistero della
sua avversione ai metodi di governo nazionalsocialisti.
Avvenne cosi che uomini che s’opponevano a Hitler o si senti­
vano perseguitati dalla polizia segreta di stato, senz’altro si rifu­
giarono presso la Wehrmacht, cercandovi ricetto e protezione:
“ emigravano ” insomma verso le caserme. Nei circoli degli uffi­
ciali, capitava di sentire dure critiche a Hitler, e v’erano coman­
danti di reggimento, che rifiutavano di accogliere nei loro quadri
accesi nazionalsocialisti; a lungo gli ufficiali si opposero all’intro­
duzione del saluto hitleriano nell’esercito, e solo controvoglia ac­
cettarono l’uso del distintivo in cui l’aquila del Reich si sposava
alla croce uncinata.
N é placò la Wehrmacht il fatto che Hitler desse il via al riarmo.
Certo, l’introduzione del servizio militare obbligatorio e il veloce
ritmo del riarmo esaudivano tutti i desideri che un militarista
può accarezzare: si raccontava che i generali restavano addirittura
sconcertati quando, presentando le proprie richieste a Hitler, ve­
devano questi assentire ai loro piani e anzi, con prodiga lar­
ghezza, conceder loro il doppio, il triplo. Mai gli ufficiali avevano,
come in quei giorni, avuto simili prospettive d’avanzamento.
Benché i generali considerassero una loro virtù l’atteggiamento
“ apolitico, ” li inquietava tuttavia il sospetto che Hitler volgesse i
suoi passi verso una guerra, e tale sospetto moltiplicava le riserve
da essi nutrite nei suoi confronti. Hitler lo avvertiva: egli aveva

506
Wi1 Iffaeani .i l —

G U ER RA E SFACELO

sempre diffidato dei generali, solo a fatica gli riusciva di celare


la propria avversione per questi “ altezzosi reazionari. ” Si mani­
festarono conflitti tra la Wehrmacht e il suo capo supremo.
A ll’inizio del 1938, i generali del ministero della guerra si con­
vinsero che Hitler stava sul punto di incorporare l’Austria al
Reich, e cominciarono a inquietarsene. Tanto Hitler che Gòring
avvertirono la sorda resistenza opposta loro da Blomberg come da
Fritsch; i generali possedevano abbastanza discernimento, per pre­
vedere che l’avventura, nella quale Hitler stava per gettarsi, non
poteva finir bene; ma la competenza, politica o militare che fosse,
era d’ostacolo ai duci del nazismo, se ne sentivano provocati a to­
glierla di mezzo a ogni costo. Gòring ordì un intrigo ai danni di
Blomberg, Himmler uno simile contro Fritsch: il primo fu ina­
bilitato quale marito d’una donna il cui passato costituiva scandalo
per il corpo degli ufficiali, il secondo calunniosamente bollato come
omosessuale. Già il 4 febbraio 1938 furono decise le loro dimissioni,
il 28 febbraio i due generali rinunciavano alle cariche: Hitler
per tutto viatico diede loro una lettera di ringraziamento e un
suo ritratto.
Solo vagamente i generali si resero conto che il modo,con cui
si erano licenziati Blomberg e Fritsch serviva allo scopo di mettere
in cattiva luce la Wehrmacht tutta, alla quale, come sempre più
chiaro appariva, sarebbe toccata una sorte non migliore di quella
della SA : anch’essa doveva esser tratta nel fango, cosparsa di “ su­
diciume, ” lesa nella sua reputazione morale. Il caso di Blomberg
e Fritsch non era che un attacco al prestigio della Wehrmacht:
bisognava mortificarla.
L ’uomo che, manovrando da dietro le quinte, la mise in cosi
cattiva luce, fu Heinrich Himmler.
Infatti, nel frattempo la Wehrmacht aveva trovato nelle SS
un nuovo concorrente e le macchinazioni tramate ai suoi danni
da Himmler non erano meno pericolose di quelle che a suo tempo
Rohm aveva solo premeditato.
L a prospettiva delle operazioni di Hitler contro la Cecoslo­
vacchia faceva prevedere catastrofi al capo di stato maggiore,
generale von Beck, il quale il io ottobre 1938 diede le dimissioni.
Già si erano creati i presupposti per una congiura militare contro

