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ne mondiale. Il 42% dei tedeschi, il 27% dei giapponesi e il 26% dei britanni-
ci (contro, evidentemente, l’8% degli americani, che non hanno sperimenta-
to sul loro territorio gli orrori degli ultimi due conflitti mondiali) temono una
guerra. Ancora: solo il 33% dei giapponesi è favorevole a inviare truppe Onu
nelle aree «calde», mentre rifiuta di concedere fiducia all’America in quanto
gendarme del mondo e non vorrebbe essere implicato a sua insaputa in
un’impresa militare che non coinvolga direttamente gli interessi nipponici. Il
50% dei giapponesi e il 38% dei tedeschi («protetti» dalle formule giuridiche)
respingono la partecipazione delle loro forze armate a interventi all’estero.
Peggio: il 22% dei giapponesi (salgono al 34% fra i giovani dai 20 ai 29 an-
ni) crede che gli Stati Uniti potrebbero scatenare la prossima guerra mondia-
le. Contro lo «spirito del tempo» si schiera Samuel P. Huntington in un saggio
apparso l’estate scorsa su Foreign Affairs, «The Clash of Civilizations?», che ha
fatto molto rumore, in Occidente e altrove. Questo celebre scienziato della
politica, sorta di incrocio fra Pico della Mirandola e Hegel, mosso dal furioso
anelito di dominare intellettualmente il mondo, opera di fatto come i grandi
sapienti di fine Ottocento: la Storia, dal medioevo alla modernità, sarebbe
governata da Leggi generali di cui gli insiemi spaziali più o meno estesi costi-
tuirebbero il campo d’applicazione.
Qui Huntington convoca il concetto di civiltà. Esso ha per funzione, per
esempio, di stabilire la sintesi oppositiva «Giappone contro Occidente», data
una volta per tutte e nel disordine dei fatti linguistici, «etnici», religiosi. Inol-
tre, esso è deputato a spiegare, ad esempio, tutti i conflitti che hanno opposto
cristiani e musulmani nel corso dei secoli, dalla battaglia di Poitiers (732),
che Huntington sposta «logicamente» a Tours (che saranno mai cento kilome-
tri agli occhi del demiurgo?), alla guerra del Golfo. Infine, tale concetto è in-
caricato di inglobare allo stesso titolo tanto l’umma musulmana – dall’Indo-
nesia al Marocco – che il territorio dell’Unione indiana o ancora un focolaio
di crisi come la Bosnia. Insomma, il «pensiero-mondo» di Huntington è quel-
lo dei geografi politici del secolo scorso: ignora la complessità e si colloca riso-
lutamente agli antipodi della geopolitica. Non stupisce che questo testo abbia
riscosso successo in certi ambienti. Giacché esso conforta ideologicamente co-
loro che sognano un Occidente-bastione, solidamente protetto da un immen-
so limes contro le aggressioni militari, commerciali o migratorie. In tale ...
trovano posto, al più, alcune marche di ... in via di occidentalizzazione –
improbabile secondo il loro stesso punto di vista – come il Messico, oppure de-
gli empori-rifugio nel bel mezzo di un ambiente ostile, tipo Singapore. La
guerra prima della guerra, dunque. O meglio: the West versus the Rest.
tri europei non sono consultati) si mostrano fiduciosi verso i tedeschi. Ciò ri-
vela come il trauma del 1939-’45 travagli tuttora in profondità le nostre me-
morie collettive. È d’altronde questa la ragione del revival della teoria del ca-
rattere nazionale (Volkerpsychologie), ossia della pseudo-analisi delle na-
zioni in quanto espressione di caratteri peculiari, metastorici (genetici?). Ne
sono recente testimonianza, a proposito di Germania, le interviste di Marga-
ret Thatcher sulla riunificazione tedesca, impregnate di germanofobia.
E tuttavia, i fatti sono testardi. Al tempo dell’unificazione, molti tedeschi
hanno chiaramente percepito la forte reticenza dei loro alleati francesi e bri-
tannici – molto meno, è vero, nel caso degli americani – quando pure i trat-
tati del 1952-’54 con la RfG impegnavano formalmente i vincitori occidenta-
li a sostenere senza riserve l’unità della Germania. Non stupisce quindi che
una parte oggi minoritaria del popolo tedesco, spesso iperconservatori o estre-
misti di sinistra, ponga ormai il problema dell’appartenenza della RfG a un
qualsiasi blocco. Secondo costoro, la professione di fede occidentale imposta
dopo la guerra alla Germania di Bonn – riabilitata dal renano Adenauer
perché trasformata in avamposto dell’Ovest – dopo la scomparsa dell’Est non
ha più ragion d’essere. Essi reclamano per la loro nazione ritrovata un di-
battito esplicitamente geopolitico volto a definire gli interessi nazionali. È il
caso della discussione su «What’s right?», lanciata dalla Frankfurter Allgemei-
ne Zeitung, il più conosciuto quotidiano tedesco.
Chi fuori della Germania vuole interrogarsi sull’Occidente deve dunque
accettare che questa discussione si sviluppi anche fra i tedeschi. Tale elabora-
zione è per ora essenzialmente confinata entro un’ideologia neoconservatri-
ce che non esprime nulla di nuovo. Ma non interrogarne geopoliticamente i
protagonisti, non portarli a esplicitare i propri progetti, significherebbe favo-
rire e subire l’emergere discreto ma sempre più influente, in Germania, di
un’altra geopolitica.
L’Oriente è l’Oriente,
e l’Occidente è l’Occidente,
e i due non si incontreranno mai»
Rudyard Kipling
sul rapporto con l’altro notiamo che esiste un’ambiguità relativa alla defini-
zione del concetto di Occidente, e, di conseguenza, una diversità di opinioni
sulle prospettive di questo rapporto. È questo il motivo per cui non è facile
definire esattamente le differenti posizioni arabo-islamiche nei confronti
dell’Occidente. Pur avendo il concetto di Occidente una forte connotazione
geografica, in quegli scritti esso perde sempre più questo significato. Di fatto,
esso finisce per essere completamente marginalizzato, se non ignorato, per
essere sostituito da altre dimensioni, politiche, economiche, religiose o, in
ogni caso, riferite all’aspetto culturale. L’evoluzione storica dell’Occidente ha,
a suo modo, contribuito a questa messa in disparte del fattore geografico.
Intendiamo come Occidente l’insieme geopolitico che va dall’America del
Nord sino alla Russia passando attraverso l’Europa. Il che coincide con la for-
mula occidentale: «Da Vancouver fino a Vladivostok», o con l’espressione usata
dall’ex presidente americano Richard Nixon: «Dalla California alla Kamcatka».
Una definizione che non include il Giappone, perché essenzialmente ba-
sata sul fattore di comune appartenenza alla stessa civiltà. L’America Latina
può considerarsi integrata all’Occidente anche se, dato che l’Occidente corri-
sponde grosso modo all’emisfero nord, non ne fa propriamente parte. Riguar-
do all’Oriente, sarebbe invece meglio sostituire questa definizione con quella
di mondo arabo-islamico. Quando in questo articolo ci riferiamo all’Oriente
intendiamo l’Oriente arabo-islamico in contrapposizione all’Occidente euroa-
mericano. Da un punto di vista generale, l’Occidente e il mondo arabo-islami-
co sono intesi come due blocchi geopolitici i cui interessi sono conflittuali.
I panarabisti
L’idea centrale sulla quale si articola la concezione dei panarabisti o na-
zionalisti arabi al-qawmiyyun al-arab è quella del complotto occidentale
contro la nazione araba. Un’idea che ricorre frequentemente nella loro lette-
ratura. Anche se i nazionalisti arabi non escludono il fattore religioso, questo
non vi assume un peso preponderante. Ma il concetto panarabista di Occi-
dente che cosa include?
Al pari delle rappresentazioni di cui abbiamo precedentemente parlato,
la concezione panarabista è complessa e totalizzante. I nazionalisti arabi as-
sociano infatti la Russia all’Occidente e considerano i due ex blocchi ideolo-
gici (Est e Ovest) come un’unica entità: l’Occidente. D’altra parte, per la pri-
ma volta nella storia si constata l’esistenza di un Occidente unito contro il re-
sto del mondo (10). E in effetti i due ex blocchi ideologici sono avvertiti co-
me due fronti di un unico blocco (11). Il fatto che la Russia faccia parte
dell’Occidente non è una conseguenza diretta della guerra del Golfo e del 19
GLI ARABI E L’OVEST: METTETE IN SOFFITTA LE CROCIATE
plesso di superiorità dal punto di vista della civiltà che l’Occidente nutre nei
confronti dell’Oriente. È questo il motivo per cui l’Occidente è considerato
come una fonte permanente di pericolo. Tale complesso di superiorità sul
piano della civiltà trova larghissimo spazio nella letteratura orientale. Come
osserva Edward Said, «in modo costante, la strategia orientale deve fare i
conti con la superiorità che permea, anche se non rigidamente, ogni genere
di rapporto fra esso e l’Oriente» (14). Al complesso di superiorità occidentale
corrisponde un complesso di inferiorità orientale. Come nota Habachi, «l’Oc-
cidente è ormai prigioniero del suo complesso di superiorità e noi, obbligati
dalle scelte politiche del XIX secolo, la mai risolta Questione d’Oriente, e
dalla globalizzazione dell’universo, a vivere a contatto con esso, diventiamo
preda del nostro complesso di inferiorità» (15).
La chiave di lettura basata sul livello di civilizzazione tende ad accomu-
nare la Russia al mondo occidentale. «Il complesso di superiorità – scrive an-
cora Habachi – è comune all’Est quanto all’Ovest. (…) Ad Est come ad Ove-
st, vicini o lontani, si scivola nello spirito colonialista. (…) La cultura russa
presenta un aspetto comune con quella occidentale: il trionfo della tecnica.
Sputnik e Pioneer si muovono sul cielo sopra di noi per ricordarci che la
scienza dell’Est e dell’Ovest ha prodotto nuovi pianeti che simboleggiano la
frontiera che li separa dalla nostra incapacità produttiva» (16).
Si deve riconoscere che il fattore religioso è presente anche in tutte que-
ste diverse rappresentazioni, sia pure con una maggiore enfasi in talune di
esse. Allo stesso modo, l’aspetto storico è un altro fattore che le condiziona
largamente.
fronto con l’Occidente. Persino gli intellettuali francofoni del Maghreb, per
molto tempo considerati dai loro compatrioti come «la quinta colonna della
Francia», hanno assunto posizioni antioccidentali. Segno questo della lacera-
zione che questa guerra ha in loro prodotto. Dobbiamo quindi constatare
che, nelle analisi della guerra del Golfo, ha prevalso un’interpretazione basa-
ta sul binomio civiltà-identità.
Ma perché questa lettura del conflitto in chiave di scontro tra civiltà? Per
rispondere a questo interrogativo bisogna porsene un altro: che cosa rappre-
senta l’Iraq per gli arabi? Solo partendo dalla risposta che potremo dare a
questa domanda riusciremo a spiegare molti dei motivi che hanno portato a
questa lettura «culturale» della guerra del Golfo. Come pure i motivi della mo-
bilitazione delle masse arabe a favore dell’Iraq.
Come prima cosa, vi è la dimensione storica. L’Iraq è la culla delle più anti-
che civiltà succedutesi in Mesopotamia per oltre cinquemila anni. E questa cul-
la viene schiacciata dagli Stati Uniti d’America, la cui storia non supera i due
secoli! Baghdad, fondata 1300 anni or sono, è stata la prima città ad avere più
di un milione di abitanti. È stata poi la capitale islamica degli Abassidi, prima
dell’invasione barbarica dei mongoli. Quanto a Bassora, più antica di Bagh-
dad, era stata scelta dal califfo Omar come acquartieramento degli eserciti mu-
sulmani. In questa città era concentrata la Guardia repubblicana irachena du-
rante la guerra del Golfo (21). Quello che hanno inteso distruggere non era
soltanto l’Iraq ma la memoria storico-culturale degli arabi e dei musulmani.
L’altra dimensione riguarda l’Iraq moderno e le sue realizzazioni. Per le po-
polazioni arabe, ma anche per gli intellettuali, questa nazione rappresenta il
modello che gli altri paesi arabi devono seguire. Molti elementi hanno concorso
a costruire la rappresentazione che dell’Iraq hanno gli arabi, e ciò malgrado il
regime al potere a Baghdad. Ciò si può spiegare tenendo presente che il regime
non ha impedito all’Iraq di diventare una potenza relativamente importante; gli
altri regimi politici arabi poi non sono migliori, anzi in alcuni casi sono peggiori.
Per quanto riguarda gli elementi che hanno contribuito alla formazione
di questa rappresentazione araba dell’Iraq, possiamo così riassumerli:
• Sul piano militare, l’Iraq possiede una certa esperienza tecnologica nel
settore missilistico, il che rappresenta per gli arabi una sfida ad alto livello
nel campo della tecnica. L’Iraq è l’unico paese arabo ad aver lanciato (nel
1989) un missile nello spazio. Vi è una frase che viene spesso pronunciata
con una certa fierezza nel mondo arabo: «L’Iraq ha fatto entrare gli arabi
nell’èra dei missili e della ricerca spaziale». Dopo la guerra del Golfo, l’Agen-
zia internazionale per l’energia atomica ha scoperto che i programmi militari
iracheni, in particolare il programma nucleare, erano redatti in arabo. Anche
questo rappresenta per gli arabi un prezioso traguardo, in quanto la lingua
araba è stata comunemente ritenuta poco adatta al linguaggio tecnologico;
ma l’Iraq è riuscito a redigere un programma di tecnologia avanzata usando
proprio la lingua araba.
• Sul piano della ricerca scientifica e tecnologica, per quanto riguarda il
tipo di finanziamento della ricerca, l’Iraq rappresenta un caso a sé stante nel 23
GLI ARABI E L’OVEST: METTETE IN SOFFITTA LE CROCIATE
mondo arabo. Oltre il 90% delle spese per la ricerca scientifica proviene da
stanziamenti statali. Negli altri paesi arabi, invece, la ricerca è finanziata da
quattro istituzioni straniere, tutte americane (22). Un confronto che ci con-
sente di valutare il livello di autonomia dell’orientamento della ricerca scien-
tifica in Iraq. Sempre in Iraq si registra il più basso tasso di analfabetismo del
mondo arabo: 11% totale (12% tra le donne). In Arabia Saudita esso è pari al
49%, in Egitto al 56%, in Algeria al 50% (23). Per quanto riguarda il debito
pubblico iracheno, tanto spesso ricordato per dare un quadro della situazio-
ne economica del paese, ci sembrerebbe più obiettivo paragonarlo a quello
dell’Algeria che non ha intrapreso guerre dal 1963 (guerra del deserto) o a
quello dell’Egitto la cui ultima guerra è del 1973 (guerra del Ramadan).
• Sul piano agricolo, l’Iraq possiede in questo settore un’esperienza non
trascurabile. Cosa assai poco gradita agli Stati Uniti, poiché l’Iraq con la sua
produzione agricola non è soggetto ai condizionamenti della lobby del gra-
no americana. È stata questa una delle ragioni della massiccia distruzione del
paese, come gli stessi americani riconoscono. James Ridgeway, riferendosi
all’agricoltura e al potere dell’Iraq, scrive: «Dal punto di vista degli Stati Uniti,
la distruzione dell’ambiente e dell’agricoltura in Iraq dovrebbe, a breve ter-
mine, aprire dei mercati ai prodotti agro-alimentari americani. Il che dovreb-
be produrre di conseguenza una crescente dipendenza politica dagli Stati
Uniti (…) come è già accaduto in Etiopia e in Egitto. Se, come sembra asso-
dato, la guerra ha prodotto una distruzione ambientale, ciò ci permetterà di
avere un altro Stato dipendente in misura molto maggiore di quanto non
possa esserlo un docile ricevente di aiuti occidentali soggetto all’influenza
economica e politica americana» (24).
Un tipo di analisi che dimostra ampiamente come gli esperti delle Nazio-
ni Unite, o meglio degli Stati Uniti, non fossero andati nell’edificio del mini-
stero dell’Agricoltura iracheno per cercare l’uranio o altro, ma con altri scopi
che riguardavano soprattutto la produzione agricola. Una serie di elementi
quindi che hanno ampiamente contribuito a creare il tipo di rappresentazio-
ne che gli arabi hanno dell’Iraq. La pesante distruzione ad opera degli ameri-
cani e alleati va esclusivamente intesa come un apartheid tecnologico; in al-
tre parole un tentativo di impedire agli arabi l’accesso ad una tecnologia
avanzata autonoma. Per questo motivo l’Iraq è divenuto il simbolo delle ca-
pacità arabe. Come osserva Halim Barakat «la logica egemonica americana
ha distrutto l’Iraq affinché retroceda in una posizione di sottosviluppo» (25).
possa scrivere, pensare o agire in rapporto all’Oriente senza tenere conto dei
limiti imposti dall’orientalismo al pensiero e all’azione. Insomma, a causa
dell’orientalismo, l’Oriente non è mai stato, e continua a non essere, un sog-
getto di riflessione o di libera azione» (35).
Alcuni intellettuali, provenienti dall’Oriente e poi occidentalizzatisi, sono
sempre presentati positivamente in Occidente, per molteplici motivi, tra i
quali la loro modernità, laicità eccetera. Questi falsi occidentali vengono
considerati come rappresentati del loro paese di origine, cosa che non corri-
sponde al vero. Akbar Ahmed ci dà un esempio del problema. Egli osserva
che S. Naipaul, Fouad Ajami e Salman Rushdie sono citati da Gordon come
specialisti del Terzo mondo (e provenienti da esso). Ma il problema è che
questi autori vivono in Occidente, i loro matrimoni, le loro amicizie, i loro in-
teressi sono lì. Di conseguenza tendono a dire quello che l’Occidente vuole
sentire dire e a vedere quello che l’Occidente vuole vedere (36). È una cate-
goria di intellettuali che spesso diventa più occidentalizzata degli occidenta-
li, confondendo la modernità con la cieca imitazione. In Francia vengono
definiti gli harki del pensiero. Ma il giornalista, che è ricorso a questa imma-
gine sembra ben conscio della situazione, perché, poco dopo, soggiunge:
«Basare su di essi la politica algerina della Francia, significa cadere nella trap-
pola di un dialogo che si svolge soltanto con chi ci assomiglia» (37).
Alcuni intellettuali, per ignoranza o per scelta, rappresentano in modo
deviante l’islam agli occhi dell’Occidente, completando in tal modo l’opera
degli orientalisti. È il caso di un professore universitario marocchino che ha
completamente stravolto il significato di un hadith del profeta Maometto. Si
tratta di Brahim Boutaleb che scrive: «Il Mediterraneo musulmano, ripiegato
su se stesso, si è fermato al hadith riportato da al Bukhari, sull’invenzione
quale fonte di errore (…) «e qualsiasi errore è votato all’inferno»» (38). Il ha-
dith, così come viene citato da Boutaleb, porterebbe a concludere che
l’islam vieta l’invenzione scientifica, quindi il progresso, e che è l’islam l’ori-
gine dell’arretratezza del Maghreb. Il che è completamente falso. Boutaleb
non soltanto ha utilizzato in modo improprio il hadith, ma lo ha inteso erro-
neamente e quindi erroneamente tradotto. Nel hadith, al-bida indica l’eresia
in senso marabuttico e non scientifico, ed è la persona che dà origine
all’eresia ad essere destinata all’inferno, non certo l’eresia in sé, che non può
essere personalizzata. L’utilizzazione del termine «invenzione» da parte di
Boualeb ha completamente stravolto il significato del testo. La corretta tra-
scrizione del hadith è questa: «Qualsiasi eresia è un errore, e l’autore dell’er-
rore è destinato all’inferno».
È in questo modo che il dialogo Occidente-Oriente si riduce in realtà a
un dialogo occidentali-occidentali, in quanto gli interlocutori condividono le
stesse idee su tutta la linea. Detto questo, la diversità culturale non implica
necessariamente un conflitto, l’adozione dei valori dell’altro non è dunque
una conditio sine qua non di un dialogo fertile e produttivo.
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GLI ARABI E L’OVEST: METTETE IN SOFFITTA LE CROCIATE
Israele,
l’angoscia del futuro
Colloquio di Michel KORINMAN con Yehudah LANCRY
32
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
LA RUSSIA VUOLE
UN NUOVO
BIPOLARISMO di Charles URJEWICZ
Mosca non si rassegna a un ruolo secondario nelle relazioni
internazionali. L’Occidente divide l’opinione pubblica russa,
mentre riaffiorano le rappresentazioni geopolitiche del passato.
Elcin, intanto, usa un linguaggio molto morbido.
La Russia, che crede di trovare la sua salvezza – cioè un’identità e una ragio-
ne di vita – nella sua missione di grande potenza, ha bisogno di punti di rife-
rimento. Dunque di un altro insieme, alla testa del quale si trova l’altra super-
potenza, l’America. Il «pragmatismo geopolitico, depurato di ogni ideologia»
(50) appare oggi come una delle forme del nazionalismo russo. Un mondo
bipolare sembra paradossalmente (provvisoriamente?) incontrare il favore di
Mosca, se è a questo prezzo che Mosca può rientrare sulla scena mondiale.
Secondo Andrej Kozyrev, ministro degli Esteri russo, «il destino della Fe-
derazione russa è di essere una grande potenza, aggressiva e minacciosa se
guidata dai comunisti e dai nazionalisti, affidabile e prospera secondo la vo-
lontà dei democratici. Ma sempre grande! (…) Gli Stati Uniti non sono in gra-
do di risolvere tutti i problemi del pianeta. La Russia invece, pur attraversan-
do un difficile periodo di transizione, resta una superpotenza, non solo per
quel che concerne l’armamento nucleare o la sua potenza militare, ma anche
nel cosmo, nell’elaborazione di nuove tecnologie, senza parlare delle sue ri-
sorse naturali e della sua situazione geostrategica» (51).
Per raggiungere questo obiettivo di potenza, i russi mettono da parte le
sottigliezze dell’èra brezneviana, quando uno dei cardini fondamentali della
politica estera sovietica era la frammentazione dell’Occidente, dunque il suo
indebolimento. Dall’altra parte, la Russia di Boris Elcin e di Vladimir Zirinov-
skij ha abbandonato anche le velleità di una perestrojka che si era data per fi-
ne di integrare la Russia/Urss nella «casa comune europea». Ossessionata dal
suo ritorno sulla scena internazionale, ma limitata nelle sue aree di interven-
to a un orizzonte geopolitico circoscritto all’ex Urss e all’ex Jugoslavia, Mo-
sca è tentata di vedere l’Occidente anzitutto in funzione dei rapporti di forza
internazionali. La debolezza politica, per non dire l’assenza dell’Europa occi-
dentale, in particolare dell’Unione europea, accelera questa deriva e sembra
lasciare di nuovo campo libero al testa-a-testa russo-americano. Così ridu-
cendo l’Occidente a un insieme dominato dagli Stati Uniti, limitato all’Ameri-
ca del Nord e all’Europa occidentale, e da cui restano esclusi non solo l’Euro-
pa centrale – i cui tentativi di avvicinamento all’altra Europa suscitano diffi-
denza e irritazione a Mosca – ma anche il Giappone.
I rapporti della nuova Russia con l’Occidente necessitano fin d’ora di un
tentativo di bilancio. Un gruppo di ricercatori dell’Istituto per l’Europa
dell’Accademia delle Scienze di Russia, sotto la guida del direttore aggiunto
dell’Istituto, S.A. Karaganov, ha pubblicato un lungo rapporto sull’aiuto occi-
dentale. Le sue conclusioni riassumono bene la nuova immagine che i russi
attribuiscono a un Occidente ridotto a strumento della loro visione neobipo-
lare: «È chiaro che la Russia supererà le difficoltà che essa ha finora conosciu-
to e finirà per diventare uno Stato ricco e nuovamente potente, centro di una
comunità destinata a riunire i diversi paesi formatisi sul territorio dell’ex Urss.
La rinascita della Russia deve essere anzitutto compito dei suoi cittadini. Il
ruolo dell’Occidente può limitarsi sia a facilitare questo processo, sia a osta- 35
LA RUSSIA VUOLE UN NUOVO BIPOLARISMO
colarlo. Ma dalla sua politica di oggi dipenderà l’orientamento futuro non so-
lo dell’élite russa, ma anche del resto del paese: la Russia resterà confinata in
un isolamento che la spingerà a stringere alleanze con i paesi del Sud e
dell’Estremo Oriente, oppure sarà politicamente, economicamente e strategi-
camente al fianco dell’Europa, dell’Occidente in senso lato» (52). Bell’esem-
pio di pragmatismo geopolitico…
Note
42. B. ELTSINE, Sur le fil du rasoir, Paris 1994, pp. 233-241.
43. Presso le edizioni Ogonek, nel maggio 1994.
44. Cfr. CH. URJEWICZ, «Lo sguardo oscillante della Russia», Limes, n. 4/1993, pp. 89-94.
45. Ibidem.
46. Un sondaggio realizzato all’inizio del 1994 mostra la profonda frattura della società russa. Se il 52% delle per-
sone interrogate si dichiara a favore di una politica estera orientata verso l’Occidente, scegliendo un tipo di
società che permetterebbe alla Russia di avvicinarsi alla «civiltà occidentale», il 45% si dichiara «slavofilo» e a
favore di una politica che tenga conto della collocazione geopolitica della Russia fra l’Europa e l’Asia. Cfr. N.
POPOV, «Mezdunarodnaja Politika Rossii», Mirovaja Ekonomika i Mezdunarodnye Otnosenia, n. 3/1994.
47. Cfr. A. ZUBOV, «Uno sguardo dall’Est sulla Ostopolitik vaticana», Limes, n. 3/1993, pp. 163-173.
48. Il vertice di questo attivismo è stato il viaggio del patriarca Aleksij a Belgrado, in maggio.
49. Così A. Solzenicyn, alla vigilia del suo rientro in patria: «L’Occidente utilizza tutti i mezzi, non importa quali
siano le conseguenze, per indebolire la Russia», (vedi Forbes del 9/5/1994).
50. A. NOVIKIV, «Perspektivy russkogo nacionalizma», Druzba Naradov, n. 9/1993, p. 198.
51. Cfr. Izvestija, 11/3/1994.
52. «Zapadnaja pomosc Rossii: v cem eë osibki?» («L’aiuto occidentale alla Russia: in che cosa consistono i suoi
errori?»), Institut Evropy, Mosca, Mokhovaja 8, Druzba Naradov, n. 4/1994, pp. 157/183.
36
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
PER L’INDIA
RESTATE
DEI COLONIALISTI di B. VIVEKANANDAN
L’immagine positiva dell’Occidente, legata alla ricchezza
e al progresso tecnologico e sociale, è oscurata dalle differenze
culturali e dal persistente protezionismo commerciale. Il Gatt
è percepito come un cartello di potenze avverse al Terzo mondo.
TOKYO
SI RISCOPRE
ASIATICA di Ryu OTOMO
La fase dell’occidentalizzazione postbellica si sta esaurendo
e in Giappone ci si interroga di nuovo sugli interessi nazionali.
Le tesi di Huntington sono viste con sospetto e considerate razziste.
Dove sfocerà la ‘terza modernizzazione’ nipponica?
Addio a Yoshida
Ma il dissolversi del contesto bipolare e le crescenti frizioni commerciali
fra Stati Uniti e Giappone hanno favorito i critici della «dottrina Yoshida». Le
accuse americane, in particolare dei «revisionisti», cioè di coloro che vogliono
«rivedere» i rapporti con noi perché li considerano troppo svantaggiosi (il defi-
cit commerciale americano nei confronti del Giappone ha toccato i 59,3 mi-
liardi di dollari nel 1993), hanno lasciato il segno. Oggi la «dottrina Yoshida»
ha esaurito la sua funzione. Lo si vede dalla crisi del sistema politico interno,
accentuata dalla più violenta recessione dai tempi dello shock petrolifero e
dalle incertezze che segnano la nostra politica estera. Il Giappone moderno si
trova dunque nella terza grande fase di trasformazione, dopo quella dell’èra
Meiji nella seconda metà del XIX secolo e quella dell’ultimo dopo-guerra. 41
TOKYO SI RISCOPRE ASIATICA
Noi e voi
La propensione dell’economia giapponese a orientarsi verso il continen-
te asiatico ci obbliga a riorientare l’azione dello Stato. I dirigenti del ministero
degli Esteri guardano a nuovi contesti di collaborazione interregionale, che il
Giappone dovrà sforzarsi di promuovere – un po’ sul modello dell’Apec
(56). Il ministero della Programmazione economica ha stabilito che le impre-
se giapponesi orienteranno i loro investimenti d’oltremare soprattutto verso i
paesi dell’Asean (Thailandia, Malaysia, Indonesia, Filippine, Singapore, Bru-
nei), che nei prossimi anni scavalcheranno sotto questo aspetto gli Stati Uni-
ti, e verso le nuove economie industrializzate, come la Corea, Hong-Kong,
Taiwan eccetera.
L’opzione asiatica va ovviamente sostenuta a tutti i livelli e con tutti gli
strumenti – politici, economici e anche militari (la missione dei soldati giap-
42 ponesi in Cambogia, sotto egida Onu, è particolarmente significativa, vista la
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
La scuola di Kyoto
In tale ricerca, occorre tener conto dell’eredità del passato. E cioè biso-
gna considerare gli effetti dei primi approcci con gli occidentali, nel XVI e
nel XVII secolo, seguiti da una chiusura totale di oltre due secoli, fino al
1854. Allora, grazie all’iniziativa della diplomazia americana, il flusso formi-
dabile dei valori occidentali, favorito dal rinnovamento dell’imperatore Meiji
(1868), provocò con il tempo una reazione nazional-sciovinista. Fino a dipin-
gere l’occidentale come un barbaro, come qualcuno che vive ai margini della
vera civiltà. Il carattere aggressivo del capitalismo giapponese, che nella pri-
ma metà di questo secolo lo ha spinto verso l’Asia, in particolare con l’attac-
co alla Cina, sfociava nel tentativo di affermare la centralità asiatica del Giap- 43
TOKYO SI RISCOPRE ASIATICA
Note
53. Si veda su questo C. JOHNSON, The MITI and the Japanese Miracle, Stanford 1992, Stanford University
Press.
54. T. EMEHARA, «Pensare le foreste per salvare l’umanità», Shugaku kan, ottobre 1991, p. 169.
55. Su questo tema, T. HAMASHITA, «La ricerca sul Giappone e l’identità asiatica», Shiso, agosto 1993.
56. SH. KURIYAMA, «Gli orientamenti della diplomazia giapponese, sulla base delle esperienze reali», Shu Ku-
ron, novembre 1991. L’autore è stato sottosegretario agli Esteri fino al 1991.
57. K. OGURA, «Per la riabilitazione dell’Asia», Shu Kuron, luglio 1993. L’autore dirige il dipartimento economico
del ministero degli Esteri.
58. Sulle relazioni in Giappone alle tesi di Huntington, cfr. T. KAMO, «Dagli Stati Uniti alla ricerca del multipola-
44 rismo vigoroso», Sekai, marzo 1994.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
LA CINA
SOGNA
L’‘ASSE GIALLO’ di Francesco SISCI
da metà del XVII secolo. La Cina era allora ben poco «cinese». Era stata invasa
da una coalizione di popoli altaici guidati dai mancesi che fondarono la di-
nastia Qing, rovesciando i Ming cinesi. Costoro avevano passato la prima
metà del secolo a sedare ribellioni nazionaliste e a stabilire il loro dominio
nell’immenso paese. Proprio allora i russi si erano allungati nel nord delle
steppe fino quasi a lambire il Mar del Giappone e avevano anche cominciato
a scendere verso l’Asia centrale. Queste zone erano area d’influenza tradizio-
nale tradizionale della Cina ma i nuovi signori di Pechino erano preoccupati
di estendere il proprio potere verso le fertili valli del Fiume Giallo e del Fiu-
me Azzurro e non si curarono dei nuovi barbari del nord.
Fu l’imperatore Kangxi che nel 1685 ordinò di attaccare la base russa di
Albazin, sul fiume Amur. La base fu presa e distrutta, e nel 1689 Cina e Russia
fissarono il confine sostanzialmente dove è ancora oggi, lungo i fiumi Amur
e Argun. Il trattato di pace di Nercinsk fu redatto da interpreti gesuiti che usa-
rono le loro conoscenze di latino e mancese. Per i Qing si trattava di risolve-
re un problema endemico della frontiera settentrionale: ogni volta che un
popolo delle steppe invadeva la Cina si sinizzava ma alle sue spalle altri po-
poli barbari premevano per scendere a sud. Le dinastie avevano risolto tali
pressioni senza porsi il problema della conquista delle terre ghiacciate del
nord ma invece stabilendo dei passi di frontiera invalicabili. Così fecero an-
che i mancesi che anzi stabilirono questi passi nel punto più settentrionale
mai raggiunto dall’impero cinese. Che i russi non fossero diversi da altri inva-
sori del passato e dai Qing stessi lo confermavano i loro alleati, gli zungari,
popolazione mongolica «cugina» dei mancesi.
Per i russi invece il trattato di Nercinsk avrebbe rappresentato il via libera
all’occupazione della Siberia, un territorio sì gelato, ma pur sempre immenso
che li avrebbe portati fino alla conquista dell’Alaska. L’occupazione della Si-
beria avrebbe mutato radicalmente la geopolitica di quel territorio. I russi
avrebbero irreggimentato i mongoli e i turchi della zona e l’avrebbero pacifi-
cata mettendo fine a millenni di razzie che avevano colpito e sconvolto oltre
alla Cina anche l’India, il mondo arabo e l’Europa.
Pochi anni prima il generale lealista Ming per sfuggire ai mancesi aveva
invaso l’isola di Formosa scacciandone gli olandesi. Dall’isola Koxinga conti-
nuò a combattere i Qing organizzando anche una guerra di corsa. Iniziò allo-
ra la diaspora cinese verso il Sud-Est asiatico e gli invasivi commercianti eu-
ropei, sconfitti, vennero tenuti alla larga dalla Cina per quasi altri due secoli.
Gli europei sono per la prima volta considerati in modo unitario alla fine
del XIX secolo. Nella guerra dell’oppio e dopo le potenze occidentali si
schierano coralmente contro Pechino. E tutte insieme difendono poi i loro
privilegi durante la rivolta dei boxer. Agli occidentali in quegli anni si accor-
da il Giappone che, come i «colleghi» europei e americani, chiede la sua fetta
di Cina. La rivoluzione comunista porta però i russi da un’altra parte rispetto
al gruppone occidentale. Le promesse di Lenin di restituire i territori del nord
invasi dagli zar convincono molti cinesi della bontà di questi comunisti e del-
46 le ingiustizie subite dalle potenze coloniali.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
47
LA CINA SOGNA L’‘ASSE GIALLO’
chio l’economia cinese, per il 15% orientata verso l’estero. In due anni, però,
tutti i buchi lasciati da aziende americane ed europee erano stati riempiti da
investimenti giapponesi e taiwanesi. Questi due paesi dopo il massacro han-
no continuato a fare affari con Pechino. Per Giappone e Taiwan, guardati
prima con sospetto dai cinesi, l’isolamento di Pechino era un’occasione d’oro
per imporre le loro condizioni commerciali alla Cina.
Tali investimenti hanno portato la Cina in una situazione quasi parados-
sale in Estremo Oriente. La sfida verso Stati Uniti ed Europa, il seggio perma-
nente al Consiglio di sicurezza, la determinazione a risolvere le proprie fac-
cende interne incurante delle pressioni internazionali, ne hanno fatto il gi-
gante politico dell’Asia orientale. D’altro canto la sua crescente dipendenza
tecnologica dai paesi dell’area ne ha fatto un nano economico, o meglio
sempre un gigante, però, al guinzaglio delle forniture tecnologiche straniere.
Ma le deficienze tecnologiche possono essere compensate da un superattivi-
smo politico. Almeno così prova a fare la Cina.
Nell’estate 1992 Pechino stabilisce relazioni diplomatiche con la Corea
del Sud. D’un tratto la Corea del Nord appare isolata. La penisola coreana
potrebbe essere a un passo dalla riunificazione. Ma non è così perché Pechi-
no protegge ancora Kim Il-Sung e impone, soprattutto agli Usa, di non fare
troppe pressioni alla Corea del Nord sulle questioni dei diritti umani e della
riunificazione. Quindi, allacciando relazioni diplomatiche con Seul, Pechino
virtualmente fa della Corea del Nord un suo protettorato; il paese in pratica
non ha relazioni esterne tranne che con la Cina e perciò, per trattare con il
resto del mondo, deve passare da Pechino. Questa protezione ha poi un altro
valore: la pericolosa Corea del Nord può essere agitata come una minaccia
contro avversari reali e potenziali nell’area, e la capacità di Pechino di con-
trollare tale minaccia ne aumenta il peso internazionale.
Nel 1993, la posizione contrattuale della Cina nei confronti degli Usa si
è ulteriormente rafforzata. La crescita dell’economia cinese aveva trascinato
quella delle economie del Sud-Est asiatico e anche degli Usa, tanto che
quando il segretario di Stato americano Warren Christopher era giunto a Pe-
chino nel marzo 1994 non poteva di fatto più esercitare pressioni economi-
che sulla Cina. Gli uomini d’affari statunitensi spiegano a Christopher che
sanzioni economiche americane per il mancato rispetto dei diritti umani in
Cina avrebbero comportato la perdita di almeno 200 mila posti di lavoro in
Usa. La Cina avrebbe infatti, come ritorsione, espulso tutti gli americani dal
suo mercato. La ripresa americana, su cui tanto aveva scommesso il presi-
dente Bill Clinton, era in qualche modo «ostaggio» delle aperture cinesi.
Cina e Giappone
Intanto tra Cina e Giappone è finito il periodo dello scambio esclusivo di
merci ed è cominciato quello dei patti politici. Durante la visita a Pechino del
10 agosto 1991, il premier giapponese Toshiki Kaifu ha inviato la Cina a farsi 49
LA CINA SOGNA L’‘ASSE GIALLO’
Vi sottoponiamo qui alcuni termini della lingua cinese utilizzati fino all’ini-
zio del XX secolo per designare gli stranieri. Dal punto di vista geopolitico essi
sono molto interessanti in quanto sono indicativi del sinocentrismo di questa
lingua.
un bel po’ di sue armi (forse anche atomiche) e ha fatto pagare il suo silen-
zio sull’invasione con la fine dell’embargo economico. Il Giappone ha coper-
to gran parte del conto della spesa, degradando di fatto gli americani a mer-
cenari, e ha fornito i cruciali chip della vittoriosa guerra tecnologica.
E in cambio cosa hanno ricevuto? Allarme, grida di «all’invasione, al peri-
colo giallo». Bill Clinton ha promesso in campagna elettorale di togliere i pri-
vilegi commerciali concessi alla Cina e ha minacciato posizioni anche più
dure contro gli invadenti commercianti giapponesi. E ha vinto le elezioni.
Per questo, la visita di Akihito a Pechino nel 1993 non è un gesto forma-
le. Né vuole dirimere una querelle orientale sul grado di scuse che l’impera-
tore dovrebbe presentare (con orrore dei fascisti giapponesi) ai cinesi. Su
questo veglia il realismo asiatico: Tokyo ha chiuso gli occhi sul massacro in-
torno a Tiananmen, che Pechino li chiuda sul massacro giapponese di Nan-
chino. È un asse giallo che si forma intorno alla sacra persona di Akihito: del
resto Pu Jie, fratello minore dell’ultimo imperatore cinese, aveva sposato una
principessa imperiale di Tokyo. Non sono già un po’ parenti questi due pae-
si? Hanno molti interessi comuni, dominano l’area dove tra pochi anni si pro-
durrà metà della ricchezza del mondo, e non vogliono un altro commodoro
Perry o generale Mac Arthur.
Questa è la prospettiva, di concreto la geografia politica dice cose più
accurate.
Il Giappone nell’Asia
Il Giappone è cresciuto troppo per restare un nano politico. I suoi inte-
ressi economici, quasi di sopravvivenza, non glielo permettono più. Al suo
interno si fanno sentire sempre più coloro che vogliono opporsi alle imposi-
zioni degli Stati Uniti, ma per ora continua a vincere il partito degli uomini
consapevoli di essere ostaggi politici americani. Senza l’appoggio Usa, il
Giappone rischierebbe una certa misura di isolamento internazionale e la la-
tente ostilità in Asia nei suoi confronti si manifesterebbe con maggiore vio-
lenza. I paesi del Sud-Est asiatico non perdonano il passato coloniale del
Giappone e la sua attuale arroganza commerciale. Gli Usa invece sono con-
siderati, eccetto che dalle Filippine, il paese che ha aiutato l’Estremo Oriente
contro il Giappone e contro «l’aggressione comunista» degli anni Sessanta, e
anche oggi la loro sola presenza nell’area, in una fase di ancora relativa de-
bolezza delle «piccole tigri», controbilancia l’influenza giapponese.
Questi erano gli equilibri prima della scomparsa dell’Urss e del nuovo
ruolo della Cina. Infatti proprio la crescita politica della Cina nel consesso in-
ternazionale permette al Giappone di giocare di sponda con gli Usa per rita-
gliarsi maggiori spazi di manovra.
