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OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

L’Occidente siamo noi


1. L’ OCCIDENTE HA PERSO LA BUSSOLA. DALLE ALTE PRO-
clamazioni sul «nuovo ordine mondiale» siamo precipitati, quasi senza ac-
corgercene, in un mondo caotico e insicuro: implosione degli imperi e degli
Stati plurinazionali, conseguente endogenesi spesso sanguinosa di staterelli
dall’incerto avvenire (dal 1990 ad oggi se ne contano una trentina in più),
guerre civili o meno che nessuno sembra in grado di spegnere, senso di insi-
curezza diffuso nel corpo sociale, protezionismo commerciale e persino cul-
turale, riscoperta di radici etniche vere o presunte, nazionalismi aggressivi e
xenofobi. Una risacca che batte le munite frontiere dell’Occidente e ne pene-
tra financo le democrazie più radicate.
Ne ha preso atto lo stesso Clinton, che con la «Direttiva presidenziale n.
25» ha sepolto le illusioni sulle Nazioni Unite come garanti dell’ordine mon-
diale, ha rinunciato al multilateralismo di facciata che dalla Bosnia alla So-
malia ha prodotto solo fallimenti, e ha riportato in onore la Realpolitik: gli
Stati Uniti non impiegheranno più i loro soldati in improbabili «missioni di
pace» dell’Onu, in cui ogni contingente si muove di fatto agli ordini del ri-
spettivo governo, ma cercheranno anzitutto un’intesa con i principali alleati
per rispondere alle minacce reputate effettivamente pericolose per la sicurez-
za nazionale. Il ripiegamento dell’ultima superpotenza globale assurge così a
dottrina.
L’etica geopolitica di moda nel primo biennio post-guerra fredda – che
ragionava, alla stregua del colonialismo ottocentesco, sulla più piccola scala
possibile, quella planetaria – è superata anzitutto nella coscienza delle so-
cietà occidentali (Giappone incluso, anche se la sua appartenenza al nostro
insieme geopolitico, una volta scontata per ragioni strategiche, oggi è revoca-
ta in dubbio fra gli stessi sudditi del tenno).
Un sondaggio effettuato dall’Istituto Emnid di Bielefeld all’inizio di que-
st’anno registra termini del disagio. L’82% dei tedeschi, l’85% dei britannici,
il 67% degli americani e il 66% dei giapponesi sono scontenti della situazio- 7
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ne mondiale. Il 42% dei tedeschi, il 27% dei giapponesi e il 26% dei britanni-
ci (contro, evidentemente, l’8% degli americani, che non hanno sperimenta-
to sul loro territorio gli orrori degli ultimi due conflitti mondiali) temono una
guerra. Ancora: solo il 33% dei giapponesi è favorevole a inviare truppe Onu
nelle aree «calde», mentre rifiuta di concedere fiducia all’America in quanto
gendarme del mondo e non vorrebbe essere implicato a sua insaputa in
un’impresa militare che non coinvolga direttamente gli interessi nipponici. Il
50% dei giapponesi e il 38% dei tedeschi («protetti» dalle formule giuridiche)
respingono la partecipazione delle loro forze armate a interventi all’estero.
Peggio: il 22% dei giapponesi (salgono al 34% fra i giovani dai 20 ai 29 an-
ni) crede che gli Stati Uniti potrebbero scatenare la prossima guerra mondia-
le. Contro lo «spirito del tempo» si schiera Samuel P. Huntington in un saggio
apparso l’estate scorsa su Foreign Affairs, «The Clash of Civilizations?», che ha
fatto molto rumore, in Occidente e altrove. Questo celebre scienziato della
politica, sorta di incrocio fra Pico della Mirandola e Hegel, mosso dal furioso
anelito di dominare intellettualmente il mondo, opera di fatto come i grandi
sapienti di fine Ottocento: la Storia, dal medioevo alla modernità, sarebbe
governata da Leggi generali di cui gli insiemi spaziali più o meno estesi costi-
tuirebbero il campo d’applicazione.
Qui Huntington convoca il concetto di civiltà. Esso ha per funzione, per
esempio, di stabilire la sintesi oppositiva «Giappone contro Occidente», data
una volta per tutte e nel disordine dei fatti linguistici, «etnici», religiosi. Inol-
tre, esso è deputato a spiegare, ad esempio, tutti i conflitti che hanno opposto
cristiani e musulmani nel corso dei secoli, dalla battaglia di Poitiers (732),
che Huntington sposta «logicamente» a Tours (che saranno mai cento kilome-
tri agli occhi del demiurgo?), alla guerra del Golfo. Infine, tale concetto è in-
caricato di inglobare allo stesso titolo tanto l’umma musulmana – dall’Indo-
nesia al Marocco – che il territorio dell’Unione indiana o ancora un focolaio
di crisi come la Bosnia. Insomma, il «pensiero-mondo» di Huntington è quel-
lo dei geografi politici del secolo scorso: ignora la complessità e si colloca riso-
lutamente agli antipodi della geopolitica. Non stupisce che questo testo abbia
riscosso successo in certi ambienti. Giacché esso conforta ideologicamente co-
loro che sognano un Occidente-bastione, solidamente protetto da un immen-
so limes contro le aggressioni militari, commerciali o migratorie. In tale ...
trovano posto, al più, alcune marche di ... in via di occidentalizzazione –
improbabile secondo il loro stesso punto di vista – come il Messico, oppure de-
gli empori-rifugio nel bel mezzo di un ambiente ostile, tipo Singapore. La
guerra prima della guerra, dunque. O meglio: the West versus the Rest.

2. Esaminiamo questa ideologia sullo sfondo di alcuni casi concreti. An-


zitutto, la Germania. Il sondaggio sopra citato conferma che la fiducia degli
altri «occidentali» rispetto alla Germania resta limitata. Il 64% degli america-
8 ni, il 57% dei giapponesi e solo il 47% dei britannici (italiani, francesi ed al-
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tri europei non sono consultati) si mostrano fiduciosi verso i tedeschi. Ciò ri-
vela come il trauma del 1939-’45 travagli tuttora in profondità le nostre me-
morie collettive. È d’altronde questa la ragione del revival della teoria del ca-
rattere nazionale (Volkerpsychologie), ossia della pseudo-analisi delle na-
zioni in quanto espressione di caratteri peculiari, metastorici (genetici?). Ne
sono recente testimonianza, a proposito di Germania, le interviste di Marga-
ret Thatcher sulla riunificazione tedesca, impregnate di germanofobia.
E tuttavia, i fatti sono testardi. Al tempo dell’unificazione, molti tedeschi
hanno chiaramente percepito la forte reticenza dei loro alleati francesi e bri-
tannici – molto meno, è vero, nel caso degli americani – quando pure i trat-
tati del 1952-’54 con la RfG impegnavano formalmente i vincitori occidenta-
li a sostenere senza riserve l’unità della Germania. Non stupisce quindi che
una parte oggi minoritaria del popolo tedesco, spesso iperconservatori o estre-
misti di sinistra, ponga ormai il problema dell’appartenenza della RfG a un
qualsiasi blocco. Secondo costoro, la professione di fede occidentale imposta
dopo la guerra alla Germania di Bonn – riabilitata dal renano Adenauer
perché trasformata in avamposto dell’Ovest – dopo la scomparsa dell’Est non
ha più ragion d’essere. Essi reclamano per la loro nazione ritrovata un di-
battito esplicitamente geopolitico volto a definire gli interessi nazionali. È il
caso della discussione su «What’s right?», lanciata dalla Frankfurter Allgemei-
ne Zeitung, il più conosciuto quotidiano tedesco.
Chi fuori della Germania vuole interrogarsi sull’Occidente deve dunque
accettare che questa discussione si sviluppi anche fra i tedeschi. Tale elabora-
zione è per ora essenzialmente confinata entro un’ideologia neoconservatri-
ce che non esprime nulla di nuovo. Ma non interrogarne geopoliticamente i
protagonisti, non portarli a esplicitare i propri progetti, significherebbe favo-
rire e subire l’emergere discreto ma sempre più influente, in Germania, di
un’altra geopolitica.

3. La crisi del Golfo nel 1990-’91 si rivela probabilmente per l’Occidente


una straordinaria preuve par la guerre. D’un lato la performance tecnologi-
ca, dunque eminentemente mediatica: il conflitto allo stato puro come lo so-
gnavano Rommel e Montgomery nel deserto della Cirenaica, nel 1942.
Dall’altro, la fabbricazione da parte degli alleati, arabi inclusi, a supporto
dei fatti d’arme, di un altro mondo in Oriente, nel quale ormai circola ad
alta voce un dibattito di ampio raggio sul concetto d’Occidente e sulla sua le-
gittimità.
Certo Saddam Hussein aveva ottenuto un sostegno finanziario dal
Kuwait e dagli Emirati del Golfo durante la guerra con l’Iran, tra il 1980 e il
1988. E voleva ottenere ben più che le isole di Waubah e di Bubiyan (attri-
buite al Kuwait nel 1913) o l’ampliamento dei suoi 50 kilometri di coste pa-
ludose (dieci volte meno del Kuwait), o ancora la fine del pompaggio, abusi-
vo secondo Baghdad, del giacimento di Rumaila – a cavallo della frontiera – 9
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da parte dei kuwaitiani. Baghdad avrebbe conquistato il terzo posto nella


graduatoria mondiale dei produttori di petrolio – 135 milioni di barili per
addizione con le risorse kuwaitiane – e insieme la leadership nel mondo
arabo. Ora, secondo molti arabi, l’argomentazione va rovesciata. Anzitutto
perché il tracciato della frontiera del 1921 tra Iraq e Kuwait – rispettivamen-
te mandato e protettorato britannico – con giacimenti petroliferi nei territori
contestati, manterrà in seguito un carattere alquanto impreciso. Inoltre, i 16
milioni di iracheni, sostenuti in ciò da una parte notevole dell’opinione pub-
blica araba, mal tolleravano il divario economico tra il loro paese e il
Kuwait scarsamente popolato, un tempo ricompreso nella provincia ottoma-
na di Al Basrah (oggi nell’Iraq meridionale), e soprattutto arretrato. Il reddi-
to pro capite dell’Iraq era infatti cinque volte più basso di quello kuwaitiano.
Infine, secondo questa concezione il Kuwait si riduceva a un gadget colo-
niale indipendente dal 1961. Eppoi, forse che l’Occidente non aveva potente-
mente armato l’Iraq nella sua guerra contro l’Iran, considerato allora il ne-
mico numero uno? E Washington non aveva coperto l’uso delle armi chimi-
che e l’acquisto di tecnologie sensibili da parte di Baghdad, che certo non ri-
spettava i diritti dell’uomo?
Agli occhi di molti arabi la guerra del Golfo è stata dunque un pretesto
ideale per intervenire contro il paese arabo meglio armato ed evitare un fu-
turo aumento del prezzo del petrolio. Più precisamente, l’intervento occiden-
tale ha mediatizzato geopoliticamente il mondo arabo contro l’Occidente.
Vediamo come.
Primo: la guerra del Golfo ha scatenato un furibondo dibattito fra gli
islamisti. I quali erano inizialmente ostili all’ateo Iraq. Ciò spiega perché ad
esempio i Fratelli musulmani egiziani abbiano atteso il 22 gennaio 1991 per
esigere la ritirata delle forze armate del loro paese dal Golfo – senza dimenti-
care il pessimo trattamento subìto dagli operai egiziani in Iraq. Ma la «con-
versione» di Saddam e l’ostentata ricchezza dei kuwaitiani hanno contribui-
to a indurre gli islamisti anti-Mubarak a cambiare campo.
Stessa sequenza in Tunisia, con il movimento Ennahda (Stato d’assedio)
che ha dapprima esitato per poi reagire in modo disordinato. Quante più
bombe cadevano su Baghdad tanto più si formava fra gli islamisti tunisini
una solida maggioranza a favore dell’Iraq. Quanto all’Algeria, il Fis, dappri-
ma equidistante, condannava a un tempo l’invasione del Kuwait e l’inter-
vento alleato così vicino ai Luoghi Santi dell’islam, proponendosi addirittura
come mediatore; poi, malgrado la lunga esitazione del suo parlamento, si
schierava a fianco di Saddam Hussein. Il Fis doveva limitarsi a mobilitare
80-100 mila manifestanti ad Algeri, il 31 gennaio 1991, ma in tal modo
provava che non lo si poteva screditare.
La guerra del Golfo ha rafforzato i movimenti islamisti. Dal loro punto
di vista, si è passati rapidamente da uno scontro Iraq/Kuwait a una crisi
10 Oriente/Occidente.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

Secondo: il caso del Marocco, pur alleato dell’Occidente, è esemplare. In-


fatti il 3 febbraio 1991 il re arrivava financo ad autorizzare una grande
manifestazione per il ritiro del contingente marocchino – canalizzando così
il movimento popolare filo-iracheno, comprendente la maggioranza e quasi
tutta l’opposizione – sfociata in un plebiscito per Saddam Hussein. Qui la
guerra del Golfo ha rilevato la fragilità relativa di un regime diviso fra la so-
lidarietà monarchica con gli Stati del Golfo e le pressioni americane, d’un
lato, e il nazionalismo arabo, incarnato dall’Iraq, di una popolazione pur
in buona parte berbera, dall’altro. Sicché l’immagine di un Marocco vicino
all’Europa e all’Occidente non ha più la limpidezza d’un tempo.
Terzo: osserviamo l’atteggiamento della Turchia, che certamente si au-
gurava di frenare l’ascesa dell’Iraq come potenza strategica e petrolifera.
Membro della Nato, Ankara chiudeva l’oleodotto iracheno il 7 agosto 1990 e
imponeva l’embargo totale all’Iraq (risoluzione n. 661 del Consiglio di sicu-
rezza), autorizzava lo stazionamento dei caccia americani F-16 e F-111,
partecipava all’applicazione del blocco (risoluzione n. 665), ma non s’impe-
gnava militarmente, nemmeno sul territorio dell’Arabia Saudita e malgrado
la presenza di otto divisioni irachene alla sua frontiera. Dunque il governo
turco desiderava che gli alleati gli togliessero di torno la potenza militare ira-
chena, ma badava di non farsi trascinare in un’impresa occidentale larga-
mente impopolare in Turchia.
Per riassumere: la guerra del Golfo ha potuto certo essere inizialmente la
guerra degli arabi e dei musulmani, ma è poi diventata la guerra dell’Occi-
dente. Al quale spetta ora di ripensare questo evento – autentica cesura geo-
politica nei suoi rapporti con il mondo arabo – in tutta la sua complessità.

4. Infine l’Italia. Per la prima volta in questo dopoguerra abbiamo seri


problemi con l’Occidente. La stampa americana ed europea, dal New York
Times a Le Monde, dallo Spiegel all’Economist, dipinge l’Italia come un pae-
se infiltrato dai neofascisti, sul punto di trasformasi nella Grecia del colon-
nelli. In termini geopolitici, la penisola starebbe perdendo il suo ancoraggio
occidentale. Questa rappresentazione del nostro paese rivela quanto meno
una notevole mancanza di senso della misura e una sfiducia latente nella
nostra democrazia repubblicana. L’Italia non è affatto alla vigilia di un
nuovo ventennio nero. Perché allora lasciarsi andare a manicheismi e de-
monizzazioni che fra l’altro finiscono sempre per favorire gli estremisti?
Resta il fatto che la cooptazione di alcuni ministri di Alleanza nazionale
nel governo Berlusconi ha prodotto un danno d’immagine sulle cui cause
occorre indagare. Non si tratta della malevolenza di alcuni giornalisti o di
«lobby ebraiche», come con scarsa eleganza si obietta dall’interno della nuo-
va maggioranza. C’è molto di più: il prestigio internazionale dell’Italia è al
suo minimo storico. È difficile spiegare con la pura indignazione antifascista
il monito senza precedenti dell’europarlamento contro il nuovo governo ita- 11
L’OCCIDENTE SIAMO NOI

liano, quasi la sanzione di un protettorato ideologico dei Dodici nei con-


fronti di un membro fondatore dell’Unione. Esso getta luce, poi, su analoghi
episodi, come la cancellazione della vicepresidenza italiana della Banca eu-
ropea per la ricostruzione e lo sviluppo, o l’esclusione del nostro ministro de-
gli Esteri dal «gruppo di contatto» fra Usa, Russia ed Ue sulla Jugoslavia. D’ac-
cordo, l’Italia non fa oggi parte della trojka europea, ma è forse meno interes-
sata del Belgio alla soluzione di un conflitto che divampa alle porte di casa
nostra? Siamo proprio costretti ad impiccarci al bon ton bruxellese, anche
quando rasenta l’assurdo?
Certo, siamo noi stessi largamente responsabili del nostro declassamento.
L’europeismo della domenica, la carenza di continuità e di affidabilità della
nostra politica estera – cui si sono recentemente sommate, all’opposto, farne-
ticazioni sull’eventuale annessione di Istria e Dalmazia – il rifuggire dalle
responsabilità che ci derivano dalla nostra collocazione geopolitica, alla
frontiera con la balcanizzazione, e dal nostro rango di potenza economico-
commerciale: tutto ciò ha riportato in auge, persino fra i nostri migliori ami-
ci, i cliché sul «carattere nazionale» italiano. A parità di condizioni, ma i
parlamentari europei avrebbero messo in mora un governo di qualsiasi altro
paese comunitario – salvo forse la Grecia. È che ormai, dopo Tangentopoli (a
proposito di cui i novelli Savonarola trascurano che quel sistema era alla
fonte della costituzione materiale dell’Occidente tutto) e dopo la vittoria di
Berlusconi e Fini, agli occhi dell’Occidente siamo tornati l’Italietta dei furbi e
degli scrocconi. Con in più una vena secessionista (Lega) e fascisteggiante
(An) che allarma i nostri partner alle prese con autonomismi sempre più vi-
rulenti (Spagna, Inghilterra, Francia) e con il risveglio dell’estrema destra
(Germania, Francia, Olanda, Belgio).
Riconquistare la dignità e la funzione che all’Italia spettano in Europa e
nell’Alleanza atlantica è per noi la prima priorità. È un compito che non
possiamo delegare alla benevolenza altrui. Spetta solo a noi, convinti che
l’Occidente serve all’Italia, dimostrare che anche l’Italia serve all’Occidente –
più che mai. Per un paese che ha elaborato tanta parte dei valori e delle vi-
sioni che hanno fatto l’orgoglio delle democrazie occidentali, mancare a
questo compito significherebbe – allora si – la regressione verso quell’avven-
turismo autarchico cui dobbiamo troppo recenti sventure.

5. I tre casi esaminati – Germania, guerra del Golfo, Italia – ci ricorda-


no che l’Occidente è un bene fragile, costruito su un plebiscito di tutti i gior-
ni. Ciò è tanto più vero dopo il crollo del blocco sovietico, il Nemico che esige-
va strategicamente l’unità delle democrazie liberali. Il suicidio geopolitico
dell’Est mette in causa le radici costitutive del nostro mondo e ci obbliga a ri-
conquistare, con un doloroso travaglio geopolitico, le ragioni della nostra
scelta occidentale.
12
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

GLI ARABI E L’OVEST:


METTETE IN SOFFITTA
LE CROCIATE di Abdennour BENANTAR
L’Occidente mantiene un approccio colonialista verso il mondo
arabo. Le teorie arabe del complotto occidentale. La guerra
del Kuwait come scontro di civiltà. Il Mediterraneo: frontiera
o crocevia?

L’Oriente è l’Oriente,
e l’Occidente è l’Occidente,
e i due non si incontreranno mai»
Rudyard Kipling

«Oriente, Occidente, non sono due lingue differenti, ma


due idiomi di un universo che occorre
condividere, due idiomi dotati ognuno di una propria
ragione di essere e di una propria struttura, e che
potrebbero rivelarsi complementari nei loro messaggi se ci
si sforzasse di comprendersi al di là delle differenze,
all’interno delle differenze
René Habachi

A L-GHARB, L’OCCIDENTE. È UN CON-


cetto che ricorre molto frequentemente nella letteratura arabo-islamica, so-
prattutto nei testi che esaminano il rapporto con l’altro, ma in questo tipo di
letteratura è anche il concetto più ambiguo. Parlare di al-gharb significa che
vi è un al-sharq (l’Oriente). Da ciò deriva la prima fonte di confusione con-
cettuale del binomio Occidente-Oriente, poiché è ad esso insito un proble-
ma di delimitazione e di rappresentazione. Una seconda fonte di problemi è
poi rappresentata dall’interferenza tra epistemologico e ideologico che si
crea nella letteratura che si occupa dell’Occidente.
La comprensione di se stessi passa attraverso l’altro, la percezione
dell’altro è condizionata dalla percezione di se stessi. È partendo da questa
logica che si innesca un processo di reciproca percezione tra Occidente e
Oriente. È questo il motivo per cui la nostra analisi non può limitarsi alla di-
mensione unidirezionale dell’«Occidente visto dal mondo arabo-islamico»,
ma deve procedere secondo una duplice logica.
Quando esaminiamo la ricchissima letteratura arabo-islamica che verte 15
GLI ARABI E L’OVEST: METTETE IN SOFFITTA LE CROCIATE

sul rapporto con l’altro notiamo che esiste un’ambiguità relativa alla defini-
zione del concetto di Occidente, e, di conseguenza, una diversità di opinioni
sulle prospettive di questo rapporto. È questo il motivo per cui non è facile
definire esattamente le differenti posizioni arabo-islamiche nei confronti
dell’Occidente. Pur avendo il concetto di Occidente una forte connotazione
geografica, in quegli scritti esso perde sempre più questo significato. Di fatto,
esso finisce per essere completamente marginalizzato, se non ignorato, per
essere sostituito da altre dimensioni, politiche, economiche, religiose o, in
ogni caso, riferite all’aspetto culturale. L’evoluzione storica dell’Occidente ha,
a suo modo, contribuito a questa messa in disparte del fattore geografico.
Intendiamo come Occidente l’insieme geopolitico che va dall’America del
Nord sino alla Russia passando attraverso l’Europa. Il che coincide con la for-
mula occidentale: «Da Vancouver fino a Vladivostok», o con l’espressione usata
dall’ex presidente americano Richard Nixon: «Dalla California alla Kamcatka».
Una definizione che non include il Giappone, perché essenzialmente ba-
sata sul fattore di comune appartenenza alla stessa civiltà. L’America Latina
può considerarsi integrata all’Occidente anche se, dato che l’Occidente corri-
sponde grosso modo all’emisfero nord, non ne fa propriamente parte. Riguar-
do all’Oriente, sarebbe invece meglio sostituire questa definizione con quella
di mondo arabo-islamico. Quando in questo articolo ci riferiamo all’Oriente
intendiamo l’Oriente arabo-islamico in contrapposizione all’Occidente euroa-
mericano. Da un punto di vista generale, l’Occidente e il mondo arabo-islami-
co sono intesi come due blocchi geopolitici i cui interessi sono conflittuali.

Molteplici rappresentazioni dell’Occidente


L’evoluzione del rapporto Occidente/Oriente (colonizzatore/colonizza-
to; sviluppo/sottosviluppo; dominatore/dominato) ha generato in Oriente
una serie di diverse rappresentazioni dell’Ovest. René Habachi ha chiara-
mente dato una definizione di tale rappresentazione multidimensionale
dell’Occidente da parte arabo-islamica: «Il problema presuppone un concetto
di Occidente che presenta varie configurazioni. Occorre dare una spiegazio-
ne. Vi è prima di tutto un Occidente in ciascuno di noi, quindi anche
nell’Oriente arabo, e che preme sulle nostre coscienze per potersi realizzare.
Vi è anche nell’Occidente, nei nostri confronti, un Occidente virtuale, straor-
dinariamente capace di dialogo se riscoprisse la sua più profonda autenticità.
Vi è infine l’Occidente attuale, straricco di forza e di capacità tecnologica, i
cui sconvolgimenti creano in noi ben più che qualche apprensione. Questi
tre volti dell’Occidente, non sono tra di loro estranei, come non lo sono per
l’Oriente che noi rappresentiamo. Noi rifiutiamo la violenza insita al suo ter-
zo aspetto, in quanto in esso si materializza l’immagine dell’Occidente del ri-
fiuto e del disprezzo. E andando anche oltre le aspirazioni a quel citato Occi-
dente virtuale, ci auguriamo un Occidente che si riallacci alla parte migliore
16 della sua storia, affinché le risorse del suo genio, che reca in sé il seme della
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

libertà e dell’intelligenza, ci spronino a recuperare le nostre. In rapporto a


questo Occidente della speranza, noi ci definiamo l’Oriente in attesa» (1). Co-
me potremo vedere, questo Occidente dai molteplici volti ha fortemente
condizionato i modi di interpretare l’Occidente da parte degli arabo-islamici.
Il modo occidentale è geograficamente vicino, ma culturalmente lontano.
Una situazione molto chiaramente espressa da Khader quando, parlando del
mondo arabo e dell’Europa (avamposti del contatto Occidente-Oriente), sot-
tolinea che il mondo arabo è la differenza ravvicinata dell’Europa e che
questa rappresenta il riferimento ravvicinato del mondo arabo (2).

Dall’Occidente cristiano all’Occidente ebraico-cristiano


Nella rappresentazione religiosa dell’Occidente si parla di solito di al-
gharb al-masihi (Occidente cristiano). Oggi si fa spesso ricorso al concetto
di al-gharb al-yahudi-al-masihi (Occidente ebraico-cristiano) e di civiltà
ebraico-cristiana, in Occidente come in Oriente. E in Oriente, gli islamisti si
servono frequentemente del concetto di Occidente ebraico-cristiano.
Concetto, per altro, molto criticato da alcuni autori arabi. Secondo Ha-
madi Essid, i cristiani considerano gli ebrei responsabili dell’uccisione di Ge-
sù Cristo. E l’ebraismo non può accettare il cristianesimo, per considerazioni
che talvolta coincidono con quelle dell’islam, soprattutto perché rifiuta il
principio teologico della Trinità. L’ebraismo come religione originaria non
ammette le due religioni da esso derivate. Solamente l’islam accoglie il mes-
saggio di Mosè e quello di Cristo. Essid osserva che l’uso del concetto di Oc-
cidente ebraico-cristiano è recente, adottato soltanto da pochi anni, prece-
dentemente si parlava soltanto di Occidente cristiano (3).
La discussione tra Occidente cristiano e Occidente ebraico-cristiano è
ancora aperta, tuttavia il problema è stato riproposto dall’accordo tra Vatica-
no e Israele del 30 dicembre 1993 che ha rafforzato questa seconda ipotesi.
Nel mondo arabo-islamico si parla oggi di un collegamento o meglio, di una
alleanza, ebraico-cristiana in Africa e in Medio Oriente stretta con il pretesto
di difendere le minoranze, ma il cui vero obiettivo sono gli altri, le maggio-
ranze musulmane. E i movimenti islamici offrono valide giustificazioni per
rafforzare l’esistenza di queste manovre (4). I motivi per cui gli arabi e i mu-
sulmani guardano con diffidenza a questo accordo sono molteplici, non ulti-
mo il fatto che esso è stato firmato a Gerusalemme, fatto interpretato come
un implicito riconoscimento da parte del Vaticano di questa città quale capi-
tale di Israele.

Le rappresentazioni arabo-islamiche: islamici e islamisti


La concezione islamica dell’Occidente è essenzialmente a base religiosa:
l’Oriente è islamico e l’Occidente è cristiano. È questo il motivo per cui il 17
GLI ARABI E L’OVEST: METTETE IN SOFFITTA LE CROCIATE

mondo arabo-islamico è sempre stato l’obiettivo dei propositi aggressivi


dell’Occidente contro i paesi dell’islam. Propositi aggressivi che si sono ma-
nifestati nelle Crociate, o nel processo di colonizzazione, durante il quale un
importantissimo ruolo è stato svolto proprio dai missionari. Si aggiunga poi il
continuo appoggio dato dai paesi occidentali a Israele. I fautori dell’interpre-
tazione religiosa insistono sulla necessità di confrontarsi con la potenza
dell’Occidente «diabolico» mediante il jihad religioso (5). Tale interpretazio-
ne è sostenuta dalla corrente salafita che insiste in particolare sulla necessità
di tutelare il patrimonio islamico dal tentativo di distruzione operato dall’Oc-
cidente. La rappresentazione islamica dell’Occidente è determinata integral-
mente dal continuo confronto tra Oriente e Occidente nel corso della storia:
le Crociate, la colonizzazione, il conflitto arabo-israeliano… Oggi a confer-
mare una lettura in questo senso, sono la tragedia bosniaca e il tentativo oc-
cidentale di imporre la propria visione sulla questione dei diritti dell’uomo.
Questo modo di interpretare l’Occidente è in realtà una reazione alla
rappresentazione che ha l’Occidente dell’islam, e insieme una reazione alla
tendenza occidentale a rifiutare, se non a negare, i progressi compiuti dai
musulmani. È in questa logica che possiamo interpretare il fenomeno della
latinizzazione dei nomi arabi. Molti nomi arabi sono stati infatti latinizzati:
Ibn Rushd è diventato Averroè, Ibn Sina è diventato Avicenna, Abu Mashar è
diventato Albumasar. Nemmeno il profeta Muhammad si è sottratto a questa
logica, infatti si dice Mahomet in francese e Maometto in italiano.
La concezione islamica dell’Occidente non fa distinzione tra l’Est e l’Ove-
st della guerra fredda, anzi considera tale distinzione ideologica quanto fuor-
viante. Inoltre il marxismo non è che un prodotto occidentale, nato al punto
di confluenza tra filosofia tedesca, socialismo francese e scienza economica
inglese.
La concezione islamica costituisce in realtà il nucleo centrale della con-
cezione islamista, ma le abbiamo volute distinguere fra loro per due motivi:
in primo luogo, il fatto che la politica e lo Stato siano centrali nel programma
islamista fa sì che questo si trovi in diretto confronto con l’Occidente in
quanto entità politica. Gli islamisti sono un pericolo per la legittimità (6).
L’Occidente secondo la concezione islamista comprende entrambi i gruppi
di paesi appartenenti agli ex blocchi della guerra fredda (7). Nella concezio-
ne islamista, l’Occidente appare spesso come segnato dalle molteplici carat-
teristiche. E, in realtà, nessuna delle concezioni arabo-islamiche dell’Occi-
dente sfugge a questa logica. Nella rappresentazione islamista, distinguiamo
quattro caratteristiche: l’Occidente come modo di vita; l’Occidente delle Cro-
ciate, l’Occidente colonialista e l’Occidente tecnologico. Ma, mentre gli isla-
misti accettano quest’ultimo aspetto, rifiutano categoricamente gli altri tre. E
Crociate e colonialismo sono costantemente usati quali sinonimo di Occi-
dente.
Ritroviamo frequentemente questa immagine dell’«Occidente multifor-
me» negli scritti del movimento dei Fratelli musulmani, soprattutto nelle ope-
18 re di Hasan al-Banna e di Sayyed Qotb (8). Per quanto riguarda l’Occidente
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

delle Crociate e l’Occidente colonialista, si possono cogliere alcune contrad-


dizioni nel pensiero degli islamisti. In alcuni casi, viene denunciata la laicità
e l’ateismo dell’Occidente, in altri si insiste sull’Occidente delle Crociate,
quindi sull’aspetto religioso. Si tratta in realtà di una contraddizione dovuta al
complesso e ambiguo rapporto esistente in Occidente tra Stato e Chiesa.
All’epoca del colonialismo c’è stata una reciproca strumentalizzazione tra la
Chiesa e l’ideologia colonialista. E nei confronti di Stati ormai indipendenti,
l’Occidente si serve strumentalmente dell’elemento religioso, soprattutto nei
confronti dei paesi islamici. Del resto anche la laicità dell’Occidente è molto
relativa, in quanto il potere continua a conservare il suo contenuto religioso.
Il pellegrinaggio del presidente francese Mitterand al Panthéon non sembra
affatto un comportamento laico. Si pensi anche alla frase pronunciata dal
presidente americano Bush dopo la liberazione del Kuwait: «Dio benedica gli
Stati Uniti d’America». Si può da questo valutare la reale distanza esistente tra
componente religiosa e componente laica, e quale peso abbia la Chiesa nella
società americana. Si tratta di una situazione che trova conferma nei dati sta-
tistici: nel 1979, i libri a tema religioso hanno rappresentato oltre un terzo
della totalità dei libri venduti negli Stati Uniti. Nel 1984, sono stati venduti li-
bri di argomento religioso per un valore di un milione di dollari a 37 milioni
di acquirenti (9). D’altra parte, non a caso le più prestigiose università degli
Stati Uniti, Harvard e Yale, sono state fondate, rispettivamente nel 1636 e nel
1710, ad opera della Chiesa. Né possiamo parimenti dimenticare il ruolo avu-
to dalla «diplomazia religiosa» del Vaticano in diversi momenti di crisi mon-
diale. E in una certa misura al-Banna non sbagliava nell’affermare che «l’Eu-
ropa moderna è vaticana».
A proposito della Palestina, gli islamisti ricorrono costantemente all’idea
di un complotto ebraico-cristiano contro l’Islam.

I panarabisti
L’idea centrale sulla quale si articola la concezione dei panarabisti o na-
zionalisti arabi al-qawmiyyun al-arab è quella del complotto occidentale
contro la nazione araba. Un’idea che ricorre frequentemente nella loro lette-
ratura. Anche se i nazionalisti arabi non escludono il fattore religioso, questo
non vi assume un peso preponderante. Ma il concetto panarabista di Occi-
dente che cosa include?
Al pari delle rappresentazioni di cui abbiamo precedentemente parlato,
la concezione panarabista è complessa e totalizzante. I nazionalisti arabi as-
sociano infatti la Russia all’Occidente e considerano i due ex blocchi ideolo-
gici (Est e Ovest) come un’unica entità: l’Occidente. D’altra parte, per la pri-
ma volta nella storia si constata l’esistenza di un Occidente unito contro il re-
sto del mondo (10). E in effetti i due ex blocchi ideologici sono avvertiti co-
me due fronti di un unico blocco (11). Il fatto che la Russia faccia parte
dell’Occidente non è una conseguenza diretta della guerra del Golfo e del 19
GLI ARABI E L’OVEST: METTETE IN SOFFITTA LE CROCIATE

crollo del comunismo, poiché i nazionalisti arabi insistono sulla componente


storica per dimostrare l’esistenza di un’alleanza occidentale malgrado le con-
traddizioni ideologiche.
Per quanto riguarda il Giappone, i nazionalisti arabi non lo considerano
parte dell’Occidente dal punto di vista culturale, ma integrato sotto il profilo
economico. Per indicare l’Occidente utilizzano nozioni diverse, che hanno
differenti significati: il blocco occidentale industrializzato; l’Occidente indu-
strializzato; l’Occidente colonizzatore. Per Occidente industrializzato si in-
tende spesso il Nord industriale. Quindi le loro analisi spaziano frequente-
mente lungo la dimensione Nord-Sud. Il ricorso all’idea di blocco industriale
occidentale consente loro di integrare il Giappone all’Occidente.
Va ricordato che il concetto di Occidente nella letteratura araba è soven-
te usato per indicare le antiche potenze occidentali più gli Stati Uniti, che co-
stituiscono il nucleo compatto dell’attuale Occidente.
Il colonialismo quindi è presentato come sinonimo di Occidente.
Va detto che, malgrado questa tendenza a uniformare le diverse realtà
occidentali, i nazionalisti arabi si riferiscono frequentemente alle contraddi-
zioni dell’Occidente. Per questo motivo, all’interno di esso, fanno una distin-
zione tra paesi del blocco occidentale classico (Stati Uniti, Gran Bretagna,
Francia eccetera) e paesi tecnologicamente e scientificamente all’avanguar-
dia (Germania e Giappone).
Nella letteratura nazionalista araba trova largo spazio la teoria del com-
plotto occidentale (imperialista). Secondo gli autori di questi testi, il complot-
to occidentale ha avuto inizio con il congresso di Campell Bennermann
(1905-1907) in Inghilterra e, attraverso gli accordi Sykes-Picot (1916), la di-
chiarazione Balfour (1917), la fondazione dello Stato di Israele (1948), l’ag-
gressione tripartita contro l’Egitto (1956), le guerre arabo-israeliane, l’invasio-
ne del Libano del 1982, è proseguito sino ai giorni nostri con la distruzione
dell’Iraq (12). L’ostilità storica dell’Occidente nei confronti del mondo arabo,
proseguono i nazionalisti, è causata dalla posizione strategica da questi occu-
pata, dalla sua ricchezza petrolifera, dall’esistenza di Israele e infine dalle ag-
gressioni storiche occidentali ai danni dell’islam. Occorre notare che, dopo la
distruzione dell’Iraq, il fattore islamico assume sempre maggiore rilievo nella
letteratura nazionalista (qawmiya). Parallelamente all’immagine del complot-
to va emergendo in questi scritti un atteggiamento autocritico. E molti nazio-
nalisti arabi interpretano l’insistenza riguardo al complotto occidentale come
un tentativo di giustificazione del proprio fallimento da parte delle élite politi-
che arabe (13).

La concezione basata sul fattore civiltà


Fra le varie rappresentazione arabe dell’Occidente, vi è poi quella che
pone l’accento sul fattore civiltà. Secondo questa interpretazione, la religione
20 è una delle tante componenti, mentre l’aspetto principale si coglie nel com-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

plesso di superiorità dal punto di vista della civiltà che l’Occidente nutre nei
confronti dell’Oriente. È questo il motivo per cui l’Occidente è considerato
come una fonte permanente di pericolo. Tale complesso di superiorità sul
piano della civiltà trova larghissimo spazio nella letteratura orientale. Come
osserva Edward Said, «in modo costante, la strategia orientale deve fare i
conti con la superiorità che permea, anche se non rigidamente, ogni genere
di rapporto fra esso e l’Oriente» (14). Al complesso di superiorità occidentale
corrisponde un complesso di inferiorità orientale. Come nota Habachi, «l’Oc-
cidente è ormai prigioniero del suo complesso di superiorità e noi, obbligati
dalle scelte politiche del XIX secolo, la mai risolta Questione d’Oriente, e
dalla globalizzazione dell’universo, a vivere a contatto con esso, diventiamo
preda del nostro complesso di inferiorità» (15).
La chiave di lettura basata sul livello di civilizzazione tende ad accomu-
nare la Russia al mondo occidentale. «Il complesso di superiorità – scrive an-
cora Habachi – è comune all’Est quanto all’Ovest. (…) Ad Est come ad Ove-
st, vicini o lontani, si scivola nello spirito colonialista. (…) La cultura russa
presenta un aspetto comune con quella occidentale: il trionfo della tecnica.
Sputnik e Pioneer si muovono sul cielo sopra di noi per ricordarci che la
scienza dell’Est e dell’Ovest ha prodotto nuovi pianeti che simboleggiano la
frontiera che li separa dalla nostra incapacità produttiva» (16).
Si deve riconoscere che il fattore religioso è presente anche in tutte que-
ste diverse rappresentazioni, sia pure con una maggiore enfasi in talune di
esse. Allo stesso modo, l’aspetto storico è un altro fattore che le condiziona
largamente.

Definizioni: Vicino Oriente, Medio Oriente ed Estremo Oriente


Il concetto di Near East (Vicino Oriente) veniva già usato all’inizio del
XV secolo, all’epoca delle scoperte. L’India e la Cina erano considerate come
Far East (Estremo Oriente) mentre il Near East indicava la regione del Medi-
terraneo orientale compresa tra il Far East e l’Europa. Ma l’idea di Vicino
Oriente è quasi scomparsa, sostituita da un altro concetto più ambiguo: quel-
lo di Middle East (Medio Oriente). Questa definizione è apparsa per la prima
volta, nel settembre 1902, in un articolo pubblicato a Londra da Alfred
Mahan dal titolo: Il Golfo persico e i rapporti internazionali. Tuttavia, Mahan
non ha definito i confini della regione così denominata. Nello stesso anno,
un giornalista del Times, Valentin Shirol, pubblicò una serie di articoli (otto-
bre 1902-aprile 1903) intitolati La questione medio-orientale, raccolti in se-
guito in volume dall’autore nel 1903. Fino alla prima guerra mondiale si di-
stinguevano tre insiemi geografici: Vicino Oriente, concentrato sull’impero
ottomano, Medio Oriente ad indicare la sola India, ed Estremo Oriente per la
Cina. Dopo la prima guerra mondiale la definizione di Medio Oriente venne
estesa ad indicare parte della regione del Vicino Oriente. E i termini Vicino
Oriente e Medio Oriente vennero utilizzati per indicare una stessa regione. 21
GLI ARABI E L’OVEST: METTETE IN SOFFITTA LE CROCIATE

La seconda guerra mondiale ha definitivamente imposto la definizione Me-


dio Oriente, e il ruolo assunto dagli Stati Uniti ha generalizzato l’utilizzazione
di questo concetto. Il problema consiste nel fatto che il termine Medio Orien-
te è estremamente ambiguo, poiché non possiamo chiaramente definire lo
spazio geografico così indicato né i paesi che ne fanno parte.
Tale ambiguità si manifesta anche negli scritti di specialisti del sistema
regionale vicino e medio orientale. Infatti alcuni specialisti escludono il Ma-
ghreb dal sistema vicino e medio orientale mentre altri lo considerano come
facente parte di esso. Nonostante la distinzione tra Stati-nucleo e Stati perife-
rici, il problema dell’identificazione di quali siano i componenti dell’area del
Vicino e Medio Oriente resta tra gli specialisti controverso (17). Oggi il con-
cetto di Vicino e Medio Oriente si è ampliato sino a comprendere le repub-
bliche islamiche nate dall’ex Unione Sovietica. Si parla anche di Mezzaluna
mediorientale. Una definizione usata anche dalla Berd (Banca europea per
la ricostruzione e lo sviluppo) nel rapporto del 1994 sullo sviluppo mondia-
le, dove le repubbliche islamiche ex sovietiche vengono presentate come fa-
centi parte dello spazio geografico della Mezzaluna mediorientale che com-
prende Israele, Turchia, Iran e mondo arabo!

La guerra del Golfo: la prima guerra di civiltà


«Nell’agosto 1990 si apre l’èra postcoloniale. Sin dall’inizio delle ostilità,
si configura la prima guerra di civiltà, di cui il conflitto del Golfo rappresen-
ta solo il primo episodio di un conflitto Nord-Sud, dominato d’ora in avanti
da considerazioni di ordine essenzialmente culturale» (18). Con queste paro-
le Mahdi Elmandjra riassume il significato della guerra del Golfo, da lui inter-
pretata come un conflitto tra civiltà o come una volontà egemonica della ci-
viltà ebraico-cristiana su tutte quelle civiltà che da essa differiscono.
Malgrado l’atteggiamento fortemente autocritico assunto dai commentatori
arabi nell’analizzare la guerra del Golfo, la lettura in chiave di scontro tra civiltà
ritorna con frequenza nelle loro tesi. Secondo Muhammad al-Mutawakkil, «esi-
ste una realtà, il conflitto in corso è parte di un conflitto tra due programmi: un
programma arabo-islamico che mira a realizzare l’evoluzione, il progresso,
l’unità e la libertà… l’emancipazione dalla dipendenza economica, politica e
culturale; e un programma occidentale-colonialista, americano e sionista che
mira a depredare la nostra terra, le nostre ricchezze, a distruggere la nostra
unità e ad aggravare la nostra condizione di dipendenza» (19). Burhan Ghaliun
parla di «confronto strategico nella regione araba», e osserva che «al concetto di
guerra si è in realtà sostituito il concetto di confronto strategico, che, al contra-
rio della guerra, è un processo lungo e durevole che non può essere risolto da
una vittoria militare. La guerra non può più essere circoscritta al solo paese che
la provoca o che vi prende parte, in quanto tutti i paesi che appartengono alla
stessa cultura e alla stessa civiltà vi sono coinvolti» (20).
22 È chiaro che gli arabi hanno vissuto la guerra del Golfo come un con-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

fronto con l’Occidente. Persino gli intellettuali francofoni del Maghreb, per
molto tempo considerati dai loro compatrioti come «la quinta colonna della
Francia», hanno assunto posizioni antioccidentali. Segno questo della lacera-
zione che questa guerra ha in loro prodotto. Dobbiamo quindi constatare
che, nelle analisi della guerra del Golfo, ha prevalso un’interpretazione basa-
ta sul binomio civiltà-identità.
Ma perché questa lettura del conflitto in chiave di scontro tra civiltà? Per
rispondere a questo interrogativo bisogna porsene un altro: che cosa rappre-
senta l’Iraq per gli arabi? Solo partendo dalla risposta che potremo dare a
questa domanda riusciremo a spiegare molti dei motivi che hanno portato a
questa lettura «culturale» della guerra del Golfo. Come pure i motivi della mo-
bilitazione delle masse arabe a favore dell’Iraq.
Come prima cosa, vi è la dimensione storica. L’Iraq è la culla delle più anti-
che civiltà succedutesi in Mesopotamia per oltre cinquemila anni. E questa cul-
la viene schiacciata dagli Stati Uniti d’America, la cui storia non supera i due
secoli! Baghdad, fondata 1300 anni or sono, è stata la prima città ad avere più
di un milione di abitanti. È stata poi la capitale islamica degli Abassidi, prima
dell’invasione barbarica dei mongoli. Quanto a Bassora, più antica di Bagh-
dad, era stata scelta dal califfo Omar come acquartieramento degli eserciti mu-
sulmani. In questa città era concentrata la Guardia repubblicana irachena du-
rante la guerra del Golfo (21). Quello che hanno inteso distruggere non era
soltanto l’Iraq ma la memoria storico-culturale degli arabi e dei musulmani.
L’altra dimensione riguarda l’Iraq moderno e le sue realizzazioni. Per le po-
polazioni arabe, ma anche per gli intellettuali, questa nazione rappresenta il
modello che gli altri paesi arabi devono seguire. Molti elementi hanno concorso
a costruire la rappresentazione che dell’Iraq hanno gli arabi, e ciò malgrado il
regime al potere a Baghdad. Ciò si può spiegare tenendo presente che il regime
non ha impedito all’Iraq di diventare una potenza relativamente importante; gli
altri regimi politici arabi poi non sono migliori, anzi in alcuni casi sono peggiori.
Per quanto riguarda gli elementi che hanno contribuito alla formazione
di questa rappresentazione araba dell’Iraq, possiamo così riassumerli:
• Sul piano militare, l’Iraq possiede una certa esperienza tecnologica nel
settore missilistico, il che rappresenta per gli arabi una sfida ad alto livello
nel campo della tecnica. L’Iraq è l’unico paese arabo ad aver lanciato (nel
1989) un missile nello spazio. Vi è una frase che viene spesso pronunciata
con una certa fierezza nel mondo arabo: «L’Iraq ha fatto entrare gli arabi
nell’èra dei missili e della ricerca spaziale». Dopo la guerra del Golfo, l’Agen-
zia internazionale per l’energia atomica ha scoperto che i programmi militari
iracheni, in particolare il programma nucleare, erano redatti in arabo. Anche
questo rappresenta per gli arabi un prezioso traguardo, in quanto la lingua
araba è stata comunemente ritenuta poco adatta al linguaggio tecnologico;
ma l’Iraq è riuscito a redigere un programma di tecnologia avanzata usando
proprio la lingua araba.
• Sul piano della ricerca scientifica e tecnologica, per quanto riguarda il
tipo di finanziamento della ricerca, l’Iraq rappresenta un caso a sé stante nel 23
GLI ARABI E L’OVEST: METTETE IN SOFFITTA LE CROCIATE

mondo arabo. Oltre il 90% delle spese per la ricerca scientifica proviene da
stanziamenti statali. Negli altri paesi arabi, invece, la ricerca è finanziata da
quattro istituzioni straniere, tutte americane (22). Un confronto che ci con-
sente di valutare il livello di autonomia dell’orientamento della ricerca scien-
tifica in Iraq. Sempre in Iraq si registra il più basso tasso di analfabetismo del
mondo arabo: 11% totale (12% tra le donne). In Arabia Saudita esso è pari al
49%, in Egitto al 56%, in Algeria al 50% (23). Per quanto riguarda il debito
pubblico iracheno, tanto spesso ricordato per dare un quadro della situazio-
ne economica del paese, ci sembrerebbe più obiettivo paragonarlo a quello
dell’Algeria che non ha intrapreso guerre dal 1963 (guerra del deserto) o a
quello dell’Egitto la cui ultima guerra è del 1973 (guerra del Ramadan).
• Sul piano agricolo, l’Iraq possiede in questo settore un’esperienza non
trascurabile. Cosa assai poco gradita agli Stati Uniti, poiché l’Iraq con la sua
produzione agricola non è soggetto ai condizionamenti della lobby del gra-
no americana. È stata questa una delle ragioni della massiccia distruzione del
paese, come gli stessi americani riconoscono. James Ridgeway, riferendosi
all’agricoltura e al potere dell’Iraq, scrive: «Dal punto di vista degli Stati Uniti,
la distruzione dell’ambiente e dell’agricoltura in Iraq dovrebbe, a breve ter-
mine, aprire dei mercati ai prodotti agro-alimentari americani. Il che dovreb-
be produrre di conseguenza una crescente dipendenza politica dagli Stati
Uniti (…) come è già accaduto in Etiopia e in Egitto. Se, come sembra asso-
dato, la guerra ha prodotto una distruzione ambientale, ciò ci permetterà di
avere un altro Stato dipendente in misura molto maggiore di quanto non
possa esserlo un docile ricevente di aiuti occidentali soggetto all’influenza
economica e politica americana» (24).
Un tipo di analisi che dimostra ampiamente come gli esperti delle Nazio-
ni Unite, o meglio degli Stati Uniti, non fossero andati nell’edificio del mini-
stero dell’Agricoltura iracheno per cercare l’uranio o altro, ma con altri scopi
che riguardavano soprattutto la produzione agricola. Una serie di elementi
quindi che hanno ampiamente contribuito a creare il tipo di rappresentazio-
ne che gli arabi hanno dell’Iraq. La pesante distruzione ad opera degli ameri-
cani e alleati va esclusivamente intesa come un apartheid tecnologico; in al-
tre parole un tentativo di impedire agli arabi l’accesso ad una tecnologia
avanzata autonoma. Per questo motivo l’Iraq è divenuto il simbolo delle ca-
pacità arabe. Come osserva Halim Barakat «la logica egemonica americana
ha distrutto l’Iraq affinché retroceda in una posizione di sottosviluppo» (25).

L’Oriente visto dall’interno: Patria Araba e Mondo Arabo


Il concetto di Middle East è molto criticato dai nazionalisti arabi, in quan-
to si basa sul rifiuto del nazionalismo arabo e dell’idea dell’unità araba. In ef-
fetti il principio di Middle East è una formula concettuale elaborata dall’ester-
no che non deriva dalle caratteristiche demografiche e culturali della regio-
24 ne. Si tratta in realtà di un concetto che tende a designare una relazione fra
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

attori esterni e quella regione. Si parla di «Medio Oriente», ma in rapporto a


che cosa? E in relazione a quale regione geografica? È chiaro che tale concet-
to attenta all’unità culturale, storica e demografica della nazione araba. La de-
finizione Middle East opera una cesura nel mondo arabo in quanto essa
comprende paesi non arabi quali la Turchia, Israele e l’Iran, mentre invece
esclude alcuni paesi arabi quali l’Algeria, la Tunisia, la Libia e, in alcuni casi,
persino l’Egitto. Dal punto di vista arabo si coglie un tentativo che mira alla
totale divisione del mondo arabo, in quanto scardina l’identità di cultura e ci-
viltà propria alla regione. In proposito, i nazionalisti insistono sul concetto di
al-Watan al-Arabi (la patria araba), che reca con sé una connotazione unita-
ria, basata essenzialmente sulle caratteristiche comuni ai paesi arabi (lingua,
storia, geografia eccetera) (26).
Mentre il concetto di al-Alam al-Arabi (il mondo arabo) è considerato
neutro. Ampiamente utilizzato da arabi e non arabi, questo concetto ricono-
sce una certa omogeneità culturale tra gli abitanti delle regioni arabe. Ma an-
ch’esso non sfugge alla guerra ideologica condotta dagli occidentali contro
la regione araba, infatti molte case editrici occidentali, soprattutto britanni-
che, costringono gli autori arabi a utilizzare nel titolo la formula Middle East,
anche quando si tratta di opere che trattano esclusivamente problemi relativi
ai paesi arabi. Nella sua accezione più vasta, il Middle East comprende la re-
gione che dal Marocco arriva fino all’Afghanistan, uno spazio cioè corrispon-
dente al mondo islamico. Ma, come nota Nikki R. Keddie, restano esclusi tre
grandi paesi musulmani, l’Indonesia, l’India e il Bangladesh (27). La nozione
di Middle East si applica, come è logico, alla regione che si trova tra il Near
East e il Far East, ma a cosa corrisponde esattamente questa singolare defini-
zione? In quale Oriente è situato il Marocco, dato che è stato incluso in questa
regione (28)? La nozione di Middle East non divide quindi solamente la patria
araba ma anche il mondo islamico. È questo il motivo per cui è totalmente ri-
fiutata dagli abitanti di quest’area, in quanto non fa chiarezza fra come essa
viene vista dall’esterno, dagli stranieri, e da coloro che invece la abitano (29).

L’Oriente come civiltà


L’Oriente come concetto di civiltà viene sostenuto da Anwar Abdelmalek
nell’opera Rih al-sharq (Il vento dell’Oriente). Già Malek Bennabi, da un al-
tro punto di vista, aveva proposto questa idea. Bennabi divideva il mondo in
due poli, uno a Est e l’altro ad Ovest: l’asse Mosca-Washington e l’asse
Giakarta-Tangeri, e di quest’ultimo particolarmente si occupa nell’opera al-
Fikra al-afri-asiyawiya. Secondo Bennabi, il centro di gravità islamico si è
spostato dal Mediterraneo all’Asia. Il che darà nuovo impulso vitale all’islam,
cosa che non è avvenuta nel contatto con il cristianesimo, contatto rimasto
sterile perché svoltosi nel contesto coloniale (30).
Al-sharq al-hadari (L’Oriente come civiltà), secondo Abdelmalek, ha un
ruolo storico da svolgere, determinato dalla sua tradizione e dal suo spessore 25
GLI ARABI E L’OVEST: METTETE IN SOFFITTA LE CROCIATE

culturale. Secondo Abdelmalek, l’Oriente come civiltà è costituito da due


grandi cerchi: il primo comprende il Giappone, la Cina e alcuni paesi del
Sud-Est asiatico, il secondo è costituito dal cerchio arabo-islamico, il cui nu-
cleo compatto è la nazione araba. E questo cerchio arabo-islamico deve ela-
borare una strategia culturale al fine di produrre una rinascita dell’Oriente
come civiltà (31).

Il Mediterraneo e la frontiera Occidente-Oriente


È interessante chiedersi quale sia la frontiera che separa l’Occidente
dall’Oriente. La tendenza prevalente sembra essere quella di individuare nel
Mediterraneo la frontiera tra Occidente e Oriente. Esamineremo a questo
punto due tesi antitetiche che rispecchiano l’atteggiamento esistente sulle
due sponde del Mediterraneo.
Il Mediterraneo fa parte dell’Occidente. Pur considerando il Mediterra-
neo come un trait d’union tra Occidente e Oriente, André Sigfried colloca il
Mediterraneo all’interno dell’Occidente: «Pur essendo il Mediterraneo inten-
samente proiettato verso l’Oriente africano o asiatico, rimane ad ogni modo
occidentale» (32). Siegfried si pone il problema dell’appartenenza del Medi-
terraneo all’Occidente e lo risolve in questi termini: «Il Mediterraneo, per
quanto sottoposto a influenze orientali, continua ad essere un prolungamen-
to dell’Occidente. (…) Non a torto questo mare è stato definito come l’anti-
deserto. Diciamo pure che l’Oriente ha inizio con l’islam. (…) Quindi il Medi-
terraneo si contrappone all’Oriente, per quanto possa esserne pervaso» (33).
L’Occidente è nel Mediterraneo. Habachi rovescia totalmente la tesi di
Sigfried, collegando, al contrario, l’Occidente al Mediterraneo: «Non è il Me-
diterraneo ad essere in Occidente, ma è l’Occidente a trovarsi nel Mediterra-
neo. Ritornare al Mediterraneo significa conquistare il diritto di ricordare
all’Occidente tutto quello che gli abbiamo dato nel medioevo e ritrovare un
dialogo con esso – ma anche con la Russia e persino con l’America. Un dia-
logo in cui nessuno risulterà umiliato, un dialogo tra gran signori: quelli del
passato e quelli del presente, e che riporterà in vita i nostri diritti a collabora-
re all’umana civiltà» (34).

I falsi interlocutori del dialogo Occidente-Oriente:


Gli orientalisti e gli intellettuali ‘occidentalizzati’
Si tratta tuttavia di un dialogo reso sterile dall’ingerenza di coloro che
possiamo definire falsi interlocutori, in quanto non rappresentano in alcun
modo le società di cui fanno parte. Tra questi vanno citati in un primo luogo
gli esperti di questioni orientali che presentano agli occidentali una visione
falsata dell’Oriente, impedendo loro di vederlo nel suo aspetto reale. Come
26 osserva Said: «L’orientalismo gode di tale autorità che ritengo che nessuno
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

possa scrivere, pensare o agire in rapporto all’Oriente senza tenere conto dei
limiti imposti dall’orientalismo al pensiero e all’azione. Insomma, a causa
dell’orientalismo, l’Oriente non è mai stato, e continua a non essere, un sog-
getto di riflessione o di libera azione» (35).
Alcuni intellettuali, provenienti dall’Oriente e poi occidentalizzatisi, sono
sempre presentati positivamente in Occidente, per molteplici motivi, tra i
quali la loro modernità, laicità eccetera. Questi falsi occidentali vengono
considerati come rappresentati del loro paese di origine, cosa che non corri-
sponde al vero. Akbar Ahmed ci dà un esempio del problema. Egli osserva
che S. Naipaul, Fouad Ajami e Salman Rushdie sono citati da Gordon come
specialisti del Terzo mondo (e provenienti da esso). Ma il problema è che
questi autori vivono in Occidente, i loro matrimoni, le loro amicizie, i loro in-
teressi sono lì. Di conseguenza tendono a dire quello che l’Occidente vuole
sentire dire e a vedere quello che l’Occidente vuole vedere (36). È una cate-
goria di intellettuali che spesso diventa più occidentalizzata degli occidenta-
li, confondendo la modernità con la cieca imitazione. In Francia vengono
definiti gli harki del pensiero. Ma il giornalista, che è ricorso a questa imma-
gine sembra ben conscio della situazione, perché, poco dopo, soggiunge:
«Basare su di essi la politica algerina della Francia, significa cadere nella trap-
pola di un dialogo che si svolge soltanto con chi ci assomiglia» (37).
Alcuni intellettuali, per ignoranza o per scelta, rappresentano in modo
deviante l’islam agli occhi dell’Occidente, completando in tal modo l’opera
degli orientalisti. È il caso di un professore universitario marocchino che ha
completamente stravolto il significato di un hadith del profeta Maometto. Si
tratta di Brahim Boutaleb che scrive: «Il Mediterraneo musulmano, ripiegato
su se stesso, si è fermato al hadith riportato da al Bukhari, sull’invenzione
quale fonte di errore (…) «e qualsiasi errore è votato all’inferno»» (38). Il ha-
dith, così come viene citato da Boutaleb, porterebbe a concludere che
l’islam vieta l’invenzione scientifica, quindi il progresso, e che è l’islam l’ori-
gine dell’arretratezza del Maghreb. Il che è completamente falso. Boutaleb
non soltanto ha utilizzato in modo improprio il hadith, ma lo ha inteso erro-
neamente e quindi erroneamente tradotto. Nel hadith, al-bida indica l’eresia
in senso marabuttico e non scientifico, ed è la persona che dà origine
all’eresia ad essere destinata all’inferno, non certo l’eresia in sé, che non può
essere personalizzata. L’utilizzazione del termine «invenzione» da parte di
Boualeb ha completamente stravolto il significato del testo. La corretta tra-
scrizione del hadith è questa: «Qualsiasi eresia è un errore, e l’autore dell’er-
rore è destinato all’inferno».
È in questo modo che il dialogo Occidente-Oriente si riduce in realtà a
un dialogo occidentali-occidentali, in quanto gli interlocutori condividono le
stesse idee su tutta la linea. Detto questo, la diversità culturale non implica
necessariamente un conflitto, l’adozione dei valori dell’altro non è dunque
una conditio sine qua non di un dialogo fertile e produttivo.

27
GLI ARABI E L’OVEST: METTETE IN SOFFITTA LE CROCIATE

Ridefinire le basi del dialogo Occidente-Oriente


Ridefinire le basi del dialogo significa innanzitutto l’accettazione dell’al-
tro e della sua cultura senza cercare di modificarlo a propria misura.
L’Occidente è preda di un certo illusorio trionfalismo e orienta il proprio
mortale dispositivo militare contro il mondo arabo senza apertamente con-
fessarlo. Il satellite di osservazione militare Hélios (programma comune tra
Francia, Spagna e Italia), che dovrà essere lanciato quest’anno con la funzio-
ne di sorvegliare il Mediterraneo e il Maghreb, rientra in questa logica di al-
largamento dell’ingerenza euroatlantica (39). Ricordiamo che l’Italia è asso-
ciata al progetto sin dal 1987 con una partecipazione agli investimenti del
14% (la spesa prevista è di 7,5 miliardi di franchi francesi). L’Italia quindi be-
neficerà del 14% dell’utilizzazione operativa di Hélios con una stazione di
ascolto sul proprio territorio (40).
Intanto il mondo arabo-islamico si ripiega sempre più su se stesso per
fronteggiare questa macchina da guerra occidentale che va dall’esportazione
dei diritti dell’uomo e dei valori occidentali sino all’intervento militare diret-
to, passando attraverso il famoso diritto di intervento divenuto improvvisa-
mente umanitario.
Tutto ciò pone, peraltro, il problema dell’utilità di un dialogo tra le due
sponde, quando la sponda settentrionale orienta verso il Sud i suoi program-
mi militari. Termineremo la nostra analisi parlando del Mediterraneo in quanto
malgrado tutto, quanto meno sotto il profilo geografico, si tratta di uno spazio
marittimo che ci troviamo a condividere. La geografia, infatti, genera sempre
una molteplicità di conseguenze. Sia chiaro che non ci troviamo d’accordo con
le rappresentazioni del Mediterraneo che ci vengono proposte. Allo stato at-
tuale delle cose, il Mediterraneo non è né occidentale né orientale, è piuttosto
un crocevia in cui si intersecano Occidente e Oriente, Sud e Nord. Ma qual è la
natura dei contatti Nord-Sud e Occidente-Oriente nel Mediterraneo?
Sotto questo profilo possiamo distinguere due opposte tendenze: una
tendenza all’omogeneizzazione e una tendenza alla eterogeneizzazione.
La prima tendenza è di impronta fortemente passatista, in quanto costan-
temente riferita ai gloriosi e unitari trascorsi del Mediterraneo per difendere
tesi che spesso si appellano al concetto di mare nostrum. Un concetto que-
sto che paradossalmente è in netto contrasto con la logica che guida i parti-
giani di questa tendenza. Non è necessario ricordare che l’appellativo di ma-
re nostrum per il Mediterraneo è stato introdotto dai romani dopo la sconfit-
ta di Cartagine. In altre parole, l’unità del Mediterraneo cui essi si riferiscono
si è realizzata dopo un’invasione. Si tratta quindi di un ordine romano nel
Mediterraneo e non di un’unità del Mediterraneo. E non basta che su ambe-
due le sponde crescano gli olivi per parlare di unità. Dobbiamo sottolineare
che il fatto di appellarsi al principio di un mare nostrum riflette un rifiuto
dell’altro, in quanto esprime una concezione del Mediterraneo non condivisa
da tutti i popoli che si affacciano su questa distesa d’acqua.
28 La seconda tendenza, che mira all’eterogeneizzazione, presenta spesso sce-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

nari mediterranei catastrofici, tanto da creare l’impressione che ci si trovi in una


guerra mediterranea. I sostenitori di questa tendenza si servono come argomen-
to della presenza di focolai di tensione nel Mediterraneo e dell’avanzata di quel-
lo che essi chiamano fondamentalismo. Sono argomenti spesso a senso unico
in quanto individuano la riva meridionale come fonte di pericolo. Se la tenden-
za all’omogeneizzazione trascura alcuni particolari per provare la validità delle
proprie tesi, anche la tendenza all’eterogeneizzazione non sfugge a sua volta a
tale logica. Traccia infatti le sue linee generali partendo dalla diversità culturale,
che configura in qualche modo come conflitto, il che non è sempre vero. Biso-
gna ricordare che i motivi di interesse spesso prevalgono sulla diversità. Si pren-
da il caso degli islamisti algerini i quali demonizzano l’Occidente; e i paesi occi-
dentali erano a favore del colpo di Stato antiislamista in Algeria del gennaio
1992. Tuttavia è in Occidente che i leader islamisti maghrebini hanno trovato
asilo: Kebir del Fis algerino in Germania, Ghannouchi del partito Nahda tunisi-
no in Inghilterra. Va forse ricordato che nel campo della politica internazionale
nulla accade gratuitamente e che è il pragmatismo a prevalere.
Nel caso degli islamisti, né l’omogeneizzazione né tantomeno l’eteroge-
neizzazione sono in grado di fornire spiegazioni plausibili.
Il che ci induce a formulare una terza proposta, più realista, intermedia
tra queste due tendenze. La proposta è di guardare al Mediterraneo come ad
uno spazio di reciproci interessi, senza un rifiuto meridionale passatista o un
ipocrita slancio settentrionale. In questo modo, l’Occidente e l’Oriente, e in
particolare il mondo arabo e l’Europa, troveranno la giusta distanza perduta.
La formula di Khader differenza ravvicinata/referenza ravvicinata non
potrà essere ancora valida in futuro. Infatti il nuovo ordine mondiale – so-
prattutto economico – che si va attuando, caratterizzato dallo spostamento
del centro di gravità dell’economia mondiale dall’Atlantico al Sud-Est asiati-
co, provocherà una certa scissione tra il concetto di Occidente inteso come
entità geografica e le sue connotazioni culturali (41). L’equazione modernità
= Occidente ha perso di significato, e Occidente = modello di riferimento ha
subìto anch’esso un processo di ridimensionamento che fa del modello occi-
dentale uno tra i tanti. Infatti, l’esperienza delle sette tigri asiatiche sempre
più seduce i paesi arabo-islamici. Tale ridimensionamento potrebbe porre
quindi fine ai reciproci complessi di superiorità-inferiorità che turbano i rap-
porti tra Occidente e Oriente arabo-islamico.
Perché si crei quella giusta necessaria distanza, bisogna anche che l’Occi-
dente arrivi a riconoscere che il suo sistema non è infallibile e che non tutti i
suoi valori sono esportabili. E l’Oriente arabo-islamico deve saper ammettere
che non tutto quello che proviene dall’esterno è necessariamente negativo.

(traduzione di Fausta Cataldi Villari)


Note
1. R. HABACHI, Orient, quel est ton Occident?, Paris 1969, Edition de Centurion, pp. 7-8.
2. B. KHADER, «The European Community and the Arab World», Journal of Arab Affairs, vol. 12, n. 1/1993.
3. K. AL-SAAFI, Nahnu… wa al-gharb (Noi… e l’Occidente), Tunisi 1992, Mouaassat A. Ben Abdellah, pp. 15-16.
29
GLI ARABI E L’OVEST: METTETE IN SOFFITTA LE CROCIATE

4. Al-Shira, 10/1/1994, p. 36.


5. A. SYDA, «al-Gharb bayna al-dawa ila al-tamaththul bihi wa l-mutalaba bi l-iftiraq anhu» («L’Occidente tra l’in-
vito a imitarlo e la richiesta di separarsi da esso»), al-Wahda, n. 86, ottobre 1991, p. 30.
6. A. BENANTAR, «La triade di fine secolo: islam, islamismo e democrazia», Limes, n. 2/1994, pp. 55-59.
7. Z. AHMED, «al-Nizam al-alami al-jadid fi tasawwur al-islamiyyin al-arab», («Il nuovo ordine mondiale nella
concezione degli islamisti arabi»), al-Mustaqbal al-Arabi, n. 157, marzo 1991, pp. 138-140.
8. H. AL-BANNA, Majmuat rasail al-shahid Hasan al-Banna, (L’insieme delle lettere del martire Hasan al-
Banna), 8ª edizione, Beirut 1984, Dar al-kitab al-lubnani; S. QOTB, Nahwa mujtami islami, (Verso una so-
cietà islamica), Beirut 1983, Dar al-shuruq.
9. Y. AL-HASSAN al-Bud d al-dini fi l-siyasa al-amrikiya tujaha al-sira al-arabi/al-isra ili, (La dimensione reli-
giosa nella politica americana nei confronti del conflitto arabo-israeliano), Beirut 1990, Centre d’Etudes
pour l’Unité Arabe (Ceua), p. 71.
10. B. GHALIOUN, «Harb al-khalij wa l-muwajaha al-istratijiya fi l-mantiqa al-arabiya», («La guerra del Golfo e il
confronto strategico nella regione araba»), in Azmat al-khalij wa tada iyatiha ala al-watan al-arabi, (La cri-
si del Golfo e le sue ripercussioni sulla Patria Araba), opera collettiva, Beirut 1991, Ceua, p. 34.
11. A.S. DIJANI, «Qadhiyat filistin wa al-sira al-arabi/al-sahyuni ba da harb al-khalij», («La questione palestinese e
il conflitto arabo-sionista dopo la guerra del Golfo»), in Azmat al-khalij…, cit., p. 99.
12. Sulle tappe del complotto occidentale si veda Y. SWID, Muamarat al-gharb didda al-arab, (Il complotto
dell’Occidente contro gli arabi), Beirut 1992, Centre Arabe de Recherches et de Documentation.
13. E. YASSIN, «al-tahlil al-thaqafi li-azmat al-khalij», in Azmat al-khalij…, cit., p. 58.
14. E. SAID, L’Orientalisme: l’Orient créé par l’Occident, Paris 1980, Editions du Seuil, p. 20.
15. R. HABACHI, op. cit., p. 55.
16. Ivi, p. 65.
17. Ivi, pp. 62-79.
18. M. ELMANDJRA, La première guerre civilisationelle, Casablanca 1992, Les Editions Toubkal, p. 7.
19. M. AL-MOUTAWAKKIL, Azmat al-khalij…, cit, p. 199.
20. B. GHALIOUN, op. cit., pp. 31-32.
21. M. ELMANDJRA, op. cit., p. 251.
22. O. A. ELKHOULY., «Istratijiya tatwir al-ulum wa l-taqana fi l-watan al-arabi», («La strategia di sviluppo delle
scienze e della tecnologia nella patria araba»), al-Mustaqbal al-arabi, n. 143, gennaio 1991, p. 116.
23. M. ELMANDJRA, Al-Harb al-hadariya al-ula, (La prima guerra di civiltà), Batna 1991, Algeria, Dar al-
Chihab, p. 293. L’edizione francese di quest’opera è incompleta rispetto all’edizione araba.
24. J. RIDGEWAY, (a cura di), «Why did we go to war with Irak?», in The march to war, New York 1991, Four
Walls Eight Windows, pp. 19-21.
25. H. BARAKAT, Harb al-khalij: khutut fi l-raml wa l-zaman, (La guerra del Golfo: linee nello spazio e nel
tempo), Beirut 1992, Ceua, p. 245.
26. A. BENANTAR, De l’existence d’un sous système arabe, tesi di DEA di scienze politiche (non pubblicata),
Université de Toulouse I, marzo 1992, pp. 139-141.
27. NILI R. KEDDIE, «Is there a Middle East?» International Journal of Middle East Studies, vol. 4, n. 3, luglio
1973, pp.266-267.
28. A. BENANTAR, De l’existence…, cit., p. 285.
29. Ivi, p. 286.
30. M. BENNABI, La vocation de l’Islam, Paris 1954, Editions du Seuil, pp. 164-166.
31. A. ABDELMALEX, Rih al-sharq, (Il vento dell’Oriente), Il Cairo 1983, Dar al-Mustaqbal al-arabi, p. 99 e p.
207.
32. A. SIGFRIED, Vue générale de la Mediterranée, 10ª edizione, Paris 1943, Gallimard, pp. 13-14.
33. Ivi, pp. 187-188.
34. R. HABACHI, op. cit., p. 67.
35. 35. E. SAID, op. cit., p. 15.
36. A. AHMED, Postmodernism and Islam: predicament and promise, London 1992, Routledge, p. 40.
37. L’Express, 10/2/1994, p. 65.
38. B. BOUTALEB, «Propos d’historien sur l’un et le multiple en Méditerranée», in H. EL MALEKI, (a cura di), La
Méditerranée en question: conflits et interdépendences, Casablanca 1991, Fondazione del re Abdul Aziz, Edi-
tions du Cnrs, p. 44.
39. A. BENANTAR, «La Méditerranée à la recherche d’une structure de sécurité et de cooperation», Algérie-Ac-
tualité, 5/4/1994, p. 14.
40. A. BENANTAR, «Mustaqbal al-amn al-arabi fi l-mutawassit», («Il futuro della sicurezza araba nel Mediterra-
neo»), Majallat al-dirasat al-filistiniya, n. 17, primavera 1994; T. NAAFA, «La Méditerranée dans l’oeil d’Hé-
lios», Algérie-Actualité, 7/9/1993, p. 17.
41. A. BENANTAR, «La Méditerranée à la recherche…», p. 13.
30
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

Israele,
l’angoscia del futuro
Colloquio di Michel KORINMAN con Yehudah LANCRY

L IMES SIGNOR AMBASCIATORE, LIMES Nel suo The Clash of Civiliza-


qual è la sua definizione di Occi- tions?, Samuel Huntington contrap-
dente? pone fra loro i grandi insiemi cultu-
LANCRY Lei sa che per un ebreo esi- rali, tra cui quello occidentale.
ste un’antinomia di base che distin- Israele fa parte di quest’ultimo?
gue la terra di Israele, d’un lato, e LANCRY In parte no: Israele è come
dall’altro il resto del mondo, al di marcato dal sigillo «sinaitico», dal-
fuori del territorio eletto – Chutz la l’Oriente. E il paese ha conosciuto
Haaretz. Tuttavia, Israele, culla del la sua rinascita storica in un am-
monoteismo, percepisce come oc- biente orientale, appartiene geo-
cidentali i valori filosofici della Gre- graficamente al Medio Oriente.
cia e di Gerusalemme. Più precisa- Non c’è un effettiva cesura fra noi e
mente: per un giovane israeliano gli arabi. D’altro canto, la nostra
l’Occidente è l’Europa più gli Stati realtà etnica – il gruppo ashkenazi-
Uniti. Non vi includiamo il Giappo- ta – e le radici politiche dello Stato
ne, troppo lontano per cultura ed israeliano ci inquadrano natural-
etnia. Quanto alla Germania, si trat- mente nell’Occidente. Essendo così
ta di un paese-bilancia, di un caso misto, Israele potrebbe forse un
limite di cui certe sfaccettature ci giorno servire non già da bastione
ispirano ancora oggi sfiducia, per dell’Occidente – fase storica supe-
evidenti ragioni storiche. D’altron- rata – ma da passerella fra Oriente
de, l’Occidente deve imparare a e Occidente. Noi non abbiamo ad
controllare le sue crisi di bulimia, esempio affatto vissuto la guerra
come quella che l’ha colpito a par- del Golfo come una crociata occi-
tire dal 1989. Non possiamo né po- dentale contro l’Iraq, giacché il no-
tremo occidentalizzare il mondo stro stesso vicino siriano faceva
intero. parte dell’alleanza. 31
ISRAELE, L’ANGOSCIA DEL FUTURO

LIMES Esaminando la futura carta LIMES Centinaia di migliaia di ebrei


d’Israele, così come emergerà dalla russi ed ex sovietici sono affluiti
pace con i palestinesi, lei prova negli ultimi anni in Israele. Pensa
paura? sia possibile costituire una «lobby
LANCRY Siamo uno Stato sorto dal russa» nel suo paese?
nulla dopo la Shoah. È normale che LANCRY È troppo presto per parlar-
un’angoscia esistenziale prenda so- ne. I russi, da noi, sono soprattutto
prattutto la generazione più anzia- animati dal rifiuto di settant’anni di
na. Ma non è la carta a farmi paura. comunismo. Ma non sarebbe stra-
Pensi alla nostra aviazione, la più no che prima o poi una parte di lo-
qualificata del pianeta! Inoltre gli ac- ro formi una lobby.
cordi israelo-palestinesi scateneran- LIMES Come valuta il rapporto geo-
no secondo noi una dinamica stori- politico tra Israele e la Diaspora?
ca nel mondo arabo. Poi non biso- LANCRY Si avverte che fra le due par-
gna sottovalutare la maturità dei ne- ti c’è una tensione ogni volta «su-
goziatori palestinesi, in tutto simili ai blimata» da cerimonie, da incontri
loro partner e appoggiati da una rituali. Il fondo del problema non
forte lobby intellettuale negli Usa. è il rispetto che dobbiamo alla Dia-
Infine, diversi dirigenti arabi come il spora, questa matrice con cui in-
re del Marocco si sono impegnati, a tratteniamo un dialogo costante; è
partire dalla fine degli anni Settanta, il fin de non recevoir che la Dia-
in questa direzione; non per interes- spora ci ha opposto nel tempo, do-
se, ma perché conoscono l’antico po il 1948. In effetti la maggior
radicamento del nostro popolo in parte degli ebrei del mondo vive
Oriente, e specificamente in terra fuori di Israele e non vuole instal-
maghrebina, dove non siamo asso- larvisi.
lutamente un corpo estraneo. LIMES Si può concepire il ritorno
LIMES I fondamentalisti religiosi e- dell’antisemitismo politico in Occi-
brei e arabi le sembrano fatti della dente?
stessa pasta? LANCRY L’antisemitismo vi è soprav-
LANCRY C’è una bella differenza. Il vissuto. In qualche modo, coesiste
giudaismo ignora il proselitismo, il con i valori occidentali.
desiderio di convertire gli altri. Quan-
to agli integralisti ebrei, in Israele
sono una piccolissima minoranza
politica, nemmeno rappresentata (traduzione di Benito Cerezo)
alla Knesset.

32
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

LA RUSSIA VUOLE
UN NUOVO
BIPOLARISMO di Charles URJEWICZ
Mosca non si rassegna a un ruolo secondario nelle relazioni
internazionali. L’Occidente divide l’opinione pubblica russa,
mentre riaffiorano le rappresentazioni geopolitiche del passato.
Elcin, intanto, usa un linguaggio molto morbido.

L « A RUSSIA NON HA MAI CERCATO,


nel corso della sua storia, di opporsi al mondo occidentale. È vero il contra-
rio: essa è stata sempre attratta dall’Occidente, dalla civiltà europea. Dal
XVIII secolo la Russia ha definito trattati e stretto alleanze con i paesi euro-
pei. Evidentemente, l’immensa e potente Russia ispirava rispetto, e anche
una certa apprensione – a giusto titolo. Ma non paura! (…) Noi ritroviamo la
posizione che è sempre stata la nostra: l’unione con le potenze occidentali.
(…) Vi fu un tempo in cui l’Urss si opponeva al resto del mondo facendo la
parte del «gendarme». (…) Ma non bisogna presentare questa parte come in-
scritta nella tradizione, giustificata nel contesto storico e strategicamente fun-
zionale. Era una parte che aveva persino un lato farsesco. Oggi noi non sia-
mo che un paese forte in mezzo ad altri paesi, ma con un destino complesso
e specifico» (42).
Nelle sue «memorie», pubblicate simultaneamente in Russia (43) e in Oc-
cidente, Boris Elcin sviluppa apparentemente un discorso tranquillizzante e
amichevole: la Russia e l’Occidente, dopo il regno di Pietro il Grande, si so-
no ravvicinati al punto da appartenere ormai allo stesso mondo. L’intermez-
zo del regime sovietico è una parentesi nella storia di una convergenza e di
un’alleanza rotte bruscamente nel 1917.
Nel momento in cui la Russia, ancor sotto lo shock del successo ottenuto
da Vladimir Zirinovskij il 12 dicembre 1993, rientra rumorosamente sulla sce-
na internazionale reclamando un diritto d’intervento in teatri strategici che
furono quelli da Russia zarista e poi dell’Urss, queste affermazioni di Elcin
possono stupire. La storia dei rapporti fra l’impero degli zar e l’Occidente fu
veramente così idilliaca? 33
LA RUSSIA VUOLE UN NUOVO BIPOLARISMO

Occidentalisti contro slavofili


Tutta la storia della cultura russa è stata segnata da un rapporto doloroso
con l’Occidente, riassunto dal poeta e diplomatico I.F. Tjutcev (1803-1873) in
queste parole molto sentite: «L’Europa occidentale ha creduto per secoli che
non potesse esistere altra Europa al di fuori di se stessa».
La Russia non ha finito di interrogarsi sulla sua relazione con l’Occiden-
te. Concetto geografico, culturale, economico, strategico, specchio di valori e
di rappresentazioni contraddittorie, anzi antagoniste. A lungo punta estrema
di un’Europa dominata dalla Francia dei Lumi, l’Occidente ha profondamen-
te segnato la cultura russa (44). Fino a dare il suo nome al movimento – l’oc-
cidentalismo (zapadnicestvo) – che affermava la necessità assoluta per la
Russia di inserirsi nella cultura europea. Il dibattito che oppose «occidentali-
sti» e «slavofili» (45) non cessò di dominare la vita politica e culturale russa.
Nel 1994, la Russia sembra tuttora divisa tra «occidentalisti» e «slavofili»
(46). Cesura forse altrettanto antica dello scisma che fu all’origine delle due
Chiese, l’una romana, Chiesa d’Occidente, l’altra prima a Costantinopoli e
poi a Mosca, nuova Roma di un mondo che affermava la sua differenza. Nel
momento in cui la Chiesa ortodossa russa, continuando ad opporsi all’offen-
siva cattolica (47), fa prova di un’attività debordante (48), cercando di ritro-
vare, specialmente nei Balcani, una posizione di guida, di «grande sorella»
dei cristiani d’Oriente, alcuni potrebbero essere tentati di demonizzare un
mondo percepito come ostile.
Ma oggi, di quale Occidente si tratta realmente? Della «civiltà europea»,
dei «paesi europei» con cui la Russia prerivoluzionaria aveva «definito trattati
e stretto alleanze», o di un «mondo occidentale» che, per la penna del presi-
dente russo, ingloba l’Europa occidentale e l’America del Nord? Di un insie-
me geopolitico dominato dal Fondo monetario internazionale, oggetto del ti-
ro incrociato di comunisti e nazionalisti, certo, ma anche di alcuni uomini
politici ed economisti liberali? Questo Occidente è divenuto ormai il simbolo
dello sfruttamento, non solo del Terzo Mondo, ma anche di una Russia di-
pinta come vittima di un complotto occidentale volto a «indebolirla» (49). In
queste condizioni, perché stupirsi di questo slittamento semantico che fa va-
cillare il concetto di Europa e il «sogno europeo» di tanti intellettuali russi,
verso una sorta di banalizzazione del concetto di Occidente, al solo servizio
delle ambizioni di un paese che tenta di ricollegarsi al suo passato di grande
potenza?

‘Restiamo una superpotenza’


L’Occidente sembra ormai perdere la sua dimensione culturale per ridi-
34 ventare un «blocco», un insieme al cui interno l’Europa si starebbe diluendo.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

La Russia, che crede di trovare la sua salvezza – cioè un’identità e una ragio-
ne di vita – nella sua missione di grande potenza, ha bisogno di punti di rife-
rimento. Dunque di un altro insieme, alla testa del quale si trova l’altra super-
potenza, l’America. Il «pragmatismo geopolitico, depurato di ogni ideologia»
(50) appare oggi come una delle forme del nazionalismo russo. Un mondo
bipolare sembra paradossalmente (provvisoriamente?) incontrare il favore di
Mosca, se è a questo prezzo che Mosca può rientrare sulla scena mondiale.
Secondo Andrej Kozyrev, ministro degli Esteri russo, «il destino della Fe-
derazione russa è di essere una grande potenza, aggressiva e minacciosa se
guidata dai comunisti e dai nazionalisti, affidabile e prospera secondo la vo-
lontà dei democratici. Ma sempre grande! (…) Gli Stati Uniti non sono in gra-
do di risolvere tutti i problemi del pianeta. La Russia invece, pur attraversan-
do un difficile periodo di transizione, resta una superpotenza, non solo per
quel che concerne l’armamento nucleare o la sua potenza militare, ma anche
nel cosmo, nell’elaborazione di nuove tecnologie, senza parlare delle sue ri-
sorse naturali e della sua situazione geostrategica» (51).
Per raggiungere questo obiettivo di potenza, i russi mettono da parte le
sottigliezze dell’èra brezneviana, quando uno dei cardini fondamentali della
politica estera sovietica era la frammentazione dell’Occidente, dunque il suo
indebolimento. Dall’altra parte, la Russia di Boris Elcin e di Vladimir Zirinov-
skij ha abbandonato anche le velleità di una perestrojka che si era data per fi-
ne di integrare la Russia/Urss nella «casa comune europea». Ossessionata dal
suo ritorno sulla scena internazionale, ma limitata nelle sue aree di interven-
to a un orizzonte geopolitico circoscritto all’ex Urss e all’ex Jugoslavia, Mo-
sca è tentata di vedere l’Occidente anzitutto in funzione dei rapporti di forza
internazionali. La debolezza politica, per non dire l’assenza dell’Europa occi-
dentale, in particolare dell’Unione europea, accelera questa deriva e sembra
lasciare di nuovo campo libero al testa-a-testa russo-americano. Così ridu-
cendo l’Occidente a un insieme dominato dagli Stati Uniti, limitato all’Ameri-
ca del Nord e all’Europa occidentale, e da cui restano esclusi non solo l’Euro-
pa centrale – i cui tentativi di avvicinamento all’altra Europa suscitano diffi-
denza e irritazione a Mosca – ma anche il Giappone.
I rapporti della nuova Russia con l’Occidente necessitano fin d’ora di un
tentativo di bilancio. Un gruppo di ricercatori dell’Istituto per l’Europa
dell’Accademia delle Scienze di Russia, sotto la guida del direttore aggiunto
dell’Istituto, S.A. Karaganov, ha pubblicato un lungo rapporto sull’aiuto occi-
dentale. Le sue conclusioni riassumono bene la nuova immagine che i russi
attribuiscono a un Occidente ridotto a strumento della loro visione neobipo-
lare: «È chiaro che la Russia supererà le difficoltà che essa ha finora conosciu-
to e finirà per diventare uno Stato ricco e nuovamente potente, centro di una
comunità destinata a riunire i diversi paesi formatisi sul territorio dell’ex Urss.
La rinascita della Russia deve essere anzitutto compito dei suoi cittadini. Il
ruolo dell’Occidente può limitarsi sia a facilitare questo processo, sia a osta- 35
LA RUSSIA VUOLE UN NUOVO BIPOLARISMO

colarlo. Ma dalla sua politica di oggi dipenderà l’orientamento futuro non so-
lo dell’élite russa, ma anche del resto del paese: la Russia resterà confinata in
un isolamento che la spingerà a stringere alleanze con i paesi del Sud e
dell’Estremo Oriente, oppure sarà politicamente, economicamente e strategi-
camente al fianco dell’Europa, dell’Occidente in senso lato» (52). Bell’esem-
pio di pragmatismo geopolitico…

(traduzione di Michele Ancelotti)

Note
42. B. ELTSINE, Sur le fil du rasoir, Paris 1994, pp. 233-241.
43. Presso le edizioni Ogonek, nel maggio 1994.
44. Cfr. CH. URJEWICZ, «Lo sguardo oscillante della Russia», Limes, n. 4/1993, pp. 89-94.
45. Ibidem.
46. Un sondaggio realizzato all’inizio del 1994 mostra la profonda frattura della società russa. Se il 52% delle per-
sone interrogate si dichiara a favore di una politica estera orientata verso l’Occidente, scegliendo un tipo di
società che permetterebbe alla Russia di avvicinarsi alla «civiltà occidentale», il 45% si dichiara «slavofilo» e a
favore di una politica che tenga conto della collocazione geopolitica della Russia fra l’Europa e l’Asia. Cfr. N.
POPOV, «Mezdunarodnaja Politika Rossii», Mirovaja Ekonomika i Mezdunarodnye Otnosenia, n. 3/1994.
47. Cfr. A. ZUBOV, «Uno sguardo dall’Est sulla Ostopolitik vaticana», Limes, n. 3/1993, pp. 163-173.
48. Il vertice di questo attivismo è stato il viaggio del patriarca Aleksij a Belgrado, in maggio.
49. Così A. Solzenicyn, alla vigilia del suo rientro in patria: «L’Occidente utilizza tutti i mezzi, non importa quali
siano le conseguenze, per indebolire la Russia», (vedi Forbes del 9/5/1994).
50. A. NOVIKIV, «Perspektivy russkogo nacionalizma», Druzba Naradov, n. 9/1993, p. 198.
51. Cfr. Izvestija, 11/3/1994.
52. «Zapadnaja pomosc Rossii: v cem eë osibki?» («L’aiuto occidentale alla Russia: in che cosa consistono i suoi
errori?»), Institut Evropy, Mosca, Mokhovaja 8, Druzba Naradov, n. 4/1994, pp. 157/183.

36
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

PER L’INDIA
RESTATE
DEI COLONIALISTI di B. VIVEKANANDAN
L’immagine positiva dell’Occidente, legata alla ricchezza
e al progresso tecnologico e sociale, è oscurata dalle differenze
culturali e dal persistente protezionismo commerciale. Il Gatt
è percepito come un cartello di potenze avverse al Terzo mondo.

U N INSIEME DI CERCHI SOVRAPPO-


sti in cui ogni cerchio rappresenta una dimensione distinta dell’insieme. In
India, dal punto di vista concettuale, l’Occidente appare proprio così. In ori-
gine, dal punto di vista geografico, le frontiere dell’Occidente erano quelle
dell’Europa. Ma l’espansione coloniale, seguita dall’emigrazione di una larga
parte della popolazione europea, ha permesso all’Occidente di allargare le
sue frontiere politiche e culturali alle aree estreme del mondo.
Il processo di espansione della frontiera culturale è stato assai marcato in
Nordamerica, Australia e Nuova Zelanda, un po’ meno distinguibile ma consi-
stente in altre zone interessate dalla spinta coloniale dell’Occidente. Tuttavia, va
considerato acquisito il fatto che l’influsso culturale occidentale non sia rimasto
confinato alle consistenti ma limitate minoranze bianche, i discendenti dei colo-
ni emigrati. Molti paesi hanno infatti basato il proprio sistema politico e giuridi-
co sui modelli occidentali. Ciò rende problematica la definizione precisa degli
odierni confini geografici dell’Occidente, anche perché ovunque esso risulta in
conflitto con preesistenti e ben vive entità socio-politiche e culturali.
La penetrazione occidentale è quantomai percepibile in alcune società
scosse da tensioni e divisioni culturali, come è il caso della maggior parte dei
paesi in via di sviluppo. Qui, l’Occidente è spesso considerato sinonimo di
abbondanza, modernità, progresso industriale e tecnologico, tolleranza ecce-
tera. Al contrario, nell’epoca attuale, ogni tipo di società, ma in particolare
quelle dei paesi in via di sviluppo, è teatro di un intenso e perenne scontro
fra i valori occidentali e quelli propri dell’Oriente, dal quale però non si rie-
sce a stabilire che dei due sistemi sia superiore all’altro. Tuttavia, è innegabi-
le che l’atteggiamento e il modo di vita occidentali siano ormai largamente
penetrati in Asia, in Africa e in America Latina. È possibile che in futuro, a be-
neficio di entrambi, possa emergere una sintesi dei due sistemi di valori. 37
PER L’INDIA RESTATE DEI COLONIALISTI

In ogni modo, se, per ipotesi, il pendolo volgesse definitivamente verso


lo scontro, le conseguenze sarebbero disastrose per l’umanità.
2. Un tratto ammirevole dell’Occidente consiste nell’aver dato origine al-
la politica sociale statale. Di conseguenza, molti paesi in via di sviluppo si so-
no ispirati alle politiche sociali dell’Occidente e, sulla base delle risorse di-
sponibili, hanno provato a imitarle. Inoltre, durante l’ultimo quindicennio,
l’Occidente ha iniziato a premunirsi, sia a livello di singoli paesi che global-
mente, per affrontare le grandi sfide emergenti quali il degrado ambientale, i
danni all’equilibrio ecologico, l’assenza di uno stabile sistema di sicurezza in
grado di mantenere ovunque la pace e il pericolo derivante dal mantenere in
vita società non giuste. Da commissioni di esperti guidati da eminenti leader
socialdemocratici occidentali quali Willy Brandt, Olof Palme, Gro Harlem
Brundtland sono pervenuti proposte e programmi per far fronte a questi insi-
diosi problemi
3. Questa immagine positiva dell’Occidente è però oscurata da alcuni
aspetti assai negativi. Uno di questi è la macrotendenza sempre più comune
all’Ovest verso l’atomizzazione e l’erosione del tessuto sociale. Questo pro-
cesso è chiaramente visibile. Basta soffermarsi sul sistema di relazioni umane
assai spersonalizzato, sull’aumentato livello di permissivismo, sull’alto tasso
di divorzi, sul crescente numero di persone single, sul distacco totale esisten-
te fra le persone giovani e quelle anziane, sulla penetrazione della cultura
dell’usa-e-getta. In realtà, tutte le società postindustriali soffrono di questi
mali. Quando il perseguimento dei desideri materialistici e consumistici di-
viene il fine ultimo della vita, è inevitabile che la psiche dell’uomo tenda a li-
mitare il proprio spirito di umanità e che i legami di questo tipo si attenuino.
Questi aspetti essenziali in una vita che presuma un significato tendono ad
esser accantonati in quanto non alla moda. Di conseguenza, l’esistenza di-
venta inevitabilmente sempre più sterile e frammentata, generando così una
grande frustrazione nonostante la prosperità e l’abbondanza. L’Occidente
sembra soffrire assai di questa sindrome.
4. Ugualmente clamoroso è il cambiamento riscontrabile in Occidente
nelle tendenze demografiche, dove si osserva un calo della popolazione che
alla lunga può comportare gravi contraccolpi socio-economici per molte so-
cietà. Mentre le fasce di età anziane sono in costante espansione, quelle gio-
vani, e produttive, sono in contrazione. Quali che siano le ragioni di questo
rivoluzionante fenomeno, le sue implicazioni sono molte, sia di ordine inter-
no che internazionale. Per quanto concerne le prime, esso implica senza al-
cun dubbio un significativo cambio della struttura del mercato e del modello
consumistico interni. In termini concreti, si assiste a una significativa diminu-
zione delle persone in età da lavoro che avranno sulle spalle la responsabi-
lità di mantenere una comunità sempre più ampia di persone anziane – una
situazione in cui probabilmente un terzo della popolazione dovrà badare alla
sopravvivenza dei restanti due terzi. Se si associa questa tendenza alla neces-
sità di mantenere un sistema di libero mercato, potrebbero esserci tremende
38 implicazioni sociali, poiché si verificherebbe una radicale alterazione del
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

mercato di consumo in Europa. Di conseguenza si ridurrebbe anche il livello


delle importazioni occidentali. In India si è già notata una contrazione delle
importazioni dell’Unione europea. L’andamento delle importazioni della Cee
fra il 1981 e il 1990 mostra che la quota totale degli import comunitari varia
dal 52% del 1981 al 40% del 1990. Di queste, il totale delle importazioni co-
munitarie di prodotti di «classe B», una categoria a cui appartengono la mag-
gior parte delle esportazioni dei paesi in via di sviluppo, India inclusa, sono
scesi dal 40% del 1981 al 31% del 1990. Perciò, in termini realistici, il mercato
potenziale per i paesi in via di sviluppo rappresentato dall’Occidente sta pro-
gressivamente diminuendo, sebbene esso rimarrà ancora per molto tempo
un’importante fonte di mercato. In aggiunta, si assiste con preoccupazione
all’adeguamento dell’Occidente a politiche protezionistiche sempre più ac-
centuate, in misura tale da provocare una drastica riduzione della circolazio-
ne all’Ovest dei prodotti dei paesi in via di sviluppo. Questa tendenza, unita
all’oscillante andamento demografico, può compromettere l’esistenza del
mercato di consumo occidentale.
5. Attualmente, l’Occidente utilizza politiche che continuano a favorire la
fuoriuscita delle risorse dai paesi poveri a quelli ricchi. Inoltre, esso è perce-
pito nell’immaginario collettivo come intento a cercare di risucchiare il Terzo
Mondo nella trappola del debito internazionale per compromettere le poten-
zialità di quei paesi in via di sviluppo, come l’India ad esempio, che hanno la
capacità di competere in certi casi con l’Ovest. In questi paesi viene anche
particolarmente temuta la possibilità che molti governi conservatori dell’Oc-
cidente stiano per dare inizio a una strategia «antipovertà» molto particolare.
La liberalizzazione dei mercati e dei prezzi, senza l’aumento della ricchezza,
è vista come un modo per liberarsi del problema povertà. La liberalizzazione
dei prezzi di prodotti essenziali per la sopravvivenza, come ad esempio le
medicine, in un sistema di libero mercato può solamente mettere questi arti-
coli al di fuori della portata della povera gente che, di fatto, non potrebbe far
a meno di giudicare questa politica altro che un mezzo per innalzare il tasso
di mortalità fra le fasce più disagiate. Le prime vittime di questa aumentata
indigenza sarebbero i bambini e gli anziani. Potrebbe questo essere lo scopo
occulto della politica occidentale di questi ultimi tempi? Potrebbe essere que-
sto un metodo dell’Occidente per ridurre la popolazione più povera del
mondo in via di sviluppo?
Ma c’è di più. È anche diffusa la convinzione che l’egoistico nazionali-
smo degli affari praticato assiduamente da molti paesi occidentali stia miran-
do la sicurezza economica di molti paesi in via di sviluppo. Attraverso varie
istituzioni multilaterali quali il Gatt, la Banca mondiale e il Fondo monetario
internazionale, nonché attraverso le multinazionali, i paesi in via di sviluppo
stanno progressivamente riducendosi a Stati-clienti dell’Occidente. In realtà
oggigiorno, tali istituzioni contribuiscono a questa campagna ideologica e
sono divenute strumenti di un progetto politico finalizzato a costringere i
paesi in via di sviluppo ad accettare condizioni dannose per promuovere gli
interessi dell’Occidente. Esse hanno imposto a molti paesi poveri la ristruttu- 39
PER L’INDIA RESTATE DEI COLONIALISTI

razione delle loro economie domestiche per promuovere un assetto di tipo


liberista, a detrimento delle proprie industrie nascenti, e l’apertura dei loro
mercati alle multinazionali occidentali, prima che gli fossero garantiti i presti-
ti. Ovviamente, i metodi di sfruttamento e di dominio che sono usati per dis-
sanguare i paesi in via di sviluppo sono molto più sottili e sofisticati.
Per quanto riguarda il commercio, l’Occidente ha sempre praticato il
protezionismo per cautelarsi dalle esportazioni dei paesi poveri nei propri
mercati. Allo stesso tempo, i paesi occidentali non si sono mai sottratti
dall’applicare ogni forma di pressione sui paesi in via di sviluppo per far te-
nere aperti i loro mercati e costringerli ad esporre la loro nascente industria a
una competizione vana con quella dei paesi sottosviluppati, provocando co-
sì la nascita nel Terzo mondo di un mercato sostanzialmente anarchico. La
mutilazione dei mercati del Terzo mondo che ne può derivare potrebbe
comportare un duplice effetto: 1) la distruzione delle piccole e medie impre-
se indigene a lavorazione intensiva dei paesi in via di sviluppo, con una con-
seguente inestimabile crescita delle possibilità di instabilità; 2) le esportazio-
ni occidentali possono catturare i mercati dei paesi in via di sviluppo, a spese
delle manifatture indigene. Ciò può condurre al ristabilimento di un nuovo
sistema di relazioni coloniali fra l’Occidente e i paesi in via di sviluppo.
Quanto ancora sopravviva la mentalità coloniale in Occidente è arguibile
dall’«accordo» recentemente concluso sul Gatt, dai metodi impiegati per for-
zare i paesi poveri ad accettare di negoziare questo trattato al di fuori degli
originali parametri basati sulle merci e dall’estensione dell’ambito del Gatt ad
aree non di sua competenza quali l’agricoltura, i servizi, le assicurazioni, il si-
stema bancario, le licenze, le medicine, gli investimenti, i pesticidi eccetera;
ciò non può che causare gravi danni agli interessi nazionali dei paesi poveri,
oltre che a restringere la loro libertà di manovrare l’economia a beneficio dei
loro popoli. Il proposito sottinteso alla norma Gatt, che autorizza ritorsioni in
campi diversi da quelli dove si è verificata la violazione, è quello di rendere
vulnerabili i paesi poveri alle pressioni del potente Occidente, Stati Uniti in-
clusi. Si crea così un cartello in funzione anti-Terzo mondo per perpetuare lo
sfruttamento dei paesi in via di sviluppo e massimizzare i propri profitti. In-
vece di promuovere un equo ordine mondiale, l’Occidente sembra concen-
trare ogni sforzo nel promuovere e stabilizzare l’ingiusto presente assetto del
globo, basato sull’iniquità. Di conseguenza, la visione indiana dell’Occidente
rimane complessa e finisce per generare speranze e timori. Sembra che dopo
le rivoluzioni del 1989 in Europa, l’Occidente non abbia ancora trovato la
formula per stabilizzarsi. Una volta di più è in atto uno sconvolgimento del
suo assetto. Dal punto di vista regionale, l’Ovest è risorto. I benefici derivanti
all’Europa dalla scelta comunitaria seguita dal dopoguerra fanno ben spera-
re. Ma, da un punto di vista globale, i parametri dell’Occidente rimangono
orientati allo sfruttamento e tendono alla sottomissione dei paesi in via di
sviluppo. Questo quadro non è promettente e deve cambiare.

40 (traduzione di Silvia Canali)


OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

TOKYO
SI RISCOPRE
ASIATICA di Ryu OTOMO
La fase dell’occidentalizzazione postbellica si sta esaurendo
e in Giappone ci si interroga di nuovo sugli interessi nazionali.
Le tesi di Huntington sono viste con sospetto e considerate razziste.
Dove sfocerà la ‘terza modernizzazione’ nipponica?

L A FINE DELLA SECONDA GUERRA


mondiale ha favorito in Giappone la riscoperta dell’identità asiatica. Questo
perché il nostro paese si sta convincendo che i valori e l’orizzonte strategico
proposti dall’Occidente non bastano più. Tale tendenza è tanto più significa-
tiva in quanto segue mezzo secolo di forte occidentalizzazione del Giappo-
ne, con la garanzia di sicurezza offerta dagli Stati Uniti sul piano militare, e su
quello economico l’inserimento nelle istituzioni e nei meccanismi del capita-
lismo avanzato. In cambio, abbiamo rinunciato a giocare un ruolo nella poli-
tica internazionale. Questa costellazione è nota come «dottrina Yoshida», dal
nome del premier che la promosse nel primo decennio postbellico. Essa ha
incardinato per lungo tempo il Giappone in Occidente (53).

Addio a Yoshida
Ma il dissolversi del contesto bipolare e le crescenti frizioni commerciali
fra Stati Uniti e Giappone hanno favorito i critici della «dottrina Yoshida». Le
accuse americane, in particolare dei «revisionisti», cioè di coloro che vogliono
«rivedere» i rapporti con noi perché li considerano troppo svantaggiosi (il defi-
cit commerciale americano nei confronti del Giappone ha toccato i 59,3 mi-
liardi di dollari nel 1993), hanno lasciato il segno. Oggi la «dottrina Yoshida»
ha esaurito la sua funzione. Lo si vede dalla crisi del sistema politico interno,
accentuata dalla più violenta recessione dai tempi dello shock petrolifero e
dalle incertezze che segnano la nostra politica estera. Il Giappone moderno si
trova dunque nella terza grande fase di trasformazione, dopo quella dell’èra
Meiji nella seconda metà del XIX secolo e quella dell’ultimo dopo-guerra. 41
TOKYO SI RISCOPRE ASIATICA

Dove sta il Giappone?


Le critiche occidentali hanno sollevato da noi domande finora tabù. Per
esempio: qual è l’interesse nazionale giapponese? Che ruolo può giocare il
Giappone nella comunità internazionale? Che vuol dire essere giapponesi?
Già porsi questi interrogativi, a metà degli anni Ottanta, significava guardare
più all’Asia che all’Occidente. Nel 1985, il premier Nakasone, promotore del
Centro internazionale di studi sul Giappone, afferma che obiettivo dell’istitu-
to è di ricercare l’identità giapponese. Il direttore del Centro Takeshi Emeha-
ra, convinto assertore del fatto che l’animismo sia una delle specificità della
cultura giapponese, si esprime così al riguardo: «Se l’Occidente riconsidererà
la sua visione della pace nel mondo, basata sul dominio del mondo occiden-
tale su quello non occidentale, sarà costretto ad ammettere che l’islam o il
buddismo o altre civiltà sono sul suo stesso piano. Se un monoteismo conce-
de uno status di parità ad altre religioni è obbligato a diventare politeista. Io
credo che l’orientamento delle civiltà a venire si dirigerà dal monoteismo
verso il politeismo. Per la coesistenza dei popoli in un pianeta così piccolo
come il nostro valgano più i politeismi dei monoteismi. In questo senso, il
buddismo come l’induismo e gli animismi contribuiranno alla pace dell’uma-
nità» (54). Come si vede, in questa visione è implicito il ritorno all’identità
asiatica. E Hiromatsu Wataru, filosofo marxista molto influente fra i giovani,
afferma: «L’epoca centrata sull’Occidentale sta tramontando per sempre».
Non si può prevedere l’avvento puro e semplice di un’èra dell’Asia. Ma, a breve
termine, l’Asia nord-orientale giocherà un ruolo sempre maggiore sul piano mondia-
le. L’economia giapponese è obbligata a orientarsi verso l’Asia (55). Nel nuovo con-
testo mondiale si profila dunque un asse fra Cina e Giappone.

Noi e voi
La propensione dell’economia giapponese a orientarsi verso il continen-
te asiatico ci obbliga a riorientare l’azione dello Stato. I dirigenti del ministero
degli Esteri guardano a nuovi contesti di collaborazione interregionale, che il
Giappone dovrà sforzarsi di promuovere – un po’ sul modello dell’Apec
(56). Il ministero della Programmazione economica ha stabilito che le impre-
se giapponesi orienteranno i loro investimenti d’oltremare soprattutto verso i
paesi dell’Asean (Thailandia, Malaysia, Indonesia, Filippine, Singapore, Bru-
nei), che nei prossimi anni scavalcheranno sotto questo aspetto gli Stati Uni-
ti, e verso le nuove economie industrializzate, come la Corea, Hong-Kong,
Taiwan eccetera.
L’opzione asiatica va ovviamente sostenuta a tutti i livelli e con tutti gli
strumenti – politici, economici e anche militari (la missione dei soldati giap-
42 ponesi in Cambogia, sotto egida Onu, è particolarmente significativa, vista la
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

tradizionale riluttanza dell’opinione pubblica alle missioni oltremare). Ciò


implica un rapporto critico con l’Occidente, accusato di voler ridurre il Giap-
pone in una condizione di minorità. In questo senso sono stati interpretati da
molti osservatori giapponesi gli slogan dei «revisionisti» americani, tipo il «Ja-
panese bashing» o «Contain Japan», come pure le uscite pubbliche di alcuni
leader europei – vedi l’ex premier francese Edith Cresson che considera i
giapponesi come «nemici». Queste rappresentazioni occidentali derivano da
una visione negativa dell’Asia, rispetto ai valori positivi rappresentati da Stati
Uniti ed Europa.
Ma oggi l’Asia, già simbolo dei valori negativi, dopo essere stata usata
politicamente, sfruttata economicamente ed espropriata culturalmente, co-
mincia ad apparire come una realtà solida e positiva, niente affatto artificiale
(57). Se uno dei fattori dell’universalizzazione della civiltà occidentale è stato
il suo scontro con altre civiltà, oggi la civiltà asiatica sta forse ripercorrendo
quel cammino, facendo sentire la sua voce propria, che contrasta con quella
dell’Europa o degli Stati Uniti. L’Asia deve cercare di esprimere valori univer-
sali. La sua riabilitazione dipende da questo.
In Giappone, le frizioni con l’Occidente stanno provocando la nostra li-
berazione dal giogo dei valori occidentali. Stiamo cominciando a cercare il
nostro posto in Asia.
Prendiamo le famose tesi del professor Samuel P. Huntington, espresse
nel suo articolo «The Clash of Civilizations?», dell’estate scorsa. In esso questo
autore, che ha una certa influenza politica sulla Casa Bianca, tratta il Giappo-
ne come nemico potenziale, nel quadro della sua visione delle linee di frat-
tura fra civiltà come luoghi dei conflitti post-guerra fredda. Queste tesi ci im-
pressionano e ci paiono un’ulteriore evoluzione del «revisionismo» america-
no. Esse prefigurano un mondo diviso fra occidentali e non occidentali. E ci
portano alla necessità di riconsiderare il nostro rapporto con gli Stati Uniti e
con i paesi dell’Unione europea (58).

La scuola di Kyoto
In tale ricerca, occorre tener conto dell’eredità del passato. E cioè biso-
gna considerare gli effetti dei primi approcci con gli occidentali, nel XVI e
nel XVII secolo, seguiti da una chiusura totale di oltre due secoli, fino al
1854. Allora, grazie all’iniziativa della diplomazia americana, il flusso formi-
dabile dei valori occidentali, favorito dal rinnovamento dell’imperatore Meiji
(1868), provocò con il tempo una reazione nazional-sciovinista. Fino a dipin-
gere l’occidentale come un barbaro, come qualcuno che vive ai margini della
vera civiltà. Il carattere aggressivo del capitalismo giapponese, che nella pri-
ma metà di questo secolo lo ha spinto verso l’Asia, in particolare con l’attac-
co alla Cina, sfociava nel tentativo di affermare la centralità asiatica del Giap- 43
TOKYO SI RISCOPRE ASIATICA

pone (a spese dei cinesi). Le critiche occidentali all’espansionismo giappone-


se in Asia, che culminerà nella seconda guerra mondiale, hanno rafforzato la
tendenza a rappresentare questa vocazione asiatica come lotta di indipen-
denza antioccidentale. È il caso della cosiddetta «scuola di Kyoto», avversa ai
valori europei e proiettata a elaborarne di nuovi, altrettanto forti e universali
ma di impronta asiatica.
Ora, questa scuola di Kyoto, bastione ideologico del nazionalismo giap-
ponese durante la seconda guerra mondiale, comincia ad attirare nuovamen-
te l’attenzione, giacché molti vedono nel suo approccio alla questione d’Oc-
cidente più di un nesso con l’attualità. Ciò va di pari passo con la perdita
d’influenza del modello americano, che pure ha dato al Giappone gli straor-
dinari risultati economici del dopoguerra, fino al superamento del pnl ameri-
cano da parte giapponese alla fine degli anni Ottanta. L’atteggiamento dei
«revisionisti» americani, checché ne pensi Huntington, è visto da alcuni giap-
ponesi come irrazionale se non razzista. E questo ci induce a rivedere il no-
stro modo di pensarci nel mondo.
Il Giappone non possiede ancora un modello alternativo globale all’oc-
cidentalismo. C’è ancora molta confusione. L’identità asiatica in via di rico-
struzione è abbastanza vaga, vista anche l’enorme estensione di questo con-
tinente. Nel corso di questa ricerca il Giappone tenderà inoltre a deindustria-
lizzarsi e a invecchiare. Dal secondo decennio del prossimo secolo il Giap-
pone avrà la struttura demografica più vecchia del mondo, probabilmente.
Sono fattori che bisogna tenere in conto, quando si cerca di immaginare qua-
le potrà essere lo sviluppo di questa terza ondata di modernizzazione giap-
ponese, sul sui compimento e sui cui esiti è d’obbligo la prudenza.

(traduzione di Gianni Di Bartolomei)

Note
53. Si veda su questo C. JOHNSON, The MITI and the Japanese Miracle, Stanford 1992, Stanford University
Press.
54. T. EMEHARA, «Pensare le foreste per salvare l’umanità», Shugaku kan, ottobre 1991, p. 169.
55. Su questo tema, T. HAMASHITA, «La ricerca sul Giappone e l’identità asiatica», Shiso, agosto 1993.
56. SH. KURIYAMA, «Gli orientamenti della diplomazia giapponese, sulla base delle esperienze reali», Shu Ku-
ron, novembre 1991. L’autore è stato sottosegretario agli Esteri fino al 1991.
57. K. OGURA, «Per la riabilitazione dell’Asia», Shu Kuron, luglio 1993. L’autore dirige il dipartimento economico
del ministero degli Esteri.
58. Sulle relazioni in Giappone alle tesi di Huntington, cfr. T. KAMO, «Dagli Stati Uniti alla ricerca del multipola-
44 rismo vigoroso», Sekai, marzo 1994.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

LA CINA
SOGNA
L’‘ASSE GIALLO’ di Francesco SISCI

‘Tiananmen? Pensate alla Jugoslavia’, risponde Pechino


alla richiesta di tutela dei diritti umani. Mentre resta la diffidenza
verso i bianchi ex colonialisti, la visita di Akihito a Pechino
prepara forse un nuovo equilibrio geopolitico in Asia orientale.