507
C O N C L U S IO N E

H itler: Beck, il generale Thomas e l’ammiraglio Canaris si erano


messi in contatto con Londra, e accarezzavano il proposito di de­
porre Hitler. Fu il volo del presidente del consiglio britannico
Chamberlain a Berchtesgaden a mandare a monte l’impresa in cui
erano stati pronti a gettarsi.
Hitler, deposto il generale von Fritsch, aveva assunto personal­
mente il supremo comando dell’esercito, circondandosi di creature
che né per perspicacia né per carattere potevano diventare noiosi
mèntori né dispensatori di consigli. L a piu spiacevole di tali crea­
ture, era il generale von Keitel. A l corpo degli ufficiali ora furono
imposti ufficiali SS, il processso di nazificazione della Wehrmacht
venne sistematicamente perseguito.
L a Wehrmacht non prese disposizioni di sorta per fermare il
braccio di Hitler, quando questi nel 1939 scatenò la guerra; essa
obbedì quando le fu ordinato di aggredire la Polonia; obbedì del
pari quando fu dato il segnale d’invasione di Danimarca, Norvegia,
Olanda, Francia e Unione Sovietica; si gettò in una guerra priva
di etica, una guerra immorale, da condursi, a conti fatti, al solo
servizio del male. Era una guerra contro la coscienza morale;
impegnandovisi, si diventava cattivi, si faceva perdita dell’anima
propria; qui le virtù militari divenivano vizi, la prodezza compro­
metteva, il rifiuto d’obbedienza era un dovere morale e nazionale.
I primi successi militari avevano inebriato anche i cervelli piu
sobri; e quando Hitler tentò lo sfondamento della linea Maginot
contro il parere dei generali, ed ebbe successo, si guadagnò, accanto
alla politica, anche autorità militare; egli si immaginava d’essere
uno stratega e di poter assumere personalmente la direzione delle
operazioni militari. I generali s’inchinarono, si lasciarono trattare
come caporali, misero in atto propositi di Hitler che recavano
chiaramente impresso il segno del dilettantismo militare, si osti­
narono, in conformità agli ordini ricevuti, su posizioni insosteni­
bili, s’abbandonarono alla più grossa delle follie militari, sprecando
le loro forze, in un’offensiva simultanea su due fronti: a Stalin­
grado e in Crimea.
Ovunque giungesse la Wehrmacht, la seguivano alle calcagna
reparti SS, i quali s’erano imposti come compito di saccheggiare,

508
, 7 . 7 * 7 * ^ ^ "^ " * " " v

GUERRA E SFACELO

incendiare, massacrare, di trasformare in terra bruciata campagne,


città e villaggi.
Più d’un generale ne fu orripilato: cercò di intervenire, di
frenare le schiere omicide, ma la sua protesta non ebbe effetto,
nelle loro circoscrizioni dovettero lasciare che si compissero mi­
sfatti con cui non volevano aver nulla in comune. Il coraggio di
dare l’alt alle SS, nessun generale lo trovò e cosi accadde che anche
alla Wehrmacht toccasse la responsabilità per i cruenti eccessi
delle SS: anche su di essa i fatti di Lidice e Oradour gettarono una
cupa ombra e non certo in' tutti i casi essa si sottrasse all’applica­
zione di un ordine contrario al diritto delle genti.
Il compito che un tempo l’imperatore Guglielmo II aveva asse­
gnato alle truppe tedesche inviate in Cina: di rendere altrettanto
spaventevole nei secoli il nome di tedesco di quanto lo fosse il
nome di unno — questo compito fu, dagli eserciti germanici" dal­
l’Atlantico al Volga, da Capo del Nord alla Sicilia, assolto nella
maniera più raccapricciante. Le armate di H itler1 e le formazioni
SS commisero scelleratezze quali più non s’eran viste dai tempi
di Tamerlano — venti milioni di vite umane neppure Tamerlano
le aveva sulla coscienza.
Durante le impetuose avanzate, i decorati di croce di ferro an­
davano in cerca di poderi, dove, a guerra finita, contavano di in-

1 II generale von Manstein emanò, nel novembre 19 4 1, un ordine di sterminio, in


cui si diceva fra l’altro:
“ Dal 22 giugno, il popolo tedesco si trova impegnato in una lotta per la vita
e la morte contro il sistema bolscevico.
“ Questa- lotta condotta contro l’esercito sovietico non viene condotta secondo le
forme tradizionali delle regole di guerra europee...
“ Il sistema giudaico-bolscevico deve essere estirpato una volta per tutte: esso
non dovrà mai piu interferire nel nostro spazio vitale europeo.
“ Il soldato tedesco non ha dunque solo il compito di infrangere il potenziale bellico
di tale sistema, egli si presenta anche quale portatore d’un’idea nazionale e vendica­
tore delle nefandezze commesse ai danni suoi e del popolo tedesco...
“ La situazione alimentare della nostra patria tedesca rende necessario che le
truppe si sostentino nella maniera piu larga con le risorse del territorio occupato, e
che a parte questo siano messe a disposizione della Madrepatria le pili larghe scorte
possibili. Soprattutto nelle città nemiche buona parte della popolazione dovrà patire
la fame; ciononostante, quello di cui la patria con grave sacrificio si priva, non può
essere distribuito, per una malintesa umanità, a prigionieri e popolazione civile che
non siano al servizio della Wehrmacht.
“ Il soldato dovrà rendersi conto della necessità di punire duramente i giudei,
portatori spirituali del terrore bolscevico. Questo è necessario anche per troncare sul
nascere tutte le rivolte che per lo piu sono provocate da ebrei... ” (1952)

509
»

