Sei sulla pagina 1di 62

STORIA DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI

CAP. 1 SECONDA GUERRA MONDIALE

Nell’estate del ’14 il conflitto europeo fu dovuto ad un singolo evento tragico e imprevedibile
come l’attentato di Sarajevo, nell’estate di venticinque anni dopo la guerra era nell’aria. Non ci
sono dubbi sul fatto che a provocare il conflitto fu la politica di conquista e di aggressione della
Germania nazista. Le democrazie occidentali si erano illuse di aver placato Hitler con la cessione
dei Sudeti, in realtà aveva già pronti i piani per l’occupazione di parte della Cecoslovacchia.
La distruzione dello stato cecoslovacco determinò una svolta nell’atteggiamento delle potenze
occidentali. In risposta alle mire tedesche sulla Polonia, Francia e Inghilterra conclusero
un’alleanza con questo paese. Decisivo a quel. Punto divenne l’atteggiamento dell’Urss, ma le
trattative si arenarono.
Garantitosi a est il patto di non aggressione con l’Urss, Hitler poté attaccare subito dopo la Polonia,
1° settembre 1939. Francia e Inghilterra dichiararono guerra alla Germania, mentre l’Italia che
aveva da poco concluso il patto d’acciaio con i tedeschi, annunciò la non belligeranza.
La conquista tedesca della Polonia fu rapidissima (guerra lampo) e mentre la Russia attaccava la
Finlandia, la Germania occupò Danimarca e Norvegia. Nel maggio-giugno del 1940 i tedeschi
riuscirono ad occupare la parte centro-settentrionale della Francia.
Il 10 giugno del ’40, Mussolini convinto che la guerra stesse ormai per finire annunciò l’intervento
dell’Italia al fianco dell’alleato nazista, ma l’esercito italiano fornì una pessima prova contro i
francesi sia contro gli inglesi in Africa e nel Mediterraneo. I successivi insuccessi in Grecia e Africa
del nord obbligarono gli italiani a chiedere l’aiuto dei tedeschi.
Rimasta sola a combattere contro le potenze fasciste, l’Inghilterra, sotto la guida del primo
ministro Churchill, riuscì a respingere il tentativo di invadere le isole britanniche, la battaglia
d’Inghilterra segnò infatti per la Germania la prima battuta d’arresto.
Nel 1941 il conflitto divenne mondiale. La Germania invase l’Urss, riportando notevoli successi ma
rimanendo immobilizzata su quel fronte in una guerra di usura. A dicembre, gli Stati Uniti, che già
sostenevano economicamente lo sforzo bellico inglese, entrarono in guerra dopo l’attacco subito a
Pearl Harbor ad opera del Giappone (unito alle potenze dell’Asse dal patto tripartito).

Nel 1942-1943 si ebbe una svolta nella guerra i giapponesi subirono alcune sconfitte del Pacifico.
Sul fronte russo la battaglia di Stalingrado si risolse in una sconfitta dei tedeschi. Sul fronte nord-
africano gli alleati fermarono le forse dell’Asse e le costrinsero a ritirarsi. Nel luglio del ’43 gli
anglo-americani sbarcarono in Sicilia.
Gli insuccessi militari furono all’origine della caduta di Mussolini (5 luglio ‘43) l’8 settembre veniva
annunciato l’armistizio fra italiani e anglo-americani. Mentre il re e Badoglio fuggivano a Brindisi, i
tedeschi occupavano l’Italia centro-settentrionale, prive di direttive le forze armate italiane si
sbandarono. A quel punto il paese era diviso in due:
lo stato monarchico sopravviveva nel sud occupata dagli alleati, al nord mussolini costituiva la
repubblica sociale italiana, del tutto soggetta al controllo dei tedeschi.
Alla fine del ’43 si formarono le prime bande partigiane, si ricostituirono i partiti antifascisti che
diedero vita al comitato di liberazione nazionale che formarono nel ’44 il primo governo di unità
nazionale. Dopo la liberazione di Roma il re trasmise i propri poteri al figlio Umberto e si costituì
un nuovo governo (alla cui testa c’era Bonomi) legato al movimento partigiano che si andava
sviluppando in tutta l’Italia settentrionale.

Mentre gli anglo-americani erano impegnati in Italia, l’Urss iniziava una lenta ma inarrestabile
avanzata. Nel giugno del ’44 gli alleati sbarcarono in Normandia e liberarono la Francia. I tedeschi
dovettero arretrare su entrambi i fronti.
Il 25 aprile mentre la resistenza proclamava l’insurrezione generale, l’Italia era liberata dalle forze
alleate, Mussolini fu allora giustiziato dai partigiani. Pochi giorni dopo, entrati i russi a Berlino, la
Germania capitolava.
La guerra proseguiva a quel punto solo nel Pacifico contro il Giappone. Terminò il 2 settembre
1945 dopo l’esplosione di due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.

˃ LA VITTORIA ALLEATA E I PROGETTI PER UN ASSETTO POSTBELLICO:


• Di fronte alla prospettiva della fine delle ostilità i tre grandi sentirono l’esigenza di prendere
alcune decisioni e definire alcuni principi che avrebbero consentito di avviare la costruzione di uno
stabile e pacifico assetto postbellico.
Nella prima metà di febbraio del 1945 si incontrarono a Jalta in Crimea, qui sarebbe avvenuta la
spartizione del mondo che avrebbe caratterizzato la successiva guerra fredda. In realtà vennero
affrontati solo alcuni temi che apparivano in quel periodo particolarmente pressanti:
1) la sorte della Polonia,
2) l’atteggiamento dei vincitori nei confronti della Germania,
3) gli ostacoli che si vi erano ancora alla costituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite,
4) il possibile intervento dell’URSS nel conflitto contro il Giappone.
Per ciò che concerne la futura ONU, si discusse in particolare del diritto di veto da parte dei
membri permanenti del Consiglio di sicurezza, sostenuto con forza da Stalin, e dalla
rappresentanza dell’URSS nell’Assemblea generale (va ricordato come in proposito i sovietici
chiedessero di vedere incluse tutte le 16 repubbliche che formavano l’Unione Sovietica). Alla
conclusione dei colloqui le richieste di Stalin ebbero parziale soddisfazione: venne accettata
l’ipotesi di dritto di veto, mentre all’Assemblea generale accanto all’URSS si ammise la presenza
dell’Ucraina e della Bielorussia.
Quanto alle operazioni contro il Giappone, Stalin accettò che l’URSS dichiarasse guerra a Tokyo
entro due-tre mesi dalla fine delle ostilità in Europa, in cambio Mosca otteneva una serie di
concessioni strategiche e territoriali.
I tre grandi accettarono una “dichiarazione sull’Europa liberata” in cui si impegnavano a favorire il
ripristino della democrazia e ad assicurare che tutti i popoli del continente potessero scegliere
liberamente le proprie forme di governo secondo i loro desideri. Roosevelt si mostrò nel
complesso soddisfatto degli esiti della conferenza perché pur facendo delle concessioni a Stalin,
era riuscito ad ottenere via libera alla costituzione dell’ONU e l’assenso al coinvolgimento sovietico
nella lotta contro il Giappone. Sul futuro della Germania, le decisioni prese erano di breve periodo
e rinviavano ogni scelta definitiva a un futuro trattato di pace.

• Poche settimane prima della fine del conflitto si tenne l’ultima conferenza interalleata fra i tre
grandi. L’incontro si svolse tra il 17 luglio e il 2 agosto del ’45 a Postdam. L’atmosfera della
conferenza fu di gran lunga meno cordiale delle due precedenti e risultò chiaro l’emergere di
dubbi e sospetti fra i vincitori, in particolare tra Truman e Stalin.
Al centro dell’incontro vi fu soprattutto la questione della Germania. La fine della guerra e la
sconfitta del Reich avevano implicato anche la scomparsa di qualsiasi interlocutore tedesco, la
Germania era una sorta di vuoto nel cuore dell’Europa e spettava ai tre grandi darle un solido
assetto per assicurare pace e stabilità.
In primo luogo i vincitori parvero trovarsi d’accordo su alcuni principi/obiettivi di fondo, circa il
futuro della Germania e del popolo tedesco: smilitarizzazione, denazificazione, decentramento
amministrativo e smantellamento dei gruppi industriali. Si decise inoltre che i massimi responsabili
del regime nazista, sia militari che civili, sarebbero stati chiamati a rispondere pubblicamente dei
loro crimini, mettendo così le basi per quello che sarebbe stato il processo di Norimberga.
Vennero stabiliti in maniera precisa i confini delle quattro zone di occupazione alleate. Berlino pur
rientrando nella zona di occupazione sovietica, sarebbe stata suddivisa a sua volte in quattro zone.
Ben più complesse e difficili furono le discussioni circa i possibili confini della Germania e le
immediate conseguenze. Si confermarono alcuni trasferimenti di territori all’Urss e alla Polonia.
I nuovi confini furono comunque considerati provvisori sino alla firma di un trattato di pace. Ciò
però implicava l’espulsione di milioni di tedeschi da questi territori, per quanto ciò dovesse
avvenire in maniera umana in realtà questo trasferimento fu una delle grandi tragedie della
guerra.
Al di là delle numerose decisioni prese, la sorte complessiva e definitiva della Germania veniva
rinviata a una conferenza della pace e a un trattato. Si ponevano in realtà le basi per una delle
cause della rottura all’interno della grande alleanza che avrebbe determinato l’avvio della guerra
fredda.
˃ L’ONU:

Di matrice soprattutto americana fu l’ispirazione di base dell’organizzazione delle nazioni unite,


creata nella conferenza di San Francisco (aprile-giugno 1946) al posto della vecchia e screditata
Società delle nazioni, con l’obiettivo di salvare le generazioni future dal flagello della guerra e di
impiegare strumenti internazionali per promuovere il progresso economico e sociale di tutti i
popoli.
Lo statuto dell’Onu recava l’impronta di due diverse concezioni da un lato quella dell’utopia
wilsoniana, dall’altro quella più propriamente rooseveltiana, della necessità di un direttorio delle
grandi potenze come unico efficace strumento di governo degli affari mondiali.
I principi dell’universalità (dell’organizzazione) e dell’ugualianza (delle nazioni) sono rispecchiati
nell’Assemblea generale degli stati membri, che si riunisce annualmente e ha il potere di adottare,
a maggioranza semplice, risoluzioni che però non sono vincolanti (e hanno il solo valore di
raccomandazioni). Il meccanismo del “direttorio” è riflesso invece nel consiglio di sicurezza,
organo permanente che, in caso di crisi internazionale, ha il potere di prendere decisioni vincolanti
per gli stati e di adottare misure che possono giungere fino all’intervento armato.
Il consiglio si compone di 15 membri:
- le 5 maggiori potenze vincitrici, Usa, Urss (dal 1992 Russia), Gran Bretagna, Francia e Cina, sono
membri permanenti di diritto;
- mentre gli altri 10 vengono eletti a turno tra tutti gli stati.
Ciascuno dei membri permanenti gode di un diritto di veto col quale può paralizzare l’azione del
consiglio quando la ritenga contraria ai propri interessi. Un meccanismo che fu introdotto
soprattutto per volontà dell’Urss, diffidente nei confronti di un’organizzazione in cui avrebbe
potuto facilmente essere messa in minoranza.
Altri organi dell’ONU sono il consiglio economico e sociale da cui dipendono le agenzie
specializzate per la cooperazione nei vari campi (es: Unesco) e la corte internazionale di giustizia,
cui spetta di dirimere le controversie fra gli stati che vi si rimettono volontariamente.
CAP. 2 LE ORIGINI DELLA GUERRA FREDDA E LA NASCITA DI DUE
SISTEMI CONTRAPPOSTI

Vari studiosi hanno individuato le origini della guerra fredda nei contrasti e nei sospetti
manifestatisi durante il secondo conflitto mondiale tra i membri della grande alleanza. Altri sono
giunti a rintracciare le origini del contrasto tra est e ovest sin dalla rivoluzione bolscevica e dal
contemporaneo emergere nel 1917 degli Stati Uniti come potenza mondiale.
Per quanto entrambe le interpretazioni contengano una parte di verità, il confronto globale fra
occidente e oriente mostrò caratteri molto forti e coinvolgenti soprattutto a partire dall’immediato
secondo dopoguerra, per concludersi tra il 1989 e il 1991, caratterizzando così sia le relazioni
internazionali sia le vicende interne di quasi tutti i paesi del mondo e dando origine a quello
scontro politico-ideologico, economico-sociale e militare, che pur conducendo spesso gli Stati Uniti
e l’Urss sull’orlo di una guerra nucleare, si sarebbe sempre esplicato in tutte le altre dimensioni o
al massimo in “guerre per procura”, tanto da giudicare la definizione di “guerra fredda”, coniata
fin dal primo manifestarsi della rivalità fra Mosca e Washington.
Proprio per il suo carattere di guerra non combattuta direttamente, non è possibile individuarne il
preciso momento di inizio. Anzi, per poco più di un anno dalla fine del secondo conflitto mondiale i
tre grandi parvero non escludere la prosecuzione di una qualche forma di collaborazione.
Sebbene si sia sostenuto che il passaggio da Roosevelt a Truman rappresentasse la fine di qualsiasi
speranza nell’alleanza sovietico-americana, il nuovo presidente invece si sentì per qualche tempo
legato alla politica estera.
Nell’ambito dei tentativi di mantenere in vita qualche forma di collaborazione sovietico-americana
va ad esempio ricordata la missione compiuta da Hopkins, uno dei più stretti collaboratori di
Roosevelt, inviato a Mosca da Truman nel maggio-giugno del 1945 proprio allo scopo di
dimostrare, oltre all’interesse nei confronti delle posizioni sovietiche, la continuità della politica
americana rispetto alle scelte rooseveltiane.
Un altro cambio in cui i tre grandi, seppur fra crescenti difficoltà e incomprensioni, riuscirono a
trovare una forma di consenso fu la conclusione dell’accordo sulla nascita dell’Organizzazione
delle Nazioni Unite. All’indomani della scomparsa di Roosevelt, il 25 aprile 1945 si apriva a San
Francisco, alla presenza dei rappresentanti di 50 nazioni, la conferenza che nel volgere di un mese
avrebbe condotto alla redazione della versione finale della Carta dell’ONU, la quale, basata in
larga misura sugli accordi raggiunti nel periodo tra il negoziato di Dumbarton Oaks e il vertice di
Jalta, sarebbe stata firmata ufficialmente il 26 giugno. La Carta entrava in vigore alla fine di
ottobre e nel gennaio 1946 si tenevano le prime sessioni dei due organi fondamentali,
l’Assemblea generale e il Consiglio di sicurezza, il 1° febbraio veniva nominato il primo segretario
generale dell’ONU, un politico norvegese.
Tra il 1945/46 venivano costituiti una serie di organismi dipendenti dall’ONU:
- l’organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO)
- l’organizzazione mondiale della sanità (OMS)
- l’organizzazione per l’educazione, la scienza e la cultura (UNESCO)
- il fondo per l’infanzia (UNICEF)
Dopo una sessione inaugurale a Londra, l’organizzazione avrebbe stabilito, prima
provvisoriamente, poi definitivamente, la propria sede a New York. In questi primi mesi i
partecipanti all’ONU, anche sulla spinta degli ideali che avevano caratterizzato la lotta al
nazifascismo, si mostravano convinti che questo organismo avrebbe potuto contribuire
efficacemente al mantenimento della pace del mondo; e questi sentimenti ottimistici erano
condivisi dalle opinioni pubbliche dei paesi occidentali, in particolare quelle americana e
britannica.
Dal punto di vista di Stalin apparivano al contrario confermati i dubbi intorno alla possibile
trasformazione del nuovo organismo internazionale in uno strumento della politica occidentale,
soprattutto americana. Si tenga conto che la maggioranza delle nazioni rappresentate
nell’Assemblea generale, era riconducibile all’ambito politico occidentale. Solo la centralità del
ruolo svolto dal consiglio di sicurezza e il diritto di veto concesso ai cinque membri permanenti
offrivano a Stalin una qualche garanzia per la salvaguardia degli interessi dell’Urss.
Il contesto dove in maggior misura si manifestarono gli ultimi tentativi di preservare parte della
sostanza della grande alleanza fu il negoziato che condusse alla redazione dei trattai di pace con i
paesi europei satelliti della Germania hitleriana, lasciando da parte per il momento le sorti della
Germania, il che dimostra che sull’aspetto più importante e delicato dei futuri equilibri europei
esistessero già forti divergenze di opinione fra i vincitori, i quali preferivano risolvere le questioni
meno controverse.

˃ LE SORTI DEGLI EX ALLEATI DELLA GERMANIA:


Ungheria, Bulgaria, Romania si avviavano a essere fermamente guidate dai regimi comunisti ed
erano occupate dall’Armata Rossa, mentre l’Italia che sperimentava la difficile strada della
democrazia, vedeva la presenza di truppe d’occupazione anglo-americane. Va comunque indicato
come tutti i 5 ex alleati della Germani furono sottoposti a forti limitazioni sul piano militare e
costretti ad accettare onerose riparazioni di cui avrebbero beneficiato in ampia misura l’Unione
Sovietica, la quale era stata aggredita da questi paesi nel 1941.

Sebbene non sempre i tre grandi si trovassero pienamente d’accordo sulle varie clausole dei
trattati conclusi con questi quattro paesi, i contrasti furono nel complesso limitati. Più serie furono
le difficoltà concernenti il trattato di pace italiano. Alla fine delle ostilità le autorità italiane si
erano cullate nell’illusione che l’uscita alla guerra nel 1943, la cobelligeranza, la resistenza
partigiana e il ritorno alla democrazia avrebbero evitato un trattato punitivo, in realtà le intenzioni
dei vincitori erano poco benevole, ad eccezione forse degli Stati Uniti.
Nell’aprile del 1945 de Gaulle tentò di far occupare dalle proprie truppe la Valle d’Aosta nella
speranza di annetterla alla Francia. Fu solo la ferma presa di posizione anglo-americana a far
recedere il generale dalle sue ambizioni. Ben più drammatica fu l’evoluzione delle vicende lungo il
confine orientale. Qui le forze comuniste di Tito non solo presero possesso dei territori italiani
dell’Istria e della Dalmazia, dando il va ad una sorta di pulizia etnica degli italiani, ma per più di un
mese occuparono Trieste con un regime che si contraddistinse per la persecuzione non solo degli
esponenti fascisti, ma anche degli oppositori al fascismo non comunisti. Londra e Washington
esercitarono forti pressioni su Tito per far ritirare le sue truppe da Trieste.
L’Italia fu comunque costretta ad accettare un trattato ritenuto ingiusto. Le forze armate vennero
limitate fortemente e le unità della flotta furono in larga misura spartite fra i vincitori, vennero
inoltre imposte pesanti riparazioni. Particolarmente severe furono le clausole territoriali: l’Italia
rinunciava ai diritti sulle colonie prefasciste (Eritrea, Somalia e Libia), cedeva le isole del
Dodecaneso alla Grecia, perdeva l’Istria e i territori della Dalmazia, mentre restava irrisolto il nodo
di Trieste, che avrebbe dovuto far parte di un territorio internazionalizzato sotto la responsabilità
di un governatore scelto dall’ONU , mentre in via temporanea la città sarebbe rimasta sotto
l’amministrazione anglo-americana (Zona A), e la parte orientale del golfo di Trieste sarebbe stata
amministrata militarmente dalla Jugoslavia (guidata da Tito, Zona B). La Francia otteneva alcune
minori rettifiche lungo il confine con l’Italia. Infine l’Austria ridiventata stato indipendente, anche
se occupata dai vincitori, aveva avanzato pretese sul Sud Tirolo, che rimase invece all’Italia.

˃ I PRIMI SEGNI DEI CONTRASTI:


Sistemate tutte le questioni con gli ex alleati di Hitler (tranne la sorte della stessa Germania), quali
furono le ragioni che condussero l’Occidente e l’Urss ad avviare uno scontro aperto che a partire
dal 1947 sarebbe apparso ineluttabile e non risolvibile se non con la vittoria di uno dei due
contendenti? Non è possibile ricondurre l’inizio della guerra fredda ad una sola causa, bensì
all’intrecciarsi di vari episodi e dinamiche.
In primo luogo va indicata l’evoluzione della percezione dell’amministrazione americana nei
confronti dell’Unione Sovietica e degli obiettivi di Stalin. Per quanto Truman per qualche tempo si
sentisse legato alla politica perseguita da Roosevelt, fu sin dall’inizio sospettoso e sostanzialmente
ostile al comunismo e all’Urss. Sebbene molti dei suoi collaboratori fossero stati già attivi
all’interno della precedente amministrazione, non tutti avevano condiviso la fiducia di Roosevelt
nel progetto di collaborazione con Stalin e così progressivamente presero il sopravvento le
opinioni di coloro che fin dalla guerra avevano maturato un atteggiamento negativo nei riguardi
della posizione dell’Unione Sovietica.
Particolarmente importante nel quadro di questa trasformazione della valutazione delle intenzioni
del Cremlino ai vertici dell’amministrazione americana fu l’episodio del cosiddetto long telegram,
un lungo dispacci che nel febbraio del 1946 un diplomatico presso l’ambasciata americana a
Mosca, George Kennan, indirizzò al Dipartimento di Stato. Nel messaggio inviato a Washington
mirava a spiegare le ragioni per cui l’Unione Sovietica stava perseguendo una minacciosa politica
espansionistica e che non vi era spazio per alcuna forma di compromesso con Mosca e che gli Stati
Uniti dovevano quindi puntare di una strategia di containment (contenimento) dell’espansionismo
sovietico nella convinzione che con il trascorrere del tempo la crisi del comunismo avrebbe
cambiato la società russa consentendo la ripresa del dialogo.
La trasformazione dell’atteggiamento americano verso l’Unione Sovietica non riguardò solo i
vertici dell’amministrazione, ma anche l’opinione pubblica: ancora nell’estate del 1945 i sondaggi
mostravano la forte simpatia di gran parte degli americani verso l’Urss, popolo che aveva
contribuito nell’immaginario collettivo alla sconfitta del nazismo.
Nel giro di un anno questi sentimenti erano quasi del tutto scomparsi, lasciando spazio alla
tradizionale convinzione che l’Unione Sovietica si identificasse con la minaccia comunista ai valori
e agli interessi vitali degli Stati Uniti. Questo cambiamento radicale quanto rapido
nell’interpretazione della politica di Stalin si fondava d’altronde su una serie di valutazioni relative
alle scelte compiute da Mosca tra la fine della II guerra mondiale e il 1947.
In primo luogo si manifestarono alcune prime crisi all’interno della grande alleanza circa il rispetto
degli accordi conclusi durante il conflitto. Significativa in tal senso fu la questione iraniana.
Nel 1941 dopo l’aggressione all’Urss, Mosca e Londra avevano deciso di occupare militarmente
l’Iran, sia per impedire una deriva filotedesca di quel governo, sia per mantenere il controllo sulle
risorse energetiche del paese, sia per aprire una via di comunicazione diretta fra le potenze
occidentali e l’Urss. Vi era stato comunque un accordo affinché con la conclusione delle ostilità le
due potenze evacuassero le loro truppe dal territorio iraniano.
In realtà Mosca cercò di rafforzare la propria presenza in Iran, sostenendo il locale partito
comunista e appoggiando le tendenze separatiste del nord del paese confinante con l’Arzerbaigian
sovietico. Dopo la fine della guerra Stalin mantenne la presenza di unità dell’Armata Rossa ed
esercitò pressioni sul governo iraniano perché venissero affidate all’Urss concessioni sui giacimenti
petroliferi.
La questione venne sollevata anche all’interno dell’ONU che fin da subito dimostrò la difficoltà a
risolvere le divergenze internazionali che coinvolgevano membri permanenti del consiglio di
sicurezza, alla fine Stalin accettò il ritiro delle proprie truppe in cambio di concessioni economiche
da parte di Teheran.

