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SOMMARIO: I «due blocchi» e il Terzo Mondo - Un nuovo equilibrio di potenze - Da alleati a nemici:
nascita della «guerra fredda» - La strategia americana in Europa: aiuti economici e «contenimento» - Le
elezioni del '48 in Italia - Il blocco di Berlino e la divisione della Germania - L'Europa occidentale e la
garanzia americana - II blocco comunista e la sovietizzazione dell'Est europeo - La Jugoslavia e l'«ere-
sia» di Tito - Le due Europe: equilibrio e stabilità - L'Urss potenza nucleare e la rivoluzione comunista in
Cina - La guerra di Corea - Riarmo e alleanze militari: la Nato e il Patto di Varsavia - Antagonismo
ideologico - Il 1956: la rivolta polacca e l'insurrezione ungherese - Un nuovo protagonista: il mondo non
industrializzato - Gli anni quaranta e la definitiva decolonizzazione del continente asiatico - La questione
palestinese: ritiro inglese e nascita dello Stato di Israele - La logica bipolare conquista il Medio Oriente -
Fine dei colonialismo inglese e francese - La guerra di liberazione algerina - L'Africa sub-sahariana: una
decolonizzazione convulsa - Nehru, Sukarno e Nasser: nascita del «terzomondismo» - II movimento dei
paesi «non allineati» - Un nuovo terreno di contesa tra le superpotenze - L'orbita sovietica - L'ambito
dell'egemonia americana - Il «muro» di Berlino e la repressione della «primavera di Praga» - Chruščëv e
la «coesistenza pacifica» - Kennedy e la «nuova frontiera» - La crisi di Cuba: nascita della «deterrenza» -
II modello americano: modernizzazione e democratizzazione - La guerra del Vietnam e lo scacco ameri-
cano - Due giganti indeboliti - Gli accordi per il disarmo bilaterale e controllato - Uno scontro di ideolo
gie o un conflitto di interessi? - La guerra fredda dal cuore europeo allo scenario mondiale - Fine del
bipolarismo e fine del Terzo Mondo.
1. Il problema
Nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale il sistema intemazio- I «due blocchi»
nale si polarizzò intorno ai due grandi vincitori. Stati Uniti e Unione Sovietica. e il Te rz o Mon do
Tra il 1945 e il 1947 essi passarono dalla cooperazione antinazista a un reciproco
antagonismo che divise l'Europa e altre parti del mondo in due blocchi di allean
ze reciprocamente impermeabili, via via sempre più armati e aspramente contrap
posti in un conflitto ideologico e geopolitico che si fermò solo sulla soglia dello
scontro militare diretto.
Gli equilibri strategici e le contrapposizioni ideologiche in Europa, sin dal do
poguerra, furono dunque profondamente segnati dalla preponderanza di questi
due poli, americano e sovietico (bipolarismo). Sorge il problema se tale bipolari
smo sia stato pieno, o asimmetrico e squilibrato a favore degli Usa. La logica bi
polare si estese progressivamente anche a talune zone extraeuropee, apparendo ai
contemporanei come uno scontro planetario tra Democrazia occidentale e Comu
nismo. È esatta questa percezione? O l'affermarsi di nuove nazioni indipendenti,
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e la loro ricerca di vie autonome allo sviluppo danno invece un senso autonomo ai
conflitti extraeuropei, e delineano molti e diversi protagonisti in quello che si co
mincia a chiamare il Terzo Mondo, per distinguerlo dal Primo Mondo rappresenta-
to dall'Occidente e dal Secondo Mondo dell'Est europeo? Composito e diversifica
to, il Terzo Mondo non riuscì mai a costituire una vera alternativa all'antagonismo
bipolare, ma la sua stessa esistenza, e il suo complesso rapporto con un'economia
internazionale in espansione, resero evidente che il sistema della guerra fredda non
comprendeva, e tanto meno esauriva, l'intero scenario mondiale.
2. Il dopoguerra.
Un nu ovo Nel 1945, dopo aver sconfitto le armate tedesche, l'Unione Sovietica era la
e qu ilibrio principale potenza europea. Gli Stati Uniti avevano vinto la guerra in Europa
di pote nz e occidentale e in Estremo Oriente, dominavano gli oceani, detenevano la bomba
atomica* e disponevano di una soverchiante forza produttiva e finanziaria. La
Germania e il Giappone, distrutti e occupati, non appartenevano più al novero
delle potenze. La Gran Bretagna sedeva tra i vincitori ma aveva esaurito gran
parte delle sue risorse imperiali, e doveva affidarsi all'aiuto americano; ancor
più indebolita e ridimensionata appariva la Francia. L'Italia e gli altri paesi eu
ropei, travolti da una guerra più grande di loro, potevano solo concentrarsi su
una difficile ricostruzione.