CONCLUSIONE

sediarsi, membri d’un rinato ordine cavalleresco, spietatamente


dominando la miserabile popolazione slava.
Sotto il terrore della dittatura finora non era riuscita a svilup­
parsi alcuna seria resistenza; grandi azioni di vasta portata contro
il regime, non potevano essere tentate: dappertutto la Gestapo
aveva i suoi delatori, e innumerevoli erano coloro i quali non si
peritavano di fare il sicofante; certo, vi era della resistenza, una
“ ribellione silenziosa ” : erano le chiese a praticarla, ed estesissimi
gruppi davan prova di sé con impavida attività cospirativa. Ma
tutto questo non recava pregiudizio alcuno alla potenza del Terzo
Reich, non ne scuoteva le fondamenta. Era già molto osare piccole,
e anche solo piccolissime intraprese: già per esse si metteva a re­
pentaglio la vita. L ’ascolto di un’emittente straniera, la “ mormo­
razione, ” il rifiuto di contributi agli scopi nazionalsocialisti; il
respingere l’invito a iscriversi a una organizzazione nazionalsocia­
lista, richiedevano coraggio; temeraria la diffusione di volantini,
il prender parte a una propaganda bisbigliata, a timidi tentativi di
sabotaggio. Riunioni clandestine, quali si potevano rischiare ancora
fino al 1937, alla fine divennero impossibili; una parola sospetta
trovata..infuna lettera intercettata, ti trascinava dinanzi al tribu­
nale del popolo, e non di rado andava a finire con una condanna
a morte.
Le grandi organizzazioni poste al bando, quali il partito comu- *>
nista, il partito socialdemocratico e i sindacati, erano quasi total­
mente spente. Certo, v’erano qua e là dei produttori di pubblicità
per giornali che, astutamente profittando del proprio lavoro, visi­
tavano gli antichi compagni mantenendo tenui contatti tra loro.
Spesso, manco a dirlo, anch’essi finivano in carcere. G li emigrati
non avevano alcun mezzo di esercitare influenza in Germania.
A l massimo, potevano far giungere la loro parola attraverso le
radio straniere, ma i loro discorsi testimoniavano quanto vaga
fosse l’idea che essi si facevano della situazione tedesca.
A guardar bene, un unico gruppo di resistenza giunse a un ri­
sultato d’un certo peso: e ciò fu l’impresa del 20 luglio 1944. /
L a congiura militare, che già nel '38 s’era messa in moto, con­
tinuò a covare benché urtasse nella difficoltà consistente nel giura­
mento fatto a Hitler: era difficile indurre ufficiali tedeschi ad

510
GUERRA E SFACELO

ammutinarsi al “ comandante in capo, ” cui li legava il giuramento.


Restava un’unica scappatoia: toglier di mezzo H itler; allora
gli ufficiali sarebbero stati sciolti dal loro giuramento, e si sarebbe
potuto persuaderli alla liquidazione del nazionalsocialismo, del
Terzo Reich.
Alcuni attentati fallirono sul nascere.
Scoppiata la guerra, il gruppo dei congiurati militari era venuto
in contatto con una parte del movimento di resistenza civile: uo­
mini come Goerdeler, Popitz, von Hassell, i cui principi politico­
sociali coincidevano con quelli dei generali ribelli.
L a congiura prese davvero piede solo quando le sorti della
guerra volsero a sfavore; a essa s’unirono i generali von Tresckow,
Oster, Olbricht, Witzleven, Stief, Hoppner, Stiilpnagel; d’accordo
erano il feldmaresciallo Kluge, perfino il generale Rommel. Tutti
comprendevano su quale pessima strada si fosse messa la W ehr-
macht: erano costretti ad ammettere che gli sforzi e i sacrifici
della Wehrmacht erano stati gettati al vento, che le sue forze erano
state, senza costrutto e scopo alcuno, dilapidate dal suo capo su­
premo, militarmente un profano i cui errori costavano intere ar­
mate. Le operazioni della Wehrmacht avevano perduto ogni senso:
a esse non sorrideva più la vittoria, non erano ormai che sangui­
nose stazioni lungo la via della più tremenda sconfitta che mai
esercito avesse subito. A partire da Stalingrado, il Feldherr Hitler
aveva fatto bancarotta e tutti ne erano consci.
Se v’era ancora qualcosa da salvare, a farlo non poteva essere
che la Wehrmacht; i congiurati erano’ divenuti, nel corso degli
avvenimenti, gli esecutori testamentari di ciò che era sopravvissuto
quale resto d’una gloriosa tradizione: essi gli estremi custodi della
dignità e dell’onore, che un tempo avevano distinto l’esercito prus­
siano e tedesco. L ’ufficiale, il generale che non appartenesse alla
congiura, era escluso dalla partecipazione a questa grande tradi­
zione ormai al tramonto.
Certo, gli ufficiali e generali che il 20 luglio 1944 mossero
all’attacco, non erano professionisti della politica, come non erano
dei rivoluzionari. A l più, erano atti a un colpo di stato: ma a con­
fronto con un movimento di massa e un demagogo legittimato, un
“ beniamino del popolo, ” il colpo di stato non può che fallire.