˃ LA SOVIETIZZAIONE DEL’EUROPA:
Più gravi furono le ripercussioni sull’Occidente e sulla posizione americana del processo di
sovietizzazione attuato da Stalin nell’Europa centro-orientale. I primi paesi a cadere sotto
l’influenza comunista furono la Romania, la Bulgaria e la Polonia. Per ciò che concerne la Romania
e la Bulgaria, questi due paesi avevano chiesto un armistizio con gli alleati alla fine del 1944 ed
erano stati rapidamente occupati dall’Armata Rossa. In entrambi i casi partiti comunisti
rappresentavano forze politiche esigue, ma con il sostegno dell’Urss e delle forze d’occupazione
sovietiche essi cominciarono a esercitare una forte influenza. Ancora più rapido fu il processo di
sovietizzazione vissuto in Jugoslavia e in Albania. Stessa sorte toccò all’Ungheria e alla
Cecoslovacchia.al di là dei singoli casi nazionali, la sovietizzazione dell’Europa centro-orientale ha
rappresentato uno dei fattori che spinsero verso il manifestarsi della guerra fredda. Secondo molti
studiosi né la Gran Bretagna né gli Stati Uniti mostrarono grande preoccupazione o interesse per la
sovietizzazione dell’Europa. Questa sarebbe stata infatti un mero pretesto utilizzato dagli Stati
Uniti per giustificare il mutamento della propria politica verso l’Urss.

I leader occidentali non erano disposti ad accettare la loro totale esclusione da queste nazioni e
l’imposizione di radicali trasformazioni di carattere politico, economico e sociale. In altri termini si
sarebbe potuto convivere con l’influenza esercitata dall’Urss ma non con la sovietizzazione, che
venne considerata una violazione della “dichiarazione sull’Europa liberata” sottoscritta a Jalta.
Né si poteva ignorare la situazione stridente nel resto d’Europa dove i locali partiti comunisti erano
liberi di agire e i governi di unità antifascista rappresentavano reali forme di collaborazione.
Così se le potenze occidentali fecero ben poco per impedire la sovietizzazione di metà del vecchio
continente, è innegabile che questo processo influenzò fortemente la loro valutazione nei
confronti della politica di Stalin. È in questo quadro che va collocato il discorso tenuto nel marzo
del 1946 da Winston Churchill (in quel momento non era al governo) in cui descrisse in maniera
drammatica e incisiva la situazione venutasi a creare in Europa facendo riferimento alla “cortina di
ferro” scesa su metà del continente, egli inoltre si appellò alla prosecuzione della collaborazione
fra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti quale unico strumento per la difesa della democrazia.
Significativo è il fatto che il discorso venne criticato in Gran Bretagna ritenendolo un inutile
provocazione verso l’Urss, mentre venne accolte a Washington come monito lanciato a Stalin per
porlo in guardia dal proseguire una politica considerata aggressiva.
Nelle intenzioni di Stalin non vi era quella di intraprendere uno scontro con l’Occidente ed era in
parte convinto che i maggiori problemi sarebbero sorti con la Gran Bretagna, era però anche
determinato a sfruttare al massimo i vantaggi che la vittoria sulla Germania gli aveva assicurato.
Egli procedette con una politica prudente che seppe adeguarsi alle circostanze, senza mai perdere
di vista l’obiettivo di fondo, ovvero l’affermazione del comunismo. Al di là di ciò vi era la
convinzione staliniana che la II guerra mondiale avesse rappresentato solo un intervallo
nell’ineluttabile scontro fra comunismo e capitalismo e che le intenzioni degli occidentali fossero
nel lungo periodo di carattere aggressivo. Nonostante la conclusione delle ostilità, Stalin evitò una
smobilitazione completa delle forze armate e l’armata rossa restò con la sua presenza in tutta
l’Europa centro-orientale.
Anche all’interno dell’Urss Stalin mantenne un clima di rigida chiusura e di preparazione ad un
imminente conflitto. A questo riguardo basti ricordare la persecuzione avviata nei confronti di gran
parte di coloro che nel corso della guerra avevano avuto contatti anche ufficiali con delegazioni e
responsabili anglo-americani. È
inoltre probabile che agli inizi del 1946 Stalin si fosse già convinto che i margini di manovra nei
rapporti con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna fossero quasi del tutto scomparsi e in un discorso
pubblico tenuto a febbraio illustrò la cosiddetta teoria dei due campi indicando l’incompatibilità e
l’inevitabilità dello scontro fra comunismo e capitalismo. Va comunque ricordato come la politica
del Cremlino e il processo di sovietizzazione godettero di un certo grado di consenso. Sulla
formazione del consenso influiva una propaganda martellante ed efficace, mirante al grande
obiettivo della creazione di una società socialista.

˃ LA GERMANIA DEL DOPOGUERRA:


Importante nel determinare lo scontro fra Est e Ovest fu la questione della Germania.
All’indomani dell’occupazione del territorio tedesco e della nascita delle quattro zone, sebbene i
vincitori avessero preso l’impegno di considerare la Germania come un’unica entità e si ispirassero
agli obiettivi di smilitarizzazione e denazificazione, ognuno di loro avviò ben presto una politica
autonoma verso l’area sotto il proprio controllo.
Per ciò che riguarda la zona di occupazione sovietica, in un primo tempo le autorità russe
esercitarono una brutale azione di rivalsa nei confronti dei tedeschi, con violenze indiscriminate di
vario genere e con una spietata persecuzione nei riguardi dei nemici di classe, che spesso vennero
deportati o finirono in campi di concentramento. A questo periodo seguì poi una politica più
ragionata, mirante a creare un interlocutore tedesco nella figura del partito comunista. A questo
punto le persecuzioni si limitarono ai nemici di classe (industriali, proprietari terrieri ecc).
Oltre alle ovvie conseguenze derivanti dalle distruzioni materiali, della crisi morale e del
sostanziale blocco dell’attività produttiva, la Germania, soprattutto le zone occidentali, dovettero
affrontare il peso di milioni di tedeschi che erano fuggiti dai territori passati sotto il controllo
polacco, coloro che erano stati espulsi dalla Cecoslovacchia e coloro che erano fuggiti da altre zone
di occupazione sovietica.
La terribile situazione della popolazione tedesca e la constatazione circa le scelte autonome
compiute da Mosca nella propria zona di occupazione furono le cause che spinsero i governi di
Washington e di Londra a rivedere parzialmente il loro atteggiamento nei confronti delle aree
sotto il loro controllo.
Dal 1° gennaio 1947 le zone di occupazione americana e britannica si sarebbero fuse
economicamente dando origine alla cosiddetta Bizona, consentendo alle strutture economiche di
quest’area di riprendere almeno in parte le proprie attività., lasciando tra l’altro ai tedeschi forme
di amministrazione autonoma. Stalin considerò con sospetto la costituzione della Bizona.

˃ TURCHIA E GRECIA:
Nonostante questi importanti sviluppi una scelta determinante che avrebbe condotto alla rottura
fra Est e Ovest venne presa nei primi mesi del 1947, quando l’Unione Sovietica avanzò richieste nei
confronti della Turchia, a proposito dei distretti ottenuti dopo la disgregazione dell’Impero zarista,
premeva inoltre su una modifica degli accordi per avere libero accesso al Mar Mediterraneo. La
Turchia si era sentita minacciata e si rivolse all’occidente.
La situazione più grave era però in Grecia dove si erano riaperte le ostilità tra il Partito comunista,
che aveva esteso il suo controllo sulle aree settentrionali del paese, e le forze conservatrici. La
Gran Bretagna che aveva sostenuto fino ad allora il governo monarchico di Atene si appellò
all’amministrazione americana perché non era più in grado di reggere lo sforzo militare ed
economico a sostegno della Grecia. La Gran Bretagna era ormai certa che non ci fosse più margine
di dialogo con l’Urss, ma non possedeva le risorse per opporsi da sola alla minaccia sovietica,
l’unica soluzione possibile era il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nelle vicende europee e la
situazione greca appariva propizia per riuscire in tale intento.
In realtà l’amministrazione Truman era scesa alle stesse conclusioni ma il presidente aveva
bisogno di un pretesto che gli consentisse di avviare una politica di intervento in Europa.
Il 12 marzo Truman teneva un importante discorso di fronte a una sessione congiunta del
Congresso, pur non nominando mai espressamente il comunismo e l’Unione Sovietica, egli
dichiarò che gli Stati Uniti dovevano impegnarsi a sostenere ovunque nel mondo tutti quei governi
che si fossero sentiti minacciati da un pericolo esterno o dalla sovversione interna.
La conseguenza di questa presa di posizione fu lo stanziamento di 400 milioni di dollari in aiuti
economici e militari alla Grecia e alla Turchia. Il discorso che sarebbe poi divenuto noto come
“dottrina Truman” rappresentava l’avvio del coinvolgimento americano nella difesa dell’Europa e
una prima espressione della politica del cointainment.
˃ LA NASCITA DI DUE SISTEMI CONTRAPPOSTI:
˃Di fronte alla posizione americana l’Europa mostrava all’indomani della fine del conflitto un a
situazione disastrosa. Rivalità, divisioni e incomprensioni caratterizzavano il quadro politico
europeo postbellico, impedendo la ripresa e facendo presagire il possibile ricorso scelte
protezioniste, prospettiva che preoccupava le autorità americane, le quali avevano bisogno di un
sistema economico internazionale aperto dove investire i capitali accumulati e trovare sbocco alle
proprie ingenti potenzialità produttive.
Si poneva comunque il problema di come comportarsi con l’Urss e i paesi che stavano passando
sotto il controllo comunista. A questo proposito l’impostazione dei progetti americani avrebbe
comportato clausole talmente stringenti da costringere Mosca a rifiutare o ad accettare la
riproposizione di un’economia di mercato dove Stalin la stava rapidamente eliminando. Altro
evento significativo per la determinazione della politica estera americana era l’avvicendamento al
vertice del Dipartimento di stato, alla cui testa salì Marshall (un militare).
Marshall affrontò il primo confronto diretto con i sovietici nel marzo del 1947, quel mese infatti,
dopo la conclusione dei trattai di pace con i satelliti della Germania, si apriva a Mosca la prima
sessione della conferenza dei quattro ministri degli esteri sul trattato di pace tedesco. Nel corso
dei negoziati protrattisi sino ad aprile si giunse a un’impasse, con americani e britannici in netto
contrasto con le tesi sovietiche, mentre la delegazione francese agiva in maniera autonoma.
Mentre le due delegazioni occidentali sostenevano l’idea di creare uno stato tedesco federale, i
sovietici puntavano a uno stato centralizzato, e i francesi, da parte loro, non avevano abbandonato
la tradizionale speranza di spezzare l’unità della Germania. La conferenza si concluse con un niente
di fatto.
Marshall era ormai convinto che Stalin non intendesse raggiungere alcun serio accordo sulla
Germania, che i sovietici puntassero all’ulteriore deterioramento della situazione economica e
sociale in Europa e che attendessero il completo riarmo americano dal vecchio continente per poi
potervi imporre la propria egemonia. Gli Stati Uniti dovevano reagire partendo dall’’obiettivo della
ricostruzione dell’economia europea.
In un discorso Marshall annunciò l’intenzione americana di lanciare un grande piano di aiuti per la
rinascita dell’economia europea. Le dichiarazioni del segretario di stato sembravano non escludere
dal progetto l’Urss e le nazioni dell’Europa centro-orientale. Era comunque chiaro come il progetto
fosse l’espressione della volontà dell’amministrazione Truman di opporsi alla minaccia di Stalin, il
quale costrinse alcuni paesi che mostrarono interesse verso l’iniziativa statunitense a rifiutare
qualsiasi coinvolgimento nel progetto. Stalin aveva infatti interpretato il piano lanciato da Marshall
come il tentativo di restaurare il capitalismo nelle nazioni che si stavano avviando verso il
socialismo e quindi come una manovra aggressiva da parte statunitense destinata a privare l’Urss
dei vantaggi e dell’influenza conseguiti nell’Europa centro-orientale. Al progetto, noto come piano
Marshall, aderirono 16 paesi. Si realizzò così una prima divisione dell’Europa.
Dai leader sovietici il piano Marshall fu considerato come una sorta di dichiarazione di guerra, di
fronte alla quale era necessario serrare i ranghi del movimento comunista e rispondere
rapidamente. Nel settembre del 1947 si teneva in Polonia una riunione segreta dei leader dei
partiti comunisti al potere in Europa. Questi esposero l’interpretazione del piano Marshall come
una manovra aggressiva del capitalismo alla quale tutto il movimento comunista doveva reagire,
non mancarono forti critiche ai comunisti italiani e francesi, accusati di debolezza. Fra le scelte
compiute vi furono da un lato l’elaborazione di una strategia per sabotare gli americani e la nascita
di un organismo di coordinamento e informazione fra i partiti comunisti, il Comiform.
Il 1947 si concludeva con un ulteriore evento che rivelava la crescente tensione fra Est e Ovest: in
novembre si riuniva a Londra una nuova sessione della conferenza dei ministri degli Esteri delle
grandi potenze con in agenda la sorte della Germania, i rappresentanti dei Quattro non trovarono
alcun accordo. La mancata soluzione del problema tedesco, il lento avvio del flusso di aiuti
statunitensi, l’azione dei partiti comunisti determinarono un crescente timore nei dirigenti
moderati dell’Europa occidentale, in particolare in Francia.
Washington e Londra avevano deciso di trarre le conseguenze del fallimento della conferenza di
Londra dei quattro ministri degli esteri; era stato infatti dato avvio a un negoziato anglo-franco-
americano con l’obiettivo di procedere autonomamente riguardo al futuro delle zone di
occupazione occidentale della Germania. Le trattative si tradussero nella decisione di favorire la
costituzione di uno Stato tedesco occidentale, che seppur sotto il controllo alleato avrebbe
sviluppato ampie forme di autonomia e avrebbe visto ripartire l’economia tedesca.
Stalin da parte sua procedeva nel rafforzamento del suo blocco, le autorità russe procedettero alla
chiusura degli accessi ferroviari e stradali fra la parte occidentale della Germania e Berlino ovest
dando avvio a quello che venne definito il blocco di Berlino. Nelle intenzioni di Stalin non vi era
quella di scatenare un’aggressione militare, piuttosto con l’interruzione dei rifornimenti di viveri e
combustibili agli abitanti della ex capitale tedesca, di costringere gli alleati occidentali ad
andarsene. Americani e inglesi valutarono anche l’idea di forzare il blocco, ma scelsero un’azione
meno provocatoria e più efficace, dando inizio ad un colossale ponte aereo che per quasi un anno
consentì l’approvvigionamento. Questo contribuì a scacciare dalle percezioni inglesi e americane il
ricordo negativo del popolo tedesco e proponendolo implicitamente come un possibile alleato nei
confronti di un nuovo nemico, l’Unione Sovietica.
Fu nel clima sempre più teso della fase iniziale del blocco di Berlino che si svolsero le trattative per
la realizzazione dell’alleanza atlantica, che fu siglata da 12 nazioni il 4 aprile 1949 a Washington.
Poco dopo, l’Unione Sovietica, comprendendo l’inutilità del blocco di Berlino, consentiva la ripresa
della comunicazione fra la Germania federale e Berlino ovest. In estate l’Occidente scopriva che
l’Unione Sovietica aveva proceduto al primo esperimento nucleare, il monopolio americano
dell’arma atomica era durato solo quattro anni.
˃ LA GUERRA DI COREA:
Sin da Jalta i tre grandi avevano deciso che la Corea (protettorato Giapponese) venisse trasformato
in uno stato indipendente. Alla fine del conflitto il territorio settentrionale della Corea era stato
occupato dall’Urss e quella meridionale dagli Stati Uniti. Non riuscendo a giungere ad una
soluzione congiunta circa il futuro della penisola favorirono la creazione (1949) di due stati
separati e ostili fra loro: la Corea del nord sotto il controllo di un leader comunista e la Corea del
sud, guidata da un conservatore anticomunista.
Gli americani dichiarando esplicitamente come la Corea del sud, seppur sostenuta
economicamente dal governo americano, non rappresentava per gli stessi un elemento centrale
nella loro politica. È probabile che proprio queste affermazioni spinsero i leader nordcoreani a
ritenere possibile il conseguimento della riunificazione del paese con l’uso della forza, tenendo
anche conto dell’esigua presenza di truppe americane nella penisola e la debolezza del governo di
Seul (sud). Il 25 giugno 1950 truppe nordcoreane attraversavano il confine e invadevano la Corea
del sud. Stalin non si oppose alla decisione della Corea del nord, probabilmente perché la
situazione gli appariva propizia per distogliere l’attenzione degli americani dall’Europa.
La reazione statunitense però fu rapida ed efficace, alla fine di agosto la Corea del sud era stata in
gran parte liberata, l’azione di Washington inoltre si estese anche sul campo politico:
l’amministrazione trasse vantaggio dall’assenza nel Consiglio di sicurezza dell’ONU del
rappresentante sovietico per condannare la Corea del nord come stato aggressore, nonché
l’impegno militare delle Nazioni Unite in Corea.
Sembrò che il carattere del conflitto fosse mutato dalla restaurazione dell’indipendenza in Corea
meridionale alla riunificazione del paese sotto l’occidente. Inoltre le truppe dell’ONU si
avvicinarono sempre di più al confine con la Repubblica popolare cinese e il governo di Pechino si
sentì direttamente minacciato e dopo la consultazione con Stalin che garanti il suo appoggio,
lanciò una serie di moniti ai responsabili americani, che non compreso subito la serietà delle
minacce. La Cina scatenò infatti un’offensiva che travolse le truppe americane; McArtur riuscì a
reagire, seppur con grande difficoltà, e ristabilì il confine fra i due paesi. Al suo rientro in patria fu
accolto con molto entusiasmo, simbolo di una crescente insoddisfazione dell’opinione pubblica
americana verso la politica del containment, che non sembrava in grado di eliminare il pericolo
comunista.

˃ LA NASCITA DELLA NATO:


Era chiaro come Stalin avesse cercato di sfruttare la situazione creatasi in Corea per indebolire la
posizione dell’Occidente in Europa. Non si poteva ignorare nemmeno la debolezza militare del
patto atlantico, che aveva spinto fin da subito gli europei occidentali a sollecitare le autorità
americane a dare un contenuto all’alleanza con il trasferimento di uomini e mezzi nel continente
europeo. La soluzione che Washington e Londra individuarono nell’estate del 1950 fu il rapido
riarmo della Germania Ovest e il suo inserimento nel contesto dell’alleanza atlantica. Nonostante
l’atteggiamento negativo di Parigi si proseguì nell’elaborazione di progetti difensivi che si
fondavano sul riarmo tedesco. Tra 1950 e 1951 si creò la struttura militare del patto atlantico,
dando origine alla North Atlantic Treaty Organization, NATO, alla guida fu nominato il generale
Eisenhower (futuro presidente degli Stati Uniti).
˃ LA MORTE DI STALIN E LA PRIMA DISTENSIONE:
Due mesi dopo l’insediamento di Eisenhower alla Casa Bianca, il 5 marzo 1953 Stalin moriva. Il
piccolo gruppo dei suoi più stretti collaboratori si trovò all’improvviso ad assumere la pesante
eredità di un potere che si era concentrato nelle mani di una sola persona. Gli eredi di Stalin
decisero per il momento di guidare il paese attraverso una direzione collegiale: Malenkov che
allora appariva il più forte candidato alla successione si pose alla guida dell’esecutivo. La nuova
dirigenza politica sembrava propensa a cambiare alcuni caratteri della politica staliniana. Sul piano
interno molti prigionieri politici vennero gradualmente liberati e si ammise un qualche grado di
dibattito all’interno del partito. Malenkov aveva indicato come il contrasto fra Est e Ovest non
dovesse per forza tradursi in guerra nucleare e molto rapidamente l’Urss decise di mostrare un
volto benigno, avviando una serie di campagne di pace, dichiarandosi desiderosa di aprire un
dialogo con l’Occidente. Le motivazioni di questa svolta in politica interna e in politica estera era
dovuta in parte ai timori interni per la lotta scatenatasi all’interno del paese per conquistare la
leadership indiscussa del paese, un conflitto di potere che si sarebbe conclusa solo due anni dopo
con l’affermazione del segretario del partito, Chruscev. Questo breve periodo venne definito
prima distensione.
Eisenhower trasse vantaggio dall’atteggiamento più morbido assunto dall’Urss per concludere nel
giugno 1953 un armistizio in Corea, che poneva termine, seppur senza un trattato di pace, a un
conflitto logorante che gli Stati Uniti non erano stati in grado di vincere, restava comunque il pieno
sostegno di Washington all’alleato sudcoreano.
Un nuovo importante incontro si teneva a Parigi, nel corso del quale venivano approvati tre
accordi che segnavano un momento fondamentale nella strutturazione del sistema occidentale.
1) La prima intesa che coinvolgeva i membri della NATO e la Repubblica federale sanciva il riarmo
della Germania Ovest e il suo inserimento nell’alleanza atlantica;
2) Il secondo accordo, fra i 5 membri del patto di Bruxelles, la Germania occidentale e l’Italia, dava
origine all’Unione dell’Europa occidentale;
3) Il terzo trattato, riguardante le tre potenze occidentali vincitrici della guerra prevedeva la
concessione della piena sovranità alla Repubblica federale, con l’eccezione di Berlino ovest, ove
per volontà dello stesso governo tedesco restavano in vigore gli accordi della II guerra mondiale.
L’Unione Sovietica non restò indifferente alla firma degli accordi di Parigi, venne avviata una nuova
campagna propagandistica che risultò comunque vana e non impedì la ratifica delle intese
raggiunte. Quale ovvia reazione nel maggio del 1955 l’Unione Sovietica riuniva nella capitale
polacca i rappresentanti dei paesi comunisti europei che davano origine a un’alleanza militare, il
patto di Varsavia, singolarmente modellata in ampia misura sul patto atlantico. Il Cremlino avviò
contatti con il governo austriaco facendo intendere la propria disponibilità a ritirare le truppe
dell’Armata Rossa dall’Austria a condizione che le potenze occidentali facessero altrettanto e che
Vienna compisse una scelta di neutralità. Sebbene gli austriaci si sentissero legati agli occidentali il
loro obiettivo primario era quello di porre fine ad un’occupazione militare che si protraeva da dieci
anni, presi alla sprovvista gli Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia non poterono che acconsentire.
Di fronte all’attivismo sovietico, l’Occidente appariva lento e incapace di elaborare una strategia di
ampio respiro. Fu Eden, che aveva sostituito Churchill alla guida del governo a ritenere che fosse
giunto il momento di prendere l’iniziativa, e fece propria l’idea del vecchio leader conservatore per
un summit fra i quattro grandi.
Il progetto vide la reazione positiva di Parigi e l’assenso poco convinto dell’amministrazione
americana. A loro volta i sovietici non si ritrassero di fronte alla proposta occidentale, dando
origine al vertice di Ginevra del 1955. La conferenza di Ginevra non diede alcun risultato concreto,
ma venne percepita dall’opinione pubblica internazionale come un successo e come il simbolo
della prima distensione.
In realtà il summit ebbe un significato più profondo, in primo luogo gli Stati Uniti e l’Urss, con i
rispettivi leader, emersero come i veri protagonisti dello scenario internazionale relegando la
Francia e la Gran Bretagna al ruolo di comprimari, l’Urss d’altronde vedeva riconosciuta la sua
posizione di grande potenza. Infine l’ipotesi di riunificazione tedesca era definitivamente
accantonata.
CAP. 3 L’EMERGERE DI UN NUOVO MONDO, INDIPENDENZA,
MOVIMENTI DI LIBERAZIONE, NON ALLINEAMENTO:

La II guerra mondiale rappresentò un momento di svolta radicale anche per i grandi imperi
coloniali controllati dalle potenze europee. Varie furono le ragioni del rapido declino degli imperi,
me esse trovarono nel conflitto mondiale un processo catalizzatore e la guerra fu un fattore di
accelerazione di alcuni processi.
1) In primo luogo va indicato che gli ideali ai quali la grande alleanza dichiarò di ispirarsi non
poterono lasciare indifferenti i popoli dei territori soggetti, anzi trovarono in essi il riconoscimento
di aspirazioni che erano già state espresse nei decenni precedenti e che ora avevano trovato
precisa codificazione in vari documenti (es: carta dell’Atlantico, carta delle Organizzazione delle
Nazione Unite).
2) Gli Stati Uniti, a dispetto della stretta alleanza con la Gran Bretagna, non mancarono di
sottolineare la loro identità di nazione sorta da una guerra d’indipendenza contro un dominio
coloniale, e in più di un’occasione Roosevelt sollecitò Churchill a concedere l’indipendenza all’India
al termine delle ostilità. Inoltre il presidente si mostrò scettico sulla possibilità che la Francia
riacquistasse il suo ruolo di potenza coloniale.
3) Quanto all’Unione Sovietica, se durante la guerra Stalin non si espresse apertamente sul
processo di decolonizzazione e la sua visione di politica estera restò in ampia misura eurocentrica,
ma sicuramente appariva ai suoi occhi come l’inevitabile acuirsi delle contraddizioni all’interno del
sistema capitalista, e quindi di conseguenza un fenomeno da sostenere.
Non si deve comunque ritenere che al termine del conflitto le autorità inglesi e francesi, come
d’altronde quelle delle altre potenze europee minori che controllavano più o meno estesi territori
d’oltremare, fossero disposte a rinunciare al ruolo imperiale dei loro paesi o che ritenessero giunta
al termine l’età dei grandi possedimenti coloniali, al contrario loro primario obiettivo fu la
salvaguardia delle strutture imperiali.