Sia gli Usa che l'Urss auspicavano un dopoguerra di reciproca collaborazione,
e nella Conferenza di San Francisco (aprile-giugno 1945) istituirono l'Organizza
zione delle Nazioni Unite (Onu) per creare, e dirigere, un sistema internazionale
pacifico e cooperativo. Ma gli interessi vitali degli uni e dell'altra non erano facil
mente conciliabili; e le loro diverse visioni del mondo, per molti versi incompati
bili, resero ogni mediazione via via più difficile. Mosca intendeva garantirsi da
un'eventuale rinascita di una Germania forte e nuovamente minacciosa, e voleva
assicurarsi il controllo su un'Europa orientale riorganizzata da governi «amici»
(cfr. la lezione XVI). I dirigenti sovietici, inoltre, diffidavano della superiore po
tenza americana e ritenevano necessario sviluppare un sistema socialista chiuso e
il più possibile autosufficiente. Le élites* politiche ed economiche americane vo
levano invece un mondo di mercati* aperti, interconnessi e organizzati intorno al
ruolo cardinale del dollaro. Washington, infatti, concepiva la sicurezza e la pro
sperità della democrazia americana solo in un ambito internazionale di democra
zie capitalistiche. Voleva perciò che le altre maggiori aree industriali del mondo -
Europa occidentale e Giappone - risorgessero come parte integrante di tale siste-
ma e non rischiassero invece di chiudersi nel nazionalismo* economico o di pie
garsi a una qualche forma di influenza sovietica. Quest'ultima si era già imposta
in Europa orientale, e non vi era modo di contrastarla direttamente, ma il presi
dente Harry Truman e il suo governo non erano disposti a vederla ulteriormente
estesa, ritenendo che la preminenza economica e strategica americana desse loro
le leve per realizzare un simile, ambizioso disegno.
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Guerra fredda e decolonizzazione
Il 12 marzo 1947 Truman annunciò che gli Usa sarebbero subentrati all'esau-
sta Gran Bretagna nel fornire aiuti alla Grecia e alla Turchia, e motivò tale scelta
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Storia contemporanea
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Guerra fredda e decolonizzazione
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Storia contemporanea
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Guerra fredda e decolonizzazione
pida vittoria, e le sue truppe avanzarono con facilità. Gli Stati Uniti ritennero che
una vittoria del Nord avrebbe distrutto la loro credibilità quale garante di governi
amici e alleati, incrinando il contenimento in tutto il mondo. Truman ottenne dalle
Nazioni Unite il mandato di respingere l'invasione e inviò subito un corpo di spe
dizione americano a combattere in Corea. Nel giro di pochi mesi poté poi passare
all'offensiva, e l'esercito americano penetrò nel territorio del Nord con l'ambizio
ne di «liberarlo» dal comunismo. Ma ciò fece precipitare lo scontro con la Cina,
che rovesciò contro gli americani un gran numero di «volontari» della sua Armata
rossa. Qui si ebbe un clamoroso scontro interno allo stesso establishment statuni
tense: il comandante delle forze in campo, il generale Mac Arthur, voleva portare
la guerra (aerea e terrestre) direttamente contro la Cina; più moderatamente il pre
sidente Truman voleva evitare un ulteriore allargamento del conflitto. Alla fine,
nel 1951, il generale fu esonerato. Il fronte intanto ridiscese di nuovo verso il
Sud, e dopo scontri sanguinosi la guerra si stabilizzò: nel 1953 si giunse final
mente a un armistizio che congelò - ancora fino ad oggi - la precedente divisione
tra le due Coree.
La vicenda coreana ebbe profonde ripercussioni. In primo luogo essa estese Riarm o e alle anz e
definitivamente il conflitto bipolare al di fuori dell'Europa. Il contenimento di m ilitari: la Nato
venne una strategia anche asiatica, e comportò innanzitutto la ricostruzione acce e il Patto
di Varsavia
lerata del Giappone come baluardo occidentale. In secondo luogo divenne chiaro
a tutti i protagonisti quanto grande fosse il pericolo di uno scontro diretto tra le
superpotenze: nessuno avrebbe più cercato di valicare i confini delle sfere d'in
fluenza determinatesi nel 1945. Infine, la rivalità bipolare assunse un aspetto sem
pre più militarizzato. Gli Stati Uniti avviarono un riarmo massiccio per mantenere
una netta superiorità nucleare sull'Urss e schierare grandi forze convenzionali in
Europa e in Asia. L'Alleanza atlantica formò una sua organizzazione militare in
tegrata (la Nato, Organizzazione del trattato del Nord Atlantico), si estese al Me
diterraneo orientale con l'ingresso della Grecia e della Turchia (1951), e nel 1955
inglobò anche la Germania occidentale, che si dotava nuovamente di proprie for-
ze armate. Il blocco sovietico diede vita, a sua volta, a una propria alleanza mili
tare: il Patto di Varsavia (1955).