In Europa la scomparsa dei comunisti sovietici, nemici naturali della Na-
to, ha «salvato» zone prima sotto la loro influenza ma allo stesso tempo ha
52 portato alla luce altri problemi. In Oriente, al di là del caso cinese, non c’è
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
Oriente che si converte all’islamismo più estremo, e occuparsi anche del re-
sto dell’Asia, un’area che ormai si estende dall’Indio alle Hawaii e dove abita-
no circa due miliardi e mezzo di persone.
Grazie a queste deficienze occidentali e alla ridefinizione della geopoliti-
ca mondiale, la Cina può muoversi più liberamente. Il solo altro paese che
potrebbe avere capacità di intervento nella regione è la Germania. Ma essa
ha tre questioni prioritarie che determinano la sua politica estera: 1) l’assorbi-
mento e l’irreggimentazione dell’ex Germania Est, mantenendo un’inflazione
minima, e scompensi sociali ridotti; 2) l’integrazione europea, portando tutti
gli europei in grado di farlo al livello del marco; 3) impedire lo sfacelo totale
da Varsavia a Mosca passando per Kiev e Minsk. È abbastanza per tenere la
Germania occupata almeno fino alla fine del millennio e lontana dall’Oriente
(65).
D’altronde, sul fronte asiatico la Cina alla fine del 1993 ha mostrato chia-
ramente le sue ambizioni nella regione che dominava da secoli. Nella lunga
lotta per il rinnovo dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza
dell’Onu si è opposta all’ingresso di Giappone e Germania. Infatti se il Giap-
pone rimane escluso dalla ristretta cerchia dei membri permanenti, la Cina
resta l’unica portavoce di una regione, l’Asia orientale, i cui interessi sono
sempre più in contrasto con quelli europei e americani, ma dove ci sono due
paesi che si contendono la leadership: Cina e Giappone, appunto.
Note
59. Fanno eccezione i neri, che rappresentano un caso a parte.
60. La propaganda di Pechino oggi teme «l’inquinamento spirituale» dell’Occidente e paventa «l’evoluzione paci-
fica del liberalismo borghese». Il teorico comunista ortodosso Deng Liqun sostiene, non diversamente dai bu-
rocrati di Pechino del secolo scorso, che occorre importare le tecniche occidentali mantenendo lo spirito e la
cultura dei cinesi. Sono tutte questioni culturali, come si vede, nemmeno ideologiche.
61. Il giapponese è scritto usando caratteri cinesi (specie per le parole colte) e due alfabeti.
62. Ad eccezione del Giappone, la cui crisi è comunque molto più lieve di quella europea.
63. La Cina non ha posto il veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu e ha così consentito che la guerra contro
l’Iraq si svolgesse sotto le insegne delle Nazioni Unite.
64. Sihanouk fu salvato dai khmer rossi da Zhou Enlai e gli fu data una residenza a Pechino.
65. La Germania negli ultimi anni non ha diminuito i suoi investimenti strategici in Estremo Oriente e anzi, se-
condo alcuni economisti, la politica dell’alto costo del denaro serve a finanziare anche questi investimenti di
lungo termine. È certo una presenza che darà i suoi frutti, ma nel complesso incapace di ostacolare la riap-
propriazione dei mercati asiatici da parte degli asiatici.’ATLANTICO PIÙ LARGO
54
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
Jston,
AMES ADDISON BAKER III, DI Hou-
Texas, 63 anni e 8 figli, è conside-
BAKER Lasci che le spieghi che cosa vole-
va dire quell’espressione nel modo in cui
rato un grande negoziatore sia tra avvo- venne usata. Voleva dire che i paesi –
cati che tra ministri degli Esteri, entram- quasi tutti i paesi del mondo – stavano
bi suoi pari. Baker è stato il sessantunesi- abbracciando i princìpi e i valori che
mo segretario di Stato nell’amministra- l’Occidente aveva fatto suoi per gli ultimi
zione del repubblicano George Bush e, quarant’anni, sarebbe a dire democra-
prima, segretario al Tesoro con Ronald zia e libero mercato. Voleva dire che il
Reagan. È uno degli uomini che hanno comunismo era crollato, che l’Unione So-
elaborato e portato a compimento la vietica era implosa. Ogni paese –
strategia vincente dell’Occidente nei con- nell’America Latina, eccetto Cuba, nella
fronti dell’Unione Sovietica; è forse colui maggior parte dell’area del Pacifico, in
che maggiormente si è impegnato, a Africa e in Medio Oriente – tutti stavano
fianco di Reagan prima e di Bush poi, a accettando democrazia e mercato. E
favore della perestrojka di Gorbacev; che questo è quanto quella locuzione impli-
si è speso in prima persona durante la cava. Ma senza escludere tensioni tecni-
guerra del Golfo; che, a Madrid, ha get- che, conflitti, il riemergere di vecchie
tato le basi dell’accordo che avrebbe por- animosità tradizionali. E infatti, di que-
tato ai colloqui di pace tra Israele e l’Olp. ste, ne abbiamo viste a profusione!
Nel crepuscolo della guerra fredda che LIMES Siamo alla svolta del secolo: lei
tutto ha cambiato e nell’attesa di un pensa che esista un pericolo di declino
nuovo assetto di relazioni internazionali per l’Occidente?
di là da venire, Baker è tra coloro in gra- BAKER Penso, in effetti, che la questione
do di leggere freddamente il presente. E sia molto importante. Una delle scom-
di raccontarlo. Lo abbiamo intervistato. messe che ha di fronte a sé l’Occidente è
LIMES Signor segretario, fu proprio lei di rafforzare l’alleanza occidentale.
che, dopo la guerra del Golfo e la cadu- Una cosa che va fatta è ridefinire la
ta del comunismo, contribuì a elabora- missione della Nato per esser certi di
re la teoria di un nuovo ordine mon- mantenerla come il più efficace stru-
diale. Da allora sono passati appena tre mento di sicurezza degli ultimi qua-
anni. Le chiedo, lei vede un qualche or- rant’anni. Ma per questo l’Alleanza de-
dine nel mondo attuale? ve ridefinire la sua missione. Dobbiamo 57
‘NOI RESTIAMO UNA POTENZA EUROPEA’
assicurarci, ora che non c’è una singola Si sono sviluppati dei mercati rudi-
superiore minaccia alla nostra esisten- mentali in tutta la Russia e sono quin-
za – voglio dire la minaccia nucleare di in tanti ad essere interessati alle
dell’Unione Sovietica – di non lasciar riforme. Quanto ai nomi, non esclude-
emergere difficoltà commerciali ed eco- rei – in aggiunta a quelli già menzio-
nomiche che creino divisioni nel campo nati come Egor Gajdar o Boris Fedorov
occidentale. Credo che l’Ovest in quanto – il primo ministro Viktor Cernomyr-
entità – le democrazie industriali, o il din. E ce ne sono altri. Tuttavia ci so-
G7 se vuole – possa continuare ad essere no anche, sfortunatamente, coloro che
efficace politicamente ed economica- cercano di capitalizzare le difficoltà
mente nella promozione di crescita, pa- di un paese che è stato messo sottoso-
ce, prosperità e stabilità. Ma bisogna la- pra politicamente, economicamente e
vorare per far sì che, come ho detto, non socialmente.
affondiamo sulle secche delle diversità LIMES Che effetto farebbe, agli Stati Uniti,
commerciali ed economiche che natu- una Germania che guidasse politica-
ralmente esisteranno tra noi. mente l’Europa?
LIMES Scusi signor Baker, facciamo qual- BAKER La posizione degli Stati Uniti è
che caso concreto. Lei è a favore di una che abbiamo appoggiato l’integrazione
Russia forte o debole? europea e continueremo ad appoggiar-
BAKER Credo che vorremmo tutti vedere, la. Come debba aver luogo l’integrazio-
soprattutto, una Russia stabile, che va- ne, francamente, è affare degli europei,
da avanti nelle riforme politiche ed non sta agli Stati Uniti deciderlo. Noi
economiche. Una Russia che sia in abbiamo molti amici in Europa, paesi
buoni rapporti con l’Occidente. che sono forti sostenitori della Nato co-
LIMES Ma lei che credito dà a Boris Elcin me l’Italia e la Germania, ma come
quando afferma che, alla fine, la Russia l’Europa si sviluppi in termini di inte-
sarà cambiata anche se lui dovesse la- grazione, è affar suo.
sciare il potere? LIMES Anche con una Germania forte?
BAKER Non solo lo credo quando lo dice. BAKER Ma la Germania è già forte, eco-
Ma lo so. Lo so per l’esperienza che ho nomicamente.
avuto trattando con lui: so che è un LIMES Ma non compiutamente dal punto
riformatore, ci crede, pensa che quella di vista politico.
sia la via sulla quale deve camminare BAKER Be’, penso che lo sia anche in ter-
la Russia. Allo stesso tempo – come capi- mini politici, per come spinge verso l’in-
ta a molti leader – sta subendo un bel tegrazione europea. E il modo di anco-
po’ di resistenza. Certo sono disturbato rare la Germania all’Europa è proprio
nel vedere che gente come Gajdar e Fe- quello di vedere realizzata l’integrazio-
dorov abbia lasciato il governo, ma ne. È stata opinione degli Stati Uniti, per
penso che il presidente Elcin creda sem- qualche tempo, che la Germania doves-
pre nelle riforme e in buone relazioni se assumere responsabilità commisurate
con l’Ovest; e non nella via su cui vor- al suo potenziale economico. Quindi ben-
rebbero portare la Russia gli ultranazio- venuta, senza l’esclusione di alcun pae-
nalisti e anche i fascisti come Vladimir se e dentro un’Europa integrata.
Zirinovskij. LIMES Lei, signor segretario, è stato uno
LIMES Quali sarebbero le eventuali alter- dei maggiori protagonisti al tempo della
native a Elcin? caduta del Muro di Berlino. C’è niente
BAKER Penso che siano in molti ad es- oggi che, se potesse, farebbe in modo di-
sere impegnati a favore delle riforme – verso?
ricordiamo che probabilmente il 75% BAKER Be’, penso che saremmo dovuti es-
58 dei piccoli esercizi è stato privatizzato. sere più rapidi nel dare l’assistenza che
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
avevamo promesso ai riformatori dell’Unio- più molta attenzione a loro. Lei che ne
ne Sovietica. Detto questo devo ricordare pensa?
anche i miei tempi da ministro del Teso- BAKER Penso che neanche ciò sia vero.
ro e dire che certi vincoli posti dal Fon- Penso, di nuovo, che noi siamo una po-
do monetario erano appropriati. Sareb- tenza europea e una potenza del Pacifi-
be stato un errore versare grandi quan- co e che dobbiamo sviluppare entrambi
tità di danaro in assistenza, senza pri- questi interessi. E dobbiamo farlo in un
ma richiedere che i russi raggiungessero modo che non sia di mutua esclusione.
degli standard minimi, di pari passo LIMES Ma i paesi asiatici del Pacific Rim
con le riforme. sono Est od Ovest?
LIMES L’attuale segretario di Stato War- BAKER Oh, penso che si tratti di una fal-
ren Christopher ha detto che le passate sa scelta. Il Giappone ha chiaramente
amministrazioni Usa sono state troppo fatto parte dell’alleanza occidentale per
eurocentriche. Lei che ne dice? lungo tempo. È una democrazia, certa-
BAKER Che non sono d’accordo. Penso mente ha un’economia basata sul libero
che gli Stati Uniti siano una potenza mercato; ha adottato, per la maggior parte,
europea. Lo siamo stati per lungo tem- princìpi e valori dell’Occidente; è membro
po. Siamo anche una potenza del Pa- dell’Ocse. E ci sono altri paesi nel Pacific
cifico. E penso che si possano coniuga- Rim che possono raggiungere questi
re entrambe queste due realtà senza obiettivi. Pertanto penso che chiedersi
che l’una escluda l’altra. Non è neces- che sta a Ovest e chi sta a Est sia solo
sario essere eurocentrici o asiacentrici. uno slogan.
Ricordo che durante l’amministrazio- LIMES Si può spiegare meglio?
ne Bush è accaduto qualcosa di incre- BAKER Ricordo quando l’Unione Sovieti-
dibile in Europa. Il mondo intero è ca fu al collasso e si crearono paesi co-
cambiato, con la caduta del Muro, con me il Tagikistan, il Kurdistan e l’Uzbeki-
l’integrazione della Germania, con il stan. Avemmo una interessante discus-
crollo dell’Urss; e con il negoziato su sione al Dipartimento di Stato per deci-
alcuni fondamentali trattati sul con- dere se questi paesi sarebbero ricaduti
trollo delle armi. Per non dire della nella sfera dell’Ufficio degli Affari euro-
guerra del Golfo e dell’apporto che l’E- pei oppure in quella degli Affari est-
uropa fornì a quell’impresa. asiatici. Be’, io pensavo già allora che
LIMES Alcuni leader europei, dopo gli ac- quello fosse un dibattito sterile. Per me
cordi Nafta, temono che gli Usa guardi- ciò che conta sono i valori e i princìpi
no solo verso il Pacifico e non prestino di un paese.
59
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
WASHINGTON
È ANCORA CAPITALE
DELL’OCCIDENTE? di Philip A. GOLUB
Gli Stati Uniti, nuova Atene, diventano l’Occidente, erede della civiltà
mediterranea e in pratica civiltà in se stessa; non abusando oltre del miscu-
glio di analogie geografiche e culturali, il concetto è indicativo dell’epoca:
l’Europa è distrutta, l’Asia non è ancora emersa, l’America è diventata la na-
zione più potente della terra. Questo concetto è importante per capire la
concezione di sé degli Stati Uniti nel dopoguerra. Se l’America era Atene, co-
sì la sua politica estera era guidata da un «uomo saggio», erede dei guardiani
della Repubblica di Platone (67). Vent’anni dopo Lippmann, John J. Mc Cloy
usò il termine «età di Pericle» per caratterizzare la politica estera americana
del dopoguerra. Anche dopo la guerra del Vietnam, questo concetto rimase
radicato nelle élite americane: in modo meno convincente dei suoi predeces-
sori, il segretario alla Difesa di Ronald Reagan, Caspar Weinberger, paragonò
il conflitto bipolare tra Urss e Stati Uniti a quello di Atene contro Sparta. Con-
siderazioni di ordine strategico venivano in questo caso fuse con altre relati-
ve al tipo di società, dando alla sponda atlantica un maggior peso geopoliti-
co rispetto al Pacifico.
Per molte delle persone preposte alla guida politica del paese nel perio-
do bellico e in quello successivo, l’esito della guerra mondiale pone fine
all’oscillazione fra isolazionismo e impegno globale. Il potente partito isola-
zionista del periodo fra le due guerre, che proponeva un ritorno alla mitica
età dell’oro del distacco dell’America dagli affari del mondo, quando non as-
sume una posizione filofascista, scompare fra le rovine della guerra. Sebbene
i contorni del mondo del dopoguerra nel 1944 non siano ancora pienamente
64 definiti, Lippmann intravede una comunità atlantica formata dalle «nazioni
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
Garante dell’equilibrio
Mettendo per un attimo da parte le speculazioni a trecentosessanta gradi
di autori come Francis Fukuyama e la sua molto pubblicizzata tesi della «fine
della storia» – secondo la quale la fine del bipolarismo avrebbe dovuto con-
durre all’universalizzazione dei concetti culturali e democratici americani – o
come Paul Kennedy – la cui Ascesa e declino delle grandi potenze, scritta
prima del collasso dell’Urss, ipotizzava imprudentemente un mondo multi-
polare che nella realtà non trova forma – o come Samuel Huntington – auto-
re della recente e insoddisfacente teoria degli «scontri fra civiltà», in cui si de-
linea un futuro fatto di conflitti fra cristianità ortodossa, cristianità occidenta-
le, islam, buddismo e induismo – troviamo numerosi autori americani che
sul finire dell’amministrazione Bush hanno messo a punto un quadro coe-
rente di princìpi validi per la politica americana del dopoguerra fredda. Fra
loro vi è Alberto Coll jr., professore di scienza della politica alla Georgetown
University e vicesegretario alla Difesa, che nel 1991 su Foreign Affairs ha sta-
bilito che, nella «turbolenta fase di transizione che attraversa la politica inter-
nazionale – comparabile al periodo 1789-1815 – durante la quale le configu-
razioni tradizionali del potere politico e militare stanno mutando», gli Stati
Uniti sono chiamati a «giocare il ruolo di garanti dell’equilibrio, analogamen-
te a quanto fatto dalla Gran Bretagna per lunga parte del XVIII e XIX secolo».
Più che porsi sulle spalle il «fardello del mondo», gli Stati Uniti, attraverso im-
pegni selettivi , dovrebbero mirare a garantire l’equilibrio.
Nella visione di Coll, ciò potrebbe essere ottenuto mediante una politica 65
WASHINGTON È ANCORA CAPITALE DELL’OCCIDENTE?
Note
66. W. LIPPMANN, U.S. War Aims, Overseas Publishers, 1994, p. 251.
67. W. ISAACSON-E. THOMAS, (a cura di), The Wise Men: Six Friends and the World they Made, New York
1986, Faber & Faber.
68. Ivi, p. 159.
66 69. W. LIPPMANN, op. cit., pp. 239-240.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
LONDRA
SI SCOPRE
PERIFERIA di Noëlle BURGI
L’inarrestabile declino, già visibile negli anni Trenta, diffonde
una crisi d’identità politica e culturale fra i cittadini del Regno
Unito. Finito il rapporto privilegiato con Washington, si può
ancora immaginare un ruolo britannico nel mondo?
discorso di Fulton nel Missouri, il 5 marzo 1946, che segna ufficialmente l’ini-
zio della guerra fredda e parallelamente dello «speciale rapporto» con gli Stati
Uniti. Rapporto che diventerà la pietra miliare della politica britannica.
Qual è il vero significato di questo «rapporto speciale»? Da esso si evince
il particolare status di cui gode la Gran Bretagna negli affari europei come
pure nel Vicino e Medio Oriente. Esso poi ne esalta l’importanza quale allea-
to militare degli Stati Uniti all’interno della Nato (il «cavallo di Troia» degli in-
teressi americani, secondo de Gaulle), in quanto partner dotato di una pre-
ziosa abilità nei servizi di spionaggio e alleato affidabile in momenti di crisi:
il Regno Unito è dunque un pilastro fondamentale della sicurezza atlantica.
La Royal Navy blocca il Mare del Nord presso lo stretto di Skagerrak impe-
dendo il passaggio alla Marina da guerra sovietica. Blocca inoltre il Mediter-
raneo allo stretto di Gibilterra, e il suo esercito protegge la Ruhr.
Dividendo il principale alleato degli Stati Uniti durante la guerra fredda,
la Gran Bretagna ha creduto di tutelare i propri interessi e garantire, in parte,
la sua sfera di influenza internazionale (Iran, Iraq, Sud-Est asiatico, Africa ec-
cetera). Una sensazione duratura, malgrado alcuni alti e bassi, poiché il «rap-
porto particolare» continua sino agli anni Ottanta (e svolge un ruolo determi-
nante nell’esito positivo della guerra delle Malvine). Tuttavia, nei fatti, la
Gran Bretagna cede progressivamente terreno al potente alleato.
È un fenomeno che si produce molto presto. Vogliamo ricordare tre
grandi momenti simbolici. Il primo, quando la Gran Bretagna deve rinuncia-
re ad assicurare da sola la difesa della Grecia (1947). Materialmente, non ne
ha i mezzi. Informati, gli Stati Uniti restano «costernati». Secondo il segretario
alla Difesa, James Forrestal, il generale Marshall, in una riunione di gabinet-
to, avrebbe dichiarato: «È un fatto che ci investe di un altro problema, e dei
più gravi. Ciò equivale a una abdicazione britannica in Medio Oriente e le
conseguenze per chi è destinato a succederle sono evidenti» (71). Si tratta di
«una svolta nella storia britannica in Medio Oriente», commenta Elisabeth
Monroe. Il secondo momento è quello in cui la Gran Bretagna è costretta a
rinunciare all’India, gemma dell’impero, e «accordare» l’indipendenza a una
nazione che già l’aveva conquistata con i propri mezzi (1948). Impreviste
conseguenze della seconda guerra mondiale, le lotte per l’indipendenza na-
zionale hanno reso vani i tenaci sforzi di Churchill negli ultimi mesi di guer-
ra, volti a salvare l’impero. Terzo momento: la crisi di Suez del 1956. Costret-
to a subire la minaccia sovietica e soprattutto sconfessato dagli Stati Uniti, il
Regno Unito deve piegarsi a una umiliante ritirata e privarsi del suo «chiavi-
stello» orientale sul Mediterraneo, simbolo precipuo del suo ampio raggio di
influenza di un tempo.
Assieme ad altri avvenimenti, la crisi di Suez sottolinea l’ambiguità del
«rapporto particolare» e le divergenze esistenti tra le due potenze alleate. Esse
hanno in comune un obiettivo: contenere l’Unione Sovietica in Europa e nel
Vicino e Medio Oriente. Ma la politica degli Stati Uniti incoraggia la decolo-
nizzazione (quando non sostiene addirittura i movimenti nazionalisti ad essa
favorevoli). Nell’affare di Suez, Eisenhower non fa che confermare la politica
di Roosevelt. Dalla fine degli anni Cinquanta «i residui di storia britannica an- 69
LONDRA SI SCOPRE PERIFERIA
Europa. Ora, l’unificazione tedesca non consente più alle isole britanniche di
perseguire all’infinito, nelle azioni o nelle parole, una politica propriamente
insulare. La stessa signora Thatcher ne è consapevole. Dalla pubblicazione
delle sue Memorie sappiamo che essa ha fatto di tutto per frenare la riunifica-
zione tedesca e che, una volta realizzata, il Regno Unito ha dovuto limitarsi a
un gioco di sponda, sfruttando le rivalità esistenti tra i suoi partner europei.
L’Inghilterra è però in posizione di debolezza perché la tattica riesca. Nel
caso lo dovesse dimenticare, i fatti sono lì, implacabili, a ricordarglielo. Non
soltanto Londra ha perduto a vantaggio di Francoforte la battaglia per la sede
della Banca centrale europea, ma John Major ha dovuto compiere un’ulterio-
re ritirata, finendo per accettare, alla fine del marzo 1994, il compromesso
sulle modalità di voto all’interno della Comunità allargata. Va inoltre aggiun-
to che se i rapporti franco-tedeschi hanno subìto gravi rovesci dopo il 1989,
non vi è motivo alcuno per supporre che un asse anglo-germanico sia credi-
bile. La Germania sta occupando (se non l’ha già fatto) la maggior parte del-
lo spazio geopolitico disponibile nell’Europa centrale e orientale mediante
reti di interessi economici e finanziari. Il Regno Unito si trova con le spalle al
muro e, ora come non mai, deve fare le proprie scelte sull’Europa.
Il rimettere in discussione il «rapporto particolare», il suo indebolimento
(se non la sua fine), non significa che «i due popoli di lingua inglese» d’ora
innanzi si ignoreranno. I vincoli culturali, sentimentali o di civiltà continuano
a esistere, anche se è legittimo dubitare della loro efficacia strategica. L’im-
portanza simbolica di questo (relativo) rovesciamento della situazione è con-
nessa anche a due altri fattori: la scarsa compattezza del Commonwealth e il
perdurare di difficoltà economiche.
Il Commonwealth si avvia a perdere significato. Con la restituzione, nel
1997, di Hong-Kong alla Repubblica popolare cinese, il Regno Unito si tro-
verà, poco per volta, privato del controllo che ha potuto esercitare su uno
dei grandi mercati finanziari dell’Asia. Lord Patten, l’attuale governatore,
manda avanti con grandi difficoltà una politica di democratizzazione di
Hong-Kong che potrebbe forse salvaguardare alcuni interessi occidentali. Ma
i suoi sforzi vengono interpretati dalla Cina come un tentativo di indebolirla,
se non dividerla. L’Australia del primo ministro Paul Keating è risolutamente
avviata a trasformarsi in repubblica. Da tempo ha preso le distanze dalla Co-
rona. Dopo la seconda guerra mondiale si è sempre più avvicinata agli Stati
Uniti. Tanto che, al momento della crisi di Suez, ha votato con gli Stati Uniti
(e con l’Urss) contro il Regno Unito al Consiglio di sicurezza delle Nazioni
Unite. E non vanno dimenticate le conseguenze che una trasformazione
dell’Australia potrebbe produrre sul Commonwealth. Il Canada potrebbe se-
guirne l’esempio. Tanto più che, con la zona di libero scambio, rischia di es-
sere assorbito dal suo potente vicino, venendo a perdere la sua posizione di
«perla» del Regno nel continente americano.
Ma ancor più del destino del Commonwealth è forse la situazione eco-
nomica del Regno Unito a rendere particolarmente doloroso il deteriorarsi
della sua immagine nel mondo. Già nel 1967, un uomo politico britannico
riassumeva in questi termini la logica interna al declino dell’impero: «Due 71
LONDRA SI SCOPRE PERIFERIA
decenni orsono, alla fine della guerra, il fatto che una rivoluzione nel ruolo
occupato dalla Gran Bretagna nel mondo fosse divenuta inevitabile sarebbe
dovuto apparirci come una evidente realtà. Avremmo dovuto vedere allora
che riportando una grande vittoria militare, avevamo subìto una grave scon-
fitta economica e che la nostra influenza politica si basava più sulla nostra
passata reputazione che su una qualche solida e duratura fonte di potere in-
ternazionale. A quell’epoca ho anch’io commesso un errore di valutazione.
Come altri desideravo che la Gran Bretagna svolgesse un ruolo negli affari
mondiali, ma questo era in realtà al di sopra delle sue effettive possibilità»
(74). Oggi il problema è rimasto immutato. Ed è tanto più faticosamente
sopportato in quanto promettendo ai cittadini un ritorno alla prosperità, il
neoliberismo degli anni della Thatcher ha fallito. Del clima di disillusione
che si è creato in Gran Bretagna la signora Thatcher ha infatti una parte di
responsabilità, non tanto per ragioni obiettive connesse alla sua politica
economica neoliberista (anche se se ne potrebbe discutere), quanto perché
la sua azione vigorosa era stata condotta facendo balenare il miraggio di
una terra promessa. Se l’uscita della sterlina dal Sistema monetario europeo
ha ridato un po’ di fiato alle imprese, i problemi strutturali di fondo persisto-
no e indeboliscono considerevolmente qualsiasi speranza di una possibile e
rapida ripresa.
In definitiva, cosa rimane al Regno Unito della sua passata grandezza?
Una dopo l’altra, sta perdendo ogni traccia del suo impero. E questo sino a
quell’istituzione «irrazionale» quale è oggi la monarchia, fortemente criticata
per i suoi matrimoni sbagliati, le sue usanze antiquate, i suoi anacronistici
privilegi. Riuscirà l’Inghilterra a sopravvivere alla tormenta? Continuerà a te-
nere accesa la stella di un sogno lontano oppure si eclisserà infine per lasciar
sbocciare una memoria nuova, quella di un paese che rimane grande, per la
sua dignità e per la ricchezza della sua esperienza storica, ma che non sa più
bene a che cosa tutto ciò gli possa servire?
Note
70. Citato in M. BLACKWELL, Clinging to Grandeur. British Attitudes and Foreign Policy in the Aftermath of the
Second World War, Westport (Connecticut) - London 1993, p. 46.
71. Citato da E. Monroe, Britain’s Moment in The Middle East 1914-1956, Baltimore 1963, The John Hopkins
Press, p. 158.
72. Ivi, p. 207.
73. Ibidem, l’espressione «a lease of the universe for ever» viene attribuita ad un ardente difensore dell’impero
del secolo XIX.
72 74. Citato da M. BLACKWELL, op. cit., p. 148.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
AMERICA
O GERMANIA?
L’ITALIA SI DILANIA di Federico RAMPINI
L’avvento di Berlusconi potrebbe segnare il ritorno del modello
americano, ma la germanizzazione dell’economia italiana
ha radici più profonde. La geopolitica delle privatizzazioni.
Intanto cresce la compenetrazione con la Francia.
stato l’unico paese industrializzato a realizzare per due anni di seguito (1992
e 1993) – nel mezzo della più grave recessione dal dopoguerra – un saldo
primario attivo del bilancio pubblico pari al 2% del prodotto interno lordo
ogni anno (al netto del servizio del debito). Cioè una politica fiscale feroce-
mente restrittiva, che poteva solo inasprire la morsa della depressione.
Nella crisi dello Sme, la Bundesbank, privilegiando le proprie priorità
nazionali, si è rifiutata di indebolire il marco per tenere insieme lo Sme. Così
nel settembre 1992 sono state espulse dal Sistema monetario la lira e la sterli-
na, nell’agosto 1993 sono stati svalutati il franco francese e quello belga (sva-
lutazioni mascherate dall’allargamento della fascia di oscillazione), mentre
nel frattempo era stata riallineata anche la peseta. Ma con l’unica eccezione
della Gran Bretagna, tutti i paesi investiti dalle tempeste valutarie hanno con-
tinuato ad applicare esattamente la stessa politica monetaria di prima, come
se fossero ancora dentro il vecchio Sme. Francia, Belgio, Spagna, e perfino
l’Italia della lira debole e liberamente fluttuante, sono rimaste «incollate» agli
alti tassi tedeschi nonostante il livello record di disoccupazione. Così la Bun-
desbank, senza cedere un millimetro della sua sovranità monetaria, e anzi ri-
mangiandosi anche quel poco di concessioni fatte a Maastricht, ha ottenuto
un risultato ancora più netto di quello prefigurato dall’Unione monetaria:
piegare gli altri paesi alla propria disciplina e diventare la vera banca centrale
europea, pur rifiutando i costi di una responsabilità sovranazionale.
3. La germanizzazione dell’economia italiana inciampa così nella prima
reazione fortemente negativa dalla creazione dello Sme in poi. Come spiegar-
lo? Anzitutto con il tasso di disoccupazione italiano, ben più alto di quello te-
desco. Poi con la debolezza congiunturale dell’economia germanica: meno
essa è capace di fungere da locomotiva della crescita europea, più affiorano
dubbi in coloro che subiscono la sua egemonia (anche Bonn, del resto, sotto
il peso della recessione e della perdita di competitività industriale è costretta a
interrogarsi sulla validità del suo modello). Infine, la struttura sociale del tes-
suto produttivo italiano, con la forte presenza di piccolissime imprese, di la-
voratori autonomi, di liberi professionisti, sottrae larga parte dell’economia al-
la regolazione macroeconomica e alla concertazione sociale di tipo tedesco.
Comportamenti quali il lavoro nero e l’evasione fiscale di massa sono ostacoli
di non poco conto sulla via della convergenza. Le categorie sociali della «terza
Italia» – l’azienda familiare, gli artigiani, i professionisti – sono le prime a ribel-
larsi alla germanizzazione. Di conseguenza, mentre gli opinion leader intervi-
stati continuano a considerare come unico punto di riferimento l’Europa ger-
manocentrica o l’asse franco-tedesco, nell’opinione pubblica crescono i sinto-
mi di preoccupazione per l’egemonia dei due Stati «forti» dell’Unione.
Non sembra azzardato ritenere che questa inversione di rotta nell’opinio-
ne pubblica abbia favorito l’emergere sulla scena politica italiana della nuova
destra anti-Maastricht. Sia nella Lega Nord che in Alleanza nazionale si trova-
no le posizioni di politica estera più critiche verso l’impalcatura istituzionale
del Trattato per l’Unione. In quanto a Forza Italia, quando Silvio Berlusconi
in campagna elettorale ha promesso una riduzione della pressione fiscale e
la creazione di un milione di posti di lavoro, era in sintonia con quel 54% de- 77
AMERICA O GERMANIA? L’ITALIA SI DILANIA
ne era stato un antesignano. E poi, in epoche più recenti, non si era tentato di
contrabbandare anche l’Enimont come campione nazionale della chimica?
Quel che è interessante, non è che la germanizzazione conquisti ulterio-
re terreno in Italia grazie alle privatizzazioni in stile Mediobanca. Molto più
nuovo, semmai, è il fatto che questa tendenza si sia scontrata a più riprese
con una strategia opposta. Quella di Romano Prodi all’Iri, che ha dato batta-
glia per impostare le dismissioni secondo il modello thatcheriano: public
company, azionariato diffuso, capitalismo popolare. Quella della Lega Nord,
che ha giurato guerra a Mediobanca, vista come l’alfiere del vecchio establi-
shment capitalista settentrionale, statalista e antifederalista. Su questo terre-
no, una sfida strategica si gioca sulla vendita della Stet: è in ballo l’avvenire
delle telecomunicazioni italiane, settore più che mai vitale nell’èra della mul-
timedialità e delle «autostrade telematiche». Mediobanca sponsorizza un nu-
cleo duro franco-italiano (Alcatel-Pirelli) che ci inserirebbe nella logica dei
campioni «euronazionali» e delle alleanze continentali col Nord-Est franco-te-
desco (Alcatel è candidata ad entrare nel capitale di France Télécom, che a
sua volta è alleata con Deutsche Telekom…). Un’alternativa possibile è la
privatizzazione modello public company, seguita da alleanze di tipo atlanti-
co, con qualche colosso delle telecomunicazioni americane.
Il terreno fin qui conquistato in Italia dal modello germanico, o renano
(vista la sua estensione in Francia, Olanda e Svizzera), non deve far sottova-
lutare la sfida continua che gli viene rivolta dal capitalismo americano, i cui
interessi sul Vecchio continente restano vitali, e la cui potenza egemonica è
tutt’altro che sbiadita.
Sotto un aspetto puramente quantitativo, per esempio, gli ultimi dati di-
sponibili per il 1993 attribuiscono a Stati Uniti e Gran Bretagna il maggior volu-
me di acquisizioni straniere in Italia, superiore a Francia e Germania. Ma so-
prattutto, il sistema angloamericano è stato fin qui capace di imporre i suoi
standard e le sue regole nei mercati finanziari internazionali. Il capitalismo re-
nano, per quanto resista dietro mille barriere invisibili, per quanto difenda la
sua specificità e cerchi di respingere la penetrazione straniera, ha già dovuto
concedere molto alla cultura finanziaria dominante, che è quella anglosassone.
5. La battaglia d’influenza tra l’Occidente e il Nord-Est non risparmia al-
cun paese d’Europa. L’Italia, come da sua consuetudine, è al tempo stesso
terra di conquista e patria di fazioni armate, pullula di mercenari pronti ad ar-
ruolarsi al servizio di questa o quella potenza egemone. Per quanto l’influen-
za angloamericana conosca oggi un potente revival, e sia destinata comun-
que a imprimere tracce più profonde nel capitalismo italiano, la nostra posi-
zione geografica, le nostre debolezze e le nostre forze ci spingono nel lungo
termine a diventare un junior partner della Germania: è singolare osservare,
ad esempio, lungo quella nuova frontiera del capitalismo europeo che è la
colonizzazione dei paesi ex comunisti, l’oggettiva complementarietà fra le di-
visioni blindate della banca-industria tedesca e i nostri formicai brulicanti di
piccole imprese scatenate all’assalto dei mercati orientali.
Non mancano le ragioni per difendere un’altra complementarietà, quella
tra Francia e Italia (che ha un brillante assertore nell’economista Marcello De 81
AMERICA O GERMANIA? L’ITALIA SI DILANIA
Note
75. «Questo è il senso ultimo di un governo liberale, questo il progetto di un governo delle libertà. C’è un Italia
dell’iniziativa privata, nella produzione e nel settore dei servizi, che può e deve essere incoraggiata a far da
sé». Silvio Berlusconi, discorso programmatico al Senato, 16 maggio 1994.
76. J. CHARKHAM, Keeping Good Company: A study of Corporate Governance in Five Countries, Oxford 1994,
Oxford University Press; J. EDWARDS-K. FISCHER, Banks, Finance and Investment in Germany, Cambridge
1994, Cambridge University Press; G. OWENT, «Does Britain need the German model?», The Financial Times,
15/3/1994.
77. C. LORENZ: «Nationality should still count», The Financial Times, 11/2/1994.
78. M.G. COLOMBO-S. MARIOTTI: «Le acquisizioni internazionali nel quadro dell’integrazione europea», L’im-
82 presa, 31/1/1993.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
Appendice
Le tabelle presentate in questa appendice sono tratte da un’indagine dell’uf-
ficio Studi del Sole-24 Ore intitolata «L’Europa degli italiani». Le rilevazioni sono
state effettuate dalla Pragma e dall’Inra Europe. In particolare la prima ha sotto-
posto i quesiti delle tabelle 1, 2, 3, 4, 8, 10 e 11 a trecento persone, in prevalen-
za imprenditori, manager, alti dirigenti e parlamentari (Indagine opinion lea-
der). Le tabelle 5, 6, 7 e 9 sono prese dall’indagine sull’opinione pubblica
dell’Inra (Eurobarometro), una ricerca promossa dalla Comunità ed estesa a tut-
ti i paesi membri. Il campione scelto è pari a circa mille intervistati per paese.
Come specificato, alcune tabelle Inra sono riferite al solo campione italiano,
mentre altre sono riferite a un campione allargato ad altri paesi. L’indagine è sta-
ta realizzata fra l’ottobre e il novembre 1993.
1992 1993
B 22 20
DK 7 7
D 42 44
GR 22 19
E 40 45
F 73 76
IRL 7 7
NL 21 17
L 12 11
P 9 11
GB 38 42
Tabella 2. A QUALE PAESE CEE SI SENTE PIU VICINO E DA QUALE SI SENTE PIU LONTANO (in %)
B 14 11 21 14
I 7 5 59 4
DK 17 17 2 17
D 62 88 39 81
GR 2 – 11 1
E 16 7 30 10
F 62 46 50 39
IRL 4 1 3 4
NL 21 33 14 29
L 13 12 15 13
P 2 – 10 2
GB 42 21 3 38
I 19 F 15
DK 4 NL 1
D 45 P 1
GR 4 GB 23
E 2
D E F I GB Tot.
B 23 11 28 18 14 20
DK 26 11 14 11 25 19
D 60 24 37 32 14 36
GR 4 3 4 5 3 4
E 9 21 15 13 6 12
F 35 18 43 36 10 30
IRL 5 3 5 4 8 5
I 7 8 9 18 4 9
L 24 7 20 11 11 16
NL 29 12 17 12 24 20
P 5 7 7 4 6 6
GB 14 12 13 20 31 18
84 Dati Opinione Pubblica di Germania, Spagna, Francia, Italia, Gran Bretagna. Fonte Inra: Eurobarometro
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
Sì No Non so
Pensano ad un proprio tornaconto,
a vantaggi materiale 49 32 19
Pensano di tutelare
la propria categoria professionale 41 33 26
D E F I GB Tot.
B 13 7 10 11 9 11
DK 18 8 8 8 16 12
D 69 44 57 54 49 57
GR 2 1 1 1 2 2
E 5 3 5 4 3 4
F 41 17 30 22 9 26
IRL 2 3 1 1 2 2
I 9 3 4 6 3 5
L 14 5 10 9 8 10
NL 24 9 12 9 14 15
P 2 1 2 1 1 1
GB 19 16 11 18 15 16
Dati Opinione Pubblica di Germania, Spagna, Francia, Italia, Gran Bretagna e totale 5 paesi.
Fonte Inra: Eurobarometro
85
AMERICA O GERMANIA? L’ITALIA SI DILANIA
Tabella 8. QUALI PAESI POTREBBERO ESERCITARE UNA PIU FORTE EGEMONIA? (in %)
B 2 F 70
I 8 IRL –
DK 2 NL 7
D 93 L 2
GR 1 P –
E 3 GB 40
Tabella 9. PAESI DELLA CEE PIU IMPEGNATI PER L’UNITÀ EUROPEA (in %)
D E F I GB Tot.
B 14 11 23 12 15 15
DK 10 5 7 5 7 7
D 57 32 56 29 41 45
GR 5 5 4 5 5 5
E 10 15 16 11 7 11
F 35 25 48 30 33 35
IRL 4 5 4 3 9 5
I 10 9 12 23 9 12
L 15 8 19 9 12 13
NL 17 8 15 8 12 13
P 5 5 6 4 5 5
GB 9 12 12 10 11 11
Dati Opinione Pubblica di Germania, Spagna, Francia, Italia, Gran Bretagna e totale 5 paesi.
Fonte Inra: Eurobarometro
Tabella 11. L’EVENTUALE EGEMONIA DEI PAESI PIU FORTI QUANTO POTREBBE
DANNEGGIARE GLI INTERESSI NAZIONALI DEI PAESI PIU DEBOLI (in %)
Molto 25 Poco 20
Abbastanza 52 Per niente 3
86 Pragma: Indagine opinion leader
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
riana del «nuovo ordine europeo» che per l’Europa «atlantica» degli anni Cin-
quanta, ma che è stata anche l’alleata di Inghilterra, Prussia e Austria con-
tro la Francia di Robespierre e di Napoleone, nonché l’alleata di Lloyd Geor-
ge e di Clémenceau contro la Germania ordinata e civile di Guglielmo II e
contro l’Austria felix di Francesco Giuseppe. Intreccio scambievole e contrad-
dittorio di alleanze e di conflitti che rende francamente impossibili quasi tut-
te le equazioni, specie quelle più volgarmente in voga, secondo cui Occidente
= democrazia, ovvero Occidente = tradizione cristiana.