˃ GRAN BRETAGNA:
Per ciò che riguarda la Gran Bretagna, a dispetto delle esortazioni di Roosevelt, le autorità si
mossero nel corso del conflitto nella speranza non solo di mantenere in vita l’Impero, ma anzi di
rafforzarlo. Il risveglio per i responsabili britannici all’indomani della fine delle ostilità fu però
brusco e in alcuni casi particolarmente drammatico. Il maggiore e più immediato problema che
Londra dovette fronteggiare fu quello dell’indipendenza dell’India, dove il governo britannico
dovette scontrarsi con la ferma opposizione del Partito del congresso, che richiedeva
l’indipendenza immediata e totale, per quanto non giungesse a fomentare un’aperta ribellione
contro i dominatori.
Da parte sua il governo Churchill fece vaghe promesse circa una possibile forma di self-
government, che avrebbe però visto i britannici mantenere il controllo di alcuni punti vitali
dell’amministrazione, quali ad esempio le forze armate. Londra continuò a sfruttare e rivalità
etnico-religiose che caratterizzavano l’India, in particolare una forte presenza musulmana che non
riconosceva nel Partito del congresso.
Gli inglesi inoltre contavano sugli stati principeschi, in cui i sovrani spesso collaboravano con le
autorità inglesi ben sapendo che i loro poteri e privilegi sarebbero stati posti in discussione in un
futuro stato indiano indipendente. Di fronte all’impossibilità di realizzare un accordo fra la Lega
musulmana e il partito del congresso, gli inglesi posero la decisione di porre i leader indiani di
fronte alle loro responsabilità e alla necessità di formare un governo provvisorio che
comprendesse sia esponenti indù che musulmani, si sottolineò inoltre la determinazione da parte
inglese a un progressivo ritiro delle proprie forze. La situazione si fece immediatamente grave con
sanguinosi scontri fra le due comunità, ciò nonostante le pressioni inglesi portarono alla
formazione di uno stato unitario, ma questo si mostrò incapace di agire.
Londra si trovava in una situazione di stallo e dichiarò che entro il giugno 1948 gli inglesi avrebbero
lasciato l’India, fu nominato viceré Mountbatten, influente membro della famiglia reale con il
compito di gestire il processo di indipendenza.
Nel 1947 il vice regno diventata indipendente con la creazione di due stati separati: l’Unione
Indiana e il Pakistan (quest’ultimo formato da due tronconi a ovest e est separati tra loro da
centinaia di chilometri di territorio indiano). Dal punto di vista inglese vi era però la convinzione
che sia India che Pakistan sarebbero rimasti per lungo tempo sotto l’influenza di Londra.

˃ FRANCIA:
La disgregazione dell’impero francese fu costellata di episodi particolarmente tragici, si intrecciò
spesso con le vicende della guerra fredda ed ebbe riflessi di grande portata sugli equilibri interni
francesi. Il primo ambito che vide impegnata la Francia fu quello indocinese dove si sviluppò un
lungo conflitto coloniale tramutatosi in scontro fra est e ovest, che avrebbe poi visto il progressivo
coinvolgimento degli Stati Uniti in quella che sarebbe divenuta la più drammatica e lacerante
guerra condotta da Washington ne quadro del confronto con il mondo comunista.
• All’indomani della capitolazione della Francia l’Indocina francese (Cambogia, Laos e Vietnam)
dovette affrontare fin dal 1940 la presenza di truppe giapponesi. Gli anni del conflitto furono
caratterizzati da un precario equilibrio fra gli amministratori coloniali e le autorità di Tokyo,
mentre nella parte settentrionale del Vietnam veniva creato un movimento nazionalista, il
Viet Minh, al cui interno era centrale la funzione giocata dal Partito comunista indocinese.
Liberata Parigi, il governo provvisorio guidato da de Gaulle, che ormai controllava quasi tutto
l’impero, decise di inviare una missione segreta in Indocina allo scopo di fomentare una rivolta
contro la presenza giapponese. Le autorità giapponesi non ignoravano però i progetti francesi e
anticiparono ogni iniziativa contro di loro, in breve i militari nipponici assumevano il controllo di
tutta l’Indocina spazzando via qualsiasi resistenza francese. Appellandosi inoltre ai loro pretesti
ideali anticolonialisti i giapponesi favorirono la nascita di un Vietnam indipendente.
A Parigi nel frattempo il governo promette la nascita nel dopoguerra la nascita di una Federazione
indocinese dotata di ampia autonomia. Da parte sua il Viet Minh lanciò l’insurrezione generale
contemporaneamente alla richiesta di capitolazione da parte giapponese e il 2 settembre
proclamava la nascita della Repubblica del Vietnam, che poté contare sull’appoggio di Mosca e di
Pechino.
La Francia dal canto suo cercava di convincere l’amministrazione americana a sostenere lo sforzo
militare francese in Indocina con l’argomentazione in base alla quale in quella parte dell’Asia Parigi
stava difendendo non i suoi interessi imperiali, bensì le posizioni dell’Occidente nello scontro con il
comunismo. Dopo la nascita della Repubblica popolare cinese e lo scoppio della guerra di Corea,
Washington era stata costretta a concentrare l’attenzione sull’Asia come terreno del confronto fra
Est e Ovest, inoltre la Francia era un interlocutore fondamentale nel quadro della guerra fredda in
Europa. Tra il 1950 e 1951 gli Stati Uniti iniziarono così a finanziare la guerra francese in Indocina.
I francesi proposero poco dopo una “pace con onore” per porre fine alle ostilità, per evitare che
una pace troppo onerosa per la Francia finisse col provocare un intervento diretto di Washington,
sia Mosca che Pechino fecero pressioni per accettare un’intesa non del tutto sfavorevole per la
Francia. Gli accordi conclusi a Ginevra prevedevano la completa indipendenza di Laos e Cambogia,
il loro non allineamento, il ritiro delle truppe francesi. Quanto al Vietnam in una fase transitoria
esso sarebbe stato diviso in due entità, la Repubblica democratica del Vietnam del nord a guida
comunista e la Repubblica del Vietnam del sud. Nel giro di anno e mezzo si sarebbero dovute
svolgere elezioni libere che avrebbero dato origine a uno stato unitario.
• Mentre la Francia era stata costretta a un impegno militare crescente in Indocina, Parigi non
aveva potuto trascurare come le aspirazioni verso l’indipendenza stessero maturando in altre parti
dell’unione francese, in primo luogo nei due protettorati della Tunisia e del Marocco.
Per ciò che concerne il territorio tunisino si era manifestato un movimento, il Destour, che
reclama maggiori diritti per la popolazione locale, avvenne però una spaccatura nel movimento
con la formazione del Neo-Destour in cui obiettivi erano l’applicazione del suffragio universale e
l’avvio di un processo graduale verso la fine del protettorato e la piena indipendenza.
Una serie di vaghe promesse da parte della quarta repubblica suscitarono la dura reazione dei
coloni residenti in Tunisia. Alla fine del 1951 a fronte di gravi disordini il governo di Parigi dichiarò
che la propria politica si sarebbe basata sulla creazione di un’unione franco-tunisina, che in realtà
sembrava confermare l’intenzione di preservare l’influenza francese, come reazione nel
movimento e nel protettorato cominciò a manifestarsi un’opposizione armata. A questo punto il
governo francese decise di concedere alla Tunisia un’ampia autonomia, che nel volgere di soli due
anni avrebbe condotto alla piena indipendenza.
• Quanto al protettorato del Marocco la Francia comprese che non vi era soluzione se non
raggiungere un accordo con il deposto sultano e l’indipendenza. Nell’autunno del 1955 si
raggiungeva un accordo con Mohammed ben Yussef, in cui si concludeva un accordo che sanciva
la promessa della piena indipendenza del Marocco, conseguita poi in maniera ufficiale l’anno
successivo.
• L’ultimo capitolo della presenza francese in Nord Africa fu il più drammatico e sanguinoso. Nel
periodo fra le due guerre mondiali si erano sviluppati anche in Algeria sentimenti nazionalisti,
comunque le loro richieste sembravano non andare oltre la concessione di un’ampia autonomia e
di maggiori diritti. Il 1° novembre 1954 veniva lanciato un appello all’insurrezione e veniva
costituito il fronte di liberazione nazionale (FLN). In risposta il governo di Parigi avvio un’intensa
azione di repressione, e si cercò di avviare una politica di riforme che rispondesse ad alcune
esigenze della popolazione. I negoziati ufficiali si aprirono l’anno successivo, il 18 marzo 1962
venivano siglati gli accordi che portavano alla piena indipendenza dell’Algeria.
˃ IL MEDIO ORIENTE DALLA NASCITA DI ISRLAELE ALLA CRISI DI SUEZ:
• Nel corso del secondo conflitto il problema dell’emigrazione ebraica verso la Palestina e la
posizione ambigua e spesso contraddittoria assunta dalle autorità inglesi erano state fra le ragioni
delle forti simpatie manifestatesi in alcuni paesi arabi nei confronti dell’Asse. Da parte sua Londra
aveva invece espresso l’intenzione di mantenere, anzi se possibile di accrescere, la propria
influenza in Medio Oriente. Dal punto di vista politico Londra elaborò un progetto basato sulla
suddivisione del territorio palestinese in quattro entità. Questo piano scontentò sia gli arabi che gli
ebrei e la questione venne demandata all’ONU che creò un’apposita commissione la UNSCOP, la
cui maggioranza dei membri si espresse a favore della costituzione di due stati separati (1947),
l’uno ebraico, l’altro arabo. Questa soluzione appariva più favorevole dal punto di vista territoriale
per gli ebrei rispetto al piano Morrison. Il governo inglese abbandonò il territorio nel 1948 e pochi
giorni dopo Israele si dichiarò stato indipendente e dovette immediatamente affrontare la
reazione militare degli stati arabi confinanti.
Durante il conflitto l’ONU cercò di elaborare una soluzione di compromesso che avrebbe in parte
favorito gli arabi palestinesi, ma questa fu respinta con l’intervento determinante degli Stati Uniti.
Nel 1949 Israele entrava anche a far parte delle Nazioni Unite.
Il Medio Oriente era considerato comunque dalla Gran Bretagna come un’area di diretto e vitale
interesse. Oltre al ruolo di via di comunicazione strategica svolto dal canale di Suez, centrale era la
questione del controllo degli importanti giacimenti petroliferi in territorio iraniano e iracheno e i
protettorati britannici del golfo del Persico, gli interessi inglesi in questo settore si intrecciavano
con quelli statunitensi, anche le amministrazioni americane sin dalla II guerra mondiale e ancor di
più con l’avvio della guerra fredda, si erano infatti rese conto dell’importanza del controllo del
petrolio, la fonte energetica che stava ormai divenendo preponderante, e Washington aveva
stretto intensi rapporti con l’Arabia Saudita.

• in Egitto la dinastia guidata da re Faruq veniva rovesciata nel luglio del 1952 da un colpo di stato
militare guidato da un generale (Naguib) che rimase al governo per breve tempo e prese il suo
posto il colonnello Nasser che avrebbe finito per rappresentare un punto di riferimento per molti
paesi che stavano uscendo dalla realtà coloniale. Durante la prima fase del nuovo regime militare,
la dittatura di Naguib venne accolta con qualche favore negli ambienti occidentali. Il governo del
Cairo concluse un accordo con Londra circa il futuro del Sudan, già condominio anglo-egiziano,
accettando la soluzione britannica che condusse all’indipendenza del paese.
Nel 1954 venne inoltre negoziato e siglato un nuovo trattato anglo-egiziano in cui Londra
riconosceva il canale di Suez come parte integrante del territorio egiziano e accettava di evacuare
tutte le installazioni militari entro venti mesi, riservandosi di poter intervenire nel caso in cui
l’Egitto fosse stato attaccato.
Dall’Atlantico fino all’Asia orientale si estendevano una serie di alleanze che vedevano gli Stati
Uniti come stato fondatore o come ispiratore. Era quasi ovvio che l’Unione Sovietica giudicasse
queste decisioni una sorta di tentativo di accerchiamento da parte dell’amministrazione
americana.
Di fronte all’attivismo di Nasser e al crescente stato di tensione in Medio Oriente, Eisenhower
ritenne comunque di sfruttare nei rapporti con l’Egitto la carta dell’aiuto economico, tenendo
conto del forte interesse di Nasser per lo sviluppo del paese. L’amministrazione americana si
dichiarò a sostenere economicamente un progetto egiziano ma alcuni atteggiamenti di Nasser
spinsero gli americani a cancellare gli aiuti economici previsti. Quale risposta a questa decisione il
26 luglio 1956 Nasser annunciava la nazionalizzazione della Compagnia del canale di Suez. Al di là
dell’aspetto economico, la compagnia del canale era a capitale anglo-francese, la mossa di Nasser
poneva in grande difficoltà il governo inglese, e le autorità francesi già costrette a concedere
l’indipendenza ad altri paesi. Si trattava non solo di una questione di prestigio, ma della possibilità
di continuare a essere considerate grandi potenze. Gran Bretagna e Francia in una prima fase
scelsero la via diplomatica, ovviamente respinta da Nasser, e fallimentare risultò anche il tentativo
anglo-francese di rivolgersi all’ONU a causa di un veto sovietico.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti per poter scendere in campo in favore degli anglo-americani
serviva un pretesto che consentisse un intervento militare senza che esso venisse considerato
come un’aggressione da parte dell’opinione internazionale. Tale scelta fu offerta dal governo di
Tel Aviv, sempre occupato delle intenzioni di Nasser e pronto a scatenare un conflitto preventivo
contro l’Egitto. Alla fine di ottobre si tenne un incontro segreto fra responsabili inglesi, francesi e
israeliani: Israele avrebbe scatenato un attacco lampo contro l’Egitto nel Sinai consentendo così a
Londra e Parigi di appellarsi al trattato anglo-egiziano e di intervenire con le proprie truppe per
assicurare la libera circolazione lungo il canale.
Il 29 ottobre le forze israeliane invadevano il Sinai e sconfiggendo rapidamente le unità egiziane si
avvicinavano al canale. Inglesi e francesi ponevano il veto in sede di consiglio di sicurezza a una
richiesta sovietica per il ritiro israeliano e annunciavano la loro intenzione di intervenire in Egitto.
Sul piano militare il piano anglo-franco-israeliano aveva ottenuto un pieno successo, ma Londra e
Parigi non avevano tenuto conto della reazione delle due superpotenze. Scontate furono la
condanna dell’Urss e la minaccia di Chruscev di intervento militare a fianco dell’Egitto contro
l’aggressione imperialista. Determinante fu la posizione assunta dagli Stati Uniti, i quali in sede di
Nazioni Unite si affiancarono inaspettatamente all’Urss nella richiesta di un immediato ritiro delle
truppe anglo-francesi e di quelle israeliane. I tre paesi dovette accettare l’ingiunzione delle due
superpotenze.

La crisi di Suez si concludeva così rapidamente con conseguenze diverse per i vari paesi coinvolti.
- Per la Gran Bretagna segnava la fine delle aspirazioni a difendere un ruolo imperiale destinato
ormai a concludersi, vi era inoltre la consapevolezza che a special relationship con Washington
potesse funzionare solo a condizione che Londra accettasse il ruolo di Junior partner rispetto agli
Stati Uniti.
- Quanto a Parigi lo scacco subito a Suez avrebbe accelerato la crisi della Quarta Repubblica e in
numerosi ambienti francesi si sviluppo la convinzione di non poter riporre fiducia negli alleati di
lingua inglese.
- L’Unione Sovietica, senza eccessiva fatica, usciva dalla vicenda avendo acquisito un solido credito
presso i paesi del Medio Oriente, come paladina dei popoli oppressi.
- Vero vincitore della crisi era Nasser, che sconfitto militarmente trionfava politicamente.
˃ L’AMERICA LATINA E IL RAPPORTO CON GLI STATI UNITI:
Per quanto riguarda i rapporti fra gli Stati Uniti con l’America Latina è necessario compiere una
distinzione fra America centrale e America meridionale.
• Per ciò che concerne l’America centrale la presenza americana si manifestò molto presto in
forme anche pesanti (guerra ispanico-americana, sostegno alla secessione di Panama dalla
Colombia, interventi militari nelle vicende del Messico). Si può dunque sostenere che dalla fine
dell’800 gran parte dell’America centrale rappresentassero un’area di diretto interesse per gli Stati
Uniti, dove le amministrazioni americane spesso intervenivano per difendere i loro interessi
strategici ed economici.
• Minore era l’influenza esercitata da Washington sull’America meridionale, dove al contrario
esistevano ancora legami di carattere economico e culturale con l’Europa, i molti paesi
dell’America meridionale esisteva già una tradizione di ostilità nei riguardi dell’imperialismo
statunitense. L’arrivo alla Casa Bianca di Roosevelt rappresentò un’evoluzione nella politica di
Washington verso l’America Latina. Il presidente democratico intese infatti ispirare le relazioni con
le nazioni dell’emisfero meridionale sulla base della collaborazione attraverso quella che venne
definita come politica del buon vicinato.
Con l’aggravarsi della situazione in Europa le autorità statunitensi cominciarono a nutrire crescenti
preoccupazioni nei confronti di una possibile penetrazione del nazismo e del fascismo (sebbene in
misura minore) soprattutto in quei paesi dell’America Latina dove erano presenti comunità di
origine tedesca e italiana.
La strategia di Washington si espresse da un lato attraverso una capillare azione propagandistica
mirante a rendere coscienti i cittadini dei paesi latino-americani circa la minaccia rappresentata
dal nazifascismo all’indipendenza delle Americhe, dall’altro favorendo attraverso le conferenza
panamericane (abituali incontri fra i ministri degli esteri e dei paesi delle Americhe) una serie di
prese di posizione comuni a sostegno degli ideali di democrazia e di opposizione alle dittature
europee.
L’aggressione giapponese a Pearl Harbor e la dichiarazione di guerra da parte tedesca e italiana
agli Stati Uniti concorsero comunque a giustificare le posizioni di Washington e nel corso di unno vi
fu un allineamento alle scelte statunitensi a opera di alcuni fra i maggiori stati dell’America Latina
a dispetto della presenza di comunità di origine germanica e italiana.
Fu comunque con l’amministrazione Eisenhower che l’America Latina rientrò nei timori
statunitensi verso la diffusione del comunismo. Nel giro di pochi mesi la presa del potere da parte
di Fidel Castro a Cuba avrebbe effettivamente posto le premesse per il pieno coinvolgimento
dell’America Latina nelle dinamiche della guerra fredda.
CAP. 4 DALL’ETÀ DELLE CRISI ALLE PREMESSE DELLA GRANDE
DISTENSIONE (1957-1969):

˃ LA CRESCITA DELL’URSS:
A giustificare una percezione positiva dell’Urss contribuì sicuramente la fase positiva che questo
paese stava vivendo. Tra la fine degli anni 50 e 60 l’economia sovietica visse un’evidente fase di
crescita. L’Urss pare porsi all’avanguardia in alcuni settori industriali ad altro livello tecnologico.
Centrale anche per il suo impatto mediatico sull’opinione pubblica mondiale, fu il lancio
(nell’ottobre 1957) del primo satellite orbitante nello spazio, lo Sputnik I, al quale fece seguito un
mese dopo, l’invio dello Sputnik II con a bordo la cagnolina Laika. Nel 1961 Mosca avrebbe
conquistato anche il primato del primo uomo inviato nello spazio, Jurij Gagarin.
Questi successi si tradussero in una serie di dichiarazioni circa la superiorità sovietica, non solo nel
settore spaziale civile, ma anche militare, perché risultò chiaro che a questo punto l’Urss era in
grado di costruire missili balistici intercontinentali (ICBM), che dotati di una testata nucleare
avrebbe potuto colpire l’intero territorio americano. Nell’opinione pubblica statunitense questi
eventi rafforzarono i timori nei confronti di un possibile attacco nucleare sovietico sino al punto da
creare un clima di psicosi.
Eisenhower era preoccupato dalla conseguenza di un’indiscriminata corsa agli armamenti, sia
perché ciò avrebbe favorito un clima di scontro fra le due superpotenze, sia perché convinto che in
tal modo si sarebbero rafforzati gli interessi e l’influenza del complesso militare-industriale
americano, costringendo l’amministrazione a incrementare le spese federali per la difesa. Il
presidente però sapeva di poter contare su uno strumento che gli consentiva di avere importanti
informazioni sullo sviluppo dell’arsenale missilistico dell’Urss. Era stato infatti messo a punto un
aereo in grado di volare a grandi altezze in modo da non essere intercettato e poter così compiere
voli di ricognizione sul territorio dell’Urss. Sebbene questa violazione dello spazio aereo sovietico
rappresentasse un enorme rischio, in più occasioni Eisenhower aveva autorizzato questi voli, che
avevano permesso di raccogliere dati che avevano smentito gran parte delle euforiche
affermazioni di Chruscev sulla capacità sovietica di costruire in breve tempo centinaia di ICBM.