Questa militarizzazione della guerra fredda portò entrambe le superpotenze a
sviluppare poderosi apparati militar-industriali che ne condizionarono la vita in
terna in modi assai diversi ma comunque profondi. La spesa per gli armamenti di
venne una voce assai cospicua nei loro bilanci e, anche se su scala minore, in
quelli dei loro principali alleati. Soprattutto, tra Usa e Urss si innescò una conti
nua corsa e rincorsa per la moltiplicazione e l'innovazione tecnologica degli ar
mamenti. A partire dalla metà degli anni cinquanta la crescita degli arsenali nu
cleari divenne impetuosa, dando presto vita a un sistema di deterrenza reciproca
Antagonismo
sempre più complesso e ambivalente: esso infatti dissuadeva dal ricorso alla guer-
ideologico
ra diretta proprio perché moltiplicava esponenzialmente gli effetti distruttivi che
questa poteva comportare.
Gli anni del conflitto coreano furono quelli più «caldi» dell'intero arco
della guerra fredda, e non solo per i combattimenti che devastarono la peni-
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sola asiatica. Con il timore che il conflitto potesse generalizzarsi, i due bloc
chi furono attraversati da un clima di mobilitazione e preparazione alla guer
ra. L'antagonismo ideologico e simbolico divenne rovente, e la demonizza
zione dell'avversario raggiunse il suo culmine. L'Urss promosse, con i suoi
alleati e sostenitori, un'ampia campagna contro la volontà di guerra che essa
attribuiva alle ambizioni imperiali del capitalismo americano. E all'interno
del suo blocco esasperò il terrore repressivo contro ogni forma di vero o pre
sunto dissenso. L'Occidente viceversa si autorappresentò come impegnato in
una lotta mortale per la sopravvivenza della democrazia contro le mire del
totalitarismo comunista, al quale si attribuiva - in una distorta ma suggestiva
analogia - lo stesso intreccio tra struttura dittatoriale e vocazione aggressiva
della Germania nazista. Negli Stati Uniti, in particolare, la mobilitazione
ideologica conobbe la sua stagione più rabbiosa e oscura con le inquisizioni
anticomuniste promosse dal senatore Joseph McCarthy (da qui il termine
maccartismo), che comportarono una circoscritta ma sostanziale limitazione
delle libertà politiche e civili per chi non aderisse al patriottismo della cro
ciata anticomunista.
Il 1956: Dopo la fine dei combattimenti in Corea, tuttavia, con lo stabilizzarsi di un
la rivolta bipolarismo militarizzato in Europa e il subentrare di una certa consuetudine a
polacca una rivalità ormai quasi decennale, la tensione venne gradualmente scemando.
e l'insurrezione Nella seconda metà degli anni cinquanta la guerra fredda non era più l'emer
ungherese genza dovuta al disvelarsi di un pericoloso antagonismo, l'insorgere di una se-
rie di crisi, la costruzione di sistemi di potenza inediti e dalle ripercussioni im
prevedibili. Divenne anzi gradualmente un dato di fatto, un intreccio ormai ab
bastanza rodato di relazioni ostili ma anche regolate da tacite norme reciproca
mente accettate. Insomma un sistema duraturo e stabilizzato che andò incon
tro, almeno per ciò che riguardava l'Europa, a un'evidente normalizzazione,
per quanto nel campo sovietico persistessero conati di rivolta all'esterno dei
regimi comunisti e tentativi di riforma dall'interno di essi: un intreccio che si
verificò nella Polonia e nell'Ungheria del 1956. Nel caso più clamoroso, quel
lo ungherese, fu l'esercito sovietico a intervenire direttamente per schiacciare
la ribellione, riportare l'ordine precedente, arrestare il leader comunista rifor
matore Imre Nagy che sarebbe poi stato impiccato. In Occidente grandi furono
le proteste, mentre i fatti mettevano radicalmente in discussione anche presso
l'opinione di sinistra l'idea di un'Urss liberatrice dei popoli, che si era affer
mata nel corso della seconda guerra mondiale. In pratica però nessuna reazio
ne si ebbe dalle potenze occidentali, perché le sfere d'influenza erano ricono
sciute, la divisione del continente accettata, e nessuno pensava di contestarne
la sostanziale intangibilità.
Fuori dall'Europa tutto era invece in movimento, ed era sugli altri continenti -
l'Asia in particolare - che si andava concentrando l'attenzione delle superpoten-
ze. Sullo scenario mondiale irrompevano infatti grandi trasformazioni che apri
vano un nuovo fronte, assai mutevole e composito, per il loro sedimentato anta
gonismo.
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4. La decolonizzazione.
In una carta dei primi anni sessanta la geografia politica del mondo appariva
irriconoscibilmente mutata rispetto a quella del 1945. Allora le nazioni sovrane Un n uovo
rappresentate all'Onu erano state 51, e tra queste solo 9 asiatiche e appena 3 afri protagonista:
il m ondo non
cane: gran parte dell'Asia meridionale, varie zone del Medio Oriente e quasi tutta
in dustrializ z ato
l'Africa erano ancora sotto il dominio dei grandi imperi coloniali della Gran Bre-
tagna e della Francia, o di quelli minori di Olanda, Belgio e Portogallo (cfr. la le
zione X). Ma nel 1965 solo quest'ultimo resisteva ancora, quelli belga e olandese
erano scomparsi e degli imperi francese e britannico rimanevano solo alcune mi
nuscole, simboliche vestigia come Hong Kong, restituita poi alla Cina nel luglio
1997. Dal loro sgretolarsi erano emerse grandi e piccole nazioni indipendenti: gli
Stati sovrani membri dell'Onu erano già divenuti 120, e di questi ben 70 in rap
presentanza di nazioni asiatiche o africane.