C HE L’EUROPA SIA UNICA E CHE I RUSSI


ne facciano parte è tesi, per certi versi, discussa anche da noi; i cinesi, però,
ne sono quasi certi: europei occidentali e orientali non sono uguali. Sono tut-
ti pelosi, hanno i capelli gialli, la barba, quell’orribile grande naso e perfino
la stessa puzza «di volpe» addosso. Ma non è questo. Gli europei occidentali,
i cinesi li conobbero dall’Oceano, mentre i russi venivano dal nord e si inse-
rivano nel contesto di un antichissimo problema di gestione di popoli delle
steppe che premevano sul celeste impero. Sono gli occidentali che hanno
per la prima volta attaccato la Cina dal mare e si sono così meritati il poco af-
fettuoso nomignolo di yangguizi, diavoli dell’Oceano.
Non è questione di pelle, però, ma di cultura. Sin dall’antichità si raccon-
ta di persone bionde con gli occhi azzurri che però «parlano e si comportano
come cinesi» e che per questo vengono trattate come cinesi, appunto. C’è un
discrimine molto forte tra cinesi e non cinesi ma sulla base della cultura non
della razza (59), e c’è quindi una fortissima capacità di assimilazione dell’al-
tro: costumi stranieri diventano «cinesi», si veda l’attuale consumo di birra. La
bevanda è stata importata dai tedeschi ma oggi viene distillata in tutte le
campagne e gli stessi cinesi ne hanno dimenticato l’origine. D’altro canto i
costumi stranieri smettono di avere una loro identità e si assimilano comple-
tamente. Ad esempio cristiani nestoriani, ebrei e musulmani hanno costituito
forti comunità in Cina che però nell’arco degli anni sono sparite, assorbite
completamente. Canton solo un paio di secoli fa era descritta come una città
islamica, oggi non c’è una moschea.
Il rapporto attuale con l’Occidente ha forti elementi di sfida culturale
(60) ed è in base alla cultura che i cinesi distinguono i propri vicini e perciò
hanno assimilato o distinto fra gli europei.
I rapporti di forza tra Europa moderna e Cina cominciarono nella secon- 45
LA CINA SOGNA L’‘ASSE GIALLO’

da metà del XVII secolo. La Cina era allora ben poco «cinese». Era stata invasa
da una coalizione di popoli altaici guidati dai mancesi che fondarono la di-
nastia Qing, rovesciando i Ming cinesi. Costoro avevano passato la prima
metà del secolo a sedare ribellioni nazionaliste e a stabilire il loro dominio
nell’immenso paese. Proprio allora i russi si erano allungati nel nord delle
steppe fino quasi a lambire il Mar del Giappone e avevano anche cominciato
a scendere verso l’Asia centrale. Queste zone erano area d’influenza tradizio-
nale tradizionale della Cina ma i nuovi signori di Pechino erano preoccupati
di estendere il proprio potere verso le fertili valli del Fiume Giallo e del Fiu-
me Azzurro e non si curarono dei nuovi barbari del nord.
Fu l’imperatore Kangxi che nel 1685 ordinò di attaccare la base russa di
Albazin, sul fiume Amur. La base fu presa e distrutta, e nel 1689 Cina e Russia
fissarono il confine sostanzialmente dove è ancora oggi, lungo i fiumi Amur
e Argun. Il trattato di pace di Nercinsk fu redatto da interpreti gesuiti che usa-
rono le loro conoscenze di latino e mancese. Per i Qing si trattava di risolve-
re un problema endemico della frontiera settentrionale: ogni volta che un
popolo delle steppe invadeva la Cina si sinizzava ma alle sue spalle altri po-
poli barbari premevano per scendere a sud. Le dinastie avevano risolto tali
pressioni senza porsi il problema della conquista delle terre ghiacciate del
nord ma invece stabilendo dei passi di frontiera invalicabili. Così fecero an-
che i mancesi che anzi stabilirono questi passi nel punto più settentrionale
mai raggiunto dall’impero cinese. Che i russi non fossero diversi da altri inva-
sori del passato e dai Qing stessi lo confermavano i loro alleati, gli zungari,
popolazione mongolica «cugina» dei mancesi.
Per i russi invece il trattato di Nercinsk avrebbe rappresentato il via libera
all’occupazione della Siberia, un territorio sì gelato, ma pur sempre immenso
che li avrebbe portati fino alla conquista dell’Alaska. L’occupazione della Si-
beria avrebbe mutato radicalmente la geopolitica di quel territorio. I russi
avrebbero irreggimentato i mongoli e i turchi della zona e l’avrebbero pacifi-
cata mettendo fine a millenni di razzie che avevano colpito e sconvolto oltre
alla Cina anche l’India, il mondo arabo e l’Europa.
Pochi anni prima il generale lealista Ming per sfuggire ai mancesi aveva
invaso l’isola di Formosa scacciandone gli olandesi. Dall’isola Koxinga conti-
nuò a combattere i Qing organizzando anche una guerra di corsa. Iniziò allo-
ra la diaspora cinese verso il Sud-Est asiatico e gli invasivi commercianti eu-
ropei, sconfitti, vennero tenuti alla larga dalla Cina per quasi altri due secoli.
Gli europei sono per la prima volta considerati in modo unitario alla fine
del XIX secolo. Nella guerra dell’oppio e dopo le potenze occidentali si
schierano coralmente contro Pechino. E tutte insieme difendono poi i loro
privilegi durante la rivolta dei boxer. Agli occidentali in quegli anni si accor-
da il Giappone che, come i «colleghi» europei e americani, chiede la sua fetta
di Cina. La rivoluzione comunista porta però i russi da un’altra parte rispetto
al gruppone occidentale. Le promesse di Lenin di restituire i territori del nord
invasi dagli zar convincono molti cinesi della bontà di questi comunisti e del-
46 le ingiustizie subite dalle potenze coloniali.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

Ma la porta per la Russia e per l’Occidente rimane una e passa per


Tokyo. Il Giappone accoglie il maggior numero di studenti cinesi in viaggio
all’estero e fornisce il vocabolario stesso per tradurre l’Occidente e accostarsi
alla sua modernità. I giapponesi avevano tradotto termini come «democra-
zia», «filosofia», «scienza», «libertà» eccetera usando caratteri cinesi (61). Gli stu-
denti di Pechino ripresero quei composti nella loro prosa.
I giapponesi avevano uno strano posto nel cuore cinese; più vicini e più
odiati di qualunque altro occidentale, appartenevano comunque all’orizzon-
te culturale di Pechino: sapevano «naturalmente» la pittura, l’architettura,
l’opera cinese. Si erano formati leggendo cinese classico come i ginnasiali da
noi leggevano greco e latino. Simile vicinanza di sensibilità tra gli europei era
solo roba da esperti, la stragrande parte degli invasori bianchi era al massimo
affascinata dall’esotismo e dall’incomprensibilità del paese. Questo rapporto
speciale fra Cina e Giappone fu esasperato dall’invasione nipponica, rea di
infinite nequizie contro i contadini ma anche capace, per la prima volta, di
scacciare e sottomettere i detestati yangguizi.
Dopo la seconda guerra mondiale, la fratellanza con l’Unione Sovietica
potrebbe anche essere raccontata come il sogno del riscatto cinese dall’umi-
liazione subita dagli yangguizi. Il sogno di quel riscatto finì in una lite tra fra-
telli comunisti che avrebbero dovuto riabbracciarsi a piazza Tiananmen tra il
12 e il 19 maggio 1989. Mikhail Gorbacev, il riformista russo, avrebbe dovuto
«riaffratellarsi» con Deng Xiaoping, il riformista cinese, ma si intromise un
gruppo di studenti scalmanati che portarono in piazza milioni di concittadini.
Così, dopo essersi sfiorati per un attimo, i destini russi e i cinesi tornarono a
divergere: l’Europa orientale abbandonò il socialismo e imboccò un cammi-
no che finora ha gettato sul lastrico interi popoli. La Cina invece rimase per-
vicacemente attaccata alla bandiera rossa e distribuì ricchezze e sviluppo
senza regole alla sua gente. Così almeno la pensano a Pechino.
Il massacro del 4 giugno 1989 nei pressi di piazza Tiananmen fu l’inizio e
la fine di tante cose. Ma forse una delle più importanti fu che dopo circa un
secolo e mezzo i confini ritornarono chiari: gli orientali stettero con gli orien-
tali e gli europei con gli europei. I bianchi urlarono scandalizzati e si ritiraro-
no per qualche anno dal mercato cinese, i gialli invece accorsero a colmare
tutti gli spazi lasciati vuoti dai bianchi e stesero un velo pietoso o cinico su
quei morti. Forse fra qualche decina di anni gli storici potrebbero decidere
che il 4 giugno 1989 è la data di una svolta epocale. Infatti da lì a poco le
economie europee cominciarono un ciclo di depressione (62) mentre le eco-
nomie asiatiche continuavano a correre a un tasso di quasi due cifre e la Cina
tra il 1992 e il 1993 diventava secondo i calcoli di ricercatori australiani e del
Fondo monetario internazionale una delle prime economie del mondo.
Inoltre cambiava radicalmente l’atteggiamento verso l’Occidente. Quella
che prima era una specie di sudditanza culturale, diventava ora orgoglio di
una tradizione millenaria.

47
LA CINA SOGNA L’‘ASSE GIALLO’

Il mondo si allarga, gialli all’assalto


Dalla prima guerra mondiale la sicurezza europea prendeva in conside-
razione anche il Pacifico; vi erano interessi e commerci vitali di Europa e
America e una potenza regionale emergente, il Giappone, che nel 1905 ave-
va battuto la Russia.
Ma fino agli anni Quaranta, l’Asia era cruciale perché gli interessi delle
potenze europee e degli Usa si estendevano in quella regione. Viceversa og-
gi è importante perché le grandi e piccole potenze asiatiche per la prima vol-
ta allargano le loro aree di influenza in zone finora dominate dall’Europa e
dagli Usa. Ciò avviene su un piano più strettamente strategico-tecnologico
(la diplomazia cinese verso il Medio Oriente) e su un piano economico (gli
interessi giapponesi e dei paesi del Sud-Est asiatico e più discretamente in
Africa e America Latina). Tra l’agosto 1990 e il gennaio 1991, nell’intervallo di
tempo tra l’occupazione del Kuwait da parte dell’Iraq e Desert Storm, la Cina
è stata molto attiva in Medio Oriente: appoggiava la causa araba e palestine-
se, ammiccava a Baghdad e faceva affari. A livello ufficiale alzava anche il
prezzo del suo «sostegno» (63) all’Onu per la guerra del Golfo. Non intende-
va farsi sfuggire l’occasione di uscire dal frigorifero diplomatico dove era sta-
ta messa dopo Tiananmen. Se la Cina avesse posto il veto come membro
permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu, il progetto americano di una
spedizione contro l’Iraq con la copertura delle Nazioni Unite sarebbe fallito.
Pechino mostrava la sua influenza nell’area e chiedeva che il massacro del
1989 fosse dimenticato in cambio del fatto che non avrebbe usato il veto.
In realtà per il ministro degli Esteri cinese Qian Qichen la posta era an-
cora più alta e complessa. Lo schieramento antiiracheno era stato reso possi-
bile, come avevano avvertito subito i paesi radicali dell’area, grazie al cam-
biamento di posizione dell’Urss e alla sua oggettiva debolezza interna e
quindi internazionale. Per la Cina si trattava di un’opportunità per ricucire la
sua politica internazionale occupando, per certi versi, gli spazi lasciati vuoti
dall’Urss. Si presentava come «potenza antiimperialista», con tanto di retorica
antioccidentale a cui i paesi radicali dell’area potevano fare riferimento.
Quello che interessava a Pechino non era pescare tra i rottami del vec-
chio schieramento arabo antiisraeliano, ma penetrare in un’area considerata
strategica dall’Occidente. Così la Cina poteva ottenere due vantaggi concate-
nati: 1) trovare un nuovo mercato per uno dei suoi prodotti più competitivi,
le armi; 2) aumentare il suo peso contrattuale nei confronti dell’Occidente.
Esistono fratture profonde tra Usa e Cina. Un’idea di quanto siano reali i
problemi che oppongono i due paesi sul piano strategico la si può avere
guardando ai risultati della visita di Baker in Cina, nel novembre 1991. Il se-
gretario di Stato aveva tre questioni in agenda: diritti umani, dumping com-
merciale e vendita di armi in Medio Oriente. Su tutti e tre gli aspetti la visita
fu un fallimento. Il comportamento della Cina è stato in questa occasione
estremamente duro. A due anni da Tiananmen, molte cose erano cambiate.
48 Nel 1989 l’embargo commerciale occidentale rischiava di mettere in ginoc-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

chio l’economia cinese, per il 15% orientata verso l’estero. In due anni, però,
tutti i buchi lasciati da aziende americane ed europee erano stati riempiti da
investimenti giapponesi e taiwanesi. Questi due paesi dopo il massacro han-
no continuato a fare affari con Pechino. Per Giappone e Taiwan, guardati
prima con sospetto dai cinesi, l’isolamento di Pechino era un’occasione d’oro
per imporre le loro condizioni commerciali alla Cina.
Tali investimenti hanno portato la Cina in una situazione quasi parados-
sale in Estremo Oriente. La sfida verso Stati Uniti ed Europa, il seggio perma-
nente al Consiglio di sicurezza, la determinazione a risolvere le proprie fac-
cende interne incurante delle pressioni internazionali, ne hanno fatto il gi-
gante politico dell’Asia orientale. D’altro canto la sua crescente dipendenza
tecnologica dai paesi dell’area ne ha fatto un nano economico, o meglio
sempre un gigante, però, al guinzaglio delle forniture tecnologiche straniere.
Ma le deficienze tecnologiche possono essere compensate da un superattivi-
smo politico. Almeno così prova a fare la Cina.
Nell’estate 1992 Pechino stabilisce relazioni diplomatiche con la Corea
del Sud. D’un tratto la Corea del Nord appare isolata. La penisola coreana
potrebbe essere a un passo dalla riunificazione. Ma non è così perché Pechi-
no protegge ancora Kim Il-Sung e impone, soprattutto agli Usa, di non fare
troppe pressioni alla Corea del Nord sulle questioni dei diritti umani e della
riunificazione. Quindi, allacciando relazioni diplomatiche con Seul, Pechino
virtualmente fa della Corea del Nord un suo protettorato; il paese in pratica
non ha relazioni esterne tranne che con la Cina e perciò, per trattare con il
resto del mondo, deve passare da Pechino. Questa protezione ha poi un altro
valore: la pericolosa Corea del Nord può essere agitata come una minaccia
contro avversari reali e potenziali nell’area, e la capacità di Pechino di con-
trollare tale minaccia ne aumenta il peso internazionale.
Nel 1993, la posizione contrattuale della Cina nei confronti degli Usa si
è ulteriormente rafforzata. La crescita dell’economia cinese aveva trascinato
quella delle economie del Sud-Est asiatico e anche degli Usa, tanto che
quando il segretario di Stato americano Warren Christopher era giunto a Pe-
chino nel marzo 1994 non poteva di fatto più esercitare pressioni economi-
che sulla Cina. Gli uomini d’affari statunitensi spiegano a Christopher che
sanzioni economiche americane per il mancato rispetto dei diritti umani in
Cina avrebbero comportato la perdita di almeno 200 mila posti di lavoro in
Usa. La Cina avrebbe infatti, come ritorsione, espulso tutti gli americani dal
suo mercato. La ripresa americana, su cui tanto aveva scommesso il presi-
dente Bill Clinton, era in qualche modo «ostaggio» delle aperture cinesi.

Cina e Giappone
Intanto tra Cina e Giappone è finito il periodo dello scambio esclusivo di
merci ed è cominciato quello dei patti politici. Durante la visita a Pechino del
10 agosto 1991, il premier giapponese Toshiki Kaifu ha inviato la Cina a farsi 49
LA CINA SOGNA L’‘ASSE GIALLO’

campione degli interessi dell’Asia orientale nelle assise internazionali. Pechi-


no ha risposto all’invito dichiarandosi pronta ad aderire al Trattato di non
proliferazione nucleare. La stampa cinese ha sottolineato che questo era da
intendersi come un omaggio all’ospite.
La cooperazione politica tra i due paesi è stata poi confermata con l’arri-
vo a Pechino, il 3 gennaio successivo, del ministro degli Esteri di Tokyo Mi-
chio Miyazawa. Funzionari del ministero degli Esteri giapponese affermaro-
no che la visita mirava a stabilire «un nodo di potere politico in Asia per cata-
lizzare gli interessi della regione».
Non sono solo dichiarazioni di intenti, cerimoniali orientali, laccati, vuoti
e fragili. I due paesi vogliono la pace e la prosperità della regione; per que-
sto hanno avviato a concreta soluzione la crisi cambogiana, ultimo grande
punto di tensione dell’area. La Cina ha fatto molte pressioni sui suoi riottosi
alleati, i khmer rossi, ha spinto il principe Norodom Sihanouk (64) tra le
braccia di Hun Sen, premier dell’ex governo filovietnamita cambogiano e,
inoltre, ha normalizzato i rapporti con il Vietnam.
Il Giappone, dal canto suo, ha ospitato molte riunioni per le trattative di
pace, si è dato da fare con manovre di corridoio e promesse di generosi aiuti
per la ricostruzione di Vietnam e Cambogia. E nel 1992, per la prima volta
dalla seconda guerra mondiale, ha inviato proprie truppe all’estero, sotto
l’egida dell’Onu, a controllare il rispetto degli accordi di pace e delle elezioni
in Cambogia. Dal voto i khmer rossi sono usciti sonoramente sconfitti e ora
controllano un’area limitata del territorio del paese. Solo nel 1991 la Cina
aveva urlato contro l’eventuale invio di truppe giapponesi all’estero e ricor-
dava al mondo il vecchio pericolo del militarismo nipponico.
Sulla base del comportamento occidentale in Jugoslavia, che cosa ha que-
sta Europa da insegnare all’Asia se non blaterare sui diritti umani, cioè sulla
sorte di qualche decina di individui senza alcun seguito in Cina e con un pas-
sato di autentici istigatori di guai, quando è pace e stabilita quello che vuole il
mondo tutto intero? La Cina infatti spiega che disordini sul suo territorio si ri-
percuoterebbero in tutto il pianeta e mantenere la sua pace interna, contenere
il flusso di emigrati verso l’estero è un contributo alla pace mondiale.
Al contrario Giappone e Cina riscoprivano legami lontani e profondi. Ci-
nesi e giapponesi sanno che per loro la grande svolta e la grande umiliazio-
ne è cominciata nel secolo scorso, nel 1840 con le cannoniere inglesi della
guerra dell’oppio in Cina e 14 anni dopo in Giappone con il commodoro
americano Perry. Oggi, con il crollo dell’Urss, l’ostilità viene dal grande
Oceano, come nell’Ottocento: dai bianchi pelosi, facce di scimmia che vo-
gliono sbarcare in un mare, quello giallo, che non appartiene più a loro.
Agli occhi dei giapponesi il gioco che fanno i bianchi – europei e
americani – è sleale: hanno voluto imporre le loro regole per il commercio e
la produzione, e ora che Tokyo li batte al loro stesso gioco, strillano che la
concorrenza è sleale (gli americani) o mirano a rinchiudersi in una fortezza
commerciale (gli europei) senza peraltro riuscirci. Tutto questo è indegno,
50 pensano.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

BARBARI CRUDI E BARBARI COTTI

Vi sottoponiamo qui alcuni termini della lingua cinese utilizzati fino all’ini-
zio del XX secolo per designare gli stranieri. Dal punto di vista geopolitico essi
sono molto interessanti in quanto sono indicativi del sinocentrismo di questa
lingua.

«Capelli rossi», Hong maozi


«Nasoni», Dabizi
«Diavoli dell’Oceano», Yangguizi
«Vecchi stranieri» (scherzoso), Laowai
«Straniero», Wài gudrén
«Barbaro, selvaggio», Ye man. Con questo appellativo venivano designati i
popoli delle steppe: turchi, mongoli eccetera e quelli della Cina meridionale:
miao, li eccetera.
Vi è poi un’ulteriore distinzione in «barbaro non civilizzato», letteralmente
«crudo», riferito ai popoli non assimilati e non assimilabile e «barbaro civilizza-
to» (cotto), riferito a quelli sotto tutela cinese.
(Francesco Sisci e M. Hoang)

Dello stesso tono le lamentele dei cinesi: finché c’era da sorvegliare


l’Urss dal suo confine sud, Washington passava soldi e tecnologia, chiuden-
do occhi, orecchie e naso alle storie dei lager e alle nequizie contro i prigio-
nieri politici.
Ora, invece, gli Usa si riempiono la bocca di diritti umani. Guardano a
Tiananmen? Ma che guardassero a Los Angels e ai loro ghetti pieni di poveri
neri e ricche contraddizioni, piuttosto. E poi si sa, anche qui c’è una questio-
ne di soldi, l’invadenza dei filati e della piccola tecnologica cinese. È roba
fabbricata magari con le fatiche dei condannati ai lavori forzati per crimini
politici, certo che costa poco, dicono in America.
Sicché Akihito va in Cina quando la maggior parte dei paesi occidentali
tiene ancora il muso con Pechino per la storia di Tiananmen. Tutta l’Asia, del
resto, si è stretta intorno alla Cina da un anno a questa parte. Le proteste e le
dichiarazioni formali dei governi «bianchi» sembrano scritte con un senso di
umanità pelosa, colonialista: Tiananmen con due, tremila morti impone l’iso-
lamento internazionale, ma in Jugoslavia decine, forse centinaia di migliaia
di persone possono continuare a morire scannate nei modi più barbari men-
tre i paesi intorno hanno perso anni in un balletto di responsabilità su chi
debba intervenire. Sembra proprio la morale con il doppio standard (uno
per sé e uno per gli altri) di cui parlava la propaganda cinese nel 1989.
Non solo, l’Occidente ha virtualmente ignorato fino alla fine del 1993 i
passi enormi compiuti dai due giganti asiatici. Nella guerra del Golfo loro so-
no stati registi: la Cina ha giocato a tutto campo, da un lato ha ritessuto rap-
porti in Medio Oriente, allacciando relazioni anche con Israele, ha piazzato 51
LA CINA SOGNA L’‘ASSE GIALLO’

un bel po’ di sue armi (forse anche atomiche) e ha fatto pagare il suo silen-
zio sull’invasione con la fine dell’embargo economico. Il Giappone ha coper-
to gran parte del conto della spesa, degradando di fatto gli americani a mer-
cenari, e ha fornito i cruciali chip della vittoriosa guerra tecnologica.
E in cambio cosa hanno ricevuto? Allarme, grida di «all’invasione, al peri-
colo giallo». Bill Clinton ha promesso in campagna elettorale di togliere i pri-
vilegi commerciali concessi alla Cina e ha minacciato posizioni anche più
dure contro gli invadenti commercianti giapponesi. E ha vinto le elezioni.
Per questo, la visita di Akihito a Pechino nel 1993 non è un gesto forma-
le. Né vuole dirimere una querelle orientale sul grado di scuse che l’impera-
tore dovrebbe presentare (con orrore dei fascisti giapponesi) ai cinesi. Su
questo veglia il realismo asiatico: Tokyo ha chiuso gli occhi sul massacro in-
torno a Tiananmen, che Pechino li chiuda sul massacro giapponese di Nan-
chino. È un asse giallo che si forma intorno alla sacra persona di Akihito: del
resto Pu Jie, fratello minore dell’ultimo imperatore cinese, aveva sposato una
principessa imperiale di Tokyo. Non sono già un po’ parenti questi due pae-
si? Hanno molti interessi comuni, dominano l’area dove tra pochi anni si pro-
durrà metà della ricchezza del mondo, e non vogliono un altro commodoro
Perry o generale Mac Arthur.
Questa è la prospettiva, di concreto la geografia politica dice cose più
accurate.

Il Giappone nell’Asia
Il Giappone è cresciuto troppo per restare un nano politico. I suoi inte-
ressi economici, quasi di sopravvivenza, non glielo permettono più. Al suo
interno si fanno sentire sempre più coloro che vogliono opporsi alle imposi-
zioni degli Stati Uniti, ma per ora continua a vincere il partito degli uomini
consapevoli di essere ostaggi politici americani. Senza l’appoggio Usa, il
Giappone rischierebbe una certa misura di isolamento internazionale e la la-
tente ostilità in Asia nei suoi confronti si manifesterebbe con maggiore vio-
lenza. I paesi del Sud-Est asiatico non perdonano il passato coloniale del
Giappone e la sua attuale arroganza commerciale. Gli Usa invece sono con-
siderati, eccetto che dalle Filippine, il paese che ha aiutato l’Estremo Oriente
contro il Giappone e contro «l’aggressione comunista» degli anni Sessanta, e
anche oggi la loro sola presenza nell’area, in una fase di ancora relativa de-
bolezza delle «piccole tigri», controbilancia l’influenza giapponese.
Questi erano gli equilibri prima della scomparsa dell’Urss e del nuovo
ruolo della Cina. Infatti proprio la crescita politica della Cina nel consesso in-
ternazionale permette al Giappone di giocare di sponda con gli Usa per rita-
gliarsi maggiori spazi di manovra.
In Europa la scomparsa dei comunisti sovietici, nemici naturali della Na-
to, ha «salvato» zone prima sotto la loro influenza ma allo stesso tempo ha
52 portato alla luce altri problemi. In Oriente, al di là del caso cinese, non c’è
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

una sfida geopolitica globale all’Occidente con motivazioni ideologiche co-


me fu quella sovietica, ma esiste una conflittualità commerciale con caratteri-
stiche abbastanza aspre.
Oltre alla competizione per nuove zone di espansione commerciale e al-
le manovre offensive e difensive nei rispettivi mercati interni, c’è una valuta-
zione strategicamente diversa del rapporto con la materia prima principe, il
petrolio. Proprio sul valore strategico del petrolio, peraltro, Usa ed Europa
da una parte e Giappone dall’altra hanno mostrato divergenze di vedute du-
rante la guerra del Golfo. Per gli Usa si tratta di un bene fondamentale da
controllare il più direttamente possibile per conservare la supremazia mon-
diale. Per il Giappone, invece, il petrolio è solo un bene da acquistare co-
munque da qualcuno, e la supremazia commerciale, secondo Tokyo, si può
ottenere, grossomodo, con una supremazia di tecnologia applicata, grazie a
massicci investimenti in ricerca e sviluppo e nell’organizzazione del lavoro.
La strategia americana, sbrigativamente delineata, appare più debole
perché tenta di conservare una posizione pericolante: il controllo del petro-
lio che il Giappone non ha mai avuto. Anzi Tokyo ha vissuto, specie dopo la
seconda guerra mondiale, nella coscienza della penuria energica. Sono situa-
zioni ereditate da ormai mezzo secolo e mostrano la corda. Inoltre Iran e
Pakistan, se opportunamente armati dalla Cina e da qualche repubblica ex
sovietica, come pare stia avvenendo, potrebbero lavorare per assottigliare la
corda. Così l’ultimo esperimento atomico cinese nel 1993, dopo che la Usa e
Russia avevano stabilito una moratoria di fatto, ha inferto un altro colpo alle
relazioni sino-americane.
A gennaio del 1994, il Giappone annunciava che avrebbe appoggiato la
creazione di una Comunità economica dell’Asia orientale (Eaec), proposta
dal premier malese Mahatir bin Mohamad. Doveva essere una struttura com-
merciale regionale alternativa a quella creata sull’altra sponda del Pacifico
con il Trattato di libero scambio nel Nord America (Nafta), entrato in vigore il
1° gennaio 1994, fra Canada, Usa e Messico.
Di fronte all’emergente Unione europea e al negoziato per il Nafta, nel
1990 Mahatir aveva ipotizzato un’Eaec che mirasse a concentrare le potenzia-
lità di investimento e scambio esistenti in Estremo Oriente con la partecipa-
zione dei paesi dell’Asean e di Cina, Giappone e Corea del Sud. Tokyo era
contro, temeva che un nuovo blocco regionale potesse compromettere le re-
lazioni commerciali con gli Stati Uniti.
Quattro anni dopo, però, il Giappone temeva, come Mahatir, che gli Usa
volessero imporre la propria egemonia economica nel bacino del Pacifico,
facendosi garanti della sua sicurezza e che il Nafta finisse per privilegiare gli
scambi regionali a discapito di un libero mercato multilaterale. Negli stessi
giorni anche il governo cinese, per gli stessi motivi e con gli stessi timori, si
dichiarava contro il Nafta.
Si sfilacciano i legami tra l’Asia «americana» e gli Stati Uniti. Per rianno-
darli ci vorrebbero dollaroni fruscianti. Ma gli Usa d’oggi non sono quelli di
una volta, non hanno i polmoni economici per sostenere l’ex Urss, il Medio 53
LA CINA SOGNA L’‘ASSE GIALLO’

Oriente che si converte all’islamismo più estremo, e occuparsi anche del re-
sto dell’Asia, un’area che ormai si estende dall’Indio alle Hawaii e dove abita-
no circa due miliardi e mezzo di persone.
Grazie a queste deficienze occidentali e alla ridefinizione della geopoliti-
ca mondiale, la Cina può muoversi più liberamente. Il solo altro paese che
potrebbe avere capacità di intervento nella regione è la Germania. Ma essa
ha tre questioni prioritarie che determinano la sua politica estera: 1) l’assorbi-
mento e l’irreggimentazione dell’ex Germania Est, mantenendo un’inflazione
minima, e scompensi sociali ridotti; 2) l’integrazione europea, portando tutti
gli europei in grado di farlo al livello del marco; 3) impedire lo sfacelo totale
da Varsavia a Mosca passando per Kiev e Minsk. È abbastanza per tenere la
Germania occupata almeno fino alla fine del millennio e lontana dall’Oriente
(65).
D’altronde, sul fronte asiatico la Cina alla fine del 1993 ha mostrato chia-
ramente le sue ambizioni nella regione che dominava da secoli. Nella lunga
lotta per il rinnovo dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza
dell’Onu si è opposta all’ingresso di Giappone e Germania. Infatti se il Giap-
pone rimane escluso dalla ristretta cerchia dei membri permanenti, la Cina
resta l’unica portavoce di una regione, l’Asia orientale, i cui interessi sono
sempre più in contrasto con quelli europei e americani, ma dove ci sono due
paesi che si contendono la leadership: Cina e Giappone, appunto.

Note
59. Fanno eccezione i neri, che rappresentano un caso a parte.
60. La propaganda di Pechino oggi teme «l’inquinamento spirituale» dell’Occidente e paventa «l’evoluzione paci-
fica del liberalismo borghese». Il teorico comunista ortodosso Deng Liqun sostiene, non diversamente dai bu-
rocrati di Pechino del secolo scorso, che occorre importare le tecniche occidentali mantenendo lo spirito e la
cultura dei cinesi. Sono tutte questioni culturali, come si vede, nemmeno ideologiche.
61. Il giapponese è scritto usando caratteri cinesi (specie per le parole colte) e due alfabeti.
62. Ad eccezione del Giappone, la cui crisi è comunque molto più lieve di quella europea.
63. La Cina non ha posto il veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu e ha così consentito che la guerra contro
l’Iraq si svolgesse sotto le insegne delle Nazioni Unite.
64. Sihanouk fu salvato dai khmer rossi da Zhou Enlai e gli fu data una residenza a Pechino.
65. La Germania negli ultimi anni non ha diminuito i suoi investimenti strategici in Estremo Oriente e anzi, se-
condo alcuni economisti, la politica dell’alto costo del denaro serve a finanziare anche questi investimenti di
lungo termine. È certo una presenza che darà i suoi frutti, ma nel complesso incapace di ostacolare la riap-
propriazione dei mercati asiatici da parte degli asiatici.’ATLANTICO PIÙ LARGO

54
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

‘Noi restiamo una potenza europea’


Colloquio di Stefano DEL RE con James A. BAKER III

Jston,
AMES ADDISON BAKER III, DI Hou-
Texas, 63 anni e 8 figli, è conside-
BAKER Lasci che le spieghi che cosa vole-
va dire quell’espressione nel modo in cui
rato un grande negoziatore sia tra avvo- venne usata. Voleva dire che i paesi –
cati che tra ministri degli Esteri, entram- quasi tutti i paesi del mondo – stavano
bi suoi pari. Baker è stato il sessantunesi- abbracciando i princìpi e i valori che
mo segretario di Stato nell’amministra- l’Occidente aveva fatto suoi per gli ultimi
zione del repubblicano George Bush e, quarant’anni, sarebbe a dire democra-
prima, segretario al Tesoro con Ronald zia e libero mercato. Voleva dire che il
Reagan. È uno degli uomini che hanno comunismo era crollato, che l’Unione So-
elaborato e portato a compimento la vietica era implosa. Ogni paese –
strategia vincente dell’Occidente nei con- nell’America Latina, eccetto Cuba, nella
fronti dell’Unione Sovietica; è forse colui maggior parte dell’area del Pacifico, in
che maggiormente si è impegnato, a Africa e in Medio Oriente – tutti stavano
fianco di Reagan prima e di Bush poi, a accettando democrazia e mercato. E
favore della perestrojka di Gorbacev; che questo è quanto quella locuzione impli-
si è speso in prima persona durante la cava. Ma senza escludere tensioni tecni-
guerra del Golfo; che, a Madrid, ha get- che, conflitti, il riemergere di vecchie
tato le basi dell’accordo che avrebbe por- animosità tradizionali. E infatti, di que-
tato ai colloqui di pace tra Israele e l’Olp. ste, ne abbiamo viste a profusione!
Nel crepuscolo della guerra fredda che LIMES Siamo alla svolta del secolo: lei
tutto ha cambiato e nell’attesa di un pensa che esista un pericolo di declino
nuovo assetto di relazioni internazionali per l’Occidente?
di là da venire, Baker è tra coloro in gra- BAKER Penso, in effetti, che la questione
do di leggere freddamente il presente. E sia molto importante. Una delle scom-
di raccontarlo. Lo abbiamo intervistato. messe che ha di fronte a sé l’Occidente è
LIMES Signor segretario, fu proprio lei di rafforzare l’alleanza occidentale.
che, dopo la guerra del Golfo e la cadu- Una cosa che va fatta è ridefinire la
ta del comunismo, contribuì a elabora- missione della Nato per esser certi di
re la teoria di un nuovo ordine mon- mantenerla come il più efficace stru-
diale. Da allora sono passati appena tre mento di sicurezza degli ultimi qua-
anni. Le chiedo, lei vede un qualche or- rant’anni. Ma per questo l’Alleanza de-
dine nel mondo attuale? ve ridefinire la sua missione. Dobbiamo 57
‘NOI RESTIAMO UNA POTENZA EUROPEA’

assicurarci, ora che non c’è una singola Si sono sviluppati dei mercati rudi-
superiore minaccia alla nostra esisten- mentali in tutta la Russia e sono quin-
za – voglio dire la minaccia nucleare di in tanti ad essere interessati alle
dell’Unione Sovietica – di non lasciar riforme. Quanto ai nomi, non esclude-
emergere difficoltà commerciali ed eco- rei – in aggiunta a quelli già menzio-
nomiche che creino divisioni nel campo nati come Egor Gajdar o Boris Fedorov
occidentale. Credo che l’Ovest in quanto – il primo ministro Viktor Cernomyr-
entità – le democrazie industriali, o il din. E ce ne sono altri. Tuttavia ci so-
G7 se vuole – possa continuare ad essere no anche, sfortunatamente, coloro che
efficace politicamente ed economica- cercano di capitalizzare le difficoltà
mente nella promozione di crescita, pa- di un paese che è stato messo sottoso-
ce, prosperità e stabilità. Ma bisogna la- pra politicamente, economicamente e
vorare per far sì che, come ho detto, non socialmente.
affondiamo sulle secche delle diversità LIMES Che effetto farebbe, agli Stati Uniti,
commerciali ed economiche che natu- una Germania che guidasse politica-
ralmente esisteranno tra noi. mente l’Europa?
LIMES Scusi signor Baker, facciamo qual- BAKER La posizione degli Stati Uniti è
che caso concreto. Lei è a favore di una che abbiamo appoggiato l’integrazione
Russia forte o debole? europea e continueremo ad appoggiar-
BAKER Credo che vorremmo tutti vedere, la. Come debba aver luogo l’integrazio-
soprattutto, una Russia stabile, che va- ne, francamente, è affare degli europei,
da avanti nelle riforme politiche ed non sta agli Stati Uniti deciderlo. Noi
economiche. Una Russia che sia in abbiamo molti amici in Europa, paesi
buoni rapporti con l’Occidente. che sono forti sostenitori della Nato co-
LIMES Ma lei che credito dà a Boris Elcin me l’Italia e la Germania, ma come
quando afferma che, alla fine, la Russia l’Europa si sviluppi in termini di inte-
sarà cambiata anche se lui dovesse la- grazione, è affar suo.
sciare il potere? LIMES Anche con una Germania forte?
BAKER Non solo lo credo quando lo dice. BAKER Ma la Germania è già forte, eco-
Ma lo so. Lo so per l’esperienza che ho nomicamente.
avuto trattando con lui: so che è un LIMES Ma non compiutamente dal punto
riformatore, ci crede, pensa che quella di vista politico.
sia la via sulla quale deve camminare BAKER Be’, penso che lo sia anche in ter-
la Russia. Allo stesso tempo – come capi- mini politici, per come spinge verso l’in-
ta a molti leader – sta subendo un bel tegrazione europea. E il modo di anco-
po’ di resistenza. Certo sono disturbato rare la Germania all’Europa è proprio
nel vedere che gente come Gajdar e Fe- quello di vedere realizzata l’integrazio-
dorov abbia lasciato il governo, ma ne. È stata opinione degli Stati Uniti, per
penso che il presidente Elcin creda sem- qualche tempo, che la Germania doves-
pre nelle riforme e in buone relazioni se assumere responsabilità commisurate
con l’Ovest; e non nella via su cui vor- al suo potenziale economico. Quindi ben-
rebbero portare la Russia gli ultranazio- venuta, senza l’esclusione di alcun pae-
nalisti e anche i fascisti come Vladimir se e dentro un’Europa integrata.
Zirinovskij. LIMES Lei, signor segretario, è stato uno
LIMES Quali sarebbero le eventuali alter- dei maggiori protagonisti al tempo della
native a Elcin? caduta del Muro di Berlino. C’è niente
BAKER Penso che siano in molti ad es- oggi che, se potesse, farebbe in modo di-
sere impegnati a favore delle riforme – verso?
ricordiamo che probabilmente il 75% BAKER Be’, penso che saremmo dovuti es-
58 dei piccoli esercizi è stato privatizzato. sere più rapidi nel dare l’assistenza che
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

avevamo promesso ai riformatori dell’Unio- più molta attenzione a loro. Lei che ne
ne Sovietica. Detto questo devo ricordare pensa?
anche i miei tempi da ministro del Teso- BAKER Penso che neanche ciò sia vero.
ro e dire che certi vincoli posti dal Fon- Penso, di nuovo, che noi siamo una po-
do monetario erano appropriati. Sareb- tenza europea e una potenza del Pacifi-
be stato un errore versare grandi quan- co e che dobbiamo sviluppare entrambi
tità di danaro in assistenza, senza pri- questi interessi. E dobbiamo farlo in un
ma richiedere che i russi raggiungessero modo che non sia di mutua esclusione.
degli standard minimi, di pari passo LIMES Ma i paesi asiatici del Pacific Rim
con le riforme. sono Est od Ovest?
LIMES L’attuale segretario di Stato War- BAKER Oh, penso che si tratti di una fal-
ren Christopher ha detto che le passate sa scelta. Il Giappone ha chiaramente
amministrazioni Usa sono state troppo fatto parte dell’alleanza occidentale per
eurocentriche. Lei che ne dice? lungo tempo. È una democrazia, certa-
BAKER Che non sono d’accordo. Penso mente ha un’economia basata sul libero
che gli Stati Uniti siano una potenza mercato; ha adottato, per la maggior parte,
europea. Lo siamo stati per lungo tem- princìpi e valori dell’Occidente; è membro
po. Siamo anche una potenza del Pa- dell’Ocse. E ci sono altri paesi nel Pacific
cifico. E penso che si possano coniuga- Rim che possono raggiungere questi
re entrambe queste due realtà senza obiettivi. Pertanto penso che chiedersi
che l’una escluda l’altra. Non è neces- che sta a Ovest e chi sta a Est sia solo
sario essere eurocentrici o asiacentrici. uno slogan.
Ricordo che durante l’amministrazio- LIMES Si può spiegare meglio?
ne Bush è accaduto qualcosa di incre- BAKER Ricordo quando l’Unione Sovieti-
dibile in Europa. Il mondo intero è ca fu al collasso e si crearono paesi co-
cambiato, con la caduta del Muro, con me il Tagikistan, il Kurdistan e l’Uzbeki-
l’integrazione della Germania, con il stan. Avemmo una interessante discus-
crollo dell’Urss; e con il negoziato su sione al Dipartimento di Stato per deci-
alcuni fondamentali trattati sul con- dere se questi paesi sarebbero ricaduti
trollo delle armi. Per non dire della nella sfera dell’Ufficio degli Affari euro-
guerra del Golfo e dell’apporto che l’E- pei oppure in quella degli Affari est-
uropa fornì a quell’impresa. asiatici. Be’, io pensavo già allora che
LIMES Alcuni leader europei, dopo gli ac- quello fosse un dibattito sterile. Per me
cordi Nafta, temono che gli Usa guardi- ciò che conta sono i valori e i princìpi
no solo verso il Pacifico e non prestino di un paese.

59
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

WASHINGTON
È ANCORA CAPITALE
DELL’OCCIDENTE? di Philip A. GOLUB

Scomparsa l’Urss, si attenua il legame geopolitico fra Europa e Stati


Uniti. L’America deve ridefinire il suo ruolo nel mondo ponendosi
come garante dell’equilibrio. E intanto crea nuove alleanze
al di fuori del Vecchio continente.

H A IL DESTINO PAREGGIATO I CON-


ti con gli Stati Uniti per la terza volta in questo secolo? L’apparentemente ine-
sorabile ascesa dell’egemonia americana, iniziata con la guerra contro la Spa-
gna nel 1898, sembra aver completato il suo ciclo. Eppure, lo Stato che gli al-
bori del XX secolo apparve come il colosso emergente in campo industriale,
finanziario e militare, di cui nel 1918 l’Europa divenne debitrice e che assurse
infine nel 1945 al rango di superpotenza, si sta apprestando ad affrontare
questo ultimo scorcio di millennio come unica grande potenza del pianeta
dotata di una capacità commisurata ai suoi interessi globali.
Gli Stati Uniti sembrano aver perso la capacità e forse la voglia di affron-
tare effettivamente i problemi crescenti di un mondo orfano della guerra fred-
da. In un’analisi più ampia, questo paradosso riflette le incertezze sottostanti
alla rottura degli equilibri del mondo bipolare e le variabili mutevoli della
nuova equazione strategica: la Grande Strategia americana durante la guerra
fredda era basata sulla possibilità, abbastanza agevole, di prevedere le mosse
di amici e nemici, sulla deterrenza nucleare e su sistemi di alleanza regionale
piuttosto omogenei. I meccanismi d’equilibrio insiti al sistema bipolare rende-
vano possibile l’esistenza di una solida base dottrinaria nella politica estera e
nella pianificazione strategica. Al contrario, il mondo del dopo-guerra fredda,
con la sua molteplicità di incognite e variabili, sfide e potenziali minacce, non
permette modelli univoci o risposte globali. Molte delle componenti assioma-
tiche, e apparentemente indiscutibili, della politica estera e militare americana
appaiono di conseguenza discutibili e, in alcuni casi, obsolete.
Al contrario, anche le più durevoli componenti degli imperativi strategici
americani sono soggette a riconsiderazione, in particolare il sistema di rela-
zioni atlantico che era il cuore e il fulcro geopolitico dell’Alleanza del dopo-
guerra. In un mondo in movimento, in cui produttività economica, amplia-
mento del mercato e conoscenza tecnologica sembrano improvvisamente 61
WASHINGTON È ANCORA CAPITALE DELL’OCCIDENTE?

avere il sopravvento su considerazioni militari e geostrategiche, la relativa


importanza dell’Europa agli occhi dell’America è in declino, mentre quella
dell’Asia e della fascia del Pacifico è aumentata. A differenza degli artefici
della politica americana del dopoguerra, che si definivano «creatori di ordine
dal caos» attraverso un processo d’impegno globale in cui il primato della
politica era evidente, l’attuale generazione di leader americani appare acriti-
camente soggetta ai dettami economici a discapito di quelli politici.
Pur concedendo che siano in gioco importanti interessi economici e che
in passato l’espansione di questo settore abbia avuto un ruolo primario ai fini
dell’affermazione americana nel mondo, ciò non consente la definizione di
una dottrina strategica. Gli Stati Uniti vivono un momento di transizione e de-
vono ancora ridefinire il peso e il significato della potenza americana nel
mondo odierno, il reale fine ultimo del potere. Sotto l’influsso degli ideali roo-
seveltiani e stimolati dal modello dirigistico europeo e giapponese, gli Stati
Uniti stanno lentamente spostandosi dai dogmi del libero mercato propri de-
gli anni Ottanta verso un approccio più prescrittivo, che alcuni esperti euro-
pei hanno definito neomercantilista. Impegno selettivo e maggiore corre-
sponsabilizzazione degli alleati nella gestione delle crisi sono il corrispettivo
in politica estera di questo sforzo di dare priorità agli affari domestici e occu-
parsi in modo concreto di alcuni dei mali cronici della società americana.
Nonostante gli Stati Uniti siano sempre più restii a occuparsi del mondo
e l’amministrazione Clinton non possa realmente sperare di evitare i guai del
pianeta, l’unica rimasta fra le superpotenze mondiali non sta entrando in una
nuova èra isolazionista e nemmeno di declino. A differenza del XIX secolo o
degli anni fra le due guerre, gli Stati Uniti non possono disimpegnarsi dalla
scena mondiale. I loro interessi sono troppo multidimensionali, in particolare
quelli economici e politici sono indissolubilmente ancorati al resto del mon-
do, così come la loro sicurezza rimane legata alla stabilità dell’Europa,
dell’Asia e del Medio Oriente. Non vi è nessun dubbio che vi saranno signifi-
cativi aggiustamenti e forse cambiamenti duraturi nella prospettiva mondiale
degli Stati Uniti; il sistema di relazioni atlantico dovrà forse abbandonare la
posizione centrale. La fluidità del mondo del dopo-guerra fredda rende tali
cambiamenti inevitabili. Ad ogni buon conto, l’estrema, semplificata dicoto-
mia internazionalismo contro isolazionismo non è la questione centrale su
cui si confronta oggi la politica americana. Essa è piuttosto la ridefinizione
del concetto di potenza e degli obiettivi dell’America in uno scenario mon-
diale le cui caratteristiche sono radicalmente mutate rispetto al passato.

L’‘età di Pericle’ atlantica


L’eredità storica fornisce lumi su questo tema generale come anche sul
problema più particolare del futuro del sistema atlantico. Nelle due fasi ante-
riori di espansione e di affermazione come potenza mondiale, gli Stati Uniti
hanno affrontato contemporaneamente diverse sfide intellettuali e pratiche.
62 Entrambi i periodi erano caratterizzati da un profondo senso del destino e
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

della missione che dava significato, risolutezza e giustificazione allo sforzo.


Essi sono stati vissuti come ineludibili proiezioni dell’esperimento america-
no, della sua eccezionalità.
Durante il primo (1898-1918), insieme allo sviluppo della capacità tecno-
logica, industriale ed economica sorse anche l’ambizione di divenire una del-
le grandi potenze, invertendo una tendenza politica secolare che si propone-
va di limitare l’ingerenza nel groviglio degli affari esteri (foreign entangle-
ments), in particolare il coinvolgimento nei conflitti per l’equilibrio in Europa.
L’America poneva se stessa al centro della scena mondiale per affermare la
sua grandezza e la sua potenza civilizzatrice – la proclamazione delle sue
virtù democratiche. Il sorgere dello spirito espansionistico avviene subito do-
po che sono stati raggiunti i limiti dell’espansione interna. Sponsorizzato da
un ristretto ma combattivo gruppo di uomini, fra cui Teddy Roosevelt, il teori-
co del potere marittimo Alfred Thayer Mahan e il finanziere e diplomatico
Henry Cabot Lodge, il nuovo spirito nazionale spinge l’America a espandersi,
nell’ultimo scorcio del XIX secolo, verso sud, nell’area caraibica e pacifica.
Definita nel 1823 come una dottrina difensiva atta a proteggere l’emisfero
occidentale dai «predatori» del Vecchio Mondo, fra la fine del XIX e l’inizio del
XX secolo la dottrina Monroe divenne uno strumento della peculiarità norda-
mericana. In realtà, mentre gli Stati Uniti si opponevano con forza e successo
all’espansione europea nell’emisfero occidentale, essi ponevano sotto la loro
influenza aree del Pacifico che in precedenza erano sotto il dominio coloniale
europeo. Il Pacifico quindi diviene un’area primaria del pensiero strategico
americano. Vi erano le premesse per un ulteriore passo, l’intervento in Euro-
pa. L’entrata nella prima guerra mondiale, nel 1917, a fianco di Francia e Gran
Bretagna per sconfiggere la Germania guglielmina rappresenta una rottura ra-
dicale con la visione del mondo ottocentesca degli Stati Uniti.
Meno di vent’anni separano il passaggio degli Stati Uniti da un isolamen-
to emisferico a un risoluto impegno negli affari politici europei. Il rapporto di
dipendenza con la Gran Bretagna viene rovesciato: l’America è ormai a pie-
no titolo una potenza atlantica, in seguito al progressivo declino della poten-
za britannica dopo la prima guerra mondiale. Nel mero spazio di
cinquant’anni, gli Stati Uniti si trasformano da nazione emisferica in potenza
globale a cavallo fra i due grandi oceani del pianeta.
Al cambiamento della posizione americana nella graduatoria del potere
mondiale corrisponde un mutamento dei simboli della sua visione del mon-
do. Come già la frontiera occidentale, l’Atlantico aveva un posto centrale
nell’immaginario americano. Per la prima generazione di pellegrini e coloni,
il vasto oceano era la strada verso una nuova vita, una libera religione e una
rinnovata cultura politica; per le successive generazioni di emigranti l’Atlanti-
co rappresentava il punto di passaggio per il Nuovo Mondo, verso la speran-
za e le opportunità di una vita migliore. Il passaggio da una sponda all’altra
implicava un taglio netto fra l’individuo e le sue origini, un trapasso, in senso
psicologico, irrevocabile e fondamentale. L’oceano poi forniva sicurezza. La
separazione atlantica era una barriera, un’infinita distesa d’acqua che si frap-
poneva fra l’America e l’Europa, preservando il Nuovo Mondo dalle inces- 63
WASHINGTON È ANCORA CAPITALE DELL’OCCIDENTE?

santi contese europee del XIX secolo. Il passaggio in senso inverso


dell’Atlantico è dunque denso di significati simbolici per la mentalità ameri-
cana, più di quanta ne abbia l’espansione degli Stati Uniti nel proprio emisfe-
ro e nelle appendici asiatiche. Questa constatazione ci aiuta a spiegare la for-
te resistenza politica degli isolazionisti al coinvolgimento dell’America nella
prima e nella seconda guerra mondiale.
Una volta ancora, poi, la consapevolezza di un destino americano spiega
l’emergere degli Stati Uniti come superpotenza. Verso la fine della guerra,
Henry Luce conia il termine «secolo americano» e l’internazionalista scrittore
liberal Walter Lippmann scrive in versi lirici che:

Il Fato ha voluto che l’America sia al centro,


e non ai margini della civiltà occidentale. In
ciò consiste il destino americano. (…). L’idea americana
È fondata sull’immagine dell’uomo e del suo posto
nell’universo, della sua ragione e della sua volontà. (…).
Questa tradizione deriva agli americani, come a
tutti gli occidentali, dal mondo mediterraneo degli
antichi greci, degli ebrei e dei romani. L’Atlantico
È ora il Mediterraneo di questa cultura e di questa
fede (…) il primo ordine universale dall’epoca classica (66).

Gli Stati Uniti, nuova Atene, diventano l’Occidente, erede della civiltà
mediterranea e in pratica civiltà in se stessa; non abusando oltre del miscu-
glio di analogie geografiche e culturali, il concetto è indicativo dell’epoca:
l’Europa è distrutta, l’Asia non è ancora emersa, l’America è diventata la na-
zione più potente della terra. Questo concetto è importante per capire la
concezione di sé degli Stati Uniti nel dopoguerra. Se l’America era Atene, co-
sì la sua politica estera era guidata da un «uomo saggio», erede dei guardiani
della Repubblica di Platone (67). Vent’anni dopo Lippmann, John J. Mc Cloy
usò il termine «età di Pericle» per caratterizzare la politica estera americana
del dopoguerra. Anche dopo la guerra del Vietnam, questo concetto rimase
radicato nelle élite americane: in modo meno convincente dei suoi predeces-
sori, il segretario alla Difesa di Ronald Reagan, Caspar Weinberger, paragonò
il conflitto bipolare tra Urss e Stati Uniti a quello di Atene contro Sparta. Con-
siderazioni di ordine strategico venivano in questo caso fuse con altre relati-
ve al tipo di società, dando alla sponda atlantica un maggior peso geopoliti-
co rispetto al Pacifico.
Per molte delle persone preposte alla guida politica del paese nel perio-
do bellico e in quello successivo, l’esito della guerra mondiale pone fine
all’oscillazione fra isolazionismo e impegno globale. Il potente partito isola-
zionista del periodo fra le due guerre, che proponeva un ritorno alla mitica
età dell’oro del distacco dell’America dagli affari del mondo, quando non as-
sume una posizione filofascista, scompare fra le rovine della guerra. Sebbene
i contorni del mondo del dopoguerra nel 1944 non siano ancora pienamente
64 definiti, Lippmann intravede una comunità atlantica formata dalle «nazioni
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

che si affacciano sull’oceano, le quali, spinte dall’inesorabile necessità della


situazione, devono unire i loro sforzi per la loro sicurezza e sopravvivenza»
(68). Successivamente l’autore puntualizza che essa si deve estendere anche
a quelle aree del Pacifico, come Australia e Nuova Zelanda, che «hanno il ful-
cro della loro politica nella regione atlantica».
In realtà, la comunità atlantica di Lippmann tocca entrambi gli oceani; è
un sistema oceanico che l’autore finisce in alcuni casi per definire come una
comunità oceanica (69). A differenza degli espansionisti d’inizio secolo,
Lippmann e i pensatori suoi contemporanei non propugnano un’espansione
geografica o un impero. Essendo divenuti il centro di un sistema politico, es-
si propongono l’organizzazione di un polo atlantico basato su necessità stra-
tegiche comuni e valori di civiltà unanimemente condivisi. La comunità
atlantica è intesa come un sistema strategico con il suo centro a Washington.
Lo status ottenuto dagli Stati Uniti al termine della guerra quale paese
più potente del globo dal punto di vista politico, militare ed economico era
per i leader americani denso d’orgoglio e di significato. Il mondo nel suo in-
sieme diviene il palcoscenico dell’America: gli impegni della «Repubblica Im-
periale» (R. Aron) si snodano per l’intero pianeta; la fiducia nella giustezza
dei propri scopi dura fino al Vietnam, poi declina per risorgere quando il
blocco comunista comincia a presentare crepe.

Garante dell’equilibrio
Mettendo per un attimo da parte le speculazioni a trecentosessanta gradi
di autori come Francis Fukuyama e la sua molto pubblicizzata tesi della «fine
della storia» – secondo la quale la fine del bipolarismo avrebbe dovuto con-
durre all’universalizzazione dei concetti culturali e democratici americani – o
come Paul Kennedy – la cui Ascesa e declino delle grandi potenze, scritta
prima del collasso dell’Urss, ipotizzava imprudentemente un mondo multi-
polare che nella realtà non trova forma – o come Samuel Huntington – auto-
re della recente e insoddisfacente teoria degli «scontri fra civiltà», in cui si de-
linea un futuro fatto di conflitti fra cristianità ortodossa, cristianità occidenta-
le, islam, buddismo e induismo – troviamo numerosi autori americani che
sul finire dell’amministrazione Bush hanno messo a punto un quadro coe-
rente di princìpi validi per la politica americana del dopoguerra fredda. Fra
loro vi è Alberto Coll jr., professore di scienza della politica alla Georgetown
University e vicesegretario alla Difesa, che nel 1991 su Foreign Affairs ha sta-
bilito che, nella «turbolenta fase di transizione che attraversa la politica inter-
nazionale – comparabile al periodo 1789-1815 – durante la quale le configu-
razioni tradizionali del potere politico e militare stanno mutando», gli Stati
Uniti sono chiamati a «giocare il ruolo di garanti dell’equilibrio, analogamen-
te a quanto fatto dalla Gran Bretagna per lunga parte del XVIII e XIX secolo».
Più che porsi sulle spalle il «fardello del mondo», gli Stati Uniti, attraverso im-
pegni selettivi , dovrebbero mirare a garantire l’equilibrio.
Nella visione di Coll, ciò potrebbe essere ottenuto mediante una politica 65
WASHINGTON È ANCORA CAPITALE DELL’OCCIDENTE?

di promozione degli interessi economici degli Stati Uniti, mantenendo ade-


guati livelli militari per una dislocazione rapida delle forze nelle aree di crisi
dove possono essere presi di mira interessi americani o alleati, conservando
nel contempo la superiorità tecnologica su alleati e potenziali avversari.
Sebbene la forza economica degli Stati Uniti sia diminuita se paragonata
ai livelli del 1945, il paese mantiene, e intende mantenere, la propria supre-
mazia tecnologica, finanziaria ed economica. L’aspra competizione economi-
ca e commerciale fra nazioni e/o organizzazioni alleate trae naturalmente
origine dal declino dell’imperativo della sicurezza dell’epoca della guerra
fredda, cui corrisponde anche la priorità data agli affari domestici. Con i loro
noti problemi sociali e di deficit, gli Stati Uniti non sembrano temere partico-
larmente l’Unione europea – per un breve momento, un’unione sul modello
francese è stata percepita come un potenziale minaccioso competitore – che
è inciampata ripetutamente nel processo d’integrazione; essa è scossa poi da
problemi strutturali nel campo dell’occupazione e ha dimostrato di non ave-
re la capacità di agire efficacemente in politica estera e militare. Inoltre, il do-
loroso processo di riorganizzazione politica e sociale attuato dal Giappone
nel dopo-guerra fredda fa dubitare della reale capacità nipponica di rappre-
sentare una minaccia competitiva agli Stati Uniti.
Al contrario, gli Stati Uniti, nella ricerca di ridefinire i loro interessi e la
loro strategia globale, almeno nella prima fase dell’amministrazione Clinton,
hanno mostrato interesse per l’idea di Unione europea e hanno sostenuto il
principio della multilateralità, in parte per evitare di restare coinvolti in un
groviglio considerato inestricabile, come nel caso della ex Jugoslavia. Sebbe-
ne «l’Europa occidentale non sia più il centro del mondo», come ha puntua-
lizzato lo scorso dicembre Warren Christopher, non è un’area marginale ai fi-
ni degli interessi americani, se solo si considera l’incerto futuro della Russia
oppure il mutato equilibrio risultante dal sorgere della Germania come prin-
cipale potenza dell’Europa occidentale, che ha anche forte influenza su una
discreta porzione della parte orientale del continente. Perciò, attraverso la
creazione di organizzazioni internazionali, quale ad esempio la Conferenza
economica per l’Asia e il Pacifico, gli Stati Uniti stanno intensificando la pro-
pria presenza economica nel Sud-Esr asiatico e nel Pacifico.
Nella transizione da un periodo di certezze a uno caratterizzato da incogni-
te inquietanti, la politica estera americana è ancora mal definita. È paradossale
ma forse inevitabile che, avendo raggiunto il principale scopo della politica ini-
ziata nel 1945, gli Stati Uniti esitino a ripensare il proprio ruolo nel mondo.

(traduzione di Silvia Canali)

Note
66. W. LIPPMANN, U.S. War Aims, Overseas Publishers, 1994, p. 251.
67. W. ISAACSON-E. THOMAS, (a cura di), The Wise Men: Six Friends and the World they Made, New York
1986, Faber & Faber.
68. Ivi, p. 159.
66 69. W. LIPPMANN, op. cit., pp. 239-240.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

LONDRA
SI SCOPRE
PERIFERIA di Noëlle BURGI
L’inarrestabile declino, già visibile negli anni Trenta, diffonde
una crisi d’identità politica e culturale fra i cittadini del Regno
Unito. Finito il rapporto privilegiato con Washington, si può
ancora immaginare un ruolo britannico nel mondo?

« S UPERBO E GRANDE, DOMINATORE


del mondo, un tempo, il Regno Unito è oggi minacciato da una totale deca-
denza politica». Un monito che, proprio in quanto pubblicato nell’editoriale
del prestigioso settimanale The Economist, il 25 settembre 1993, assume ac-
centi allarmistici.
Infatti, pur essendo stati molti i segnali dall’inizio del secolo indicanti che
l’ex potenza imperiale non poteva più contare su grandi risorse obiettive per
alimentare la sua passata gloria, il Regno Unito sembra non essersi mai real-
mente assuefatto a questa realtà.
Dopo la seconda guerra mondiale, poi, sono stati inventati persino validi
motivi per potervi ancora credere. L’alleanza privilegiata con gli Stati Uniti
non veniva forse usata come una leva per mantenere influenza sugli affari in-
ternazionali? Poi, negli anni Ottanta, destandosi dall’incubo di un declino ap-
parentemente irreversibile, non aveva trovato un capo di Stato in grado di far
rivivere la sua «età dell’oro»?
L’attuale crisi politica che attraversa la Gran Bretagna, i disincantati giudi-
zi della stampa, la ricerca di un leader che non si limiti a «reagire» agli avveni-
menti ma che sia soprattutto animato da una «visione», insomma tutto questo
smarrimento, sono vissuti tanto più dolorosamente in quanto sino a poco
tempo fa esso si immaginava ancora avviato verso una nuova, non lontana
grandezza.
Il fallimento del thatcherismo, e delle speranze che aveva suscitato, ave-
va già prodotto disorientamento. La fine della guerra fredda contribuisce ora
ad alterare ulteriormente l’equilibrio: non soltanto il «ritorno della ricca In-
ghilterra» è riferito a un futuro molto lontano se non improbabile, ma il farsi
avanti della Germania come prima potenza europea e la messa in discussio-
ne del «rapporto particolare» con gli Stati Uniti trasformano, che essa lo voglia
o no, la sua memoria vivente in memoria morta, in passato remoto. 67
LONDRA SI SCOPRE PERIFERIA

Il ‘rapporto privilegiato’ con gli Stati Uniti


La pregnanza di una memoria vivente non deve sorprendere. Dalla fine
del XVII secolo alla fine del XIX, l’Inghilterra ha vissuto infatti una ecceziona-
le esperienza. È l’epoca in cui, nelle forme di una rivoluzione industriale, si
verifica «la più grande frattura della storia moderna», l’epoca in cui essa trion-
fa sulla rivale Olanda e si erge come prima potenza «nazionale» del mondo.
Nelle parole di Fernand Braudel, «con l’avvento di Londra, la storia economi-
ca dell’Europa e del mondo volta pagina, in quanto il realizzarsi di una su-
premazia economica dell’Inghilterra, supremazia che si estende anche alla
leadership politica, segna la fine di un’epoca plurisecolare, quella delle eco-
nomie a conduzione urbana come pure delle economie-mondo, le quali
malgrado lo slancio e le ambizioni dell’Europa, non erano in grado di gover-
nare dall’interno il resto del mondo». Alla fine del XIX secolo, la sua potenza
e gloria sono tali da spingere alcuni a paragonare l’azione «civilizzatrice» e
l’egemonia britanniche a quelle esercitate un tempo da Roma. I britannici ve-
dono se stessi come «il popolo più grande e più civilizzato che sia mai esisti-
to al mondo (…) quello che ha esteso il proprio dominio ai più lontani ango-
li dell’universo, (…) che ha sviluppato la scienza medica, i mezzi di trasporto
e di comunicazione , tutte le arti meccaniche, ogni tipo di artigianato, ogni
cosa che contribuisce a migliorare la qualità della vita a un livello di perfe-
zione che sarebbe stato ritenuto magico dai nostri antenati; un popolo la cui
letteratura può vantare opere non inferiori ai più alti prodotti della cultura
dell’antica Grecia; un popolo che ha scoperto le leggi che regolano il moto
dei corpi celesti, che ha speculato con squisita sottigliezza sulle operazioni
della mente umana, che è stato riconosciuto come il leader dell’umana spe-
cie nel campo del progresso politico» (70).
Giunti all’apice del loro splendore, i britannici tuttavia sanno, sin dagli
anni Novanta del secolo scorso, che la crescente potenza della Germania e
degli Stati Uniti rappresenta per loro una minaccia. Ma sapere è una cosa,
ammettere un’altra. Mentre, sempre più reale e concreta, la minaccia aumen-
ta, il paese sprofonda nelle difficoltà economiche e sociali del periodo tra le
due guerre, con strumenti inadeguati a far fronte alla concorrenza mondiale
che si va instaurando. Anche se la sua asfissia economica non riesce a porre
in discussione l’impero, ne circoscrive tuttavia il possibile campo di interven-
to: il periodo tra le due guerre rappresenta una fase di transizione, nella qua-
le esiste ancora l’impero, ma sono già presenti le premesse del suo futuro e
definitivo indebolimento.
La seconda guerra mondiale lo dimostra, ma non è ancora il momento di
una presa di coscienza. Il livello produttivo dell’impero non è adeguato a far
fronte alle esigenze del conflitto. Malgrado ciò, lo straordinario impegno di mo-
bilitazione del Regno Unito e l’eroismo dei suoi soldati passeranno alla storia.
L’Inghilterra uscirà dalla guerra vittoriosa, ma sfinita e profondamente ferita.
Tuttavia, il periodo che si apre è un periodo di apparente serenità: Dio
ha creato tra i popoli di lingua inglese vincoli tali da far sì che essi riescono a
68 unirsi in un «fraterno sodalizio». È l’espressione usata da Churchill nel famoso
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

discorso di Fulton nel Missouri, il 5 marzo 1946, che segna ufficialmente l’ini-
zio della guerra fredda e parallelamente dello «speciale rapporto» con gli Stati
Uniti. Rapporto che diventerà la pietra miliare della politica britannica.
Qual è il vero significato di questo «rapporto speciale»? Da esso si evince
il particolare status di cui gode la Gran Bretagna negli affari europei come
pure nel Vicino e Medio Oriente. Esso poi ne esalta l’importanza quale allea-
to militare degli Stati Uniti all’interno della Nato (il «cavallo di Troia» degli in-
teressi americani, secondo de Gaulle), in quanto partner dotato di una pre-
ziosa abilità nei servizi di spionaggio e alleato affidabile in momenti di crisi:
il Regno Unito è dunque un pilastro fondamentale della sicurezza atlantica.
La Royal Navy blocca il Mare del Nord presso lo stretto di Skagerrak impe-
dendo il passaggio alla Marina da guerra sovietica. Blocca inoltre il Mediter-
raneo allo stretto di Gibilterra, e il suo esercito protegge la Ruhr.
Dividendo il principale alleato degli Stati Uniti durante la guerra fredda,
la Gran Bretagna ha creduto di tutelare i propri interessi e garantire, in parte,
la sua sfera di influenza internazionale (Iran, Iraq, Sud-Est asiatico, Africa ec-
cetera). Una sensazione duratura, malgrado alcuni alti e bassi, poiché il «rap-
porto particolare» continua sino agli anni Ottanta (e svolge un ruolo determi-
nante nell’esito positivo della guerra delle Malvine). Tuttavia, nei fatti, la
Gran Bretagna cede progressivamente terreno al potente alleato.
È un fenomeno che si produce molto presto. Vogliamo ricordare tre
grandi momenti simbolici. Il primo, quando la Gran Bretagna deve rinuncia-
re ad assicurare da sola la difesa della Grecia (1947). Materialmente, non ne
ha i mezzi. Informati, gli Stati Uniti restano «costernati». Secondo il segretario
alla Difesa, James Forrestal, il generale Marshall, in una riunione di gabinet-
to, avrebbe dichiarato: «È un fatto che ci investe di un altro problema, e dei
più gravi. Ciò equivale a una abdicazione britannica in Medio Oriente e le
conseguenze per chi è destinato a succederle sono evidenti» (71). Si tratta di
«una svolta nella storia britannica in Medio Oriente», commenta Elisabeth
Monroe. Il secondo momento è quello in cui la Gran Bretagna è costretta a
rinunciare all’India, gemma dell’impero, e «accordare» l’indipendenza a una
nazione che già l’aveva conquistata con i propri mezzi (1948). Impreviste
conseguenze della seconda guerra mondiale, le lotte per l’indipendenza na-
zionale hanno reso vani i tenaci sforzi di Churchill negli ultimi mesi di guer-
ra, volti a salvare l’impero. Terzo momento: la crisi di Suez del 1956. Costret-
to a subire la minaccia sovietica e soprattutto sconfessato dagli Stati Uniti, il
Regno Unito deve piegarsi a una umiliante ritirata e privarsi del suo «chiavi-
stello» orientale sul Mediterraneo, simbolo precipuo del suo ampio raggio di
influenza di un tempo.
Assieme ad altri avvenimenti, la crisi di Suez sottolinea l’ambiguità del
«rapporto particolare» e le divergenze esistenti tra le due potenze alleate. Esse
hanno in comune un obiettivo: contenere l’Unione Sovietica in Europa e nel
Vicino e Medio Oriente. Ma la politica degli Stati Uniti incoraggia la decolo-
nizzazione (quando non sostiene addirittura i movimenti nazionalisti ad essa
favorevoli). Nell’affare di Suez, Eisenhower non fa che confermare la politica
di Roosevelt. Dalla fine degli anni Cinquanta «i residui di storia britannica an- 69
LONDRA SI SCOPRE PERIFERIA

cora da scrivere sono la frammentaria vicenda di una inconcludente serie di


sforzi» (72).
La liquidazione del «baliaggio imperituro sull’universo» (73), dolorosa-
mente vissuta dalla classe dirigente, inaugura una nuova èra. Da quel mo-
mento, è all’interno della Nato e, in diverso modo, all’interno del Com-
monwealth che il paese cercherà di conservare il suo «rango» nel mondo. Il
«rapporto particolare» permane, ma non esiste alcun minimo denominatore
comune tra la potenza economica, finanziaria e militare degli Stati Uniti e
quella dell’Inghilterra. L’egemonia statunitense fa ombra all’Inghilterra. Ma se
ormai non può fare altro che subordinare i propri interessi a quelli dell’allea-
ta, la Gran Bretagna, non senza orgoglio, ritiene di essere «la mente» lascian-
do che il partner americano faccia da «braccio». Il «rapporto speciale» è un so-
stituto dell’impero. Nei fatti un sostituto difficile.

Necessità di una scelta


Per forza di cose, la fine della guerra fredda imprime un’accelerazione a
un’evoluzione da tempo percepibile. Dopo la caduta del Muro di Berlino, la
Germania monopolizza l’attenzione degli Stati Uniti e ne diventa il principale
alleato in Europa. Già nel 1990 George Bush le propone una «corresponsabi-
lità per la sicurezza», e il presidente americano svolge un ruolo essenziale nel
processo di unificazione. Il definitivo crollo dell’Urss nel 1991 e l’elezione di
Bill Clinton alla presidenza degli Stati Uniti rafforzano questa dinamica. Poco
tempo dopo, due avvenimenti, altamente simbolici, sono avvertiti nel Regno
Unito come un affronto. Nell’ottobre 1993, esprimendo un punto di vista
prevalente nella classe politica americana, il segretario di Stato, Warren Chri-
stopher, dichiara: «L’Europa dell’Ovest non è più la zona dominante nel mon-
do». Con l’espressione «Europa dell’Ovest» si deve intendere nell’ordine: Re-
gno Unito, Francia e poi Europa occidentale nel suo insieme. «Abbiamo
espresso le nostre più vive rimostranze al presidente Clinton», ha commenta-
to un ministro britannico. Il secondo avvenimento è del febbraio 1994. Jerry
Adams, leader del Sinn Fein, può entrare negli Stati Uniti. La decisione di
consentirgli l’ingresso in territorio americano non è stata presa casualmente.
Il fatto che un mese più tardi, in occasione della visita di John Major a Wa-
shington, gli attriti esistenti tra i due paesi in merito alla situazione irlandese
siano stati ridimensionati o smentiti non cambia le cose: l’episodio è indicati-
vo di una svolta nei rapporti anglo-americani.
Nel frattempo, il Regno Unito sprofonda negli errori e nei tentennamenti
della sua politica europea. Traendo vantaggio dalla propria immagine di
«lady di ferro», la signora Thatcher era riuscita negli anni Ottanta a presentarsi
come la paladina del rigore estremo, capace di reggere il timone contro venti
e tempeste in un clima di marasma. Come la persona pronta a intraprendere
operazioni politiche simboliche (Falklands), una lady forte della propria al-
leanza privilegiata con Ronald Reagan (e in minor misura con Bush), testar-
70 damente impegnata nel difendere gli interessi del proprio paese nella nuova
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

Europa. Ora, l’unificazione tedesca non consente più alle isole britanniche di
perseguire all’infinito, nelle azioni o nelle parole, una politica propriamente
insulare. La stessa signora Thatcher ne è consapevole. Dalla pubblicazione
delle sue Memorie sappiamo che essa ha fatto di tutto per frenare la riunifica-
zione tedesca e che, una volta realizzata, il Regno Unito ha dovuto limitarsi a
un gioco di sponda, sfruttando le rivalità esistenti tra i suoi partner europei.
L’Inghilterra è però in posizione di debolezza perché la tattica riesca. Nel
caso lo dovesse dimenticare, i fatti sono lì, implacabili, a ricordarglielo. Non
soltanto Londra ha perduto a vantaggio di Francoforte la battaglia per la sede
della Banca centrale europea, ma John Major ha dovuto compiere un’ulterio-
re ritirata, finendo per accettare, alla fine del marzo 1994, il compromesso
sulle modalità di voto all’interno della Comunità allargata. Va inoltre aggiun-
to che se i rapporti franco-tedeschi hanno subìto gravi rovesci dopo il 1989,
non vi è motivo alcuno per supporre che un asse anglo-germanico sia credi-
bile. La Germania sta occupando (se non l’ha già fatto) la maggior parte del-
lo spazio geopolitico disponibile nell’Europa centrale e orientale mediante
reti di interessi economici e finanziari. Il Regno Unito si trova con le spalle al
muro e, ora come non mai, deve fare le proprie scelte sull’Europa.
Il rimettere in discussione il «rapporto particolare», il suo indebolimento
(se non la sua fine), non significa che «i due popoli di lingua inglese» d’ora
innanzi si ignoreranno. I vincoli culturali, sentimentali o di civiltà continuano
a esistere, anche se è legittimo dubitare della loro efficacia strategica. L’im-
portanza simbolica di questo (relativo) rovesciamento della situazione è con-
nessa anche a due altri fattori: la scarsa compattezza del Commonwealth e il
perdurare di difficoltà economiche.
Il Commonwealth si avvia a perdere significato. Con la restituzione, nel
1997, di Hong-Kong alla Repubblica popolare cinese, il Regno Unito si tro-
verà, poco per volta, privato del controllo che ha potuto esercitare su uno
dei grandi mercati finanziari dell’Asia. Lord Patten, l’attuale governatore,
manda avanti con grandi difficoltà una politica di democratizzazione di
Hong-Kong che potrebbe forse salvaguardare alcuni interessi occidentali. Ma
i suoi sforzi vengono interpretati dalla Cina come un tentativo di indebolirla,
se non dividerla. L’Australia del primo ministro Paul Keating è risolutamente
avviata a trasformarsi in repubblica. Da tempo ha preso le distanze dalla Co-
rona. Dopo la seconda guerra mondiale si è sempre più avvicinata agli Stati
Uniti. Tanto che, al momento della crisi di Suez, ha votato con gli Stati Uniti
(e con l’Urss) contro il Regno Unito al Consiglio di sicurezza delle Nazioni
Unite. E non vanno dimenticate le conseguenze che una trasformazione
dell’Australia potrebbe produrre sul Commonwealth. Il Canada potrebbe se-
guirne l’esempio. Tanto più che, con la zona di libero scambio, rischia di es-
sere assorbito dal suo potente vicino, venendo a perdere la sua posizione di
«perla» del Regno nel continente americano.
Ma ancor più del destino del Commonwealth è forse la situazione eco-
nomica del Regno Unito a rendere particolarmente doloroso il deteriorarsi
della sua immagine nel mondo. Già nel 1967, un uomo politico britannico
riassumeva in questi termini la logica interna al declino dell’impero: «Due 71
LONDRA SI SCOPRE PERIFERIA

decenni orsono, alla fine della guerra, il fatto che una rivoluzione nel ruolo
occupato dalla Gran Bretagna nel mondo fosse divenuta inevitabile sarebbe
dovuto apparirci come una evidente realtà. Avremmo dovuto vedere allora
che riportando una grande vittoria militare, avevamo subìto una grave scon-
fitta economica e che la nostra influenza politica si basava più sulla nostra
passata reputazione che su una qualche solida e duratura fonte di potere in-
ternazionale. A quell’epoca ho anch’io commesso un errore di valutazione.
Come altri desideravo che la Gran Bretagna svolgesse un ruolo negli affari
mondiali, ma questo era in realtà al di sopra delle sue effettive possibilità»
(74). Oggi il problema è rimasto immutato. Ed è tanto più faticosamente
sopportato in quanto promettendo ai cittadini un ritorno alla prosperità, il
neoliberismo degli anni della Thatcher ha fallito. Del clima di disillusione
che si è creato in Gran Bretagna la signora Thatcher ha infatti una parte di
responsabilità, non tanto per ragioni obiettive connesse alla sua politica
economica neoliberista (anche se se ne potrebbe discutere), quanto perché
la sua azione vigorosa era stata condotta facendo balenare il miraggio di
una terra promessa. Se l’uscita della sterlina dal Sistema monetario europeo
ha ridato un po’ di fiato alle imprese, i problemi strutturali di fondo persisto-
no e indeboliscono considerevolmente qualsiasi speranza di una possibile e
rapida ripresa.
In definitiva, cosa rimane al Regno Unito della sua passata grandezza?
Una dopo l’altra, sta perdendo ogni traccia del suo impero. E questo sino a
quell’istituzione «irrazionale» quale è oggi la monarchia, fortemente criticata
per i suoi matrimoni sbagliati, le sue usanze antiquate, i suoi anacronistici
privilegi. Riuscirà l’Inghilterra a sopravvivere alla tormenta? Continuerà a te-
nere accesa la stella di un sogno lontano oppure si eclisserà infine per lasciar
sbocciare una memoria nuova, quella di un paese che rimane grande, per la
sua dignità e per la ricchezza della sua esperienza storica, ma che non sa più
bene a che cosa tutto ciò gli possa servire?

(traduzione di Fausta Cataldi Villari)

Note
70. Citato in M. BLACKWELL, Clinging to Grandeur. British Attitudes and Foreign Policy in the Aftermath of the
Second World War, Westport (Connecticut) - London 1993, p. 46.
71. Citato da E. Monroe, Britain’s Moment in The Middle East 1914-1956, Baltimore 1963, The John Hopkins
Press, p. 158.
72. Ivi, p. 207.
73. Ibidem, l’espressione «a lease of the universe for ever» viene attribuita ad un ardente difensore dell’impero
del secolo XIX.
72 74. Citato da M. BLACKWELL, op. cit., p. 148.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

AMERICA
O GERMANIA?
L’ITALIA SI DILANIA di Federico RAMPINI
L’avvento di Berlusconi potrebbe segnare il ritorno del modello
americano, ma la germanizzazione dell’economia italiana
ha radici più profonde. La geopolitica delle privatizzazioni.
Intanto cresce la compenetrazione con la Francia.

C OS’È L’OCCIDENTE PER L’ITALIA DI OG-


gi? Dopo la seconda guerra mondiale, la bussola delle grandi scelte geopoli-
tiche ha spesso sovrapposto, con successi alterni, due punti cardinali che la
realtà separa di novanta gradi: il Nord e l’Ovest. nella cartografia ufficiale, in-
gannevole più che ai tempi di Ortelio e Mercatore, la partecipazione alla Co-
munità europea – l’aggancio al Nord – e l’appartenenza alla Nato – la fedeltà
all’Ovest – dovevano fondersi armoniosamente in un’unica strategia.
In realtà le cose non furono mai veramente così semplici. Il Nord rappre-
sentava i concreti vantaggi dell’integrazione mercantile, nonché il modello
per la modernizzazione economica di un’Italia sempre convinta della propria
arretratezza; mentre l’Occidente parlava il linguaggio della difesa armata
contro l’impero comunista; ad esso si approdava dopo aver compiuto una
scelta politica e di civiltà, e per rendere questa scelta irreversibile. Sicché il
nordismo prometteva modernità, l’occidentalismo garantiva libertà. Certo, la
Comunità europea aveva avuto l’America come madrina di battesimo, ma in
nessun momento il modello sociale ed economico degli Usa fu applicato fi-
no in fondo nell’Europa continentale, dove il mercato era ingabbiato da soli-
darismi democristiani, socialdemocrazie, colbertismi gollisti.
Concretamente ci furono cento occasioni di giocare sui distinguo, tenta-
re di far leva su una scelta contro l’altra. Tant’è che un Pci amendoliano poté
convertirsi molto prima al Nord-Cee che all’Ovest-Nato, magari nella vana
speranza di non dover mai arrivare alla … abiura. E anche tanta sinistra o de-
stra cattolica, culturalmente antiamericana fino al midollo, ebbe languidi flirt
con l’europeismo, purché in chiave terzaforzista. Tutto questo però era anco-
ra un gioco da bambini. Il difficile è venuto dopo. Shock e recessioni, rivolu-
zioni, guerre, elezioni, colpi di scena, finali a sorpresa, fragor di tuoni, altre
elezioni, altre rivoluzioni, hanno fatto ruotare velocemente i punti cardinali
intorno all’Italia. Ora che il polverone del cambiamento comincia a diradarsi, 75
AMERICA O GERMANIA? L’ITALIA SI DILANIA

la geografia intorno a noi è irriconoscibile, e grande è la confusione sotto il


cielo d’Italia. La creazione dello Sme prima (nel 1979, in risposta alla fine di
Bretton Woods, a due shock petroliferi e all’inflazione a due cifre) e la firma
del Trattato di Maastricht sull’Unione economica monetaria tredici anni dopo
hanno segnato le fasi di accelerazione di un processo di lingua durata: la
progressiva germanizzazione dell’economia europea. Sicché, proprio quan-
do il crollo dell’Urss e la fine del bipolarismo mondiale rendevano meno
pressante l’ancoraggio a Ovest, l’Italia si ritrovava a seguire, quale stella co-
meta della sua modernizzazione, un’Europa del Nord dominata dal paese
più … a Est di tutto l’Occidente: la Germania unita.
2. Che cosa s’intende per germanizzazione dell’economia europea? Mol-
te cose, ma prima di tutto l’imposizione – più o meno riuscita e tollerata – in
tutto il continente del modello di sviluppo caratteristico della potenza regio-
nale egemone: un sistema che assegna priorità assoluta alla stabilità moneta-
ria. L’inflazione è domata attraverso il controllo della massa salariale, deciso
in un dialogo triangolare tra il governo, il padronato e sindacati nazionali for-
temente rappresentativi, centralizzati e moderati. Il modello germanico è sta-
to progressivamente adottato da tutta l’Europa grazie a una robusta opera di
persuasione: prima attraverso l’asimmetria dello Sme – che imponeva aggiu-
stamenti solo alle monete deboli e mai a quelle forti; poi attraverso i parame-
tri di convergenza definiti a Maastricht per accedere alla fase finale dell’Unio-
ne economico-monetaria. Questi parametri insistono tutti sulla stabilità mo-
netaria, le sue cause e i suoi corollari (bassa inflazione, deficit e debito pub-
blico contenuti, tassi d’interesse moderati), mentre non incorporano obiettivi
quali la crescita economica o la creazione di posti di lavoro.
Proprio quando negli anni Novanta la convergenza di tutti verso il Centro
tedesco ha segnato i progressi più sensibili, la Germania stessa si è dovuta
però discostare temporaneamente dalle sue virtù tradizionali, a causa dello
shock da riunificazione. E proprio in quel momento è apparso più crudelmen-
te che mai agli altri paesi – sotto l’effetto della recessione mondiale – il sacrifi-
cio da immolare in termini di occupazione, sull’altare del modello germanico.
Ma intanto la germanizzazione dell’economia italiana ha fatto progressi
importanti. Nel 1993 l’inflazione italiana è stata del 4,5%, praticamente identi-
ca a quella tedesca. Il raffreddamento della dinamica dei prezzi prosegue,
grazie al crollo della conflittualità sociale (-57,8% di ore di sciopero nei primi
due mesi del 1994) e a un aumento delle retribuzioni (+2,4% nel marzo
1994) inferiore di due punti all’inflazione. Al punto che oggi l’andamento dei
salari italiani è il più moderato d’Europa.
Politica dei redditi e responsabilizzazione delle parti sociali «classiche»
(lavoro dipendente e grande padronato) sono diventati ingredienti stabili del
contesto italiano dalla fine degli anni Ottanta. Perfino il pubblico impiego ha
finito per arrendervisi, soprattutto sotto i governi Armato e Ciampi. Su questo
fronte l’omologazione al modello tedesco – volutamente perseguita da quei
governi – ha registrato un successo pieno. Sempre con Amato e Ciampi (ma
in parte già con l’ultimo governo Andreotti), l’Italia ha realizzato anche uno
76 sforzo considerevole di germanizzazione sul fronte della finanza pubblica. È
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

stato l’unico paese industrializzato a realizzare per due anni di seguito (1992
e 1993) – nel mezzo della più grave recessione dal dopoguerra – un saldo
primario attivo del bilancio pubblico pari al 2% del prodotto interno lordo
ogni anno (al netto del servizio del debito). Cioè una politica fiscale feroce-
mente restrittiva, che poteva solo inasprire la morsa della depressione.
Nella crisi dello Sme, la Bundesbank, privilegiando le proprie priorità
nazionali, si è rifiutata di indebolire il marco per tenere insieme lo Sme. Così
nel settembre 1992 sono state espulse dal Sistema monetario la lira e la sterli-
na, nell’agosto 1993 sono stati svalutati il franco francese e quello belga (sva-
lutazioni mascherate dall’allargamento della fascia di oscillazione), mentre
nel frattempo era stata riallineata anche la peseta. Ma con l’unica eccezione
della Gran Bretagna, tutti i paesi investiti dalle tempeste valutarie hanno con-
tinuato ad applicare esattamente la stessa politica monetaria di prima, come
se fossero ancora dentro il vecchio Sme. Francia, Belgio, Spagna, e perfino
l’Italia della lira debole e liberamente fluttuante, sono rimaste «incollate» agli
alti tassi tedeschi nonostante il livello record di disoccupazione. Così la Bun-
desbank, senza cedere un millimetro della sua sovranità monetaria, e anzi ri-
mangiandosi anche quel poco di concessioni fatte a Maastricht, ha ottenuto
un risultato ancora più netto di quello prefigurato dall’Unione monetaria:
piegare gli altri paesi alla propria disciplina e diventare la vera banca centrale
europea, pur rifiutando i costi di una responsabilità sovranazionale.
3. La germanizzazione dell’economia italiana inciampa così nella prima
reazione fortemente negativa dalla creazione dello Sme in poi. Come spiegar-
lo? Anzitutto con il tasso di disoccupazione italiano, ben più alto di quello te-
desco. Poi con la debolezza congiunturale dell’economia germanica: meno
essa è capace di fungere da locomotiva della crescita europea, più affiorano
dubbi in coloro che subiscono la sua egemonia (anche Bonn, del resto, sotto
il peso della recessione e della perdita di competitività industriale è costretta a
interrogarsi sulla validità del suo modello). Infine, la struttura sociale del tes-
suto produttivo italiano, con la forte presenza di piccolissime imprese, di la-
voratori autonomi, di liberi professionisti, sottrae larga parte dell’economia al-
la regolazione macroeconomica e alla concertazione sociale di tipo tedesco.
Comportamenti quali il lavoro nero e l’evasione fiscale di massa sono ostacoli
di non poco conto sulla via della convergenza. Le categorie sociali della «terza
Italia» – l’azienda familiare, gli artigiani, i professionisti – sono le prime a ribel-
larsi alla germanizzazione. Di conseguenza, mentre gli opinion leader intervi-
stati continuano a considerare come unico punto di riferimento l’Europa ger-
manocentrica o l’asse franco-tedesco, nell’opinione pubblica crescono i sinto-
mi di preoccupazione per l’egemonia dei due Stati «forti» dell’Unione.
Non sembra azzardato ritenere che questa inversione di rotta nell’opinio-
ne pubblica abbia favorito l’emergere sulla scena politica italiana della nuova
destra anti-Maastricht. Sia nella Lega Nord che in Alleanza nazionale si trova-
no le posizioni di politica estera più critiche verso l’impalcatura istituzionale
del Trattato per l’Unione. In quanto a Forza Italia, quando Silvio Berlusconi
in campagna elettorale ha promesso una riduzione della pressione fiscale e
la creazione di un milione di posti di lavoro, era in sintonia con quel 54% de- 77
AMERICA O GERMANIA? L’ITALIA SI DILANIA

gli intervistati (sondaggio Pragma-Sole-24 Ore, vedi appendice) che chiede-


vano di «conciliare il rispetto degli impegni di Maastricht con il rilancio della
produzione e dell’occupazione interna»; per non parlare di quel 37% dispo-
sto a «rinviare nel tempo il raggiungimento degli obiettivi di Maastricht» pur
di «privilegiare la creazione di nuovi posti di lavoro».
Resta da vedere se Silvio Berlusconi potrà permettersi di essere una si-
gnora Thatcher, oppure un Philippe Séguin. Cioè se la presa di distanza
dall’europeismo germanizzante dei suoi predecessori avverrà lungo la linea
di un liberismo angloamericano, oppure di un populismo gollista. La cultura
politica di Forza Italia, da Antonio Martino a Giuliano Urbani, e anche la sua
base sociale più ricca e più nordista militano in favore della prima ipotesi.
L’Italia sarebbe allora il primo paese dell’Europa continentale a sperimentare
seriamente il modello reagan-thatcheriano. L’uomo venuto dal Far West della
Brianza proverebbe a lanciare l’economia e la società italiana nel mare aper-
to del liberismo (75). L’americanizzazione avrebbe il sopravvento sulla ger-
manizzazione. La bussola della storia italiana dopo tanto tentennare volge-
rebbe all’Occidente: quello vero.
Molti ostacoli però si frappongono a questa evoluzione. Alleanza nazio-
nale, per ideologia e per composizione sociale dell’elettorato, è un partito
che resisterà al liberismo. La nuova maggioranza ha problemi di consistenza
numerica al Senato, e di coesione interna: sui temi più scottanti avrà la tenta-
zione di scendere a patti con l’opposizione (almeno quella di centro), e que-
sto non facilita uno smantellamento «americano» del Welfare State. La concer-
tazione sociale alla tedesca e la politica dei redditi sono estranee all’ideologia
di Forza Italia, e tuttavia quest’ultima non sembra intenzionata a sfidare aper-
tamente su questo campo la Confindustria e le grandi imprese settentrionali
(che invece sono favorevoli al modello tedesco).
Sul fronte della politica estera, il tramonto degli statisti europei più legati
a Maastricht (con l’unica possibile eccezione di Helmut Kohl) apre teorica-
mente ampi spazi all’Italia per ridiscutere le priorità dell’Unione. L’Europa
britannica, allargata e liberoscambista, corrisponde assai meglio di Maastricht
alla vocazione dell’Italia berlusconiana. Dopotutto, se c’è una costante che
non si è quasi mai appannata, è che non abbiamo smesso di essere una
grande potenza commerciale. E la nostra capacità di penetrare nell’Europa
dell’Est, con le nostre piccole imprese «incollate» ai colossi tedeschi, la dice
lunga sui veri interessi nazionali.
Ma un attivismo italiano a Bruxelles, in chiave revisionista, è destinato ad
essere frenato da almeno due fattori. In primo luogo la pressione internazio-
nale esercitata sull’Italia a causa della questione neofascista costringerà per
lungo tempo Berlusconi e Martino a pagare un pegno: le professioni di «con-
tinuità» nella politica estera saranno obbligatorie, almeno per una certa fase.
In secondo luogo, contro un eccesso di innovazione nella nostra politica
europea giocherà il timore di venir definitivamente tagliati fuori dalle intese
franco-tedesche, senza uscire peraltro a costruire fronti alternativi con la
sfuggente Gran Bretagna, la debole Spagna degli scandali, o gli sconosciuti
78 (per noi) partner dell’estremo Nord.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

Un certo rallentamento della nostra conversione al modello tedesco è


nelle cose. Berlusconi ha vinto le elezioni su un messaggio liberista, di dere-
golamentazione e flessibilità sul mercato del lavoro, di privatizzazione dello
Stato sociale; con promesse di crescita e sviluppo che scontano anche una
qualche ripresa inflazionistica pur di creare lavoro: tutti ingredienti «america-
ni». Ma un’inversione di rotta completa, un veleggiare deciso oltre le Colonne
d’Ercole sarà un’opzione difficile stanti i rapporti di forza reali sul continente.
4. L’esame della germanizzazione dell’economia italiana non sarebbe
completo senza esaminare un’altra dimensione geopolitica, relativa agli as-
setti di controllo dei grandi gruppi industriali e finanziari.
Un aspetto di questo tema, del resto, è chiaramente segnalato nel son-
daggio «L’Europa degli italiani», laddove emerge il tema della «colonizzazio-
ne» dell’industria italiana ad opera dei capitali stranieri. Alla domanda «quan-
to ritiene probabile o improbabile che l’integrazione dell’Italia nell’economia
europea consenta alle società straniere di assumere la leadership di alcuni
settori produttivi dell’economia nazionale?», le risposte «abbastanza probabi-
le» e «molto probabile» tra gli opinion leader salgono dal 78% nel 1991,
all’83% nel 1992, fino all’88% nel 1993. In qualche modo questa previsione di
forte penetrazione straniera è stata confermata dalle privatizzazioni. La ven-
dita della Nuovo Pignone all’americana General Electric; la cessione di pezzi
della ex Sme a Nestlé (svizzera) e Uniliver (anglo-olandese); l’ingresso della
Siemens (tedesca) nella Italtel; la presenza nel nucleo duro Comit di Paribas
(Francia), Commerzbank (Germania), Creditanstalt (Austria) e Bruxelles
Lambert (Belgio); l’ingresso nel nucleo duro del Credito Italiano di Allianz-
Ras (Germania), Bhf (Germania), Société Général (Francia), Commercial
Union (Gran Bretagna): tutto ciò sta a dimostrare che il processo italiano del-
le dismissioni è stato finora estremamente aperto al capitale straniero.
Quando si saranno concluse le principali vendite che restano da fare,
sarà interessante disegnare la geopolitica delle privatizzazioni, per determi-
nare quali paesi stranieri siano riusciti a rafforzare maggiormente la loro area
di influenza di qua dalle Alpi. L’impressione, finora, è che il ruolo di Medio-
banca nella formazione dei nuclei duri favorisca la penetrazione tedesca e
quella francese (due paesi i cui grandi gruppi industriali e finanziari hanno
già una presenza strategica e assai diffusa in Italia). Del resto, se si distoglie
per un attimo lo sguardo dalle privatizzazioni, è emblematico che il riassetto
del capitale Fiat abbia fatto entrare nell’azionariato di controllo del più gran-
de gruppo privato italiano la tedesca Deutsche Bank e la francese Alcatel,
sempre sotto gli auspici di Mediobianca.
Ma non è soltanto misurando le acquisizioni compiute negli ultimi anni
da imprese tedesche in Italia, che si può cogliere il vero fenomeno della ger-
manizzazione in questo campo. La questione cruciale riguarda il modello do-
minante negli assetti proprietari delle grandi aziende.
Il capitalismo tedesco vede il controllo dei grandi gruppi in mano a un
ristretto club di colossi bancari e assicurativi, col sostegno della rappresen-
tanza sindacale cointeressata alla gestione anche per il tramite dei fondi pen-
sione aziendali. A questo si oppone il capitalismo angloamericano, dove pre- 79
AMERICA O GERMANIA? L’ITALIA SI DILANIA

vale la public company ad azionariato diffuso (ancorché con la presenza di


robusti investitori istituzionali) e dove i giochi per il controllo del capitale si
fanno e si disfano alla luce del sole, in Borsa.
Sui meriti e i demeriti di ciascun modello si discute da decenni. Al capita-
lismo tedesco viene attribuita generalmente la capacità di programmare stra-
tegie di lungo periodo, al riparo da scalate e raid di Borsa; invece le grandi so-
cietà americane e britanniche, ossessionate dai risultati a breve termine e dal
giudizio della Borsa, sarebbero meno capaci di costruire nel lungo termine.
Tuttavia la superiorità dell’industria Usa su quella tedesca in quasi tutti i
settori ad alta tecnologia – dall’informatica alle telecomunicazioni, dall’aero-
spaziale alle biotecnologie – e la stessa rinascita di settori maturi, come l’in-
dustria automobilistica americana, hanno ampiamente smentito questo ste-
reotipo (76). Più di recente, inoltre, i gravi scandali finanziari in cui sono in-
cappati alcuni gruppi tedeschi controllati dalle grandi banche (Metallgesell-
schaft, Schneider) hanno messo in luce i rischi di inefficienza, di omertà e di
collusione tipici di un sistema chiuso e opaco, dove controllori e controllati
sono legati da troppe complicità. Un’altra linea di difesa del modello tede-
sco, adottata dai suoi più strenui seguaci in Italia e in Francia, è la cosiddetta
teoria del «campione nazionale». In base a questa, i paesi industrializzati di
medie dimensioni hanno bisogno di creare dei cordoni sanitari attorno al ca-
pitale dei gruppi industriali strategicamente rilevanti, se non vogliono vederli
finire tutti sotto controllo estero. E l’acquisizione da parte straniera sarebbe
indesiderabile perché, prima o poi, il valore aggiunto più prezioso e l’occu-
pazione più qualificata (centri direzionali, attività di ricerca tecnologica) han-
no la tendenza a spostarsi nel paese di nazionalità della casa madre (77).
Questa visione trae conforto da una teoria ancor più sofisticata, relativa
al «cuore oligopolistico mondiale». «Con essa viene assunto che il posiziona-
mento di una data industria nazionale possa essere adeguatamente misurato
dalla presenza e dalla dinamica di crescita delle sue imprese nell’ambito del
cuore oligopolistico mondiale, quest’ultimo essendo definito come l’insieme
delle imprese che a livello internazionale hanno le maggiori quote di merca-
to. (…) Si assume l’ipotesi che la performance competitiva internazionale dei
settori nazionali dipenda in misura sostanziale da quella delle grandi imprese
oligopolistiche in essi presenti» (78). Donde la necessità, per quei paesi medi
che rischiano di veder soccombere le proprie imprese di punta – anche per
motivi di sottocapitalizzazione e di insufficiente dimensione dei mercati fi-
nanziari – di combinare matrimoni incestuosi, partecipazioni incrociate, ra-
gnatele di mutuo soccorso tra banche, assicurazioni, gruppi industriali. È il
metodo delle privatizzazioni coi «nuclei duri di azionisti stabili» in Francia; è il
metodo Mediobanca in Italia.
L’adesione al modello tedesco, su questo fronte, è maturata da anni. La
possibilità dei matrimoni banca-industria – con la caduta della barriera tra ban-
che commerciali e merchant banks – è venuta in Italia dall’adeguamento alla
normativa Cee, che ha quindi recepito il modello germanico di banca univer-
sale contro la separazione dei mestieri di tradizione anglosassone. Ma comun-
80 que la logica del «campione nazionale» era quella dell’Iri, e dunque il fascismo
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

ne era stato un antesignano. E poi, in epoche più recenti, non si era tentato di
contrabbandare anche l’Enimont come campione nazionale della chimica?
Quel che è interessante, non è che la germanizzazione conquisti ulterio-
re terreno in Italia grazie alle privatizzazioni in stile Mediobanca. Molto più
nuovo, semmai, è il fatto che questa tendenza si sia scontrata a più riprese
con una strategia opposta. Quella di Romano Prodi all’Iri, che ha dato batta-
glia per impostare le dismissioni secondo il modello thatcheriano: public
company, azionariato diffuso, capitalismo popolare. Quella della Lega Nord,
che ha giurato guerra a Mediobanca, vista come l’alfiere del vecchio establi-
shment capitalista settentrionale, statalista e antifederalista. Su questo terre-
no, una sfida strategica si gioca sulla vendita della Stet: è in ballo l’avvenire
delle telecomunicazioni italiane, settore più che mai vitale nell’èra della mul-
timedialità e delle «autostrade telematiche». Mediobanca sponsorizza un nu-
cleo duro franco-italiano (Alcatel-Pirelli) che ci inserirebbe nella logica dei
campioni «euronazionali» e delle alleanze continentali col Nord-Est franco-te-
desco (Alcatel è candidata ad entrare nel capitale di France Télécom, che a
sua volta è alleata con Deutsche Telekom…). Un’alternativa possibile è la
privatizzazione modello public company, seguita da alleanze di tipo atlanti-
co, con qualche colosso delle telecomunicazioni americane.
Il terreno fin qui conquistato in Italia dal modello germanico, o renano
(vista la sua estensione in Francia, Olanda e Svizzera), non deve far sottova-
lutare la sfida continua che gli viene rivolta dal capitalismo americano, i cui
interessi sul Vecchio continente restano vitali, e la cui potenza egemonica è
tutt’altro che sbiadita.
Sotto un aspetto puramente quantitativo, per esempio, gli ultimi dati di-
sponibili per il 1993 attribuiscono a Stati Uniti e Gran Bretagna il maggior volu-
me di acquisizioni straniere in Italia, superiore a Francia e Germania. Ma so-
prattutto, il sistema angloamericano è stato fin qui capace di imporre i suoi
standard e le sue regole nei mercati finanziari internazionali. Il capitalismo re-
nano, per quanto resista dietro mille barriere invisibili, per quanto difenda la
sua specificità e cerchi di respingere la penetrazione straniera, ha già dovuto
concedere molto alla cultura finanziaria dominante, che è quella anglosassone.
5. La battaglia d’influenza tra l’Occidente e il Nord-Est non risparmia al-
cun paese d’Europa. L’Italia, come da sua consuetudine, è al tempo stesso
terra di conquista e patria di fazioni armate, pullula di mercenari pronti ad ar-
ruolarsi al servizio di questa o quella potenza egemone. Per quanto l’influen-
za angloamericana conosca oggi un potente revival, e sia destinata comun-
que a imprimere tracce più profonde nel capitalismo italiano, la nostra posi-
zione geografica, le nostre debolezze e le nostre forze ci spingono nel lungo
termine a diventare un junior partner della Germania: è singolare osservare,
ad esempio, lungo quella nuova frontiera del capitalismo europeo che è la
colonizzazione dei paesi ex comunisti, l’oggettiva complementarietà fra le di-
visioni blindate della banca-industria tedesca e i nostri formicai brulicanti di
piccole imprese scatenate all’assalto dei mercati orientali.
Non mancano le ragioni per difendere un’altra complementarietà, quella
tra Francia e Italia (che ha un brillante assertore nell’economista Marcello De 81
AMERICA O GERMANIA? L’ITALIA SI DILANIA

Cecco): una Francia centralista, dirigista, programmatrice, capace di grandi


progetti e politiche industriali, forte di alcuni «campioni nazionali » in alcuni
settori ad alta tecnologia (aeronautica, treni ad alta velocità, telecomunica-
zioni, energia atomica), ma rigida nelle sue decisioni, crudelmente sprovvista
di una piccola e media impresa flessibile; insomma, l’esatto opposto dell’Ita-
lia, che potrebbe colmarne le lacune e usarne le forze. Certo la compenetra-
zione fra le due economie italiana e francese non farà che aumentare, e pro-
prio per questi motivi: siamo forti dove loro sono deboli e viceversa. Estra-
polarne una strategia alternativa alla germanizzazione sarebbe però illusorio.
La Francia non ha mai smesso di privilegiare l’osmosi coi tedeschi, e non ha
elaborato nessuna politica alternativa. Da tutto questo non si riesce a estrarre
per l’Italia un’idea di politica estera che non sia una politica mercantile. Ma
sarebbe già tanto se avessimo quella. In fondo non c’è altra dimensione in
cui l’Italia abbia un peso reale in Europa e nel mondo, se non come potenza
commerciale.
Ovest, Nord, Est o Sud? Di là dalla confusione dei punti cardinali, se riu-
sciremo a darci lo stesso una rotta e un orizzonte – e foss’anche di cabotag-
gio costiero – sarà ancora una volta grazie all’antica bussola che guidò per
secoli la nostra diplomazia. Quella che faceva scrivere dalla Repubblica di
Genova a Cromwell, «che gli Genovesi fossero per l’avvenire trattati come In-
glesi e con gli stessi privilegi, era veramente un adottarli nella loro Natione,
esserle per questo di molta riputatione, e cosa da Prencipe grande, come ha-
veva fatto la Repubblica Romana per crescere maggiormente la sua fortu-
na; che riflettessero quanto grande fosse il traffico, che con le mercante ge-
novesi e con la loro industria si facevano nelle Indie Occidentali dal Re di
Spagna, e se secondo il detto del volgo la Repubblica d’Inghilterra vi havesse
apertura, quanto sarebbe utile praticarlo per quella strada a beneficio co-
mune. I grani che Genova prende in altri Stati, potersi fare di buona som-
ma in Inghilterra con suo vantaggio. I panni, che sono il nervo nel negotio
di quei paesi, portati a Genova in un porto franco, potersi valere di buona
parte del loro prezzo, sinché fossero trasportati altrove, per vederli con più
riputatione a suo commodo; mentre vi sarebbero borse de’ cittadini, che vi
soccorrerebbero il denaro a prezzo dolce, per potersi con esso mantener più
vivo il loro negotio; e finalmente tutto quello che anderebbe somministrando
la buona e reciproca corrispondenza». (Relatione di Ugo Fiesco Ambasciato-
re alla Repubblica d’Inghilterra, maggio 1655).

Note
75. «Questo è il senso ultimo di un governo liberale, questo il progetto di un governo delle libertà. C’è un Italia
dell’iniziativa privata, nella produzione e nel settore dei servizi, che può e deve essere incoraggiata a far da
sé». Silvio Berlusconi, discorso programmatico al Senato, 16 maggio 1994.
76. J. CHARKHAM, Keeping Good Company: A study of Corporate Governance in Five Countries, Oxford 1994,
Oxford University Press; J. EDWARDS-K. FISCHER, Banks, Finance and Investment in Germany, Cambridge
1994, Cambridge University Press; G. OWENT, «Does Britain need the German model?», The Financial Times,
15/3/1994.
77. C. LORENZ: «Nationality should still count», The Financial Times, 11/2/1994.
78. M.G. COLOMBO-S. MARIOTTI: «Le acquisizioni internazionali nel quadro dell’integrazione europea», L’im-
82 presa, 31/1/1993.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

Appendice
Le tabelle presentate in questa appendice sono tratte da un’indagine dell’uf-
ficio Studi del Sole-24 Ore intitolata «L’Europa degli italiani». Le rilevazioni sono
state effettuate dalla Pragma e dall’Inra Europe. In particolare la prima ha sotto-
posto i quesiti delle tabelle 1, 2, 3, 4, 8, 10 e 11 a trecento persone, in prevalen-
za imprenditori, manager, alti dirigenti e parlamentari (Indagine opinion lea-
der). Le tabelle 5, 6, 7 e 9 sono prese dall’indagine sull’opinione pubblica
dell’Inra (Eurobarometro), una ricerca promossa dalla Comunità ed estesa a tut-
ti i paesi membri. Il campione scelto è pari a circa mille intervistati per paese.
Come specificato, alcune tabelle Inra sono riferite al solo campione italiano,
mentre altre sono riferite a un campione allargato ad altri paesi. L’indagine è sta-
ta realizzata fra l’ottobre e il novembre 1993.

Tabella 1. PAESI DELLA CEE MEGLIO CONOSCIUTI (in %)

1992 1993
B 22 20
DK 7 7
D 42 44
GR 22 19
E 40 45
F 73 76
IRL 7 7
NL 21 17
L 12 11
P 9 11
GB 38 42

Pragma: Indagine opinion leader

Tabella 2. A QUALE PAESE CEE SI SENTE PIU VICINO E DA QUALE SI SENTE PIU LONTANO (in %)

Più vicino Più lontano Variazione


percentuale
B 7 20 -13
DK 4 38 -34
D 22 25 -3
GR 16 20 -4
E 41 9 +32
F 75 2 +73
IRL 5 33 -28
NL 6 18 -12
L 4 21 -17
P 8 25 -17
GB 22 29 -7

Pragma: Indagine opinion leader


83
AMERICA O GERMANIA? L’ITALIA SI DILANIA

Tabella 3. IMMAGINE DEI PAESI APPARTENENTI ALLA COMUNITÀ EUROPEA (in %)

Politicamente Economicamente Più impegnati per Più affidabili


più degni di fiducia più efficienti l’unità europea negli affari

B 14 11 21 14
I 7 5 59 4
DK 17 17 2 17
D 62 88 39 81
GR 2 – 11 1
E 16 7 30 10
F 62 46 50 39
IRL 4 1 3 4
NL 21 33 14 29
L 13 12 15 13
P 2 – 10 2
GB 42 21 3 38

Pragma: Indagine opinion leader

Tabella 4. A CHI/COSA VENGONO ATTRIBUITE LE RESPONSABILITÀ DELL’ATTUALE MOMENTO


DI DIFFICOLTÀ DEL SISTEMA MONETARIO EUROPEO (in %)

Inadeguatezza del sistema 38


Comportamenti di:

I 19 F 15
DK 4 NL 1
D 45 P 1
GR 4 GB 23
E 2

Pragma: Indagine opinion leader

Tabella 5. PAESI DELLA CEE POLITICAMENTE PIU DEGNI DI FIDUCIA (in %)

D E F I GB Tot.
B 23 11 28 18 14 20
DK 26 11 14 11 25 19
D 60 24 37 32 14 36
GR 4 3 4 5 3 4
E 9 21 15 13 6 12
F 35 18 43 36 10 30
IRL 5 3 5 4 8 5
I 7 8 9 18 4 9
L 24 7 20 11 11 16
NL 29 12 17 12 24 20
P 5 7 7 4 6 6
GB 14 12 13 20 31 18
84 Dati Opinione Pubblica di Germania, Spagna, Francia, Italia, Gran Bretagna. Fonte Inra: Eurobarometro
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

Tabella 6. COLORO CHE IN ITALIA AUSPICANO L’INTEGRAZIONE EUROPEA


LO FANNO PERCHÉ: (in %)

Sì No Non so
Pensano ad un proprio tornaconto,
a vantaggi materiale 49 32 19

Sono spinti da un ideale comunitario 57 25 18

La considerano l’unico futuro possibile per


risollevare la crisi della nostra economia 65 17 18

Nutrono sfiducia nella capacità del governo


e dei partiti politici di risolvere i problemi
del nostro paese 62 19 19

Credono nel ruolo autonomo dell’Europa 55 20 25

Credono che così si possa porre fine


all’immobilismo del nostro sistema politico 61 16 23

Credono che il nostro paese possa portare un reale


contributo al processo di integrazione europea 45 29 26

Pensano di tutelare
la propria categoria professionale 41 33 26

Dati Opinione Pubblica Italia. Fonte Inra: Eurobarometro

Tabella 7. PAESI DELLA CEE ECONOMICAMENTE PIU EFFICIENTI (in %)

D E F I GB Tot.
B 13 7 10 11 9 11
DK 18 8 8 8 16 12
D 69 44 57 54 49 57
GR 2 1 1 1 2 2
E 5 3 5 4 3 4
F 41 17 30 22 9 26
IRL 2 3 1 1 2 2
I 9 3 4 6 3 5
L 14 5 10 9 8 10
NL 24 9 12 9 14 15
P 2 1 2 1 1 1
GB 19 16 11 18 15 16

Dati Opinione Pubblica di Germania, Spagna, Francia, Italia, Gran Bretagna e totale 5 paesi.
Fonte Inra: Eurobarometro
85
AMERICA O GERMANIA? L’ITALIA SI DILANIA

Tabella 8. QUALI PAESI POTREBBERO ESERCITARE UNA PIU FORTE EGEMONIA? (in %)

B 2 F 70
I 8 IRL –
DK 2 NL 7
D 93 L 2
GR 1 P –
E 3 GB 40

Pragma: Indagine opinion leader

Tabella 9. PAESI DELLA CEE PIU IMPEGNATI PER L’UNITÀ EUROPEA (in %)

D E F I GB Tot.

B 14 11 23 12 15 15
DK 10 5 7 5 7 7
D 57 32 56 29 41 45
GR 5 5 4 5 5 5
E 10 15 16 11 7 11
F 35 25 48 30 33 35
IRL 4 5 4 3 9 5
I 10 9 12 23 9 12
L 15 8 19 9 12 13
NL 17 8 15 8 12 13
P 5 5 6 4 5 5
GB 9 12 12 10 11 11

Dati Opinione Pubblica di Germania, Spagna, Francia, Italia, Gran Bretagna e totale 5 paesi.
Fonte Inra: Eurobarometro

Tabella 10. SE CONDIVIDE O MENO L’AFFERMAZIONE SECONDO LA QUALE GLI ITALIANI


SAREBBERO EUROPEISTI A PAROLE MA NON NEI COMPORTAMENTI (in %)

1991 1992 1993


Si 59 63 64
No 38 32 32
Non so 3 5 4

Pragma: Indagine opinion leader

Tabella 11. L’EVENTUALE EGEMONIA DEI PAESI PIU FORTI QUANTO POTREBBE
DANNEGGIARE GLI INTERESSI NAZIONALI DEI PAESI PIU DEBOLI (in %)

Molto 25 Poco 20
Abbastanza 52 Per niente 3
86 Pragma: Indagine opinion leader
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

L’OCCIDENTE AUT AUT


VISTO DA SINISTRA
E DA DESTRA
Due visioni contrapposte del principio primo del nostro mondo,
entrambe sue figlie legittime e dichiarate. La torbida alleanza
fra capitalismo consumista e fondamentalismo. Il tramonto
come compimento.

Il frutto migliore è proprio la sinistra di Luciano CANFORA

S IA IGNAZIO DI LOYOLA CHE VOLTAIRE,


sia l’Encylopédie che il Sillabo, sia Robespierre che Burke, sia Erasmo che
Lutero sono a pieno titolo «Occidente». L’esemplificazione potrebbe prosegui-
re e rivelare agevolmente la onnilateralità, e, perciò, la difficoltà che si in-
contra a maneggiare ragionevolmente questo concetto. La Revista de Occi-
dente, cui collaborava Ortega y Gasset, è un bell’esempio di un fenomeno
spesso ritornante: persone o gruppi che si riconoscono in una delle «venatu-
re» che costituiscono l’«Occidente», assumono che quello, cioè quello da loro
prediletto, è l’«Occidente». Naturalmente non ci si può nascondere che, in
determinati momenti storici, si è effettivamente affermata un’immagine
unitaria dell’Occidente: per esempio nella lotta di Ottaviano (poi Augusto)
contro Antonio e Cleopatra, o quando Teodosio ha consolidato la separazio-
ne, da tempo in atto, tra Pars Orientis e pars Occidentis dell’impero romano,
o quando Carlo Magno ha daccapo portato adunità il mondo franco-ger-
manico-italico. È allora che prende corpo la nozione (e la realtà) di un Oc-
cidente piccolo e combattivo, stretto tra bizantini e saraceni. È l’archetipo
di altri momenti di unità combattiva, anzi senz’altro aggressiva, dell’Occi-
dente: come ad esempio l’Europa dominata da Hitler e protesa a sconfiggere
o almeno a fronteggiare il «bolscevismo» (confusamente sentito come «Orien-
te»); o anche la piccola Europa della Ced e della Ueo, che aveva in comune
con Hitler lo stesso «nemico principale».
Uno speciale problema alla controversa nozione di Occidente lo ha crea-
to, com’è noto, la Russia: che è stata, bensì, il «nemico» sia per l’Europa hitle- 87
L’OCCIDENTE VISTO DA SINISTRA E DA DESTRA

riana del «nuovo ordine europeo» che per l’Europa «atlantica» degli anni Cin-
quanta, ma che è stata anche l’alleata di Inghilterra, Prussia e Austria con-
tro la Francia di Robespierre e di Napoleone, nonché l’alleata di Lloyd Geor-
ge e di Clémenceau contro la Germania ordinata e civile di Guglielmo II e
contro l’Austria felix di Francesco Giuseppe. Intreccio scambievole e contrad-
dittorio di alleanze e di conflitti che rende francamente impossibili quasi tut-
te le equazioni, specie quelle più volgarmente in voga, secondo cui Occidente
= democrazia, ovvero Occidente = tradizione cristiana.
Quanto alla «sinistra», essa è certamente uno dei figli legittimi dell’Occi-
dente: tanto quanto il suo contrario, la destra. Arduo è perciò stringere in
una descrizione sintetica e convincente il rapporto intercorso tra sinistra e
Occidente, a meno di non ridursi a una visione riduttiva, da comitati civici
quarantotteschi, i quali combattevano e denunciavano il «russo-comunista»
Togliatti, e inducevano nei loro antagonisti un processo forse inconsapevole
di autoidentificazione con la Russia come tale.
L’avversione verso l’autocrazia zarista in quanto simbolo di tutto ciò
cui la democrazia avanzata, il socialismo, il comunismo, intendono con-
trapporsi, è già nei Dioscuri del comunismo europeo, Marx ed Engels. Si ci-
ta, a questo proposito, un testo divenuto celebre (più per le sue vicende edi-
toriali che per il suo contenuto): La politica estera degli zar di Engels (Lon-
dra, febbraio 1890). Un testo la cui pubblicazione sul Bolsevik, voluta da
Bukharin, fu vietata da Stalin nel 1934, certamente in ragione dell’asprez-
za inusitata con cui Engels denunciava la politica estera russa. Nell’Urss del
«socialismo in un paese solo» e del recupero della tradizione russa (Ivan il
terribile di Eisenstein) il tono di Engels appariva incongruo: donde la censu-
ra, scorciatoia tipicamente staliniana. È curioso osservare come questo
scritto, non compreso nemmeno – dai noi in Italia – nella raccolta (1960)
curata per Il Saggiatore da Bruno Maffi di scritti di Marx e di Engels su In-
dia Cina Russia, sia apparso poi (1978) in un momento di intesa «eterodos-
sia», presso un minuscolo editore rigorosamente eterodosso (La Salamandra,
Milano) a cura e con eccellente introduzione di Bruno Bongiovanni.
Essendo un’eresia che veniva da Occidente, il bolscevismo si è presto
trovato, dopo la presa del potere in Russia, dinanzi ad un bivio: o compene-
trarsi con il paese e fare i conti con l’enorme peso della sua tradizione e del-
la sua storia, ovvero continuare a mantenersi «straniero in patria» in attesa
della «rivoluzione mondiale». Un dilemma che si incarna – come spesso suc-
cede nella storia – in due persone concrete: Trockij, ebreo, cosmopolita e
autenticamente internazionalista; Stalin, georgiano e convinto assertore
della necessità dell’innesto nel concreto terreno di «un paese solo» del credo
comunistico in nome del quale una minoranza rivoluzionaria aveva con-
quistato il potere.
Si può dire, senza tema di errare, che il dilemma fosse già dentro la te-
sta di Lenin, e che non abbia torto Deutscher quando scrive (Russia after
Stalin, 1953) che, se fosse vissuto ancora a lungo, Lenin avrebbe dovuto sce-
gliere tra le due strade e si sarebbe incamminato piuttosto su quella «russa»
88 che su quella «internazionalista». Oggi possiamo parlare con un certo di-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

stacco di questa materia, già terreno di scontri tra anticomunisti e comuni-


sti oltre che all’interno stesso del movimento comunista. E perciò oggi de-
scrive le due strade che a suo tempo si prospettarono, e le scelte compiute,
non implica giudizi di valore (o di esecrazione o di apprezzamento). Oggi
sappiamo che l’esperienza comunista è stata, per la Russia, il modo di mo-
dernizzarsi, di uscire dal sottosviluppo e dalla stagnazione, di entrare nel
XX secolo. E dunque constatiamo il risultato conseguito col prevalere, a suo
tempo, della opzione staliniana: un antioccidentalista (Stalin) ha occiden-
talizzato la Russia a tappe forzate.
L’illusione che la rivoluzione divampasse prestissimo in Occidente, stan-
te che proprio in Occidente avrebbe potuto esplicarsi al meglio, cadde presto.
Lenin intuì il tornante storico (Trockij continuò a lungo a riluttare dinanzi
a questa imprevista risposta della realtà all’ideologia). E perciò in Lenin per
primo affiora, se così si può dire, il deversorium terzomondista: in partico-
lare nell’ultimo suo, importante, discorso Meglio meno, ma meglio, dove ad-
dita, non a torto, nelle masse oppresse dell’Asia e dell’America Latina il na-
turale alleato del claudicante potere bolscevico, lasciato solo dalle masse eu-
ropee «occidentali». E sintomaticamente dal quadro che traccia resta fuori il
Nordamerica, che invece già sul finire della prima guerra mondiale diveni-
va il vero pilastro dell’Occidente. Fu una svolta epocale: con cui la rivolu-
zione più drasticamente «illuministica» che l’Occidente abbia generato
prendeva temporaneamente le distanze dal proprio ceppo d’origine per tor-
narvi un domani ritemprata e pronta a compiere l’opera interrotta. Svolta
densa di significato e di conseguenze: che spiega le simpatie sia pure tempo-
raneamente nutrite da un Gandhi per il fenomeno leninista, nonché, qual-
che anno più tardi, il convergente giudizio di Stalin e Gandhi sull’opportu-
nità di non lasciarsi coinvolgere nella guerra «tra occidentali» quale si pro-
filava o minacciava di essere il nuovo conflitto europeo del 1939.
Ma il cammino abbozzato dall’ultimo Lenin, se ha certo contribuito
all’insorgere e alla presa di coscienza dei mondi dipendenti (si pensi alla
Cina, o anche a quello che per decenni ha rappresentato in America Latina
l’esperienza cubana), si è però perso per istrada. Del resto quasi mai un
progetto a lungo termine concepito da un politico si compie nei modi previ-
sti o auspicati, per l’immancabile insorgere di fattori nuovi e imprevisti. Nel
caso particolare quello che non poteva prevedersi nei primi anni Venti era
che l’Occidente potesse svuotare l’emancipazione dei mondi dipendenti ri-
conquistandoli attraverso l’impostazione capillare del proprio modello cul-
turale. Che è la ragione per cui dopo i momenti di massimo successo del ter-
zomondismo su scala mondiale appoggiato dall’URSS (1975-’76, vittoria
vietnamita sugli Usa e liberazione di Saigon; vittoria del Mpla in Angola col
supporto dei volontari cubani) è incominciato un rapido declino.
E così dalla crisi della «rivoluzione in marcia», crisi accentuata dalla
facile constatazione delle scadenti condizioni di vita (a fronte delle lucci-
canti «oasi» iperoccidentali d’Asia o della penisola arabica), è man mano
scaturito un nuovo e orrido soggetto rivoluzionario: il fondamentalismo.
Nemico del lenismo così come dell’Occidente, e che anzi considera «Occi- 89
L’OCCIDENTE VISTO DA SINISTRA E DA DESTRA

dente» anche il leninismo con le sue forzature volontaristiche e il suo sostan-


ziale intento di rottura illuministica con la tradizione e col passato. L’Af-
ghanistan è stato anche questo. Ed è sintomatico come in Afghanistan l’Oc-
cidente più autenticamente tale – gli Usa – si sia identificato nella causa
fondamentalista, ritenendo di poterla giocare disinvoltamente contro i «co-
munisti». Scelta di corto respiro, che ha dato agli Usa buoni frutti sul breve
periodo, ma che ha aggiunto una ferita non rimarginabile al lungo e tor-
mentato «arco della crisi» che va ormai dall’Algeria all’Afghanistan.
Il fondamentalismo può considerarsi un soggetto «nuovo» – termine oggi
molto in voga – anche se affonda le sue radici in un passato remotissimo,
un soggetto che non intende farsi assimilare dall’Occidente in nessuna delle
varianti che l’Occidente propone (dal leninismo al consumismo). Se anche
la sinistra coltivasse l’illusione di «pilotare» il fondamentalismo, andrebbe
incontro a brucianti delusioni: come è accaduto in Iran, dove il partito co-
munista Tudeh, unica opposizione «laica» alla tirannide dello scià, è stato
poi massacrato da Khomeini.
La vicenda algerina è, oggi, l’esempio più limpido dell’impossibile intesa
tra sinistra e fondamentalismo. Laddove l’eclettica e alquanto opportunisti-
ca intesa tra consumismo capitalistico e fondamentalismo ha già fatto, ripe-
tutamente, le sue prove: dalla guerra afghana alla guerra del Golfo. Con
una formula schematica par giusto dunque concludere che quanto di me-
glio resta in piedi dell’Occidente è proprio la sinistra.