˃ CONTRASTI TRA EST E OVEST:


Il conflitto est-ovest tornò a localizzarsi in Europa, nel luogo dove la divisione del continente si
mostrava in forma più grave e una stabilizzazione appariva più complessa, soprattutto a causa del
divario economico fra la Germania ovest e la repubblica democratica. Questo divario favoriva un
crescente esodo di popolazione dalla Repubblica democratica tedesca (est, Urss) verso la
Repubblica federale di Germania (ovest, occidente), reso possibile proprio dal fatto che fra le due
parti della ex capitale esisteva ancora una sostanziale libertà di circolazione. Questo flusso
migratorio in breve tempo avrebbe messo in discussione la stessa esistenza dalla parte Est della
Germania.
Inoltre il governo di Bonn (ovest) continuava a rivendicare la propria sovranità su tutto il territorio
della Germania. Inoltre Bonn minacciò di rompere i rapporti diplomatici con ogni nazione che
avesse riconosciuto ufficialmente la Rep democratica, una minaccia che la Rep federale contava di
poter sfruttare nei confronti dei paesi di nuova indipendenza. Chruscev reagì inviando una nota
ufficiale alle tre potenze occidentali nel novembre del 1958 in cui chiese che entro sei mesi si
trovasse una soluzione al problema berlinese proponendo la creazione di una città
internazionalizzata e un trattato di pace con la Germania.
Ai momenti di scontro si alternavano episodi che facevano sperare in relazioni più distese fra est e
ovest, d’altronde Chruscev si era fatto interprete dell’ipotesi che la guerra fredda potesse essere
sostituita da una coesistenza pacifica o da una coesistenza competitiva, egli riteneva che nel lungo
periodo il comunismo avrebbe finito con il prevalere e che fosse possibile evitare un conflitto
nucleare grazie alla capacità di attrazione che Mosca avrebbe esercitato sulle nazioni del Terzo
Mondo. L’esigenza di mostrare in vari modi la superiorità del proprio sistema politico, economico e
sociale non era d’altronde elemento esclusivo della politica sovietica.
Inoltre il leader comunista confermò il suo buon senso e l’essere restio a scatenare un conflitto
nucleare, dopo la sua visita negli Stati Uniti su invito di Eisenhower. Qualche mese dopo i
responsabili delle tre potenze occidentali, oltre Eisenhower, l’inglese Macmillan e il francese de
Gaulle, invitarono Chruscev a una conferenza che avrebbe dovuto tenersi a Parigi sulla falsariga di
quella tenuta a Ginevra cinque anni prima. Cruscev accettò la proposta apparentemente con
intenzione costruttive. Qualche settimana prima della conferenza, Eisenhower autorizzò
un’ennesima missione di spionaggio in territorio russo, ma in questa occasione il velivolo venne
abbattuto e il pilota riuscì a salvarsi e fu catturato dai sovietici, che fra i rottami dell’aereo
trovarono le prove dello spionaggio americano, tesi confermata dallo stesso pilota. Per alcuni
giorni i sovietici tennero nascosto l’evento, lasciando che gli Stati Uniti rilasciassero un comunicato
in cui si parlava della scomparsa di un aereo con apparecchiature metereologiche. Fu solo alla
vigilia della conferenza che Chruscev denunciò l’azione di spionaggio chiedendo le scuse del
presidente americano e minacciando in caso contrario di essere pronto ad abbandonare il vertice.
Nonostante i 4 leader fossero ormai convenuti a Parigi Eisenhower pur assumendosi la
responsabilità dell’accaduto non intese scusarsi, come ovvia reazione Chruscev lasciò Parigi.
Varie erano le spiegazioni circa l’atteggiamento del leader sovietico, prima di tutto vi era la
convinzione che gli occidentali non fossero disposti a compiere una serie di concessioni sulla
questione berlinese, l’incidente gli offriva quindi il facile pretesto per non aprire un negoziato.
Inoltre si stava manifestando un crescente divario di opinioni fra Chruscev e Mao, sempre più
critico nei confronti dell’aspirazione al dialogo con l’Occidente nutrita dal leader sovietico,
considerata dal leader cinese come un segno di debolezza e di cedimento nei confronti di
Washington. Chruscev doveva mostrare dunque un atteggiamento intransigente.

˃ CUBA:
Nella seconda metà del 1960 elementi di tensione fra est e ovest si manifestarono in altre parti del
mondo: nei Caraibi un cambiamento di regime nell’isola di Cuba, in un primo momento
considerato un episodio minore e di rilievo locale, stava per offrire all’Urss l’opportunità di porre in
difficoltà l’amministrazione americana. Fu di fronte a un panorama internazionale in apparenza
non favorevole agli Stati Uniti che si svolse la campagna per le elezioni presidenziali. Da un lato
Richard Nixon, dall’altro John Fitzgerald Kennedy che fu eletto presidente.
Il nuovo presidente comprese in maniera chiara che il conflitto con l’Urss aveva assunto un
carattere globale. L’azione della nuova leadership non si esplicò però in maniera così lineare e
incisiva come avrebbe desiderato e non mancarono insuccessi e contraddizioni. L’America centrale
e i Caraibi erano considerati fin dall’800 un’area di influenza statunitense, dove Washington era
spesso intervenuta, anche in maniera pesante, per tutelare i propri interessi strategici, politici ed
economici. In tale contesto Cuba era un caso emblematico, il sostegno americano alle aspirazioni
indipendentiste dei cubani nei confronti della dominazione spagnola era stato uno dei pretesti del
conflitto ispanico-americano del 1898. Liberata dal dominio di Madrid, Cuba fu sottoposta a una
sorta di protettorato statunitense, una volta ottenuta l’indipendenza formale nel 1902, l’isola
continuò infatti a restare sotto una stretta influenza americana. La stessa costituzione cubana
permetteva a Washington di intervenire militarmente se le autorità statunitensi lo avessero
ritenuto necessario.
Nel 1952 al governo c’era Batista, il quale aveva imposto un regime dittatoriale con il sostegno
delle autorità statunitensi. Nella visione di molti cubani la mancanza di libertà e la corruzione
economica e morale si identificavano non solo nel governo di Batista, ma anche nell’invadente
presenza americana. Nel 1953 Fidel Castro si pose alla testa di un esiguo gruppo di oppositori al
regime e diede avvio ad un tentativo di insurrezione che fallì. Castro si rifugiò all’estero dove
conobbe un altro giovane rivoluzionario, l’argentino Ernesto Guevara, influenzato dagli ideali
marxisti. Nel 1956 un piccolo gruppo di altri oppositori al regime Castro e Guevara sbarcarono a
Cuba e diedero avvio a un’azione di guerriglia che in un primo tempo parve fallire.
Progressivamente però i rivoluzionari castristi conquistarono consenso e la stessa amministrazione
Eisenhower decise di non sostenere il sempre più impopolare Batista. In una prima fase quindi
l’atteggiamento di Washington non fu negativo, Castro era considerato un democratico radicale,
non un comunista e inoltre si era incontrato con Nixon durante un viaggio negli Stati Uniti, il quale
ne aveva avuto un’impressione favorevole.
Ben presto però, quando l’Avana decise di nazionalizzare le proprietà statunitensi, la posizione di
Washington divenne ostile, si ritenne comunque di poter piegare Castro il quale invece inasprì la
sua politica caratterizzandola sempre più come antiamericana e antimperialista e negoziando
(come risposta all’embargo americano) un accordo per la vendita di quattro milioni di tonnellate di
zucchero all’Urss e alla Cina. Di fronte all’evolvere delle vicende cubane Mosca colse l’occasione
per mettere in difficoltà Washington in un’area in cui l’Urss non aveva mai svolto alcun ruolo
significativo e venne offerto aiuto economico a Castro, che non solo lo accettò, ma prese ad
avvicinarsi all’ideologia marxista-lenista, sostenuto da Guevara, ormai noto come il Che.
Fra le sue ultime decisioni, l’amministrazione Eisenhower ruppe le relazioni diplomatiche con
l’Avana. Appena insediatosi alla casa bianca, Kennedy si trovò quindi ad affrontare la posizione di
Cuba, in apparenza sempre più vicina all’Urss. Il presidente accettò il progetto elaborato dalla CIA
che prevedeva uno sbarco di oppositori anticastristi nella convinzione che fosse possibile sollevare
la popolazione cubana contro il regime dell’Avana. In realtà l’operazione era mal concepita, il
migliaio di oppositori anticastristi si trovarono ben presto in difficoltà, Kennedy si rifiutò di
intervenire lasciando così gli insorti allo sbaraglio i quali furono costretti alla resa, i filmati furono
poi mostrati alla televisione cubana e fu facile per Castro mostrare il coinvolgimento americano
nel tentativo rivoluzionario.
˃ IL MURO DI BERLINO:
Il presidente però non ebbe quasi il tempo di riflettere sulla questione cubana perché la sua
attenzione dovette concentrarsi su Berlino, dove l’Urss sembrava riproporre la questione dello
status della zona occidentale della ex capitale tedesca. Il leader dell’Urss doveva dimostrare le sue
capacità di mantenere in vita la Repubblica democratica tedesca, vista come il perno dell’influenza
sovietica nell’Europa centrale. In un contesto quindi caratterizzato da nuove tensioni fra est e
ovest Kennedy e Chruscev dovettero incontrarsi nel giugno del 1961 a Vienna, la conferenza si
risolse con un nulla di fatto.
Rimaneva comunque aperto il nodo sulla questione tedesca, e i sovietici giunsero alla conclusione
che l’unica soluzione era la chiusura totale degli accessi tra Berlino est e Berlino ovest,
completando così quella cortina di ferro che già da anni separava anche fisicamente con barriere,
filo spinato, torri di guardia e una costante sorveglianza l’est dall’ovest. Tra il 19 e 22 agosto del
1961 operai e militi della Germania Est, con il sostegno indiretto dell’Armata Rossa, diedero avvio
a quello che con il trascorrere del tempo sarebbe divenuto uno dei più muniti e impenetrabili
complessi di fortificazioni e che avrebbero preso il nome di muro di Berlino, anche se nelle prime
settimane si trattò di una barriera di filo spinato, nonché di alcune opere in muratura. Solo alcuni
sorvegliatissimi accessi sarebbero stati lasciati fra Berlino est e i tre settori occidentali della città.
La costruzione del muro salvò la DDR impedendo ai suoi cittadini di rifugiarsi a ovest e rappresentò
l’ultimo atto destinato a suggellare la definitiva (almeno fino agli anni 80) stabilizzazione degli
equilibri europei. In altri termini, la divisione anche fisica della ex capitale tedesca avrebbe favorito
l’abbassamento delle tensioni in Europa.
Sul piano propagandistico, almeno nel breve periodo, l’edificazione del muro rappresentò una
sconfitta per l’Urss, le immagini dei berlinesi costretti a salutarsi a distanza e degli ultimi tentativi
di fuga sarebbero diventate un ulteriore simbolo della guerra fredda.
Da un punto di vista politico, l’amministrazione Kennedy parve assistere passivamente a quanto
stava accadendo a Berlino. La reazione statunitense si limitò ad ovvie dichiarazioni pubbliche di
condanna e all’invio di un migliaio di uomini a rinforzo del contingente americano a Berlino ovest.
In realtà l’amministrazione Kennedy ben poco poteva fare, pena l’avvio di una gravissima crisi
nelle relazioni con l’Urss. Implicitamente anzi la scelta di Chruscev, che comunque poteva essere
sfruttata dalla propaganda occidentale, avrebbe posto fine a una perdurante tensione in una delle
zone più sensibili del vecchio continente. Né Mosca né Washington intendevano far scoppiare un
conflitto mondiale per Berlino.
Questa sostanziale accettazione del muro di Berlino creò profonda irritazione nel cancelliere
tedesco occidentale Adenauer, la cui fiducia nell’amministrazione Kennedy fu profondamente
scossa. Inoltre degli altri due maggiori alleati occidentali solo la Francia di de Gaulle si era espressa
con una dura e ferma condanna dell’azione sovietica, mentre la Gran Bretagna di Macmillan si era
mostrata molto prudente.
˃ PERICOLO NUCLEARE: TEST BANN TREATY
Nel corso del 1962 spinto dagli esiti poco brillanti della politica estera di Kennedy e dalle crescenti
richieste di sostegno militare da parte di Castro, Chruscev decise di avviare l’installazione di basi
missilistiche a Cuba, che dotate di vettori con testata nucleare avrebbero rappresentato un
pericolo per gli Stati Uniti. Venuto a conoscenza, tramite ricognizioni aeree della presenza delle
basi missilistiche, Kennedy reagì dando avvio a quella che sarebbe stata considerata come una
delle più gravi e pericolose crisi fra Mosca e Washington. Kennedy creò un apposito comitato di
crisi e questo organismo cominciò a valutare le possibili reazioni alla decisione sovietica. Varie
furono le ipotesi avanzate, alcune, prevalentemente suggerite da responsabili militari, erano dure
e rischiose; come l’invasione dell’isola caraibica o il bombardamento delle basi russe. Kennedy finì
con il propendere per un blocco navale americano attorno a Cuba, così da impedire l’arrivo di navi
sovietiche che trasportassero missili e testate nucleari. Si trattava di una misura grave, ma non
implicava uno scontro immediato e lasciava al Cremlino il tempo per riflettere e individuare una
soluzione che evitasse un conflitto aperto.
Il 22 ottobre in un discorso televisivo al popolo americano rivelava la presenza di missili sovietici e
annunciava l’embargo. Le forze americane venivano poste in uno stato d’allerta che due giorno
dopo avrebbe raggiunto il livello DEFCON 2, ovvero quello immediatamente precedente lo stato di
guerra. Furono in questi giorni concitati che l’opinione pubblica mondiale ebbe la sensazione che
ci si stesse avviando vero la conflagrazione nucleare. La mossa di Kennedy e la sua determinazione
misero in difficoltà la leadership sovietica, che in un primo tempo aveva cercato di negare la
presenza delle basi missilistiche, la cui esistenza venne comunque comprovata anche in sede di
Nazioni Unite. Nel tentativo di trovare una via d’uscita il 26 ottobre, attraverso canali riservati,
Chruscev faceva giungere a Kennedy una lettera in cui proponeva lo smantellamento delle rampe
missilistiche in cambio dell’assicurazione che gli Stati Uniti non avrebbero invaso Cuba.
Il giorno successivo il leader sovietico faceva pervenire una nuova lettera in cui aggiungeva la
condizione del ritiro dei missili americani con testata nucleare di stanza in Turchia. Nonostante le
pressioni affinché egli ricorresse a un intervento armato, il presidente americano decideva di
ignorare la seconda missiva di Chruscev, accettando i termini della prima. Il 28 ottobre Chruscev si
dichiarava d’accordo sul ritiro dei missili sovietici in cambio della promessa statunitense di non
invadere l’isola e porre fine al blocco navale. Aveva termine la cosiddetta crisi dei 13 giorni con
un’apparente vittoria di Kennedy, almeno così la vicenda fu percepita dall’opinione pubblica
mondiale, contribuendo in maniera sostanziale al formarsi del successivo mito kennediano. In
realtà la crisi e la sua conclusione ebbero conseguenze varie in ambiti diversi.
In primo luogo essa fece comprendere sia a Washington sia a Mosca la pericolosità in un confronto
che avrebbe potuto condurre a una guerra nucleare. Fu dunque l’episodio cubano a favorire i
primi accordi sovietico-americani miranti a creare delle regole nel contesto degli armamenti
strategici.

Nel 1963 gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica decisero la creazione di una linea di comunicazione
diretta, il cosiddetto telefono rosso, che consentisse ai due leader di collegarsi immeritamente allo
scopo di evitare che un incidente o un errore conducessero automaticamente a uno scontro
nucleare. Inoltre nell’estate dello stesso anno gli Stati Uniti, l’Urss e la Gran Bretagna firmavano il
trattato per la limitazione degli esperimenti nucleari sul suolo e nell’atmosfera.
Tutto ciò rappresentava d’altronde la risposta delle due superpotenze al crescente timore
dell’opinione pubblica mondiale di una guerra nucleare che potesse verificarsi per errore o per la
scelta sconsiderata di qualche esponente militare o politico.
Significative furono anche le ricadute indirette sui rapporti fra gli Stati Uniti e i maggiori alleati
europei. Kennedy informò Londra, Parigi, Bonn e Roma delle scelte relative all’avvio della crisi, ma
non vi furono consultazioni, Washington decise autonomamente. Sebbene i due partener europei
si dimostrassero solidali con l’amministrazione americana, de Gaulle e Adenauer non mancarono
di notare la diversa e più dura reazione statunitense rispetto alla crisi di Berlino dell’anno
precedente, nei due statisti ciò avrebbe confermato l’aspirazione a una maggiore autonomia
rispetto a Washington. Per Macmillan, unico a essere stato informato preventivamente del blocco,
la vicenda sembrò confermare la perdurante validità della special relationship. Mentre in Italia gli
esponenti del futuro centro-sinistra giocarono la carta di Kennedy come colui, che pur mostrando
fermezza, aveva salvato la pace mondiale.

Uno dei maggiori successi di Kennedy fu sicuramente il forte impegno economico nella cosiddetta
corsa allo spazio con il rafforzamento del ruolo della National Aeronnautics and Space
Administration (NASA) e con l’avvio deli ambiziosi progetti Gemini e Apollo, quest’ultimo mirante a
fare arrivare un essere umano sulla Luna. Al di là degli aspetti propagandistici, i progetti della NASA
avrebbero consentito grandi progressi in vari ambiti scientifici confermando tra l’altro la
superiorità tecnologica statunitense con evidenti positive ricadute nelle industrie più moderne e
più in generale sui caratteri dell’economia americana.

˃ IL COINVOLGIMENTO AMERICANO IN INDOCINA:


Eisenhower aveva deciso di non siglare gli accordi di Ginevra sull’Indocina, considerandoli un
cedimento nei confronti del comunismo. Le autorità americane avevano d’altronde trovato un
interlocutore fidato in Ngo Dienh Diem, un politico vietnamita nazionalista, decisamente ostile al
comunismo. Diem, affiancato dal fratello aveva instaurato un regime autoritario che in apparenza
aveva dato una qualche stabilità al paese. Fra le sue scelte più importanti vi era stato il rigetto
dell’ipotesi di elezioni su tutto il territorio vietnamita, come previsto dagli accordi di Ginevra.
Quanto al governo di Ho Chi Minh, dopo il 1954 questi aveva concentrato l’attenzione sul
rafforzamento dello stato nordvietnamita.
Nel 1959 la leadership nordvietnamita scelse di mirare alla riunificazione del paese con l’uso della
forza, avviando un’azione di guerriglia nel Vietnam del sud. L’anno successivo si costituiva in
clandestinità il Fronte di liberazione nazionale, organismo politico comunista che raccoglieva le
simpatie di un crescente numero di oppositori al regime autoritario di Diem. L’amministrazione
americana non poteva trascurare quanto stava accadendo nel Vietnam del sud, dove
all’intensificata azione dei guerriglieri comunisti, noti con il nome di Viet Cong, si aggiungeva
l’evidente debolezza del regime di Diem.
Venne suggerito al presidente l’incremento dell’appoggio americano al governo sudvietnamita. Fra
le varie soluzioni per contrastare l’attività dei Viet cong venne anche posta in opera la costruzione
di centinaia di villaggi strategici, dove concentrare la popolazione contadina e impedire
l’infiltrazione dei comunisti e il loro progressivo controllo del territorio. Inoltre venivano fatti
giungere in Vietnam i primi gruppi di elicotteri pilotati da militari statunitensi, ritenuti essenziali
per fornire mobilità alle unità sudvietnamite. Ciononostante agli inizi del 1963 le truppe
sudvietnamite subivano una dura sconfitta per mano dei viet cong.
Agli insuccessi sul piano militare su affiancava nella primavera del 1963 la crescente opposizione al
regime a opera dei gruppi religiosi e fedeli buddisti, che contestavano l’influenza esercitata nel
paese dalla minoranza cattolica, la quale veniva identificata la famiglia di Diem. La protesta
buddista pose tra l’altro rapidamente all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale e la
situazione vietnamita sino a quel momento praticamente ignorata.
Agli inizi di novembre guidati dal generale Doung Van Minh un gruppo di ufficiali sudvietnamiti
prendeva il potere, mentre Diem e suo fratello venivano uccisi dai golpisti. Solo qualche settimana
più tardi Kennedy venne assassinato a Dallas in un attentato i cui contorni restano tuttora oggetto
di polemica. Al suo posto subentrò il vicepresidente Johnson. La caduta di Diem non migliorò però
la posizione del governo di Saigon, mentre i Viet cong ampliavano il controllo su vaste zone del
paese. Giunto alla casa bianca in modo drammatico, Johnson dovette affrontare una serie di
questioni internazionali, fra cui il Vietnam stava diventando centrale, ma anche la prospettiva della
campagna elettorale.
Per quanto riguarda il Vietnam Johnson autorizzò bombardamenti sul Vietnam del nord e
soprattutto il congresso approvò una soluzione che attribuiva al presidente la possibilità di attuare
qualsiasi azione militare in Vietnam, a eccezione dello stato di guerra. Questa presa di posizione
sarebbe divenuta la base formale per l’ulteriore ampliamento dell’impegno militare statunitense
nel sud-est asiatico. Nel novembre 1964 Johnson vinceva le elezioni.
Gli Stati Uniti non trascurarono gli aspetti politici della questione e fecero ogni sforzo per
stabilizzare il regime di Saigon e di conquistare il consenso del popolo sudvietnamita. per ciò che
concerne il primo aspetto non fu facile trovare un interlocutore che apparisse almeno in parte
credibile di fronte alla popolazione del Vietnam del sud e all’opinione pubblica. Quanto alla ricerca
del consenso fra la popolazione è innegabile che le autorità americane fecero enormi sforzi per
conquistare il cuore e le menti del popolo sudvietnamita.
L’enorme afflusso di aiuti che gli Stati Uniti rovesciarono sul Vietnam del sud, tradottisi spesso
nella diffusione di beni di consumo e l’economia del divertimento legata alla presenza di centinaia
di migliaia di militari statunitensi trasformarono Saigon da sonnolenta ex capitale coloniale in una
grande città percorsa da traffici leciti e ben più di frequente illeciti, questa economia finì con il
creare uno strato sufficientemente ampio di popolazione urbana il cui relativo benessere era
ovviamente dipendente dal coinvolgimento statunitense nel conflitto.
Sul piano internazionale la guerra americana nel sud-est asiatico ebbe serie conseguenze sulle
relazioni degli Stati Uniti con i propri alleati e sull’immagine di Washington su scala globale.
Per quanto riguarda le posizioni degli alleati della NATO, da un iniziale sostegno si passò a
un’aperta perplessità, se non a un’evidente ostilità, a seconda dei vari paesi europei, se ad
esempio le leadership inglese, tedesca occidentale e italiana espressero sempre pubblica
comprensione per le scelte americane, esse cominciarono ad auspicare una soluzione negoziata.
Ben diversa fu la posizione di de Gaulle, il quale nella guerra del Vietnam trovò anzi una conferma
al suo crescente antiamericanismo e condannò il suo intervento al punto da invitarlo a ritirarsi
dall’Indocina. Diverse erano le ragioni dell’atteggiamento europeo occidentale, fra cui le più
significative erano da un lato il timore che gli Stati Uniti finissero con il farsi risucchiare dal conflitto
in Vietnam trascurando le vicende europee.
Sembra quindi che l’unica ragione della guerra americana in Vietnam fosse il prestigio e la
necessità di mostrare che gli Stati Uniti non potevano essere sconfitti. Al contempo, a causa della
guerra fredda, Washington non poteva estendere il conflitto al Vietnam del nord se non con i
bombardamenti aerei, rinunciando quindi all’opzione di una guerra convenzionale, come nel caso
coreano e dovendo accettare una guerra non dichiarata e di logoramento. Al contrario nella
leadership di Hanoi l’obiettivo politico fu sempre chiaro, la riunificazione del paese nell’ambito di
un regime comunista.
Il protrarsi delle ostilità e le evidenti, tragiche condizioni della guerra rendevano il compito
dell’amministrazione Johnson sempre più difficile. Non mancarono alcuni tentativi da parte degli
americani di aprire una qualche forma di dialogo con Hanoi. L’azione dei vietcong si esplicò in tutto
il Vietnam, persino nella capitale, Saigon dove un gruppo di guerriglieri diede l’assalto
all’ambasciata americana, forse il luogo più protetto del paese, ma vennero messi rapidamente
fuori combattimento.
La vittoria militare si tramutò in fallimento sul piano politico. Contribuirono anche i media che
smentirono le previsioni ottimistiche di Johnson convincendo i cittadini che non fosse possibile
vincere la guerra in Vietnam. Johnson stesso non si ricandidò alle elezioni di novembre, accettò
l’ipotesi di avviare negoziati con Hanoi che in effetti si aprirono a Parigi in estate e per qualche
tempo interruppe i bombardamenti aerei nel Vietnam del nord. Fu in questo clima di crisi che
venne eletto (1968) Richard Nixon il quale prometteva la fine del coinvolgimento americano in
Indocina, ma sembrava sottintendere che gli Stati Uniti non sarebbero usciti battuti dalla guerra.