511
C O N C L U S IO N E

Già il Putsch di Kapp del '20 era andato a vuoto di fronte a uno
sciopero di massa promosso dai sindacati.
L a rivolta del 20 luglio 1944 non trovò eco alcuna tra il popolo
tedesco; perfino gran parte dell’esercito: ufficiali inferiori e truppa
si mostrarono indifferenti; la popolazione civile non mosse un
dito. Questa, negli anni passati, aveva approvato la dittatura; era
entusiasta di Hitler, finché questi vinceva; aveva guardato storto
i detenuti dei campi di concentramento e i marcati con la stella
gialla, che il mattino dopo i massicci bombardamenti spazzavano
le macerie per le vie.
L a mancanza di rispondenza rese incerti i congiurati cui già
l’aver dovuto infrangere il giuramento aveva fatto venire amari
scrupoli. Non agirono radicalmente, pretesero di arrestare il corso
degli eventi quand’era già avviato. Allorché nessuna fiamma di
impetuoso consentimento sprizzò loro incontro dal popolo, si ri­
trassero, fecero getto della loro causa. N on mancarono gli episodi
grotteschi, quello del generale Stiilpnagel a esempio, che a Parigi
aveva fatto prigionieri i comandanti di formazioni SS, i quali non
avevano opposto resistenza: il giorno dopo li rilasciò. Ufficiali e
generali non si resero conto che, giuridicamente, l’alto tradimento
diviene delitto in quanto non vada pienamente a segno: chi si
ferma a mezza strada, attira sul proprio capo la rovina, chi s’ac­
contenta di mere partenze e tentativi, va a finire davanti al giudice.
Il futuro tedesco, l’onore del popolo tedesco erano nelle mani
dei congiurati: quelle mani non furono abbastanza forti e abba­
stanza abili da attuare il compito loro affidato dalla storia: troppo
infantili, le concezioni di questi uomini, inadeguata la loro espe­
rienza politica. E la sconfitta dei congiurati fu in pari tempo la
sconfitta del bene e il trionfo del male.
Il quale male non tardò certo a terribilmente infuriare. Gene­
rali, perfino feldmarescialli tedeschi furono trattati come immondi
malfattori, e li si mandò sulla forca in circostanze tali da bollarli
quali rifiuti del genere umano. L a Wehrmacht tutt’intera s’ebbe il
marchio d’infamia, e l’onta superò ogni limite allorché si trovarono
generali pronti a scagliare impietosi l’anatema sui loro compagni
d ’arme cui era mancato il successo.
Facile trovare un profondo significato, nella fine di questa

512
GUERRA E SFACELO

congiura. In sostanza, proprio i congiurati messi a morte riassu­


mevano in sé tutto l’onore, la nobiltà e la cavalleria, la rettitudine,
la virilità e la prodezza morale, del militarismo tedesco. N ella
pesante atmosfera deirhitlerismo la Wehrmacht s’era corrotta: il
gruppo dei congiurati era l’ultimo residuo di una sostanza un
tempo valida. L ’assoluta abbiezione del Terzo Reich trovò clamo­
rosa espressione in ciò, che vecchi soldati senza macchia dovettero
finire sulla forca. I giustiziati portarono con loro nella tomba
quanto ancora era sopravvissuto dello “ spirito di Potsdam ” : del
tutto naturale che, dopo la catastrofe del 1945, la Prussia, ormai
ridotta a vuota scorza, guscio senza contenuto, venisse totalmente
liquidata.
Fatti e misfatti, la logica del suo interno sviluppo, dovevano
necessariamente condurre infine la Wehrmacht a essere trascinata,
nella persona dei suoi rappresentanti e responsabili, a render conto
di crimini di guerra a una corte internazionale e condannata.
Era divenuta strumento delle potenze delle tenebre: come tale
crollò e s’ebbe il verdetto di condanna dal tribunale dell’umanità.
Nel 1940 e 1941, Hitler aveva sperato di indurre alla capitola­
zione le nazioni prostrate e terrorizzate. Quale errore, il suo! In­
calcolabili erano le perdite materiali subite dall’esercito inglese a
Dunquerque e per un certo tempo la situazione dell’impero insu­
lare apparve disperata; orrende le ferite inferte all’Unione Sovie­
tica nei primi mesi di guerra: ciononostante, nelle nazioni cosi
duramente provate mancò chi fosse pronto alla pace con H itler;
la proposta di pace, da Hitler indirizzata a Londra subito dopo
Dunquerque, fu sdegnosamente respinta, né Mosca era disposta a
cessare la lotta, e il sentimento di debolezza, cui si mostrò preda
la Francia tollerando il regime di Vichy, ben poco giovò a H itler:
non fu nulla di decisivo, e in pari tempo il generale de Gaulle si
preparava, a Londra, a chiamare la Francia alla riscossa.
I popoli di tutta Europa vedevano in Hitler il flagello dell’u­
manità. Del tutto legittima sembrava dunque la crociata contro
il colpevole popolo tedesco caudatario di Hitler. Con ogni mezzo,
si ritenne, bisognava fermare Hitler e il suo Terzo Reich: biso­
gnava costringere il popolo tedesco alla resa senza condizioni.
Nei suoi confronti, sembrò lecita anche l’arma dell’indiscrimi-