In meno di due decenni, il mondo non industrializzato era cioè emerso sulla
scena mondiale come inedito protagonista, e sotto diversi profili. Un crollo dei
tassi di mortalità - dovuto alle migliori condizioni economiche, igieniche e sani
tarie - aveva innanzitutto innescato un imponente boom demografico* che au
mentava il peso relativo delle popolazioni dell'Asia, dell'America Latina e del
l'Africa. In diversi casi, queste aree conoscevano processi di industrializzazione e
urbanizzazione che le allontanavano dalla tradizionale economia rurale. Soprat
tutto, si trattava di paesi che emergevano come attori politici indipendenti, in se
guito alla decolonizzazione, nel sistema mondiale. In Asia la crisi degli imperi co
loniali si era manifestata con chiarezza già nel corso della seconda guerra mon
diale, quando la cacciata di tutti gli europei dal Sud-est asiatico, ad opera del
Giappone, aveva evidenziato la vulnerabilità del colonialismo europeo. I principi
di libertà e autodeterminazione democratica esaltati dalla coalizione bellica delle
Nazioni Unite, inoltre, ne avevano grandemente diminuito il precedente alone di
legittimità. Soprattutto, le forze nazionaliste e indipendentiste uscivano rafforzate
vuoi dalla resistenza ai giapponesi, come in Malesia o in Indocina, vuoi dall'irro
bustirsi di borghesie commerciali in quelle aree, come l'India o il Medio Oriente,
dove le esigenze di mobilitazione bellica dell'impero britannico avevano stimola-
to la crescita della produzione e dell'attività commerciale locale.
Al termine del conflitto mondiale, le rivendicazioni d'indipendenza si trasfor Gli an ni quaranta
mavano in pressante azione politica proprio mentre le potenze imperiali dovevano e la de fin itiva
de coloniz z az ion e
ridefinire il proprio futuro in un contesto di drastico ridimensionamento delle loro de l con tine n te
risorse finanziarie, militari e politiche. Già nel 1946 divenivano indipendenti la asiatico
Siria e il Libano francesi, mentre in Indocina il dominio di Parigi veniva sfidato
da una guerra d'indipendenza che sarebbe poi giunta alla vittoria nel 1954. Tra il
1945 e il 1949 fallivano i tentativi olandesi di resistere all'indipendenza dell'In
donesia. E nel 1947 la decolonizzazione conosceva la sua più cospicua e emble
matica vittoria sull'impero britannico, quando il movimento nazionale guidato da
Gandhi sfociava nell'indipendenza dell'India e del Pakistan, cui seguirono quella
di Ceylon e della Birmania nel 1948. Nel 1950 - con la sola eccezione dell'Indo-
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cina francese ancora in guerra - l'Asia intera era ormai libera dal dominio colo
niale europeo, e due grandi nazioni, la Cina comunista e la democrazia indiana, si
affacciavano come nuovi, importanti protagonisti sulla scena internazionale.
Negli anni cinquanta lo scenario principale del processo di decolonizzazione
La que stione
pale stin e se : si spostava nel Medio Oriente e nel Nord Africa. Qui, il variegato ma vigoroso
ritiro in gle se nazionalismo delle popolazioni musulmane, dall'Iran al Marocco, si scontrava
e nascita con le residue, e ultime, resistenze franco-britanniche. Ma la rilevanza strategica
de llo Stato
di Israe le
ed economica di questa zona ricca di petrolio, e cosi vicina all'epicentro della ri
valità bipolare, attivava anche una complessa interazione con il crescente attivi
smo delle due superpotenze. In Palestina gli inglesi, che detenevano il potere in
forza di un «mandato» della Società delle Nazioni, avevano grande difficoltà a
controllare il conflitto tra popolazioni arabe autoctone ed ebrei stabilitisi in quelle
terre secondo i dettami del nazionalismo ebraico (o sionismo) per il quale gli
ebrei di tutto il mondo dovevano rientrare nella «terra promessa», la Palestina ap
punto; tra essi, numerosi i sopravvissuti dell'orrendo genocidio* nazista, che ave
vano una ragione di più per cercare una nuova patria. Allorché l'Onu decretò la
spartizione della Palestina in due entità statuali separate (ebraica e araba), i britan
nici si ritirarono e gli ebrei - dopo aver proclamato lo Stato di Israele - riuscirono
a battere sul campo un'eterogenea coalizione araba, ottenendo cosi una sistema
zione territoriale assai più favorevole di quella prevista dall'Onu (1948-49). Que
sta soluzione, con la conseguente espulsione di quasi un milione di arabi palesti
nesi autoctoni, fu sentita come una grande ingiustizia dal risorgente nazionalismo
arabo - che si sarebbe affermato nel 1953 in Egitto, con la proclamazione della
repubblica ad opera dei militari capeggiati da Gamal Abdel Nasser - e lo radica-
lizzò in senso antioccidentale, sovrapponendo un conflitto regionale quasi insolu
bile a quello globale tra le superpotenze.