˃ IL CONFLITTO SINO-SOVIETICO:
Stalin non aveva mostrato eccessiva fiducia nel partito comunista cinese e aveva sostenuto
l’ascesa al potere di Mao solo nella fase conclusiva della guerra civile contro il governo. Una volta
creata la repubblica popolare cinese il Cremlino aveva inteso instaurare legami stretti con Pechino
dando per scontato che la leadership cinese accettasse una sostanziale subordinazione nei
confronti di Mosca, come d’altronde fatto dai governi delle democrazie popolari in Europa. In
apparenza Mao si era piegato alle richieste sovietiche partendo dal presupposto che la debole
posizione del nuovo regime richiedesse il sostegno economico dell’Urss, perché non provavano
alcun complesso di inferiorità nei riguardi dell’Urss.
Nel caso di alcune crisi internazionali, dal conflitto di Corea all’Indocina, Mosca e Pechino erano
parse agire n maniera coordinata e ciò aveva condotto l’occidente, in particolare gli Stati Uniti a
ritenere che la Cina fosse un fedele alleato, se non addirittura uno strumento della politica dei
Stalin. In realtà dietro l’apparente comunanza di interessi si celavano obiettivi non sempre
coincidenti, nonché l’aspirazione di Pechino a svolgere un ruolo di primo piano nel contesto
asiatico.
In un primo tempo questa differenza di opinioni non apparve chiaramente, Pechino d’altronde
aveva ancora bisogno del sostegno economico sovietico e sperava che l’Urss aiutasse la Cina
nell’aspirazione a un processo di modernizzazione, nonché all’ambizione di entrare a far parte del
gruppo delle potenze nucleari. Le intenzioni di Pechino sembravano infatti rivelare una volontà
aggressiva, dando quasi per scontato l’esplodere di un conflitto mondiale. L’atteggiamento
bellicoso di Pechino che si era già espresso nel 1950 con l’annessione del Tibet, trovò conferma nel
1959 quando un moto indipendentista in questo territorio venne duramente represso nel sangue,
costringendo all’esilio il Dalai Lama, leader spirituale dei tibetani. La Cina non aveva d’altronde mai
accettato a linea di confine tracciata ai tempi dell’Impero Britannico tra il Tibet e l’india, ciò
condusse a una situazione di tensione fra New Delhi e Pechino, che si tradusse nel 1962 in una
serie di azioni militari dove i cinesi inflissero alcune severe sconfitte alle truppe indiane.
Le dispute confinarie fra i due paesi sarebbero rimaste aperte negli anni successivi tra l’altro
spingendo l’India a un progressivo avvicinamento a Mosca e di conseguenza innescando la
tendenza del Pakistan a stringere accordi con la repubblica popolare cinese. Le scelte economiche,
l’evidente desiderio di conquistare un ruolo di grande potenza e l’apparente propensione a sfidare
apertamente gli Stati Uniti, spinsero Chruscev tra il 1959 e il 2960 a interrompere
progressivamente i progetti sovietici di sostegno allo sviluppo economico e scientifico della Cina.
Nel leader sovietico vi era il giustificato timore da un lato di doversi confrontare in futuro con un
potente rivale nell’ambito del movimento comunista internazionale, dall’altro di vedere l’Urss
coinvolta in un conflitto nucleare con gli Stati Uniti a causa dell’avventurismo di Mao.
A sua volta la leadership cinese vide nelle scelte di Mosca la dimostrazione del tradimento dello
spirito rivoluzionario del Cremlino e si pose in competizione con questa nel tentativo di acquisire la
guida del comunismo e dei movimenti di liberazione del Terzo mondo. in realtà il comunismo
cinese non riscosse nessun successo nelle democrazie popolari europee.
Agli inizi degli anni 60 il dissidio tra Mosca e Pechino era ormai diventato un conflitto aperto e non
vi fu alcun ammorbidimento nemmeno a seguito della destituzione di Chruscev, diventato ormai
nemico del comunismo cinese. I successori del leader sovietico non sembrarono comunque a loro
volta cambiare la valutazione sulla politica estera cinese. Nella seconda metà degli anni 60
l’amicizia tra i due paesi tese ad acuirsi, estendendosi dal campo ideologico a quello dei contrasti
di confine, sino a giungere nel 1969 a scontri aperti fra truppe sovietiche e unità cinesi sul fiume
Ussuri lungo la frontiera tra i due paesi. Le vicende cinesi generarono preoccupazione nella
leadership dell’occidente e contribuirono indirettamente al rafforzamento della distensione fra
l’Urss e il mondo capitalista.

Sempre legato all’ostilità fra i due paesi riguarda lo scontro aperto verificatosi fra l’india e il
Pakistan, quando nel 1966 andava al potere Indira Gandhi avviò una politica di sinistra che
avvicinò ancor di più il suo paese all’Urss. Nel frattempo il Pakistan, dove sempre più forte il ruolo
dei militari, vedeva approfondirsi la frattura con la sua parte orientale più povera, sottoposta a
dominazione dall’occidente. Le autorità pakistane avviarono un’opera di dura repressione che si
tradusse nell’uccisione di migliaia di oppositori appartenenti alla minoranza indù. Nei mesi
successivi ebbe così inizio un esodo che portò 10mila persone a rifugiarsi in territorio indiano.
Il governo di New Delhi si rivolse all’ONU ma senza successo. E nel frattempo si siglava un trattato
ventennale di amicizia con l’Urss mentre l’amministrazione americana alleata del Pakistan restava
inerte, ignorando i massacri compiuti dalle forze pakistane. Le autorità indiane decisero allora di
passare all’azione scatenando un attacco militare in direzione del Pakistan orientale. Il conflitto fu
breve e portò alla nascita del nuovo stato del Bangladesh. Si trattava di una completa vittoria
politica e militare dell’india che non solo umiliava il nemico pakistano, ma vedeva nascere ai suoi
confini orientali un nuovo stato strettamente legato a New Delhi.
Per quanto drammatico e sanguinoso il conflitto indo-pakistano parve localizzato e vide un
coinvolgimento limitato delle due superpotenze.

Diverso fu il caso della nuova guerra arabo-israeliana o guerra dei sei giorni del giugno 1967.
All’indomani della vicenda di Suez (1956) la posizione dell’Egitto e di Nasser era fortemente
rafforzata. I più stretti legami con Mosca condussero a una totale ristrutturazione delle forze
armate egiziane sul modello sovietico e queste furono dotate di moderni armamenti provenienti
dagli arsenali dell’Unione Sovietica. Sul piano politico inoltre nel 1958 i leader siriani decisero di
unire il loro paese all’Egitto dando così vita alla Repubblica araba unita (RAU). Sebbene questa
entità si sciogliesse già nel 1961.

Comunque di fronte a un mondo scosso da crisi e conflitti l’Europa sembrava alla costruzione del
muro di Berlino, appariva un’oasi di tranquillità.
CAP. 5 LA FRATTURA DEGLI ANNI ’70, CRISI DELL’OCCIDENTE E PRESA
DI COSCIENZA DEL SUD DEL MONDO (’68-80):

Possiamo individuare negli anni ’70, ovvero il periodo intercorso tra il 1968-1980, una cesura
fondamentale nella storia del ventesimo secolo, le origini della nostra modernità, quasi che il
lasso di tempo tra il 1945 e la fine degli anni ’60 potesse essere interpretato come una sorta di
complesso e lungo dopoguerra.
Il primo ambito in cui il cambiamento si fece sentire fu quello della società, in una fase inziale
quella americana, quindi quella europea, infine il resto del mondo. questa evoluzione non lasciò
indifferenti i gruppi dirigenti, che dovettero adeguare le loro scelte politiche a tali trasformazioni,
pena il distacco dal loro elettorato. Basterebbe ricordare la nascita e l’affermazione di una forte
sensibilità nei riguardi dell’ambiente e dell’ecologia, il diverso ruolo conquistato delle donne. Dai
governi ai sistemi educativi dalla religione alla famiglia tradizionale. Tutto ciò non poté non avere
riflessi sulle relazioni internazionali e sulle politiche estere dei maggiori attori.
La tendenza a un mondo più aperto e la rapida circolazione delle informazioni su scala globale non
si limitò alle società occidentali. La distensione aveva aperto una serie di brecce nel blocco
sovietico, grazie soprattutto agli scambi culturali e al turismo, modi e mode dell’occidente, per
quanto magari in fora distorta, cominciarono a penetrare soprattutto fra le giovani generazioni
delle nazioni dell’Europa centrale e orientale e persino nell’Unione Sovietica.
Tra la fine degli anni 60 e i primi 70 l’economia occidentale cominciò a registrare una prima fase di
rallentamento e di incertezza, in ampia misura determinati dalla crescente debolezza
dell’economia americana. Se le prospettive dell’economia americana vennero viste con grande
preoccupazione dalle leadership occidentali, esse furono al contrario di conforto per le nazioni del
Terzo mondo, le quali interpretarono questo fenomeno come la prima vera opportunità per uscire
da una condizione di dipendenza economica, dopo aver eliminato la dominazione politica, e di
imporre un nuovo ordine economico nazionale più giusto sul quale sarebbe stato possibile
costruire non solo la via allo sviluppo economico e sociale, ma anche quella verso una vera
indipendenza politica. Lo strumento che avrebbe consentito alle nazioni in via di sviluppo di
conseguire tali obiettivi sarebbe stato il controllo di alcune materie prime senza le quali le nazioni
industrializzate avrebbero visto bloccato il proprio sistema economico.

Gli anni ’70 furono caratterizzati da trasformazioni di fondo che avrebbero determinato novità
significative rispetto ai decenni precedenti anche nel contesto delle relazioni internazionali. Per ciò
che concerne il mondo occidentale, anche se vi era in corso una crisi del modello americano, la
potenza degli Stati Uniti e il suo ruolo mondiale non furono messi in discussione sino al 1973-1974
quando lo scandalo Watergate e le dimissioni di Nixon, alle quali si aggiunse una grave crisi
economica, innescarono un processo di riflessione da parte dell’opinione pubblica americana sul
ruolo globale degli Stati Uniti e sui valori stessi della democrazia americana.
In apparenza invece l’Unione Sovietica mostrava un’immagine di solidità ma nei paesi europei del
blocco comunista numerosi erano i segnali di insofferenza, sebbene le aspirazioni al cambiamento
fossero duramente represse.
˃ HENRY KISSINGER E LA GRANDE DISTENSIONE: SUCCESSI E LIMITI
La grande distensione è spesso identificata con la figura di Henry Kissinger, è innegabile che la
politica estera statunitense durante la prima metà degli anni ’70 sia stata fortemente influenzata
dalle iniziative condotte dall’uomo che tra il 1969 e il 1973 avrebbe ricoperto il ruolo di consigliere
del presidente per la sicurezza nazionale e quindi dal 1973 al 1976 come consigliere di stato.
La visione del sistema internazionale di Kissinger fu caratterizzata da alcuni punti fermi:
- in primo luogo il concetto di equilibrio, da lui ritenuto obiettivo fondamentale per gli interessi
della superpotenza americana, quindi una visione pessimista del ruolo degli Stati Uniti che lo
condusse a considerare impossibile per Washington esercitare una posizione di predominio come
quella sperimentata negli anni 40 e 50, sia a causa del ridimensionamento del ruolo economico
americano, sia per il rafforzamento, soprattutto sul piano militare dell’Urss.
- infine un approccio realista o cinico, che lo spinse a porre da parte gli aspetti ideali che avevano
caratterizzato sino a quel momento la politica estera sia delle amministrazioni democratiche sia di
quelle repubblicane.

Sulla base di queste premesse nasceva l’ipotesi di un sistema internazionale tendenzialmente


bipolare, fondato su un accordo di fondo tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica che favorisse la
conservazione di una stabile e duratura condizione di equilibrio. Questa strategia conservatrice
implicava il riconoscimento della funzione dell’Urss quale superpotenza e l’opportunità di
accantonare le contrapposizioni ideologiche tra capitalismo e comunismo e di ricorrere allo
strumento negoziale per la soluzione delle crisi regionali, essendo tali aspetti subordinati
all’esigenza primaria dell’equilibrio mondiale.
Ulteriore importante carattere dell’azione di Kissinger fu la segretezza e l’approccio personalistico,
anche se la politica estera di Washington fu almeno sino al 1973 l’espressione dell’accordo fra il
consigliere per la sicurezza nazionale e Nixon, d’altronde anche lui condizionato da un carattere
sospettoso e da una sorta di mania per la riservatezza.

• IL DUO KISSINGER-NIXON IN VIETNAM:


Nixon si era imposto alle elezioni del novembre 1968 con la promessa di un disimpiego con onore
degli Stati Uniti dal Vietnam. Per il presidente tale impegno rappresentava un obiettivo primario
della sua politica estera, mentre per Kissinger la guerra del Vietnam non era che una crisi locale,
una questione secondaria, che andava risolta per poter poi sviluppare la sua più ampia strategia
dell’equilibrio e della distensione. L’amministrazione aveva puntato in primo luogo sulla
vietnamizzazione del conflitto, e in effetti, dopo il 1969 si registrò una riduzione costante per
quanto relativamente lenta della presenza militare americana in Vietnam. L’obiettivo della
vietnamizzazione mirava d’altronde a impedire la sconfitta americana in Indocina e a consentire il
governo di Saigon di sopravvivere e fronteggiare autonomamente la minaccia comunista. Ma lo
scopo di Hanoi era la riunificazione del paese, in altri termini, la vittoria e la leadership
nordvietnamita continuava a essere convinta che il tempo giocasse a suo favore, essendo tra
l’altro cosciente che negli Stati Uniti l’opposizione alla guerra non si era certo affievolita.
I due ritennero quindi che lo strumento militare fosse l’unico modo per porre sotto pressione le
autorità di Hanoi, in tal modo però essi allargarono il conflitto alla Cambogia e al Laos. Nel 1969 da
Washington venne l’ordine di avviare bombardamenti sulle basi di rifornimento dei Viet Cong in
territorio Cambogiano, all’insaputa del Congresso e dell’opinione pubblica. Questa scelta favorì la
rapida destabilizzazione dello stato cambogiano (dove si snodava la pista di Ho Ci Minh) che aveva
sempre cercato di non farsi coinvolgere nel conflitto ignorando volutamente le infiltrazioni
nordvietnamite e ben sapendo della presenza di un locale movimento comunista che aspirava a
prendere il potere. Nel marzo del 1970 un generale cambogiano, rovesciò il potere in Cambogia e
la schierò a fianco degli Stati Uniti, il mese successivo le truppe americane e sudvietnamite
intervenivano nel paese confinante per distruggere le basi dei nordvietnamiti e dei Viet Cong,
venivano inoltre ripresi i bombardamenti sul Vietnam settentrionale. Nei primi mesi del 1971 le
forze sudvietnamite lanciavano un’operazione in Laos, si completava così il coinvolgimento di tutta
l’Indocina nel conflitto.
In realtà le iniziative contro la Cambogia e il Laos non diedero gli esiti sperati e in entrambi i casi le
forze americane e di Saigon erano costrette a ritirarsi, spesso, soprattutto nel caso del Laos, dopo
aver subito ingenti perdite. Nel frattempo, dovendo tener conto dell’atteggiamento dell’opinione
pubblica e con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali, Nixon proseguì nella politica del ritiro del
contingente americano, che sarebbe stato completato nell’agosto del ’72 quando in Vietnam
sarebbero rimaste solo unità di supporto. Il sostanziale fallimento delle operazioni sudvietnamite
in Laos spinsero Hanoi nella primavera del 1972 a lanciare una grande offensiva che in una prima
fase ebbe successo.
In realtà le operazioni militari erano meri strumenti nel gioco diplomatico che si stava svolgendo a
Parigi e che vedeva principali protagonisti da una parte Kissinger dall’altro il negoziatore
nordvietnamita Le Duc Tho, nel cui ambito il consigliere per la sicurezza nazionale cercò di trarre
profitto dagli importanti accordi conclusi con Mosca e dall’avvio del dialogo con la Repubblica
popolare cinese affinché le due potenze comuniste esercitassero un’opera moderatrice sul
governo di Hanoi. In ciò probabilmente Kissinger sopravvalutò la funzione che Mosca e Pechino
avrebbero potuto svolgere, la leadership nordvietnamita si era sempre saputa giostrare tra l’Urss e
la Cina mantenendo una sostanziale autonomia e ben sapeva che il primo obiettivo era un accordo
che allontanasse gli Stati Uniti dal Vietnam. Kissinger inoltre doveva fronteggiare la crescente
ostilità del governo del governo di Saigon a un compromesso che come certamente si temeva
avrebbe indebolito la posizione del regime del Vietnam del sud.
Fu infatti il presidente sudvietnamita a far fallire un accordo quasi raggiunto, che Nixon sperava di
concludere prima delle elezioni presidenziali. L’amministrazione americana ricorse a un nuovo
round di bombardamenti aerei, da un lato per ammorbidire la posizione di Hanoi, dall’altro per
dimostrare a Saigon il perdurante impegno americano. Nel gennaio di 1973 venivano siglati i
cosiddetti accordi di Parigi, che tra l’altro prevedevano un cessate il fuoco immediato nel Vietnam
meridionale, lasciavano in vita il governo di Saigon, per quanto si auspicasse la formazione di un
governo di unione nazionale, stabilivano che le truppe americane avrebbero lasciato
definitivamente l’Indocina, mentre le truppe nordvietnamite e i Viet Cong avrebbero mantenuto la
posizioni nelle aree del sud da loro controllate, le cosiddette macchie di leopardo e infine che i
prigionieri di guerra americani sarebbero stati rapidamente liberati. Per la loro azione Le Duc Tho e
Kissinger avrebbero ricevuto il premio Nobel per la pace. In realtà gli accordi di Parigi
rappresentavano solo una fragile tregua che lasciava il Vietnam del sud alla mercé di Hanoi.
• I RAPPORTI DI KISSINGER CON L’UNIONE SOVIETICA:
Per Kissinger l’Indocina aveva sempre rappresentato una questione secondaria di cui sbarazzarsi,
maggiore attenzione ed energie il consigliere per la sicurezza nazionale dedicò alle relazioni con
l’Unione Sovietica. In tale ambito la premessa per il raggiungimento dell’equilibrio era un accordo
sugli armamenti strategici, un settore nei cui confronti sia Washington sia Mosca avevano
mostrato forte interesse si dai primi anni 60 consci dei rischi di un conflitto nucleare generalizzato
insiti in una mancanza di regole. Ciò non aveva impedito il rafforzamento progressivo degli arsenali
atomici da parte delle due superpotenze, con pesanti conseguenze sui bilanci di entrambi i paesi.
Alcuni sviluppi tecnologici ponevano d’altronde gli Stati Uniti e l’Urss di fronte a decisioni di rilievo.
Da un lato si era manifestata la possibilità di sviluppare un sistema di installazione di missili
antibalistici destinati soprattutto a proteggere i centri di comando dei due avversari; si temeva che
ciò inducesse una delle superpotenze a lanciare il cosiddetto first strike, il colpo risolutivo che
impedisse qualsiasi reazione da parte del nemico, assicurando così una vittoria completa.
Dall’altro gli Stati Uniti avevano sviluppato le capacità per installare sui propri ICBM testate
multiple che avrebbero consentito di colpire più di un bersaglio con un solo vettore.
L’invasione sovietica della Cecoslovacchia aveva congelato per qualche tempo il dialogo fra Mosca
e Washington su questi temi, ma nel 1969 con l’arrivo di Nixon alla casa bianca il confronto venne
riaperto nell’ambito di quelli che vennero definiti Strategic Arms Limitation Talks (SALT I).
Nel 1971 il negoziato subì un’accelerazione grazie anche all’azione riservata e ai contatti diretti di
Kissinger con l’ambasciatore sovietico negli Stati Uniti. Quanto ai missili antibalistici si decise che i
due contraenti si sarebbero limitati a costruire due sistemi diretti a difendere le rispettive capitali e
alcuni siti IBCM. Per ciò che concerne le forze strategiche, venne concordato un congelamento
dell’arsenale esistente. Al di là dei numeri, l’intesa sanciva una sostanziale parità fra Mosca e
Washington e per l’Urss ciò rappresentava un ulteriore importante riconoscimento del proprio
ruolo di superpotenza. I trattai SALT della durata di 5 anni, considerati solo un primo passo verso
un successivo approfondimento del negoziato, vennero accolti con particolare favore da gran
parte dell’opinione pubblica internazionale che li considerò uno dei più importanti successi della
distensione. Nixon ne fece un utile elemento della propria campagna elettorale.
Le intese sulle limitazioni degli armamenti strategici aprirono la strada a una fase particolarmente
positiva nelle relazioni sovietico-americane tanto che conclusero una serie di altri importanti
accordi ne mesi successivi nel settore della cooperazione economica (significativa fu l’intesa per la
vendita da parte americana di enormi quantitativi di grano all’Urss da tempo afflitta dall’incapacità
di far fronte in maniera autonoma a questa esigenza alimentare) e in quello degli scambi culturali
e scientifici che si intensificarono.