Universalismo contro internazionale delle patrie di Marcello VENEZIANI

L A FINE DEL COMUNISMO E DEL BIPO-


larismo dei blocchi, la rinascita della Germania unita, l’avvento di Clinton
alla Casa Bianca, l’esplosione delle etnie e delle nazionalità a lungo repres-
se, l’irruzione di nuovi e antichi soggetti sulla scena internazionale, sugge-
riscono concordemente una cosa: la fine dell’Occidente. Anche dal punto di
vista culturale la categoria Occidente è ormai logorata: non riflette più il
suo humus più profondo, ormai permeato di letture critiche del vecchio re-
taggio illuministico e utilitaristico e venato di tentazioni esotiche, apocalitti-
che o radicali. La stessa celebrazione di una presunta fine della storia, oc-
casionata da un saggio – peraltro modesto – di Francis Fukuyama, può leg-
gersi in realtà come la parafrasi di un altro declino, quello dell’Occidente,
come identità a sé, realtà compiuta, demarcata e ben definita.
Senza l’Altro da sé, o l’hostis, l’inimicus, senza l’Est come blocco graniti-
co che evoca e richiama il suo rovescio, che senso può avere del resto la ca-
tegoria Occidente? Al più si può configurare una traslazione geoculturale:
90 non più la diade Est-Ovest ma la diade Nord-Sud, paesi sviluppati e paesi
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

più industrializzati e si allude anche al Giappone e per certi versi ad alcuni


eredi dell’Est sovietico?
A questa considerazione di ordine generale si aggiunge oggi una consi-
derazione che ci riguarda più da vicino e che ha forti implicazioni di ordine
economico, commerciale, civile, oltre che politico, militare e culturale: gli in-
teressi e le finalità dell’Occidente, che aveva il suo baricentro nell’Atlantico e
il suo punto di forza negli Stati Uniti, divergono e spesso confliggono con gli
interessi e le finalità dei paesi europei sono spesso tra loro disarmonici e con-
flittuali; ma uno dei rari punti in comune, almeno dei paesi continentali
dell’Europa, è proprio rappresentato dalla necessità di delineare una politica
e una strategia distinte dagli Stati Uniti. Possono divergere gli interessi della
Francia da quelli della Germania, della Spagna o dell’Italia. Ma il tratto co-
mune, almeno nelle sue linee portanti, è la necessità di disegnare una linea
autonoma rispetto a quella atlantico-statunitense.
La fine dell’Occidente appare dunque, da vari punti di vista, come un
necessario compimento; almeno nel senso di Occidente che ha finora pre-
valso in questo mezzo secolo uscito dalla brace ardente del conflitto mon-
diale. Il problema vero si sposta sul significato di questa fine: ovvero se può
intendersi come un declino, un vero e proprio tramonto dell’Occidente, o
come uno sconfinamento dell’Occidente, una perdita di confini e dunque
un dilagare e un contaminare il pianeta.
La fine dell’Occidente appare dunque, da vari punti di vista, come un
necessario compimento; almeno nel senso di Occidente che ha finora pre-
valso in questo mezzo secolo uscito dalla brace ardente del conflitto mon-
diale. Il problema vero si sposta sul significato di questa fine: ovvero se può
intendersi come un declino, un vero e proprio tramonto dell’Occidente, o
come uno sconfinamento dell’Occidente, una perdita di confini e dunque
un dilagare e un contaminare il pianeta.
La caduta del comunismo fu infatti salutata dalla ripresa del progetto
illuministico di un nuovo ordine mondiale inteso dai più come l’occidenta-
lizzazione del mondo. Nella saggistica dedicata a questo processo, vorrei ri-
cordare alcune opere che hanno tratteggiato in chiave critica questo sconfi-
namento dell’Occidente: i due libri di Serge Latouche, L’occidentalizzazione
del mondo e Il pianeta dei naufraghi, preceduti dal pamphlet di Alain de Be-
noist Oltre l’Occidente, e in Italia il saggio Fuori dall’Occidente di Alberto
Asor Rosa, preceduto da un mio saggio Processo all’Occidente (con intro-
duzione di Augusto Del Noce) dedicato all’avvento della società globale. Ma
i riferimenti potrebbero allargarsi agli scritti di Severino, Barcellona, Tronti,
Cacciari e Marramao, o ad alcune opere di Cristopher Lasch, Russell Kirk o
Thomas Molnar.
I veicoli di questa occidentalizzazione del mondo sono fin troppo noti
per dovervi insistere: la standardizzazione dei prodotti, degli usi e dei costu-
mi; l’avvento del villaggio globale delle telecomunicazioni; il feticismo del
mercato inteso come misura di tutte le cose; gli effetti pratici e universalistici
dell’ideologia occidentale di segno americano, ovvero quel mix di utilitari-
smo, illuminismo, permissivismo e nichilismo. E si potrebbe seguitare. 91
L’OCCIDENTE VISTO DA SINISTRA E DA DESTRA

L’esito è quello ormai più volte denunciato: l’omologazione planetaria,


la mercificazione della vita, lo sradicamento, il primato del fare sul pensa-
re, dell’avere sull’essere, del profitto sulla qualità, dell’utile sul dono. Tutta-
via, in questa prospettiva, si trascurano gli effetti opposti e collaterali. Sul
piano della vita pratica, si sottovaluta ad esempio che l’occidentalizzazione
del mondo ha avuto come sua controparte il sottile insinuarsi di una specie
di «orientalizzazione» dell’Occidente. L’invasione di merci e modelli occi-
dentali ha avuto come contraccolpo la penetrazione di modelli e tentazioni
orientali in Occidente, non solo sotto la specie dell’esotismo.
L’Occidente sazio e disperato, nevrotico e depresso , cerca sempre più
modelli culturali ed esistenziali che riescano a colmare il deficit di scopo e
di senso. Da modelli alti di tipo ascetico-religioso a modelli di massa di tipo
tecnico-pratico, l’Oriente sembra aver invaso l’immaginario collettivo e in-
dividuale dell’homo occidentalis, fin negli esiti più radicali e fuorvianti (un
esempio-limite è la diffusione della droga). Il buco nero dell’Occidente è og-
gi l’invocazione di un Oriente della salvezza, un Nirvana di massa, l’Orien-
te che è in noi e che dovrebbe colmare il deserto prodotto dalla sovrabbon-
danza dei mezzi e delle cose. E dall’incapacità di addomesticare la morte,
il dolore, il tempo, la solitudine, il desiderio, l’egocentrismo.
Ma questa invasione dell’Oriente nella vita pratica dell’Occidente ha un
preciso corrispettivo culturale, a cui si alludeva agli esordi di questo scritto;
ovvero la volgarizzazione dell’illuminismo e dell’utilitarismo. La traduzione
di massa dell’ideologia occidentale ha coinciso con la crisi, il corto circuito,
il declino di quella cultura. È come se le stelle dell’Occidente fossero cadute,
ma la loro luce giungesse ancora sulla terra per via della siderale distanza e
quindi dello scarto temporale che c’è tra i processi culturali e gli eventi stori-
ci e sociali.
Culturalmente sono idee morte, ma gli effetti pratici perdurano per via
di quella fisiologia sfasatura tra cultura e fatti, tra idee ed eventi. Così noi
oggi usufruiamo di quell’ideologia occidentale che nel nostro secolo, da
Nietzsche ad Heidegger, per non dire del pensiero religioso, è stata già posta
radicalmente in crisi.
Noi viviamo gli effetti di quel pensiero, mentre crollano i suoi fondamen-
ti. E tuttavia il Grande Racconto che prevale negli epicentri della cultura oc-
cidentale è ancora arroccato a sognare l’universalizzazione dell’Occidente.
Etica universale, nuovo ordine planetario, governo mondiale: le culture
egemoni dell’Occidente, pur nella loro differente provenienza, non vedono
altra destinazione alla società futura fuori dell’ipotesi cosmopolita. Al «Pro-
getto Ethos mondiale» ha dedicato il suo ultimo saggio il teologo cattolico del
dissenso Hans Kung. Vi si sostiene la prospettiva universalista come l’unico
ordine possibile per gli anni futuri. Dopo il mercato mondiale urge per
Kung anche l’ethos mondiale. Non lontani da questa prospettiva sono i
maestri del nostro tempo: da Ralf Dahrendorf a Jurgen Habermas, da Karl
Popper a Norberto Bobbio.
La società permissiva, sradicata e «illuminata» sembra essere l’approdo
92 comune delle culture laico-liberali e di quelle ex marxiste e materialiste. Il
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

ritorno all’internazionalismo e alla cosmopolis nel nome di un nuovo illu-


minismo sembra essere il punto di incontro tra culture progressiste e struttu-
re del capitalismo. Le prime forniscono un alibi culturale e umanitario alle
seconde: la necessità pratica e utilitaristica di avere un libero mercato mon-
diale trova infatti la sua legittimazione nobile nella necessità di estendere a
tutto il pianeta i diritti dell’uomo, la liberazione dai vincoli religiosi, patriot-
tici e tradizionali. Il progressismo fornisce la buona coscienza al mercanti-
lismo e riceve in cambio la patente per liberarsi dall’ingombrante eredità
del comunismo (o quantomeno la subalternità ad esso).
Quest’incontro designa anche un nemico comune: il radicamento reli-
gioso e nazionale. Su queste basi viene indicata l’alternativa dei prossimi
anni: universalismo o tribalismo. Già l’uso dell’espressione tribalismo, cor-
rente tra gli intellettuali universalisti, svaluta l’avversario, lo ricaccia nel
passato, nell’arcaico. Evoca immagini di cruenta intolleranza e di chiusura
all’altro. C’è dunque un consapevole uso ideologico che ancora una volta
poggia sulla battaglia delle parole. (È la stessa manipolazione delle parole
che induce a definire conservatori o reazionari di destra quei regimi e que-
gli esponenti del comunismo che al contrario difendono la tradizione co-
munista e l’ideologia della sinistra più radicale). Al di là della terminologia
usata, l’alternativa tra universalismo e patriottismo sembra aver effettiva-
mente sostituito l’opposizione degli anni scorsi tra liberalcapitalismo e co-
munismo.
Nella cultura anglo-americana si parla con sempre maggiore insistenza
dell’antagonismo tra un nuovo ordine mondiale e la rivolta comunitaria, o
tra il principio universalista e il principio etnico. E i paesaggi dei nostri an-
ni sembrano confermare in vario modo e a vario livello l’insorgenza del fat-
tore etnico-comunitario. Da un punto di vista superficiale, si ritiene che
l’universalismo laico dei nostri anni sia figlio naturale del cattolicesimo, eti-
mologicamente universale. Ed infatti non sono pochi i movimenti cattolici
democratico-progressisti o pacifisti che inclinano verso questa assimilazio-
ne. Ad uno sguardo più attento, appare invece il volto di un ecumenismo
laico, su base mercantile e con rivestimento etico, che mira piuttosto a sur-
rogare l’universalità cattolica. A dover trovare una discendenza culturale,
l’universalismo dei nostri anni sembra provenire più dai princìpi della mas-
soneria che da quelli della Chiesa. Non a caso, del resto, Giovanni Paolo II
ha più volte difeso, anche nelle sue encicliche, i diritti dei popoli e delle na-
zioni alla loro cultura e alle loro specificità contro i progetti di omologazio-
ne mondiale. (Il papa è oggi il maggior critico «occidentale» dell’occidentali-
smo.) Nella battaglia delle parole l’universalismo viene coniugato ai princì-
pi di tolleranza e di democrazia; e il tribalismo (o il comunitarismo, il pa-
triottismo) appare al contrario all’ombra dell’intolleranza e dell’antidemo-
crazia. Ma quando si passa dal piano dei concetti al piano della realtà, ci
si accorge che i popoli in tutto il mondo, ad Est come ad Ovest come al Sud
del pianeta, si mobilitano per chiedere il riconoscimento della loro etnia,
della loro sovranità nazionale, della loro indipendenza e del loro diritto
all’autodeterminazione e non l’inverso. E si imbattono nell’intolleranza o 93
L’OCCIDENTE VISTO DA SINISTRA E DA DESTRA

nel boicotaggio dell’indifferenza da parte di quanti – a Est o a Ovest – de-


tengono il potere nel nome dell’universalismo.
Non mancano, intendiamoci, intolleranze di ritorno, violenze e roz-
zezze xenofobe, e sicuramente c’è da distinguere tra etnicismi. Ma nei suoi
tratti generali e nella sua essenza, la rivolta comunitaria esprime nei nostri
anni un carattere non aggressivo ma difensivo, di resistenza all’omologa-
zione, alla perdita di identità. Si converrà che evoca più violenza l’idea del-
lo sradicamento rispetto all’opposta istanza di voler persistere nelle proprie
radici. Il problema è che si giudica il patriottismo dei nostri anni con gli oc-
chi rivolti ai nazionalismi «aggressivi» di epoche ormai trascorse o a quelli
residuali del presente.
I due princìpi antagonisti di universalismo e patriottismo (che meglio
sarebbe definire comunitarismo) serbano nello spazio che tra loro intercor-
re una varietà di posizioni che impedisce una valutazione manichea. C’è
perfino un punto di contatto rappresentato dall’europeismo. Accade infatti
che l’Europa diventi una meta politica per entrambi, anche se in direzioni
opposte: i cosmopoliti vedono nell’Europa un primo passo per liberarsi dai
nazionalismi e per marciare verso la compiuta globalizzazione del sistema;
i comunitari vedono al contrario nell’Europa la grande patria e il grande
argine per la difesa della riduzione dei popoli a una dimensione. Probabil-
mente, la precarietà dell’Europa è determinata proprio da quell’equivoco ri-
coperto sotto la crosta unanime e un po’ retorica dell’europeismo.
Naturalmente un patriottismo arroccato nel suo esclusivismo ha scarse
possibilità di resistere al macrosistema. Il particolarismo cede sempre rispetto
ad ogni universalismo. Il problema è allora quello di contrapporre ad un
principio generale un altro di uguale portata, il principio della diversità, la
difesa delle differenze, delle patrie, di tutte le patrie. Per quanto paradossale
possa apparire la sua formulazione, solo una internazionale delle patrie
può fronteggiare in modo adeguato l’universalismo. Questo hanno compre-
so quei movimenti comunitari dell’Est che hanno lanciato un messaggio
preciso: «Patrioti di tutto il mondo unitevi».
Patria in senso lato, come luogo d’origine, non solo territoriale ma an-
che culturale e cultuale, luogo dell’anima in cui ciascuno si trova a casa.
«Ogni io ha una patria originaria», diceva Husserl. Quella patria, luogo
dell’essere e del radicamento, non merita di essere scambiata per tribalismo
e barattata con le confortanti roulotte del nomadismo universale.
In entrambe le prospettive, la categoria Occidente, il suo valore cultura-
le e pratico, è destinato al tramonto. O per dir meglio l’Occidente finisce nel
momento in cui porta a compimento la sua essenza: l’occidentalizzazione
del mondo coincide con il suo svuotamento. E forse con il suo rovesciamen-
to. D’altronde, già Oswald Spengler aveva spiegato nel suo saggo Pessimi-
smus? che «tramonto dell’Occidente non vuol dire catastrofe ma compimen-
to». Nel momento in cui si compie, l’Occidente cessa di avere un senso. L’Oc-
cidente finisce sconfinando.
94
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

‘Il mio patriottismo’


Intervista di Luigi Vittorio FERRARIS a Helmut E. KOHL

L IMES COSA ha significato la geo-


grafia nella sua formazione? Lei ri-
LIMES Lei è nato, al contrario della
maggior parte dei tedeschi, a sud del
corda la difficile costruzione geopo- limes. In che modo questo fatto in-
litica del Land Renania-Palatinato fluisce sul suo modo di vedere l’Euro-
dopo la seconda guerra mondiale, pa e sulle relazioni con il nostro pae-
che ha suscitato molte discussioni. se e in particolare con Roma?
Quella vicenda ha lasciato delle KOHL Non credo che queste frontiere
tracce in lei che è renano? storiche oggi siano ancora impor-
KOHL Il Palatinato, la mia Heimat tanti. Lei, in questo contesto, non
(patria, paese natio), è una zona nel deve dimenticare che, come conse-
cuore dell’Europa ricca di tradizioni guenza dell’integrazione di 12 mi-
i cui abitanti sono europei di profon- lioni di profughi ed espulsi prove-
dissima convinzione. Questa zona nienti dagli ex territori tedeschi
per secoli fu ripetutamente colpita da dell’Est e dalla Cecoslovacchia – del
calamità, miseria e guerre. Anche lì, resto uno dei successi di politica in-
dopo la seconda guerra mondiale, terna più significativi di Adenauer –
circolò lo spettro del separatismo. Se l’originaria omogeneità delle singole
io oggi parlo di «patriottismo», non regioni in Germania è diminuita
intendo con ciò degli orizzonti limi- notevolmente.
tati, bensì semplicemente la consape- Anche il fatto di aver superato il vec-
volezza dell’appartenenza al nostro chio contrasto confessionale tra cat-
popolo, quello tedesco. Ciò include tolici e protestanti va annoverato tra
ovviamente apertura verso l’esterno e le grandi conquiste culturali della
spirito europeista. In generale, io ri- Repubblica federale. A ciò ha contri-
tengo che anche in una società mo- buito notevolmente il mio partito,
derna il termine Heimat – non so se l’Unione cristiano-democratica. Og-
in italiano esista una parola corri- gi a nessuno verrebbe più in mente
spondente – non sia sinonimo di ri- – come sarebbe ancora successo ai
strettezza mentale. tempi del Kulturkampf bismarckiano 97
‘IL MIO PATRIOTTISMO’

– di accusare i cattolici di scarsa regioni e il loro volto formato dalla


lealtà verso la nazione tedesca. Na- storia siano mantenuti, anche in
turalmente tra i cattolici tedeschi c’è ambito nazionale ed europeo.
tradizionalmente un’affinità parti- LIMES Il termine «nazione» nella Re-
colare con i paesi neolatini. Questa pubblica federale è stato per molto
affinità è diventata politicamente tempo un tabù. Non ha forse questo
fruttuosa nell’impegno di persona- stesso fatto permesso che dietro ad
lità come Konrad Adenauer a favo- una adesione alla Legge fondamen-
re dell’integrazione europea. tale le vecchie idee nazionalistiche
LIMES Secondo lei esiste un «patriotti- abbiano continuato ad esistere e che
smo di Land» nei Lander federali, esse oggi tornino a galla?
anche in quelli creati dopo il 1945? KOHL Come lei sa, per me il termine
È la Germania, perciò, veramente «amore per la patria» non è assoluta-
federalistica o si tratta solo di un’ag- mente un problema. Però sono fer-
gregazione tecnocratica di regioni? mamente contrario ad avvicinare i
KOHL Non sono sicuro che si possa termini «nazione» e «patriottismo» a
parlare di «patriottismo» in relazione quello di nazionalismo. Non ha
ai singoli Lander federali, perché nulla a che fare con il nazionalismo
questo termine può riferirsi solo alla se i nostri figli a scuola imparano
Germania intesa come patria. In l’inno nazionale. Io ho sempre insi-
ogni caso esistono dei «sentimenti stito sul fatto di non disprezzare il
del noi» più o meno marcati; in Ba- patriottismo soltanto perché questo
viera o Sassonia, per esempio, le per- valore è stato discreditato durante il
sone sentono in modo particolar- nazionalsocialismo e perché ne fu
mente intenso l’appartenenza alla abusato in quell’epoca. Il colonnello
loro comunità, cresciuta storica- generale Ludwing Beck, uno degli
mente con una tradizione propria. uomini-guida della resistenza del
In ogni caso il federalismo in Ger- 20 luglio 1944, una volta scrisse di
mania è vivo. La Repubblica federa- Hitler – cito: «Quell’uomo non ha
le deve al principio federale un alto una patria». Comunque non credo
grado di stabilità politica. La varietà che oggigiorno si possa essere un
e la cooperazione delle regioni e del- buon patriota tedesco senza essere
le aree tedesche hanno contribuito al tempo stesso un europeista impe-
profondamente all’equilibrio inter- gnato. Io mi sento un europeo tede-
no della nostra repubblica. In quale sco e un tedesco europeo. Queste
misura il federalismo in Germania due cose, per me, sono inscindibili.
sia diventato naturale è dimostrato Patriottismo, in questo senso, signifi-
anche dal fatto che una delle prime ca sempre anche rispetto dell’amore
rivendicazioni del movimento per i per la patria dei nostri vicini e, con
diritti civili nella ex Rdt è stata di ri- ciò, rifiuto di ogni forma di presun-
stabilire i cinque Lander tedeschi zione nazionale. Chi alimenta odio
orientali, che erano stati aboliti dai verso gli stranieri non può mai ri-
governanti comunisti. È decisivo che vendicare per sé di essere un buon
la gente percepisca il proprio Land patriota.
federale, la propria regione, come LIMES Alcuni oggi insistono sul fatto
98 Heimat e che le particolarità delle che in realtà i tedeschi dell’Ovest
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

non volevano la riunificazione. Co- locemente, il 1° luglio 1990, all’u-


sa ne pensa? nione monetaria, economica e so-
KOHL Nella Germania occidentale c’è ciale, che precedette immediatamen-
stato qualcuno che non voleva la te la riunificazione del 3 ottobre
riunificazione. Soprattutto negli an- 1990.
ni Settanta e Ottanta, secondo «lo Naturalmente soprattutto il poten-
spirito dei tempi», la rivendicazione ziale di fiducia fu di grandissima
della riunificazione era vista come importanza per il successo delle trat-
un’illusione o addirittura come un tative «2+4» sugli aspetti esterni
«pericolo per la pace». Ma così come dell’unità, un capitale di cui noi te-
esistevano coloro che avevano già deschi disponevamo soprattutto pres-
da tempo rinunciato all’unità, per so i nostri amici americani e
molti tedeschi – soprattutto per la dell’Europa occidentale, ma anche
CDU e la CSU – essa era il desiderio nel rapporto con Mikhail Gorbacev.
più ardente. Per me stesso l’unità te- Per il resto, riguardo alla sua do-
desca e l’unificazione europea sono manda, voglio solo dire che gli avve-
state, sin dall’inizio del mio impe- nimenti successivi hanno dimostrato
gno politico, le forze motrici del mio che l’occasione per raggiungere
agire. Però conosco solo pochi che l’unità tedesca era unica e che
erano fermamente convinti di poter l’azione rapida e risoluta è stata
assistere alla riunificazione nel cor- giusta.
so della propria vita. Per tale motivo, LIMES La CSU oggi propone di rompe-
il 3 ottobre 1990 un sogno è diven- re con l’europeismo à la Adenauer.
tato realtà, e per me personalmente Come si spiega la posizione di Stoi-
questo momento è stato uno dei più ber, che vuole contemporaneamente
felici della mia vita. più Germania e più Baviera? Questo
LIMES Il processo di riunificazione è significa una Baviera più forte o
stato accelerato perché si prevedeva una Germania più forte?
una svolta negativa nell’ex Unione KOHL Voci critiche riguardo alla poli-
Sovietica? tica europea non si levano solo da
KOHL Il motivo decisivo per cui il pro- noi, ma anche presso i nostri vicini.
cesso, sin dal programma in 10 Ma di cosa si tratta? In effetti nessu-
punti per l’unità tedesca del 28 no- no vuole uno Stato uniforme euro-
vembre 1989, si è sviluppato così ra- peo e nessuno vuole un centralismo
pidamente è stata la volontà di li- burocratico a Bruxelles. Qui non ve-
bertà degli abitanti della ex Rdt. Do- do affatto delle differenze tra il mi-
po più di 40 anni di dittatura co- nistro-presidente bavarese Edmund
munista, la gente della Rdt voleva la Stoiber e me. Del resto, gli avveni-
libertà e l’unità, e lo diceva: «Noi menti degli ultimi anni hanno di-
siamo il Popolo! Noi siamo un unico mostrato che non c’è alcuna alter-
popolo!». L’elezione della Camera del nativa alla politica di unificazione
Popolo (della ex Rdt) il 18 marzo europea. Abbiamo bisogno di un’Eu-
1990 è stato un voto chiaro per l’u- ropa che possa parlare, nella politi-
nità tedesca e, quando il flusso di ca estera, con una sola voce e che
migrazione dall’inizio del 1990 di- riesca a unire le sue forze. Nessun
venne sempre più forte, si arrivò ve- paese in Europa è in grado di supe- 99
‘IL MIO PATRIOTTISMO’

rare le grandi sfide dei nostri tempi possiamo affrontare in misura cor-
facendo affidamento solo su stesso. rispondente alla nostra capacità
LIMES Gli Stati Uniti vi propongono di economica, politica e anche milita-
formare una «partnership in leader- re. Dobbiamo anche attenerci ai di-
ship». Lei è d’accordo? Cosa significa ritti e agli obblighi che ci siamo as-
per l’Europa? sunti con la nostra adesione alle
KOHL Quando George Bush parlò Nazioni Unite, se vogliamo essere
della «partnership in leadership», noi pienamente capaci di agire e co-
tedeschi lo abbiamo interpretato co- struire in campo internazionale. Mi
me un invito e un desiderio dei no- faccia ancora aggiungere quanto
stri amici americani di lavorare in- segue: nel nostro rapporto con gli
sieme per un mondo di pace e giu- Stati Uniti e con l’Unione europea
stizia. Penso che dalla Germania non esistono «aut aut», ma solo «et et».
unificata ci si aspetti giustamente L’Europa necessita di un’America
una collaborazione maggiore alla che assuma un ruolo centrale nelle
soluzione dei problemi internazio- questioni di sicurezza europea. E
nali. Fianco a fianco con i nostri l’America necessita di un’Europa
amici americani ed europei, siamo che si assuma maggiore responsabi-
disposti ad assumerci, nell’ambito lità per se stessa e per la sicurezza
della divisione degli oneri all’inter- internazionale.
no dell’Occidente, gli impegni che

100
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

MAASTRICHT
ROVINA DELLA GERMANIA,
ROVINA DELL’EUROPA di Ludwig WATZAL
La vicenda del Trattato per l’Unione europea dimostra che Bonn
stenta ancora a individuare i suoi interessi nazionali. Invece di
inventarsi un’Europa che non c’è, tedeschi ed europei dovrebbero
difendere i valori e le regole dello Stato nazionale eterogeneo.

I L CROLLO DELL’IMPERO SOVIETICO E IL


conseguente dissolvimento del blocco orientale è giunto con qualche anno
d’anticipo per i sostenitori a spada tratta dell’unificazione europea alla Maa-
stricht. Questo evento ha messo una croce su quel progetto tanto gigantesco
quanto sbagliato, ma ciò non disturba più di tanto le élite politiche. Le quali,
anzi, si sentono ancor più impegnate a portare avanti il disegno di Maastri-
cht, senza prestare attenzione alle preoccupazioni che esso suscita nelle loro
patrie d’appartenenza. Come dice il presidente del parlamento francese, Phi-
lippe Séguin (79), Maastricht è in effetti una variante del pensiero tecnocrati-
co, mercantilistico e centralistico, che trova in Jacques Delors la sua personi-
ficazione.
Dopo la fine epocale del sistema bipolare, anziché meditare su nuove
forme di integrazione, in Europa si continua a camminare lungo binari ana-
cronistici; così, nel dicembre del 1991, si è proceduto alla firma del Trattato
di Maastricht. Se ancora fino a poco prima si erano invitati i vicini dell’Est a
«ritornare in Europa», con Maastricht si barricavano saldamente le porte e in-
sieme si alzavano i muri del protezionismo. Il trattato, in realtà, fotografa una
situazione resa obsoleta dagli sconvolgimenti politici di portata mondiale,
verificatisi nel 1989-’90. Anche la partnership per la pace in ultima analisi è
un concetto di sbarramento, teso a impedire che qualcuno tra i paesi dell’Est
possa sedersi alla tavola ben imbandita degli europei occidentali, già tutta
occupata.
Dopo avere invocato per quarant’anni in tutti i modi l’unità della nazione
tedesca nei discorsi della domenica, la classe politica tedesco-occidentale si
rifiuta ostinatamente di trarre le inevitabili conseguenze dalla ricomposizione
dello Stato nazionale tedesco. È per queste ragioni che essa non potrà mai
far procedere l’integrazione europea con sufficiente rapidità; in questo modo 101
MAASTRICHT ROVINA DELLA GERMANIA, ROVINA DELL’EUROPA

infatti la Germania può ancora una volta delegare la propria responsabilità a


infausti circoli europei e ritirarsi nella campana di vetro, dentro la quale ha
potuto comodamente vivere per vari decenni. Ma quest’epoca senza storia è
finita una volta per tutte. Saranno gli stessi alleati a fare di tutto affinché la
Germania si assuma finalmente le proprie responsabilità internazionali.
La classe politica tedesca è stata sorpresa dall’ondata di nazionalismo
emergente in Europa orientale, al punto da intravedere in essa un evento
diabolico. Così, per poter fugare questo spettro nazionalistico in casa sua, ha
pensato bene di liquidare l’idea di Stato nazionale, annullando cioè quella
dimensione che lo storico americano Paul Kennedy ha indicato come il luo-
go dell’identità di un popolo. Nel processo di transizione dal comunismo alla
democrazia le élite politiche dell’Europa orientale non avevano altra scelta
che richiamarsi alle tradizioni nazionali, dal momento che l’ideologia basata
sul disprezzo degli uomini aveva prodotto sotto tutti gli aspetti una tabula
rasa. In Europa orientale l’unica cosa sopravvissuta alla transizione è proprio
lo Stato nazionale. Esso si è dimostrato un elemento in grado di resistere al
movimento della storia, non perdendo la propria capacità di coesione ai fini
del mantenimento delle unità nazionali.
Il nazionalismo che divampa in Europa orientale non affonda dunque le
sue radici nell’attuale processo di rafforzamento degli Stati nazionali, bensì
nella pluridecennale repressione delle tradizioni patrie e nello scarso pro-
gresso economico che, non avendo portato ad alcuna modernizzazione della
mentalità sociale, ha fatto germogliare in un fertile terreno i semi del pregiu-
dizio. Poiché per quarant’anni il comunismo non ha consentito agli uomini
di essere ciò che volevano, il nazionalismo si è insinuato nei vuoti lasciati
dalle certezze totalitarie.
«Chi, adottando un’ottica postnazionale, rifiuta di cogliere questa realtà,
non può essere in grado di tenere un atteggiamento adeguato nei confronti
della riunificazione tedesca», avverte il famoso filosofo politico Hermann
Lubbe nella sua recentissima opera Abschied vom Superstaat (80).
Alla base quindi dei rigurgiti nazionalistici vi è il processo di transizione,
nel quale lo Stato nazionale non ha ancora trovato la sua forma definitiva.
Anche gli eccessi di nazionalismo volgare che si sono verificati in Germania
affondano la propria radice nel fatto che il paese riunificato non ha ancora
trovato e sviluppato un’identità e una coscienza nazionale. I tedeschi devono
prima di tutto identificarsi con la nuova Germania. E pretendere di impedire
questo processo con un’accelerata europeizzazione potrebbe rivelarsi fatale
per la classe politica.
Dopo la riunificazione, le élite politiche tedesche non hanno avuto l’ac-
cortezza di sfruttare le positive premesse per la creazione di una coscienza
nazionale. Chi ha avuto modo di vedere le enormi masse di dimostranti e il
mare di bandiere nella ex Rdt si chiede perché mai questo potenziale non sia
stato utilizzato. Dietro quei vessilli vi era l’indicazione che la nazione vive nel
cuore degli uomini. E l’utilizzazione di questo sentimento avrebbe contribui-
to in misura sostanziale alla crescita comune di due Stati ancora distinti. Ma
102 la «toscanizzante» classe politica ha considerato indegna e inelegante questa
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

antiquata coscienza nazionale dei tedeschi orientali, nutrita di orgoglio di pa-


tria. La casta politica tedesco-occidentale si è nascosta come un ladro nella
notte e ha lasciato soli i tedeschi orientali e con loro il sentimento nazionale.
Nel processo di riunificazione non è stata posta nessuna particolare en-
fasi sulla questione nazionale. La formula «Siamo un solo popolo» non faceva
altro che dare espressione in termini patriottici ad alcune esigenze politica-
mente del tutto neutrali; esse non erano antieuropeistiche, né di sapore anti-
straniero, ma soprattutto erano prive di qualsiasi mania di grandezza. In que-
sta situazione spirituale i tedeschi dell’Est speravano di potersi inserire nella
nuova Germania. Ma di fronte alla manifestazione dello spirito nazionale, la
casta politica è rimasta sorda, anzi ha addirittura opposto un rifiuto aggressi-
vo. La nascita di uno spirito nazionale avrebbe potuto costituire la base co-
mune per la formazione di una vera Germania unita. Ma anziché lavorare su
questi elementi patriottici, si è scelta la soluzione tecnocratica. E per prima
cosa si è voluto pagare tutto pronta cassa, mentendo alla popolazione -no-
nostante che Oskar Lafontaine già molto presto avesse attirato l’attenzione
sul caos finanziario che era da attendersi nell’ex Rdt; il che all’epoca gli valse
l’accusa di «attegiamento contrario alla riunificazione»; si è così arrivati a strin-
gere fino a livelli intollerabili la vite dell’imposizione fiscale. Il cancelliere
Helmut Kohl ha portato a compimento la riunificazione con indubbia capa-
cità di tecnocrate, ma non è stato poi capace di darsi un profilo di statista. A
tutt’oggi non si è ancora mai preoccupato di rivolgere un discorso alla nazio-
ne; altrove questo sarebbe stato impensabile.
I referendum in Danimarca e in Francia hanno messo in chiara evidenza
la profonda divisione esistente negli Stati europei sulla questione di Maastri-
cht. Anche le imminenti consultazioni popolari in Austria, Svezia e Finlandia
mostreranno fino a che punto le élite politiche siano lontane dalle loro po-
polazioni. In Germania, la classe politica non si fida minimamente dei propri
cittadini. Molti leader sono convinti che la gente non si renda esattamente
conto della portata di quest’opera enorme, capace di dare un’impronta al no-
stro secolo. Essa viene concepita come un provvedimento di pura facciata,
da pubbliche relazioni, ignorando così i sentimenti profondi della popolazio-
ne, protesa verso l’acquisizione di una propria identità.
Stando ai sondaggi, in Germania i due terzi dei tedeschi rifiutano Maa-
stricht con il suo ingombrante bagaglio di punti oscuri. Ancor più, quindi,
sorprende il risultato della votazione al parlamento tedesco del 2 dicembre
1992. Quasi all’unanimità i rappresentanti del popolosi sono incamminati
verso il futuro lungo una strada al cui termine c’è la propria degradazione a
parlamento regionale. Dei 565 voti espressi, 547 sono stati i sì, e 17 i no; una
deputata della SPD si è astenuta (81). Il risultato della votazione rivela in mo-
do clamoroso l’incapacità e la paura della nostra classe politica ad assumersi
le proprie responsabilità. La gran parte dei contributi al dibattito mostra co-
me i politici non vogliano ascoltare le pesanti obiezioni degli esperti o non le
prendano sul serio. Eppure, le obiezioni politiche, economiche e di diritto
costituzionale sono così gravi che una persona di buona coscienza non
avrebbe mai potuto votare a favore del trattato. 103
MAASTRICHT ROVINA DELLA GERMANIA, ROVINA DELL’EUROPA

L’Europa contro Maastricht


Lo gridano anche i passeri dai tetti: Maastricht è morta! Il crollo del siste-
ma monetario, il pauroso debito statale in Germania e l’elevato numero dei
disoccupati comportano una tale montagna di problemi che impediranno la
nascita di una valuta europea. Un altro colpo è stato inferto dalle trattative
per l’ingresso nella Comunità di Austria, Svezia, Finlandia e Norvegia. Esse
hanno messo in luce come sia iniziata una nuova èra, quella della coopera-
zione di Stati nazionali. I mandarini di Bruxelles scorgono già quello che i
politici ancora non vogliono vedere. È ormai tramontata la visione di Maa-
stricht prefigurante un’assemblea europea in unione con un esecutivo pleto-
rico, diretta da un apparato ipertrofico e con una valuta inflazionistica chia-
mata Ecu.
In nessun altro paese come in Germania il Trattato di Maastricht viene
esibito con tanta enfasi dalla classe politica. Tutti circoli politici concordano
sul fatto che la Germania dev’essere vincolata a Maastricht, poiché altrimenti
minaccerebbe la pace in Europa. L’atteggiamento euforico che il governo fe-
derale e tutti i partiti rappresentati nel Bundestag mostrano a proposito
dell’Europa qualcosa che non si potrebbe mai esigere in nome della Germa-
nia? Una simile paranoia storica può esistere solo in questo paese. E così il
Trattato di Maastricht viene gestito in modo antidemocratico e diviene infine
il prodotto di una politica segreta, almeno per quanto riguarda ciò che deve
essere fatto in patria. La classe politica continua a non fidarsi dei suoi sudditi
e ha rifiutato un referendum sulla base delle esperienze di Weimar; “nella
Carta costituzionale non è previsto”, questa la laconica e accorta giustifica-
zione del governo. In questo atteggiamento tedesco si esprime una paura
paranoica di se stessi e della propria storia, che gli altri paesi non capiscono
minimamente.
Gli alleati in fin dei conti chiedono che la Germania si comporti come un
normale Stato nazionale, che non deve aver più motivo di aver paura di se
stesso.
Bisogna che impariamo finalmente a maneggiare la potenza con senso
di responsabilità e a non sprofondare rossi di vergogna ogni volta che si
menzioni questa parola.
Nessuno deve aver paura della Germania, poiché il paese non minaccia
nessuno. Nonostante la triste storia che abbiamo alle spalle, non c’è più ra-
gione di derivarne un particolare ruolo nazionale. Dobbiamo rendere utiliz-
zabile per il futuro il nostro passato nazista e comunista, affinché si crei una
coscienza nazionale; ciò, comunque, non può più rappresentare un ostacolo
alla realizzazione degli interessi nazionali.
Dobbiamo semplicemente fare attenzione a non ripetere gli stessi errori
e gli stessi crimini, a non rimuoverli o addirittura a dimenticarli. Se siamo ca-
paci di camminare così sul filo del rasoio, sarà il futuro a dirlo. Il nostro pas-
sato non ci conforta molto al riguardo. Non oscilliamo noi forse fra l’ebbrez-
za del potere e l’oblio di esso? Non siamo forse stati folli nazisti e buoni co-
104 munisti o alunni modello della democrazia? Vogliamo ancora una volta esse-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

re europei al 200 per cento? A chi dobbiamo ancora dimostrare qualcosa?


Dovremmo finalmente imparare a perseguire con cautela e senso della misu-
ra una politica nazionale che non sfoci nell’estremismo. A questo punto la
cultura democratica e repubblicana dovrebbe essere ormai ben radicata in
Germania.
A nessun tedesco sarebbe mai venuto in mente di fare un collegamento
fra Maastricht e il diktat di Versailles. Ma i nostri amici francesi in Le Figaro
si esprimono così come usa fra amici, e cioè apertamente e francamente:
“La Germania deve pagare”, si disse negli anni Venti. Oggi paga: Maastricht,
ossia il Trattato di Versailles senza guerra (82). Oppure ascoltiamo i nostri
amici italiani, come il grande imprenditore Carlo De Benedetti che
all’Espresso dichiara: Non vogliamo morire per Dresda (83). O come quan-
do l’ex ministro degli Esteri francese Roland Dumas nell’agosto 1993, da
portavoce del presidente François Mitterrand, riferendosi alla Bundesbank
parla addirittura di battaglia della Marna e afferma che Helmut Kohl e la
Germania porterebbero su di loro la schiacciante responsabilità dei tragici
sviluppi nell’ex Jugoslavia: allora c’è davvero motivo di dubitare dell’amici-
zia franco-tedesca.
Fino alla riunificazione della Germania, la Francia era fra i paesi che fre-
navano l’unificazione europea; l’idea di una valuta unitaria era poi al di là di
ogni immaginazione. Il governo francese, insieme con Margarer Thatcher,
cercò persino di silurare l’unificazione. In un’intervista a Der Spiegel, il presi-
dente del parlamento francese Philippe Séguin così si era espresso: «Anch’io
sono stato colpito dal fatto che la prima reazione del capo di Stato francese
al momento della caduta del Muro, così carico di significati simbolici, fu di
recarsi, in un memorabile giro, prima di tutto a Berlino Est, per rendere visita
a quelli che volevano conservare la Rdt, e poi a Kiev, per sollecitare Gorba-
cev a un’alleanza con gli avversari dell’unità tedesca» (84). Dopo la riunifica-
zione, la Francia ha operato una svolta radicale nella sua politica europea.
Ora la parola d’ordine è diventata: vincolare economicamente e controllare
la Germania.
Unico scopo del Trattato di Maastricht e della politica francese è di rom-
pere il dominio del marco tedesco e di allargare il sistema centralistico fran-
cese a tutta l’Europa occidentale. In concreto, questo significa che Maastricht
è un mezzo di dominio della Francia sulla Germania, onde salvare quel che
rimane del suo status di superpotenza. A ragione, dunque, Alfred Grosser si
domanda se la Francia non voglia usare la Comunità per ingabbiare la Ger-
mania. Viceversa, l’ex premier britannico vede il pericolo di un predominio
nell’Unione europea della Germania proprio mediante un suo eccessivo vin-
colamento (85). Ma oggettivamente la paura di un dominio tedesco sull’Eu-
ropa è del tutto infondata. Da vincitrice della guerra fredda, col Trattato di
Maastricht la Germania ne diviene la nazione sconfitta, visto che la classe po-
litica ancora una volta sfugge alle sue responsabilità e rinuncia alla realizza-
zione degli interessi tedeschi.
L’argomento corrente, spesso usato dai fautori dell’integrazione rapida,
vuole accreditare l’idea che molti compiti e problemi possano essere af- 105
MAASTRICHT ROVINA DELLA GERMANIA, ROVINA DELL’EUROPA

frontati e risolti solo a un livello sovranazionale. Ma questa tesi somiglia


molto più a una verità di fede che alla realtà. Il mercato agricolo dell’Unio-
ne europea rappresenta un esempio clamoroso di sviluppo mancato. Più
del 60% del bilancio della Comunità viene stanziato per sovvenzioni a so-
stegno dei prezzi, per lo stoccaggio o per sussidi per le esportazioni. Ciò
vuol dire una spesa che si aggira sui 70 miliardi di marchi l’anno, ma che
tende ad aumentare. Il solo governo federale spende 13,6 miliardi di mar-
chi a livello nazionale per sovvenzioni agricole. Complessivamente i paesi
industrializzati sovvenzionano i loro prodotti agricoli con 200 miliardi di
marchi. Se si pensa alla povertà del Terzo mondo, è un vero scandalo. La
retorica dei politici che sostengono gli aiuti ai paesi poveri non è credibile.
Le barriere doganali poi tendono ad essere elevate piuttosto che abbattute.
L’Unione europea non dispone di altro denaro per sostenere lo sviluppo,
dal momento che esso viene speso per le aree periferiche della Comunità,
come è stato documentato al vertice di Edinburgo. E così, con i mezzi mes-
si a disposizione dal fondo di coesione la Spagna finanzia un parco di di-
vertimenti. La Spagna è anche quella che nelle trattative per l’ingresso della
Norvegia ha operato da freno, nel timore di avere minori possibilità di at-
tingere ai fondi.
E veniamo al protezionismo. L’esempio più impressionante è dato dalle
disposizioni a proposito delle banane da parte dell’Unione europea, che fa
sì che vengano unilateralmente preferite le banane europee a quelle prove-
nienti dall’America Latina; con la conseguenza di un aumento dei prezzi del
45%. Oppure la politica agricola nazionalistica della Francia, che con tutta la
forza a disposizione si è fatta sentire nelle trattative Gatt, riuscendo a pena-
lizzare gli altri Stati membri, gli Stati Uniti e i paesi del Terzo mondo. Nel
campo della tutela dell’ambiente, gli alti standard tedeschi vengono livellati
al punto più basso dell’Unione europea. E in questo modo viene ulterior-
mente accentuato il degrado ambientale. Questo dumping ambientale va a
carico della capacità concorrenziale tedesca. E così il ruolo di battistrada fa-
ticosamente conquistato nel settore della politica ambientale dall’industria e
dall’agricoltura viene armonizzato e affossato. Il Trattato di Maastricht ha
globalmente evitato di raccogliere le sfide di politica ambientale del nostro
tempo, le quali possono essere affrontate solo con uno sforzo comune eu-
ropeo.
Anche nelle relazioni con Bruxelles, Bonn ha fatto concessioni irre-
sponsabili. Così, lo sconto accordato agli inglesi fino al 1999 ci costa circa
1,3 miliardi di marchi l’anno. E gli elevati contributi della Germania si ritro-
vano alla fine ad essere fatti spesso oggetto del fuoco incrociato della criti-
ca. Solo nel 1992 Bonn ha pagato 22,3 miliardi di marchi netti, Parigi solo
3,5. Nel 1994 saranno 31,2 miliardi (86). Ciò corrisponde al supplemento di
solidarietà del 7,5% a partire dal 1995. Il governo federale finanzia quasi da
solo una pesante redistribuzione del reddito in Europa. Per nascondere
queste realtà, la Commissione dell’Unione europea continua a rifiutarsi di
pubblicare le cifre nette. Quando alla fine del 1993 la Bundesbank tedesca
106 ha scoperto questo finanziamento unilaterale dell’Unione europea, Bruxel-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

les ha tentato di mettere a tacere la cosa con esilissimi argomenti. Il commis-


sario tedesco Peter Schmidhuber – sotto le insegne della CSU – credeva che
tutti gli Stati membri fossero soggetti nel complesso a oneri proporzionali al
loro benessere economico. Se è vero che l’Unione europea non avvantaggia
nessun membro in misura superiore a quanto esso paga come contributo,
perché allora la Francia paga meno del 15% di quanto paga la Germania?
(87). Da qualche tempo il cancelliere federale di Germania insiste nel pro-
prio paese sul tema del risparmio; e sostiene anche che la Germania spende
come se fosse una specie di parco divertimenti collettivo. Ma in tema d’Eu-
ropa Kohl non conosce modestia. A partire dalla riunificazione tedesca gli
eurochèques tedeschi mandati a Bruxelles hanno registrato un aumento del
12%. Nonostante i costi enormi della riunificazione, la Srl Kohl-Waigel-
Kinkel & Co. continua a pagare allegramente sussidi pari a 120 miliardi di
marchi per l’ex blocco orientale (88) – il resto d’Europa contribuisce con so-
lo 26 miliardi di marchi – nonostante che le finanze della Germania si trovi-
no sull’orlo della bancarotta. Un comportamento del genere non ha spiega-
zione razionale; si tratta di pura ideologia europeistica. In Europa la Germa-
nia è diventata la mucca da mungere.
Gli Stati Uniti hanno già messo in guardia gli europei, e cominciano or-
mai a orientarsi economicamente verso il Pacifico. Con la formazione
dell’area di libero scambio nordamericana (Nafta) i pragmatici americani
hanno mostrato al Vecchio continente che anche senza un super-Stato, senza
un gigantesco apparato di redistribuzione e senza un vero legame politico si
può dare vita a una politica economica efficace.
I capi di governo europei invece continuano a seguire un modello tor-
tuoso che, dopo la fine della guerra fredda, è privo di valore. Con la scom-
parsa del sistema bipolare, l’Unione europea ha perso ogni importanza ai fini
della politica reale. Essa ormai è solo un campo giochi per politici sulla via
del tramonto, che vogliono realizzare i loro sogni giovanili a spese degli Stati
nazionali. Non si può realizzare una politica del genere. In un’intervista alla
Suddeutsche Zeitung il ministro-presidente bavarese Edmund Stoiber ha giu-
stamente definito con efficace espressione questa Europa un «parto della te-
sta» (Kopfgeburt) e ha chiesto il rallentamento del processo di integrazione.
Egli definiva il cancelliere federale un illuso sognatore dell’Europa salvo poi
assegnargli subito dopo l’ordine al merito bavarese.
Benché sia l’ufficiale pagatore dell’Unione europea, la Germania influi-
sce solo scarsamente sulle sue decisioni. Per la maggior parte dei deputati il
tema Europa è un tabù, che nessuno si arrischia a infrangere per tutta una se-
rie di motivi. E difficile immaginare con quanta tranquillità e quanta ignoran-
za essi accettino lo svuotamento delle loro competenze. Nella questione eu-
ropea esiste da anni una supercoalizione, che rappresenta al meglio le sotti-
gliezze della politica europea sfuggendo a ogni discussione critica. Per farsi
un’idea di quanta poca importanza il governo federale attribuisca alle racco-
mandazioni dei deputati, basti pensare che complessivamente non ha preso
in considerazione più del cinque per cento delle raccomandazioni del Bun-
destag. 107
MAASTRICHT ROVINA DELLA GERMANIA, ROVINA DELL’EUROPA

L’opposizione tedesca a Maastricht


La riunificazione della Germania ha anche comportato una rinazionaliz-
zazione della politica tedesca. Ma i politici non vogliono ancora capirlo. La
gente si è accorta di essere stata ingannata sulla questione di Maastricht. Si è
così creato un movimento di resistenza, che ha trovato espressione nella fon-
dazione di un nuovo partito, e precisamente il Bund Freier Burger (BFB, Fe-
derazione di liberi cittadini). Questo partito è stato fondato il 23 gennaio
1994 a Wiesbaden da Manfred Brunner, per molti anni membro della FDP. In
precedenza Brunner era stato capo di gabinetto del commissario tedesco
dell’Unione europea Martin Bangemann, fino a che questi dovette licenziarlo
su indicazione del cancelliere. Kohl si sentiva toccato nella sua euforia euro-
peista dalla giusta critica di Brunner al centralismo europeo e dai rilievi da lui
mossi alla furia di armonizzazione della Commissione; a questa critica, il can-
celliere non poteva opporre alcun cavillo.
Il BFB è l’unica opposizione democratica al Trattato di Maastricht. Brun-
ner aveva già segnato un punto a suo favore sottoponendo la questione del
Trattato al giudizio della Corte costituzionale federale. La suprema Corte non
ha certo dichiarato incostituzionale il Trattato nel suo insieme, ma ha precisa-
to che lo Stato nazionale tedesco non può essere sciolto, che l’automatismo
monetario stabilito non è valido – che quindi prima di entrare in vigore deve
essere sottoposto ancora una volta a votazione nel Bundestag tedesco – e
che la Germania può rigettarlo. Per la sua portata, questa sentenza può esse-
re senz’altro paragonata al pronunciamento della stessa Corte sul Trattato sui
principi del 1973.
Nel congresso tenuto a Bonn il 19 febbraio 1994, che aveva per tema
l’Europa, il BFB ha approvato un programma in dieci punti «Per un’Europa di
popoli liberi» (89). In esso il partito si dichiara a favore della concorrenza,
dell’economia di mercato e di un’Europa dei cittadini. Vengono contestati il
centralismo di Bruxelles, la follia dei regolamenti, l’eccesso di burocratizza-
zione e la creazione di un super-Stato. Il BFB propone una riduzione del
contributo tedesco, una riforma completa dell’Unione europea e il suo am-
pliamento agli Stati dell’Europa centrale e orientale che hanno chiesto di
aderirvi. Viene auspicata un’Europa delle patrie e la conservazione del mar-
co tedesco. Il grande partito unico di Maastricht SPD-CDU-CSU-FDP non è
credibile nella sua politica europea: così si esprime Manfred Brunner.
Da parte della CDU non c’è nessuna critica all’Europa. Fino alle elezioni
europee il cancelliere Kohl ha messo la museruola a tutti i critici che pure
esistono all’interno del suo partito. Persino nel programma politico, approva-
to al congresso di Amburgo del 20-23 febbraio 1994, la CDU si è dichiarata
per uno Stato federale d’Europa. In tal modo essa si è posta consapevolmen-
te in contraddizione con la sentenza della Corte costituzionale federale, che
parla di un’unione di Stati, ma ha escluso uno Stato federale. La SPD è per il
modello centralistico di Maastricht, coerentemente con il suo indirizzo ideo-
logico di fondo. Ma essa si dichiara a favore di una più efficace difesa degli
108 interessi tedeschi. Anche i verdi difendono Maastricht, perché nello Stato na-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

zionale vedono le radici del nazionalismo; esso, quindi, andrebbe abolito.


La posizione più difficile da decifrare è quella del partito regionale bava-
rese CSU. Dopo la riunificazione della Germania esso è degenerato in una
specie di partito folkloristico e sicuramente avrà difficoltà a conquistare an-
cora dei seggi nel parlamento europeo. Nell’ultimo anno il ministro-presi-
dente Stoiber si è tirato addosso l’ira di tutta la classe politica per la sua criti-
ca senza mezzi termini alla strada sbagliata di Maastricht»(90) e del«sognatore
dell’Europa». Helmut Kohl. Heiner Geissler è arrivato a parlare di tradimento,
in molti hanno dato addosso a Stoiber in maniera persino isterica. La cosa
curiosa in questa faccenda è che il presidente della CSU, il ministro federale
delle Finanze, Theo Waigel, ha firmato il Trattato di Maastricht. La CSU è
dunque poco credibile quando si presenta con il volto di Stoiber come unico
critico dell’Europa. L’altro critico, l’ex ministro bavarese dell’Ambiente Peter
Gauweiler, che per primo parlò del «denaro esperanto», dovette prendere il
cappello e dimettersi a causa degli intrecci fra interessi pubblici e privati. Al
convegno a porte chiuse della CSU a Wildbald Kreuth all’inizio dell’anno
Stoiber fu contestato da Waigel. Con un rimpasto di governo il presidente
Stoiber assunse personalmente il ministero per l’Europa. L’Europa è diventa-
ta in Baviera una questione all’ordine del giorno. Se la popolazione sappia
apprezzare questi gesti simbolici è dubitevole, vista la discordia all’interno
della CSU sulla politica europea. In ogni caso preferirà scegliere l’originale
(BFB) piuttosto che la copia (CSU).

Interessi tedeschi e Stato nazionale


Quale ruolo dovrà dunque giocare in futuro la Germania in Europa?
Quali conseguenze ha tratto la classe politica dai cambiamenti della politica
mondiale? I primi passi autonomi in politica estera hanno suscitato notevoli
inquietudini e confusione sul Reno. In una importante questione di politica
estera, come quella di Maastricht, i partiti hanno messo in scena una buffo-
nata politica in piena regola. Dopo questo pezzo di teatro delle marionette i
politici sono invitati a ridefinire gli interessi tedeschi. Questo non potrà acca-
dere senza frizioni politiche sia all’interno che all’estero. La Germania deve
prima di tutto dire finalmente addio al «genscherismo» e alla«diplomazia del
libretto d’assegni» ad esso collegata, che non ha consentito finora di pensare
in termini di geostrategia, di politica degli interessi, e di strategia militare. Per
lungo tempo la politica estera tedesca si è attenuta a concezioni moralmente
certo auspicabili, le quali però alla prima verifica dei fatti – nel conflitto jugo-
slavo – si sono rivelate per quello che sempre sono state, e cioè pure finzio-
ni. Bisogna dunque distinguere fra i desideri e gli interessi. Un principio-gui-
da della politica estera tedesca consisteva nella convinzione che l’avere valo-
ri comuni avrebbe portato ad avere interessi comuni. Un modo di rappresen-
tarsi le cose che nelle relazioni internazionali di fatto si rivela ingenuo.
Insieme alla creazione dell’unità interna, il riorientamento della politica
estera è al primo posto dell’agenda politica. La Germania non può più na- 109
MAASTRICHT ROVINA DELLA GERMANIA, ROVINA DELL’EUROPA

scondersi dietro l’Unione europea. Per la vecchia Repubblica federale la po-


litica di integrazione europea era conveniente, poiché non richiedeva di as-
sumere alcuna responsabilità reale. Scegliendo la linea favorevole a Maastri-
cht si voleva continuare a rimanere nel guscio rispetto ai problemi della poli-
tica mondiale. In passato la Germania si era tirata fuori dai problemi ricorren-
do a cavilli di tipo legale (la costituzione) o ad argomenti morali (la storia).
Nel momento in cui nè gli uni nè gli altri risultavano più convincenti, si è fat-
to ricorso al denaro (guerra del Golfo). Ma le tre componenti fondamentali
della politica estera tedesca non vengono ormai più accettate dalla comunità
internazionale (91).
Per via della sua posizione al centro dell’Europa e della sua dimensione,
è interesse della Germania giocare un ruolo-guida in Europa orientale. In
molti se lo aspettano, in particolare la Russia. Con essa, oltre tutto, potrem-
mo reimpostare le nostre buone relazioni storiche. Ma anche nei confronti
degli altri paesi dell’Europa orientale dobbiamo mostrarci aperti, e attrarli
verso l’Unione europea o verso una nuova formazione tutta da creare. Per
un lungo periodo bisognerà procedere a un graduale spostamento degli in-
teressi dall’Occidente all’Oriente; questo non significa un allontanamento
dall’Occidente, che nessuno vuole, ma semplicemente una differenziazione
nella impostazione degli interessi tedeschi. L’orientamento della classe politi-
ca verso l’Occidente e il suo legame con l’Occidente, non fondati razional-
mente e gravati da una specie di tabù o circondati da un’aura metafisica, mo-
strano quanto bisogno ci sia di un chiarimento per i nostri politici (92). Que-
sta coscienza della peculiarità è un fenomeno tipicamente tedesco. Nessuno
in Francia o in Inghilterra penserebbe mai di elevare a dogma l’orientamento
filoccidentale. Ma una parte della classe politica tedesca teme di vedersi rial-
lacciata a tradizioni statuali nazionali e antioccidentali, e di vedersi quindi di-
staccata dal normotipo occidentale, come lo chiama Jurgen Habermas. Nella
Germania unita, quindi, si confrontano fra loro due modelli culturali: quello
multiculturale e indifferente al discorso nazionale proprio delle élite tedesco-
occidentali e quello nazionale à la Heitmann.
È assolutamente naturale che, dopo i cambiamenti politici che si sono
verificati nel 1989-’90, si rifletta sui propri interessi e li si ridefinisca. Gli Stati
Uniti ci hanno indicato come si fa. Questo non significa che dobbiamo met-
terci alla testa di ogni intervento internazionale. La comunità mondiale si
aspetta dalla Germania che si comporti come uno Stato normale, che maneg-
gia la potenza con la consapevolezza delle proprie responsabilità, e che ri-
sponda agli obblighi assunti allorché è entrata a far parte delle Nazioni Unite.
Gli Stati Uniti si aspettano dalla Germania che si impegni concretamente an-
che sul piano militare e non si rifugi, al momento opportuno, nel moralismo;
per poter poi condannare i partner dell’Alleanza che si preoccupano di to-
gliere le castagne dal fuoco anche per la Germania. Una tale condotta impe-
disce la riflessione sulle responsabilità che ci spettano oggi a causa della no-
stra aumentata potenza. E un modo di pensare che si scontra con la volontà
di mantenere ancora per lungo tempo delle truppe americane in Germania
110 (93). Un moralismo di facciata impedisce anche di pensare in termini di poli-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

tica di potenza, nel senso che in alcune situazioni la potenza dev’essere im-
piegata, come per esempio nell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq. Se le
cose fossero andate come volevano i tedeschi, ancor oggi staremmo a discu-
tere con Saddam Hussein. L’incertezza tedesca sembra risultare dall’atteggia-
mento tipico di chi vuole importare sicurezza. In Germania non è molto dif-
fusa l’idea che la sicurezza va anche esportata. Un simile modo di raffigurare
le cose rivela un’eclatante insufficienza in termini di riflessione strategica.

Stato nazionale eterogeneo-liberale come futuro dell’Europa


Come potrebbe presentarsi oggi l’alternativa a Maastricht? Dal momento
che lo Stato nazionale di stampo moderno ha manifestato una forte vitalità
non avremo nel futuro prevedibile uno Stato federale europeo. L’Unione eu-
ropea dovrebbe limitarsi all’essenziale, e precisamente all’integrazione eco-
nomica degli Stati membri. Di fronte ai problemi che si accumulano fino
all’inimmaginabile appare avventuroso trascinare l’Europa occidentale
nell’incerto futuro di Maastricht. E invece i fautori di Maastricht si girano
dall’altra parte e si occupano della nuova moneta per l’anno 2000. Essi distol-
gono lo sguardo dal caos imperante davanti alla loro propria porta. Se
nell’ex Jugoslavia tuonano i cannoni, in Europa occidentale vige il profondo
silenzio dell’incertezza. Con la Nato gli europei dispongono sicuramente di
un vasto apparato militare, capace in passato di tenere a freno l’Unione So-
vietica; ma esso si dimostra incapace di riportare alla ragione qualche banda
armata nell’ex Jugoslavia, come dice sprezzantemente André Glucksmann.
Un giusto modo di affrontare l’unificazione dell’Europa – non dell’Euro-
pa occidentale – potrebbe consentire il superamento del nazionalismo emer-
gente. Maastricht è una strada inattuale, in quanto ignora i rivolgimenti che si
sono verificati in Europa orientale. Essi sono all’origine del rapido cambia-
mento d’opinione che si è avuto in Europa occidentale a proposito dell’inte-
grazione europea. La gente ha colto questa realtà. Chi invece sembra non
riuscire ancora a comprenderla, sono quei politici che nel loro crepuscolo
desiderano realizzare i loro sogni di gioventù, per passare dalle note a pie’ di
pagina dei libri di storia al testo principale.
La preoccupazione essenziale di Maastricht è vincolare la Germania. Ma
questo effetto potrebbe essere ottenuto anche mediante un coinvolgimento
economico e militare più forte nelle strutture dei suoi vicini. Gli euroburocra-
ti di Bruxelles, anziché perdere tempo a definire le linee direttrici di standar-
dizzazione delle macchine tosatrici o a stabilire il grado di curvatura dei ce-
trioli o a decidere quali caratteristiche debbano avere i preservativi, dovreb-
bero dedicarsi a giochi intellettuali più produttivi, in modo da realizzare una
stretta interdipendenza delle economie degli Stati membri. Quella che
dev’essere portato a compimento è l’integrazione del mercato unico; tutti gli
altri passaggi di competenze a un governo centrale insediato a Bruxelles so-
no secondari.
Gli eurocrati di Bruxelles e gli ideologi dell’Europa nelle capitali europee 111
MAASTRICHT ROVINA DELLA GERMANIA, ROVINA DELL’EUROPA

non sono riusciti a tutt’oggi a trasmettere ai loro cittadini un senso di appar-


tenenza e di adesione all’Europa. Fin tanto che non si renderà chiaro ai citta-
dini che sono e continueranno a rimanere francesi, tedeschi, inglesi e italiani,
essi non saranno e non potranno essere europei. Perché mai una Comunità
europea globale non può essere costituita da Stati nazionali sovrani, assu-
mendo il carattere di una zona di libero scambio – come vuole la Gran Breta-
gna – con stretti legami economici intergovernativi e interdipendenti? In una
formazione di questo tipo ci sarebbe subito posto per gli Stati dell’Europa
orientale. Il futuro della Germania sta in una unificazione paneuropea, in cui
gli Stati nazionali siano le forze determinanti. E deve trattarsi di una struttura
aperta, liberale, e cioè eterogenea; questa è la premessa per creare l’Europa.
La Germania deve attenersi all’idea di uno Stato nazionale rispettoso dell’in-
dividuo come fine della sua politica, e non può cadere in schemi intellettuali
collettivistici e a impronta etnica. Il nazionalismo diventa un problema quan-
do si riferisce a una collettività cui si attribuiscono qualità di rango superiore,
impiegate poi per limitare i diritti di partecipazione delle minoranze. Lo Stato
nazionale eterogeneo continua a costituire la migliore tutela per le minoran-
ze, poiché esso soltanto può assicurare loro protezione. Questo dovrebbe far
riflettere tutti quelli che se ne vanno in giro issando la bandiera dell’Europa.

(traduzione di Michele Sampaolo)

Note
79. PH. SÈGUIN, «La politique autrement: Am Besten gleich alles reformieren», in M. BRUNNER, (a cura di), Kar-
tenhaus Europa? Abkehr vom Zentralisrnus - Neuanfang durch Vielfat, Munchen 1994, pp. 153-160.
80. Al riguardo, cfr. H. LUBBE, Abschied vom Superstaat, Vereinigte Staaten von Europa wird es nicht geben,
Berlin 1994.
81. Cfr. Deutscher Bundestag (parlamento tedesco), registrazione stenografica, 126 seduta, 2/12/1992, p. 10.888.
82. Le Figaro, 18/9/1992, cit. in Suddeutsche Zeitung, 19/9/1992.
83. R. AUGSTEIN, «Morire per Dresda, no!», Der Spiegel, n. 40/1992, p. 20
84. PH. SÈGUIN, «Wir haben bussen mussen, Der Spiegel, n. 8/1994, pp. 142-145, qui p. 143.
85. M. THATCHER, «Die politische Architektur Europas», in M. BRUNNER, (acura di), Kartenhaus Europa?..., cit.,
pp. 195-213.
86. Sui pericoli finanziari cfr. B. BANDULET, Das Maastricht Dosier, Deutschaland auf dem Weg in die dritte
Wabrungsreofrm, München 1993; W. NÖLLING, Unser Geld. Der Kampf um die Stabilitat der Wäbrungen in
Europa, Berlin-Frankfurt a. M. 1993.
86. Sui pericoli finanziari cfr. B. BANDULET, Das Maastricht Dosier, Deutschaland auf dem Weg in die dritte
Wabrungsreofrm, München 1993; W. NÖLLING, Unser Geld. Der Kampf um die Stabilitat der Wäbrungen in
Europa, Berlin-Frankfurt a. M. 1993.
87. W. HALDER, «Neuer Streit um deutsche Gelder fur Brussel», Die Welt, 16/12/1993.
88. CH. REIERMANN, «In der Klemme. Die finanziellen Verpflichtungen gegenuber EU und den Bundeslandern
uberfordern Bonn», Focus, n. 9/1994, pp. 49 ss.; Id., «Dem Zahlmeister geth das Geld aus», ivi, n. 50/1993, pp.
19 ss.
89. BUND FREIER BUGER (Alleanza di liberi cittadini), Wir machen die Europawahl am 12. Juni zur Volksab-
stimmung gegen Maastricht und fur die Deutsche Mark.
90. «Bundesstaat Europa ware ein Irrtum», lettera del ministro-presidente di Baviera Edmund Stoiber al cancellie-
re federale Helmut Kohl, Die Welt, 3/9/1993.
91. L. WATZAL, «Interessenpolitik und Nationalstaat», Die Welt, 30/11/1993.
92. M. GROSSHEIM-K WEISSMAN-R. ZITELMANN, «Einleitung: Wir Deutschen und der Western», in Id., (a cura
di), West-Bindung. Chanchen und Risiken fur Deutschland, Frankfurt a. M.-Berlin 1993, p. 10.
93. D. HAMILTON, «USA und Europa: Die neue strategische Partnerschaft», Aus Politik und Zeitgeschichte, B/94,
112 pp. 13-21.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

L’ASSE PARIGI-BONN,
ULTIMO TABÙ
DEL DOPOGUERRA di Michel KORINMAN
Non è solo la caduta del Muro ad aver spinto la Germania ad Est,
incrinando la solida alleanza con Parigi. È venuta a mancare
una visione politica comune sui pressanti problemi che affliggono
l’Europa.

D AI PRIMI ANNI SESSANTA LE RELAZIONI


tra Francia e Germania sono strettamente controllate, a Parigi senza dubbio
più che a Bonn, da una lobby di funzionari franco-tedeschi. Questi personag-
gi, spesso animati da ottimi sentimenti, hanno vissuto la loro ora di massimo
splendore nell’immediato dopoguerra, quando si trattava di non lasciare ai
margini della strada la giovane Repubblica federale – di cui l’Occidente aveva
bisogno sul piano strategico.
Essi conobbero poi un momento della verità con il Trattato dell’Eliseo,
nel 1963 – persino il documento fondativo dell’amicizia franco-tedesca, matri-
monio senza contratto che sarà in seguito dovutamente commemorato, non
conteneva che un vago programma di consultazioni. Questi funzionari, infi-
ne, hanno eccelso per tre decenni nell’arte di impedire di pensare, in Francia,
che la Germania potesse avere una Storia – ci si accontentava, nel caso, di di-
scutere i contrasti con il partner, badando a che le asprezze del dialogo non
penetrassero nel cuore dell’Esagono.
Tutto ciò poté funzionare fino alla cesura geopolitica del 1989. Tanto più
che i sondaggi mostravano già alla fine del 1962 una simpatia privilegiata dei
francesi – 40% – per la Germania. Oggi, dopo la riunificazione e la disintegra-
zione dell’Urss, questo approccio non è più possibile. Anzi, esso è gravido di
seri pericoli. I nostri lobbisti giovani (l’età delle belle carriere) e molto meno
giovani (l’esposizione mediatica non è più quella di un tempo) hanno fatto
della Germania in Francia un tabù, l’hanno resa intoccabile, l’hanno messa al
riparo (come se ce ne fosse bisogno) da ogni critica. Ma questo lungo lavoro
di denegazione può avere un effetto opposto al previsto. Gli antichi traumi,
continuamente rimossi in assenza di un dibattito di fondo, potrebbero tornare
brutalmente a galla, ora che la Germania sta profondamente cambiando. La
germanofilia a comando, prescritta dall’alto, si trasformerebbe allora in sorda
germanofobia. Avremmo d’un colpo a che fare con un dramma storico, che 113
L’ASSE PARIGI-BONN, ULTIMO TABÙ DEL DOPOGUERRA

noi tutti vogliamo evitare. Per scongiurarlo, occorre inventare un nuovo tipo
di responsabilità comune franco-tedesca.

Il ‘dogma Germania’ in Francia


Difficilmente si può immaginare, in Germania, quanto fu arduo, per noi
francesi, ammettere che la riunificazione si sarebbe fatta. I più eminenti rap-
presentanti della lobby franco-tedesca non spiegavano forse, ancora a meta
novembre 1989, che l’Ovest non la voleva per ragioni mercantili, che la Rdt
era uno Stato perfettamente legittimato, che quelli dell’Est a casa sarebbero
tornati. I loro (ben rari) contraddittori passavano allora per nemici dell’Europa
allucinati da un vecchio e ricorrente spettro anti-tedesco. Tentando fino all’ul-
timo di perpetuare la loro idea di una Germania buona, incapace di avere una
volontà nazionale, i funzionari della lobby franco-tedesca ci hanno impedito,
fino a tutto il 1989, di attualizzare un pò la nostra rappresentazione, sempre di
marca golliana, di una vecchia Bundesrepublik che riposava su tre parametri:
1) L’accettazione della leadership francese, avendo la Bundesrepublik
uno statuto d’associazione a un blocco autonomo europeo-occidentale.
2) L’opposizione a una riunificazione che pure noi ci eravamo impegnati
a promuovere con i trattati del 1952-’54. Se noi finimmo per accettare l’Ostpo-
litik agli inizi degli anni Settanta, lo facemmo a denti stretti – il margine di ma-
novra della Francia rispetto alle democrazie popolari e all’Urss ne risultava di-
minuito, ma i nuovi orientamenti della Repubblica federale ci sembravano an-
nullare definitivamente ogni velleità di riunificazione, giacché la Repubblica
federale riconosceva la Rdt senza riconoscerla.
3) Pur continuando noi a proclamare indefettibilmente di non voler spartire
con altri il nostro nucleare, la Bundesrepublik era costretta a continuare a gioca-
re la sua parte di eccellente bastione strategico – come tra il 1979 e il 1983, nella
vicenda dello stazionamento dei Pershing 2 americani. Non sorprende d’altron-
de che il dibattito sulla nazione tedesca si facesse percettibile precisamente a
partire dal 1981, senza peraltro veramente interessare i francesi.
Rinchiusi nelle nostre rappresentazioni confortate dall’ideologia della
lobby franco-tedesca – poco importa come noi vediamo la Germania, giacché
quest’ultima non cambi era – non ci passa nemmeno per la testa l’idea che i
tedeschi possano, a un momento cruciale della loro storia, trascurare i nostri
consigli. E infatti all’inizio noi ignoriamo sovranamente il terremoto geopoliti-
co che si produce in Germania. Il nostro ministro degli Esteri dell’epoca non
afferma forse abilmente il 9 novembre che la sua generazione potrà vedere
un giorno la demolizione del Muro di Berlino? Poi, una volta scoperto che il
treno è in cammino (l’immagine dell’accelerazione indebita della storia da
parte del cancelliere Kohl), noi ci rechiamo, animati da un furore che ci spin-
ge a recuperare il tempo perduto, a Kiev e a Berlino Est. In breve, tentiamo di
far deragliare il treno dell’unificazione giocando in successione le carte tede-
sco-orientale, sovietica, polacca. Bisogna dire che il cancelliere, evidentemen-
114 te alle prese con la Federazione dei profughi, la quale esigeva – come d’al-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

tronde il ministro delle Finanze Theo Waigel all’inizio di luglio del 1989 – che
fossero tenuti in considerazione i territori dell’Est (posizione peraltro perfetta-
mente difendibile sul piano giuridico), e cioè la Slesia e la Pomerania nelle
frontiere tedesche del 1937, non era ancora pronto a riconoscere la linea
Oder-Neisse come frontiera germano-polacca. Forse abbiamo avuto ragione
di fraternizzare con Varsavia, ricordando l’esperienza atroce vissuta dalla Polo-
nia durante la seconda guerra mondiale. Ma abbiamo dato così a molti tede-
schi l’impressione di schierarci unilateralmente dalla parte del protagonista
polacco e di voler frenare l’avvenire della Germania. Infine, abbiamo pubbli-
camente dichiarato di voler controbilanciare la potenza montante della Ger-
mania in Europa, inventando tutta una serie di combinazioni, l’una più sche-
matica dell’altra, con la Gran Bretagna, l’Italia e i paesi dell’Est (la Confedera-
zione europea del presidente Mitterrand), affermando così la necessità di in-
cardinare la Germania in Europa. Di qui il disorientamento dei francesi, con-
fermato dai sondaggi dopo l’euforia che salutò da noi il crollo del Muro: il 61%
incoraggia il processo di riunificazione nel gennaio 1990, ma il 64% esprime
già in marzo grosse riserve e solo il 37% l’accetta in ottobre. Come dice Arnulf
Baring, la Francia ha dovuto ingoiare la riunificazione della Germania.

Monologo a due?
Le osservazioni dell’ambasciatore di Francia a Bonn, François Scheer, nel
marzo scorso, hanno suscitato un vespaio negli ambienti governativi, al punto
che – fatto degno di nota fra Stati amici – il diplomatico è stato convocato al
ministero degli Esteri tedesco il 17 marzo. Ma che cosa ha mai detto di così
stupefacente il nostro ambasciatore? La Germania riunificata si rappresenta in
quanto nazione (ciò che non poteva fare al tempo della divisione), dotata di
interessi nazionali che i suoi dirigenti devono difendere, a meno di lasciare
questo campo a gruppi assai poco democratici. I rapporti fra tedeschi e fran-
cesi dovranno essere dunque rimodellati attraverso il dialogo, se accettiamo
di mettere sullo stesso piano i nostri rispettivi interessi, oppure senza dialogo,
se Parigi continua a comportarsi con le lancette dell’orologio ferme agli anni
Sessanta. La congiuntura geopolitica, come spiega a giusto titolo il signor
Scheer, reclama dunque dal punto di vista francese un vero dibattito fra i due
partner sull’Europa, tanto più che le posizioni reciproche si sono confuse.
In effetti, la discussione sul referendum di approvazione del Trattato di
Maastricht (51,05% per e 48,95% contro, con il 30,31% di astenuti, nel settem-
bre 1992) ha mostrato che tale consultazione non verteva sull’Europa, ma sul-
la Germania, o meglio su una paura della Germania che si credeva svanita. I
partigiani del “sì” evocavano lo spettro del ritorno dei tedeschi al loro destino
in caso di non ratifica, quelli del “no” la minaccia del Quarto Reich, o peggio,
dopo la ratifica. Non c’è da stupirsi che l’Europa sia rimasta ai margini del di-
battito. Sono stati gli americani a costringerci ad accettarla dopo la guerra, a
causa del confronto Est-Ovest. Noi, in mancanza di un progetto, le abbiamo
assegnato, dopo il 1957, un contenuto burocratico, essenzialmente nutrito di 115
L’ASSE PARIGI-BONN, ULTIMO TABÙ DEL DOPOGUERRA

dati economici – anche se vi furono dei grandi europeisti francesi. Al contra-


rio, per i tedeschi l’idea europeista rimpiazzava, a partire dagli anni Sessanta,
quella, impossibile, di nazione. E dunque normale che la riflessione sia oggi
molto più avanzata in Germania che in Francia. Eppure l’Europa dei tedeschi
ci pone qualche problema. Il Bundestag ha avuto un bel votare nel 1992 la ra-
tifica del Trattato di Maastricht con 547 voti contro 17. Era certo meglio non
fare appello agli elettori, ostili al 56% e consapevoli di aver versato 22,3 mi-
liardi di marchi contro i 3,5 di Parigi nelle casse comunitarie. Soprattutto, si
nota una certa confusione nei programmi dei partiti di governo. Manifesta-
mente, il programma della CDU oscilla tra confederazione e federazione, fino
a una organizzazione «inedita» dell’Europa (fine 1992), per ritornare alla fede-
razione al congresso di Marburg, nel febbraio 1994. La situazione è ancora più
movimentata nella CSU bavarese. Il ministro-presidente Edmund Stoiber non
ha forse dichiarato, all’inizio del novembre 1993, che i tedeschi dovevano fi-
nalmente uscire dal loro periodo adenaueriano, che bisognava frenare l’ap-
profondimento dell’integrazione europea a vantaggio di un allargamento
dell’Europa, che una diluizione della Germania in Europa era impensabile? Si
nota di passaggio che la CSU (ironia della storia) ha cancellato dal suo pro-
gramma il concetto di Europa delle regioni, sostituendovi quello di Europa
delle nazioni, pur continuando ad affermare il carattere «nazional-regionalista»
e bavarese del partito. Bisogna trarne che Stoiber aspira a una Baviera forte in
una Germania potente? Sarebbe coerente, ma non si vedrebbe allora la diffe-
renza fra la CSU e il Bund Freier Borger di Manfred Brunner.
C’è di più. Diversi osservatori tedeschi, persino tra coloro che sono molto
attaccati all’idea di Europa, parlano di uno slittamento dell’asse Parigi-Bonn
verso un asse Berlino-Praga-Vienna. Si tratta di un banale geografismo, che se-
gnalerebbe l’estensione spaziale verso est dei Dodici, dopo la riunificazione te-
desca? Si vuole così affermare, molto semplicemente, che il commercio tede-
sco verso l’Est è cresciuto del 57%? Ovvero che i francesi persistono a opporsi,
a causa del loro arcaismo gallico, all’emergere di un nuovo polo di potenza in-
torno alla Germania (e all’Austria) nel centro dell’Europa? L’«Ovest» dovrebbe
allora prendere effettivamente atto di questo spostamento geopolitico, giacché
sarebbe tutta la nostra rappresentazione della Unione europea a cambiare.
Per finire: alcuni importanti dirigenti tedeschi, quali Kurt Biedenkopf,
Bernd Seite (Mecklenburg-Vorpommern), Manfred Stolpe, partecipano dal
1990 a dei colloqui germano-polacchi e germano-cechi, destinati a fondare,
carte alla mano, delle euroregioni transfrontaliere con i vicini orientali. Può
trattarsi, eventualmente, di progetti in grado di fare avanzare l’idea stessa di
Europa, se questa euroregionalizzazione si limita a una fruttuosa cooperazio-
ne in materia di economia, di ecologia, di cultura. Ma come stupirsi che Egon
Klepsch, presidente del parlamento europeo, assista nella primavera del 1993
insieme a Theo Waigel, ministro federale delle Finanze, al meeting annuale
dei profughi sudeti, nel corso del quale la concezione delle euroregioni e il ri-
torno (probabile?) dei sudeti nel loro paese natale sono intimamente legati
dagli oratori? E non è singolare che il progetto di Euroregione Pomerania sia
116 entrato in fase stagnante nel 1992, dopo che i polacchi avevano preteso che
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

ad esso fossero associati svedesi e danesi? Più crudamente: se a un euroregio-


nalismo positivo per tutti gli europei venisse a sostituirsi discretamente
un’azione puramente tedesca, non parleremmo più della stessa Europa.
Ma anche in questo caso bisognerebhe parlarsi. Altrimenti, coloro che in
Francia hanno speculato, senza documentare concretamente la loro tesi, su
una geopolitica specificamente tedesca nell’ex Jugoslavia – nel momento in
cui Bonn ha creduto bene, subito dopo Maastricht, nel dicembre 1991, di ri-
conoscere da sola, con disprezzo degli accordi precedentemente stipulati, la
Slovenia e la Croazia – si sentiranno confortati nelle loro interpretazioni. Pre-
sto si leggerà in una certa stampa francese che la Germania (l’Austria) punta a
spezzettare la regione per meglio affermarvi la sua egemonia. Non bisogne-
rebbe più, allora, parlare di incomprensioni, ma di assenza, deplorevole e ca-
tastrofica, di comprensione tout court.

Verba manent, scripta volant


C ‘è di peggio. Giustamente, in tempi di mancato dibattito le parole qual-
che volta fanno più male degli atti. Ci si chiede ancora come certi giornalisti
del Figaro abbiano potuto paragonare Maastricht a una Versailles economica.
E quale mosca ha punto Roland Dumas, già ministro degli Esteri, quando
nell’agosto 1993 ha parlato di battaglia della Marna a proposito della contro-
versia sulla Bundesbank? Perché Dumas non si batte piuttosto contro il pres-
sante desiderio di attribuire al partner tedesco, a cose fatte, una responsabilità
schiacciante nel dramma jugoslavo? Anche se fosse vero, la Francia è corre-
sponsabile di questa politica e non se ne può dissociare a spese dell’«amica»
Germania. E inversamente: l’assai seducente Rudolf Augstein non potrebbe
contenere i suoi accessi libidinosi di gallofobia settimanale? Ed è assolutamen-
te necessario che il signor Klaus Kinkel, ministro degli Esteri tedesco, si espri-
ma anzitutto nella sua lingua materna, lo svevo, per farsi poi tradurre in quel-
le internazionalmente riconosciute, fra cui figura il tedesco? E proprio inevita-
bile che noi si legga nella FrankfurterAllgemeine Zeitung (n. 63 del 10 marzo
1994) che il 6 giugno si commemora 1’«invasione» della Normandia da parte
degli alleati? Si pensa di sognare.
Nessuno dubita, in Francia, che la Germania non sia una bella e grande
democrazia. Ma quando il cancelliere Kohl vuole ad ogni costo assistere alla
cerimonia del 6 giugno, egli ferisce non certo le giovanissime generazioni, ma
i vecchi combattenti, coloro che hanno rischiato la loro vita per la liberazione
della Francia, e per estensione della Germania. Il cancelliere rischia d’altronde
di risvegliare il nostro vecchio trauma nei confronti della Germania – quello
della sconfitta rapida, brutale e imprevista nel 1940. Il punto invece è che noi
sentiamo la crudele mancanza, in Europa, di luoghi simbolici e di manuali
scolastici europei, dove sarebbero elaborate delle rappresentazioni comuni
della nostra storia più recente. A noi di inventarli, e presto.

(traduzione di Fausto Fontana) 117


OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

LE RADICI
FRANCOFOBE
DELLA KULTUR di Michael NEHRLICH
Un tedesco di sinistra illumina, attraverso la sua biografia
intellettuale, le zone d’ombra e le rimozioni che ostacolano
un normale rapporto tra le due sponde del Reno.
Un problema vitale per la costruzione europea.

S ONO NATO NEL 1939. HO PASSATO L’IN-


fanzia sotto le bombe, perché la mia città natale, Brandenburg, era attaccata
all’incirca due volte alla settimana dagli aerei alleati che volevano colpire le
sue officine. Ho conosciuto poi «l’esodo», una marcia di diverse centinaia di
kilometri, a piedi, fino alla città della mia famiglia, Lubecca, dove ho trascorso
la prima giovinezza, assolutamente decisiva per la mia vita. E questo non tan-
to a causa delle mie prime letture, fatte sui superbi volumi colorati, genere fi-
gurine di Epinal, della biblioteca del mio prozio, dai quali ho appreso che i
nostri nemici ereditari erano i francesi e che il «corpo degli Jäger», al comando
dell’audace von Lutzow, aveva l’abitudine di rigettarli al di là del Reno, quan-
to invece a causa della tristezza che si impadronì di me, ancora piccolissimo,
nel guardare le rovine delle magnifiche chiese, che l’amicizia con i figli del
grande imprenditore incaricato di ricostruirle mi permise di vedere da vicino,
con i loro interni bruciati, dall’alto dei mucchi di macerie da cui poteva spun-
tare la mano di un Cristo gotico, o una corona spezzata.
Più tardi, seppi chi fossero i responsabili di questo massacro e nello stes-
so tempo conobbi la verità sullo sterminio degli ebrei… e scoprii la pittura
moderna, che per molti anni ha riempito la mia vita al punto che volevo io
stesso diventare pittore. Appresi così, con una rabbia tutta giovanile, che i col-
pevoli della distruzione di Lubecca, gli inventori delle camere a gas erano an-
che i responsabili dell’esodo dei grandi pittori, da Feininger a Klee, e comin-
ciai a odiarli.
Cominciai a disegnare le grandi scene dei campi di concentramento, illu-
strate da poemi espressionisti, e più stranamente, ma significativamente, an-
dai a lavorare nei cantieri edili per acquistare, con il denaro così faticosamen-
te guadagnato, opere sull’arte moderna e sullo sterminio degli ebrei, che offri-
vo… a mio padre.
Non fatemi domande su mio padre. Mia madre fu una donna coraggiosa, 119
LE RADICI FRANCOFOBE DELLA KULTUR

antinazista, in tutto risoluta, figlia di una francese, che non conobbe perché
morta molto presto, e di un padre socialdemocratico. Quanto a mio padre, lo
interrogai io stesso, molto più tardi, in occasione di un mio viaggio in Francia,
e mi giurò di non aver saputo «la verità». Egli fu una persona perbene che, per
orrore delle armi, era riuscita a non andare in guerra ed è basandomi sulla sua
dabbenaggine di ex Elmo d’acciaio diventato SA senza mai odiare un «non te-
desco» che – più tardi – ho potuto misurare l’impatto della demenza collettiva
di uno Stato totalitario: le cui buffonate, ad esempio le sfilate con le torce, era-
no riuscite a suscitare in me un’amministrazione infantile, che in seguito mi
fece orrore; di questo Stato, che ha messo a ferro e fuoco il mio paese, la Ger-
mania, insozzato la mia identità di tedesco, ipotecato la mia esistenza.
2. Questo lo seppi molto presto e da quel momento decisi di lasciare la
Germania. E non è per impietosirvi che vi dico che non è piacevole, non è af-
fatto piacevole, appartenere a una nazione di assassini. Ma intendiamoci be-
ne, per evitare malintesi. Da una parte è vero, naturalmente, che non tutti i te-
deschi sono stati assassini; tuttavia – come sottolinea a ragione Todorov – la
differenza tra i crimini commessi da altre nazioni, poniamo l’Unione Sovietica,
e quelli commessi dallo Stato nazista, uscito da elezioni legali, consiste in que-
sto: quei crimini furono la logica realizzazione, preannunciata e prevista, di
uno Stato apertamente fondato sull’immoralismo e sull’abdicazione della ra-
gione, sulla dottrina della «superiorità della razza ariana». D’altra parte, è senza
dubbio più doloroso appartenere alla nazione, se così si può definire, degli
assassinati, per non parlare del lutto eterno di quanti hanno visto perire i loro
genitori, o, peggio ancora, i loro figli nei Lager o nelle camere a gas. Ma il do-
lore è dolore e quello di un tedesco come me non è affatto da sottovalutare:
mettetevi al posto del figlio di un criminale in un villaggio dove tutti si cono-
scono. Il mondo è un villaggio, credete a me, e anche se forse non tutti sono
al corrente di ciò che è avvenuto nella Germania nazista, quelli di cui vi im-
porta lo sanno.
Nel sistema universitario tedesco feci il mio ingresso nel 1966, con una te-
si sul teatro spagnolo del secolo dei Lumi. Hans Bender, poeta e redattore
della rivista Akzente, che faceva scuola nel campo della letteratura e della
poesia tedesca, mi invitò a pronunciarmi su una disputa che opponeva poeti
tedeschi miei coetanei, tra i quali Handke, convinti di «non aver più niente da
dire», a scrittori più anziani, quali l’emigrato Jakov Lind, che, dal canto loro,
pensavano di avere ancora qualcosa da dire. Intervenni, dunque, nel 1967,
collocandomi al fianco di Lind e prendendo, tra l’altro, partito contro Gli in-
sulti al pubblico di Handke a favore di un poeta ancora assolutamente ignoto,
che aveva pubblicato altri insulti, a mio avviso assai più coraggiosi: Wolf Bier-
mann (Gli insulti al Comitato Centrale del mio partito).
In seguito a questo intervento persi il primo posto nella lista per l’asse-
gnazione di una docenza e non fu certo solo per caso che la cattedra di lettere
romanze attribuitami nel 1969 (e che ancora occupo) fu quella dell’Università
tecnica di Berlino, in cui insegnava il fondatore della rivista Akzente, lo scrit-
tore e poeta Walter Hoellerer.
120 Nel 1967 feci due incontri per me decisivi: quello con la poetessa franco-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

indovietnamita Evelyne Sinnassamy, che divenne la compagna della mia vita,


e quello con Werner Krauss, allora membro dell’Accademia delle scienze del-
la Repubblica democratica tedesca. Krauss era uno dei rari professori univer-
sitari tedeschi impegnatisi attivamente nella resistenza ai nazisti. Arrestato a
Berlino nel 1942, fu condannato a morte il 18 gennaio 1943. Alla fine del
1944, mentre scriveva un libro che era un’apologia dei Lumi, la pena gli fu
commutata in cinque anni di lavori forzati. Liberato nel 1945, gravemente ma-
lato, Krauss fu in un primo tempo nominato professore a Marburg, ma nel
1947, quando il suo libro sulla necessità di collegare l’impegno politico e la ri-
cerca universitaria fu messo all’indice dalla censura americana, accettò la no-
mina propostagli dal filosofo Gadamer, allora rettore dell’Università di Lipsia.
A Lipsia, tuttavia, dove formerà la celebre triade con il germanista Hans Mayer
e il filosofo Ernst Bloch (ai quali si aggiungerà lo storico Walter Markow),
Krauss si vedrà presto esposto a nuove vessazioni. Fu la censura del partito
comunista a impedire qui la pubblicazione del suo libro. Accusato di «tenden-
ze trockiste», egli dovette bruciare una parte della sua biblioteca, mentre i suoi
assistenti furono cacciati dai loro posti. Gadamer, Bloch, Mayer lasciarono
l’uno dopo l’altro la Rdt, ma Krauss, al quale nel 1950 un tribunale della Ger-
mania occidentale aveva rifiutato il riconoscimento di vittima del regime nazi-
sta (e di conseguenza la pensione e il risarcimento dei danni) non poteva più
lasciare la Rdt: era troppo malato e il ritorno all’Ovest avrebbe significato per
lui la definitiva perdita di quella biblioteca di 25 mila volumi che già la Gesta-
po aveva tentato di portargli via.
3. Se volete che vi illustri le difficoltà di essere (un) tedesco (di sinistra),
bisogna che vi parli di questo Werner Krauss, cui l’Università di Aix-en-Pro-
vence ha attribuito nel 1971 la laurea honoris causa, ma al quale lo Stato te-
desco occidentale ha rifiutato il riconoscimento di vittima del nazismo e che
lo Stato tedesco orientale ha obbligato all’«emigrazione interna». Ne devo par-
lare, affinché si comprenda perché oggi la rivista tedesca Der Spiegel – il cui
redattore capo Augstein, mobilitando tutti i cliché dei quali si era già servita
l’estrema destra di Weimar, vomita il suo odio contro la Francia fin dal 1949,
anno di fondazione della rivista – conclude un articolo sull’attuale estrema de-
stra tedesca in questo modo: «La Germania nella primavera del 1994: da tre-
mare di paura».Questo ha un rapporto con l’illuminismo francese e con lo spi-
rito repubblicano, poiché la ragion d’essere e di agire del mio paese, di que-
sta Germania moderna che – uscita dalle guerre antinapoleoniche e consoli-
data nel 1871 a Versailles – ha scatenato due guerre mondiali, è stato l’odio
contro i Lumi, contro la Rivoluzione francese e la Repubblica francese: da Fi-
chte e Arndt a Hitler non vi è stato – o quasi – un crescendo (94), quando la
Germania nazista piegò la Francia, il Reichsleiter Rosenberg, il 28 novembre
1940, nella Parigi sconfitta, dichiarò in una allocuzione alla Camera dei depu-
tati che si era definitivamente concluso il secolo dei Lumi contro cui i tedeschi
avevano combattuto, mentre Hitler – e che nel Mein Kampf aveva preannun-
ciato l’annientamento della Francia e la sua «epurazione razziale» – andò a bal-
lare sulla tomba di Napoleone.
Fedele a Montaigne, io non amo le speculazioni sofistiche e non entro 121
LE RADICI FRANCOFOBE DELLA KULTUR

pertanto nel dibattito che ha per oggetto se sia o non sia pensabile una «sini-
stra» (politica o filosofica), in Germania o altrove, senza i Lumi, senza la répu-
blique, senza le sue idee e i suoi ideali. Ma so che chi voglia comprendere
che ne è della Germania, quella del passato e quella odierna, deve sapere che
un tedesco, suddito di questa Germania moderna, è sempre stato un nemico
dei Lumi e della Francia repubblicana. Se era troppo idiota, o troppo ignoran-
te per sapere cosa fossero i Lumi e la république, quantomeno odiava la Fran-
cia. La odiava d’ufficio, per il suo essere un suddito tedesco, perché le autorità
tedesche da lui si aspettavano questo.
4. Si può forse valutare, ora, che cosa voglia dire scrivere un’apologia dei
Lumi nella cella dei condannati a morte di un carcere nazista e forse si valu-
terà il significato del fatto che ancora oggi non disponiamo di una storia non
edulcorata dei rapporti franco-tedeschi. Mentre, infatti, nella Germania
dell’Est ci si limitava alla confezione stereotipata di compendi storici nei quali
«il popolo» ricopriva un ruolo obbligatoriamente eroico quanto sprovveduto
(in particolare per tutto ciò che riguardava l’epoca successiva alla fondazione
del Partito comunista), nella Germania dell’Ovest la storia nefasta dei rapporti
franco-tedeschi fu più o meno passata sotto silenzio nell’interesse di quella «ri-
conciliazione» franco-tedesca diventata, dopo il 1945, il fondamento dell’Euro-
pa occidentale. La Germania dell’Ovest, chiamata Repubblica federale Ger-
mania, entrò in un’epoca che in passato la Germania aveva molto brevemen-
te e sommariamente conosciuto soltanto tra le due guerre mondiali: l’epoca
repubblicana; ma lo fece in modo molto pragmatico, senza una vera critica di
massa (l’espressione «anno zero», che designa il 1945, è un termine adeguatis-
simo), senza coscienza e senza filosofia. Ciò spiega perché da un giorno all’al-
tro nazisti noti, divenuti tanti von Paulus democratici, potessero tornare ad
esercitare funzioni politiche importanti; perché, ad esempio, tutto l’apparato
giudiziario continuasse a girare senza il minimo intralcio e perché i vecchi
esponenti della propaganda antifrancese – i Claus, gli Epting, gli Heller e i Sie-
burg – potessero continuare a divulgare i loro stereotipi nazionalisti. La «vera
Francia» per i tedeschi dell’Ovest era una Francia senza passato rivoluzionario,
senza una repubblica nata da guerre internazionali (non era già stata, forse,
una guerra mondiale quella dichiarata nel 1794 dalle nazioni europee alla Re-
pubblica francese?), senza una Germania che le aveva giurato odio eterno e
promesso poi lo sterminio. La Francia diventava la Marianna che il vicino Mi-
chel aveva sempre amato, il paese del buon vino e dei banchetti di gemellag-
gio; in breve, dell’amicizia eterna, che aveva i suoi profeti in giornalisti e pro-
fessori universitari, pagati (o che si credevano pagati) per raccontare che tutto
andava nel migliore dei modi nella migliore delle relazioni franco-tedesche.
Ma questi pacificati rapporti, franco-tedeschi, che nessun cattivo ricordo
sembrava più turbare, angosciavano quanti non avevano dimenticato e teme-
vano viceversa ciò che poteva risorgere dopo tanta «Gemutlichkeit». Non che
avessero previsto la caduta del Muro, nessuno l’aveva prevista. Ma sapevano
– dalla storia – che la rimozione del passato è una cattiva maestra, che gli
scheletri non si lasciano rinserrare per sempre negli armadi e che niente era
122 stato veramente regolato nei rapporti franco-tedeschi; anzi, un effettivo dialo-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

go non era stato neppure avviato. Di tutto questo e di cose ancor più doloro-
se abbiamo discusso con Werner Krauss, Evelyne Sinnassamy ed io, entrambi
angosciati per dover riattraversare entro mezzanotte la frontiera (perché si do-
veva lasciare Berlino Est prima di quest’ora: si è mai vista una cosa simile? È
per questo che è scomparso questo «paese socialista»… per aver preso i suoi
cittadini per coglioni). Ma noi restavamo fino all’ultimo minuto con Krauss,
che soffriva per i dolori che gli causavano le sevizie inflittegli dai nazisti e per
il ricordo della sua amica Ursula Goetze, decapitata nel 1943, e che, ansiman-
do, ci implorava di ritornare da lui la domenica successiva. In breve, è da
queste discussioni che è nato il sogno, assolutamente folle, di una rivista di ri-
cerche sulla Francia quale la Germania non ha mai conosciuto, strumento di
trasmissione dell’idea repubblicana francese in Germania; di una rivista che,
perpetuando la tradizione e il ricordo dei Lumi, onorasse – in Germania – il ri-
cordo della resistenza repubblicana contro il terrore nazista. Il primo numero
di questa rivista, intitolata Lendemains, apparve a Berlino Ovest nell’aprile
1975. Vi si legge: «Abbiamo scelto il titolo Lendemains perché pensiamo che
sia finalmente giunto il tempo di onorare quelli che il popolo francese ha do-
vuto sacrificare nella lotta contro il fascismo tedesco. (…) Prima di essere fuci-
lato dalla Gestapo, Gabriel Péri, deputato comunista (…) ha scritto «Faccio
per l’ultima volta il mio esame di coscienza. È positivo. Rifarei la stessa strada
se dovessi ricominciare la vita. (…) Vado a preparare ‘i domani che cantano’.
Mi sento forte per affrontare la morte. Addio e viva la Francia»».
A partire dal secondo numero, Werner Krauss cominciò a pubblicare studi
sulle parole-chiave dei Lumi, ai quali demmo il titolo di Supplément au Diction-
naire philosophique. E se i Lumi erano morti, i nostri avversari non dovevano
esserne coscienti o convinti. Fatto sta che in numerose università della Germa-
nia occidentale furono proibiti l’affissione della rivista e l’abbonamento da parte
delle biblioteche. Nel 1977, una specie di Ku-Klux-Klan accademico che si chia-
mava Associazione per la difesa dell’Università libera di Berlino, presieduto da
un professore di letteratura francese, Erich Loos, pubblicò un opuscolo contro
di me in cui denunciava Lendemains accusandola di voler diffondere le idee re-
pubblicane francesi ed esigeva la mia destituzione dalla cattedra.
5. Fu per questo che il «governo di Berlino occidentale», per incitamento
dell’associazione di cui sopra, intraprese misure disciplinari contro di me, bloc-
cate per l’intervento del governo francese. Ed è anche vero che i miei studenti
non ottennero più borse e che io stesso fui messo al bando dall’Università te-
desca, non fui più invitato a dibattiti, anzi una volta fui «disinvitato» perché un
certo collega non avrebbe sopportato la mia presenza eccetera. Ma, seriamen-
te, vi domando: ho incontrato difficoltà? O, più precisamente: sono stato tede-
sco? ¿Aleman de que Alemania? Per citare, adattandola, un’espressione spa-
gnola. Nel frattempo, non ero diventato francese? o spagnolo? Invece di ri-
spondere, permettetemi di dire che la rivista Lendemains continua ad esistere,
benché io non sappia per quanto tempo ancora. Essa, infatti – non ci facciamo
illusioni a questo proposito – vive una vita marginale (e come potrebbe essere
altrimenti in Germania?) e quando nel 1992, dopo sedici anni di esistenza sen-
za sovvenzioni, ci siamo visti costretti a chiedere un contributo alla Deutsche 123
LE RADICI FRANCOFOBE DELLA KULTUR

Forschungsgemeinschaft, abbiamo avuto in risposta un «no» monumentale,


che non ci aspettavamo affatto. Di fronte a un’ondata di proteste, però, la
Deutsche Forschungsgemeinschaft ha cambiato opinione e da un certo tempo
ci sovvenziona, ma la sopravvivenza della rivista continua a essere precaria. È
importante? Non lo so, o piuttosto: no, non credo che l’eventuale scomparsa di
Lendemains sarebbe una catastrofe. Ma sarebbe un ulteriore segnale dell’insi-
curezza degli ideali repubblicani, che regna in Germania, in questa nuova
Germania unificata, e che minaccia la Francia, l’Europa, il mondo. Dal 1945, ci
siamo divertiti con i nostri piccoli giochi di prestigio politici e filosofici e quan-
do ci è giunta la buona novella dei nuovi pensatori francesi, che annunciavano
la fine della modernità, abbiamo finalmente avuto la conferma di quello che in
Germania si era sempre pensato: che il tempo dei Lumi e degli ideali della ré-
publique era concluso. Non nego, certamente, che dal 1789 tutto sia cambiato,
né contesto che le forme nelle quali bisognerebbe pensare oggi i Lumi e la ré-
publique non possano più essere le stesse. Può anche darsi che, in certo qual
modo, le nozioni di «sinistra» e di «destra» abbiano perduto il loro senso. Prefe-
risco, tuttavia, da buon seguace di Montaigne, rimanere concreto: constato,
dunque, che dal 1945 la Germania dell’Ovest ha condotto un’esistenza pacifica
nella comunità delle repubbliche europee occidentali e la Germania dell’Est in
quella del Patto di Varsavia, ma che né nella Repubblica democratica tedesca
dell’Est, né nella Repubblica federale Germania dell’Ovest si è formata una ve-
ra coscienza repubblicana di massa, una coscienza civica. Per questo penso
che oggi occorra schierarsi più che mai a favore del rafforzamento delle rela-
zioni franco-tedesche sulla base di una presa di coscienza repubblicana in
Germania. Ed essa deve obbligatoriamente passare attraverso la presa di co-
scienza del passato franco-tedesco, affinché si sappia ciò che non si vuole più,
o, per dirla altrimenti, affinché non si ricominci da capo con le imbecillità anti-
francesi del passato, diffuse ancora una volta, per esempio, da Der Spiegel.
Questo lavoro è necessario, addirittura urgente, e farlo è nell’interesse assoluto
dell’Europa in generale e della Francia in particolare. Perché una Germania
priva di ideali repubblicani ritornerebbe obbligatoriamente alla sua vecchia
ostilità nei confronti della Francia. Gli intellettuali francesi che si sono tanto di-
lettati nel seppellire i Lumi e la Repubblica del 1789 devono chiedersi se prefe-
riscono vivere in una repubblica o in una dittatura fondamentalista: i tempi
stringono e non permettono più che si giochi. L’Italia avrà un governo costitui-
to in gran parte da ammiratori del Duce. In Spagna, la disoccupazione raggiun-
ge il 25%: la nostalgia di Franco potrebbe espandersi tanto in fretta quanto
l’antisemitismo e la xenofobia, che cominciano a imperversare ancora una vol-
ta in tutta l’Europa. La Turchia sospende i diritti umani. La Russia barcolla co-
me un ubriaco fradicio e Zirinovskij minaccia di sganciare bombe un po’ dap-
pertutto. L’Algeria sta agonizzando. L’Africa brucia. E questo discorso potrebbe
proseguire a lungo.
(traduzione di Liliana Piersanti)
Note
124 94. In italiano nel testo, n.d.t.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

CHE COSA CERCA


LA GERMANIA
IN JUGOSLAVIA di Lucio CARACCIOLO
Dai riconoscimenti anticipati di Slovenia e Croazia alla
discussione sull’impiego di soldati tedeschi in Bosnia: i Balcani
sono teatro di un test geopolitico che dovrebbe riaccreditare
la nuova Bundesrepublik come potenza ‘normale’.

Q
« UESTA VOLTA NON VERREMO CON
il libretto degli assegni». Così Wolfgang Schauble, presidente dei deputati
CDU-CSU e accreditato delfino del cancelliere Helmut Kohl, ha illustrato il 15
aprile scorso l’idea di inviare soldati tedeschi in Bosnia. «La Germania deve
dare il suo contributo – anche militare – alla pace nella ex Jugoslavia», ha
spiegato Schauble, reduce da un viaggio a Washington per consegnare ai
suoi interlocutori americani un documento riservato del suo gruppo parla-
mentare: in esso si dichiara la disponibilità della Germania a partecipare a
pieno titolo alle missioni dell’Onu, in particolare nella ex Jugoslavia. Giacché
«per noi la presenza in Bosnia è più importante dell’impiego in altri continen-
ti» (95).

(Re)cognosce te ipsum
Vedremo presto soldati tedeschi sul teatro di guerra balcanico, una pol-
veriera in cui la memoria dell’invasione nazista resta attualissima? Non è af-
fatto scontato (malgrado l’imprevista disponibilità russa ad accettare l’invio di
«caschi blu» germanici in Bosnia), vista la prudenza del cancelliere Kohl in
materia, la non brillante performance della Bundeswehr in Somalia e l’indi-
sponibilità di un tedesco su due a un coinvolgimento diretto in Bosnia (96).
Ma le affermazioni del leader cristiano-democratico – largamente condivise
nei due partiti cristiani e, sottovoce, da qualche esponente socialdemocratico
(97) – rivelano che nella coscienza di gran parte della classe dirigente tede-
sca il tabù antimilitarista è superato. E che la Germania si prepara a impiega-
re le sue forze armate in ambito Onu come fattore di potenza – allo stesso ti-
tolo degli altri protagonisti della scena internazionale. Con ciò superando
l’interpretazione restrittiva degli articoli 87 a comma 2 e 24 comma 2 della 125
CHE COSA CERCA LA GERMANIA IN JUGOSLAVIA

Legge fondamentale, che ha limitato la proiezione «fuori area» della Bunde-


swehr: una rivoluzione copernicana che postula la parità di rango fra la Ger-
mania e le potenze che la sconfissero mezzo secolo fa. Dunque, la vera fine
del dopoguerra.
La sortita di Schauble non è che il più pronunciato segnale del rinnovato
attivismo tedesco sul teatro ex jugoslavo. Dal foro negoziale sulla Bosnia
promosso a Bonn nel febbraio scorso, all’idea (tedesca, poi adottata dagli
americani) della «confederazione» fra croati e musulmani bosniaci, al proget-
to di affidare Mostar a un «amministratore tedesco» – già individuato nel vete-
rano socialdemocratico Hans Koschnik – al sogno di Kohl di portare un gior-
no la Germania, come una delle «grandi potenze», alla conferenza di pace
che dovrebbe sigillare i nuovi equilibri nei Balcani (98): tutto lascia intendere
che il governo di Bonn ha superato lo shock del 1991, quando trascinò il re-
sto d’Europa a riconoscere Slovenia e Croazia. Quel gesto, che secondo i
suoi sostenitori avrebbe favorito la pacificazione nella ex Jugoslavia e al qua-
le viene oggi invece spesso imputata l’estensione del conflitto alla Bosnia,
spinse la Germania a infliggersi una quasi biennale quarantena sullo scac-
chiere balcanico. I dirigenti di Bonn si erano cacciati da soli in un vicolo cie-
co, risvegliando le pulsioni germanofobe del resto del mondo, in particolare
degli alleati occidentali – francesi, inglesi e americani in testa.
I quali ancora oggi stentano a considerare la Repubblica federale Germa-
nia una potenza «normale». Essa sembra anzi condannata a una sorta di scru-
tinio permanente. Curiosamente, sono i suoi partner più stretti a ricordarglie-
lo, talvolta con arroganza. E i leader tedeschi devono tenerne conto. Non
stupisce quindi che il 14 aprile lo stesso Kohl, marcando l’impegno tedesco
ad accogliere al più presto la Polonia nell’Unione europea, si sia lasciato
sfuggire battute agrodolci: «Anche i teutoni cambiano…» (99). Tanto più se si
ricorda che quello stesso giorno Douglas H. Jones, il funzionario di più alto
rango nella sede di Berlino dell’ambasciata americana, criticava in pubblico
le inclinazioni «xenofobe» del popolo tedesco, «paralizzato dalla sua propria
storia come un coniglio da un serpente» (100). Solo poche settimane prima
l’«affaire Scheer» aveva portato le relazioni franco-tedesche al punto più bas-
so degli ultimi decenni. E gli affannosi pellegrinaggi di Major alla Casa Bian-
ca, a puntellare la sempre più vacua «relazione speciale» fra le due potenze
anglofone, traspirano insofferenza per il presunto «asse» Washington-Berlino.
La Germania non ha elaborato un progetto geopolitico adeguato alla sua
potenza. Ne è anzi lontana. Ma sente di non poterne fare a meno. I bei tempi
della «machtgeschutzte Innerlichkeit», dell’«introversione protetta», come Ar-
nulf Baring ha definito – riadattando un’espressione di Thomas Mann – la
condizione geopolitica della Seconda Repubblica (101), sono trascorsi per
sempre. Da marca di frontiera dell’Occidente la Germania è assurta a prima
potenza europea e rivendica la sua posizione centrale – economica e geopo-
litica – nel continente. Lo sbocco di questa ricerca di legittimazione non è de-
terminato. Certo è invece il momento in cui essa si manifesta per la prima
volta: nella notte fra il 16 e il 17 dicembre 1991, al tredicesimo piano del pa-
126 lazzo Charlemagne a Bruxelles, quando il ministro degli Esteri Hans-Dietrich
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

Genscher induce i suoi undici colleghi della Comunità europea – ma anche i


governi degli Stati Uniti, della morente Unione Sovietica e il segretario gene-
rale dell’Onu – a ingoiare la decisione tedesca di riconoscere subito le re-
pubbliche di Slovenia e Croazia. Ciò che la Germania formalizza già il 23 di-
cembre, tre settimane prima del termine concordato dai Dodici (15 gennaio).
Riconoscendo da sola Slovenia e Croazia, la Germania riconosce se stes-
sa. Si attribuisce cioè il diritto di determinare la propria politica sulla base del
proprio interesse nazionale. Un’affermazione di sovranità paragonabile forse
solo alla sfida di Konrad Adenauer agli alti commissari alleati, il 21 settembre
1949 all’Hotel Petersberg. Il primo cancelliere della Repubblica federale ave-
va allora ostentatamente violato il protocollo, presentando il suo governo ai
plenipotenziari americano, inglese e francese con i piedi ben piantati sul tap-
peto loro riservato. Quell’atto affermava simbolicamente la sovranità (limita-
ta) della Bundesrepublik occidentale. Allo stesso modo, la sfida balcanica di
Kohl e Genscher potrebbe un giorno passare alla storia come il ritorno della
Germania al rango di protagonista della scena internazionale. Per interpre-
tarla più profondamente sarà utile ricostruirne gli antefatti.