Quanto alla «sinistra», essa è certamente uno dei figli legittimi dell’Occi-
dente: tanto quanto il suo contrario, la destra. Arduo è perciò stringere in
una descrizione sintetica e convincente il rapporto intercorso tra sinistra e
Occidente, a meno di non ridursi a una visione riduttiva, da comitati civici
quarantotteschi, i quali combattevano e denunciavano il «russo-comunista»
Togliatti, e inducevano nei loro antagonisti un processo forse inconsapevole
di autoidentificazione con la Russia come tale.
L’avversione verso l’autocrazia zarista in quanto simbolo di tutto ciò
cui la democrazia avanzata, il socialismo, il comunismo, intendono con-
trapporsi, è già nei Dioscuri del comunismo europeo, Marx ed Engels. Si ci-
ta, a questo proposito, un testo divenuto celebre (più per le sue vicende edi-
toriali che per il suo contenuto): La politica estera degli zar di Engels (Lon-
dra, febbraio 1890). Un testo la cui pubblicazione sul Bolsevik, voluta da
Bukharin, fu vietata da Stalin nel 1934, certamente in ragione dell’asprez-
za inusitata con cui Engels denunciava la politica estera russa. Nell’Urss del
«socialismo in un paese solo» e del recupero della tradizione russa (Ivan il
terribile di Eisenstein) il tono di Engels appariva incongruo: donde la censu-
ra, scorciatoia tipicamente staliniana. È curioso osservare come questo
scritto, non compreso nemmeno – dai noi in Italia – nella raccolta (1960)
curata per Il Saggiatore da Bruno Maffi di scritti di Marx e di Engels su In-
dia Cina Russia, sia apparso poi (1978) in un momento di intesa «eterodos-
sia», presso un minuscolo editore rigorosamente eterodosso (La Salamandra,
Milano) a cura e con eccellente introduzione di Bruno Bongiovanni.
Essendo un’eresia che veniva da Occidente, il bolscevismo si è presto
trovato, dopo la presa del potere in Russia, dinanzi ad un bivio: o compene-
trarsi con il paese e fare i conti con l’enorme peso della sua tradizione e del-
la sua storia, ovvero continuare a mantenersi «straniero in patria» in attesa
della «rivoluzione mondiale». Un dilemma che si incarna – come spesso suc-
cede nella storia – in due persone concrete: Trockij, ebreo, cosmopolita e
autenticamente internazionalista; Stalin, georgiano e convinto assertore
della necessità dell’innesto nel concreto terreno di «un paese solo» del credo
comunistico in nome del quale una minoranza rivoluzionaria aveva con-
quistato il potere.
Si può dire, senza tema di errare, che il dilemma fosse già dentro la te-
sta di Lenin, e che non abbia torto Deutscher quando scrive (Russia after
Stalin, 1953) che, se fosse vissuto ancora a lungo, Lenin avrebbe dovuto sce-
gliere tra le due strade e si sarebbe incamminato piuttosto su quella «russa»
88 che su quella «internazionalista». Oggi possiamo parlare con un certo di-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
rare le grandi sfide dei nostri tempi possiamo affrontare in misura cor-
facendo affidamento solo su stesso. rispondente alla nostra capacità
LIMES Gli Stati Uniti vi propongono di economica, politica e anche milita-
formare una «partnership in leader- re. Dobbiamo anche attenerci ai di-
ship». Lei è d’accordo? Cosa significa ritti e agli obblighi che ci siamo as-
per l’Europa? sunti con la nostra adesione alle
KOHL Quando George Bush parlò Nazioni Unite, se vogliamo essere
della «partnership in leadership», noi pienamente capaci di agire e co-
tedeschi lo abbiamo interpretato co- struire in campo internazionale. Mi
me un invito e un desiderio dei no- faccia ancora aggiungere quanto
stri amici americani di lavorare in- segue: nel nostro rapporto con gli
sieme per un mondo di pace e giu- Stati Uniti e con l’Unione europea
stizia. Penso che dalla Germania non esistono «aut aut», ma solo «et et».
unificata ci si aspetti giustamente L’Europa necessita di un’America
una collaborazione maggiore alla che assuma un ruolo centrale nelle
soluzione dei problemi internazio- questioni di sicurezza europea. E
nali. Fianco a fianco con i nostri l’America necessita di un’Europa
amici americani ed europei, siamo che si assuma maggiore responsabi-
disposti ad assumerci, nell’ambito lità per se stessa e per la sicurezza
della divisione degli oneri all’inter- internazionale.
no dell’Occidente, gli impegni che
100
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
MAASTRICHT
ROVINA DELLA GERMANIA,
ROVINA DELL’EUROPA di Ludwig WATZAL
La vicenda del Trattato per l’Unione europea dimostra che Bonn
stenta ancora a individuare i suoi interessi nazionali. Invece di
inventarsi un’Europa che non c’è, tedeschi ed europei dovrebbero
difendere i valori e le regole dello Stato nazionale eterogeneo.
tica di potenza, nel senso che in alcune situazioni la potenza dev’essere im-
piegata, come per esempio nell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq. Se le
cose fossero andate come volevano i tedeschi, ancor oggi staremmo a discu-
tere con Saddam Hussein. L’incertezza tedesca sembra risultare dall’atteggia-
mento tipico di chi vuole importare sicurezza. In Germania non è molto dif-
fusa l’idea che la sicurezza va anche esportata. Un simile modo di raffigurare
le cose rivela un’eclatante insufficienza in termini di riflessione strategica.
Note
79. PH. SÈGUIN, «La politique autrement: Am Besten gleich alles reformieren», in M. BRUNNER, (a cura di), Kar-
tenhaus Europa? Abkehr vom Zentralisrnus - Neuanfang durch Vielfat, Munchen 1994, pp. 153-160.
80. Al riguardo, cfr. H. LUBBE, Abschied vom Superstaat, Vereinigte Staaten von Europa wird es nicht geben,
Berlin 1994.
81. Cfr. Deutscher Bundestag (parlamento tedesco), registrazione stenografica, 126 seduta, 2/12/1992, p. 10.888.
82. Le Figaro, 18/9/1992, cit. in Suddeutsche Zeitung, 19/9/1992.
83. R. AUGSTEIN, «Morire per Dresda, no!», Der Spiegel, n. 40/1992, p. 20
84. PH. SÈGUIN, «Wir haben bussen mussen, Der Spiegel, n. 8/1994, pp. 142-145, qui p. 143.
85. M. THATCHER, «Die politische Architektur Europas», in M. BRUNNER, (acura di), Kartenhaus Europa?..., cit.,
pp. 195-213.
86. Sui pericoli finanziari cfr. B. BANDULET, Das Maastricht Dosier, Deutschaland auf dem Weg in die dritte
Wabrungsreofrm, München 1993; W. NÖLLING, Unser Geld. Der Kampf um die Stabilitat der Wäbrungen in
Europa, Berlin-Frankfurt a. M. 1993.
86. Sui pericoli finanziari cfr. B. BANDULET, Das Maastricht Dosier, Deutschaland auf dem Weg in die dritte
Wabrungsreofrm, München 1993; W. NÖLLING, Unser Geld. Der Kampf um die Stabilitat der Wäbrungen in
Europa, Berlin-Frankfurt a. M. 1993.
87. W. HALDER, «Neuer Streit um deutsche Gelder fur Brussel», Die Welt, 16/12/1993.
88. CH. REIERMANN, «In der Klemme. Die finanziellen Verpflichtungen gegenuber EU und den Bundeslandern
uberfordern Bonn», Focus, n. 9/1994, pp. 49 ss.; Id., «Dem Zahlmeister geth das Geld aus», ivi, n. 50/1993, pp.
19 ss.
89. BUND FREIER BUGER (Alleanza di liberi cittadini), Wir machen die Europawahl am 12. Juni zur Volksab-
stimmung gegen Maastricht und fur die Deutsche Mark.
90. «Bundesstaat Europa ware ein Irrtum», lettera del ministro-presidente di Baviera Edmund Stoiber al cancellie-
re federale Helmut Kohl, Die Welt, 3/9/1993.
91. L. WATZAL, «Interessenpolitik und Nationalstaat», Die Welt, 30/11/1993.
92. M. GROSSHEIM-K WEISSMAN-R. ZITELMANN, «Einleitung: Wir Deutschen und der Western», in Id., (a cura
di), West-Bindung. Chanchen und Risiken fur Deutschland, Frankfurt a. M.-Berlin 1993, p. 10.
93. D. HAMILTON, «USA und Europa: Die neue strategische Partnerschaft», Aus Politik und Zeitgeschichte, B/94,
112 pp. 13-21.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
L’ASSE PARIGI-BONN,
ULTIMO TABÙ
DEL DOPOGUERRA di Michel KORINMAN
Non è solo la caduta del Muro ad aver spinto la Germania ad Est,
incrinando la solida alleanza con Parigi. È venuta a mancare
una visione politica comune sui pressanti problemi che affliggono
l’Europa.
noi tutti vogliamo evitare. Per scongiurarlo, occorre inventare un nuovo tipo
di responsabilità comune franco-tedesca.
tronde il ministro delle Finanze Theo Waigel all’inizio di luglio del 1989 – che
fossero tenuti in considerazione i territori dell’Est (posizione peraltro perfetta-
mente difendibile sul piano giuridico), e cioè la Slesia e la Pomerania nelle
frontiere tedesche del 1937, non era ancora pronto a riconoscere la linea
Oder-Neisse come frontiera germano-polacca. Forse abbiamo avuto ragione
di fraternizzare con Varsavia, ricordando l’esperienza atroce vissuta dalla Polo-
nia durante la seconda guerra mondiale. Ma abbiamo dato così a molti tede-
schi l’impressione di schierarci unilateralmente dalla parte del protagonista
polacco e di voler frenare l’avvenire della Germania. Infine, abbiamo pubbli-
camente dichiarato di voler controbilanciare la potenza montante della Ger-
mania in Europa, inventando tutta una serie di combinazioni, l’una più sche-
matica dell’altra, con la Gran Bretagna, l’Italia e i paesi dell’Est (la Confedera-
zione europea del presidente Mitterrand), affermando così la necessità di in-
cardinare la Germania in Europa. Di qui il disorientamento dei francesi, con-
fermato dai sondaggi dopo l’euforia che salutò da noi il crollo del Muro: il 61%
incoraggia il processo di riunificazione nel gennaio 1990, ma il 64% esprime
già in marzo grosse riserve e solo il 37% l’accetta in ottobre. Come dice Arnulf
Baring, la Francia ha dovuto ingoiare la riunificazione della Germania.
Monologo a due?
Le osservazioni dell’ambasciatore di Francia a Bonn, François Scheer, nel
marzo scorso, hanno suscitato un vespaio negli ambienti governativi, al punto
che – fatto degno di nota fra Stati amici – il diplomatico è stato convocato al
ministero degli Esteri tedesco il 17 marzo. Ma che cosa ha mai detto di così
stupefacente il nostro ambasciatore? La Germania riunificata si rappresenta in
quanto nazione (ciò che non poteva fare al tempo della divisione), dotata di
interessi nazionali che i suoi dirigenti devono difendere, a meno di lasciare
questo campo a gruppi assai poco democratici. I rapporti fra tedeschi e fran-
cesi dovranno essere dunque rimodellati attraverso il dialogo, se accettiamo
di mettere sullo stesso piano i nostri rispettivi interessi, oppure senza dialogo,
se Parigi continua a comportarsi con le lancette dell’orologio ferme agli anni
Sessanta. La congiuntura geopolitica, come spiega a giusto titolo il signor
Scheer, reclama dunque dal punto di vista francese un vero dibattito fra i due
partner sull’Europa, tanto più che le posizioni reciproche si sono confuse.
In effetti, la discussione sul referendum di approvazione del Trattato di
Maastricht (51,05% per e 48,95% contro, con il 30,31% di astenuti, nel settem-
bre 1992) ha mostrato che tale consultazione non verteva sull’Europa, ma sul-
la Germania, o meglio su una paura della Germania che si credeva svanita. I
partigiani del “sì” evocavano lo spettro del ritorno dei tedeschi al loro destino
in caso di non ratifica, quelli del “no” la minaccia del Quarto Reich, o peggio,
dopo la ratifica. Non c’è da stupirsi che l’Europa sia rimasta ai margini del di-
battito. Sono stati gli americani a costringerci ad accettarla dopo la guerra, a
causa del confronto Est-Ovest. Noi, in mancanza di un progetto, le abbiamo
assegnato, dopo il 1957, un contenuto burocratico, essenzialmente nutrito di 115
L’ASSE PARIGI-BONN, ULTIMO TABÙ DEL DOPOGUERRA
LE RADICI
FRANCOFOBE
DELLA KULTUR di Michael NEHRLICH
Un tedesco di sinistra illumina, attraverso la sua biografia
intellettuale, le zone d’ombra e le rimozioni che ostacolano
un normale rapporto tra le due sponde del Reno.
Un problema vitale per la costruzione europea.
antinazista, in tutto risoluta, figlia di una francese, che non conobbe perché
morta molto presto, e di un padre socialdemocratico. Quanto a mio padre, lo
interrogai io stesso, molto più tardi, in occasione di un mio viaggio in Francia,
e mi giurò di non aver saputo «la verità». Egli fu una persona perbene che, per
orrore delle armi, era riuscita a non andare in guerra ed è basandomi sulla sua
dabbenaggine di ex Elmo d’acciaio diventato SA senza mai odiare un «non te-
desco» che – più tardi – ho potuto misurare l’impatto della demenza collettiva
di uno Stato totalitario: le cui buffonate, ad esempio le sfilate con le torce, era-
no riuscite a suscitare in me un’amministrazione infantile, che in seguito mi
fece orrore; di questo Stato, che ha messo a ferro e fuoco il mio paese, la Ger-
mania, insozzato la mia identità di tedesco, ipotecato la mia esistenza.
2. Questo lo seppi molto presto e da quel momento decisi di lasciare la
Germania. E non è per impietosirvi che vi dico che non è piacevole, non è af-
fatto piacevole, appartenere a una nazione di assassini. Ma intendiamoci be-
ne, per evitare malintesi. Da una parte è vero, naturalmente, che non tutti i te-
deschi sono stati assassini; tuttavia – come sottolinea a ragione Todorov – la
differenza tra i crimini commessi da altre nazioni, poniamo l’Unione Sovietica,
e quelli commessi dallo Stato nazista, uscito da elezioni legali, consiste in que-
sto: quei crimini furono la logica realizzazione, preannunciata e prevista, di
uno Stato apertamente fondato sull’immoralismo e sull’abdicazione della ra-
gione, sulla dottrina della «superiorità della razza ariana». D’altra parte, è senza
dubbio più doloroso appartenere alla nazione, se così si può definire, degli
assassinati, per non parlare del lutto eterno di quanti hanno visto perire i loro
genitori, o, peggio ancora, i loro figli nei Lager o nelle camere a gas. Ma il do-
lore è dolore e quello di un tedesco come me non è affatto da sottovalutare:
mettetevi al posto del figlio di un criminale in un villaggio dove tutti si cono-
scono. Il mondo è un villaggio, credete a me, e anche se forse non tutti sono
al corrente di ciò che è avvenuto nella Germania nazista, quelli di cui vi im-
porta lo sanno.
Nel sistema universitario tedesco feci il mio ingresso nel 1966, con una te-
si sul teatro spagnolo del secolo dei Lumi. Hans Bender, poeta e redattore
della rivista Akzente, che faceva scuola nel campo della letteratura e della
poesia tedesca, mi invitò a pronunciarmi su una disputa che opponeva poeti
tedeschi miei coetanei, tra i quali Handke, convinti di «non aver più niente da
dire», a scrittori più anziani, quali l’emigrato Jakov Lind, che, dal canto loro,
pensavano di avere ancora qualcosa da dire. Intervenni, dunque, nel 1967,
collocandomi al fianco di Lind e prendendo, tra l’altro, partito contro Gli in-
sulti al pubblico di Handke a favore di un poeta ancora assolutamente ignoto,
che aveva pubblicato altri insulti, a mio avviso assai più coraggiosi: Wolf Bier-
mann (Gli insulti al Comitato Centrale del mio partito).
In seguito a questo intervento persi il primo posto nella lista per l’asse-
gnazione di una docenza e non fu certo solo per caso che la cattedra di lettere
romanze attribuitami nel 1969 (e che ancora occupo) fu quella dell’Università
tecnica di Berlino, in cui insegnava il fondatore della rivista Akzente, lo scrit-
tore e poeta Walter Hoellerer.
120 Nel 1967 feci due incontri per me decisivi: quello con la poetessa franco-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
pertanto nel dibattito che ha per oggetto se sia o non sia pensabile una «sini-
stra» (politica o filosofica), in Germania o altrove, senza i Lumi, senza la répu-
blique, senza le sue idee e i suoi ideali. Ma so che chi voglia comprendere
che ne è della Germania, quella del passato e quella odierna, deve sapere che
un tedesco, suddito di questa Germania moderna, è sempre stato un nemico
dei Lumi e della Francia repubblicana. Se era troppo idiota, o troppo ignoran-
te per sapere cosa fossero i Lumi e la république, quantomeno odiava la Fran-
cia. La odiava d’ufficio, per il suo essere un suddito tedesco, perché le autorità
tedesche da lui si aspettavano questo.
4. Si può forse valutare, ora, che cosa voglia dire scrivere un’apologia dei
Lumi nella cella dei condannati a morte di un carcere nazista e forse si valu-
terà il significato del fatto che ancora oggi non disponiamo di una storia non
edulcorata dei rapporti franco-tedeschi. Mentre, infatti, nella Germania
dell’Est ci si limitava alla confezione stereotipata di compendi storici nei quali
«il popolo» ricopriva un ruolo obbligatoriamente eroico quanto sprovveduto
(in particolare per tutto ciò che riguardava l’epoca successiva alla fondazione
del Partito comunista), nella Germania dell’Ovest la storia nefasta dei rapporti
franco-tedeschi fu più o meno passata sotto silenzio nell’interesse di quella «ri-
conciliazione» franco-tedesca diventata, dopo il 1945, il fondamento dell’Euro-
pa occidentale. La Germania dell’Ovest, chiamata Repubblica federale Ger-
mania, entrò in un’epoca che in passato la Germania aveva molto brevemen-
te e sommariamente conosciuto soltanto tra le due guerre mondiali: l’epoca
repubblicana; ma lo fece in modo molto pragmatico, senza una vera critica di
massa (l’espressione «anno zero», che designa il 1945, è un termine adeguatis-
simo), senza coscienza e senza filosofia. Ciò spiega perché da un giorno all’al-
tro nazisti noti, divenuti tanti von Paulus democratici, potessero tornare ad
esercitare funzioni politiche importanti; perché, ad esempio, tutto l’apparato
giudiziario continuasse a girare senza il minimo intralcio e perché i vecchi
esponenti della propaganda antifrancese – i Claus, gli Epting, gli Heller e i Sie-
burg – potessero continuare a divulgare i loro stereotipi nazionalisti. La «vera
Francia» per i tedeschi dell’Ovest era una Francia senza passato rivoluzionario,
senza una repubblica nata da guerre internazionali (non era già stata, forse,
una guerra mondiale quella dichiarata nel 1794 dalle nazioni europee alla Re-
pubblica francese?), senza una Germania che le aveva giurato odio eterno e
promesso poi lo sterminio. La Francia diventava la Marianna che il vicino Mi-
chel aveva sempre amato, il paese del buon vino e dei banchetti di gemellag-
gio; in breve, dell’amicizia eterna, che aveva i suoi profeti in giornalisti e pro-
fessori universitari, pagati (o che si credevano pagati) per raccontare che tutto
andava nel migliore dei modi nella migliore delle relazioni franco-tedesche.
Ma questi pacificati rapporti, franco-tedeschi, che nessun cattivo ricordo
sembrava più turbare, angosciavano quanti non avevano dimenticato e teme-
vano viceversa ciò che poteva risorgere dopo tanta «Gemutlichkeit». Non che
avessero previsto la caduta del Muro, nessuno l’aveva prevista. Ma sapevano
– dalla storia – che la rimozione del passato è una cattiva maestra, che gli
scheletri non si lasciano rinserrare per sempre negli armadi e che niente era
122 stato veramente regolato nei rapporti franco-tedeschi; anzi, un effettivo dialo-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
go non era stato neppure avviato. Di tutto questo e di cose ancor più doloro-
se abbiamo discusso con Werner Krauss, Evelyne Sinnassamy ed io, entrambi
angosciati per dover riattraversare entro mezzanotte la frontiera (perché si do-
veva lasciare Berlino Est prima di quest’ora: si è mai vista una cosa simile? È
per questo che è scomparso questo «paese socialista»… per aver preso i suoi
cittadini per coglioni). Ma noi restavamo fino all’ultimo minuto con Krauss,
che soffriva per i dolori che gli causavano le sevizie inflittegli dai nazisti e per
il ricordo della sua amica Ursula Goetze, decapitata nel 1943, e che, ansiman-
do, ci implorava di ritornare da lui la domenica successiva. In breve, è da
queste discussioni che è nato il sogno, assolutamente folle, di una rivista di ri-
cerche sulla Francia quale la Germania non ha mai conosciuto, strumento di
trasmissione dell’idea repubblicana francese in Germania; di una rivista che,
perpetuando la tradizione e il ricordo dei Lumi, onorasse – in Germania – il ri-
cordo della resistenza repubblicana contro il terrore nazista. Il primo numero
di questa rivista, intitolata Lendemains, apparve a Berlino Ovest nell’aprile
1975. Vi si legge: «Abbiamo scelto il titolo Lendemains perché pensiamo che
sia finalmente giunto il tempo di onorare quelli che il popolo francese ha do-
vuto sacrificare nella lotta contro il fascismo tedesco. (…) Prima di essere fuci-
lato dalla Gestapo, Gabriel Péri, deputato comunista (…) ha scritto «Faccio
per l’ultima volta il mio esame di coscienza. È positivo. Rifarei la stessa strada
se dovessi ricominciare la vita. (…) Vado a preparare ‘i domani che cantano’.
Mi sento forte per affrontare la morte. Addio e viva la Francia»».
A partire dal secondo numero, Werner Krauss cominciò a pubblicare studi
sulle parole-chiave dei Lumi, ai quali demmo il titolo di Supplément au Diction-
naire philosophique. E se i Lumi erano morti, i nostri avversari non dovevano
esserne coscienti o convinti. Fatto sta che in numerose università della Germa-
nia occidentale furono proibiti l’affissione della rivista e l’abbonamento da parte
delle biblioteche. Nel 1977, una specie di Ku-Klux-Klan accademico che si chia-
mava Associazione per la difesa dell’Università libera di Berlino, presieduto da
un professore di letteratura francese, Erich Loos, pubblicò un opuscolo contro
di me in cui denunciava Lendemains accusandola di voler diffondere le idee re-
pubblicane francesi ed esigeva la mia destituzione dalla cattedra.
5. Fu per questo che il «governo di Berlino occidentale», per incitamento
dell’associazione di cui sopra, intraprese misure disciplinari contro di me, bloc-
cate per l’intervento del governo francese. Ed è anche vero che i miei studenti
non ottennero più borse e che io stesso fui messo al bando dall’Università te-
desca, non fui più invitato a dibattiti, anzi una volta fui «disinvitato» perché un
certo collega non avrebbe sopportato la mia presenza eccetera. Ma, seriamen-
te, vi domando: ho incontrato difficoltà? O, più precisamente: sono stato tede-
sco? ¿Aleman de que Alemania? Per citare, adattandola, un’espressione spa-
gnola. Nel frattempo, non ero diventato francese? o spagnolo? Invece di ri-
spondere, permettetemi di dire che la rivista Lendemains continua ad esistere,
benché io non sappia per quanto tempo ancora. Essa, infatti – non ci facciamo
illusioni a questo proposito – vive una vita marginale (e come potrebbe essere
altrimenti in Germania?) e quando nel 1992, dopo sedici anni di esistenza sen-
za sovvenzioni, ci siamo visti costretti a chiedere un contributo alla Deutsche 123
LE RADICI FRANCOFOBE DELLA KULTUR
Q
« UESTA VOLTA NON VERREMO CON
il libretto degli assegni». Così Wolfgang Schauble, presidente dei deputati
CDU-CSU e accreditato delfino del cancelliere Helmut Kohl, ha illustrato il 15
aprile scorso l’idea di inviare soldati tedeschi in Bosnia. «La Germania deve
dare il suo contributo – anche militare – alla pace nella ex Jugoslavia», ha
spiegato Schauble, reduce da un viaggio a Washington per consegnare ai
suoi interlocutori americani un documento riservato del suo gruppo parla-
mentare: in esso si dichiara la disponibilità della Germania a partecipare a
pieno titolo alle missioni dell’Onu, in particolare nella ex Jugoslavia. Giacché
«per noi la presenza in Bosnia è più importante dell’impiego in altri continen-
ti» (95).
(Re)cognosce te ipsum
Vedremo presto soldati tedeschi sul teatro di guerra balcanico, una pol-
veriera in cui la memoria dell’invasione nazista resta attualissima? Non è af-
fatto scontato (malgrado l’imprevista disponibilità russa ad accettare l’invio di
«caschi blu» germanici in Bosnia), vista la prudenza del cancelliere Kohl in
materia, la non brillante performance della Bundeswehr in Somalia e l’indi-
sponibilità di un tedesco su due a un coinvolgimento diretto in Bosnia (96).
Ma le affermazioni del leader cristiano-democratico – largamente condivise
nei due partiti cristiani e, sottovoce, da qualche esponente socialdemocratico
(97) – rivelano che nella coscienza di gran parte della classe dirigente tede-
sca il tabù antimilitarista è superato. E che la Germania si prepara a impiega-
re le sue forze armate in ambito Onu come fattore di potenza – allo stesso ti-
tolo degli altri protagonisti della scena internazionale. Con ciò superando
l’interpretazione restrittiva degli articoli 87 a comma 2 e 24 comma 2 della 125
CHE COSA CERCA LA GERMANIA IN JUGOSLAVIA
Panzermedien
L’offensiva per il riconoscimento di Slovenia e Croazia comincia in Ger-
mania ben prima della dichiarazione di indipendenza delle due repubbliche
jugoslave (25 giugno 1991). Essa impegna fin dall’inverno 1990-’91 tre diversi
livelli di formazione della volontà politica: sale anzitutto dai media, rimonta
fino al livello dei partiti, per sfociare infine in una formale decisione del go-
verno federale.
Sono dapprima i giornali e le tv ad aprire la strada alla svolta politica,
consumata in modo tutt’altro che lineare fra il 1° luglio, quando Kohl accen-
na per la prima volta alla necessità di accogliere Croazia e Slovenia nella co-
munità internazionale, e il 23 dicembre 1991, data in cui i consoli generali te-
deschi consegnano ai governi di Lubiana e di Zagabria le lettere con cui il
presidente Richard von Weizsacker riconosce i due nuovi Stati. Secondo la
rappresentazione semplificata – quindi tanto più efficace – della gran parte
dei media, le due repubbliche jugoslave settentrionali vogliono disporre del-
la propria esistenza, esercitando quel diritto all’autodeterminazione dei po-
poli cui i tedeschi – nella vulgata diffusa dopo il crollo del Muro di Berlino –
hanno attinto per legittimare la loro riconquistata unità (102). I serbi negano
con la forza tale elementare diritto, tenendo in vita la morente Federazione
jugoslava, da essi dominata. I referendum del dicembre 1990 in Slovenia e
del maggio 1991 in Croazia (boicottato dalla minoranza serba) si sono risolti
in plebisciti indipendentisti. La Germania, l’Europa, il mondo liberaldemo-
cratico che ha appena festeggiato le rivoluzioni del Secondo Ottantanove
non possono permettere che nel cuore del continente un residuo bastione
totalitario soffochi le giuste aspirazioni di popoli civili, di «antiche nazioni»
come la Croazia e la Slovenia. 127
CHE COSA CERCA LA GERMANIA IN JUGOSLAVIA
scavalcare dalla sinistra: «L’altrimenti così attivo ministro federale degli Esteri
nella questione jugoslava non si è avventurato oltre i luoghi comuni. In que-
sto vuoto si spinge ora la SPD. I socialdemocratici hanno capito evidente-
mente anche prima di alcuni politici dell’Unione (CDU e CSU, L.C.) che la
Germania, per ragioni geografiche, storiche ed economiche, non può restare
a lungo spettatrice passiva del dramma nel Sud-Est europeo» (110).
tedesca buona parte dei Gastarbeiter croati (insieme agli sloveni, superano il
mezzo milione, cui nel corso della guerra se ne aggiungeranno almeno altri
250 mila: una lobby consistente e abbastanza ascoltata dai media e dai politici
tedeschi). Il presidente sloveno Kucan viene accolto, trionfalmente in marzo a
Stoccarda, capitale del Baden-Wurttemberg, prima di proseguire per Bonn,
dove ottiene promesse di appoggio politico e soprattutto finanziario (113).
Questo asse geopolitico troverà plastica espressione il 25 giugno alle ce-
lebrazioni per la proclamazione delle indipendenze croata e slovena, dove,
oltre ad alcuni esponenti della Junge Union (giovani di CDU e CSU), gli unici
ospiti ufficiali stranieri saranno austriaci: in particolare, a Lubiana, i capi delle
regioni Carinzia (Christoph Zernatto), Stiria (Joseph Krainer), Alta Austria
(Joseph Ratzenbock), il sindaco di Vienna, Helmut Zilk. Solo all’ultimo mo-
mento Busek smentirà la sua annunciata partecipazione (114).
L’eroe eponimo della Mitteleuropa è colui che, se la ruota della storia
non avesse girato altrimenti, si troverebbe oggi a regnare su quel mosaico di
popoli e di paesi: l’erede al trono austro-ungarico, Otto von Habsburg (nato
nel 1912). Non potendo ricoprire funzioni pubbliche in Austria, l’ex principe
ereditario è deputato europeo della CSU – dopo aver rifiutato offerte le più
varie, dalla Lega Nord ai monarchici georgiani, fino alla candidatura alla pre-
sidenza dell’Ungheria – ma non abdica a una rappresentazione asburgica
dell’Europa centrorientale. Il principe spiega a Reissmuller, in una conversa-
zione apparsa sulla FAZ del 23 marzo 1991, che la Slovenia, contro i prono-
stici di esperti poco simpatetici, è in grado di sopravvivere economicamente
come Stato indipendente, a patto che entri nella Cee – in tal caso potendo,
ad esempio, sviluppare il porto di Capodistria in armonia con gli altri scali re-
gionali italiani. Egli sogna una confederazione tra i popoli jugoslavi, emanci-
pati dalla morsa granserba e integrati in Europa (115).
Sei mesi dopo, in una intervista alla Presse di Vienna, Otto von Habsburg
sarà più esplicito, fino ad assimilare senz’altro gli sloveni e i croati agli austria-
ci: «Che ci sia una comunanza tra gli austriaci e i croati e gli austriaci e gli slo-
veni è assolutamente evidente. Se da qui lei si dirige verso la Slovenia, non
noterà nessuna differenza. L’unica differenza è che a nord del confine gli au-
striaci parlano tedesco, e a sud parlano sloveno. Ma austriaci sono, da entram-
bi i lati del confine». E assicura che in futuro fra Austria, Slovenia e Croazia ci
sarà «molto più» di una semplice comunanza. L’Asburgo postula un ritorno al-
la monarchia come garanzia per le minoranze etniche. Implicitamente, egli
propone la rinascita, in vesti aggiornate, del suo impero, così associando al
mondo germanico alcuni popoli slavi, polacchi inclusi («croati, sloveni, polac-
chi – non dobbiamo dimenticarlo – sono nostri compatrioti») (116).
È comprensibile che regionalismo e Kleinstaaterei allarmino l’élite politi-
ca e l’opinione pubblica degli altri paesi europei – inglesi e francesi anzitut-
to, ma anche italiani, olandesi, spagnoli. Senza attingere la germanofobia pa-
rossistica dei media serbi o dei panslavisti russi, in Europa occidentale ser-
peggiano i sospetti per l’improvviso attivismo di quello che nelle carte men-
tali delle élite europee resta il «mondo germanico». È soprattutto la grande
stampa francese a dar sfogo al suo istinto germanofobo (117). Ma financo il 131
CHE COSA CERCA LA GERMANIA IN JUGOSLAVIA
Oltre che sull’Austria, la Germania può contare in questa fase sul sempre
più pronunciato impegno vaticano, e in qualche misura anche sull’Italia, do-
ve la pressione delle regioni del Nord-Est e di ambienti democristiani costrin-
gono il governo ad aprire a Slovenia e Croazia. Tanto che il 14-15 settembre
a Venezia Genscher e De Michelis affermano per la prima volta in pubblico
che riconosceranno le due repubbliche se i negoziati falliranno.
Carrington e i partner comunitari ne sono irritati, perché così si invitano
sloveni e croati a boicottare la conferenza (150). Dumas avverte Genscher:
«Agendo in questo modo, riportereste le relazioni franco-tedesche indietro di
venti anni» (151). Van den Broek dice che la minaccia tedesca di riconoscere
le repubbliche secessioniste «ha provocato solo nuova violenza», che la Ger-
mania deve smetterla di distinguere fra «buoni» croati e «cattivi» serbi, e che
un comportamento riservato sarebbe più consono al ruolo svolto dai tede-
schi durante la seconda guerra mondiale (152). Fino a che punto può Bonn
permettersi di sfidare il resto dell’Occidente? Kohl e Genscher devono chie-
derselo con qualche preoccupazione.
Finale di partita
Nell’autunno del 1991, la Conferenza di pace, promossa da una Comu-
nità europea che dietro le quinte conduce una sua sorda guerra intestina,
sembra pestare acqua nel mortaio, a copertura delle conquiste serbe in Croa-
zia. La televisione e i giornali tedeschi portano in tutte le case le atrocità di
una guerra la cui responsabilità è interamente attribuita ai serbi e all’esercito
federale. Il messaggio è: non possiamo lavarcene le mani, dobbiamo fare
qualcosa; se non possiamo o non vogliamo mandare i soldati, dobbiamo al-
meno riconoscere le vittime dell’aggressione. Da precondizione dell’inter-
vento, il riconoscimento scade così a surrogato.
Nei partiti tornano a farsi sentire i partigiani dei riconoscimenti immediati.
Persino nella FDP, dove lo stesso presidente Lambsdorff, pur consapevo-
le che ora essi «non potrebbero produrre molto», guida i critici di Genscher
(159). Anche il social democratico Florian Gerster, ministro per gli Affari eu- 139
CHE COSA CERCA LA GERMANIA IN JUGOSLAVIA
Note
95. «Balkan in Bonn», Der Spiegel, n. 16, 18/4/1994.
96. «German Public Approves NATO Air Strikes in Bosnia - But Not German Participation», U.S. Information
Agency, Opinion Research Memorandum, 19/4/1994. Sulle differenze fra Kohl e Schauble, vedi «Die Bunde-
swehr nach Bosnien?», FAZ, 16/4/1994. Sulla apertura di Mosca all’impiego di militari tedeschi in missioni di
pace in Jugoslavia e in altri paesi dell’Est, Csi compresa, vedi «Zu jedem Kampf bereit», intervista di Boris Elcin
a Der Spiegel, n. 17, 25/4/94.
97. Secondo un «autorevole dirigente socialdemocratico», le riserve della SPD contro l’impiego «fuori area» della
Bundeswehr «non resisteranno più di tre mesi» in caso di conquista della Cancelleria. Vedi Der Spiegel, nota 1.
98. «Patron fur den Frieden?», Der Spiegel, n. 9, 28/2/1994.
99. «Kohl: Ohne Polen bleibt die Europaische Union ein Torso», FAZ, 15/4/1994.
100. «U.S. Envoy Rebukes Germans and Kohl on Foreigners Issue», International Herald Tribune, 16/4/1994.
101. A. BARING, Eine neue deutsche Interessenlage?, Koln 1992, Hannus Martin Schleyer-Stiftung, p. 22.
102. Sull’atteggiamento della Germania nella crisi jugoslava si possono trovare molti spunti nella letteratura esi-
stente sul nuovo dramma balcanico. Fra gli altri libri: M. CRNOBRNJA, Le drame yougoslave, Rennes 1992,
Editions Apogée; M. GLENNY, The Fall of Yugoslavia, Harmondsworth 1992, Penguin; H. STARK, Les
Balkans - Le retour de la guerre en Europe, Paris 1993, Editions Dunod-Ifri; J. MERLINO, Les vérités yougosla-
ves ne sont pas toutes bonnes à dire, Paris 1993, Albin Michel; H. WYNAENDTS, L’engrenage - Chroniques
yougoslaves, juillet 1991 - août 1992, Paris 1993, Denoël; S. BIANCHINI, Sarajevo, le radici dell’odio, Roma
1993, Edizioni Associate; CH. CVIIC, Rifare i Balcani, Bologna 1993, il Mulino. Fra gli articoli: M. KORIN-
MAN, «L’Austria, la Germania e gli slavi del Sud», Limes, nn. 1-2/1993, pp. 79-92; S. VENTO, «La disentegrazio-
ne jugoslava», Relazioni Internazionali, settembre 1992, pp. 29-38; J. NEWHOUSE, « The Diplomatic Round»,
The New Yorker, 24/8/1992, pp. 60-71; H.-J. AXT, «Hat Genscher Jugoslawien entzweit?», Europa-Archiv, n.
12/1993, pp. 351-361; H. STARK, «Dissonances franco-allemandes sur fond de guerre serbo-croate», Politique
Etrangère, n. 3/1992, pp. 339-347; E. RONDHOLZ, «Deutsche Erblasten im jugoslawischen Burgerkrieg», Blat-
ter fur deutsche und internationale Politik, n. 37, luglio 1992, pp. 829-838; A. MUHLEN, «Die deutsche Rolle
bei der Anerkennung der jugoslawischen Sezessionsstaaten», Liberal, n. 34, giugno 1992, pp. 49-55. Per la ste-
sura di questo articolo mi sono state inoltre molto utili conversazioni con alti funzionari del ministero degli
Esteri tedesco e con esperti e diplomatici europei e americani, che ringrazio cordialmente.
103. Sulla consolidata tendenza antiserba nei media tedeschi, vedi l’articolo di M. BEHAM, «Mythen und Lugen -
Zum historischen Serbien-Feindbild», nelle pagine locali della Suddeutsche Zeitung, 2/3/1994.
104. J.G. REISSMULLER, «Herrenvolk-Verblendung», FAZ, 16/4/1994.
105. J.G. REISSMULLER, «Manchmal werden sie die Deutschen Jugoslawiens genannt», FAZ, 16/4/1994.
106. Verhandlungen des Deutschen Bundestags, seduta del 21/2/1991, pp. 407-408.
107. «Geeintes Jugoslawien eine Kiktion», FAZ, 25/5/1991.
108. «SPD: Slowenien anerkennen», Die Welt, 28/5/1991.
109. C.-G. STROHM, «Schuld in Kroatien», Die Welt, 6/5/1991.
110. C.-G. STROHM, «Brandt, das jugoslawische Drama und ein Tadel fur die EG», Die Welt, 28/5/1991. 145
CHE COSA CERCA LA GERMANIA IN JUGOSLAVIA
154. «Kohl und Mitterrand verstandigen sich auf gemeinsame Grundsatze zum Konflikt in Jugoslawien», FAZ
20/9/1991.
155. «Bonn fordert UNO-Sitzung zu Jugoslawien», Die Welt, 21/9/1991.
156. Cfr. nota 52.
157. «In der Unionsfraktion zeichnet sich eine Haltungsanderung zu Jugoslawien ab», FAZ, 27/9/1991.
158. «CSU fur Anerkennung», FAZ, 30/9/1991.
159. «Kohl: kein deutscher Alleingang», FAZ, 8/10/1991.
160. «Die Parteien drangen die Regierung zur Anerkrnnung Kroatiens und Sloweniens», FAZ, 9/10/1991.
161. Ibidem.
162. Come Hornhues che l’8 ottobre si schiera pubblicamente per i riconoscimenti, e il giorno dopo partecipa in
silenzio alla Koalitionsrunde (ibidem).
163. Ibidem.
164. «Waffenruhe in Kroatien», FAZ, 10/10/1991; «Frankreich andert seine Jugoslawien-Politik», FAZ, 11/10/1991.
165. Vedi nota 66.
166. «Schauble gegen Anerkennung», FAZ, 4/11/1991.
167. Ibidem.
168. «Anerkennung ware der erste Schritt», FAZ, 5/11/1991 e «Bischof fordert militarische Hilfe fur Kroatien»,
FAZ, 12/12/1991.
169. J. MERLINO, op. cit., pp. 82-84.
170. «Bonn drangt die EG zur Anerkennung Sloweniens und Kroatiens», FAZ, 7/11/1991.
171. «Bundestag ermuntert die Regierung zur Anerkennung Kroatiens», FAZ, 16/11/1991. 78Vedi nota 76.
vedi nota 170
173. «Bonn wird noch vor Weihnachten uber die Anerkennung Kroatiens und Sloweniens entscheiden», FAZ,
28/11/1991; «Kucan wirbt in Bonn fur die Anerkennung Sloweniens», FAZ, 4/12/1991; «Deutschland will
Slowenien und Kroatien anerkennen», FAZ, 6/12/1991.