• I RAPPORTI DI KISSENGER CON LA CINA:


Quasi contemporaneamente al negoziato con Mosca destinato a concludere il trattato sugli
armamenti strategici Kissinger prese a perseguire un altro importante obiettivo che avrebbe
rappresentato una radicale rottura nella politica estera americana, il riavvicinamento alla
Repubblica popolare cinese. Varie erano le ragioni che spingevano il consigliere per la sicurezza
mondiale, con il pieno consenso di Nixon, in questa direzione. Vi era da un lato la considerazione
circa l’impossibilità di continuare a ignorare e a isolare un attore internazionale così importante
nello scacchiere asiatico e in prospettiva mondiale.
Non va trascurato come dal 1967 la Cina di Mao era diventata una potenza nucleare e come vari
paesi europei occidentali avessero riconosciuto il governo di Pechino. Kissinger inoltre contava di
guidare il pieno rientro della Cina nel contesto internazionale favorendo il suo schema di equilibrio
mondiale. Washington pensava infatti di potersi porre come ago della bilancia nel sempre più forte
ed evidente contrasto sino-sovietico, ottenendo da ognuno dei contendenti concessioni grazie alla
minaccia di più stretti rapporti con l’altro.
Dal punto di vista mediatico la ripresa delle relazioni fra gli Stati Uniti e la Cina avrebbe rafforzato
l’immagine di Nixon, nonché quella dello stesso Kissinger, presso l’opinione pubblica americana e
internazionale quali artefici della distensione. L’eventuale riconoscimento statunitense avrebbe
fatto uscire Pechino dall’isolamento, avrebbe consentito alla Cina di recuperare il seggio
permanente al Consiglio di sicurezza ONU, avrebbe emarginato il tradizionale rivale Taiwan,
rafforzando tra l’altro Pechino nel confronto con Mosca.
I primi contatti segreti fra i diplomatici cinesi e americani ebbero luogo a Varsavia nel 1969 ma per
qualche tempo non vi furono significativi progressi. Così nell’aprile del 1971 per la prima volta
veniva invitata in Cina la nazionale americana di ping-pong. Poco dopo, in luglio Kissinger
effettuava una missione segreta a Pechino dove incontrava Mao al fine di preparare la strada a
una visita ufficiale del presidente, la speranza di ravvicinamento era talmente forte che in questa
occasione Kissinger compì una serie di rilevanti concessioni, fra cui un ridimensionamento del
sostegno americano a Taiwan e l’accettazione dell’accesso cinese alle Nazioni Unite con
l’attribuzione del seggio permanente. Negli Stati Uniti Nixon poté annunciare ufficialmente che nel
1972 avrebbe compiuto una visita di stato nella repubblica popolare cinese, nel frattempo nel
volgere di qualche mese l’ONU decretava l’espulsione di Taiwan e l’ingresso di Pechino come
quinto membro permanente del consiglio di sicurezza. Nel febbraio del 1972 il presidente Nixon
andò in Cina dove si incontrò con MAO, questo contribuì a costruire l’immagine di Nixon e
Kissinger come alfieri della pace.

• AMERICA LATINA: IL CILE


Un’altra area dove l’azione di Kissinger e di Nixon ebbe un impatto rilevante fu l’America Latina, in
particolare il Cile. Questo paese veniva spesso rappresentato come uno dei pochi paesi
dell’America meridionale con istituzioni democratiche radicate e con forze armate ligie alla
costituzione. Lo stesso sistema politico appariva caratterizzato dalla presenza di partiti che
sembravano richiamare le tradizioni europee. In realtà come altre nazioni latino-americane, il Cile
era condizionato da gravi contraddizioni sociali, dalla soffocante presenza di alcune grandi
multinazionali americane che sfruttavano le principali risorse del paese, in particolare le miniere di
rame, da pulsioni rivoluzionarie di natura castrista rappresentate dal raggruppamento radicale del
MIR.
Alla fine del 1970 era stato eletto presidente della repubblica Salvador Allende che si era posto
alla guida di una coalizione di sinistra, Uninad Popular, formata dai socialisti, comunisti e dal MIR.
Allende avviò un programma di audaci riforme, in particolare da nazionalizzazioni che colpirono gli
interessi economici statunitensi, inoltre i suoi stretti contatti con Cuba preoccuparono
l’amministrazione americana che temette l’espandersi del castrismo. Nel 1973 le forze armate,
sotto la guida del generale Augusto Pinochet effettuarono un colpo di stato, Allende si suicidò. La
repressione nei confronti delle sinistre fu brutale e indiscriminata.
Sebbene con tutta probabilità il golpe militare fu in prevalenza l’esito di dinamiche interne è certo
che Nixon e Kissinger fossero a conoscenza di quanto stava per accadere, all’indomani del colpo di
stato l’amministrazione americana sostenne la giunta cilena. Gli eventi del paese latino-americano
ebbero forti contraccolpi sull’opinione pubblica mondiale, in particolare in Europa, le forze di
sinistra, ben oltre i partiti comunisti, avevano mostrato interesse e simpatia per Unidad Popular.
La tragica fine di Allende trasformò il leader socialista cileno in un eroe. Gli Stati Uniti vennero
identificati come i responsabili diretti di quanto accaduto e Kissinger non sarebbe più riuscito a
scrollarsi di dosso l’immagine del cinico reazionario, responsabile di gravi crimini contro i diritti
umani. La presa del potere da parte dei militari in Cile fu d’altronde un esempio che venne in
breve tempo seguito dai vertici delle forze armate in altre nazioni dell’America Latina.

˃ L’EUROPA DI FRONTE ALLA GRANDE DISTENSIONE:


Riunitisi nel dicembre del 1969 i leader dell’Europa dei Sei individuarono tre importanti obiettivi
per la CEE:
1) per ciò che concerne l’allargamento, nel corso di un paio di anni la Comunità registrava
l’adesione di tre nuovi membri Gran Bretagna, Danimarca, Irlanda. Al di là degli aspetti economici,
l’allargamento segnava la fine di un’esperienza durata quasi un ventennio: la piccola Europa”,
moderata, anticonformista, fedele all’alleanza con Washington e influenzata dai valori cristiani,
lasciava il posto a un’Europa allargata, laica, meno ligia al rapporto con gli Stati Uniti, spostata a
sinistra e desiderosa di esprimere una propria identità anche nel campo delle relazioni
internazionali.
2) questa tendenza trovò espressione nell’obiettivo dell’approfondimento con l’avvio di nuove
politiche (sociale, ambientale, regionale ecc).
3) e nel completamento, grazie all’istituzione di un bilancio comunitario.
Particolarmente significativi furono i progetti per lo sviluppo di un sistema monetario europeo,
questo obiettivo rappresentava la risposta comunitaria alla debolezza del dollaro.
L’amministrazione Nixon vedeva nella Comunità, nonché nel Giappone, dei pericolosi concorrenti
dell’economia statunitense. Le difficoltà nelle relazioni economiche tra le due sponde
dell’Atlantico trovarono aperta espressione e si inasprirono ulteriormente a seguito della decisione
presa da Nixon (1971) di abolire unilateralmente la convertibilità fra il dollaro e l’oro e imponendo
restrizioni sulle importazioni dall’Europa e dal Giappone. Nello stesso anno gli Stati Uniti e i
partner europei trovarono comunque un accordo che mirava a legare il cosiddetto serpente
monetario europeo, in altri termini il tentativo di mantenere una parità di cambio
tendenzialmente fisse tra le valute della Comunità, al rapporto di cambio con la valuta americana,
che venne tra l’altro svalutata. Questo compromesso ebbe però vita breve.
Si apriva così il campo a un nuovo periodo di incertezza e di difficoltà nel sistema monetario
internazionale. A ciò si univano il rallentamento della crescita economica in tutto l’Occidente,
l’improvvisa crescita die livelli di disoccupazione e vi erano anche ragioni politiche a rendere
complessi i rapporti fra Washington e l’Europa occidentale. Pesava negativamente sulle relazioni
transatlantiche l’appannarsi dell’immagine degli Stati Uniti a seguito della guerra del Vietnam,
inoltre la grande distensione era spesso percepita come un rapporto che emarginava gli alleati
europei, con Washington che accantonava gli interessi dei partner europei.
Il clima creato dalla grande distensione ebbe comunque una significativa dimensione europea e il
suo maggiore interprete fu la Germania di Brandt, il quale non intendeva abbandonare la
speranza nella riunificazione, ma non poteva ignorare come la divisione dell’Europa e della
Germania apparisse un carattere degli equilibri europei destinato a durare a lungo, sancito dalla
presenza del muro. L’ipotesi della riunificazione tedesca doveva essere dunque spostata avanti nel
tempo. Prima tappa della nuova politica di Bonn era il miglioramento dei rapporti con l’Urss,
compito relativamente agevole nel clima della grande distensione, favorito dall’interesse di Mosca
a sviluppare forme di collaborazione economica con il paese che appariva ormai la più forte
potenza economica dell’Europa occidentale. Nell’agosto del 1970 Brandt siglava a Mosca un
importante accordo con il governo sovietico, in base il quale fra i due paesi si rinunciava all’uso
della forza e soprattutto si riconosceva l’esistenza dei confini fra Germania e Polonia, nonché
quello fra le due Germanie. Quasi contemporaneamente il governo di Bonn aveva avviato contatti
con la Polonia per un miglioramento dei rapporti fra i due paesi, tanto da rendere omaggio al
monumento delle vittimi ebree della sollevazione del ghetto di Varsavia, come segno evidente
della rottura con il passato, che proveniva inoltre da un uomo che si era opposto apertamente al
nazismo e durante il conflitto aveva partecipato alla resistenza norvegese. La scelta di Brandt ebbe
un eco positivo nell’opinione pubblica nazionale e al contempo sollevò reazioni contrastanti in
Germania Ovest.

Nel 1972 veniva firmato tra i due governi un importante trattato con il quale oltre a regolare una
serie di questioni minori e ribadire la volontà di pacifiche relazioni, la repubblica federale e la
repubblica democratica si riconoscevano reciprocamente e avviavano relazioni bilaterali, per
quanto non si trattasse di u riconoscimento pieno, tanto è vero che le rappresentanze nelle
rispettive capitali non avrebbero assunto la denominazione di ambasciate. Era comunque
significativo che questo accordo avrebbe aperto alle due nazioni l’ingresso nell’ONU.

˃ CRISI DELL’OCCIDENTE:
Nel dibattito delle Nazioni Unite divenne centrale la questione dello sviluppo economico, visto da
molti paesi del Sud del mondo come strumento vitale non solo per il progresso dei loro cittadini,
ma anche per un vero affrancamento dal neocolonialismo occidentale. Di fronte al predominio
occidentale, nel 1962 un gruppo di nazioni in via di sviluppo dava origine al cosiddetto gruppo dei
77 perché in particolare nel quadro dell’ONU essi potessero far sentire la propria voce. Ne 1960 in
un primo tentativo di scalfire il predominio delle grandi compagnie petrolifere occidentali (le sette
sorelle) alcuni paesi produttori di petrolio avevano creato l’OPEC, scopo dell’organizzazione era la
creazione di un cartello di produttori da contrapporre alle maggiori società petrolifere.
Fondamentali si rivelarono in effetti le politiche di nazionalizzazione delle risorse petrolifere che
vennero messe in atto da gran parte dei paesi produttori.
Il calo degli approvvigionamenti e il rincaro del greggio innescò una spirale che si tradusse in una
grave crisi economica che colpì le nazioni industrializzate nell’inverno 1973-74 alcune fra loro
furono costrette a prendere misure straordinarie quali la limitazione del traffico automobilistico o
la riduzione nell’uso dell’illuminazione pubblica. Al di là delle conseguenze economiche, rilevanti
furono le ricadute di natura psicologica e politica. Per la prima volta l’occidente si sentì inerme nei
riguardi delle nazioni del terzo mondo.
Mentre gli Stati Uniti mantennero un atteggiamento rigido verso le nazioni in via di sviluppo,
l’Europa occidentale decise di sviluppare un dialogo con il sud del mondo. al di là delle singole
scelte nazionali sulle questioni dei rifornimenti energetici, lo shock petrolifero, la diversità di
vedute con l’amministrazione americana sui temi economici e la successiva crisi della presidenza
Nixon parvero stimolare gli europei a elaborare iniziative politiche che sottolineavano una
crescente autonomia dall’alleato americano. Particolarmente significativi furono gli accordi di
Lomè conclusi dalla comunità europea con 40 paesi ex colonie europee (1975), era evidente come
la Comunità accettasse la logica per cui i paesi più deboli dovessero essere protetti nei confronti
delle nazioni ricche.
Alle iniziative europee fece da contrappunto l’improvvisa grave crisi del ruolo internazionale degli
Stati Uniti, che per qualche tempo non solo indebolì la capacità di iniziativa statunitense, ma fece
credere possibile un’ineluttabile decadenza della superpotenza. Contribuì a questa visione degli
Stati Unti lo scandalo che coinvolse Nixon. Nel giugno 1972 nel corso della campagna elettorale
per la presidenza, un gruppo di ex agenti e di criminali era stato scoperto dalla polizia all’interno
della sede del comitato elettorale del partito democratico situata in un complesso residenziale
chiamato Watergate, ben presto quello che era parso un semplice tentativo di furto si rivelò un
atto di spionaggio politico e nel corso del 1973 lo scandalo prese a montare e fu facile collegare
l’azione degli scassinatori con alcuni stretti collaboratori del presidente. Il passo successivo fu la
necessità di scoprire se vi fosse un legame fra Nixon e gli eventi del Watergate, legame confermato
tanto che Nixon fu costretto a consegnare dei nastri registrati che provavano il suo
coinvolgimento. Scattò così una procedura di messa in stato di accusa (impeachment) e l’8 agosto
Nixon fu costretto a dare le dimissioni. Venne sostituito dal vicepresidente Gerald Ford, il ruolo di
Kissinger divenne ancora più influente.
Il simbolo dell’apparente impotenza americana fu la rapida caduta dell’intera Indocina sotto il
controllo comunista il controllo comunista. Agli inizi del 1975 Hanoi lanciava una grande offensiva
militare che nel volgere di poche settimane vedeva i mezzi corazzati nordvietnamiti convergere su
Saigon. Ford non era stato in grado di reagire e unica alternativa fu la rapida vacuazione delle
migliaia di militari, consiglieri e diplomatici americani ancora presenti in Vietnam, questa
operazione assunse ben presto l’aspetto di una fuga. Gli Stati Uniti non avevano mai subito una
così eclatante sconfitta militare, ma soprattutto politica e psicologica. Il 30 aprile il Vietnam veniva
riunificato sotto un unico governo che avrebbe imposto un duro regime spingendo negli anni
successivi centinaia di migliaia di sudvietnamiti a fuggire nel paese nel disperato tentativo di
giungere in occidente.

˃ L’AMMINISTRAZIONE CARTER, DAI DIRITTI UMANI ALLA CRISI DELLA GRANDE DISTENSIONE:
L’amministrazione Carter (1976) venne giudicata negativamente come incoerente, debole e
portatrice di una serie di sconfitte per gli interessi statunitensi. Fondamentale fu però la sua
aspirazione a portare una visione ideale nell’azione internazionale degli Stati Uniti e perno di tale
obiettivo fu la salvaguardia e proposizione dei diritti umani. A differenza delle precedenti
amministrazioni repubblicane, fin dall’inizio del suo mandato Carter sottolineò l’impegno del suo
governo nei confronti dei diritti umani, tra l’altro con prese di posizione pubbliche a favore dei
dissidenti che operavano in Unione Sovietica.
Il dissenso all’interno del blocco comunista trovava d’altronde alimento non solo nelle posizioni
della nuova amministrazione americana. La leadership del blocco sovietico vedeva nel fenomeno
del dissenso (chiedevano rispetto dei fondamentali diritti democratici) una minaccia alle basi
stesse del potere e reagirono spesso in maniera oltremodo dura. La posizione assunta da Carter
venne considerata quindi come particolarmente ostile da Mosca che a sua volta considerava le
dichiarazioni dell’amministrazione americana come indebite ingerenze negli affari interni dei paesi
socialisti. In realtà per i leader del Cremlino la politica americana ricordava la propaganda
antisovietica del periodo più duro della guerra fredda e a Mosca ci si interrogava sulla reale
volontà di Washington di proseguire lungo la strada della distensione tracciata da Nixon e da
Kissinger.
Le scelte compiute da Carter nel contesto dei diritti umani non implicavano una rinuncia alla
politica di distensione, anzi nella visione e nelle speranze del presidente un ulteriore sviluppo degli
accordi con l’Unione Sovietica avrebbe potuto favorire una liberalizzazione all’interno del blocco
sovietico. Proseguirono così i negoziati per la realizzazione di un nuovo accordo sugli armamenti
strategici, il cosiddetto SALT II. Dal punto di vista del Cremlino ma anche di vari alleati europei
degli Stati Uniti, la politica di Carter appariva ambigua o contraddittoria, perché a giudizio di
entrambi l’agitare il tema dei diritti umani poneva in pericolo le conquiste della distensione. In
realtà Carter non vedeva contraddizione nella sua politica. Comunque il risultato nella limitazione
degli armamenti si fondava però su basi particolarmente fragili. In primo luogo già all’indomani
della firma dell’accordo SALT I si erano levate voci critiche che interpretavano il trattato come
troppo favorevole all’Unione Sovietica. Il nuovo trattato SALT II suscitava scarso entusiasmo fra gli
alleati europei di Washington, come sempre timorosi che la distensione bipolare venisse attuata a
danno degli interessi europei occidentali e della NATO.

A rendere ancor più complessa la situazione internazionale intervenne una scelta sovietica,
l’invasione dell’Afghanistan, che avrebbe rappresentato la fine del periodo caratterizzato dalla
distensione e l’avvio di una nuova o seconda guerra fredda. L’Afghanistan non aveva mai
rappresentato un fattore di rilievo nello scontro fa est e ovest, un paese povero e arretrato situato
in una posizione strategica, era stato retto fino al 1973 da una monarchia, che fu poi rovesciata e
proclamata la repubblica. Cinque anni più tardi il governo era stato rovesciato e il potere era stato
assunto da partito democratico del popolo afghano (una formazione di sinistra pro sovietica) che
si divideva a sua volta in due fazioni, Khalq e Parcham. Il tentativo di imporre un sistema politico
laico aveva suscitato l’opposizione armata dei gruppi conservatori islamici e ciò aveva spinto il
governo a rafforzare i legami con Mosca e sollecitare l’intervento die militari sovietici.
Quando Amin (sostenitore di una politica di dura repressione contro l’opposizione islamica) prese
il potere Mosca si preoccupò che questi potesse chiedere l’aiuto degli Stati Uniti e vi era anche la
paura che il fondamentalismo islamico potesse diffondersi nelle repubbliche asiatiche dell’Urss
confinanti con l’Afghanistan. Si decise quindi per un intervento militare che si considerava
provvisorio e che mirava a stabilizzare la situazione afghana, nel 1979 aveva così inizio l’invasione
da parte dell’Armata Rossa che venne giustificata sulla base del trattato di alleanza sovietico-
afghano e con una richiesta di aiuto da parte del governo di Kabul.
In occidente quella che in realtà era una scelta difensiva, motivata dai timori nei confronti di un
Afghanistan instabile e centro del fondamentalismo islamico, venisse percepita come una mossa
aggressiva, nata dalla debolezza degli Stati Uniti. L’amministrazione Carter, spinta dall’opinione
pubblica che vedeva nella distensione una politica che aveva indebolito Washington, decise di
reagire duramente. Fra le misure del presidente vi furono la sospensione della ratifica del SALT II,
una serie di sanzioni di natura economica, l’avvio di una politica di riarmo e il boicottaggio delle
olimpiadi che era previsto si svolgessero a Mosca.
CAP. 6 DALLA NUOVA GUERRA FREDDA ALLA FINE DELLO SCONTRO
EST-OVEST (1979-1991):

˃ L’AMMINISTRAZIONE REGAN E LA NUOVA GUERRA FREDDA:


Nel novembre del 1980 venne eletto presidente degli Stati Uniti Ronal Regan, la sua elezione
suscitò reazioni contrastanti e perplessità nell’opinione pubblica internazionale. Regan aveva
impostato la sua campagna elettorale su un forte appello patriottico, sulla rivendicazione del ruolo
degli Stati Uniti quale guida del mondo occidentale, sulla netta ostilità all’Urss e al comunismo. Si
temeva che ciò avrebbe impresso una pericolosa svolta in senso aggressivo alla politica estera di
Washington. Fra le prime decisioni dell’amministrazione Regan vi fu un netto rafforzamento dello
strumento militare, sia nel settore degli armamenti convenzionali sia in quello delle armi
strategiche. Ciò non implicava una rinuncia, almeno a parole, alla politica di disarmo e durante i
primi anni 80 l’amministrazione americana dichiarò in più di un’occasione la propria volontà di
riprendere il dialogo con l’Unione Sovietica.
Nell’82 vennero avviati colloqui fra le due potenze intorno alla limitazione degli armamenti
strategici (START) i negoziati non sortirono però alcun risultato concreto e si scontrarono con il
clima di crescente reciproco sospetto, soprattutto con le scelte di riarmo americano. Tutto ciò
implicò decisioni in senso analogo da parte dell’Unione Sovietica, innescando una spirale nella
corsa agli armamenti. Varie furono le ragioni dell’aggravarsi della tensione fra le due superpotenze
e che condussero a quella che sarebbe stata definita come seconda o nuova guerra fredda. In
primo luogo va indicato come la politica americana nel settore militare e nella dura retorica
anticomunista utilizzata dal presidente, che a proposito dell’Urss utilizzò pubblicamente la nota
definizione di “impero del male”, venissero interpretate da una leadership sovietica sempre più
incerta e intimorita come segnali di un’evidente volontà aggressiva degli Stati Uniti e della NATO.
Si ritornò in questi anni a parlare di un’ipotesi di first strike nucleare e soprattutto in Europa si
riaffacciò il timore di una guerra atomica.
Nel 1983 la NATO diedi avvio a un’importante esercitazione destinata a simulare lo scontro
nucleare. A Mosca l’esercitazione per qualche giorno venne considerata il prologo di un reale
attacco atomico nei confronti dell’Urss destinato a conseguire attraverso il first strike una vittoria
completa. Il livello di allarme delle forze strategiche sovietiche raggiunse il grado massimo, l’ultimo
prima dell’effettivo scatenamento del contrattacco missilistico russo. Solo di fronte all’assenza di
qualsiasi segnale di reale offensiva da parte atlantica a Mosca ci si convinse che non si era di fronte
a una premeditata aggressione dell’occidente.