Panzermedien
L’offensiva per il riconoscimento di Slovenia e Croazia comincia in Ger-
mania ben prima della dichiarazione di indipendenza delle due repubbliche
jugoslave (25 giugno 1991). Essa impegna fin dall’inverno 1990-’91 tre diversi
livelli di formazione della volontà politica: sale anzitutto dai media, rimonta
fino al livello dei partiti, per sfociare infine in una formale decisione del go-
verno federale.
Sono dapprima i giornali e le tv ad aprire la strada alla svolta politica,
consumata in modo tutt’altro che lineare fra il 1° luglio, quando Kohl accen-
na per la prima volta alla necessità di accogliere Croazia e Slovenia nella co-
munità internazionale, e il 23 dicembre 1991, data in cui i consoli generali te-
deschi consegnano ai governi di Lubiana e di Zagabria le lettere con cui il
presidente Richard von Weizsacker riconosce i due nuovi Stati. Secondo la
rappresentazione semplificata – quindi tanto più efficace – della gran parte
dei media, le due repubbliche jugoslave settentrionali vogliono disporre del-
la propria esistenza, esercitando quel diritto all’autodeterminazione dei po-
poli cui i tedeschi – nella vulgata diffusa dopo il crollo del Muro di Berlino –
hanno attinto per legittimare la loro riconquistata unità (102). I serbi negano
con la forza tale elementare diritto, tenendo in vita la morente Federazione
jugoslava, da essi dominata. I referendum del dicembre 1990 in Slovenia e
del maggio 1991 in Croazia (boicottato dalla minoranza serba) si sono risolti
in plebisciti indipendentisti. La Germania, l’Europa, il mondo liberaldemo-
cratico che ha appena festeggiato le rivoluzioni del Secondo Ottantanove
non possono permettere che nel cuore del continente un residuo bastione
totalitario soffochi le giuste aspirazioni di popoli civili, di «antiche nazioni»
come la Croazia e la Slovenia. 127
CHE COSA CERCA LA GERMANIA IN JUGOSLAVIA

La decomposizione dell’«artificiosa» costruzione titina deve dunque con-


cludersi, seguendo questo schema, riportando ciascuno nella propria grande
famiglia: sloveni e croati nel loro universo europeo, democratico, sviluppato,
romano-germanico; ai serbi non resta che assoggettarsi al loro destino orien-
tale, slavo-bizantino.
Questo cliché ricorre incessantemente nei media tedeschi (103). Ne tro-
viamo una versione «popolare» in quotidiani non vocazionalmente riflessivi,
come la diffusissima Bild Zeitung, e nei telegiornali o nelle trasmissioni spe-
ciali che le televisioni tedesche dedicano con grande intensità emotiva al
dramma jugoslavo. Ad influenzare in questo senso le élite politiche e di go-
verno contribuiscono i quotidiani di centro-destra, come la Welt, e soprattut-
to il maggir giornale tedesco, la Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ), di
Francoforte. Se a giocare la carta emotivo-moralistica, in modo tanto vee-
mente quanto raffinato, sono giornalisti di fama come Johann Georg Reis-
smuller, di tendenza clericale, uno dei pentarchi che dirigono la FAZ, o Vik-
tor Meier, specialista dei Balcani per il foglio francofortese, o ancora Carl-Gu-
staf Strohm, opinionista conservatore della Welt, ciò non può lasciare indiffe-
rente l’intellettualità e la classe politica, almeno quella che va dal liberalismo
moderato fino alla destra democratica. Dunque quell’elettorato maggioritario
su cui poggia il governo di coalizione CDU-CSU-FDP.
Ma le argomentazioni della stampa di centro-destra toccano corde ecu-
meniche, care anche al moralismo di sinistra. Sicché accanto all’immagine
dei «serbo-comunisti» e del «Panzerkommunismus», il 26 febbraio Reissmul-
ler suggerisce un’analogia tra Milosevic e Hitler: «I tedeschi, che in questo se-
colo con la loro follia dello Herrenvolk hanno provocato tante spaventose
sciagure ad altri popoli, dovrebbero reagire in modo particolarmente sensibi-
le quando vedono che non lontano da loro una nazione (la Serbia, L.C.) pre-
sa dallo stesso annebbiamento maltratta i più deboli (la Slovenia e la Croazia,
L.C.)» (104). Lo stesso autore attinge volentieri alle rappresentazioni del carat-
tere nazionale. Sulla FAZ del 16 aprile canta le lodi degli sloveni, «i tedeschi
di Jugoslavia»: «Gli sloveni sono considerati dai loro vicini come diligenti,
parsimoniosi, ordinati, affidabili». In più sono «un popolo esemplarmente cat-
tolico» (105).
Con accenti diversi, lo stesso schema ricorre in fogli molto letti anche a
sinistra, come lo Spiegel e l’«alternativa» Tageszeitung, mentre solo la Zeit e la
Suddeutsche Zeitung sono più prudenti. Ciò contribuisce a spiegare come
tutti i partiti finiranno per razionalizzare il riconoscimento di Slovenia e
Croazia attingendo alle rappresentazioni profuse copiosamente, per più di
un anno, dalla quasi totalità dei media.

La forza dei princìpi…


A questo scenario mediatico corrisponde, fin dalla primavera del 1991,
un sorprendente asse politico sinistra-destra. Mentre Kohl e Genscher difen-
128 dono insieme al resto del mondo l’idea di una «Jugoslavia unita e democrati-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

ca», verdi-alternativi e poi anche socialdemocratici si battono per i patrioti


sloveni e croati insieme alla CSU e alla destra CDU.
Prima ancora che fra i partiti di governo si alzino voci autorevoli a recla-
mare il sostegno alla secessione slovena e croata, è l’opposizione che si uni-
sce al coro dei media. Già il 21 febbraio 1991, nel corso di un dibattito parla-
mentare sulla crisi jugoslava, è Ulrich Poppe, deputato della sinistra estrema
(Verdi e Alleanza 90) formatosi nella lotta al regime di Honecker, a pronuncia-
re un’invettiva contro la Serbia e le sue «pretese egemoniche», da cui derivano
le «violazioni dei diritti umani». Poppe esalta il «bisogno di sovranità» di croati
e sloveni, vi scorge «una componente emancipatoria della lotta per l’indipen-
denza nazionale, che troppo spesso viene dipinta solo come un pericolo per
la comunità dei popoli». Reissmuller non avrebbe potuto dir meglio. Ma nel
Bundestag filojugoslavo solo i cristiano-sociali Ortwin Lowack e Gunther
Muller si distaccano dalla posizione ufficiale, anche se il protocollo segnala
«applausi» dai bianchi CDU-CSU al termine dell’arringa di Poppe (106).
In questa occasione emerge dunque il primo abbozzo di quell’asse tra-
sversale destra-sinistra, per ora limitato alle ali estreme (CSU e destra CDU, si-
nistra verde-alternativa), che allargandosi finirà per stringere il centro in una
morsa cui esso potrà sottrarsi solo spingendo la Germania a rompere l’allinea-
mento con gli alleati occidentali. Non si tratta certo di un piano concertato.
Ma per chi non ha responsabilità di governo, o chi nella maggioranza non na-
sconde la sua avversione al «genscherismo» (CSU e parte dei cristiano-demo-
cratici, fra cui l’unico leader che Kohl non sia riuscito a «normalizzare», Wolf-
gang Schauble), è più facile cavalcare l’onda dell’opinione pubblica(ta). Il go-
verno, che deve tener conto anche dei partner occidentali, cerca invece di rin-
viare fino all’ultimo la scelta fra il fattore esterno e quello interno.
Più e prima della maggioranza, è però il grosso della sinistra a scartare
verso gli indipendisti. La SPD, specialmente la sua ala sinistra, è ostile al «co-
siddetto realismo» e sensibile ai princìpi moralistico-universalistici, come
l’«autodeterminazione dei popoli». Sicché già a maggio il numero due della
frazione socialdemocratica al Bundestag, Norbert Gansel, di ritorno dalla Ju-
goslavia dichiara che la Slovenia è pronta per costituirsi in Stato internazio-
nalmente riconosciuto e invita il governo a non nascondersi dietro le «dichia-
razioni stereotipe» della Cee, che coprono la repressione serbo-federale e «di-
latano e complicano la crisi» (107). Il 27 maggio è lo stesso leader storico e
presidente onorario della SPD, Willy Brandt, a pronunciarsi contro lo jugo-
slavismo a oltranza. L’ex cancelliere sceglie un luogo simbolico per sanzio-
nare la svolta: Graz, capoluogo del Land austriaco di Stiria, dove la simpatia
per la vicina Slovenia è palpabile. Per Brandt la Comunità europea «è troppo
vincolata all’idea di uno Stato unitario jugoslavo». Di più, «noi sopravvalutia-
mo il principio della non-ingerenza» (108). Brandt allude all’invio di caschi
blu al confine tra Croazia e Serbia, evocata dai media tedeschi e dallo stesso
ministro degli Esteri austriaco Alois Mock (OVP), uomo di punta della lobby
proslovena in Europa (109).
La stampa di centro-destra esalta la «quasi sensazionale svolta della SPD»
(Die Welt), rovesciando contro Genscher e la CDU l’accusa di essersi fatti 129
CHE COSA CERCA LA GERMANIA IN JUGOSLAVIA

scavalcare dalla sinistra: «L’altrimenti così attivo ministro federale degli Esteri
nella questione jugoslava non si è avventurato oltre i luoghi comuni. In que-
sto vuoto si spinge ora la SPD. I socialdemocratici hanno capito evidente-
mente anche prima di alcuni politici dell’Unione (CDU e CSU, L.C.) che la
Germania, per ragioni geografiche, storiche ed economiche, non può restare
a lungo spettatrice passiva del dramma nel Sud-Est europeo» (110).

… e quella della Mitteleuropa


Se la sinistra ricorre ai princìpi universalistici, la destra dimostra come es-
si siano manipolabili a fini concreti, selettivi, geopolitici. La rappresentazione
geopolitica di riferimento è quella di Mitteleuropa. Su di essa fiorisce una ric-
ca letteratura già negli anni Ottanta. A riportarla d’attualità è poi la sapiente
interazione tra principio di autodeterminazione dei popoli e ideologia regio-
nalista. In sostanza: ai popoli dell’ex impero asburgico viene proposto di ri-
scoprire le rispettive radici culturali e di ricreare, al di là dei confini statuali, ,
l’«unità nella diversità» della dorata età ante 1914. Questa Europa centrale im-
perniata sulle regioni e su Stati di piccola o media grandezza, «etnicamente»
omogenei, non potrebbe poi che fare riferimento, per ragioni culturali, eco-
nomiche e di sicurezza, alla Germania, nuovo pivot continentale.
Nell’ambito del mondo germanico, il mito della Mitteleuropa e del
regionalismo – che gli avversari bollano come Kleinstaaterei, «mania dei mini-
Stati» – torna in voga fin dalla degli anni Ottanta. Soprattutto in Austria, negli
ambienti della OVP, il Partito popolare: oltre al ministro degli Esteri Alois
Mock è lo stesso leader attuale (e vicecancelliere) Erhard Busek, ad essere un
fervente assertore della Mitteleuropa. Lobby proslovene sono attive in Carin-
zia e in Stiria, mentre nel Burgenland si mobilita la minoranza croata (111).
I Lander austriaci utilizzano le organizzazioni interregionali centro-euro-
pee come Alpe Adria per sostenere l’indipendentismo croato e sloveno. Qui,
insieme alle regioni del Nord-Est italiano, incontrano la solidarietà fattiva del-
la Baviera – e, al di fuori di Alpe Adria, del Baden Wurttemberg. I Lander te-
deschi meridionali, geopoliticamente ridimensionati dalla riunificazione te-
desca, scrutano nel secessionismo sloveno e croato la possibilità di una poli-
tica estera regionale parallela. Il Baden-Wurttemberg e soprattutto la Baviera
si presentano come portavoce e garanti dei nuovi piccoli Stati centroeuropei,
i quali a loro volta identificano in queste regioni – prima ancora che nell’in-
certo colosso tedesco-federale – i rompighiaccio che dovrebbero pilotarli
verso l’integrazione in Europa. Nel caso specifico della CSU, poi, non è un
segreto che aspiri al ministero degli Esteri, verso il cui titolare non perde oc-
casione per lanciare frecciate polemiche. Quale migliore occasione della crisi
jugoslava per mettere in difficoltà il filogorbacioviano Genscher?
Dirigenti di primo piano della OVP e della CSU fungono da apostoli
dell’indipendentismo sloveno e croato a Bonn e financo a Washington (112).
La CSU simpatizza per la Hdz di Franjo Tudman e la sua Fondazione dispone
130 di una sede in Slovenia. A sua volta l’Hdz organizza attraverso la sua sezione
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

tedesca buona parte dei Gastarbeiter croati (insieme agli sloveni, superano il
mezzo milione, cui nel corso della guerra se ne aggiungeranno almeno altri
250 mila: una lobby consistente e abbastanza ascoltata dai media e dai politici
tedeschi). Il presidente sloveno Kucan viene accolto, trionfalmente in marzo a
Stoccarda, capitale del Baden-Wurttemberg, prima di proseguire per Bonn,
dove ottiene promesse di appoggio politico e soprattutto finanziario (113).
Questo asse geopolitico troverà plastica espressione il 25 giugno alle ce-
lebrazioni per la proclamazione delle indipendenze croata e slovena, dove,
oltre ad alcuni esponenti della Junge Union (giovani di CDU e CSU), gli unici
ospiti ufficiali stranieri saranno austriaci: in particolare, a Lubiana, i capi delle
regioni Carinzia (Christoph Zernatto), Stiria (Joseph Krainer), Alta Austria
(Joseph Ratzenbock), il sindaco di Vienna, Helmut Zilk. Solo all’ultimo mo-
mento Busek smentirà la sua annunciata partecipazione (114).
L’eroe eponimo della Mitteleuropa è colui che, se la ruota della storia
non avesse girato altrimenti, si troverebbe oggi a regnare su quel mosaico di
popoli e di paesi: l’erede al trono austro-ungarico, Otto von Habsburg (nato
nel 1912). Non potendo ricoprire funzioni pubbliche in Austria, l’ex principe
ereditario è deputato europeo della CSU – dopo aver rifiutato offerte le più
varie, dalla Lega Nord ai monarchici georgiani, fino alla candidatura alla pre-
sidenza dell’Ungheria – ma non abdica a una rappresentazione asburgica
dell’Europa centrorientale. Il principe spiega a Reissmuller, in una conversa-
zione apparsa sulla FAZ del 23 marzo 1991, che la Slovenia, contro i prono-
stici di esperti poco simpatetici, è in grado di sopravvivere economicamente
come Stato indipendente, a patto che entri nella Cee – in tal caso potendo,
ad esempio, sviluppare il porto di Capodistria in armonia con gli altri scali re-
gionali italiani. Egli sogna una confederazione tra i popoli jugoslavi, emanci-
pati dalla morsa granserba e integrati in Europa (115).
Sei mesi dopo, in una intervista alla Presse di Vienna, Otto von Habsburg
sarà più esplicito, fino ad assimilare senz’altro gli sloveni e i croati agli austria-
ci: «Che ci sia una comunanza tra gli austriaci e i croati e gli austriaci e gli slo-
veni è assolutamente evidente. Se da qui lei si dirige verso la Slovenia, non
noterà nessuna differenza. L’unica differenza è che a nord del confine gli au-
striaci parlano tedesco, e a sud parlano sloveno. Ma austriaci sono, da entram-
bi i lati del confine». E assicura che in futuro fra Austria, Slovenia e Croazia ci
sarà «molto più» di una semplice comunanza. L’Asburgo postula un ritorno al-
la monarchia come garanzia per le minoranze etniche. Implicitamente, egli
propone la rinascita, in vesti aggiornate, del suo impero, così associando al
mondo germanico alcuni popoli slavi, polacchi inclusi («croati, sloveni, polac-
chi – non dobbiamo dimenticarlo – sono nostri compatrioti») (116).
È comprensibile che regionalismo e Kleinstaaterei allarmino l’élite politi-
ca e l’opinione pubblica degli altri paesi europei – inglesi e francesi anzitut-
to, ma anche italiani, olandesi, spagnoli. Senza attingere la germanofobia pa-
rossistica dei media serbi o dei panslavisti russi, in Europa occidentale ser-
peggiano i sospetti per l’improvviso attivismo di quello che nelle carte men-
tali delle élite europee resta il «mondo germanico». È soprattutto la grande
stampa francese a dar sfogo al suo istinto germanofobo (117). Ma financo il 131
CHE COSA CERCA LA GERMANIA IN JUGOSLAVIA

paludato Times si avventura, il 30 gennaio, a denunciare manovre di Vienna,


sotto ombrello tedesco, per fare della Slovenia «il declino Land austriaco»
(118). E l’8 febbraio ospita una colorita corrispondenza da Zagabria, in cui si
racconta come il business austriaco stia «occupando» la Croazia ormai lancia-
ta verso l’indipendenza: «Questa settimana, alcuni dirigenti di un’agenzia di
pubbliche relazioni austriaca sono scesi nel maggiore albergo di Zagabria ve-
stiti nelle antiche uniformi della cavalleria imperiale austriaca. Avevano ben
valutato la sensibilità dei loro partner di affari. Niente attrae di più i croati
della storia di cui sono stati così a lungo privati» (119).

Il mondo sta a guardare


Nel primo semestre 1991 evaporano le ultime possibilità di tenere insie-
me la Jugoslavia. Sul terreno, lo scontro politico e propagandistico evolve
verso il conflitto armato. Né l’opinione pubblica mondiale, né i governi delle
maggiori potenze percepiscono appieno la portata del dramma jugoslavo. È
vero che la guerra del Golfo, la disgregazione dell’impero sovietico e poi la
stessa Urss temi tali da distrarre l’attenzione. Ma nella ritardata e lacunosa
comprensione della crisi balcanica scatta un riflesso conservatore-burocrati-
co: il mondo cambia già abbastanza rapidamente altrove per non difendere
lo status quo in Jugoslavia (120).
Sicché, mentre gli Stati Uniti, iscritta a verbale la propria preferenza per
una Jugoslavia «unita e democratica» (121), se ne infischiano e affidano la ge-
stione della crisi agli europei, costoro si trovano a dover disinnescare una
bomba a orologeria a mani nude: l’unica carta che l’Europa potrebbe giocare
è quella degli aiuti economici in cambio dell’accordo pacifico fra le parti in
conflitto. Una carta che spesa uno o due anni prima avrebbe potuto risultare
efficace, ma che nella primavera-estate del 1991 appare del tutto incongrua
alla violenza dello scontro (122).
Di strumenti militari europei neanche l’ombra, per non parlare dell’asso-
luta indisponibilità delle maggiori potenze a rischiare un intervento di forza
per dissuadere o dividere i contendenti. Fino alla proclamazione dell’indi-
pendenza croata e slovena la Cee si limita all’offerta dei suoi buoni uffici e a
qualche mediatica missione della trojka, salvo profferire minacce più o meno
esplicite ai secessionisti: se proclamate unilateralmente l’indipendenza, non
entrerete in Europa per i prossimi cinquant’anni – avrebbe detto Gianni De
Michelis a Lubiana, esprimendo il pensiero prevalente fra i Dodici (123).
Appoggiando gli sforzi del premier Ante Markovic per la Jugoslavia «uni-
ta e democratica», l’America e l’Europa occidentale obbediscono poi ad anti-
che riflessi proserbi, cioè antigermanici (specialmente a Parigi e a Londra,
dove si teme un rinnovato espansionismo tedesco verso il Sud-Est), e al ti-
more che la passione per la Kleinstaaterei finisca per infettare l’Europa (ciò
vale anzitutto per gli italiani, alle prese con i tedeschi del Sudtirolo, per gli in-
glesi, in guerra con il secessionismo nordirlandese, e per gli spagnoli, che
132 devono tuttora domare l’irredentismo basco e temono una fiammata di estre-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

mismo autonomista catalano). La Cee si troverà così a difendere uno status


quo che non c’è più. Giacché croate e sloveni riterranno che solo il fatto
compiuto dell’indipendenza costringerà gli europei a riconoscerli e quindi
ad accettarli nella Comunità, e per questo metteranno in conto anche un tri-
buto di sangue; mentre i serbi si sentiranno le spalle comunque coperte dalle
grandi potenze, almeno fin quando terranno in piedi una Jugoslavia-fantoc-
cio, e dunque anch’essi opteranno per lo strumento militare.

La Germania allunga il passo


Non c’è troppo entusiasmo a Zagabria e Lubiana, la sera del 25 giugno
1991, quando si festeggia la dichiarazione di indipendenza. Sloveni e croati
restano quasi isolati internazionalmente. Ad incoraggiarli, un fronte alquanto
eterogeneo: da Alpe Adria alla Dc italiana, da Le Pen ai terroristi baschi e agli
autonomisti catalani – il cui presidente Jordi Pujol già nel dicembre del 1990
aveva invitato Kucan a Barcellona per spingerlo alla secessione (124). Fra gli
Stati, solo Germania, Austria e Santa Sede accennano, con prudenza, alla ne-
cessità di accogliere le repubbliche ex jugoslave nella comunità internazio-
nale. Il resto del mondo impone ai secessionisti un cordone sanitario. Il se-
gretario di Stato americano James A. Baker III ha appena visitato la Jugosla-
via per incoraggiare Markovic e dichiarare che gli Usa non riconosceranno i
secessionisti (125). A nome della Cee, il lussemburghese Jacques de Poos ha
ammonito che i Dodici non intendono avere «contatti di alto livello» con slo-
veni e croati, i cui atti unilaterali sono severamente condannati (126). Francia
e Gran Bretagna sono i più decisi difensori della Jugoslavia, ma anche Italia e
Germania si schierano: il 26 giugno De Michelis e Genscher telefonano insie-
me al ministro degli Esteri federale Budimir Loncar per assicurargli che i loro
paesi riconoscono sola la Jugoslavia come soggetto internazionale (127).
Analogo l’atteggiamento degli altri paesi, dalla neutrale Svizzera alla Sve-
zia fino agli ex satelliti di Mosca (128).
È con la drole de guerre slovena che il dramma jugoslavo conquista le
prime pagine di tutto il mondo. Tanto essa è militarmente insignificante,
quanto risulta politicamente decisiva. All’interno del campo slavo, perché il
ritiro dell’esercito federale sigilla la morte della Jugoslavia: se le forze armate
di Belgrado non costrin gono la Slovenia a rientrare nei ranghi, come posso-
no credibilmente farlo in Croazia? D’ora in poi la contesa si rivela per quello
che è, uno scontro fra nazionalisti serbi e croati. L’impressione suscitata
nell’opinione pubblica mondiale dai carri armati serbocomunisti impegnati a
schiacciare la libertà di un piccolo popolo europeo, èenorme. Grazie anche
alla propaganda slovena, che enfatizza l’intensità dei combat timenti, i media
di mezzo mondo risvegliano vecchie analogie (Berlino, Budapest, Praga...).
Da questo nuovo scenario scaturisce la sortita del cancelliere Kohl, il 1°
luglio. Per la prima volta il leader tedesco rompe il silenzio e si schiera per la
causa indipendentista: «Non si può tenere insieme un paese con i carri armati
e con la violenza» (129). Ma Kohl precisa che la Germania deve tenerpresen- 133
CHE COSA CERCA LA GERMANIA IN JUGOSLAVIA

te la collocazione dei partner europei – «i quali hanno i loro problemi, anche


in riferimento a spinte secessioniste al loro interno» – allo stesso titolo del di-
ritto all’autodeterminazione. L’impossibile equilibrio fra queste due istanze
spiega gli ondeggiamenti del governo tedesco.
Kohl è sotto pressione. Lo stesso giorno la commissione Esteri del Bun-
destag si pronuncia per il riconoscimento di Slovenia e Croazia se l’esercito
federale non rientra subito nelle caserme. Il governo e personalmente Gen-
scher sono accusati di filojugoslavismo. Per i socialdemocratici Karsten Voigt
e Norben Gansel il diritto all’autodeterminazione deve prevalere sulla «politi-
ca dello status quo» di Genscher e della Cee. Il segretario generale della CDU
Volker Ruhe non può evitare di criticare la politica jugoslava della Germania
e della Cee, visto che dai partiti dell’Unione e soprattutto dal loro elettorato
sale la protesta contro lo «spirito di Jalta» (130).
Già il 27 giugno il gruppo parlamentare CDU-CSU si era dovuto smarca-
re dallo jugoslavismo governativo ed europeo per invocare il diritto all’indi-
pendenza slovena e croata (131). Per la Germania la scelta è fra gli alleati oc-
cidentali e la propria opinione pubblica(ta). Ma non si discute di interesse
nazionale, quanto di principi e di destini storici. Seguire lo spirito «volkisch»
del tempo o difendere l’asse con Parigi – dove Le Monde traccia paralleli fra
la Germania attuale e quella nazista, mentre il ministro degli Esteri Roland
Dumas evoca il fantasma di una Slovenia austriaca e al Quai d’Orsay si sus-
surra di un nuovo «blocco teutonico» (132)? Piegarsi al «realismo» dell’ex po-
tenza protettrice americana, o aiutare due piccoli popoli a liberarsi dalle ca-
tene comuniste? Opzioni dolorose, che fino all’ultimo Kohl Genscher vorran-
no evitare, zigzagando intorno al bivio. Ma intorno a loro la morsa si stringe:
i media reclamano i riconoscimenti, così pure l’opposizione e financo i parti-
ti del governo. Nei quali lo stress della scelta crea un curioso effetto: per
paura di essere scavalcati dal loro elettorato e dall’opposizione deputati e
persino leader della CDU e della CSU attaccano il governo che essi stessi so-
stengono. La confusione è al massimo.
Il mese di Luglio , anche dopo la fine della «guerra» slovena, è un cre-
scendo di invocazioni proindipendentiste. Il leader socialdemocratico Bjorn
Engholm considera la Jugoslavia defunta, mentre la FAZ confronta il corag-
gio socialdemocratico con l’ignavia governativa (133). I responsabili della
politica europea dei 16 Lander chiedono alla Cee di riconoscere i secessioni-
sti (134). Il ministro-presidente bavarese Max Streibl va da Bush per convin-
cerlo a recedere dall’appoggio a Belgrado (135), mentre il numero 2 della
CSU, Edmund Stoiber, accusa Genscher di «fallimento», provocando la rea-
zione del leader liberale Lambsdorff («pura insensatezza») (136).
Il governo tedesco vacilla, ma esclude un Alleingang («marcia solitaria»)
– un riconoscimento unilaterale di Slovenia e Croazia prima dei partner Cee.
Kohl e Genscher lo dicono a Tudman, che il 18 luglio si presenta a Bonn per
consultazioni (137). In seno ai Dodici, Genscher strappa un compromesso.
La Cee non riconosce i secessionisti, ma lascia intendere che lo farà se l’eser-
cito federale romperà il cessate-il-fuoco (138). Sloveni e croati sono indotti a
134 sospendere per tre mesi l’efficacia delle loro dichiarazioni di indipendenza, il
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

che può essere inteso, estensivamente, come un riconoscimento implicito in-


condizionato – è l’interpretazione genscheriana (139). Fra Genscher e il pre-
sidente del Consiglio dei ministri degli Esteri Cee, l’olandese Hans van den
Broek, si ingaggia un braccio di ferro, che vede provvisoriamente vittorioso
il secondo, con l’appoggio italiano e francese, nell’impedire che anche i rap-
presentanti delle sei repubbliche jugoslave siano ammessi alle consultazioni
e ai negoziati di pace sviluppati dai Dodici (140). La linea comunitaria si
orienta comunque verso il riconoscimento delle repubbliche ex jugoslave,
ma solo nel quadro di un accordo globale, che salvi un simulacro di confe-
derazione jugoslava.
Lo stallo è sanzionato il 23 luglio dal vertice Kohl-Mitterand di Bad Wies-
see, in Baviera. Il cancelliere conferma di non considerare attuale il ricono-
scimento di Slovenia e Croazia da parte della Cee, entro i cui ranghi la Ger-
mania continua a muoversi. Il presidente concede che «non si può salvare
una federazione con la forza», come aveva detto anche Kohl, ma non per
questo occorre accelerare il disfacimento jugoslavo. Le apparenze sono sal-
ve. Il nervosismo resta. Tanto che Mitterrand si altera fino a diventare pao-
nazzo quando due giornalisti tedeschi, durante la conferenza stampa, attac-
cano il giacobinismo. francese e il presunto tentativo dell’Eliseo nel 1989 di
accordarsi con l’Est per impedire la riunificazione della Germania. Per Mitter-
rand i suoi contraddittori sono «bornés» (141).

Un test molto speciale


È ai primi di agosto che in seno al partito trasversale dei riconoscimenti il
centro-destra decide che le condizioni sono mature per passare dalla fase
moralistico-declaratoria a un delicatissimo test (geo)politico. Lo spunto è of-
ferto da una idea francese, a cavallo fra machiavellismo e propaganda: invia-
re in Jugoslavia truppe Ueo per garantire la pace. La missione di peace kee-
ping è legata a due precondizioni palesemente irrealistiche: la tenuta di un
cessate-il-fuoco generalizzato fra serbi e croati, e la disponibilità di tutte le
parti in causa ad accettare la presenza dei caschi blu. – Milosevic dice subito
di no. In sostanza, si tradurrebbe in un sostegno ai croati, che pure Parigi
non predilige. Ma, come per tutte le altre mosse giocate da paesi esterni, es-
se non nascono tanto da un’analisi della crisi jugoslava e da come porvi ri-
medio, quanto piuttosto dalla volontà di compiacere l’opinione pubblica e –
in questo caso soprattutto – di fare lo sgambetto ai cosiddetti partner. Qui si
tratta di affermare, contro inglesi e americani, le ragioni di una forza armata
europea a dominanza franco-tedesca. La reazione degli atlanti ci inglesi non
può che essere negativa (142).
Il centro-destra tedesco rilancia invece sull’apparente apertura francese,
per ragioni interne, ma anche geopolitiche e geostrategiche. Dietro l’attacca-
mento al principio di autodeterminazione scopre ragioni più concrete per
sostenere l’indipendenza croata e slovena. L’argomento è lineare: riconosce-
re i due nuovi Stati non serve a niente se la comunità internazionale non li 135
CHE COSA CERCA LA GERMANIA IN JUGOSLAVIA

garantisce contro aggressioni esterne. Dunque bisogna mandare soldati in


Croazia per impedire che sia sopraffatta dalla Serbia. I più spericolati si spin-
gono fino a sostenere la partecipazione di soldati tedeschi all’auspicata mis-
sione di peace keeping – come farà il deputato CDU Rupert Scholz il 20 set-
tembre (143). È il rovesciamento della prassi consolidata, per cui il riconosci-
mento sancisce il nuovo equilibrio successivo al conflitto per l’indipendenza
– si pensi all’Algeriao al Bangladesh. Qui il riconoscimento è il mezzo con
cui si anticipa l’esito dello scontro e si appoggia una delle parti in causa. Ciò
che la comunità internazionale ha rifiutato, ad esempio, al Katanga o al Bia-
fra, va concesso a Croazia e Slovenia. Alla fine conta più la collocazione
nell’insieme geopolitico europeo che non l’universalismo dei princìpi.
Fatto è che la Germania si trova così a proporre ai partner europei un in-
tervento militare cui comunque non potrebbe partecipare. Non solo per l’in-
terpretazione Grundgesetz che peraltro buona parte della CDU vorrebbe su-
perare (144), quanto soprattutto per il rifiuto serbo di accettare dei «caschi
blu» tedeschi – cioè, seco Belgrado, nazisti o quanto meno alleati del «fasci-
sta» Tudman. La posizione d Francia è specularmente rovesciata: in teoria
potrebbe partecipare a una tale mi ne, ma si troverebbe così ad aiutare i
croati, che è precisamente ciò che non vuole. Germania vorrebbe ma non
può, la Francia potrebbe ma non vuole: dunque, non ne fa nulla. Con soddi-
sfazione soprattutto dei britannici, felici di veder naufragare un’iniziativa che
avrebbe esaltato il ruolo militare della Ueo a scapito della Nato. È solo uno
dei mille esempi di politica «simbolica» e dei reciproci sgambetti fra le poten-
ze europee, cui i Balcani ispirano evidentemente eccitanti memorie di diplo-
mazia degli inganni.
In Germania, a legare riconoscimenti e protezione militare della Croazia
è anzitutto la FAZ (145), seguita subito da leader cristiano-democratici come
Karl Lamers (146), Volker Ruhe e Karl Hornhues (147). La forbice fra il go-
verno e la sua maggioranza si allarga ancora: Kohl deve tener conto dei part-
ner comunitari; le lobby anti-jugoslave, i media e i partiti pensano solo ai ri-
spettivi committenti, lettori ed elettori.
Il 7 settembre si apre all’Aja la Conferenza di pace promossa dalla Cee e
presieduta da Peter Carrington. Lo scopo è quello di creare una nuova Jugo-
slavia sotto specie di «Unione di repubbliche sovrane», spiega l’ex titolare del
Foreign Office (148). Per i tedeschi, è un modo subdolo di rinviare i ricono-
scimenti, che per il Carrington sono ammissibili solo nell’ambito di una solu-
zione complessiva. questo clima il parlamento tedesco sancisce il 4 settem-
bre il totale isolamento liberali, lasciati soli dalla CDU-CSU a difendere Gen-
scher. Il povero Hermann Otto Solms, capo dei deputati della FDP, si doman-
da che cosa di più avrebbe dovuto fare il governo, e si felicita per la rinuncia
a un Alleingang tedesco. Tutti gli altri oratori, dal leader socialdemocratico
Engholm all’«alternativo». Poppe al presidente del gruppo. CDU-CSU, Alfred
Dregger, invocano il riconoscimento immediato di Slovenia e Croazia. En-
gholm ricorda che la Germania ha appena riconosciuto Lituania, Lettonia ed
Estonia: ciò che vale per gli Stati baltici liberatisi dal comunismo deve valere
136 anche per le repubbliche secessioniste jugoslave (149).
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

Oltre che sull’Austria, la Germania può contare in questa fase sul sempre
più pronunciato impegno vaticano, e in qualche misura anche sull’Italia, do-
ve la pressione delle regioni del Nord-Est e di ambienti democristiani costrin-
gono il governo ad aprire a Slovenia e Croazia. Tanto che il 14-15 settembre
a Venezia Genscher e De Michelis affermano per la prima volta in pubblico
che riconosceranno le due repubbliche se i negoziati falliranno.
Carrington e i partner comunitari ne sono irritati, perché così si invitano
sloveni e croati a boicottare la conferenza (150). Dumas avverte Genscher:
«Agendo in questo modo, riportereste le relazioni franco-tedesche indietro di
venti anni» (151). Van den Broek dice che la minaccia tedesca di riconoscere
le repubbliche secessioniste «ha provocato solo nuova violenza», che la Ger-
mania deve smetterla di distinguere fra «buoni» croati e «cattivi» serbi, e che
un comportamento riservato sarebbe più consono al ruolo svolto dai tede-
schi durante la seconda guerra mondiale (152). Fino a che punto può Bonn
permettersi di sfidare il resto dell’Occidente? Kohl e Genscher devono chie-
derselo con qualche preoccupazione.

Mea culpa a Bonn


Nella seconda metà di settembre qualcosa si inceppa nel meccanismo
che sembra dover sfociare nel rapido riconoscimento dei nuovi Stati ex jugo-
slavi. Da Vienna il primo segnale: il 17 settembre il parlamento austriaco re-
spinge la proposta di riconoscere subito Slovenia e Croazia. A invocare il ri-
conoscimento unilaterale da pane dell’Austria è una coalizione trasversale,
che comprende l’opposizione di sinistra, verde-alternativa, e di destra radica-
le (FPO), più alcuni deputati dei due partiti di governo, il socialdemocratico
(SPO) e il popolare (OVP). Lo stesso ministro degli Esteri Mock si schiera
contro il suo cancelliere, il socialdemocratico Franz Vranitzky, in favore
dell’immediato riconoscimento. Come in Germania, così in Austria i due poli
si congiungono in nome della «morale» contro la «Realpolitik» del cancelliere.
Il quale, bollato come «cunctator» dai liberali di Jorg Haider (evidentemente
ignari del fatto che il cunctator Quinto Fabio Massimo seppe resistere ad An-
nibale), replica: «Per una simile avventura di politica estera non contate su di
me». Vranitzky coagula una modesta maggioranza intorno alla formula «rico-
noscimento sì, ma solo con altri Stati europei», che equivale a un «no, grazie»
(153).
Il giorno dopo Mitterrand e Kohl si incontrano a Bonn. I rapporti fra i
due paesi-cardine della Comunità non sono mai stati così difficili. Mitterrand
evoca l’opinione corrente non solo in Francia, che la Germania sia schierata
con la Croazia e anteponga sue mire egemoniche nei Balcani all’intesa con
gli alleati. Pur non condividendo queste impressioni, il presidente francese
avverte Kohl che esse rischiano di avere pericolosissime conseguenze sui
rapporti franco-tedeschi, proprio mentre la Cee si avvia a firmare il Trattato
per l’Unione europea. Il cancelliere nega che Bonn aspiri a una zona d’in-
fluenza in Europa sudorientale, assicura che la Germania non riconoscerà da 137
CHE COSA CERCA LA GERMANIA IN JUGOSLAVIA

sola Croazia e Slovenia. Il comunicato finale è un incontro a mezza via, se-


gnato da una curiosa manipolazione del principio di autodeterminazione: la
Francia rinuncia a difendere il cadavere della Jugoslavia e avalla il diritto di
autodeterminazione «dei popoli»,ossia di tutti i popoli, comprese le minoran-
ze, anzitutto quella serba in Croazia; mentre la Germania, assicurando che si
muoverà sempre di concerto con la Comunità, si richiama però all’autodeter-
minazione «dellele repubbliche», e accetta così che le repubbliche jugoslave
trasformino i loro confini amministrativi in confini di Stato, come Slovenia e
Croazia hanno già fatto. Mitterrand e Kohl possono essere soddisfatti. Il pri-
mo ha ottenuto di evitare l’Alleingang tedesco, il secondo può affermare di
aver condotto la Francia verso l’accettazione del principio di autodetermina-
zione e di aver impedito l’isolamento della Germania. La strada è aperta ver-
so il riconoscimento dei nuovi Stati ex jugoslavi, ma solo -dopo la fine del
negoziato e con l’intesa dei Dodici (154).
Lo stesso giorno a Bonn la correzione di linea è approvata dai ministri in
una riunione di gabinetto. Per la prima volta dall’inizio della crisi il governo
prende l’iniziativa, contro l’umore prevalente nell’opinione pubblica e nei
partiti. Genscher accusa la propaganda serba di aver diffuso l’impressione,
falsa, che la Germania intenda riconoscere Slovenia e Croazia da sola. E
Kohl: «un Alleingang tedesco avrebbe conseguenze disastrose per l’unifica-
zione europea».Sotto l’effetto dell’opinione pubblica e dei 500 mila croati
abitanti in Germania, si usa dei riconoscimenti come di una «parola magica»
senza considerarne gli effetti, osserva Kohl. Bisogna muoversi con i partner,
nè basta che paesi come l’Austria o l’Ungheria si associno alla Germania in
favore dei riconoscimenti – Bonn ha bisogno di alleati che non risveglino so-
spetti legati al recente passato (155).
La sensazione di rischiare l’isolamento totale in Europa deve essere forte.
Gli stessi uomini che nella CDU si erano avventurati molto avanti sul sentiero
dell’Alleingang, improvvisamente vestono gli abiti della moderazione. In qual-
che caso dicendo l’esatto contrario di quanto proclamato prima del vertice
Kohl-Mitterrand – e di quanto riprenderanno a sostenere di lì a pochi giorni.
Tocca a Karl Lamers, responsabile Esteri nel gruppo parlamentare, illu-
strare in una conversazione con la FAZ la virata di 180 gradi del partito di
maggioranza relativa. Ora la CDU è di nuovo perfettamente allineata con
Kohl e Genscher. Lamers spiega in cinque punti la nuova posizione unitaria
di governo e maggioranza parlamentare:
1) L’esperienza della crisi jugoslava conferma che la Germania deve dare
priorità all’Europa come «decisivo ambito di iniziativa della politica estera te-
desca». La Germania non vuole fare da soia, e ha scoperto che nemmeno lo
potrebbe, viste le reazioni dei partner comunitari. «L’obiettivo prioritario è di
rendere la Cee capace di agire e di condurre in porto l’Unione politica, che
non deve in alcun modo essere messa in pericolo dalla disputa sulla Jugosla-
via». 2) Gli altri paesi della Comunità avevano valutato meglio della Germa-
nia le conseguenze di un riconoscimento. In Germania si dava l’impressione
che il riconoscimento dei secessionisti sarebbe bastato a risolvere la crisi:
138 «Nessuno voleva dire che il riconoscimento è la premessa per la protezione
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

militare della Croazia» – in realtà lo aveva ammesso lo stesso Lamers (156).


Non si volevano valutare le conseguenze di un simile ragionamento, che
hanno suscitato sospetti e incomprensioni reciproci fra la Germania e i suoi
partner, assai meno coinvolti nella vicenda jugoslava e preoccupati dalle loro
minoranze interne. Van den Broek, con la sua ambiguità e la sua animosità
verso Genscher ha aggiunto del suo a questi dissapori. 3) È dunque opportu-
na «un’autocritica tanto del parlamento che del gruppo parlamentare
dell’Unione». Lamers si riferisce al fatto che il suo gruppo, insieme con quello
socialdemocratico, aveva cercato di spingere il governo ad andare in avan-
scoperta nella questione dei riconoscimenti. L’esperienza dimostra invece
che senza una collaborazione franco-tedesca non si ottiene nulla. 4) La Ger-
mania unita deve essere molto attenta a come si profila nell’ambito della
Cee. «Non deve cercare di attribuire solo agli altri» la colpa dei malintesi. «La
Germania deve evitare assolutamente qualsiasi cosa che possa suscitare de-
lusione sul ruolo della Cee». Esempio, il mancato invio di truppe Ueo, e il fat-
to di aver legato riconoscimenti e intervento militare, senza poter partecipare
a una tale missione: è «piuttosto ridicolo» – osserva Lamers – che la Germania
abbia proposto con la Francia l’invio di truppe di pace, ma abbia dovuto su-
bito aggiungere: «La Germania non vi può partecipare». 5) Prima la CDU da-
va la priorità ai riconoscimenti, adesso ne valuta anzitutto le conseguenze. Se
prima la minaccia dei riconoscimenti avrebbe potuto forse fermare i serbi,
ora non più, perché Milosevic si è convinto che la Cee non fa sul serio e «ha
la vittoria in tasca». (157)
Fin qui la clamorosa autocritica di Lamers, certo non condivisa da tutto il
suo gruppo – due giorni dopo, Theo Waigel conferma la scelta della CSU per
i riconoscimenti subito (158). Il mea culpa cristiano-democratico è un sinto-
mo del disagio del sincero europeista Kohl, che avrebbe volentieri evitato di
invischiarsi nel gorgo balcanico. Ormai è tardi. La Germania si è spinta trop-
po avanti nella sua sfida. Ma il cancelliere vuole almeno salvare Maastricht.

Finale di partita
Nell’autunno del 1991, la Conferenza di pace, promossa da una Comu-
nità europea che dietro le quinte conduce una sua sorda guerra intestina,
sembra pestare acqua nel mortaio, a copertura delle conquiste serbe in Croa-
zia. La televisione e i giornali tedeschi portano in tutte le case le atrocità di
una guerra la cui responsabilità è interamente attribuita ai serbi e all’esercito
federale. Il messaggio è: non possiamo lavarcene le mani, dobbiamo fare
qualcosa; se non possiamo o non vogliamo mandare i soldati, dobbiamo al-
meno riconoscere le vittime dell’aggressione. Da precondizione dell’inter-
vento, il riconoscimento scade così a surrogato.
Nei partiti tornano a farsi sentire i partigiani dei riconoscimenti immediati.
Persino nella FDP, dove lo stesso presidente Lambsdorff, pur consapevo-
le che ora essi «non potrebbero produrre molto», guida i critici di Genscher
(159). Anche il social democratico Florian Gerster, ministro per gli Affari eu- 139
CHE COSA CERCA LA GERMANIA IN JUGOSLAVIA

ropei della Renania-Palatinato, è per l’Alleingang, in modo da provocare l’in-


tervento armato delle Nazioni Unite (160).
Voigt conferma che la SPD vuole i riconoscimenti adesso (161). Nella
CDU vige il gioco delle parti: Kohl, capo del partito ma soprattutto cancellie-
re, inchioda il governo alla solidarietà europeista; altri dirigenti esprimono
l’umore antiserbo dell’elettorato di centro-destra (162).
Kohl e Genscher ricorrono ad ogni immaginabile acrobazia pur di man-
tenere le scarpe in entrambe le staffe, quella europea e quella interna. L’8 ot-
tobre alla cancelleria si riunisce la Koalitionsrunde, l’abituale vertice della
maggioranza. Pur di trovare argomenti spendibili presso il grande pubblico,
si studia persino un embargo unilaterale nelle forniture tedesche di petrolio
e gas a Belgrado. Gli stessi leader di Bonn ammettono in privato che si tratta
di un «puro gesto», giacché la Germania non fornisce né petrolio né gas alla
Jugoslavia (163).
Per compiacere l’opinione pubblica senza mancare alla parola data da
Kohl a Mitterrand, la maggioranza esplora una «terza via»: la Germania non
farà da sola, ma visto che i Dodici non la seguiranno mai, cercherà di forma-
re una maggioranza per i riconoscimenti in seno alla Cee. Una mossa che
potrebbe fra l’altro stabilire il precedente della decisione a maggioranza, e
non all’unanimità, all’interno del Consiglio dei ministri degli Esteri europei,
una svolta da cui Bonn spera di aver tutto da guadagnare. Genscher spiega
infatti che la Germania non vuole trovarsi sola con l’Italia e forse con la Dani-
marca nel riconoscere Croazia e Slovenia. La Francia e soprattutto la Gran
Bretagna sono contro – per tacere del nemico olandese. Ma la Francia può
forse essere agganciata al carro dei riconoscimenti – il giorno dopo infatti
Dumas esalterà per paralleli motivi interni «il diritto alla sovranità dei popoli
jugoslavi», chiedendo alla Cee di sostenerli nella loro lotta «per la libertà e la
sovranità» (164). Con la Francia, la Germania potrebbe procedere ai ricono-
scimenti anche se mancasse l’unanimità dei Dodici (165). Una mossa astuta,
che in un sol colpo salverebbe l’asse franco-tedesco, affermando però la lea-
dership di Bonn, e calmerebbe i bollori dell’opinione pubblica interna. Ma la
Francia non si lascia affascinare dall’idea tedesca. Se l’accettasse, sancirebbe
la sua minorità geopolitica rispetto alla Germania.
La Conferenza di pace è in stallo. Fra le pressioni dei propri elettori e
quelle dei partner comunitari non c’è più il minimo spazio per compromessi.
Bisogna scegliere. E Kohl sceglie la Germania. Gli ultimi due mesi prima del
riconoscimento tedesco di Slovenia e Croazia si esauriscono nell’estremo
tentativo di coinvolgere una pane dei Dodici o almeno di salvare le forme.
Già il 3 novembre Genscher assicura al ministro degli Esteri di Lubiana,
Dimitri Rupel, che la Slovenia sarà riconosciuta entro l’anno (166). Lo stesso
giorno l’allora ministro dell’interno Schauble rilancia. Di fronte al congresso
della Junge Union, l’organizzazione giovanile dei partiti cristiani che ha appe-
na votato all’unanimità per riconoscere subito Slovenia e Croazia, Schauble
dapprima si trincera dietro la linea ufficiale – riconoscere sì, ma insieme
all’Europa. Per poi aggiungere che «con il semplice riconoscimento non si ot-
140 tiene nulla». L’unico mezzo per salvare la Croazia è l’intervento militare, sia es-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

so Nato o Ueo. Di più: la Bundeswehr dovrebbe partecipare alla missione,


dunque la costituzione va cambiata (167). E il più esplicito e autorevole ac-
cenno all’urgenza del rilancio strategico della Germania fino allora abbozzato.
Schauble ha il merito di esprimere senza infingimenti il pensiero di buona pa-
ne dell’élite politica tedesca: senza una Bundeswehr «normale», abilitata a in-
tervenire lì dove il governo tedesco riterrà necessario, la Germania resta pur
sempre una potenza zoppa. La Chiesa cattolica tedesca partecipa all’offensiva
finale. Il vescovo del Limburgo, Kamphaus, visita la Croazia su incarico del
presidente della Conferenza episcopale tedesca. Al ritorno, critica il filo-jugo-
slavismo europeo e chiede il «rapido» riconoscimento della Croazia. Se i Dodi-
ci non si muovono, Kamphaus è favorevole a un’iniziativa unilaterale tedesca.
Un altro vescovo tedesco, Stimpfle, giungerà fino a promuovere una manife-
stazione di piazza per reclamare «aiuto militare dall’esterno» alla Croazia, ba-
stione dell’«ordine liberaldemocratico» contro i nazionalcomunisti» serbi (168).
Sono di queste settimane i primi rifornimenti d’armi alla Croazia e alla
Bosnia provenienti dall’Austria, dalla Germania e da diversi altri paesi – per-
sino la Banca del Vaticano promuove l’acquisto di armi destinate ai croati, in
violazione dell’embargo Onu (169).
Il 6 novembre Genscher dichiara solennemente al Bundestag che la Ger-
mania pretende dai partner sanzioni contro la Serbia e immediato riconosci-
mento di Slovenia e Croazia. E minaccia: «In caso contrario nascerebbe nella
Comunità una crisi molto pesante». Questo Genscher insolitamente duro pia-
ce alla CSU. La maggioranza sembra di nuovo compatta. Quanto alla SPD, si
arroga il merito di aver proposto per prima di riconoscere le repubbliche ex
jugoslave (170). L’accordo fra tutti i partiti è sancito dal voto del 16 novem-
bre al Bundestag. La mozione impegna il governo a battersi per conquistare
il resto della Comunità al rapido riconoscimento di Slovenia e Croazia (171).
Se Bonn ancora non stabilisce normali rapporti diplomatici con Zagabria e
Lubiana, è solo per non avvelenare l’ultimo mese di negoziati per il Trattato
di Maastricht. Ma gli ambasciatori sono già scelti e insediati nelle nuove sedi,
con il grado provvisorio di consoli generali (172).
È lo stesso Kohl a specificare il 27 novembre, ancora davanti al Bunde-
stag, che sul riconoscimento delle repubbliche ex jugoslave il suo governo
non si considera legato da «un obbligo di unanimità»- nell’ambito dei Dodici,
e che la decisione deve essere assunta comunque «prima di Natale». Il cancel-
liere lo conferma ai primi di dicembre sia a Kucan che a Tudman, in visita a
Bonn (173). La Germania si presenta dunque al vertice dei ministri degli
Esteri della Cee, convocato il 16 dicembre a Bruxelles, avendo già deciso che
riconoscerà comunque Slovenia e Croazia (174).
In caso di votazione, Kohl sa che probabilmente Italia, Danimarca e Bel-
gio lo seguiranno, Gran Bretagna, Spagna, Olanda e Grecia si opporranno,
mentre gli altri, in particolare la Francia, sembrano incerti fra la necessità di
salvare l’apparenza dell’unità europea, non soffocando Maastricht nella culla,
e la resistenza contro le pretese di leadership della nuova Germania in cam-
po europeo (175). Fuori della Comunità, Croazia e Slovenia sono state rico-
nosciute finora dai paesi baltici, in agosto, e dall’Ucraina (12 dicembre); 141
CHE COSA CERCA LA GERMANIA IN JUGOSLAVIA

l’Islanda seguirà il 19 dicembre, mentre solo Austria, Svezia e Santa Sede


sembrano pronte ad accompagnare la sortita tedesca.
Lo stesso segretario generale delle Nazioni Unite Perez de Cuellar in una
drammatica lettera a Genscher, alla vigilia del vertice Cee, si esprime contro i
«riconoscimenti anticipati, selettivi e non concordati», destinati a estendere il
conflitto alla Bosnia e alla Macedonia (176). Consapevoli di questo rischio, le
grandi potenze, Stati Uniti in testa, cercano fino all’ultimo minuto di bloccare
la Germania. Bush si appella a Kohl, e Genscher teme l’isolamento totale,
tanto che per impedire una risoluzione del Consiglio di sicurezza ostile alla
linea tedesca si impegna in una disperata maratona telefonica – raggiungen-
do persino il premier zairese Nguza-Karl-I-Bond (177). La stampa americana
echeggia le preoccupazioni degli europei. I quali, secondo il New York Ti-
mes, sospettano che «l’obiettivo finale della Germania è di ricostruire una sfe-
ra di influenza che potrebbe attraversare il continente da Tallinn in Estonia a
Zagabria in Croazia» (178).
Nella tormentata seduta dei ministri degli Esteri europei, il 16 dicembre a
Bruxelles, Genscher ottiene infine luce verde dai colleghi. La Germania sco-
pre il bluff dei suoi partner: nessuno vuole arrivare allo scontro aperto cin-
que giorni dopo l’accordo raggiunto a Maastricht sull’Unione europea (179).
I diplomatici tedeschi hanno buon gioco nel ricordare ai francesi di averli ap-
poggiati contro gli americani in tema di difesa europea e agli inglesi di aver
concesso loro molto a Maastricht: ora è la Germania a potersi permettere un
opting out clamoroso (180). Il riconoscimento comunitario avverrà il 15 gen-
naio, dopo che la commissione di giuristi presieduta da Robert Badinter avrà
verificato la congruenza delle repubbliche ex jugoslave ai criteri di tutela del-
le minoranze richiesti dalla Cee per il riconoscimento formale (e sulla Croa-
zia la commissione manterrà una «riserva», per le scarse garanzie offerte ai
serbi di Krajina). Ma la Germania non aspetta. Il cancelliere mantiene la pro-
messa: Slovenia e Croazia sono riconosciute prima di Natale.

Il dito nella marmellata


Subito dopo la fuga in avanti del 23 dicembre 1991, la Germania sparisce
per quasi due anni dalla scena balcanica. Come da quasi tutti previsto, infatti,
i riconoscimenti di Slovenia e Croazia non spengono l’incendio jugoslavo.
Essi avrebbero avuto senso in due soli casi: se fossero stati parte di un accor-
do globale fra le repubbliche ex jugoslave, oppure se l’Occidente fosse sceso
militarmente in campo a fianco dei secessionisti, contro i serbi. L’Alleingang
tedesco ha ovviamente cancellato la prima ipotesi – già per sé difficile. L’as-
soluta indisponibilità degli occidentali, e in primo luogo dei tedeschi, a im-
pantanarsi in una guerra balcanica dalle conseguenze imprevedibili, ha
escluso l’altra possibilità teorica.
L’estendersi della guerra alla Bosnia è anzi attribuito, almeno in parte, ai
riconoscimenti «anticipati» di Slovenia e Croazia, persino da chi li ha assecon-
142 dati per evitare la lacerazione della Comunità e dell’intero Occidente. Le la-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

mentazioni post festum di autorevoli responsabili americani, francesi o italia-


ni, tendenti a scaricare su Germania e Vaticano le responsabilità dell’errore,
sono ipocrite, proveniendo da paesi che comunque non hanno bloccato il
forcing tedesco di fine ‘91 (181). A meno di non ritenere falsa la verità recen-
temente ricordata da Lamers, che la Germania da sola è più debole di tutte le
altre potenze messe insieme (182).
Nella stessa élite dirigente e intellettuale tedesca la reazione è quella pro-
verbiale del bambino colto con il dito nella marmellata: è curioso che lo stes-
so ministero degli Esteri abbia prodotto un dettagliato memoriale difensivo a
uso interno per giustificare la politica jugoslava di Bonn (183). Non è forse
una coincidenza che Genscher si sia ritirato dalla vita politica pochi mesi do-
po, e che il suo successore, Klaus Kinkel, si sia fatto subito un punto di ono-
re di spiegare che la guerra jugoslava era senza soluzione e che la Germania
non si sarebbe avventurata in ulteriori «marce solitarie» (184). Il riserbo tede-
sco, come abbiamo mostrato all’inizio, durerà fino all’inverno scorso.

La dinamica delle permanenze


Abbiamo cercato di interpretare la parabola della politica jugoslava di
Kohl in riferimento al mutamento della collocazione geopolitica della Ger-
mania dopo l’unificazione, e quindi della necessità di superare la fase pube-
rale della Bundesrepublik. Fino all’anno scorso il termine «interesse naziona-
le» era tabù, o meglio Bonn sosteneva di non averne alcuno in quanto il suo
punto di vista era quello dell’Occidente, fullstop. Una condizione ideale –
che le permetteva fra l’altro di perseguire una propria Ostpolitik – di cui so-
no ormai decadute le premesse geopolitiche.
Dove porterà questo tragitto? Per ora, possiamo azzardare tre provviso-
rie conclusioni, che ci aiutano a immaginare la futura evoluzione:
1) A differenza delle semplificazioni messe in circolo dai germanofobi, la
politica jugoslava di Bonn non è stata e non è la conseguente applicazione di
un Generalplan Ost riveduto e aggiornato. Al contrario, gli scarti che nella se-
conda metà del 1991 hanno contribuito a isolare la politica balcanica di Bonn
da quella dei suoi alleati derivano proprio dall’assenza di un progetto geopo-
litico. L’Alleingang non era affatto programmato, esso segnala semmai lo iato
che tuttora separa nell’élite politica tedesca la coscienza delle nuove respon-
sabilità che spettano alla Germania unita e l’incapacità di produrre una strate-
gia adeguata. A riprova, basti citare il caso della Croazia, prima sostenuta e
poi trattata con notevole distacco non appena Bonn si è resa conto dell’inca-
pacità di Tudman a integrare il suo paese nell’insieme centro-europeo.
2) Nel vuoto progettuale tedesco si è inserita, nella seconda metà del
1991, una straordinaria manipolazione delle rappresentazioni. Essa merite-
rebbe di essere classificata come caso di scuola. Infatti, alla decisione di rico-
noscere Slovenia e Croazia Bonn è giunta sulla base di una quasi unanime
sollecitazione dell’opinione pubblica(ta), mobilitata intorno a due rappresen-
tazioni e a un retropensiero. 143
CHE COSA CERCA LA GERMANIA IN JUGOSLAVIA

A) La prima rappresentazione, di stampo moralistico, interpretava il crol-


lo del Muro come nuova primavera dei popoli. I tedeschi non potevano ne-
gare agli altri popoli assoggettati dal comunismo il diritto all’autodetermina-
zione. Il guaio è che tale diritto, in senso stretto, non significa nulla, perché
può significare tutto. Che cosa è un popolo? Chi può parlare a suo nome?
Come si concilia questo principio con il rispetto dei confini, tanto glorificati a
Helsinki quanto regolarmente violati dopo il 1990? Non essendoci una rispo-
sta universale a tali domande, il cosiddetto diritto all’autodeterminazione si
presta a ogni manipolazione. Come già ricordava il segretario di Stato di Wil-
son – l’inventore, con Lenin, di questo grimaldello universale contro lo status
quo – Robert Lansing, «è una frase carica di dinamite» (185). Applicano alla
Jugoslavia significava dar fuoco a una polveriera.
B) La seconda rappresentazione, di stampo geopolitico, è quella di Mit-
teleuropa. Essa postula una comunanza storico-culturale fra i paesi di im-
pronta germanica e asburgica, di cui Slovenia e Croazia sono parte. In termi-
ni politici, la Germania doveva muovere in soccorso di popoli ad essa affini.
C) il retropensiero di questa visione è che intorno alla Germania si rag-
grupperà pacificamente, per l’attrazione magnetica del marco e della Kultur,
una costellazione di piccoli e medi Stati, tra cui le due repubbliche ex jugo-
slave (o meglio ex asburgiche, da questo angolo visuale).
La diffusione delle due rappresentazioni ha inizialmente diviso il campo
politico tedesco.
A sinistra chi, per convinzione morale, per mettere in difficoltà il gover-
no o per corrività verso gli umori del pubblico, si faceva paladino della «giu-
sta» lotta indipendentista slovena e croata.
A destra, la CSU e una parte della CDU (Schauble, Ruhe, Hornhues ecce-
tera), che tentavano di sfruttare il clima da «Secondo Quarantotto» per spinge-
re la Germania oltre lo steccato della Repubblica di Bonn. Un test o un’avven-
tura – a seconda dei punti di vista – che avrebbe anzitutto permesso di rivalu-
tare lo strumento militare come mezzo della politica estera tedesca (impiego
della Bundeswehr in aree calde e di primario interesse nazionale), e, in pro-
spettiva, di rilegittimare la Germania a fianco delle potenze che l’avevano
sconfitta. Per i tedeschi la Croazia doveva diventare ciò che il Kuwait era ap-
pena stato per gli americani: un moltiplicatore di prestigio e di potenza.
In mezzo, Kohl e Genscher, che per fede europeista ma anche per di-
sperdere la latente sfiducia degli alleati nella Germania riunificata, tentano di
salvare un’apparenza di accordo nella Comunità. Una posizione non tenibi-
le, stretta fra opportunismo o moralismo, a sinistra, e uso geopolitico delle
rappresentazioni dominanti, a destra.
3) Coloro che hanno sollecitato l’Alleingang volevano e vogliono trasfor-
mare la Germania in un «normale» Stato nazionale europeo, come la Francia
o l’Inghilterra, emancipandola dalla «metafisica della colpa». Ma leader politi-
ci come Schauble o teorici nazionalisti di destra come Karlheinz Weissmann
non sono in grado di tradurre questa aspirazione, senza dubbio democratica
e pacifica, in un concreto progetto geopolitico. Giacché una cosa è essere
144 una «normale» potenza in Europa occidentale o circondati dall’Atlantico, altra
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

e ben più difficile è la condizione di chi presidia la frontiera con l’instabilità


postcomunista.
La nuova destra democratica tedesca – ancora, ma per quanto?, senza un
proprio partito – rischia di restare prigioniera delle memorie (o delle amne-
sie) storiche di cui si serve. Se la Germania si farà ipnotizzare dal moralismo
mediatico o si fari trascinare dal vortice delle rappresentazioni geopolitiche
riemerse dal passato – in breve, dalla dinamica delle permanenze – il crollo
del Muro potrà rivelarsi l’inizio del terzo fallimento tedesco (ed europeo) in
questo secolo. Impantanarsi nei Balcani, vellicando le fobie dei partner occi-
dentali, non promette di essere la miglior via alla rilegittimazione della Ger-
mania. Sarebbe paradossale per un popolo che si sente occidentale – l’81%
dei tedeschi considera oggi «importante» l’amicizia con gli Stati Uniti, picco
mai avvicinato negli ultimi decenni (186) – immaginare di ritrovar se stesso
nell’autistica contemplazione di un proprio presunto destino.

Note
95. «Balkan in Bonn», Der Spiegel, n. 16, 18/4/1994.
96. «German Public Approves NATO Air Strikes in Bosnia - But Not German Participation», U.S. Information
Agency, Opinion Research Memorandum, 19/4/1994. Sulle differenze fra Kohl e Schauble, vedi «Die Bunde-
swehr nach Bosnien?», FAZ, 16/4/1994. Sulla apertura di Mosca all’impiego di militari tedeschi in missioni di
pace in Jugoslavia e in altri paesi dell’Est, Csi compresa, vedi «Zu jedem Kampf bereit», intervista di Boris Elcin
a Der Spiegel, n. 17, 25/4/94.
97. Secondo un «autorevole dirigente socialdemocratico», le riserve della SPD contro l’impiego «fuori area» della
Bundeswehr «non resisteranno più di tre mesi» in caso di conquista della Cancelleria. Vedi Der Spiegel, nota 1.
98. «Patron fur den Frieden?», Der Spiegel, n. 9, 28/2/1994.
99. «Kohl: Ohne Polen bleibt die Europaische Union ein Torso», FAZ, 15/4/1994.
100. «U.S. Envoy Rebukes Germans and Kohl on Foreigners Issue», International Herald Tribune, 16/4/1994.
101. A. BARING, Eine neue deutsche Interessenlage?, Koln 1992, Hannus Martin Schleyer-Stiftung, p. 22.
102. Sull’atteggiamento della Germania nella crisi jugoslava si possono trovare molti spunti nella letteratura esi-
stente sul nuovo dramma balcanico. Fra gli altri libri: M. CRNOBRNJA, Le drame yougoslave, Rennes 1992,
Editions Apogée; M. GLENNY, The Fall of Yugoslavia, Harmondsworth 1992, Penguin; H. STARK, Les
Balkans - Le retour de la guerre en Europe, Paris 1993, Editions Dunod-Ifri; J. MERLINO, Les vérités yougosla-
ves ne sont pas toutes bonnes à dire, Paris 1993, Albin Michel; H. WYNAENDTS, L’engrenage - Chroniques
yougoslaves, juillet 1991 - août 1992, Paris 1993, Denoël; S. BIANCHINI, Sarajevo, le radici dell’odio, Roma
1993, Edizioni Associate; CH. CVIIC, Rifare i Balcani, Bologna 1993, il Mulino. Fra gli articoli: M. KORIN-
MAN, «L’Austria, la Germania e gli slavi del Sud», Limes, nn. 1-2/1993, pp. 79-92; S. VENTO, «La disentegrazio-
ne jugoslava», Relazioni Internazionali, settembre 1992, pp. 29-38; J. NEWHOUSE, « The Diplomatic Round»,
The New Yorker, 24/8/1992, pp. 60-71; H.-J. AXT, «Hat Genscher Jugoslawien entzweit?», Europa-Archiv, n.
12/1993, pp. 351-361; H. STARK, «Dissonances franco-allemandes sur fond de guerre serbo-croate», Politique
Etrangère, n. 3/1992, pp. 339-347; E. RONDHOLZ, «Deutsche Erblasten im jugoslawischen Burgerkrieg», Blat-
ter fur deutsche und internationale Politik, n. 37, luglio 1992, pp. 829-838; A. MUHLEN, «Die deutsche Rolle
bei der Anerkennung der jugoslawischen Sezessionsstaaten», Liberal, n. 34, giugno 1992, pp. 49-55. Per la ste-
sura di questo articolo mi sono state inoltre molto utili conversazioni con alti funzionari del ministero degli
Esteri tedesco e con esperti e diplomatici europei e americani, che ringrazio cordialmente.
103. Sulla consolidata tendenza antiserba nei media tedeschi, vedi l’articolo di M. BEHAM, «Mythen und Lugen -
Zum historischen Serbien-Feindbild», nelle pagine locali della Suddeutsche Zeitung, 2/3/1994.
104. J.G. REISSMULLER, «Herrenvolk-Verblendung», FAZ, 16/4/1994.
105. J.G. REISSMULLER, «Manchmal werden sie die Deutschen Jugoslawiens genannt», FAZ, 16/4/1994.
106. Verhandlungen des Deutschen Bundestags, seduta del 21/2/1991, pp. 407-408.
107. «Geeintes Jugoslawien eine Kiktion», FAZ, 25/5/1991.
108. «SPD: Slowenien anerkennen», Die Welt, 28/5/1991.
109. C.-G. STROHM, «Schuld in Kroatien», Die Welt, 6/5/1991.
110. C.-G. STROHM, «Brandt, das jugoslawische Drama und ein Tadel fur die EG», Die Welt, 28/5/1991. 145
CHE COSA CERCA LA GERMANIA IN JUGOSLAVIA

111. Cfr. anche M. KORINMAN, op. cit., passim.


112. Ad esempio, Joseph Krainer, capo del governo della Stiria, si fa ricevere da Kohl il 24 giugno per difendere
la causa slovena («Der Countdown zur Unabhangigkeit lauft», Die Presse, 25/6/1991).
113. «Kucan Kommt in die Bundesrepublik», FAZ, 19/3/1991.
114. «Der Countdown zur Unabhangigkeit lauft», Die Presse, 25/6/1991.
115. J.G. REISSMULLER intervista O. von Habsburg, «Die kleinen Volker Europas sind lebensfahig wie eh und
je», FAZ, 23/3/1991.
116. «Die Kroaten sind ja unsere Landsleute», Die Presse, 8/10/1993.
117. Se ne può trovare ampia traccia nella preziosa documentazione La crisi jugoslava nella stampa estera, edi-
ta nel gennaio 1992 dalla presidenza del Consiglio dei ministri, Roma (fuori commercio).
118. «Croatia May Take On Belgrade Alone», The Times, 30/1/1991.
119. «Austrian Business Sends The Cavalry Into Croatia», The Times, 8/2/1991.
120. Il tema della ritardata percezione della gravità della crisi jugoslava è analizzato in H. VETSCHERA-A. SMU-
TEKRIEMER, «“Signale” zur Fruherkennung von krisenhaften Entwicklungen», Osterreichische Militarische
Zeitschrift, n. 1/1993, pp. 17-25.
121. Bush scrive in marzo al premier federale Ante Markovic schierandosi per una «Jugoslavia democratica e
unita», International Herald Tribune, 29/3/1991.
122. Jacques Delors, presidente della Commissione Cee, visita la Jugoslavia il 29 e 30 maggio 1991, restando col-
pito dalla «mancanza di interesse dei suoi interlocutori per la situazione economica e l’importanza formidabile
accordata, dovunque, ai simboli del nazionalismo»: cfr. M. CRNOBRNJA, op.cit., p. 139.
123. Secondo la FAZ del 23/4/1991, in «Jetzt entscheiden die Republiken».
124. «Pujol animo en deciembre al presidente de Eslovenia a un radicalismo nacionalista de “ahora o nunca”», El
Pais, 3/7/1991.
125. «Slovene Secession Rejected By Baker», The Times, 22/6/1991.
126. «Slovenes Warned About Falling Living Standards», The Times, 24/6/1991.
127. «Diese Republiken sind nicht lebensfahig», Die Presse, 27/6/1991.
128. Ibidem e «Osteuropa pladiert fur Integritat», Die Presse, 27/6/1991.
129. «Kohl starkt Slowenen und Kroaten», Die Welt, 2/7/1991.
130. Ibidem.
131. «Union rugt Jugoslawien-Politik», Die Welt, 28/6/1991.
132. «L’Allemagne, puissance protectrice des Slovènes et des Croates», Le Monde, 4/7/1991; i timori di Dumas in
«EC Freezes £ 600 M Aid Amid Rift On Recognising Rebels», The Times, 6/7/1991; il pericolo del «blocco teuto-
nico» secondo i francesi in «Crisis Cleaves The EC», International Herald Tribune, 5/7/1991.
133. «Stabilitat ist nur auf Freiheit zu grunden», Die Welt, 3/7/1991; «Folgen eines Versagens», FAZ, 2/7/1991.
134. «Slowenien stimmt dem Kompromiss von Brioni zu», FAZ, 11/7/1991.
135. «Leise Tone aus Washington», Die Welt, 1/7/1991.
136. «In Jugoslawien ist Burgerkrieg», Die Welt, 22/7/1191.
137. «Kroatien kann zunachst nicht mit Anerkennung rechnen», FAZ, 19/7/1991.
138. «Les Douze pourraient reconnaitre la Slovénie et la Croatie en cas de nouvelle intervention militaire», Le
Monde, 7-8/7/1991.
139. «Le compromis sera soumis a l’approbation du Parlement slovène», Le Monde, 10/7/1991.
140. «Markovic lachelt, Genscher ist wutend», FAZ, 31/7/1991.
141. «M. François Mitterrand souligne qu’on ne peut pas sauver une Fédération par la force», Le Monde,
25/7/1991.
142. «Der EG geht es um einheitliche Haltung», FAZ, 9/8/1991; H. STARK, op. cit., p. 344.
143. «Bonn fordert UNO-Sitzung zu Jugoslawien», Die Welt, 21/9/1991.
144. Ciò sempre più negli anni successivi. Vedi il sondaggio pubblicato l’11/2/1993 dalla FAZ, dove si rivela che
il 59% degli elettori CDU/CSU è per inviare i soldati tedeschi in missione Onu allo stesso titolo degli altri occi-
dentali (contro il 21%). Nella SPD il rapporto è 49-34, fra i verdi 50-34, nella FDP 52-40. Ma nella Germania ex
comunista c’è una maggioranza complessiva contraria (42-37), mentre nell’ex Germania Ovest i favorevoli
prevalgono 53-28; cfr. «Breite Mehrheit für Blauhelm-Einsatze deutsher Soldaten».
145. «Nach dem Scheitern», FAZ, 5/8/1991.
146. «France TO Ask WEU TO Weigh Sending Force TO Yugoslavia», lnternational Herald Tribune, 6/8/1991.
147. «Bonn dringt auf Sanktionen gegen Serbien», FAZ, 6/8/1991.
148. «Carrington TO Visit Warring Republics», The Times, 14/9/1991.
149. «Bonn stellt sich auf eine rasche Anerkcnnung Sloweniens und Kroatiens ein», FAZ, 5/9/1991.
150. Cfr. H. WIJNAENDTS, op. cit., pp. 99-100.
151. «Les Douze arrivent à saturation», Libération, 8/10/1991.
152. «EG-Prasident klagt Kroatien ein», Die Welt, 16/9/1991; «Die seltsame Aussenpolitik des Prasidenten van
den Broek», Die Welt, 16/9/1991.
153. «Kroatien-Konfrontation im Parlament: Mock auf Seite der Opposition», Die Presse, 18/9/1991.
146
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

154. «Kohl und Mitterrand verstandigen sich auf gemeinsame Grundsatze zum Konflikt in Jugoslawien», FAZ
20/9/1991.
155. «Bonn fordert UNO-Sitzung zu Jugoslawien», Die Welt, 21/9/1991.
156. Cfr. nota 52.
157. «In der Unionsfraktion zeichnet sich eine Haltungsanderung zu Jugoslawien ab», FAZ, 27/9/1991.
158. «CSU fur Anerkennung», FAZ, 30/9/1991.
159. «Kohl: kein deutscher Alleingang», FAZ, 8/10/1991.
160. «Die Parteien drangen die Regierung zur Anerkrnnung Kroatiens und Sloweniens», FAZ, 9/10/1991.
161. Ibidem.
162. Come Hornhues che l’8 ottobre si schiera pubblicamente per i riconoscimenti, e il giorno dopo partecipa in
silenzio alla Koalitionsrunde (ibidem).
163. Ibidem.
164. «Waffenruhe in Kroatien», FAZ, 10/10/1991; «Frankreich andert seine Jugoslawien-Politik», FAZ, 11/10/1991.
165. Vedi nota 66.
166. «Schauble gegen Anerkennung», FAZ, 4/11/1991.
167. Ibidem.
168. «Anerkennung ware der erste Schritt», FAZ, 5/11/1991 e «Bischof fordert militarische Hilfe fur Kroatien»,
FAZ, 12/12/1991.
169. J. MERLINO, op. cit., pp. 82-84.
170. «Bonn drangt die EG zur Anerkennung Sloweniens und Kroatiens», FAZ, 7/11/1991.
171. «Bundestag ermuntert die Regierung zur Anerkennung Kroatiens», FAZ, 16/11/1991. 78Vedi nota 76.
vedi nota 170
173. «Bonn wird noch vor Weihnachten uber die Anerkennung Kroatiens und Sloweniens entscheiden», FAZ,
28/11/1991; «Kucan wirbt in Bonn fur die Anerkennung Sloweniens», FAZ, 4/12/1991; «Deutschland will
Slowenien und Kroatien anerkennen», FAZ, 6/12/1991.
174. Il portavoce della Cancelleria, Dieter vogel, e quello degli Esteri, Schumacher, confermano il 13 dicembre
che la Germania ha comunque deciso per il sì immediato; cfr. «Bonn: Zagreb und Liubljana anerkennen»,
FAZ, 16/12/1991. Secondo il New York Times del 16/12/1991, «Germany Insists It Will Recognize Yugoslav
Republics», Vogel dice; «Andremo avanti indipendentemente dal fatto che qualcuno, tutti o nessuno ci segua».
175. «Die FG berat uber die Anerkennung Kroatiens und Sloweniens», FAZ, 16/12/1991.
176. Lo scambio di lettere fra Perez de Cuellar e Genscber nella FAZ del 16/12/1991, «Genscher widerspricbt Pe-
rez de Cuellar».
177. «Ein grosser Erfolg fur uns», Der Spiegel, n. 52, 23/12/1991. Dove si rivela che di fronte all’appello di Bush
contro i riconoscimenti Genscher dice: «La Germania è completamente a terra».
178. «U.S. Is At Odds With German Backing For Slovenia And Croatia., New York Times, 8/12/1991.
179. Vedi la ricostruzione in «Wreckognition», The Economist, 18/1/1992.
180. Questa interpretazione è ben espressa in J. NEWHOUSE, op. cit., passim.
181. Vedi le dichiarazioni di Warren christopher (Le Monde, 19/6/1991), Roland Dumas e Gianni De Michelis
(«Lo dicevo io, era meglio Tito», L’Europeo, n. 24, 18/6/1993).
182. Così Karl Lamers in «Pour une Allemagne forte et responsable», Le Monde, 15/9/1993.
183. «Zur Frage der Anerkennung der jogoslawischen Nachfolgestaaten», memorandum interno del ministero
degli Esteri che difende le ragioni del riconoscimento di Slovenia e Croazia e replica anche alle accuse tardive
degli alleati, sostenendo che nessuno era obbligato a seguire Bonn.
184. Così Klaus Kinkel in un convegno organizzato a Roma dalla rivista MicroMega su «Dove va la Germania?»,
4-5 marzo 1993.
185. R. Lansing, The Peace Negotiations: A Personal Narrative, New York-Boston 1921, p. 98.
186. «Vier von funf Deutschen halten Fretjndschaft rnit USA fur wichtig», dispaccio di agenzia DDP, 10/1/1994.

147
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

IDENTITÀ NAZIONALE,
IDEOLOGIA VOLKISCH
E NUOVA DESTRA di Thomas LINDEMANN

Il concetto di identità nazionale che l’estrema destra trae


dal radicalismo ‘volkisch’ è molto diffuso nella società tedesca.
Le conseguenze geopolitiche di questo modo di pensarsi.
Nazione germanica e jus sanguinis.

1. L’ ONDA MONTANTE DELL’ESTRE-


ma destra e le violenze razziali in Germania sollevano numerosi interrogativi.
Una questione cruciale è quella di sapere se gli elettori dell’estrema destra
esprimano unicamente il loro malcontento nei confronti della classe politica
tedesca (il termine «stanchezza politica» ha caratterizzato l’anno 1992) e il lo-
ro turbamento in tempi di insicurezza sociale ed economica, oppure se ade-
riscano coscientemente alle tesi xenofobe e nazionaliste dell’estrema destra.
Gli uomini politici tedeschi, naturalmente, manifestano la tendenza a far pro-
pria la prima tesi, insistendo sul fatto che non si possono confondere gli elet-
tori con i dirigenti dei Republikaner. Questa è certamente la spiegazione più
facile e più confortante, perché sottintende che una migliore gestione politi-
ca e una ripresa economica basterebbero per recuperare gli elettori dell’e-
strema destra. Numerosi studiosi hanno analogamente cercato di spiegare i
voti a favore dell’estrema destra come voti «di protesta». Vittime della moder-
nizzazione, questi elettori in parte verrebbero dagli strati medi, minacciati
dalle trasformazioni socioeconomiche – artigiani, contadini, piccoli liberi
professionisti – e in parte dagli ambienti meno favoriti, particolarmente col-
piti dalla crisi degli alloggi e dalla minaccia di disoccupazione. Si insiste mol-
to anche sulle tendenze all’individualismo e all’anomia in una società com-
plessa e priva dei suoi quadri di riferimento tradizionali, quali le Chiese e i
sindacati, in cui per i giovani l’unica fonte di certezza sarebbe l’essere tede-
schi (187).
Senza scartare queste spiegazioni, è necessario constatare che da sole
non sono sufficienti a rendere conto del complesso fenomeno dell’estrema
destra. Notiamo qui brevemente che l’elettorato dei Republikaner tende a
«normalizzarsi» dal punto di vista sociologico, inglobando sempre più spesso
individui colti, quali avvocati e funzionari, e che il suo reddito medio non è
sensibilmente inferiore a quello dell’insieme della popolazione. Così, C. Leg- 149
IDENTITÀ NAZIONALE, IDEOLOGIA VOLKISCH E NUOVA DESTRA

gewie arriva alla conclusione che i Republikaner sono già «una piccola Volk-
spartei» (188). Sottolineiamo anche il fatto che la protesta e il malcontento
politico non sono necessariamente una scelta politica a favore dell’estrema
destra, perché questa protesta potrebbe anche manifestarsi nel voto a favore
della PDS, dei verdi o della SPD. Perché un elettore voti per l’estrema destra,
bisogna che abbia un certo numero di predisposizioni mentali – una prossi-
mità verso valori, atteggiamenti, opinioni – in comune con essa.
Notiamo che, secondo un’indagine svolta nel 1979-’80 dall’istituto Sinus,
il 13% degli elettori della Repubblica federale condivideva un insieme coe-
rente di convinzioni e di atteggiamenti di estrema destra. È dunque molto
probabile che nella società tedesca continui a esistere un importante poten-
ziale di estrema destra, normalmente incanalato nei partiti tradizionali, ma
che potrebbe rivolgersi all’estrema destra in una situazione di crisi politica ed
economica. Si potrebbe qualificare tale potenziale come una sorta di «reper-
torio di crisi» (189). È dunque importante analizzare non solo i fattori sociali
ed economici, ma anche le ideologie veicolate dall’estrema destra e chiedersi
in quale misura esse trovino un fertile terreno nella società tedesca.
Uno dei temi più frequenti nella propaganda dell’estrema destra è il pro-
blema dell’identità nazionale. E qui desideriamo prospettare una nostra ipo-
tesi, su cui torneremo, secondo la quale il concetto di identità nazionale
dell’estrema destra è ampiamente diffuso nella società tedesca ed è una delle
maggiori cause del suo successo tra gli elettori. In un primo tempo, tuttavia,
vedremo come l’estrema destra definisce l’identità nazionale, per domandar-
ci in seguito in quale misura l’identità volkisch, diffusa dall’estrema destra,
abbia successo presso l’elettorato tedesco.

2. Da molti anni, la propaganda dell’estrema destra è interamente fonda-


ta sul tema dell’identità nazionale. Bisogna dire che nella Repubblica federa-
le questo tema era da tempo rigettato, perché l’esperienza del nazismo, il
confronto Est-Ovest e una economia fiorente costituivano condizioni poco
propizie per una discussione sull’identità nazionale.
Ma sebbene la concezione etnica della nazione tedesca fosse posta in se-
condo piano nella vita politica, essa non era mai seriamente messa in dub-
bio. Nella Repubblica federale, anche gli avversari del nazionalismo erano
spesso influenzati dalla concezione etnica della nazione. Per Hans Magnus
Enzensberger, l’idea di nazione era, nel 1967, una «illusione più coriacea che
mai», proprio perché «l’appartenenza nazionale» non sarebbe «una condizio-
ne a parte», bensì una «Herkunft» (origine in senso etnico) (190). Nella nazio-
ne «divisa», gli uomini politici tedeschi erano costretti a riferirsi a fattori pre-
politici, quali la lingua e la cultura, per giustificare l’aspirazione all’unità tede-
sca. È in questo vuoto attorno a una definizione repubblicana della inazione
tedesca che poteva farsi ascoltare il discorso «naturalista» dell’estrema destra.
In tutte le campagne elettorali, il tema nazionale è messo in primo piano
dall’estrema destra. La NPD (National-Demokratische Partei Deutschlands),
nella campagna per le elezioni legislative del 1980, ad esempio, lanciò la pa-
150 rola d’ordine «Alt agli stranieri – la Germania ai tedeschi» (191) e la DVU
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

(Deutsche Volksunion) proclama regolarmente: «La Germania prima di tutto!


La Germania deve restare tedesca! I posti di lavoro tedeschi ai tedeschi! Il de-
naro tedesco per missioni tedesche!».
La propaganda dei Republikaner è più sottile di questa forma di agitazio-
ne banale e brutale. Nel 1989, per le elezioni regionali a Berlino, i Republika-
ner hanno diffuso una pubblicità televisiva che mostrava immigranti turchi,
con l’accompagna. mento della musica del western di Sergio Leone uscito in
Germania con il titolo Spiel mir das Lied vom Tod (Suonami il canto della
morte). È da rilevare che in quelle elezioni i Republikaner ottennero il 7,5%
dei suffragi.
I leader dell’estrema destra sono apparentemente convinti che la propa-
ganda xenofoba e nazionalista offra loro la migliore opportunità per mobili-
tare un vasto elettorato. Franz Schonhuber, dirigente dei Republikaner, affer-
ma: «Ottengo il maggior successo quando dichiaro che la rieducazione è fini-
ta e che la via di Canossa è chiusa» e «quando dichiaro che sono fiero di esse-
re tedesco» (192).

3. Ma che significa per l’estrema destra essere tedesco? L’appartenenza


nazionale può essere definita in funzione dell’appartenenza a uno Stato, sen-
za prendere in considerazione criteri etnici o linguistici; può essere definita
come «plebiscito di ogni giorno» (Renan), basato sulla volontà di appartenere
a una comunità; e, infine, può riferirsi a criteri cosiddetti «oggettivi», come la
lingua, la cultura e la razza. Si tratta certamente di «tipi ideali», ma notiamo
che in Germania la concezione volkisch (etnico-culturale) è prevalsa perché
il sentimento nazionale in questo paese ha preceduto lo Stato-nazione. Fich-
te, ad esempio, nei suoi Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808) parla di
Urvolk (popolo originario, o autentico) e dichiara che «carattere tedesco ed
essere tedesco sono la stessa cosa» (193).
Concezioni simili sono ancora oggi largamente diffuse tra i sostenitori e i
dirigenti dell’estrema destra, spesso in forma più moderna, o che pretende di
essere più scientifica. La NPD, partito fondato ad Hannover nel 1964, che
conta da 6 a 7 mila membri, fin dalla sua nascita va proclamando un’identità
etnica. Adolfvon Thadden, ex presidente della NPD, dichiarava su Die Welt
del settembre 1967: «Non si è razzisti (...)quando si rispetta il fatto che Dio ha
creato razze diverse affinché vivano insieme, ile une accanto alle altre, ma
senza mescolarsi. Alcune razze, manifestamente, sono state meno dotate di
altre dal Creatore (194) Ernst Anrich, ideologo di questo partito, ex dirigente
del NS-Studentenbund e professore all’Università di Strasburgo, ha pretese
più scientifiche: «Un Volk non è necessariamente una razza pura», ma «noi
possiamo verificare dappertutto che c’è una quota di incrocio razziale pro-
pria di ciascun popolo che determina la norma di questo organismo». «Oltre-
passare questa quota comporta la decadenza (...) la vitalità culturale diminui-
sce» (195). È un discorso che ricorda gli assiomi pangermanisti e la loro con-
cezione di «prevalenza» degli elementi germanici nella «razza tedesca». Ma la
nozione di Volk non è soltanto una concezione biologica e naturalista della
nazione tedesca, è una vera Weltanschauung. La maggior parte delle posizio- 151
IDENTITÀ NAZIONALE, IDEOLOGIA VOLKISCH E NUOVA DESTRA

ni politiche della NPD possono essere dedotte da ciò. In primo luogo, questa
concezione implica necessariamente il rigetto o almeno una segregazione
degli stranieri, perché la nazione deve restare «etnicamente pura» per «non
deperire». L’attuale presidente della NPD, Gunter Deckert, scrive nel suo li-
bro Handbuchgegen Ubetfremdungche il problema dei Gastarbeiter (lavora-
tori ospiti) è un problema «ecologico» e un pericolo «per l’essenza biologica
del popolo tedesco» (196). E il Consiglio federale della NPD nel maggio 1992
ha dichiarato che la «società multiculturale» significa «un pericolo per la pace
interna» (197).
La DVU, fondata nel 1971, che conta 25 mila membri e dispone di varie
pubblicazioni tra cui la DNZ, con una tiratura di 100 mila esemplari, non si
differenzia fondamentalmente dalla NPD per quanto riguarda la concezione
dell’identità nazionale. Bisogna dire che questo partito non dispone di una
vera organizzazione e che il suo programma si riduce a un foglietto su due
facciate, che proclama in modo tautologico: «La Germania innanzitutto. (...)
La Germania deve restare tedesca». Il dirigente incontestato di questo partito,
Gerhard Frey, proprietario di un capitale di circa 40 milioni di marchi, sui
suoi giornali fa propaganda a favore di un nazionalismo biologico nettamen-
te improntato a temi social-darwiniani. Il suo giornale DNZ, a proposito delle
violenze razziali a Rostock, ha scritto: «Il nostro popolo sembra comprendere
dove lo porti l’essere abbandonato senza difesa a una politica antitedesca: lo
porta all’abisso». E il giornale constata che «da oggi è in gioco puramente e
semplicemente la nostra possibilità di sopravvivenza», richiamandosi alla
«snazionalizzazione, dovuta in particolare all’invasione di centinaia di mi-
gliaia di zingari» (198). Altermann, il primo deputato della DVU eletto nel
1987 a Brema, sottolinea: «La razza deve restare razza», perché «i meticci sono
sempre idioti» (199).
Il discorso dei Republikaner sulla nazione tedesca è più complesso e più
ambiguo. Il loro dirigente Schonhuber cerca di defilarsi dalle idee razziste e
naziste. Da qualche anno si sforza di «epurare» il partito dalle persone troppo
vicine ai gruppuscoli neonazisti ed è persino riuscito ad invitare Hans Hein-
zel, membro del gruppo di resistenza anti-hitleriana La rosa bianca, al con-
gresso federale dei Republikaner che si è svolto a Rastadt nel l993 (200). Vi
sono pochi dubbi, tuttavia, sul fatto che la sua concezione della nazione te-
desca sia fondata su criteri etnico-linguistici implicanti l’ostilità contro tutte le
influenze straniere sulla peculiarità germanica. Egli si riferisce volentieri al
pangermanista Paul de Lagarde e a Herder, che attribuiscono a ogni nazione
un’individualità olistica. Schonhuber non è apertamente razzista, ma si di-
chiara a favore della segregazione delle nazioni: «Amo i turchi, ma li amo di
più in Turchia» (201), o «Vogliamo restare tedeschi». Ammira apertamente la
Volksgemeinschaft diffusa dal nazionalsocialismo, che per Schonhuber signi-
fica una Gemeinschaft senza conflitti, trascendente tutte le distinzioni socio-
economiche e politiche.
Il programma del 1987 dei Republikaner (Bremerhaven) mette in risalto
la concezione volkisch di questo partito (202). Preoccupandosi apparente-
152 mente dell’essenza biologica del Volk tedesco, il programma si dichiara a fa-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

vore della «conservazione e promozione dell’essenza e della salute del Volk


tedesco, come compito comune al di sopra degli interessi individuali». È una
formula non troppo lontana dall’eugenetica dei nazisti, tanto che Schonhu-
ber ha creduto opportuno sopprimere questo punto nel programma di Ro-
senheim del 1990, soprattutto per sottrarsi alla condanna del Verfassungs-
schutz (l’organo di tutela costituzionale, incaricato di controllare le attività
estremiste non conformi alla costituzione tedesca). Il programma del 1987
sottolinea, inoltre, il ruolo della donna tedesca per la famiglia e per i figli.
L’argomentazione è, ancora una volta, volkisch, perché il programma insiste
sulla necessità di prevenire il «drammatico calo della natalità» al fine di assi-
curare l’avvenire della nazione tedesca. Anche i temi ecologici sono collegati
alla tematica volkisch. Il programma parla, infatti, di Lebensraumschutz (dife-
sa dello spazio vitale) e giustifica la necessità di lottare contro la disoccupa-
zione con l’obiettivo di facilitare la creazione di nuove famiglie. Il program-
ma, com’è ovvio, sottolinea che «la Germania non è un paese di immigrati»,
esclude gli stranieri dal godimento dei diritti fondamentali e afferma che essi
non debbono usufruire della protezione sociale, né dei contratti di lavoro di
durata illimitata e che non debbono partecipare alla vita politica (203).
Schonhuber, benché voglia oggi apparire più moderato, resta fedele alle sue
idee «naturaliste». Così, predica ai giovani: «Non andate soltanto nelle discote-
che, ma fate lunghe camminate insieme, come facevamo noi in passato», per-
ché i «corpi giovani hanno bisogno di indurirsi» (letteralmente, Stahlung, che
evoca l’espressione nazista «hart wie Kruppstahl», «duro come l’acciaio di
Krupp»). Schonhuber non esita a insultare anche i dirigenti della comunità
ebraica tedesca e ha definito il suo presidente Bubis uno dei peggiori «Volk-
sverhetzer» («agitatori»). Ecologia, disoccupazione, ruolo della donna, stranie-
ri: tutte le prese di posizione dei Republikaner su questi argomenti possono
essere dedotte dalla loro ideologia volkisch.

4. Il problema dell’identità tedesca ha sempre creato difficoltà anche agli


Stati confinanti. Poiché è basata su fattori prepolitici, soprattutto etnico-lin-
giustici, l’identità tedesca ha spesso messo in discussione le frontiere esistenti
in Europa per «riunire tutte le persone di origine tedesca». «Che cos’è la patria
per i tedeschi?», si domandava, ad esempio, nel 1813 Arndt nel suo libro Il
Reno è un fiume tedesco, non una frontiera tedesca. E rispondeva: «Arriva
fin dove risuona la lingua tedesca». Oggi, la Germania unificata si dichiara
completa, ma almeno l’estrema destra continua a mettere in discussione le
frontiere esistenti.
La NPD, ad esempio, non rivendica soltanto la ricostituzione della Ger-
mania nelle sue frontiere del 1937, ma chiede anche la revisione del Trattato
di Versailles. Il giornale del partito, Deutsche Stimme, propugna una «Grande
Germania», che include i Sudeti e l’Alto Adige (204). Anche l’Austria, natural-
mente, apparterrebbe alla Germania, come precisa una lettera della NPD da-
tata 18 febbraio 1990 (205): «Tre Stati tedeschi. Territori divisi. Popolazioni
espulse. Eppure, noi siamo un solo popolo» (206).
La DVU e il suo leader Gerhard Frey sono già da molto tempo in contat- 153
IDENTITÀ NAZIONALE, IDEOLOGIA VOLKISCH E NUOVA DESTRA

to con Vladimir Zirinovskij per ricostituire la Prussia orientale. Dopo un in-


contro tra Frey e Zirinovskij, avvenuto in Turingia, la DNZ si è rallegrata:
«L’avvenire di Konigsberg è tedesco». Frey non ha mancato di felicitare Ziri-
novskij per il suo successo elettorale e gli ha inviato questo telegramma: «La
tua vittoria apre la strada alla stretta cooperazione tra i due più grandi popoli
dell’Occidente, i russi e i tedeschi» (207). Formula, questa, che suggerisce
una cooperazione a spese della Polonia, tanto più in quanto Zirinovskij si
oppone alla «pretesa linea Oder-Neisse», come conferma la cartina da lui di-
segnata, pubblicata nel numero 1/94 di Limes.
Le rivendicazioni territoriali dei Republikaner non sono sempre chiare. Il
programma di Rosenheim del 1990 non si riferisce esplicitamente alle fron-
tiere del 1937: «Il nostro programma è la Germania. Nel 1945, è stata annien-
tata solo la forma esteriore della Germania». Certo, il programma è corredato
da una cartina del 1937, ma si fa notare che «ad Est come ad Ovest e a Sud vi
sono ancora terre tedesche» (208). Bisogna sottolineare che Schonhuber si
intende alla perfezione con Jorg Haider e che sostiene così energicamente la
Sudtiroler Volkspartei e l’autodeterminazione dell’Alto Adige che ha rotto i
rapporti con il Msi (209).

5. Verifichiamo ora la nostra ipotesi, secondo la quale gli elettori


dell’estrema destra non esprimono soltanto un voto di protesta, ma sono an-
che particolarmente sensibili all’ideologia volkisch. Dobbiamo tradurre il
concetto astratto di volkisch in indici empiricamente misurabili per accertare
se gli elettori dell’estrema destra sono più attaccati a questa ideologia dell’in-
sieme di coloro che hanno diritto al voto.
L’ideologia volkisch ingloba diverse componenti, solo alcune delle quali
possiamo qui citare. In primo luogo, nella sua variante più «dura», essa è
profondamente ostile all’incrocio razziale di cosiddetti popoli, perché questo
comporterebbe, secondo la sua logica, il declino della nazione. In secondo
luogo, nella stessa logica, tende ad escludere dalla società le persone che
hanno peculiarità culturali e linguistiche. In terzo luogo, considera stranieri
tutti coloro che si differenziano in senso etnico-linguistico. Infine, rifiuta di ri-
conoscere le frontiere che non si accordano con il Volkstum.
Analizziamo anzitutto la sensibilità degli elettori dell’estrema destra nei
confronti della purezza razziale della nazione tedesca. Secondo un sondag-
gio dell’Emnid del 1989, il 72% degli elettori dei Republikaner si dichiarano
d’accordo «per tenere la Germania pulita e prevenire incroci di popoli» (210).
L’adesione degli elettori dei Republikaner a questa posizione è nettamente
superiore a quella della popolazione nel suo insieme, perché essi si situano
– su un ventaglio che va da 1 (per niente d’accordo) a 6 (perfettamente d’ac-
cordo) – sul 4,4 a fronte del 3,5 della popolazione complessiva (211). Un al-
tro segno del desiderio di preservare l’identità etnica tedesca è l’atteggiamen-
to negativo, o addirittura ostile, nei confronti della pluralità etnica.
Secondo un sondaggio di Eurobarometro, in Germania il 63% delle per-
sone di estrema destra – tutti coloro che su un ventaglio che va da 1 (molto a
154 sinistra) a 10 (molto a destra) si situano sulle posizioni 9 e 10 – hanno una
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

percezione negativa della pluralità etnica, mentre soltanto il 25% delle perso-
ne situatesi al centro e il 22% di quelle situatesi a sinistra condividono tale
opinione. Il 25% delle persone di estrema destra si dicono disturbate dalla
pluralità etnica rispetto al 13% di quelle di centro e all’8% di quelle di sinistra
(212). Notiamo, en passant, che in Germania la correlazione tra l’estrema de-
stra e un atteggiamento negativo verso la pluralità etnica è particolarmente
forte, mentre invece è debole, o manca del tutto, in Belgio, Gran Bretagna,
Grecia, Italia, Lussemburgo, Portogallo e Spagna. Ciò dimostra che ogni
estremismo di destra si iscrive in una diversa logica nazionale e che l’estremi-
smo di destra in Germania non può essere separato dall’ideologia volkisch.
Approvare l’espulsione degli stranieri o la limitazione del loro soggiorno
può essere un altro indice di coscienza etnica. Secondo il già citato sondag-
gio Emnid, il 92% degli elettori dei Republikaner, a fronte del 65% della po-
polazione complessiva, sono a favore di una limitazione del diritto di sog-
giorno dei lavoratori ospiti a qualche mese o a un anno (213) e il 94%, a
fronte del 67%, sostiene che gli stranieri – debbono lasciare la Repubblica fe-
derale dopo un anno di disoccupazione (214). Non c’è da sorprendersi se il
99% degli elettori dei Republikaner a fronte del 75% della popolazione com-
plessiva pensa che in Germania vi siano troppi stranieri . L’ostilità e il rigetto
nei confronti degli stranieri, analogamente, sono spesso legati all’adesione
all’ideologia volkisch. Un sondaggio Emnid del 1989 conferma, ad esempio,
che le persone con atteggiamenti antisemiti condividono(215) assai più net-
tamente la posizione «per tenere la Germania pulita ed evitare gli incroci di
popoli» (4,9 su un ventaglio da 1 a 6) rispetto a quelli insensibili all’antisemi-
tismo (2, 4) (216). Gli elettori dei Republikaner, mediamente più attaccati alla
«purezza razziale» rispetto all’insieme della popolazione, hanno nei confronti
degli ebrei residenti in Germania un atteggiamento più negativo di quello
della popolazione complessivamente considerata (52% rispetto al 18%)
(217). Gli elettori dei Republikaner, in particolare, sono contrari alla conces-
sione di asilo a persone provenienti dall’Africa (su una scala da +5, assoluta-
mente simpatico, a -5, niente affatto simpatico, scelgono -4, posizione razzi-
sta, rispetto a -1,5 della popolazione complessiva) e dall’Asia (218). Questo
rigetto è probabilmente dovuto alla sensazione di una distanza razziale, per-
ché gli americani e i rimpatriati dall’ex Rdt sono giudicati positivamente dagli
elettori dei Republikaner. Alcuni commentatori, tuttavia, hanno messo in
dubbio la motivazione volkisch dei Republikaner, considerando che essi
hanno un atteggiamento negativo anche verso i tedeschi di origine rimpatria-
ti dalla Polonia o dall’ex Urss. Bisogna dire, però, che il loro rigetto dei tede-
schi di origine (posizione-1) è molto meno marcato rispetto a quello dei tur-
chi e delle persone in cerca di asilo provenienti dall’Africa e dall’Asia (219).
In breve, sembra che il rigetto dei tedeschi di origine tra gli elettori dei Repu-
blikaner sia attenuato da un vago senso di prossimità etnica.
La seconda componente dell’ideologia volkisch – la volontà di escludere
le persone con peculiarità culturali e linguistiche – è probabilmente ancora
più diffusa nella società tedesca, perché è connessa al nazismo in modo me-
no netto dei «legami di sangue». Un segnale di questo atteggiamento è il gra- 155
IDENTITÀ NAZIONALE, IDEOLOGIA VOLKISCH E NUOVA DESTRA

do di apertura o di chiusura nei confronti di altre culture. L’82% degli elettori


dei Republikaner a fronte del 51% dell’insieme della popolazione, secondo
Emnid, non sono d’accordo con l’idea che «il modo di vivere degli stranieri
può arricchire il nostro modo di vivere» e soltanto il 22% dei Republikaner, ri-
spetto al 27% della popolazione complessiva, dichiara di incontrare stranieri
nel tempo libero (220). Il 51% dei Republikaner e il 27% dell’insieme della
popolazione si dichiarano a favore di una separazione degli allievi tedeschi
da quelli stranieri nelle scuole (221).
Un importante elemento dell’ideologia volkisch è anche l’abitudine a
giudicare l’appartenenza nazionale in termini etnico-linguistici. Sono esclusi
dalla cittadinanza tedesca e considerati a priori stranieri tutti coloro che si
differenziano sul piano etnico. Il 58% degli elettori dei Republikaner rispetto
al 28% della popolazione complessiva, secondo Emnid, scelgono così la pa-
rola Fremde (persone rimaste in qualche modo «sconosciute») per designare
gli stranieri residenti in Germania – gli altri due termini che si potevano sce-
gliere erano «ospiti» o «concittadini» – e il 100% rispetto al 72% si oppone alla
concessione del diritto di voto agli stranieri a livello comunale o municipale
(222). Secondo un sondaggio di Ipos del maggio 1989, «soltanto» il 96% degli
elettori dei Republikaner si oppone a tale diritto di voto (il fatto di opporsi a
ciò non implica necessariamente l’adesione all’ideologia volkisch). L’84% de-
gli elettori dei Republikaner e il 63% per cento della popolazione complessi-
va non la vogliono che sia facilitato l’accesso alla cittadinanza tedesca agli
stranieri (223).
Notiamo, infine, che una maggioranza del 62% degli elettori dei Repu-
blikaner, secondo il sondaggio dell’Emnid, è contraria al riconoscimento del-
la frontiera Oder-Neisse (224).
La correlazione tra estremismo di destra e ideologia volkisch sembra
dunque evidente. Secondo tutte le componenti considerate e i loro indici, gli
elettori dei Republikaner sono nettamente più inclini a «pensare» in termini
volkisch rispetto all’insieme dell’elettorato. Dato questo risultato è assai dub-
bio che i voti a favore dei Republikaner siano semplicemente l’espressione
di una protesta qualsiasi. Non si può che concordare con la constatazione
dell’Emnid, secondo cui tali voti sono piuttosto l’espressione di una vera
Weltanschauung, che dà al partito dei Republikaner la sua coerenza (225).
La capacità di attrazione dei Republikaner si basa assai meno sulla fiducia
nella loro competenza per risolvere i problemi della disoccupazione, o la cri-
si degli alloggi, che non sulle loro posizioni rispetto al «problema» degli stra-
nieri, il solo argomento sul quale più del 10% della popolazione giudica i Re-
publikaner competenti (226).
Questi risultati sono confermati anche da un’inchiesta del 1993 dell’istitu-
to di Allensbach, secondo la quale gli elettori dell’estrema destra sono più
preoccupati dell’Uberfremdung (la paura di perdere la specificità tedesca)
che della disoccupazione (227). Colpisce notare che i successi dell’estrema
destra si manifestano sopratttutto in Baviera e nel Baden Wurttemberg, due
regioni tra le più ricche d’Europa, e non nella «povera» Bassa Sassonia. Rile-
156 viamo, tuttavia, che la correlazione tra estremismo di destra e ideologia
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

volkisch non funziona nei due sensi: il fatto di avere una ideologia volkisch
non comporta sistematicamente un’adesione alle tesi dell’estrema destra. La
sua diffusione nella società tedesca è assai più ampia di quanto non dimostri
il voto all’estrema destra ed è per questo che il terreno volkisch è un campo
di attività assai propizio per la propaganda di questo schieramento politico.
Ci limiteremo qui a citare alcuni sondaggi che mettono in risalto la persi-
stenza del pensiero volkisch in seno alla società tedesca. Secondo un’inchie-
sta dell’Istituto Wickert del 1988, il 53% dei cittadini tedeschi nella fascia di
età tra i 50 e i 69 anni e il 14% tra i 18 e i 29 anni sono d’accordo che la citta-
dinanza tedesca sia riservata alla gente di «sangue tedesco». (come da pro-
gramma della NSDAP del 1920), mentre il 38% della popolazione è incline a
pensare che i tedeschi abbiano un Lebensraum (spazio vitale) troppo limita-
to e l’83% è d’accordo nel chiedere «il ricongiungimento di tutti i tedeschi, se-
condo il diritto all’autodeterminazione dei popoli» (228). Evitiamo comunque
la trappola dell’etnocentrismo e sottolineiamo che probabilmente le implica-
zioni politiche delle due ultime formule non sono sempre presenti nella
mente di chi le accetta. In un sondaggio del 1987 riservato ai giovani di 16 e
17 anni, il 43,5% degli intervistati si dice d’accordo sulla formula «la Germa-
nia ai tedeschi», mentre il 37,4% sostiene la richiesta «gli stranieri fuori» (229).
La nozione etnica della nazione tedesca si esprime anche nella Legge
fondamenta dello Stato. L’articolo 116 sancisce che «è tedesco rispetto al
Grundgesetz chiunque possieda la cittadinanza tedesca e chi, o in relazione
all’appartenenza al popolo (Volkszugehorigkeit) tedesco, o moglie o discen-
dente, è giunto nella Repubblica federale provenendo da una regione inte-
grata nel Terzo Reich al 31 dicembre 1937» (230). La legge sulla cittadinanza
tedesca del l913, tuttora in vigore, definisce tale cittadinanza sulla base dello
jus sanguinis. La commissione legislativa incaricata di elaborare questa legge
respinse, all’epoca, lo jus soli come incompatibile con la salvaguardia della
«nostra peculiarità etnico-culturale» (231). La legge del 1953 sulle persone
espulse e sui rifugiati specifica il criterio Volkszugehorigkeit mediante «la filia-
zione, la lingua, l’educazione e la cultura». Un certo particolarismo germani-
co della Legge fondamentale si esprime anche nel fatto che essa accorda di-
gnità umana ed eguaglianza dinanzi alla legge, libertà di religione e di pen-
siero a tutte le persone, mentre si riferisce ai soli tedeschi per quanto riguar-
da la libertà di riunione (Vereinigungsfreiheit) e il diritto di scegliere libera-
mente la propria residenza (Freizugigkeit) (232). Rileviamo anche che il tri-
bunale di Karlsruhe nel 1990 si è opposto alla partecipazione degli stranieri
alle elezioni comunali, riferendosi al fatto che Volk significa deutsches Volk di
qui viene Wahlvolk (Volk elettorale). La logica dello jus sanguinis pone seri
problemi all’integrazione degli immigrati. Anche dopo che due generazioni
hanno vissuto in Germania, essi ottengono solo in via molto eccezionale la
cittadinanza tedesca. Dal 1973 al 1990 soltanto 256.942 immigrati su 6 milioni
e 500 mila hanno ottenuto la cittadinanza tedesca: «Se si prende come riferi-
mento la Germania, il tasso di residenti stranieri naturalizzati è 4 volte più
elevato in Francia, 10 volte negli Usa, 15 volte in Svezia e circa 20 volte in
Canada» (233). Dopo le violenze razziali avvenute nel 1992 a Molln, tuttavia, 157
IDENTITÀ NAZIONALE, IDEOLOGIA VOLKISCH E NUOVA DESTRA

si è cominciato a discutere sull’opportunità di rivedere la questione della cit-


tadinanza tedesca. Se ne è occupato anche il cancelliere Kohl, che dichiaran-
do: «La Germania non è un paese di immigrati», si è detto temporaneamente
d’accordo sull’attribuzione di una doppia nazionalità agli immigrati residenti
in Germania da 15 anni.
Sono comunque numerosi coloro che restano attaccati all’ideologia
volkisch. Il presidente del gruppo parlamentare della CDU-CSU, Schauble,
sostiene ad esempio: «Noi non fondiamo la nostra identità in riferimento a
un’idea, ma in riferimento a un determinato Volk» (234). In questo, ha l’ap-
poggio della CSU bavarese, che, come ha dichiarato Edmund Stoiber, si op-
pone a una durchmischtee durchrasste Gesellschaft (una società razzialmen-
te incrociata). È spesso difficile distinguere i discorsi degli uomini politici ba-
varesi da quelli dei Republikaner. Alcuni dirigenti politici della CSU non
escludono una cooperazione con i Republikaner. L’ex ministro-presidente
della Baviera, Max Streibl, ha infatti ritenuto opportuno, nel febbraio 1994,
incontrare Schonhuber per uno scambio di vedute e il signor Gauweiler
(CSU) ha dichiarato che Schonhuber è politicamente «un pò più a destra del
centro» («a bisserl rechts von der Mitte») – opinione, questa, condivisa dal de-
putato europeo della CSU Otto von Habsburg, il quale sostiene che
Schonhuber è «un buon democratico» (235).
La «destra dura» in seno alla CDU rimane una forza politica non trascura-
bile. L’ala destra dei democratici cristiani si oppone ferocemente alla società
«multiculturale» e difende il principio dell’omogeneità etnica e culturale.
Heinrich Lummer, uno dei portavoce della «destra dura» in seno alla CDU,
nel suo libro Asyl: ein missbrauchtes Recht (Asilo: un diritto di cui si
abusa),ad esempio, respinge il diritto di asilo a causa dei suoi «aspetti ecolo-
gici» e dal punto di vista della «protezione della natura», preoccupandosi del
Lebensrecht (diritto alla vita) tedesco (236). Per saperne di più sulle conce-
zioni della «destra dura», basta leggere la rivista Deutschland-Magazin, che
rispecchia queste tendenze. Vi collaborano regolarmente uomini politici co-
me A. Dregger (ex presidente del gruppo parlamentare CDU-CSU) o H. Ko-
schyk, deputato della CSU e presidente del gruppo di lavoro «rifugiati ed
espulsi». Secondo questa rivista, il crollo degli imperi dell’Est è una fatalità
quasi naturale, che riguarda tutte le forme di integrazione sovranazionale: «Ci
sono forze nazionali autentiche e non solo ad Est». Il «popolo originario» di
Fichte continua ad esistere nella mente di alcune persone e la conclusione
che si impone è chiara: «Senza principio etnico non vi è Stato» (237). Secon-
do questa tendenza politica, ovviamente, la Germania non è un paese di im-
migrati. Le concezioni «biologiche» ed «etnico-culturali» della nazione tedesca
non sono condivise unicamente dai dirigenti dell’estrema destra e della de-
stra «dura», ma ispirano talora anche i leader di altri partiti. L’espressione di
Willy Brandt, all’indomani dell’apertura del Muro, secondo la quale «in ulti-
ma analisi, cresce insieme» è il più noto esempio di metafora biologica
dell’unità tedesca.
In particolare, i due maggiori partiti – CDU-CSU e SPD – devono con-
158 frontarsi con il fatto che gran pane del loro elettorato è sensibile alle tesi xe-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

nofobe dei Republikaner. Il dibattito sul diritto d’asilo e sulla revisione


dell’articolo 116 della Legge fondamentale ha messo in risalto le difficoltà dei
grandi partiti ad opporsi alle tendenze xenofobe dell’opinione pubblica. La
SPD e i liberali sono pronti a rivedere la legge del 1913 sulla nazionalità te-
desca, ma per il momento, almeno fino alle elezioni del prossimo ottobre,
soprassiedono. Molti uomini politici ritengono che l’estrema destra scompa-
rirà se essi riusciranno a occupare il terreno «nazionale» e pertanto su questo
argomento fanno promesse ancor più demagogiche dei Republikaner. Il can-
celliere Kohl, ad esempio, è convinto che il successo dei Republikaner sia
dovuto all’incapacità dei grandi partiti a risolvere i problemi dell’asilo e della
sicurezza interna.
Per i grandi partiti tedeschi, insomma, il fenomeno dell’estrema destra si
riduce essenzialmente a un problema elettorale. Ma è molto dubbio che i
tentativi di occupare il campo di azione dei Republikaner avranno come ri-
sultato la loro scomparsa. In tutte le elezioni in cui sono stati messi in discus-
sione il diritto di asilo e i problemi degli immigrati (elezioni comunali nell’As-
sia e regionali nel Baden-Wurttemberg e nello Schleswig-Holstein del 1993),
l’estrema destra ha riscosso un grande successo. È anche evidente che l’ap-
propriazione dell’ideologia volkischda parte dei grandi partiti serve soltanto a
consolidare il potenziale degli atteggiamenti xenofobi.
L’identità volkisch, largamente diffusa nella società tedesca, resta per
l’estrema destra un terreno assai fertile. C’è da temere che tale identità si sia
rafforzata in seguito alla riunificazione e al crollo degli imperi multinazionali.
L’ambiguità dell’identità nazionale tedesca, che si riferisce sia al demos («Wir
sind das Volk» – «il popolo siamo noi»), sia all’ethnos («Wir sind ein Volk» –
«noi siamo un solo popolo»; Ethnos è anche il nome della rivista di H. Ko-
schyk), persiste e ha segnato tutto il processo dell’unificazione. La Germania
difficilmente potrà permettersi di non impegnarsi a fondo nella ridefinizione
della propria identità nazionale senza rischiare di provocare nuove ondate
nazionaliste e xenofobe. Sarà fondamentale per l’avvenire riuscire a riconci-
liare finalmente dato nazionale e ragione democratica.

(traduzione di Liliana Piersanti)

Note
187. Vedi per esempio W. HEITMEYER, Rechsextremistiche Einstellungen bei Jugendliche, Weinheim 1987, Ju-
venta. Vedi anche la critica di A. PFAHL-TRAUGHBER, Rechtsextremismus, Bonn 1993, Bouvier, pp. 196 ss.
188. C. LEGGEWIE, Die Republikaner, Berlin 1990, Rotbuch Verlag, p. 18.
189. Vedi T. ASSHEUER-H. SARKOWICZ, Rechstradikale in Deutschland, Munchen 1990, Beck’sche Reihe, p. 9.
190. M. ENZENSBERGER, «Bin ich ein Deutscher?», in Wort und Sinn, a cura di K.-E. JEISMANN, G. MUTHA-
MANN, Paderborn 1973, F. Schoningh, p. 500-503. Per un’analisi più dettagliata, TH. LINDEMANN, Des Alle-
magnes et de l’Allemagne, Paris 1993, Fondation pour les Etudes de Defense Nationale.
191. Vedi T. ASSHEUER-H. SARKOWICZ, op. cit., p. 37.
192. C. LEGGEWIE, op. cit., pp. 123 ss.
193. Citato da P. GLOTZ, Der Irrweg des Nationalstaats, Stuttgart 1990, DVA, p. 77.
194. Citato da Y. MOREAU, Les fils d’Hitler, Paria 1993 l’Archipel, p. 78.
195. T. ASSHEUER-H. SARKOWICZ, op. cit., p. 19.
196. Ivi, p. 24. 159
IDENTITÀ NAZIONALE, IDEOLOGIA VOLKISCH E NUOVA DESTRA

197. Vedi F. HUNDSEDER, Stichwort Rechtsextremismus, Munchen 1993, Heyne Verlag, p. 20


198. Citato da Y. MOREAU, op. cit., p. 56.
199. Citato da CH. SANDLAR, «Die DVU in Bremen», Mémorie de Paris, n. 10/1993, p. 103.
200. Vedi Der Spiegel, n. 31/1993, p. 51.
201. Citato da H.J. SCHWAGERL, op. cit., p. 146.
202. Il programma dei Republikaner del 1987 è pubblicato in H. FUNKE, Republikaner, Berlin 1989, Aktion Suh-
nezeichen, pp. 152-163.
203. Ibidem.
204. Citato da Der spiegel, n. 31/1993, p. 51.
205. Citato da K. HIRSCH-B. HEIM, Von links nach rechts, Munchen 1993, Goldmann, p. 28.
206. Ivi, pp. 27 ss.
207. Citato da Y. MOREAU, op. cit., pp. 86 ss.
208. Citato da Le Nouvel Observateur, 30/12/1993, p. 36.
209. Citato da Y. MOREAU, op. cit., p. 124.
210. Vedi C. LEGGEWIE, op. cit., pp. 140-148.
211. Sondaggio Emnid, Der Spiegel, n. 15/1989, pp. 150-160, p. 164.
212. Sondaggio Eurobaromètre 31, 31 A, 32 (1989), pubblicato in P. BAUER, O. NIEDERMAYER, «Extrem rechtes
potentiai in den Landern der Europaiscben Gemeinachaft», Aus Politik und Zeitgeschiehte, voll. 16-17/90,
9/11/1990, pp. 15-26, p. 22.
213. Sondaggio Emnid, Der Spiegel, n 16,17/4/1989, pp. 151-163, p. 163.
214. Ibidem.
215. Ivi, p. 154.
216. Sondaggio Emnid citato da Werner Bergmann, «Antiaemitiamoa und Auslanderfeindlichkeit», in M. HES-
SLER, (a cura di), Zwischen Nationalstaat und multikultureller Gesellschaft, Berlin 1993, Hitit, pp. 115-131, p.
131.
217. Sondaggio Emnid, Der Spiegel, n. 21/1989, pp. 36-48, p. 45.
218. Sondaggio Emnid, Der Spiegel, n. 16/1989, p. 151.
219. Ibidem.
220. Ibidem.
221. Ivi, p. 163.
222. Ivi, p. 151.
223. Sondaggio Ipos, citato da D. ROTH, «Sind die Republikaner die fünfte Partei?», Aus politik und Zeitgeschich-
te, voll. 41-42/89, 6/10/1989, pp. 10-20.
224. Sondaggio Emnid, Der Spiegel, n. 15/1989, p. 156.
225. K.P. SCHOPFNER, citato da Der Spiegel, n. 21/1989, p. 48.
226. Ivi, p. 41.
227. Vedi Allensbacher Monatsbericht, FAZ, 18/3/1993, p. 5.
228. Istituto Wickert citato da G. PAUL, Hitlers Schatten verblafst, Bonn 1992, Dietz, p. 36.
229. Vedi W. HEITMEYER, «Rechtsextremistische Orientierungen bei Jugendlichen», op. cit., p. 182.
230. Citato da W. BRUBAKER, «Immigration, Citoyenneté et Etat-Nation en France et en Allemagne», Les Temps
modernes, luglio-agosto 1991, pp. 293-331, p. 323.
231. Ivi, p. 320.
232. Vedi D. OBERNDORFER, «Vom Nationalstaat zur offenen Republik», in Zwischen Nationalstaat und mul-
tikultereller Gesellschaft, op. cit., p. 53-66. Per conoscere meglio le idee volkisch: T. LINDEMANN, «Des Alle-
magnes et de l’Allemagne», op. cit.; o L. HOFFMANN, «Nationalstaat, Einwanderung und “Auslanderfeindli-
chkeit”», in Zwischen Nationalstaat und multkultureller Gesellachaft, op. cit., pp. 29-51.
233. W. BRUBAKER, op. cit., p. 300.
234. Citato da Der Spiegel, n. 11/1993, p. 53.
235. Vedi Suddeutsche Zeitung, 8/2/1994.
236. Citato da W. KOWALSKY, FAZ, 14/4/1993, p. 8.
237. Vedi Deutchland-Magazin, 10/91, p. 12.