La logica bipolare
Se l'Urss cercava, con parziale successo, di diventare un interlocutore privile
conqu ista giato del nazionalismo arabo, gli Stati Uniti erano invece mossi da impulsi con-
il Me dio O rie nte traddittori. Culturalmente propensi a sostenere l'emancipazione dal retaggio colo
niale e le ambizioni di modernizzazione* dei nuovi regimi, essi tuttavia ne teme
vano il radicalismo, che poteva danneggiare gli interessi economici occidentali e
offrire nuovi spazi all'antagonista sovietico. In Iran, ad esempio, la nazionalizza
zione dell'industria petrolifera decisa nel 1952 dal governo riformatore di Mossa-
deq suscitava l'ostilità non solo dei suoi proprietari britannici, ma anche degli
americani che, temendo un neutralismo suscettibile di offrire spazi all'Urss, face
vano intervenire i servizi segreti (la Cia) per riportare il controllo del paese, e del
petrolio, nelle mani della monarchia filo-occidentale dello scià Muhammad Reza
Pahlavi. Ancor più intricata la situazione del mondo arabo. Nel 1956, quando
Londra e Parigi, d'intesa con Israele, risposero con l'intervento militare alla deci
sione di Nasser di nazionalizzare il canale di Suez, gli Stati Uniti condannarono i
propri alleati europei, facendone fallire l'impresa tardo-coloniale. Ma da allora in
poi essi assunsero un ruolo di guardiani della stabilità in un Medio Oriente sem
pre più visto attraverso le lenti della rivalità bipolare. Insieme a Israele, le monar-
chie tradizionaliste (Giordania e Arabia Saudita) divenivano il pilastro della pre-
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5. Il Terzo Mondo.
Ne h ru , Su karno L'arrivo di nuovi attori indipendenti - dalla Cina all'Egitto, dall'Indonesia al
e Nasse r: l'India - in un sistema internazionale che fino a vent'anni prima era stato plasma-
n ascita de l
«te rz om on dism o» to e dominato dagli imperi europei, e che era adesso definito dall'antagonismo tra
Est e Ovest, innescava ovviamente dinamiche inedite. I protagonisti delle rivolu-
zioni anticoloniali volevano in primo luogo affermare la propria legittimità e
combattere la cultura - ancora preminente negli organismi internazionali - della
tutela delle nazioni più «avanzate», ovvero più ricche, sulle popolazioni «meno
progredite». Nella gran parte dei casi, essi intendevano inoltre costruire la propria
autonomia dai due grandi blocchi politico-militari e sottrarsi al rischio di venire
coinvolti in una guerra. Riunitisi a Bandung, in Indonesia, nell'aprile 1955, i go
verni di 29 paesi asiatici e africani condannarono ogni forma di oppressione colo
niale e contrapposero alla rivalità bipolare il principio di una cooperazione pacifi-
ca tra i popoli (cfr. la lezione XXI). Ispirati soprattutto dal leader indiano Jawahar-
lal Nehru, dall'indonesiano Akmed Sukarno e da Nasser questi paesi delinearono
quindi uno schieramento, ancorché molto diversificato e informale, di nazioni ac
comunate dalla necessità di tradurre la propria recente indipendenza in effettiva
autonomia e, soprattutto, capacità di sviluppo economico.
Sorgeva cosi l'immagine di un Terzo Mondo che riusciva a far sentire la sua
voce quanto più avanzava la decolonizzazione. Nel 1960 l'Onu condannava uffi
cialmente il colonialismo e negli anni seguenti, con il consolidarsi di una mag
gioranza numerica di nazioni del Terzo Mondo, essa divenne un ambito vieppiù
importante di discussione dei problemi del sottosviluppo e della disparità di ri
sorse tra Nord e Sud del mondo. La carenza di risorse finanziarie, produttive,
tecnologiche ed educative era infatti il problema centrale che guidava l'azione di
quei paesi. Ma essa erigeva anche un limite essenziale alla loro influenza e alla
loro autonomia.
Il m ovim e n to
I paesi del Terzo Mondo potevano infatti dichiararsi estranei ai blocchi: taluni,
de i pae si come l'India, riuscirono ad attuare un'effettiva equidistanza. A partire dalla con
«non allin e ati» ferenza di Belgrado del 1961 lo schieramento sorto a Bandung (cui si era aggiun-
ta la Jugoslavia di Tito) si presentò come un vero e proprio movimento di paesi
«non allineati», che alla logica della rivalità tra Est ed Ovest opponevano l'auspi-
cio di una collaborazione pacifica tra Nord e Sud per lo sviluppo economico e so
ciale. Ma molti di essi, come il Pakistan filo-occidentale, si posizionavano co
munque nell'orbita economica e militare di una delle superpotenze. Altri, come la
Cina comunista (che pure negli anni sessanta si allontanava decisamente da Mo
sca) vedevano il non-allineamento come uno strumento per contrastare l'Occi
dente e gli Stati Uniti. Soprattutto, ogni paese doveva contemperare il desiderio di
autonomia con il bisogno di accedere ai mercati, ai capitali, alle tecnologie e, in
molti casi, agli armamenti che solo le potenze industrializzate potevano fornire.