174. Il portavoce della Cancelleria, Dieter vogel, e quello degli Esteri, Schumacher, confermano il 13 dicembre
che la Germania ha comunque deciso per il sì immediato; cfr. «Bonn: Zagreb und Liubljana anerkennen»,
FAZ, 16/12/1991. Secondo il New York Times del 16/12/1991, «Germany Insists It Will Recognize Yugoslav
Republics», Vogel dice; «Andremo avanti indipendentemente dal fatto che qualcuno, tutti o nessuno ci segua».
175. «Die FG berat uber die Anerkennung Kroatiens und Sloweniens», FAZ, 16/12/1991.
176. Lo scambio di lettere fra Perez de Cuellar e Genscber nella FAZ del 16/12/1991, «Genscher widerspricbt Pe-
rez de Cuellar».
177. «Ein grosser Erfolg fur uns», Der Spiegel, n. 52, 23/12/1991. Dove si rivela che di fronte all’appello di Bush
contro i riconoscimenti Genscher dice: «La Germania è completamente a terra».
178. «U.S. Is At Odds With German Backing For Slovenia And Croatia., New York Times, 8/12/1991.
179. Vedi la ricostruzione in «Wreckognition», The Economist, 18/1/1992.
180. Questa interpretazione è ben espressa in J. NEWHOUSE, op. cit., passim.
181. Vedi le dichiarazioni di Warren christopher (Le Monde, 19/6/1991), Roland Dumas e Gianni De Michelis
(«Lo dicevo io, era meglio Tito», L’Europeo, n. 24, 18/6/1993).
182. Così Karl Lamers in «Pour une Allemagne forte et responsable», Le Monde, 15/9/1993.
183. «Zur Frage der Anerkennung der jogoslawischen Nachfolgestaaten», memorandum interno del ministero
degli Esteri che difende le ragioni del riconoscimento di Slovenia e Croazia e replica anche alle accuse tardive
degli alleati, sostenendo che nessuno era obbligato a seguire Bonn.
184. Così Klaus Kinkel in un convegno organizzato a Roma dalla rivista MicroMega su «Dove va la Germania?»,
4-5 marzo 1993.
185. R. Lansing, The Peace Negotiations: A Personal Narrative, New York-Boston 1921, p. 98.
186. «Vier von funf Deutschen halten Fretjndschaft rnit USA fur wichtig», dispaccio di agenzia DDP, 10/1/1994.
147
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
IDENTITÀ NAZIONALE,
IDEOLOGIA VOLKISCH
E NUOVA DESTRA di Thomas LINDEMANN
gewie arriva alla conclusione che i Republikaner sono già «una piccola Volk-
spartei» (188). Sottolineiamo anche il fatto che la protesta e il malcontento
politico non sono necessariamente una scelta politica a favore dell’estrema
destra, perché questa protesta potrebbe anche manifestarsi nel voto a favore
della PDS, dei verdi o della SPD. Perché un elettore voti per l’estrema destra,
bisogna che abbia un certo numero di predisposizioni mentali – una prossi-
mità verso valori, atteggiamenti, opinioni – in comune con essa.
Notiamo che, secondo un’indagine svolta nel 1979-’80 dall’istituto Sinus,
il 13% degli elettori della Repubblica federale condivideva un insieme coe-
rente di convinzioni e di atteggiamenti di estrema destra. È dunque molto
probabile che nella società tedesca continui a esistere un importante poten-
ziale di estrema destra, normalmente incanalato nei partiti tradizionali, ma
che potrebbe rivolgersi all’estrema destra in una situazione di crisi politica ed
economica. Si potrebbe qualificare tale potenziale come una sorta di «reper-
torio di crisi» (189). È dunque importante analizzare non solo i fattori sociali
ed economici, ma anche le ideologie veicolate dall’estrema destra e chiedersi
in quale misura esse trovino un fertile terreno nella società tedesca.
Uno dei temi più frequenti nella propaganda dell’estrema destra è il pro-
blema dell’identità nazionale. E qui desideriamo prospettare una nostra ipo-
tesi, su cui torneremo, secondo la quale il concetto di identità nazionale
dell’estrema destra è ampiamente diffuso nella società tedesca ed è una delle
maggiori cause del suo successo tra gli elettori. In un primo tempo, tuttavia,
vedremo come l’estrema destra definisce l’identità nazionale, per domandar-
ci in seguito in quale misura l’identità volkisch, diffusa dall’estrema destra,
abbia successo presso l’elettorato tedesco.
ni politiche della NPD possono essere dedotte da ciò. In primo luogo, questa
concezione implica necessariamente il rigetto o almeno una segregazione
degli stranieri, perché la nazione deve restare «etnicamente pura» per «non
deperire». L’attuale presidente della NPD, Gunter Deckert, scrive nel suo li-
bro Handbuchgegen Ubetfremdungche il problema dei Gastarbeiter (lavora-
tori ospiti) è un problema «ecologico» e un pericolo «per l’essenza biologica
del popolo tedesco» (196). E il Consiglio federale della NPD nel maggio 1992
ha dichiarato che la «società multiculturale» significa «un pericolo per la pace
interna» (197).
La DVU, fondata nel 1971, che conta 25 mila membri e dispone di varie
pubblicazioni tra cui la DNZ, con una tiratura di 100 mila esemplari, non si
differenzia fondamentalmente dalla NPD per quanto riguarda la concezione
dell’identità nazionale. Bisogna dire che questo partito non dispone di una
vera organizzazione e che il suo programma si riduce a un foglietto su due
facciate, che proclama in modo tautologico: «La Germania innanzitutto. (...)
La Germania deve restare tedesca». Il dirigente incontestato di questo partito,
Gerhard Frey, proprietario di un capitale di circa 40 milioni di marchi, sui
suoi giornali fa propaganda a favore di un nazionalismo biologico nettamen-
te improntato a temi social-darwiniani. Il suo giornale DNZ, a proposito delle
violenze razziali a Rostock, ha scritto: «Il nostro popolo sembra comprendere
dove lo porti l’essere abbandonato senza difesa a una politica antitedesca: lo
porta all’abisso». E il giornale constata che «da oggi è in gioco puramente e
semplicemente la nostra possibilità di sopravvivenza», richiamandosi alla
«snazionalizzazione, dovuta in particolare all’invasione di centinaia di mi-
gliaia di zingari» (198). Altermann, il primo deputato della DVU eletto nel
1987 a Brema, sottolinea: «La razza deve restare razza», perché «i meticci sono
sempre idioti» (199).
Il discorso dei Republikaner sulla nazione tedesca è più complesso e più
ambiguo. Il loro dirigente Schonhuber cerca di defilarsi dalle idee razziste e
naziste. Da qualche anno si sforza di «epurare» il partito dalle persone troppo
vicine ai gruppuscoli neonazisti ed è persino riuscito ad invitare Hans Hein-
zel, membro del gruppo di resistenza anti-hitleriana La rosa bianca, al con-
gresso federale dei Republikaner che si è svolto a Rastadt nel l993 (200). Vi
sono pochi dubbi, tuttavia, sul fatto che la sua concezione della nazione te-
desca sia fondata su criteri etnico-linguistici implicanti l’ostilità contro tutte le
influenze straniere sulla peculiarità germanica. Egli si riferisce volentieri al
pangermanista Paul de Lagarde e a Herder, che attribuiscono a ogni nazione
un’individualità olistica. Schonhuber non è apertamente razzista, ma si di-
chiara a favore della segregazione delle nazioni: «Amo i turchi, ma li amo di
più in Turchia» (201), o «Vogliamo restare tedeschi». Ammira apertamente la
Volksgemeinschaft diffusa dal nazionalsocialismo, che per Schonhuber signi-
fica una Gemeinschaft senza conflitti, trascendente tutte le distinzioni socio-
economiche e politiche.
Il programma del 1987 dei Republikaner (Bremerhaven) mette in risalto
la concezione volkisch di questo partito (202). Preoccupandosi apparente-
152 mente dell’essenza biologica del Volk tedesco, il programma si dichiara a fa-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
percezione negativa della pluralità etnica, mentre soltanto il 25% delle perso-
ne situatesi al centro e il 22% di quelle situatesi a sinistra condividono tale
opinione. Il 25% delle persone di estrema destra si dicono disturbate dalla
pluralità etnica rispetto al 13% di quelle di centro e all’8% di quelle di sinistra
(212). Notiamo, en passant, che in Germania la correlazione tra l’estrema de-
stra e un atteggiamento negativo verso la pluralità etnica è particolarmente
forte, mentre invece è debole, o manca del tutto, in Belgio, Gran Bretagna,
Grecia, Italia, Lussemburgo, Portogallo e Spagna. Ciò dimostra che ogni
estremismo di destra si iscrive in una diversa logica nazionale e che l’estremi-
smo di destra in Germania non può essere separato dall’ideologia volkisch.
Approvare l’espulsione degli stranieri o la limitazione del loro soggiorno
può essere un altro indice di coscienza etnica. Secondo il già citato sondag-
gio Emnid, il 92% degli elettori dei Republikaner, a fronte del 65% della po-
polazione complessiva, sono a favore di una limitazione del diritto di sog-
giorno dei lavoratori ospiti a qualche mese o a un anno (213) e il 94%, a
fronte del 67%, sostiene che gli stranieri – debbono lasciare la Repubblica fe-
derale dopo un anno di disoccupazione (214). Non c’è da sorprendersi se il
99% degli elettori dei Republikaner a fronte del 75% della popolazione com-
plessiva pensa che in Germania vi siano troppi stranieri . L’ostilità e il rigetto
nei confronti degli stranieri, analogamente, sono spesso legati all’adesione
all’ideologia volkisch. Un sondaggio Emnid del 1989 conferma, ad esempio,
che le persone con atteggiamenti antisemiti condividono(215) assai più net-
tamente la posizione «per tenere la Germania pulita ed evitare gli incroci di
popoli» (4,9 su un ventaglio da 1 a 6) rispetto a quelli insensibili all’antisemi-
tismo (2, 4) (216). Gli elettori dei Republikaner, mediamente più attaccati alla
«purezza razziale» rispetto all’insieme della popolazione, hanno nei confronti
degli ebrei residenti in Germania un atteggiamento più negativo di quello
della popolazione complessivamente considerata (52% rispetto al 18%)
(217). Gli elettori dei Republikaner, in particolare, sono contrari alla conces-
sione di asilo a persone provenienti dall’Africa (su una scala da +5, assoluta-
mente simpatico, a -5, niente affatto simpatico, scelgono -4, posizione razzi-
sta, rispetto a -1,5 della popolazione complessiva) e dall’Asia (218). Questo
rigetto è probabilmente dovuto alla sensazione di una distanza razziale, per-
ché gli americani e i rimpatriati dall’ex Rdt sono giudicati positivamente dagli
elettori dei Republikaner. Alcuni commentatori, tuttavia, hanno messo in
dubbio la motivazione volkisch dei Republikaner, considerando che essi
hanno un atteggiamento negativo anche verso i tedeschi di origine rimpatria-
ti dalla Polonia o dall’ex Urss. Bisogna dire, però, che il loro rigetto dei tede-
schi di origine (posizione-1) è molto meno marcato rispetto a quello dei tur-
chi e delle persone in cerca di asilo provenienti dall’Africa e dall’Asia (219).
In breve, sembra che il rigetto dei tedeschi di origine tra gli elettori dei Repu-
blikaner sia attenuato da un vago senso di prossimità etnica.
La seconda componente dell’ideologia volkisch – la volontà di escludere
le persone con peculiarità culturali e linguistiche – è probabilmente ancora
più diffusa nella società tedesca, perché è connessa al nazismo in modo me-
no netto dei «legami di sangue». Un segnale di questo atteggiamento è il gra- 155
IDENTITÀ NAZIONALE, IDEOLOGIA VOLKISCH E NUOVA DESTRA
volkisch non funziona nei due sensi: il fatto di avere una ideologia volkisch
non comporta sistematicamente un’adesione alle tesi dell’estrema destra. La
sua diffusione nella società tedesca è assai più ampia di quanto non dimostri
il voto all’estrema destra ed è per questo che il terreno volkisch è un campo
di attività assai propizio per la propaganda di questo schieramento politico.
Ci limiteremo qui a citare alcuni sondaggi che mettono in risalto la persi-
stenza del pensiero volkisch in seno alla società tedesca. Secondo un’inchie-
sta dell’Istituto Wickert del 1988, il 53% dei cittadini tedeschi nella fascia di
età tra i 50 e i 69 anni e il 14% tra i 18 e i 29 anni sono d’accordo che la citta-
dinanza tedesca sia riservata alla gente di «sangue tedesco». (come da pro-
gramma della NSDAP del 1920), mentre il 38% della popolazione è incline a
pensare che i tedeschi abbiano un Lebensraum (spazio vitale) troppo limita-
to e l’83% è d’accordo nel chiedere «il ricongiungimento di tutti i tedeschi, se-
condo il diritto all’autodeterminazione dei popoli» (228). Evitiamo comunque
la trappola dell’etnocentrismo e sottolineiamo che probabilmente le implica-
zioni politiche delle due ultime formule non sono sempre presenti nella
mente di chi le accetta. In un sondaggio del 1987 riservato ai giovani di 16 e
17 anni, il 43,5% degli intervistati si dice d’accordo sulla formula «la Germa-
nia ai tedeschi», mentre il 37,4% sostiene la richiesta «gli stranieri fuori» (229).
La nozione etnica della nazione tedesca si esprime anche nella Legge
fondamenta dello Stato. L’articolo 116 sancisce che «è tedesco rispetto al
Grundgesetz chiunque possieda la cittadinanza tedesca e chi, o in relazione
all’appartenenza al popolo (Volkszugehorigkeit) tedesco, o moglie o discen-
dente, è giunto nella Repubblica federale provenendo da una regione inte-
grata nel Terzo Reich al 31 dicembre 1937» (230). La legge sulla cittadinanza
tedesca del l913, tuttora in vigore, definisce tale cittadinanza sulla base dello
jus sanguinis. La commissione legislativa incaricata di elaborare questa legge
respinse, all’epoca, lo jus soli come incompatibile con la salvaguardia della
«nostra peculiarità etnico-culturale» (231). La legge del 1953 sulle persone
espulse e sui rifugiati specifica il criterio Volkszugehorigkeit mediante «la filia-
zione, la lingua, l’educazione e la cultura». Un certo particolarismo germani-
co della Legge fondamentale si esprime anche nel fatto che essa accorda di-
gnità umana ed eguaglianza dinanzi alla legge, libertà di religione e di pen-
siero a tutte le persone, mentre si riferisce ai soli tedeschi per quanto riguar-
da la libertà di riunione (Vereinigungsfreiheit) e il diritto di scegliere libera-
mente la propria residenza (Freizugigkeit) (232). Rileviamo anche che il tri-
bunale di Karlsruhe nel 1990 si è opposto alla partecipazione degli stranieri
alle elezioni comunali, riferendosi al fatto che Volk significa deutsches Volk di
qui viene Wahlvolk (Volk elettorale). La logica dello jus sanguinis pone seri
problemi all’integrazione degli immigrati. Anche dopo che due generazioni
hanno vissuto in Germania, essi ottengono solo in via molto eccezionale la
cittadinanza tedesca. Dal 1973 al 1990 soltanto 256.942 immigrati su 6 milioni
e 500 mila hanno ottenuto la cittadinanza tedesca: «Se si prende come riferi-
mento la Germania, il tasso di residenti stranieri naturalizzati è 4 volte più
elevato in Francia, 10 volte negli Usa, 15 volte in Svezia e circa 20 volte in
Canada» (233). Dopo le violenze razziali avvenute nel 1992 a Molln, tuttavia, 157
IDENTITÀ NAZIONALE, IDEOLOGIA VOLKISCH E NUOVA DESTRA
Note
187. Vedi per esempio W. HEITMEYER, Rechsextremistiche Einstellungen bei Jugendliche, Weinheim 1987, Ju-
venta. Vedi anche la critica di A. PFAHL-TRAUGHBER, Rechtsextremismus, Bonn 1993, Bouvier, pp. 196 ss.
188. C. LEGGEWIE, Die Republikaner, Berlin 1990, Rotbuch Verlag, p. 18.
189. Vedi T. ASSHEUER-H. SARKOWICZ, Rechstradikale in Deutschland, Munchen 1990, Beck’sche Reihe, p. 9.
190. M. ENZENSBERGER, «Bin ich ein Deutscher?», in Wort und Sinn, a cura di K.-E. JEISMANN, G. MUTHA-
MANN, Paderborn 1973, F. Schoningh, p. 500-503. Per un’analisi più dettagliata, TH. LINDEMANN, Des Alle-
magnes et de l’Allemagne, Paris 1993, Fondation pour les Etudes de Defense Nationale.
191. Vedi T. ASSHEUER-H. SARKOWICZ, op. cit., p. 37.
192. C. LEGGEWIE, op. cit., pp. 123 ss.
193. Citato da P. GLOTZ, Der Irrweg des Nationalstaats, Stuttgart 1990, DVA, p. 77.
194. Citato da Y. MOREAU, Les fils d’Hitler, Paria 1993 l’Archipel, p. 78.
195. T. ASSHEUER-H. SARKOWICZ, op. cit., p. 19.
196. Ivi, p. 24. 159
IDENTITÀ NAZIONALE, IDEOLOGIA VOLKISCH E NUOVA DESTRA
160
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
L’UNIFICAZIONE
SPIEGATA
AI RAGAZZI di Bernd ZIELINSKI
Nei testi scolastici tedeschi si tende a semplificare la fine
della divisione della patria, quasi fosse lo sbocco di un processo
naturale. Un significativo brano tratto da un manuale
per ginnasiali.
DAL BRANDEBURGO
RINASCE UN’IDENTITÀ
ORIENTALE? di Sophie LORRAIN e Karl SCHELTHAUER
go, una notevole autonomia gestionale agli organi locali. Le prerogative di que-
sti ultimi si estendono fra l’altro ai trasporti, alla formazione professionale, alla
pianificazione urbana, alla protezione dell’ambiente e alla manutenzione delle
infrastrutture (scuole, musei, teatri). La scomparsa di partiti come le associazioni
di contadini (2,97%), le unioni civiche (1,58%) e le alleanze elettorali per le don-
ne (che hanno ottenuto 2 seggi a Francoforte sull’Oder e 3 a Cottbus) è la parti-
colarità tedesco-orientale di queste elezioni (cfr. tabella 1). L’estrema destra rac-
coglie, in tutto, l’1% dei suffragi espressi. Inoltre, la SPD conquista le città «fuori-
circoscrizione» di Brandeburgo-Havel e di Potsdam. La CDU vince a Cottbus,
Alleanza 90-Verdi conquista Francoforte sull’Oder. A rigore la PDS non ha un
suo feudo, ma figura come seconda forza in tutte le circoscrizioni.
* Tenendo conto del calo della partecipazione, crollata dal 74,5% delle elezioni comunali del 1990
al 59,7% delle ultime consultazioni, si nota che in termini assoluti tutti i partiti perdono voti (la
CDU più di 600 mila, la SPD 32 mila), a eccezione della PDS, che si mantiene stabile.
Note
239. Citato in P. MOREAU «Das Wahljahr und die Strategieder PDS», supplemento della rivista Das Parlament,
Aus Politik und Zeitgeschichte, 7/1/1994, p. 22.
240. G. Gysi, citato Jahrbuch der Bundesrepublik Deutscbland, München 1993, Beck, p. 309.
166 241. Die Zeit, n. 40, 1/10/1993, dossier «Es wachst zusammen».
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
LA BAVIERA CERCA
IL SUO POSTO NELL’EUROPA
DELLE REGIONI di Dominic GUBA
L’evoluzione dello Stato ebraico attraverso le carte.
Dalle rappresentazioni bibliche alle rivendicazionini sioniste,
le frontiere di una terra contesa. Il difficile compromesso
fra pace e sicurezza.
inizi della CSU, al momento in cui il problema del posto che la Baviera
avrebbe avuto nella Germania era al centro dei dibattiti.
Quando, nell’autunno 1945, si forma la CSU, i suoi creatori provenivano
da due tradizioni politiche differenti. Da una parte coloro che rappresentava-
no la tendenza interconfessionale dei sindacalisti della vecchia Bayerische
Zentrumspartei, dall’altra gli eredi della Bayerische Volkspartei (BVP), cattoli-
ci e bavaro-federalisti. Scopo della CSU era creare un vero partito popolare
cristiano, che superasse le antiche divisioni geopolitiche della Baviera. Infatti
la Baviera è divisa in tre tradizionali zone geopolitiche: Franconia, Svevia e
Antica Baviera (Altbayern). La Franconia è una regione confessionalmente
mista: di tradizione cattolica a Wurzburg, Bamberg e Eichstatt, di tradizione
protestante a Ansbach e Bayreuth. La Bassa Franconia è abbastanza omoge-
neamente cattolica, mentre la Media e la Alta Franconia sono territori misti a
maggioranza protestante. La Svevia bavarese è a grande maggioranza cattoli-
ca, come pure l’Antica Baviera (Alta e Bassa Baviera, Alto palatinato). Questa
rappresenta un’unità politica quasi ininterrotta sin dal primo millennio, ad
eccezione dell’Alto Palatinato. Dalla fine del XIX secolo, Alta e Media Fran-
conia erano fortemente caratterizzate dal liberalismo e dalla socialdemocra-
zia, mentre il resto della regione, e ciò vale soprattutto per l’Antica Baviera,
era patriottico, cattolico e conservatore (254).
Dal suo costituirsi nel 1945, questa divisione tradizionale tra una Baviera
protestante e liberale e una Baviera cattolica, conservatrice e patriottica, si ri-
proponeva all’interno della CSU. Il suo primo presidente, Josef Muller (1945-
1949), della cui cerchia facevano parte Adam Stegerwald, August Haussleit-
ner, Wilhelm Eichhorn, Paul Nereter e Wilhelm von Prittwitz und Gaffron, si
basava sulla tradizione francone liberale e «unitarista» (reichstreu) ereditata
dall’ala interconfessionale e sindacalista della Zentrumspartei. Alois Hund-
hammer, Fritz Schaffer e Anton Pfeiffer erano gli eredi della BVP, nutriti di
cattolicesimo, di conservatorismo e di patriottismo bavarese. Per realizzare il
proprio obiettivo di diventare un vero partito popolare in Baviera, la CSU
doveva dunque riunire queste due tendenze per insediarsi in modo stabile
nella Antica Baviera, come pure nell’Alta e Media Franconia, di cui le due
correnti costituivano il riflesso.
Nel 1946, la CSU viene riconosciuta come Land dal governo militare
americano. Ciò facilitava le cose per la corrente unitarista, in quanto, al mo-
mento, rappresentava l’unico partito antisocialista a connotazione patriottica
in Baviera. Per quanto «reichstreu», Josef Muller e i suoi non lasciavano tutta-
via dubbi possibili in merito alla loro volontà di vedere realizzarsi una costi-
tuzione federale in Germania. La CSU si trovava quindi divisa tra federalisti
radicali e moderati. Avendo ottenuto la maggioranza assoluta nelle prime
elezioni regionali del 1946 (52,3%), la CSU avrebbe potuto governare da so-
la. Non lo consentivano però le tensioni esistenti tra le due correnti. Così i
patrioti di Hundhammer progettavano una coalizione con la SPD per evitare
che la presidenza del Consiglio sfuggisse a Muller. Sostenuto dalla grande
maggioranza dei deputati, Hundhammer prese il sopravvento. All’elezione
170 della presidenza del Consiglio, Muller venne battuto a vantaggio di Hans
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
Ora, detenere il potere in Baviera significa governare uno degli Stati eu-
ropei più importanti a livello economico. Ancora molto arretrata economica-
mente alla fine della guerra, la Baviera è attualmente una delle regioni euro-
pee più prospere e dinamiche. Il pil bavarese nel 1990 era di 133 miliardi di
dollari, il che la poneva al settimo posto nella Cee, poco al disotto dei Paesi
Bassi (142 miliardi di dollari). Calcolando il pil per abitante è superata in Eu-
ropa soltanto dalla Danimarca. È anche il 12° esportatore mondiale e il suo
tasso di disoccupazione è nettamente inferiore alla media europea (4,9% nel
1992). Con il più basso debito pubblico dei Lander, le spese pubbliche della
Baviera raggiungono i 47,7 miliardi di marchi tedeschi. Lo Stato, governato
da oltre trent’anni dalla sola CSU, è quindi non soltanto uno dei più antichi
d’Europa, come amano ripetere i dirigenti della CSU, ma anche uno dei più
ricchi, e questo notevole potere è strenuamente difeso nei confronti delle
tendenze centralizzatrici tedesche ed europee.
177
LA BAVIERA CERCA IL SUO POSTO NELL’EUROPA DELLE REGIONI
Note
242. Suddeutsche Zeitung, 2/11/1993, p. 14.
243. Si veda J. JOFFE, «Ketterasseln fur Deutschland», Suddeutsche Zeitung, 4/11/1993, p. 4.
244. «Der letzte Europaer», Der Spiegel, n. 45/1993, pp. 18-23.
245. Suddeutsche Zeitung, 5/11/1993, p. 1.
246. «CDU wendet sich gegen Stoiber», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 5/11/1993, p. 2, e inoltre K. FELD-
MEYER, «Wenn Wahlkampfer an Europa denken», ivi, p. 14.
247. Frankfurter Allgemeine Zeitung, 4/11/1993, pp. 1-2.
248. Suddeutsche Zeitung, 12/11/1993, p. 1.
249. Suddeutsche Zeitung, 5/11/1993, p. 1.
250. Frankfurter Allgemeine Zeitung, 3/11/1993, p. 6; Suddeutsche Zeitung, 5/11/1993, p. 1.
251. È questo un breve quadro storico che si limita a ricostruire fatti ben noti. Per completarlo, in modo anche
più analitico sulla «questione bavarese», si veda K. BOSL, Bayerische Geschichte, Munchen 1980 (molto artico-
lato e che evidenzia questa «pseudoideologia storica»); P. HARTMANN, Bayerns Weg in die Gegenwart, Re-
gensburg 1989 (molto esauriente per quanto riguarda l’evoluzione territoriale e la politica dei partiti); G. SAN-
TE, (a cura di), Geschichte der deutschen Lander, Wurzburg 1964 1971 (compilazione cronologica degli avve-
nimenti); M. TREMI., (a cura di), Politische Geschichte Bayerns, Munchen 1989.
252. È interessante vedere come essa viene presentata dalle autorità ai giovani sottolineando «l’originaria qualità
di Stato» della Baviera. Si veda F. HOFER, Lebendige Bayerische Verfassung, Munchen 1993, passim.
253. F.J. STRAUSS, Die Erinnerungen, Berlin 1989, p. 137. Si veda anche B. OCXER, «Bayern ist doch ganz an-
ders», Revue d’Allemagne, n. 3/1977, pp. 350-360, dove é sintetizzata molto chiaramente questa rappresenta-
zione.
254. Si veda A. MINTZEI, «Die CSU», in Anatomie einer Konservativen Partei, Opladen 1975, pp. 393-421, da noi
ampiamente seguito in questo scritto.
255. Si veda K.F.J. WOLF, «CSU und Bayernpartei», in Ein besonderes Konkurrenzverhaltnis 1948-1960, KöIn
1982.
256. F.J. STRAUSS, op. cit., p. 528.
257. 1957: 57,2 1976: 60,0 1961: 54,9 1980: 57,6 1965: 55,6 1983: 59,5 1969: 54,4 1987: 55,1 1972: 55,1 1990: 51,9
258. F.J. STRAUSS, op. cit., p. 530. Egli aggiunge che «soprattutto non sussistono dubbi sull’identità bavarese del-
la CSU» (p. 544). Certuni dimenticano che tale identificazione non era un processo naturale, e che la CSU rap-
presenta la tradizione statale della Baviera dal 1945. Si veda H. KLEIN, CSU. Phanomen? Provokation? Volk-
spartei?, Munchen 1976.
259. F.J. STRAUSS, op. cit.,p. 114.
260. Citato da MULLER-BRANDECK-BOCQUET, «Europäiscbe Integration und Deutscher Foderalismus», in
KREILE, (a cura di), Die Integration Europas, Opladen 1992, p. 172. La Baviera ha peraltro presentato una
protesta alla Corte costituzionale in merito all’Atto unico. A quella data, Stoiber, allora a capo della cancelleria
bavarese, ha pubblicato una critica alle conseguenze centraliste dell’Atto unico: «Auswirkungen der Entwick-
lung Europas zur Rechtsgemeinschaft auf die Lander der BRD», Europa-Archiv, n. 19/1987, pp. 543-552.
261. Si veda «Subsidiaritat und christliches Menschenbild», Das Parlament, n. 43/1993, p. 10.
262. In particolare T. DECHAMPRIS, «Le fédéralisme allemand à l’épreuve», Documents, n. 1/1992, pp. 14-18.
263. Si veda Der spiegel, n. 50/1991, p. 41.
178
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
ASPETTANDO
KANT
A KÖNIGSBERG di Michel KORINMAN
Contro la linea del governo di Bonn, la lobby dei ‘prussiani
orientali’, che gode di forti appoggi politici ed economici, non
si rassegna a considerare l’attuale Kaliningrad come parte della
Russia. Le trattative con i russi e le posizioni di polacchi e lituani.
L’assedio di Kaliningrad
L’Associazione dei profughi della Prussia Orientale, fondata il 3 ottobre
1948, non ha mai riconosciuto l’appartenenza di questa regione all’Urss (par-
te nord) e alla Polonia (parte sud) concessa dagli occidentali a Potsdam (17
luglio – 2 agosto 1945) e sanzionata da un accordo Mosca-Varsavia (16 ago-
sto 1945). Questo ragionamento veniva difeso in base alla tesi della vecchia
RfG, per cui il Reich continuava ad esistere giuridicamente nelle sue frontiere
del 1937, all’interno delle quali si situava precisamente la Prussia Orientale.
Se le organizzazioni dei rifugiati parlavano soprattutto di Slesia e di Pomera-
nia (polacche) e molto meno di Prussia Orientale, è che si trattava nel caso di
terre lontane e soprattutto controllate, a nord, dalla seconda potenza mon-
diale di cui nessuno allora prevedeva il crollo.
Con la riunificazione, il discorso evolve e la questione viene rilanciata
dai «prussiani orientali»: la Prussia Orientale fa parte della Germania (273). E
non appena il processo di unificazione è compiuto, essi suggeriscono un
compromesso in grado sia di riparare i danni subiti dai profughi sia di assicu-
rare la pace: garanzia dei loro diritti di minoranza e doppia nazionalità per i
tedeschi restati nel paese; restituzione dei beni e diritto di ritornare per i pro-
fughi (274). Non stupisce che l’Associazione sottolinei, attraverso il suo por-
tavoce Wilhelm von Gottberg (eletto tra il 30 ottobre e il 1° novembre 1992),
gli appoggi di cui essa gode nelle istituzioni federali; in particolare la Bavie-
ra, suo «padrino» dal 1978, si illustra – avendo messo da parte ogni regionali-
180 smo – come avanguardia della lotta in materia di rivendicazioni nazionali ol-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
tre frontiera, come testimonia un’intervista dei «prussiani orientali» con il mi-
nistro-presidente Edmund Stoiber il 13 settembre 1993 (275). Da questo pun-
to di vista, il trattato germano-sovietico del 9 novembre 1990, nel quale le
parti si impegnano a rispettare senza riserve le frontiere europee e dichiara-
no di non avanzare rivendicazioni territoriali verso chicchessia il giorno della
firma e nell’avvenire (articolo 2), non cambia nulla: l’oblast di Kalinin-
grad/Konigsberg deve essere oggetto di negoziato. 181
ASPETTANDO KANT A KÖNIGSBERG
Bisogna ammettere che alcune forze in seno alle altre parti presenti nella
regione incoraggiano i «prussiani orientali» e i loro alleati a pensare in questo
modo. Anzitutto tra i polacchi. Wilfried Bohm, deputato della CDU, membro
della commissione Esteri del Bundestag, afferma che la Polonia fa di tutto
per colonizzare la regione (276). A Varsavia si elaborerebbero progetti di
spartizione che attribuirebbero alla Polonia parte della Prussia Orientale, a
nord, Kaliningrad inclusa, nella prospettiva di una Grande Polonia, con com-
pensazioni territoriali per i lituani, i bielorussi e gli ucraini (vedi carta) (277).
In effetti la Polonia è palesemente inquieta, come a fine 1992 indica il mini-
stro della Difesa Janusz Onyszkiewicz, a causa della sproporzione gioche-
rebbe fra le necessità militari della Russia e la loro formidabile fortezza di Ka-
liningrad (278). Ma soprattutto i polacchi, sempre pronti a evocare lo spettro
del ravvicinamento germano-sovietico – Trattato di Rapallo del 1922 – vo-
gliono prevenire un qualsiasi ritorno alla situazione d’anteguerra, impedire
un nuovo accerchiamento del loro paese da parte della Germania; in questo
quadro la Pomerania (orientale) polacca giocherebbe allora il ruolo, più a
ovest, del corridoio del 1919-’39. Ancora nel 1994 Lech Walesa dichiara che
nell’oblast è in corso un processo di colonizzazione economica, che li vuole
(ostentatamente!) ignorare le parti in causa, e che si tratta di una dinamica
pericolosissima (279). Per Janusz Reiter, ambasciatore a Bonn, qualsiasi ini-
ziativa tedesca in Prussia Orientale significa attualizzare la Geopolitik e le av-
venture del passato (280).
In tale contesto, Varsavia accetta di cedere ai lituani Sovek (Tilsit) e Ne-
man (Ragnitz) a nord – i prussiani orientali aggiungono curiosamente Zna-
mensk (Wehlau) a ovest di Kaliningrad, in «zona polacca» – ma parallelamen-
te reclama, come notano i tedeschi, l’integrazione nell’Ue e nella Nato (281).
D’altronde, spiega l’economista cattolico Wlodzimierz Bosarski, la Polonia
troverebbe in Prussia Orientale un giusto compenso ai gravi danni subiti dai
polacchi dell’Est rimpatriati dai sovietici nel 1945 (282). E il console generale
polacco a Kaliningrad dal settembre 1992, Jerzy Bahr, insiste: una simile tran-
sazione farebbe giustamente tacere tutti coloro che oggi parlano del revisio-
nismo polacco. Walesa avrà un bel sottolineare l’interesse puro e semplice di
tutti, a commerciare con la Polonia. E il governo polacco a smentire per la
penna di Grzegorz Raciborski, addetto stampa a Colonia (283). Quanto me-
no, i prussiani orientali restano increduli.
Lo stesso vale per i lituani, che insistono tutti sulla necessaria smilitariz-
zazione della regione. Il giornale Klaipeda (=Memel) reclama il ritorno della
Prussia Orientale (nord) alla Lituania per ragioni di sicurezza.
Il «Comitato della Piccola Ucraina» esige almeno il Nord dell’oblast (284),
Njemen (Memel) e Deima (Deime) in nome del diritto «etnico» e «storico». Kh-
ruscev avrebbe promesso tutta la regione ai lituani negli anni Cinquanta e fu
Vilnius a rifiutarla per paura di integrare troppi russi nel paese (285). All’ini-
zio del 1990, il presidente Vytautas Landsbergis, che in seguito attenuerà le
sue espressioni, concorda con questa riflessione, in caso di disintegrazione
dell’Urss. La regione, separata dall’Urss dalla Lituania, dovrà scegliere allora
182 tra Vilnius e Varsavia e optare per Vilnius (Landsbergis ritorna con infinita di-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
screzione su questo tema nel febbraio 1992) (286). Fatti confermati dal vinci-
tore ex comunista delle elezioni dell’ottobre-novembre 1992, Algirdas Bra-
zauskas, ostile al progetto (287). Per finire: Vilnius non ha forse esercitato
pressioni economiche sulla Russia – il 70% dell’energia della Prussia Orienta-
le (russa) passa attraverso la Lituania – cui Mosca ha replicato riducendo dei
3/4 le sue forniture di combustibile alla Lituania? E a Kaliningrad vivrebbero
100 mila lituani secondo Vilnius (20 mila secondo i russi, da 20 mila a 40 mila
secondo i polacchi). Tra loro molti ex deportati ritornati dalla Siberia, cui fu
vietato di rientrare nel loro paese. Questo contesto spiega evidentemente
perché le Edizioni Scientifiche di Lituania pubblichino delle carte nazionali
che includono «storicamente» Karaliausius (Kaliningrad) e i «territori di Litua-
nia in Prussia» fino alla colonizzazione del XVIII secolo. Vilnius è natural-
mente ostile a ogni velleità polacca di espansione nella regione (problema
della minoranza polacca in Lituania, 7% della popolazione) (288). Ma essa
teme soprattutto che i russi cedano Konigsberg alla Germania, come dichiara
pubblicamente l’ambasciatore Stasys Losoraitis a Washington (289).
Di più: dei bielorussi avrebbero anch’essi proclamato il loro interesse
per la Prussia Orientale; i traffici commerciali di Minsk passano per Kalinin-
grad, e i bielorussi vorrebbero poter dire la loro almeno sul piano economi- 183
ASPETTANDO KANT A KÖNIGSBERG
co. Fino a quegli ucraini che cominciano a parlare della loro minoranza. E,
per l’indignazione dei prussiani orientali, si è anche parlato di un «Romani-
stan», di uno Stato zingaro sul Pregel, il fiume di Konigsberg.
I «prussiani orientali» sanno bene che la regione è una delle massime
concentrazioni di armamenti del mondo. Vi sono fra i 70 mila e i 300 mila
soldati, a seconda delle fonti. Da Baltijsk (già Pillau) a Kaliningrad è dislocata
la flotta del Baltico, eminentemente strategica se le truppe russe si ritirassero
completamente dai paesi baltici. Il deputato Bohm (CDU) e il suo amico An-
sgar Graw, pubblicista, redattore dell’Ostpreussenblatt (nato nel 1961 a Es-
sen, famiglia originaria dell’Ermland, a sud-ovest di Konigsberg) spiegano
nel loro Konigsberg morgen Luxemburg an der Ostsee, presentato alla So-
cietà parlamentare di Bonn nel dicembre 1992 (cento partecipanti), che i mi-
litari non rinunceranno a Konigsberg (290). Il generale Valerij Mironov si
pronuncia per mantenere le truppe nell’oblast(291). Se l’esercito russo inter-
verrà nei paesi baltici per difendervi le minoranze russe, discriminate secon-
do Mosca, dovrà operare dalla Prussia Orientale. D’altronde, il ministro litua-
no della Difesa, Andrius Butkencius, non l’ha forse implicitamente ricono-
sciuto quando, inquieto per il troppo lento ritiro delle truppe russe dal suo
paese, finì per pronunciarsi, nel novembre 1992, per l’autonomia e la smilita-
rizzazione della Prussia Orientale (russa), ciò significa che il territorio resterà
a Mosca(292)?
Siccome la Germania, anche in caso di disgregazione della Russia, non è
abilitata a intervenire (il passato), essa deve, così pensano i «prussiani orien-
tali» e i loro amici, cercare un’attiva collaborazione con la Russia per realizza-
re i propri interessi in Prussia Orientale – respingendo ogni tentazione di
emarginare Mosca (293).
popolazioni della regione – sempre ostili. Elcin elabora con Bonn un piano di
colonizzazione per tappe del Volga – 300 mila tedeschi – e il trasferimento a
questo scopo di infrastrutture moderne dalla RfG. E nell’ottobre 1991, Bonn,
che teme l’afflusso di profughi – Groth ha forgiato lo slogan «repubblica o emi-
grazione» – decide di concedere 100 milioni di marchi alla futura repubblica e si
impegna diplomaticamente per costruirla. L’accordo ufficiale avviene in occa-
sione della visita del leader russo a Bonn, il 21-23 novembre 1991. Sapendo che
la volontà degli abitanti del Volga è troppo forte, Elcin cede e Bonn, logicamen-
te, blocca la tranche di 50 milioni di marchi prevista nel budget 1992 (301).
Dopo varie tergiversazioni di Elcin – misure di urgenza del 21 febbraio
1992, con un «circondario» tedesco sul territorio di Saratov (150 kmq), combi-
nazione territoriale a Volgograd (ossia il Sud di Pallasovka e il Nord del terri-
torio in direzione del Volga verso Kamy?in, cioè una base geopolitica per la
ricostruzione per tappe della repubblica del Volga come formulato nel docu-
mento germano-russo del 23 aprile, decreto di maggio relativo all’insedia-
mento di tedeschi su dei complessi agricoli con garanzie – Heinrich Groth
deve arrendersi all’evidenza: il sogno del Volga è svanito (302). Tanto più
che i russi locali restringono l’offerta al territorio militare, non lontano dal la-
go Elton, a nord-est di Volgograd, vicino al Kazakistan, che d’altra parte non
faceva parte della ex Assr del 1924 (303). E le cifre parlano da sole: il 51% dei
candidati a lasciare la Russia vorrebbe andarsene anche se si realizzasse il
piano Volga (30% di indecisi e 17% che cambierebbero parere); non sono
che il 25% a esprimere un interesse concreto per la regione; in caso di scelta
geografica, più in generale, per l’autonomia, i l 34% indica il Volga, il 20%
considerando il progetto realistico (304). Quanto alle altre soluzioni evocate
da Bonn, i tedeschi di Russia non ci credono più: l’opzione ucraina, ossia la
proposta del presidente Kravcuk di installare 400 mila tedeschi nella sua re-
pubblica è pura utopia – 1.500 arrivi nel 1992 (305)!