160
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

L’UNIFICAZIONE
SPIEGATA
AI RAGAZZI di Bernd ZIELINSKI
Nei testi scolastici tedeschi si tende a semplificare la fine
della divisione della patria, quasi fosse lo sbocco di un processo
naturale. Un significativo brano tratto da un manuale
per ginnasiali.

L’ UNIFICAZIONE DEI DUE STATI TE-


deschi è oggi diventata oggetto di analisi storica. Naturalmente esistono inter-
pretazioni diverse e anche contrapposte, che vanno dalla veemente critica
contro l’Anschluss della Rdt e l’«imperialismo del marco» tedesco-occidentale fi-
no alla glorificazione di una «unificazione della patria» quasi espressione di una
legge naturale, opera del «Bismarck dei tempi moderni», il cancelliere Kohl. In
questo quadro vale la pena gettare uno sguardo ai libri di scuola tedeschi, per
capire come l’unificazione viene presentata ai giovani studenti. Il brano che
abbiamo scelto, e che pubblichiamo di seguito, è tratto da un manuale di storia
per la decima classe ginnasiale (238). Colpisce anzitutto un fatto: sono total-
mente omesse le difficili tappe che hanno segnato il percorso verso l’unità nei
due Stati tedeschi. È come se non vi fosse stata alternativa all’adesione della
Rdt alla RfG in base all’articolo 23 della Legge fondamentale. Non si parla di
un’altra opzione, presa in seria considerazione nel dibattito pubblico tra il 1989
e il 1990, tendente a elaborare una nuova costituzione pantedesca nello spirito
dell’articolo 146 della Legge fondamentale. Né ci si sofferma sulle modalità
dell’unificazione economica e monetaria decisa il 1 luglio 1990, e che è stata
oggetto di feroci polemiche, anche da parte del presidente von Weizsacker.
Nel contesto internazionale, secondo questo testo, non ci sarebbero sta-
te riguardo all’unificazione particolari difficoltà. Non sarebbe stato male, qui,
un riferimento ai timori talvolta assai notevoli che all’estero venivano allora
espressi a proposito di una Germania unita e del suo nuovo ruolo in Europa.
Questi timori, come è noto, erano stati accentuati dalla temporanea esitazio-
ne di Kohl a pronunciare una parola chiara sul carattere definitivo della linea
Oder-Neisse come frontiera orientale tedesca. Il libro sembra piuttosto favo-
rire una visione germanocentrica, che naturalmente analizza l’unificazione
come un evento abbastanza privo di problemi. Non si può pretendere da un 161
L’UNIFICAZIONE SPIEGATA AI RAGAZZI

libro di scuola di illuminare i processi storici nella loro complessità. Questo


già solo per il tempo limitato che i piani di studio concedono al trattamento
di questi temi. Inoltre l’insegnante può integrare il testo con altri materiali. E
tuttavia il brano qui presentato contiene un pericolo. Ed è quello di descrive-
re un processo storico ricco di sfaccettature e di contraddizioni a posteriori in
modo quasi teleogico, come se fosse stata l’unica variante possibile.

Come si è unificata la Germania


«La via all’unificazione».Dopo le «manifestazioni del lunedì» e la caduta
di Erich Honecker, le proteste di massa nella Rdt continuarono. Le rivendica-
zioni dei dimostranti si indirizzavano generalmente contro il monopolio del
potere da parte della SED, contro l’incapacità del governo e contro la divisio-
ne della Germania. Un organismo formato da rappresentanti dei gruppi di
opposizione, della SED e delle due Chiese si riunì intorno a una «tavola ro-
tonda» sulla futura politica del governo della Rdt. Non essendosi riuscito a
trovare un compromesso, si dovette ricorrere alle elezioni per legittimare un
nuovo governo democratico. Il cancelliere federale Kohl propose un Pro-
gramma in 10 punti, con l’obiettivo di creare al più presto uno Stato tedesco
federale. Sotto la pressione degli avvenimenti, il 18 marzo venne eletta la Ca-
mera del Popolo. La maggioranza dei cittadini della Rdt si decise a favore dei
partiti che volevano una rapida e diretta adesione alla Bundesrepublik.
«Germania patria unita».La Camera del Popolo elesse il leader della
CDU, Lothar de Maizière, alla carica di primo ministro. Costui intavolò subito
trattative con la RfG, che produssero un «Trattato di Stato per la creazione di
un’unione monetaria, economica e sociale». Il 3 ottobre 1990 la Rdt aderì uffi-
cialmente alla RfG. Così fu realizzata quell’unificazione delle due parti della
Germania per libera scelta, rivendicata nel preambolo della Legge fonda-
mentale. Seguirono in ottobre le elezioni dei parlamenti regionali dei ricosti-
tuiti Lander federali di Sassonia, Sassonia-Anhalt, Meclenburgo-Pomerania
Anteriore, Turingia e Brandeburgo. Le prime elezioni pantedesche per il par-
lamento federale si tennero il 2 dicembre, vinte dalla CDU-CSU.
La fine delle prerogative alleate sulla Germania. Poiché l’unificazione
della Germania poteva realizzarsi solo con l’accordo delle potenze vincitrici
della seconda guerra mondiale, Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna
e Francia avviarono il cosiddetto negoziato «2+4». Malgrado certe riserve su
una Germania unita, già il 12 settembre 1991 le quattro potenze poterono fir-
mare i documenti negoziali. Dopo la ratifica dei rispettivi parlamentari, le ul-
time prerogative alleate passarono a una Germania sovrana. Così terminò
l’ultimo capitolo della storia del dopoguerra tedesco».
(traduzione di Alberto Probaska)
Note
238. Il brano scelto è tratto da Oldenbourg Geschichte fur Gymnasien - 10, a cura di Bernhard Heinloth, Olden-
162 bourg 1992, pp. 69-70.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

DAL BRANDEBURGO
RINASCE UN’IDENTITÀ
ORIENTALE? di Sophie LORRAIN e Karl SCHELTHAUER

La tenuta elettorale della PDS, il partito ex comunista della Rdt,


segnala la persistenza di una matrice dell’Est nella Germania
unificata. Quando il rapporto con il passato aiuta a vincere.
Il caso di Potsdam città ‘rossa’.

N EL PERIODO CHE VA DAL DICEMBRE


1993 al dicembre 1994 erano previste, in Germania, 19 elezioni amministrati-
ve, senza contare le elezioni europee e quelle del Bundestag in ottobre. An-
dando a cadere tre anni dopo un voto che aveva ancora beneficiato del cli-
ma euforico della riunificazione, le elezioni del Brandeburgo, nel dicembre
scorso, sono state le prime in grado di riflettere una valutazione dei successi
o dei fallimenti del processo storico in atto.
Le elezioni dovevano consentire di capire se l’innesto delle strutture po-
litiche dei cinque nuovi Lander, nella quasi totalità importate dall’Ovest,
avesse attecchito o meno. Le ripercussioni non avrebbero quindi dovuto es-
sere omogenee e al rapporto proporzionale di uno a quattro fra le popola-
zioni di quelle che erano state le due metà della Germania. Nelle motivazioni
del voto dell’elettorato dell’Est, che assommavano considerazioni di carattere
generale (la riunificazione ha migliorato le cose?), personale (quali sono state
le conseguenze sulla vita di ciascuno?) e politico (quale partito è maggior-
mente in grado di risolvere i problemi?), la situazione precedente alla caduta
del Muro doveva inevitabilmente figurare come elemento di paragone – sen-
za per questo essere necessariamente espressione di una nostalgia. Le ele-
zioni si potevano quindi leggere come un giudizio dell’Est sull’Ovest, ma an-
che, visto che il Brandeburgo è l’unico Land dell’Est retto da una coalizione
guidata dalla SPD, come un bilancio redatto dai partiti di opposizione
sull’operato dei partiti di governo.
2. A causa della ristrutturazione amministrativa del Land del Brandeburgo, i
suoi 1,9 milioni di votanti chiamati alle urne il 3 dicembre 1993 hanno eletto
consigli di Comuni e circoscrizioni che rimarranno in carica 5 anni, mentre il
mandato di sindaci e presidenti dei Consigli municipali durerà 8 anni. Il diritto
comunale, antico residuo dei privilegi accordati alle città libere medioevali, è di
esclusiva competenza del Land e concede, in particolare nel caso di Bradenbur- 163
DAL BRANDEBURGO RINASCE UN’IDENTITÀ ORIENTALE?

go, una notevole autonomia gestionale agli organi locali. Le prerogative di que-
sti ultimi si estendono fra l’altro ai trasporti, alla formazione professionale, alla
pianificazione urbana, alla protezione dell’ambiente e alla manutenzione delle
infrastrutture (scuole, musei, teatri). La scomparsa di partiti come le associazioni
di contadini (2,97%), le unioni civiche (1,58%) e le alleanze elettorali per le don-
ne (che hanno ottenuto 2 seggi a Francoforte sull’Oder e 3 a Cottbus) è la parti-
colarità tedesco-orientale di queste elezioni (cfr. tabella 1). L’estrema destra rac-
coglie, in tutto, l’1% dei suffragi espressi. Inoltre, la SPD conquista le città «fuori-
circoscrizione» di Brandeburgo-Havel e di Potsdam. La CDU vince a Cottbus,
Alleanza 90-Verdi conquista Francoforte sull’Oder. A rigore la PDS non ha un
suo feudo, ma figura come seconda forza in tutte le circoscrizioni.

Tabella 1. RISULTATI DELLE ELEZIONI NEL LAND BRANDEBURGO (IN %)

1990 1993 variazione*

SPD 28,7 34,5 + 5,8


PDS 16,5 21,2 + 4,7
CDU 31,8 20,5 - 11,3
FDP 6,0 7,8 + 1,8
Alleanza 90-Verdi 3,8 4,2 + 0,4

* Tenendo conto del calo della partecipazione, crollata dal 74,5% delle elezioni comunali del 1990
al 59,7% delle ultime consultazioni, si nota che in termini assoluti tutti i partiti perdono voti (la
CDU più di 600 mila, la SPD 32 mila), a eccezione della PDS, che si mantiene stabile.

3. Il duello che si è scatenato nella corsa per il Comune di Potsdam ha


certamente contribuito a riscaldare gli animi e a far salire la tensione. In effetti,
dopo il primo turno, il candidato della PDS alla poltrona di sindaco, Rolf
Kutzmutz, era in vantaggio sul suo concorrente della SPD, Horst Gramlich:
45,3% contro 29,5%. Poco tempo prima delle elezioni era venuta alla luce l’at-
tività di collaboratore non ufficiale della Stasi svolta, fra il 1971 e il 1974, da
Kutzmutz, il quale si era poi fatto ritrarre nei manifesti elettorali tra due slo-
gan: «Meine Biographie beginnt nicht erst 1989 – Ich lasse mir den Mut nicht
nehmen» («La mia vita non è cominciata solo nel 1989 – Non mi faccio scorag-
giare»). Lungi dal costruire un handicap, l’ammissione esplicita della collabo-
razione con gli organismi repressivi si è rivelata un azzardo elettorale vincen-
te. Le stimmate si sono trasformate in un rimedio contro i mali della riunifica-
zione; con questa prima scelta, umorale o convinta che fosse, gli elettori vole-
vano rivendicare la facoltà di giudizio sul proprio passato, a qualsiasi costo –
anche a costo di un ritorno al passato. Il 19 dicembre, al momento dello scru-
tinio di ballottaggio, l’union sacrée costituita grazie alla mobilitazione dei voti
degli altri partiti ha assicurato la vittoria a Gramlich, candidato della SPD, con
il 54,9% dei suffragi contro il 45,1% attribuito a Kutzmutz.
4. Gli osservatori della vita quotidiana nella Germania Est hanno notato
164 negli ultimi mesi un forte aumento della domanda di prodotti made in East-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

Germany. Questa attrazione alimentare per l’Est, che secondo i sondaggi


coinvolge l’82% degli abitanti dell’ex Rdt, si tradurrà sul piano politico in un
sostegno importante ai successori di coloro dei quali, quattro anni prima, ci
si era augurati la scomparsa? In altri termini, la PDS raccoglie consensi solo
perché «vende sentimenti», oppure semplicemente perché sa approfittare di
una particolare costellazione politica, soddisfacendo attese che non si collo-
cano esclusivamente sul piano affettivo del rapporto col passato? La com-
plessità della situazione attuale nei cinque nuovi Lander, e la stretta connes-
sione tra storia e percorso biografico, rendendo difficile una risposta univo-
ca. Una cosa è certa: dal punto di vista della strategia politica, se un partito A
sottintende che un partito B, quale che sia, deve la propria riuscita alla rap-
presentazione (nostalgica) di interessi originati dal passato di una popolazio-
ne riesce abilmente a scansare il dibattito circa le proprie competenze e le
proprie responsabilità nella situazione attuale.
Partendo dal principio che ogni voto è il risultato di un incontro di interes-
si razionali e affettivi tra una domanda e un’offerta in un contesto dato, con-
verrà mettere i due termini a confronto in modo da fornire, se non una risposta
definitiva, almeno qualche elemento di spiegazione del successo della PDS;
successo che in termini assoluti non si traduce in un vero e proprio sfonda-
mento, quanto piuttosto in una stabilizzazione dell’elettorato nel momento in
cui i partiti tradizionali dell’ex RfG occidentale vedono sgretolarsi il proprio.
5. Nei cinque nuovi Lander la PDS rimane il partito più importante nono-
stante il calo di iscritti, passati dai 2,2 milioni del 1989 ai 280 mila del 1990 per
stabilizzarsi, nel 1993, su una quota di 140 mila. In un paesaggio politico nel
quale i partiti hanno avuto difficoltà a reperire candidati a causa della pletora
di nuovi posti vacanti, questa «squadra di riserva» costituisce un vantaggio in
grado di ovviare alla deficienza quantitativa della classe politica – a titolo
d’esempio, la SPD conta, sul territorio della ex Rdt, solo 27 mila iscritti. Il fatto
che il 95% dei membri della PDS abbiano fatto parte della SED lascia supporre
che quest’ultima disponga di una sicura conoscenza del territorio e di una ba-
se importante sul piano locale. Dato che il 60% della popolazione tedesco-
orientale non associa più automaticamente la PDS alla SED, questo radica-
mento locale non è irrilevante nel caso di consultazioni minori le quali, sullo
sfondo di un orientamento politico fluttuante, vengono decise più dalla singo-
la persona che da partito. Volendo sia conservare la propria base a Est che
prendere piede a Ovest, la PDS gioca su due tavoli, come dimostra lo slogan
della sua campagna elettorale: «Aus dem Osten, kommt die Pds / selbstkritisch,
solidarisch, / selbstbewusst / und ist langst / angekommen im Westen»(«La Pds
viene dall’Est / autocritica, solidale, sicura di sé / e da tempo è arrivata all’Ove-
st»). Nel gennaio del 1993 Gregor Gysi, sul punto di abbandonare la guida del
partito, dichiara: «Molti compagni, all’interno della PDS, vogliono che la loro
adesione e il loro impegno politico siano una conferma della loro vita prece-
dente alla caduta del Muro, della loro biografia» (239). Volutamente rivolto al
passato, questo atteggiamento provoca negli elettori della PDS la sensazione
di «sentirsi a casa». Ma nella PDS esiste anche volontà concomitante di presen-
tarsi come un partito che si «dedica a problemi di ordine globale, che difende 165
DAL BRANDEBURGO RINASCE UN’IDENTITÀ ORIENTALE?

in modo conseguente posizioni di sinistra e che, a partire dagli interessi tede-


sco-orientali, sviluppa alternative valide per la società tedesca nel suo insieme»
(240). Nella misura in cui riuscirà a infiltrarsi nella breccia aperta dalla disaffe-
zione verso gli altri partiti, dal calo di prestigio di una CDU coinvolta in troppi
scandali a Est, e dall’incapacità della SPD di trarne profitto – a parte qualche
eccezione, tra cui Manfred Stolpe, Regina Hildebrandt e Wolfgang Thierse – la
PDS potrà confortare un risultato che in questo caso non va messo in conto
soltanto alla nostalgia del passato o alla rappresentazione di interessi esclusi-
vamente tedesco-orientali, ma a quello della capacità – agli occhi degli elettori
– di risolvere problemi economici e sociali del presente.
6. Cosa vogliono esprimere gli elettori attraverso i risultati di questo vo-
to? Se determinare l’offerta è relativamente facile, lo stesso non si può dire
della domanda; alla difficoltà tradizionale di penetrare nel segreto dell’urna
si aggiunge la novità assoluta della situazione tedesco-orientale, la cui popo-
lazione affronta, per la prima volta dopo quarant’anni, l’esperienza del plura-
lismo politico. L’estrema fluttuazione delle prese di posizione, così come la
crescita dell’astensionismo, che dalle prime elezioni democratiche alla Came-
ra del Popolo nel marzo del 1990 è aumentato del 20% a ogni scrutinio, ren-
dono difficile generalizzare i risultati del Brandeburgo.
In effetti, a differenza di quanto accade per la popolazione della ex RfG
occidentale, i tedeschi dell’Est non sono legati a un particolare partito per
tradizione sociale o culturale; di conseguenza, qualsiasi partito che, come la
PDS in questo caso, riuscirà a mobilitare i propri militanti meglio di quanto
facciano gli altri, si garantirà un vantaggio non trascurabile. A ciò si aggiunge
la difficoltà crescente, per i tedeschi dell’Est, di identificarsi con il modello di
società proposto dall’Ovest. Secondo un articolo apparso sulla Zeit (241), la
percentuale degli «integrati» sarebbe passata dal del 1990 al 52% del 1993, an-
che se il 60% si dichiara soddisfatto della propria situazione. La democrazia
dell’Ovest viene accettata razionalmente, ma senza una profonda convinzio-
ne emotiva. Ci si troverebbe quindi di fronte a una specificità delle reazioni
tedesco-orientali fondata sugli attuali atteggiamenti verso l’ex RfG occidenta-
le – e non soltanto sul ritorno rassicurante a un’identità tedesco-orientale
precedente la caduta del Muro: specificità che parrebbe tradursi in un voto di
protesta a vantaggio della PDS.
Se fornire qualche elemento utile a comprendere motivazioni e situazio-
ni tedesco-orientali è possibile, affermare che si tratti di manifestazioni di
un’identità tedesco-orientale è prematuro. Ma non si può escludere che, no-
nostante l’ingresso della Germania Est nel campo della cultura politica occi-
dentale, la buona tenuta dei successori del partito comunista dell’ex Rdt si
iscriva nella linea dei successi ottenuti dai partiti omologhi negli altri paesi di
quello che una volta era il blocco orientale.

Note
239. Citato in P. MOREAU «Das Wahljahr und die Strategieder PDS», supplemento della rivista Das Parlament,
Aus Politik und Zeitgeschichte, 7/1/1994, p. 22.
240. G. Gysi, citato Jahrbuch der Bundesrepublik Deutscbland, München 1993, Beck, p. 309.
166 241. Die Zeit, n. 40, 1/10/1993, dossier «Es wachst zusammen».
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

LA BAVIERA CERCA
IL SUO POSTO NELL’EUROPA
DELLE REGIONI di Dominic GUBA
L’evoluzione dello Stato ebraico attraverso le carte.
Dalle rappresentazioni bibliche alle rivendicazionini sioniste,
le frontiere di una terra contesa. Il difficile compromesso
fra pace e sicurezza.

L A SVOLTA NELLA POLITICA EUROPEA


della Germania, proposta da Edmund Stoiber, ministro-presidente bavarese e
vicepresidente della CSU (Unione cristiano-sociale), ha provocato forti rea-
zioni sia negli ambienti della coalizione sia tra l’opposizione. Nella ormai fa-
mosa intervista concessa alla Suddeutsche Zeitung nel novembre del 1993,
Stoiber ha suggerito di «abbandonare l’obiettivo di uno Stato federale euro-
peo» e di «frenare il processo di integrazione», in quanto «il Bundestag non
può essere svuotato della sua essenza» (242). Violente critiche sono state
mosse a Stoiber; in particolare per il carattere «nazionalista» delle sue dichia-
razioni, le intonazioni populiste ed elettoralistiche, nonché per aver messo in
questione la posizione dei partiti dell’Unione (CDU-CSU) sull’Europa.
Alcuni, per non dire la maggioranza, dei commentatori e uomini politici
temono che Stoiber intenda ritornare a una Europa di Stati-nazione isolati, e
sottolineano il carattere «nazionalista» delle sue dichiarazioni (243): il suggeri-
mento di «ritirarsi in una struttura di Stati-nazione è popolare ma sbagliato»
(244). Alcuni responsabili della SPD ritengono che occorra opporsi a questi
«clamori nazionalisti» che «ricordano il partito di Schonhuber», conseguenza
di «uno slittamento verso la destra della CDU-CSU», e il segretario di Stato al
ministero degli Esteri, signora Seiler-Albring (FDP), si è espressa contro una
simile «rinazionalizzazione della politica» (245).
Altri sottolineano il carattere eminentemente elettorale, cioè populista e
demagogico dell’intervista, mirante a trarre profitto dal generale euroscettici-
smo in vista della grande annata elettorale del 1994 (elezioni europee, regio-
nali e legislative). Così, Hornhues, vice presidente del gruppo parlamentare
CDU-CSU, osserva che Stoiber è spinto dalla preoccupazione di vedere la
CSU colpita dallo sbarramento del 5% nelle elezioni europee (246).
Suscitando il generale stupore, Stoiber ha anche dichiarato che tale rottu- 167
LA BAVIERA CERCA IL SUO POSTO NELL’EUROPA DELLE REGIONI

ra con la politica europea riguardava «l’Unione (CDU-CSU) nel suo comples-


so». I responsabili della CDU hanno evidentemente smentito con fermezza.
«Se Stoiber desidera rompere con la politica europea di Adenauer non parli a
nome della CDU; una CDU che abbandonasse l’obiettivo di un’irreversibile
integrazione europea sarebbe un altro partito» (Blens, presidente della Com-
missione mista Bundestag/Bundesrat) (247). Nella sua precisazione sulla po-
litica europea del governo, il cancelliere Kohl assicura quindi che non vi sarà
«un ritorno a un pensiero nazionalista» (nationalstaatliches Denken), accre-
ditando in questo modo la tesi di un «nazionalismo» di Stoiber (248). La con-
troversia ha coinvolto anche le file della CSU, il cui presidente, Theo Waigel,
ha dichiarato che non esiste «alternativa all’Europa» (249).
Indubbiamente Stoiber è un conservatore di una certa tempra, ed è evi-
dente che alle sue dichiarazioni non sono estranee motivazioni demagogi-
che. È ad ogni modo strano che si debba constatare come un problema es-
senziale sia stato a mala pena ricordato nell’ambito di questa controversia,
cioè l’avvenire del federalismo tedesco, e più in particolare della sovranità
bavarese, rispetto all’integrazione politica dell’Europa. Solamente Karl La-
mers, portavoce della CDU per la politica estera, osserva che in realtà Stoiber
si preoccupava di salvaguardare il carattere statale della Baviera (250). Infatti,
per Stoiber , «in uno Stato federale europeo, la Germania diverrebbe ciò che
è la Baviera in Germania», e di conseguenza «la Baviera perderebbe total-
mente la sua qualità di Stato (Staatlichkeit)». Per quanto gli interventi critici
abbiano ritenuto di non dover affrontare questo aspetto delle dichiarazioni
di Stoiber, si tratta di un aspetto fondamentale che, non a caso, ha un note-
vole rilievo nell’intervista, dove si legge: «Io intendo preservare il carattere
statale della Baviera, paese di 12 milioni di abitanti e con una tradizione sta-
tuale antica di secoli. Già nel 1871 siamo entrati a far parte del Reich più per-
ché costretti dalle circostanze che per nostra convinta adesione. Abbiamo
salvaguardato il nostro essere uno Stato pur nelle aspre discussioni che si so-
no avute al momento della fondazione della Repubblica federale».

La Baviera come Stato


Con i suoi 70.549 kmq, la Baviera è il più ampio Land della Repubblica fede-
rale Germania. Composta da sette distretti: Bassa e Alta Baviera, Alto Palatinato,
Alta, Media e Bassa Franconia e Svevia, la Baviera può apparire come l’unico
Stato tedesco la cui continuità sia stata garantita sino ai nostri giorni (251).
Sin dal VI secolo si forma la popolazione dei Baiovarii che si costituisce
in ducato tribale (Stammesherzogtum). Il duca Tassilone III viene deposto da
Carlo Magno nel 788. Nel 1180, Ottone di Wittelsbach si impadronisce del
ducato. La dinastia dei Wittelsbach regnerà sulla Baviera sino al 1918. Con la
crisi religiosa del XVI secolo, la Baviera acquisisce una particolare fisiono-
mia, segnata dalla sua fedeltà alla religione cattolica. La regione diviene uno
dei bastioni della Controriforma e, nel 1609, si costituisce a Monaco la Lega
168 cattolica guidata da Massimiliano I.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

La Baviera moderna è figlia della Rivoluzione francese e di Napoleone.


Dalle guerre napoleoniche nasce lo Staatsbayern, che diviene lo Stato più
importante della Germania meridionale. Per iniziativa del ministro Montgelas
(1799.1817), lo Stato si dà un’amministrazione centralizzata sul modello gia-
cobino. Dopo le sconfitte napoleoniche del 1813, la Baviera si schiera dalla
parte degli alleati. Grazie a questo mutamento di posizione, il Congresso di
Vienna (1815) riconosce alla Baviera la maggior parte delle sue conquiste
territoriali.
Lo Stato bavarese entra a far pane della Confederazione germanica nel
1815. Dopo la rivoluzione del 1848, la Baviera respinge il progetto prussiano
di una Germania da cui sia esclusa l’Austria (1849-1850). Poi, nel 1863, rassi-
curata dalla rivalità austro-prussiana che garantisce l’indipendenza degli Stati
medi, rifiuta di applicare senza la Prussia il progetto austriaco di riforma della
Confederazione. Durante il conflitto austro-prussiano del 1866, Ludovico Il si
schiera tuttavia dalla parte dell’Austria. Bismarck però, dopo la vittoria, ri-
sparmia la Baviera. L’opinione pubblica bavarese è sempre più ostile alla
Prussia e alla sua politica della piccola Germania.. La vittoria sulla Francia
rende inevitabile l’ingresso della Baviera nel nuovo impero. Con il trattato
del 23 novembre 1870, la Baviera si fa riconoscere un ceno numero di privi-
legi, i Reservatrechte. Il che non impedisce che il regno continui ad essere un
focolaio di forti tendenze separatiste durante tutta l’epoca guglielmina.
La Baviera viene proclamata Repubblica (Freistaat) l’8 novembre 1918.
Seguono mesi convulsi: governo socialista di Eisner e poi di Hoffmann; «Re-
pubblica dei Consigli» comunista; e infine riconquista di Monaco da parte
delle armate di Hoffmann. Nell’assetto della Repubblica di Weimar, di cui co-
stituisce uno dei 17 Lander, la Baviera perde la maggior parte della propria
autonomia sotto il governo von Kahr (1921-1924) e sotto il governo Held
(1924-1933). Lo Stato bavarese è totalmente cancellato dopo la presa del po-
tere da pane di Hitler e le leggi relative ai Lander del 1933 (Landergleich-
schaltung).
Il governo militare americano ripristina la Baviera nel settembre 1946. Lo
stesso anno il Freistaat Bayern si da una costituzione che nel suo preambolo
fa appello alla memoria della millenaria storia del popolo bavarese (252). La
continuità territoriale e la sua tradizione quale Stato fanno della Baviera l’uni-
co Land storico della Repubblica federale Germania, eccettuate le città-Stato
di Amburgo e Brema, e i suoi esponenti politici sono consci di tale situazio-
ne, come dimostrano le dichiarazioni di Stoiber o anche di F.J. Strauss il qua-
le osservava che la «Baviera si distingue per il suo carattere di Stato sviluppa-
tosi in oltre mille anni e per la sua ininterrotta coscienza storica» (253).

Il monopolio politico della CSU sul territorio bavarese


La CSU fa ampio assegnamento sulle rappresentazioni storiche della Ba-
viera e del suo Stato, da noi ora descritte, e da esse trae attualmente la sua
principale legittimazione. Ed è interessante, sotto questo profilo, rifarsi agli 169
LA BAVIERA CERCA IL SUO POSTO NELL’EUROPA DELLE REGIONI

inizi della CSU, al momento in cui il problema del posto che la Baviera
avrebbe avuto nella Germania era al centro dei dibattiti.
Quando, nell’autunno 1945, si forma la CSU, i suoi creatori provenivano
da due tradizioni politiche differenti. Da una parte coloro che rappresentava-
no la tendenza interconfessionale dei sindacalisti della vecchia Bayerische
Zentrumspartei, dall’altra gli eredi della Bayerische Volkspartei (BVP), cattoli-
ci e bavaro-federalisti. Scopo della CSU era creare un vero partito popolare
cristiano, che superasse le antiche divisioni geopolitiche della Baviera. Infatti
la Baviera è divisa in tre tradizionali zone geopolitiche: Franconia, Svevia e
Antica Baviera (Altbayern). La Franconia è una regione confessionalmente
mista: di tradizione cattolica a Wurzburg, Bamberg e Eichstatt, di tradizione
protestante a Ansbach e Bayreuth. La Bassa Franconia è abbastanza omoge-
neamente cattolica, mentre la Media e la Alta Franconia sono territori misti a
maggioranza protestante. La Svevia bavarese è a grande maggioranza cattoli-
ca, come pure l’Antica Baviera (Alta e Bassa Baviera, Alto palatinato). Questa
rappresenta un’unità politica quasi ininterrotta sin dal primo millennio, ad
eccezione dell’Alto Palatinato. Dalla fine del XIX secolo, Alta e Media Fran-
conia erano fortemente caratterizzate dal liberalismo e dalla socialdemocra-
zia, mentre il resto della regione, e ciò vale soprattutto per l’Antica Baviera,
era patriottico, cattolico e conservatore (254).
Dal suo costituirsi nel 1945, questa divisione tradizionale tra una Baviera
protestante e liberale e una Baviera cattolica, conservatrice e patriottica, si ri-
proponeva all’interno della CSU. Il suo primo presidente, Josef Muller (1945-
1949), della cui cerchia facevano parte Adam Stegerwald, August Haussleit-
ner, Wilhelm Eichhorn, Paul Nereter e Wilhelm von Prittwitz und Gaffron, si
basava sulla tradizione francone liberale e «unitarista» (reichstreu) ereditata
dall’ala interconfessionale e sindacalista della Zentrumspartei. Alois Hund-
hammer, Fritz Schaffer e Anton Pfeiffer erano gli eredi della BVP, nutriti di
cattolicesimo, di conservatorismo e di patriottismo bavarese. Per realizzare il
proprio obiettivo di diventare un vero partito popolare in Baviera, la CSU
doveva dunque riunire queste due tendenze per insediarsi in modo stabile
nella Antica Baviera, come pure nell’Alta e Media Franconia, di cui le due
correnti costituivano il riflesso.
Nel 1946, la CSU viene riconosciuta come Land dal governo militare
americano. Ciò facilitava le cose per la corrente unitarista, in quanto, al mo-
mento, rappresentava l’unico partito antisocialista a connotazione patriottica
in Baviera. Per quanto «reichstreu», Josef Muller e i suoi non lasciavano tutta-
via dubbi possibili in merito alla loro volontà di vedere realizzarsi una costi-
tuzione federale in Germania. La CSU si trovava quindi divisa tra federalisti
radicali e moderati. Avendo ottenuto la maggioranza assoluta nelle prime
elezioni regionali del 1946 (52,3%), la CSU avrebbe potuto governare da so-
la. Non lo consentivano però le tensioni esistenti tra le due correnti. Così i
patrioti di Hundhammer progettavano una coalizione con la SPD per evitare
che la presidenza del Consiglio sfuggisse a Muller. Sostenuto dalla grande
maggioranza dei deputati, Hundhammer prese il sopravvento. All’elezione
170 della presidenza del Consiglio, Muller venne battuto a vantaggio di Hans
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

Ehard, e si formò un governo di coalizione con la SPD e la WAV (Wirtschaf-


tliche Aufbau-Vereinigung). Spaccata tra unitaristi e patrioti, nel 1948-1949 la
CSU correva il rischio di scomparire. Muller non venne rieletto presidente
nel 1949 e lasciò il suo posto al ministro-presidente Hans Ehard, un patriota
moderato.
Il conflitto interno alla CSU riguardo al problema del federalismo e del
posto che avrebbe occupato la Baviera all’interno della Germania era forte-
mente influenzato dal rapporto concorrenziale che la CSU aveva stabilito con
la Bayernpartei (BP) sin dal 1948 (255). Fondata nel 1946 da Max Lallinger, la 171
LA BAVIERA CERCA IL SUO POSTO NELL’EUROPA DELLE REGIONI

BP aveva ottenuto l’autorizzazione dagli americani solo nel 1948. Si trattava


di un partito estremamente federalista, separatista persino, in un primo tem-
po anticlericale con connotazioni socialiste. Durante gli anni 1947-’48 si pro-
dusse una vera e propria rinascita del patriottismo bavarese. I motivi erano
vari: denazificazione, problema dei milioni di rifiugiati dai Sudeti, situazione
economica disastrosa, come pure il contestato insediamento del Wirtschaft-
srat di Francoforte quale prima istituzione centralizzata. Per diventare il vero
partito popolare bavarese, la CSU doveva identificarsi con la Baviera. Sotto
questo aspetto, la SPD era soltanto un concorrente minore, mentre la BP era,
per usare le parole di F.J. Strauss, il vero «nemico strategico» (256).
Il problema del federalismo e della futura posizione della Baviera era un
punto fondamentale dei rapporti esistenti tra i due partiti. La controversia tra
unitaristi e particolaristi all’interno della CSU giocava a favore della BP, che ac-
coglieva i particolaristi più accesi della CSU, come ad esempio Joseph Baum-
gartner. Inoltre, la BP attirava a sé l’elettorato soprattutto nell’Antica Baviera,
dove la tradizione patriottica era più forte. Alle elezioni legislative del 1949, la
BP ottenne il 20,9% dei voti (CSU 29,2%) il 17,9% alle elezioni regionali del
1950 (CSU 27,8%, SPD 28%). La BP si avvantaggiava ampiamente delle perdi-
te della CSU, divenendo il terzo partito della Baviera. Tuttavia la BP entrava in
crisi sin dal 1949, anno in cui la situazione politica cominciava a stabilizzarsi
dopo la creazione della Repubblica federale Germania. Reagendo ai successi
ottenuti dalla BP alla fine degli anni Quaranta, la CSU difendeva un federali-
smo più esplicito, il che portò, ad esempio, al famoso rifiuto della Dieta bava-
rese di votare la Legge fondamentale del 1949 a causa delle sue carenze in
materia di federalismo. Ma, con la nascita della Repubblica federale e la parte-
cipazione della CSU al governo, il partito cominciava a mettere in sordina le
proprie posizioni ultrafederaliste, come, peraltro, stava facendo uno dei soste-
nitori (moderati) di queste tesi, Fritz Schaffer, divenuto nel frattempo ministro
federale delle Finanze. Ad Ogni modo, la CSU non rinunciò mai al suo di-
chiarato federalismo. Il punto è che il risanamento economico e la stabilizza-
zione politica erano stati ormai raggiunti; inoltre, gli inizi della guerra fredda e
della politica occidentale di Adenauer relegavano in secondo piano la «que-
stione bavarese». D’altra parte il federalismo, quale poteva essere praticato a
Monaco o Bonn dalla CSU, tornava da questo momento utile al partito per
consolidare la sua posizione dominante in Baviera, definitivamente conqui-
stata dopo aver riguadagnato l’elettorato perso a vantaggio della BP.
Il fenomeno del partito-Stato CSU è unico nella storia della Germania. Al-
le elezioni legislative, la CSU è il partito che detiene la maggioranza assoluta
in Baviera dal 1957, e da quella data non è mai sceso al disotto del 50% (257).
Retrospettivamente, Strauss analizzava questo fenomeno di un partito-
Stato in questi termini: «La posizione insolita della CSU, basata sulla storia e la
tradizione bavarese, poggia su tre pilastri politici. (...) Primo pilastro: concen-
trazione di forze politiche di uno stesso ceppo. Ed è per questo che ritenevo
sin dagli inizi la BP un elemento superfluo. (...) Secondo pilastro: laicizzazio-
ne e liberalizzazione del partito. Terzo pilastro: identificazione della CSU con
172 la Baviera» (258).
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

Ora, detenere il potere in Baviera significa governare uno degli Stati eu-
ropei più importanti a livello economico. Ancora molto arretrata economica-
mente alla fine della guerra, la Baviera è attualmente una delle regioni euro-
pee più prospere e dinamiche. Il pil bavarese nel 1990 era di 133 miliardi di
dollari, il che la poneva al settimo posto nella Cee, poco al disotto dei Paesi
Bassi (142 miliardi di dollari). Calcolando il pil per abitante è superata in Eu-
ropa soltanto dalla Danimarca. È anche il 12° esportatore mondiale e il suo
tasso di disoccupazione è nettamente inferiore alla media europea (4,9% nel
1992). Con il più basso debito pubblico dei Lander, le spese pubbliche della
Baviera raggiungono i 47,7 miliardi di marchi tedeschi. Lo Stato, governato
da oltre trent’anni dalla sola CSU, è quindi non soltanto uno dei più antichi
d’Europa, come amano ripetere i dirigenti della CSU, ma anche uno dei più
ricchi, e questo notevole potere è strenuamente difeso nei confronti delle
tendenze centralizzatrici tedesche ed europee.

Una geopolitica in trasformazione


Come abbiamo visto, la CSU integra due elementi essenziali nelle sue
rappresentazioni: l’eredità plurisecolare di uno Stato bavarese più o meno
sovrano, e insieme la sua legittimità quale partito bavarese, acquisita da lun-
ga data presso la maggioranza dell’elettorato. Ne consegue che il governo
bavarese guidato dalla CSU tradizionalmente difende la sua autonomia, sia a
livello nazionale sia europeo. Le dichiarazioni di Stoiber non fanno altro che
iscriversi in questa tradizione. La tutela della sovranità dello Stato bavarese e
del suo diritto a partecipare alle decisioni in materia nazionale ed europea è
un punto centrale delle politiche via via adottate dalla cancelleria bavarese.
In tale prospettiva, la cancelleria bavarese non vedeva di buon occhio
la creazione nel 1969 di nuove «comuni competenze» (Gemeinschaftsaufga-
ben) da parte della grande coalizione, allora iscritte nell’articolo 91 della
Legge fondamentale (Lf) (costruzione di università, infrastrutture economi-
che e agrarie regionali eccetera). Pur essendo queste principalmente di
competenza dei Lander, la partecipazione finanziaria di Bonn per il 50%
crea, secondo il governo bavarese, una certa dipendenza nei confronti di
questo. Monaco continua poi a criticare l’assegnazione delle risorse federali
ai Lander in materia di finanziamento agli ospedali, di alloggi sociali e di in-
frastrutture comunali, anche questa decisa al tempo della grande coalizione
(art. 104 par. 4 Lf), ritenendo che Bonn non sia in grado di valutare corretta-
mente le necessità dei Lander. Il che testimonia a livello nazionale la preoc-
cupazione di sussidiarietà della CSU e della cancelleria bavarese. D’altron-
de, non a caso la CSU cerca di accaparrarsi il portafoglio delle Finanze
quando è al potere a Bonn. Dato che il federalismo crea soprattutto conflitti
finanziari sul piano interno, il detenere il ministero delle Finanze rappresen-
ta, di conseguenza, un importante sistema di controllo. La CSU lo ha veloce-
mente capito e, come scrive F.J. Strauss, ha stabilito «un rapporto erotico
con quel portafoglio (259). 173
LA BAVIERA CERCA IL SUO POSTO NELL’EUROPA DELLE REGIONI

Il regionalismo nei confronti dell’Europa


La questione del destino del federalismo nella futura Unione politica eu-
ropea è un problema esclusivamente tedesco, nella misura in cui la Germa-
nia è l’unico Stato realmente federale dell’Unione europea. I Lander, e per
prima la Baviera, temono che con questa essi retrocedano a semplici unità
amministrative perdendo le loro competenze sovrane. Essi sono sempre stati
attenti a tutelare le proprie competenze nei confronti dell’integrazione euro-
pea, e questo sin dalla creazione della Ceca.
Difendendo la propria sovranità a livello nazionale, il governo bavarese
non si preclude, evidentemente, di agire allo stesso modo a livello europeo.
Appellandosi al federalismo all’interno della politica nazionale, la cancelleria
bavarese si adopera per difendere il regionalismo a livello europeo. Tale
geopolitica non è diretta soltanto contro Bruxelles, ma anche contro il gover-
no federale di Bonn che ignora i Lander in materia comunitaria. È una politi-
ca regionalista che costituisce una priorità di Monaco, soprattutto dopo l’Atto
unico europeo del 1985, definito da Stoiber «la goccia che ha fatto traboccare
il vaso» (260). Dall’aprile 1986, la Dieta bavarese è preoccupata dalle conse-
guenze dell’Atto unico e reclama un effettivo diritto di controllo sulla politica
europea di Bonn; ed è per iniziativa bavarese che le disposizioni in base alle
quali il governo federale ha un dovere di consultazione e informazione nei
confronti dei Lander furono adottate nella legge di ratifica (Zustimmungsge-
setz) dell’Atto unico del 19 dicembre 1986. In questa legge viene anche stabi-
lito che per il futuro il governo federale si impegna a tener conto dei suggeri-
menti dei Lander in merito alle questioni di loro esclusiva competenza.
Nell’ottobre 1987, Monaco riunisce i rappresentanti dei Lander che adottano
le «10 tesi di Monaco», sottoscrivendo in particolare che «i Lander devono
conservare delle proprie competenze specifiche accanto alla realizzazione
amministrativa, come ad esempio la politica sull’educazione, la cultura, le in-
frastrutture regionali, la ricerca e la sanità».
Preoccupata di far sentire la propria voce a Bruxelles, la Baviera vi insedia
nel 1987 una rappresentanza. Poi, nel 1988, il ministero per gli Affari federali
viene trasformato in ministero per gli Affari federali ed europei. A partire dal
1990, per sottolineare ulteriormente l’importanza attribuita alla politica euro-
pea, il ministro-presidente bavarese è assistito da un «incaricato d’affari perso-
nale per le questioni concernenti il federalismo e il regionalismo in Europa».
La politica europea della Baviera è quindi molto attiva. Nell’ottobre 1989,
Max Streibl invita a Monaco, al convegno «Europa delle regioni», diversi rap-
presentanti regionali d’Europa. In tale occasione propone un’Europa struttu-
rata a tre livelli: regionale, nazionale ed europeo. Ciò per garantire che le re-
gioni conserveranno la loro sovranità (nel caso tedesco) e che parteciperan-
no attivamente alla creazione di un’autentica coscienza politica europea. Tali
rivendicazioni, assieme alle «10 tesi di Monaco», vengono ripresentate nel
1990 dal Bundesrat. Il 24 agosto 1992, questo formula quattro richieste nei
confronti del governo federale in vista del futuro trattato dell’Unione euro-
174 pea: adozione del principio di sussidiarietà, partecipazione al Consiglio eu-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

ropeo di un rappresentante delle regioni ove il tema lo richieda, creazione di


un organismo regionale e possibilità per le regioni di fare ricorso alla Corte
di giustizia della Comunità europea.
L’impegno del governo bavarese a favore del regionalismo in Europa ha
dato i suoi frutti. Delle quattro rivendicazioni espresse dal Bundesrat, di cui i
rappresentanti bavaresi sono da lunga data i difensori, tre sono state alla fine
adottare dal Trattato di Maastricht: il principio di suddisidiarietà (art. 3b), la
possibilità per i rappresentanti regionali di partecipare, in alcune situazioni,
al Consiglio (art: 146) e la creazione di un Consiglio consultivo delle regioni
(art. 198 a-c). Inoltre, a livello nazionale, sono state decise importanti modifi-
che costituzionali, che sanciscono la partecipazione dei Lander alla politica
europea della Germania, in particolare il nuovo articolo 23 della Legge fon-
damentale. D’ora innanzi il governo non può procedere a trasferimenti di so-
vranità se non con il consenso del Bundesrat (art. 23,1). Per le questioni atti-
nenti la competenza dei Lander, il governo è tenuto a rispettare la volontà
del Bundesrat (art. 23,5). In merito alle questioni di loro esclusiva competen-
za, il Bundesrat nomina un rappresentante dei Lander che agisce assieme al
governo a nome della Repubblica federale Germania. Il nuovo articolo 52
par. 3a istituisce una Camera europea al Bundesrat.

Dal regionalismo al nazional-regionalismo


Il Trattato di Unione europea del 1992 si presenta come una tappa verso
l’unione politica dell’Europa. Ora, le modalità di tale integrazione politica so-
no ancora da definire. Per il governo bavarese e per la CSU, la posta in gioco
è chiara. Si tratta di evitare ad ogni costo l’evoluzione verso una federazione,
che metterebbe in discussione il federalismo tedesco e la sovranità bavarese.
Cosa che significherebbe una non tollerabile perdita di potere.
Ma il regionalismo quale era stato difeso sino a quel momento non è più
adeguato alla nuova situazione. Dopo la vittoria costituzionale dei Lander
(art. 23), il governo bavarese si è in qualche modo riconciliato con la Federa-
zione in materia comunitaria. Esso può ora ritenere che i Lander potranno
esercitare un’azione efficace attraverso il loro Stato federale. Il che porta a
un’evoluzione della strategia della CSU da una geopolitica regionalista a una
geopolitica nazional-regionalista. Infatti, la difesa della sovranità bavarese
non passa più soltanto attraverso la rivendicazione di competenze per le re-
gioni (sussidiarietà eccetera), ma anche attraverso la salvaguardia dello Sta-
to-nazione che, dopo le modifiche costituzionali, tutela la sovranità dei Lan-
der. Alla convenzione dell’ottobre 1993, quindi a breve distanza dalle dichia-
razioni di Stoiber, la CSU ha deciso un nuovo programma di base (Grund-
satzprogramm)in sostituzione di quello del 1976. Questo stabilisce che
«l’identità della nazione tedesca e la qualità di Stato della Baviera permango-
no» e che «la CSU non aspira a uno Stato federale europeo, ma a un’Europa
delle nazioni» (261). Non si parla dunque più unicamente di «regioni», ma la
CSU si riferisce oggi anche alla «nazione». 175
LA BAVIERA CERCA IL SUO POSTO NELL’EUROPA DELLE REGIONI

Si tratta inoltre di vigilare affinché il principio di sussidiarietà venga ap-


plicato nella giusta direzione, cioè in quella di una rivalutazione delle istanze
nazionali e regionali rispetto a Bruxelles. Infatti, il principio in base al quale
vanno risolte a livello comunitario soltanto le questioni che non possono es-
sere efficacemente risolte a livello nazionale o regionale lascia aperto un in-
terrogativo: quali sono i problemi per cui bastano i regolamenti nazionali o
regionali? Un interrogativo che fa prevedere aspre controversie all’interno
della nuova Unione europea. Anche su questo punto la CSU è molto esplici-
ta. Solamente i problemi riguardanti la politica estera e di sicurezza, le norme
sociali ed ecologiche minimali, la concorrenza, la criminalità e l’immigrazio-
ne dovranno essere soggetti a una normativa di Bruxelles.
Non devono quindi sorprendere le dichiarazioni di Stoiber del novem-
bre 1993. Le posizioni del ministro-presidente non sono che la logica conse-
guenza di un’azione condotta da tempo da parte del governo bavarese e del-
la CSU. Sulla base dell’antichissima tradizione statale e autonomista della Ba-
viera, Land che la CSU guida con una maggioranza assoluta da diversi de-
cenni e con il quale si è da tempo prodotto un processo di identificazione,
questo partito non fa che adattare le proprie critiche alla nuova realtà
dell’Unione europea, la quale rimette in discussione il federalismo tedesco e,
come alcuni ritengono, porterà necessariamente alla scomparsa di alcuni
Lander (262). Di fronte all’integrazione politica dell’Europa, la CSU si trova
davanti a un problema fondamentale che va ben oltre gli attuali calcoli elet-
torali. Come ha peraltro riconosciuto Stoiber nella sua intervista: «Noi abbia-
mo sempre pensato che la nostra straordinaria forza risiedesse nel fatto che
ci occupiamo di problemi specificamente bavaresi, a favore dei quali abbia-
mo fatto pressioni a Bonn, esercitando anche il veto per forzare alcune solu-
zioni. Noi siamo coloro che rappresentano in modo ideale gli interessi bava-
resi. In considerazione di ciò, diciamo agli elettori: rendeteci forti affinché
noi riusciamo a conquistare per voi i maggiori vantaggi. Tale possibilità di
rappresentare gli interessi bavaresi verrebbe ad essere fortemente compro-
messa da uno Stato europeo». Attualmente la CSU, che è in realtà un partito
bavarese e che ha sempre posto l’accento sulla propria autonomia da Bonn,
è costretta a impegnarsi a favore di un’integrazione ancora più accentuata. Si
tratta di una tensione interna, forse non realizzata integralmente e che pone
il partito in grande difficoltà. Ma, servendosene a fini elettorali, la CSU rilan-
cia questa critica, ritornata di attualità, all’inizio di una lunga annata elettora-
le. Queste dichiarazioni non sono quindi prova di un’ipotetica svolta nazio-
nalista di Stoiber, o di semplice demagogia elettorale Il nazional-regionali-
smo della CSU è la strategia adeguata all’immagine che essa propone della
Baviera e del suo ruolo in Germania e in Europa, anche se non tutti i suoi
esponenti politici la condividono, e non sembra del tutto azzardato ritenere
che la cancelleria bavarese si asterrà da tali critiche una volta scomparsa la
concorrenza dell’estrema destra.
Questo nazional-regionalismo difende lo Stato-nazione soltanto in appa-
renza. In realtà, gli elementi nazionalisti che ne fanno pane servono a difen-
176 dere gli interessi dello Stato bavarese e, mutatis mutandis, della CSU. Lafon-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

taine ha rimproverato il collega bavarese di ingannare gli elettori con la sua


retorica nazionalista a scopi elettorali, in quanto in realtà Stoiber, come lui,
difendeva un’Europa delle regioni (263). Ciò significa dimenticare che la
geopolitica del presidente bavarese è fondamentalmente diversa da quella di
Lafontaine. La Baviera è autosufficiente in quanto regione europea. Già co-
stituita da molto tempo essa può propendere per lo Stato-nazione al fine di
proteggere i propri interessi. Mentre il governo della Saar, come pure il pro-
getto di Lafontaine, mira a costituire una regione europea insieme alla Lore-
na e al Lussemburgo, cosa che rappresenta un disegno geopolitico fonda-
mentalmente contario allo Stato-nazione, diversamente da quello di Stoiber.
La differenza è tutta qui.
Da un punto di vista geopolitico, il progetto di Lafontaine è innovatore,
mentre quello di Stoiber è conservatore.
I responsabili della CSU non hanno la memoria corta. Ricordano benissi-
mo i danni che possono essere causati da contrasti interni in merito a proble-
mi fondamentali, pensando all’antagonismo creatosi tra unitaristi e patrioti
agli inizi della Repubblica federale Germania e che aveva rischiato di provo-
care la scomparsa del partito o quanto meno la sua emarginazione. Oggi la
CSU intende presentarsi compattamente schierata sulle posizioni di Stoiber.
Tuttavia, non è un mistero per nessuno che il suo presidente, Waigel, ha del-
le idee decisamente meno critiche di Stoiber nei confronti dell’Europa. Con-
sapevole dell’importanza dell’unità del partito in vista dell’anno elettorale,
egli ha scelto di restare dietro le quinte rispetto al presidente del Consiglio,
incaricato di presiedere la commissione che aveva elaborato il nuovo pro-
gramma di base. Ma dopo il secondo atto della crociata di Stoiber, nel dicem-
bre 1993, le divergenze tra i due si sono rivelate difficilmente mascherabili. Il
ministro-presidente ha dichiarato che Kohl faceva parte del «cartello degli il-
lusionisti europei» e aveva in mente una fusione della lista europea della CSU
con quella di Brunner, ex presidente FDP di Baviera, un nazionalista «libera-
le» sul tipo di Haider in Austria. Malgrado i responsabili della CSU (Huber, la
signora Hohlmeier eccetera) affermassero che non esisteva divergenza di
sorta tra Stoiber e Waigel, l’inquietudine destata da queste dichiarazioni in
Waigel non poteva sfuggire a nessuno. Sembra tuttavia che Theo Waigel
debba incontrare notevoli difficoltà nel convincere il suo partito ad abbando-
nare la componente nazionalista della sua geopolitica europea, una volta
concluso l’anno elettorale, in quanto essa costituisce un mezzo perfettamen-
te adeguato ai fini. Ironia della storia: mentre la Baviera un tempo si accosta-
va alle potenze europee per garantire la propria sovranità nei confronti delle
due grandi potenze tedesche, oggi si vede costretta a spostarsi verso la Ger-
mania per garantire la propria sovranità nei confronti dell’Europa.

(traduzione di Fausta Cataldi Villari)

177
LA BAVIERA CERCA IL SUO POSTO NELL’EUROPA DELLE REGIONI

Note
242. Suddeutsche Zeitung, 2/11/1993, p. 14.
243. Si veda J. JOFFE, «Ketterasseln fur Deutschland», Suddeutsche Zeitung, 4/11/1993, p. 4.
244. «Der letzte Europaer», Der Spiegel, n. 45/1993, pp. 18-23.
245. Suddeutsche Zeitung, 5/11/1993, p. 1.
246. «CDU wendet sich gegen Stoiber», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 5/11/1993, p. 2, e inoltre K. FELD-
MEYER, «Wenn Wahlkampfer an Europa denken», ivi, p. 14.
247. Frankfurter Allgemeine Zeitung, 4/11/1993, pp. 1-2.
248. Suddeutsche Zeitung, 12/11/1993, p. 1.
249. Suddeutsche Zeitung, 5/11/1993, p. 1.
250. Frankfurter Allgemeine Zeitung, 3/11/1993, p. 6; Suddeutsche Zeitung, 5/11/1993, p. 1.
251. È questo un breve quadro storico che si limita a ricostruire fatti ben noti. Per completarlo, in modo anche
più analitico sulla «questione bavarese», si veda K. BOSL, Bayerische Geschichte, Munchen 1980 (molto artico-
lato e che evidenzia questa «pseudoideologia storica»); P. HARTMANN, Bayerns Weg in die Gegenwart, Re-
gensburg 1989 (molto esauriente per quanto riguarda l’evoluzione territoriale e la politica dei partiti); G. SAN-
TE, (a cura di), Geschichte der deutschen Lander, Wurzburg 1964 1971 (compilazione cronologica degli avve-
nimenti); M. TREMI., (a cura di), Politische Geschichte Bayerns, Munchen 1989.
252. È interessante vedere come essa viene presentata dalle autorità ai giovani sottolineando «l’originaria qualità
di Stato» della Baviera. Si veda F. HOFER, Lebendige Bayerische Verfassung, Munchen 1993, passim.
253. F.J. STRAUSS, Die Erinnerungen, Berlin 1989, p. 137. Si veda anche B. OCXER, «Bayern ist doch ganz an-
ders», Revue d’Allemagne, n. 3/1977, pp. 350-360, dove é sintetizzata molto chiaramente questa rappresenta-
zione.
254. Si veda A. MINTZEI, «Die CSU», in Anatomie einer Konservativen Partei, Opladen 1975, pp. 393-421, da noi
ampiamente seguito in questo scritto.
255. Si veda K.F.J. WOLF, «CSU und Bayernpartei», in Ein besonderes Konkurrenzverhaltnis 1948-1960, KöIn
1982.
256. F.J. STRAUSS, op. cit., p. 528.
257. 1957: 57,2 1976: 60,0 1961: 54,9 1980: 57,6 1965: 55,6 1983: 59,5 1969: 54,4 1987: 55,1 1972: 55,1 1990: 51,9
258. F.J. STRAUSS, op. cit., p. 530. Egli aggiunge che «soprattutto non sussistono dubbi sull’identità bavarese del-
la CSU» (p. 544). Certuni dimenticano che tale identificazione non era un processo naturale, e che la CSU rap-
presenta la tradizione statale della Baviera dal 1945. Si veda H. KLEIN, CSU. Phanomen? Provokation? Volk-
spartei?, Munchen 1976.
259. F.J. STRAUSS, op. cit.,p. 114.
260. Citato da MULLER-BRANDECK-BOCQUET, «Europäiscbe Integration und Deutscher Foderalismus», in
KREILE, (a cura di), Die Integration Europas, Opladen 1992, p. 172. La Baviera ha peraltro presentato una
protesta alla Corte costituzionale in merito all’Atto unico. A quella data, Stoiber, allora a capo della cancelleria
bavarese, ha pubblicato una critica alle conseguenze centraliste dell’Atto unico: «Auswirkungen der Entwick-
lung Europas zur Rechtsgemeinschaft auf die Lander der BRD», Europa-Archiv, n. 19/1987, pp. 543-552.
261. Si veda «Subsidiaritat und christliches Menschenbild», Das Parlament, n. 43/1993, p. 10.
262. In particolare T. DECHAMPRIS, «Le fédéralisme allemand à l’épreuve», Documents, n. 1/1992, pp. 14-18.
263. Si veda Der spiegel, n. 50/1991, p. 41.

178
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

ASPETTANDO
KANT
A KÖNIGSBERG di Michel KORINMAN
Contro la linea del governo di Bonn, la lobby dei ‘prussiani
orientali’, che gode di forti appoggi politici ed economici, non
si rassegna a considerare l’attuale Kaliningrad come parte della
Russia. Le trattative con i russi e le posizioni di polacchi e lituani.

D OPO LA RIUNIFICAZIONE DELLA GER-


mania, la Prussia vi ritorna in onore. Il ministro-presidente del Brandeburgo,
Manfred Stolpe (SPD), non ha forse suggerito che il suo Land si trasformi in
Brandeburgo-Prussia? Egli poteva contare sull’appoggio del capo di Casa
Hohenzollern, Luigi Ferdinando di Prussia. Alcuni hanno subito proposto di
integrare a questa nuova Prussia la Sassonia-Anhalt a ovest, la Pomerania
Anteriore a nord (oggi fa parte del Land Meclemburgo-Pomerania Anteriore)
(264). Una quantità di libri, talvolta di lusso, commemorano la culla della Ger-
mania unita del 1871, e in particolare la Prussia Orientale. Ci si attende che i
russi ribattezzino Kaliningrad in Konigsberg, di più: che una repubblica di
Prussia nasca in Russia (265).
Il 27 giugno 1992 viene inaugurato, di fronte all’università cittadina, un
nuovo monumento al filosofo Immanuel Kant – fondi raccolti dalla contessa
Marion Donhoff, codirettrice del settimanale Die Zeit, e dal banchiere Frie-
drich Wilhelm Christians; la statua vecchia era stata sistemata alla fine del
1944 nella proprietà Friedrichstein presso Konigsberg, appartenente alla con-
tessa, ed era scomparsa dopo l’arrivo dell’Armata rossa (266).
Se nella parte del territorio Oggi russo, a nord, c’erano il 17 maggio 1939
1.165.837 tedeschi, nella primavera del 1945 non ne restano che 250 mila, di
cui un buon numero sarà deportato nei campi di lavoro sovietici. La popola-
zione di Konigsberg, circa centomila anime nell’aprile 1945, prima della ca-
duta della città, cadde a 73 mila in giugno, a 20-25 mila nell’estate 1947. Tra il
1947 e il 1949 i circa centomila tedeschi che si trovavano ancora nella zona
nord della Prussia Orientale furono in gran pane estradati dai sovietici. Para-
dossalmente, sono gli atti dei tribunali – condanna per «sabotaggio» (1951),
rifiuto del visto per aver acquistato nel frattempo la cittadinanza sovietica
(1954) – che fanno conoscere all’esterno l’esistenza di una piccolissima mi-
noranza tedesca (267): dalle cinquecento alle mille persone nel 1955 (268), 179
ASPETTANDO KANT A KÖNIGSBERG

305 ufficialmente all’inizio degli anni Novanta. Il 31 dicembre 1991 l’oblast’


contava 871 mila abitanti: 78,3% lussi, 9% bielorussi, 6,8% ucraini, 2,4% litua-
ni stando alle cifre del 1979.
Per aver resistito a questa completa degermanizzazione della Prussia
Orientale, bisogna che le rappresentazioni di questo antico territorio germa-
nico siano rimaste ben vive in molti tedeschi. E infatti, i suoi interlocutori alla
Cancelleria, al ministero degli Esteri e alla Società tedesca per la politica este-
ra di Bonn (diretta da Karl Kaiser), hanno dichiarato al diplomatico polacco
Zdislaw Najder, consigliere dell’ex primo ministro Olszewski, che essi teme-
vano di dover prendere l’iniziativa a questo riguardo (269). Michael Sturmer,
storico di fama, direttore della Fondazione Ebenhausen, editorialista della
Frankfurter Allgemeine Zeitung, poco sospetto di nazionalismo radicale,
non ha forse stabilito un parallelo con le Kurili giapponesi annesse nel 1945
dai sovietici – certo reclamando una soluzione europea che tenga conto de-
gli interessi tedeschi senza evocare i vecchi demoni (270)? E per ceni tede-
schi, come Reinhard Henkys degli Evangelische Kommentare, la Prussia
Orientale resta un paese-nucleo (Kernland) della Prussia propriamente detta
e per estensione della Germania (271). Nessun dubbio: una minoranza tede-
sca, tra le più sensibili, rifiuta – particolarmente in quella regione – qualsiasi
fine della storia (272) .

L’assedio di Kaliningrad
L’Associazione dei profughi della Prussia Orientale, fondata il 3 ottobre
1948, non ha mai riconosciuto l’appartenenza di questa regione all’Urss (par-
te nord) e alla Polonia (parte sud) concessa dagli occidentali a Potsdam (17
luglio – 2 agosto 1945) e sanzionata da un accordo Mosca-Varsavia (16 ago-
sto 1945). Questo ragionamento veniva difeso in base alla tesi della vecchia
RfG, per cui il Reich continuava ad esistere giuridicamente nelle sue frontiere
del 1937, all’interno delle quali si situava precisamente la Prussia Orientale.
Se le organizzazioni dei rifugiati parlavano soprattutto di Slesia e di Pomera-
nia (polacche) e molto meno di Prussia Orientale, è che si trattava nel caso di
terre lontane e soprattutto controllate, a nord, dalla seconda potenza mon-
diale di cui nessuno allora prevedeva il crollo.
Con la riunificazione, il discorso evolve e la questione viene rilanciata
dai «prussiani orientali»: la Prussia Orientale fa parte della Germania (273). E
non appena il processo di unificazione è compiuto, essi suggeriscono un
compromesso in grado sia di riparare i danni subiti dai profughi sia di assicu-
rare la pace: garanzia dei loro diritti di minoranza e doppia nazionalità per i
tedeschi restati nel paese; restituzione dei beni e diritto di ritornare per i pro-
fughi (274). Non stupisce che l’Associazione sottolinei, attraverso il suo por-
tavoce Wilhelm von Gottberg (eletto tra il 30 ottobre e il 1° novembre 1992),
gli appoggi di cui essa gode nelle istituzioni federali; in particolare la Bavie-
ra, suo «padrino» dal 1978, si illustra – avendo messo da parte ogni regionali-
180 smo – come avanguardia della lotta in materia di rivendicazioni nazionali ol-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

tre frontiera, come testimonia un’intervista dei «prussiani orientali» con il mi-
nistro-presidente Edmund Stoiber il 13 settembre 1993 (275). Da questo pun-
to di vista, il trattato germano-sovietico del 9 novembre 1990, nel quale le
parti si impegnano a rispettare senza riserve le frontiere europee e dichiara-
no di non avanzare rivendicazioni territoriali verso chicchessia il giorno della
firma e nell’avvenire (articolo 2), non cambia nulla: l’oblast di Kalinin-
grad/Konigsberg deve essere oggetto di negoziato. 181
ASPETTANDO KANT A KÖNIGSBERG

Bisogna ammettere che alcune forze in seno alle altre parti presenti nella
regione incoraggiano i «prussiani orientali» e i loro alleati a pensare in questo
modo. Anzitutto tra i polacchi. Wilfried Bohm, deputato della CDU, membro
della commissione Esteri del Bundestag, afferma che la Polonia fa di tutto
per colonizzare la regione (276). A Varsavia si elaborerebbero progetti di
spartizione che attribuirebbero alla Polonia parte della Prussia Orientale, a
nord, Kaliningrad inclusa, nella prospettiva di una Grande Polonia, con com-
pensazioni territoriali per i lituani, i bielorussi e gli ucraini (vedi carta) (277).
In effetti la Polonia è palesemente inquieta, come a fine 1992 indica il mini-
stro della Difesa Janusz Onyszkiewicz, a causa della sproporzione gioche-
rebbe fra le necessità militari della Russia e la loro formidabile fortezza di Ka-
liningrad (278). Ma soprattutto i polacchi, sempre pronti a evocare lo spettro
del ravvicinamento germano-sovietico – Trattato di Rapallo del 1922 – vo-
gliono prevenire un qualsiasi ritorno alla situazione d’anteguerra, impedire
un nuovo accerchiamento del loro paese da parte della Germania; in questo
quadro la Pomerania (orientale) polacca giocherebbe allora il ruolo, più a
ovest, del corridoio del 1919-’39. Ancora nel 1994 Lech Walesa dichiara che
nell’oblast è in corso un processo di colonizzazione economica, che li vuole
(ostentatamente!) ignorare le parti in causa, e che si tratta di una dinamica
pericolosissima (279). Per Janusz Reiter, ambasciatore a Bonn, qualsiasi ini-
ziativa tedesca in Prussia Orientale significa attualizzare la Geopolitik e le av-
venture del passato (280).
In tale contesto, Varsavia accetta di cedere ai lituani Sovek (Tilsit) e Ne-
man (Ragnitz) a nord – i prussiani orientali aggiungono curiosamente Zna-
mensk (Wehlau) a ovest di Kaliningrad, in «zona polacca» – ma parallelamen-
te reclama, come notano i tedeschi, l’integrazione nell’Ue e nella Nato (281).
D’altronde, spiega l’economista cattolico Wlodzimierz Bosarski, la Polonia
troverebbe in Prussia Orientale un giusto compenso ai gravi danni subiti dai
polacchi dell’Est rimpatriati dai sovietici nel 1945 (282). E il console generale
polacco a Kaliningrad dal settembre 1992, Jerzy Bahr, insiste: una simile tran-
sazione farebbe giustamente tacere tutti coloro che oggi parlano del revisio-
nismo polacco. Walesa avrà un bel sottolineare l’interesse puro e semplice di
tutti, a commerciare con la Polonia. E il governo polacco a smentire per la
penna di Grzegorz Raciborski, addetto stampa a Colonia (283). Quanto me-
no, i prussiani orientali restano increduli.
Lo stesso vale per i lituani, che insistono tutti sulla necessaria smilitariz-
zazione della regione. Il giornale Klaipeda (=Memel) reclama il ritorno della
Prussia Orientale (nord) alla Lituania per ragioni di sicurezza.
Il «Comitato della Piccola Ucraina» esige almeno il Nord dell’oblast (284),
Njemen (Memel) e Deima (Deime) in nome del diritto «etnico» e «storico». Kh-
ruscev avrebbe promesso tutta la regione ai lituani negli anni Cinquanta e fu
Vilnius a rifiutarla per paura di integrare troppi russi nel paese (285). All’ini-
zio del 1990, il presidente Vytautas Landsbergis, che in seguito attenuerà le
sue espressioni, concorda con questa riflessione, in caso di disintegrazione
dell’Urss. La regione, separata dall’Urss dalla Lituania, dovrà scegliere allora
182 tra Vilnius e Varsavia e optare per Vilnius (Landsbergis ritorna con infinita di-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

screzione su questo tema nel febbraio 1992) (286). Fatti confermati dal vinci-
tore ex comunista delle elezioni dell’ottobre-novembre 1992, Algirdas Bra-
zauskas, ostile al progetto (287). Per finire: Vilnius non ha forse esercitato
pressioni economiche sulla Russia – il 70% dell’energia della Prussia Orienta-
le (russa) passa attraverso la Lituania – cui Mosca ha replicato riducendo dei
3/4 le sue forniture di combustibile alla Lituania? E a Kaliningrad vivrebbero
100 mila lituani secondo Vilnius (20 mila secondo i russi, da 20 mila a 40 mila
secondo i polacchi). Tra loro molti ex deportati ritornati dalla Siberia, cui fu
vietato di rientrare nel loro paese. Questo contesto spiega evidentemente
perché le Edizioni Scientifiche di Lituania pubblichino delle carte nazionali
che includono «storicamente» Karaliausius (Kaliningrad) e i «territori di Litua-
nia in Prussia» fino alla colonizzazione del XVIII secolo. Vilnius è natural-
mente ostile a ogni velleità polacca di espansione nella regione (problema
della minoranza polacca in Lituania, 7% della popolazione) (288). Ma essa
teme soprattutto che i russi cedano Konigsberg alla Germania, come dichiara
pubblicamente l’ambasciatore Stasys Losoraitis a Washington (289).
Di più: dei bielorussi avrebbero anch’essi proclamato il loro interesse
per la Prussia Orientale; i traffici commerciali di Minsk passano per Kalinin-
grad, e i bielorussi vorrebbero poter dire la loro almeno sul piano economi- 183
ASPETTANDO KANT A KÖNIGSBERG

co. Fino a quegli ucraini che cominciano a parlare della loro minoranza. E,
per l’indignazione dei prussiani orientali, si è anche parlato di un «Romani-
stan», di uno Stato zingaro sul Pregel, il fiume di Konigsberg.
I «prussiani orientali» sanno bene che la regione è una delle massime
concentrazioni di armamenti del mondo. Vi sono fra i 70 mila e i 300 mila
soldati, a seconda delle fonti. Da Baltijsk (già Pillau) a Kaliningrad è dislocata
la flotta del Baltico, eminentemente strategica se le truppe russe si ritirassero
completamente dai paesi baltici. Il deputato Bohm (CDU) e il suo amico An-
sgar Graw, pubblicista, redattore dell’Ostpreussenblatt (nato nel 1961 a Es-
sen, famiglia originaria dell’Ermland, a sud-ovest di Konigsberg) spiegano
nel loro Konigsberg morgen Luxemburg an der Ostsee, presentato alla So-
cietà parlamentare di Bonn nel dicembre 1992 (cento partecipanti), che i mi-
litari non rinunceranno a Konigsberg (290). Il generale Valerij Mironov si
pronuncia per mantenere le truppe nell’oblast(291). Se l’esercito russo inter-
verrà nei paesi baltici per difendervi le minoranze russe, discriminate secon-
do Mosca, dovrà operare dalla Prussia Orientale. D’altronde, il ministro litua-
no della Difesa, Andrius Butkencius, non l’ha forse implicitamente ricono-
sciuto quando, inquieto per il troppo lento ritiro delle truppe russe dal suo
paese, finì per pronunciarsi, nel novembre 1992, per l’autonomia e la smilita-
rizzazione della Prussia Orientale (russa), ciò significa che il territorio resterà
a Mosca(292)?
Siccome la Germania, anche in caso di disgregazione della Russia, non è
abilitata a intervenire (il passato), essa deve, così pensano i «prussiani orien-
tali» e i loro amici, cercare un’attiva collaborazione con la Russia per realizza-
re i propri interessi in Prussia Orientale – respingendo ogni tentazione di
emarginare Mosca (293).

Lavorare per il re di Prussia


I «prussiani orientali» vi tornano continuamente: la densità della popola-
zione, nell’oblast, resta molto insufficiente: in media 50 abitanti per kilome-
tro quadrato, che diventano 10/15 nelle campagne, contro i 67 del 1939, con
più dell’80% di abitanti in città, essendosi questa proporzione rovesciata do-
po lo scoppio della guerra. C’è dunque in Prussia Orientale terra da coloniz-
zare. Ma quello che manca sono gli uomini. Ma a parte i «turisti della nostal-
gia», restano pochi i tedeschi della RfG, profughi e figli di profughi inclusi,
che desiderino stabilirsi nella regione, tenuto conto della distanza geografica
e del disastro economico.
Ecco perché essi giocheranno molto presto la carta dei «tedeschi del Vol-
ga», discendenti dei coloni invitati in Russia da Caterina II (lei stessa di origi-
ne tedesca) nel secolo XVIII e dai suoi successori d’inizio XIX, un flusso di
immigrazione che riguardava essenzialmente le rive del Volga presso Sara-
tov, la Russia meridionale (con la Crimea), come la Volinia e la Bessarabia, a
sud-ovest. Nel 1914 c’erano sul Volga circa 600 mila tedeschi. Una repubblica
184 autonoma (Assr) fu loro concessa nel 1924. Stalin li deportò in Kazakistan, a
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

Omsk e Novosibirsk (Siberia occidentale) e nell’Altaj, giusto il decreto del 28


agosto 1941, per liquidare il 7 settembre la repubblica in due unità ammini-
strative, Saratov-Stalingrado, con il pretesto della collaborazione con l’ag-
gressore nazista. Questa prima fase della deportazione che valeva più in ge-
nerale per tutti i distretti tedeschi di Crimea, Ucraina (in parte ancora sotto
controllo sovietico) e Caucaso, colpì circa 640 mila persone, spedite in Asia
Centrale e in Siberia (294).
Dopo la guerra, il decreto del 26 novembre 1948 bandì per sempre i te-
deschi (295). Quello del 13 dicembre 1955 sospese il loro statuto speciale,
mantenendo però il divieto di ritornare nella loro regione di origine. Il 29
agosto 1964 Khruscev, che voleva migliorare i rapporti con la RfG, riabilitò
completamente i tedeschi del Volga, pur senza autorizzarli a ricostituire la lo-
ro repubblica. Infine, il decreto del 3 novembre 1972, che eliminava la restri-
zione del domicilio, non fu applicato (analogamente al caso dei tartari di Cri-
mea) al Volga. Ciò spiega in generale perché queste popolazioni installate
soprattutto nell’estremo Est della Russia europea, in Siberia (anch’essa parte
della Rsfsr) e nel Kazakistan, in misura minore in Kirghizia e nel Tagikistan,
si sono spostate, quando autorizzate, tra il 1956 e il 1970, per ragioni climati-
che verso l’Asia Centrale e per ragioni strategiche in direzione dei paesi balti-
ci e della Moldavia (pone dell’Occidente). Mosca pensò, nel 1979, di formare
un distretto tedesco nel Kazakistan, ma dovette rinunciare a causa dell’osti-
lità dei kazaki. All’inizio del 1949 i sovietici contavano oltre un milione di te-
deschi (296). La cifra più seria suggerita in Occidente varia dal milione 250
mila al milione 300 mila (dopoguerra) – ossia 250-300 mila morti (297). Per i
decenni successivi -1959: 1.619.655, 1970: 1.846.317, 1979: 1.936.214, 1989:
2.038.603(298).
C’era qui un enorme potenziale umano e i «prussiani orientali» se ne fe-
cero, con l’aiuto della perestrojka, i campioni. Nessuna esitazione: essi so-
stengono con calore la rivendicazione del ritorno al Volga. Effettivamente la
commissione del Soviet supremo raccomanda nell’ottobre 1989, dietro lo sti-
molo dell’associazione Wiedergeburt (Rinascita), fondata nel marzo prece-
dente, una regione autonoma tedesca attorno a Saratov e Volgograd (già Sta-
lingrado), nel Sud (299). Il Bundestag tratta la questione dei tedeschi di Rus-
sia sin da luglio, su mozione socialdemocratica – deputato Horst Sielaff. Ma il
dossier non avanza, giacché gli abitanti di quelle regioni manifestano una
violenta opposizione. Sicché in senso a Wiedergeburt si opera progressiva-
mente una scissione: i massimalisti, dietro il presidente Heinrich Groth, esi-
gono l’instaurazione immediata della repubblica del Volga (minacciando una
emigrazione massiccia in caso di rifiuto – i loro avversari suppongono che
questo sia lo scopo del rilancio); i minimalisti, attorno al vicepresidente Hu-
go Wormsbecher, abbastanza manipolati dall’alto, si accontenterebbero di
una soluzione transitoria, non territorializzata, basata sull’autonomia cultura-
le. Questo è lo scontro che precede il Congresso straordinario dei tedeschi di
Russia, nel marzo 1991 (300).
Da allora, i tedeschi ripongono tutte le loro speranze in Elcin. Il quale in
estate mette al lavoro una commissione per favorire il dialogo costruttivo con le 185
ASPETTANDO KANT A KÖNIGSBERG

popolazioni della regione – sempre ostili. Elcin elabora con Bonn un piano di
colonizzazione per tappe del Volga – 300 mila tedeschi – e il trasferimento a
questo scopo di infrastrutture moderne dalla RfG. E nell’ottobre 1991, Bonn,
che teme l’afflusso di profughi – Groth ha forgiato lo slogan «repubblica o emi-
grazione» – decide di concedere 100 milioni di marchi alla futura repubblica e si
impegna diplomaticamente per costruirla. L’accordo ufficiale avviene in occa-
sione della visita del leader russo a Bonn, il 21-23 novembre 1991. Sapendo che
la volontà degli abitanti del Volga è troppo forte, Elcin cede e Bonn, logicamen-
te, blocca la tranche di 50 milioni di marchi prevista nel budget 1992 (301).
Dopo varie tergiversazioni di Elcin – misure di urgenza del 21 febbraio
1992, con un «circondario» tedesco sul territorio di Saratov (150 kmq), combi-
nazione territoriale a Volgograd (ossia il Sud di Pallasovka e il Nord del terri-
torio in direzione del Volga verso Kamy?in, cioè una base geopolitica per la
ricostruzione per tappe della repubblica del Volga come formulato nel docu-
mento germano-russo del 23 aprile, decreto di maggio relativo all’insedia-
mento di tedeschi su dei complessi agricoli con garanzie – Heinrich Groth
deve arrendersi all’evidenza: il sogno del Volga è svanito (302). Tanto più
che i russi locali restringono l’offerta al territorio militare, non lontano dal la-
go Elton, a nord-est di Volgograd, vicino al Kazakistan, che d’altra parte non
faceva parte della ex Assr del 1924 (303). E le cifre parlano da sole: il 51% dei
candidati a lasciare la Russia vorrebbe andarsene anche se si realizzasse il
piano Volga (30% di indecisi e 17% che cambierebbero parere); non sono
che il 25% a esprimere un interesse concreto per la regione; in caso di scelta
geografica, più in generale, per l’autonomia, i l 34% indica il Volga, il 20%
considerando il progetto realistico (304). Quanto alle altre soluzioni evocate
da Bonn, i tedeschi di Russia non ci credono più: l’opzione ucraina, ossia la
proposta del presidente Kravcuk di installare 400 mila tedeschi nella sua re-
pubblica è pura utopia – 1.500 arrivi nel 1992 (305)!
Secondo i «prussiani orientali», esisterebbe un’ipotesi del tutto diversa,
appoggiata dal 15% dei tedeschi sondati, appunto quella della Prussia Orien-
tale. Dal 1990, essi osservano con Kurt Wiedmaier, giornalista tedesco di Mo-
sca all’epoca membro di Wiedergeburt, che intorno a Gorbacev vi sono uo-
mini favorevoli a installare tedeschi nella regione (306). Lo stesso Elcin non
sarebbe sfavorevole, alla fine del 1991, all’arrivo di 200 mila tedeschi a Ko-
nigsberg (307). E i delusi, anzi i disperati del Volga, come Heinrich Groth, si
sono allineati a questa idea; la Prussia Orientale – dichiara Groth nel novem-
bre 1992 – respira la «germanità» e si impone non fosse che per la storia e la
geografia (la Germania è meno lontana) come soluzione, una volta decaduta
l’ipotesi della repubblica del Volga (308).
Si capisce che Wilhelm von Gottberg, capo dei «prussiani orientali», gli
presti subito man forte (309). E una delegazione del Bundestag (Johannes
Gerster, CDU, Hartmuth Koschyk, CSU, Wolfgang Zeitelmann, CSU, Gottfried
Bernrath, SPD, Gerd Wartenberg, SPD, Burkhard Hirsch, FDP) ha constatato
sul posto, nel 1991, citando Andrej Dunajev, il deputato di Kaliningrad al So-
viet supremo, che questo organismo ha sospeso il divieto del territorio ai te-
186 deschi di Russia (310). E i tedeschi arrivano: sarebbero tra 6 mila e 25 mila a
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

seconda delle fonti; il presidente della loro associazione culturale cittadina,


Viktor Hoffmann, ne attende 200 mila (311). Quanto al presidente del grup-
po SPD alla Dieta di Dusseldorf (Renania del Nord-Vestfalia), Friedhelm
Farthmann, costui osserva, dopo un viaggio di alcuni parlamentari nella Csi,
nel settembre 1992, che il tabù di Konigsberg deve cadere (312). Sicché,
pensano i «prussiani orientali», «è chiaro: anche se la Prussia Orientale non
appartiene alla Germania, essa sarà colonizzata, lì dove mancano i coloni,
da tedeschi. D’altronde, il riferimento di appartenenza, nell’ambito dell’Euro-
pa comunitaria, perderà di importanza» (313). 187
ASPETTANDO KANT A KÖNIGSBERG

Grazie a questa commutazione geopolitica tutto cambia. Il delegato di


Bonn incaricato del problema, Horst Waffenschmidt, segretario di Stato all’In-
terno, ha fatto prova di un bell’ottimismo di facciata, spiegano i «prussiani
orientali», in occasione del primo Congresso ufficiale dei tedeschi di Russia,
dal 16 al 20 ottobre 1991. In realtà, se egli vuole risolutamente restare attacca-
to all’ipotesi del Volga – mentre i tedeschi non vogliono installarvisi a causa
della situazione interna che si complicherebbe ulteriormente, secondo Wil-
fried Bohm, con il loro arrivo – e sviluppa un’azione puramente «mercantile»
(pagare per la soluzione peggiore) è perché egli auspica per pura vigliacche-
ria di evitare di abbordare la questione della Prussia Orientale (314). Non è
forse vero che il governo federale ha costantemente smentito le voci per cui
Mosca l’avrebbe offerta per una somma che, a seconda delle fonti, va da 60 a
150 miliardi di marchi (sic) (315)?. Bonn, al contrario, bloccherebbe con tutti i
mezzi amministrativi (due anni e più di attesa) circa 700 mila dossier – soste-
nendo i «realisti» secessionisti dell’Associazione dei tedeschi di Russia, deside-
rosi di trovare un accordo con le autorità – giacché il governo tedesco sa che
in fondo lo slogan di Viktor Hoffmann è fondato: Konigsberg o Karlsruhe. Al-
trimenti non resterebbe che l’Argentina come luogo di emigrazione, come gri-
da Heinrich Groth (316). Ma con l’afflusso di tedeschi in Prussia Orientale,
Bonn sarà costretta ad agire. Tutto sta a sapere come. Per i «prussiani orientali»
conviene, sia nei confronti di Mosca che soprattutto delle autorità regionali di
Kaliningrad/Konigsberg, d’elaborare un progetto geopolitico.

Storie di Hansa
La vera leva, a Kaliningrad, sarà l’economia. LA flotta da pesca vi lavora
ai 2/3 delle sue possibilità; l’estrazione del petrolio non arriva, per mancanza
di tecnologie, a produrre più di 1,4 milioni di tonnellate annue. Peggio: Ott-
fried Henning, presidente della CDU dello Schleswig-Holstein, già portavoce
dell’Associazione dei «prussiani orientali» dal 1979 al 1990, nel corso di un in-
contro con l’ammiraglio Egorov, nel febbraio 1992, ha potuto misurare il di-
sagio delle truppe, alle prese con difficoltà logistiche e pagate a singhiozzo
(317). La regione ospita d’altronde un mercato di armi sofisticate, incontrolla-
bile perfino da chi lo dirige. In questo contesto, non mancano le idee. Per
esempio, la contessa Donhoff ha messo sottosopra il collettivo editoriale del
settimanale Die Zeit, di sinistra, proponendo un condominio germano-russo
(in collaborazione con polacchi e lituani): con grande scandalo di Theo
Sommer, Robert Leicht, Helmut Schmidt, che vi leggono una sorta di ritorno
al colonialismo. Sicché alla fine nel suo progetto si è dovuta sostituire la Sve-
zia alla Germania (318). Altri, presso la Bild Zeitung, sognano una Hong-
Kong sul Baltico, dimenticando che il residuo estremo-orientale dell’impero
britannico, con i suoi 6 milioni di abitanti circa e circa mille kmq di grattacie-
li, è condannato a tornare alla Cina nel 1997. La stampa olandese si è invece
avventurata fino a proporre un paragone con Singapore. Quanto ai «prussia-
188 ni orientali», preferiscono ragionare.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

Riunire Konigsberg alla Germania è inconcepibile, giacché significhereb-


be espellere un milione di slavi (e più, se la regione si trasforma economica-
mente), oppure integrarli in quanto cittadini a pieno titolo, dunque perfetta-
mente autorizzati a stabilirsi nella RfG. Entrambi i casi sono fuori discussione
(319). D’altronde, un simile progetto avrebbe per conseguenza un corridoio
polacco di circa 400 km tra Stettino sull’Oder (gli autori vogliono senza dub-
bio riferirsi alla frontiera internazionalmente riconosciuta, che passa a ovest
del fiume, lasciando alla Polonia una striscia di territorio sulla riva sinistra) e
Mamonovo (Heiligenbeil) a sud della Prussia Orientale (russa); ne risultereb-
be una situazione geopolitica analoga a quella ereditata dal Trattato di Ver-
sailles, che la saggezza storica raccomanda di evitare (320). La Germania non
ha nemmeno (per ora?) i mezzi per assumersi da sola il carico di un partena-
riato esclusivo con la Russia: politicamente, giacché la si accuserebbe di vo-
ler rivedere tutte le frontiere all’Est; economicamente, a causa della riunifica-
zione incompiuta sul piano interno; geograficamente, viste le distanze che,
con il nuovo statuto dell’enclave prussiana, a 500 km dalla Russia propria-
mente detta, incastrata tra Polonia e Lituania, non cambiano affatto. È dun-
que necessario che altri Stati siano associati al processo. L’Ue, occidentale,
centralista, tutta impegnata a sostenere il Sud d’Europa, non si aprirà prima
di 10-15 anni ai polacchi e agli Stati baltici. Eppoi essa percepisce la Federa-
zione russa come troppo «asiatica» per integrarla. Wilfried Bohm vuole dun-
que che il tutto sia sistemato dal Consiglio d’Europa creato nel 1949, al quale
hanno già aderito diversi paesi dell’Est e del Centro. La Polonia ne è mem-
bro, Bielorussia e Ucraina vi hanno uno status d’associazione; la Federazione
russa e i paesi baltici sono candidati. Abilitata a trattare tutte le questioni – a
parte quelle della difesa – curandosi di armonizzare i diversi punti di vista sul
continente, l’Assemblea del Consiglio d’Europa, composta da parlamentari
europei, e il suo Comitato dei ministri sono dunque geograficamente e geo-
politicamente meglio piazzati dell’Ue per esaminare il problema di Konig-
sberg (321).
Inversamente, il polo motore di questo dispositivo dovrebbe essere la
Germania, legata a Konigsberg da un lungo passato, e la Russia, sovrana a
Kaliningrad. E Parigi, Londra, Vilnius, Copenaghen non dovrebbero più
ignorarlo. Ad ogni modo, Bonn (Berlino), non pagherà più delle altre parti in
causa senza trarne beneficio per i suoi interessi nazionali. E qui – la cosa non
manca d’interesse sul piano teorico – i «prussiani orientali» mobilitano a so-
stegno della loro tesi una vecchissima rappresentazione, la «parola magica»
della Hansa, ossia la memoria delle potenti leghe urbane apparse a meta del
XIII secolo e declinate all’inizio del XVII (322). Questa organizzazione mer-
cantile, poi cittadina, tedesca, inglobava Konigsberg in modo originale poi-
ché la città era soggetta a un principe egli stesso membro della Hansa, il gran
maestro presenta dei cavalieri teutonici. È dunque una formazione tedesca
che fonda simbolicamente la concezione dei «prussiani orientali». E in effetti
il militantismo va nel senso di un’azione specifica della RfG, discorsi ecume-
nici a parte. Ciò che Bohm e Graw chiamano, riprendendo la manchette del
Financial Times del 25 luglio 1990, la «battaglia di Konigsberg» (323). 189
ASPETTANDO KANT A KÖNIGSBERG

Tutto è cominciato con l’idea di Friedrich Wilhelm Christians (Deutsche


Bank), formulata nel marzo 1988, di creare una zona franca a Konigsberg. Il
25 settembre 1991 il Consiglio dei ministri sovietico la decreta con la zona
economica Jantar (ambra), destinata in teoria a facilitare gli investimenti nella
regione (in realtà stagnanti: 250 joint-venture, 50% con partner tedeschi, 26%
polacchi, 8% americani nell’autunno 1992, ma soprattutto sul piano commer-
ciale e a condizioni assai poco favorevoli – da cui la debolezza degli investi-
menti, 3 milioni di marchi). Dal gennaio 1992 un gruppo di studio che inclu-
de Ferdinand von Bismarck, Heinrich von und zu Liechtenstein, Oskar di
Prussia, l’ex redattore ed ex addetto stampa del presidente della RfG, Ludger
Kuhnhardt e Friedbert Pfluger, deputato CDU, elabora una regione anseati-
ca, l’Euroregione di Konigsberg; soprattutto, il progetto non deve urtare i
russi, e si nota persino una punta di sconcerto nell’Ostpreussenblatt di fronte
all’insistenza del gruppo nell’evitare ogni sospetto di germanizzazione (324).
Perché dare priorità in materia di finanze alla Banque de France rispetto alla
Bundesbank, più sperimentata quando si tratta di immaginare una moneta
comune anseatica? Eppure, lo studio prodotto include espressamente la co-
stituzione di un insediamento a Konigsberg per i tedeschi di Russia e rimarca
fortemente la «struttura costituzionale e giuridica» democratica che deve con-
sentire il rispetto delle minoranze. In marzo, il sindaco di Lubecca Bouteiller
propone l’apertura di un ufficio anseatico a Konigsberg, affinché sia assicura-
to il coordinamento delle iniziative economiche nella regione (325). La mac-
china è in moto.
Questa azione di grande respiro ha suscitato un dibattito appassionato in
Russia. Il giornale in lingua russa che rappresenta gli interessi tedeschi, Ke-
nisbergskij Kurer e Jakov Levit insorgono contro coloro che si inventano un
nemico in assenza di problema reale: «Ci si accusa di germanofilia, ma fin dal
primo numero del nostro periodico abbiamo proclamato alto e forte che Ka-
liningrad fa parte della Russia» (326). Il suo collega Boris Nisnevic si schiera
ardentemente per una zona economica speciale a Kaliningrad, giacché «da
noi esistono delle ragioni geopolitiche sufficientemente originali per estrarci
dal tronco comune», e la stampa locale, in particolare la Kaliningradskaja
Pravda, si è abbondantemente diffusa sull’idea di creare un nuovo porto
commerciale (327). Per Argumenty i fakty l’oblast è quasi Europa, mentre la
Lituania si presenta come un vicino agitato (328). Anche il pubblicista Geor-
gij Birjukov ricorda su Politika le comuni origini indoeuropee dei popoli rus-
so e tedesco; esse devono fondare una mutua comprensione esistita fino al
1939 (sic). Ora, è stato il Vaticano a organizzare nel medioevo l’aggressione
dei cavalieri teutonici (sic), i massoni a causare la guerra dei Sette anni (sic)
dal 1756 al 1763 (Prussia e Inghilterra contro Austria, Russia, Francia, Svezia
e Sassonia), Gran Bretagna e Francia a scatenare la prima guerra mondiale
(sic), non avendo russi e tedeschi alcuna ragione di battersi. Tocca ai russi e
ai tedeschi, dunque, di promuovere tra loro una collaborazione economica e
militare (sic), restando Konigsberg il luogo più adatto a stabilire questi nuovi
legami senza spostare le frontiere, peraltro riconosciute dalla Germania(329).
190 E il centro di ricerche sociologiche di Kaliningrad ha realizzato un’in-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

chiesta da cui si ricava che il 42% degli abitanti resta favorevole a impiantare
nell’oblast i tedeschi del Volga perché se ne attendono un miglioramento
della loro situazione economica, e il 6% si pronuncia persino per il ritorno
della Germania (330). Il massimo: Elena Skvorcova, una delle migliori anali-
ste russe, in Megapolis Express. «Kaliningrad, questa striscia di terra separata
dalla Russia dai Paesi baltici, pur facendo parte della Federazione russa, illu-
stra (il fenomeno seguente, M.K.): ogni paesaggio, ogni terra muore se è pri-
vata della sua popolazione indigena, la sola capace di capirla, di amarla»
(331). Questa dichiarazione di intenti (che lascia aperta la porta a una «rina-
scita russa» di Kaliningrad) suscita scandalo. A. Terentev, membro della so-
cietà Rus della città condanna questa «pubblicazione tristemente demagogi-
ca»: «La storia dimostra che la Prussia era un tempo popolata da tribù slave,
crudelmente cacciate». Segue una denuncia delle responsabilità dei dirigenti
del Pcus nell’oblast – ossia la liquidazione della Storia. E poi: «Noi, che siamo
venuti sulla terra dell’antica Prussia da dove originano un gran numero dei
nostri principi e la dinastia dei Romanov, dobbiamo sapere che non viviamo
su una terra straniera» (332). D’altronde, una massa di lettere di protesta
inonda la Kaliningradskaja Pravda. Quanto all’ufficiale radicale Viktor Alk-
snis egli non è adattato nemmeno all’indipendenza dei Paesi baltici, né a
quella della Finlandia. Certi monarchici, per segnare pubblicamente il punto,
propongono di ribattezzare Kaliningrad in Knjazgrad – la città del principe –
insistendo così sul carattere slavo della città. (Certo Vladimir Zirinovskij, il ca- 191
ASPETTANDO KANT A KÖNIGSBERG

po del Partito liberaldemocratico, grande vincitore delle elezioni del 12 di-


cembre 1993, ha riconosciuto la «germanità» della Prussia Orientale. Ma egli è
d’avviso mutevole) (333).
E più serenamente Julij Kvicinskij, presidente della Società di politica
estera, grande specialista dell’ex Ovest e della Germania, rifiuta globalmente
ogni tentazione di rigermanizzare Kaliningrad: dopo la fine dell’Urss, la re-
gione, con i suoi porti baltici liberi dal ghiaccio, ha acquisito un’importanza
ancora maggiore, giacché permette di compensare la perdita dei porti baltici.
Essa consente alla Russia relazioni dirette con i paesi europei evitando la
Bielorussia, le repubbliche baltiche e l’Ucraina. Senza dimenticare il suo ca-
rattere strategico. Si pensa senza dubbio anche a Mosca che inaugurare la di-
sintegrazione della Russia là dove essa è militarmente più potente è un’assur-
da geopolitica (334). Ed Elcin non potrà rompere con questa concezione,
salvo ammettere che la Russia si rinserri definitivamente entro le sue frontie-
re di prima di Pietro il Grande (che annetté Estonia e Lettonia).
Ecco che si spiega l’evidente reticenza russa. Ceno, un Consiglio degli
Stati baltici comprendente la Russia è nato tra il 4 e il 6 marzo 1992 e ha pro-
clamato la volontà di resuscitare la tradizione anseatica. E il vicepresidente
dell’oblast, Gari Cmykhov, è sedotto dalle allettanti proposte della delegazio-
ne che si presenta a lui nell’estate del 1992: costruzione di un’autostrada Stet-
tino-Danzica-Kaliningrad con prolungamento nei Paesi baltici e raccordo
con la Via Baltica progettata a partire dalla Finlandia. Ma i dirigenti russi non
credono molto al suo carattere europeo: essa è attualmente formata in pane
da Friedrich Merz e Hans-Gert Pottering, entrambi deputati tedeschi al parla-
mento europeo, e Wilhelm Bohm ne è membro. Friedben Pfluger ha un bel
sottolineare che «non si tratta di imporre gli interessi tedeschi nella regione,
né di fare qualcosa per la Germania»; i suoi interlocutori confermano una do-
manda di investimenti, mentre ringraziano ironicamente la delegazione «te-
desca» per il suo lavoro e il suo «altruismo» (335). Evidentemente, il capo am-
ministrativo dell’oblast, Jurij Semenovic Matotchkin, nominato da Elcin il 25
settembre 1991 per aver lavorato alla zona franca, chiama all’afflusso di 200
mila tedeschi laboriosi e ricchi di tecnologie (336). Egli avanza anzi verso
una possibile e auspicabile autonomia della regione all’interno della Federa-
zione russa (337). Ma ribasserà presto il numero auspicabile dei coloni tede-
schi (338). E, accusato di separatismo dalla burocrazia moscovita, dovrà fare
marcia indietro (339).
In conclusione: Elcin aveva notificato dal giugno 1991 la sua volontà di
appoggiare la zona franca confermata dal Consiglio dei ministri sovietico il
25 settembre; ma bisognerà attendere il 21 maggio 1993 perché la Federazio-
ne russa ratifichi la relativa legge doganale, promulgata solo l’8 luglio . Ciò
spiega fino a che punto l’idea di una «quarta repubblica baltica», ossia di un
«Lussemburgo sul Baltico» è lontana dal realizzarsi. Il Granducato non si ca-
ratterizza forse, finanze a pane, per la sua doppia cultura, francese e tedesca?
Kaliningrad, una volta «lussemburghizzata»., come ardentemente sperano
Bohm e Graw(340), e se la Germania vi fa dei forti investimenti – cui per ora
192 Bonn non ha per nulla accennato, giacché «non vuole in nessun caso contri-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

buire a una qualsiasi riflessione sul futuro della Prussia Orientale» (341) – po-
trebbe ceno avere il diritto di restare russa, ma non tarderebbe ceno, se ne
può essere sicuri, a rigermanizzarsi. Forse i russi ne hanno timore?
In guisa di epilogo. Nell’autunno 1993 la Weltam Sonntag pubblica una
serie di cinque articoli intitolata «Der Wettlauf um Konigsberg» («La gara per
Konigsberg») molto critica verso il ministero degli Esteri, che continua a par-
lare di Kaliningrad; l’autore, Jochen Kummer, finisce sottolineando che la
Germania è uscita dalla sala di attesa della Storia, che la sua Storia si sviluppa
ormai sotto il segno del continuo cambiamento (342). Nel gennaio 1994 un
osservatore può esprimere l’idea, nella Zeit, che la questione della Prussia
Orientale è, in Germania, da tempo all’ordine del giorno (343). Contempora-
neamente, quattro deputati CDU-CSU, Bohm, Koschyk, Pfluger e Christian
Schmidt redigono un rapporto. Essi danno generosamente una scelta alla
Russia: o essa mantiene e sviluppa il suo bastione militare offensivo a Kali-
ningrad e il porto perennemente libero dai ghiacci (come quello della capita-
le) di Baltijsk, (ex Pillau), ma così destabilizza la regione, giacché i suoi vicini
baltici, polacchi e svedesi si sentono direttamente minacciati, e incoraggia le
tentazioni separatiste delle minoranze russe del Nord-Est estone e del Sud-
Est lettone – in questo caso la sicurezza della RfG e dei paesi dell’ex Ovest
ne sarebbe ridotta; oppure essa organizza con altri Stati europei una eurore-
gione da cui la Russia ricaverà immensi vantaggi economici e sociali e che le
permetterà di orientarsi verso l’Europa(344).
Come ha ben notato Michael Kumpfmuller, giornalista proprio alla Zeit,
Mosca ha già risposto: il ministro della Difesa russo Pavel Gracev ha annun-
ciato in marzo la creazione non più come un tempo di una zona militare vie-
tata, ma di un territorio speciale con unità mobili a Kaliningrad, e il ministro
degli Esteri Andreij Kozyrev esprime riserve sull’imminente apertura del con-
solato tedesco in città (345). Una vicenda da seguire.

(traduzione di Fausto Fontana)

Note
264. Il KAMPHAUSEN, «Gibt es bald wieder ein Land Preussen?», Das Ostpreussenblatt,2/2/1991, p. 4. Vedi an-
che la conferenza di Stolpe a Kaliningrad, «Kein ernsthafter Deutscher will Konigsberg zuruckerobern»,
Frankfurter Rundschau, 28/9/1992, p. 13, dove egli si pronuncia per un avvenire europeo della regione.
265. O. FOTISC, «Der Name “Kaliningrad” soll verschwinden», Das Ostpreussenblatt, 18/4/1992, p. 2.
266. F. BERG, «Eine erste Heimkehr», Das Ostpreussenblatt, 11/7/1992, p. 1. Il castello di Konigsberg, già forte-
mente danneggiato nel 1944-’45, fu fatto saltare in aria in quanto simbolo della reazione nel dicembre 1967.
Christians era nella Webrmacht al tempo dell’attacco all’Urss nel 1941 e combattè in Prussia Orientale.
267. R. NEUMANN, Ostpreussen unter poinischer und sowjetischer Verwaltung, Frankfurt am Main-Berlin 1955,
Alfred Metzner Verlag, pp. 96 ss.
268. H. NEUSCHAFFER, Das «Konigsberger Gebiet». Die Entwicklung des Konigsberger Gebietes nach 1945 im Rah-
men der baltischen Region im Vergleich mit Nord-Ostpreussen der Vorkriegszeit, Plon 1991, Sonksen, p.142.
269. W. BOHM-A. GRAW, Konigsberg morgen Luxemburg an der Ostsee, Asendorf 1993, Mut-Verlag, p. 83. Gli
incontri si tennero all’inizio del 1992.
270. M. STURMER, «Eine Aufgabe namens Konigsberg», FAZ, 26/9/1992, p. 1. P.F.-P.W., «Ostpreussen und die
Kurilenfrage», Das Ostpreussenblatt, 2/10/1993, p. 5. Colloquio di Kerimaki sulle annessioni sovietiche del
1944-’45. 193
ASPETTANDO KANT A KÖNIGSBERG

271. A. BARING, «Am offenen Stauwehr», FAZ, 7/10/1992, p. 37, il quale più tardi sottolineerà che la Germania,
già economicamente sovraccarica per la riunificazione, non può nutrire amhizioni così lontane: «Was kostet
Konigsberg?», FAZ, 11/1/1994, p. 26.
272. A. GRAW, «Der Osten wartet. Warum die Geschichte Schlusstriche nicht akzeptiert», Das Ostpreussenblatt,
18/5/1991, p. 3.
273. «Ostpreussen ist ein Teil Deutschlands», Das Ostpreussenblatt, 19/5/1990, p. 1. Inghilterra e Usa si erano im-
pegnate a sostenere le rivendicazioni sovietiche su Konigsberg in una futura conferenza di pace. Urss e Polo-
nia divisero la Prussia Orientale lungo una linea corretta due volte (1945 e 1954), che andava dal cordone li-
toraneo (Frische Nehrung) verso est e passava sopra i laghi Masuri, cfr. P. WORSTER, «Das nordliche Ost-
preussen nach 1945 - Deutsch-russisches und russisch-deutsches Ortsnamenverzeichnis mit einer Dokumen-
tation der Demarkationslinie», Dokumentation Ostmitteleuropa, Marburg-an-der-Lahn, Gottfried Herder-Insti-
tut, nn. 2/3, anno 6, giugno 1980, pp. 140 ss.
274. «Aufrecht die neuen Aufgaben angehen!», Das Ostpreussenblatt, 27/4/1991, p. 1. Si noti che la riunione si
svolge a Potsdam.
275. «”Volle Unterstutzung” bleibt erhalten», Das Ostpreussenblatt, 25/9/1993, p. 2.
276. P.M., «Bohm warnt vor polnischer Expansion», Das Ostpreussenblatt, 14/3/1992, p. 1. 40 mila ettari secondo
le fonti tedesche, confermate dal vojvoda Cleslukowski di Suwalki.
277. P. FISCHER, «Die polnischen Teilungsplane», Das Ostpreussenblatt, 30/5/1992, p. 1 (vedi cartina). Si tratta di
schizzi evidentemente non autenticati, prodotti dal ministero degli Esteri polacco. Sarebbero stati comunicati
alla stampa da Vidmantas Povilions, già presidente della commissione parlamentare Esteri a Vilnius.
278. Nezavjsimaja Gazeta, 2/12/1992, p. 4.
279. Intervista di Lech Walesa a Moskovskye Novosti, 27/3/1994, p. 11.
280. P. FISCHER «Endlich deutschen Standort benennen. Die Aussenpolitik mu auf auswartige Ziele reagieren»,
Das Ostpreussenblatt, 21/11/1992, p. 1, che si riferisce a un «documento» del Senato polacco.
281. P. FISCHER, «Konigsberg an Polen? Dokumente entlarven arschaus Absichten in Ostpressen», Das Ostpreus-
senblatt, 21/11/1992, p. 1, che si riferisce a un «documento» del Senato polacco.
282. W. BOHM-A. GRAW, op. cit., pp. 154 ss.
283. «Was wird aus Konigsberg? Polen dementiert territoriales Interesse», FAZ, 17/2/1992, p. 4, che cita il porta-
voce del ministero degli Esteri, Dziemidowicz, e Grzegorz Raciborski; «Polen ohne Interesse an Nord-Ost-
preussen», FAZ, 27/2/1992, p. 10. H. FLOTTAU, «Die Notgemeinschaft der armen Nachbarn», Sud-deutsche
Zeitung, 7/12/1992, p. 3, nota che le smentite non hanno nulla di eterno.
284. M. DEUTSCH, «Litauer Zeitung votiert für Anschluss», Das Ostpreussenblatt, 12/10/1991, p. 1. All’inverso, i
«prussiani orientali» rivendicano il territorio di Memel, a nord del Niemen, cui la Germania aveva rinunciato
nel 1919 affinché, in attesa dello statuto definitivo, fosse posto sotto autorità alleata, e che fu illegalmente an-
nesso dalla Lituania nel 1923, restituito a Hitler nel 1939, poi riannesso a Vilnius dopo la guerra. Cfr. H. PO-
LEY, «Etwaige Gebietsanspruche abklaren., Das Ostpreussenblatt, 7/9/1991, p. 1.
285. W. BOHM-A. GRAW, op. cit., p. 161.
286. Cfr. nota 20.
287. W. BOHM-A. GRAW, op. cit, p. 164.
288. Tanto più che la Polonia ha economicamente rovinato il Sud, secondo Vidmantas Povilionis, vedi «Das hat
mit Grosspolentum zu tun?», Das Ostpreussenblatt, 30/5/1992, p. 2.
289. H. W., «Nur Plaudereien eines Botschafters?», Das Ospreussenblatt, 14/3/1992, p.1.
290. W. BOHM-A. GRAW, op. cit., p. 137 ss.
291. Il suo collega il maresciallo Saposnikov non la pensa diversamente.
292. H. HECKEL, «Wilna wunscht deutsche Nachbarn», Das Ostpreussenblatt, 14/11/1992, p. 1. Molto preoccu-
pato, il dirigente lituano preferirebbe, in caso di non soddisfazione delle sue richieste, il ritorno della regione
alla Germania.
293. P. FISCHER, «Eigene Interessenlage eindeutig definieren», Das Ostpreussenblatt, 15/1/1994, p. 1.
294. In una seconda fase (1942-’44) seguirono ad esempio i 26 mila tedeschi della regione di Leningrado. Infine,
dal febbraio all’ottobre 1945, fu il turno dei tedeschi dei territori dell’Urss, il cui territorio fu invaso così rapi-
damente che il potere sovietico non riuscì a deportarli nel 1941, e che esso considerava come traditori della
patria. Cfr. B. PINKUS-I. FLEISCHHAUER, Die Deutschen in der Sowjetunion, Baden-Baden 1987, Nomos,
pp. 304 ss.
295. A. EISFELD, «Zwei grosse Gruppen. Der Status der Sowjetburger deutscher Volkszugehorigkeit», FAZ,
10/1/1989, p. 9.
296. V.N. ZEMSKOV, «Spets poselentsy (Po Dokumentacij Nkvd-Mvd Sssr)», Sociologiceskie Issledovanija, n. 11,
1990, p. 10.
297. B. PINKUS-I FLEISCHHAUER, op.cit., pp. 315 ss.
298. Naselenie SSSR, 1987, Statisticeskij Sbornik, Mosca 1988, pp. 98 ss.; per il 1989, Vestnik Statistiki, 9/1990-
6/1991.
299. Pravda, 20/10/1989, p. 1.
194 300. R. OLT, «Rankespiele mit den Russlanddeutschen», FAZ, 15/3/1991, p. 14. Quando si constatò che Groth
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

avrebbe vinto, il congresso fu puramente e semplicemente aggiornato dal Comitato centrale, ma si tenne co-
munque sotto il segno dei massimalisti. La scissione sarà effettiva nel giugno 1991.
301. Deutscher Ostdienst, n. 3, 24/1/1992, pp. 1ss. All’inizio del 1992, Elcin doveva persino dichiarare davanti al-
le telecamere che l’autonomia dei tedeschi sarebbe stata circoscritta ai luoghi dive essi costituivano il 90%
della popolazione.
302. P. FISCHER, « Die jahe Wiederkunft einer trauten Region»: H. GROTH «Der Traum von der Wolgarepublik
ist tot», Das Ostpreussenblatt, 29/8/1992, p. 1. Due «circondari» furono creati nell’Altaj (nel nord della Mongo-
lia) a Halbstadt/Nekrasovo (giugno 1991) e nella regione di Asovo (febbraio 1992); cfr. R. OLT, «In Sibirien
entsteht der zweite deutsche nationale Rayon», FAZ, 20/2/1992, p. 7.
303. M. DEUTSCH, «Zustimmung fur Wolgagebiet fehlt. Staatssekretar Horst Waffenschmidt operier offenbar
glucklos, Das Ostpreussenblatt, 31/10/1992, p. 2.
304. Sondaggio in B. DIETZ-P. HILKES, Russlanddeutsche: Unbekannte im Osten; Geschichte, Situation,
Zukunftperspektiven, Munchen 1992, Olzog, pp. 105 ss.
305. «Habt Keine Angst vor uns», intervista con il presidente Kravcuk, Der Spiegel, n. 6/1992, p. 155, e «So gutes
Land», Der Spiegel, n. 11/1992, pp. 71 ss., infine H. GROTH, «Der Traum ist aus», Der Spiegel, n. 42/1992, p. 33.
306. A. GRAW, «Wieder Deutsche Burger in Konigsberg», Das Ostpressanblatt, 3/3/1990, p. 1.
307. P. FISCHER, «Jelzin spielt die Konigsberg», Das Ostpreussanblatt, 14/9/1991, p. 1.
308. H. GROTH, v. nota 42, e P. FISCHER, «Mit dem Trek nach Argentinien?», Das Ostpreussenblatt, 28/11/1992,
p. 2. Si noti che Groth minaccia, in caso di mancata soddisfazione, di far votare per i Republikaner, cioè
l’estrema destra, in Germania. Egli si dimetterà nel dicembre 1993. Cfr. R. OLT, «Kampf um Territorialautono-
mie aufgegeben», FAZ, 22/12/1993, p. 5.
309. W. VON GOTTBERG, «Zusammenarbeit angeboten», Das Ostpreussenblatt, 28/11/1992, p. 2.
310. P.M. «Freier Zuzug fur Russlanddeutsche», Das Ostpreussenblatt, 17/8/1991, p. 1.
311. W. BOHM-A. GRAW, op. cit., pp. 187 ss.
312. Ivi, p. 198.
313. A. GRAW, «Jetz ist Bonn am Zug», Das Ostpreussenblatt, 21/3/1992, p. 1.
314. M. DEUTSCH, «Eine Republik fur Russlanddeutsche? Bonn erzwingt Wolgalosung durch gewohnte Finanz-
praktiken», Das Ostpreussenblatt, 2/5/1992, p. 1. Ciò che Waffenschmidt smentisce in un’intervista ad A.
GRAW, «Wir haben keine Beruhrungsangste», DAS Ostpreussenblatt, 24/10/1992, p. 3. Idem per il deputato
CDU Heinrich Lummer, «Was wird aus Konigsberg?…», cit.
315. H. HECKEL, «Bonn bestreitet Verhandlungen. Aussenamtsprecher will nichts von Moskauer Verkaufsange-
bot wissen», Das Ostpreussenblatt, 25/5/1991, p. 2. W. BOHM-A. GRAW, op. cit., p. 168 citano espressamente
il Vertraulicher Schweizer Brief del 3/9/1991. L’ex ministro degli Esteri Genscher avrebbe dichiarato di rifiu-
tarla anche se gliela avessere regalata.
316. H. GROTH, vedi nota 42; P. FISCHER, vedi nota 45; Waffenschmidt fa certamente valere che la RfG non sa-
prebbe accogliere decentemente più di 200 mila tedeschi all’anno, cfr. «Nur ein Spalt», Der Spiegel, n. 42/1992,
p. 31.
317. W. BOHM-A. GRAW, op. cit., p. 100.
318. M. DONHOFF, «Konigsberg Signal der Versohnung», Die Zeit, 15/11/1991, p. 1. D. TRENIN-M. BORODIN,
«Vtoroj sans Rossii v Vostocnoij Prussii», Novoe Vremja, n. 13/1992, pp. 18-20, che rispondono alla contessa,
fanno abilmente loro l’opzione «svedese», sempre segnalando i rischi provocati da un eventuale ritiro dei russi.
319. W. Bohm-A. GRAW, op. cit., p. 175 ss.
320. Si noti che su questo punto tedeschi e polacchi convergono.
321. Egli riprende qui il suo articolo «Europas Nationalstaaten fordern», Das Ostpreussenblatt, 13/2/1993, p. 3; W.
BOHM-A. GRAW, p. 223 ss.
322. PH. DOLLINGER, La Hanse (XII-XVII siècle), Paris 1964, Aubier, p. 7. M. STURMER, op. cit., torna anch’egli
sul mito della Hansa, ma giudica inadeguata una qualsiasi colonizzazione della regione da parte dei tedeschi.
323. W. BOHM-A. GRAW, op. cit., p. 104.
324. H. J. L., «Konigsberg im Bunde mit dem Baltikum?», Das Ostpreussenblatt, 25/1/1992, p. 2, che ricorda insi-
diosamente che Friedbert Pfluger era ostile alla scelta di Berlino come capitale della Germania.
325. In dicembre, sarà il turno della Gottlieb Daimler-und Carl Benz-stiftung di annunciare un finanziamento an-
nuale di 50 mila marchi in borse di scambio per studiosi della RfG e di Konigsberg.
326. J. LEVIT, «Esli net realnogo vraga, pocemu byego ne vydumat?», Kenisbergskij Kurer, n. 11/1992, p. 3, che
ricorda abilmente di aver partecipato all’offensiva contro Konigsberg e di esservisi stabilito volontariamente.
327. B. NISNEVIC, «SEZ (Svobodnaja Ekonomiceskaja Zona): ne vozdusnyj zamok», Zapad Rossii, Kaliningrad
1992, (1), pp. 147-156.
328. D. MAKAROV-R. MOROZOV, «Kraj Rossi, Krai Evropy», Argumenty i Fakty, nn. 29-30/1992.
329. G. BIRJUKOV, «Moskva-Minsk, Berlin v cem buduscee Rossi», Politika, n. 4/1992, p. 12.
330. B. Wiest-RAABE, «Meinungs-Umfragen in Konigsberg», FAZ, 15/10/1992, p. 10.
331. E. SKVORCOVA, «Na cto nam s toboju cuzaja zemlja», Megapolis Express, (Mosca), 27/6/1991, p. 7.
332. A. TERENTEV, «My ne zyvem na cuzoj zemle», Russkij Vestnik, nn. 28-29/11/1991, p. 9.
333. V. ZIRINOVSKIJ, «Le mie frontiere», colloquio con R. GAUFFIN, LIMES, N. 1/1994, PP. 25-32.
195
ASPETTANDO KANT A KÖNIGSBERG

334. J. KVICINSKIJ nella Literaturnaja Gazeta del 12/8/1992, P. 12.


335. A. GRAW, «Konigsberg als Luxemburg des Baltikums?», Das Ostpreussenblatt, 22/8/1992, p. 20.
336. A. GRAW, «Jetzt ist Bonn am Zug!», Das Ostpreussenb1att, 21/3/1992, p. 1. Matotchkin scrive in questo sen-
so al governo tedesco all’inizio del 1992.
337. Intervista di J.S. Matotchkin all’Ostpreussenblatt, 7/11/1992, p. 3.
338. W. BOHM-A. GRAW, op. cit., p. 196. Ciò fin dal 17/3/1992 all’agenzia Itar-Tass.
339. G. GNAUCK, «Anlehnung an Mutterchen Russland», FAZ, 29/9/1992, p. 7, che lamenta expressis verbis lo
scacco del condominio europeo (tedesco?) nell’enclave russa.
340. M. DETSCH, «Freihandelszone “Bernstein” bleibt», Das Ostpreussenblatt, l4/8/1993, p. 1.
341. «Was wird aus Konigsberg?…», cit.
342. J. KUMMER, «Der Wettlauf um Konigsberg», Welt am Sonntag, 17/10/1993, p. 32.
343. K.H. JANSSEN, «Alltag in Konigsberg», Die Zeit, 28/1/1994, p. 17.
344. «Kaliningrad/Konigsberg Risiken und Chancen seiner Entwicklumg», Der Westpreusse, n. 3/1994, pp. 4 ss.
345. M. KUMPFMULLER, «Konigsberg und andere Kleinigkeiten», Die Zeit, 1/4/1994, p. 50.