La denuncia della dipendenza economica* che era subentrata al dominio colonia-
le del recente passato connotò perciò negli anni sessanta la cultura dei movimenti
e dei governi più radicali del Terzo Mondo. Ma raramente essa riusci ad alterare
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Il «m uro» Nel 1961 Berlino fu teatro dell'ultima crisi europea della guerra fredda. Dopo
di Be rlin o un minaccioso confronto tra i due blocchi, la costruzione del «muro di Berlino»
e la re pre ssion e
de lla «prim ave ra
sigillò ermeticamente l'area di influenza sovietica, ma chiarì anche che l'esisten
di Praga» za di due Germanie e due Europe era ormai riconosciuta da tutti. Dieci anni dopo
i due governi tedeschi si sarebbero legittimati reciprocamente, e nel 1975 i due
blocchi avrebbero siglato gli accordi di Helsinki, che sanzionavano gli assetti eu
ropei sedimentatisi nel trentennio precedente. Era il culmine di un processo di di
stensione* tra Est ed Ovest che si era lentamente evoluto per oltre un decennio:
da epicentro della guerra fredda l'Europa si era tramutata in area di coesistenza
(armata, ma pacifica e stabile) tra i due blocchi. Se le forze della Nato e del Patto
di Varsavia si fronteggiavano sempre in minacciosa allerta, a cavallo della «corti
na di ferro» erano iniziati contatti e limitati scambi commerciali. All'apice di un
eccezionale boom economico, i governi occidentali erano saldi e fiduciosi. All'Est
il controllo sovietico era rigoroso. Sembrò per un attimo incrinare questo stato di
cose la «primavera di Praga», esperimento anticonformista e riformatore guidato
nel 1968 dal segretario del partito comunista cecoslovacco Aleksander Dubcek.
Ma l'aggressione delle truppe del Patto di Varsavia portò alla drammatica ever
sione dei governo di quel paese e a un ritorno alla situazione precedente, nono
stante le poco convinte proteste occidentali. Anche la raffigurazione pubblica del
l'antagonismo era profondamente mutata. Al posto della terrorizzante propaganda
sulla calata dei cosacchi in San Pietro vi erano adesso le fantasmagoriche avven
ture di James Bond, che trasponevano in innocuo spettacolo l'unico aspetto anco
ra bellicoso che sopravviveva della guerra fredda europea, la battaglia clandestina
tra gli apparati di spionaggio.
C hru ščë v La rivalità tra le due superpotenze non era affatto scomparsa, si era però diver
e la «coe siste n z a sificata, trasferendo le sue più aspre frizioni in aree extraeuropee, e si era simulta-
pacifica»
neamente concentrata in una massiccia corsa agli armamenti nucleari che la di-
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rio avversario anche dopo aver subito un attacco nucleare di sorpresa. Prendeva
cosi forma una deterrenza basata sulla capacità di «distruzione reciproca assicura
ta». Dal 1963 Washington e Mosca iniziarono a negoziare norme di controllo sul
le armi nucleari volte a stabilizzare questo precario «equilibrio del terrore».
Il m ode llo I rapporti tra le due superpotenze perdevano l'asprezza del decennio preceden
am e ricano: te e iniziavano a contemplare anche il riconoscimento di alcuni essenziali interes
m ode rniz z az ion e e si reciproci: il dialogo diplomatico avviava la ricerca di un modus vivendi che sa
de m ocratiz z az ione
rebbe sfociato nella distensione dei primi anni settanta. Ciò non escludeva, co
munque, una persistente rivalità, in particolare per l'influenza nelle aree del Terzo
Mondo in rapida trasformazione. Negli anni di Kennedy e poi di Lyndon Johnson
(1963-68) gli Stati Uniti elaboravano una vera e propria teoria dello sviluppo che
postulava, per ogni paese, un'evoluzione non solo economica - attraverso l'indu
strializzazione e il rapporto con i mercati mondiali - ma anche politica, sociale e
culturale verso una struttura democratica di tipo occidentale. Questo percorso di
modernizzazione avrebbe dovuto condurre le nuove nazioni indipendenti a inte
grarsi positivamente nella continua espansione del capitalismo su scala mondiale,
dando cosi forza e fondamento a un contenimento globale che pareva tanto più
impellente quanto più le rivoluzioni indipendentiste sembravano aprire spazi di
influenza per i rivali sovietici e cinesi.