Secondo i «prussiani orientali», esisterebbe un’ipotesi del tutto diversa,
appoggiata dal 15% dei tedeschi sondati, appunto quella della Prussia Orien-
tale. Dal 1990, essi osservano con Kurt Wiedmaier, giornalista tedesco di Mo-
sca all’epoca membro di Wiedergeburt, che intorno a Gorbacev vi sono uo-
mini favorevoli a installare tedeschi nella regione (306). Lo stesso Elcin non
sarebbe sfavorevole, alla fine del 1991, all’arrivo di 200 mila tedeschi a Ko-
nigsberg (307). E i delusi, anzi i disperati del Volga, come Heinrich Groth, si
sono allineati a questa idea; la Prussia Orientale – dichiara Groth nel novem-
bre 1992 – respira la «germanità» e si impone non fosse che per la storia e la
geografia (la Germania è meno lontana) come soluzione, una volta decaduta
l’ipotesi della repubblica del Volga (308).
Si capisce che Wilhelm von Gottberg, capo dei «prussiani orientali», gli
presti subito man forte (309). E una delegazione del Bundestag (Johannes
Gerster, CDU, Hartmuth Koschyk, CSU, Wolfgang Zeitelmann, CSU, Gottfried
Bernrath, SPD, Gerd Wartenberg, SPD, Burkhard Hirsch, FDP) ha constatato
sul posto, nel 1991, citando Andrej Dunajev, il deputato di Kaliningrad al So-
viet supremo, che questo organismo ha sospeso il divieto del territorio ai te-
186 deschi di Russia (310). E i tedeschi arrivano: sarebbero tra 6 mila e 25 mila a
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
Storie di Hansa
La vera leva, a Kaliningrad, sarà l’economia. LA flotta da pesca vi lavora
ai 2/3 delle sue possibilità; l’estrazione del petrolio non arriva, per mancanza
di tecnologie, a produrre più di 1,4 milioni di tonnellate annue. Peggio: Ott-
fried Henning, presidente della CDU dello Schleswig-Holstein, già portavoce
dell’Associazione dei «prussiani orientali» dal 1979 al 1990, nel corso di un in-
contro con l’ammiraglio Egorov, nel febbraio 1992, ha potuto misurare il di-
sagio delle truppe, alle prese con difficoltà logistiche e pagate a singhiozzo
(317). La regione ospita d’altronde un mercato di armi sofisticate, incontrolla-
bile perfino da chi lo dirige. In questo contesto, non mancano le idee. Per
esempio, la contessa Donhoff ha messo sottosopra il collettivo editoriale del
settimanale Die Zeit, di sinistra, proponendo un condominio germano-russo
(in collaborazione con polacchi e lituani): con grande scandalo di Theo
Sommer, Robert Leicht, Helmut Schmidt, che vi leggono una sorta di ritorno
al colonialismo. Sicché alla fine nel suo progetto si è dovuta sostituire la Sve-
zia alla Germania (318). Altri, presso la Bild Zeitung, sognano una Hong-
Kong sul Baltico, dimenticando che il residuo estremo-orientale dell’impero
britannico, con i suoi 6 milioni di abitanti circa e circa mille kmq di grattacie-
li, è condannato a tornare alla Cina nel 1997. La stampa olandese si è invece
avventurata fino a proporre un paragone con Singapore. Quanto ai «prussia-
188 ni orientali», preferiscono ragionare.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
chiesta da cui si ricava che il 42% degli abitanti resta favorevole a impiantare
nell’oblast i tedeschi del Volga perché se ne attendono un miglioramento
della loro situazione economica, e il 6% si pronuncia persino per il ritorno
della Germania (330). Il massimo: Elena Skvorcova, una delle migliori anali-
ste russe, in Megapolis Express. «Kaliningrad, questa striscia di terra separata
dalla Russia dai Paesi baltici, pur facendo parte della Federazione russa, illu-
stra (il fenomeno seguente, M.K.): ogni paesaggio, ogni terra muore se è pri-
vata della sua popolazione indigena, la sola capace di capirla, di amarla»
(331). Questa dichiarazione di intenti (che lascia aperta la porta a una «rina-
scita russa» di Kaliningrad) suscita scandalo. A. Terentev, membro della so-
cietà Rus della città condanna questa «pubblicazione tristemente demagogi-
ca»: «La storia dimostra che la Prussia era un tempo popolata da tribù slave,
crudelmente cacciate». Segue una denuncia delle responsabilità dei dirigenti
del Pcus nell’oblast – ossia la liquidazione della Storia. E poi: «Noi, che siamo
venuti sulla terra dell’antica Prussia da dove originano un gran numero dei
nostri principi e la dinastia dei Romanov, dobbiamo sapere che non viviamo
su una terra straniera» (332). D’altronde, una massa di lettere di protesta
inonda la Kaliningradskaja Pravda. Quanto all’ufficiale radicale Viktor Alk-
snis egli non è adattato nemmeno all’indipendenza dei Paesi baltici, né a
quella della Finlandia. Certi monarchici, per segnare pubblicamente il punto,
propongono di ribattezzare Kaliningrad in Knjazgrad – la città del principe –
insistendo così sul carattere slavo della città. (Certo Vladimir Zirinovskij, il ca- 191
ASPETTANDO KANT A KÖNIGSBERG
buire a una qualsiasi riflessione sul futuro della Prussia Orientale» (341) – po-
trebbe ceno avere il diritto di restare russa, ma non tarderebbe ceno, se ne
può essere sicuri, a rigermanizzarsi. Forse i russi ne hanno timore?
In guisa di epilogo. Nell’autunno 1993 la Weltam Sonntag pubblica una
serie di cinque articoli intitolata «Der Wettlauf um Konigsberg» («La gara per
Konigsberg») molto critica verso il ministero degli Esteri, che continua a par-
lare di Kaliningrad; l’autore, Jochen Kummer, finisce sottolineando che la
Germania è uscita dalla sala di attesa della Storia, che la sua Storia si sviluppa
ormai sotto il segno del continuo cambiamento (342). Nel gennaio 1994 un
osservatore può esprimere l’idea, nella Zeit, che la questione della Prussia
Orientale è, in Germania, da tempo all’ordine del giorno (343). Contempora-
neamente, quattro deputati CDU-CSU, Bohm, Koschyk, Pfluger e Christian
Schmidt redigono un rapporto. Essi danno generosamente una scelta alla
Russia: o essa mantiene e sviluppa il suo bastione militare offensivo a Kali-
ningrad e il porto perennemente libero dai ghiacci (come quello della capita-
le) di Baltijsk, (ex Pillau), ma così destabilizza la regione, giacché i suoi vicini
baltici, polacchi e svedesi si sentono direttamente minacciati, e incoraggia le
tentazioni separatiste delle minoranze russe del Nord-Est estone e del Sud-
Est lettone – in questo caso la sicurezza della RfG e dei paesi dell’ex Ovest
ne sarebbe ridotta; oppure essa organizza con altri Stati europei una eurore-
gione da cui la Russia ricaverà immensi vantaggi economici e sociali e che le
permetterà di orientarsi verso l’Europa(344).
Come ha ben notato Michael Kumpfmuller, giornalista proprio alla Zeit,
Mosca ha già risposto: il ministro della Difesa russo Pavel Gracev ha annun-
ciato in marzo la creazione non più come un tempo di una zona militare vie-
tata, ma di un territorio speciale con unità mobili a Kaliningrad, e il ministro
degli Esteri Andreij Kozyrev esprime riserve sull’imminente apertura del con-
solato tedesco in città (345). Una vicenda da seguire.
Note
264. Il KAMPHAUSEN, «Gibt es bald wieder ein Land Preussen?», Das Ostpreussenblatt,2/2/1991, p. 4. Vedi an-
che la conferenza di Stolpe a Kaliningrad, «Kein ernsthafter Deutscher will Konigsberg zuruckerobern»,
Frankfurter Rundschau, 28/9/1992, p. 13, dove egli si pronuncia per un avvenire europeo della regione.
265. O. FOTISC, «Der Name “Kaliningrad” soll verschwinden», Das Ostpreussenblatt, 18/4/1992, p. 2.
266. F. BERG, «Eine erste Heimkehr», Das Ostpreussenblatt, 11/7/1992, p. 1. Il castello di Konigsberg, già forte-
mente danneggiato nel 1944-’45, fu fatto saltare in aria in quanto simbolo della reazione nel dicembre 1967.
Christians era nella Webrmacht al tempo dell’attacco all’Urss nel 1941 e combattè in Prussia Orientale.
267. R. NEUMANN, Ostpreussen unter poinischer und sowjetischer Verwaltung, Frankfurt am Main-Berlin 1955,
Alfred Metzner Verlag, pp. 96 ss.
268. H. NEUSCHAFFER, Das «Konigsberger Gebiet». Die Entwicklung des Konigsberger Gebietes nach 1945 im Rah-
men der baltischen Region im Vergleich mit Nord-Ostpreussen der Vorkriegszeit, Plon 1991, Sonksen, p.142.
269. W. BOHM-A. GRAW, Konigsberg morgen Luxemburg an der Ostsee, Asendorf 1993, Mut-Verlag, p. 83. Gli
incontri si tennero all’inizio del 1992.
270. M. STURMER, «Eine Aufgabe namens Konigsberg», FAZ, 26/9/1992, p. 1. P.F.-P.W., «Ostpreussen und die
Kurilenfrage», Das Ostpreussenblatt, 2/10/1993, p. 5. Colloquio di Kerimaki sulle annessioni sovietiche del
1944-’45. 193
ASPETTANDO KANT A KÖNIGSBERG
271. A. BARING, «Am offenen Stauwehr», FAZ, 7/10/1992, p. 37, il quale più tardi sottolineerà che la Germania,
già economicamente sovraccarica per la riunificazione, non può nutrire amhizioni così lontane: «Was kostet
Konigsberg?», FAZ, 11/1/1994, p. 26.
272. A. GRAW, «Der Osten wartet. Warum die Geschichte Schlusstriche nicht akzeptiert», Das Ostpreussenblatt,
18/5/1991, p. 3.
273. «Ostpreussen ist ein Teil Deutschlands», Das Ostpreussenblatt, 19/5/1990, p. 1. Inghilterra e Usa si erano im-
pegnate a sostenere le rivendicazioni sovietiche su Konigsberg in una futura conferenza di pace. Urss e Polo-
nia divisero la Prussia Orientale lungo una linea corretta due volte (1945 e 1954), che andava dal cordone li-
toraneo (Frische Nehrung) verso est e passava sopra i laghi Masuri, cfr. P. WORSTER, «Das nordliche Ost-
preussen nach 1945 - Deutsch-russisches und russisch-deutsches Ortsnamenverzeichnis mit einer Dokumen-
tation der Demarkationslinie», Dokumentation Ostmitteleuropa, Marburg-an-der-Lahn, Gottfried Herder-Insti-
tut, nn. 2/3, anno 6, giugno 1980, pp. 140 ss.
274. «Aufrecht die neuen Aufgaben angehen!», Das Ostpreussenblatt, 27/4/1991, p. 1. Si noti che la riunione si
svolge a Potsdam.
275. «”Volle Unterstutzung” bleibt erhalten», Das Ostpreussenblatt, 25/9/1993, p. 2.
276. P.M., «Bohm warnt vor polnischer Expansion», Das Ostpreussenblatt, 14/3/1992, p. 1. 40 mila ettari secondo
le fonti tedesche, confermate dal vojvoda Cleslukowski di Suwalki.
277. P. FISCHER, «Die polnischen Teilungsplane», Das Ostpreussenblatt, 30/5/1992, p. 1 (vedi cartina). Si tratta di
schizzi evidentemente non autenticati, prodotti dal ministero degli Esteri polacco. Sarebbero stati comunicati
alla stampa da Vidmantas Povilions, già presidente della commissione parlamentare Esteri a Vilnius.
278. Nezavjsimaja Gazeta, 2/12/1992, p. 4.
279. Intervista di Lech Walesa a Moskovskye Novosti, 27/3/1994, p. 11.
280. P. FISCHER «Endlich deutschen Standort benennen. Die Aussenpolitik mu auf auswartige Ziele reagieren»,
Das Ostpreussenblatt, 21/11/1992, p. 1, che si riferisce a un «documento» del Senato polacco.
281. P. FISCHER, «Konigsberg an Polen? Dokumente entlarven arschaus Absichten in Ostpressen», Das Ostpreus-
senblatt, 21/11/1992, p. 1, che si riferisce a un «documento» del Senato polacco.
282. W. BOHM-A. GRAW, op. cit., pp. 154 ss.
283. «Was wird aus Konigsberg? Polen dementiert territoriales Interesse», FAZ, 17/2/1992, p. 4, che cita il porta-
voce del ministero degli Esteri, Dziemidowicz, e Grzegorz Raciborski; «Polen ohne Interesse an Nord-Ost-
preussen», FAZ, 27/2/1992, p. 10. H. FLOTTAU, «Die Notgemeinschaft der armen Nachbarn», Sud-deutsche
Zeitung, 7/12/1992, p. 3, nota che le smentite non hanno nulla di eterno.
284. M. DEUTSCH, «Litauer Zeitung votiert für Anschluss», Das Ostpreussenblatt, 12/10/1991, p. 1. All’inverso, i
«prussiani orientali» rivendicano il territorio di Memel, a nord del Niemen, cui la Germania aveva rinunciato
nel 1919 affinché, in attesa dello statuto definitivo, fosse posto sotto autorità alleata, e che fu illegalmente an-
nesso dalla Lituania nel 1923, restituito a Hitler nel 1939, poi riannesso a Vilnius dopo la guerra. Cfr. H. PO-
LEY, «Etwaige Gebietsanspruche abklaren., Das Ostpreussenblatt, 7/9/1991, p. 1.
285. W. BOHM-A. GRAW, op. cit., p. 161.
286. Cfr. nota 20.
287. W. BOHM-A. GRAW, op. cit, p. 164.
288. Tanto più che la Polonia ha economicamente rovinato il Sud, secondo Vidmantas Povilionis, vedi «Das hat
mit Grosspolentum zu tun?», Das Ostpreussenblatt, 30/5/1992, p. 2.
289. H. W., «Nur Plaudereien eines Botschafters?», Das Ospreussenblatt, 14/3/1992, p.1.
290. W. BOHM-A. GRAW, op. cit., p. 137 ss.
291. Il suo collega il maresciallo Saposnikov non la pensa diversamente.
292. H. HECKEL, «Wilna wunscht deutsche Nachbarn», Das Ostpreussenblatt, 14/11/1992, p. 1. Molto preoccu-
pato, il dirigente lituano preferirebbe, in caso di non soddisfazione delle sue richieste, il ritorno della regione
alla Germania.
293. P. FISCHER, «Eigene Interessenlage eindeutig definieren», Das Ostpreussenblatt, 15/1/1994, p. 1.
294. In una seconda fase (1942-’44) seguirono ad esempio i 26 mila tedeschi della regione di Leningrado. Infine,
dal febbraio all’ottobre 1945, fu il turno dei tedeschi dei territori dell’Urss, il cui territorio fu invaso così rapi-
damente che il potere sovietico non riuscì a deportarli nel 1941, e che esso considerava come traditori della
patria. Cfr. B. PINKUS-I. FLEISCHHAUER, Die Deutschen in der Sowjetunion, Baden-Baden 1987, Nomos,
pp. 304 ss.
295. A. EISFELD, «Zwei grosse Gruppen. Der Status der Sowjetburger deutscher Volkszugehorigkeit», FAZ,
10/1/1989, p. 9.
296. V.N. ZEMSKOV, «Spets poselentsy (Po Dokumentacij Nkvd-Mvd Sssr)», Sociologiceskie Issledovanija, n. 11,
1990, p. 10.
297. B. PINKUS-I FLEISCHHAUER, op.cit., pp. 315 ss.
298. Naselenie SSSR, 1987, Statisticeskij Sbornik, Mosca 1988, pp. 98 ss.; per il 1989, Vestnik Statistiki, 9/1990-
6/1991.
299. Pravda, 20/10/1989, p. 1.
194 300. R. OLT, «Rankespiele mit den Russlanddeutschen», FAZ, 15/3/1991, p. 14. Quando si constatò che Groth
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
avrebbe vinto, il congresso fu puramente e semplicemente aggiornato dal Comitato centrale, ma si tenne co-
munque sotto il segno dei massimalisti. La scissione sarà effettiva nel giugno 1991.
301. Deutscher Ostdienst, n. 3, 24/1/1992, pp. 1ss. All’inizio del 1992, Elcin doveva persino dichiarare davanti al-
le telecamere che l’autonomia dei tedeschi sarebbe stata circoscritta ai luoghi dive essi costituivano il 90%
della popolazione.
302. P. FISCHER, « Die jahe Wiederkunft einer trauten Region»: H. GROTH «Der Traum von der Wolgarepublik
ist tot», Das Ostpreussenblatt, 29/8/1992, p. 1. Due «circondari» furono creati nell’Altaj (nel nord della Mongo-
lia) a Halbstadt/Nekrasovo (giugno 1991) e nella regione di Asovo (febbraio 1992); cfr. R. OLT, «In Sibirien
entsteht der zweite deutsche nationale Rayon», FAZ, 20/2/1992, p. 7.
303. M. DEUTSCH, «Zustimmung fur Wolgagebiet fehlt. Staatssekretar Horst Waffenschmidt operier offenbar
glucklos, Das Ostpreussenblatt, 31/10/1992, p. 2.
304. Sondaggio in B. DIETZ-P. HILKES, Russlanddeutsche: Unbekannte im Osten; Geschichte, Situation,
Zukunftperspektiven, Munchen 1992, Olzog, pp. 105 ss.
305. «Habt Keine Angst vor uns», intervista con il presidente Kravcuk, Der Spiegel, n. 6/1992, p. 155, e «So gutes
Land», Der Spiegel, n. 11/1992, pp. 71 ss., infine H. GROTH, «Der Traum ist aus», Der Spiegel, n. 42/1992, p. 33.
306. A. GRAW, «Wieder Deutsche Burger in Konigsberg», Das Ostpressanblatt, 3/3/1990, p. 1.
307. P. FISCHER, «Jelzin spielt die Konigsberg», Das Ostpreussanblatt, 14/9/1991, p. 1.
308. H. GROTH, v. nota 42, e P. FISCHER, «Mit dem Trek nach Argentinien?», Das Ostpreussenblatt, 28/11/1992,
p. 2. Si noti che Groth minaccia, in caso di mancata soddisfazione, di far votare per i Republikaner, cioè
l’estrema destra, in Germania. Egli si dimetterà nel dicembre 1993. Cfr. R. OLT, «Kampf um Territorialautono-
mie aufgegeben», FAZ, 22/12/1993, p. 5.
309. W. VON GOTTBERG, «Zusammenarbeit angeboten», Das Ostpreussenblatt, 28/11/1992, p. 2.
310. P.M. «Freier Zuzug fur Russlanddeutsche», Das Ostpreussenblatt, 17/8/1991, p. 1.
311. W. BOHM-A. GRAW, op. cit., pp. 187 ss.
312. Ivi, p. 198.
313. A. GRAW, «Jetz ist Bonn am Zug», Das Ostpreussenblatt, 21/3/1992, p. 1.
314. M. DEUTSCH, «Eine Republik fur Russlanddeutsche? Bonn erzwingt Wolgalosung durch gewohnte Finanz-
praktiken», Das Ostpreussenblatt, 2/5/1992, p. 1. Ciò che Waffenschmidt smentisce in un’intervista ad A.
GRAW, «Wir haben keine Beruhrungsangste», DAS Ostpreussenblatt, 24/10/1992, p. 3. Idem per il deputato
CDU Heinrich Lummer, «Was wird aus Konigsberg?…», cit.
315. H. HECKEL, «Bonn bestreitet Verhandlungen. Aussenamtsprecher will nichts von Moskauer Verkaufsange-
bot wissen», Das Ostpreussenblatt, 25/5/1991, p. 2. W. BOHM-A. GRAW, op. cit., p. 168 citano espressamente
il Vertraulicher Schweizer Brief del 3/9/1991. L’ex ministro degli Esteri Genscher avrebbe dichiarato di rifiu-
tarla anche se gliela avessere regalata.
316. H. GROTH, vedi nota 42; P. FISCHER, vedi nota 45; Waffenschmidt fa certamente valere che la RfG non sa-
prebbe accogliere decentemente più di 200 mila tedeschi all’anno, cfr. «Nur ein Spalt», Der Spiegel, n. 42/1992,
p. 31.
317. W. BOHM-A. GRAW, op. cit., p. 100.
318. M. DONHOFF, «Konigsberg Signal der Versohnung», Die Zeit, 15/11/1991, p. 1. D. TRENIN-M. BORODIN,
«Vtoroj sans Rossii v Vostocnoij Prussii», Novoe Vremja, n. 13/1992, pp. 18-20, che rispondono alla contessa,
fanno abilmente loro l’opzione «svedese», sempre segnalando i rischi provocati da un eventuale ritiro dei russi.
319. W. Bohm-A. GRAW, op. cit., p. 175 ss.
320. Si noti che su questo punto tedeschi e polacchi convergono.
321. Egli riprende qui il suo articolo «Europas Nationalstaaten fordern», Das Ostpreussenblatt, 13/2/1993, p. 3; W.
BOHM-A. GRAW, p. 223 ss.
322. PH. DOLLINGER, La Hanse (XII-XVII siècle), Paris 1964, Aubier, p. 7. M. STURMER, op. cit., torna anch’egli
sul mito della Hansa, ma giudica inadeguata una qualsiasi colonizzazione della regione da parte dei tedeschi.
323. W. BOHM-A. GRAW, op. cit., p. 104.
324. H. J. L., «Konigsberg im Bunde mit dem Baltikum?», Das Ostpreussenblatt, 25/1/1992, p. 2, che ricorda insi-
diosamente che Friedbert Pfluger era ostile alla scelta di Berlino come capitale della Germania.
325. In dicembre, sarà il turno della Gottlieb Daimler-und Carl Benz-stiftung di annunciare un finanziamento an-
nuale di 50 mila marchi in borse di scambio per studiosi della RfG e di Konigsberg.
326. J. LEVIT, «Esli net realnogo vraga, pocemu byego ne vydumat?», Kenisbergskij Kurer, n. 11/1992, p. 3, che
ricorda abilmente di aver partecipato all’offensiva contro Konigsberg e di esservisi stabilito volontariamente.
327. B. NISNEVIC, «SEZ (Svobodnaja Ekonomiceskaja Zona): ne vozdusnyj zamok», Zapad Rossii, Kaliningrad
1992, (1), pp. 147-156.
328. D. MAKAROV-R. MOROZOV, «Kraj Rossi, Krai Evropy», Argumenty i Fakty, nn. 29-30/1992.
329. G. BIRJUKOV, «Moskva-Minsk, Berlin v cem buduscee Rossi», Politika, n. 4/1992, p. 12.
330. B. Wiest-RAABE, «Meinungs-Umfragen in Konigsberg», FAZ, 15/10/1992, p. 10.
331. E. SKVORCOVA, «Na cto nam s toboju cuzaja zemlja», Megapolis Express, (Mosca), 27/6/1991, p. 7.
332. A. TERENTEV, «My ne zyvem na cuzoj zemle», Russkij Vestnik, nn. 28-29/11/1991, p. 9.
333. V. ZIRINOVSKIJ, «Le mie frontiere», colloquio con R. GAUFFIN, LIMES, N. 1/1994, PP. 25-32.
195
ASPETTANDO KANT A KÖNIGSBERG
196
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
HAVEL,
LA GERMANIA
E I SUDETI di Luciano ANTONETTI
Dalle ‘scuse’ del presidente ceco al contenzioso tra Praga e Bonn,
che rischia di accendere una pericolosa miccia nel cuore
dell’Europa. Le memorie dell’occupazione nazista
e del trasferimento forzoso dei tedeschi sudeti pensano ancora.
1. U N RECENTE SONDAGGIO DI
opinione ha rivelato che soltanto il 12% dei ciechi condivide l’atteggiamento del
presidente della Repubblica Vaclav Havel verso la Germania (346). Un dato elo-
quente, tenendo conto che, in generale, la popolarità del presidente-dramma-
turgo continua a essere alta, anche se non più ai livelli della fine del 1989. A de-
terminare questa situazione vi sono, da un lato, i timori di buona parte dell’opi-
nione pubblica, per la quale la politica di Havel riapre con conseguenze incal-
colabili una questione che bene o male si riteneva fosse stata risolta una volta
per tutte: quella dei «sudeti» (347); dall’altro, la concezione della politica propria
di Havel – che si richiama alla tradizione husuita e masarykiana nutrita di impe-
rativi come «la verità vincerà», «la forza della verità», «la parola veritiera», «spirito li-
berale, coscienza e responsabilità», «la politica morale» (348) – da cui non è sicu-
ramente assente la sua esperienza esistenziale.
L’attuale presidente della Repubblica ceca è nato a Praga il 5 ottobre 1936,
stava per compiere due anni all’epoca del diktat di Monaco (29 settembre
1938), ne aveva meno di due e mezzo quando il 15 marzo 1939 Hitler istituì il
«Protettorato di Boemia e Moravia» e avviò la non riuscita germanizzazione dei
cechi; stava per compierne nove quando finì la guerra e cominciò l’espulsione
violenta dei «tedeschi di Cecoslovacchia», che precedette i due anni (1946 e
1947) di trasferimento regolato dagli accordi di Potsdam. È nato in una famiglia
agiata, «forse addirittura “alto borghese”»: il padre era un costruttore edile, pro-
prietario dell’impresa ristoranti del Lucerna e di Barrandov, lo zio possedeva gli
studi cinematografici di Barrandov ed era considerato, anche negli anni del
«Protettorato», il principale magnate del cinema. Di politica, confessa nel 1985-
’86, si è sempre occupato soltanto come osservatore e critico, non ha mai volu-
to essere un uomo politico; la sua unica esperienza internazionale, prima di di-
ventare presidente della Repubblica, sono gli incontri negli Stati Uniti e altrove,
nel 1968, soprattutto con cecoslovacchi emigrati dopo la presa del potere da 197
HAVEL, LA GERMANIA E I SUDETI
parte comunista nel febbraio 1948; ma otto anni prima aveva brillantemente
esposto le proprie idee sulla «rinascita spirituale» della società, cui chiamava i
cecoslovacchi (349), e nel novembre 1989 non esita a lanciarsi nella mischia;
accetta, sia pure dopo qualche resistenza, la candidatura alla presidenza della
Repubblica e rivela presto di possedere una concreta e precisa linea di politica
estera.
Nel discorso ai cittadini per il Capodanno 1990, tre giorni dopo l’elezione a
presidente, Havel annuncia la sua decisione di andare subito in due paesi: la
Repubblica democratica tedesca (Rdt) e la Repubblica federale Germania
(RfG). Il 2 e il 3 gennaio, prima ancora di recarsi a Bratislava, capitale della Slo-
vacchia, e di prendere contatto con Varsavia e Budapest, che pure sono in una
posizione internazionale non molto dissimile da quella di Praga, è a Berlino Est
e poi a Monaco di Baviera, dove incontra il presidente Richard von Weizsacker.
È quest’ultima visita che scatena immediatamente un coro di critiche in Ceco-
slovacchia, per la scelta del luogo (dovuta, mi dirà l’allora ministro degli Esteri
di Praga Jiri Dienstbier, alla brevità temporale del viaggio) e per le cose che
vengono dette dai due presidenti. Havel, si dice, ha chiesto scusa ai tedeschi, e
le proteste si levano, non soltanto dall’estrema sinistra, dall’Unione dei combat-
tenti antifascisti, dai cittadini di Lidice, piccolo centro a ovest di Praga, «cancel-
lato dalla carta geografica» e la cui popolazione venne massacrata o deportata
nel 1942, come rappresaglia per l’attentato mortale al Reichsprotektor Reinhard
Heydrich; perfino il Centro di coordinamento del Foro civico deve prendere le
distanze dal suo più illustre rappresentante e dichiarare che «(...) la questione
delle scuse, cioè di chi e quando deve scusarsi e per che cosa, non è la maniera
più felice di affrontare il problema» (del trasferimento di popolazione, del rap-
porto con Bonn).
Lo storico Jan Kren dichiara a un quotidiano praghese che i tedeschi han-
no tradotto male il termine ceco politovani che significa «rincrescimento», ma
vengono alla luce circostanze nuove o prima trascurate. Il presidente Weiz-
sacker in un discorso pronunciato il 22 dicembre 1989 aveva letto un passo
della lettera che Havel, cui era stato vietato di recarsi a Francoforte per ritirare il
premio conferitogli dai librai tedeschi, gli aveva da poco inviato: «(...) Io perso-
nalmente – come molti dei miei amici – condanno l’espulsione dei tedeschi nel
dopoguerra. L’ho sempre considerata atto massimamente immorale, che ha
provocato ai tedeschi, ma forse in misura maggiore agli stessi cechi, danni mo-
rali e materiali. Quando a una cattiveria si risponde con un’altra ciò significa
che la cattiveria non viene soppressa, bensì diffusa». E il giorno seguente l’allo-
ra candidato alla presidenza della Repubblica aveva risposto a una domanda di
una giornalista in televisione: «Non voglio occuparmi del tema (delle scuse),
posso soltanto esprimere la mia opinione. Ritengo che i confini della Cecoslo-
vacchia non debbano essere modificati. Ritengo che nessuno dei tedeschi tra-
sferiti dovrebbe tornare qui, ma credo che abbiamo l’obbligo di scusarci con i
tedeschi trasferiti dopo la seconda guerra mondiale. (...) Ripeto: questa è la mia
opinione privata. (…)» (350). Il 3 gennaio 1990, però, incontrando da pari a pa-
ri il presidente della RfG, non era più il semplice cittadino, il dissidente perse-
198 guitato, Vaclav Havel.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
Scheel). In ambedue i casi passarono diversi mesi prima che il parlamento te-
desco li ratificasse. Nel 1992 presidente del governo era lo slovacco Marian Cal-
fa e ministro degli Esteri Jiri Dienstbier. Con Havel erano rappresentanti dei
due movimenti (Foro civico e Opinione pubblica contro la violenza) che ave-
vano guidato il cambiamento a fine 1989 e avevano vinto le elezioni politiche
dell’anno successivo. Tra loro non vi erano divergenze di rilievo sulla politica
estera.
La situazione è profondamente cambiata dopo le elezioni del giugno 1992
e, soprattutto, dopo la separazione tra cechi e slovacchi. Dal gennaio 1993 Ha-
vel è presidente della Repubblica ceca, Vaclav Klaus (fondatore e presidente
del Partito democratico civico, nato dalla scissione del Foro civico) è presiden-
te del governo di Praga e un rappresentante del suo partito, Josef Zieleniec, è
ministro degli Esteri, ma non sembra avere molta voce in capitolo. Le divergen-
ze tra i primi due, in particolare a proposito della Germania e dell’Europa, non
potrebbero essere maggiori, seppure non hanno dato luogo, fino a oggi, a
scontri aperti.
Come ho già detto, il presidente è convinto che la Repubblica ceca può
entrare nel consesso degli Stati occidentali se fa i conti con il proprio passato,
se riconosce i «propri torti» nei confronti dei tedeschi, non mettendo in causa,
però, i confini o riaprendo il capitolo delle «espulsioni», della restituzione dei
beni confiscati o più ancora accettando il principio della rifusione dei danni
che avrebbero subito i «tedeschi dei Sudeti». In breve: per Havel la Germania è
un problema europeo, un problema che ci riguarda tutti perché riguarda la de-
mocrazia europea, un problema morale che è tale non soltanto per i tedeschi.
Agli antipodi, invece, per carattere, concezione politica e comportamento è il
premier Klaus, che i giornalisti cechi e stranieri definiscono di volta in volta
pragmatico, thatcheriano, aggressivo, perfino arrogante. Egli non sembra avere
molto interesse alla costruzione europea. È convinto che già oggi il paese ha
tutti i titoli per entrare nelle istituzioni occidentali (355).
3. Prima di passare a esaminare gli effetti della «duplice» politica estera ver-
so la Germania, le reazioni di questa e di cercare di individuare alcune possibili
linee di tendenza ritengo utile, soprattutto per il lettore italiano, che dispone di
scarsissime fonti sull’argomento e che spesso è fuorviato da una pubblicista as-
solutamente superficiale, ricapitolare quanto più brevemente e meno somma-
riamente possibile la storia dei rapporti tra cechi, in particolare, e abitanti di lin-
gua tedesca della Cecoslovacchia nei primi trent’anni di esistenza di questo Sta-
to. I confini del nuovo Stato, proclamato il 28 ottobre 1918 mentre si dissolve
l’impero austro-ungarico, stabiliti alla conferenza di Versailles e con i successivi
accordi internazionali sui diritti delle «minoranze» di Saint Germain e del Tria-
non, oltre che con la Polonia, delimitano un territorio pari a meno della metà di
quello italiano. A ovest, nord-ovest e sud-ovest sono in gran parte quelli storici
della corona ceca (Boemia e Moravia, in particolare), mentre la Slovacchia è se-
parata dalla Polonia, a nord, dai monti Tatra, e dall’Ungheria, a sud, dal Danu-
bio. Una lingua di terra a est, la Rutenia o Russia subcarpatica, nel 1945 entrerà
202 a far parte dell’Urss (Ucraina), che in tal modo si troverà ad avere confini co-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
Note
346. La notizia mi è stata fornita da uno stretto collaboratore dello stesso presidente.
347. Questo termine, entrato ormai da tempo nell’uso comune, è altrettanto storicamente impreciso quanto la
dizione «tedeschi di Cecoslovacchia». I sudeti (Sudety in ceco, Sudeten in tedesco) sono i monti che si esten-
dono per circa 250 km tra la valle dell’Elba e la Porta morava (nella Moravia settentrionale, al confine con la
Polonia). Qui restarono, al tempo delle grandi migrazioni attorno al 1000, gruppi di germani. Qualche secolo
dopo gente di lingua tedesca, proveniente in particolare dalla Sassonia, dalla Baviera e dall’Austria, cominciò
a insediarsi nelle zone orientali della Boemia e meridionali della Boemia e della Moravia attuali.
348. Una tradizione ben diversa dalla cultura politica occidentale, derivata da Machiavelli, Montaigne, Hobbes
eccetera. Lo storico cecoslovacco Josef Macek scriveva sul finire degli anni Sessanta che la «lezione» machia-
velliana e i dibattiti sul machiavellismo arrivarono tardi nei paesi cechi e, per di più, filtrati dalla riforma pro-
testante, dalla restaurazione cattolica o strumentalizzati per la lotta politica (J. MACEK, Machiavelli e il ma-
chiavellismo, traduzione, introduzione e cura di L. Antonetti, I edizione mondiale, Firenze 1980, La Nuova Ita-
lia, pp. 271-272 e 347-349).
349. V. HAVEL, «Autoritratto», in Centro internazionale di Brera, Vaclav Havel. Dissenso culturale e politico in
Cecoslovacchia. Per una decifrazione teatrale del codice del potere, a cura di c. Guenzani, Venezia Marsilio
editori, pp. 39-4l; V. HAVEL, Interrogatorio a distanza. Conversazione con Karel Hvizdala, prefazione di P.
Flores d’Arcais, Milano 1990, Garzanti, pp. 27, 32, 41-42 et passim; V. HAVEL, il potere dei senza potere, post-
fazione di L. Antonetti, Milano 1990 (ma l’originale uscì in samizdat verso la fine del 1978), Garzanti.
350. Ivi, pp. 131 e 130-131. È interessante rilevare che mentre dal 1945 al 1989 in Cecoslovacchia si adoperava il
termine odsun = rimpatrio, per definire il trasferimento dei tedeschi dopo la guerra, Havel usa sempre (salvo
che in questa intervista alla televisione del 23 dicembre 1989) il termine vybnani= espulsione; dal canto suo,
la commissione mista di storici ha concordato di impiegare «espulsione e sgombero» (vybnani a vystebovani
in ceco, Vertreibung und Aussiedlung in tedesco). Cfr. l’intervento di Jan Kren alla conferenza tenuta a Jihla-
va, dal 10 al 12 aprile 1992, organizzata dalla Ackermann-Gemeinde e dalla Fondazione Bernard Bolzano, in
Deutscbe und Tachechen, neue Hoffnung?-Cesi a Nemci, nova nadeje?, Praha 1992, pp. 218 e 226.
351. V. HAVEL, «Projev pri navsteve prezidenta Richarda von Weizsackera (Praba, 15 brezna 1990)» («Discorso in
occasione della visita del presidente Richard von Weizsacker [Praga, 15 marzo 1990]»), in Projevy… cit., pp.
79-86.
352. V. HAVEL, Il potere dei senza potere, cit., pp. 93-98; L. ANTONETTI, «Postfazione. Havel: libertà e politica
per l’uomo», ivi, pp. 108-109.
353. V. HAVEL, «Projev…» cit., p. 81.
354. Komu slusi omluva cit., pp. 169-170, da cui sono tratte anche le citazioni che seguono. Cfr. inoltre M. KO-
RINMAN, «Euroregioni o nuovi Lander?», Limes, n. 4/1993, p. 72.
355. «Lodarsi non è di moda (…), ma a Davos si è guardato alla Repubblica ceca come a un modello che si do-
vrebbe imitare», ha detto Klaus, riferendo sui lavori dell’ultimo World Economic Forum tenutosi nella cittadi-
na svizzera nello scorso gennaio. Svobodne slovo (La parola libera), 2/2/1994, cit. da S. RAVIK, Cbaos nebo
208 bordel? (Caos o bordello?), Praha brezen 1994, Nakladatelstvi alternativy, p. 17.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
LA GERMANIA
AL CENTRO
DELL’EUROPA di Enrico LETTA
gioranza assoluta dei voti. Alla fine il risultato è stato favorevole all’allarga-
mento, con percentuali molto alte, in particolare nei due gruppi più consi-
stenti del parlamento europeo, il Pse (170 sì, 13 astenuti e 7 no) e il Ppe (136
sì, 8 astenuti e 7 no).
Un’Europa a 16,20,22,30…
L’indicazione sul futuro dell’Unione per quanto riguardava i suoi possibili
allargamenti era contenuta nelle conclusioni del Consiglio europeo di Lisbo-
na. Si disegnava in quella sede uno sviluppo distinto in due tempi. Un primo
tempo riguardava i paesi dell’Efta che, per le condizioni di sviluppo e i rap-
porti ormai stretti con l’Unione attraverso lo Spazio economico europeo, sa-
210 rebbe dovuto avvenire subito, sulla base dell’accettazione di Maastricht e
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
Le strane alleanze
Fin da quando è ripartito il treno dell’unificazione europea, dopo gli
sbandamenti seguiti alla caduta del Muro di Berlino, la dialettica tra allarga-
mento e approfondimento è diventato il punto centrale del dibattito e delle
scelte dell’Europa del futuro.
Diversi gli elementi che componevano il quadro. Da una parte un nume-
ro crescente di paesi europei che ponevano in modo sempre piò insistente la
loro candidatura all’adesione, dall’altra la caduta del comunismo che aveva
«liberato» sia i paesi dell’Europa centrale e orientale, sia paesi come Finlandia
e Austria, obbligati formalmente o politicamente a scelte di neutralità.
In particolare la situazione dei paesi dell’Est interrogava l’Europa occi-
dentale sulla sua capacità di piegare un disegno di decennale lentezza, come
212 quello dell’integrazione comunitaria, alle esigenze di immediata drammati-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
214
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
UTO PIE
PROGETTO
PER UNA
RES PUBLICA EUROPEA di GERMANICUS
216
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
PERCHÉ L’ITALIA
HA FALLITO
NELLA EX JUGOSLAVIA di Marta DASSÙ
All’inizio della crisi, il nostro governo ha sostenuto l’inefficace
azione comunitaria per convergere poi sulla posizione tedesca.
Un’eccessiva proiezione nazionale’ verso quell’area è irrealistica
e destinata all’insuccesso.
la crisi jugoslava, dall’Italia sono venuti messaggi in effetti contrastanti: dagli in-
coraggiamenti alle spinte separatiste dalle regioni del Nord-est e nell’ambito di
fori come Alpe Adria; all’appoggio alla leadership federale da parte del ministro
degli Esteri.
A ciò può aggiungere una seconda constatazione: se il ruolo dei paesi confi-
nanti appare in teoria cruciale nella prevenzione delle crisi, il test della Jugosla-
via mostra che l’Italia non è riuscita a svolgere su questo piano nessuna funzio-
ne efficace. La serietà della crisi economica – punto su cui Roma insisterà nel
1990-’91 – fu riconosciuta troppo tardi; le lezioni della crisi del Kosovo furono
sottovalutate nei vari incontri bilaterali con Belgrado e con Milosevic; la neces-
sità di pensare a nuovi assetti confederali fu presa in esame in ritardo, quando la
divisione del paese era ormai nei fatti.