196
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

HAVEL,
LA GERMANIA
E I SUDETI di Luciano ANTONETTI
Dalle ‘scuse’ del presidente ceco al contenzioso tra Praga e Bonn,
che rischia di accendere una pericolosa miccia nel cuore
dell’Europa. Le memorie dell’occupazione nazista
e del trasferimento forzoso dei tedeschi sudeti pensano ancora.

1. U N RECENTE SONDAGGIO DI
opinione ha rivelato che soltanto il 12% dei ciechi condivide l’atteggiamento del
presidente della Repubblica Vaclav Havel verso la Germania (346). Un dato elo-
quente, tenendo conto che, in generale, la popolarità del presidente-dramma-
turgo continua a essere alta, anche se non più ai livelli della fine del 1989. A de-
terminare questa situazione vi sono, da un lato, i timori di buona parte dell’opi-
nione pubblica, per la quale la politica di Havel riapre con conseguenze incal-
colabili una questione che bene o male si riteneva fosse stata risolta una volta
per tutte: quella dei «sudeti» (347); dall’altro, la concezione della politica propria
di Havel – che si richiama alla tradizione husuita e masarykiana nutrita di impe-
rativi come «la verità vincerà», «la forza della verità», «la parola veritiera», «spirito li-
berale, coscienza e responsabilità», «la politica morale» (348) – da cui non è sicu-
ramente assente la sua esperienza esistenziale.
L’attuale presidente della Repubblica ceca è nato a Praga il 5 ottobre 1936,
stava per compiere due anni all’epoca del diktat di Monaco (29 settembre
1938), ne aveva meno di due e mezzo quando il 15 marzo 1939 Hitler istituì il
«Protettorato di Boemia e Moravia» e avviò la non riuscita germanizzazione dei
cechi; stava per compierne nove quando finì la guerra e cominciò l’espulsione
violenta dei «tedeschi di Cecoslovacchia», che precedette i due anni (1946 e
1947) di trasferimento regolato dagli accordi di Potsdam. È nato in una famiglia
agiata, «forse addirittura “alto borghese”»: il padre era un costruttore edile, pro-
prietario dell’impresa ristoranti del Lucerna e di Barrandov, lo zio possedeva gli
studi cinematografici di Barrandov ed era considerato, anche negli anni del
«Protettorato», il principale magnate del cinema. Di politica, confessa nel 1985-
’86, si è sempre occupato soltanto come osservatore e critico, non ha mai volu-
to essere un uomo politico; la sua unica esperienza internazionale, prima di di-
ventare presidente della Repubblica, sono gli incontri negli Stati Uniti e altrove,
nel 1968, soprattutto con cecoslovacchi emigrati dopo la presa del potere da 197
HAVEL, LA GERMANIA E I SUDETI

parte comunista nel febbraio 1948; ma otto anni prima aveva brillantemente
esposto le proprie idee sulla «rinascita spirituale» della società, cui chiamava i
cecoslovacchi (349), e nel novembre 1989 non esita a lanciarsi nella mischia;
accetta, sia pure dopo qualche resistenza, la candidatura alla presidenza della
Repubblica e rivela presto di possedere una concreta e precisa linea di politica
estera.
Nel discorso ai cittadini per il Capodanno 1990, tre giorni dopo l’elezione a
presidente, Havel annuncia la sua decisione di andare subito in due paesi: la
Repubblica democratica tedesca (Rdt) e la Repubblica federale Germania
(RfG). Il 2 e il 3 gennaio, prima ancora di recarsi a Bratislava, capitale della Slo-
vacchia, e di prendere contatto con Varsavia e Budapest, che pure sono in una
posizione internazionale non molto dissimile da quella di Praga, è a Berlino Est
e poi a Monaco di Baviera, dove incontra il presidente Richard von Weizsacker.
È quest’ultima visita che scatena immediatamente un coro di critiche in Ceco-
slovacchia, per la scelta del luogo (dovuta, mi dirà l’allora ministro degli Esteri
di Praga Jiri Dienstbier, alla brevità temporale del viaggio) e per le cose che
vengono dette dai due presidenti. Havel, si dice, ha chiesto scusa ai tedeschi, e
le proteste si levano, non soltanto dall’estrema sinistra, dall’Unione dei combat-
tenti antifascisti, dai cittadini di Lidice, piccolo centro a ovest di Praga, «cancel-
lato dalla carta geografica» e la cui popolazione venne massacrata o deportata
nel 1942, come rappresaglia per l’attentato mortale al Reichsprotektor Reinhard
Heydrich; perfino il Centro di coordinamento del Foro civico deve prendere le
distanze dal suo più illustre rappresentante e dichiarare che «(...) la questione
delle scuse, cioè di chi e quando deve scusarsi e per che cosa, non è la maniera
più felice di affrontare il problema» (del trasferimento di popolazione, del rap-
porto con Bonn).
Lo storico Jan Kren dichiara a un quotidiano praghese che i tedeschi han-
no tradotto male il termine ceco politovani che significa «rincrescimento», ma
vengono alla luce circostanze nuove o prima trascurate. Il presidente Weiz-
sacker in un discorso pronunciato il 22 dicembre 1989 aveva letto un passo
della lettera che Havel, cui era stato vietato di recarsi a Francoforte per ritirare il
premio conferitogli dai librai tedeschi, gli aveva da poco inviato: «(...) Io perso-
nalmente – come molti dei miei amici – condanno l’espulsione dei tedeschi nel
dopoguerra. L’ho sempre considerata atto massimamente immorale, che ha
provocato ai tedeschi, ma forse in misura maggiore agli stessi cechi, danni mo-
rali e materiali. Quando a una cattiveria si risponde con un’altra ciò significa
che la cattiveria non viene soppressa, bensì diffusa». E il giorno seguente l’allo-
ra candidato alla presidenza della Repubblica aveva risposto a una domanda di
una giornalista in televisione: «Non voglio occuparmi del tema (delle scuse),
posso soltanto esprimere la mia opinione. Ritengo che i confini della Cecoslo-
vacchia non debbano essere modificati. Ritengo che nessuno dei tedeschi tra-
sferiti dovrebbe tornare qui, ma credo che abbiamo l’obbligo di scusarci con i
tedeschi trasferiti dopo la seconda guerra mondiale. (...) Ripeto: questa è la mia
opinione privata. (…)» (350). Il 3 gennaio 1990, però, incontrando da pari a pa-
ri il presidente della RfG, non era più il semplice cittadino, il dissidente perse-
198 guitato, Vaclav Havel.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

Prima di esaminare ciò che è accaduto in seguito è necessario cercare di


comprendere le motivazioni, espresse o tacite, dell’atteggiamento dell’attuale
presidente ceco. Alla base vi è, innanzitutto, l’imperativo cui vuole attenersi
con ogni suo atto e con ogni sua parola. Nel discorso pronunciato a Praga, il 15
marzo 1990, in occasione della visita di Weizsacker, sostiene che bisogna dire
sempre la verità, per dura che sia; ricorda che la seconda guerra mondiale co-
minciò con la liquidazione della Cecoslovacchia 51 anni prima, a causa dell’ap-
poggio di «una pane dei tedeschi», della «infinita miopia» dei governi francese e
britannico del tempo e del timore di rischiare troppo da pane dei dirigenti ce-
coslovacchi. Aggiunge che i cecoslovacchi invece che stabilire le colpe indivi-
duali si vendicarono applicando un principio inesistente nel loro ordinamento
giuridico: quello della responsabilità collettiva dei tedeschi in quanto nazione,
«recando offesa a molti innocenti, soprattutto donne e bambini», e restando in-
fettati dal bacillo del totalitarismo tanto da non sapersi opporre, poi, a quello
nuovo, importato da un altro punto cardinale (351). Apprezzabile, ceno, la
coerenza morale del presidente ceco (allora cecoslovacco), disposto a rischiare
la popolarità per cercare di convincere i cittadini da lui rappresentati a mondar-
si della colpa di aver compiuto un atto «immorale» e contrario al diritto, se vo-
gliono davvero «ritornare in Europa», ma c’è da chiedersi se essa è politicamen-
te fruttuosa. Le scuse, per ora unilaterali, fanno pane di un disegno politico in
pane esplicito e in pane pubblicamente inespresso. Va notato che Havel è un
sostenitore dell’integrazione europea ed è convinto che la Germania, nella co-
struzione europea, per via della sua tradizione culturale e di civiltà, ha una sua
specifica e positiva funzione. Questo, forse, gli fa velo nel riflettere sul presen-
te, sul passato e sul futuro del rapporto tra cechi e tedeschi (non soltanto quelli
di Cecoslovacchia). Egli vuole portare il suo paese nel campo delle «democra-
zie occidentali», dentro le strutture dell’Europa comunitaria, il che comporta a
suo parere la chiusura del contenzioso innanzitutto con la Germania occidenta-
le, dove da sempre operano – trovando orecchie condiscendenti oltre che a
Monaco di Baviera anche a Bonn – le organizzazioni dei tedeschi trasferiti dai
paesi a oriente, tra le quali è attivissima proprio la Sudetendeutsche Land-
smannschaft, che a detta dei suoi dirigenti conta centomila iscritti.
La motivazione implicita – che può servire a comprendere la rapidità con
la quale viene organizzata la visita del gennaio 1990, viene istituita pochi giorni
dopo una commissione mista di storici cechi, slovacchi e tedeschi, vengono av-
viate trattative per un nuovo accordo con la RfG e che può servire a spiegare la
recente accettazione (pronta e incondizionata, a differenza dell’atteggiamento
riluttante di polacchi e ungheresi) della partnership for peace offerta da Clinton
invece dell’ingresso nella Nato – è che si vuole dare subito il segno tangibile
che la Cecoslovacchia del dopo 1989 non fa più parte dei «paesi dell’Est», non è
più nella sfera d’influenza di Mosca. Il rischio – non può sfuggire a nessuno – è
che in tal modo si finisce in una posizione esattamente rovesciata rispetto a
quella assunta a Mosca, nel dicembre 1943, dal presidente in esilio Edvard Be-
nes, il quale fece non poche concessioni a Stalin, nel timore di una possibile
futura rinascita del militarismo e del nazionalismo della Germania, e rispetto a
quella assunta, anche per ragioni ideologiche, dai comunisti cecoslovacchi do- 199
HAVEL, LA GERMANIA E I SUDETI

po la presa del potere nel febbraio 1948. A ulteriore dimostrazione di ciò vi è


un altro elemento di non poco conto. Nello scritto del 1978, Il potere dei senza
potere, da me definito il «manifesto della rivoluzione morale» cecoslovacca, Ha-
vel parla di «crisi della democrazia», critica aspramente i meccanismi di quella
occidentale, anch’essa «manipolatrice di coscienze», descrive il tipo di società
«post-totalitaria» e «post-democratica» cui aspira (352). Oggi sembra aver dimen-
ticato o, almeno, sembra aver messo la sordina a quel suo disegno. Nel corso
di una visita negli Stati Uniti ha affermato di essere «lì per imparare la democra-
zia»; ha sostenuto che Weizsacker ha detto «abbastanza verità dure sulle soffe-
renze provocate al mondo in genere e a noi in particolare da molti tedeschi. O
più precisamente: da molti progenitori dei tedeschi di oggi», mentre i cecoslo-
vacchi non avrebbero detto «tutto quello che avrebbero dovuto dire» (353).
Per Havel, tuttavia, la riparazione «morale» – soddisfatta a suo parere con la
presentazione delle «scuse», che successivamente esprimerà anche all’Austria,
con la quale peraltro non vi è un contenzioso come quello esistente con i tede-
schi – non può e non deve riaprire una questione storicamente risolta: quella
dei confini, delle proprietà confiscate e del «trasferimento» di popolazione del
1945-’47. Mentre si sta discutendo il nuovo trattato cecoslovacco-tedesco, di
fronte all’intransigenza di Bonn a sanzionare la nullità del diktat di Monaco «fin
dall’inizio» e alle rivendicazioni crescenti della Sudetendeutsche Landsmann-
schaft, l’8 maggio 1991, un giorno prima di ricevere ad Aquisgrana il premio
Carlo Magno – che dal 1949 la città assegna a chi si è distinto per meriti straordi-
nari nel campo della comprensione e della collaborazione internazionale –
avanza una proposta di compromesso, resa nota dalla sua cancelleria soltanto il
24 febbraio 1992. Si apprende così che in un incontro durato un’ora e mezza
con Helmut Kohl, il presidente «ha chiesto alla parte tedesca se sarebbe disposta
a dichiarare esplicitamente che non sosterrà le rivendicazioni in fatto di pro-
prietà dei tedeschi sudeti nel caso in cui la Cecoslovacchia fosse pronta a rinno-
vare la cittadinanza individuale a quei tedeschi che l’avevano fino all’8 maggio
1945, che avessero interesse al ristabilimento della stessa e contemporaneamen-
te volessero risiedere stabilmente in Cecoslovacchia. Questa possibilità dovreb-
be essere collegata al riconoscimento esplicito della nullità dell’accordo di Mo-
naco fin dall’inizio. Perché solamente così diventerebbe indiscutibile, dal punto
di vista delle due pani, la continuità di tale cittadinanza. Il ristabilimento della
stessa non sarebbe collegato ad alcun diritto alla restituzione, ma renderebbe
possibile la partecipazione alla privatizzazione, che deriva automaticamente dal
possesso della cittadinanza cecoslovacca (354).
2. Il compromesso tuttavia non ha seguito, intanto perché né la costituzio-
ne cecoslovacca né quella tedesca (la quale per di più stabilisce che i confini
della Germania sono quelli del Reich al 31 dicembre 1937) ammettono la dop-
pia nazionalità (e Praga concede la cittadinanza se si ha la residenza stabile e si
supera un esame di lingua ceca) e poi perché crescono incessantemente le ri-
vendicazioni della Sudetendeutsche Landsmannschaft, che arriva a chiedere,
oltre al diritto al ritorno, la restituzione o l’indennizzo per tutti i beni confiscati,
una rappresentanza parlamentare e il riconoscimento di diritti collettivi. In que-
200 sta situazione si arriva alla firma, il 27 febbraio 1992, al Castello di Praga, del
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

Trattato di buon vicinato e amichevole collaborazione, che sostituisce quello


sui rapporti reciproci del 1973 e che viene ratificato il 22 aprile 1992 dal parla-
mento federale con 144 voti a favore, 33 contrari, 47 schede bianche e 2 asten-
sioni sul totale dei 300 deputati. Firma e ratifica suscitano in Cecoslovacchia
un’ondata di critiche e di reazioni negative. Sono in parecchi a sostenere che si
è concesso troppo a Bonn, che il nuovo documento è addirittura peggiore di
quello del 1973. Intanto, perché ancora una volta viene disattesa la principale
rivendicazione dei cecoslovacchi, avanzata già durante la guerra dal governo in
esilio a Londra e quindi da Praga, sistematicamente, ogni qualvolta si è parlato
o trattato sulla normalizzazione dei rapporti tra i due paesi: il riconoscimento
della nullità di Monaco fin dall’inizio. I critici, inoltre, sostengono che la dizione
usata a proposito dei confini statali cecoslovacchi (ieri, oggi cechi e slovacchi)
potrebbe, in determinate circostanze, aprire la possibilità di metterli in dubbio,
sia perché a Bonn si sostiene che l’«accordo» di Monaco fu valido fino al 15
marzo 1939, quando fu unilateralmente rotto da Hitler, sia perché nel nuovo
trattato non si parla di confini di Stato, bensì di «confini esistenti». Le «ragioni»
addotte dal governo tedesco, in effetti, non hanno molta consistenza. Quello di
Monaco, si afferma a Bonn, fu un «accordo» multilaterale, non può quindi esse-
re annullato da un’intesa bilaterale. Motivazione pretestuosa: il diktat fu impo-
sto ai cecoslovacchi – assenti – da Germania, Italia, Gran Bretagna e Francia. La
seconda e la quarta da lungo tempo hanno riconosciuto la «nullità fin dall’ini-
zio» (e l’Italia, dal canto suo, ha riconosciuto la «nullità» anche dell’arbitrato Cia-
no-Ribbentrop siglato a Vienna il 2 novembre 1938). La Gran Bretagna sostiene
che fu la Germania a stracciare l’accordo con l’invasione del marzo 1939 e che
nel corso della storia il Commonwealth britannico ha stipulato tanti di quegli
accordi ingiusti che annullarne uno potrebbe provocare una reazione a catena.
Da notare, peraltro, che documenti di validità internazionale adottati sulla base
delle risoluzioni dell’Onu definiscono nulli i trattati stipulati con la minaccia o
l’impiego della forza.
Ancora più pretestuosa la motivazione addotta per l’uso della dizione «con-
fini esistenti» trai due paesi. Nel testo firmato nel 1973 (art. IV,§ 1) si parla di «in-
violabilità dei confini comuni, per ora e nel futuro», in quello del 1992 (art. 3,§
1) il testo ceco suona: «Le parti contraenti confermano i confini statali tra loro
esistenti (...)», in quello tedesco, invece, scompare la parola «statali». Dal mini-
stero degli Esteri di Praga si obietta che si tratta di un problema nominalistico.
La verità è che nei trattati e negli accordi stipulati tra Praga e Berlino fino al
1939 si è sempre parlato di «confini statali», in trattati del 1972 e del 1977 firmati
tra Bonn e Vienna si parla di «confini statali» e, infine, nella motivazione di una
sentenza della Corte costituzionale federale del 1972, sui confini tra i due Stati
tedeschi, si afferma che i «confini esistenti» (bestebende Grenzen) sono «simili a
quelli che vi sono tra i Lander della RfG». Inoltre, il Trattato di buon vicinato del
1992 venne firmato da Vaclav Havel, allora presidente della Repubblica federa-
le ceca e slovacca, e dal cancelliere Helmut Kohl; quello dedicato ai rapporti
reciproci, del 1973, che permise anche il ristabilimento delle relazioni diploma-
tiche, recava le firme dei due capi di governo del tempo (Lubomir Shtrougal e
Willy Brandt) e dei rispettivi ministri degli Esteri (Bohuslav Chnoupek e Walter 201
HAVEL, LA GERMANIA E I SUDETI

Scheel). In ambedue i casi passarono diversi mesi prima che il parlamento te-
desco li ratificasse. Nel 1992 presidente del governo era lo slovacco Marian Cal-
fa e ministro degli Esteri Jiri Dienstbier. Con Havel erano rappresentanti dei
due movimenti (Foro civico e Opinione pubblica contro la violenza) che ave-
vano guidato il cambiamento a fine 1989 e avevano vinto le elezioni politiche
dell’anno successivo. Tra loro non vi erano divergenze di rilievo sulla politica
estera.
La situazione è profondamente cambiata dopo le elezioni del giugno 1992
e, soprattutto, dopo la separazione tra cechi e slovacchi. Dal gennaio 1993 Ha-
vel è presidente della Repubblica ceca, Vaclav Klaus (fondatore e presidente
del Partito democratico civico, nato dalla scissione del Foro civico) è presiden-
te del governo di Praga e un rappresentante del suo partito, Josef Zieleniec, è
ministro degli Esteri, ma non sembra avere molta voce in capitolo. Le divergen-
ze tra i primi due, in particolare a proposito della Germania e dell’Europa, non
potrebbero essere maggiori, seppure non hanno dato luogo, fino a oggi, a
scontri aperti.
Come ho già detto, il presidente è convinto che la Repubblica ceca può
entrare nel consesso degli Stati occidentali se fa i conti con il proprio passato,
se riconosce i «propri torti» nei confronti dei tedeschi, non mettendo in causa,
però, i confini o riaprendo il capitolo delle «espulsioni», della restituzione dei
beni confiscati o più ancora accettando il principio della rifusione dei danni
che avrebbero subito i «tedeschi dei Sudeti». In breve: per Havel la Germania è
un problema europeo, un problema che ci riguarda tutti perché riguarda la de-
mocrazia europea, un problema morale che è tale non soltanto per i tedeschi.
Agli antipodi, invece, per carattere, concezione politica e comportamento è il
premier Klaus, che i giornalisti cechi e stranieri definiscono di volta in volta
pragmatico, thatcheriano, aggressivo, perfino arrogante. Egli non sembra avere
molto interesse alla costruzione europea. È convinto che già oggi il paese ha
tutti i titoli per entrare nelle istituzioni occidentali (355).

3. Prima di passare a esaminare gli effetti della «duplice» politica estera ver-
so la Germania, le reazioni di questa e di cercare di individuare alcune possibili
linee di tendenza ritengo utile, soprattutto per il lettore italiano, che dispone di
scarsissime fonti sull’argomento e che spesso è fuorviato da una pubblicista as-
solutamente superficiale, ricapitolare quanto più brevemente e meno somma-
riamente possibile la storia dei rapporti tra cechi, in particolare, e abitanti di lin-
gua tedesca della Cecoslovacchia nei primi trent’anni di esistenza di questo Sta-
to. I confini del nuovo Stato, proclamato il 28 ottobre 1918 mentre si dissolve
l’impero austro-ungarico, stabiliti alla conferenza di Versailles e con i successivi
accordi internazionali sui diritti delle «minoranze» di Saint Germain e del Tria-
non, oltre che con la Polonia, delimitano un territorio pari a meno della metà di
quello italiano. A ovest, nord-ovest e sud-ovest sono in gran parte quelli storici
della corona ceca (Boemia e Moravia, in particolare), mentre la Slovacchia è se-
parata dalla Polonia, a nord, dai monti Tatra, e dall’Ungheria, a sud, dal Danu-
bio. Una lingua di terra a est, la Rutenia o Russia subcarpatica, nel 1945 entrerà
202 a far parte dell’Urss (Ucraina), che in tal modo si troverà ad avere confini co-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

muni anche con la Cecoslovacchia e l’Ungheria, oltre che con la Polonia e la


Romania.
In quel territorio vivono, secondo i dati del censimento del 1921, poco più
di 13 milioni di persone, di cui 6.831.618 cechi e 1.968.100 slovacchi (67,6% del
totale), 3.207.213 «tedeschi» (24,7% del totale, ma oltre 3 milioni sono nei paesi
cechi, dove rappresentano il 30,6% degli abitanti), 657.646 sono gli ungheresi
(5,1% del totale, ma in Slovacchia costituiscono il 21,7%), meno dell’1% sono i
polacchi e altrettanti gli ucraini e i russi, preponderanti in Rutenia. Dieci anni
dopo, al censimento del 1930, il totale degli abitanti sfiora i 14 milioni, ma è ca-
lato dell’1,1% il numero dei «tedeschi» (356). Quando a Versailles si discute la si-
stemazione dell’Europa, dopo la sconfitta degli imperi centrali, i rappresentanti
di Praga, per affermare l’idea che i «tedeschi» sono una minoranza ricorrono a
un’invenzione: l’esistenza di una «nazione cecoslovacca». È vero, inoltre, che in-
glesi e francesi, in particolare, hanno interesse che il nuovo Stato sia vitale an-
che per poter far parte del «cordone sanitario» da stringere attorno alla Russia
bolscevica. Per cui risultano vani tutti i tentativi dei «tedeschi di Cecoslovacchia»
di vedere riconosciuto il loro diritto all’autodecisione e lo sforzo per dare vita a
uno Stato austro-tedesco, che comprenda i «sudeti» e il «loro» territorio.
Un’altra ragione, per la quale vengono disattese, anzi tradite, le attese e le
promesse di un’ampia autonomia, politica, culturale e amministrativa, per le di- 203
HAVEL, LA GERMANIA E I SUDETI

verse componenti etniche della nuova repubblica è da individuare nella politi-


ca dei governi che si succedono a Praga fin dall’autunno 1918, a cominciare dal
primo, quello diretto da Karel Kramar, il quale definisce la Cecoslovacchia uno
«Stato ceco» che – addirittura – accoglie gli slovacchi come figlioli prodighi «che
finalmente tornano all’ovile» (357).
I primi anni di vita del nuovo Stato centroeuropeo sono segnati da fermenti
nazionalistici e da timori di sviluppi rivoluzionari (indotti dalla nascita della Rus-
sia bolscevica), nonché dallo sforzo, anche militare, per assicurare i confini. Non
c’è dubbio che è qui un’altra delle ragioni per le quali vengono prima rinviate e
poi abbandonate le idee del primo presidente Tomas Garrigue Masaryk sulla
costruzione di una democrazia multinazionale, di una «Svizzera nel cuore
dell’Europa».
Nessun rappresentante dei «tedeschi», in particolare, viene nominato
nell’Assemblea nazionale provvisoria che elabora la prima costituzione del
1920; una legge dello stesso anno stabilisce che lingua ufficiale dello Stato è
un’inesistente «lingua cecoslovacca». Dal canto loro, i «tedeschi sudeti» rifiutano
per anni ogni offerta di partecipare alla costruzione del paese e insistono con la
richiesta di autonomia, considerata da Praga l’anticamera dell’indipendenza.
Dall’aspirazione a non perdere le posizioni dominanti, fino allora occupate so-
prattutto dalla borghesia «tedesca», si sviluppa, negli anni Venti, l’irredentismo
dei «sudeti». Nel settembre 1919 nasce la Deutsche Nationalpartei e nel novem-
bre successivo la Deutsche nationalsozialistische Arbeiterpartei, i cui rappre-
sentanti si incontrano il 7 e l’8 agosto 1920 a Salisburgo con dirigenti di partiti
nazionalisti austriaci e tedeschi, tra i quali Hitler, e concordano un comune pro-
gramma «grandetedesco». L’attività di DNP e DNSAP viene proibita dal governo
di Praga il 4 ottobre 1933, due giorni dopo la nascita del movimento di Konrad
Henlein (358).
La secolare convivenza di cechi e «tedeschi», che seppure segnata da perio-
di conflittuali e di tensione – soprattutto nel XIX secolo, al tempo della forma-
zione degli Stati nazionali – aveva dato notevoli frutti, in particolare nello svi-
luppo economico e culturale, si trasforma in confronto, che si fa più aspro con
il passare del tempo. A metà degli anni Venti sembra che possa prodursi una
svolta nel rapporto tra le due componenti etniche, ma ben presto la situazione
muta, in peggio. L’occasione è l’arrivo della crisi economica che in Cecoslovac-
chia esplode nel 1930, più tardi che negli altri paesi dell’Europa occidentale,
tuttavia con effetti devastanti sulle strutture del giovane Stato: rispetto al 1929,
nel 1933 la produzione crolla al 60%, le esportazioni precipitano al 28%, nel
febbraio di quell’anno si contano, nel paese, 920 mila disoccupati (359). A es-
sere colpite sono principalmente l’agricoltura e l’industria dei beni di consumo,
soprattutto quella tessile e quella del vetro, sicché a farne le spese sono in par-
ticolare, oltre gli slovacchi in maggioranza addetti all’agricoltura, proprio i «te-
deschi sudeti».
L’ascesa al potere di Hitler in Germania, nello stesso 1933, con la ripresa
economica dovuta al suo programma di riarmo, non manca di avere effetti sul
malcontento sociale e sul non sopito nazionalismo dei -tedeschi di Cecoslovac-
204 chia-: nelle elezioni per la Camera dei deputati, che si svolgono il 19 maggio
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

1935, il Partito tedesco sudeto di Henlein, che andava avvicinandosi sempre


più al nazismo, risulta il primo partito della repubblica con il 15,2% dei suffragi
ottenuti su scala statale (contro il 14,3 del Partito repubblicano degli agricoltori
e del popolo contadino, il 13,6 dei socialdemocratici e il 10,3 dei
comunisti),che rappresentano oltre i 2/3 dei voti andati ai partiti «tedeschi»
(360).
Seguono due anni di duro confronto tra autorità di Praga e rappresentanti
del partito di Henlein e di crescenti rivendicazioni da parte di questi (dietro le
cui spalle si profila con maggiore nitidezza la silhouette del Fuhrer). Nel no-
vembre 1937, con l’udienza accordata da Hitler a Edward Halifax, che tre mesi
dopo sostituirà Anthony Eden come titolare del Foreign Office, ha inizio la lun-
ga crisi, che culminerà con Monaco, con la frantumazione della Cecoslovacchia
e la fine dell’Europa centrale disegnata a Versailles. Nel febbraio 1938 il pre-
mier Neville Chamberlain dice tra l’altro in un suo discorso: «(...) Non dobbia-
mo autoingannarci e tanto meno ingannare le nazioni piccole e più deboli so-
stenendo che devono convincersi che saranno difese dalla Società delle nazio-
ni contro un attacco, sebbene sappiamo che niente di simile ci si può aspetta-
re». Quasi negli stessi giorni Adolf Hitler assume il patronato sui «10 milioni di
tedeschi che vivono in due Stati confinanti (361)». E il mese successivo la Ger-
mania si annette l’Austria. In questo torno di tempo, e su istruzioni ricevute da
Berlino, Henlein presenta richieste sempre meno accettabili da parte di Praga e
che significano di fatto la liquidazione dello Stato cecoslovacco. Dopo la farsa
della «missione Runciman», il 29 settembre, a Monaco, Germania e Italia, Gran
Bretagna e Francia impongono a Praga di cedere alla prima un quinto del pro-
prio territorio (comprese le «difese naturali» della Sumava, della Selva boema e
dei monti Metalliferi), abitato anche da quasi un milione di cechi. E sei mesi
dopo Hitler decide la separazione della Slovacchia e istituisce il «Protettorato di
Boemia e Moravia». È la fine dell’Europa di Versailles, ma è anche l’inizio della
seconda guerra mondiale. Al termine della quale i cecoslovacchi conteranno
360 mila morti (di cui 250 mila in carcere o nei campi di sterminio e di concen-
tramento) e si ritroveranno con un sistema economico disastrato.
4. Se fattore decisivo della tragica sorte subita allora dalla Cecoslovacchia
fu il nazismo, è certo che una non piccola parte di responsabilità spetta ai «te-
deschi sudeti», che nella stragrande maggioranza sostennero attivamente la po-
litica che ampliò e approfondì il solco che li divideva dai cechi fino a farlo di-
ventare un abisso. Chi vuole cercare le ragioni del comportamento, perfino
brutale, dei cechi nell’immediato dopoguerra, della loro arroganza nel credere
che l’unica garanzia per la loro esistenza ulteriore fosse quella di avere uno Sta-
to «nazionale», trova in Monaco, nella sua preparazione, nelle sue conseguenze,
nella politica di germanizzazione forzosa, nell’Olocausto, in breve nella politica
hitleriana perseguita fino all’ultimo istante dai nazisti una delle motivazioni ori-
ginali (362). Ha detto Franz Neubauer, leader della Sudetendeutsche Land-
smannschaft, che bisogna «sottrarsi alle ombre di Stalin, di Hitler e di Benes»; di-
mentica non a caso Konrad Henlein (363); vuole semplificare personalizzando,
ma fa violenza alla storia. Edvard Benes, succeduto alla fine del 1935 a Ma-
saryk, si sforzò di trovare una soluzione ragionevole del problema dei «sudeti». 205
HAVEL, LA GERMANIA E I SUDETI

Ancora nell’esilio londinese, dopo Monaco e l’occupazione del paese, pensava


a cessioni di territorio, per trasferire parte della popolazione «tedesca». Fu Sta-
lin, ma nel dicembre 1943, e furono gli alleati a non essere d’accordo con l’am-
pliamento dei confini del Reich sconfitto e prima di quella data il presidente
Franklin D. Roosevelt si era detto d’accordo con il trasferimento.
L’idea del trasferimento generale e obbligatorio nasce negli ambienti della
resistenza interna non comunista e soprattutto in quella dei militari, dove subi-
to dopo Monaco e dopo l’occupazione del 15 marzo 1939 si comincia a pensa-
re al futuro del paese da ricostituire «nei confini storici», cioè di prima di Mona-
co e senza più la minaccia di una ripetizione del passato. I comunisti cechi e
slovacchi inizialmente non condividono l’idea: fino all’aggressione all’Urss (22
giugno 1941) ritengono che il «proletariato» dei paesi belligeranti e occupati
scatenerà la rivoluzione mondiale. Nel 1943 pensano ancora alla condanna,
compresa l’espulsione e la confisca delle proprietà, di chi ha aiutato Hitler e al-
la possibilità di optare per la Cecoslovacchia per tutti gli altri, una soluzione, tra
l’altro, da realizzare «con l’attiva partecipazione degli antifascisti tedeschi»; nel
‘45, nel Programma governativo di Kosice, da loro elaborato e accettato dagli
altri partner come programma del primo governo della restaurata repubblica, si
fa distinzione tra «cecoslovacchi tedeschi e ungheresi leali» e «criminali» e si sta-
bilisce che «quei tedeschi e quegli ungheresi che saranno giudicati e condanna-
ti per delitti contro la repubblica e contro il popolo ceco e slovacco verranno
privati della cittadinanza cecoslovacca ed espulsi per sempre dalla repubblica,
qualora non condannati alla pena capitale» (364). (Le ragioni per le quali furo-
no poi i comunisti a trarre il maggior profitto politico dagli avvenimenti del
1945-’47 oltrepassano i limiti di queste pagine.) Con una serie di decreti del
presidente della Repubblica Edvard Benes, nel 1945, vennero decisi il trasferi-
mento e la confisca dei beni dei traditori, dei collaborazionisti, dei trasferiti. A
proposito delle cifre dei trasferiti, lo storico ceco Tomas Stanek scrive, in un li-
bro in cui analizza il fenomeno e le sue pesanti conseguenze materiali, che gli
autori tedesco-occidentali concordano nel ritenere che nel 1950 risultavano
«espulse dalla madrepatria» (compreso l’incremento demografico) i milione 850
mila persone verso la RfG, 880 mila verso la Rdt e 160 mila verso l’Austria e altri
paesi, per un totale di 2 milioni 890 mila persone (365).
Non e giusto né corretto, infine, parlare di responsabilità collettiva di tutti i
cechi e gli slovacchi per aver superato l’ambito e le delimitazioni suddette, in
particolare per la prima fase del trasferimento, senza ricordare, tra l’altro, che
furono i tedeschi ad accusare di responsabilità collettiva i francesi, gli ebrei, e
poi per questi e per gli zigani, i comunisti, gli intellettuali antifascisti, le «razze
inferiori» inventarono la Endlosung, la soluzione finale. Non si può fingere di
dimenticare il contesto storico degli eccessi dei popoli minacciati di scompari-
re, le loro motivazioni profonde; non si possono applicare criteri di giudizio
che sono i nostri, di quest’ultimo decennio del secolo, ad avvenimenti di mez-
zo secolo fa. E ancora, due domande tra parentesi, per concludere quest’argo-
mento: se la guerra contro il fascismo italiano non diventò guerra contro gli ita-
liani non fu anche per la ventennale opposizione, per quanto limitata, al fasci-
206 smo, per la Resistenza, per la guerra di Liberazione, per l’insurrezione naziona-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

le del 25 aprile 1945? E perché dimenticare gli apprezzamenti e i giudizi positivi


sulla situazione della Cecoslovacchia che rinasceva, espressi, tra gli altri, da
Winston Churchill nel 1946?
5. Per la seconda volta, dopo la prima e dopo la seconda guerra mondiale,
interi strati di tedeschi non si sono rassegnati alle conseguenze della sconfitta
militare. E un fatto che alla fine dell’ultimo conflitto sono nate – e hanno conti-
nuato a operare per tutti questi anni nella pane occidentale del paese – «asso-
ciazioni» di profughi dall’Est. Non pochi politologi e storici sostengono che la
Germania ha ormai fatto i conti con il proprio passato nazista, appartiene pie-
namente al «campo delle democrazie occidentali». Ma se ci si ferma a riflettere
sugli episodi di xenofobia di cui devono occuparsi con frequenza le cronache
giornalistiche, sulla vivace tendenza storiografica revisionista e sull’arroganza
crescente delle rivendicazioni delle diverse Landsmannschaften, bisogna dire
che quel giudizio perentorio andrebbe quanto meno articolato. Restiamo anco-
ra al tema di questo scritto. La Repubblica ceca – è noto a tutti – è incompara-
bilmente più debole, e non soltanto dal punto di vista economico, della Ger-
mania. Ebbene: «la Baviera e la CSU hanno un argomento forte per costringere
i cechi a un compromesso (sulla questione dei «sudeti»): l’oleodotto di Ingol-
stadt, di cui Praga ha estremo bisogno per ridurre la sua dipendenza dal greg-
gio russo. I verdi e i diversi proprietari terrieri bavaresi da espropriare si op-
pongono. La loro opposizione potrebbe più facilmente essere superata se i ce-
chi fossero più morbidi sulla questione dei sudeti – ha sapientemente dichiara-
to il premier bavarese Edmund Stoiber (366).
In precedenza, in maggio, in occasione delle «Giornate sudeto-tedesche» il
portavoce della SL, appoggiato dal presidente Edmund Stoiber, aveva chiesto il
«diritto al ritorno» e la restituzione delle proprietà, cioè l’annullamento dei de-
creti Bene? del 1945. Ma anche a Bonn si sostiene la necessità del «dialogo» tra
«sudeti» e autorità di Praga, come si è visto in occasione della visita-scontro tra
una delegazione del parlamento ceco e una del Bundestag, lo scorso autunno.
E siamo arrivati all’assurdo: il ministero degli Esteri di Praga ha dovuto precisa-
re che è «assolutamente escluso» che la Sudetendeutsche Landsmannschaft
«possa avere nella Repubblica ceca una qualche rappresentanza che possa ras-
somigliare a una missione diplomatica»(367) .
Potrà non essere compito degli storici valutare la portata politica – e le
conseguenze possibili – delle loro affermazioni. Lo slovacco Jan Mlynarvk, per
esempio, sostiene che nel 1945-’47 non vi fu «trasferimento», bensì «espulsione»,
che si trattò di un «crimine internazionale», ma rileva: «Così come non esisteva
una colpa collettiva dei tedeschi, non è esistita neanche una colpa collettiva dei
cechi e degli slovacchi per l’espulsione dei tedeschi dalla Cecoslovacchia. Fu
un atto di politici irresponsabili e di criminali che cercarono di rimediare con la
brutalità al loro fallimento durante la guerra, al loro collaborazionismo» (368).
Dal canto suo il presidente Havel sostiene (nell’intervista alla radio del 12 set-
tembre 1993) che «a condurre il dialogo» dovrebbe essere un gruppo di: perso-
ne «per incarico del potere politico» e insieme riafferma che «è impensabile»
espropriare chi è diventato proprietario per accadimenti storici di mezzo secolo
fa, che si potrebbe restituire – senza conseguenze materiali – il «titolo di cittadi- 207
HAVEL, LA GERMANIA E I SUDETI

ni cechi», a condizione però che la Germania ammettesse l’istituto della doppia


cittadinanza e dichiarasse nulli «gli accordi di Monaco fin dall’inizio». Ci si può
stupire, allora, che il 76% dei cechi ritenga «giusto o assolutamente giusto» il
«trasferimento», che il 62% sia convinto che non si debba «preferibilmente o de-
cisamente trattare» con i tedeschi? Intanto, però, il ministro dell’interno di Praga
ha aperto una prima breccia: al nobile Karl Des Fours Walderode, esponente
del partito di Henlein e combattente della Wehrmacht, sono state restituite cit-
tadinanza e proprietà, nonostante il ricorso della procura generale ceca (369).
A conclusione, vorrei rilevare che l’annullamento dei decreti Benes del
1945 significherebbe dover ammettere, domani, che erano tutti innocenti i «te-
deschi di Cecoslovacchia». Poiché Bonn, nonostante gli accordi di Helsinki e
successivi, non ritiene «confini di Stato» quelli esistenti con la Repubblica ceca si
profila il rischio di una rinascita del revanscismo. Rischio non molto ipotetico,
se si pensa che l’«espulsione» del 1945-’47 potrebbe essere definita, domani, un
atto da condannare in sede internazionale.

Note
346. La notizia mi è stata fornita da uno stretto collaboratore dello stesso presidente.
347. Questo termine, entrato ormai da tempo nell’uso comune, è altrettanto storicamente impreciso quanto la
dizione «tedeschi di Cecoslovacchia». I sudeti (Sudety in ceco, Sudeten in tedesco) sono i monti che si esten-
dono per circa 250 km tra la valle dell’Elba e la Porta morava (nella Moravia settentrionale, al confine con la
Polonia). Qui restarono, al tempo delle grandi migrazioni attorno al 1000, gruppi di germani. Qualche secolo
dopo gente di lingua tedesca, proveniente in particolare dalla Sassonia, dalla Baviera e dall’Austria, cominciò
a insediarsi nelle zone orientali della Boemia e meridionali della Boemia e della Moravia attuali.
348. Una tradizione ben diversa dalla cultura politica occidentale, derivata da Machiavelli, Montaigne, Hobbes
eccetera. Lo storico cecoslovacco Josef Macek scriveva sul finire degli anni Sessanta che la «lezione» machia-
velliana e i dibattiti sul machiavellismo arrivarono tardi nei paesi cechi e, per di più, filtrati dalla riforma pro-
testante, dalla restaurazione cattolica o strumentalizzati per la lotta politica (J. MACEK, Machiavelli e il ma-
chiavellismo, traduzione, introduzione e cura di L. Antonetti, I edizione mondiale, Firenze 1980, La Nuova Ita-
lia, pp. 271-272 e 347-349).
349. V. HAVEL, «Autoritratto», in Centro internazionale di Brera, Vaclav Havel. Dissenso culturale e politico in
Cecoslovacchia. Per una decifrazione teatrale del codice del potere, a cura di c. Guenzani, Venezia Marsilio
editori, pp. 39-4l; V. HAVEL, Interrogatorio a distanza. Conversazione con Karel Hvizdala, prefazione di P.
Flores d’Arcais, Milano 1990, Garzanti, pp. 27, 32, 41-42 et passim; V. HAVEL, il potere dei senza potere, post-
fazione di L. Antonetti, Milano 1990 (ma l’originale uscì in samizdat verso la fine del 1978), Garzanti.
350. Ivi, pp. 131 e 130-131. È interessante rilevare che mentre dal 1945 al 1989 in Cecoslovacchia si adoperava il
termine odsun = rimpatrio, per definire il trasferimento dei tedeschi dopo la guerra, Havel usa sempre (salvo
che in questa intervista alla televisione del 23 dicembre 1989) il termine vybnani= espulsione; dal canto suo,
la commissione mista di storici ha concordato di impiegare «espulsione e sgombero» (vybnani a vystebovani
in ceco, Vertreibung und Aussiedlung in tedesco). Cfr. l’intervento di Jan Kren alla conferenza tenuta a Jihla-
va, dal 10 al 12 aprile 1992, organizzata dalla Ackermann-Gemeinde e dalla Fondazione Bernard Bolzano, in
Deutscbe und Tachechen, neue Hoffnung?-Cesi a Nemci, nova nadeje?, Praha 1992, pp. 218 e 226.
351. V. HAVEL, «Projev pri navsteve prezidenta Richarda von Weizsackera (Praba, 15 brezna 1990)» («Discorso in
occasione della visita del presidente Richard von Weizsacker [Praga, 15 marzo 1990]»), in Projevy… cit., pp.
79-86.
352. V. HAVEL, Il potere dei senza potere, cit., pp. 93-98; L. ANTONETTI, «Postfazione. Havel: libertà e politica
per l’uomo», ivi, pp. 108-109.
353. V. HAVEL, «Projev…» cit., p. 81.
354. Komu slusi omluva cit., pp. 169-170, da cui sono tratte anche le citazioni che seguono. Cfr. inoltre M. KO-
RINMAN, «Euroregioni o nuovi Lander?», Limes, n. 4/1993, p. 72.
355. «Lodarsi non è di moda (…), ma a Davos si è guardato alla Repubblica ceca come a un modello che si do-
vrebbe imitare», ha detto Klaus, riferendo sui lavori dell’ultimo World Economic Forum tenutosi nella cittadi-
na svizzera nello scorso gennaio. Svobodne slovo (La parola libera), 2/2/1994, cit. da S. RAVIK, Cbaos nebo
208 bordel? (Caos o bordello?), Praha brezen 1994, Nakladatelstvi alternativy, p. 17.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

LA GERMANIA
AL CENTRO
DELL’EUROPA di Enrico LETTA

Il forcing tedesco per allargare l’Unione europea ad Austria, Svezia,


Finlandia e Norvegia significa per Bonn la conquista
della centralità geopolitica. Roma deve spingere per la creazione
di un nucleo duro a sette, con moneta unica e sicurezza comune.

I L 4 MAGGIO, DURANTE L’ULTIMA SES-


sione della legislatura, prima dello scioglimento e delle elezioni del 12 giu-
gno, il parlamento europeo ha avuto il suo giorno di gloria.
Relegato in un ruolo marginale da sempre, il parlamento, che ha visto
aumentare il suo distacco nei confronti delle altre istituzioni comunitarie con
il Trattato di Maastricht, si è trovato a dover decidere, per una volta realmen-
te, sul futuro dell’Europa.
Era infatti all’ordine del giorno l’espressione del parere conforme, secon-
do la procedura dell’articolo O, secondo comma, delle disposizioni finali del
Trattato di Maastricht, sull’adesione di Austria, Finlandia, Norvegia e Svezia
all’Unione europea. Si trattava della tappa finale di un processo che nasceva
da lontano, ma che, soprattutto, guardava lontano.
Il voto del parlamento, se positivo, come poi è stato, avrebbe conferma-
to modi e tempi del processo di allargamento e di approfondimento della
coesione europea; ma, in caso di voto negativo, l’intera prospettiva ne sareb-
be uscita mutata. Il voto quindi andava al di là delle singole vicende legate
ad Austria, Finlandia, Norvegia e Svezia, e metteva in discussione l’intero di-
segno della costruzione europea.
Sulla base di queste implicazioni il voto del 4 maggio è vissuto attorno al
protagonismo tedesco che, nella piena consapevolezza della posta in gioco,
ha guidato la difficile vicenda parlamentare. Per la Germania l’allargamento a
nord-est dell’Unione significa infatti abbandonare l’attuale posizione di fron-
tiera e conquistare la collocazione geopoliticamente centrale in Europa.
Il cancelliere Kohl in persona ha scritto una lettera ufficiale a tutto il par-
lamento europeo tratteggiando le ragioni del parere positivo e ha spedito let-
tere informali ai leader nazionali dei partiti alleati della CDU per sollecitare
l’impegno e la solidarietà attraverso la presenza dei parlamentari europei a
Strasburgo nell’ultima, decisiva sessione, in cui tra l’altro era richiesta la mag- 209
LA GERMANIA AL CENTRO DELL’EUROPA

gioranza assoluta dei voti. Alla fine il risultato è stato favorevole all’allarga-
mento, con percentuali molto alte, in particolare nei due gruppi più consi-
stenti del parlamento europeo, il Pse (170 sì, 13 astenuti e 7 no) e il Ppe (136
sì, 8 astenuti e 7 no).

Un legame che viene da lontano


La marcia di avvicinamento dei paesi dell’Efta verso la Comunità prima e
l’Unione europea poi ha accompagnato il processo di integrazione europea
fin dall’inizio. Simili premesse hanno facilitato i negoziati per l’adesione dei
quattro paesi dell’Efta, che si sono svolti secondo le indicazioni contenute
nelle conclusioni del Consiglio di Edimburgo del dicembre del 1992.
Allora i Dodici stabilirono, innanzitutto, che il rapporto con il Trattato di
Maastricht era di tipo logico e sostanziale e non cronologico e formale. La
condizione per l’ammissione era infatti basata sull’accettazione da parte dei
paesi candidati dell’intero contenuto del Trattato e dell’acquis communau-
taire, ma senza che vi fosse un legame formale tra la conclusione dell’iter
procedurale attraverso le ratifiche nazionali e l’inizio del negoziato stesso,
come era stato invece in un primo tempo stabilito nel Consiglio europeo di
Lisbona del giugno dello stesso anno. Il testo delle conclusioni prende atto
infatti «dell’accordo concluso sul finanziamento futuro e delle prospettive di
una rapida ratifica del Trattato sull’Unione da parte di tutti gli Stati membri». Il
motivo dell’accelerazione era legato in gran parte alla necessità di mantenere
le scadenze che lo stesso Trattato poneva per il futuro dell’Unione.
In particolare l’attenzione era posta sulla prossima Conferenza intergo-
vernativa, prevista dall’articolo B delle disposizioni comuni e dall’articolo N
comma 2 delle disposizioni finali del Trattato, per il 1996, con l’obiettivo di
«mantenere integralmente l’acquis communautaire e svilupparlo al fine di
valutare in quale misura si renda necessario rivedere le politiche e le forme
di cooperazione instaurate dal presente Trattato allo scopo di garantire l’effi-
cacia dei meccanismi e delle istituzioni comunitarie».
L’allungamento dei tempi della ratifica di Maastricht dovuto ai problemi
legati al voto contrario espresso dal referendum danese aveva infatti messo
in forse la possibilità di concludere la vicenda dell’ingresso dei paesi dell’Ef-
ta, candidati all’adesione, prima della Conferenza intergovernativa del 1996.

Un’Europa a 16,20,22,30…
L’indicazione sul futuro dell’Unione per quanto riguardava i suoi possibili
allargamenti era contenuta nelle conclusioni del Consiglio europeo di Lisbo-
na. Si disegnava in quella sede uno sviluppo distinto in due tempi. Un primo
tempo riguardava i paesi dell’Efta che, per le condizioni di sviluppo e i rap-
porti ormai stretti con l’Unione attraverso lo Spazio economico europeo, sa-
210 rebbe dovuto avvenire subito, sulla base dell’accettazione di Maastricht e
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

dell’acquis, e che non avrebbe comportato la necessità di una parallela opera


di riforma complessiva delle istituzioni dell’Unione europea. Infatti, si diceva,
l’allargamento non sarebbe stato di proporzioni tali da sconvolgere gli equili-
bri numerici dell’Unione, che sarebbe passata da dodici a sedici Stati membri
e da 320 a 350 milioni di abitanti, e che soprattutto non avrebbe visto grossi
problemi di convergenza tra paesi già abituati a convivere tra di loro.
In questa logica a Lisbona si individuava nella Conferenza intergoverna-
tiva del 1996 lo spartiacque per il futuro dell’equilibrio politico e istituzionale
dell’Unione. Si poneva infatti la necessità che alla Conferenza stessa parteci-
passero, ormai come membri di pieno diritto, i paesi dell’Efta e che in quella
sede si stabilissero le linee di una riforma generale che rendesse possibile un
futuro in cui dell’Unione potessero far parte anche altri paesi ormai da tem-
po candidati all’adesione e che per le loro caratteristiche geografiche econo- 211
LA GERMANIA AL CENTRO DELL’EUROPA

miche e politiche avrebbero creato uno scompenso negli equilibri dell’Unio-


ne in caso di ingresso senza riforma istituzionale.
Si rinviava quindi a dopo la Conferenza la presa in esame delle richieste
di ingresso dei paesi dell’Europa centrale e orientale e di quelli del Mediter-
raneo. A questo già complesso scadenzario bisognava aggiungere la neces-
sità del passaggio presso il parlamento europeo per l’espressione del parere
conforme sulle adesioni dei nuovi membri, in base all’articolo O, comma 1,
del Trattato di Maastricht, così come già inserito nei Trattati Cee dall’Atto uni-
co europeo nel 1985. Il problema, in questo caso, era dato dallo svolgimento
delle elezioni per il rinnovo del parlamento europeo nel giugno del 1994,
che, per via dei tempi necessari alla conclusione della legislatura e all’inizio
della nuova, avrebbe creato un serio intoppo.
Infatti i quattro paesi dell’Efta candidati all’adesione avevano indetto re-
ferendum consultivi nei propri paesi per perfezionare politicamente il pro-
cesso di adesione. Essi si sarebbero dovuti svolgere nel periodo che intercor-
re tra l’espressione del parere conforme del parlamento europeo e la data
prevista per l’ingresso formale nell’Unione.
E qui il problema stava, per rispettare le tappe future, nella necessità di
concludere il passaggio presso il parlamento europeo prima del termine del-
la legislatura per evitare i tempi, forzatamente lunghi, derivanti dal dover
aspettare la costituzione del nuovo parlamento e di tutti i suoi organi.
In questa logica la decisione di Edimburgo, che permetteva l’inizio dei
negoziati anche in mancanza di tutte le ratifiche nazionali del Trattato di
Maastricht, ha consentito il rispetto dello scadenzario generale. Non si tratta-
va evidentemente di un fatto formale. La questione era tutta politica, dato
che consentiva la prosecuzione del cammino dell’integrazione europea lun-
go l’unico possibile compromesso che era stato faticosamente raggiunto, e
concretizzato nelle conclusioni del Consiglio europeo di Lisbona, tra chi sot-
tolineava le necessità dell’allargamento e chi quelle dell’approfondimento
della coesione dell’Unione.

Le strane alleanze
Fin da quando è ripartito il treno dell’unificazione europea, dopo gli
sbandamenti seguiti alla caduta del Muro di Berlino, la dialettica tra allarga-
mento e approfondimento è diventato il punto centrale del dibattito e delle
scelte dell’Europa del futuro.
Diversi gli elementi che componevano il quadro. Da una parte un nume-
ro crescente di paesi europei che ponevano in modo sempre piò insistente la
loro candidatura all’adesione, dall’altra la caduta del comunismo che aveva
«liberato» sia i paesi dell’Europa centrale e orientale, sia paesi come Finlandia
e Austria, obbligati formalmente o politicamente a scelte di neutralità.
In particolare la situazione dei paesi dell’Est interrogava l’Europa occi-
dentale sulla sua capacità di piegare un disegno di decennale lentezza, come
212 quello dell’integrazione comunitaria, alle esigenze di immediata drammati-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

cità di paesi da assistere e legare ai modelli di sviluppo occidentali. In paral-


lelo vi era il processo di integrazione interno alla Comunità che, con il com-
pletamento del Mercato unico e gli obiettivi fissati a Maastricht, trasformava
la Comunità in una vera e propria Unione, con prospettive federaliste molto
avanzate.
Rispetto a queste linee, portate avanti soprattutto dai sei paesi «originari» e
dai poteri comunitari di tipo sovranazionale, si misurava l’insofferenza inglese
e danese, cioè di coloro che avevano scelto la Comunità europea più per co-
strizione che per entusiasmo federalista. Il dibattito e le scelte sull’allargamen-
to vanno interpretate a partire da questi elementi, sulla base dei quali si pos-
sono capire le strane alleanze che si sono verificate strada facendo.
La Germania infatti si è fatta paladina della linea di allargamento con
l’impegno a individuare e raggiungere come obiettivo finale l’ingresso in un
periodo ragionevole di tempo dei paesi dell’Europa centrale e orientale. Su
questa linea si è trovata alleata di Gran Bretagna e Danimarca che, senza
condividere il contestuale impegno tedesco per l’approfondimento della
coesione interna, hanno invece favorito l’allargamento in funzione diluente
rispetto alle prospettive di unificazione.
Quando però si è trattato, una volta acquisita l’adesione dei quattro can-
didati dell’Efta, di discutere a Ioannina, in Grecia il 27 marzo, sull’adegua-
mento dei meccanismi numerici di maggioranze e minoranze nelle votazioni
del Consiglio, la stessa Gran Bretagna, alleata questa volta della Spagna, ha
rischiato di far saltar tutto il processo di allargamento, per non veder dimi-
nuita la propria capacità di porre veti nei processi decisionali del Consiglio.
Alla fine, a loannina, dopo un duro scontro che ha visto il suo momento cul-
minante in un confronto quasi fisico tra il ministro degli Esteri tedesco Kinkel
e quello francese Juppé, è passata la linea tedesca che sulle questioni degli
equilibri istituzionali derivanti dall’allargamento a 16 proponeva un mero
adeguamento alla nuova situazione dei precedenti schemi (da 23 a 27 il nu-
mero di voti per la minoranza di blocco), rinviando completamente la rifor-
ma istituzionale alla Conferenza intergovernativa del 1996.
L’unica concessione – in verità dal rilievo assai oscuro – a inglesi, spa-
gnoli e francesi è contenuta nel punto 1C del testo del compromesso, che
parla di un impegno a sospendere la seduta e ricercare, per quanto possibile,
più larghe intese nel caso in cui ci si rendesse conto della possibilità di una
minoranza inferiore ai 27, ma superiore ai 23 voti.
La posizione italiana, sia durante il negoziato, sia a loannina, sia durante
l’espressione del parere conforme da parte del parlamento europeo è stata
coerente con la linea espressa da Ciampi e Andreatta fin dal loro insedia-
mento. In sostanza si inseriva la vicenda dell’imminente allargamento ai pae-
si del Nord e all’Austria in un disegno di architettura europea a «torta nuzia-
le», con un livello più ampio di 30 paesi (compresi quindi anche tutti quelli
dell’Europa centrale e orientale) uniti dal Mercato comune, e livelli via via
più coesi di integrazione fino ad arrivare al gruppo dei paesi fondatori, con
forse anche la Spagna, a costituire il cuore federale dell’Europa, con moneta
unica e sicurezza comune. 213
LA GERMANIA AL CENTRO DELL’EUROPA

Sulla base di questa idea di fondo l’impegno si poneva in triplice direzio-


ne. Da una parte il completamento dell’allargamento ai paesi del Nord e
all’Austria, visto come tappa fondamentale per ulteriori allargamenti, soprat-
tutto a Est. In secondo luogo una marcia spedita sui binari di Maastricht, per
cui lo svolgimento della Conferenza intergovernativa nel 1996 e, conseguen-
temente, il prioritario ingresso dei quattro dell’Efta, era un passaggio irrinun-
ciabile. In terzo luogo un impegno particolare per far rientrare nel più breve
tempo possibile l’Italia nei criteri di convergenza di Maastricht.
In questo contesto generale si spiega l’atteggiamento italiano, sostanzial-
mente solidale con le posizioni tedesche e poco incline a farsi trascinare in
battaglie di retroguardia.
Certo è la linea scelta, senz’altro vincente sul lungo periodo, comporta
grossi rischi nel caso in cui il processo di architettura europea sopra descritto
si arresti a metà. In questo senso, più che le elezioni europee, sarà decisivo
in prospettiva il risultato delle prossime elezioni nazionali, a partire da quelle
in Germania di ottobre. Forse allora saremo in grado di valutare le possibilità
di reale concretizzazione delle ulteriori tappe dell’integrazione paneuropea.

214
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

UTO PIE

PROGETTO
PER UNA
RES PUBLICA EUROPEA di GERMANICUS

L A REVISIONE DEL TRATTATO DI MAA-


stricht si avvicina. Se fatta bene, dovrebbe tener conto della nuova situazione
politica creatasi dopo il 1989, dell’esperienza di due tentativi travagliati di
riforma strutturale della Comunità europea nel 1985 e nel 1991 e del proces-
so di allargamento dell’Unione europea in atto. Sarebbe ipocrita credere che
un’altra volta, come nel 1991, sarà possibile trovare dei compromessi contor-
ti tra una concezione liberoscambista e l’idea di una Europa dotata di poteri
pubblici. Sarebbe antistorico non considerare, durante l’elaborazione delle
nuove riforme istituzionali, gli interessi di tutti i paesi europei tra l’Atlantico e
la Csi. Sarebbe irrealistico sostenere che tutti i paesi europei possono e devo-
no arrivare a tutti i traguardi allo stesso momento, escludendo peraltro una
diversità di obiettivi, eventualmente perenne, dei vari popoli.
Con queste premesse la via da seguire nella revisione di Maastricht di-
venta abbastanza ovvia. Si tratta di procedere con un gruppo di paesi alla
creazione di una entità statale, anche se molto decentralizzata, con istituzioni
abbastanza efficaci da condurre un’autorevole politica integrata nei settori
importanti della difesa e della politica estera, economica e interna. Questa
nuova Res Publica Europaea (RPE) in quanto tale dovrebbe partecipare a
forme morbide e flessibili di zone di libero scambio e di sviluppo con il resto
dell’Europa e, quando fosse conveniente, con il mondo mediterraneo. La
RPE non cancellerebbe le identità nazionali e locali, ma le affiancherebbe e
le completerebbe con una identità comune. In un mondo dove gli Stati na-
zionali europei, per mancanza di forza contrattuale, non possono ormai più
affermare validamente gli interessi dei loro cittadini nei confronti di altri po-
teri statali più forti e di importanti forze private, la RPE ridarebbe ai suoi citta-
dini sovranità, autonomia di decisione e una reale coinfluenza sulla sorte co-
mune dell’umanità. 215
PROGETTO PER UNA RES PUBLICA EUROPEA

Le istituzioni della RPE dovrebbero fondarsi soprattutto su una rappre-


sentanza unica in qualsiasi vertice, riunione e foro internazionali (Onu, Nato,
Csce, G7 eccetera) mediante una presidenza appoggiata da una delegazione
multinazionale, su processi decisionali efficaci finalizzati a tale scopo e
sull’immediata introduzione di una moneta unica parallela a quelle nazionali
e utilizzabile in qualsiasi operazione di scambio, dal pagamento del caffè al
bar all’acquisto di Bot. Vanno riviste inoltre le disposizioni di Maastricht là
dove non permettono ancora la libera circolazione di merci, persone e capi-
tali, va elaborata un’efficace politica macroeconomica, macroecologica e di
lotta alle grandi criminalità. Al contempo bisogna rimediare ai grossi deficit
di Maastricht per quanto riguarda la sussidarietà, il parlamentarismo e i diritti
di cittadinanza.
Con la RPE le radici millenarie della nostra storia e cultura potrebbero ri-
tornare ad essere la linfa vitale per una Europa creativa, operante e ricca di
futuro.

LIMES IN PIÙ – LA GUERRA IN EUROPA (continua)

216
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

PERCHÉ L’ITALIA
HA FALLITO
NELLA EX JUGOSLAVIA di Marta DASSÙ
All’inizio della crisi, il nostro governo ha sostenuto l’inefficace
azione comunitaria per convergere poi sulla posizione tedesca.
Un’eccessiva proiezione nazionale’ verso quell’area è irrealistica
e destinata all’insuccesso.

È DIFFUSO, ANCHE TRA GLI OSSERVATO-


ri europei, il giudizio che l’Italia abbia avuto un ruolo marginale nella gestione
occidentale, peraltro fallimentare, del conflitto nella ex Jugoslavia.
La marginalità dell’Italia di fronte ai processi esplosivi in atto alle sue frontie-
re orientali viene fatta dipendere dalla gravità nella crisi politica interna, che co-
munque avrebbe impedito al nostro paese di svolgere una qualsiasi politica
estera. Questa tesi si combina a una seconda convinzione: l’Italia non ha mai
chiaramente definito i propri interessi nazionali e quindi ha fallito il suo primo
appuntamento geopolitico del dopo-guerra fredda, la riscoperta della frontiera
orientale.
Questo articolo cerca di ricostruire in modo sintetico l’evoluzione della ri-
sposta italiana alla crisi jugoslava. La conclusione a cui si arriva, attraverso un
esame del genere, è questa: l’Italia era convinta che rientrasse nei suoi interessi
il mantenimento di una Jugoslavia unita e ha quindi cercato, fino al novembre
del 1991, di muoversi abbastanza attivamente per rendere reale questa ipotesi.
Una volta che – data la decisione tedesca di riconoscere Slovenia e Croazia – la
partita è stata giudicata persa, Roma si è decisamente spostata sulla linea di
Bonn, cercando di derivarne qualche vantaggio in extremis. Da quel momento
in poi, tuttavia – sotto l’impatto della crisi interna, della semiparalisi di politica
estera tipica del ministero Colombo e della crescente impotenza occidentale ad
arrestare il conflitto – il ruolo diplomatico italiano è diventato del tutto seconda-
rio. Naturalmente, incoerenza e insuccesso accomunano la maggior parte delle
politiche europee e la Comunità nel suo insieme: la traiettoria seguita da Roma
nella seconda metà del 1991 è la stessa percorsa dalla Cee, che l’allora ministro
degli Esteri De Michelis giudicava in modo ottimistico come il foro più adatto
per la gestione della crisi jugoslava.
Ciò che caratterizza la risposta italiana non è quindi il suo – scontato – in-
successo. È piuttosto una buona dose di ambiguità e di incoerenza. Di fronte al- 219
PERCHÉ L’ITALIA HA FALLITO NELLA EX JUGOSLAVIA

la crisi jugoslava, dall’Italia sono venuti messaggi in effetti contrastanti: dagli in-
coraggiamenti alle spinte separatiste dalle regioni del Nord-est e nell’ambito di
fori come Alpe Adria; all’appoggio alla leadership federale da parte del ministro
degli Esteri.
A ciò può aggiungere una seconda constatazione: se il ruolo dei paesi confi-
nanti appare in teoria cruciale nella prevenzione delle crisi, il test della Jugosla-
via mostra che l’Italia non è riuscita a svolgere su questo piano nessuna funzio-
ne efficace. La serietà della crisi economica – punto su cui Roma insisterà nel
1990-’91 – fu riconosciuta troppo tardi; le lezioni della crisi del Kosovo furono
sottovalutate nei vari incontri bilaterali con Belgrado e con Milosevic; la neces-
sità di pensare a nuovi assetti confederali fu presa in esame in ritardo, quando la
divisione del paese era ormai nei fatti.
Una volta scomparsa la Jugoslavia, il problema essenziale, per l’Italia, è di
uscire dall’ambiguità per definire con chiarezza una visione strategica del pro-
prio approccio all’area balcanica e adriatica.

Era possibile salvare la Jugoslavia?


Una delle teso di fondo dei responsabili di allora della diplomazia italiana è
che la Federazione jugoslava avrebbe potuto essere salvata, nel 1990-’91, con un
forte appoggio esterno al premier Ante Markovic. Secondo l’ex ambasciatore a
Belgrado Sergio Vento, il mancato sostegno finanziario americano e tedesco e la
dilazione del piano di aiuti approvato dalla Cee (3 miliardi di dollari per il trien-
nio 1991-’93) sono fra le cause più importanti del fallimento dell’ultimo tentativo
di tenere in vita un qualche assetto unitario (370). Ancora più nettamente, l’allora
ministro degli Esteri De Michelis ha sostenuto che «sarebbe probabilmente basta-
to varare un piano di aiuti alla Jugoslavia per 1-3 miliardi di Ecu (1.500-4.500 mi-
liardi di lire di allora) per convincere Slovenia e Croazia a rinunciare alla secessio-
ne»; ma che ciò non fu possibile per l’opposizione della Gran Bretagna (371).
Conclusioni del genere colgono due dati importanti: da una parte, la riluttanza
occidentale a sostenere finanziariamente la Jugoslavia dopo il 1989, come evidente
riflesso del declino dell’interesse strategico per questo paese nel dopo-guerra fred-
da; dall’altra, le divisioni intereuropee, come motivo di paralisi della Comunità.
È altrettanto probabile, tuttavia, che un’azione finanziaria della Cee non sareb-
be a quel punto stata sufficiente a frenare le spinte centrifughe: la crisi interna alla
Federazione jugoslava era ormai andata troppo oltre, senza che nessuno dei part-
ner comunitari, inclusa l’Italia – e cioè un paese che per ragioni storiche e di vici-
nanza geografica avrebbe dovuto dedicare ai Balcani un’attenzione particolare –
avesse mostrato di esserne realmente consapevole.
L’elemento abbastanza paradossale e che, essendo divisa e non disposta a de-
stinare risorse massicce (economiche o militari) allo scenario balcanico, la Comu-
nità abbia comunque assunto – rispetto al dichiarato disimpegno americano – un
ruolo essenziale nella gestione della crisi (372); così che il conflitto jugoslavo ha fi-
nito per diventare (pochi mesi prima della firma del Trattato di Maastricht) un test
220 anticipato di una politica estera e di sicurezza comune ancora da costruire.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

Anche senza accettare l’ipotesi che proprio l’Italia abbia attivamente inco-
raggiato il basso profilo americano (373) per promuovere il ruolo internazionale
della Cee, si tratta di un approccio perfettamente coerente alla diplomazia «euro-
ottimistica» di De Michelis.

L’interesse italiano a una Jugoslavia unita


In questo contesto, la linea ufficiale del ministero degli Esteri italiano è stata
caratterizzata, fino al giugno 1991, dalla tesi che fosse possibile tenere in vita la
Federazione jugoslava; e poi, dall’estate fino al novembre 1991, dal tentativo di
favorire (nel quadro comunitario e facendo leva sulla conferenza di pace presie-
duta da lord Carrington) la nascita di una nuova «confederazione democratica»
(374). È importante chiarire che l’Italia aveva interessi specifici (cioè ulteriori ri-
spetto all’obiettivo condiviso dagli occidentali di dissuadere un precedente si-
gnificativo per l’Urss) a mantenere unita la Federazione e a impedire un conflitto
destabilizzante nei Balcani.
Essi possono essere schematizzati in cinque punti:
• La Jugoslavia era considerata uno dei perni per il rilancio del ruolo italia-
no nell’area danubiano-balcanica. Non va dimenticato, infatti, che Roma aveva
visto nella svolta europea del 1989 l’occasione per affermare un proprio ruolo di
«ponte» o di cerniera fra l’Europa centrale e i Balcani, attraverso l’avvio della co-
siddetta Quadrangolare (un forum per la cooperazione regionale fra Austria, Ita-
lia, Ungheria, Jugoslavia, cui poi si sono aggiunte Polonia e Cecoslovacchia e
che ha infine assunto il nome di Iniziativa centroeuropea) (375). Con la disinte-
grazione della vecchia Federazione e con lo scoppio della guerra, la funzione
dell’Italia e il suo progetto di integrazione regionale sarebbero stati fortemente
penalizzati: lo provano, appunto, la crisi immediata del forum sponsorizzato da
Roma (376) e la perdita relativa di peso dell’Italia negli sviluppi successivi
dell’Iniziativa centroeuropea, che ha teso di fatto a spostare il suo asse di gravità
verso la Mitteleuropa.
• L’Italia aveva tutte le ragioni per temere, dopo il precedente drammatico
dell’esodo dall’Albania nell’agosto 1991, che la guerra fra le repubbliche provo-
casse una nuova ondata di rifugiati verso le coste italiane. In realtà, il flusso dei
rifugiati dalla ex jugoslavia è stato per ora abbastanza contenuto (377), anche
per i provvedimenti di chiusura presi dall’Italia. In forma latente, la percezione
italiana del conflitto jugoslavo si è progressivamente spostata dai timori di riper-
cussioni dirette alle proprie frontiere alla convinzione di potere «isolare» una
guerra paradossalmente sentita, se si fa eccezione per Trieste e le regioni di con-
fine, come piuttosto lontana ed estranea. Fino al 1992, anche i problemi relativi
alla sorte della minoranza italiana (35 mila persone circa, in Istria e Dalmazia)
sono rimasti secondari – un dato destinato, come si vedrà fra poco, a creare po-
lemiche interne.
• Alla fine degli anni Ottanta, l’Italia era il secondo partner commerciale del-
la Jugoslavia in Europa occidentale e soprattutto, come segnalava l’accordo con
Belgrado del gennaio 1988 (378), puntava a sviluppare i suoi interessi economici 221
PERCHÉ L’ITALIA HA FALLITO NELLA EX JUGOSLAVIA

nell’area, utilizzando fra l’altro gli strumenti agevolati della cooperazione allo svi-
luppo – un’ipotesi di proiezione economica bloccata bruscamente dalla guerra e
non compensata, anche per l’assenza di nuovi progetti di cooperazione da parte
italiana (379), dai rapporti con Slovenia e Croazia.
• Il successo delle spinte secessionistiche nella ex Jugoslavia avrebbe potu-
to incoraggiare spinte simili in Italia, in Alto Adige in particolare (ciò spiega fra
l’altro il particolare interesse all’accordo definitivo con l’Austria, nel 1992, sulla
questione altoatesina) (380).
• La creazione di due Stati indipendenti (Slovenia e Croazia) avrebbe divi-
so, con l’Istria, la minoranza italiana, indebolendone il peso contrattuale nell’as-
setto postfederale. Se i rapporti con Belgrado erano stati ormai regolati sulla ba-
se del Trattato di Osimo, la dissoluzione della Jugoslavia avrebbe aperto di nuo-
vo contenziosi apparentemente risolti – cosa che dal punto di vista di Roma, de-
cisa a scartare qualunque ipotesi irredentista, creava problemi piuttosto che op-
portunità.
• Il crollo della Jugoslavia apriva un vacuum rischioso nei Balcani, aggra-
vando i conflitti latenti fra Grecia e Turchia e complicando il tradizionale tentati-
vo italiano di mantenere buone relazioni con entrambe.
Quanto alla gestione della crisi, il governo italiano ambiva a svolgere – attra-
verso i suoi rapporti stretti con i vari pezzi della vecchia Federazione e collocan-
dosi in una posizione sfumata di «riformismo» confederale – un ruolo di media-
zione. Sia rispetto alla Comunità, scegliendo una posizione in qualche modo in-
termedia fra Germania e Francia e tentando, con una sorta di diplomazia dei
paesi confinanti, di tenere agganciata l’Austria alla politica comunitaria (una
scelta avviata, anche se senza successo, dal maggio 1991 in poi); sia rispetto alla
Jugoslavia, puntando a moderare le spinte secessionistiche e a tenere aperti i ca-
nali con Belgrado (fino al contestato incontro di Colombo con Milosevic nel
gennaio 1993). In realtà, l’uscita dell’Italia dalla trojka comunitaria nel luglio
1991, cioè proprio nella fase acuta di avvio del conflitto, segnava un ridimensio-
namento immediato delle sue possibilità di influenza nella gestione della crisi.
Non solo: la conduzione di una linea di questo genere era complicata da pres-
sioni interne di segno diverso, e cioè di chiaro incoraggiamento alle tesi separa-
tiste. Per essere più precisi, l’esplosione della crisi balcanica metteva subito a nu-
do l’esistenza di una buona dose di ambiguità nell’approccio italiano a
quell’area.

Le due politiche danubiane


La scarsa coerenza della posizione italiana può essere vista attraverso la
successione di due delle iniziative principali di cooperazione regionale nel-
l’area danubia no-balcanica: l’Alpe Adria e la Quadrangolare-Pentagonale. La
seconda è stata in genere presentata come lo sviluppo naturale della prima,
varata alla fine degli anni Settanta per promuovere, sulla scia degli accordi di
Helsinki, contatti interregionali fra Est e Ovest. Fra i due fori, entrambi proie-
222 zione degli interessi italiani nell’area, esiste invece una differenza sostanziale.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

Mentre Alpe Adria era basata sulle regioni (e includeva quindi Slovenia e
Croazia, assieme al Friuli-Venezia Giulia, al Veneto, al Trentino, alla Lombardia),
la Quadrangolare-Pentagonale, ideata da Budapest e lanciata da Roma, era fon-
data sugli Stati e includeva quindi Belgrado.
In un certo senso, la prima era espressione di una tendenza al regionalismo
che nel vecchio contesto bipolare incontrava confini molto netti, ma che dopo il
1989 avrebbe invece assunto – anzitutto nel caso della Jugoslavia, poi in quello
della Cecoslovacchia – un effetto disgregatore delle vecchie unità multinazionali.
La seconda, concepita a cavallo del 1989, puntava a creare un’area di cooperazio-
ne funzionale (381) fra Stati collocati in modo diverso nei due vecchi blocchi, bi-
lanciando il peso dominante della Germania (Alpe Adria include invece anche la
Baviera) o perlomeno offrendo qualche canale alternativo ai vicini dell’Est. Si trat-
tava, insomma, di due impostazioni solo teoricamente complementari; e anzi de-
stinate a entrare in contraddizione rispetto ai nuovi problemi emersi dagli scenari
balcanici del post Ottantanove. Sulla base di questa doppia impostazione dei
problemi della cooperazione nell’area danubiano-balcanica, dall’Italia sono infatti
venute due visioni differenti e parallele della risposta da dare alla crisi della Fede-
razione jugoslava.
È progressivamente emersa l’esistenza di uno scarto fra la linea «antiseparati-
sta» del ministero degli Esteri – che poteva contare su un ampio consenso parla-
mentare – e l’approccio prevalente nelle regioni del Nord-Est, che hanno invece
teso, con il sostegno decisivo di una parte della Dc (Piccoli, come presidente della
commissione Esteri del Senato) e del Vaticano, di settori locali dei partiti laici, di
una componente rilevante dei mass media, a caldeggiare la causa separatista.
Quanto mai significativa la diversità di reazioni alle dichiarazioni di indipendenza
di Slovenia e Croazia (giugno 1991): mentre il ministro degli Esteri De Michelis ri-
badiva ancora una volta al presidente della Slovenia Kucan la priorità di mantene-
re unita la Federazione, la sessione dell’Alpe Adria, all’inizio di luglio, si conclude-
va dichiarando l’appoggio e la solidarietà delle regioni italiane agli sforzi indipen-
dentisti di Lubiana e Zagabria (382).
L’esistenza di due diversi assi di azione – ed entrambi parte della «tradizione»
della politica italiana nei Balcani – contribuisce a spiegare l’apparente facilità
con cui il governo italiano, dopo avere difeso a lungo l’obiettivo dell’unità della
Jugoslavia, abbia potuto improvvisamente presentarsi nel dicembre 1991 come
uno dei principali sponsor, assieme alla Germania, del riconoscimento delle due
repubbliche confinanti della ex Jugoslavia.

La scomparsa del paese confinante


Una volta sancita la divisione della Jugoslavia e in un contesto di generale
declino del ruolo negoziale della Cee, l’Italia è venuta a trovarsi in una posizione
marginale, accentuata dalla crisi politica interna.
Se nella cornice della Comunità il peso di Roma era in teoria abbastanza ri-
levante, nel quadro dell’Onu – che a partire dai primi mesi del 1992 assumeva
una responsabilità primaria nella gestione della crisi – le cose cambiavano, dato
il ruolo decisionale del Consiglio di sicurezza e dati i limiti imposti alla parteci- 223
PERCHÉ L’ITALIA HA FALLITO NELLA EX JUGOSLAVIA

pazione di forze di peace keeping dei paesi limitrofi (nel caso specifico, le offerte
italiane di mettere a disposizione dell’Unprofor più di un migliaio di uomini
hanno incontrato il veto serbo, cui si è associata la Croazia) (383). L’Italia ha in
parte cercato di bilanciare questa sua marginalità sfruttando la posizione di pre-
sidente di turno dell’Ueo (dal giugno 1992), l’organismo cui sono state assegnate
le operazioni di monitoraggio navale delle sanzioni nel Mare Adriatico (384). Ha
partecipato al ponte aereo su Sarajevo nel luglio-settembre 1992 (fino all’abbatti-
mento di un velivolo italiano); e ha poi preso parte ad altre operazioni di carat-
tere umanitario. Ma nell’insieme si è trattato – per riprendere l’espressione di un
autorevole diplomatico italiano – di una «non-politica, finita del resto nel calde-
rone delle non-politiche di tutti».
Come gli altri paesi europei, l’Italia ha teso progressivamente a escludere la
possibilità di utilizzare strumenti militari per un peace enforcement in Bosnia ,e
ha piuttosto puntato su uno scenario di «isolamento» (il cordone sanitario) del
conflitto alle proprie frontiere orientali. Nel dibattito della primavera 1993 su una
possibile opzione militare condotta dalla Nato, il governo italiano ha sottolinea-
to due punti: la necessità di un mandato specifico dell’Onu (considerato come
fonte indispensabile di legittimazione politica); il valore essenzialmente dissuasi-
vo della minaccia dell’uso della forza, come leva per spingere Belgrado a disso-
ciarsi dalla guerra in Bosnia. Come in molti altri paesi occidentali, i militari si so-
no espressi più nettamente contro l’opportunità di un intervento militare, giudi-
cato troppo difficile per la situazione sul terreno e troppo costoso in termini di
vite umane. Da parte loro, i nuovi ministri della Difesa e degli Esteri hanno di-
chiarato che in caso di azione Nato su mandato dell’Onu l’Italia avrebbe fatto
fronte alle proprie responsabilità (concedendo basi di appoggio alle forze terre-
stri e aeree). Al tempo stesso, Roma non ha accolto le proposte americane sulla
revoca dell’embargo contro la vendita di armi ai musulmani bosniaci: una linea
tenuta da Colombo e poi confermata, dal maggio 1993 in poi, da Andreatta.
Nella polemica interatlantica della primavera 1993 sulla risposta alla guerra
in Bosnia, quindi, il governo ha condiviso la linea «europea», potendo del resto
contare – aldilà di proteste verbali sull’impotenza occidentale da parte di espo-
nenti di quasi tutti i partiti – su una stabile maggioranza parlamentare (385).
Con l’intervento diretto dalla Nato a sostegno del peace keeping dell’Onu (la
dichiarazione di una no fly zone sui cieli della Bosnia), l’Italia è in effetti venuta
a trovarsi in una situazione poco agevole: e cioè la situazione di una base logisti-
ca di primo piano per l’attuazione di missioni cui l’Italia stessa non partecipa, in
virtù delle già citate norme limitative delle Nazioni Unite.

La nascita del revisionismo italiano


Da tutto quanto si è detto fin qui, risulta chiaro che il governo italiano ha vi-
sto nella disgregazione della Jugoslavia una fonte di rischi, più che di opportu-
nità da sfruttare per ridefinire, a proprio vantaggio, i problemi bilaterali lasciati
in eredità dalla storia e regolati con il Trattato di Osimo del 1975.
224 Sebbene una pane degli analisti abbia giudicato «opportunistico» l’atteggia-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

mento italiano (in particolare, si fa riferimento al memorandum di intesa sulle


minoranze firmato con la Croazia il 15 gennaio 1992, al momento del riconosci-
mento da parte della Cee) (386), Roma ha in realtà tenuto sullo sfondo le que-
stioni bilaterali fino alla fine del 1992, scegliendo una linea di continuità: valga
ad esempio la reazione (una «presa d’atto» positiva) alla decisione slovena di su-
bentrare alla Jugoslavia nella gestione dei trattati già stipulati con l’Italia (luglio
1992).
Questo tipo di impostazione ha incontrato però riserve crescenti all’interno:
in termini molto schematici, e come ho in parte già anticipato, è emerso in Italia
(a partire da Trieste e dalle regioni di Nord-Est) un partito «revisionista», con po-
sizioni più o meno moderate, che vanno dalla richiesta di restituzione dei beni
persi dagli esuli (300 mila persone circa) in Istria e in Dalmazia, alla denuncia
del Trattato di Osimo, una volta crollato il contraente originale degli accordi del
1975 (e diviso fra Slovenia e Croazia il territorio coperto dal Trattato).
In questo contesto, all’inizio del 1993 l’Italia ha deciso di aprire colloqui con
Slovenia e Croazia sulla revisione dei termini degli accordi di Osimo. È forse su-
perfluo sottolineare che il governo – in polemica con le tesi irredentiste, appog-
giate a livello nazionale solo dal Movimento sociale – ha nettamente e ripetuta-
mente escluso qualunque ipotesi di revisione dei confini: per riprendere la moti-
vazione di Andreatta, si ritiene fra l’altro che l’Italia, di fronte all’instabilità
dell’Europa centro-orientale, abbia tutto l’interesse a preservare i confini sanzio-
nati a Helsinki (387).
Roma ha invece dichiarato di puntare, nei negoziati bilaterali con Slovenia
(già in corso) e Croazia, a maggiori garanzie per le minoranze italiane e a una re-
visione delle condizioni economiche collegate all’accordo del 1975: in particola-
re, è stato sollevato di nuovo (388) il problema dei beni abbandonati dagli esuli.
Come mezzo di pressione, l’Italia ha affermato che condizionerà il suo assenso
ad un eventuale ingresso della Slovenia nella Cee alla soluzione dei problemi bi-
laterali. Va comunque ricordato che il governo italiano aveva già minacciato di
opporsi alla firma (aprile 1993) dell’accordo di cooperazione economica della
Cee con Lubiana, monito poi lasciato cadere (389). Se scarsi progressi sono stati
compiuti anche sul problema della tutela della minoranza italiana (la Slovenia
non si è associata al memorandum firmato da Zagabria, che ha poi a sua volta
sollevato la questione della reciprocità per la propria minoranza in Italia), è d’al-
tra parte probabile, in prospettiva, una maggiore convergenza di interessi con la
Slovenia piuttosto che con la Croazia, con cui i rapporti si sono seriamente dete-
riorati nel corso del 1993.
In particolare, Lubiana sembra intenzionata a bilanciare in qualche modo
l’influenza austro-tedesca attraverso lo sviluppo dei contatti con le regioni del
Nord-Est italiano. Lo indica fra l’altro la scelta di declinare un finanziamento au-
striaco per la Costruzione dell’autostrada Sentilj-Zagabria e di promuovere inve-
ce l’autostrada Trieste-Budapest (390). L’orientamento sloveno a favore di un as-
se Italia-Ungheria – che valorizzerebbe la collocazione di Lubiana e il ruolo di
Trieste come ponte verso l’Est – e inteso chiaramente in competizione con la
Croazia e con il suo ruolo nei progetti austro-tedeschi relativi allo sviluppo
dell’Europa del Sud-Est. 225
PERCHÉ L’ITALIA HA FALLITO NELLA EX JUGOSLAVIA

Se in teoria l’Italia ha interesse a evitare un’aperta concorrenzialità fra le due


ex repubbliche della Jugoslavia (la cui divisione ha segnato anche la divisione ter-
ritoriale della minoranza italiana),i rapporti con Zagabria attraversano una crisi evi-
dente, che fra l’altro rispecchia il dissenso della popolazione istriana rispetto alla
politica di Tudman. Le ultime elezioni amministrative (febbraio 1993) hanno visto
una netta affermazione della Dieta democratica istriana, che punta a trasformare
l’Istria in una regione autonoma transfrontaliera (391). Come risposta, Tudman ha
accusato l’Italia di «imperialismo» e ha denunciato (maggio 1993) la incostituziona-
lità di tutti gli atti che mirano a preservare o a introdurre il bilinguismo in Istria. Da
parte sua, il governo italiano ha assunto una posizione più dura non solo sul pro-
blema della tutela della propria minoranza ma anche sulle responsabilità croate
nella guerra, dichiarandosi favorevole a valutare l’applicazione di sanzioni Onu
contro Zagabria.
Esistono parecchi argomenti a favore della tesi che l’Italia, dopo la fine del con-
flitto nei Balcani, avrebbe tutto l’interesse a promuovere nuove forme di integrazio-
ne regionale; e che potrebbe farlo più efficacemente se agisse in un quadro comu-
nitario, puntando a trasformare l’Adriatico in una grande via di comunicazione e di
cooperazione fra l’Europa centrale e quella sudorientale. Per fare un esempio con-
creto e circoscritto, uno degli obiettivi possibili per l’Italia (la sostituzione della zona
franca, prevista dagli accordi di Osimo, con un’area limitata di libero scambio) po-
trebbe essere più agevolmente avanzato come parte dei rapporti di cooperazione
fra la Cee e i nuovi Stati indipendenti dall’Europa centrorientale (392). In termini
sintetici – e discutendo gli interessi a lungo termine dell’Italia nell’area balcanica,
una discussione che è rimasta in realtà del tutto sullo sfondo di fronte al conflitto
nella ex Jugoslavia – l’Italia dovrebbe puntare a integrare Slovenia e Croazia nello
Spazio economico europeo, per favorire la nascita di una sorta di «polo» adriatico.
Se il primo obiettivo può contare sull’appoggio di vari altri paesi europei, Germania
inclusa, il secondo è invece destinato a entrare in competizione con il peso e la for-
za d’attrazione dell’area renana (393). Una scelta del genere implicherebbe però sia
una visione strategica – e cioè la definizione di una vera e propria politica adriatica,
non confinata esclusivamente alle regioni di Nord-Est – sia la destinazione di risor-
se sufficienti a sostenerla: due fattori che sono per ora mancati.
È possibile che l’Italia continuerà ufficialmente a promuovere la necessità-
priorità di una politica comunitaria nei Balcani. Se, tuttavia, le difficoltà del qua-
dro europeo lasciassero spazio crescente alla «rinazionalizzazione» delle politi-
che estere, potrebbero aumentare le pressioni favorevoli a sfruttare in chiave na-
zionale le «opportunità» aperte dalla disgregazione della Jugoslavia. Una politica
balcanica più assertiva implicherebbe probabilmente un recupero dei contatti
con Belgrado; una forte dose di competizione con la Germania; e possibili con-
vergenze con la Russia. Alternativamente, l’Italia potrebbe ambire, a partire dal
rapporto con Tirana, a una maggiore influenza nella parte meridionale della re-
gione, una scelta che comporterebbe probabilmente (come indicano i contrasti
determinati dal riconoscimento della Macedonia (394) nuove tensioni con la
Grecia (e forse un grado di concorrenzialità con gli Stati Uniti).
È tuttavia difficile pensare che l’Italia – al di là del «semiprotettorato» che si era
226 trovata di fatto ad esercitare sull’Albania durante l’operazione Pellicano – possa cre-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

dibilmente aspirare a una politica di proiezione nazionale nei Balcani: semplice-


mente, l’Italia non ha i mezzi – diplomatici, economici e militari – per una strategia
del genere; e sicuramente non può sperare di esercitare (rispetto al peso degli altri
principali attori esterni) la maggiore influenza sull’area. Le tentazioni «opportuniste»
del 1992-’93 sono state, come si è visto, molto circoscritte; e vanno intese piuttosto
come il risvolto di una posizione marginale dell’Italia, del suo «basso profilo», nella
gestione internazionale del conflitto nella ex Jugoslavia. Lo scenario peggiore sa-
rebbe la ripresa di politiche solitarie e velleitarie, che già in passato hanno causato
all’Italia notevoli delusioni. Per riprendere il giudizio di Sergio Romano, l’Italia si
troverebbe di nuovo in «controtendenza» (395). Dopo la fine della guerra nella ex
Jugoslavia, il problema di fondo sarà piuttosto quello di ricostruire un quadro di
cooperazione regionale e di trarre dalle tragedie di questi anni lo stimolo per una
politica comune europea. Se l’Italia riuscirà a muoversi in questo senso, potrà forse
fare nei Balcani, per la prima volta, la politica giusta al momento giusto.

Note
356. G. SOKOLOVA, a kolektiv, Soudobe tendence vyvoje narodnosti v CSSR (Tendenze attuali dello sviluppo delle na-
zionalità nella Repubblica socialista cecoslovacca), Praha 1987, Academia, p. 151.
357. Si veda la citazione, dal suo discorso inaugurale all’Assemblea nazionale provvisoria, il 14 novembre 1918, in V.S.
MAMATEY-R. LUZA, ed., La République tchécoslovaque 1918-1948 Une expérience de démocratie, Librairie du Re-
gard 1987, p. 69.
358. Ceskoslovenske dejiny v datech (La storta cecoslovacca in date), Praha 1986, Svoboda, pp. 390 e 407.
359. J. HAJEK, «La socialdemocrazia in cecoslovacchia: la difesa della repubblica democratica», in E. COLLOTTI, (a cura
di), L Internazionale operaia e socialista tra le due guerre, Milano 1985, Annali della Fondazione Giangiacomo Feltri-
nelli, anno XXXIII, p. 954.
360. Ceskoslovenske dejiny v datecb, cit., pp. 631-632.
361. In sostanza, lord Halifax assicura il Fuhrer che la Gran Bretagna non si opporrà alla rivendicazioni tedesche, se rea-
lizzate «per vie pacifiche». V. KURAI, Konflikt místo spolecenství? Cesi a Nemci v ceskoslovenskem state (1918-1938)
(Conflitto invece di convivenza? Cechi e tedeschi nello Stato cecoslovacco [1918.1938]), Praha 1993, Nakladatelstvi R,
p. 166 e p. 169.
362. Cfr. V. KURAL, op. cit., p. 207.
363. Cit. da V. KURAL, «Ceskoslovensko jako narodni stat? Sudetonemecky problem» («La cecoslovacchia Stato nazionale?
Il problema tedesco sudeto»), in Ztroskotani, spoluziti. Cesi, Nemci a Slovaci v prvni republice 1918-1938 (Fallimento
di una coesistenza. Cechi, tedeschi e slovacchi nella prima repubblica 1918-1938), Praha 1993, Ministerstvo zahra-
nicnich veci Ceske republiky, p. 97.
364. Si vedano i diversi studi pubblicati, naturalmente da storici cechi come Jan Kren, Václav Kural, Pavel Reiman, negli
anni Sessanta e Ottanta, e, in particolare, il saggio di V. VRABEC, «Ke genezi myslenky transferu Nemcu v domaci od-
boji» («La genesi dell’idea del trasferimento dei tedeschi nella resistenza interna»), uscito con altri lavori di altri autori in
samizdat nel 1980, ripubblicato ora nel volume collettaneo e ampliato Cesi, Nemci, odsun. Diskuse nezavislych histo-
rikù (I cechi, i tedeschi e il trasferimento. Dibattito tra storici indipendenti), Praha 1990, Accademia, pp. 287-310. In-
fine: Kosicky vladni program (Il programma governativo di Kosice), Praha 1984, Svoboda, p. 21.
365. T. STANEK, Odsun Nemci z Cesloslovenska 1945-1947 (Il trasferimento dei tedeschi dalla Cecoslovacchia 1945-
1947), Praha 1991, Academia-Nase vojsko, p. 366.
366. Corrispondenza Ansa, da Praga, cit. I corsivi sono miei.
367. Rude pravo, 29/5,3/6/1993 e 1/2/1994.
368. J. MLYNARYK, «Ne odsun, ale vyhnani» («Non trasferimento, bensì espulsione»), Rude pravo, 29/5/1991. Dello stes-
so autore: DANUBIUS, Tezy o vysidleni ceskoslovenskycb Nemcov, del 1977, da cui ebbe origine il dibattito raccolto
oggi nel già citato volume Cesi Nemci, odsun (pp. 55-90).
369. I dati, dell’Istituto di ricerche sull’opinione pubblica, sono nel quotidiano Telegraf (Il telegrafo), del 19/2/1994. Del
«caso Walderode» hanno scritto diversi giornali cechi sempre dello scorso febbraio.
370. Cfr. S. VENTO, «La disintegrazione jugoslava», Relazioni internazionali, settembre 1992, pp. 34-35. Per una ricostru-
zione in chiave storica delle origini del conflitto e per un’analisi delle responsabilità negative della Cee, cfr. S. BIAN-
CHINI, Sarajevo. Le radici dell’odio, 1993, CESPI-Edizioni Associate.
371. Cfr. l’intervista a Panorama, 4/7/1993.
227
PERCHÉ L’ITALIA HA FALLITO NELLA EX JUGOSLAVIA

372. Su questo punto cfr. J. NEWHOUSE, «The diplomatic round», The New Yorker, 24/8/1992.
373. Questa e la sensazione di alcuni osservatori anglosassoni, che non sembra però fondata su elementi sufficienti Sa-
rebbe d’altra parte eccessivo leggere in questo senso l’invito di Andreotti, al vertice europeo di Lussemburgo di fine
giugno 1991, a inviare in Jugoslavia una prima trojka comunitaria.
374. Il 13 luglio 1991, annunciando l’apertura di nuovi consolati in Bosnia, Macedonia e Montenegro (accanto a quelli
già esistenti a Belgrado, Zagabria e Lubiana), De Michelis proponeva anche un «sistema associativo» fra le sei repub-
bliche, con il mantenimento dei confini interni ed esterni. In una intervista al Sabato del 28/9/1991, De Michelis riba-
dirà che l’Italia «preferisce una Jugoslavia unita nella forma di una confederazione», subordinando un eventuale rico-
noscimento di Slovenia e Croazia a una scelta in tal senso dell’intera comunità internazionale. Per una sintetica rico-
struzione dell’evoluzione della diplomazia italiana fra il 1989 e il 1992, cfr. D. CACCAMO, «La questione jugoslava
(1989-gennaio 1992)», Rivista di studi politici internazionali, n .1/1992, pp. 51-67.
375. Per un’analisi della politica europea di De Michelis cfr. M. DASSÙ, «The future of Europe: the view from Rome», In-
ternational Affairs, n. 2/1990, pp. 299-312. Per un commento critico dell’Iniziativa Quadrangolare, vista come il vel-
leitario ritorno dell’Italia ad alcune linee della politica balcanica degli anni Venti, cfr. L.V. FERRARIS, «Dal Tevere al
Danubio: l’Italia scopre la geopolitica da tavolino», Limes, nn. 1-2/1993, pp. 213-225.
376. Cfr. su questo punto T. FAVARETTO, «Per una visione coerente degli interessi italiani nell’Europa dell’Est», Limes,
nn. 1-2/1993, pp. 197-211.
377. Secondo i dati del ministero dell’Interno, l’Italia ha registrato l’afflusso di circa 25 mila profughi.
378. L’accordo triennale di cooperazione economica e finanziaria prevedeva la concessione di crediti agevolati alla Jugo-
slavia per 500 miliardi di lire. Vedi Iai, L’Italia nella politica internazionale 1987- ‘88, pp. 518-519.
379. Cfr. T. FAVARETTO, «Per una visione coerente…», cit., p. 206. Nel luglio 1991, la Sace - che aveva concesso alla Ju-
goslavia un credito di 800 miliardi nell’aprile precedente-bloccava la copertura assicurativa all’export con la Jugosla-
via. Vedi Iai, L’Italia nella politica internazionale 1990-’91, pp. 440-441.
380. È interessante rilevare che la stampa tedesca, fortemente critica sulla gestione italiana della crisi jugoslava, ha spie-
gato l’opposizione iniziale al riconoscimento delle repubbliche ex jugoslave come prodotto di timori profondi su
spinte secessionistiche in Alto Adige. Cfr. D. CACCAMO, «La questione jugoslava…», cit., p. 66.
381. Sia Alpe Adria che la Quadrangolare si basano sulla graduale costruzione di rapporti di cooperazione in settori spe-
cifici: trasponi, ambienti eccetera. La Quadrangolare ha in effetti assorbito - finendo per svuotarle - le commissioni di
lavoro di Alpe Adria.
382. Cfr. Iai, L’Italia nella politica internazionale 1990-’91, p. 441.
383. L’Italia si è dichiarata a varie riprese disposta a partecipare alla missione dell’Unprofor con l’invio di proprie forze
(tremila uomini). Ma l’Onu, di fronte ai veti serbi e croati, ha confermato la norma tradizionale tesa a escludere la par-
tecipazione dei paesi limitrofi ad operazioni di peace keeping.
384. La Marina partecipa al blocco navale nell’Adriatico con due unita maggiori, una corvetta, quattro aerei anti-sommergibile
Breguet-Atlantic ed elicotteri di base a Grottaglie. Cfr. CASD, Sviluppo di situazione in Jugoslavia, (documento n. 7), p. 16.
385. Difatti, il dibattito parlamentare sulla situazione in Bosnia (9/6/1993) si è concluso con l’approvazione di una mo-
zione a larghissima maggioranza.
386. Cfr. J. ZAMETICA, «The Yugoslav Conflict» Adelphi Paper, n. 270, p. 7.
387. Cfr. N. ANDREATTA, «Una politica estera per l’Italia», il Mulino, n. 5/1993, p. 886.
388. La Jugoslavia aveva pagato solo una minima parte della somma destinata al risarcimento dei beni italiani in base ad un
accordo del 1983. Le organizzazioni di profughi chiedono di tornare in possesso dei loro beni. Tuttavia. sia la legislazione
slovena che quella croata non consentono il possesso di beni da parte di stranieri a meno che non vengano create joint-
ventures. Roma chiede quindi una revisione della legislazione sulla proprietà. Cfr. F. GRECO, Documenti Iai. cit., p. 9.
389. Cfr. Corriere della Sera, 25/3/1993 Cfr. anche T. FAVARETTO, «Per una visione coerente…» cit., pp. 210-211.
390. S. BIANCHINI, «I Balcani dopo la guerra: un’utopia geografica», Limes, n. 3/1993, pp. 221 ss.
391. Sia il governo croato che quello sloveno si sono dichiarati nettamente contrari a una ipotesi del genere. Cfr. E. GRE-
CO, Documenti Iai, cit., p. 9.
392. Cfr. T. FAVARETTO, «Per una visione coerente…», cit., 210-211.
393. Cfr. su questo punto la relazione di Stefano Silvestri su «Osimo e la questione istriana» al Primo incontro geopolitico
di Venezia, organizzato da Limes (Venezia, marzo 1993).
394. Vedi per esempio la protesta del governo greco (la Repubblica, 16/11/1993) di fronte alla decisione italiana di ele-
vare al rango di ambasciata la propria rappresentanza diplomatica in Macedonia, completando così la costruzione di
relazioni diplomatiche bilaterali.
395. S. ROMANO, «Come è morta la politica estera italiana», il Mulino, n. 4/1992.

228
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

ORFANA DI ROMA
TRIESTE GUARDA
A LUBIANA di Antonio SEMA

La nuova maggioranza che governa la città giuliana abbandona


la tradizionale linea antislava e apre alla Slovenia Kucan,
a causa della debolezza del governo italiano, tratta con il sindaco
Illy per ottenere investimenti economici nel suo territorio.