Ma per affermare questo disegno di nation building e di modernizzazione oc
cidentale bisognava contrastare, ed eliminare, le componenti radicali, se non di
rettamente comuniste, che potevano guidare le nuove nazioni e i movimenti di li
berazione verso sbocchi ben diversi. In taluni paesi ciò fu fatto da regimi naziona
li, spesso dominati dai militari: in Indonesia, nel 1965, il generale Suharto ster
minò un forte movimento comunista; in Brasile e in altri paesi dell'America Lati
na le tensioni della modernizzazione furono governate autoritariamente da regimi
militari. Vi erano situazioni, però, in cui solo l'intervento americano pareva capa
ce di garantire la sopravvivenza di regimi filo-occidentali deboli e scarsamente
radicati nella società nazionale. Fu questo intreccio di fiducia in una modernizza
zione anche guidata dall'esterno e di ansia per le sorti del contenimento globale a
condurre gli Stati Uniti alla lunga guerra in Vietnam.
La gu e rra L'inefficace e impopolare governo del Vietnam del Sud era sfidato, nei primi
de l Vie tn am anni sessanta, da molte opposizioni e da un forte movimento di guerriglia (Viet
e lo scacco cong) sostenuto dal governo comunista del Nord Vietnam. Kennedy e Johnson vi
am e rican o
dero il conflitto come un test della «credibilità» internazionale della potenza ame
ricana. Interpretarono l'aspirazione alla riunificazione di un Vietnam indipenden
te non come un moto nazionalistico ma come un disegno d'espansione del comu
nismo, diretto da Cina e Urss, che avrebbe potuto poi estendersi a tutto il Sud-est
asiatico. Essi impegnarono quindi gli Usa a difesa del regime del Sud. A partire
dal 1964-65, quando iniziarono i bombardamenti del Nord Vietnam e l'uso mas
siccio di truppe statunitensi nel Sud, il conflitto divenne una devastante guerra su
larga scala in cui l'America arrivò a schierare oltre mezzo milione di soldati.
L'imponente presenza americana non riusciva però a consolidare (e tanto me
no a «modernizzare») uno stato sudvietnamita privo di solide basi autonome, né a
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7. Conclusioni.
Uno scontro La controversia sulle origini e la dinamica della guerra fredda è del tutto aper
di ide ologie ta. Alcuni storici la riconducono alla inconciliabilità tra due sistemi ideologici
o u n con flitto
di inte re ssi? d'ambizione universale, quello del comunismo sovietico affermatosi nel 1917 e
quello del liberal-capitalismo americano, che vedevano nell'altro una minaccia
storica alla propria sopravvivenza. Altri, invece, la imputano soprattutto al contra
sto d'interessi geopolitici in relazione al futuro di una Germania distrutta e di
un'Europa indebolita e sconvolta. Ci sono studiosi che, con maggiore precisione,
propongono di riferire il termine solo al periodo 1947-63, poiché nei decenni suc
cessivi il sistema bipolare perse quel connotato di intensa bellicosità - sia pure
non spinta fino allo scontro militare diretto - che l'aveva caratterizzato in prece
denza. In questa chiave, il successivo processo di distensione costituirebbe allora
un superamento di quel rapporto di negazione simbolica reciproca, tipico appunto
di una condizione di guerra, che costituiva l'essenza della guerra fredda.
All'interno della cultura liberal (radicale e progressista) statunitense, soprattut
to sotto lo stimolo intellettuale dei movimenti di opposizione alla guerra del Viet-
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nam, si è sviluppata dagli anni sessanta una storiografia revisionista, che ha indivi
duato nell'espansionismo economico americano - volto ad aprire i mercati interna
zionali alle proprie esportazioni di merci e capitali - il responsabile o il correspon
sabile della guerra fredda; i più insistono invece sul ruolo della strategia staliniana,
che affidava la sicurezza dell'Urss al ferreo dominio sull'Europa orientale e alla
debolezza dell'Europa occidentale. E se l'antagonismo tra due potenze nucleari at
tribuì alla guerra fredda un carattere potenzialmente apocalittico, alcuni sottolinea
no invece quanto fu proprio la reciproca capacità di infliggere distruzioni massicce
che dissuase dal ricorso alle armi, facendo così della guerra fredda un lungo perio
do di tensione ma anche di pace per l'Europa e tra le due superpotenze.