Una volta scomparsa la Jugoslavia, il problema essenziale, per l’Italia, è di
uscire dall’ambiguità per definire con chiarezza una visione strategica del pro-
prio approccio all’area balcanica e adriatica.
Anche senza accettare l’ipotesi che proprio l’Italia abbia attivamente inco-
raggiato il basso profilo americano (373) per promuovere il ruolo internazionale
della Cee, si tratta di un approccio perfettamente coerente alla diplomazia «euro-
ottimistica» di De Michelis.
nell’area, utilizzando fra l’altro gli strumenti agevolati della cooperazione allo svi-
luppo – un’ipotesi di proiezione economica bloccata bruscamente dalla guerra e
non compensata, anche per l’assenza di nuovi progetti di cooperazione da parte
italiana (379), dai rapporti con Slovenia e Croazia.
• Il successo delle spinte secessionistiche nella ex Jugoslavia avrebbe potu-
to incoraggiare spinte simili in Italia, in Alto Adige in particolare (ciò spiega fra
l’altro il particolare interesse all’accordo definitivo con l’Austria, nel 1992, sulla
questione altoatesina) (380).
• La creazione di due Stati indipendenti (Slovenia e Croazia) avrebbe divi-
so, con l’Istria, la minoranza italiana, indebolendone il peso contrattuale nell’as-
setto postfederale. Se i rapporti con Belgrado erano stati ormai regolati sulla ba-
se del Trattato di Osimo, la dissoluzione della Jugoslavia avrebbe aperto di nuo-
vo contenziosi apparentemente risolti – cosa che dal punto di vista di Roma, de-
cisa a scartare qualunque ipotesi irredentista, creava problemi piuttosto che op-
portunità.
• Il crollo della Jugoslavia apriva un vacuum rischioso nei Balcani, aggra-
vando i conflitti latenti fra Grecia e Turchia e complicando il tradizionale tentati-
vo italiano di mantenere buone relazioni con entrambe.
Quanto alla gestione della crisi, il governo italiano ambiva a svolgere – attra-
verso i suoi rapporti stretti con i vari pezzi della vecchia Federazione e collocan-
dosi in una posizione sfumata di «riformismo» confederale – un ruolo di media-
zione. Sia rispetto alla Comunità, scegliendo una posizione in qualche modo in-
termedia fra Germania e Francia e tentando, con una sorta di diplomazia dei
paesi confinanti, di tenere agganciata l’Austria alla politica comunitaria (una
scelta avviata, anche se senza successo, dal maggio 1991 in poi); sia rispetto alla
Jugoslavia, puntando a moderare le spinte secessionistiche e a tenere aperti i ca-
nali con Belgrado (fino al contestato incontro di Colombo con Milosevic nel
gennaio 1993). In realtà, l’uscita dell’Italia dalla trojka comunitaria nel luglio
1991, cioè proprio nella fase acuta di avvio del conflitto, segnava un ridimensio-
namento immediato delle sue possibilità di influenza nella gestione della crisi.
Non solo: la conduzione di una linea di questo genere era complicata da pres-
sioni interne di segno diverso, e cioè di chiaro incoraggiamento alle tesi separa-
tiste. Per essere più precisi, l’esplosione della crisi balcanica metteva subito a nu-
do l’esistenza di una buona dose di ambiguità nell’approccio italiano a
quell’area.
Mentre Alpe Adria era basata sulle regioni (e includeva quindi Slovenia e
Croazia, assieme al Friuli-Venezia Giulia, al Veneto, al Trentino, alla Lombardia),
la Quadrangolare-Pentagonale, ideata da Budapest e lanciata da Roma, era fon-
data sugli Stati e includeva quindi Belgrado.
In un certo senso, la prima era espressione di una tendenza al regionalismo
che nel vecchio contesto bipolare incontrava confini molto netti, ma che dopo il
1989 avrebbe invece assunto – anzitutto nel caso della Jugoslavia, poi in quello
della Cecoslovacchia – un effetto disgregatore delle vecchie unità multinazionali.
La seconda, concepita a cavallo del 1989, puntava a creare un’area di cooperazio-
ne funzionale (381) fra Stati collocati in modo diverso nei due vecchi blocchi, bi-
lanciando il peso dominante della Germania (Alpe Adria include invece anche la
Baviera) o perlomeno offrendo qualche canale alternativo ai vicini dell’Est. Si trat-
tava, insomma, di due impostazioni solo teoricamente complementari; e anzi de-
stinate a entrare in contraddizione rispetto ai nuovi problemi emersi dagli scenari
balcanici del post Ottantanove. Sulla base di questa doppia impostazione dei
problemi della cooperazione nell’area danubiano-balcanica, dall’Italia sono infatti
venute due visioni differenti e parallele della risposta da dare alla crisi della Fede-
razione jugoslava.
È progressivamente emersa l’esistenza di uno scarto fra la linea «antiseparati-
sta» del ministero degli Esteri – che poteva contare su un ampio consenso parla-
mentare – e l’approccio prevalente nelle regioni del Nord-Est, che hanno invece
teso, con il sostegno decisivo di una parte della Dc (Piccoli, come presidente della
commissione Esteri del Senato) e del Vaticano, di settori locali dei partiti laici, di
una componente rilevante dei mass media, a caldeggiare la causa separatista.
Quanto mai significativa la diversità di reazioni alle dichiarazioni di indipendenza
di Slovenia e Croazia (giugno 1991): mentre il ministro degli Esteri De Michelis ri-
badiva ancora una volta al presidente della Slovenia Kucan la priorità di mantene-
re unita la Federazione, la sessione dell’Alpe Adria, all’inizio di luglio, si conclude-
va dichiarando l’appoggio e la solidarietà delle regioni italiane agli sforzi indipen-
dentisti di Lubiana e Zagabria (382).
L’esistenza di due diversi assi di azione – ed entrambi parte della «tradizione»
della politica italiana nei Balcani – contribuisce a spiegare l’apparente facilità
con cui il governo italiano, dopo avere difeso a lungo l’obiettivo dell’unità della
Jugoslavia, abbia potuto improvvisamente presentarsi nel dicembre 1991 come
uno dei principali sponsor, assieme alla Germania, del riconoscimento delle due
repubbliche confinanti della ex Jugoslavia.
pazione di forze di peace keeping dei paesi limitrofi (nel caso specifico, le offerte
italiane di mettere a disposizione dell’Unprofor più di un migliaio di uomini
hanno incontrato il veto serbo, cui si è associata la Croazia) (383). L’Italia ha in
parte cercato di bilanciare questa sua marginalità sfruttando la posizione di pre-
sidente di turno dell’Ueo (dal giugno 1992), l’organismo cui sono state assegnate
le operazioni di monitoraggio navale delle sanzioni nel Mare Adriatico (384). Ha
partecipato al ponte aereo su Sarajevo nel luglio-settembre 1992 (fino all’abbatti-
mento di un velivolo italiano); e ha poi preso parte ad altre operazioni di carat-
tere umanitario. Ma nell’insieme si è trattato – per riprendere l’espressione di un
autorevole diplomatico italiano – di una «non-politica, finita del resto nel calde-
rone delle non-politiche di tutti».
Come gli altri paesi europei, l’Italia ha teso progressivamente a escludere la
possibilità di utilizzare strumenti militari per un peace enforcement in Bosnia ,e
ha piuttosto puntato su uno scenario di «isolamento» (il cordone sanitario) del
conflitto alle proprie frontiere orientali. Nel dibattito della primavera 1993 su una
possibile opzione militare condotta dalla Nato, il governo italiano ha sottolinea-
to due punti: la necessità di un mandato specifico dell’Onu (considerato come
fonte indispensabile di legittimazione politica); il valore essenzialmente dissuasi-
vo della minaccia dell’uso della forza, come leva per spingere Belgrado a disso-
ciarsi dalla guerra in Bosnia. Come in molti altri paesi occidentali, i militari si so-
no espressi più nettamente contro l’opportunità di un intervento militare, giudi-
cato troppo difficile per la situazione sul terreno e troppo costoso in termini di
vite umane. Da parte loro, i nuovi ministri della Difesa e degli Esteri hanno di-
chiarato che in caso di azione Nato su mandato dell’Onu l’Italia avrebbe fatto
fronte alle proprie responsabilità (concedendo basi di appoggio alle forze terre-
stri e aeree). Al tempo stesso, Roma non ha accolto le proposte americane sulla
revoca dell’embargo contro la vendita di armi ai musulmani bosniaci: una linea
tenuta da Colombo e poi confermata, dal maggio 1993 in poi, da Andreatta.
Nella polemica interatlantica della primavera 1993 sulla risposta alla guerra
in Bosnia, quindi, il governo ha condiviso la linea «europea», potendo del resto
contare – aldilà di proteste verbali sull’impotenza occidentale da parte di espo-
nenti di quasi tutti i partiti – su una stabile maggioranza parlamentare (385).
Con l’intervento diretto dalla Nato a sostegno del peace keeping dell’Onu (la
dichiarazione di una no fly zone sui cieli della Bosnia), l’Italia è in effetti venuta
a trovarsi in una situazione poco agevole: e cioè la situazione di una base logisti-
ca di primo piano per l’attuazione di missioni cui l’Italia stessa non partecipa, in
virtù delle già citate norme limitative delle Nazioni Unite.
Note
356. G. SOKOLOVA, a kolektiv, Soudobe tendence vyvoje narodnosti v CSSR (Tendenze attuali dello sviluppo delle na-
zionalità nella Repubblica socialista cecoslovacca), Praha 1987, Academia, p. 151.
357. Si veda la citazione, dal suo discorso inaugurale all’Assemblea nazionale provvisoria, il 14 novembre 1918, in V.S.
MAMATEY-R. LUZA, ed., La République tchécoslovaque 1918-1948 Une expérience de démocratie, Librairie du Re-
gard 1987, p. 69.
358. Ceskoslovenske dejiny v datech (La storta cecoslovacca in date), Praha 1986, Svoboda, pp. 390 e 407.
359. J. HAJEK, «La socialdemocrazia in cecoslovacchia: la difesa della repubblica democratica», in E. COLLOTTI, (a cura
di), L Internazionale operaia e socialista tra le due guerre, Milano 1985, Annali della Fondazione Giangiacomo Feltri-
nelli, anno XXXIII, p. 954.
360. Ceskoslovenske dejiny v datecb, cit., pp. 631-632.
361. In sostanza, lord Halifax assicura il Fuhrer che la Gran Bretagna non si opporrà alla rivendicazioni tedesche, se rea-
lizzate «per vie pacifiche». V. KURAI, Konflikt místo spolecenství? Cesi a Nemci v ceskoslovenskem state (1918-1938)
(Conflitto invece di convivenza? Cechi e tedeschi nello Stato cecoslovacco [1918.1938]), Praha 1993, Nakladatelstvi R,
p. 166 e p. 169.
362. Cfr. V. KURAL, op. cit., p. 207.
363. Cit. da V. KURAL, «Ceskoslovensko jako narodni stat? Sudetonemecky problem» («La cecoslovacchia Stato nazionale?
Il problema tedesco sudeto»), in Ztroskotani, spoluziti. Cesi, Nemci a Slovaci v prvni republice 1918-1938 (Fallimento
di una coesistenza. Cechi, tedeschi e slovacchi nella prima repubblica 1918-1938), Praha 1993, Ministerstvo zahra-
nicnich veci Ceske republiky, p. 97.
364. Si vedano i diversi studi pubblicati, naturalmente da storici cechi come Jan Kren, Václav Kural, Pavel Reiman, negli
anni Sessanta e Ottanta, e, in particolare, il saggio di V. VRABEC, «Ke genezi myslenky transferu Nemcu v domaci od-
boji» («La genesi dell’idea del trasferimento dei tedeschi nella resistenza interna»), uscito con altri lavori di altri autori in
samizdat nel 1980, ripubblicato ora nel volume collettaneo e ampliato Cesi, Nemci, odsun. Diskuse nezavislych histo-
rikù (I cechi, i tedeschi e il trasferimento. Dibattito tra storici indipendenti), Praha 1990, Accademia, pp. 287-310. In-
fine: Kosicky vladni program (Il programma governativo di Kosice), Praha 1984, Svoboda, p. 21.
365. T. STANEK, Odsun Nemci z Cesloslovenska 1945-1947 (Il trasferimento dei tedeschi dalla Cecoslovacchia 1945-
1947), Praha 1991, Academia-Nase vojsko, p. 366.
366. Corrispondenza Ansa, da Praga, cit. I corsivi sono miei.
367. Rude pravo, 29/5,3/6/1993 e 1/2/1994.
368. J. MLYNARYK, «Ne odsun, ale vyhnani» («Non trasferimento, bensì espulsione»), Rude pravo, 29/5/1991. Dello stes-
so autore: DANUBIUS, Tezy o vysidleni ceskoslovenskycb Nemcov, del 1977, da cui ebbe origine il dibattito raccolto
oggi nel già citato volume Cesi Nemci, odsun (pp. 55-90).
369. I dati, dell’Istituto di ricerche sull’opinione pubblica, sono nel quotidiano Telegraf (Il telegrafo), del 19/2/1994. Del
«caso Walderode» hanno scritto diversi giornali cechi sempre dello scorso febbraio.
370. Cfr. S. VENTO, «La disintegrazione jugoslava», Relazioni internazionali, settembre 1992, pp. 34-35. Per una ricostru-
zione in chiave storica delle origini del conflitto e per un’analisi delle responsabilità negative della Cee, cfr. S. BIAN-
CHINI, Sarajevo. Le radici dell’odio, 1993, CESPI-Edizioni Associate.
371. Cfr. l’intervista a Panorama, 4/7/1993.
227
PERCHÉ L’ITALIA HA FALLITO NELLA EX JUGOSLAVIA
372. Su questo punto cfr. J. NEWHOUSE, «The diplomatic round», The New Yorker, 24/8/1992.
373. Questa e la sensazione di alcuni osservatori anglosassoni, che non sembra però fondata su elementi sufficienti Sa-
rebbe d’altra parte eccessivo leggere in questo senso l’invito di Andreotti, al vertice europeo di Lussemburgo di fine
giugno 1991, a inviare in Jugoslavia una prima trojka comunitaria.
374. Il 13 luglio 1991, annunciando l’apertura di nuovi consolati in Bosnia, Macedonia e Montenegro (accanto a quelli
già esistenti a Belgrado, Zagabria e Lubiana), De Michelis proponeva anche un «sistema associativo» fra le sei repub-
bliche, con il mantenimento dei confini interni ed esterni. In una intervista al Sabato del 28/9/1991, De Michelis riba-
dirà che l’Italia «preferisce una Jugoslavia unita nella forma di una confederazione», subordinando un eventuale rico-
noscimento di Slovenia e Croazia a una scelta in tal senso dell’intera comunità internazionale. Per una sintetica rico-
struzione dell’evoluzione della diplomazia italiana fra il 1989 e il 1992, cfr. D. CACCAMO, «La questione jugoslava
(1989-gennaio 1992)», Rivista di studi politici internazionali, n .1/1992, pp. 51-67.
375. Per un’analisi della politica europea di De Michelis cfr. M. DASSÙ, «The future of Europe: the view from Rome», In-
ternational Affairs, n. 2/1990, pp. 299-312. Per un commento critico dell’Iniziativa Quadrangolare, vista come il vel-
leitario ritorno dell’Italia ad alcune linee della politica balcanica degli anni Venti, cfr. L.V. FERRARIS, «Dal Tevere al
Danubio: l’Italia scopre la geopolitica da tavolino», Limes, nn. 1-2/1993, pp. 213-225.
376. Cfr. su questo punto T. FAVARETTO, «Per una visione coerente degli interessi italiani nell’Europa dell’Est», Limes,
nn. 1-2/1993, pp. 197-211.
377. Secondo i dati del ministero dell’Interno, l’Italia ha registrato l’afflusso di circa 25 mila profughi.
378. L’accordo triennale di cooperazione economica e finanziaria prevedeva la concessione di crediti agevolati alla Jugo-
slavia per 500 miliardi di lire. Vedi Iai, L’Italia nella politica internazionale 1987- ‘88, pp. 518-519.
379. Cfr. T. FAVARETTO, «Per una visione coerente…», cit., p. 206. Nel luglio 1991, la Sace - che aveva concesso alla Ju-
goslavia un credito di 800 miliardi nell’aprile precedente-bloccava la copertura assicurativa all’export con la Jugosla-
via. Vedi Iai, L’Italia nella politica internazionale 1990-’91, pp. 440-441.
380. È interessante rilevare che la stampa tedesca, fortemente critica sulla gestione italiana della crisi jugoslava, ha spie-
gato l’opposizione iniziale al riconoscimento delle repubbliche ex jugoslave come prodotto di timori profondi su
spinte secessionistiche in Alto Adige. Cfr. D. CACCAMO, «La questione jugoslava…», cit., p. 66.
381. Sia Alpe Adria che la Quadrangolare si basano sulla graduale costruzione di rapporti di cooperazione in settori spe-
cifici: trasponi, ambienti eccetera. La Quadrangolare ha in effetti assorbito - finendo per svuotarle - le commissioni di
lavoro di Alpe Adria.
382. Cfr. Iai, L’Italia nella politica internazionale 1990-’91, p. 441.
383. L’Italia si è dichiarata a varie riprese disposta a partecipare alla missione dell’Unprofor con l’invio di proprie forze
(tremila uomini). Ma l’Onu, di fronte ai veti serbi e croati, ha confermato la norma tradizionale tesa a escludere la par-
tecipazione dei paesi limitrofi ad operazioni di peace keeping.
384. La Marina partecipa al blocco navale nell’Adriatico con due unita maggiori, una corvetta, quattro aerei anti-sommergibile
Breguet-Atlantic ed elicotteri di base a Grottaglie. Cfr. CASD, Sviluppo di situazione in Jugoslavia, (documento n. 7), p. 16.
385. Difatti, il dibattito parlamentare sulla situazione in Bosnia (9/6/1993) si è concluso con l’approvazione di una mo-
zione a larghissima maggioranza.
386. Cfr. J. ZAMETICA, «The Yugoslav Conflict» Adelphi Paper, n. 270, p. 7.
387. Cfr. N. ANDREATTA, «Una politica estera per l’Italia», il Mulino, n. 5/1993, p. 886.
388. La Jugoslavia aveva pagato solo una minima parte della somma destinata al risarcimento dei beni italiani in base ad un
accordo del 1983. Le organizzazioni di profughi chiedono di tornare in possesso dei loro beni. Tuttavia. sia la legislazione
slovena che quella croata non consentono il possesso di beni da parte di stranieri a meno che non vengano create joint-
ventures. Roma chiede quindi una revisione della legislazione sulla proprietà. Cfr. F. GRECO, Documenti Iai. cit., p. 9.
389. Cfr. Corriere della Sera, 25/3/1993 Cfr. anche T. FAVARETTO, «Per una visione coerente…» cit., pp. 210-211.
390. S. BIANCHINI, «I Balcani dopo la guerra: un’utopia geografica», Limes, n. 3/1993, pp. 221 ss.
391. Sia il governo croato che quello sloveno si sono dichiarati nettamente contrari a una ipotesi del genere. Cfr. E. GRE-
CO, Documenti Iai, cit., p. 9.
392. Cfr. T. FAVARETTO, «Per una visione coerente…», cit., 210-211.
393. Cfr. su questo punto la relazione di Stefano Silvestri su «Osimo e la questione istriana» al Primo incontro geopolitico
di Venezia, organizzato da Limes (Venezia, marzo 1993).
394. Vedi per esempio la protesta del governo greco (la Repubblica, 16/11/1993) di fronte alla decisione italiana di ele-
vare al rango di ambasciata la propria rappresentanza diplomatica in Macedonia, completando così la costruzione di
relazioni diplomatiche bilaterali.
395. S. ROMANO, «Come è morta la politica estera italiana», il Mulino, n. 4/1992.
228
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
ORFANA DI ROMA
TRIESTE GUARDA
A LUBIANA di Antonio SEMA
lare attenzione dei leghisti verso le minoranze, Lubiana aveva capito come
essi fossero sicuramente meno guardinghi sul terreno nazionale e «più im-
plumi» nel ginepraio della grande politica. Fontanini accettava la disponibi-
lità slovena al dialogo e annunciava (fatto centrale) anche un vero proprio
programma di politica estera, guarnita di incontri con Peterle, la minoranza
italiana e i sindaci di frontiera, mentre assicurava il suo interessamento per
l’arrivo dei finanziamenti alla minoranza slovena in Italia (410).
Anche la Dc del Friuli si affrettava a ricordare i suoi prossimi contatti con
Peterle, ma questi ormai erano solo rapporti interpartitici, dove agli sloveni
interessavano invero i contatti istituzionali assicurati dai leghisti. Fontanini
spiegava a Peterlè come il Friuli, la «regione ponte», sarebbe stato impegnato
nei collegamenti e contatti con l’Europa centrale previsti dalla legge sulle
aree di confine. Sul piano politico, Fontanini ostentava la sua freddezza ver-
so Zagabria per il trattamento che riservava alla minoranza italiana e, soprat-
tutto, prendeva le distanze dalle forze politiche che allora guidavano Trieste
(411) segnalandosi per l’opposizione al Trattato di Osimo.
Pochi mesi più tardi i leghisti avrebbero intessuto liste elettorali comuni
con alcune di quelle forze (con la benedizione della massoneria ornatasi di
un deputato), ma all’epoca la questione era ancora fluida. Fontanini era im-
pegnato nel potenziamento della specialità regionale, necessaria per l’inter-
nazionalità del Friuli in vista di un collegamento più stretto con i paesi euro-
pei e dell’Est (412).
Iniziava nel frattempo la preannunciata politica estera regionale inaugu-
rata dall’incontro con la minoranza italiana, di cui veniva chiesta l’inclusione
(accanto alla Regione) nella trattativa per Osimo. Non mancava un richiamo
alla Croazia, acciocché dimostrasse maggiori aperture verso gli italiani
d’Istria (413). Questo atteggiamento critico verso la Croazia (funzionale alla
strategia slovena di escludere o comunque di precedere Zagabria nei contatti
con l’Europa) riemergeva nell’Assemblea plenaria di Alpe Adria a Balaton-
szod quando Fontanini richiamava ufficialmente la Croazia a una tutela non
solo formale della minoranza italiana (414).
A dicembre, ormai prossimo a passare la mano, Fontanini si incontrava
con Kucan alla vigilia di una riunione della commissione economica italo-
slovena. Ufficialmente, i due politici parlavano solo di minoranze nazionali o
del ruolo dei due paesi in merito alla crisi dei Balcani (415).
Al termine della prima esperienza internazionale dei leghisti, Peterle sot-
tolineava la «notevole importanza» attribuita dalla Slovenia allo sviluppo dei
buoni rapporti di vicinato e di collaborazione con le regioni contermini,
mentre non era ancora possibile parlare «in termini lusinghieri» della collabo-
razione con la Croazia (416).
Dal canto suo, la giunta leghista aveva corrisposto alle attese degli slove-
ni, consolidando i rapporti bilaterali, e raffreddato quelli con la Croazia.
Agli inizi del 1994, alla guida della Regione Friuli-Venezia Giulia si inse-
diava una giunta di coalizione capitanata dal pidiessino Renzo Travanut che,
fin dall’inizio, esprimeva la volontà di ottenere più potere nella politica inter-
234 nazionale e nella tutela e valorizzazione delle minoranze (417). Egli incontra-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
sloveno (435). D’altra parte, come non sfruttare internazionalmente una città
quale Trieste, dove sembrava fossero proprio i problemi di carattere locale a
implicare questioni cruciali di politica interna o addirittura internazionale?
Questa indicazione di Diego De Castro (i cui autorevoli interventi avevano
concepito l’elezione di Illy) sintetizzava bene le problematiche di una città
portuale multietnica di confine, impantanata in un declino economico che
nell’arco di un decennio aveva dimezzato la forza-lavoro nell’industria.
A Trieste, il 1993 si era chiuso su uno scenario di «incertezza e di paura»
(436), ma se davvero si fosse voluto salvare la città e aprire ad essa le vie
dell’Europa, allora, spiegava De Castro, oltre ai traffici marittimi si sarebbero
dovuti definire i collegamenti stradali e ferroviari. Però questo significava
toccare interessi e territori di Italia, Austria, Slovenia, e in parte anche Croa-
zia. E sarebbero stato poi necessario ripristinare il «buon nome» della città,
che non era violenta, ma temeva di essere ulteriormente strangolata, convin-
cendo intanto i triestini dell’inesistenza di un «pericolo slavo». Per sovrappiù
c’erano gli istriani, e bisognava eliminare ogni malinteso tra esuli e rimasti
(437). Il solo elenco delle priorità evidenziava quel groviglio di memoria, et-
nia, economia e geopolitica che rendeva così singolare la realtà giuliana e
che faceva talvolta sospettare (dietro alla grandiosità degli scenari) qualche
fondamentale errore di prospettiva, posto che ipotizzare seriamente azioni
concordi di almeno quattro Stati a precondizione della ripresa economica di
Trieste sembrava eccessivo. Forse, però, sarebbe bastato mettersi d’accordo
con la Slovenia.
Fin dall’inizio, in effetti, Illy aveva spiegato di voler «riscrivere» i rapporti
tra Trieste e la Slovenia, nonché quelli fra la città giuliana, i Comuni limitrofi
e la Regione nel suo complesso (438). Il nodo dei rapporti con la Slovenia
andava risolto inserendo la città sia nella rinegoziazione di Osimo che nelle
trattative sull’accordo di cooperazione tra Unione europea e la stessa Slove-
nia (439). Poco dopo Illy andava a Lubiana, fatto senza precedenti da mezzo
secolo. I colloqui spaziavano dalla cultura all’economia, ma lo stesso quoti-
diano Il piccolo accreditava soprattutto l’impressione di una lezione di politi-
ca internazionale impartita dal «professore» Kucan ai volonterosi «allievi» trie-
stini. In realtà, al di là delle disquisizioni sulla ex Jugoslavia, Kucan aveva de-
lineato con molta chiarezza quale fosse il ruolo di Trieste nella strategia slo-
vena. Anche solo come «laboratorio multietnico» Trieste poteva servire per
combattere il nazionalismo (italiano), ma quanto premeva a Kucan era che
Illy si facesse «tramite a Roma» della loro comune «volontà» facendo poi di
Trieste «il filo conduttore di questa nuova energia costruttiva» (440). Illy era
d’accordo su tutto.
In effetti, Kucan aveva interpretato la sua elezione come il segnale per
intensificare i rapporti tra Roma e Lubiana, giocando sulle stringenti neces-
sità di Trieste. In passato molte cose avevano diviso i due paesi, ma adesso
era giunto il momento di dimenticare e lavorare per il futuro. Capovolgendo
l’impostazione della Farnesina (prima il contenzioso sulle minoranze in
Istria, poi l’accesso all’Europa), Kucan affidava il nodo dei beni abbandonati
in Istria (chiave d’accesso ai voti degli esuli, decisivi sulla scena elettorale 237
ORFANA DI ROMA, TRIESTE GUARDA A LUBIANA
Note
396. «Gli sloveni nelle province di Gorizia e Trieste», in COMUNITÀ DI LAVORO ALPE ADRIA, Le minoranze
nell’ambito dell’Alpe Adria, Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, Trieste 1991, p. 73.
397. P. SPIRITO, «La conta degli sloveni», Il Piccolo, 20/1/1994 p. 12.
398. «L’ultimo treno», Il piccolo, 25/4/1993. p. 1.
399. R. ILLY, «Trieste e la Mitteleuropa» Nord-Est, n. 1/94, pp. 59-66.
400. U. TRAMB., «Lontano dai Balcani, il traguardo è l’Europa», Il Sole -24 Ore, 25/6/1993, p. 7.
401. L. BRAIDA, «Fabbricare consenso in Friuli», Quaderni del Picchio, n. 1/94, Kappa Vu, Udine, p. 22.
402. Ivi, pp. 44-45.
403. U. TRAMB., «Lontano dai Balcani…», cit.
404. R. ILLY, «Trieste…», cit.
405. Cfr. M. DORIA, Grande dizionario del dialetto triestino, Tres 1987.
406. Cfr. DOMINI, PULIZIO, MINUISSI, VITTORI, Vocabolario fraseologico del dialetto «Bisiàc».
407. C. COLONNA, «Trieste ai confini delle Europe», Le Monde Diplomatique, in Internazionale, 3/2/l994, n. 13.
pp. 40-43.
408. A. GIORDANO, «Trieste Italia», Il Venerdì di Repubblica, 17/12/1993, p. 34.
409. P. RUMIZ, «Signori l’abbuffata è finita», Il Piccolo, 26/10/1993, p. 10.
410. P. RUMIZ, «La Slovenia ha fretta», ivi, 23/10/1993, p. 10.
411. P. RUMIZ, «Signori...», cit.
412. «Sì al federalismo con la specialità delle autonomie», Il Piccolo, 26/10/1993, p. 10.
413. G.P., «Fontanini. “Attenzione forte”», ivi, 27/10/1993, p. 11.
414. «Fontanini rimprovera il governo croato: curatevi degli italiani., ivi, 26/11/1993, p. 12.
415. F.E. - B.A., «A cena tra presidenti», ivi, 13/12/1993, p. 8.
416. L.B., «Buoni i rapporti con il vicinato», ivi, 29/12/1993, p.9.
417. «Idee a confronto», ivi, 25/1/1994.
418. «Negoziati di Osimo: “La regione deve essere coinvolta direttamente”», ivi, 19/1/1994, p. 14.
419. «Peterle scrive a Travanut: “Spero che i rapporti siano buoni anche in futuro”», ibidem.
420. «Travanut e Kucan: “Superare i confini”», ivi, 23/1/1994.
421. F.P. «Travanut al ballo dei “Deb”», Il Gazzettino, 26/1/1994, p. V.
422. «Fontanini: Programma “copiato”», ibidem.
423. «Tutela di tutte le minoranze», Il Piccolo, 31/1/1994, p. 10.
424. «Minoranza slovena: Tutela e finanziamento per parchi e cultura», ivi, 2/2/1994.
425. «Regione più snella, aiuto alle imprese». Ivi, 26/2/1994, p. 27.
426. «Un’area Strategica», ivi, 27/2/1994, p. 2.
427. G. GARAU, «Vertice di governo su Trieste», ivi, 27/2/1994, p. 3.
428. G. ROSSETTI, «Ma il Parlamento può rispondere picche», ivi, 3/3/1994, p. 2.
429. U. SALVINI, «Trieste, porto dell’Austria», ivi, 3/3/1994. p. 3.
430. F. B., «Entusiasta il console Ingo Mussi: “Saremo più vicini, più informali”», ibidem.
431. U. SALVINI, op. cit.
432. «Il Friuli-Venezia Giulia e l’impegno costante a Est», ivi, 5/3/1994, p. 3.
433. M. MANZIN, «Nei Balcani da ora in avanti non ci saranno colpi bassi», ibidem.
434. «Emergenza continua», ivi, 21/3/1994, p. 8.
435. A. CERNAZ, «Una lezione ai nazionalisti», ivi, 7/12/1993, p. 11.
436. S. MARANZANA, «L’industria vicina al colasso», ivi, 7/12/1993, p. 14.
437. D. DE CASTRO, «Salviamo Trieste. Ora più che mai serve collaborare», ivi, 12/12/1993, p. 1.
438. A. BORIA, «Tre emergenze da risolvere», ivi, 7/12/1993, p. 13.
439. G. G., «Comune-Regione: un “filo diretto” per l’emergenza», ivi, 18/1/1994, p. 11.
440. M. MANZIN, «Superiamo i nazionalismi», ivi, 3/2/1994, p. 13.
441. M. MANZIN, «Beni abbandonati, nuove vie», ibidem.
442. M. MANZIN, «Superiamo…», cit.
443. «Trieste come motore del “dopoguerra” in Bosnia», Il Piccolo, 2/3/1994, p. 11.
444. P. SPIRITO, «Porti: alleati con Capodistria», ivi, 19/3/1994, p. 11.
445. P. SPIRITO, «L’Unione europea renderà inutilì gli attuali confini», ibidem.
446. L. BRAICO, «E gli italiani d’Istria: “Trieste, non dimenticarci”», ibidem.
447. «Cooperazione transfrontaliera: protocollo Nord-Est, Slovenia, Croazia», 4/12/1991, Nord-Est, pp. 122-124.
448. M. GRECO, «Un Mediterraneo più competitivo», Il Piccolo, 9/12/1993. p. 26.
449. E. SUSSI, «L’emergenza della Regione trans-frontaliera Alpe Adria: transazioni “pubbliche” tra Carinzia,
Croazia, Friuli-Venezia Giulia e Slovenia», in I.S.I.G., Confini e Regioni. Il potenziale di sviluppo e di pace del-
le periferie, Trieste 1972, Lint, pp. 135-139.
240
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
CROAZIA DIVISA:
IL CASO
DALMAZIA di Alessandro SFRECOLA
bria ma soprattutto al fatto che le forze della Sao-Krajina non potevano più
usufruire dell’appoggio in profondità costituito dalle milizie reclutate nei vil-
laggi serbi, fattore che aveva permesso nei mesi precedenti il blocco delle
vie di comunicazione e il rapido isolamento delle guarnigioni croate, causan-
do la loro sconfitta.
Dalmazia meridionale. L’apertura di un secondo fronte in Dalmazia,
l’offensiva federale verso Dubrovnik, considerata dai media occidentali
un’impresa di stampo terroristico, rispondeva invece a diverse esigenze di
carattere geostrategico e politico. Era finalizzata in primo luogo all’occupa-
zione della penisola di Prevlaka e della regione di Konavli, che avrebbe con-
sentito sia la protezione del lato nord della baia di Cattaro, dove era situato
l’unico porto militare rimanente alla futura federazione serbo-montenegrina
dopo l’indipendenza della Croazia, sia, in previsione della secessione dell’et- 245
CROAZIA DIVISA: IL CASO DALMAZIA
Note
450. Comunemente chiamata solo Krajina, la Regione autonoma di Krajina era costituita dai distretti a maggio-
ranza serba della Lika orientale, Banija-Kordun e Dalmazia settentrionale, che avevano proclamato il proprio
distacco dalla Croazia il 21 dicembre 1990; a questa si univano nel gennaio del 1992 le altre regioni secessio-
niste di Baranja e Slavonia orientale, per dare origine alla Repubblica serba di Krajina (Rsk), con capitale
Knin.
451. I. BICANIC, «Croatian Struggle to Make Ends Meet», Rfe/Rl Research Report, vol. 2, n. 45, 12/11/1993, p. 34.
452. La produzione industriale statale, ad esempio, è stata nel 1993 pari al 52% di quella del 1989, e inferiore a
quella del 1992. Una analisi completa dell’economia croata è in I. BIBANIC, «Croatia’s Economic Stabilization
Program: Third Time Unlucky», Rfe/Rl Research Report», vol. 3, n. 3, 21/1/1994, pp. 36-42.
453. Cfr. P. SHOUP, «The Future of Croatia’s Border Regions», Report Eastern Europe», vol. 2, n. 48, 29/11/1991,
pp. 26-33.
454. Questi e i successivi dati statistici sulla Dalmazia sono tratti in prevalenza dal I. DOMINIS, «Dalmatia: A
Croatian Resource Divide», Rfe/Rl Research Report, vol. 3, n. 9, 4/3/1994, pp. 37-42.
455. AA. VV., «Person Displacement Pattern Croatia», Croatia Medical Journal, vol. 33, War Supplement, n. 1,
1992, p. 59.
456. Testimonianze del vittimismo con cui è stata vissuta la guerra si possono trovare nel volume AA. VV., Du-
brovnik in War, Dubrovnik-Zagreb 1993, in cui sono ricorrenti parallelismi come Dubrovink-Guernica o
Vukovar-Stalingrado.
457. AA.VV., La Croazia tra la guerra e l’indipendenza, Zagabria 1991, OKC, p. 56. I dati risalgono al censi-
mento del febbraio 1991.
458. M. VEGO, «The Army of Serbian Krajina», Jane’s Intelligence Review, vol. 5, n. 10/10/1993. p. 441.
459. Interessante la presenza in Dalmazia nei primi mesi del conflitto di milizie reclutate dal Partito riformistica
democratico (Sdp, espressione degli ex comunisti) e organizzate secondo gli schemi delle precedenti forze
della difesa territoriale jugoslava. Cfr. M. VEGO, «The Croatian Army», Jane’s Intelligence Review, vol. 5, n.
5/5/1993, p. 206.
460. J. GOW, «One Year of War Bosnia and Herzegovina», Rfe/Rl Research Report, vol. 2, n. 23, 4/6/1993, p. 7.
461. Si veda ad esempio M. GLENNY, The Fall of Yugoslavia, Harmondsworth 1992, Penguin, pp. 131-134.
462. A ZABKAR, «Agresija “old Triglava do Vardarja”», Revija Obramba, nn. 4-5, April-May 1993, p. 7.
463. Riguardo le origini della situazione socioeconomica della Krajina si veda G.E ROTHENBERG, «The Hab-
sburg Military Border System: Some Reconsideration», in B K KIRALY-G.E. ROTHENBERG, «Special Topics
and Generalizations no the l8th and l9th Centuries», War and Society in East Central Europe, vol. I, New
York 1979. Brooklyn College Press, pp. 361-392.
464. Per la scelta di Martic da parte di Belgrado cfr. S. MARKOTICH, «The Elections in Krajina and Their After-
math», Rfe/Rl Research Report, vol. 3, n. 10, 11/3/1994, pp. 4-5.
465. Cfr. I. Dominis, op. cit., p. 41.
250
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
Croazia. Chi ha vissuto sempre in putati locali sono solo due: gli in-
un contesto di rapporti intrecciati dennizzi ai nostri profughi per i be-
tra lingue e culture diverse, in cui si ni abbandonati, che costituiscono
muovono interessi d’affari, guarda una cifra modesta se rapportata
alla dimensione nazionale come a agli interessi economici in gioco
qualcosa di romantico, forse, ma nel Centro-Est Europa; e il diritto di
non di condizionante. A Lubiana, accesso alla proprietà privata da
invece, dove questi valori d’intrec- parte dei cittadini dell’Unione eu-
cio non sono così palpabili, si ra- ropea. Cosa che avverrà automati-
giona in modo inverso. camente con l’ingresso, spero non
LIMES Sindaco Illy, quando lei è an- troppo lontano, della Slovenia
dato a Lubiana il presidente Kucan nell’Ue. Mi auguro che i deputati
le ha chiesto di farsi tramite della della destra mettano perciò da par-
sua volontà presso Roma, in parti- te le ideologie del passato e ricor-
colare per quel che riguarda le re- dino un vecchio proverbio: «Se
lazioni di confine. Non risulta che vuoi prendere miele dall’alveare è
dalla Farnesina ci sia stata analoga meglio non prenderlo a calci».
richiesta al sindaco di Capodistria o LIMES Dal punto di vista di Trieste e
di Fiume. Non c’è uno squilibrio fra del Friuli, quali sono gli interessi ir-
il modo di fare politica estera rinunciabili nella disputa su Osimo
dell’Italia e quello della Slovenia, e sui rapporti con la ex Jugoslavia?
che punta sull’influenza del Friuli- ILLY Non è corretto parlare di revi-
Venezia Giulia o di Trieste presso il sione del Trattato di Osimo, perché
governo centrale? è solo uno degli accordi in discus-
ILLY La spiegazione è semplice. La sione. Deve comunque essere
Slovenia è assimilabile per dimen- senz’altro risolto il problema dei
sioni e numero di abitanti a una beni abbandonati dai nostri profu-
grande regione italiana. Quindi per ghi. Come pure si dovrà affrontare
il governo sloveno può risultare la questione della tutela delle mi-
più facile il rapporto diretto con il noranze, che trovo molto più disat-
Friuli o con Trieste. Poi c’è un’altra tesa dall’Italia che dalla Slovenia e
chiave di lettura, la quale si rifà al dalla Croazia.
rapporto dell’amministrazione co- Anche se riesco a comprendere gli
munale di Trieste, storicamente av- aspetti più emozionali, ovvero
versa alle politiche più morbide di quelli più legati alla cosiddetta ita-
Roma, che ha sempre cercato di lianità di Trieste...
ostacolare. Cosa che i Comuni slo- LIMES Perché «cosiddetta»?
veni o croati non fanno nei con- ILLY Perché ritengo che non vi sia
fronti dei rispettivi governi. più nessuno oggi che metta in dub-
LIMES Ma ora abbiamo un sindaco bio il fatto che Trieste sia italiana. E
aperto a Trieste e un governo mol- dunque sia un’affermazione pleo-
to più «chiuso» a Roma. nastica che non viene capita dall’o-
ILLY Io credo che il nostro nuovo pinione pubblica italiana. Del re-
governo dovrebbe aver chiaro il sto, altrettanto italiani si sentono i
vantaggio di un’apertura a Slovenia cittadini di origine slovena che vi-
e Croazia. Le rivendicazioni dei de- vono in provincia di Trieste. 255
DA ALPE ADRIA AD ARCO ADRIA?