D URANTE LA CAMPAGNA ELETTORALE


per le elezioni del marzo 1994, Alleanza nazionale ha inserito nel suo pro-
gramma la richiesta del recupero per via diplomatica dell’Istria e della Dal-
mazia, provocando qualche allarme all’estero, specie tra sloveni e croati. In
attesa delle scelte del nuovo governo italiano può essere utile verificare talu-
ni aspetti della politica estera di Lubiana e del modo in cui si è attrezzata di-
plomaticamente per gestire le relazioni con Roma. Per apprezzare meglio il
quadro delle relazioni italo-slovene conviene partire da come i due paesi
percepiscono l’assetto del confine che condividono. Da una stima del 1974, i
cittadini italiani di lingua materna slovena risultavano ammontare a circa 52
mila. Di questi, 24 mila risiedevano a Trieste (pari all’8,2% della popolazione
locale), 10.500 a Gorizia (il 7.4% del totale) e i rimanenti erano concentrati
nelle valli del Natisone in provincia di Udine (396). Ma gli sloveni rifiutano
ogni censimento etnico e i numeri si lasciano manipolare, cosicché nel 1994
la minoranza è salita a 80 mila unità. Almeno questo è quanto assicura l’Uffi-
cio centrale per i problemi delle zone di confine e delle minoranze etniche
che, sulla base di dati alquanto «approssimativi», accredita alla comunità slo-
vena in Italia un incremento del 54% in meno di vent’anni (397). In questa
sede, tuttavia, basta notare come le minoranze slovene siano pari a 70-95 mi-
la unità, di cui 55-80 mila in Italia (Friuli-Venezia Giulia) e le altre in Austria
(Carinzia). Posto che la popolazione della Slovenia ammonti a 1 milione 962
mila individui, ne consegue che la sua minoranza all’estero, in toto, equivale
al 3,6 o al 4,8% (a seconda che si accetti il dato minimo di 70 mila o quello
massimo di 95 mila unità) della popolazione stessa, di cui più del 2,8 o 4,1%
(dato minimo e dato massimo) vivrebbe in Italia. Volendo rapportare questa
cifra al caso italiano, affinché Roma percepisse la questione alla stregua di
Lubiana, sarebbe necessario fare riferimento a un’ipotetica minoranza dislo-
cata nei pressi del nostro confine nord-orientale che constasse di almeno 2 229
ORFANA DI ROMA, TRIESTE GUARDA A LUBIANA

milioni 500 mila individui. Effettivamente, una minoranza italiana esiste, ma


non supera le tremila persone, concentrate per lo più nel capodistriano, la
zona in cui si trovano i soli 46 km di costa di cui dispone la Slovenia, strizzati
tra le coste italiane e quelle croate. Quei 46 km e quei tremila membri della
minoranza italiana si trovano nella parte slovena dell’Istria. La rinegoziazione
del Trattato di Osimo, attualmente in corso, riguarda proprio questa zona e
una parte dell’Istria, in mano croata, dove vivono gli altri 27 mila apparte-
nenti alla sola minoranza etnica italiana esistente in Europa.
L’inserimento di questi dati nel quadro degli elementi costitutivi la perce-
zione delle diplomazie slovena e italiana in merito alle relazioni tra i due
paesi facilita l’identificazione di alcune dissimetrie di fondo nel quadro della
visione globale.
Per cominciare, a fronte della rispettata e influente minoranza slovena in
Italia, esiste la sparuta minoranza italiana in Slovenia, talvolta contestata dalla
diaspora istriana. Se poi si volesse spostare l’asse delle relazioni italo-slovene
sul piano dei rapporti economici, una consolidata esperienza indica come
ogni trattativa destinata ad avere riflessi sulla fascia di confine difficilmente
potrebbe prescindere dalla presenza della minoranza slovena e delle sue or-
ganizzazioni economiche, mentre ciò non si verificherebbe affatto per la mi-
noranza italiana.
Comunque si vogliano osservare le relazioni tra Roma e Lubiana, sembra
difficile sfuggire dalla sopraccitata dissimetria nella percezione, perché non
riguarda sfumature o elementi secondari, ma coinvolge temi di fondo. Per la
Slovenia e per gli sloveni l’insieme delle questioni al confine italo-sloveno
mette comunque in gioco buona parte dei destini della loro nazione, perché
quel confine «divide» il popolo sloveno ben prima di rappresentare un con-
tatto con l’Italia, ove per quest’ultima, invece, sembra si tratti comunque di
marginali affari di Stato che al massimo coinvolgono interessi locali qualche
segmento della destra politica.
Ne consegue che, mentre i rapporti italo-sloveni sono percepiti da Lu-
biana come coinvolgenti prioritari interessi nazionali sloveni e intensi ele-
menti emotivi acuiti vieppiù da una accentuata sensibilità verso la propria
minoranza in Italia, nulla di simile avviene dall’altra parte del confine. Acca-
de perciò che mentre nel popolo sloveno diviso dal confine italo-sloveno an-
che la minoranza slovena risulti contigua ai centri nervosi della nazione ma-
dre, nella Venezia Giulia al contrario si accentui il senso di distanza dal cuore
dello Stato italiano e anche elaborazioni geopolitiche molto recenti (e re-
sponsabili) accettino come ipotesi di lavoro proprio la marginalizzazione
dell’area giuliana.
Nel 1993, le forze che poi avrebbero fatto eleggere il nuovo sindaco di
Trieste, l’industriale Riccardo Illy, s’erano identificate in un «manifesto per il
futuro di Trieste» che chiedeva ai triestini di proiettarsi all’esterno prendendo
l’ultimo treno per l’Europa. Era una scommessa sul Duemila che però richie-
deva prima di tutto di riannodare i fili di uno sviluppo interrottosi all’inizio
del secolo (398).
230 Come poi avrebbe spiegato lo stesso Illy, Trieste era una città europea
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

scivolata entro una dimensione psicologica di tipo assistenzialistico. Un terri-


torio «esiguo e particolarissimo» la penalizzava nei confronti del programma
economico della Regione e del Friuli, che ne era la pane territorialmente pre-
ponderante. Diventava quindi vitale uscire dai «margini geografici, culturali e
sociali» della città e proiettarsi verso il retroterra, in primo luogo verso la vici-
na Slovenia (399).
Con tale interpretazione, che associando lo sviluppo di Trieste al pro-
gresso del suo retroterra addossava al frazionamento la decadenza municipa-
le, il significato ultimo del 1918 e dell’arrivo dell’Italia cominciava a essere in-
certo.
La città giuliana soffocava in un territorio reale troppo piccolo e margina-
le per corrispondere all’idea che aveva di se stessa e del suo passato e anela-
va a uno spazio virtuale adeguato al mito della Trieste porto imperiale che
affascinava imprenditori e intellettuali, nonché molti dei centomila pensiona-
ti determinanti in ogni votazione. Visto da Trieste, il confine italo-sloveno
sanciva un sogno spezzato, mentre tutto quanto andava in direzione della
Mitteleuropa e soprattutto di Austria, Slovenia e Croazia si caricava irresisti-
bilmente di significati non solo simbolici, ma anche (così sembrava) di impli-
cazioni estremamente reali.
Lubiana seguiva questi processi e sapeva distinguere le peculiarità
nell’area di confine. Nel giugno del 1993, il ministro degli Esteri sloveno Pe-
terle osservava come l’Italia avesse più di una politica estera in quel settore.
C’era infatti «quella del governo, quella dei comuni e quella delle regioni vi-
cine alla frontiera» e tra queste c’erano «grandi differenze». Inoltre, la situazio-
ne era «particolare a Trieste, molto più rilassata a Gorizia, ancora di più a
Udine e Pordenone», mentre nel Veneto non erano percepibili «alcune di
quelle situazioni» presenti invece a Trieste (400).
L’area presa in esame da Peterle corrispondeva sostanzialmente alle di-
verse zone di diffusione della stampa regionale. Trieste rappresentava l’area
di diffusione privilegiata del quotidiano Il Piccolo, presente anche nella pro-
vincia di Gorizia, mentre a Udine dominava il Messaggero Veneto, che si
estendeva dal goriziano al pordenone-se, dove emergeva la forte presenza
del Gazzettino, dominante nel Veneto. A tanta varietà di testate corrisponde-
va un effettivo oligopolio della stampa regionale. Proprietario del Piccolo,
quotidiano con una redazione in Istria, era l’industriale «viennese-triestino»
Carlo Melzi Segre, «democristiano, rappresentante degli interessi della grande
industria locale e padrone tra l’altro delle acciaierie Weissenfels di Fusine-
Tarvisio» oltre che del Messaggero Veneto (401) con precisi interessi in Slove-
nia. Dal canto suo Il Gazzettino era proprietà di un pool di industriali veneti
capeggiati dal calzaturiere Luigino Rossi, che deteneva anche il 10% delle
azioni del Piccolo. L’informazione regionale ruotava attorno a imprenditori
come Melzi (presidente e amministratore delegato della Sve-Messaggero Ve-
neto e amministratore delegato della Ote spa-Piccolo) Rossi (presidente della
San Marco-Gazzettino e consigliere nel Piccolo) e altri, tra cui De Banfield
Tripcovich (402).
Ferventi sostenitori nella politica estera regionale di Adriano Biasutti, 231
ORFANA DI ROMA, TRIESTE GUARDA A LUBIANA

culminata nell’appoggio alla secessione slovena e croata, questi imprenditori


multimediali nel Nord-Est continuavano a perseguire quella strategia anche
nel mutato panorama politico regionale e nazionale. I loro giornali si erano
adeguati: filosloveno Il Piccolo, ma critico verso i croati; più equidistante il
Messaggero Veneto; sbilanciato verso i croati Il Gazzettino, ma tutti concordi
sulla necessità di un incremento dei rapporti economici del Nord-Est italiano
con l’Europa orientale.
Nessuno, dunque, sembrava dubitare sui dividendi politici della strategia
di apertura ai confini nord-orientali anche se, davanti all’evidente crisi eco-
nomica di Gorizia e di Trieste, si trattava forse di spiegare meglio l’effettiva
utilità di una strategia che vantava molti successi politici ma pochi vantaggi
economici. Peterle ci aveva provato, individuando la causa nei diversi orien-
tamenti delle forze politiche italiane verso la Slovenia che avevano influenza-
to i rapporti economici italo-sloveni. Certo, formalmente l’Italia non aveva
mai posto questioni di frontiera, ma ci avevano pensato «alcuni circoli politici
soprattutto a Trieste. Ed è un fatto – precisava – che Trieste abbia influenza
su Roma». «Ciò di cui abbiamo bisogno – concludeva – non è una frontiera
difficile, ma una aperta e libera per quanti fardelli storici pesino su di essa».
Per colpa di Trieste, dunque, non era avvenuto l’auspicato decollo degli
scambi economici di frontiera (403). Ma i veri responsabili, insinuava Peterle,
erano i nazionalisti italiani e l’eccessiva influenza di Trieste sulla Farnesina.
Più tardi Illy avrebbe sostenuto che, casomai, proprio la modestia dei colle-
gamenti politici triestini aveva determinato una «sorta di isolamento nei con-
fronti di Roma» (404), ma a Peterle bastava addossare al revanscismo degli
italiani il cattivo andamento dell’economia di frontiera per risvegliare emo-
zioni profonde proprio lungo una frontiera ove il termine «italiano» o meglio
«talian» aveva molti significati. Nel dialetto triestino, con «talian» si accenna sia
all’italiano in genere che a quello meridionale in particolare (405), ma nel
goriziano, «talian» indicava non solo il «regnicolo, l’irredentista» ma, spregiati-
vamente, anche il «pressapochista, incapace, fanfarone» (406).
D’altra parte, è innegabile che molto spesso nella Venezia Giulia la pro-
paganda slava (titina e non) aveva usato il termine «italiano» come sinonimo
di «fascista». Certo, dall’altra parte s’era risposto con lo «slavo-comunista», ma
intanto, irresponsabilmente, si saldava l’elemento etnico a quello ideologico
(premessa dei massacri del 1943-’45). A cose fatte, agli sloveni è bastato
sganciarsi dal titoismo, dopo averlo fedelmente servito, per diventare demo-
cratici e occidentali, col caldo incoraggiamento degli italiani ai quali è però
rimasta incollata l’etichetta che identifica il predominio italiano al confine
orientale coni ‘oppressione e la «denazionalizzazione» dei fascisti nei con-
fronti degli slavi.
Il discorso era ben compendiato nei «fardelli storici» a cui faceva riferi-
mento Peterle, perché in realtà ci sarebbe stato un elemento che avrebbe po-
tuto controbilanciare l’intera serie delle oppressioni fasciste ed era la violen-
za delle foibe e dell’esodo dall’Istria. In quanto cavallo di battaglia della de-
stra e dei neofascisti, questa diventava subito una tematica ambigua e a ren-
232 derla più indigesta ci avevano pensato già i quotidiani regionali e in partico-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

lare Il Piccolo, capovolgendo presso buona parte dell’opinione pubblica lo-


cale il valore positivo, in senso nazionale, dell’esodo nella deleteria tendenza
degli irredentisti italiani e istriani a rimestare l’odio nazionale riesumando tra-
gedie vecchie di mezzo secolo, residuo di un passato che si ostinava a grava-
re sul presente complicando l’interscambio.
Quella strategia propagandistica era globale e continua. Quando il poni
di intellettuali che aveva guidato la campagna elettorale di llly era stato chia-
mato a esporre la situazione di Trieste su Le Monde Diplomatique, inoltre,
aveva tracciato un’immagine di città segnata dalla storia della sua gente «an-
cora fatta di odi e di passioni». E bastava solo insegnarla all’Università, quella
storia, perché le lezioni degenerassero «in vere e proprie zuffe». Naturale poi
che accreditando presso l’opinione pubblica francese l’immagine degli esuli
istriani come dei pieds noirs male integrati a Trieste, dove vivevano avvolti
da un rancore ancora vivo (407), accadesse magari di esagerare un pochino.
Di fatto, questa era una linea di tendenza pressoché costante, ed è stato
anche col favoleggiare di zuffe mai avvenute o di istriani italiani colonialisti
dell’Istria che nel corso degli anni si è potuto creare, a ridosso dei «confine
più aperto dei mondo», un’atmosfera definibile come politically correct limi-
nale, sorta di senso comune coatto o meglio opinione artificiale prevalente di
frontiera che dominava i media e in cui la convivenza diventava il discrimine
fondamentale e la minoranza assurgeva a valore positivo in quanto minoran-
za, mentre lo spirito nazionale italiano era bollato come nazionalismo irre-
dentista.
Da parte italiana esistevano naturalmente anche voci contrarie, becere o
sensate, ma sempre più raramente potevano accedere ai media dell’oligopo-
lio regionale della carta stampata. Intanto, Claudio Magris continuava a ripe-
tere che se Trieste soffriva di retaggi antislavi, pure gli slavi erano portatori di
luoghi comuni e autocommiserazioni eccessive, e aggiungeva poi che se era
tempo di deporre ogni motivo di scandalo per un sindaco che salutava in
sloveno, allo stesso modo nessuno più avrebbe dovuto sentirsi in obbligo «di
trattare uno sloveno meglio di un italiano per garantire che il suo spirito è li-
bero» (408).
Nell’ottobre del ‘93, il nuovo presidente regionale, il leghista Pietro Fon-
tanini, si incontrava con Peterle. Mentre la Farnesina aveva sempre evitato di
inserire la Regione nella rinegoziazione di Osimo, la disponibilità leghista a
muoversi sul piano delle relazioni internazionali era benvenuta a Lubiana,
cui importava ammorbidire la controparte italiana (409). L’incontro avveniva
infatti per iniziativa slovena. Se l’obiettivo strategico di Lubiana era l’ingresso
nella Comunità europea, Osimo rappresentava la sua anticamera alla Ue e
quindi, in questo caso, l’Italia deteneva le chiavi dell’Europa. Ma dato che i
condizionamenti maggiori in merito a Osimo provenivano da Trieste, la di-
plomazia slovena aveva deciso di neutralizzarli a mezzo della Regione.
Finiti i tempi d’oro dell’amico Biasutti, bisognava ora fare i conti con una
giunta regionale leghista, la prima in Italia. Per accattivarsela, Lubiana non
aveva smentito le voci di un intervento dello stesso Kucan atto a facilitare
l’elezione di Fontanini con l’aiuto degli sloveni del Pds. Al di là della partico- 233
ORFANA DI ROMA, TRIESTE GUARDA A LUBIANA

lare attenzione dei leghisti verso le minoranze, Lubiana aveva capito come
essi fossero sicuramente meno guardinghi sul terreno nazionale e «più im-
plumi» nel ginepraio della grande politica. Fontanini accettava la disponibi-
lità slovena al dialogo e annunciava (fatto centrale) anche un vero proprio
programma di politica estera, guarnita di incontri con Peterle, la minoranza
italiana e i sindaci di frontiera, mentre assicurava il suo interessamento per
l’arrivo dei finanziamenti alla minoranza slovena in Italia (410).
Anche la Dc del Friuli si affrettava a ricordare i suoi prossimi contatti con
Peterle, ma questi ormai erano solo rapporti interpartitici, dove agli sloveni
interessavano invero i contatti istituzionali assicurati dai leghisti. Fontanini
spiegava a Peterlè come il Friuli, la «regione ponte», sarebbe stato impegnato
nei collegamenti e contatti con l’Europa centrale previsti dalla legge sulle
aree di confine. Sul piano politico, Fontanini ostentava la sua freddezza ver-
so Zagabria per il trattamento che riservava alla minoranza italiana e, soprat-
tutto, prendeva le distanze dalle forze politiche che allora guidavano Trieste
(411) segnalandosi per l’opposizione al Trattato di Osimo.
Pochi mesi più tardi i leghisti avrebbero intessuto liste elettorali comuni
con alcune di quelle forze (con la benedizione della massoneria ornatasi di
un deputato), ma all’epoca la questione era ancora fluida. Fontanini era im-
pegnato nel potenziamento della specialità regionale, necessaria per l’inter-
nazionalità del Friuli in vista di un collegamento più stretto con i paesi euro-
pei e dell’Est (412).
Iniziava nel frattempo la preannunciata politica estera regionale inaugu-
rata dall’incontro con la minoranza italiana, di cui veniva chiesta l’inclusione
(accanto alla Regione) nella trattativa per Osimo. Non mancava un richiamo
alla Croazia, acciocché dimostrasse maggiori aperture verso gli italiani
d’Istria (413). Questo atteggiamento critico verso la Croazia (funzionale alla
strategia slovena di escludere o comunque di precedere Zagabria nei contatti
con l’Europa) riemergeva nell’Assemblea plenaria di Alpe Adria a Balaton-
szod quando Fontanini richiamava ufficialmente la Croazia a una tutela non
solo formale della minoranza italiana (414).
A dicembre, ormai prossimo a passare la mano, Fontanini si incontrava
con Kucan alla vigilia di una riunione della commissione economica italo-
slovena. Ufficialmente, i due politici parlavano solo di minoranze nazionali o
del ruolo dei due paesi in merito alla crisi dei Balcani (415).
Al termine della prima esperienza internazionale dei leghisti, Peterle sot-
tolineava la «notevole importanza» attribuita dalla Slovenia allo sviluppo dei
buoni rapporti di vicinato e di collaborazione con le regioni contermini,
mentre non era ancora possibile parlare «in termini lusinghieri» della collabo-
razione con la Croazia (416).
Dal canto suo, la giunta leghista aveva corrisposto alle attese degli slove-
ni, consolidando i rapporti bilaterali, e raffreddato quelli con la Croazia.
Agli inizi del 1994, alla guida della Regione Friuli-Venezia Giulia si inse-
diava una giunta di coalizione capitanata dal pidiessino Renzo Travanut che,
fin dall’inizio, esprimeva la volontà di ottenere più potere nella politica inter-
234 nazionale e nella tutela e valorizzazione delle minoranze (417). Egli incontra-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

va il nuovo capo delegazione della commissione italiana per la rinegoziazio-


ne di Osimo, chiedendo di coinvolgervi «in modo significativo» la Regione e
di costituire intanto un comitato tecnico di contatto permanente tra Regione
e commissione (418). Peterle rilanciava, auspicando buoni rapporti e un’in-
tensa collaborazione tra le popolazioni del Friuli e della Slovenia e propo-
nendo un incontro con Kucan (419). In quell’occasione, dopo aver esaltato il
ruolo e le iniziative delle singole regioni e in particolare del Friuli-Venezia
Giulia nel quadro dello sviluppo di un’Europa integrata, Kucan chiedeva
esplicitamente a Travanut di farsi «portavoce» presso il governo italiano e i
presidenti delle altre regioni italiane affinché si svolgessero periodicamente
delle consultazioni (420).
Nel dibattito sulla fiducia Travanut riaffermava 1’ interesse regionale per
lo sviluppo delle relazioni con Slovenia e Croazia, con una forte iniziativa
per valorizzare la minoranza italiana. La maggiore internazionalizzazione
della Regione richiedeva però un’ulteriore riduzione delle basi militari in
Friuli (421). Sui temi centrali nei rapporti con la Slovenia a livello di autono-
mia, relazioni internazionali e minoranze non vi erano novità rispetto a Fon-
tanini (422).
Tutto procedeva per il meglio: Peterle ricordava agli esponenti regionali
l’intensa collaborazione tra Italia e Slovenia, e la Regione chiedeva subito di
esservi coinvolta per arrivare più rapidamente nell’Europa delle regioni «fatta
di culture etniche per la difesa dell’identità» (423). Allora, la minoranza slove-
na in Italia implorava l’intervento della Regione in sede nazionale per il varo
della legge di tutela delle minoranze e per rilanciare la cooperazione econo-
mica con gli Stati vicini (424), e di questo, appunto, Travanut discuteva con il
presidente dell’Assindustria friulana, Carlo Melzi (425), un giorno prima di
incontrare Ciampi. Al premier italiano, in visita a Trieste, Travanut spiegava
come le potenzialità del Nord-Est (di cui il Friuli-Venezia Giulia era parte in-
tegrante) non fossero state pienamente valutate nella loro valenza nazionale.
Naturalmente, poiché le partecipazioni statali stavano smobilitando lungo il
confine, urgeva «riaffermare il ruolo internazionale» di Trieste e sostenere la
«posizione del Friuli-Venezia Giulia a livello internazionale». E ciò significava
adeguare la legge sulle aree di confine alle nuove realtà slovena e croata,
coinvolgere direttamente la Regione nella politica nazionale verso l’Est euro-
peo e nella rinegoziazione del Trattato di Osimo, e non dimenticare la legge
per la tutela della minoranza slovena e gli interventi a favore della minoranza
italiana in Istria (426).
Ciampi concordava sulla ..dimensione internazionale di Trieste e pure
sulla sua «vocazione internazionale» come porta della Mitteleuropa verso i
paesi dell’Est, ma non per questo accettava di far partecipe la Regione della
rinegoziazione di Osimo.
Anzi, ricordava la «forte» sensibilità del governo per la minoranza italiana
privata di un’omogeneità di trattamento in violazione del memorandum di
intesa italo-croato-sloveno del gennaio 1992, per evidenziare garbatamente
la scarsa affidabilità dei vicini d’oltreconfine, annunciando poi un «libro bian-
co» sulle reali condizioni di tutela della minoranza slovena in Italia(427). 235
ORFANA DI ROMA, TRIESTE GUARDA A LUBIANA

Con la firma degli accordi preliminari per l’adesione di Finlandia, Svezia e


Austria alla Comunità europea, lo scenario internazionale attorno al Friuli en-
trava in rapida e profonda trasformazione (428). Era ora: con l’Austria in Euro-
pa sarebbero finite le facilitazioni di quel paese nel settore creditizio, l’export
austriaco sarebbe «fatalmente» ritornato sulle strade della Regione e il porto di
Trieste avrebbe finalmente potuto ricollegarsi al suo naturale retroterra cen-
tro-europeo (429) dal quale aveva tratto la sua antica prosperità imperiale.
Ma purtroppo, ricordava compunto il console d’Austria, i sogni erano
una cosa e gli affari un’altra, giacché l’incremento della presenza austriaca
nel porto giuliano sarebbe dipeso esclusivamente dalla qualità dei servizi
dello scalo triestino (430). Insomma, mentre i buoni triestini si cullavano
nell’aureo passato imperiale di Trieste, i più quadrati eredi dello stesso impe-
ro spiegavano come in economia, «soprattutto alle soglie del Duemila», il
passato contasse «poco, o nulla» (431).
Ma questi argomenti non erano certo fatti per riscuotere consenso. Piutto-
sto, anche in sede di Iniziativa centro-europea, si continuava a chiedere per la
Regione una consultazione preventiva in ordine alla formulazione di trattati e
accordi internazionali, con adeguate forme di consultazione e di effettiva par-
tecipazione all’attuazione, e soprattutto alla gestione degli stessi (432).
La Farnesina non la pensava allo stesso modo. Andreatta concordava
nello sfruttare le occasioni concrete di un mercato «affamato di macchinari e
capitali italiani» dove la manodopera costava un terzo di quella italiana, ma
non concedeva alcuna investitura ufficiale a Trieste e alla Regione come «os-
servatori privilegiati» dell’Est, escludendole anzi del tutto dalla funzione deci-
siva, riconfermata invece allo Stato italiano, di traghettare Slovenia e Croazia
in Europa. E molto sarebbe dipeso, aggiungeva, dal livello di tutela della mi-
noranza italiana in Istria. Il richiamo era rivolto alla Croazia (censurata per il
suo comportamento in Bosnia) (433), ma anche Lubiana aveva compreso
perfettamente il senso del riaffermato monopolio della Farnesina al confine
italo-sloveno. Dopo il 28 marzo, Peterle avrebbe criticato in sede Nato il ruo-
lo frenante dell’Italia nei confronti dell’inserimento sloveno in Europa.
In realtà, quelle erano solo schermaglie in vista del nuovo governo
emerso dalle elezioni italiane. Il bilancio di Lubiana era più che soddisfacen-
te e l’unico dato negativo riguardava il mancato affidamento alla Regione di
un ruolo preciso nei rapporti internazionali di suo specifico interesse. Ma il
contenzioso restava aperto, perché comunque la Regione non abdicava alle
sue responsabilità internazionali (434), liberata com’era dall’intralcio
dell’anomalia triestina.
Alla fine del 1993 infatti, una capillare campagna di stampa condotta dal
Piccolo aveva portato alla vittoria Riccardo Illy con i voti progressisti. I com-
menti dall’Istria oscillavano tra la cautela degli autonomisti della Dieta demo-
cratica istriana, che si aspettavano un miglioramento della collaborazione in-
terregionale, e la soddisfazione della minoranza italiana in Slovenia. Un po-
sto a parte l’aveva l’entusiasmo del sindaco di Capodistria, Aurelio Juri, che
chiedeva di incontrare Illy, la cui elezione aveva segnato il successo dei valo-
236 ri «cardini» di ogni ipotesi di sviluppo e di progresso lungo il confine italo-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

sloveno (435). D’altra parte, come non sfruttare internazionalmente una città
quale Trieste, dove sembrava fossero proprio i problemi di carattere locale a
implicare questioni cruciali di politica interna o addirittura internazionale?
Questa indicazione di Diego De Castro (i cui autorevoli interventi avevano
concepito l’elezione di Illy) sintetizzava bene le problematiche di una città
portuale multietnica di confine, impantanata in un declino economico che
nell’arco di un decennio aveva dimezzato la forza-lavoro nell’industria.
A Trieste, il 1993 si era chiuso su uno scenario di «incertezza e di paura»
(436), ma se davvero si fosse voluto salvare la città e aprire ad essa le vie
dell’Europa, allora, spiegava De Castro, oltre ai traffici marittimi si sarebbero
dovuti definire i collegamenti stradali e ferroviari. Però questo significava
toccare interessi e territori di Italia, Austria, Slovenia, e in parte anche Croa-
zia. E sarebbero stato poi necessario ripristinare il «buon nome» della città,
che non era violenta, ma temeva di essere ulteriormente strangolata, convin-
cendo intanto i triestini dell’inesistenza di un «pericolo slavo». Per sovrappiù
c’erano gli istriani, e bisognava eliminare ogni malinteso tra esuli e rimasti
(437). Il solo elenco delle priorità evidenziava quel groviglio di memoria, et-
nia, economia e geopolitica che rendeva così singolare la realtà giuliana e
che faceva talvolta sospettare (dietro alla grandiosità degli scenari) qualche
fondamentale errore di prospettiva, posto che ipotizzare seriamente azioni
concordi di almeno quattro Stati a precondizione della ripresa economica di
Trieste sembrava eccessivo. Forse, però, sarebbe bastato mettersi d’accordo
con la Slovenia.
Fin dall’inizio, in effetti, Illy aveva spiegato di voler «riscrivere» i rapporti
tra Trieste e la Slovenia, nonché quelli fra la città giuliana, i Comuni limitrofi
e la Regione nel suo complesso (438). Il nodo dei rapporti con la Slovenia
andava risolto inserendo la città sia nella rinegoziazione di Osimo che nelle
trattative sull’accordo di cooperazione tra Unione europea e la stessa Slove-
nia (439). Poco dopo Illy andava a Lubiana, fatto senza precedenti da mezzo
secolo. I colloqui spaziavano dalla cultura all’economia, ma lo stesso quoti-
diano Il piccolo accreditava soprattutto l’impressione di una lezione di politi-
ca internazionale impartita dal «professore» Kucan ai volonterosi «allievi» trie-
stini. In realtà, al di là delle disquisizioni sulla ex Jugoslavia, Kucan aveva de-
lineato con molta chiarezza quale fosse il ruolo di Trieste nella strategia slo-
vena. Anche solo come «laboratorio multietnico» Trieste poteva servire per
combattere il nazionalismo (italiano), ma quanto premeva a Kucan era che
Illy si facesse «tramite a Roma» della loro comune «volontà» facendo poi di
Trieste «il filo conduttore di questa nuova energia costruttiva» (440). Illy era
d’accordo su tutto.
In effetti, Kucan aveva interpretato la sua elezione come il segnale per
intensificare i rapporti tra Roma e Lubiana, giocando sulle stringenti neces-
sità di Trieste. In passato molte cose avevano diviso i due paesi, ma adesso
era giunto il momento di dimenticare e lavorare per il futuro. Capovolgendo
l’impostazione della Farnesina (prima il contenzioso sulle minoranze in
Istria, poi l’accesso all’Europa), Kucan affidava il nodo dei beni abbandonati
in Istria (chiave d’accesso ai voti degli esuli, decisivi sulla scena elettorale 237
ORFANA DI ROMA, TRIESTE GUARDA A LUBIANA

triestina) alla futura omologazione della legislazione slovena a quella euro-


pea, legando il contenzioso istriano al fattivo atteggiamento italiano in merito
all’adesione slovena all’Europa. Nel frattempo, era bene che i due paesi can-
cellassero i «paesi storici» del passato e costruissero un nuovo futuro all’inse-
gna dell’avvicinamento reciproco. Trieste e la regione avrebbero potuto con-
tribuire in modo determinante a questo futuro radioso già a proposito del
negoziato su Osimo. Bastava solo rimuovere la vecchia avversione della città
a quel Trattato, fatto che a giudizio di Kucan aveva «sempre fortemente in-
fluito sul carattere dei rapporti tra Lubiana e Roma». Fortunatamente, Illy non
tradiva la fiducia di Kucan assicurando il suo contributo ai negoziati in corso
tra Italia e Slovenia in cui Trieste aveva il ruolo di «osservatore privilegiato»
(441). Anche Illy, come già Fontanini e Travanut, manifestava una certa fred-
dezza nei confronti della Croazia (442). Inedito, invece, lo sforzo di concilia-
re l’aiuto umanitario col tentativo di inserirsi nel business della ricostruzione
nei Balcani, per costruire autostrade, ferrovie e altre vie di comunicazione in
Bosnia (443).
Altro momento saliente della nuova strategia triestina era l’incontro a Ca-
podistria tra i due sindaci e gli imprenditori più in vista delle due città. Rotti
gli indugi verso la Slovenia con l’incontro Illy-Kucan, l’economia triestina
cercava ora di unire le forze dei due porti per aumentare la domanda prima-
ria di traffici, per poi competere sulla domanda selettiva (444). Illy si sdebita-
va così con i suoi grandi elettori, poiché quel viaggio era stato promesso al
presidente dell’Assindustria di Trieste «già in campagna elettorale»’. E quando
poi il sindaco di Capodistria ricordava la necessità di abbattere «quel muro»
eretto tra le due città, Illy onorava la cambiale di Lubiana auspicando il pron-
to inserimento della Slovenia in Europa e rimarcando l’interesse della sua
amministrazione ai buoni rapporti con la Slovenia (445). Gli unici che gua-
stavano l’idillio capodistriano erano gli esponenti della comunità italiana in
Istria che, nell’incontro con Illy, denunciavano le inadempienze slovene nei
loro confronti (446).
La strategia di una parte consistente dell’imprenditoria triestina e del suo
sindaco non era completamente originale. Inedita (per Trieste) era forse la
rappresentazione diretta degli interessi economici senza intermediazione dei
politici, ma per il resto ci si muoveva sulle linee del protocollo d’intesa sulla
cooperazione transfrontaliera stipulato già nel dicembre 1991 fra regioni del
Nord-Est, Slovenia e Croazia per facilitare una rapida integrazione della Slo-
venia e della Croazia nel contesto europeo. Le due repubbliche davano in
contropartita agli amici italiani le società miste, la collaborazione comune per
la realizzazione e la gestione delle infrastrutture stradali e ferroviarie, la pro-
mozione di intese operative tra gli scali marittimi dell’Alto Adriatico e la rea-
lizzazione di un sistema portuale integrato, basato su un quadro di specializ-
zazione funzionale e merceologica dei porti stessi, nonché tariffe (ferroviarie
e portuali) in linea con i principi dell’economia di mercato (447). Ottime co-
se, certo, ma accuratamente collegate all’inserimento in Europa. Questo tar-
dava ad arrivare e anche le contropartite si facevano attendere. Ancora alla
238 fine del 1993 l’Ente Porto di Trieste implorava la cessazione delle «furberie e
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

scorrettezze» e la rettifica delle tariffe ferroviarie che privilegiavano i porti


nord-europei e quelli sloveni e croati (448). Ma simili piccolezze non intacca-
vano la convinzione che il futuro (economico e non) di Trieste si trovasse a
Est, soprattutto in Slovenia, o piuttosto la crisi economica triestina era tale
che si preferiva passare sopra all’evidenza.
Dagli incontri della Regione e di Trieste con gli esponenti politici slove-
ni emergevano i tratti essenziali di una strategia di lunga durata, da parte di
Lubiana, nei confronti delle istituzioni locali e regionali del Friuli-Venezia
Giulia (ma il discorso potrebbe valere anche per altre realtà) per servirsene
come elementi di appoggio verso Roma e la Farnesina. Nel giugno-luglio del
1991 questa strategia è stata efficace nel facilitare la secessione slovena e
croata. I dati relativi agli anni 1993-’94 ne dimostrano l’attuale utilizzo a sup-
porto dell’inserimento di Lubiana nella Comunità europea, evitando di paga-
re qualche prezzo al tavolo di Osimo.
Del resto, la Slovenia, orgogliosa della sua recente indipendenza, è sem-
pre attenta alle questioni della propria minoranza, e per quanto curi molto la
propria economia non recede dal contenzioso (territoriale) con Zagabria che
sta provocando un tracollo dell’interscambio tra i due paesi. L’Italia deve in-
vece recuperare una storica mancanza di conoscenza dei problemi effettivi
del suo confine orientale. La sua lungimirante politica di apertura ai confini
non ha pienamente assimilato il fatto che simili operazioni innescano un
meccanismo quasi automatico, in quanto sono proprio i risultati positivi
dell’apertura che motivano le popolazioni dell’area confinaria a premere sul-
le autorità centrali per accelerare il processo in corso e per ampliarlo, nella
convinzione che una politica di apertura porti con sé un incremento dell’in-
terscambio economico e culturale (449).
La dissimetria nelle percezioni relative al confine italo-sloveno ha con-
sentito a Lubiana di cogliere prima, e meglio, questa realtà e di sfruttarla per i
propri obiettivi indipendentemente dal mutare delle formule politiche di
quel Nord-Est dove ormai la Farnesina, o il governo italiano, deve riafferma-
re il proprio ruolo unico nella gestione della politica internazionale, insidiato
o contestato da un pulviscolo di iniziative regionali e locali, a cui certo non è
estranea Lubiana, che invece tratta direttamente con le controparti politiche
ed economiche. Quand’anche i vantaggi dell’apertura non fossero pari alle
aspettative della gente di frontiera, con l’oligopolio della carta stampata e il
politically correct liminale se ne potrebbe sempre dare una rassicurante spie-
gazione. Al contrario, la politica estera italiana, motivata da macrointeressi
nazionali, appare lontana e non facilmente rappresentabile alle popolazioni
locali, suggestionate invece da microinteressi regionali o municipali, mentre
nulla di simile si registra sul territorio sloveno. L’Italia certo ritiene di poter
sfruttare altri mezzi tra cui quelli economici, ma forse trascura come lungo i
confini a fianco degli affari ci siano anche altri interessi a cui gli sloveni non
rinunciano e che gli industriali italiani, e specie quelli del Nord-Est, non han-
no alcuna convenienza a rappresentare.
239
ORFANA DI ROMA, TRIESTE GUARDA A LUBIANA

Note
396. «Gli sloveni nelle province di Gorizia e Trieste», in COMUNITÀ DI LAVORO ALPE ADRIA, Le minoranze
nell’ambito dell’Alpe Adria, Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, Trieste 1991, p. 73.
397. P. SPIRITO, «La conta degli sloveni», Il Piccolo, 20/1/1994 p. 12.
398. «L’ultimo treno», Il piccolo, 25/4/1993. p. 1.
399. R. ILLY, «Trieste e la Mitteleuropa» Nord-Est, n. 1/94, pp. 59-66.
400. U. TRAMB., «Lontano dai Balcani, il traguardo è l’Europa», Il Sole -24 Ore, 25/6/1993, p. 7.
401. L. BRAIDA, «Fabbricare consenso in Friuli», Quaderni del Picchio, n. 1/94, Kappa Vu, Udine, p. 22.
402. Ivi, pp. 44-45.
403. U. TRAMB., «Lontano dai Balcani…», cit.
404. R. ILLY, «Trieste…», cit.
405. Cfr. M. DORIA, Grande dizionario del dialetto triestino, Tres 1987.
406. Cfr. DOMINI, PULIZIO, MINUISSI, VITTORI, Vocabolario fraseologico del dialetto «Bisiàc».
407. C. COLONNA, «Trieste ai confini delle Europe», Le Monde Diplomatique, in Internazionale, 3/2/l994, n. 13.
pp. 40-43.
408. A. GIORDANO, «Trieste Italia», Il Venerdì di Repubblica, 17/12/1993, p. 34.
409. P. RUMIZ, «Signori l’abbuffata è finita», Il Piccolo, 26/10/1993, p. 10.
410. P. RUMIZ, «La Slovenia ha fretta», ivi, 23/10/1993, p. 10.
411. P. RUMIZ, «Signori...», cit.
412. «Sì al federalismo con la specialità delle autonomie», Il Piccolo, 26/10/1993, p. 10.
413. G.P., «Fontanini. “Attenzione forte”», ivi, 27/10/1993, p. 11.
414. «Fontanini rimprovera il governo croato: curatevi degli italiani., ivi, 26/11/1993, p. 12.
415. F.E. - B.A., «A cena tra presidenti», ivi, 13/12/1993, p. 8.
416. L.B., «Buoni i rapporti con il vicinato», ivi, 29/12/1993, p.9.
417. «Idee a confronto», ivi, 25/1/1994.
418. «Negoziati di Osimo: “La regione deve essere coinvolta direttamente”», ivi, 19/1/1994, p. 14.
419. «Peterle scrive a Travanut: “Spero che i rapporti siano buoni anche in futuro”», ibidem.
420. «Travanut e Kucan: “Superare i confini”», ivi, 23/1/1994.
421. F.P. «Travanut al ballo dei “Deb”», Il Gazzettino, 26/1/1994, p. V.
422. «Fontanini: Programma “copiato”», ibidem.
423. «Tutela di tutte le minoranze», Il Piccolo, 31/1/1994, p. 10.
424. «Minoranza slovena: Tutela e finanziamento per parchi e cultura», ivi, 2/2/1994.
425. «Regione più snella, aiuto alle imprese». Ivi, 26/2/1994, p. 27.
426. «Un’area Strategica», ivi, 27/2/1994, p. 2.
427. G. GARAU, «Vertice di governo su Trieste», ivi, 27/2/1994, p. 3.
428. G. ROSSETTI, «Ma il Parlamento può rispondere picche», ivi, 3/3/1994, p. 2.
429. U. SALVINI, «Trieste, porto dell’Austria», ivi, 3/3/1994. p. 3.
430. F. B., «Entusiasta il console Ingo Mussi: “Saremo più vicini, più informali”», ibidem.
431. U. SALVINI, op. cit.
432. «Il Friuli-Venezia Giulia e l’impegno costante a Est», ivi, 5/3/1994, p. 3.
433. M. MANZIN, «Nei Balcani da ora in avanti non ci saranno colpi bassi», ibidem.
434. «Emergenza continua», ivi, 21/3/1994, p. 8.
435. A. CERNAZ, «Una lezione ai nazionalisti», ivi, 7/12/1993, p. 11.
436. S. MARANZANA, «L’industria vicina al colasso», ivi, 7/12/1993, p. 14.
437. D. DE CASTRO, «Salviamo Trieste. Ora più che mai serve collaborare», ivi, 12/12/1993, p. 1.
438. A. BORIA, «Tre emergenze da risolvere», ivi, 7/12/1993, p. 13.
439. G. G., «Comune-Regione: un “filo diretto” per l’emergenza», ivi, 18/1/1994, p. 11.
440. M. MANZIN, «Superiamo i nazionalismi», ivi, 3/2/1994, p. 13.
441. M. MANZIN, «Beni abbandonati, nuove vie», ibidem.
442. M. MANZIN, «Superiamo…», cit.
443. «Trieste come motore del “dopoguerra” in Bosnia», Il Piccolo, 2/3/1994, p. 11.
444. P. SPIRITO, «Porti: alleati con Capodistria», ivi, 19/3/1994, p. 11.
445. P. SPIRITO, «L’Unione europea renderà inutilì gli attuali confini», ibidem.
446. L. BRAICO, «E gli italiani d’Istria: “Trieste, non dimenticarci”», ibidem.
447. «Cooperazione transfrontaliera: protocollo Nord-Est, Slovenia, Croazia», 4/12/1991, Nord-Est, pp. 122-124.
448. M. GRECO, «Un Mediterraneo più competitivo», Il Piccolo, 9/12/1993. p. 26.
449. E. SUSSI, «L’emergenza della Regione trans-frontaliera Alpe Adria: transazioni “pubbliche” tra Carinzia,
Croazia, Friuli-Venezia Giulia e Slovenia», in I.S.I.G., Confini e Regioni. Il potenziale di sviluppo e di pace del-
le periferie, Trieste 1972, Lint, pp. 135-139.
240
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

CROAZIA DIVISA:
IL CASO
DALMAZIA di Alessandro SFRECOLA

Si approfondisce la frattura fra il territorio dalmata e Zagabria.


L’incombere della guerra e gli effetti della crisi economica.
I difficili rapporti con i serbi di Knin. Si diffondono vittimismo
e autocompatimento.

L A STORIA RECENTE DEI TERRITORI


della Repubblica di Croazia situati sulla sponda orientale dell’Adriatico e
coincidenti con la regione storica conosciuta come Dalmazia può essere rac-
chiusa entro due date fondamentali. La prima e il 19 agosto 1991, quando
Milan Martic, ministro dell’interno della Regione autonoma serba della Kraji-
na (Sao-Krajina) (450), con un ultimatum intima alle guarnigioni croate l’ab-
bandono dei distretti secessionisti, dando così inizio alle ostilità aperte con
Zagabria; il 23 marzo 1994 lo stesso Martic, ora presidente della Repubblica
della Krajina, stipula invece con le autorità croate una tregua che, pur non ri-
solvendo nessuna delle questioni aperte dal conflitto armato, sembra effetti-
vamente poter rappresentare una concreta possibilità di normalizzazione dei
rapporti fra i due contendenti. Tra queste due giornate vi sono stati per la
Dalmazia quasi tre anni di isolamento: una separazione all’origine di una de-
pressione sociale ed economica che ha facilitato in questa regione il sorgere
di un particolare senso di autoidentificazione e distinzione nell’ambito dello
Stato croato, la propria «diversità».

Crisi socioeconomica di una regione


La frammentazione territoriale generata dal conflitto con i serbi ha creato
in Croazia una diversificazione socioeconomica tra le aree più distanti dalla
Krajina -Istria, Zagabria, le zone centro-settentrionali prossime ai confini con
Ungheria e Slovenia – e quelle comprese entro circa 15 km dal fronte, che
includono il 60% della superficie dello Stato e il 40% dei suoi abitanti (451),
le quali si trovano costantemente esposte al pericolo di bombardamenti e in-
cursioni nemiche. In questa fascia si territorio, nonostante l’invio delle forze 241
CROAZIA DIVISA: IL CASO DALMAZIA

dell’Unprofor nella primavera del 1992, è ancora estremamente problemati-


co intraprendere delle iniziative per la ripresa produttiva o ricostruire i beni
distrutti; la sua popolazione è divenuta quindi la principale vittima del pro-
gressivo declino dell’economia croata, chiaramente documentato dal costan-
te abbassamento degli indicatori macroeconomici statali (452).
La Dalmazia, costituente l’8,8% della superficie della Repubblica croata e
sede nel 1991 del 19,9% della sua popolazione – 951.641 abitanti, di cui circa
il 12% appartenente all’etnia serba, ubicata in prevalenza nei distretti setten-
trionali di Knin, Obrovac e Benkovac (453) – rientra quasi nella sua totalità
fra queste aree depresse (454). La circostanza che contraddistingue ed ampli-
fica la gravità della situazione dalmata è rappresentata dalle difficoltà di co-
municazione con il resto del paese, che sin dagli inizi dalla rivolta serba,
nell’agosto del 1990, hanno cominciato a determinare una frattura politica
con il centro zagabrese, approfondita col tempo dalla fortissima recessione
che ha colpito l’economia regionale.
All’interno della Federazione jugoslava l’economia della Dalmazia si ba-
sava su due fondamentali strutture, l’industria pesante e, soprattutto dagli an-
ni Sessanta, il turismo. Quest’ultimo ha visto nel 1993 l’afflusso di presenze
ridursi al 15% rispetto al periodo prebellico, garantendo solamente il 10% de-
gli introiti turistici dello Stato, che con il crollo di questa risorsa, assicurante
nel 1990 l’80% delle entrate della Croazia, ha perso la sua principale fonte di
valuta estera. L’altro tradizionale pilastro economico, l’industria pesante, in
particolare quella legata ai cantieri navali, è ugualmente prostrato: le esporta-
zioni del settore sono in netto calo – rispetto al 1990 sono scese del 65% –
essendo la produzione seriamente ostacolata dagli alti costi dei trasporti e
dalla scarsità di energia, causata dal controllo serbo di molti impianti idroe-
lettrici dell’entroterra e dall’interruzione nel marzo del 1993, dopo il collasso
dell’alleanza con i musulmani di Izetbegovic, dell’afflusso di corrente elettri-
ca proveniente dalla Bosnia-Erzegovina.
Se il settore industriale sta mostrando nei primi mesi del 1994 segnali di
ripresa, legati al miglioramento dei rifornimenti elettrici e alla maggiore sicu-
rezza delle linee di collegamento in seguito alla tregua con la Krajina, la
scomparsa della principale forma di occupazione, il turismo, ha elevato il tas-
so di disoccupazione della regione a livelli molto superiori alla media nazio-
nale (un terzo del totale dei disoccupati registrati in Croazia, 245 mila, è resi-
dente in Dalmazia). La presenza di un grande numero di profughi – i centri di
raccolta di Spalato, Zara e Makarska hanno raccolto ci primi mesi del conflitto
oltre il 20% del totale dei rifugiati dalla Croazia (455) – costituisce un ulteriore
impedimento sia alla ripresa turistica, in quanto essi occupano la maggior par-
te delle strutture d’accoglimento, sia a quella economica, risultando le spese
di mantenimento degli sfollati intorno ai 30 marchi mensili a persona.
Questa sfavorevole congiuntura ha prodotto all’interno della società dal-
mata la genesi di alcune specifiche patologie collettive, che pur essendo pre-
senti in tutta la Croazia, sebbene generalmente in misura minore, hanno nel
contesto locale dei gravi effetti sul processo di sviluppo negli individui di
242 una nuova identità post-jugoslava e postcomunista, e ritardano la formazio-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

ne delle precondizioni mentali per il superamento della crisi. Le citate pato-


logie sono sintetizzabili in:
• Frammentazione sociale. Gli scompensi provocati dalla guerra, tollerati
nel periodo di emergenza, tendono a fuoriuscire nella lunga e instabile tre-
gua. I contrasti sociali, dopo un’iniziale e logica caratterizzazione etnica, che
dava luogo alla stigmatizzazione dell’elemento serbo, stanno sfociando nella
contrapposizione tra categorie sociali diverse, in particolare tra una minoran-
za ricca, spesso capace di influenzare il processo di privatizzazione delle
aziende statali a proprio favore, e una maggioranza povera, rappresentata
dall’elevata percentuale di popolazione impoverita o improduttiva, che in
Dalmazia può essere calcolata attorno al 15% (fra disoccupati e profughi, a
cui si deve però aggiungere un grande numero di pensionati). Lo scadimento
del contesto socioculturale sta inoltre originando nelle maggiori città, Spalato
in particolare, un aumento dell’influenza di gruppi marginali o devianti, solita-
mente prosperanti in condizioni di disordine, che possono approfittare della
difficoltà di controllo da parte del potere centrale di una periferia emarginata.
• Depressione sociale. L’assenza di prospettive e scadenze, prodotta dalla
cristalizzazione dello status quo postbellico successivo all’arrivo dell’Un-
profor, ha ripercussioni sul morale degli abitanti, in quanto rende estrema-
mente problematica ai singoli la programmazione del proprio futuro, non es-
sendo possibile una regolazione delle scelte in condizioni di totale provviso-
rietà. Si nota quindi una scarsa reattività le frustrazioni psichiche causate dalla
guerra, che nel corpo sociale favorisce il sorgere di un controproducente vitti-
mismo e di una tendenza all’autocompatimento (456). La presenza di una
preesistente mentalità, definibile «socialista balcanica», in base alla quale gli in-
dividui pretendono i benefici del capitalismo senza volere però assumere le
responsabilità ad esso correlate, in quanto estranee alla loro precedente idea-
lizzazione del sistema occidentale, è in questo momento un altro ostacolo al
consolidamento di una locale economia di mercato dinamica, in quanto limita
la predisposizione a iniziative personali e fa pretendere forme di assistenziali-
smo comuni nell’ex Jugoslavia ma non più garantibili dalla sola Zagabria.

Alle origini dell’isolamento: la guerra in Dalmazia


Dall’agosto al dicembre del 1991 la Dalmazia è stata coinvolta nelle sue
parti settentrionale e meridionale da due conflitti che, pur contrassegnati da
proprie specificità, avevano l’effetto globale di provocare l’accerchiamento e
il distacco di quest’area dal resto della Croazia. I combattimenti con la Kraji-
na a nord e quelli attorno a Dubrovnik vanno distinti sia in base al grado di
utilizzazione delle forze dell’Armata federale (Ina) nelle operazioni sia rispet-
to al quadro etnico locale e ai conseguenti efficienza e numero degli irrego-
lari serbi attivi; le diversificazioni regionali degli scontri, cioè le connotazioni
di autodeterminazione assunte dalla rivolta in Krajina e gli obiettivi geostrate-
gici connessi all’attacco a Dubrovnik, rendono quindi possibile l’identifica-
zione in Dalmazia di due teatri bellici, da analizzare separatamente: 243
CROAZIA DIVISA: IL CASO DALMAZIA

Dalmazia settentrionale. Le ostilità tra i croati e i ribelli della Krajina, in


senso cronologico precedenti all’offensiva su Dubrovnik, possono essere de-
finite nella loro fase iniziale una guerra di autodeterminazione in considera-
zione dei seguenti elementi:
• La composizione etnica delle regioni interessate dai combattimenti –
Dalmazia settentrionale, Lika orientale, Banija-Kordun – dove era presente
una maggioranza serba, costituente rispettivamente il 73,4, l’80 3 e il 61,9%
della popolazione (457), che aveva sancito il suo distacco da Zagabria me-
diante un referendum.
• L’esistenza di un governo locale dotato di una propria milizia. La Sao-
Krajina disponeva infatti di proprie truppe, dette Knindze o Marticevci orga-
nizzate da Milan Martic – ex capo della polizia di Knin, esonerato dal gover-
no croato nell’agosto del 1990 – con l’assistenza di ufficiali federali in ritiro o
in servizio presso il IX corpo di Knin; il compito di preparazione degli irrego-
lari in Banija-Kordun era invece stato svolto in prevalenza da Kapetan Dra-
gan, un serbo dall’incerto passato proveniente dall’Australia. Nel luglio del
1991 le forze militari dalla Sao-Kraijna, inclusi volontari ed ex soldati della
Jna, potevano contare circa 12 mila uomini ben addestrati (458).
• Il limitato coinvolgimento dell’Armata federale negli scontri (che era ri-
dotto all’appoggio aereo e logistico), determinato sia dalla scarsa opposizio-
ne offerta dai croati, numericamente inferiori, sia dall’alta percentuale di ser-
bi locali presenti nel corpo d’armata di Knin, che dava in pratica luogo a una
fusione fra esso e i Marticevci.
Gli atti di sabotaggio e guerriglia iniziati dalle milizie serbe nell’estate del
1991 – blocchi stradali, attentati a ferrovie e linee elettriche – si intensificava-
no notevolmente dopo la proclamazione d’indipendenza della Croazia, ma
la rottura definitiva tra quest’ultima e i secessionisti arrivata dopo la metà di
agosto del 1991, con l’ultimatum di Martié. Le autorità di Zagabria avevano
sino a quel momento cercato di mantenere la sovranità sulla Krajina istituen-
do nelle principali città dei posti di polizia, che però potevano esercitare una
limitata sorveglianza su di un territorio abitato da una maggioranza serba
ostile. Nei giorni seguenti l’ultimatum le principali guarnigioni croate nella
zona di Knin (Kijevo, Skadrin, Krusevo, Plitvice), composte da poliziotti
rinforzati occasionalmente da volontari e dalla Guardia nazionale (459), ven-
gono isolate dai Marticevci e devono presto arrendersi: entro la metà di set-
tembre i serbi ottengono il controllo di tutti i distretti in cui rappresentavano
la maggioranza etnica.
A questo punto si deve osservare un cambiamento nelle caratteristiche
delle operazioni militari serbe, che trasforma il conflitto in una guerra d’an-
nessione, in quanto le rinnovate offensive dei Marticevci, sferrate lungo l’ar-
co costituito dai distretti di Sebenico, Zara, Gospic, Karlovac, Sisak e miranti
sostanzialmente a due obiettivi – il raggiungimento del confine sloveno a
nord di Karlovac e l’acquisizione di un porto sull’Adriatico in Dalmazia – era-
no indirizzate verso territori in cui l’etnia croata era maggioritaria. I loro fini
annessionistici possono essere confermati anche dallo scarso successo otte-
244 nuto, attribuibile certamente alla crescita di efficienza dell’esercito di Zaga-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

bria ma soprattutto al fatto che le forze della Sao-Krajina non potevano più
usufruire dell’appoggio in profondità costituito dalle milizie reclutate nei vil-
laggi serbi, fattore che aveva permesso nei mesi precedenti il blocco delle
vie di comunicazione e il rapido isolamento delle guarnigioni croate, causan-
do la loro sconfitta.
Dalmazia meridionale. L’apertura di un secondo fronte in Dalmazia,
l’offensiva federale verso Dubrovnik, considerata dai media occidentali
un’impresa di stampo terroristico, rispondeva invece a diverse esigenze di
carattere geostrategico e politico. Era finalizzata in primo luogo all’occupa-
zione della penisola di Prevlaka e della regione di Konavli, che avrebbe con-
sentito sia la protezione del lato nord della baia di Cattaro, dove era situato
l’unico porto militare rimanente alla futura federazione serbo-montenegrina
dopo l’indipendenza della Croazia, sia, in previsione della secessione dell’et- 245
CROAZIA DIVISA: IL CASO DALMAZIA

nia serba locale, il completamento dell’accerchiamento della Bosnìa-Erzego-


vina, da isolare anche a sud-est. Si trattava inoltre di rispondere alle critiche a
cui era in quel momento sottoposta l’Armata, che stava subendo gravi perdi-
te in Slavonia, con la conquista di un obiettivo soft ma prestigioso, che per-
metteva di acquisire un prezioso oggetto di ricatto nei confronti di Zagabria
nel caso di eventuali scambi territoriali seguenti il conflitto armato. La presa
di Dubrovnik avrebbe consentito infine di rivitalizzare il morale del Monte-
negro, assegnando ai suoi riservisti, i quali cominciavano a manifestare se-
gnali d’insubordinazione, un compito più popolare della sanguinosa guerra
in Slavonia.
Il concepimento dell’offensiva è con ogni probabilità da attribuire ai ver-
tici militari della Jna, che difatti affideranno la sua esecuzione solo ad unità
del III distretto militare basate in Erzegovina e in Montenegro (460).
A differenza che in Krajina non vi sarà quindi in Dalmazia meridionale il
coinvolgimento di milizie paramilitari locali, essendo il distretto di Dubrov-
nik popolato prevalentemente da croati: le sue deboli difese assicuravano
comunque il successo dell’operazione. Si noterà invece la presenza di un
grande numero di soldati regolari di origine montenegrina, attirati dalle pro-
spettive di saccheggio del ricco entroterra della «perla dell’Adriatico» (461).
Anche le operazioni nella zona di Konavli vengono intraprese dopo la metà
di agosto del 1991, e terminano entro pochi giorni. Dubrovnik rimane allora
l’ultimo presidio croato nella regione; il 17 settembre viene quindi circondata
e sottoposta ad un blocco navale; nello stesso tempo hanno inizio i numero-
si bombardamenti del centro storico, aventi il probabile scopo di provocare
la fuga della popolazione civile, un sistema che aveva portato all’incruenta
conquista di molte località della Slavonia. La città resterà poi assediata sino
all’agosto del 1992, quando, tramontate le ipotesi di conquistarla ed avendo
ormai i serbo-bosniaci conseguito gran parte dei loro obiettivi territoriali,
rendendo inutile il possesso della Dalmazia meridionale, un accordo fra i
presidenti Tudman e Cosic dette il via al ritiro delle truppe jugoslave e alla
smilitarizzazione della penisola di Prevlaka, affidata al controllo dei soldati
dell’Onu.
Il congelamento della linea del fronte deciso dalla tregua di Sarajevo del
3 gennaio 1992 sanciva di fatto la separazione territoriale della Dalmazia dal-
la parte settentrionale dello Stato croato. Le vie ferroviarie con il nord, le li-
nee con Fiume e Zagabria, erano interrotte dalla perdita della Lika e del no-
do di Knin; due degli aeroporti civili esistenti, Zara e Dubrovnik, restavano
in mano serba, mentre il terzo, Spalato, era inagibile; la distruzione del ponte
di Maslenica, avvenuta nell’ottobre del 1991, avrebbe comportato per quasi
due anni notevoli disagi alle comunicazioni stradali; le vie marittime, infine,
erano insicure per il mantenimento del possesso da parte federale delle basi
navali situate a Cattaro e nelle isole adriatiche di Vis e Lastovo, e dall’altra
parte l’approvigionamento mediante i mezzi navali si rivelerà un’alternativa
insufficiente agli autotrasporti. L’unico grande sforzo militare intrapreso dalla
Croazia per sbloccare questa situazione, l’offensiva verso Maslenica (22-25
246 gennaio 1993), non riuscirà a garantire la sicurezza dei collegamenti.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

Un vicino scomodo. I rapporti con la Kninska Krajina


La fine delle ostilità aperte ha lasciato in mano ai serbi della Repubblica
di Krajina – il 6% della popolazione croata, ed il 48% della minoranza serba
totale – il 22,6% della superficie dello Stato croato (462). La ribellione al go-
verno di Zagabria, a cui non è seguita la sperata annessione alla Serbia, ha
reso la Rsk un’entità statale non riconosciuta dalla comunità internazionale,
composta da regioni geograficamente non contigue e collegate fra loro solo
attraverso le zone bosniache occupate dalle forze di Karadzic. La dipendenza
da Belgrado a livello economico e politico, nonché militare, è presto divenu-
ta quasi totale.
Le parti occidentali della Krajina si trovano a confinare per circa 250 km
con la Dalmazia. Si tratta di aree economicamente arretrate e improduttive,
in particolare la Lika, tormentate da un’incessante guerriglia di confine e co- 247
CROAZIA DIVISA: IL CASO DALMAZIA

stantemente minacciate dal pericolo di offensive croate. Queste regioni, inte-


ressate da un sottosviluppo economico endemico e prive di infrastrutture
(463), con la guerra e la fine della Jugoslavia hanno dovuto registrare sia
l’esaurimento degli aiuti concessi nei decenni passati dal governo federale
sia la perdita del naturale interscambio economico con la regione costiera,
che costituiva l’unico mercato per i loro prodotti agricoli e assicurava molti
posti di lavoro.
Il dialogo con le autorità croate è stato sino alla fine del 1993 del tutto
sterile, stroncato da un proclamazione d’indipendenza a cui la Krajina non
sembra voler rinunciare e che la Croazia non è mai stata intenzionata a rico-
noscere. L’elezione di Milan Martic alla presidenza della Rsk nel gennaio di
quest’anno può però essere vista come un primo sintomo di una nuova fase
nelle relazioni fra Knin e Zagabria. La vittoria di Martié sul suo principale
concorrente, il popolare sindaco di Knin Milan Eabié, ottenuta con il soste-
gno di Milosevic- – un dato confermante la mancanza di autonomia politica
della Krajina, già rilevatasi al momento della rimozione del precedente inca-
ricato alla presidenza, Goran Hadzic – indica la volontà da parte di Belgrado
di contare su di una figura meno intransigente nei rapporti con Tudman
(non tale comunque da mettere in dubbio l’indipendenza del suo Stato) e
forse più in sintonia con gli obiettivi della nuova Jugoslavia (464). Una prima
dimostrazione della «svolta» rappresentata dalla scelta di Martic è il raggiungi-
mento di un accordo di cessate-il-fuoco permanente deciso in seguito ai col-
loqui tenuti presso l’ambasciata russa di Zagabria il 22 e il 23 marzo; questa
fragile tregua, effetto più dell’indebolimento economico delle parti che di
una reale disponibilità alla risoluzione della questione della Krajina, sta co-
munque arrecando immediati benefici alla ricostruzione del devastato entro-
terra dalmata, e ha portato alla riapertura dell’ultimo aeroporto civile ancora
inattivo, quello di Zara.

La situazione politica: un regionalismo obbligato?


Le crescenti rivendicazioni di autonomia regionale, in nome di una di-
versità dalmata talvolta spinta ai limiti dell’autoinganno, che vanno in pratica
a tradursi nell’opposizione alla formazione dominante al Sabor, l’Hdz, sem-
brano suscitare, più che da una reale identità socioculturale autoctona, dalle
continue ingerenze politiche ed economiche connesse alla gestione centrali-
sta di Tudman.
Il partito al potere dal maggio del 1990 ha infatti cercato di ottenere il
controllo politico delle regioni periferiche attraverso due strumenti, usati in
maniera efficace soprattutto in Dalmazia:
• la riforma amministrativa approvata dal parlamento nel novembre del
1992, che riorganizzando il territorio in 21 distretti (zupanije), portava alla
divisione della regione storica Dalmazia in quattro zone separate (Zara-Knin,
Sebenico, Spalato-Dalmazia, Dubrovnik-Neretva), facendole quindi perdere
248 la sua tradizionale unità geopolitica;
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

• la conduzione pilotata del piano di privatizzazione, organizzato in mo-


do da far insediare manager legati all’Hdz alla dirigenza delle principali
aziende statali.
Il malcontento suscitato da questi provvedimenti si è innestato sulla
mancata riconquista dell’entroterra, più volte promessa dal governo ma con-
cretizzata solamente nelle due limitate offensive di Miljevci (estate 1992) e
Maslenica, lanciate in sospetta concomitanza con le chiamate elettorali per la
Camera dei deputati nel primo caso e per la Camera delle contee nel secon-
do. Il ventilato passaggio ai musulmano-bosniaci di un porto sull’Adriatico
(Ploce), concessione che interromperebbe la continuità territoriale della Dal-
mazia, costituisce un ulteriore e ancora non risolto motivo di attrito fra Tud-
man e quella che viene chiamata da Zagabria la Croazia meridionale.
Le descritte incomprensioni. hanno quindi trovato una via di sfogo nelle
elezioni parlamentari, rendendo la Dalmazia un terreno fertile per i partiti
d’opposizione. L’attuale seconda formazione politica croata, il Partito liberal-
socialista (Hsls) ha ottenuto la maggioranza a Spalato, dove è significativo
anche il successo di un raggruppamento regionale, l’Azione dalmata (Ad),
che ha portato tre suoi appartenenti alla Camera dei deputati. Il caso
dell’Azione dalmata è piuttosto particolare, in quanto, se pensiamo alla limi-
tata considerazione di cui gode nelle altre parti della Dalmazia, i consensi da
essa ottenuti sembrano essere un fenomeno strettamente legato alla forte
identità municipale della città di Spalato, caratterizzata dal suo nazionalismo
e dell’alta percentuale di autoctonia dei suoi abitanti. L’ascesa del Partito
contadino croato (Hss) alle votazioni per la Camera delle contee, ottenuta
con la presentazione di un programma atto a evitare la frammentazione della
Dalmazia conferma il trend che vede localmente vincenti le formazioni poli-
tiche supportanti gli interessi regionali. Gli stessi rappresentanti dell’Hdz ten-
dono quindi a distaccarsi dall’amministrazione zagabrese, e le loro afferma-
zioni elettorali vanno poste in relazione con la percentuale d’indipendenza
dal partito del candidato: è eloquente in proposito il sostegno dato dai citta-
dini di Zara al proprio sindaco, Sima Prtenjaca (465).
Un’altra forma di lotta al centralismo si è condensata nella linea polemi-
ca nei confronti di Tudman tenuta dalla stampa dalmata, che aveva trovato la
sua massima espressione nel quotidiano spalatino Slobodna Dalmacija.
Questa testata ha comunque perduto gran parte del suo atteggiamento criti-
co dopo il fallimento del tentativo da parte dei suoi dipendenti di acquisire la
proprietà del giornale; dal marzo del 1993 la quota di maggioranza è nelle
mani di lealisti dell’Hdz, e sono cessati i continui attacchi frontali al partito di
maggioranza che Slobodna Dalmacija usava portare. Una sorte simile è stata
condivisa anche dal quotidiano locale di Zara, il Novi List.
Rimane comunque difficile valutare il reale peso delle richieste autono-
mistiche espresse dalla Dalmazia, in quanto il contrasto politico è esacerbato
dai tre anni di guerra coi serbi. L’opposizione dalmata non si presenta com-
patta nè coordinata, e la stessa situazione socioeconomica dell’intera area
non possiede delle caratteristiche unitarie, essendo la parte centro-meridio-
nale più isolata ma anche meno colpita dal conflitto rispetto al territorio zara- 249
CROAZIA DIVISA: IL CASO DALMAZIA

tino; Zagabria è comunque conscia del decisivo ruolo geostrategico ed eco-


nomico della regione per tutto lo Stato croato e non ha interesse a condurre
all’esasperazione il confronto. Il dato attualmente più importante fornito dal
«caso Dalmazia» va cercato nelle affermazioni elettorali dell’opposizione, che
se accostate agli analoghi casi dell’Istria, danno indicazione di come la diffe-
renziazione e la percezione regionale della guerra rappresentino in questo
momento il principale agente dei mutamenti politico-sociali in atto in Croa-
zia, e siano da considerarsi come un concreto fattore di indebolimento delle
forze centraliste ora al governo.

Note
450. Comunemente chiamata solo Krajina, la Regione autonoma di Krajina era costituita dai distretti a maggio-
ranza serba della Lika orientale, Banija-Kordun e Dalmazia settentrionale, che avevano proclamato il proprio
distacco dalla Croazia il 21 dicembre 1990; a questa si univano nel gennaio del 1992 le altre regioni secessio-
niste di Baranja e Slavonia orientale, per dare origine alla Repubblica serba di Krajina (Rsk), con capitale
Knin.
451. I. BICANIC, «Croatian Struggle to Make Ends Meet», Rfe/Rl Research Report, vol. 2, n. 45, 12/11/1993, p. 34.
452. La produzione industriale statale, ad esempio, è stata nel 1993 pari al 52% di quella del 1989, e inferiore a
quella del 1992. Una analisi completa dell’economia croata è in I. BIBANIC, «Croatia’s Economic Stabilization
Program: Third Time Unlucky», Rfe/Rl Research Report», vol. 3, n. 3, 21/1/1994, pp. 36-42.
453. Cfr. P. SHOUP, «The Future of Croatia’s Border Regions», Report Eastern Europe», vol. 2, n. 48, 29/11/1991,
pp. 26-33.
454. Questi e i successivi dati statistici sulla Dalmazia sono tratti in prevalenza dal I. DOMINIS, «Dalmatia: A
Croatian Resource Divide», Rfe/Rl Research Report, vol. 3, n. 9, 4/3/1994, pp. 37-42.
455. AA. VV., «Person Displacement Pattern Croatia», Croatia Medical Journal, vol. 33, War Supplement, n. 1,
1992, p. 59.
456. Testimonianze del vittimismo con cui è stata vissuta la guerra si possono trovare nel volume AA. VV., Du-
brovnik in War, Dubrovnik-Zagreb 1993, in cui sono ricorrenti parallelismi come Dubrovink-Guernica o
Vukovar-Stalingrado.
457. AA.VV., La Croazia tra la guerra e l’indipendenza, Zagabria 1991, OKC, p. 56. I dati risalgono al censi-
mento del febbraio 1991.
458. M. VEGO, «The Army of Serbian Krajina», Jane’s Intelligence Review, vol. 5, n. 10/10/1993. p. 441.
459. Interessante la presenza in Dalmazia nei primi mesi del conflitto di milizie reclutate dal Partito riformistica
democratico (Sdp, espressione degli ex comunisti) e organizzate secondo gli schemi delle precedenti forze
della difesa territoriale jugoslava. Cfr. M. VEGO, «The Croatian Army», Jane’s Intelligence Review, vol. 5, n.
5/5/1993, p. 206.
460. J. GOW, «One Year of War Bosnia and Herzegovina», Rfe/Rl Research Report, vol. 2, n. 23, 4/6/1993, p. 7.
461. Si veda ad esempio M. GLENNY, The Fall of Yugoslavia, Harmondsworth 1992, Penguin, pp. 131-134.
462. A ZABKAR, «Agresija “old Triglava do Vardarja”», Revija Obramba, nn. 4-5, April-May 1993, p. 7.
463. Riguardo le origini della situazione socioeconomica della Krajina si veda G.E ROTHENBERG, «The Hab-
sburg Military Border System: Some Reconsideration», in B K KIRALY-G.E. ROTHENBERG, «Special Topics
and Generalizations no the l8th and l9th Centuries», War and Society in East Central Europe, vol. I, New
York 1979. Brooklyn College Press, pp. 361-392.
464. Per la scelta di Martic da parte di Belgrado cfr. S. MARKOTICH, «The Elections in Krajina and Their After-
math», Rfe/Rl Research Report, vol. 3, n. 10, 11/3/1994, pp. 4-5.
465. Cfr. I. Dominis, op. cit., p. 41.

250
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

Da Alpe Adria ad Arco Adria?


Incontro con: Riccardo ILLY, Aurelio Juri, Zlavko LINIC,
Giorgio TOMBESI e Luigi ZANDA

L IMES TRIESTE, FIUME, CAPODI- velocità molto ridotta. Risultato: il


stria: tre porti che insistono sullo transito, pur su due binari, non su-
stesso braccio di mare ma appar- pera i 120-130 convogli al giorno.
tengono a tre Stati diversi. È possi- Quanto poi al preventivato rad-
bile individuare una strategia co- doppio della Pontebbana (transito
mune, basata su interessi comuni? verso l’Austria), il suo completa-
Che ne pensa, per cominciare, il mento avverrebbe appena nel
sindaco di Trieste? 1997, il che fa convogliate i com-
ILLY Se paragoniamo l’attività dei merci degli imprenditori triestini
nostri porti a quella degli scali sui binari della quasi parallela ma
nord-europei che indirizzano i loro migliore rete slovena. Insomma, la
traffici verso il centro del continen- domanda per i nostri porti ci sareb-
te, siamo subito colpiti dalla margi- be, ma finiremo per perderla Se
nalità del nostro ruolo. Eppure, i non verrà potenziata la rete dei col-
porti dell’Adriatico hanno un van- legamenti con l’entroterra.
taggio di 4-5 giorni di navigazione JURI Anche per noi di Capodistria il
rispetto a quelli del Nord. Noi per- punto dolente è la mancanza di un
diamo seccamente il confronto per adeguato collegamento stradale –
la carenza delle strutture, dei servi- non solo ferroviario – persino con
zi e soprattutto dei collegamenti l’Ungheria. Stiamo quindi ancora
con i mercati interni. Per Trieste e peggio di Trieste, sotto questo a-
Capodistria, in particolare, il grosso spetto. Invece lo sviluppo tecnolo-
handicap consiste nell’antiquata re- gico del nostro scalo è prometten-
te ferroviaria. Il percorso della fer- te. Questo è il secondo anno che
rovia che ci collega al cuore del realizza oltre 5 milioni di tonnellate
continente, in particolare verso nord, di merci, dopo che l’aggressione
è ostacolato da gallerie inadatte al jugoslava del 1991 ci aveva portato
traffico intermodale e dal tracciato sotto i 4 milioni. Ma ora all’estero
antiquato che obbliga i treni a una c’è un forte interesse per Capodi- 251
DA ALPE ADRIA AD ARCO ADRIA?

stria. Ad esempio, si è formato un Rispetto a Capodistria abbiamo an-


pool di 250 ditte dell’Estremo Orien- che una migliore connessione stra-
te e dell’Australia (grazie a uno slo- dale con la capitale Zagabria e con
veno lì emigrato trent’anni fa ) per l’Ungheria. Certo, abbiamo il pro-
costruire un centro affari su un’area blema della guerra. Non vogliamo
di 26 mila metri quadrati, rivolto che Fiume diventi l’ultimo porto
specialmente al Centro e all’Est dell’Europa centrorientale. Al con-
d’Europa. L’investimento di oltre trario, vogliamo farne un importan-
160 milioni di dollari ci frutterà al- te punto di snodo aperto all’Est co-
meno mille posti di lavoro, un terzo me all’Ovest e al Nord d’Europa.
dei nostri disoccupati attuali. Oggi I progetti ferroviari croati vanno in
Capodistria conta 46 mila abitanti questo senso, sviluppando i colle-
su un territorio destinato a crescere gamenti con Italia e Slovenia. Quan-
grazie alla riforma delle autonomie to all’idea della Magistrale adriatica,
locali e allo sviluppo del porto. Di- la nuova arteria che dovrebbe colle-
venteremo così uno dei Comuni gare Trieste, via Fiume e Dalmazia,
più grandi della Slovenia. Inoltre, a Tirana, non è attuabile a guerra in
prima Capodistria era il secondo corso. Inoltre, sarebbe più un pro-
porto della Jugoslavia, dopo Fiume. getto turistico che commerciale.
Adesso siamo l’unico porto della ZANDA Noi, come Consorzio Venezia
Slovenia. Per noi essere il solo por- Nuova, abbiamo interesse alla col-
to di uno Stato può essere un van- laborazione fra i vostri tre porti e
taggio competitivo. quello di Venezia, e in generale fra
LIMES Che cosa portano gli investito- le due sponde. Il nostro problema
ri stranieri? è infatti il riequilibrio ambientale
JURI Alta tecnologia e specializza- della laguna di Venezia e la sua di-
zione del mercato. Ma per la mole fesa dalle maree. L’Adriatico entra
di interessi mobilitati, che toccano ed esce due volte al giorno dalla
persino la Grecia e il Sudafrica, bi- nostra laguna. La qualità delle ac-
sognerà coinvolgere Trieste e tutto que adriaticbe è quindi per noi di
il bacino dell’Alto Adriatico. Insom- vitale importanza. Molto dipende,
ma, come ha detto recentemente Il- in questo campo, dai traffici che si
ly, non facciamoci la guerra tra po- svolgono sul nostro mare. Che cosa
veri. La concorrenza dobbiamo far- ne facciamo delle petroliere? Certo,
la ai porti del Nord. i nostri porti sono sicuri, ma resta il
LINIC Giusto. Un confronto fra i no- fatto che il 23 per cento degli inci-
stri porti e quelli del Nord Europa è denti alle petroliere sono dovuti a
impossibile. Ma è assurdo scatena- cause imprevedibili. Ecco un tema
re la competizione fra Fiume, Ca- su cui dovrebbe esercitarsi la colla-
podistria e Trieste, quando do- borazione fra i porti adriatici. C’è
vremmo collaborare per dirottare a poi il progetto di risanare l’Adriati-
nostro favore un pò del traffico di- co in collaborazione fra i sette pae-
retto verso i porti del Nord. si che visi affacciano. Per questo
Il nostro porto di Fiume gode del abbiamo già costituito una società
vantaggio geopolitico di essere il italo-sloveno-croata. Ma c’è da fare
252 più importante porto della Croazia. molto di più, se pensiamo che il
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

bacino scolante del nostro mare Io sarei favorevole più al decentra-


conta 40 milioni di persone. Non si mento che al regionalismo, in que-
può affrontare questo tema che nel sto momento. Quando la fine della
quadro di un’intesa fra tutti gli Stati guerra ammorbidirà la questione
europei interessati. dei confini, si potrà parlare anche
LIMES Qual è il punto di vista della di euroregionalismo. E così si apri-
Camera di Commercio di Trieste? ranno le barriere che ostacolano gli
TOMBESI La nostra Camera di Com- investimenti esteri.
mercio, da sempre protagonista in JURI L’Euroregione Istria sarà realiz-
Alpe Adria, ha organizzato recente- zabile quando la barriera dei confi-
mente un simposio sui temi della ni di Stato fra Croazia e Slovenia,
portualità. Le relazioni hanno con- che taglia la penisola istriana, sarà
fermato come le difficoltà riguardi- superata. Ciò avverrà solo quando
no quasi tutti i porti del Mediterra- Slovenia e Croazia saranno entram-
neo, non sufficientemente competi- be ammesse nell’Unione europea.
tivi e perciò tendenzialmente esclu- Noi facciamo il possibile, ma la
si dagli scali diretti da quasi tutti i Croazia ha il problema della guer-
vettori marittimi. C’è quindi biso- ra, e quanto all’Italia i segnali che
gno di strutture competitive in costi provengono dalla nuova maggio-
e in collegamenti efficienti con l’en- ranza sono preoccupanti...
troterra, ma va anche sfruttato l’in- ILLY Io spero che il nostro nuovo
teresse dell’Ue per il corridoio governo favorisca il progetto di Eu-
adriatico, che tende a favorire la roregione Istria, che è anche nel-
cooperazione fra scali. Si tratta cioè l’interesse di Trieste. C’è una mag-
di raggiungere intese permanenti giore affinità fra la Slovenia e l’Istria
su servizi di interesse comune, croata che tra questa e la Croazia
mantenendo l’individualità gestio- interna. Già questo dovrebbe favo-
nale dei singoli scali, e di favorire rire il progetto di euroregione, be-
una maggiore privatizzazione dei ninteso nell’ambito dell’Unione eu-
porti, riservando alla gestione pub- ropea.
blica solo le funzioni proprie Trieste ha uno speciale interesse a
dell’autorità portuale. In questo mo- questo progetto, perché significhe-
do il perfezionamento delle politi- rebbe per noi acquisire quel retro-
che di collaborazione e integrazio- terra che non abbiamo: il territorio
ne andrà trasferito ai terminalisti, del Comune di Trieste coincide qua-
che saranno in futuro gli arbitri si con quello della provincia. Ideal-
principali dei traffici e che potranno mente, l’Euroregione Istria, aprendo
avere anche interessi in più porti. la penisola ai traffici di merci e di
LIMES Sindaco Linic, che ne pensa persone, ci consente di dare un re-
del progetto di Euroregione Istria? troterra omogeneo a Trieste.
LINIC Fiume e l’Istria erano buoni LIMES Dal punto di vista di Trieste,
mercati per la Slovenia, la repubbli- quale può essere l’utilità o il danno
ca jugoslava con il più alto tasso di dell’eliminazione della Regione Friu-
sviluppo. Ma ora la questione dei li-Venezia Giulia, prevista dal pro-
confini si è inasprita. E questo toc- getto di Miglio e anche da quello
ca direttamente il destino dell’Istria. della Fondazione Agnelli? 253
DA ALPE ADRIA AD ARCO ADRIA?

ILLY Ero a Cernobbio l’altr’anno, ma una protezione per il cittadino slo-


non ho capito che cosa intendesse veno in Istria rispetto alla guerra
Miglio con il suo progetto federali- dei Balcani.
sta. Più concreto è il progetto di re- LIMES Quindi quel confine ha una
gionalismo fiscale di Tremonti, an- sua utilità.
che se difficilmente realizzabile. JURI Sì. Esso protegge anche l’Italia.
Quanto alle macroregioni della Perché se si allentasse il confine
Fondazione Agnelli, non mi senti- sloveno-croato in Istria, si inaspri-
rei di definirle un progetto federali- rebbe quello italo-sloveno, per una
sta, anche perché non concedono sorta di effetto domino. E una fron-
alle regioni di usare la leva fiscale. tiera che tiene la guerra lontana da
Sarei invece favorevole ad applica- voi e da noi. A guerra finita ripense-
re la proposta macroregionale a remo alla regolazione delle dispute
Trieste, giacché noi siamo un gran- territoriali e al confine marittimo tra
de Comune – il quindicesimo in Slovenia e Croazia. Adesso, pur-
Italia – ma viviamo un’annosa e troppo, noto piuttosto che vi sono
mai sopita conflittualità con il resto molte forze politiche pronte a spe-
della Regione. Anche questo sareb- culare sui contenziosi di frontiera.
be un modo per ottenere un am- La destra italiana ipotizza di recupe-
pliamento del retroterra per Trieste. rare la sovranità su Istria e Dalma-
ZANDA Anch’io penso che sarebbe zia, la destra slovena non è migliore
interesse del Veneto e del Friuli-Ve- e anche quella croata ha i suoi
nezia Giulia di integrarsi, anche per estremisti. Passi finché si tratta di
rafforzare i legami fra i nostri porti. folklore politico, ma se quelle forze
LIMES Voi parlate di confini che do- vanno al governo, tutto cambia.
vrebbero sparire, ma la realtà, da LIMES È un fatto che questi confini
queste parti, non sembra evolvere più caldi significano una secca per-
in questo senso. Il confine fra Croa- dita economica per voi. Ad esem-
zia e Slovenia è contestato, sia per pio, negli ultimi due anni l’inter-
terra che per mare. E in Italia rie- scambio fra Croazia e Slovenia è
mergono forze che parlano crollato del 30% o più anche per
dell’«italianità» di Istria e Dalmazia... conseguenza delle ripicche di fron-
LINIC È vero, la divisione dell’ex ju- tiera.
goslavia ha rimesso in discussione JURI Dipende da certi ragionamenti
molti confini, tra cui quello fra fatti a Lubiana e a Zagabria...
Croazia e Slovenia, che taglia LIMES Con i quali lei non è d’accor-
l’Istria. Per i nostri tre porti avere do?
un confine in più da passare è un JURI No. Vede, noi siamo gente di
grave danno, e abbassa le nostre confine. E quindi pensiamo in mo-
possibilità di concorrenza agli scali do diverso da quelli della capitale.
del Nord. Eppoi i confini contestati E viceversa. Ciò è tanto più vero
disincentivano gli investimenti quando si cerca di recuperare
esteri. l’identità nazionale. Io sono di ori-
JURI La Slovenia vede nel confine gine italiana e vivo in un territorio
con la Croazia una penalità per a maggioranza slovena, con un
254 l’istriano in quanto tale, ma anche confine verso l’Italia e uno verso la
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

Croazia. Chi ha vissuto sempre in putati locali sono solo due: gli in-
un contesto di rapporti intrecciati dennizzi ai nostri profughi per i be-
tra lingue e culture diverse, in cui si ni abbandonati, che costituiscono
muovono interessi d’affari, guarda una cifra modesta se rapportata
alla dimensione nazionale come a agli interessi economici in gioco
qualcosa di romantico, forse, ma nel Centro-Est Europa; e il diritto di
non di condizionante. A Lubiana, accesso alla proprietà privata da
invece, dove questi valori d’intrec- parte dei cittadini dell’Unione eu-
cio non sono così palpabili, si ra- ropea. Cosa che avverrà automati-
giona in modo inverso. camente con l’ingresso, spero non
LIMES Sindaco Illy, quando lei è an- troppo lontano, della Slovenia
dato a Lubiana il presidente Kucan nell’Ue. Mi auguro che i deputati
le ha chiesto di farsi tramite della della destra mettano perciò da par-
sua volontà presso Roma, in parti- te le ideologie del passato e ricor-
colare per quel che riguarda le re- dino un vecchio proverbio: «Se
lazioni di confine. Non risulta che vuoi prendere miele dall’alveare è
dalla Farnesina ci sia stata analoga meglio non prenderlo a calci».
richiesta al sindaco di Capodistria o LIMES Dal punto di vista di Trieste e
di Fiume. Non c’è uno squilibrio fra del Friuli, quali sono gli interessi ir-
il modo di fare politica estera rinunciabili nella disputa su Osimo
dell’Italia e quello della Slovenia, e sui rapporti con la ex Jugoslavia?
che punta sull’influenza del Friuli- ILLY Non è corretto parlare di revi-
Venezia Giulia o di Trieste presso il sione del Trattato di Osimo, perché
governo centrale? è solo uno degli accordi in discus-
ILLY La spiegazione è semplice. La sione. Deve comunque essere
Slovenia è assimilabile per dimen- senz’altro risolto il problema dei
sioni e numero di abitanti a una beni abbandonati dai nostri profu-
grande regione italiana. Quindi per ghi. Come pure si dovrà affrontare
il governo sloveno può risultare la questione della tutela delle mi-
più facile il rapporto diretto con il noranze, che trovo molto più disat-
Friuli o con Trieste. Poi c’è un’altra tesa dall’Italia che dalla Slovenia e
chiave di lettura, la quale si rifà al dalla Croazia.
rapporto dell’amministrazione co- Anche se riesco a comprendere gli
munale di Trieste, storicamente av- aspetti più emozionali, ovvero
versa alle politiche più morbide di quelli più legati alla cosiddetta ita-
Roma, che ha sempre cercato di lianità di Trieste...
ostacolare. Cosa che i Comuni slo- LIMES Perché «cosiddetta»?
veni o croati non fanno nei con- ILLY Perché ritengo che non vi sia
fronti dei rispettivi governi. più nessuno oggi che metta in dub-
LIMES Ma ora abbiamo un sindaco bio il fatto che Trieste sia italiana. E
aperto a Trieste e un governo mol- dunque sia un’affermazione pleo-
to più «chiuso» a Roma. nastica che non viene capita dall’o-
ILLY Io credo che il nostro nuovo pinione pubblica italiana. Del re-
governo dovrebbe aver chiaro il sto, altrettanto italiani si sentono i
vantaggio di un’apertura a Slovenia cittadini di origine slovena che vi-
e Croazia. Le rivendicazioni dei de- vono in provincia di Trieste. 255
DA ALPE ADRIA AD ARCO ADRIA?

Tornando a quanto stavo dicendo, che fin dall’inizio non c’era una vo-
mi sembra logico che ci si apra an- lontà di indipendenza in sé e per sé
che alla cultura e alla lingua dei da parte di Slovenia e Croazia. C’è
clienti che intendiamo attirare, se stata una risposta al tentativo serbo
vogliamo veramente sfruttare le po- di egemonizzare la Jugoslavia. Se
tenzialità di commercio della nostra guardiamo avanti, son convinto che
città. E allora perché non accettare decentramento e regionalizzazione
alcune richieste della comunità slo- siano il futuro dell’Europa. In Slove-
vena, che non sono poi la luna nel nia c’è un progetto di autonomie
pozzo: i cartelli indicatori bilingui locali che dagli attuali 62 Comuni ci
nelle frazioni del circondario, o un porterà ad averne 337. I tre Comuni
uso più frequente della lingua au- dell’Istria slovena, però, Capodi-
toctona in casi circoscritti. Forse po- stria, Isola e Pirano, rimarranno in-
trei pensare che la parvenza di chiu- tatti e sembrano intenzionati a riu-
sura italiana serva a coprire l’ina- nirsi in un’unica provincia, che qua-
dempienza del nostro Stato rispetto si certamente rivendicherà una for-
ad alcuni impegni sottoscritti. te autonomia, specie sulle questioni
LIMES La propaganda nazionalista delle minoranze, della politica ma-
croata e slovena insisteva nel 1991 rittima e del piccolo traffico di fron-
sull’indipendenza come necessaria tiera. Se si crea questa provincia,
a entrare in Occidente. Voi oggi vi potremo cercare integrazioni fun-
sentite più occidentali di prima? zionali, ma non politiche, con la
LINIC A differenza dei paesi balcani- contea istriana croata.
ci della ex Jugoslavia, dobbiamo ri- LIMES È possibile, in questo quadro,
levare che sia la Croazia che la Slo- Immaginare un organismo che ri-
venia sono paesi dell’Europa occi- prendendo il modello di Alpe A-
dentale e che lo erano già prima. dria lo applichi alla realtà portuale,
Già ai tempi di Tito infatti le indu- turistica e commerciale dell’arco
strie croate e slovene importavano costiero adriatico settentrionale? In-
materie prime grezze dall’Est, per somma, da Alpe Adria ad Arco Adria?
riversare l’80% delle merci verso i ILLY Mi va bene. Ricordo però che
mercati occidentali. Del resto, la su molti di questi temi i sindaci non
nostra tecnologia era tecnologia hanno competenze specifiche. D’al-
occidentale. In sintesi, né Croazia tra parte, un organismo del genere
nè Slovenia hanno o avevano gros- permetterebbe a noi sindaci di e-
se connessioni con l’Europa del- sercitare una maggiore influenza
l’Est. Ed è proprio questo che gli al- sui rispettivi governi centrali.
tri Stati jugoslavi non vedevano di
buon occhio. (a cura di Antonella Furlan, Giovanni
JURI È vero. E voglio sottolineare Orfei e Antonio Sema)

256
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

TEOLOGIA E TERRITORIO
NEL RADICALISMO
ISLAMICO di Renzo GUOLO
L’interpretazione estremista del Corano sembra prevalere in molti
paesi arabi. Essa non prevede l’esistenza di altri mondi oltre
al musulmano. Ebrei e cristiani sono responsabili del degrado
morale che contamina anche l’universo della Mezzaluna.

I L PESO SEMPRE MAGGIORE CHE I PAESI


musulmani hanno assunto nel contesto internazionale, derivante sia dal con-
trollo di parte delle risorse strategiche planetarie sia dalla dinamica di cresci-
ta demografica con la conseguente politicizzazione dei diversi aspetti legati
al ciclo migratorio, conferisce al fattore islam una dimensione di variabile
strategica determinante per qualsiasi ipotesi di stabilità mondiale.
Ma la rinascita islamica porta con sé anche il vento caldo del radicalismo,
che soffia con forza sulla sponda sud del Mediterraneo. Esso scuote violente-
mente non solo le fragili strutture politiche dei paesi arabi rivieraschi ma an-
che gli instabili equilibri dell’intera area che, come altri luoghi-chiave dei
nuovi sistemi regionali in formazione, ha mutato recentemente il suo equili-
brio geopolitico. L’antica «iconografia regionale» (466), l’insieme delle rappre-
sentazioni delle differenti concezioni del mondo derivanti dalle diverse reli-
gioni, tradizioni e storie delle popolazioni dei paesi del bacino, riprende il
sopravvento dopo la lunga neutralizzazione subita nell’epoca bipolare.
Nell’enorme ridislocazione dello spazio che segue la crisi dell’ordine mon-
diale del secondo dopoguerra sembra così riemergere con forza la storica di-
visione tra islam e Occidente, che il condominio planetario delle due super-
potenze aveva occultato ma non cancellato. Egitto, Algeria, Libano, Palestina
ricordano che le guerre civili che attraversano quei paesi sono anche forma
moderna di un antico conflitto che ha come posta l’immagine del mondo e
la sua organizzazione spaziale.
Elemento politico quasi marginale nella dura «età del ferro» del bipolari-
smo, il radicalismo islamico si staglia oggi di fronte all’Occidente come un
antagonista irriducibile. Esso non vuole, e non può, essere solo un fattore
politico locale o regionale: ad impedirlo c’è il suo universalismo religioso co-
stitutivo. L’islamismo esprime piuttosto una rappresentazione spaziale e geo-
politica globale di tipo monopolare; laddove il soggetto del monopolarismo 257
TEOLOGIA E TERRITORIO NEL RADICALISMO ISLAMICO

non è il sistema-mondo Occidente ma l’islam stesso. La scena globale, già ca-


ratterizzata dal declino della centralità degli Stati e dalla crisi del diritto inter-
nazionale come strumento di regolazione dei conflitti, viene nuovamente
scossa dall’irrompere di un soggetto portatore di un’ideologia sovranaziona-
le, caratterizzata da principi quali deterritorializzazione, esclusività e da altre
istanze non negoziabili.

La guerra nel nome di Dio


Il radicalismo islamico è un movimento politico-religioso che fa della
«militanza per fede» il tratto fondamentale della propria esperienza (467).
L’islam è vissuto come un combattimento non solo morale e spirituale ma
militare e missionario; o meglio militare proprio perché missionario. Per i ra-
dicali è la stessa natura della religione che impone al movimento islamico
l’assoluta necessità del combattimento armato, jihad bi l-sayf. Sayyd Qutb, il
teorico egiziano autore dei testi-icona dell’ala radicale del movimento islami-
co (468), sosteneva che l’islam è una religione tesa a distruggere quelle forze
politiche e materiali che si frappongono tra essa e gli uomini. Teologicamen-
te il jihad (469), il combattimento per la fede, esprime l’estensione e i limiti
della violenza permessa. Ma nel militantismo islamico diviene anche prati-
ca strategica. L’interpretazione tradizionale, minimalista e difensiva, del
jihad come difesa armata della comunità musulmana da attacchi esterni la-
scia il posto a una visione, massimalista e offensiva, di combattimento per la
liberazione del mondo dal Male. Lungo una linea dottrinaria che va da Ibn
Taymiyya, teologo riformatore sunnita del XIII secolo che pone il jihad sullo
stesso piano dei cinque obblighi dell’islam, a Sayyd Qutb con la sua elabora-
zione del concetto di takfir attivo, l’anatema contro l’infedele capace di pro-
durre mobilitazione rivoluzionaria, i gruppi radicali interpretano il jihad co-
me atto doveroso, fardayn, e quindi l’obbligo personale del credente.
Il gruppo egiziano di al-Jihad, ispirato dal suo ideologo Salam Faraj, giun-
gerà a teorizzare il combattimento per la fede, reinterpretato alla luce dei con-
cetti qutbiani di guerra, qital, e di pratica dello scontro armato selettivo, qatl,
come «l’imperativo occulto della Legge» (470). Un obbligo di fede che solo
l’interpretazione quietista degli ulama, i dottori della legge dell’islam «ufficia-
le», avrebbe sottratto alla comunità dei credenti. Tale interpretazione trova esi-
to devastante nell’ottobre 1981, quando un gruppo di fuoco dell’organizzazio-
ne uccide Sadat, il «nuovo faraone», reo di aver stipulato un accordo di pace
con Israele e rotto l’alleanza con i movimenti islamici.

La rifondazione dello spazio islamico


Uno degli elementi fondanti della strategia islamica è l’obiettivo della ri-
composizione della umma, la comunità dei credenti islamici, sotto un’unica
258 guida. Nell’ideologia totale radicale l’omogeneizzazione dello spazio è ele-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

mento indispensabile alla realizzazione della «missione per Dio». Per gli isla-
mici la umma, seppure storicamente divisa, differenziata dall’influsso delle
tradizioni locali, arbitrariamente frantumata dalle eredità dell’età coloniale,
ha mantenuto una sua inestinguibile tensione all’unità, tawhid. Essa resta
nello spazio e nel tempo, secondo un’espressione coranica continuamente
citata, «la migliore nazione mai suscitata fra gli uomini» (471).
Il progetto di ricomposizione della «comunità dei credenti» implica un
principio di estrema rilevanza: l’abbattimento della territorialità del politico.
La lotta contro gli Stati-nazione che dividono il mondo musulmano diviene
obbligo fondamentale della «rivoluzione islamica». In questo processo l’isla-
mismo si riappropria, reinterpretandola e rielaborandola in funzione dei pro-
pri obiettivi strategici, della stessa tematica nazionalista. L’islamizzazione del-
la nazione, con la sostituzione dell’islam-cultura dei gruppi dirigenti «nazio-
nalisti e modernizzanti» con l’islam-ideologia della comunità in divenire, sod-
disfa sia la necessità della lotta contro la nuova asabiya (472), i legami di
gruppo di clan e tribù affermatisi come relazioni di solidarietà tradizionali
dentro a uno spazio moderno quale quello statale, sia la necessaria relativiz-
zazione dello spazio in vista della futura espansione della «nazione di Dio».
L’insieme delle nazioni islamizzate prefigura una prima rappresentazione
della possibile estensione territoriale della umma.

Il nuovo bipolarismo
Nello stretto legame che si stabilisce tra «ummismo» e «combattimento
per Dio» gli islamici fanno propria, sino alla sua estrema «radicalità», l’essenza
del Politico: la divisione amico-nemico. L’opposizione al Nemico si costitui-
sce in nome di una genealogia della fede che contrappone nettamente due
soli partiti: quello della fede e quello dell’errore. Nel nuovo bipolarismo geo-
spirituale teorizzato dall’islam radicale il «partito di Dio» e il «partito di Satana»
sono i soli raggruppamenti autentici della storia (473). La teodicea islamica,
nel suo quadro di riferimento «onto-teologico», si pone come linea di ostilità
assoluta verso i membri del «partito di Satana», composto da tutti i nemici
dell’islam: cristiani, ebrei, «pagani», «falsi musulmani». Tale ostilità si realizza
nella teorizzazione del concetto di «doppia guerra»: guerra civile interna e
guerra esterna contro le potenze del Male.
La riflessione ideologica di Qutb abbatte la divisione geografica classica
tra spazio islamico e spazio giudaico-cristiano, tra la Dar al-Islam, Casa
dell’islam, e la Dar al-harb, Casa della guerra, espressione con cui i musul-
mani indicano tradizionalmente ciò che si trova fuori dei propri confini e, in
particolar modo, l’Occidente. Qutb sostituisce a questa dicotomia geografica
m che sembra fissare staticamente e definitivamente attraverso la metafisica
del nome il potere dell’Altro, quella politica, sociologica e di fede tra islam e
jahiliya, la «barbarie preislamica» che avvolge il mondo contemporaneo nel
«materialismo ateo e pagano» della cultura occidentale. La nuova coppia di
opposti, espressa da un linguaggio che, in quanto volontà di potenza, non 259
TEOLOGIA E TERRITORIO NEL RADICALISMO ISLAMICO

sfugge al problema della violenza «qui ed ora» e al «poter essere» della realtà.
Essa permette al radicalismo di teorizzare la prosecuzione della lotta tra i due
«grandi spazi», quello islamico e quello occidentale, anche all’interno del ter-
ritorio musulmano dove l’Occidente, attraverso l’esperienza della Modernità,
si è «tragicamente» imposto. Le società musulmane, in quanto progressiva-
mente secolarizzate, sono considerate in quest’ottica «Occidente interno»; lo
scontro con i governanti «empi» e la lotta per la conquista del potere si mani-
festano allora come forma moderna della nuova guerra civile mondiale con-
tro i «falsi signori del mondo».
Nell’ipotesi radicale l’annientamento del nemico interno permette lo svi-
luppo della seconda fase della rivoluzione: quella dell’espansione dell’islam.
Il messianismo islamico rifiuta l’idea di un potere specificamente territorializ-
zato in quanto essa costringerebbe l’islam dentro a uno spazio geopolitico li-
mitato per un’ideologia a vocazione universale. La stessa definizione corani-
ca di umma wasat-in (474), nazione di mezzo o di centro, indica la vocazio-
ne della comunità ad essere «centro» è confermato dallo spazio di insedia-
mento geografico originario e dall’espansione della comunità nella fascia
mediana del pianeta, luogo di congiunzione tra Nord e Sud, tra Oriente e
Occidente, non per questo l’islam è fattore di tipo locale o regionale. Il suo
spazio è quello dove vi sia anche un solo musulmano (475).

Teologia e politica
La dimensione religiosa e sacrale dello spazio che deriva da una simile
visione del mondo si differenzia profondamente da quella laica e «realistica»
adottata nelle relazioni internazionali. Quella religiosa non concepisce
l’omogeneità fisica di uno spazio delimitabile da confini bensì ne avverte so-
lo la natura qualitativa e differenziata, costitutivamente divisa tra sacro e pro-
fano. Per gli islamici questa divisione consente l’orientamento nel caos del
mondo; essa può essere superata solo mediante l’espulsione del profano dal-
lo spazio islamizzato.
È facile intuire come l’irrompere della dimensione teologica nel Politico
impedisca qualsiasi razionalità nella definizione di ordine internazionale.
L’ideologia islamica prefigura una visione dell’assetto mondiale di tipo pre-
globale. Proclamandosi «mondo» e come dilatazione ed espansione infinita di
tale mondo sino a farlo coincidere con l’intero orbis, l’islam dei radicali fa
mancare ai diversi ordinamenti spaziali quelle relazioni reciproche che costi-
tuiscono, in quanto globalità, l’essenza di qualsiasi nomos (476). L’interpre-
tazione religiosa del conflitto politico aumenta a dismisura la complessità
del sistema delle relazioni internazionali.
L’esempio è sin troppo semplice. La soluzione negoziata del conflitto tra
Israele e palestinesi è fortemente ostacolata da Hamas, il più forte gruppo ra-
dicale islamico. Per Hamas non è possibile alcuna trattativa con gli israeliani,
in quanto la liberazione della Palestina e il combattimento con gli ebrei sono
260 obblighi religiosi che non possono essere vanificati da alcuna azione umana.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

La Palestina, nella tradizione islamica, è il luogo dell’isra, il viaggio notturno


del Profeta, «rapito» dall’arcangelo Gabriele nella moschea di La Mecca per
essere condotto a Gerusalemme. Da qui il Profeta inizia il mi raj, l’ascensio-
ne al cielo. Nella città del «Tempio Ultimo» prende dunque forma la «straordi-
narietà», il radicalmente altro, ciò che i credenti percepiscono presente nella
loro vita con i tratti della potenza e origina lo spazio intangibile del sacro.
L’annessione di Gerusalemme e dei luoghi santi da parte israeliana dopo la
guerra dei Sei giorni nel giugno 1967, l’incendio della moschea di al-Aqsa nel
1969, la proclamazione di Gerusalemme capitale d’Israele nel 1980 sono av-
venimenti che hanno favorito e sviluppato vertiginosamente il risveglio isla-
mico proprio perché ponevano in discussione elementi simbolici largamente
condivisi e che davano forma all’immaginario collettivo religioso (477).
Quanto il terreno simbolico-religioso conta ancora nel conflitto israelo-
palestinese lo dimostrano anche i recenti, drammatici, avvenimenti. La strage
compiuta nella moschea di Hebron dal «fondamentalista» ebreo Goldstein,
«militante per fede» del movimento estremista Kach e profondo conoscitore
dei valori simbolici rituali, avviene nella Tomba dei Patriarchi, durante la pre-
ghiera collettiva di un venerdì del Ramadan. È il luogo dove è sepolto Abra-
mo, venerato «padre» comune di ebrei e musulmani. Nel messianismo di
Goldstein si realizza la saldatura tra il rifiuto verso ogni trattativa che ceda
«terra promessa» agli arabi, la vendetta religiosa per l’umiliazione inferta per
secoli dai musulmani agli ebrei che volevano visitare il tempio e lo spregio
per la ritualità e la simbologia religiosa del Nemico. Nella strage di Hebron e
negli eventi successivi, gli islamici, inevitabilmente, non colgono la logica
perversa e speculare di ogni fondamentalismo politico-religioso quanto la
conferma dell’irriducibilità assoluta del Nemico dentro al proprio spazio.

Le nuove guerre civili di religione


Lo scenario mediterraneo è complicato anche dall’essere il luogo fisico
della contiguità territoriale tra le grandi religioni monoteistiche. Lo stato di
inimicizia totale dei radicali islamici verso le altre religioni deriva da una let-
tura tutta attivista del testo coranico che trova immediatamente esito politico.
Nella reinterpretazione della tradizione che i militanti islamici operano nel
costante tentativo di legittimare simbolicamente la propria azione collettiva,
l’ostilità dell’islam verso ebrei e cristiani viene vissuta come «innata». La Rile-
vazione coranica li avrebbe progressivamente assimilati ai politeisti e agli
idolatri, ai Negatori che devono essere combattuti sino alla sottomissione
(478). La guerra nei loro confronti non può che essere ininterrotta e integra-
le; l’eventuale pace solo mera tregua provvisoria. Per i membri del «partito di
Dio» gli ebrei hanno la colpa storica di aver rotto il patto divino stipulato da
Abramo con i figli di Israele, affermando per il loro popolo uno statuto e una
morale propria, sacrificando il messaggio a favore dei propri interessi «etnici».
Quanto al cristianesimo, avrebbe tradito l’annuncio e l’alleanza con Dio tra-
sformandosi in «setta gnostica» che ha provocato, attraverso la sua «indiffe- 261
TEOLOGIA E TERRITORIO NEL RADICALISMO ISLAMICO

renza al mondo», lo stato di materialismo pagano, jahiliya-maddiya, in cui


versano gli uomini. La cultura giudaico-cristiana è perciò accusata di aver da-
to origine all’anomia del mondo. Così se la «resistenza all’offensiva giudea in
Palestina» trova un preciso riferimento ideale nelle battaglie del profeta
Muhammad contro gli ebrei Nadir e Qurayza di Medicina (479) e il «destino»
degli ebrei nella storia è segnato dalla profezia della distruzione dello «Stato
giudeo di Gerusalemme», non meno ostile è l’atteggiamento verso i cristiani.
Lo dimostrano gli atteggiamenti nei confronti delle minoranze interne e dei
cittadini dei paesi occidentali.
La rivendicazione islamica dell’unità della Valle del Nilo, il progetto di
riunificazione tra Egitto e Sudan proposto dai radicali dei rispettivi paesi,
comporta inevitabilmente la cancellazione della presenza cristiana in quei
territori. Già ora il conflitto in Sudan tra il Nord arabo-musulmano e il Sud
nero-cristiano, divenuto guerra ideologica dopo il colpo di Stato dell’esercito
e dei Fratelli musulmani nel giugno 1989, assume aspetti di «pulizia etnico-
religiosa». La vittoria governativa sul frantumato schieramento della Sudanese
People’s Liberation Army si tradurrebbe inevitabilmente nell’accelerazione di
un simile programma. Il dialogo tra Chiesa cattolica e regime sudanese, av-
viato dal viaggio di papa Wojtyla a Khartum nel febbraio del 1993 e prose-
guito con la recente visita in Vaticano di Hasan el-Turabi, ideologo del Fron-
te nazionale islamico sudanese e del governo militare fondamentalista di
Omar el-Bashir, ha allontanato solo temporaneamente questa minaccia; data
l’invariabilità delle sue componenti ideologiche, lo scontro appare solo rin-
viato.
La situazione non sembra del resto migliore in Egitto. La ripresa degli
scontri interconfessionali tra le comunità cristiane copte e i radicali musulma-
ni del Medio Egitto segnala uno stato di tensione, in un quadro già fortemen-
te deteriorato come quello egiziano, foriero di nuovi pericoli. Già negli anni
Settanta, i militanti di al-Jihad di questi territori, guidati da Karam Zuhdi, con-
sideravano assolutamente prioritario, in contrasto con il ramo cairota dell’or-
ganizzazione che privilegiava la lotta contro i «governanti empi», il combatti-
mento per la fede contro i cristiani (480).
È indubbio che l’ostilità islamica nei confronti delle due altre grandi «reli-
gioni del Libro» trovi alimento nel recente riconoscimento diplomatico tra Va-
ticano e Israele. Gli islamici vi hanno scorto una conferma della loro tesi sul
«complotto giudaico-cristiano» contro l’islam e sull’assoluta «ipocrisia dell’ecu-
menismo cattolico». Nelle settimane successive all’accordo, nelle moschee di
tutto il Mediterraneo controllate dai predicatori islamici, il commento dei ver-
setti coranici più frequente nella preghiera collettiva del venerdì riguardava
quel passo che invita al combattimento contro coloro «fra quelli cui fu data la
Scrittura che non s’attengono alla Religione della Verità» (481). È un messag-
gio che trova progressivamente ascolto in uno spazio sempre più dominato
dalla violenza del sacro e segnato dal ritorno dell’islam armato. I gruppi delle
Jamaat-islamiya egiziane attaccano cittadini stranieri in quanto simboli
dell’Occidente e di quel «partito di Satana» fautore dello «Stato pagano».
262 Lo stesso avviene in Algeria dove i militanti del Mia, il Movimento islami-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

co armato, attaccano le loro vittime «selezionandole» in base al paese di ap-


partenenza e alla loro confessione religiosa. Le strutture portanti dei gruppi
di fuoco radicali algerini ed egiziani sono costituite dai volontari reduci dal
jihad combattuto contro i sovietici in Afghanistan. Nella figura degli «afghani»
si sintetizza l’immagine del «nuovo internazionalismo» fautore della rivoluzio-
ne mondiale islamica.
La teologizzazione della politica muta apertamente la natura del conflitto
nel Mediterraneo. Mentre l’Occidente tenta, faticosamente e spesso con scar-
si risultati, di aggiornare la propria riflessione teorica sui conflitti politico-reli-
giosi, premessa indispensabile per l’elaborazione di una strategia di medio e
lungo periodo nell’area, le due sponde appaiono sempre più lontane. Il futu-
ro si vela di incognite, mentre il passato non può ormai più dire niente.

Note
466. Su questo concetto vedi J. GOTTMANN, La politique des Etats et leur géographie, Paris 1952, Armand Colin.
467. R. GUOLO, Il partito di Dio. L’islam radicale contro l’Occidente, Milano 1994, Guerini e Associati.
468. S. QUTB, Fi zilal al-Quan, 6 voll., Beirut 1978, Dar al-Shuruq; Ma `alim fi l-tariq, Beirut 1978, Dar al-Shu-
ruq.
469. Sul jihad cfr. J.p. CHARNAY, L’Islam et la guerre, Paris 1986, Fayard, pp. 13-124.
470. M.A.S. FARAJ, Al-farida al-ghayba, Amman 1982, s.e.
471. Corano, III, 110.
472. Cfr. M. SEURAT, L’état de barbarie, Paris 1989, Seuil, p. 131.
473. S. QUTB, Fi zilal al-Quran…, cit., p. 3515.
474. Corano, II, 144.
475. Corano, II, 143. Sull’interpretazione radicale di questo versetto si veda S. QUTB, Fi zilal…, cit., p. 130.
476. R. GUOLO, «L’ideologia dell’imperialismo islamico», MicroMega, n. 2/1992, p. 239.
477. Cfr. Y. HADDAD, «Islamists and the Problem of Israel: The 1967 Awakening», The Middle East Journal,
Spring 1992, vol. 46, n. 2.
478. L’interpretazione qutbiana della sura coranica Tawba, IX, 29-35 è diventata un classico nelle citazioni del
gruppo palestinese Hamas. Questi versetti, secondo Qutb, «abrogano» quelli più favorevoli alla «gente del Li-
bro» contenuti nella sura V (Ma ida) e nella sura II (Baqara). Cfr. S. QUTB, Fi zilal…, cit., pp. 1650 ss.; pp.
909-915; pp. 31 ss.
479. Corano LIX, Hashr, 1-10.
480. Cfr. G. KEPEL, Le Prophète et Pharaon, Paris 1991, Seuil, pp. 221-227.
481. Corano, IX, 29.

263
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

QUANDO SFORZA
SOGNAVA
UNA LIBIA «BIANCA» di Alessandro HOLTHAUS
Un inedito carteggio diplomatico rivela come nel dopoguerra
Roma cercasse di conservare la ‘sponda libica’. Il fallimento
di questa politica, criticata da Quaroni, è alla base del futuro
rapporto dell’Italia con i paesi arabi.

I DOCUMENTI CHE RIGUARDANO I RAP-


porti fra l’Italia e gli Stati mediorientali nel periodo che va dal 1946 al 1956
forniscono non solo la panoramica di una politica estera italiana notevol-
mente improntata verso il mondo arabo e mediterraneo, ma conferiscono
una nuova dimensione all’immagine finora accettata della strategia diploma-
tica del nostro paese durante quel decennio. Da essi risulta infatti che l’Italia
già dalla fine della guerra mondiale fu assai interessata alla questione arabo-
israeliana, quantomeno nella stessa misura in cui lo fu al confronto Est-Ovest
e a quello Nord-Sud. Trascurare anche uno solo di questi problemi in favore
dell’altro non era conciliabile con gli interessi e i problemi dell’Italia di quel
periodo. Essa, infatti, non si poteva permettere una politica dell’aut aut. Sin
dal 1945, l’Italia era stata costretta ad attuare una politica del tanto quanto,
una condotta quantomai in linea con le necessità del contesto storico. Fon-
damentale è considerare il decision making della politica estera italiana, un
processo che si sviluppa attraverso svariati espedienti, ricorrenti abitudini
politiche e, non ultimo, errori a lunga scadenza. In questa chiave d’interpre-
tazione le decisioni in politica estera non si fondano su ciò che potrebbe es-
sere razionalmente la soluzione più adeguata, ma su quanto i responsabili
sono in grado di portare a buon fine (482). Questo concetto è essenziale per
dare un giusto valore alla dimensione storica della politica estera italiana.
Dai documenti che pubblichiamo emerge la lentezza con cui si delinea
una precisa politica di Roma verso il Medio Oriente in seguito agli sviluppi
politici nel Mediterraneo. Questo processo si intreccia con il lento consoli-
darsi – specialmente in Medio Oriente – delle relazioni internazionali del do-
poguerra. Analogamente assistiamo al mutamento graduale della politica ita-
liana in Medio Oriente: dal puro e semplice reagire acrobaticamente di volta
in volta alle nuove situazioni, senza che venga seguito un criterio di base, si
passa a un’analisi più meditata sul da farsi. In questo percorso si distinguono 265
QUANDO SFORZA SOGNAVA UNA LIBIA «BIANCA»

tre periodi: a) la fase dell’«acrobazia», il tentare cioè di non scontentare né


arabi, né ebrei (1946-’49) (483); b) segue un periodo di riflessione e rielabo-
razione nel corso del quale gli errori compiuti vengono sottoposti a un esa-
me critico e in cui i responsabili della politica estera italiana si rendono conto
con maggior chiarezza del nuovo assetto mediorientale (1949-’51) (484); c)
nella terza fase, che può essere definita attiva, si dà corso alla «dottrina» poli-
tica elaborata negli anni precedenti, riuscendo anche a trovare per l’Italia
una collaborazione appropriata nel mosaico mediorientale (1951-’56) (485).
In questo contesto ha senso parlare di trapasso dall’«acrobazia» alla «politica».
Nel primo periodo, l’Italia deve affrontare sia il nodo del conflitto arabo-
israeliano, sia i lasciti derivati dal passato coloniale in Africa settentrionale.
L’arrivo in Palestina dei profughi ebrei coinvolge subito l’Italia, in quanto il
nostro paese è in genere il punto di partenza di coloro che si recano in Ter-
rasanta. Le organizzazioni sioniste sono assai attive in Italia. Ciò costringe il
governo italiano a prendere rapidamente posizione sulla questione Palesti-
na. Alla ricerca di sostegno internazionale, il movimento sionista dichiara
pubblicamente che l’Italia non è responsabile per le leggi razziali promulgate
durante il fascismo. Il nostro governo apprezza. Italia e Israele giungono a
una sorta di rimozione del passato, che si traduce in una serie di relazioni
agevolate e fruttuose per entrambi.
Nella questione coloniale invece i vecchi nodi della politica italiana ven-
gono al pettine con inaspettata veemenza. Fin da prima che finisse la guerra,
durante la negoziazione del Trattato di pace e successivamente durante la re-
visione di questo, gli alleati sono concordi: l’Italia deve rinunciare alle colo-
nie, Libia inclusa. Il governo italiano e il ministro degli Esteri Carlo Sforza so-
no tuttavia ben decisi a difendere l’influenza e il prestigio italiano su questi
territori. È degno di nota il fatto che fin dal 1946 l’Italia si impegni anche con
i paesi aderenti alla Lega araba nel tentativo di convincerli a sostenere presso
gli alleati la necessità di un ritorno italiano nelle sue colonie prebelliche. Ini-
zia da qui il difficile cammino dell’Italia repubblicana nell’intrigo mediorien-
tale. Esso si scontra immediatamente, inutile dirlo, con i nazionalisti arabi e i
fautori della decolonizzazione del mondo arabo. Con frequenti richiami al
passato coloniale, l’Italia gioca la carta del «colonialismo buono», un richiamo
a un passato che però gli arabi sembrano aver vissuto in termini assai diversi
da quelli propugnati dal nostro governo.
In particolare, l’utilizzazione del termine «politica araba» riecheggiava la
mussoliniana «politica araba», l’immagine ancora freschissima dietro la quale,
dal 1935, si era celato uno sfruttamento coloniale assai duro. Già prima della
conquista dell’Etiopia, arabi e berberi della Libia avevano fatto esperienza di
cosa volesse dire «politica araba». L’occupazione della Libia nel 1912 aveva
provocato una resistenza permanente. Gli italiani si limitavano a presidiare la
striscia costiera, fino a quando, in epoca fascista, il generale Graziani e altri si
erano dedicati a una spietata repressione della resistenza indigena. I metodi
utilizzati per fiaccare il morale dei ribelli arabi annoveravano anche la depor-
tazione attraverso il deserto di intere tribù, campi di concentramento, uso di
266 gas, fucilazioni e altre amenità di questo genere. In questo modo gli italiani
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

avevano stroncato il movimento di Umar al-Muhtar, che guidava la resistenza


in Senussia. Nel corso degli anni, oppositori libici al governo italiano erano
fuggiti dalla madrepatria e avevano denunciato al mondo la «politica araba»
di Mussolini (486).
L’Italia approdata alla democrazia deve quindi fare i conti con un passa-
to ingombrante, che la costringe a ridefinire il proprio ruolo nelle ex colonie,
oltre a cercare di svolgere una funzione attiva nel teatro mediorientale. Ma si
tratta di un processo assai lento, che stenta ad affermarsi. Parallelamente si
cerca di compiere opera di convincimento presso gli uomini politici arabi,
con modalità tuttavia che hanno la sorprendente capacità di riecheggiare la
propaganda mussoliniana. Roma punta sulla presunta tradizionale «amicizia»
italo-araba, sulle virtù civilizzatrici del «colonialismo buono» e sulle umanissi-
me doti dei coloni italiani. Alla Farnesina, nel cuore della gestione della ge-
stione degli affari esteri, si era lontani dall’aver messo in soffitta le linee
d’azione in uso durante il ventennio (487). Il fatto poi che il fondatore e se-
gretario generale della Lega araba, Azzam Pascia, fosse libico e che negli an-
ni Trenta fosse stato costretto all’esilio in seguito alle persecuzioni italiane,
non era certo incoraggiante per il governo italiano che puntava su quell’or-
ganismo per rilanciare la propria immagine nel mondo arabo.
Solo nel 1949, la radicale rottura con il passato, la rinuncia alle aspirazio-
ni coloniali e alla retorica degli eterni nostalgici rendono possibile la nascita
di una vera politica araba e mediterranea; essa sarà caratterizzata dalla luci-
dità, al punto che il nostro governo arriverà molto prima di Francia e Gran
Bretagna alla conclusione dell’ineluttabilità della decolonizzazione (488).
L’esperienza maturata durante la prima fase aveva convinto i responsabili
della diplomazia italiana dell’impossibilità di mantenere una posizione «acro-
batica» con arabi ed ebrei in Medio Oriente. Così scrive Pietro Quaroni, prin-
cipale sostenitore della pianificazione politica, al ministro Sforza: «La diplo-
mazia italiana è l’arte delle acrobazie, ma anche queste acrobazie hanno certi
limiti che non si possono oltrepassare» (documento 5). Le lettere che più
avanti riportiamo testimoniano efficacemente quale sia lo scoglio più duro
che la diplomazia italiana deve affrontare: la questione coloniale libica.
A prima vista le posizioni di Sforza sembrano rappresentare una visione
«colonialista» antiquata mentre quelle di Quaroni una più moderata e quasi
«anticolonialista». Ma forse sarà più utile limitarsi ad osservare le differenti ve-
locità nell’assimilare gli sviluppi politici di un determinato momento storico.
In questo senso le lettere dei due protagonisti segnano i due punti estremi
tra i quali si colloca la politica mediorientale dell’Italia postcoloniale.
La prima lettera di Sforza si riferisce alla fase iniziale della questione co-
loniale italiana, che si conclude con l’entrata in vigore del Trattato di pace il
15 settembre del 1947 e durante la quale l’Italia è esclusa dai negoziati degli
alleati. In quel momento sono due le vie che si presentano al ministro degli
Esteri italiano per far valere gli interessi coloniali: da una parte quella delle
trattative bilaterali con le potenze alleate – ampiamente documentate –
dall’altra quella di contatti diretti con la Lega araba e con uomini politici del
mondo arabo. E proprio in questi contatti si confida per ottenere dagli arabi 267
QUANDO SFORZA SOGNAVA UNA LIBIA «BIANCA»

la conferma del ritorno dell’Italia in Libia. Questo sostegno arabo avrebbe


dovuto convincere gli alleati della legittimità e correttezza delle pretese italia-
ne. Ma l’idea di poter trovare nella Lega dei sostenitori della causa italiana è
all’origine di una lunga serie di giudizi errati e di fraintendimenti.
Sull’esito di questa prima presa di contatti tra Italia e arabi avranno peso
soprattutto alcune idee e convinzioni dure a morire sulla «politica araba», so-
stenute all’unanimità da diplomatici e uomini politici italiani. Esse possono
essere illuminate da una lettera di istruzioni di Sforza del 30 maggio 1947
(documento 2). In essa si può notare il timore di Sforza che il Vicino Oriente
possa «rapidamente trasformarsi in determinate evenienze, da campo aperto
al fecondo lavoro dei popoli civilizzatori, in zone chiuse e tendenzialmente
ostili». A questo «pericolo» reagisce il ministro degli Esteri proponendo una
generale europeizzazione della popolazione araba. La concezione di un «ca-
rattere arabo-europeo» di questi paesi mostra cosa Sforza vedesse nell’aspira-
zione nazionale araba: un pericolo per l’antico dominio culturale e politico
dell’Europa sul Medio Oriente. Al vertice del ministero degli Esteri si conti-
nua dunque a seguire una politica araba che ha il preciso scopo di garantire
le posizioni degli europei in quanto potenze coloniali e di ricongiungere
l’Italia ad esse. Questo spiega anche perché il governo continuasse ad affer-
mare vigorosamente i diritti italiani sulla Libia.
Come mai al ministero degli Esteri si è convinti che un dominio italiano
sulla Libia «non esclude di raggiungere un accordo con gli arabi» (489)? Una
spiegazione potrebbe essere che in Italia non ci si rendeva conto del peso
politico del passato in Libia. Per il resto si tratta di errori che si innestano
l’uno sull’altro. Al ministero degli Esteri non si voleva percepire l’avvertimen-
to da parte araba, secondo il quale nessun partito arabo poteva difendere
apertamente una presenza italiana che non divergesse radicalmente da quel-
la passata. A Roma si ignorava anche il contenuto politico delle dichiarazioni
di antipatia nei confronti dell’Italia in Libia tra il settembre 1944 e il settembre
1947 (dalle dimostrazioni popolari alla lettera aperta a De Gasperi).
Il 15 settembre 1949 entra in vigore il Trattato di pace. Su di un program-
ma minimo si erano riconosciute tutte le potenze alleate: che in ogni modo
all’Italia non dovevano essere più riconosciute le colonie (paragrafo 23).
Non era però ancora chiaro cosa dovesse succedere con le colonie prefasci-
ste; infatti la decisione in proposito fu rimandata di un anno. Il testo del Trat-
tato lasciava dunque almeno in teoria la possibilità che l’Onu affidasse all’Ita-
lia un mandato su una o più colonie; in questo senso l’Italia rafforzava i suoi
tentativi di avvicinamento agli arabi. Gli argomenti italiani – trattati in modo
esplicito o diplomatico – creavano tuttavia a Londra e a Washington notevoli
danni politici. Nel Foreign Office e al dipartimento di Stato si era giunti alla
conclusione che l’inattuale politica libica italiana, similmente a quella france-
se in Siria e nel Libano fino al 1946, mettesse a rischio le posizioni occidenta-
li nel mondo arabo. Solo due settimane dopo aver firmato il Trattato di pace,
Sforza spediva al Foreign Office una lettera (30 settembre 1946) che tradiva
le mire italiane in Libia. Essa mostra quanto fossero fondate le paure degli
268 arabi, i quali non si fidavano di un mandato Onu italiano avente per scopo
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

l’indipendenza della Libia. La lettera di Sforza confermava anche la supposi-


zione del Foreign Office che un’amministrazione italiana avrebbe provocato
una resistenza armata. In poche parole la tesi sostenuta da Sforza era che
«l’Africa costituisce un’indispensabile integrazione dell’Europa». Gli europei
avrebbero dovuto perseguire lo scopo di creare in questa regione «nuovi
paesi (come già nell’America del Sud) etnicamente, economicamente e poli-
ticamente uniti all’Europa». La sua conclusione era audace per l’epoca e allo
stesso tempo indice di un mancato esame critico del passato coloniale italia-
no: «È necessario cioè investire in Africa non soltanto capitali, ma anche po-
polazioni bianche» (490). Questo concetto, legato a un’interpretazione stori-
ca del problema libico alquanto sorprendente se non addirittura piuttosto
fantasiosa, viene esposto da Sforza già nelle istruzioni alle ambasciate di Pa-
rigi, Londra e Washington del 15 febbraio 1947 (documento 1).
Va da sé che l’Italia non raggiunse i suoi scopi. La ragione principale di
questo sviluppo sta nel fatto che il governo italiano era rimasto legato ad an-
tichi concetti di gestione coloniale e aveva mancato di rendersi conto del
proprio passato anche e soprattutto in termini politici. Secondo questa pro-
spettiva gli arabi che si opponevano al ritorno degli italiani in Libia venivano
visti come vittime della propaganda inglese «antiitaliana». Non si era ancora
giunti a riconoscere il realismo politico degli arabi e così si trascurò di appro-
fittare della loro disponibilità al colloquio come punto di partenza per una
politica postcoloniale nel Medio Oriente. Al contrario: Sforza rimase fermo
nell’idea di far sorgere in Africa del Nord Stati sul modello europeo. Tale
comportamento, in un contesto profondamente mutato dalla seconda guerra
mondiale, ci sembra irrealistico.
La situazione rimane inalterata anche nella terza fase della questione co-
loniale, nella quale si cerca un accordo con la Gran Bretagna: il cosiddetto
piano Bevin-Sforza, che prevedeva la divisione della Libia tra Italia (Tripolita-
nia), Gran Bretagna (Cirenaica) e Francia (Fezzan). Nella fase di preparazio-
ne del piano le mosse diplomatiche non coincidono più con le dichiarazioni
ufficiali. A metà dicembre 1948 il portavoce del ministero degli Esteri si trova
a dover smentire una notizia del New York Times secondo la quale l’Italia sa-
rebbe disposta a rinunciare alla Cirenaica in cambio della Tripolitania. Il 7 di-
cembre, dovendo rispondere in Senato alle domande dei deputati scossi e
piuttosto diffidenti, Sforza inizia cautamente a preparare l’opinione pubblica
sullo stato delle trattative diplomatiche. Per tranquillizzare gli alleati e per
placare – a parole – i più impetuosi tra i senatori, Sforza professa lo spirito
«nuovo» della responsabilità coloniale: «Guai a noi se pensassimo di nuovo
con un’aria dominatrice, con aria di popolo superiore, con aria di popolo di
territorio metropolitano verso un territorio coloniale! Tutto questo è il passa-
to; bisogna che ci ricordiamo che noi dobbiamo fare veste nuova». Dato che i
popoli dell’Africa e dell’Asia non vogliono «protettori», l’Italia si dovrà assu-
mere le vesti di «un fratello maggiore che li aiuti a marciare verso l’indipen-
denza», ben accettando i principi delle Nazioni Unite. Sforza è dell’avviso che
«prendendo per la mano questi popoli più giovani a portarli all’indipenden-
za, perché tutti i popoli vanno verso l’indipendenza non contro noi ma per 269
QUANDO SFORZA SOGNAVA UNA LIBIA «BIANCA»

noi», essi un domani saranno grati all’Italia della sua opera civilizzatrice:
«Queste sono le colonie invisibili dell’avvenire» (491). Già andando verso la
votazione del piano Bevin-Sforza all’Onu il ministro degli Esteri aveva pre-
sentato un concetto che a suo avviso gli permetteva di venire incontro agli
arabi senza privare gli italiani delle loro illusioni e che per di più non doveva
avere un carattere antioccidentale: la «veste» della potenza mediterranea fi-
loaraba con «colonie invisibili». Ma il 17 maggio 1949 il piano viene bocciato
proprio per gli articoli che prevedono il ritorno dell’Italia in Libia.
Alla visione semplicistica di Sforza, Quaroni – facendo rara eccezione
nel corpo diplomatico – non si stanca di opporsi senza mezzi termini e a vol-
te in modo assai ironico: «Noi abbiamo tentato di fare una politica razzista
ariana: potremmo tentare, con molto maggiore giustificazione di fatto, di ro-
vesciarla dichiarandoci razza di colore e cercando di diventare il primo dei
popoli di colore» (documento 6). La critica senza riserve di Pietro Quaroni,
tanto pungente nel contenuto quanto ammaliante nello stile, divenne a parti-
re dal 1948 sempre più energica. Egli sviluppò infine, in contrapposizione al
ministero degli Esteri, una sua versione della politica coloniale e mediorien-
tale, orientata sulle realtà storiche e sulla situazione politica attuale, anziché
su un passato interpretato in modo parziale e comunque controproducente.
Egli opponeva illusioni italiane fatti di politica reale, che possiamo riassume-
re in tre punti: a) le Nazioni Unite quali motore della politica internazionale,
b) gli interessi degli Stati Uniti, c) le conseguenze del passato coloniale italia-
no in Libia. «Di fronte alla difficoltà insuperabile per noi di deciderci per una
linea possibilistica», Quaroni riproponeva i suoi argomenti in vista della vota-
zione all’Onu sul piano Bevin-Sforza. «È senza sorpresa, anche se con un cer-
to dolore, che vedo avvicinarsi l’epilogo del nostro dramma coloniale. Pro-
babilmente a lungo andare ci accorgeremo che è stato un bene per noi che
sia stato così. (…) L’unico vantaggio sarà che una volta cavatoci questo dente
e passato il dolore, avremo una preoccupazione di meno» (492).
Nel corso della discussione sul futura assetto della Libia tra il 1945 e il
1949 il governo di Roma riesce a passare dall’atteggiamento coloniale a posi-
zioni anticoloniali, cosicché infine il 31, marzo 1949, l’Italia si adopera
all’Onu per l’indipendenza della Libia. Questo voltafaccia costituisce l’inizio
della nuova politica araba. A questo punto, Quaroni attacca decisamente l’in-
capacità italiana a riconoscere i dati reali e a fondare su questi il ragionamen-
to politico: «Credo che gli inglesi esagerano quando dicono che succederà
l’ira di Dio in Tripolitania al nostro ritorno, ma temo che esageriamo anche
noi quando diciamo, o pensiamo, che son tutti pronti a riceverci a braccia
aperte. (…) Il mondo non è più quello di ieri: noi siamo sempre, di fronte
all’opinione pubblica mondiale, gli ex fascisti, gli ex aggressori, quelli degli
ex metodi di Graziani – che non sono niente di peggio dei metodi usati da
francesi e inglesi in condizioni analoghe, ma che hanno lo svantaggio di es-
sere stati adoperati in tempi molto recenti. Se noi dovessimo andare incontro
a delle grosse rivolte – e questo con buona pace dei funzionari specializzati
è sempre possibile in un paese dove gli indigeni ci hanno visto in fuga – a
270 parte le spese che comporterebbe, le ripercussioni all’interno, questo avreb-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

be certamente delle forti ripercussioni all’Onu, nell’opinione pubblica ameri-


cana, (…) e noi abbiamo anche se non realmente per colpa nostra un record
troppo nero per poter rischiare di aggiungercene ancora. Per carità quindi,
non scherziamo col fuoco» (493).
Con Zoppi Quaroni condivide si l’idea che «una politica che approfitti
del fatto che non siamo più una potenza coloniale araba» poteva essere utile
all’Italia, ma secondo la sua opinione è ormai inevitabile che il ministro degli
Esteri prenda una chiara decisione: doveva la politica araba rinnovarsi vera-
mente e trasformarsi in una politica per il Medio Oriente, o continuare a rap-
presentare uno strumento di imposizione degli interessi italiani in Libia (do-
cumento 7)? Quaroni ha l’impressione che Sforza non voglia porsi chiara-
mente la questione, perciò lo mette in guardia dalla speranza di poter aggira-
re il problema con spiegazioni superficiali e di poter così trascurare i limiti
posti alla diplomazia italiana (documento 5).
Un limite della politica anticoloniale e aperta agli arabi era comunque
costituito dagli interessi delle potenze occidentali. Sforza doveva rendersi
conto chiaramente che «se noi intendiamo invece sposare in pieno la causa
araba (…) allora debbo dire con tutta franchezza che noi dobbiamo dire ad-
dio all’appoggio francese» (documento 5). Se il ministro degli Esteri avesse
voluto solamente assicurarsi i voti degli arabi all’Onu, sarebbe ancora stato
possibile, secondo Quaroni, giungere a un accordo su questo con Inghilterra
e Francia. Ma imbarcandosi in questa direzioni il limite invalicabile sarebbero
state le aspirazioni indipendentistiche dei paesi arabi. In altre parole: Quaro-
ni esorta i membri del ministero degli Esteri a concepire la svolta verso una
politica anticoloniale non solo come un altro esercizio di acrobazia. Pur es-
sendo soddisfatto della svolta finalmente raggiunta, della fine del «dramma
coloniale», Quaroni esorta a non ricadere in illusioni sulla situazione interna-
zionale e soprattutto a non giocare con la decolonizzazione del mondo ara-
bo: l’Italia doveva passare ad azioni più ponderate. Era ormai venuto il mo-
mento di sviluppare un piano per il Medio Oriente che rispettasse la posizio-
ne mediterranea dell’Italia e la nuova situazione geopolitica mondiale.