«u 1
C O N C L U S IO N E

nata offensiva aerea. Città onuste di tradizioni furono ridotte in


polvere, migliaia e migliaia d’uomini, donne e bambini furono se­
polti dai crolli o squarciati dalle bombe.
Le testimonianze d’una millenaria evoluzione culturale spari­
rono tra le fiamme. Hitler, che si era proposto a “ salvatore del­
l’occidente, ” divenne l’affossatore della cultura occidentale: sua
la colpa, se il retaggio d’un magnifico passato fu, nel corso di
spaventosi bombardamenti notturni, trasformato in lugubri distese
di rovine.
Se le nazioni aggredite e cosi duramente provate non s’accascia­
rono, ciò avvenne perché era chiaramente manifesto come il tempo
lavorasse contro il Terzo Reich e a favore dei suoi avversari. Lon­
tani, inattaccabili da Hitler, v’erano gli Stati Uniti, immensa offi­
cina bellica; e, allorché ivi la produzione fosse avviata, Inghilterra
e U.R.S.S. sarebbero state abbondantemente provviste di armi su
tutti i teatri di guerra: ed era un supplemento a ciò che già tali
paesi da soli erano in grado di produrre.
Il vantaggio iniziale del Terzo Reich negli armamenti fu ben
presto colmato, e non andò molto che la Germania si trovò sopra­
vanzata dagli avversari: tramontati i giorni in cui imponeva la
sua iniziativa ai nemici, il Terzo Reich, incapace ormai di com­
piere il miracolo di grandi offensive, dappertutto era ridotto sulla
difensiva.
Presso Stalingrado, la potenza militare tedesca s’ebbe la schiena
spezzata, e allora non vi fu più un attimo di respiro. Ebbe inizio
il grande esodo dalla Russia, con le truppe sovietiche implacabil­
mente alle calcagna. Il grande spazio russo inghiotti la forza delle
armate tedesche: Clausewitz era nel vero, affermando l’invincibi­
lità della Russia vista l’immensità dei suoi territori. Tutti erano
falliti, negli spazi russi, questi superbi iddii della guerra: Carlo
XII, Napoleone I, anche Hitler. Tutti i loro ambiziosi piani, nelle
enormi distese russe s’erano conclusi in niente.
Quando già l’Armata Rossa a Stalingrado aveva inferto un
colpo mortale all’esercito tedesco, ecco le potenze occidentali dare
il via all’invasione, mettendo piede nel giugno '44 sulle coste fran­
cesi della Manica. A oriente come a occidente, il destino della
Germania era ormai segnato; sempre più magniloquenti e vuote

514
GUERRA E SFACELO

suonavano le parole di Hitler. Già si poteva prevedere quando la


capacità di resistenza tedesca sarebbe venuta meno, quando la
Germania, spossata e dissanguata, avrebbe irreparabilmente pie­
gato le ginocchia. G li uomini politici stranieri non erano più
preda della preoccupazione dell’essere o non essere: in piena sicu­
rezza curavano gli affari di stato, organizzavano lo sforzo bellico,
provvedevano le loro truppe del necessario con imperturbabile re­
golarità. E già il loro pensiero poteva, superando ormai la guerra,
occuparsi delle questioni della prossima pace. L ’organizzazione del
mondo divenne oggetto di discussioni. Ancor prima che gli U.S.A.
fossero entrati in guerra, nell’agosto 1941 il premier britannico
Winston Churchill s’era incontrato col presidente Roosevelt su una
nave in pieno oceano Atlantico per “ far conoscere al mondo certi
principi comuni nella politica dei rispettivi paesi, sui quali questi
fondano la speranza d’un avvenire migliore. ”
L a guerra continuava, ma il Terzo Reich non aveva più nulla
da sperare. A lla fine del novembre '43 i “ Tre G ran d i,” Roosevelt,
Churchill e Stalin, convenivano a Teheran, per discutere le pros­
sime operazioni militari e dibattere i problemi del periodo post­
bellico.
N el febbraio 1945, quando ormai il crollo del Terzo Reich chia­
ramente si delineava, i tre capi di stato dell’U.R.S.S., U .S.A . e
Gran Bretagna s’incontravano a Yalta, in Crimea: potevano ormai
esser certi della vittoria; si decise quali colpi infliggere alla Ger­
mania, si stesero nuovi piani. “ L a Germania nazista è perduta, ”
cosi il comunicato conclusivo; “ e, col loro tentativo di continuare
una resistenza disperata, i tedeschi non faranno che rendere più
amaro il peso della loro sconfitta. ” I tre statisti erano concordi
nell’esigere la resa senza condizioni del Terzo Reich, e si accorda­
rono circa le misure da prendere in comune, dopo la capitolazione
tedesca: partizione della Germania in zone, commissione di con­
trollo, distruzione del potenziale bellico tedesco, punizione dei
criminali di guerra, entità delle riparazioni tedesche, rieducazione
del popolo tedesco. “ N on è nostra intenzione, ” si legge ancora nel
comunicato, “ quella di distruggere il popolo tedesco: ma soltanto
quando nazismo e militarismo saranno estinti, vi sarà per la Ger­
mania speranza d’una esistenza degna nel consesso delle nazioni. ”
C O N C L U S IO N E