Tornando a quanto stavo dicendo, che fin dall’inizio non c’era una vo-
mi sembra logico che ci si apra an- lontà di indipendenza in sé e per sé
che alla cultura e alla lingua dei da parte di Slovenia e Croazia. C’è
clienti che intendiamo attirare, se stata una risposta al tentativo serbo
vogliamo veramente sfruttare le po- di egemonizzare la Jugoslavia. Se
tenzialità di commercio della nostra guardiamo avanti, son convinto che
città. E allora perché non accettare decentramento e regionalizzazione
alcune richieste della comunità slo- siano il futuro dell’Europa. In Slove-
vena, che non sono poi la luna nel nia c’è un progetto di autonomie
pozzo: i cartelli indicatori bilingui locali che dagli attuali 62 Comuni ci
nelle frazioni del circondario, o un porterà ad averne 337. I tre Comuni
uso più frequente della lingua au- dell’Istria slovena, però, Capodi-
toctona in casi circoscritti. Forse po- stria, Isola e Pirano, rimarranno in-
trei pensare che la parvenza di chiu- tatti e sembrano intenzionati a riu-
sura italiana serva a coprire l’ina- nirsi in un’unica provincia, che qua-
dempienza del nostro Stato rispetto si certamente rivendicherà una for-
ad alcuni impegni sottoscritti. te autonomia, specie sulle questioni
LIMES La propaganda nazionalista delle minoranze, della politica ma-
croata e slovena insisteva nel 1991 rittima e del piccolo traffico di fron-
sull’indipendenza come necessaria tiera. Se si crea questa provincia,
a entrare in Occidente. Voi oggi vi potremo cercare integrazioni fun-
sentite più occidentali di prima? zionali, ma non politiche, con la
LINIC A differenza dei paesi balcani- contea istriana croata.
ci della ex Jugoslavia, dobbiamo ri- LIMES È possibile, in questo quadro,
levare che sia la Croazia che la Slo- Immaginare un organismo che ri-
venia sono paesi dell’Europa occi- prendendo il modello di Alpe A-
dentale e che lo erano già prima. dria lo applichi alla realtà portuale,
Già ai tempi di Tito infatti le indu- turistica e commerciale dell’arco
strie croate e slovene importavano costiero adriatico settentrionale? In-
materie prime grezze dall’Est, per somma, da Alpe Adria ad Arco Adria?
riversare l’80% delle merci verso i ILLY Mi va bene. Ricordo però che
mercati occidentali. Del resto, la su molti di questi temi i sindaci non
nostra tecnologia era tecnologia hanno competenze specifiche. D’al-
occidentale. In sintesi, né Croazia tra parte, un organismo del genere
nè Slovenia hanno o avevano gros- permetterebbe a noi sindaci di e-
se connessioni con l’Europa del- sercitare una maggiore influenza
l’Est. Ed è proprio questo che gli al- sui rispettivi governi centrali.
tri Stati jugoslavi non vedevano di
buon occhio. (a cura di Antonella Furlan, Giovanni
JURI È vero. E voglio sottolineare Orfei e Antonio Sema)
256
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
TEOLOGIA E TERRITORIO
NEL RADICALISMO
ISLAMICO di Renzo GUOLO
L’interpretazione estremista del Corano sembra prevalere in molti
paesi arabi. Essa non prevede l’esistenza di altri mondi oltre
al musulmano. Ebrei e cristiani sono responsabili del degrado
morale che contamina anche l’universo della Mezzaluna.
mento indispensabile alla realizzazione della «missione per Dio». Per gli isla-
mici la umma, seppure storicamente divisa, differenziata dall’influsso delle
tradizioni locali, arbitrariamente frantumata dalle eredità dell’età coloniale,
ha mantenuto una sua inestinguibile tensione all’unità, tawhid. Essa resta
nello spazio e nel tempo, secondo un’espressione coranica continuamente
citata, «la migliore nazione mai suscitata fra gli uomini» (471).
Il progetto di ricomposizione della «comunità dei credenti» implica un
principio di estrema rilevanza: l’abbattimento della territorialità del politico.
La lotta contro gli Stati-nazione che dividono il mondo musulmano diviene
obbligo fondamentale della «rivoluzione islamica». In questo processo l’isla-
mismo si riappropria, reinterpretandola e rielaborandola in funzione dei pro-
pri obiettivi strategici, della stessa tematica nazionalista. L’islamizzazione del-
la nazione, con la sostituzione dell’islam-cultura dei gruppi dirigenti «nazio-
nalisti e modernizzanti» con l’islam-ideologia della comunità in divenire, sod-
disfa sia la necessità della lotta contro la nuova asabiya (472), i legami di
gruppo di clan e tribù affermatisi come relazioni di solidarietà tradizionali
dentro a uno spazio moderno quale quello statale, sia la necessaria relativiz-
zazione dello spazio in vista della futura espansione della «nazione di Dio».
L’insieme delle nazioni islamizzate prefigura una prima rappresentazione
della possibile estensione territoriale della umma.
Il nuovo bipolarismo
Nello stretto legame che si stabilisce tra «ummismo» e «combattimento
per Dio» gli islamici fanno propria, sino alla sua estrema «radicalità», l’essenza
del Politico: la divisione amico-nemico. L’opposizione al Nemico si costitui-
sce in nome di una genealogia della fede che contrappone nettamente due
soli partiti: quello della fede e quello dell’errore. Nel nuovo bipolarismo geo-
spirituale teorizzato dall’islam radicale il «partito di Dio» e il «partito di Satana»
sono i soli raggruppamenti autentici della storia (473). La teodicea islamica,
nel suo quadro di riferimento «onto-teologico», si pone come linea di ostilità
assoluta verso i membri del «partito di Satana», composto da tutti i nemici
dell’islam: cristiani, ebrei, «pagani», «falsi musulmani». Tale ostilità si realizza
nella teorizzazione del concetto di «doppia guerra»: guerra civile interna e
guerra esterna contro le potenze del Male.
La riflessione ideologica di Qutb abbatte la divisione geografica classica
tra spazio islamico e spazio giudaico-cristiano, tra la Dar al-Islam, Casa
dell’islam, e la Dar al-harb, Casa della guerra, espressione con cui i musul-
mani indicano tradizionalmente ciò che si trova fuori dei propri confini e, in
particolar modo, l’Occidente. Qutb sostituisce a questa dicotomia geografica
m che sembra fissare staticamente e definitivamente attraverso la metafisica
del nome il potere dell’Altro, quella politica, sociologica e di fede tra islam e
jahiliya, la «barbarie preislamica» che avvolge il mondo contemporaneo nel
«materialismo ateo e pagano» della cultura occidentale. La nuova coppia di
opposti, espressa da un linguaggio che, in quanto volontà di potenza, non 259
TEOLOGIA E TERRITORIO NEL RADICALISMO ISLAMICO
sfugge al problema della violenza «qui ed ora» e al «poter essere» della realtà.
Essa permette al radicalismo di teorizzare la prosecuzione della lotta tra i due
«grandi spazi», quello islamico e quello occidentale, anche all’interno del ter-
ritorio musulmano dove l’Occidente, attraverso l’esperienza della Modernità,
si è «tragicamente» imposto. Le società musulmane, in quanto progressiva-
mente secolarizzate, sono considerate in quest’ottica «Occidente interno»; lo
scontro con i governanti «empi» e la lotta per la conquista del potere si mani-
festano allora come forma moderna della nuova guerra civile mondiale con-
tro i «falsi signori del mondo».
Nell’ipotesi radicale l’annientamento del nemico interno permette lo svi-
luppo della seconda fase della rivoluzione: quella dell’espansione dell’islam.
Il messianismo islamico rifiuta l’idea di un potere specificamente territorializ-
zato in quanto essa costringerebbe l’islam dentro a uno spazio geopolitico li-
mitato per un’ideologia a vocazione universale. La stessa definizione corani-
ca di umma wasat-in (474), nazione di mezzo o di centro, indica la vocazio-
ne della comunità ad essere «centro» è confermato dallo spazio di insedia-
mento geografico originario e dall’espansione della comunità nella fascia
mediana del pianeta, luogo di congiunzione tra Nord e Sud, tra Oriente e
Occidente, non per questo l’islam è fattore di tipo locale o regionale. Il suo
spazio è quello dove vi sia anche un solo musulmano (475).
Teologia e politica
La dimensione religiosa e sacrale dello spazio che deriva da una simile
visione del mondo si differenzia profondamente da quella laica e «realistica»
adottata nelle relazioni internazionali. Quella religiosa non concepisce
l’omogeneità fisica di uno spazio delimitabile da confini bensì ne avverte so-
lo la natura qualitativa e differenziata, costitutivamente divisa tra sacro e pro-
fano. Per gli islamici questa divisione consente l’orientamento nel caos del
mondo; essa può essere superata solo mediante l’espulsione del profano dal-
lo spazio islamizzato.
È facile intuire come l’irrompere della dimensione teologica nel Politico
impedisca qualsiasi razionalità nella definizione di ordine internazionale.
L’ideologia islamica prefigura una visione dell’assetto mondiale di tipo pre-
globale. Proclamandosi «mondo» e come dilatazione ed espansione infinita di
tale mondo sino a farlo coincidere con l’intero orbis, l’islam dei radicali fa
mancare ai diversi ordinamenti spaziali quelle relazioni reciproche che costi-
tuiscono, in quanto globalità, l’essenza di qualsiasi nomos (476). L’interpre-
tazione religiosa del conflitto politico aumenta a dismisura la complessità
del sistema delle relazioni internazionali.
L’esempio è sin troppo semplice. La soluzione negoziata del conflitto tra
Israele e palestinesi è fortemente ostacolata da Hamas, il più forte gruppo ra-
dicale islamico. Per Hamas non è possibile alcuna trattativa con gli israeliani,
in quanto la liberazione della Palestina e il combattimento con gli ebrei sono
260 obblighi religiosi che non possono essere vanificati da alcuna azione umana.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
Note
466. Su questo concetto vedi J. GOTTMANN, La politique des Etats et leur géographie, Paris 1952, Armand Colin.
467. R. GUOLO, Il partito di Dio. L’islam radicale contro l’Occidente, Milano 1994, Guerini e Associati.
468. S. QUTB, Fi zilal al-Quan, 6 voll., Beirut 1978, Dar al-Shuruq; Ma `alim fi l-tariq, Beirut 1978, Dar al-Shu-
ruq.
469. Sul jihad cfr. J.p. CHARNAY, L’Islam et la guerre, Paris 1986, Fayard, pp. 13-124.
470. M.A.S. FARAJ, Al-farida al-ghayba, Amman 1982, s.e.
471. Corano, III, 110.
472. Cfr. M. SEURAT, L’état de barbarie, Paris 1989, Seuil, p. 131.
473. S. QUTB, Fi zilal al-Quran…, cit., p. 3515.
474. Corano, II, 144.
475. Corano, II, 143. Sull’interpretazione radicale di questo versetto si veda S. QUTB, Fi zilal…, cit., p. 130.
476. R. GUOLO, «L’ideologia dell’imperialismo islamico», MicroMega, n. 2/1992, p. 239.
477. Cfr. Y. HADDAD, «Islamists and the Problem of Israel: The 1967 Awakening», The Middle East Journal,
Spring 1992, vol. 46, n. 2.
478. L’interpretazione qutbiana della sura coranica Tawba, IX, 29-35 è diventata un classico nelle citazioni del
gruppo palestinese Hamas. Questi versetti, secondo Qutb, «abrogano» quelli più favorevoli alla «gente del Li-
bro» contenuti nella sura V (Ma ida) e nella sura II (Baqara). Cfr. S. QUTB, Fi zilal…, cit., pp. 1650 ss.; pp.
909-915; pp. 31 ss.
479. Corano LIX, Hashr, 1-10.
480. Cfr. G. KEPEL, Le Prophète et Pharaon, Paris 1991, Seuil, pp. 221-227.
481. Corano, IX, 29.
263
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
QUANDO SFORZA
SOGNAVA
UNA LIBIA «BIANCA» di Alessandro HOLTHAUS
Un inedito carteggio diplomatico rivela come nel dopoguerra
Roma cercasse di conservare la ‘sponda libica’. Il fallimento
di questa politica, criticata da Quaroni, è alla base del futuro
rapporto dell’Italia con i paesi arabi.
noi», essi un domani saranno grati all’Italia della sua opera civilizzatrice:
«Queste sono le colonie invisibili dell’avvenire» (491). Già andando verso la
votazione del piano Bevin-Sforza all’Onu il ministro degli Esteri aveva pre-
sentato un concetto che a suo avviso gli permetteva di venire incontro agli
arabi senza privare gli italiani delle loro illusioni e che per di più non doveva
avere un carattere antioccidentale: la «veste» della potenza mediterranea fi-
loaraba con «colonie invisibili». Ma il 17 maggio 1949 il piano viene bocciato
proprio per gli articoli che prevedono il ritorno dell’Italia in Libia.
Alla visione semplicistica di Sforza, Quaroni – facendo rara eccezione
nel corpo diplomatico – non si stanca di opporsi senza mezzi termini e a vol-
te in modo assai ironico: «Noi abbiamo tentato di fare una politica razzista
ariana: potremmo tentare, con molto maggiore giustificazione di fatto, di ro-
vesciarla dichiarandoci razza di colore e cercando di diventare il primo dei
popoli di colore» (documento 6). La critica senza riserve di Pietro Quaroni,
tanto pungente nel contenuto quanto ammaliante nello stile, divenne a parti-
re dal 1948 sempre più energica. Egli sviluppò infine, in contrapposizione al
ministero degli Esteri, una sua versione della politica coloniale e mediorien-
tale, orientata sulle realtà storiche e sulla situazione politica attuale, anziché
su un passato interpretato in modo parziale e comunque controproducente.
Egli opponeva illusioni italiane fatti di politica reale, che possiamo riassume-
re in tre punti: a) le Nazioni Unite quali motore della politica internazionale,
b) gli interessi degli Stati Uniti, c) le conseguenze del passato coloniale italia-
no in Libia. «Di fronte alla difficoltà insuperabile per noi di deciderci per una
linea possibilistica», Quaroni riproponeva i suoi argomenti in vista della vota-
zione all’Onu sul piano Bevin-Sforza. «È senza sorpresa, anche se con un cer-
to dolore, che vedo avvicinarsi l’epilogo del nostro dramma coloniale. Pro-
babilmente a lungo andare ci accorgeremo che è stato un bene per noi che
sia stato così. (…) L’unico vantaggio sarà che una volta cavatoci questo dente
e passato il dolore, avremo una preoccupazione di meno» (492).
Nel corso della discussione sul futura assetto della Libia tra il 1945 e il
1949 il governo di Roma riesce a passare dall’atteggiamento coloniale a posi-
zioni anticoloniali, cosicché infine il 31, marzo 1949, l’Italia si adopera
all’Onu per l’indipendenza della Libia. Questo voltafaccia costituisce l’inizio
della nuova politica araba. A questo punto, Quaroni attacca decisamente l’in-
capacità italiana a riconoscere i dati reali e a fondare su questi il ragionamen-
to politico: «Credo che gli inglesi esagerano quando dicono che succederà
l’ira di Dio in Tripolitania al nostro ritorno, ma temo che esageriamo anche
noi quando diciamo, o pensiamo, che son tutti pronti a riceverci a braccia
aperte. (…) Il mondo non è più quello di ieri: noi siamo sempre, di fronte
all’opinione pubblica mondiale, gli ex fascisti, gli ex aggressori, quelli degli
ex metodi di Graziani – che non sono niente di peggio dei metodi usati da
francesi e inglesi in condizioni analoghe, ma che hanno lo svantaggio di es-
sere stati adoperati in tempi molto recenti. Se noi dovessimo andare incontro
a delle grosse rivolte – e questo con buona pace dei funzionari specializzati
è sempre possibile in un paese dove gli indigeni ci hanno visto in fuga – a
270 parte le spese che comporterebbe, le ripercussioni all’interno, questo avreb-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
sa che è riuscita ad acquistare influenza politica nella seconda metà del secolo scorso
sviluppandosi, ad opera del suo fondatore, l’algerino Mohamed ibn el Senussi, nella
Saudia, nella Cirenaica e nei Territori compresi fra la Cirenaica e il Lago Ciad. Imponen-
dosi con metodi vessatori alle tribù locali la Senussia, nel convertirle alla propria fede re-
ligiosa provocò rapidamente turbamenti politici in quelle zone e incorse nella repressio-
ne delle Potenze che di quelle stesse zone avevano il controllo: i suoi adepti furono con-
seguentemente espulsi dal Tibesti, dal Borcu e dal Wadaf in seguito alle operazioni mili-
tari condotte dai francesi particolarmente nel 1912-13; furono battuti dalle truppe inglesi
del generale Maxwell nel 1916 nei territori compresi fra l’Egitto e la Cirenaica; e furono
estromessi dalla Saudia ad opera di Ibn Saud e dei Wahabiti.
A proposito delle operazioni condotte nel 1916 dal generale Maxwell contro la Se-
nussia è da ricordare che i capi di questa setta, nel corso della prima guerra mondiale,
sobillati dalla Germania, avevano assunto un atteggiamento anti-britannico e che dopo
la sconfitta allora subita il suo capo, Ahmed ed Scerif es Senussi, veniva trasportato a Po-
la (in quel tempo austriaca) da un sottomarino tedesco.
L’Italia addivenne nel 1917 e nel 1920 a due successivi accordi con la Senussia, in-
staurando con essa una politica di collaborazione; ma tale politica non ebbe successo , e
nel 1923, il Governo fascista, sopravvenuto al potere in Italia, troncò ogni ulteriore tratta-
tiva; in seguito alle operazioni militari successivamente condotte, la Senussia perdette
anche in Cirenaica ogni influenza e i suoi capi si stabilirono in Egitto.
(…) Durante la guerra, l’autorità militare, considerato che la Cirenaica era diventata
un campo di battaglia dove il susseguirsi delle vicende belliche rendeva impossibile
ogni attività economica, ordinò lo sgombero della popolazione italiana.
Successivamente le autorità di occupazione hanno vietato qualsiasi permesso di
rientro degli Italiani in Cirenaica alle loro case. Si è così arrivati alla situazione attuale,
nella quale in Cirenaica alle loro case. Si è così arrivati alla situazione attuale, nella quale
in Cirenaica non sono stati autorizzati a rimanere che qualche centinaio di Italiani. Ma ta-
le situazione è artificiale e causata dalle contingenze di guerra (e dall’immediato dopo
guerra). Anche in questo caso, dunque, si deve ritenere che non sarebbe equo nel deci-
dere la situazione della Cirenaica, il non tener conto delle condizioni e delle aspirazioni
degli Italiani colà stabilitisi e che erano arrivati a costituire, anche numericamente, una
aliquota importante di quella popolazione.
Questi italiani, attualmente assistiti nei campi per rifugiati in Italia, anelano a ritor-
nare al loro lavoro e alle loro residenze e questo loro desiderio non dovrebbe essere
contrastato in quanto risponde, oltre che a quelle ragioni umanitarie che hanno ispirato
e promosso tutta l’azione dell’U.N.R.R.A. per il ritorno alle loro residenze delle D.P., an-
che allo stesso interesse del Paese. Non si vede infatti quale profitto possa trarre la Cire-
naica da una situazione che a poco a poco, dopo lo stato di floridezza e di progresso cui
era giunta, la riporta in condizioni di regresso e di abbandono.
Ma a questo proposito si possono e di debbono fare anche altre osservazioni che
investono non soltanto l’interesse dei coloni italiani o della Cirenaica in se stessa consi-
derata, ma che rispondono a un più vasto interesse politico europeo.
La Cirenaica, fra l’Egitto da un lato e la Tripolitania e la Tunisia dall’altro, rappresen-
ta il punto di congiunzione, o di separazione, fra il Medio Oriente, ove i Paesi arabi ten-
dono verso orientamenti sempre più nazionalistici ed esclusivistici, e l’Africa Settentrio-
nale, dove la colonizzazione europea ha dato luogo ad una situazione del tutto partico-
lare. Quivi, infatti, con la immissione di forti nuclei europei in Tripolitania, Tunisia, Alge-
ria e Marocco, questi Paesi hanno perduto parte delle loro caratteristiche etniche origina-
rie per divenire Paesi arabo-europei. È evidente interesse europeo che tale processo
272 continui e si affermi sempre più, e che questi Paesi, demograficamente, economicamen-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
(…) L’Italia per la sua posizione geografica, per le sue esigenze demografiche ed
economiche deve infatti necessariamente svolgere una politica araba. Può dirsi anzi che
le relazioni fra l’Italia e il mondo arabo costituiscono uno degli elementi essenziali della
nostra politica estera, almeno per quanto si riferisce al bacino mediterraneo.
Tale nostra esigenza non può sfuggire al Dipartimento di Stato nel momento in cui
gli Stati Uniti vengono interessandosi ai problemi mediterranei, e riteniamo anche, che a
lungo andare la politica del Dipartimento non possa ignorare la funzione che può essere
esercitata in questo settore dal complesso dei rapporti italo-arabi.
Nel riprendere e nell’intensificare le nostre relazioni coi Paesi del Levante e nel con-
siderare il problema dei territori italiani d’Africa, così come nel valutare il problema delle
nostre relazioni con i Paesi costituenti l’Africa Settentrionale francese, è naturalmente no-
stro intendimento non soltanto evitare di svolgere una politica araba in funzione antiin-
glese o antifrancese, ma anzi far sì che si creino e consolidino fra i Paesi aventi comuni
interessi in Africa legami di collaborazione di solidarietà.
Riteniamo che tali considerazioni siano registrate favorevolmente tanto a Parigi quan-
to a Londra, dove partendo appunto da tali presupposti, stiamo in questi giorni nuova-
mente insistendo perché il nostro problema coloniale venga considerato anche sotto tale 273
QUANDO SFORZA SOGNAVA UNA LIBIA «BIANCA»
fto. Sforza
Signor Ministro,
ho fatto a Bidault un passo nel senso indicato nel suo dispaccio n. 554/07 del 14
gennaio u/s.
Bidault mi ha ripetuto le note tesi francesi: mi ha detto che si rendeva perfettamente
conto della «tentazione» che poteva presentare per noi il gettarci dalla parte degli arabi:
con quel suo genere di franchezza mi ha detto che era questa una delle ragioni per cui
la Francia insisteva per vederci ridiventare una Potenza coloniale: mi ha detto di averlo
fatto presente varie volte a Londra e anche a Washington, ma con scarso successo. So-
stanzialmente a Londra gli era stato risposto di non essere affatto preoccupati di questa
possibilità: il colpo dato al nostro prestigio nel mondo arabo era stato troppo forte e non
contavamo più niente: i contatti da noi presi con elementi arabi, sia per le persone che
avevamo scelte come intermediari sia per le basi di trattative che avevamo proposte – gli
inglesi gli avevano affermato di esserne al corrente nei minimi dettagli – erano stati suffi-
cienti a persuadere gli inglesi che non avevano niente a temere in quella direzione. (…)
274 Per quello che concerne gli americani, mi ha detto, la loro risposta avrebbe potuto
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
riassumersi così: che ci provino, ci penseremo noi a farli pentire presto e radicalmente.
(…) Detto questo vorrei permettermi qualche commento sulle conversazioni che
Gallarati ha avuto sia con Noel Charles che con Bevin.
In primo luogo vorrei dirle, come del resto già le ho detto in altri miei rapporti, che
su due punti, sostanzialmente, Noel Charles ha ragione. Noi non ci rendiamo sufficiente-
mente conto di quello che rappresenta oggi questo mondo arabo in fermento. Qui a Pa-
rigi ho la possibilità di essere in contatto sia con elementi nazionalisti arabi, sia con vari
ufficiali, amministratori, uomini d’affari provenienti dalle colonie dell’Africa del Nord: ho
potuto cioè sentire da una parte l’esaltazione, il fanatismo, dall’altra le enormi difficoltà
di ogni giorno, difficoltà tali da far nascere il dubbio, nei francesi più intelligenti, sulle
possibilità di restare in Africa. Che gli inglesi giuochino la carta araba, perché serve a lo-
ro, non c’è il minimo dubbio: ma non c’è meno dubbio che non ci rendiamo conto
dell’ira di Dio che ci cadrà sulle spalle il giorno che riavessimo la Libia: il meno che si
può dire è che ci vorrebbe una nuova riconquista, ci vorrebbero dieci Graziani e tutto
questo in un’atmosfera internazionale poco disposta a tollerare metodi del genere.
Queste difficoltà, già gravi per tutti, sarebbero infinitamente più gravi per noi data
la concezione nostra della colonia che è per lo meno antiquata. E qui mi riferisco alla se-
conda osservazione di Charles. Al pari di lui non dubito delle idee personali del Presi-
dente del Consiglio e sue: ma mancherei al mio dovere se non le dicessi francamente
che l’osservatore imparziale che legga i nostri memorandum – non parliamo della cam-
pagna della nostra stampa – non può che venire alla conclusione che noi non abbiamo
capito niente della immensa rivoluzione che si sta svolgendo in tutto il mondo di colore.
È fin troppo chiaro che noi, sotto forma di mandato, possiamo rimandare in Africa i no-
stri bravi governatori, forse anche in uniforme, con i loro commissari distrettuali – non
so esattamente come noi li chiamassimo – aggiungendovi, tanto per l’etichetta, qualche
vaga commissione di notabili destinati soprattutto a mettere in iscena, sul posto ed in Ita-
lia, delle pittoresche manifestazioni di devozione all’Italia. Noi continuiamo imperterriti
a parlare di emigrazione italiana in Africa, di colonizzazione o che so io, e non sembria-
mo renderci conto che, facendo questo, noi ci mettiamo di fronte agli arabi nella stessa
situazione degli ebrei, e di fronte agli inglesi ed agli americani domandiamo loro di auto-
rizzarci a creare, in mezzo al Mediterraneo, una nuova Palestina. È tutto un mondo di so-
gni che potrà anche essere utile ai fini della politica interna italiana, ma che ai fini inter-
nazionali è semplicemente disastroso.
L’organizzazione coloniale inglese può, per qualche tempo, ancora ed in qualche
punto adattarsi alle nuove esigenze: cosa domandano loro? delle basi militari, navali od
aeree, e la protezione di qualche grosso interesse economico, che per la sua importanza
stessa, lega, anche se non del tutto onestamente, al carro inglese, od americano, larghi
settori della vita politica di quei paesi. L’organizzazione francese, molto più burocratica,
molto più esigente anche nel dominio del medio e del piccolo affare già prova maggiori
difficoltà ad adattarsi, ma per lo meno, non domanda più adesso, che il contadino arabo
si ritiri dalle sue terre per lasciare il posto al colono francese. La nostra, basata principal-
mente, nel Nord Africa almeno, sulla colonizzazione demografica, non può farlo.
(…) La situazione non è per noi così nera come essa poteva sembrare un anno fa: la
rottura fra Russia e America, le necessità americane di preparazione alla guerra hanno spo-
stato alcuni termini del problema, potenzialmente, a nostro favore. Oggi noi possiamo spera-
re di riavere in tutto o in parte e sotto certe limitazioni l nostre colonie, ma a due condizioni:
1° – che noi abbandoniamo i nostri vecchi concetti in materia coloniale e acconsen-
tiamo a ritornarci in termini «inglesi»;
2° – che noi acconsentiamo ad inserirci saldamente nel sistema militare anglo-ame-
ricano. 275
QUANDO SFORZA SOGNAVA UNA LIBIA «BIANCA»
Se non accettiamo queste due condizioni non c’è nulla da fare: possiamo fare tutti
gli appelli che vogliamo all’amicizia italo-inglese, agli interessi della razza bianca in Afri-
ca, alla stabilità del regime in Italia, tutto questo non servirà a niente: potrà servire solo
un giorno, se arriviamo ad un accordo, a mascherare il suo vero fondo: se non crediamo
di poterlo fare è meglio allora prendere senz’altro la decisione di gettarci completamente
dalla parte degli arabi.
(…) Gradisca, Signor Ministro, gli atti del mio profondo ossequio
fto. Quaroni
Caro Zoppi,
(…) Lasciamo da parte la polemica sul fatto se noi abbiamo o no capito le trasfor-
mazioni del mondo coloniale e specie arabo: per me, appieno, non lo abbiamo capito
nemmeno oggi: comunque se cominciamo a capirlo o cominciamo a dare dei segni tan-
gibili di averlo capito, tanto meglio. Ora entriamo nel grosso del problema: tu hai perfet-
tamente ragione quando dici che il nostro concetto di colonizzazione è differente da
quello inglese: ritengo però che Sargent abbia anche lui ragione quando ci dice che og-
gi, nell’Africa del Nord, il nostro non è più possibile.
Abderrahman Azam (che, fra parentesi è mio buon amico per essere stato a lungo
mio collega, egiziano, a Kabul) ha esposto con molta franchezza il punto di vista della Le-
ga Araba: punto di vista che, credi a me, va da noi preso in molto seria considerazione
perché è anche esso, in certi limiti, una realtà. Sargent nella sua ultima conversazione con
Gallarati ci ha fatto un altro discorso: si tratta di un primissimo approccio: una formula
possibile di arrivo potrebbe essere un trusteeship italiano puro o misto sulla Libia, pro-
prio della forma che non ti piace dei funzionari in shorts, e in cambio di questa nostra ri-
nuncia a domandare di più, un nostro inserimento come partners, in una politica inglese,
o anglo-americana, anglo-franco-americana, dell’Africa e dei paesi arabi. Questo è per me
il punto più importante del discorso di Sargent. Dovete contentarvi di solo una certa par-
tecipazione agli affari Libia: noi in cambio, anche se non siete più una potenza coloniale
africana nel vero senso della parola, siamo disposti a farvi entrare nel costruendo sistema.
Oggi, a mio avviso, queste due offerte sono le sole alternative di politica africana, o colo-
niale se vuoi, che ci si presentano realmente: con la differenza che la politica propostaci
da Abderrahman che io, personalmente, considererei la migliore può non essere anzi
non è possibile per noi: la politica propostaci da Sargent può non essere realizzabile, a
lungo andare, per gli stessi inglesi.
Comunque tieni bene presente questo: la vera pierre d’achoppement di ogni possi-
bile soluzione della questione libica, in conversazioni a due, a tre o a quattro, è precisa-
mente il nostro concetto di colonizzazione demografica. Gli inglesi e gli americani han-
no già un grosso pasticcio sulle spalle con la questione della Palestina: gli arabi importa-
no agli inglesi ed agli americani in quanto è nei loro paesi che si trova il petrolio ed è da
loro che dipende il pacifico godimento del petrolio: e non consentiranno mai a metterlo
in forse per farci un piacere a noi. Di questo anche i francesi, sebbene seccatissimi e
spaventati, cominciano a rendersi ragione.
(…) Cordialmente
276 fto. Quaroni
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
Signor Ministro,
(…) Premesso questo, che ha importanza solo ai fini del giuoco di cache-cache de-
gli inglesi, il pensiero [sottolineato nell’originale] francese, quale è oggi, è chiaro:
1° ) i francesi hanno trangugiata l’idea dell’indipendenza della Tripolitania, soprat-
tutto perché convinti, che in quanto idea, è l’unica suscettibile di essere accettata
dall’ONU. Desiderano però che questa indipendenza sia realizzata il più tardi possibile,
e che essa sia controllata, nella maggior misura possibile, da una influenza politica pre-
feribilmente italiana. Dico preferibilmente italiana, in quanto essi ritengono che questa
influenza italiana, per politica generale mediterranea, e per interesse nostro proprio, non
inciterebbe sia possibili mene arabe nell’Africa settentrionale francese, sia una politica
inglese, od americana (che continua ad esistere sia pure in sordina) diretta, attraverso gli
arabi, a scalzare le attuale posizioni francesi. È evidente che qualora la nostra politica di-
ventasse in questo settore troppo, e soprattutto fondamentalmente, filo araba, o filo in-
glese, l’utilità per i francesi del controllo italiano e quindi il loro appoggio diventerebbe
proporzionalmente minore. E non posso nascondere che i francesi, attualmente, non si
sentono del tutto sicuri della nostra politica. Faccio il possibile per rassicurarli ma V.E.
ben comprenderà se le dico che ci sono riuscito solo in parte.
2° ) I francesi hanno il terrore dell’unità della Libia sotto il Senussi: è un terrore direi
quasi biologico, dovuto ad una lunga tradizione: per cui, su questo punto sono categori-
co, è assolutamente escluso che gli inglesi riescano a fare accettare questa tesi, sotto
qualsiasi forma, ai francesi.
3°) Essi hanno egualmente molto timore di trovarsi confinanti con gli inglesi in Afri-
ca settentrionale: anche qui si tratta di una ben radicata tradizione francese, che il contat-
to diretto franco-inglese, nei paesi arabi, finisce per essere fatale alla Francia.
(…) Non nascondo a Vostra Eccellenza che l’impostazione araba della questione
che si cerca di dare da parte nostra è suscettibile di creare qui delle ripercussioni, anche
sull’atteggiamento fondamentale francese. Se ho ben compreso il pensiero di V.E. noi
vorremmo con questa politica araba, metterci in una posizione demagogica di fronte agli
anglosassoni, allo scopo di potere, con i voti degli arabi, e degli asiatici, almeno in parte,
riuscire a bloccare la soluzione inglese per la sola Cirenaica e magari anche la soluzione
anglo-americana per l’Eritrea. Condurre poi, dopo questa manifestazione di forza, gli an-
glosassoni ad avvicinarsi alle nostre tesi, per l’Eritrea e per la Tripolitania, ossia, per que-
st’ultima a delle tesi non troppo differenti da quelle francesi (ripeto, indipendenza della
Tripolitania limitata da una nostra influenza e questa influenza nostra indirizzata in sen-
so limitatorio degli entusiasmi maghrebini del mondo arabo). Ossia, in termini più bruta-
li, servirci degli arabi per poi, ottenuto quello che vogliamo, mollarli almeno in una certa
misura.
Confesso che ho qualche dubbio sulle possibilità di riuscita di questo piano, indi-
scutibilmente ardito, sia sul piano arabo che sul piano ONU. Conosco però troppo poco
gli elementi arabi di fatto per potere esprimere un giudizio, e come che sia, prima di
scartarlo, conviene di vedere se esso è possibile. Del resto non vedo quale altra cosa si
potrebbe tentare.
Comunque, se questa è effettivamente la nostra idea, in questa forma, credo di po-
ter riuscire a farla mandare giù ai francesi: non che si fideranno di noi al 100%, ma credo
di poterli mettere in una situazione di non potere esprimere apertamente i loro dubbi. Se
questa è la nostra idea pregherei di dirmelo chiaramente, e di lasciare fare a me questo
lavoro di inghiotti mento. Fouques Duparc non ha autorità sufficiente per far passare 277
QUANDO SFORZA SOGNAVA UNA LIBIA «BIANCA»
questo qui: non credo nemmeno sarebbe in grado di capire a fondo: è poi tutto un insie-
me di cose non facile a spiegarsi per telegramma o rapporto: e last but not least non è
persona che metta i nostri affari nella migliore luce possibile qui.
Ma se noi intendiamo invece sposare in pieno la causa araba, se noi, privati delle co-
lonie, intendiamo sposare la causa della rivoluzione dei popoli coloniali – politica questa
che, anche se ardita, ha molti argomenti in suo favore – allora debbo dire con tutta fran-
chezza che noi dobbiamo dire addio all’appoggio francese. Poiché il giorno che i francesi
avessero l’impressione che una Tripolitania controllata da noi possa diventare un centro
di indipendentismo arabo, allora, le loro obbiezioni al Senusso restando, verrebbero cer-
tamente alla conclusione che una Tripolitania sotto amministrazione britannica sarebbe
un amale minore che una Tripolitania indipendente sotto influenza italiana. E l’Inghilterra
non sarebbe, credo, aliena dal rinunciare a mettere il Senusso anche a Tripoli.
Voglio precisare ancora il mio pensiero. Una politica italiana nettamente anticolo-
nialista, la quale ci permettesse di assicurarci delle posizioni vantaggiose economiche,
politiche, etc., in tutto il mondo vicino e medio orientale può essere una eccellente poli-
tica per un’Italia che le vicende della guerra e la politica dei nostri attuali amici, ha volu-
to estromettere da tutto questo mondo: V.E. sa che essa non è affatto antagonista al mio
pensiero, anche se, conoscendo un pò tutti questi paesi, mi rendo conto che essa è più
facile ad enunciare che a mettere in esecuzione. Certo sarei l’ultimo a suggerire di rinun-
ciarvi, se la riteniamo vantaggiosa per noi, per non dare dei dispiaceri alla Francia, in
gran parte responsabile essa stessa della situazione in cui si trova nell’Africa del Nord
per la sua incapacità di adattarsi alle esigenze dei tempi nuovi. Avremmo certamente
una crisi nei rapporti italo-francesi, superabile come del resto tutte le crisi, ma che non
mi spaventa affatto.
Quello che ho voluto chiarire è il pensiero francese e, conseguentemente, i limiti in
cui una nostra politica è conciliabile con gli interessi francesi, bene o male intesi che essi
siano, i limiti in cui è possibile farla accettare ai francesi e continuare così la collaborazio-
ne fra i due paesi in questo campo: fissare, se si vuol meglio, io limiti di quello che posso
riuscire a fare e quello che non posso riuscire a fare. La diplomazia italiana è l’arte delle
acrobazie, ma anche queste acrobazie hanno certi limiti che non si possono oltrepassare.
Gradisca, Signor Ministro, gli atti del mio devoto ossequio.
fto. Quaroni
Caro Zoppi,
(…) 1) Una parola di commento al mio rapporto in data odierna sulla questione
delle colonie, che è soprattutto diretto a rispondere al desiderio del mio collega di Lon-
dra di conoscere il pensiero francese. Non so se ha capito bene il tuo pensiero in tema
di politica araba. Non ripeto, a te, che ho qualche dubbio sulla sua possibilità di riuscita,
poiché questi dubbi li hai anche tu, e del resto non conosco sufficientemente lo stato dei
contatti: sono anche d’accordo con te sulla opportunità di tentarla, per lo meno per dire
che abbiamo provato tutto. Soprattutto non ho niente da proporre che possa essere me-
glio di quello che state tentando. Comprendo quindi il tuo desiderio di non prendere
impegni con i francesi almeno fino a quando si ritenga che sia possibile arrivarci. Del re-
sto, anche se il metodo è stato un pò differente, è questo quello che ho fatto fino ad ora.
278 Se il piano nostro è effettivamente quello che immagino io – e che poi come tutti i piani
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
può modificarsi in corso di sviluppi – mi sento di farlo ingoiare ai francesi, specie nello
stato di scoraggiamento in cui essi sono. Soltanto, in questo caso, oltre che a chiarirmi
che ci siamo capiti, ti pregherei vivamente, per il successo dell’operazione, di lasciarme-
lo fare a me e di non cercare di farlo attraverso il mio opposite number. È un processo di
mitridatizzazione che bisogna fare con garbo, molto fuori del Quai d’Orsay e possibil-
mente dopo un buon pasto e dei buoni vini: attraverso l’amico romano si rischia soltanto
di alerter il Quai d’Orsay rendendo poi più difficile il resto del mio compito.
Tu sai poi che anche la politica più ardita non solo non mi è affatto ostica ma, anzi
è piuttosto la mia idea, anche se applicata cum grano salis. Noi abbiamo tentato di fare
una politica razzista ariana: potremmo tentare, con molto maggiore giustificazione di fat-
to, di rovesciarla dichiarandoci razza di colore e cercando di diventare il primo dei po-
poli di colore. Se ho molti dubbi sulla sua possibilità pratica non è perché non ritenga la
politica buona, ma perché dubito che noi abbiamo gli agenti necessari per farla: non so-
lo diplomatici ma di ogni genere; i mezzi economici e soprattutto la volontà economica
per potenziala; e soprattutto l’abilità politica per dirigerla. Tu sai come si fanno le cose
da noi: il giorno che ci decidessimo, o fossimo portati a fare questa politica, si comince-
rebbe con dei discorsi, con delle interviste, con una campagna di giornali, mettendoci
subito contro tutti quelli a cui essa dà fastidio, e in pratica non faremmo niente: ne
avremmo cioè tutti gli inconvenienti e nessuno dei vantaggi: Dovrebbe trattarsi di una
politica silenziosa, di fatti, i cui frutti si raccoglierebbero dopo un lungo periodo di tem-
po: ma tu sai meglio di me che l’Italia, sia essa fascista o no, non sa cosa farsene di una
politica estera che non possa essere subito monetata in termini di prese pubbliche di po-
sizione o di successi interni immediati.
Cordialmente
fto. Quaroni
Signor Ministro,
premettendo che parlavo a titolo strettamente personale, ho detto a Couve de Mur-
ville che, dopo la decisione dell’Assemblea dell’ONU mi sembrava utile chiarire le nostre
rispettive posizioni in materia coloniale.