Documenti (in ordine cronologico)


Documento 1: Sforza a Londra, Washington e Parigi, Roma 15.2.1947
(Asmae, Ambasciata Londra [1861-1950], b. 1322, f. 1, Segreto Politico
riservato n. 236/c)
Fra le quattro Colonie messe in valore dal lavoro italiano in Africa, la Cirenaica, per
la sua situazione climatica e geologica è quella che presenta maggiori possibilità di svi-
luppo economico. La popolazione italiana vi costituiva nel 1939 un terzo della popola-
zione totale composta di 60.000 italiani e di 130.000 arabi, questi ultimi, salvo pochi
commercianti nei centri urbani, dediti esclusivamente alla pastorizia.
I Senussi, è bene avere sempre presente questo dato di fatto nella trattazione del
problema cirenaico, non sono una popolazione. La Senussia è una confraternita religio- 271
QUANDO SFORZA SOGNAVA UNA LIBIA «BIANCA»

sa che è riuscita ad acquistare influenza politica nella seconda metà del secolo scorso
sviluppandosi, ad opera del suo fondatore, l’algerino Mohamed ibn el Senussi, nella
Saudia, nella Cirenaica e nei Territori compresi fra la Cirenaica e il Lago Ciad. Imponen-
dosi con metodi vessatori alle tribù locali la Senussia, nel convertirle alla propria fede re-
ligiosa provocò rapidamente turbamenti politici in quelle zone e incorse nella repressio-
ne delle Potenze che di quelle stesse zone avevano il controllo: i suoi adepti furono con-
seguentemente espulsi dal Tibesti, dal Borcu e dal Wadaf in seguito alle operazioni mili-
tari condotte dai francesi particolarmente nel 1912-13; furono battuti dalle truppe inglesi
del generale Maxwell nel 1916 nei territori compresi fra l’Egitto e la Cirenaica; e furono
estromessi dalla Saudia ad opera di Ibn Saud e dei Wahabiti.
A proposito delle operazioni condotte nel 1916 dal generale Maxwell contro la Se-
nussia è da ricordare che i capi di questa setta, nel corso della prima guerra mondiale,
sobillati dalla Germania, avevano assunto un atteggiamento anti-britannico e che dopo
la sconfitta allora subita il suo capo, Ahmed ed Scerif es Senussi, veniva trasportato a Po-
la (in quel tempo austriaca) da un sottomarino tedesco.
L’Italia addivenne nel 1917 e nel 1920 a due successivi accordi con la Senussia, in-
staurando con essa una politica di collaborazione; ma tale politica non ebbe successo , e
nel 1923, il Governo fascista, sopravvenuto al potere in Italia, troncò ogni ulteriore tratta-
tiva; in seguito alle operazioni militari successivamente condotte, la Senussia perdette
anche in Cirenaica ogni influenza e i suoi capi si stabilirono in Egitto.
(…) Durante la guerra, l’autorità militare, considerato che la Cirenaica era diventata
un campo di battaglia dove il susseguirsi delle vicende belliche rendeva impossibile
ogni attività economica, ordinò lo sgombero della popolazione italiana.
Successivamente le autorità di occupazione hanno vietato qualsiasi permesso di
rientro degli Italiani in Cirenaica alle loro case. Si è così arrivati alla situazione attuale,
nella quale in Cirenaica alle loro case. Si è così arrivati alla situazione attuale, nella quale
in Cirenaica non sono stati autorizzati a rimanere che qualche centinaio di Italiani. Ma ta-
le situazione è artificiale e causata dalle contingenze di guerra (e dall’immediato dopo
guerra). Anche in questo caso, dunque, si deve ritenere che non sarebbe equo nel deci-
dere la situazione della Cirenaica, il non tener conto delle condizioni e delle aspirazioni
degli Italiani colà stabilitisi e che erano arrivati a costituire, anche numericamente, una
aliquota importante di quella popolazione.
Questi italiani, attualmente assistiti nei campi per rifugiati in Italia, anelano a ritor-
nare al loro lavoro e alle loro residenze e questo loro desiderio non dovrebbe essere
contrastato in quanto risponde, oltre che a quelle ragioni umanitarie che hanno ispirato
e promosso tutta l’azione dell’U.N.R.R.A. per il ritorno alle loro residenze delle D.P., an-
che allo stesso interesse del Paese. Non si vede infatti quale profitto possa trarre la Cire-
naica da una situazione che a poco a poco, dopo lo stato di floridezza e di progresso cui
era giunta, la riporta in condizioni di regresso e di abbandono.
Ma a questo proposito si possono e di debbono fare anche altre osservazioni che
investono non soltanto l’interesse dei coloni italiani o della Cirenaica in se stessa consi-
derata, ma che rispondono a un più vasto interesse politico europeo.
La Cirenaica, fra l’Egitto da un lato e la Tripolitania e la Tunisia dall’altro, rappresen-
ta il punto di congiunzione, o di separazione, fra il Medio Oriente, ove i Paesi arabi ten-
dono verso orientamenti sempre più nazionalistici ed esclusivistici, e l’Africa Settentrio-
nale, dove la colonizzazione europea ha dato luogo ad una situazione del tutto partico-
lare. Quivi, infatti, con la immissione di forti nuclei europei in Tripolitania, Tunisia, Alge-
ria e Marocco, questi Paesi hanno perduto parte delle loro caratteristiche etniche origina-
rie per divenire Paesi arabo-europei. È evidente interesse europeo che tale processo
272 continui e si affermi sempre più, e che questi Paesi, demograficamente, economicamen-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

te e politicamente, sempre più si orientino verso occidente e si saldino – anche se do-


vranno un giorno raggiungere l’indipendenza – all’Europa piuttosto che cadere sotto in-
fluenza di carattere orientale e panarabo.
La Cirenaica, per la sua scarsa popolazione indigena (130 mila anime), per le possi-
bilità che essa offre di accogliere una assai più numerosa popolazione europea, si pre-
senta in condizioni ideali per poter essere trasformata, in tempo anche breve, nel più eu-
ropeo tra i Paesi dell’Africa Settentrionale, ciò che anche per la sua posizione geografica
rappresenta un interesse politico evidente per tutta l’Europa e per tutti i Paesi mediterra-
nei. (…) Una Cirenaica popolata in grande maggioranza da europei costituirebbe invece
una ben diversa e più solida garanzia per la sicurezza sia della Gran Bretagna e dell’Eu-
ropa, e rappresenterebbe un efficace baluardo a difesa degli interessi delle popolazioni
e dei Paesi europei nell’Africa Settentrionale.
E pertanto noi chiediamo, dopo il ritorno dei nostri coloni in Cirenaica, che si dia al
problema relativo alla definitiva sistemazione di questa nostra colonia, una soluzione ta-
le che ci consenta di poter continuare quell’opera di valorizzazione che vi avevamo con
successo intrapreso mediante lo sviluppo della sua economia agricola e l’immissione di
nuovi coloni. Ciò potrebbe farsi anche sotto l’egida e il controllo dell’O.N.U., in forma e
con modalità non difficili a concordarsi.
Noi siamo persuasi che quanto chiediamo risponde non soltanto all’interesse italia-
no di non vedere andare disperso il frutto di tanti sacrifici e di tanto lavoro e di mantene-
re aperto alla nostra emigrazione un Paese in condizione di poterla assorbire, ma rispon-
de altresì ad un interesse europeo, cui in particolare non dovrebbero essere insensibili
Governi come quello Francese e Britannico.
Delle considerazioni che precedono la S.V. potrà valersi per illustrare il nostro pun-
to di vista sulla questione, riportandolo anche, se ritenuto opportuno, per iscritto sotto
forma di promemoria confidenziale.
fto. Sforza

Documento 2: Sforza a Washington, Roma 30.5.1947


(Asmae, AfPol [1946-50], Italia: ex-possedimenti [1949], b. 37, f. Libano, TE
11/17201/203)

(…) L’Italia per la sua posizione geografica, per le sue esigenze demografiche ed
economiche deve infatti necessariamente svolgere una politica araba. Può dirsi anzi che
le relazioni fra l’Italia e il mondo arabo costituiscono uno degli elementi essenziali della
nostra politica estera, almeno per quanto si riferisce al bacino mediterraneo.
Tale nostra esigenza non può sfuggire al Dipartimento di Stato nel momento in cui
gli Stati Uniti vengono interessandosi ai problemi mediterranei, e riteniamo anche, che a
lungo andare la politica del Dipartimento non possa ignorare la funzione che può essere
esercitata in questo settore dal complesso dei rapporti italo-arabi.
Nel riprendere e nell’intensificare le nostre relazioni coi Paesi del Levante e nel con-
siderare il problema dei territori italiani d’Africa, così come nel valutare il problema delle
nostre relazioni con i Paesi costituenti l’Africa Settentrionale francese, è naturalmente no-
stro intendimento non soltanto evitare di svolgere una politica araba in funzione antiin-
glese o antifrancese, ma anzi far sì che si creino e consolidino fra i Paesi aventi comuni
interessi in Africa legami di collaborazione di solidarietà.
Riteniamo che tali considerazioni siano registrate favorevolmente tanto a Parigi quan-
to a Londra, dove partendo appunto da tali presupposti, stiamo in questi giorni nuova-
mente insistendo perché il nostro problema coloniale venga considerato anche sotto tale 273
QUANDO SFORZA SOGNAVA UNA LIBIA «BIANCA»

aspetto: un’Italia completamente avulsa dall’Africa mancherebbe infatti necessariamente di


quella identità e comunità di interessi con le altre Potenze africane che costituiscono, in
questo come in ogni altro campo, il fondamento concreto di ogni politica di solidarietà.
Talune manifestazioni della politica americana nel passato e anche in epoca più re-
cente rendono per altro perplessi quanto alle reali direttive e ai reali intendimenti del Di-
partimento di Stato in materia. È ovvio che il trascorso del tempo, l’accelerato impulso
dato dalla guerra al risveglio arabo, i principii banditi dalla Carta delle Nazioni Unite,
fanno ormai apparire il problema coloniale in genere sotto un angolo visuale assai diver-
so da quello in cui tale problema era stato considerato nel periodo precedente, special-
mente dopo il Confissero di Berlino e la Conferenza di Algesiras. A nostro parere è pe-
raltro da tener presente l’interesse generale ad evitare un totale e rapido collasso delle
posizioni europee nei Paesi dell’Africa Settentrionale che potrebbero rapidamente tra-
sformarsi, in determinate evenienze, da campo aperto al fecondo lavoro dei popoli civi-
lizzatori, in zone chiuse e tendenzialmente ostili.
Nostra opinione è che, superata ormai l’epoca coloniale come anteriormente con-
cepita, tutti questi Paesi, conformemente ai principi sanciti nello Statuto dell’ONU, deb-
bano essere avviati verso forme nuove e superiori di organizzazione nazionale ,ma ciò
dovrebbe avvenire gradualmente in modo da salvaguardare e anzi accentuare il loro ca-
rattere di Paesi arabo-europei (e per ciò stesso differenti da quelli puramente arabi del
Levante) e in modo da mantenerli strettamente uniti per ragioni etniche, economiche, e
quindi anche politiche, al mondo occidentale. Per questa stessa ragione sosteniamo es-
sere il nostro ritorno in Libia sotto tale forma e con tali intenti un interesse non soltanto
italiano, ma generale ai fini del mantenimento dell’equilibrio mediterraneo e della gra-
duale evoluzione sociale e politica dell’Africa Settentrionale.
Non sfuggirà all’Ecc.za Vostra l’importanza che – anche per nostro opportuno orien-
tamento – ha per noi il conoscere possibilmente gli orientamenti della politica americana.

fto. Sforza

Documento 3: Quaroni a Sforza, Parigi 3.2.1948


(Asmae, Ambasciata Parigi [1861-1950], b. 405, f. Rapporti Quaroni, LE
161/1470/407)

Signor Ministro,
ho fatto a Bidault un passo nel senso indicato nel suo dispaccio n. 554/07 del 14
gennaio u/s.
Bidault mi ha ripetuto le note tesi francesi: mi ha detto che si rendeva perfettamente
conto della «tentazione» che poteva presentare per noi il gettarci dalla parte degli arabi:
con quel suo genere di franchezza mi ha detto che era questa una delle ragioni per cui
la Francia insisteva per vederci ridiventare una Potenza coloniale: mi ha detto di averlo
fatto presente varie volte a Londra e anche a Washington, ma con scarso successo. So-
stanzialmente a Londra gli era stato risposto di non essere affatto preoccupati di questa
possibilità: il colpo dato al nostro prestigio nel mondo arabo era stato troppo forte e non
contavamo più niente: i contatti da noi presi con elementi arabi, sia per le persone che
avevamo scelte come intermediari sia per le basi di trattative che avevamo proposte – gli
inglesi gli avevano affermato di esserne al corrente nei minimi dettagli – erano stati suffi-
cienti a persuadere gli inglesi che non avevano niente a temere in quella direzione. (…)
274 Per quello che concerne gli americani, mi ha detto, la loro risposta avrebbe potuto
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

riassumersi così: che ci provino, ci penseremo noi a farli pentire presto e radicalmente.
(…) Detto questo vorrei permettermi qualche commento sulle conversazioni che
Gallarati ha avuto sia con Noel Charles che con Bevin.
In primo luogo vorrei dirle, come del resto già le ho detto in altri miei rapporti, che
su due punti, sostanzialmente, Noel Charles ha ragione. Noi non ci rendiamo sufficiente-
mente conto di quello che rappresenta oggi questo mondo arabo in fermento. Qui a Pa-
rigi ho la possibilità di essere in contatto sia con elementi nazionalisti arabi, sia con vari
ufficiali, amministratori, uomini d’affari provenienti dalle colonie dell’Africa del Nord: ho
potuto cioè sentire da una parte l’esaltazione, il fanatismo, dall’altra le enormi difficoltà
di ogni giorno, difficoltà tali da far nascere il dubbio, nei francesi più intelligenti, sulle
possibilità di restare in Africa. Che gli inglesi giuochino la carta araba, perché serve a lo-
ro, non c’è il minimo dubbio: ma non c’è meno dubbio che non ci rendiamo conto
dell’ira di Dio che ci cadrà sulle spalle il giorno che riavessimo la Libia: il meno che si
può dire è che ci vorrebbe una nuova riconquista, ci vorrebbero dieci Graziani e tutto
questo in un’atmosfera internazionale poco disposta a tollerare metodi del genere.
Queste difficoltà, già gravi per tutti, sarebbero infinitamente più gravi per noi data
la concezione nostra della colonia che è per lo meno antiquata. E qui mi riferisco alla se-
conda osservazione di Charles. Al pari di lui non dubito delle idee personali del Presi-
dente del Consiglio e sue: ma mancherei al mio dovere se non le dicessi francamente
che l’osservatore imparziale che legga i nostri memorandum – non parliamo della cam-
pagna della nostra stampa – non può che venire alla conclusione che noi non abbiamo
capito niente della immensa rivoluzione che si sta svolgendo in tutto il mondo di colore.
È fin troppo chiaro che noi, sotto forma di mandato, possiamo rimandare in Africa i no-
stri bravi governatori, forse anche in uniforme, con i loro commissari distrettuali – non
so esattamente come noi li chiamassimo – aggiungendovi, tanto per l’etichetta, qualche
vaga commissione di notabili destinati soprattutto a mettere in iscena, sul posto ed in Ita-
lia, delle pittoresche manifestazioni di devozione all’Italia. Noi continuiamo imperterriti
a parlare di emigrazione italiana in Africa, di colonizzazione o che so io, e non sembria-
mo renderci conto che, facendo questo, noi ci mettiamo di fronte agli arabi nella stessa
situazione degli ebrei, e di fronte agli inglesi ed agli americani domandiamo loro di auto-
rizzarci a creare, in mezzo al Mediterraneo, una nuova Palestina. È tutto un mondo di so-
gni che potrà anche essere utile ai fini della politica interna italiana, ma che ai fini inter-
nazionali è semplicemente disastroso.
L’organizzazione coloniale inglese può, per qualche tempo, ancora ed in qualche
punto adattarsi alle nuove esigenze: cosa domandano loro? delle basi militari, navali od
aeree, e la protezione di qualche grosso interesse economico, che per la sua importanza
stessa, lega, anche se non del tutto onestamente, al carro inglese, od americano, larghi
settori della vita politica di quei paesi. L’organizzazione francese, molto più burocratica,
molto più esigente anche nel dominio del medio e del piccolo affare già prova maggiori
difficoltà ad adattarsi, ma per lo meno, non domanda più adesso, che il contadino arabo
si ritiri dalle sue terre per lasciare il posto al colono francese. La nostra, basata principal-
mente, nel Nord Africa almeno, sulla colonizzazione demografica, non può farlo.
(…) La situazione non è per noi così nera come essa poteva sembrare un anno fa: la
rottura fra Russia e America, le necessità americane di preparazione alla guerra hanno spo-
stato alcuni termini del problema, potenzialmente, a nostro favore. Oggi noi possiamo spera-
re di riavere in tutto o in parte e sotto certe limitazioni l nostre colonie, ma a due condizioni:
1° – che noi abbandoniamo i nostri vecchi concetti in materia coloniale e acconsen-
tiamo a ritornarci in termini «inglesi»;
2° – che noi acconsentiamo ad inserirci saldamente nel sistema militare anglo-ame-
ricano. 275
QUANDO SFORZA SOGNAVA UNA LIBIA «BIANCA»

Se non accettiamo queste due condizioni non c’è nulla da fare: possiamo fare tutti
gli appelli che vogliamo all’amicizia italo-inglese, agli interessi della razza bianca in Afri-
ca, alla stabilità del regime in Italia, tutto questo non servirà a niente: potrà servire solo
un giorno, se arriviamo ad un accordo, a mascherare il suo vero fondo: se non crediamo
di poterlo fare è meglio allora prendere senz’altro la decisione di gettarci completamente
dalla parte degli arabi.
(…) Gradisca, Signor Ministro, gli atti del mio profondo ossequio

fto. Quaroni

Documento 4: Quaroni a Zoppi, Parigi 24.2.1948


(Asmae, Ambasciata Parigi [1861-1950], b. 405, f. Rapporti Quaroni, LE pers
297/3037/802)

Caro Zoppi,
(…) Lasciamo da parte la polemica sul fatto se noi abbiamo o no capito le trasfor-
mazioni del mondo coloniale e specie arabo: per me, appieno, non lo abbiamo capito
nemmeno oggi: comunque se cominciamo a capirlo o cominciamo a dare dei segni tan-
gibili di averlo capito, tanto meglio. Ora entriamo nel grosso del problema: tu hai perfet-
tamente ragione quando dici che il nostro concetto di colonizzazione è differente da
quello inglese: ritengo però che Sargent abbia anche lui ragione quando ci dice che og-
gi, nell’Africa del Nord, il nostro non è più possibile.
Abderrahman Azam (che, fra parentesi è mio buon amico per essere stato a lungo
mio collega, egiziano, a Kabul) ha esposto con molta franchezza il punto di vista della Le-
ga Araba: punto di vista che, credi a me, va da noi preso in molto seria considerazione
perché è anche esso, in certi limiti, una realtà. Sargent nella sua ultima conversazione con
Gallarati ci ha fatto un altro discorso: si tratta di un primissimo approccio: una formula
possibile di arrivo potrebbe essere un trusteeship italiano puro o misto sulla Libia, pro-
prio della forma che non ti piace dei funzionari in shorts, e in cambio di questa nostra ri-
nuncia a domandare di più, un nostro inserimento come partners, in una politica inglese,
o anglo-americana, anglo-franco-americana, dell’Africa e dei paesi arabi. Questo è per me
il punto più importante del discorso di Sargent. Dovete contentarvi di solo una certa par-
tecipazione agli affari Libia: noi in cambio, anche se non siete più una potenza coloniale
africana nel vero senso della parola, siamo disposti a farvi entrare nel costruendo sistema.
Oggi, a mio avviso, queste due offerte sono le sole alternative di politica africana, o colo-
niale se vuoi, che ci si presentano realmente: con la differenza che la politica propostaci
da Abderrahman che io, personalmente, considererei la migliore può non essere anzi
non è possibile per noi: la politica propostaci da Sargent può non essere realizzabile, a
lungo andare, per gli stessi inglesi.
Comunque tieni bene presente questo: la vera pierre d’achoppement di ogni possi-
bile soluzione della questione libica, in conversazioni a due, a tre o a quattro, è precisa-
mente il nostro concetto di colonizzazione demografica. Gli inglesi e gli americani han-
no già un grosso pasticcio sulle spalle con la questione della Palestina: gli arabi importa-
no agli inglesi ed agli americani in quanto è nei loro paesi che si trova il petrolio ed è da
loro che dipende il pacifico godimento del petrolio: e non consentiranno mai a metterlo
in forse per farci un piacere a noi. Di questo anche i francesi, sebbene seccatissimi e
spaventati, cominciano a rendersi ragione.
(…) Cordialmente
276 fto. Quaroni
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

Documento 5: Quaroni a Sforza, Parigi 8.8.1949


(Asmae, Ambasciata Parigi [1861-1950], b. 439, f. 1, LE 974/3149)

Signor Ministro,
(…) Premesso questo, che ha importanza solo ai fini del giuoco di cache-cache de-
gli inglesi, il pensiero [sottolineato nell’originale] francese, quale è oggi, è chiaro:
1° ) i francesi hanno trangugiata l’idea dell’indipendenza della Tripolitania, soprat-
tutto perché convinti, che in quanto idea, è l’unica suscettibile di essere accettata
dall’ONU. Desiderano però che questa indipendenza sia realizzata il più tardi possibile,
e che essa sia controllata, nella maggior misura possibile, da una influenza politica pre-
feribilmente italiana. Dico preferibilmente italiana, in quanto essi ritengono che questa
influenza italiana, per politica generale mediterranea, e per interesse nostro proprio, non
inciterebbe sia possibili mene arabe nell’Africa settentrionale francese, sia una politica
inglese, od americana (che continua ad esistere sia pure in sordina) diretta, attraverso gli
arabi, a scalzare le attuale posizioni francesi. È evidente che qualora la nostra politica di-
ventasse in questo settore troppo, e soprattutto fondamentalmente, filo araba, o filo in-
glese, l’utilità per i francesi del controllo italiano e quindi il loro appoggio diventerebbe
proporzionalmente minore. E non posso nascondere che i francesi, attualmente, non si
sentono del tutto sicuri della nostra politica. Faccio il possibile per rassicurarli ma V.E.
ben comprenderà se le dico che ci sono riuscito solo in parte.
2° ) I francesi hanno il terrore dell’unità della Libia sotto il Senussi: è un terrore direi
quasi biologico, dovuto ad una lunga tradizione: per cui, su questo punto sono categori-
co, è assolutamente escluso che gli inglesi riescano a fare accettare questa tesi, sotto
qualsiasi forma, ai francesi.
3°) Essi hanno egualmente molto timore di trovarsi confinanti con gli inglesi in Afri-
ca settentrionale: anche qui si tratta di una ben radicata tradizione francese, che il contat-
to diretto franco-inglese, nei paesi arabi, finisce per essere fatale alla Francia.
(…) Non nascondo a Vostra Eccellenza che l’impostazione araba della questione
che si cerca di dare da parte nostra è suscettibile di creare qui delle ripercussioni, anche
sull’atteggiamento fondamentale francese. Se ho ben compreso il pensiero di V.E. noi
vorremmo con questa politica araba, metterci in una posizione demagogica di fronte agli
anglosassoni, allo scopo di potere, con i voti degli arabi, e degli asiatici, almeno in parte,
riuscire a bloccare la soluzione inglese per la sola Cirenaica e magari anche la soluzione
anglo-americana per l’Eritrea. Condurre poi, dopo questa manifestazione di forza, gli an-
glosassoni ad avvicinarsi alle nostre tesi, per l’Eritrea e per la Tripolitania, ossia, per que-
st’ultima a delle tesi non troppo differenti da quelle francesi (ripeto, indipendenza della
Tripolitania limitata da una nostra influenza e questa influenza nostra indirizzata in sen-
so limitatorio degli entusiasmi maghrebini del mondo arabo). Ossia, in termini più bruta-
li, servirci degli arabi per poi, ottenuto quello che vogliamo, mollarli almeno in una certa
misura.
Confesso che ho qualche dubbio sulle possibilità di riuscita di questo piano, indi-
scutibilmente ardito, sia sul piano arabo che sul piano ONU. Conosco però troppo poco
gli elementi arabi di fatto per potere esprimere un giudizio, e come che sia, prima di
scartarlo, conviene di vedere se esso è possibile. Del resto non vedo quale altra cosa si
potrebbe tentare.
Comunque, se questa è effettivamente la nostra idea, in questa forma, credo di po-
ter riuscire a farla mandare giù ai francesi: non che si fideranno di noi al 100%, ma credo
di poterli mettere in una situazione di non potere esprimere apertamente i loro dubbi. Se
questa è la nostra idea pregherei di dirmelo chiaramente, e di lasciare fare a me questo
lavoro di inghiotti mento. Fouques Duparc non ha autorità sufficiente per far passare 277
QUANDO SFORZA SOGNAVA UNA LIBIA «BIANCA»

questo qui: non credo nemmeno sarebbe in grado di capire a fondo: è poi tutto un insie-
me di cose non facile a spiegarsi per telegramma o rapporto: e last but not least non è
persona che metta i nostri affari nella migliore luce possibile qui.
Ma se noi intendiamo invece sposare in pieno la causa araba, se noi, privati delle co-
lonie, intendiamo sposare la causa della rivoluzione dei popoli coloniali – politica questa
che, anche se ardita, ha molti argomenti in suo favore – allora debbo dire con tutta fran-
chezza che noi dobbiamo dire addio all’appoggio francese. Poiché il giorno che i francesi
avessero l’impressione che una Tripolitania controllata da noi possa diventare un centro
di indipendentismo arabo, allora, le loro obbiezioni al Senusso restando, verrebbero cer-
tamente alla conclusione che una Tripolitania sotto amministrazione britannica sarebbe
un amale minore che una Tripolitania indipendente sotto influenza italiana. E l’Inghilterra
non sarebbe, credo, aliena dal rinunciare a mettere il Senusso anche a Tripoli.
Voglio precisare ancora il mio pensiero. Una politica italiana nettamente anticolo-
nialista, la quale ci permettesse di assicurarci delle posizioni vantaggiose economiche,
politiche, etc., in tutto il mondo vicino e medio orientale può essere una eccellente poli-
tica per un’Italia che le vicende della guerra e la politica dei nostri attuali amici, ha volu-
to estromettere da tutto questo mondo: V.E. sa che essa non è affatto antagonista al mio
pensiero, anche se, conoscendo un pò tutti questi paesi, mi rendo conto che essa è più
facile ad enunciare che a mettere in esecuzione. Certo sarei l’ultimo a suggerire di rinun-
ciarvi, se la riteniamo vantaggiosa per noi, per non dare dei dispiaceri alla Francia, in
gran parte responsabile essa stessa della situazione in cui si trova nell’Africa del Nord
per la sua incapacità di adattarsi alle esigenze dei tempi nuovi. Avremmo certamente
una crisi nei rapporti italo-francesi, superabile come del resto tutte le crisi, ma che non
mi spaventa affatto.
Quello che ho voluto chiarire è il pensiero francese e, conseguentemente, i limiti in
cui una nostra politica è conciliabile con gli interessi francesi, bene o male intesi che essi
siano, i limiti in cui è possibile farla accettare ai francesi e continuare così la collaborazio-
ne fra i due paesi in questo campo: fissare, se si vuol meglio, io limiti di quello che posso
riuscire a fare e quello che non posso riuscire a fare. La diplomazia italiana è l’arte delle
acrobazie, ma anche queste acrobazie hanno certi limiti che non si possono oltrepassare.
Gradisca, Signor Ministro, gli atti del mio devoto ossequio.

fto. Quaroni

Documento 6: Quaroni a Zoppi, Parigi 8.8.1949


(Asmae, Ambasciata Parigi [1861-1950], b. 439, f. 1, LE 974/3148)

Caro Zoppi,
(…) 1) Una parola di commento al mio rapporto in data odierna sulla questione
delle colonie, che è soprattutto diretto a rispondere al desiderio del mio collega di Lon-
dra di conoscere il pensiero francese. Non so se ha capito bene il tuo pensiero in tema
di politica araba. Non ripeto, a te, che ho qualche dubbio sulla sua possibilità di riuscita,
poiché questi dubbi li hai anche tu, e del resto non conosco sufficientemente lo stato dei
contatti: sono anche d’accordo con te sulla opportunità di tentarla, per lo meno per dire
che abbiamo provato tutto. Soprattutto non ho niente da proporre che possa essere me-
glio di quello che state tentando. Comprendo quindi il tuo desiderio di non prendere
impegni con i francesi almeno fino a quando si ritenga che sia possibile arrivarci. Del re-
sto, anche se il metodo è stato un pò differente, è questo quello che ho fatto fino ad ora.
278 Se il piano nostro è effettivamente quello che immagino io – e che poi come tutti i piani
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

può modificarsi in corso di sviluppi – mi sento di farlo ingoiare ai francesi, specie nello
stato di scoraggiamento in cui essi sono. Soltanto, in questo caso, oltre che a chiarirmi
che ci siamo capiti, ti pregherei vivamente, per il successo dell’operazione, di lasciarme-
lo fare a me e di non cercare di farlo attraverso il mio opposite number. È un processo di
mitridatizzazione che bisogna fare con garbo, molto fuori del Quai d’Orsay e possibil-
mente dopo un buon pasto e dei buoni vini: attraverso l’amico romano si rischia soltanto
di alerter il Quai d’Orsay rendendo poi più difficile il resto del mio compito.
Tu sai poi che anche la politica più ardita non solo non mi è affatto ostica ma, anzi
è piuttosto la mia idea, anche se applicata cum grano salis. Noi abbiamo tentato di fare
una politica razzista ariana: potremmo tentare, con molto maggiore giustificazione di fat-
to, di rovesciarla dichiarandoci razza di colore e cercando di diventare il primo dei po-
poli di colore. Se ho molti dubbi sulla sua possibilità pratica non è perché non ritenga la
politica buona, ma perché dubito che noi abbiamo gli agenti necessari per farla: non so-
lo diplomatici ma di ogni genere; i mezzi economici e soprattutto la volontà economica
per potenziala; e soprattutto l’abilità politica per dirigerla. Tu sai come si fanno le cose
da noi: il giorno che ci decidessimo, o fossimo portati a fare questa politica, si comince-
rebbe con dei discorsi, con delle interviste, con una campagna di giornali, mettendoci
subito contro tutti quelli a cui essa dà fastidio, e in pratica non faremmo niente: ne
avremmo cioè tutti gli inconvenienti e nessuno dei vantaggi: Dovrebbe trattarsi di una
politica silenziosa, di fatti, i cui frutti si raccoglierebbero dopo un lungo periodo di tem-
po: ma tu sai meglio di me che l’Italia, sia essa fascista o no, non sa cosa farsene di una
politica estera che non possa essere subito monetata in termini di prese pubbliche di po-
sizione o di successi interni immediati.
Cordialmente

fto. Quaroni

Documento 7: Quaroni a Sforza, Parigi 2.12.1949


(Asmae, Ambasciata Parigi [1861-1950], b. 439, f. 1, LE 1256/4537)

Signor Ministro,
premettendo che parlavo a titolo strettamente personale, ho detto a Couve de Mur-
ville che, dopo la decisione dell’Assemblea dell’ONU mi sembrava utile chiarire le nostre
rispettive posizioni in materia coloniale.
(…) Il suo pensiero mi sembra abbastanza chiaro. I francesi non hanno nessuna
simpatia per l’unità della Libia; pensano che con dei Governi locali ben congegnati, non
sarebbe difficile arrivare a delle espressioni spontanee dell’opinione pubblica locale,
contrarie all’unità. Vogliono ritardare al massimo possibile l’indipendenza della Tripolita-
nia: non sono affatto tranquilli su quella che sarà la nostra linea di azione sia sul piano ri-
stretto tripolino, sia nel mondo arabo in generale. Vorrebbero quindi spingere per una so-
luzione pratica per la quale l’organizzazione del Governo tripolino, l’avviamento all’indi-
pendenza, e in certo senso anche l’amministrazione temporanea della colonia, diventasse-
ro un affare a tre: sono disposti per arrivare a questo a concedere agli inglesi e anche a noi
un certo senso anche l’amministrazione temporanea della colonia, diventassero un affare a
tre: sono disposti per arrivare a questo a concedere agli inglesi e anche a noi un certo droit
de regard sul Fezzan. Probabilmente sperano, che con l’andare del tempo, e con l’espe-
rienza pratica della collaborazione si possa arrivare ad uno stato di fatto accettabile anche
da noi, anzi sufficientemente favorevole a noi perché non siamo più tanto entusiasti per
l’idea dell’indipendenza incondizionata. 279
QUANDO SFORZA SOGNAVA UNA LIBIA «BIANCA»

(…) In sostanza i francesi ci offrono ponti d’oro (con la riserva che la possibilità di
costruirli non è nelle mani loro) purché noi non facciamo una politica rivoluzionaria.
Couve non è fra i funzionari francesi la cui sincerità sia il difetto preponderante. Sa-
rei portato ad interpretare il suo diniego che esista un fronte unico franco-inglese in que-
sto senso: è una possibilità, dipende da voi che essa divenga una realtà. La decisione è
nelle nostre mani. Comunque, se noi vogliamo evitare dei seri malintesi nei nostri rap-
porti con la Francia, bisogna che noi parliamo chiaro.
Vogliamo fare sul serio una politica araba? In questo caso è meglio che diciamo
chiaramente ai francesi che noi siamo, senza riserve, per l’indipendenza della Tripoli-
tania e per l’unità della Libia. Questo realizzerà il fronte franco-inglese: sarà una prova
di forza, d’influenza e di abilità: non è detto che necessariamente dobbiamo perdere la
partita.
Intendiamo la politica araba come un mezzo? Nel qual caso dovremmo dire ai fran-
cesi: noi siamo per l’indipendenza perché non possiamo accettare la tesi inglese di con-
siderare gli interessi italiani in Tripolitania come i semplici interessi materiali di una col-
lettività: noi vogliamo in Libia una posizione di certa preminenza economica, culturale e
politica: siamo convinti che è solo in una Tripolitania indipendente che possiamo risol-
vere il nostro problema. Se voi riuscite a far cambiare d’idea gli inglesi ed accettare que-
sto nostro punto di vista, allora possiamo rivedere le nostre posizioni. Se volete siamo
disposti a considerare questa collaborazione a tre per l’avviamento all’indipendenza col-
la riserva di vedere, dai fatti, se con il vostro appoggio possiamo arrivare ad un’intesa ra-
gionevole per tutti.
Un discorso di questo genere, fatto oggi, lascia aperte tutte le possibilità: siccome
però, soprattutto se noi siamo elastici per la forma, non è escluso affatto che ci si possa
arrivare, bisogna che noi siamo disposti, in caso di riuscita, a mettere molta acqua nel vi-
no della nostra politica araba. Altrimenti allora, francesi ed anche inglesi possono troppo
facilmente accusarci di mala fede. Mi si dirà tutti sono in mala fede, i francesi per primi,
è esatto: ma noi abbiamo ancora un lungo cammino da percorrere, e sono fermamente
convinto che per percorrere questo cammino la miglior cosa che possiamo fare è di es-
sere assai più onesti degli altri.
(…) Se siamo arrivati allo stato di oggi lo è soprattutto perché da una parte e dall’al-
tra si è troppo detto che si era d’accordo, mentre in realtà non lo si era: per mancanza di
questa chiarezza da una parte e dall’altra si sono considerati come abbandoni o peggio
la sola constatazione di un disaccordo che si ignorava perché non si era sufficientemen-
te precisata.
Ritengo che, adottando questo sistema, si possono raggiungere dei risultati, modesti
ma positivi. Continuare sulle generalità come si è fatto fino ad ora – la colpa è un pò di tut-
ti e due – non ci può portare che ad una mala fine.
Se V.E. È d’accordo, si potrebbe cominciare con la questione delle colonie: il resto
seguirà secondo la necessità. Questo era lo scopo che io mi ero proposto parlandone
con Couve. Per andare avanti mi è necessario conoscere il pensiero del Governo italiano
in proposito.
Voglia gradire, Signor Ministro, gli atti del mio devoto ossequio.

fto Quaroni

280
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

GEOGRAFIA INE DITO


E POLITICA
ESTERA di Nicholas J. SPYKMAN

L’importanza del fattore marittimo nell’ascesa degli Stati


secondo la tesi di uno dei più influenti geopolitici
del Novecento. Una replica a Mackinder. Le eccessive pretese
di una teoria globale.

Presentazione di Marco Cesa


I rischi del determinismo
Nicholas J. Spykman nacque in Olanda nel 1893, e, dopo aver svolto
un’intensa attività giornalistica in molti paesi asiatici, si trasferì negli Stati Uni-
ti nel 1920, insegnando prima in California e poi all’Università di Yale, fino
alla sua prematura scomparsa avvenuta nel 1943. Egli fece così parte di quel
nutrito gruppo di intellettuali europei che nei primi decenni di questo secolo
si trapiantarono negli Stati Uniti contribuendo in modo determinante, tra gli
anni Trenta e Quaranta, all’affermazione della scuola «realista» nello studio
delle relazioni internazionali.
L’opera di Spykman è infatti caratterizzata da molti temi comuni a tutti gli
altri realisti, a cominciare dalla polemica con l’altra scuola sino ad allora do-
minante, e cioè quella «utopista». Mentre quest’ultima si basa sulla convinzio-
ne che sia possibile creare un assetto internazionale improntato agli ideali di
giustizia e di legalità e retto da organizzazioni internazionali (prima tra le
quali la Società delle Nazioni) che svolgano funzioni di governo mondiale,
Spykman e gli altri realisti muovono invece dall’assunto che la politica inter-
nazionale è, per sua natura, una lotta per la potenza tra Stati sovrani gelosi
della loro autonomia. Direttamente legata a questa concezione delle relazio-
ni internazionali è quindi l’importanza attribuita alla ricerca della sicurezza
da parte degli Stati, la quale viene vista come l’obiettivo primario della loro
politica estera. E se la variabile cruciale è la potenza, la sicurezza e l’ordine
potranno essere raggiunti facendo ricorso non tanto a strumenti giuridici o a
principi morali, ma cercando di ottenere una distribuzione approssimativa-
mente uguale della potenza tra gli Stati, per mezzo, cioè, della vecchia politi-
ca dell’equilibrio.
Al di là di questa visione della politica internazionale, il realismo di
Spykman è caratterizzato soprattutto dall’attenzione dedicata ai fattori geo- 283
GEOGRAFIA E POLITICA ESTERA

grafici e al loro peso tanto nella formulazione della politica estera di ogni
grande potenza quanto nella dinamica delle relazioni internazionali nel loro
complesso. Praticamente tutti i realisti sottolineano la rilevanza delle variabili
geopolitiche. L’opera di Spykman, però, si distingue per il ruolo centrale a
queste attribuito, dato che i fattori geografici vengono considerati i più im-
portanti tra i molti elementi che condizionano il comportamento degli Stati
all’interno dell’ambiente conflituale nel quale essi si trovano ad agire. La geo-
politica è per Spykman così una vera e propria disciplina strategica, dalla du-
plice valenza. Da una parte, essa è una scienza che vuole studiare fenomeni
due dinamiche, per così dire, «oggettive». All’aspetto analitico e conoscitivo,
poi, si somma quello prescrittivo, dato che l’obiettivo è quello di facilitare la
formulazione di una politica estera di ampio respiro, buona per gestire la pa-
ce ma anche per essere pronti in caso di guerra.
L’analisi geopolitica di Spykman richiama la nostra attenzione sulla col-
locazione geografica dello Stato, sulle sue dimensioni e sulle sue risorse.
Quella di Spykman è una posizione intermedia tra il determinismo di un Rat-
zel e il possibilismo di un Febvre: la geografia offre delle possibilità e impo-
ne dei condizionamenti che non possono essere ignorati e che devono quin-
di essere affrontati nel miglior modo possibile. Queste possibilità verranno
comunque sfruttate e questi condizionamenti saranno comunque avvertiti:
come ciò avverrà è una faccenda che riguarda la politica estera di ogni singo-
lo Stato.
Le riflessioni di Spykman più rilevanti ai fini di questa breve introduzio-
ne possono essere suddivise in due insiemi di lavori, e cioè una serie di arti-
coli pubblicati tra il 1938 e il 1939 sull’American Political Science Review
(uno dei quali, «Geography and Foreign Policy», viene qui proposto in forma
ridotta), e due volumi, uno pubblicato nel 1942 (America’s Stategy in World
Politics) (494) e l’altro uscito postumo nel 1944 (The Geography of Peace)
(495). Gli articoli affrontano i problemi geopolitici più classici dal punto di
vista del singolo Stato, e costituiscono una modifica e un completamento di
alcune tesi di Ratzel. I due volumi, invece, si occupano della teoria geopoli-
tica globale.
America’s Strategy in World Politics viene considerato a ragione uno dei
lavori più influenti contro il tradizionale isolazionismo americano e a favore,
quindi, di un interventismo su scala mondiale da parte degli Stati Uniti. Scri-
vendo prima dell’entrata in guerra degli Stati Uniti, Spykman sostiene, in ba-
se a un’analisi della distribuzione della potenza tra l’emisfero occidentale e
quello orientale, che il primo non potrebbe resistere alle pressioni esercitate
dal secondo se questo fosse unito sotto una stessa leadership. Di conseguen-
za, gli Stati Uniti devono intervenire nella guerra in Europa e in Asia per
scongiurare l’ascesa di una singola potenza in grado di dominare questi con-
tinenti. Dando prova di una lungimiranza rara tra i suoi contemporanei,
Spykman nota, tra l’altro, che come la coalizione tedesco-giapponese costi-
tuisce una minaccia alla sicurezza americana, così altre potenze in grado di
prenderne il posto, cioè la Russia e la Cina, porranno simili problemi di sicu-
284 rezza agli Stati Uniti: «Uno Stato russo dagli Urali al Mare del Nord non sareb-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

be molto meglio di uno Stato tedesco dal Mare del Nord agli Urali» (496).
Spykman si serve del suo realismo e delle sue idee geopolitiche per attaccare
la tesi dell’«eccezionalismo» americano. Gli Stati Uniti non possono farsi gui-
dare dalla loro esperienza storica unica, ma devono prendere in considera-
zione quanto fatto dagli altri Stati nel passato, in quanto essi non sono che
una grande potenza assimilabile alle altre grandi potenze e quindi sensibile
alle stesse pressioni. L’interventismo in politica estera propugnato da Spyk-
man è quindi legato all’interesse americano, e non al senso di una particola-
re missione che il paese dovrebbe compiere. Il coinvolgimento americano,
inoltre, deve essere globale nella sua portata, perché non vi sono aree nel
mondo così lontane da non avere significato strategico per gli Stati Uniti (un
punto, questo, di disaccordo con la maggior parte dei realisti, i quali sono di
solito a favore di un impegno molto selettivo da parte americana).
In The Geography of Peace, Spykman propone la sua teoria del Rim-
land, la quale modifica la celebre teoria dello Heartland di Mackinder. Co-
me noto, mentre Mackinder aveva sostenuto che il ruolo strategico centrale
sarebbe stato giocato da chi fosse stato in grado di controllare lo Heartland,
composto dalla massa continentale russa ed est-europea, per Spykman, inve-
ce, le «terre marginali» del Rimland, e in particolare l’Europa peninsulare e
l’Estremo Oriente (Cina e India, soprattutto), sarebbero state ancora più im-
portanti, in virtù della loro popolazione, ricchezza e potenziale economico.
Secondo la celebre formula di Mackinder, «chi controlla il Rimland controlla
l’Eurasia, e chi controlla l’Eurasia controlla il mondo» (497). La differenza tra i
due riguarda quindi le origini della posizione egemonica, mentre sulla confi-
gurazione finale di questa entrambi concordano: tanto Spykman quanto
Mackinder richiamano la nostra attenzione più sulla potenza continentale
che su quella marittima o aerea; l’obiettivo di chi teme l’egemonia (soprattut-
to le «isole»), come detto, deve essere proprio quello di evitare l’unione della
massa continentale eurasiatica. Entrambe le versioni evocano immagini po-
tenti e suggestive, ma anche, si deve notare, largamente esagerate: lo Hear-
tland è stato unificato, e ha dato origine a una notevole massa di potenza
continentale. Questa, però, ha sempre sofferto dell’accerchiamento da parte
di potenze ostili e della sua inferiorità marittima rispetto a queste ultime. Il
Rimland, dal canto suo, non si è mai neppure avvicinato all’unificazione, e il
suo potenziale egemonico resta quindi tutto da dimostrare. La cosa parados-
sale è che né Mackinder né Spykman, l’uno inglese, l’altro olandese-america-
no, ma entrambi, quindi, cittadini di potenze insulari, hanno mai preso in
considerazione il fatto che non solo le potenze continentali ma anche le «iso-
le» potessero imporre la loro egemonia.
L’influenza di Spykman deve essere valutata su almeno due livelli, uno
pratico e uno teorico. Per quanto riguarda il primo, anche se la morte im-
provvisa non gli permise di intervenire direttamente nella formulazione della
politica americana del containment all’indomani della seconda guerra mon-
diale, è indubbio che tale politica rifletteva proprio quelle «necessità», così in-
cisivamente analizzate da Spykman, indotte dalla competizione strategica tra
Eurasia e Rimland. A livello teorico, poi, la sua fama di realista venne presto 285
GEOGRAFIA E POLITICA ESTERA

offuscata da quella di un altro studioso le cui idee erano destinate ad avere


un’enorme eco, e cioè Hans J. Morgenthau.
Quanto alle sue specifiche riflessioni di geopolitica, queste sarebbero
probabilmente dovute essere oggetto di ulteriori rielaborazioni e revisioni.
La teoria geopolitica globale di Spykman – come quella di altri studiosi, del
resto – ci offre solo una chiave interpretativa molto approssimativa della di-
namica della politica internazionale nel suo complesso. Essa ha il grande
merito do sottolineare certe costanti e di porle in relazione storica tra di loro
( la competizione Usa-Urss può , in effetti, essere letta come un’ulteriore ma-
nifestazione dell’eterno conflitto tra potenze insulari e continentali e dei di-
versi stili di egemonia delle une e delle altre), ma non va oltre.
Quanto ai fattori geopolitici che condizionano il singolo Stato, questi co-
stituiscono un settore di indagine forse più promettente, ma ancora tutto da
scoprire. Nei decenni passati, del resto, la geopolitica non ha fatto notevoli
progressi. La natura peculiare di un sistema internazionale bloccato sulla
competizione bipolare e ulteriormente congelato dall’esistenza di armi nu-
cleari aveva indotto molti ad accantonare la geopolitica tout court. Oggi que-
ste condizioni sono venute meno, nel senso che il sistema internazionale
non è più rigidamente strutturato attorno a due grandi potenze e il ruolo del-
le armi nucleari sembra avviato ad essere ridimensionato rispetto al recente
passato. Di conseguenza, molti Stati sono in procinto di recuperare una certa
libertà di movimento, spinti, tra l’altro, da considerazioni legate proprio a
quelle «opportunità» e «condizionamenti» di cui parla Spykman. Intendiamoci:
il tentativo di formulare una teoria geopolitica globale non permetterebbe,
probabilmente, oggi come ieri, di raggiungere risultati soddisfacenti. Inoltre,
anche se Spykman non può essere considerato alla stregua di Ratzel, vi so-
no, nella sua concezione geopolitica – come del resto in quella di tutti i suoi
contemporanei – alcune componenti deterministiche e una pretesa di «scien-
tificità» le quali appaiono oggi largamente superate. La rilevanza contempo-
ranea del pensiero di Spykman, dunque, va ricercata in un invito, di carattere
generale, se vogliamo, ma non per questo trascurabile, a prendere seriamen-
te in esame le implicazioni della collocazione geografica di uno Stato ai fini
della comprensione della sua politica estera e di sicurezza e della definizione
di alcuni suoi interessi di fondo.

Nicholas J. Spykman: Geografia e politica estera (498)


(…) La posizione geopolitica regionale, come quella mondiale, consiste
nella combinazione dei dati oggettivi e del significato da essi assunto in un
determinato periodo storico. Così come si è ritenuto necessario esaminare la
posizione mondiale in rapporto ai due sistemi di riferimento geografico e
storico (499), anche il significato della posizione regionale appare del tutto
chiaro solo dopo aver analizzato sua la geografia che le valenze storiche e
politiche dell’area immediatamente circostante allo Stato preso in esame.
286 Un esame del solo ambiente geografico suggerisce tre principale categorie di
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

posizione regionale: Stati senza sbocco sl mare, le cui frontiere sono intera-
mente terrestri; Stati insulari, le cui frontiere sono costituite tutte da coste; e
un terzo gruppo, ben più numeroso, di Stati le cui frontiere sono in parte
terrestri e in parte marittime. Il significato della posizione geografica così
individuata varierà tuttavia a seconda del contesto politico del momento e
a seconda che gli Stati circostanti siano maggiormente, ugualmente o meno
potenti dello Stato preso in esame.
Gli Stati privi di sbocco al mare sono sempre stati relativamente pochi.
Attualmente ve ne sono tre in Europa, due in Asia e due in Sudamerica; al-
cuni, come l’Etiopia e la Serbia, sono scomparsi dalla carta geografica solo
di recente. La principale caratteristica comune della politica estera di que-
sta categoria di Stati è che la loro sicurezza è definita esclusivamente in ter-
mini di difesa terrestre, e quindi in termini di vicini immediatamente limi-
trofi. Gli Stati dotati di sbocchi al mare, invece, debbono tenere in conside-
razione ogni forte potenza marittima, per quanto lontana. Anche se la di-
stanza accresce le difficoltà di un’invasione e ne riduce le probabilità di
successo, essa non compromette di molto le possibilità di bombardamento.
Che gli Stati privi di sbocco al mare continuino a godere di questo vantag-
gio anche con le nuove tecnologie di guerra aerea dipenderà dalla capacità
degli Stati confinanti di restare neutrali e impedire che il proprio territorio
sia attraversato da bombardieri nemici. La lezione della guerra civile spa-
gnola non ispira però grande fiducia per il futuro.
Nella maggior parte dei casi la natura stessa ha contribuito alla difesa
degli Stati privi di sbocco al mare. L’Ungheria e la Cecoslovacchia, nel loro
assetto territoriale attuale, sono di origine troppo recente per essere citate co-
me esempio al riguardo; sembra infatti assimilabile ipotizzare che i loro
confini non siano ancora del tutto definiti: Tuttavia, quasi tutti gli Stati pri-
vi di sbocco al mare che siano rimasti tale a lungo sono separati dal resto
del mondo da barriere naturali, quali le montagne della Svizzera o
dell’Etiopia, le montagne e le giungle della Bolivia o del Paraguay o l’alto-
piano del Tibet. Questi Stati hanno goduto di un isolamento maggiore persi-
no rispetto a quelli insulari: a causa della loro difficile morfologia, le vie di
comunicazione e di trasporto li hanno evitati, consentendo loro di formarsi
e si sopravvivere come entità separate.
A causa degli ovvi svantaggi della mancanza di sbocchi al mare, sem-
bra ragionevole concludere che tale situazione non sia normale, a meno
che la natura non abbia creato barriere pressoché insormontabili. In caso
contrario, se lo Stato è abbastanza forte finirà con il conquistarsi uno sboc-
co al mare, come ha fatto la Serbia e come la Bolivia e il Paraguay stanno
ancora cercando di fare; se viceversa è debole, sarà assorbito o spartito dai
suoi vicini, come l’Arcadia, l’Armenia, la Transilvania e l’Etiopia. Nei pros-
simi decenni, quanto accadrà alla Cecoslovacchia e all’Ungheria potrebbe
convalidare o meno questa ipotesi.
Gli Stati insulari sono altrettanto rari quanto quelli senza sbocco al ma-
re. A questa categoria appartengono solo due grandi potenze, la Gran Bre-
tagna e il Giappone; i Dominions di Australia e Nuova Zelanda, la Repub- 287
GEOGRAFIA E POLITICA ESTERA

blica filippina, di recente formazione, e i nuovissimi Stati americani di Cu-


ba, Portorico, Santo Domingo e Haiti, di cui gli ultimi due non sono insula-
ri in senso stretto, in quanto si spartiscono la stessa isola. Un esame della
storia aggiunge alla lista uno Stato importante, Creta, e le due nazioni mi-
nori delle Hawaii e di Samoa.
Prima dello sviluppo dell’aviazione, la difesa degli Stati insulari richie-
deva esclusivamente il mantenimento di una marina militare. Essi furono
strategicamente sicuri finché la navigazione rimase a uno stadio arretrato
di sviluppo e, in seguito, finché furono in grado di mantenere una supre-
mazia marittima. Rispetto ai loro vicini del continente, la Gran Bretagna e
il Giappone sono stati invasi raramente. Tuttavia, gli Stati insulari situati in
prossimità della terraferma affrontano un problema di difesa completa-
mente diverso da quelli ala cui barriera oceanica è più ampia. La possibilità
di un’invasione dalla sponda opposta rappresenta una minaccia costante:
essi debbono pertanto mantenere forze navali sufficienti a respingere qual-
siasi attacco, oppure prendere essi stessi il controllo della sponda opposta.
Vi sono rilevanti analogie nella posizione regionale della Gran Breta-
gna e del Giappone, ai due estremi opposti del continente eurasiatico, e per-
tanto vi sono alcune rilevanti analogie nei loro problemi strategici fonda-
mentali. Entrambe gli Stati consistono di gruppi di isole vicine alla terrafer-
ma e sono in grado di controllare l’accesso all’oceano dalla sponda opposta,
per mezzo della loro supremazia navale. Tuttavia, essi sono anche sottopo-
sti a una continua minaccia dalla sponda opposta, qualora vi i stabilisca
una potenza militare. Per lungo tempo, la Gran Bretagna garantì la pro-
pria sicurezza occupando una considerevole area della terraferma conti-
nentale; in seguito si accontentò di teste do ponte; infine, risolse il problema
con la creazione e il mantenimento di due Stati-cuscinetto, l’Olanda e il
Belgio, e con una politica di conservazione dell’equilibrio tra le grandi po-
tenze continentali. Il Giappone affrontò questo problema solo molto più tar-
di, in parte perché la sua tipografia lo distoglieva dalla terraferma nel perio-
do in cui le tecniche di navigazione erano più rudimentali, e in parte per-
ché per molto tempo sulla costa del continente non vi fu nessuna unità poli-
tica in grado di costituire un’effettiva minaccia. Alla fine del XIX secolo,
quando la Russia cominciò a spingersi verso sud alla ricerca di porti non
sbarrati dai ghiacci, minacciando di acquisire il controllo della Manciuria
e della Corea, e quando, nello stesso periodo, la Cina avviò il suo primo ten-
tativo di occidentalizzazione, iniziando quindi il processo che aveva reso
forte il Giappone, si prospettò una situazione morfologicamente simile a
quella della Gran Bretagna nei secoli XIV e XVI.
Il pensiero militare giapponese, che concepisce gli scenari internaziona-
li in termini prevalentemente strategici, sembra deciso a cercare di risolvere
questo problema riproducendo artificialmente la situazione della Gran Bre-
tagna nel XIX secolo. La Cina settentrionale dovrebbe svolgere la stessa fun-
zione del Belgio e io Manciukuo quella dell’Olanda; quest’ultimo, per poter
svolgere adeguatamente la propria funzione, dovrebbe espandersi, occu-
288 pando le province marittime dell’Urss.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

L’interessante interrogativo che sorge nei riguardi di tale politica, ispi-


rata alle principali direttrici della politica estera britannica, è se il problema
sia stato definito correttamente in termini storici. Le unità statuali europee
che svolgono la funzione di Stati-cuscinetto sono state create prima del sor-
gere del nazionalismo moderno; quelle dell’Estremo Oriente, invece, vengo-
no create solo dopo che il senso di unità nazionale ha preso saldamente pie-
de in Cina. Svilupperanno un senso di differenza nazionale e una propria
identità nazionale? In caso contrario, dovranno essere soggette a controllo
militare permanente, a un costo economico notevole. Può darsi che ciò si
renda comunque necessario per permettere al Giappone di raggiungere
obiettivi diversi da quelli prettamente strategici ma, a prescindere dai muta-
menti introdotti da questi altri fattori, non sorprenderebbe che l’Estremo
Oriente si fosse avviato verso un conflitto paragonabile alla guerra dei Cen-
to Anni. In conclusione, a meno che gli Stati con questa caratteristica – l’in-
sularità non garantisce più loro la difesa quasi perfetta che offriva in passa-
to. Come gli Stati privi di sbocco al mare, essi hanno il vantaggio di dover
perseguire un solo tipo di difesa e di usufruire della protezione parziale of-
ferta dalle barriere naturali, senza peraltro subire l’isolamento e i conse-
guenti svantaggi economici e sociali causati dalle barriere terrestri. Se sono
deboli, tendono a essere conquistati o quantomeno controllati da una gran-
de potenza, come è accaduto alla maggior parte delle isole del mondo. Se
invece sono sufficientemente forti da affermare e mantenere per un certo
periodo di tempo la propria indipendenza, la posizione insulare tende a of-
frire loro vantaggi commerciali e una forza navale che può alla fine elevar-
li al rango di potenze di prima classe.
La grande maggioranza degli Stati ha confini sia terrestri che maritti-
mi. A meno che la frontiera terrestre consista in una barriera naturale in-
sormontabile, o che la costa sia perennemente ricoperta dai ghiacci, essi
debbono disporre di forze sia terrestri che navali. Che il problema di difesa
primario di uno Stato sia terrestre o marittimo, e che i contatti con gli Stati
vicini si svolgano prevalentemente via mare o via terra dipenderà da vari
fattori, quali la lunghezza dei confini, la posizione geografica mondiale e
regionale, la topografia e il clima.
L’esistenza di buoni porti naturali favorirà lo sviluppo di attività marit-
time commerciali e militari, mentre, se la costa non ne offre, i contatti via
terra tenderanno a prevalere rispetto a quelli via mare. Il tipo di costa che
maggiormente facilita lo sviluppo commerciale è quella irregolare, ricca di
insenature e con molte isole antistanti; è di scarsa rilevanza che essa sia
montagnosa o piatta, purché offra buoni porti. Le città fenicie, minacciate
dall’entroterra da attacchi babilonesi, ittiti e assiri, trovarono una relativa
sicurezza lungo il litorale del Libano, abbastanza vicino alla strada pede-
montana per consentire loro di partecipare ai traffici commerciali e abba-
stanza lontano da essa per garantirne la sicurezza. La costa fenicia aveva
buoni porti, il Libano produceva legno di cedro per la flotta, mentre gli altri
prodotti erano troppo scarsi per incoraggiare un’economia agricola. La Fe-
nicia divenne pertanto la maggiore potenza marittima dell’epoca, a diffe- 289
GEOGRAFIA E POLITICA ESTERA

renza dei suoi vicini, gli ebrei, la cui ampia striscia di terreno fertile e la
cui costa priva di porti naturali li avevano resi da tempo una popolazione
agricola della terraferma. L’Egeo, ricchissimo di porti naturali, insenature e
isole, è una regione ideale per l’attività marittima e nell’antichità ha dato
origina a una serie di potenze navali; le coste montuose e irregolari della
Norvegia, della Dalmazia, della Cina meridionale e della penisola di Rio
hanno fatto sì che gli abitanti di queste zone eccellessero nell’arte della na-
vigazione. La sponda settentrionale della Manica – quella inglese – che, con
i suoi molti magnifici porti, quasi costringe i propri abitanti a cercare fortu-
na in mare e il resto del mondo a servirsi delle sue strutture portuali, con-
trasta fortemente con quella meridionale in cui, con l’eccezione di Le Ha-
vre, la Francia ha dovuto investire molto tempo e denaro, pur con scarso
successo, per creare porti artificiali laddove la natura non ne aveva formati
di naturali. Analogamente, la sponda orientale dell’Adriatico abbonda di
buoni porti, mentre la costa orientale italiana ne è quasi del tutto priva.
Tuttavia non basta che un paese abbia buoni porti naturali e una buo-
na linea costiera perché vi si sviluppino l’arte della navigazione e l’interesse
per il mare: è necessario che vi sia anche una costa opposta, attraente e non
eccessivamente distante o – ancor meglio – isole con le stesse caratteristiche.
I paesi in cui tale condizione non si verifica sono sempre rimasti ad uno
stadio di arretratezza nella tecnica della navigazione, ebbene le loro coste
si prestassero allo sviluppo marittimo. L’Africa, l’Australia, l’America meri-
dionale e persino quella settentrionale, ad eccezione del Golfo del Messico,
ne sono esempi. Al contrario, la Norvegia, l’Olanda, la Grecia, la Cina me-
ridionale e i mari del Sud, in cui le isole e le coste prospicienti erano tali da
attrarre i loro abitanti verso il mare, hanno dato i natali ai più grandi na-
vigatori della storia.
Dunque, per quanto la topografia e il clima abbiano un ruolo impor-
tante nello sviluppo delle attività marittime, è probabilmente la posizione re-
gionale a determinare l’interesse per il mare. La Grecia era una terra di
transito tra due mari. La Fenicia, come in seguito Genova e Venezia, erano
centri di accoglimento e di reimbarco di beni in transito da e verso l’Orien-
te. Venezia, situata in una laguna ben protetta e con alle spalle le fertili pia-
nure del Brenta, del Po e dell’Adige, incluso il Tirolo, era il punto di trasfe-
rimento di merci dirette a sud, oltre gli Appennini, verso Roma e, attraverso
l’Adriatico, fino al Mediterraneo orientale. La città aveva inoltre la buona
sorte di non essere soggetta alle incursioni arabe che affliggevano Genova,
sebbene dovesse subire le costanti aggressioni dei pirati della costa dalmata.
In seguito, con lo spostarsi del baricentro della città verso nord-ovest, fu ine-
vitabile che Venezia dovesse cedere a Marsiglia il posto di primo porto del
Mediterraneo, poiché le comunicazioni da Marsiglia risalgono la valle del
Rodano fino allo spartiacque della Manica e del Mare del Nord, nel cuore
stesso della moderna Europa industriale.
Non solo la configurazione dei confini marittimi di uno Stato ma an-
che quella dei suoi confini terrestri predeterminano l’importanza relativa
290 delle sue attività terrestri e marittime. Se i suoi confini terrestri – come quelli
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

della Norvegia, del Cile e della Spagna, per esempio – consistono in una ca-
tena montuosa pressoché invalicabile, esso sarà indotto a gravitare sul ma-
re per i propri contatti. Se invece, come accade per la Francia e la Germa-
nia, può muoversi con altrettanta facilità attraverso i confini terrestri e
quelli marittimi, godrà da un lato del vantaggio di disporre di più vie di
commercio e comunicazione ma, dall’altro , dovrà affrontare un ulteriore
problema di difesa. E se ancora, come nel caso della Russia, le sue coste non
offrono facile accesso al mare aperto, tenderà a trovare il proprio posto tra
le potenze terrestri, per quanto possegga coste estese per migliaia di miglia.
Agli esordi della storia dell’organizzazione politica, sorsero numerosi
staterelli costieri di diverso tipo geografico; alcuni situati in piccole valli co-
stiere, come Atene; altri sul delta di un fiume, come l’Egitto; altri ancora su
una striscia di terra lungo la costa stessa, come la Fenicia (500).
Questi esempi – e quelli citati non ne sono che una piccola parte – si ri-
feriscono quasi tutti alla storia antica, a quella medievale o tutt’al più agli
albori della storia moderna. Essi rappresentano una categoria arcaica, in
quanto, nel tempo, tali Stati si espandono nell’entroterra, ottenendo maggio-
re profondità, oppure vengono inghiottiti da Stati continentali in cerca di
sbocchi al mare. Gli Stati di questo tipo a tutt’oggi esistenti sono più vasti e
si sono conservati grazie alla loro particolare morfologia o a causa della lo-
ro funzione di Stati-cuscinetto. Il Perù e il Cile sono protetti dai loro confini
terrestri montuosi, mentre l’Olanda e il Belgio vivono sotto la protezione
della Gran Bretagna. L’Ecuador rimane un’entità statale indipendente per-
ché nel suo entroterra non vi sono Stati in cerca di sbocco al mare, e l’Uru-
guay si guadagna il diritto all’esistenza grazie alla sua funzione di Stato-
cuscinetto tra il Brasile e l’Argentina. Il minuscolo Stato africano della Libe-
ria sopravvive come una sorta di protettorato delle grandi potenze, mentre il
Portogallo ha a lungo subordinato la propria politica estera al suo alleato,
la Gran Bretagna. La sorte di Stati costieri di recente formazione, come l’Al-
bania e i tre Stati baltici di Lettonia, Lituania ed Estonia, deve ancora deter-
minarsi, ma agli occhi del geografo essi appaiono un evidente anacronismo
nell’evoluzione della tipologia statuale geografica, mentre a qualsiasi storico
risulta difficile studiare una carta geografica dell’Europa senza convincersi
che, prima o poi, la Russia si spingerà verso il Baltico e li annetterà una se-
conda volta.
Gli Stati sopra citati presentano la caratteristica, comune ad alcuni al-
tri Stati più grandi, quali l’Argentina, il Brasile, il Venezuela, la Romania e
la Persia, di avere accesso a un solo mare. Tale situazione semplifica il pro-
blema della difesa marittima, in quanto permette una concentrazione di
unità navali irrealizzabile per paesi con più di un fronte oceanico. Tutta-
via, nei casi della Romania e della Bulgaria, tale condizione si traduce in
un netto svantaggio, poiché il mare su cui si affacciano non offre sbocco
all’oceano aperto e le lascia così alla mercé della potenza – o potenze – che
controllano gli Stretti.
Gli Stati che si affacciano su più mari, come la Francia, la Spagna e in
modo particolare gli Stati Uniti, il Canada e la Russia, le cui coste sono inol- 291
GEOGRAFIA E POLITICA ESTERA

tre molto lontane tra loro, si trovano in teoria ad affrontare il problema di


difesa più difficile, in quanto debbono mantenere non solo forze terrestri
ma anche due o più flotte. Il doppio accesso al mare, in aggiunta all’esisten-
za di confini terrestri, può inoltre creare importanti deviazioni rispetto alla
principale linea di espansione. Nel corso dei secoli XVII e XVIII, e persino
all’inizio del XIX, quando la Francia possedeva grandi colonie nel conti-
nente nordamericano, essa tentò di affermarsi quale potenza marittima
atlantica; dopo la perdita delle sue importanti colonie americane, essa tra-
sferì le proprie attività navali principalmente nel Mediterraneo, nel quale è
per essa assolutamente essenziale mantenere il controllo delle vie di naviga-
zione tra la metropoli e le colonie nordafricane. Tuttavia, il suo approccio
all’Africa occidentale è stato di tipo terrestre, piuttosto che marittimo; inol-
tre, finché esisterà una potenza di prima classe al di là del Reno, e finché il
confine terrestre orientale rimarrà il suo punto più vulnerabile, la Francia
continuerà ad essere una potenza prevalentemente continentale, il cui pen-
siero militare si sviluppa in termini di attacco e di difesa terrestri.
La Germania si è sempre trovata in una posizione strategica difficile. È
esposta ad attacchi di tipo terrestre contro i suoi confini orientali e occiden-
tali, e la Gran Bretagna può precludere l’accesso all’oceano sbarrando la
Manica e il Mare del Nord. Nei primi quindici anni della sua esistenza, do-
po il 1871, la Germania non fece nessun tentativo di divenire una potenza
marittima e concentrò tutte le proprie energie sulle forze terrestri. Nei
trent’anni seguenti, esitò tra un orientamento continentale e uno maritti-
mo, tentando di affermarsi come potenza marittima senza sacrificare la
propria posizione dominante sul continente. Non essendo in grado di soste-
nere simultaneamente attacchi terrestri, navali e aerei, nel corso della pri-
ma guerra mondiale, essa perse la supremazia su tutti i fronti e venne com-
pletamente privata dell’esercito, della marina e dell’aeronautica. Oggi, la
Germania sta ricostruendo tutte e tre le componenti della propria difesa,
ma ha limitato per trattato la propria flotta a un tonnellaggio pari al 35%
della marina britannica: ciò indica che, per il momento, l’orientamento ter-
restre sostenuto nel Mein Kampf (501) costituisce il perno della sua politica
estera. È interessante notare che, nel corso degli ultimi sette secoli, la costa
tedesca è diminuita costantemente, come rivela in modo evidente la seguen-
te tabella (502):

Anno Lunghezza della costa (Km)

1240 5.100
1370 3.700
1850 2.400
1900 1.355 (escluse le colonie)
1925 1.120

292 Già a un primo sguardo, l’Italia sembra destinata al ruolo di potenza


OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

marittima, quale in effetti essa è se vuole avere accesso ai mari aperti e


quindi a fonti di approvvigionamento straniere, delle quali ha grande ne-
cessità. I suoi confini terrestri non sono tuttavia tanto ben protetti come po-
trebbe apparire ad un esame superficiale, ed essa non è quindi del tutto li-
bera di concepire la propria difesa in termini esclusivamente navali. Nel pe-
riodo della Triplice Alleanza, essa risolse il problema alleandosi al proprio
più pericoloso vicino terrestre e, dopo il 1920, ricercò la soluzione nel con-
servare uno Stato debole lungo la propria frontiera terrestre più vulnerabile,
in modo da potersi concentrare sull’affermazione della propria supremazia
navale nel Mediterraneo – un obiettivo che essa giustamente considera indi-
spensabile al proprio futuro sviluppo quale grande potenza. Con la sparizio-
ne dell’Austria, la politica di espansione della potenza marittima renderà
nuovamente necessario un accordo con il più forte vicino continentale,
questa volta la Germania.
La Russia, la cui sosta è lunga molte miglia, è sempre appartenuta al
novero delle potenze terrestri. Nonostante i suoi costanti e reiterati sforzi mi-
litari e diplomatici per raggiungere sbocchi al mare, i porti russi anche solo
parzialmente liberi dai ghiacci sono pochissimi. Questa situazione parados-
sale, in cui le sue molte miglia di costa non assicurano uno sbocco al mare,
conferisce alla Russia il vantaggio negativo di essere esposta ad attacchi dal
mare solo in pochi punti, nessuno dei quali pericolosamente vicino ai centri
nevralgici della sua industria. D’altra parte, essa è molto vulnerabile via
terra. Pertanto, sebbene la sua sconfitta nella guerra russo-giapponese si sia
verificata principalmente sul mare, essa progetta e probabilmente conti-
nuerà a progettare la propria difesa soprattutto in termini continentali.
Una curiosa anomalia è costituita dalla Cina. Essa ha una lunghissima
costa ed è stata un tempo una potenza marittima di importanza considere-
vole, in grado di sostenere una guerra navale e di inviare ingenti spedizio-
ni fino alle lontane isole di Sumatra e Giava. Oggi, tuttavia, essa non lo è
più, sebbene vi sia ancora una considerevole attività marittima nella Cina
meridionale. Il motivo principale del suo orientamento continentale, natu-
ralmente, risiede nel fatto che, fino a tempi recenti, il pericolo di invasione è
quasi sempre venuto da terra. Altri fattori che concorrono a questa situazio-
ne sono la sua posizione mondiale, lo sviluppo relativamente tardo dei com-
merci marittimi attraverso il Pacifico e l’arretratezza tecnologica. Ne conse-
gue che la Cina attualmente non ha una flotta militare, sebbene una delle
maggiori potenze marittime del mondo disti solo cinquecento miglia dalle
sue coste.
Nel Nuovo Mondo, gli Stati Uniti, nonostante le loro oltre quattromila
miglia di confini terrestri, sono inequivocabilmente una potenza marittima.
Il loro territorio, e ancor di più la loro popolazione, rappresentano di gran
lunga le porzioni maggiori del territorio e della popolazione dell’intero con-
tinente. Solo diciotto milioni dei due miliardi di stranieri del mondo sono
raggiungibili dagli Stati Uniti per via ferroviaria. Le comunicazioni, persino
con il Sudamerica, che è collegato via terra alla parte settentrionale del con-
tinente, si sviluppano prevalentemente per mare. I confini terrestri sono si- 293
GEOGRAFIA E POLITICA ESTERA

curi e la posizione degli Stati Uniti rispetto ai loro contatti stranieri somiglia
a quella di un’isola; di conseguenza il fondamento della loro difesa è la
marina militare, più che l’esercito. Nonostante la possibile debolezza strate-
gica insita nel doppio accesso al mare, gli Stati Uniti hanno sempre teso a
procurarsi accesso a più di un mare a causa del vantaggio, che in parte
controbilancia tale debolezza, di avere più di una via d’entrata per gli ap-
provvigionamenti, il che comporta ulteriori vantaggi economici e commer-
ciali. Quando il regno di Carlo Magno fu spartito in base al Trattato di Ver-
dun, i germani, i franchi e i lotaringi ottennero uno sbocco ciascuno su tre
mari; nel medioevo, la Bulgaria aveva sbocco sul Mar Nero, sull’Egeo e sullo
Ionio; e la Serbia di Stefano Dusan aveva sbocchi sia sull’Adriatico che
sull’Egeo. Per lungo tempo l’impero asburgico si estese dalle coste settentrio-
nali a quelle meridionali d’Europa; e fino ad oggi tutte le grandi potenze
del mondo, quasi senza eccezione, hanno avuto accesso a più di un mare.
Vi sono altri tipi di doppio accesso al mare, ciascuno dei quali imprime
determinate caratteristiche alla politica e allo sviluppo di uno Stato. Una po-
sizione peninsulare porta allo sviluppo della potenza marittima, special-
mente se i confini terrestri dello Stato in questione sono protetti da una bar-
riera naturale come l’Himalaya, i Pirenei o le Alpi. Quando i confini terre-
stri non sono protetti, come nel caso della Danimarca, in tempo di pace lo
Stato peninsulare gode del vantaggio di poter utilizzare sia le proprie rela-
zioni terrestri che quelle marittime, bilanciando le une con le altre. In tem-
po di guerra esso si trova però in una situazione strategicamente debole,
poiché è esposto ad attacchi sia terrestri che marittimi.
Gli Stati la cui politica è maggiormente influenzata dall’accesso a più
di un mare sono quelli situati su un istmo, quali il Messico, gli Stati del Cen-
troamerica ad eccezione del Salvador, la Colombia prima del 1903 e, sotto
un certo punto di vista, l’Egitto. A causa della loro posizione geografica e
della loro formazione, essi sono soprattutto Stati di transito. Se restano indi-
pendenti, ciò non è da attribuirsi tanto alla loro forza quanto al fatto che,
per ovvi motivi strategici e commerciali, nessuna delle grandi potenze può
permettere che essi cadano in completo possesso di un’altra potenza. Essi so-
no tuttavia quasi inevitabilmente dominati da un unico Stato forte, avvan-
taggiato rispetto agli altri dalla vicinanza geografica o dall’essere interve-
nuto per primo nella regione. Che tale Stato sia una potenza marittima è
scontato, poiché un istmo, per quanto sembri paradossale, riveste importan-
za più come punto di passaggio tra oceani che tra continenti.
La combinazione dei fattori già citati – posizione geografica mondiale,
posizione regionale, topografica e clima – influenza l’orientamento di uno
Stato verso la potenza marittima o quella continentale. Abbiamo già rileva-
to che le categorie pure di insularità e di mancanza di sbocco al mare si
applicano a pochi casi e che la maggior parte degli Stati appartiene a una
categoria intermedia. In essi predomina la potenza marittima, se pensano
primariamente in termini di rotte navali ed elaborano piani di difesa e at-
tacco prevalentemente in termini di marina militare. L’interesse di uno Sta-
294 to nei confronti del mare può essere espresso matematicamente dividendone
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

la superficie per la lunghezza dei suoi confini costieri. Il numero così otte-
nuto potrà rappresentare principalmente l’interesse strategico di uno Stato
nei riguardi del mare. Si può ottenere un’indicazione del significato più
strettamente commerciale del mare nella vita di un paese dividendone la
popolazione totale per il numero complessivo degli abitanti dei porti di una
certa rilevanza, determinando così in modo approssimativo la percentuale
di popolazione che presumibilmente trae i propri mezzi di sussistenza, di-
rettamente o indirettamente, dal mare. Gli Stati saranno principalmente
potenze continentali se la loro politica estera si esprime prevalentemente in
termini di rapporti condotti attraverso i confini terrestri e la loro sicurezza
viene considerata primariamente un problema di difesa terrestre. Gli imperi
dell’antichità, ad eccezione di Roma, si basavano tutti sulla potenza conti-
nentale e la loro forza era fondata sulla mobilità via terra, fatto che com-
portava il possesso delle pianure e il controllo delle vie terrestri. Gli imperi
della storia moderna, invece, sono stati tutti potenze marittime, e la loro
forza si basava sulla mobilità nei mari e sul controllo delle vie marittime.
Una delle differenze di maggior rilievo tra le potenze continentali e
quelle marittime è determinata dalla loro diversa concezione dello spazio e
della sua conquista. Una potenza marittima conquista un ampio spazio
muovendosi velocemente da un punto all’altro, spesso formalizzando il suo
controllo sull’area interessata solo dopo che il suo dominio di fatto è tacita-
mente riconosciuto da tempo. Una potenza continentale in via di espansio-
ne avanza lentamente e metodicamente, costretta dalla natura del terreno
su cui si muove a stabilire il controllo su di esso in modo graduale, salva-
guardando la mobilità delle proprie forze (503). Pertanto, una potenza
continentale pensa in termini di superfici senza soluzione di continuità che
circondano un punto di controllo centrale, mentre una potenza marittima
pensa in termini di punti e di linee di raccordo che dominano un’area im-
mensa.
Molte cosiddette riflessioni e molto spazio sono stati dedicati al problema
dei conflitti tra le potenze marittime e quelle continentali. Il geografo tede-
sco Henning afferma che tali conflitti sono piuttosto rari, ma che quando si
verificano la vittoria va quasi senza eccezione alla potenza marittima. A so-
stegno della propria tesi, egli cita le grandi vittorie navali di Salamina, Le-
panto, Trafalgar, Navarino e Tsushima, pur ammettendo che la potenza
continentale di Roma conquistò la marittima Cartagine nella prima guerra
punica (504).
In diretta contrapposizione con Henning, Mackinder sostiene la fonda-
mentale superiorità delle potenze continentali: «C’erano flotte di canoe da
guerra sul Nilo, e il Nilo era chiuso ai loro attacchi da una sola potenza con-
tinentale che controllava le terre fertili su cui esse si basavano per tutta la
lunghezza dell’Egitto. Una base insulare cretese fu conquistata da una più
grande base peninsulare greca. La potenze terrestre macedone precluse il
Mediterraneo orientale alle navi da guerra dei greci e dei fenici, privandoli
entrambi delle loro basi. Annibale attaccò via terra la base peninsulare della
potenza marittima di Roma, che fu salvata grazie a una vittoria terrestre. 295
GEOGRAFIA E POLITICA ESTERA

Cesare ottenne il dominio del Mediterraneo per mezzo di una vittoria nava-
le, e Roma ne mantenne il controllo difendendone le frontiere terrestri. Nel
medioevo, la cristianità latina si difese sul mare a partire dalla propria base
peninsulare ma, in tempi moderni, a causa dell’insorgere su quella stessa pe-
nisola di Stati contrapposti e di diverse basi di potenza marittima, tutte espo-
ste ad attacchi via terra, il dominio dei mari passò a una potenza la cui base
era meno vasta ma si trovava su un’isola – fortunatamente fertile e ricca di
carbone» (505). Nessuno mette in dubbio l’accuratezza dei fatti storici pre-
sentati da Henning e da Mackinder. Henning rimpiange, sotto il profilo in-
tellettuale, che la maggiore potenza continentale, la Russia, non si sia mai
scontrata in una guerra di rilievo con la principale potenza marittima, la
Gran Bretagna, fornendogli in tal modo un perfetto esperimento da labora-
torio a verifica della sua tesi. Sospettiamo fortemente che, se una simile trage-
dia avesse luogo, la Gran Bretagna non sarebbe in grado di conquistare in
modo efficace il controllo del vasto territorio della Russia, e che la Russia a
sua volta non sarebbe in grado di vincere una grande battaglia navale con-
tro la flotta britannica. In altre parole, ci sembra che sia Henning che
Mackinder si siano industriati ad ammassare prove a sostegno della teoria
che, quando le potenze marittime si scontrano con potenze continentali sul
mare, risultano vittoriose quelle marittime e che, al contrario, quando le po-
tenze marittime si scontrano con potenze continentali sulla terraferma, ri-
sultano vittoriose quelle continentali. Tale conclusione, non è certo troppo il-
luminante, né del tutto sorprendente. Essa conduce all’ulteriore truismo per
il quale quella delle due potenze che è più forte, al momento del conflitto, sul
teatro operativo in cui il conflitto ha luogo, ne risulterà vincitrice. (…)

(traduzione di Federica Jean)

Note
494. N.J. SPYKMAN, America’s Strategy in World Politics, New York, Harcourt, Brace, 1942.
495. N.J. SPYKMAN, The Geography of Peace, (a cura di Helen R. Nicholl), New York, Harcourt, Brace, 1944.
496. N.J. SPYKMAN, America’s…, cit., p. 460.
497. N.J. SPYKMAN, The Geography…, cit., p. 43.
498. «Geography and Foreign Policy, II», The American Political Science Review, XXXII, 2, 1938, pp. 213-236.
499. Spykman fa qui riferimento alla prima parte dell’articolo, pubblicata sul numero precedente della stessa ri-
vista, pp. 28-50.
500. Esempi di Stati situati in una valle costiera: Argo, Colchide, Valencia, Napoli eccetera. Esempi di Stati situati
su un delta di un fiume: Pegu, Cocincina, Siam, Tonchino, Firenze eccetera. Esempi di Stati situati su una
stretta fascia costiera: Cilicia, Etruria, Lazio, Mauritania e Numidia; in seguito, i territori degli svevi e dei canta-
bri nella penisola iberica e dei vandali nell’Africa settentrionale; al tempo delle Crociate, l’America Minore, il
principato di Antiochia, la contea di Tripoli, il regno di Gerusalemme e Trebisonda nel Vicino Oriente, la
Normandia, la Bretagna e la Frisia in Europa; ancora più tardi, la Dalmazia, Granada, Aragona, il Portogallo e
Genova sul Mediterraneo. Cfr. O. MAULI, Politische Geographie, Berlino 1925, pp. 213-214, e J. MÄRS, Die
Ozeane, Breslavia 1931, pp. 15-16.
501. Cfr. A. HILTER, Mein Kampf, Monaco 1933, vol. I, pp. 152-153, e vol. II, pp. 689 ss.
502. R. HENNIG, Geopolitik, Lipsia 1931, p. 97.
503. Cfr. J. MARS, Landmachte und Seemachte, Berlino 1928, pp. 8-9.
504. R. HENNING, op. cit., p. 204.
296 505. H.J. MACKINDER, Democratic Ideals and Reality, New York 1919, pp. 74-75.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

TEORIA

Che cos’è la geopolitica (IV) di Yves LACOSTE

D A alcuni decenni si stanno molti-


plicando e sviluppando fenomeni speci-
politica di questo enorme insieme. Essi
mettono in atto una strategia veramente
ficamente geopolitici, cioè le polemiche geopolitica per realizzare, sotto il loro
tra cittadini riguardo a problemi di pote- controllo, l’unità non solo religiosa ma
ri-territorio sul piano nazionale e inter- anche politica della umma, la comunità
nazionale. Nella maggior parte dei pae- musulmana: un miliardo di uomini (e
si, in particolare in tutta una parte di donne!) in un’area che si estende
d’Europa, la nazione è ancora oggi la dall’Atlantico al Pacifico, dagli Urali
rappresentazione geopolitica per eccel- all’Indonesia o al Golfo di Guinea, ma
lenza, non fosse che per i valori partico- divisa in una quarantina di Stati. Per
larmente forti di cui è caricata, soprat- superare i contrasti politici e culturali, e
tutto quando le lotte per l’indipendenza in particolare la diversità delle lingue in
sono recenti come nell’ex Unione Sovieti- seno all’umma (dove l’arabo, la lingua
ca, o sono ancora in svolgimento, come del Corano, non è parlata che da un
nell’ex Jugoslavia. quinto dei musulmani), gli islamisti in-
Tuttavia – fenomeno relativamente nuo- dicano a tutti i musulmani un avversa-
vo – in un certo numero di paesi, in Eu- rio comune, l’Occidente, grande astra-
ropa occidentale ma anche nel mondo zione geopolitica se mai ve ne è una. Es-
musulmano e in Africa, lo Stato nazio- si li chiamano a lottare contro l’Occi-
nale non è più la sola rappresentazione dente anzitutto abolendo quelle frontiere
geopolitica e si trova in concorrenza con che essi sostengono essere state tracciate
rappresentazioni molto più vaste e più in seno alla comunità musulmana per
vaghe o al contrario più ristrette e più trarre profitto dalle sue divisioni e dal
precise, anch’esse però cariche di valori. petrolio. Denunciando la tirannia e le
La diffusione di queste rappresentazioni turpitudini dei dirigenti di questi Stati,
rivali della nazione è opera di movi- giudicati illegittimi in quanto rifiutano
menti politici in cui gli intellettuali gio- di fondersi nella umma, e promettendo
cano un ruolo importante. di instaurare una società perfetta ispira-
È il caso dei movimenti islamisti che lot- ta ai comandamenti di Dio, l’interna-
tano non solo per l’applicazione della zionale islamista spera di stabilire su
sola legge coranica, la sharia, nel mon- gran parte dell’umanità un potere più
do musulmano, ma anche per l’unità duraturo di quello dell’Internazionale 297
CHE COS’E LA GEOPOLITICA (IV)

comunista. Ma i combattimenti in corso qualche decennio non sarà forse più


a Kabul e in tutto l’Afghanistan fra i di- questo il caso per un certo numero di
versi gruppi islamisti dopo la loro vittoria paesi europei, le cui prerogative inoltre si
sul regime comunista provano che invo- saranno diluite a causa dello sviluppo
care l’unità della umma non impedisce dei poteri delle istituzioni sovrannazio-
loro di speculare sui particolarismi triba- nali europee e della mondializzazione
li o sulle rivalità etniche, sollecitando dell’economia sotto la direzione delle
l’appoggio di Stati islamici e pur tuttavia grandi imprese sovrastatali.
rivali come Iran, Arabia e Pakistan.
In Europa occidentale, nell’ambito di al-
cuni vecchi Stati nazionali, l’idea stessa La geopolitica
di nazione tende a stemperarsi. I valori come approccio scientifico
che vi erano associati sembrano oggi
sorpassati. Furono in grande misura le Occorre sottolineare ancora una volta
guerre che le opposero le une alle altre a che tutte le opinioni geopolitiche che si
forgiare queste nazioni. Ora, l’oblio che affrontano o si confrontano, in quanto
ci si è sforzati di gettare sui drammi del- riferite a rivalità di poteri (ufficiali o uf-
la seconda guerra mondiale, poi la co- ficiosi, attuali o potenziali) su dei territo-
struzione della Comunità europea, ri e sugli uomini che vi abitano, sono
l’abolizione progressista delle frontiere, delle rappresentazioni caricate di valori,
la fine delle minacce esteriori che si più o meno parziali e più o meno consa-
scrutavano al di là della cortina di ferro pevolmente di parte, relativi a situazioni
– tutto ciò ha indebolito l’idea di nazio- reali le cui caratteristiche obiettive sono
ne, o almeno la rende molto meno esclu- di difficile definizione.
siva di un tempo. Di conseguenza cresce Per squalificare i rivali, alcune tesi geo-
il peso di altre rappresentazioni geopoli- politiche si proclamano scientifiche e si
tiche, come quella di «Europa» e soprat- riferiscono a «leggi» della storia, della
tutto quella di regione, a causa delle po- natura o della geografia – del tipo di
litiche di decentramento condotte dalla quelle che Ratzel aveva preteso stabilire
maggior parte dei governi, e dall’esempio fondandosi sui atti della geografia fisica,
dato dai Lander di uno Stato potente co- in particolare le forme dei rilievi e il con-
me la Repubblica federale Germania. torno delle terre e dei mari – perché esse
Certo, queste regioni sono dotate di «per- sembrano «eterne» e in grado di sfidare i
sonalità» più o meno spiccate. In certi secoli. Questo genere di discorso non de-
casi, la celebrazione dell’identità regio- riva affatto dalla razionalità, né a mag-
nale si avvicina al discorso sulla nazio- gior ragione dalla scienza, quando pre-
ne e le idee separatiste conquistano una tende di fondare un giudizio su un pre-
parte della popolazione, tanto più facil- teso rapporto diretto di casualità fra as-
mente a causa della maggiore libertà di siomi generali e una situazione partico-
espressione. lare in cui si affrontano dei poteri nel
Questo tipo di Stato, lo Stato nazionale, quadro di una complessa evoluzione sto-
compimento di una lunga storia, non è rica. Tuttavia, tali discorsi sedicenti
forse così irreversibile come lo si credeva «scientifici», come pure le tesi storiche
qualche tempo fa. Perché si possa vera- grossolanamente articolate, non sono da
mente parlare di Stato nazionale occorre prendere alla leggera, perché hanno un
che una grande parte della popolazione potere di mobilitazione considerevole.
si senta effettivamente toccata dall’idea La sola maniera scientifica di affrontare
di nazione, della sua unità e della sua qualsiasi problema geopolitico è di porre
indipendenza, e la consideri il quadro subito in chiaro, come principio fonda-
298 fondamentale della vita politica. Tra mentale, che esso è espresso da rappre-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

sentazioni divergenti, contraddittorie e coloro che sono all’opposizione (perlo-


più o meno antagoniste. meno quella del momento) che, senza
Bisogna anche tener conto del fatto che per altro accedere alle tesi dell’avversario
ciascuna di queste rappresentazioni non straniero, tengono a rimarcare la pro-
è unicamente fondata su dati spaziali e pria diversità rispetto al regime al potere.
sulla situazione presente. Ciascuna si ri- L’analisi «oggettiva» di osservatori stra-
ferisce alle situazioni e ai conflitti prece- nieri non implica che essi siano necessa-
denti, che rimontano più o meno indie- riamente neutrali. Essi sono particolar-
tro nel tempo. Queste memorie selettive mente sollecitati, e bisogna tener conto
sono evidentemente cariche di giudizi di di certe relazioni sentimentali, delle affi-
valore. Ciascuna si fonda sulla sua ver- nità ideologiche e delle somiglianze che
sione della storia, su antichi tracciati di possono esistere tra problemi di Stati di-
frontiera, su configurazioni spaziali di versi.
cui si conserva o meno la memoria, se- Certo, bisogna cercare di rendere conto
condo le necessità della causa. È il pro- nel miglior modo possibile della comples-
blema dei «diritti storici» che si riferisco- sità delle interazioni tra le molteplici
no a tale o talaltra carta o a tale o talal- rappresentazioni geopolitiche più o me-
tra descrizione di geografia storica. Una no soggettive e di taglia variabile, dalla
certa rappresentazione, ad esempio, ri- locale alla planetaria. Ma non si può
posa sui «tempi lunghi» per fondare i concepire la geopolitica come approccio
suoi diritti su un lontano passato. Al scientifico se non si pone come principio
contrario, i suoi avversari giocheranno i fondamentale che si tratta di analizzare
«tempi brevi» se sono loro più favorevoli. delle rivalità territoriali fra differenti tipi
Tale rappresentazione «salta» tutto un di poteri, essendo ogni territorio disputa-
periodo del passato, quello che invece to sia una posta in gioco in quanto tale,
valorizza il discorso avverso. Rari sono i per ragioni strategiche, economiche o
ragionamenti geopolitici che non fanno simboliche, sia solamente un terreno su
alcun riferimento alla storia e in cui gli cui si affrontano influenze rivali.
argomenti appaiono come unicamente Principio corollario: poiché si tratta di
spaziali. È dunque tanto più necessario analizzare delle rivalità tra un certo nu-
esaminare le ragioni storiche che indu- mero di forze, le rappresentazioni che
cono gli autori di certe rappresentazioni ciascuna di esse dà di se stessa e della si-
a tacere o a sottolineare determinati pe- tuazione sono parziali, faziose e antago-
riodi. niste, così come le loro strategie sono di-
Occorre infine sottolineare che, come i vergenti o antagoniste. Ma occorre cer-
discorsi, così le rappresentazioni geopoli- care di renderne conto in modo oggetti-
tiche non appartengono inizialmente a vo, se non imparziale.
uno Stato o a un popolo, ma a personag- Come si è potuto parlare di scienza poli-
gi o a piccoli gruppi che le hanno for- tica a partire dall’epoca in cui una plu-
mulate o inventate. Anche se in seguito ralità di attori, di movimenti, di partiti
esse sono largamente propagate e adot- concorrenti è stata presa in considera-
tate dalla grande maggioranza di una zione con l’intenzione di spiegare obiet-
nazione, esse sono anzitutto legate a uo- tivamente le loro rivalità, la geopolitica
mini politici (o a loro consiglieri), ma può essere considerata come metodo
anche ad intellettuali – spesso geografi o scientifico («scienza» sarebbe ancora pre-
storici – che esprimono, oltre agli interes- suntuoso in un campo così carico di
si dello Stato o del gruppo intellettuale contraddizioni) dal momento in cui
che servono, la loro maniera personale l’una e l’altra tesi rivale sono presentate
di vedere le cose. in buona fede e si cerca di comprenderle
Ci sono anche i discorsi dei rivali o di entrambe in profondità. 299
CHE COS’E LA GEOPOLITICA (IV)

La ragion d’essere di un simile approccio ne precisa di ciascuno di questi dati. Co-


non è solamente un desiderio di obietti- sì, la rivendicazione o la difesa delle
vità, è anche l’efficacia. È un modo di «frontiere naturali», tesi geopolitica clas-
capire o di meglio intendere ciò che ac- sica, si fonda sulla presentazione delle
cade e forse ciò che può accadere. Se è forme del rilievo; ma ciascuna delle for-
già intellettualmente gratificante osser- ze in campo sceglie come linea legittima,
vare il normale svolgimento delle rivalità fra i tracciati dei corsi d’acqua e gli
politiche sulla carta elettorale di uno spartiacque, quello che è posto più
Stato, di una grande città o di una re- «avanti», in modo da estendere il proprio
gione, diventa assolutamente necessario territorio.
essere in grado di analizzare degli scon- Lo studio delle differenti rappresentazio-
tri i cui effetti sono molto più gravi e in ni e dei diversi argomenti geopolitici de-
cui le poste in gioco sono molto più im- ve prendere in considerazione carte at-
portanti, sia per agevolare una soluzio- tuali e carte storiche che rappresentino,
ne di compromesso, sia per contribuire per una stessa porzione di spazio terre-
alla vittoria della propria causa. Ma per- stre, la ripartizione di queste diverse ca-
ché l’approccio geopolitico funzioni, oc- tegorie di fenomeni. Presa in considera-
corre un metodo di analisi. zione attenta e critica, giacché queste
carte hanno origini e significati politici.
Inoltre, in materia di geopolitica, l’uso
Intersezioni di livelli spaziali delle carte è oggetto di trucchi che sfug-
e differenti livelli di analisi spaziale gono ai non iniziati: ciascuna delle rap-
presentazioni geopolitiche che si con-
Per capire in che cosa i metodi e i ragio- frontano per il controllo dello stesso terri-
namenti geografici sono indispensabili a torio fonda i suoi argomenti sulla carta
qualsiasi analisi geopolitica, bisogna sot- che meglio le conviene, mentre la tesi ri-
tolineare che, contrariamente a un’opi- vale sceglie, senza dirlo, un’altra carta
nione assai diffusa, i fenomeni detti fisi- che rappresenta altri fenomeni e che pa-
ci non sono che una parte delle moltepli- re confortare le sue rivendicazioni.
ci categorie di fenomeni presi in consi- Queste tattiche cartografiche contraddit-
derazione dalla geografia. Certo, ciascu- torie sono rese possibili dal fatto – gene-
na di queste categorie è oggetto di una ralmente disconosciuto – che ciascuno
scienza particolare (come la geologia o dei fenomeni che isoliamo nel pensiero
la demografia). Quanto alla geografia, ha la sua particolare configurazione
essa tiene conto delle raffigurazioni spa- spaziale su una stessa porzione di terri-
ziali di tutti questi fenomeni. torio. Così la maggior parte dei differenti
Ogni fenomeno cartografabile deriva insiemi spaziali che si possono tracciare
dalla geografia, che si tratti di dati geo- su una stessa carta (o su dei calchi) per
logici e della localizzazione di giaci- rappresentare le diverse caratteristiche
menti petroliferi, del tracciato dei corsi di uno stesso territorio (risorse geologi-
d’acqua e dei rilievi, ma anche della ri- che, forme del rilievo, insiemi di vegeta-
partizione della popolazione, di una de- zione, distribuzione della popolazione,
terminata opinione politica, o della lo- ripartizione delle lingue, delle religioni
calizzazione delle attività economiche, o eccetera) ha dei limiti che non coincido-
delle frontiere in questa o quell’epoca ec- no con quelli di altri insiemi spaziali.
cetera. Ora, le differenti tesi geopolitiche Questi insiemi spaziali formano una se-
che si affrontano utilizzano ciascuna rie di intersezioni.
tale o talaltro dato geografico per prova- Ciò riveste una grande importanza in
re il loro buon diritto, ed è dunque utile materia di ragionamenti geopolitici, so-
300 avere una visione di insieme e una visio- prattutto quando si tratta di frontiere. La
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

maggior parte delle frontiere traversano ghi contorni, difficilmente definibili, ma


le intersezioni che formano i limiti dei carichi di valori particolarmente forti.
diversi insiemi spaziali. Ne sono risultati Ora, se la posta in gioco più immediata
gravi conflitti geopolitici. Basti citare del conflitto, il territorio del Kuwait, è
quello tra Francia e Germania, provoca- dell’ordine delle centinaia di kilometri, a
to in particolare dalla questione dell’Al- medio termine la posta in gioco più va-
sazia-Lorena, cioè dalla non coinciden- sta è l’insieme dei giacimenti petroliferi
za del tracciato attuale della frontiera del Golfo arabo-persico, che si estende
franco-tedesca con il limite verso ovest per un migliaio di kilometri circa.
delle lingue germaniche. E il fatto che la Per vederci più chiaro, il metodo è di clas-
frontiera Iran-Iraq, di antica data, non sificare per ordine di grandezza i molte-
coincida con l’estensione delle lingue plici insiemi di qualsiasi taglia che biso-
arabe verso est, né con l’estensione della gna prendere in considerazione – che
religione islamica sciita verso ovest, è siano geologici o religiosi – e di rappre-
una delle cause della guerra del 1980- sentare questi diversi ordini (dal locale al
’88 e può esserlo anche di un futuro planetario) come una serie di piani so-
conflitto fra questi due Stati. Ecco perché vrapposti, con per ciascuno di essi la car-
bisogna essere molto attenti a queste in- ta che mostri le intersezioni degli insiemi
tersezioni di insiemi. di dimensioni simili cartografati alla stes-
L’analisi delle intersezioni degli insiem- sa scala. È combinando i dati che ap-
mi è molto difficile quando tali insiemi paiono su ciascuno dei piani di un tale
spaziali appartengono a ordini di gran- schema, che alcuni definiscono «diatopi-
dezza molto differenti. Conviene allora co» o «multiscalare», che si potrà condurre
per comodità chiamare insiemi del pri- il ragionamento ai diversi livelli di anali-
mo ordine quelli che si misurano in de- si spaziale. Un tale approccio costituisce,
cine di migliaia di kilometri; del secondo con lo studio delle intersezioni degli insie-
ordine, quelli che si misurano in centi- mi, la forma più operativa, più strategica
naia di kilometri, e così via fino alle de- del ragionamento sui territori, cioè il ra-
cine di kilometri, ai kilometri eccetera. gionamento geografico nella sua defini-
Importa notare che nella maggior parte zione epistemologica più efficace.
dei casi, a eccezione dei deserti, più que- Così si possono avere rappresentazioni
sti insiemi sono grandi, più la loro popo- più complete e più oggettive di quelle
lazione è numerosa, e più essi sonno con- delle parti in causa. In effetti la geopoli-
cepiti, formati, a un forte grado di astra- tica, in quanto approccio scientifico,
zione; è particolarmente il caso dell’insie- non si limita all’esame delle rappresen-
me planetario definito Terzo mondo, che tazioni contraddittorie. Essa deve sfor-
conta più di 4 miliardi di individui. zarsi di costruire una rappresentazione
Non è facile articolare scientificamente più globale e molto più obiettiva delle si-
una rappresentazione formata a un for- tuazioni, per proporre soluzioni agli
te grado di astrazione, e un insieme di scontri in atto ma anche per cercare di
dimensioni ben minori è perciò molto prevedere gli scenari futuri.
più concreto. Le rappresentazioni geopo-
litiche che mescolano tutti questi insiemi
in modo più o meno vago. Così, durante Scenari geopolitici e diversi
le polemiche suscitate dalla guerra del tempi della Storia
Golfo, la causa dell’Iraq è stata spesso
presentata, a torto o a ragione, come Nell’evoluzione delle situazioni geopoliti-
quella del Terzo mondo vittima dell’at- che che occorre distinguere tempi lunghi
tacco occidentale: siamo al livello di in- e tempi brevi, riprendendo e precisando
siemi di dimensioni planetarie, dai va- l’approccio di Fernand Braudel. Alla stre- 301
CHE COS’E LA GEOPOLITICA (IV)

gua dei diversi piani sovrapposti secondo pensare che il mondo entri progressiva-
gli ordini di grandezza dell’analisi spa- mente nell’èra della geopolitica. E si trat-
ziale, è possibile differenziare le catego- ta di fenomeni geopolitici sempre più
rie dei fenomeni geologici, demografici, complessi e interdipendenti. La scompar-
economici eccetera, in funzione delle du- sa dell’Unione Sovietica come superpo-
rate e dei ritmi temporali alquanto diffe- tenza non significa la fine del confronto
renti secondo i quali essi evolvono. Essi fra grandi potenze: di fonte agli Stati
si distinguono nella lunga durata, si ac- Uniti si parano oggi il Giappone e la
cavallano e interferiscono, ma devono Germania. Le lotte per l’indipendenza,
essere tutti presi in considerazione nei dopo essersi concentrate nei paesi africa-
tempi brevi più vicini al presente. Impor- ni e asiatici alla metà del XX secolo, in-
ta poi distinguere con maggior precisio- teressano nuovamente un gran numero
ne di Fernand Braudel la categoria dei di nazioni europee. Sicché l’approccio
tempi brevi, e distinguere ciò che si mi- geopolitico è sempre più necessario a tut-
sura in mesi da ciò che si misura in ti i cittadini.
giorni e anche da ciò che si svolge Da qualche anno, un certo numero di
nell’arco delle ore, giacché i tempi bre- associazioni simpatizzanti per le cause
vissimi possono avere una notevole im- umanitarie da esse difese, hanno assun-
portanza nello svolgimento dei conflitti to come slogan l’espressione «senza fron-
attuali. I tempi lunghi sono misurati in tiere». La prima è stata Médecins sans
anni o decenni; quanto ai tempi lun- frontières, che svolge un ruolo notevole
ghissimi, si contano in secoli. in tante tragedie. Da allora, lo slogan
Così, nelle rappresentazioni geopolitiche «senza frontiere» è di moda. Checché se
dei popoli dell’Asia sud-orientale, in par- ne dica, le frontiere esistono e, se esse
ticolare dei vietnamiti, ma oggi anche tendono a impallidire in Europa occi-
degli indonesiani, un movimento ab- dentale, il diritto dei popoli a disporre di
bozzato già più di duemila anni fa è se stessi le moltiplica dolorosamente in
una delle maggiori preoccupazioni: la tutto l’Est europeo. Gli animatori della
spinta secolare degli Han dal Nord della maggior parte di questi movimenti «sen-
Cina verso quello che si può chiamare il za frontiere» sanno bene che le frontiere
Mediterraneo asiatico. esistono, visto che cercano di superarle
per fare il loro lavoro. Ora, la funzione
del ragionamento geopolitico è anche
Geopolitica e cittadini quella di un ponte che permetta di supe-
rare l’ostacolo. Facendo capire quali so-
Lo sviluppo della libertà di stampa e del- no le idee e gli antagonismi da una par-
la libertà di espressione in un sempre te e dall’altra delle frontiere, la geopoliti-
maggior numero di paesi provoca la ca aiuta a scavalcarle e, forse, a contri-
moltiplicazione delle rivendicazioni geo- buire a formare una disposizione d’ani-
politiche di dimensione locale, regionale mo che aiuti a cercare la soluzione pa-
e nazionale. cifica di alcuni conflitti.
Contrariamente a coloro che proclama- (4 – Fine)
no che il mondo si degeopoliticizza (sic)
perché la guerra fredda è finita, si può (traduzione di Tancredi Rossi)

302
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

Ehard, e si formò un governo di coalizione con la SPD e la WAV (Wirtschaf-


tliche Aufbau-Vereinigung). Spaccata tra unitaristi e patrioti, nel 1948-1949 la
CSU correva il rischio di scomparire. Muller non venne rieletto presidente
nel 1949 e lasciò il suo posto al ministro-presidente Hans Ehard, un patriota
moderato.
Il conflitto interno alla CSU riguardo al problema del federalismo e del
posto che avrebbe occupato la Baviera all’interno della Germania era forte-
mente influenzato dal rapporto concorrenziale che la CSU aveva stabilito con
la Bayernpartei (BP) sin dal 1948 (255). Fondata nel 1946 da Max Lallinger, la 171
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

tre frontiera, come testimonia un’intervista dei «prussiani orientali» con il mi-
nistro-presidente Edmund Stoiber il 13 settembre 1993 (275). Da questo pun-
to di vista, il trattato germano-sovietico del 9 novembre 1990, nel quale le
parti si impegnano a rispettare senza riserve le frontiere europee e dichiara-
no di non avanzare rivendicazioni territoriali verso chicchessia il giorno della
firma e nell’avvenire (articolo 2), non cambia nulla: l’oblast di Kalinin-
grad/Konigsberg deve essere oggetto di negoziato. 181
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

screzione su questo tema nel febbraio 1992) (286). Fatti confermati dal vinci-
tore ex comunista delle elezioni dell’ottobre-novembre 1992, Algirdas Bra-
zauskas, ostile al progetto (287). Per finire: Vilnius non ha forse esercitato
pressioni economiche sulla Russia – il 70% dell’energia della Prussia Orienta-
le (russa) passa attraverso la Lituania – cui Mosca ha replicato riducendo dei
3/4 le sue forniture di combustibile alla Lituania? E a Kaliningrad vivrebbero
100 mila lituani secondo Vilnius (20 mila secondo i russi, da 20 mila a 40 mila
secondo i polacchi). Tra loro molti ex deportati ritornati dalla Siberia, cui fu
vietato di rientrare nel loro paese. Questo contesto spiega evidentemente
perché le Edizioni Scientifiche di Lituania pubblichino delle carte nazionali
che includono «storicamente» Karaliausius (Kaliningrad) e i «territori di Litua-
nia in Prussia» fino alla colonizzazione del XVIII secolo. Vilnius è natural-
mente ostile a ogni velleità polacca di espansione nella regione (problema
della minoranza polacca in Lituania, 7% della popolazione) (288). Ma essa
teme soprattutto che i russi cedano Konigsberg alla Germania, come dichiara
pubblicamente l’ambasciatore Stasys Losoraitis a Washington (289).
Di più: dei bielorussi avrebbero anch’essi proclamato il loro interesse
per la Prussia Orientale; i traffici commerciali di Minsk passano per Kalinin-
grad, e i bielorussi vorrebbero poter dire la loro almeno sul piano economi- 183
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

seconda delle fonti; il presidente della loro associazione culturale cittadina,


Viktor Hoffmann, ne attende 200 mila (311). Quanto al presidente del grup-
po SPD alla Dieta di Dusseldorf (Renania del Nord-Vestfalia), Friedhelm
Farthmann, costui osserva, dopo un viaggio di alcuni parlamentari nella Csi,
nel settembre 1992, che il tabù di Konigsberg deve cadere (312). Sicché,
pensano i «prussiani orientali», «è chiaro: anche se la Prussia Orientale non
appartiene alla Germania, essa sarà colonizzata, lì dove mancano i coloni,
da tedeschi. D’altronde, il riferimento di appartenenza, nell’ambito dell’Euro-
pa comunitaria, perderà di importanza» (313). 187
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

chiesta da cui si ricava che il 42% degli abitanti resta favorevole a impiantare
nell’oblast i tedeschi del Volga perché se ne attendono un miglioramento
della loro situazione economica, e il 6% si pronuncia persino per il ritorno
della Germania (330). Il massimo: Elena Skvorcova, una delle migliori anali-
ste russe, in Megapolis Express. «Kaliningrad, questa striscia di terra separata
dalla Russia dai Paesi baltici, pur facendo parte della Federazione russa, illu-
stra (il fenomeno seguente, M.K.): ogni paesaggio, ogni terra muore se è pri-
vata della sua popolazione indigena, la sola capace di capirla, di amarla»
(331). Questa dichiarazione di intenti (che lascia aperta la porta a una «rina-
scita russa» di Kaliningrad) suscita scandalo. A. Terentev, membro della so-
cietà Rus della città condanna questa «pubblicazione tristemente demagogi-
ca»: «La storia dimostra che la Prussia era un tempo popolata da tribù slave,
crudelmente cacciate». Segue una denuncia delle responsabilità dei dirigenti
del Pcus nell’oblast – ossia la liquidazione della Storia. E poi: «Noi, che siamo
venuti sulla terra dell’antica Prussia da dove originano un gran numero dei
nostri principi e la dinastia dei Romanov, dobbiamo sapere che non viviamo
su una terra straniera» (332). D’altronde, una massa di lettere di protesta
inonda la Kaliningradskaja Pravda. Quanto all’ufficiale radicale Viktor Alk-
snis egli non è adattato nemmeno all’indipendenza dei Paesi baltici, né a
quella della Finlandia. Certi monarchici, per segnare pubblicamente il punto,
propongono di ribattezzare Kaliningrad in Knjazgrad – la città del principe –
insistendo così sul carattere slavo della città. (Certo Vladimir Zirinovskij, il ca- 191
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muni anche con la Cecoslovacchia e l’Ungheria, oltre che con la Polonia e la


Romania.
In quel territorio vivono, secondo i dati del censimento del 1921, poco più
di 13 milioni di persone, di cui 6.831.618 cechi e 1.968.100 slovacchi (67,6% del
totale), 3.207.213 «tedeschi» (24,7% del totale, ma oltre 3 milioni sono nei paesi
cechi, dove rappresentano il 30,6% degli abitanti), 657.646 sono gli ungheresi
(5,1% del totale, ma in Slovacchia costituiscono il 21,7%), meno dell’1% sono i
polacchi e altrettanti gli ucraini e i russi, preponderanti in Rutenia. Dieci anni
dopo, al censimento del 1930, il totale degli abitanti sfiora i 14 milioni, ma è ca-
lato dell’1,1% il numero dei «tedeschi» (356). Quando a Versailles si discute la si-
stemazione dell’Europa, dopo la sconfitta degli imperi centrali, i rappresentanti
di Praga, per affermare l’idea che i «tedeschi» sono una minoranza ricorrono a
un’invenzione: l’esistenza di una «nazione cecoslovacca». È vero, inoltre, che in-
glesi e francesi, in particolare, hanno interesse che il nuovo Stato sia vitale an-
che per poter far parte del «cordone sanitario» da stringere attorno alla Russia
bolscevica. Per cui risultano vani tutti i tentativi dei «tedeschi di Cecoslovacchia»
di vedere riconosciuto il loro diritto all’autodecisione e lo sforzo per dare vita a
uno Stato austro-tedesco, che comprenda i «sudeti» e il «loro» territorio.
Un’altra ragione, per la quale vengono disattese, anzi tradite, le attese e le
promesse di un’ampia autonomia, politica, culturale e amministrativa, per le di- 203
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?

dell’acquis, e che non avrebbe comportato la necessità di una parallela opera


di riforma complessiva delle istituzioni dell’Unione europea. Infatti, si diceva,
l’allargamento non sarebbe stato di proporzioni tali da sconvolgere gli equili-
bri numerici dell’Unione, che sarebbe passata da dodici a sedici Stati membri
e da 320 a 350 milioni di abitanti, e che soprattutto non avrebbe visto grossi
problemi di convergenza tra paesi già abituati a convivere tra di loro.
In questa logica a Lisbona si individuava nella Conferenza intergoverna-
tiva del 1996 lo spartiacque per il futuro dell’equilibrio politico e istituzionale
dell’Unione. Si poneva infatti la necessità che alla Conferenza stessa parteci-
passero, ormai come membri di pieno diritto, i paesi dell’Efta e che in quella
sede si stabilissero le linee di una riforma generale che rendesse possibile un
futuro in cui dell’Unione potessero far parte anche altri paesi ormai da tem-
po candidati all’adesione e che per le loro caratteristiche geografiche econo- 211
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bria ma soprattutto al fatto che le forze della Sao-Krajina non potevano più
usufruire dell’appoggio in profondità costituito dalle milizie reclutate nei vil-
laggi serbi, fattore che aveva permesso nei mesi precedenti il blocco delle
vie di comunicazione e il rapido isolamento delle guarnigioni croate, causan-
do la loro sconfitta.
Dalmazia meridionale. L’apertura di un secondo fronte in Dalmazia,
l’offensiva federale verso Dubrovnik, considerata dai media occidentali
un’impresa di stampo terroristico, rispondeva invece a diverse esigenze di
carattere geostrategico e politico. Era finalizzata in primo luogo all’occupa-
zione della penisola di Prevlaka e della regione di Konavli, che avrebbe con-
sentito sia la protezione del lato nord della baia di Cattaro, dove era situato
l’unico porto militare rimanente alla futura federazione serbo-montenegrina
dopo l’indipendenza della Croazia, sia, in previsione della secessione dell’et- 245

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