Cosi, ancor prima che la guerra fosse alla fine, era stato stabi­
lito quale trattamento riservare alla Germania sconfitta e come
ricostruire l’Europa.
Mai s’era offerta alla Germania la possibilità di vincere questa
guerra. A partire dal 1942, ci voleva poco a capirlo, e tuttavia, il
Terzo Reich continuò a combattere: era come se il popolo tedesco
fosse preda di un’ebbrezza d’autodistruzione; esso si batté anche
quando non ebbe quasi metro quadrato di territorio disponibile,
contribuendo cosi, con le proprie mani, a distruggere le vestigia
del passato.
A gli anni della mobilitazione totale, segui il giorno della totale
disfatta, della resa senza condizioni. Quanto il territorio non occu­
pato, altrettanta la sovranità lasciata alla Germania. Quel che ogni
tedesco hitleriano si sarebbe rifiutato anche solo di immaginare,
era accaduto: i sovietici erano a Berlino.

Goebbels aveva affermato una volta che i nazionalsocialisti non


avrebbero mai spontaneamente ceduto il potere; e, se vi fossero
stati costretti, andandosene si sarebbero sbattuti la porta alle spalle
con tale forza, che l’Europa intera ne avrebbe sussultato. Come
dunque avrebbero spontaneamente lasciato il posto a dei succes­
sori, essi che avevano retto il popolo tedesco quale una banda di
malfattori, ogni loro atto di governo essendo una malefatta, un
crimine? Potevano prevedere che come criminali sarebbero stati
chiamati alla resa dei conti, e ne tremavano: gente senza coscienza,
divenuta inevitabile la loro caduta, volevano trarre con sé nell’a­
bisso l’intero popolo tedesco. E il caos da essi evocato, e che alla
fine travolse anche loro, in pari tempo sotterrò il futuro del popolo
tedesco.

Fine

516
P o s c r itto

Questo libro ha un suo destino, una sua storia. Fu scritto fra il 1935 e
il 1936, allorché ero sotto l’immediata impressione dell’orrore e nefandezze
del Terzo Reich: non passava giorno che non mi desse motivo alla collera
e all’indignazione; nessun’altra mia opera era stata sollecitata da emozioni
cosi continue, da tale subbuglio interiore, volontà di lotta, accorata protesta.
A questa s’aggiungeva la vaga sensazione di star camminando sull’orlo d’un
abisso: sapevo, con quel lavoro, di mettere a repentaglio la vita; mi era noto
che la Gestapo mi teneva di continuo gli occhi addosso: bastava che si deci­
desse a ima perquisizione, e mi trovasse in casa il manoscritto, perché la
mia sorte fosse segnata. Squillava il campanello, e già mi preparavo alla
catastrofe: dal '33 al '37 vissi in perenne attesa della mia sorte.
Esistevano tre copie del manoscritto, di cui una deposta nei sotterranei
d’una banca di Norimberga; quando nel 1937 fui arrestato, per una di­
sgraziata serie di circostanze, essa fini nelle mani della Gestapo. La seconda,
sulla quale lavoravo agli ultimi colpi di lima, la tenevo nascosta in casa e ogni
sera la infilavo sopra l’armadio in camera mia. Quando gli sgherri della
Gestapo m’irruppero in casa, mi trovavo ancora a letto; riuscii però a far
capire a mia moglie di nascondere per il momento il manoscrtito fra la
biancheria sporca. Portato che fui alla Albrecht-Strasse, cinque sbirri co­
minciarono a perquisire l’appartamento sul davanti, mentre in cucina mio
figlio s’affrettava a dare alle fiamme lo scritto; più di cinquecento pagine
finirono cosi distrutte; gli intrusi della Gestapo non fecero caso al fumo
che invadeva l’abitazione. Più tardi, lo stesso giudice istruttore complimentò
il ragazzo per il suo sangue freddo.
Il terzo esemplare l’avevo consegnato a un amico, funzionario di do­
gana, con l’incarico di farlo pervenire all’estero; ed effettivamente lo scritto
arrivò a Salisburgo, donde avrebbe dovuto essere trasmesso a Zurigo, all’edi­
tore Oprecht; ciò non avvenne, e un altro funzionario di dogana lo riportò
personalmente a Monaco. Qui capitò in mano all’illustre biologo dottor Mer-
kenschlager, che lo lesse, in occasione d’una sua visita, al fratello, borgo­
mastro di un villaggio presso Norimberga, nella cui fattoria il manoscritto
fu nascosto in un bidone di latte vuoto. Dopo il mio arresto, però, la Ge­
stapo ebbe sentore della cosa, e la conseguenza fu ima perquisizione operata