Lo contro fra est e ovest non si arrestò al continente europeo, anzi l’amministrazione Regan, sia
nelle sue dichiarazioni, sia nelle sue scelte, mostrò di volersi opporre al comunismo su scala
globale, in una logica che sembrava riprendere i temi della prima amministrazione Eisenhower.
Particolarmente importante in tal senso fu il caso dell’Afghanistan. L’amministrazione Carter
aveva preso contatti con i vari movimenti che si opponevano al governo di Kabul e alle forze
sovietiche. Il sostegno finanziario e militare agli insorti, i cosiddetti mujaheddin, divenne più
consistente durante la presidenza Regan.
Le azioni condotte dai movimenti di resistenza antisovietica divennero più efficaci. Alla metà degli
anni 80 il governo di Kabul sopravviveva solo grazie al sostegno dell’Armata Rossa. Il
coinvolgimento militare russo in Afghanistan si atava rivelando un drenaggio di importanti risorse
economiche e costava alle truppe russe numerose vittime. Più in generale in Asia Washington
puntò a migliorare i rapporti con la Repubblica popolare cinese, tra l’altro fornendo importante
tecnologia militare a Pechino, una scelta che Mosca considerò come grave e pericolosa, vedendo
ormai nella Cina un aperto avversario, un possibile alleato degli Stati Uniti, costringendo così l’Urss
a dislocare una parte del proprio potenziale militare lungo il confine con la Repubblica popolare.
Un’altra area dove l’amministrazione Regan decise di impegnarsi apertamente nella lotta contro
una supposta espansione del comunismo fu l’America centrale. Il Nicaragua governato da decenni
da una brutale dittatura di destra, vide l’emergere di un movimento di guerriglia di ispirazione
marxista. Abolita la dittatura il nuovo governo si schierò su posizioni sempre più radicali, godendo
tra l’altro del sostegno di Cuba. L’amministrazione Regan vide in questa vicenda l’avvio di un
progetto che sotto la guida di Castro e dell’Urss avrebbe mirato a instaurare governi comunisti in
tutta l’America centrale. Nell’ambito del timore reaganiano per il presunto espansionismo
sovietico rientrò l’invasione da parte americana della Repubblica di Grenada, piccola isola dei
Caraibi, indipendente e membro del Commonwealth, che aveva visto l’ascesa al potere con la
violenza di un leader di sinistra. L’amministrazione Regan decise di procedere all’invasione di
Grenada adducendo come giustificazione la necessità di mettere in salvo i cittadini americani
presenti nell’isola. L’operazione ovviamente si concluse in qualche giorno con la sconfitta delle
forze di sinistra e con l’instaurazione di un governo filoamericano. L’iniziativa di Regan fu
condannata dall’ONU, dall’Urss e dai paesi del blocco comunista, suscitando irritazione anche nel
governo di Londra, che si vide scavalcato in una questione riguardante il Commonwealth.

˃ LA NUIOVA LEADERSHIP SOVIETICA E IL TENATIVO DI RIFORMARE IL COMUNISMO:


Per quanto riguarda la situazione l’Urss non stava affrontando un periodo facile: la produzione
agricola restava deficitaria in settori importanti, mentre quella industriale entrò anch’essa in una
fase di stagnazione, la distribuzione non riusciva a far fronte alle esigenze, le innovazioni
tecnologiche e la rivoluzione informatica degli anni 80 restarono limitate al settore militare e non
toccarono gli altri ambienti dell’industria. Al manifestarsi della nuova guerra fredda, l’economia e
la società sovietiche erano ingessate e incapaci di avviare qualsiasi riforma, con un tenore di vita
sempre più basso. Neppure il rapporto con le nazioni satelliti era più un sostegno all’Urss, che
progressivamente si era vista costretta a sostenere le economie dei propri clienti. Questa
involuzione sul piano economico e sociale trovarono riflesso e in qualche modo era provocata da
un’evidente atrofizzazione della leadership sovietica dal punto di vista politico. È a questa
leadership invecchiata e timorosa di qualsiasi mutamento che andava ascritta una serie di
decisioni di politica internazionale che l’occidente interpretò come aggressive, ma che in realtà
esprimevano l’insicurezza e la tradizionale paura nei confronti di una supposta volontà di
accerchiamento dell’Urss da parte degli Stati Uniti e dell’alleanza atlantica.
Gorbaciov si rese conto che l’unione Sovietica non aveva le risorse per un’ulteriore corsa al riarmo
che avrebbe posto alle corde l’economia del paese. Solo una nuova distensione, che implicasse un
sostanziale disarmo, avrebbe permesso all’Urss di diminuire il peso dei costi della difesa e puntare
sulla ristrutturazione del sistema economico.
I leader occidentali ritennero che la posizione di Gorbaciov rappresentasse un escamotage
propagandistico ma l’amministrazione americana decise di accettare la prospettiva del negoziato.
Vennero così avviati contatti fra il responsabile della diplomazia sovietica e il segretario di stato
americano. Nel novembre 1985 era così possibile realizzare un primo incontro fra il vertice Regan
e Gorbaciov, che si svolse a Ginevra. Fra i due leader sembrò nascere un rapporto di fiducia e i
colloqui registrarono inaspettati progressi sul tema del disarmo nel settore nucleare, sebbene non
si raggiungesse alcun accordo. L’atmosfera ottimistica sembrò confermata apparve confermata nei
mesi seguenti dalle dichiarazioni del leader sovietico il quale si disse disponibile a ridurre le forze
sovietiche presenti in Afghanistan e quelle stazionate lungo i confini con la Cina. Non mancarono
rinnovati momenti di tensione fra Washington e Mosca, a causa di alcuni episodi di spionaggio,
che vennero però rapidamente superati.
Sulla posizione di Gorbaciov influì inoltre un drammatico evento. Il 26 aprile 1986 a Cernobyl in
Ucraina si verificava un’esplosione all’interno di una centrale nucleare, l’esplosione rivelò
l’arretratezza della tecnologia sovietica tanto che Gorbaciov fu avvertito in ritardo dell’evento e
per qualche giorno cercò di minimizzare quanto accaduto per poi esser costretto ad ammettere la
gravità dell’evento. L’episodio di Cernobyl rafforzò in Gorbaciov l’esigenza di trovare un accordo
con gli Stati Uniti che ponesse fine alla corsa agli armamenti e aprisse una nuova fase di
distensione. Nell’ottobre 1986 si teneva un nuovo summit tra i due, in questa occasione l’accordo
parve quasi raggiunto, in particolare per ciò che concerneva l’opzione zero sulle forze nucleari
intermedie, ma non si giunse ad una conclusione positiva a causa della determinazione del
presidente americano a non abbandonare il progetto di guerre stellari come richiesto da Mosca.
Nei mesi successivi però la posizione di Regan si indebolì significativamente sul piano interno a
causa di alcuni scandali paragonati al Watergate.
Nel dicembre del 1987 si teneva Washington un summit sovietico-americano nel corso del quale
veniva firmato il trattato INF, grazie al qual venivano eliminati tutti i missili di raggio intermedio
presenti in Europa, i cosiddetti euromissili. Questo accordo era relativamente più favorevole per
gli americani, sulla base delle effettive perdite di armamenti per i due paesi.

˃ IL CROLLO DEL COMUNISMO:


Il processo riformatore avviato da Gorbaciov non poteva non avere riflessi sui rapporti tra Mosca e
le nazioni satelliti dell’Europa centro-orientale, sul piano economico le nazioni del blocco
socialista vivevano un periodo di crisi non molto diverso da quello che stava vivendo dall’Urss e
rappresentavano per il Cremlino un crescente onere finanziario. I gruppi dirigenti dei vari partiti
comunisti si mostravano d’altronde incapaci di offrire qualsiasi soluzione pratica ai problemi
economici e apparivano spesso sconcertati nei riguardi delle politiche riformatrici proposte da
Gorbaciov fino al punto di impedire la diffusione di pubblicazioni ufficiali provenienti dall’Urss.
Il processo che avrebbe condotto alla fine del comunismo in Europa, e quindi alla conclusione della
guerra fredda, prese le mosse dalla Polonia, dove la crisi economica si era aggravata fin quando di
fronte a una situazione di deficit insostenibile il governo aveva deciso un forte incremento dei
prezzi dei generi di prima necessità.
Come reazione a tale scelta si erano manifestati importanti scioperi spontanei. Si ritenne a quel
punto opportuno allentare la presa del regime militare sul paese e avviare un dialogo con
l’opposizione al fine di individuare un compromesso che riportasse la nazione a una condizione di
normalità dopo alcuni anni di dittatura militare, nella speranza di fronteggiare la pesante
situazione economica e sociale. In estate si tennero libere elezione e formato un governo
composto in ampia misura da ex dissenti, aveva così inizio lo smantellamento del sistema
comunista in Polonia.
Accanto a questa situazione, si stava diffondendo in ampi settori della popolazione un vago
sentimento di insoddisfazione, di volontà di cambiamento, di frustrazione per il confronto con le
prospere condizioni di vita del cittadino della Germania ovest rispetto alla parte est. Lo steso muro
appariva ormai anacronistico e in un discorso tenuto nel 1987 a Berlino davanti alla porta di
Brandeburgo, Regan aveva lanciato a Gorbaciov un accorato appello a distruggere quel simbolo
della guerra fredda. Nell’agosto migliaia di cittadini della DDR (rep. democ. tedesca, est)
trascorsero le vacanze in Ungheria e approfittando dell’abolizione delle misure di controllo lungo il
confine con l’Austria presero a fuggire nella vicina repubblica austriaca. Il regime di Honecker in
evidente difficoltà provò a chiudere le frontiere, ma di fronte all’incertezza delle autorità il
dissenso cominciò a organizzare manifestazioni. In ottobre a Berlino est si tennero le imponenti
cerimonie per la celebrazione dei 40 anni dalla creazione della DDR, dietro questa facciata a
malapena si celava il crescere del malcontento.
Nel volgere di pochi giorni Honecker venne allontanato dal potere e sostituito dal più giovane
riformatore Egon Krenz. Come nel caso polacco questa scelta non era ormai sufficiente e giungeva
troppo tardi, le manifestazioni contro il regime diventavano sempre più imponenti. Nel tentativo
di frenare la protesta la nuova leadership elaborò alcune misure che avrebbero dovuto consentire
opportunità di viaggio all’Ovest da parte dei cittadini della DDR. Il 9 novembre il portavoce del
governo di fronte a decine di giornalisti occidentali tenne una conferenza stampa per illustrare le
misure prese dal governo, sollecitato da una domanda circa la data di decorrenza della nuova
normativa relativa alla libertà di viaggio, preso alla sprovvista incautamente rispose che
l’esecutività sarebbe stata immediata, la notizia venne subito trasmessa dai notiziari televisivi
ufficiali. Nel giro di qualche ora un numero crescente di cittadini di Berlino est prese ad affollarsi ai
check-point lungo il muro premendo per poter passare. Le guardie di frontiera e la polizia, senza
ordini rimasero incerte sul da farsi finendo poi per aprire a tutti. Molti cominciarono a salire sul
muro e a tentare di creare dei varchi. Dall’altra parte migliaia di berlinesi dell’ovest accoglievano
festanti i compatriotti dell’est. Con una spontanea e grande festa collettiva aveva fine il muro di
Berlino e la guerra fredda si avviava alla conclusione. Nei giorni successivi si comprese che l’Urss
non sarebbe intervenuta. Il muro il simbolo più evidente della guerra fredda, veniva rapidamente
smantellato.
• Gli eventi di Berlino ebbero immediata ripercussione negli altri paesi del blocco socialista,
manifestazioni di massa cominciarono ad essere organizzate a Praga, i rappresentanti del partito
comunista decisero di abbandonare il potere consegnandolo pacificamente (rivoluzione di velluto).
• In Ungheria i comunisti locali, prima ancora della caduta del muro avevano accelerato il processo
di trasformazione del partito comunista in partito socialista accettando la nascita di altre
formazioni politiche.
• Diverso fu il caso della Romania dove il dittatore, durante in un discorso fu interrotto dagli
insorti e abbandonò Bucarest insieme alla moglie mentre migliaia di persone assaltavano e
destavano le sedi del potere con l’esercito rapidamente schieratosi a fianco della popolazione.
Al momento però, l’imperativo più pressante appariva quello relativo al futuro della Germania. Il
regime della DDR era in via di disgregazione e l’aspirazione alla riunificazione fra i cittadini era
sempre più evidente. Sebbene nelle opinioni pubbliche occidentali la caduta del muro e la
prospettiva della fine guerra fredda fossero accolte positivamente, i leader delle maggiori potenze
occidentali e dell’Urss non nascondevano la loro preoccupazione di fronte a sviluppi che sino a
pochi giorni prima erano parsi impensabili. Per ciò che concerne gli esponenti europei occidentali,
l’ipotesi di una Germania unificata sembrava destinata a rompere equilibri consolidatisi nel tempo,
oltre alle possibili reazioni di Mosca si temeva il ripresentarsi di un’egemonia tedesca sull’Europa.
Più favorevole alla riunificazione era l’amministrazione americana per la quale quanto stava
accadendo in Europa sembrava prospettare la vittoria nella guerra fredda. Ciononostante Bush si
mosse con prudenza nel timore di irritare il Cremlino e di favorire indirettamente i gruppi ostili a
Gorbaciov, quest’ultimo da parte sua fin dall’inizio apparve rassegnato ad accettare la
riunificazione tedesca, per quanto chiedesse che la futura Germania unita non aderisse alla NATO.
Fondamentale fu l’atteggiamento assunto dall’amministrazione americana, il presidente Bush si
schierò infatti a favore della rapida riunificazione partendo dal presupposto che tale evento
avrebbe rafforzato un fedele alleato degli Stati Uniti e confermato la vittoria americana nel
contesto dello scontro con l’Unione Sovietica. A questo punto sul piano internazionale l’ostacolo
maggiore era rappresentato dall’Urss dove in molti vedevano nella riunificazione tedesca non solo
un elemento nel processo di disgregazione del blocco orientale, ma anche un possibile
allargamento della NATO con la conseguente fine della presenza di decine di migliaia di soldati
dell’armata rossa nell’ex DDR.
Il disgregarsi del patto di Varsavia determinato dalla fine dei governi comunisti negli altri paesi
europei, l’aggravarsi della crisi economica, Gorbaciov comprese di trovarsi in una posizione molto
debole. Nel luglio 1990 si tenne un incontro fra il cancelliere tedesco e il leader sovietico,
quest’ultimo finì con l’accettare la prospettiva di una Germania riunificata e membro dell’alleanza
atlantica, alle sole condizioni che non vi fossero truppe e armamenti atomici della NATO stazionati
nel territorio dell’ex DDR, che la Germania si prendesse l’onere dello smantellamento delle basi
dell’armata rossa e della sistemazione nell’Urss dei militari trasferiti nonché un ulteriore sostegni
economico a favore di Mosca. Kohl era pronto a promettere, oltre al cambio alla pari fra il marco
della DDR e quello della repubblica federale, offrendo ai cittadini dell’est un’immediata e concreta
disponibilità finanziaria da utilizzare nell’acquisto di beni occidentali finalmente disponibili. Il crollo
del muro stava infatti rivelando in tutti i paesi del blocco orientale una situazione economica ben
più disastrosa di quanto non si fosse sospettato, ciononostante Kohl puntò sulla rapida comparsa
della repubblica democratica.
Nel marzo vennero indette libere elezioni e i partiti analoghi a quelli della Germania ovest si
trasformarono con il sostegno degli omonimi partiti della repubblica federale, in veri competitori.
In realtà il voto si traduceva in una sorta di referendum a favore o contro la riunificazione
immediata. I cittadini dell’ex DDR si erano espressi a favore del marco occidentale e di una sorta di
annessione da parte di Bonn. Veniva così siglato il trattato sul futuro della Germania che in
qualche modo poneva fine per il paese, oltre alla divisione, a un dopoguerra durato più di 40 anni.
Il 3 ottobre 1990 in meno di un anno dalla caduta del muro, davanti alla porta di Brandeburgo i
tedeschi festeggiavano la rinascita di una Germania unita.

• Il processo di democratizzazione nell’Europa centro-orientale e la crisi del comunismo ebbero un


riflesso significativo anche all’interno dell’altra grande nazione a guida comunista, la repubblica
popolare cinese. Nel 1989 soprattutto a Pechino migliaia di giovani organizzarono manifestazioni
nelle quali veniva chiesta maggiore libertà di espressione. A differenza dell’Unione Sovietica i
vertici del partito comunista reagirono con dura efficacia. In effetti il movimento per la democrazia
in Cina era relativamente debole e rappresentava solo una minima percentuale della popolazione
urbana.

• In Medio Oriente, nei paesi palestinesi la situazione restava grave. Nel 1988 Iran e Iraq
accettavano una tregua favorita dall’ONU che in realtà poneva fine a guerra protrattasi per quasi
dieci anni. Agli inizi del 1990 Saddam Hussein aveva cominciato a esercitare pressioni sul vicino
Kuwait con richieste finanziarie, rapidamente il presidente iracheno era passato a rivendicazioni di
natura territoriale che si sarebbero tradotte nel passaggio sotto la sovranità di Bagdad di aree con
importanti giacimenti petroliferi. L’azione di Saddam Hussein venne sottovalutata in occidente,
anche dalle autorità americane. Il leader iracheno si illuse che dopo aver goduto per anni del
sostegno occidentale ed essendo esponente di un regime laico rispetto al temuto integralismo
iraniano gli Stati Uniti, tra l’altro concentrati sulle vicende europee, avrebbero finito con
l’accettare un’azione di forza contro il Kuwait. Nell’agosto del 1990 l’esercito iracheno invadeva lo
stato vicino e lo occupava nel volgere di poche ore.
Il governo di Bagdad si scontrava però con una dura condanna internazionale. Nonostante i passati
stretti legami con l’Iraq, l’Urss di Gorbaciov approvava una serie di risoluzioni del consiglio di
sicurezza dell’ONU promosse da Washington e dalle altre potenze occidentali che esprimevano
condanna nei confronti dell’azione irachena, davano avvio a sanzioni economiche e consentivano
una mobilitazione militare, che sotto la guida degli Stati Uniti mirava a impedire ulteriori
aggressioni e a rappresentare un monito perché Saddam Hussein evacuasse il Kuwait. Nel giro di
poche settimane l’amministrazione Bush trasferiva al confine con l’Iraq e il Kuwait, centinaia di
migliaia di uomini e un imponente spiegamento di navi, aerei e mezzi corazzati. Al contingente
americano si univa una sorta di coalizione formata da numerosi paesi.
L’operazione prendeva il nome Desert Shield. Da parte sua Saddam Hussein riteneva di poter
temporeggiare e trovare una soluzione di compromesso, alternando minacce e vaghe iniziative di
negoziato. In primo luogo il dittatore iracheno prese in ostaggio migliaia di cittadini occidentali
residenti in Iraq, minacciando di trasformarli in scudi umani in caso di guerra. Intanto
l’amministrazione Bush programmava un conflitto. Significativo fu il ruolo dell’ONU, in consiglio di
sicurezza il delegato sovietico e quello cinese, per quanto per ragioni diverse, non si opposero alle
risoluzioni promosse dagli Stati Uniti, in particolare a quella che poneva una scadenza precisa per
la liberazione del Kuwait lasciando in caso negativo, mano libera per un’azione militare condotta
dall’amministrazione americana.
In dicembre Saddam liberava tutti gli ostaggi occidentali nelle sue mani ma nelle settimane
successive egli cercava di temporeggiare con mosse che in realtà miravano a rendere vana la
scadenza del 15 gennaio imposta dall’ONU per il ritiro delle sue truppe dal Kuwait, infine tra 16 e
17 gennaio l’amministrazione Bush ordinava l’inizio delle azioni bellicose contro l’Iraq. Saddam
Hussein cercava nel frattempo di provocare Israele costringendolo a entrare in guerra, vennero
infatti lanciati dei missili contro lo stato ebraico ma l’amministrazione americana fu in grado di
convincere il governo israeliano a non reagire. Poco dopo Saddam Hussein subiva una dura
sconfitta. È comunque significativo che l’amministrazione Bush non intendesse proseguire oltre le
operazioni, Saddam per quanto indebolito restava al potere e manteneva intatta una parte del suo
esercito. La conclusione di Desert Storm venne considerata come la prova dell’affermazione
americana nel mondo che stava uscendo dalla guerra fredda, sul piano militare il Vietnam era
stato archiviato e Washington aveva confermato la forza del proprio apparato militare.

• Sul piano dei rapporti con gli Stati Uniti, dopo la caduta del muro Gorbaciov proseguì nella
politica di disarmo, d’altronde funzionale alla riduzione delle spese militari, uno degli elementi che
nelle speranze del leader del Cremlino avrebbe potuto rappresentare un beneficio per la disastrata
economia sovietica. Subirono così un’accelerazione i negoziati per la riduzione bilanciata delle
forze in Europa. In occasione di un vertice sovietico-americano tenutosi a Mosca, Bush e Gorbaciov
firmavano un nuovo trattato START sulla limitazione degli armamenti strategici, si poneva tra
l’altro un limite ai vettori e alle testate nucleari posseduti da Stati Uniti e Unione Sovietica, gli
arsenali nucleari vennero ridotti del 30% vennero previsti efficaci sistemi di controllo reciproco, si
decise un limite ai vettori su sottomarini.
Appariva evidente che il Cremlino avesse compiuto una serie di concessioni, mentre l’alleanza
atlantica restava in vigore, l’Urss perdeva il suo strumento difensivo e veniva meno lo scudo
protettivo nei confronti dell’occidente rappresentato dai paesi del patto di Varsavia. A Mosca
Gorbaciov venne additato come il responsabile della crisi della potenza sovietica, tanto che venne
posto in una sorta di stato di arresto nella sua residenza e annunciata la formazione di un
comitato d’emergenza guidato dal vicepresidente Janaev, ma Gorbaciov si rifiutò di firmare le
dimissioni e il colpo di stato guidato dagli elementi conservatori del PCUS era condotto in maniera
quasi dilettantesca. Nel giro di due giorni risultò chiaro che il golpe fosse fallito, Gorbaciov venne
liberato e poté rimanere a Mosca ma poco dopo fu costretto ad ammettere la necessità di
sciogliere il governo dell’Urss e si dimise anche dal PCUS.
Il processo di disgregazione dell’Urss subiva un’ulteriore accelerazione. Le repubbliche baltiche per
prime ne approfittarono per dare piena sostanza alla loro dichiarazione d’indipendenza, furono
seguite da quelle del Caucaso, ma l’elemento più importante fu la decisione presa in ottobre
dall’Ucraina di staccarsi dall’Urss. Il 25 dicembre 1991 la bandiera dell’Urss veniva ammainata
dalla torre del Cremlino e Gorbaciov usciva di scena, al suo posto la Russia aveva un nuovo leader,
Borsi El cin. Con la scomparsa dell’Unione Sovietica la guerra fredda aveva fine e il sistema
internazionale entrava in una nuova fase.
CAP. 7 L’ILLUSIONE DI UN NUOVO ORDINE INTERNAZIONALE (1992-
2001):