L'antagonismo della guerra fredda era nato nell'Europa dell'immediato La gue rra fre dda
dopoguerra perché là, nel vuoto lasciato dal tracollo delle potenze europee, dal cuore e u rope o
allo sce n ario
si confrontavano due ipotesi di sicurezza internazionale incompatibili. Quel m ondiale
la di Stalin si fondava sull'estensione di una influenza sovietica non negozia
bile fino al centro del continente: essa comportava il dominio sui paesi del
l'Est e un notevole grado di insicurezza per quelli dell'Ovest, data l'assenza
di ogni efficace contrappeso. Quella statunitense affidava invece alla «pre
ponderanza» della potenza americana (Leffler) la riorganizzazione di un si
stema capitalistico mondiale che integrasse i principali poli industriali iso
lando il blocco sovietico nell'arco dei suoi confini. La rivalità geopolitica e
la reciproca negazione ideologica erano quindi fattori inestricabili di un an
tagonismo che si assestò intorno alla partizione dell'Europa. In tono assai
ostile per un decennio, e più moderato negli anni successivi, questo bipolari
smo stabilizzò l'Europa divisa in una «lunga pace» (Gaddis) che la deterrenza
nucleare rese tanto pericolosa quanto indispensabile. Le superpotenze estesero
presto la logica del confronto bipolare anche in altre aree, tentando di control
lare e incanalare le trasformazioni innescate dalla decolonizzazione e dalla lot-
ta delle nuove nazioni indipendenti per un proprio autonomo sviluppo. Tanti
conflitti locali furono cosi inaspriti e ampliati fino a divenire guerre devastan
ti: alla «lunga pace» europea corrisposero molte guerre che. in trent'anni, cau
sarono quasi 20 milioni di vittime, per lo più in Asia. L'allargamento su scala
mondiale della guerra fredda ne ampliò il carattere fortemente militarizzato, e
rivelò i fondamentali squilibri insiti in un bipolarismo decisamente asimmetri
co. L'Urss poteva dominare l'Europa orientale e giungere negli anni settanta,
dopo un ventennio di costosa rincorsa, a una sorta di parità nucleare con gli
Usa. Ma gli Stati Uniti godettero in tutto il periodo della preminenza politica
mondiale, di un'influenza assai più estesa e articolata nei continenti extraeuro
pei e di una robusta superiorità militare. Soprattutto, essi ebbero sempre un in-
colmabile vantaggio economico. Le economie pianificate del blocco sovietico
crebbero velocemente fino a metà degli anni sessanta, ma restando sempre
un'area chiusa e sostanzialmente isolata. Gli Stati Uniti invece, oltre a essere
più ricchi e tecnologicamente avanzati, erano al centro di un'economia mon
diale di mercato* che comprendeva le aree più sviluppate del globo (il Nord
America, l'Europa occidentale e il Giappone: in questo trentennio essi crebbe-
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ro a ritmi straordinari) e che integrava, pur in modo assai disuguale, anche l'A
merica Latina, il Medio Oriente, l'Africa e l'Asia meridionale.
Fine Era a fronte di questa ben più ramificata influenza degli Usa e dell'Occidente
de l bipolarism o che le rivoluzioni del Terzo Mondo e il movimento dei non allineati parvero assu
e fin e
de l Te rz o Mon do
mere, fino ai primi anni settanta, un carattere di alternativa al sistema bipolare.
Esse chiedevano uno spostamento di risorse dall'antagonismo militarizzato Est-
Ovest al sostegno allo sviluppo lungo l'asse Nord-Sud; e spesso si scontravano
con quell'interdipendenza dei mercati di cui gli Stati Uniti erano i garanti. Ma
proprio le domande di sviluppo si mostrarono quelle a cui l'Urss era meno capace
di dare risposte positive. Il suo modello di industrializzazione pianificata e auto
sufficiente, pur inizialmente efficace in termini quantitativi, cominciava proprio
nei primi anni settanta a mostrare quell'atrofia che ne avrebbe poi segnato il de
clino. Viceversa l'Occidente finì per essere l'interlocutore principale - anche se
spesso, come si è visto, dopo passaggi aspramente conflittuali - dei processi di
crescita delle economie e delle nazioni del Terzo Mondo: a causa della schiac
ciante superiorità delle sue risorse produttive e finanziarie (ancora alla fine degli
anni sessanta circa il 70% del prodotto mondiale era concentrato in Europa occi
dentale e negli Stati Uniti); per la ramificazione dei suoi legami commerciali, fi
nanziari e anche socio-culturali con le élites sia dell'America Latina che dell'Asia
e dell'Africa post-coloniali; e per il maggior dinamismo dei suoi sistemi di produ
zione, di consumo e di innovazione tecnologica.
Nell'interazione con questo diffuso vigore della civiltà dei consumi di matrice
occidentale, dell'innovazione tecnologica e della globalizzazione* produttiva e fi
nanziaria, alcuni poli di un Terzo Mondo che si andava ormai rapidamente diver
sificando costruirono a partire dagli anni settanta dei loro imprevisti percorsi di
crescita e di inserimento nel mercato mondiale. E proprio questa dinamica (che
coinvolge protagonisti cosi diversi come l'India o l'Opec, la Cina comunista o
l'Indonesia) a portare nell'arco di quindici anni alla fine della guerra fredda. Alla
fine del bipolarismo si giunge, tra il 1989 e il 1991, non tanto per una «vittoria»
degli Usa sull'Urss, quanto per la globalizzazione di un'economia di mercato par
ticolarmente dinamica proprio in zone cruciali di quello che fino ad allora era sta
to il «sottosviluppo». Se gli Usa, insieme al Giappone e all'Europa occidentale,
sono stati gli interlocutori cruciali di tale processo, l'Urss viceversa si è trovata
vieppiù relegata in un isolamento stagnante che ha finito per vanificarne le ambi
zioni di potenza e per portare il suo stesso sistema ideologico e geopolitico alla
dissoluzione. Guerra fredda e decolonizzazione sono cioè stati due fili di un com
plesso intreccio storico che ha trasformato il mondo contemporaneo in modo ben
diverso da quanto l'una e l'altra di quelle dinamiche potesse singolarmente fare.
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