517
P O S C R IT T O

alla cascina del borgomastro; risultato nullo, perché gli agenti trascurarono
il bidone vuoto. Ma, andatisene quelli, il fratello del dottor Merkenschlager
diede alle fiamme i fogli.
Di tali episodi io ero rimasto all’oscuro, né sospettavo che la seconda
copia fosse tornata inGermania: dell’odissea del manoscritto venni a cono­
scenza solo nel corso del procedimento a mio carico, quando il borgomastro,
chiamato a testimoniare davanti al Tribunale del popolo riferì come, du­
rante la lettura, suo fratello avesse dato segni di inquietudine, come fosse
apparso scosso e quale fine il manoscritto avesse fatto. Terminata la depo­
sizione, il presidente del tribunale, dottor Thirack, futuro ministro di grazia
e giustizia del Terzo Reich, mi si rivolse con aria di trionfo, dicendo:
“ E cosi il suo lurido p a m p h let è andato in fumo su per la cappa del ca­
mino d’una fattoria tedesca. ”
Una copia dell’opera era pur sempre in mano alla Gestapo, e costituì
al processo il principale capo d’accusa. Le abbondanti citazioni del testo
furono i colpi tiratimi addosso e che dovevano mettermi a terra. Durante
gli anni della prigionia, un pensiero mi tormentò: che della mia opera non
restasse traccia.
Ma dopo il ’45, avvenne un miracolo: un giorno, un funzionario di
polizia venne da me, portandomi l’unica copia ancora esistente del mano­
scritto. La Gestapo l’aveva conservata con ordine e cura, chiusa in una ro­
busta cartella; numerose sottolineature a matita rossa davano a vedere quali
erano i passi che avevano mosso a sdegno il commissario di polizia prima e
il giudice poi. E, mi fu detto, il manoscritto era stato sottoposto anche a
Hitler e Goebbels.
Era mia intenzione quella di dare finalmente alle stampe l’opera; la sot­
toposi a un editore berlinese, che l’accettò: il lettore che l’ebbe in esame,
era lo storico della letteratura Paul Wiegler, il quale nel suo parere con­
cludeva essere il libro senz’altro da pubblicare: “ Ritengo opportuno ripe­
tere, ” affermava il Wiegler nella sua nota, “ che ho la netta sensazione
trattarsi di opera cospicua per pensiero e stile la quale, stante la sua struttura,
può pretendere al valore di prodotto letterario durevole.”
A questo punto, ci fu chi sollevò obiezioni, si volle che le numerose cita­
zioni letterali di pubblicazioni e discorsi nazisti, sui quali avevo fondato
la mia analisi, potevano essere fraintese, potevano magari offrir modo ai na­
zisti di rileggere il loro Fiihrer. L ’editore mi propose di apportare sostan­
ziali varianti, ma io rifiutai, e ritirai il manoscritto.
Al manoscritto, nulla è stato aggiunto; ma ho apportato solo delle can­
cellature, intese a eliminare ridondanze, ripetizioni, lungaggini, digressioni,
senza però alterare contenuto e carattere.
Ex generali della Wehrmacht e uomini dal passato di un Hans Grimm,
hanno intanto, a loro discolpa, diffuso l’opinione che tra l’Hitler di prima
e quello di dopo il 1938 sia da fare una netta distinzione. L ’Hitler ante

518
P O S C R IT T O

1938 sarebbbe stato un grande duce nazionale, il quale solo piu tardi avrebbe
imbroccato la strada del crimine.
La presente opera, basata unicamente su fatti succedutisi prima del '37,
non solo prova che fin dal primo momento il Terzo Reich non ha fatto mi­
stero della sua sostanza criminale, ma mostra anche quanto fosse agevole
rendersene conto a tempo debito. Soprattutto il 30 giugno 1934, la cosa
divenne manifesta a tutti: a partire da quel giorno, chi aveva occhi per
vedere, doveva sapere chi fosse Hitler.
L ’ultima parte dell’opera, scritta in gran parte nel 1948, ha naturalmente
carattere ben diverso dalle pagine scritte verso il 1936. Il Terzo Reich, odioso
oggetto delle passioni di allora, era crollato; i suoi capi, i carnefici del popolo
tedesco, messi in condizione di non nuocere, morti, fuggiti, incarcerati. Non
era più necessario combattere strenuamente, si poteva ormai contemplare
con calma la realtà, piu non era indispensabile dare il proprio contributo
al crollo di quella diabolica costruzione politica; il crepuscolo s’era ormai
compiuto, ci si poteva limitare a registrarlo nelle sue fasi.
Questo, e non altro, è lo scopo della “ conclusione, ” intesa a dare com­
piutezza a un’opera che, se nella prima parte è documentò di un’epoca, nella
“ conclusione ” è uno schizzo, un sommario panorama del Terzo Reich nel
suo complesso, e vuole mostrare in qual forma andrebbero disegnati,il ciclo
e la catastrofe del Terzo Reich.