(…) Il suo pensiero mi sembra abbastanza chiaro. I francesi non hanno nessuna
simpatia per l’unità della Libia; pensano che con dei Governi locali ben congegnati, non
sarebbe difficile arrivare a delle espressioni spontanee dell’opinione pubblica locale,
contrarie all’unità. Vogliono ritardare al massimo possibile l’indipendenza della Tripolita-
nia: non sono affatto tranquilli su quella che sarà la nostra linea di azione sia sul piano ri-
stretto tripolino, sia nel mondo arabo in generale. Vorrebbero quindi spingere per una so-
luzione pratica per la quale l’organizzazione del Governo tripolino, l’avviamento all’indi-
pendenza, e in certo senso anche l’amministrazione temporanea della colonia, diventasse-
ro un affare a tre: sono disposti per arrivare a questo a concedere agli inglesi e anche a noi
un certo senso anche l’amministrazione temporanea della colonia, diventassero un affare a
tre: sono disposti per arrivare a questo a concedere agli inglesi e anche a noi un certo droit
de regard sul Fezzan. Probabilmente sperano, che con l’andare del tempo, e con l’espe-
rienza pratica della collaborazione si possa arrivare ad uno stato di fatto accettabile anche
da noi, anzi sufficientemente favorevole a noi perché non siamo più tanto entusiasti per
l’idea dell’indipendenza incondizionata. 279
QUANDO SFORZA SOGNAVA UNA LIBIA «BIANCA»
(…) In sostanza i francesi ci offrono ponti d’oro (con la riserva che la possibilità di
costruirli non è nelle mani loro) purché noi non facciamo una politica rivoluzionaria.
Couve non è fra i funzionari francesi la cui sincerità sia il difetto preponderante. Sa-
rei portato ad interpretare il suo diniego che esista un fronte unico franco-inglese in que-
sto senso: è una possibilità, dipende da voi che essa divenga una realtà. La decisione è
nelle nostre mani. Comunque, se noi vogliamo evitare dei seri malintesi nei nostri rap-
porti con la Francia, bisogna che noi parliamo chiaro.
Vogliamo fare sul serio una politica araba? In questo caso è meglio che diciamo
chiaramente ai francesi che noi siamo, senza riserve, per l’indipendenza della Tripoli-
tania e per l’unità della Libia. Questo realizzerà il fronte franco-inglese: sarà una prova
di forza, d’influenza e di abilità: non è detto che necessariamente dobbiamo perdere la
partita.
Intendiamo la politica araba come un mezzo? Nel qual caso dovremmo dire ai fran-
cesi: noi siamo per l’indipendenza perché non possiamo accettare la tesi inglese di con-
siderare gli interessi italiani in Tripolitania come i semplici interessi materiali di una col-
lettività: noi vogliamo in Libia una posizione di certa preminenza economica, culturale e
politica: siamo convinti che è solo in una Tripolitania indipendente che possiamo risol-
vere il nostro problema. Se voi riuscite a far cambiare d’idea gli inglesi ed accettare que-
sto nostro punto di vista, allora possiamo rivedere le nostre posizioni. Se volete siamo
disposti a considerare questa collaborazione a tre per l’avviamento all’indipendenza col-
la riserva di vedere, dai fatti, se con il vostro appoggio possiamo arrivare ad un’intesa ra-
gionevole per tutti.
Un discorso di questo genere, fatto oggi, lascia aperte tutte le possibilità: siccome
però, soprattutto se noi siamo elastici per la forma, non è escluso affatto che ci si possa
arrivare, bisogna che noi siamo disposti, in caso di riuscita, a mettere molta acqua nel vi-
no della nostra politica araba. Altrimenti allora, francesi ed anche inglesi possono troppo
facilmente accusarci di mala fede. Mi si dirà tutti sono in mala fede, i francesi per primi,
è esatto: ma noi abbiamo ancora un lungo cammino da percorrere, e sono fermamente
convinto che per percorrere questo cammino la miglior cosa che possiamo fare è di es-
sere assai più onesti degli altri.
(…) Se siamo arrivati allo stato di oggi lo è soprattutto perché da una parte e dall’al-
tra si è troppo detto che si era d’accordo, mentre in realtà non lo si era: per mancanza di
questa chiarezza da una parte e dall’altra si sono considerati come abbandoni o peggio
la sola constatazione di un disaccordo che si ignorava perché non si era sufficientemen-
te precisata.
Ritengo che, adottando questo sistema, si possono raggiungere dei risultati, modesti
ma positivi. Continuare sulle generalità come si è fatto fino ad ora – la colpa è un pò di tut-
ti e due – non ci può portare che ad una mala fine.
Se V.E. È d’accordo, si potrebbe cominciare con la questione delle colonie: il resto
seguirà secondo la necessità. Questo era lo scopo che io mi ero proposto parlandone
con Couve. Per andare avanti mi è necessario conoscere il pensiero del Governo italiano
in proposito.
Voglia gradire, Signor Ministro, gli atti del mio devoto ossequio.
fto Quaroni
280
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
grafici e al loro peso tanto nella formulazione della politica estera di ogni
grande potenza quanto nella dinamica delle relazioni internazionali nel loro
complesso. Praticamente tutti i realisti sottolineano la rilevanza delle variabili
geopolitiche. L’opera di Spykman, però, si distingue per il ruolo centrale a
queste attribuito, dato che i fattori geografici vengono considerati i più im-
portanti tra i molti elementi che condizionano il comportamento degli Stati
all’interno dell’ambiente conflituale nel quale essi si trovano ad agire. La geo-
politica è per Spykman così una vera e propria disciplina strategica, dalla du-
plice valenza. Da una parte, essa è una scienza che vuole studiare fenomeni
due dinamiche, per così dire, «oggettive». All’aspetto analitico e conoscitivo,
poi, si somma quello prescrittivo, dato che l’obiettivo è quello di facilitare la
formulazione di una politica estera di ampio respiro, buona per gestire la pa-
ce ma anche per essere pronti in caso di guerra.
L’analisi geopolitica di Spykman richiama la nostra attenzione sulla col-
locazione geografica dello Stato, sulle sue dimensioni e sulle sue risorse.
Quella di Spykman è una posizione intermedia tra il determinismo di un Rat-
zel e il possibilismo di un Febvre: la geografia offre delle possibilità e impo-
ne dei condizionamenti che non possono essere ignorati e che devono quin-
di essere affrontati nel miglior modo possibile. Queste possibilità verranno
comunque sfruttate e questi condizionamenti saranno comunque avvertiti:
come ciò avverrà è una faccenda che riguarda la politica estera di ogni singo-
lo Stato.
Le riflessioni di Spykman più rilevanti ai fini di questa breve introduzio-
ne possono essere suddivise in due insiemi di lavori, e cioè una serie di arti-
coli pubblicati tra il 1938 e il 1939 sull’American Political Science Review
(uno dei quali, «Geography and Foreign Policy», viene qui proposto in forma
ridotta), e due volumi, uno pubblicato nel 1942 (America’s Stategy in World
Politics) (494) e l’altro uscito postumo nel 1944 (The Geography of Peace)
(495). Gli articoli affrontano i problemi geopolitici più classici dal punto di
vista del singolo Stato, e costituiscono una modifica e un completamento di
alcune tesi di Ratzel. I due volumi, invece, si occupano della teoria geopoli-
tica globale.
America’s Strategy in World Politics viene considerato a ragione uno dei
lavori più influenti contro il tradizionale isolazionismo americano e a favore,
quindi, di un interventismo su scala mondiale da parte degli Stati Uniti. Scri-
vendo prima dell’entrata in guerra degli Stati Uniti, Spykman sostiene, in ba-
se a un’analisi della distribuzione della potenza tra l’emisfero occidentale e
quello orientale, che il primo non potrebbe resistere alle pressioni esercitate
dal secondo se questo fosse unito sotto una stessa leadership. Di conseguen-
za, gli Stati Uniti devono intervenire nella guerra in Europa e in Asia per
scongiurare l’ascesa di una singola potenza in grado di dominare questi con-
tinenti. Dando prova di una lungimiranza rara tra i suoi contemporanei,
Spykman nota, tra l’altro, che come la coalizione tedesco-giapponese costi-
tuisce una minaccia alla sicurezza americana, così altre potenze in grado di
prenderne il posto, cioè la Russia e la Cina, porranno simili problemi di sicu-
284 rezza agli Stati Uniti: «Uno Stato russo dagli Urali al Mare del Nord non sareb-
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
be molto meglio di uno Stato tedesco dal Mare del Nord agli Urali» (496).
Spykman si serve del suo realismo e delle sue idee geopolitiche per attaccare
la tesi dell’«eccezionalismo» americano. Gli Stati Uniti non possono farsi gui-
dare dalla loro esperienza storica unica, ma devono prendere in considera-
zione quanto fatto dagli altri Stati nel passato, in quanto essi non sono che
una grande potenza assimilabile alle altre grandi potenze e quindi sensibile
alle stesse pressioni. L’interventismo in politica estera propugnato da Spyk-
man è quindi legato all’interesse americano, e non al senso di una particola-
re missione che il paese dovrebbe compiere. Il coinvolgimento americano,
inoltre, deve essere globale nella sua portata, perché non vi sono aree nel
mondo così lontane da non avere significato strategico per gli Stati Uniti (un
punto, questo, di disaccordo con la maggior parte dei realisti, i quali sono di
solito a favore di un impegno molto selettivo da parte americana).
In The Geography of Peace, Spykman propone la sua teoria del Rim-
land, la quale modifica la celebre teoria dello Heartland di Mackinder. Co-
me noto, mentre Mackinder aveva sostenuto che il ruolo strategico centrale
sarebbe stato giocato da chi fosse stato in grado di controllare lo Heartland,
composto dalla massa continentale russa ed est-europea, per Spykman, inve-
ce, le «terre marginali» del Rimland, e in particolare l’Europa peninsulare e
l’Estremo Oriente (Cina e India, soprattutto), sarebbero state ancora più im-
portanti, in virtù della loro popolazione, ricchezza e potenziale economico.
Secondo la celebre formula di Mackinder, «chi controlla il Rimland controlla
l’Eurasia, e chi controlla l’Eurasia controlla il mondo» (497). La differenza tra i
due riguarda quindi le origini della posizione egemonica, mentre sulla confi-
gurazione finale di questa entrambi concordano: tanto Spykman quanto
Mackinder richiamano la nostra attenzione più sulla potenza continentale
che su quella marittima o aerea; l’obiettivo di chi teme l’egemonia (soprattut-
to le «isole»), come detto, deve essere proprio quello di evitare l’unione della
massa continentale eurasiatica. Entrambe le versioni evocano immagini po-
tenti e suggestive, ma anche, si deve notare, largamente esagerate: lo Hear-
tland è stato unificato, e ha dato origine a una notevole massa di potenza
continentale. Questa, però, ha sempre sofferto dell’accerchiamento da parte
di potenze ostili e della sua inferiorità marittima rispetto a queste ultime. Il
Rimland, dal canto suo, non si è mai neppure avvicinato all’unificazione, e il
suo potenziale egemonico resta quindi tutto da dimostrare. La cosa parados-
sale è che né Mackinder né Spykman, l’uno inglese, l’altro olandese-america-
no, ma entrambi, quindi, cittadini di potenze insulari, hanno mai preso in
considerazione il fatto che non solo le potenze continentali ma anche le «iso-
le» potessero imporre la loro egemonia.
L’influenza di Spykman deve essere valutata su almeno due livelli, uno
pratico e uno teorico. Per quanto riguarda il primo, anche se la morte im-
provvisa non gli permise di intervenire direttamente nella formulazione della
politica americana del containment all’indomani della seconda guerra mon-
diale, è indubbio che tale politica rifletteva proprio quelle «necessità», così in-
cisivamente analizzate da Spykman, indotte dalla competizione strategica tra
Eurasia e Rimland. A livello teorico, poi, la sua fama di realista venne presto 285
GEOGRAFIA E POLITICA ESTERA
posizione regionale: Stati senza sbocco sl mare, le cui frontiere sono intera-
mente terrestri; Stati insulari, le cui frontiere sono costituite tutte da coste; e
un terzo gruppo, ben più numeroso, di Stati le cui frontiere sono in parte
terrestri e in parte marittime. Il significato della posizione geografica così
individuata varierà tuttavia a seconda del contesto politico del momento e
a seconda che gli Stati circostanti siano maggiormente, ugualmente o meno
potenti dello Stato preso in esame.
Gli Stati privi di sbocco al mare sono sempre stati relativamente pochi.
Attualmente ve ne sono tre in Europa, due in Asia e due in Sudamerica; al-
cuni, come l’Etiopia e la Serbia, sono scomparsi dalla carta geografica solo
di recente. La principale caratteristica comune della politica estera di que-
sta categoria di Stati è che la loro sicurezza è definita esclusivamente in ter-
mini di difesa terrestre, e quindi in termini di vicini immediatamente limi-
trofi. Gli Stati dotati di sbocchi al mare, invece, debbono tenere in conside-
razione ogni forte potenza marittima, per quanto lontana. Anche se la di-
stanza accresce le difficoltà di un’invasione e ne riduce le probabilità di
successo, essa non compromette di molto le possibilità di bombardamento.
Che gli Stati privi di sbocco al mare continuino a godere di questo vantag-
gio anche con le nuove tecnologie di guerra aerea dipenderà dalla capacità
degli Stati confinanti di restare neutrali e impedire che il proprio territorio
sia attraversato da bombardieri nemici. La lezione della guerra civile spa-
gnola non ispira però grande fiducia per il futuro.
Nella maggior parte dei casi la natura stessa ha contribuito alla difesa
degli Stati privi di sbocco al mare. L’Ungheria e la Cecoslovacchia, nel loro
assetto territoriale attuale, sono di origine troppo recente per essere citate co-
me esempio al riguardo; sembra infatti assimilabile ipotizzare che i loro
confini non siano ancora del tutto definiti: Tuttavia, quasi tutti gli Stati pri-
vi di sbocco al mare che siano rimasti tale a lungo sono separati dal resto
del mondo da barriere naturali, quali le montagne della Svizzera o
dell’Etiopia, le montagne e le giungle della Bolivia o del Paraguay o l’alto-
piano del Tibet. Questi Stati hanno goduto di un isolamento maggiore persi-
no rispetto a quelli insulari: a causa della loro difficile morfologia, le vie di
comunicazione e di trasporto li hanno evitati, consentendo loro di formarsi
e si sopravvivere come entità separate.
A causa degli ovvi svantaggi della mancanza di sbocchi al mare, sem-
bra ragionevole concludere che tale situazione non sia normale, a meno
che la natura non abbia creato barriere pressoché insormontabili. In caso
contrario, se lo Stato è abbastanza forte finirà con il conquistarsi uno sboc-
co al mare, come ha fatto la Serbia e come la Bolivia e il Paraguay stanno
ancora cercando di fare; se viceversa è debole, sarà assorbito o spartito dai
suoi vicini, come l’Arcadia, l’Armenia, la Transilvania e l’Etiopia. Nei pros-
simi decenni, quanto accadrà alla Cecoslovacchia e all’Ungheria potrebbe
convalidare o meno questa ipotesi.
Gli Stati insulari sono altrettanto rari quanto quelli senza sbocco al ma-
re. A questa categoria appartengono solo due grandi potenze, la Gran Bre-
tagna e il Giappone; i Dominions di Australia e Nuova Zelanda, la Repub- 287
GEOGRAFIA E POLITICA ESTERA
renza dei suoi vicini, gli ebrei, la cui ampia striscia di terreno fertile e la
cui costa priva di porti naturali li avevano resi da tempo una popolazione
agricola della terraferma. L’Egeo, ricchissimo di porti naturali, insenature e
isole, è una regione ideale per l’attività marittima e nell’antichità ha dato
origina a una serie di potenze navali; le coste montuose e irregolari della
Norvegia, della Dalmazia, della Cina meridionale e della penisola di Rio
hanno fatto sì che gli abitanti di queste zone eccellessero nell’arte della na-
vigazione. La sponda settentrionale della Manica – quella inglese – che, con
i suoi molti magnifici porti, quasi costringe i propri abitanti a cercare fortu-
na in mare e il resto del mondo a servirsi delle sue strutture portuali, con-
trasta fortemente con quella meridionale in cui, con l’eccezione di Le Ha-
vre, la Francia ha dovuto investire molto tempo e denaro, pur con scarso
successo, per creare porti artificiali laddove la natura non ne aveva formati
di naturali. Analogamente, la sponda orientale dell’Adriatico abbonda di
buoni porti, mentre la costa orientale italiana ne è quasi del tutto priva.
Tuttavia non basta che un paese abbia buoni porti naturali e una buo-
na linea costiera perché vi si sviluppino l’arte della navigazione e l’interesse
per il mare: è necessario che vi sia anche una costa opposta, attraente e non
eccessivamente distante o – ancor meglio – isole con le stesse caratteristiche.
I paesi in cui tale condizione non si verifica sono sempre rimasti ad uno
stadio di arretratezza nella tecnica della navigazione, ebbene le loro coste
si prestassero allo sviluppo marittimo. L’Africa, l’Australia, l’America meri-
dionale e persino quella settentrionale, ad eccezione del Golfo del Messico,
ne sono esempi. Al contrario, la Norvegia, l’Olanda, la Grecia, la Cina me-
ridionale e i mari del Sud, in cui le isole e le coste prospicienti erano tali da
attrarre i loro abitanti verso il mare, hanno dato i natali ai più grandi na-
vigatori della storia.
Dunque, per quanto la topografia e il clima abbiano un ruolo impor-
tante nello sviluppo delle attività marittime, è probabilmente la posizione re-
gionale a determinare l’interesse per il mare. La Grecia era una terra di
transito tra due mari. La Fenicia, come in seguito Genova e Venezia, erano
centri di accoglimento e di reimbarco di beni in transito da e verso l’Orien-
te. Venezia, situata in una laguna ben protetta e con alle spalle le fertili pia-
nure del Brenta, del Po e dell’Adige, incluso il Tirolo, era il punto di trasfe-
rimento di merci dirette a sud, oltre gli Appennini, verso Roma e, attraverso
l’Adriatico, fino al Mediterraneo orientale. La città aveva inoltre la buona
sorte di non essere soggetta alle incursioni arabe che affliggevano Genova,
sebbene dovesse subire le costanti aggressioni dei pirati della costa dalmata.
In seguito, con lo spostarsi del baricentro della città verso nord-ovest, fu ine-
vitabile che Venezia dovesse cedere a Marsiglia il posto di primo porto del
Mediterraneo, poiché le comunicazioni da Marsiglia risalgono la valle del
Rodano fino allo spartiacque della Manica e del Mare del Nord, nel cuore
stesso della moderna Europa industriale.
Non solo la configurazione dei confini marittimi di uno Stato ma an-
che quella dei suoi confini terrestri predeterminano l’importanza relativa
290 delle sue attività terrestri e marittime. Se i suoi confini terrestri – come quelli
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
della Norvegia, del Cile e della Spagna, per esempio – consistono in una ca-
tena montuosa pressoché invalicabile, esso sarà indotto a gravitare sul ma-
re per i propri contatti. Se invece, come accade per la Francia e la Germa-
nia, può muoversi con altrettanta facilità attraverso i confini terrestri e
quelli marittimi, godrà da un lato del vantaggio di disporre di più vie di
commercio e comunicazione ma, dall’altro , dovrà affrontare un ulteriore
problema di difesa. E se ancora, come nel caso della Russia, le sue coste non
offrono facile accesso al mare aperto, tenderà a trovare il proprio posto tra
le potenze terrestri, per quanto possegga coste estese per migliaia di miglia.
Agli esordi della storia dell’organizzazione politica, sorsero numerosi
staterelli costieri di diverso tipo geografico; alcuni situati in piccole valli co-
stiere, come Atene; altri sul delta di un fiume, come l’Egitto; altri ancora su
una striscia di terra lungo la costa stessa, come la Fenicia (500).
Questi esempi – e quelli citati non ne sono che una piccola parte – si ri-
feriscono quasi tutti alla storia antica, a quella medievale o tutt’al più agli
albori della storia moderna. Essi rappresentano una categoria arcaica, in
quanto, nel tempo, tali Stati si espandono nell’entroterra, ottenendo maggio-
re profondità, oppure vengono inghiottiti da Stati continentali in cerca di
sbocchi al mare. Gli Stati di questo tipo a tutt’oggi esistenti sono più vasti e
si sono conservati grazie alla loro particolare morfologia o a causa della lo-
ro funzione di Stati-cuscinetto. Il Perù e il Cile sono protetti dai loro confini
terrestri montuosi, mentre l’Olanda e il Belgio vivono sotto la protezione
della Gran Bretagna. L’Ecuador rimane un’entità statale indipendente per-
ché nel suo entroterra non vi sono Stati in cerca di sbocco al mare, e l’Uru-
guay si guadagna il diritto all’esistenza grazie alla sua funzione di Stato-
cuscinetto tra il Brasile e l’Argentina. Il minuscolo Stato africano della Libe-
ria sopravvive come una sorta di protettorato delle grandi potenze, mentre il
Portogallo ha a lungo subordinato la propria politica estera al suo alleato,
la Gran Bretagna. La sorte di Stati costieri di recente formazione, come l’Al-
bania e i tre Stati baltici di Lettonia, Lituania ed Estonia, deve ancora deter-
minarsi, ma agli occhi del geografo essi appaiono un evidente anacronismo
nell’evoluzione della tipologia statuale geografica, mentre a qualsiasi storico
risulta difficile studiare una carta geografica dell’Europa senza convincersi
che, prima o poi, la Russia si spingerà verso il Baltico e li annetterà una se-
conda volta.
Gli Stati sopra citati presentano la caratteristica, comune ad alcuni al-
tri Stati più grandi, quali l’Argentina, il Brasile, il Venezuela, la Romania e
la Persia, di avere accesso a un solo mare. Tale situazione semplifica il pro-
blema della difesa marittima, in quanto permette una concentrazione di
unità navali irrealizzabile per paesi con più di un fronte oceanico. Tutta-
via, nei casi della Romania e della Bulgaria, tale condizione si traduce in
un netto svantaggio, poiché il mare su cui si affacciano non offre sbocco
all’oceano aperto e le lascia così alla mercé della potenza – o potenze – che
controllano gli Stretti.
Gli Stati che si affacciano su più mari, come la Francia, la Spagna e in
modo particolare gli Stati Uniti, il Canada e la Russia, le cui coste sono inol- 291
GEOGRAFIA E POLITICA ESTERA
1240 5.100
1370 3.700
1850 2.400
1900 1.355 (escluse le colonie)
1925 1.120
curi e la posizione degli Stati Uniti rispetto ai loro contatti stranieri somiglia
a quella di un’isola; di conseguenza il fondamento della loro difesa è la
marina militare, più che l’esercito. Nonostante la possibile debolezza strate-
gica insita nel doppio accesso al mare, gli Stati Uniti hanno sempre teso a
procurarsi accesso a più di un mare a causa del vantaggio, che in parte
controbilancia tale debolezza, di avere più di una via d’entrata per gli ap-
provvigionamenti, il che comporta ulteriori vantaggi economici e commer-
ciali. Quando il regno di Carlo Magno fu spartito in base al Trattato di Ver-
dun, i germani, i franchi e i lotaringi ottennero uno sbocco ciascuno su tre
mari; nel medioevo, la Bulgaria aveva sbocco sul Mar Nero, sull’Egeo e sullo
Ionio; e la Serbia di Stefano Dusan aveva sbocchi sia sull’Adriatico che
sull’Egeo. Per lungo tempo l’impero asburgico si estese dalle coste settentrio-
nali a quelle meridionali d’Europa; e fino ad oggi tutte le grandi potenze
del mondo, quasi senza eccezione, hanno avuto accesso a più di un mare.
Vi sono altri tipi di doppio accesso al mare, ciascuno dei quali imprime
determinate caratteristiche alla politica e allo sviluppo di uno Stato. Una po-
sizione peninsulare porta allo sviluppo della potenza marittima, special-
mente se i confini terrestri dello Stato in questione sono protetti da una bar-
riera naturale come l’Himalaya, i Pirenei o le Alpi. Quando i confini terre-
stri non sono protetti, come nel caso della Danimarca, in tempo di pace lo
Stato peninsulare gode del vantaggio di poter utilizzare sia le proprie rela-
zioni terrestri che quelle marittime, bilanciando le une con le altre. In tem-
po di guerra esso si trova però in una situazione strategicamente debole,
poiché è esposto ad attacchi sia terrestri che marittimi.
Gli Stati la cui politica è maggiormente influenzata dall’accesso a più
di un mare sono quelli situati su un istmo, quali il Messico, gli Stati del Cen-
troamerica ad eccezione del Salvador, la Colombia prima del 1903 e, sotto
un certo punto di vista, l’Egitto. A causa della loro posizione geografica e
della loro formazione, essi sono soprattutto Stati di transito. Se restano indi-
pendenti, ciò non è da attribuirsi tanto alla loro forza quanto al fatto che,
per ovvi motivi strategici e commerciali, nessuna delle grandi potenze può
permettere che essi cadano in completo possesso di un’altra potenza. Essi so-
no tuttavia quasi inevitabilmente dominati da un unico Stato forte, avvan-
taggiato rispetto agli altri dalla vicinanza geografica o dall’essere interve-
nuto per primo nella regione. Che tale Stato sia una potenza marittima è
scontato, poiché un istmo, per quanto sembri paradossale, riveste importan-
za più come punto di passaggio tra oceani che tra continenti.
La combinazione dei fattori già citati – posizione geografica mondiale,
posizione regionale, topografica e clima – influenza l’orientamento di uno
Stato verso la potenza marittima o quella continentale. Abbiamo già rileva-
to che le categorie pure di insularità e di mancanza di sbocco al mare si
applicano a pochi casi e che la maggior parte degli Stati appartiene a una
categoria intermedia. In essi predomina la potenza marittima, se pensano
primariamente in termini di rotte navali ed elaborano piani di difesa e at-
tacco prevalentemente in termini di marina militare. L’interesse di uno Sta-
294 to nei confronti del mare può essere espresso matematicamente dividendone
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
la superficie per la lunghezza dei suoi confini costieri. Il numero così otte-
nuto potrà rappresentare principalmente l’interesse strategico di uno Stato
nei riguardi del mare. Si può ottenere un’indicazione del significato più
strettamente commerciale del mare nella vita di un paese dividendone la
popolazione totale per il numero complessivo degli abitanti dei porti di una
certa rilevanza, determinando così in modo approssimativo la percentuale
di popolazione che presumibilmente trae i propri mezzi di sussistenza, di-
rettamente o indirettamente, dal mare. Gli Stati saranno principalmente
potenze continentali se la loro politica estera si esprime prevalentemente in
termini di rapporti condotti attraverso i confini terrestri e la loro sicurezza
viene considerata primariamente un problema di difesa terrestre. Gli imperi
dell’antichità, ad eccezione di Roma, si basavano tutti sulla potenza conti-
nentale e la loro forza era fondata sulla mobilità via terra, fatto che com-
portava il possesso delle pianure e il controllo delle vie terrestri. Gli imperi
della storia moderna, invece, sono stati tutti potenze marittime, e la loro
forza si basava sulla mobilità nei mari e sul controllo delle vie marittime.
Una delle differenze di maggior rilievo tra le potenze continentali e
quelle marittime è determinata dalla loro diversa concezione dello spazio e
della sua conquista. Una potenza marittima conquista un ampio spazio
muovendosi velocemente da un punto all’altro, spesso formalizzando il suo
controllo sull’area interessata solo dopo che il suo dominio di fatto è tacita-
mente riconosciuto da tempo. Una potenza continentale in via di espansio-
ne avanza lentamente e metodicamente, costretta dalla natura del terreno
su cui si muove a stabilire il controllo su di esso in modo graduale, salva-
guardando la mobilità delle proprie forze (503). Pertanto, una potenza
continentale pensa in termini di superfici senza soluzione di continuità che
circondano un punto di controllo centrale, mentre una potenza marittima
pensa in termini di punti e di linee di raccordo che dominano un’area im-
mensa.
Molte cosiddette riflessioni e molto spazio sono stati dedicati al problema
dei conflitti tra le potenze marittime e quelle continentali. Il geografo tede-
sco Henning afferma che tali conflitti sono piuttosto rari, ma che quando si
verificano la vittoria va quasi senza eccezione alla potenza marittima. A so-
stegno della propria tesi, egli cita le grandi vittorie navali di Salamina, Le-
panto, Trafalgar, Navarino e Tsushima, pur ammettendo che la potenza
continentale di Roma conquistò la marittima Cartagine nella prima guerra
punica (504).
In diretta contrapposizione con Henning, Mackinder sostiene la fonda-
mentale superiorità delle potenze continentali: «C’erano flotte di canoe da
guerra sul Nilo, e il Nilo era chiuso ai loro attacchi da una sola potenza con-
tinentale che controllava le terre fertili su cui esse si basavano per tutta la
lunghezza dell’Egitto. Una base insulare cretese fu conquistata da una più
grande base peninsulare greca. La potenze terrestre macedone precluse il
Mediterraneo orientale alle navi da guerra dei greci e dei fenici, privandoli
entrambi delle loro basi. Annibale attaccò via terra la base peninsulare della
potenza marittima di Roma, che fu salvata grazie a una vittoria terrestre. 295
GEOGRAFIA E POLITICA ESTERA
Cesare ottenne il dominio del Mediterraneo per mezzo di una vittoria nava-
le, e Roma ne mantenne il controllo difendendone le frontiere terrestri. Nel
medioevo, la cristianità latina si difese sul mare a partire dalla propria base
peninsulare ma, in tempi moderni, a causa dell’insorgere su quella stessa pe-
nisola di Stati contrapposti e di diverse basi di potenza marittima, tutte espo-
ste ad attacchi via terra, il dominio dei mari passò a una potenza la cui base
era meno vasta ma si trovava su un’isola – fortunatamente fertile e ricca di
carbone» (505). Nessuno mette in dubbio l’accuratezza dei fatti storici pre-
sentati da Henning e da Mackinder. Henning rimpiange, sotto il profilo in-
tellettuale, che la maggiore potenza continentale, la Russia, non si sia mai
scontrata in una guerra di rilievo con la principale potenza marittima, la
Gran Bretagna, fornendogli in tal modo un perfetto esperimento da labora-
torio a verifica della sua tesi. Sospettiamo fortemente che, se una simile trage-
dia avesse luogo, la Gran Bretagna non sarebbe in grado di conquistare in
modo efficace il controllo del vasto territorio della Russia, e che la Russia a
sua volta non sarebbe in grado di vincere una grande battaglia navale con-
tro la flotta britannica. In altre parole, ci sembra che sia Henning che
Mackinder si siano industriati ad ammassare prove a sostegno della teoria
che, quando le potenze marittime si scontrano con potenze continentali sul
mare, risultano vittoriose quelle marittime e che, al contrario, quando le po-
tenze marittime si scontrano con potenze continentali sulla terraferma, ri-
sultano vittoriose quelle continentali. Tale conclusione, non è certo troppo il-
luminante, né del tutto sorprendente. Essa conduce all’ulteriore truismo per
il quale quella delle due potenze che è più forte, al momento del conflitto, sul
teatro operativo in cui il conflitto ha luogo, ne risulterà vincitrice. (…)
Note
494. N.J. SPYKMAN, America’s Strategy in World Politics, New York, Harcourt, Brace, 1942.
495. N.J. SPYKMAN, The Geography of Peace, (a cura di Helen R. Nicholl), New York, Harcourt, Brace, 1944.
496. N.J. SPYKMAN, America’s…, cit., p. 460.
497. N.J. SPYKMAN, The Geography…, cit., p. 43.
498. «Geography and Foreign Policy, II», The American Political Science Review, XXXII, 2, 1938, pp. 213-236.
499. Spykman fa qui riferimento alla prima parte dell’articolo, pubblicata sul numero precedente della stessa ri-
vista, pp. 28-50.
500. Esempi di Stati situati in una valle costiera: Argo, Colchide, Valencia, Napoli eccetera. Esempi di Stati situati
su un delta di un fiume: Pegu, Cocincina, Siam, Tonchino, Firenze eccetera. Esempi di Stati situati su una
stretta fascia costiera: Cilicia, Etruria, Lazio, Mauritania e Numidia; in seguito, i territori degli svevi e dei canta-
bri nella penisola iberica e dei vandali nell’Africa settentrionale; al tempo delle Crociate, l’America Minore, il
principato di Antiochia, la contea di Tripoli, il regno di Gerusalemme e Trebisonda nel Vicino Oriente, la
Normandia, la Bretagna e la Frisia in Europa; ancora più tardi, la Dalmazia, Granada, Aragona, il Portogallo e
Genova sul Mediterraneo. Cfr. O. MAULI, Politische Geographie, Berlino 1925, pp. 213-214, e J. MÄRS, Die
Ozeane, Breslavia 1931, pp. 15-16.
501. Cfr. A. HILTER, Mein Kampf, Monaco 1933, vol. I, pp. 152-153, e vol. II, pp. 689 ss.
502. R. HENNIG, Geopolitik, Lipsia 1931, p. 97.
503. Cfr. J. MARS, Landmachte und Seemachte, Berlino 1928, pp. 8-9.
504. R. HENNING, op. cit., p. 204.
296 505. H.J. MACKINDER, Democratic Ideals and Reality, New York 1919, pp. 74-75.
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
TEORIA
gua dei diversi piani sovrapposti secondo pensare che il mondo entri progressiva-
gli ordini di grandezza dell’analisi spa- mente nell’èra della geopolitica. E si trat-
ziale, è possibile differenziare le catego- ta di fenomeni geopolitici sempre più
rie dei fenomeni geologici, demografici, complessi e interdipendenti. La scompar-
economici eccetera, in funzione delle du- sa dell’Unione Sovietica come superpo-
rate e dei ritmi temporali alquanto diffe- tenza non significa la fine del confronto
renti secondo i quali essi evolvono. Essi fra grandi potenze: di fonte agli Stati
si distinguono nella lunga durata, si ac- Uniti si parano oggi il Giappone e la
cavallano e interferiscono, ma devono Germania. Le lotte per l’indipendenza,
essere tutti presi in considerazione nei dopo essersi concentrate nei paesi africa-
tempi brevi più vicini al presente. Impor- ni e asiatici alla metà del XX secolo, in-
ta poi distinguere con maggior precisio- teressano nuovamente un gran numero
ne di Fernand Braudel la categoria dei di nazioni europee. Sicché l’approccio
tempi brevi, e distinguere ciò che si mi- geopolitico è sempre più necessario a tut-
sura in mesi da ciò che si misura in ti i cittadini.
giorni e anche da ciò che si svolge Da qualche anno, un certo numero di
nell’arco delle ore, giacché i tempi bre- associazioni simpatizzanti per le cause
vissimi possono avere una notevole im- umanitarie da esse difese, hanno assun-
portanza nello svolgimento dei conflitti to come slogan l’espressione «senza fron-
attuali. I tempi lunghi sono misurati in tiere». La prima è stata Médecins sans
anni o decenni; quanto ai tempi lun- frontières, che svolge un ruolo notevole
ghissimi, si contano in secoli. in tante tragedie. Da allora, lo slogan
Così, nelle rappresentazioni geopolitiche «senza frontiere» è di moda. Checché se
dei popoli dell’Asia sud-orientale, in par- ne dica, le frontiere esistono e, se esse
ticolare dei vietnamiti, ma oggi anche tendono a impallidire in Europa occi-
degli indonesiani, un movimento ab- dentale, il diritto dei popoli a disporre di
bozzato già più di duemila anni fa è se stessi le moltiplica dolorosamente in
una delle maggiori preoccupazioni: la tutto l’Est europeo. Gli animatori della
spinta secolare degli Han dal Nord della maggior parte di questi movimenti «sen-
Cina verso quello che si può chiamare il za frontiere» sanno bene che le frontiere
Mediterraneo asiatico. esistono, visto che cercano di superarle
per fare il loro lavoro. Ora, la funzione
del ragionamento geopolitico è anche
Geopolitica e cittadini quella di un ponte che permetta di supe-
rare l’ostacolo. Facendo capire quali so-
Lo sviluppo della libertà di stampa e del- no le idee e gli antagonismi da una par-
la libertà di espressione in un sempre te e dall’altra delle frontiere, la geopoliti-
maggior numero di paesi provoca la ca aiuta a scavalcarle e, forse, a contri-
moltiplicazione delle rivendicazioni geo- buire a formare una disposizione d’ani-
politiche di dimensione locale, regionale mo che aiuti a cercare la soluzione pa-
e nazionale. cifica di alcuni conflitti.
Contrariamente a coloro che proclama- (4 – Fine)
no che il mondo si degeopoliticizza (sic)
perché la guerra fredda è finita, si può (traduzione di Tancredi Rossi)
302
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
tre frontiera, come testimonia un’intervista dei «prussiani orientali» con il mi-
nistro-presidente Edmund Stoiber il 13 settembre 1993 (275). Da questo pun-
to di vista, il trattato germano-sovietico del 9 novembre 1990, nel quale le
parti si impegnano a rispettare senza riserve le frontiere europee e dichiara-
no di non avanzare rivendicazioni territoriali verso chicchessia il giorno della
firma e nell’avvenire (articolo 2), non cambia nulla: l’oblast di Kalinin-
grad/Konigsberg deve essere oggetto di negoziato. 181
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
screzione su questo tema nel febbraio 1992) (286). Fatti confermati dal vinci-
tore ex comunista delle elezioni dell’ottobre-novembre 1992, Algirdas Bra-
zauskas, ostile al progetto (287). Per finire: Vilnius non ha forse esercitato
pressioni economiche sulla Russia – il 70% dell’energia della Prussia Orienta-
le (russa) passa attraverso la Lituania – cui Mosca ha replicato riducendo dei
3/4 le sue forniture di combustibile alla Lituania? E a Kaliningrad vivrebbero
100 mila lituani secondo Vilnius (20 mila secondo i russi, da 20 mila a 40 mila
secondo i polacchi). Tra loro molti ex deportati ritornati dalla Siberia, cui fu
vietato di rientrare nel loro paese. Questo contesto spiega evidentemente
perché le Edizioni Scientifiche di Lituania pubblichino delle carte nazionali
che includono «storicamente» Karaliausius (Kaliningrad) e i «territori di Litua-
nia in Prussia» fino alla colonizzazione del XVIII secolo. Vilnius è natural-
mente ostile a ogni velleità polacca di espansione nella regione (problema
della minoranza polacca in Lituania, 7% della popolazione) (288). Ma essa
teme soprattutto che i russi cedano Konigsberg alla Germania, come dichiara
pubblicamente l’ambasciatore Stasys Losoraitis a Washington (289).
Di più: dei bielorussi avrebbero anch’essi proclamato il loro interesse
per la Prussia Orientale; i traffici commerciali di Minsk passano per Kalinin-
grad, e i bielorussi vorrebbero poter dire la loro almeno sul piano economi- 183
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
chiesta da cui si ricava che il 42% degli abitanti resta favorevole a impiantare
nell’oblast i tedeschi del Volga perché se ne attendono un miglioramento
della loro situazione economica, e il 6% si pronuncia persino per il ritorno
della Germania (330). Il massimo: Elena Skvorcova, una delle migliori anali-
ste russe, in Megapolis Express. «Kaliningrad, questa striscia di terra separata
dalla Russia dai Paesi baltici, pur facendo parte della Federazione russa, illu-
stra (il fenomeno seguente, M.K.): ogni paesaggio, ogni terra muore se è pri-
vata della sua popolazione indigena, la sola capace di capirla, di amarla»
(331). Questa dichiarazione di intenti (che lascia aperta la porta a una «rina-
scita russa» di Kaliningrad) suscita scandalo. A. Terentev, membro della so-
cietà Rus della città condanna questa «pubblicazione tristemente demagogi-
ca»: «La storia dimostra che la Prussia era un tempo popolata da tribù slave,
crudelmente cacciate». Segue una denuncia delle responsabilità dei dirigenti
del Pcus nell’oblast – ossia la liquidazione della Storia. E poi: «Noi, che siamo
venuti sulla terra dell’antica Prussia da dove originano un gran numero dei
nostri principi e la dinastia dei Romanov, dobbiamo sapere che non viviamo
su una terra straniera» (332). D’altronde, una massa di lettere di protesta
inonda la Kaliningradskaja Pravda. Quanto all’ufficiale radicale Viktor Alk-
snis egli non è adattato nemmeno all’indipendenza dei Paesi baltici, né a
quella della Finlandia. Certi monarchici, per segnare pubblicamente il punto,
propongono di ribattezzare Kaliningrad in Knjazgrad – la città del principe –
insistendo così sul carattere slavo della città. (Certo Vladimir Zirinovskij, il ca- 191
OCCIDENTE, FINE DEL MONDO?
bria ma soprattutto al fatto che le forze della Sao-Krajina non potevano più
usufruire dell’appoggio in profondità costituito dalle milizie reclutate nei vil-
laggi serbi, fattore che aveva permesso nei mesi precedenti il blocco delle
vie di comunicazione e il rapido isolamento delle guarnigioni croate, causan-
do la loro sconfitta.
Dalmazia meridionale. L’apertura di un secondo fronte in Dalmazia,
l’offensiva federale verso Dubrovnik, considerata dai media occidentali
un’impresa di stampo terroristico, rispondeva invece a diverse esigenze di
carattere geostrategico e politico. Era finalizzata in primo luogo all’occupa-
zione della penisola di Prevlaka e della regione di Konavli, che avrebbe con-
sentito sia la protezione del lato nord della baia di Cattaro, dove era situato
l’unico porto militare rimanente alla futura federazione serbo-montenegrina
dopo l’indipendenza della Croazia, sia, in previsione della secessione dell’et- 245