Berlino-Wilmersdorf, 22 marzo 1953.

519
Indice

P^rid- Prim a: Sulla soglia

pagina n 1. 1 battistrada dell’hitlerismo


26 li. Alla ricerca di un Cesare
31 III. Il momento del tamburo
42 IV. La massa di manovra
46 V. Varietà del demagogo
5 i VI. I puri
64 VII. I venticinque punti
67 Vili. Le idee di Hitler
98 IX. Il mito del ventesimo secolo
103 X. “ Pesto, dunque sono ”
1
Parte seconda: La tirannide
121 XI. La conquista del potere
13 1 XII. Gangsterismo
139 XIII. Le fondamenta dell’iniquità
147 XIV. il totalitario stato dell’arbitrio
179 XV. I personaggi
190 XVI. SA e SS
200 X V li. Il terrore
208 XVIII. La persecuzione degli ebrei
223 XIX. inquadrarsi!
241 XX. Nuove fonti di lavoro
256 XX L Cannoni, non burro
269 XXII. Il 30 giugno 1934
291 XXIII. “ Feste vedo e celebrazioni...’’
3° i XXIV. Lo spirito della menzogna ,
327 XXV. Scienza militante
354 XXVI. Poesia ed arte degenerate
366 X X V li. Correnti d’opposizione borghese

521
Parte terza: verso la guerra
397 XXVIII. Politica estera aggressiva
4 10XXIX. La contromanovra francese
423 XX X. Capitolazione collettiva di fronte all’aggressore
433 XXXI. L ’intervento in Spagna
440 XXXII. Volontà di guerra
444 XXXIII. Panorama del Terzo Reich

Conclusione
46 1XXXIV. Il provocatore
483 XXXV. Il patto di non aggressione tedesco-sovietico
491 XXXVI. Genocidio
500 XXXVII. Guerra e sfacelo

Poscritto
I fatti e le idee

1 John W. Wheeler-Bennett, La nemesi del potere. Storia dello Stato mag­


giore tedesco dal 1918 al 1945, pagg. 824 io tav. f. t., rilegato in tutta
tela, L. 5.000
2 Saggi sulla rivoluzione inglese del 1640, a cura di Christopher Hill,
pagg. 424, rilegato in tutta tela, L. 5.000
3 Millar Burrrows, Prima di Cristo. La scoperta dei rotoli del Mar Morto,
2“ ediz. pagg. 436, 8 tav. f. t., rilegato in tutta tela, L. 2.500
4 Franco Fortini, Dieci inverni (1947-1957). Contributi ad un discorso
socialista, pagg. 284, rilegato in tutta tela, L. 1.800
5 John Strachey, Il capitalismo contemporaneo, pagg. 324, rilegato in tut­
ta tela, L. 2.000
6 Lelio Basso, Il Principe senza scettro. Democrazia e sovranità popolare
nella Costituzione e nella realtà italiana, pagg. 324, 8 tav. f. t. rilegato
in tutta tela, L. 2.000
7 Mihaly Karólyi, Memorie di un Patriota. Dalla aristocrazia austroun­
garica al processo Rajk, prefazione di Catherine Karolyi, pagg. 400, 12
tav. f. t., rilegato in tutta tela, L. 2.500
8 J. C. Furnas, Addio, zio Tom. Mito e realtà della schiavitù in America,
pagg. 408, 13 ili., io tav. f. t., rilegato in tutta tela, L. 2.300
9 Jurgen Thorwald, Il secolo della chirurgia, pagg. 416, 25 ili. nel testo
e 44 f. t., rilegato in tutta tela, L. 3.000
io Joseph Campbell, L ’eroe dai mille volti, pagg. 400, 21 ili. nel testo, 24
f. t., rilegato in tutta tela, L. 3.000
ri René Grousset, Storia dell’arte e della civiltà cinese, 32 litografie a colo­
ri, 80 tavole in bianco e nero, pagg. 336, rilegato in tutta tela, confezio­
nato in cofanetto, L. 6.000.
\

12 C. Wright Mills, La élite del potere, pagg. 436, rilegato in tutta tela,
L. 3.000
13 Ernesto de Martino, Sud e magia, pagg. 208, 16 tav. f. t., rilegato in tut­
ta tela, L. 2.000

521
14 Theodor W. Adorno, Dissonanze, a cura di Giacomo Manzoni, pagg.
XXII-228, rilegato in tutta tela, L. 1.500
15 La città futura, Saggi sulla figura e il pensiero di Antonio Gramsci, a
cura di A. Caracciolo e G. Scalia, pagg. 392, rilegato in tutta tela L. 3.000

Finito di stampare il 12 Giugno 1919 nella Tip. La Stella Alpina in Novara

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