Il nuovo ordine internazionale, dopo la fine della guerra fredda e la scomparsa dell’URSS andava
ridefinito. In primo luogo la scomparsa dell’Urss e la fine del comunismo in Europa vennero
interpretate come una vittoria del capitalismo e degli Stati Uniti. In particolare, per ciò che
riguarda questi ultimi, si sostenne come fosse nato un mondo un popolare, con una sola
superpotenza, gli Stati Uniti appunto. Se ciò implicava che Washington era a questo punto l’unico
attore in grado di esercitare un’influenza globale di carattere politico, militare, economico e
culturale, si ritenne anche che il venir meno del nemico per antonomasia avrebbe spinto
Washington a una minore propensione a impegni all’estero, potendo selezionare le questioni di
maggior interesse per il paese e lasciando la soluzione delle crisi minori ad altri attori.
La fine della guerra fredda sembrò d’altronde offrire l’opportunità per la creazione di un nuovo e
più stabile ordine internazionale ove l’ONU, come nel caso della guerra del Golfo sarebbe stata ora
in grado di esercitare pienamente le sue funzioni, venendo meno la contrapposizione politica e
ideologica che aveva sovente bloccato il Consiglio di sicurezza e impedito di conseguenza qualsiasi
decisione di rilievo.
Le Nazione Unite avrebbero avuto il compito di intervenire per porre fine non solo a conflitti
regionali, ma anche a crisi interne, attraverso quelle che sarebbero state definite a seconda del
tipo di iniziativa, operazioni internazionali di peace keeping (mantenimento della pace), peace
building (costruzione della pace), peace enforcing (imposizione della pace) sotto l’egida dell’ONU.
Si ritenne infine che la comunità internazionale potesse giudicare e punire coloro che si fossero
macchiati di crimini contro l’umanità. Una serie di stati membri dell’ONU decideva di creare una
Corte penale internazionale il ci compito sarebbe stato quello di punire individui resisi colpevoli di
gravi crimini contro l’umanità. Poiché l’ONU è un insieme di stati sovrani e nonostante le premesse
in tal senso, non possiede un proprio esercito, restava il problema di chi avrebbe dovuto assumersi
l’onere prevalente, anche in nome della comunità internazionale di riportare la pace garantendo al
contempo il pieno rispetto dei diritti umani. Tutto ciò riportava al ruolo che gli Stati Uniti, unica
superpotenza rimasta, avrebbero dovuto e soprattutto inteso svolgere nel nuovo ordine
internazionale.
Nelle elezioni del 1992 fu eletto presidente Bill Clinton, il quale rappresentava una rottura, anche
generazionale rispetto ai suoi predecessori, non aveva avuto alcuna esperienza diretta alla II
guerra mondiale, né della fase più dura della guerra fredda. Già durante la presidenza Bush alcune
crisi locali, strettamente influenzate dalla guerra fredda erano parse risolversi in maniera
favorevole a Washington senza che l’amministrazione americana dovesse esercitare sforzi
particolari (es. Nicaragua, Repubblica di Panama, Cile, Brasile). Il venir meno dello scontro fra est e
ovest e l’imporsi di un sistema economico globalizzato e le nuove politiche delle amministrazioni
americane favorirono le trasformazioni manifestatesi in quasi tutta l’America Latina. Solo la Cuba
castrista restava fedele all’ideologia marxista-lenista, ma in una posizione di sostanziale
isolamento e soprattutto ormai priva dell’aiuto dell’Urss.
La crisi dell’Unione Sovietica con la scomparsa del sostegno economico-militare di Mosca e la crisi
del modello di economia socialista influenzarono per quanto in maniera e modi diversi anche il
continente africano. In Angola per esempio, dove nel corso degli anni 80 era proseguito il conflitto
fra il governo di ispirazione marxista e il movimento UNITA sostenuto da Washington, nel 1991
venne concluso un accordo che condusse al ritiro delle forze cubane e dei consiglieri del blocco
orientale, nonché al tentativo di creazione di un governo di riconciliazione nazionale. Ben presto
ripresero le ostilità ma comunque il conflitto angolano uscì dal quadro della guerra fredda per
assumere i connotati di uno scontro di carattere interno.
Sin dagli anni 70 il corno d’Africa era stato profondamente condizionato dalla guerra fredda. Il
regime etiopico era stato caratterizzato da una delle più sanguinose dittature del continente.
Senza più il supporto di Mosca e dell’Avana il governo veniva rovesciato con un colpo di stato, i
nuovi leader avviarono il paese verso un processo di democratizzazione e veniva indetto un
referendum che a larghissima maggioranza sanciva l’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia.
Se quindi nel corno d’Africa si assisteva alla nascita di un nuovo stato, nella stessa regione si
doveva registrare la disintegrazione della Somalia. Mogadiscio divenne terreno di scontro fra le
varie fazioni in lotta per il potere e l’intero paese sprofondava nel caos e veniva colpito da una
grave carestia. Tra il 1991/1992 la Somalia apparve come l’esempio di una situazione in cui i più
importanti attori del nuovo ordine uscito dalla fine della guerra fredda avrebbe potuto esprimere
un risolutivo intervento umanitario. L’ONU decise così di dare avvio a un’operazione di peace
keeping, alla quale tra l’altro l’amministrazione Bush ritenne dovessero prendere parte le forze
americane. La gestione da parte statunitense della missione ricadde però sull’amministrazione
Clinton. Quella che all’inizio si era presentata come un’agevole operazione umanitaria, nata con il
sostegno dell’opinione pubblica occidentale, si trasformò in una serie di scontri fra le unità
dell’ONU e le bande armate somale con perdite significative. Le forze statunitensi subirono
importanti perdite e ciò condusse Clinton a decidere il rapido ritiro dei propri uomini dalla
Somalia, per qualche tempo l’amministrazione americana avrebbe deciso di assumere un
atteggiamento di basso profilo nella gestione delle crisi locali in cui non fosse in gioco un diretto
interesse di Washington. La scelta americana venne imitata da altri paesi e sebbene le Nazioni
Unite continuassero a cercare di risolvere la crisi somala, il paese africano restò per vari anni in
una situazione di perenne guerra civile dando origine a uno dei primi casi di stato fallito.
Questo insuccesso delle Nazioni Unite non restò isolato, il caso forse più drammatico, quello del
genocidio ruandese ebbe luogo alcuni mesi dopo della missione in Somalia. Il Ruanda, ex colonia
belga, aveva ottenuto l’indipendenza nel 1992 e convivevano due gruppi, e uno condusse una
sistematica azione di sterminio della minoranza presente, nel 1994 un numero imprecisato di
persone tra le 500.000 e il milione vennero massacrate. Ciò condusse a una reazione da parte
dell’ONU ma solo con grande ritardo, probabilmente perché condizionato dal caso somalo, decise
di intervenire lasciando il compito di riportare l’ordine alla Francia (che influenzava le ex colonie
belghe). Fu riportata una certa stabilità ma l’episodio lasciò l’impressione che le Nazioni Unite
fossero disposte a intervenire in maniera efficace solo nel caso di chiare prese di posizione da
parte degli Stati Uniti.
˃ LA RICOMPOSIZIONE DEL CONTINENTE EUROPEO:
La caduta del muro di Berlino la riunificazione tedesca e la fine del comunismo in Europa avevano
suscitato nelle opinioni pubbliche europee la speranza in una rapida ricomposizione del vecchio
continente dopo una divisione protrattasi per oltre 40 anni. Non mancavano però i timori nei
confronti di sommovimenti anche violenti e nel ripresentarsi di rivalità e contrasti che il rigido
sistema della guerra fredda aveva congelato. Non è un caso che in alcune nazioni dell’ex blocco
sovietico alla fine del decennio le elezioni conducessero al governo esponenti degli ex partiti
comunisti, i quali comunque non erano intenzionati ad abbandonare la strada della democrazia
liberale e del sistema capitalista. Fondamentale per l’attuazione di una transizione
sostanzialmente pacifica del comunismo alla democrazia fu l’aspirazione espressa
immediatamente dalle nuove leadership post-comuniste affinché i propri paesi diventassero in
tempi bravi membri a pieno titolo della Comunità europea trasformatasi in Unione Europea nel
1993. La nascita dell’UE e i sostenitori della costruzione dell’Europa unita videro l’opportunità per
il vecchio continente di tornare a svolgere un ruolo significativo e autonomo nel contesto
internazionale, senza doversi preoccupare dell’ormai non più esistente minaccia sovietica ed
essendosi l’Europa liberata dalla tutela degli Stati Uniti, che anzi durante la prima amministrazione
Clinton sembrarono ansiosi di cedere ai partner europei una serie di responsabilità e di oneri per
ciò che riguardava la determinazione dei nuovi equilibri del vecchio continente.
Significativa in tal senso nel quadro dell’UE era la nascita della Politica europea di sicurezza e
difesa (PESD), in altri termini la possibilità per l’UE di prendere parte con truppe dei paesi membri
a operazioni di soccorso umanitario e di salvaguardia della pace. Il primo passo di allargamento
dell’UE fu rappresentato dall’adesione di Svezia, Finlandia, Austria (la loro scelta era una
conseguenza della fine della guerra fredda e crollo dell’Urss, visto che Mosca si era sempre
opposta al loro ingresso nella comunità europea) e Svezia.
Maggiori ostacoli si frapposero all’adesione all’UE dei paesi dell’Europa centro-orientale usciti
dall’esperienza del comunismo. Queste nazioni si trovarono tutte in condizioni di inferiorità
economica rispetto a gran parte degli stati membri, quindi l’UE si sarebbe dovuta fare in parte
carico del loro sviluppo. A questo punto l’UE trovò utile indicare una serie di parametri
fondamentali a cui i paesi candidati avrebbero dovuto rispondere prima di poter essere ammessi (i
cosiddetti criteri di Copenaghen).

Per Washington l’interesse verso l’Urss rimase forte anche dopo il suo disgregamento e l’ascesa al
potere di Boris El’cin, in primo luogo perché non era possibile escludere una rinascita del
comunismo, in secondo luogo per l’importanza che la Russia continuava a rivestire sullo scenario
mondiale, infine per il timore che una situazione di instabilità avrebbe potuto creare problemi di
sicurezza visto l’enorme potenziale nucleare ancora posseduto da Mosca. Con la fine dell’Urss la
federazione russa, sotto la guida di El’cin entrò in una fase di incertezza se non di caos facendo
spesso temere per la stessa sopravvivenza dello stato russo. Il nuovo leader del Cremlino lanciò un
programma di trasformazione dell’economia secondo i dettami delle dottrine neoliberiste, finendo
con il dislocare ciò che restava dell’apparato industriale sovietico, in effetti le privatizzazioni
andarono a vantaggio di un piccolo gruppo di spregiudicati speculatori, mentre la corruzione si
estendeva in maniera impressionante.
Intere categorie di cittadini si trovavano impoveriti e senza più il sostegno presente dello stato
sociale che aveva caratterizzato l’Urss. Nel 1993 all’interno del parlamento si manifestò un’aperta
opposizione formata da nazionalisti ed ex comunisti che cercò di deporre El’cin. Questi rispose con
la forza facendo occupare il parlamento dalle truppe e ponendo agli arresti esponenti
dell’opposizione. La debolezza della federazione russa venne in risalto nella vicenda della crisi
cecena. La Repubblica cecena faceva parte della federazione russa, ma dal 1991 il paese aveva
proclamato l’indipendenza da Mosca, con cui i rapporti erano stati spesso conflittuali. Dopo vari
tentativi di soluzione diplomatica nel 1994 El’cin decise di riprendere il controllo della repubblica
separatista con una campagna militare. Le truppe dell’armata rossa, disorganizzate e demotivate
dopo la fine dell’Urss, furono spesso messe in difficoltà dalle milizie cecene. Solo nel 1996 dopo un
conflitto sanguinoso e brutale venne raggiunto un accordo con il quale lo stato ceceno accettava
comunque una formale sovranità russa. In realtà nella regione continuarono gli scontri e le
violenze tra le fazioni, significativo era il rafforzarsi del fattore religioso nell’azione di gruppi che si
rifacevano al fondamentalismo islamico, i quali non mancarono di ricorrere ad atti terroristici
all’interno della stessa Federazione russa. Comunque El’cin nel 96 venne rieletto presidente.
Le vicende russe erano seguite con costante preoccupazione in occidente, in particolare negli Stati
Uniti, e non venne fatto mancare l’appoggio politico e finanziario a El’cin per il timore dell’arrivo al
potere di gruppi nazionalisti o degli ex comunisti, che molto spesso sembravano condividere
l’ostilità verso l’occidente. Ciò nonostante nel 1998 la Russia dovette affrontare una gravissima
crisi economica che la portò sull’orlo della bancarotta. L’anno successivo El’cin decise di dimettersi
passando la carica al neo primo ministro Vladimir Putin che nel 200 sarebbe stato eletto a pieno
titolo presidente della Federazione Russa.
Il caotico stato della Russia, con l’incertezza circa il suo futuro fu uno dei motivi che spinse gli Stati
Uniti a favorire una politica di stabilizzazione dell’Europa centrale, allo scopo da un lato di
confermare il ruolo degli Stati Uniti nel vecchio continente, dall’altro di stabilizzare le aree
confinanti con la Russia. Si decise di attuare un ampliamento dell’alleanza atlantica: nel 1997 si
avviavano le procedure per l’ingresso nella NATO di Polonia, Ungheria e Repubblica ceca.

˃ LA GLOBALIZZAZIONE:
Il termine globalizzazione o moralizzazione prese a divenire di uso comune a partire dagli anni ’90.
Gli aspetti di questo fenomeno che hanno avuto maggiore influenza sulle relazioni internazionali.
1) la globalizzazione ha avuto in primo luogo una forte componente di natura economica. La fine
della guerra fredda e la sostanziale accettazione in tutto il mondo dell’economia di mercato ha
rappresentato un aspetto fondamentale della modernizzazione. Va indicato ad esempio come
dopo il crollo del blocco comunista si diffuse rapidamente la convinzione che le relazioni
economiche internazionali dovessero ispirarsi al concetto di free trade, di piena libertà di
commercio, di rifiuto di qualsiasi politica protezionista. la globalizzazione si è tradotta in una
rapida crescita della produzione, degli scambi, degli investimenti, del trasferimento di capitali e
della mobilità nella localizzazione delle attività industriali.
2) un altro importante aspetto della globalizzazione nel settore economico fu il crescente rilievo
assunto dal capitalismo finanziario, in tale settore, oltre al progressivo abbattimento degli ostacoli
nella circolazione dei capitali su scala mondiale, un ruolo centrale fu svolto dallo sviluppo della
tecnologia, soprattutto informatica, la quale avrebbe consentito agli operatori finanziari di
spostare ingenti somme di denaro da un mercato all’altro, quasi in tempo reale. In tal modo fu
possibile veder nascere, ma anche scomparire, grandi fortune nel volgere di qualche giorno.
3) significativo effetto della globalizzazione fu il progressivo affermarsi di nuovi protagonisti sulla
scena economica internazionale, i cosiddetti paesi emergenti, in particolare quattro nazioni:
Brasile, Russia, India e Cina, le cui economie avrebbero dominato il ventunesimo secolo.
4) altro importante fenomeno della globalizzazione fu lo svilupparsi di nuovi importanti flussi
migratori sia di carattere interno, sia più frequente di natura internazionale. Ricordiamo il
processo di inurbamento di decine di milioni di cittadini cinesi che dalle campagne si trasferirono
verso i maggiori centri urbani. Gli spostamenti verso i paesi sviluppati dell’Europa occidentale da
alcuni paesi dell’Europa dell’est (Romania, Albania, Ucraina, Moldavia). Vanno anche ricordati i
flussi migratori verso gli Stati Uniti dai paesi dell’America centrale e da alcune nazioni dell’Asia.

La globalizzazione nonostante venisse presentata da politici e studiosi in maniera positiva, si


scontrò con una serie di voci preoccupate. Il legame tra un’economia sempre più aperta e
competitiva e la prospettiva di una continua crescita vennero individuate come le cause di un
peggioramento delle condizioni di vita sull’intero pianeta: da un venir meno di importanti risorse
materiali all’incremento nel livello di inquinamento, all’ipotesi che si stesse manifestando un
radicale cambiamento del clima. Le preoccupazioni di carattere ecologista si diffusero su scala
mondiale, anche grazie all’azione di gruppi di pressione, quali Greenpeace.
Il tema divenne così rilevante d’interessare le Nazioni Unite che vi fu il tentativo di affrontare il
problema attraverso una serie di conferenze internazionali. Fu raggiunto il cosiddetto accordo di
Kyoto, l’accordo ridurre progressivamente in maniera sostanziale la produzione di quegli elementi
chimici determinanti l’inquinamento dell’atmosfera e il cosiddetto effetto serra.
CAP. 8 UN NUOVO ORDINE INTERNAZIONALE? (2001-2014):

˃ L’11 SETTEMBRE E LE SUE CONSEGUENZE:


L’11 settembre 2001 alcuni fondamentalisti islamici appartenenti a un gruppo terroristico sino ad
allora quasi sconosciuto, al-Qaida, dirottarono quattro aerei di linea nel cielo degli Stati Uniti. Due
vennero lanciati contro le Twin Towers che a seguito dell’impatto si sarebbero dapprima
incendiati per poi crollare su sé stessi; il terzo venne lanciato contro il Pentagono a Washington;
sul quarto aereo i passeggeri avrebbero ingaggiato una disperata lotta con i dirottatori e il velivolo
sarebbe precipitato in un bosco provocando la morte di tutti coloro che erano a bordo. La tragedia
delle Twin Towers sarebbe costata circa 3.000 vittime innocenti e le immagini del dramma,
trasmesse quasi in diretta in tutto il mondo, colpirono sia i governi sia le opinioni pubbliche, in
particolare in Occidente, fino al punto da far ritenere che l’11 settembre rappresentasse un
radicale momento di svolta su scala mondiale, quell’episodio spazzò in poche ore la visione
ottimistica circa un nuovo ordine internazionale e il sistema globalizzato derivanti dalla fine della
guerra fredda. Per un breve periodo si ritenne anzi che ci si stesse avviando verso un nuovo
conflitto mondiale.
L’attacco di al-Qaida alle torri gemelle venne interpretato dai media e dalle opinioni pubbliche
come l’emergere di un conflitto fra occidente e islam. In effetti alcuni sintomi in tal senso si erano
manifestati negli anni precedenti. Il fondamentalismo islamico si era espresso in maniera forte sin
dal 1979 con la rivoluzione Khomeinista in Iran; la componente religiosa si era d’altronde rivelata
importante nella lotta dei mujaheddin afghani contro l’ateo occupante sovietico; ma in questo
caso nel corso degli anni ’80 gli Stati Uniti. A dispetto delle relazioni conflittuali con l’Iran, avevano
ritenuto opportuno sostenere i combattenti islamici afghani in funzione antisovietica e non si era
tenuto conto che musulmani integralisti provenienti da altri paesi avevano considerato
l’Afghanistan una sorta di palestra per l’avvio di una più generale lotta contro qualsiasi nazione
ostile all’islam. In Afghanistan, a dispetto del ritiro dell’armata rossa nel 1989, per qualche anno il
presidente Najibullah era rimasto al potere anche a causa delle rivalità e dei conflitti insorti fra i
vari movimenti di resistenza all’occupante sovietico. Nel 1996 aveva finito con il prevalere la
fazione dei talebani che imposero un rigido regime fondamentalista islamico. Il paese divenne così
un rifugio e un punto di riferimento per il gruppo terroristico di al-Qaida, creato nel 1989 e
guidato da Osama bin Laden, un saudita che aveva sposato posizioni radicali abbracciando una
versione estrema dell’islam e divenendo un acerrimo oppositore della famiglia reale al potere,
considerata come asservita agli Stati Uniti, colpevole tra l’altro di aver consentito alle truppe
americane di calpestare il suolo sacro saudita in occasione della guerra del Golfo (1990-91).
In realtà l’ostilità nei confronti dell’occidente, in particolare degli Stati Uniti, stava crescendo in
altre parti del mondo, dove il fondamentalismo islamico riusciva a conquistare un crescente
consenso, non solo in Iran e in Afghanistan, ma anche nella Somalia percorsa dalla guerra civile,
qui i gruppi islamisti avevano assunto il controllo di gran parte del paese, in Sudan, in Algeria. Varie
erano le cause dell’espansione del fondamentalismo islamico
Alla fine di settembre del 2000 una manifestazione organizzata dal leader del partito di destra
israeliano, sulla spianata delle moschee di Gerusalemme, luogo sacro sia per gli ebrei sia per i
musulmani, venne considerato da questi ultimi come una profanazione e fu la scintilla che diede
avvio alla seconda intifada (attacchi suicidi contro i fedeli) che si sarebbe protratta fino al 2005. Per
porre fine agli attacchi suicidi il governo di Gerusalemme avviò la costruzione di un muro che
avrebbe diviso Israele da gran parte del territorio della Cisgiordania, sebbene questa divisione
contribuisse a rendere più sicura la popolazione israeliana, essa suscitò reazioni negative
nell’opinione pubblica internazionale, ormai spesso favorevole alle tesi palestinesi e contraria a
quella che veniva percepita come la scarsa volontà di Israele di individuare una soluzione pacifica
al problema palestinese.
Quanto a Washington, sebbene le autorità americane a più riprese invitassero i dirigenti ebraici al
compromesso, esse non fecero mai mancare un sostegno di fondo a Israele, in particolare
nell’ambito dell’ONU, dove il governo di Gerusalemme era costantemente posto sotto accusa.
Se la questione medio-orientale fu certo uno dei motivi della crescita del fondamentalismo
islamico, un’altra ragione va individuata nella crisi dei governi arabi laici, ormai diventati per gran
parte delle rispettive opinioni pubbliche simbolo del malgoverno e asservimento agli interessi
occidentali, in particolare degli Stati Uniti, soprattutto dopo la fine della guerra fredda e
l’apparente vittoria dell’Occidente.
Significativo in tal senso era il caso dell’Egitto di Mubarak, dove un presidente sempre più
impopolare era in grado di mantenersi al potere solo grazie al controllo sulle forze armate e
all’aiuto economico statunitense. Persino le monarchie dell’Arabia Saudita e degli emirati del
Golfo, per quanto conservatrici sul piano religioso e nell’osservanza stretta delle regole islamiche,
venivano spesso considerate come meri strumenti della politica di Washington. Era quindi quasi
naturale che gli Stati Uniti fossero il primo obiettivo del fondamentalismo islamico. Segnali della
minaccia incombente si erano manifestati nel corso degli anni ’90, in particolare nell’agosto del
1998 vi erano stati due attentati contro le sedi delle ambasciate americane a Nairobi in Kenya e in
Tanzania ad opera di al-Qaida. La risposta dell’amministrazione Clinton trovò espressione in raid
aerei contro le presunte basi terroristiche in Sudan e Afghanistan. La possibilità di un attacco in
territorio americano venne ampiamente sottovalutata, gli attentati rappresentarono dunque un
vero e proprio shock sia per il governo sia per l’opinione pubblica americana. L’evento venne
paragonato a quanto accaduto a Pearl Harbor nel 1941.
La risposta alla sfida che il terrorismo islamico lanciava agli Stati Uniti ricadde su
un’amministrazione che si era insediata da pochi mesi. Le elezioni del 2000 erano state vinte dal
candidato repubblicano George W. Bush, figlio del presidente che aveva guidato il paese nella fase
conclusiva della guerra fredda.

Di fronte agli eventi dell’11 settembre sembrò comunque esservi un’inversione di tendenza e nel
mondo occidentale si manifestò un forte sostegno nei confronti degli Stati Uniti. Le relazioni di
solidarietà furono ben più tiepide in altre parti del mondo e in vari paesi islamici non si nascose la
convinzione che in fondo gli Stati Uniti avessero pagato il prezzo del sostegno a Israele.
Quale primo obiettivo dell’amministrazione americana, che tra l’altro si appellò all’art. 5 del tratto
del Nord Atlantico chiedendo aiuto ai propri alleati, per una minaccia out of area (in altri termini
estranea al tradizionale territorio europeo), mirò alla cattura di Osama bin Laden, con una
richiesta avanzata al governo afghano affinché consegnasse il leader di al-Qaida, che aveva
rivendicato l’attacco alle Twin Towers. Di fronte al rifiuto opposto dal regime dei talebani, gli Stati
Uniti, con il sostegno della Gran Bretagna avviarono una campagna militare in Afghanistan,
supportata da una risoluzione dell’ONU, contando tra l’altro sull’aiuto di quei gruppi armati
afghani, in particolare la cosiddetta Alleanza del nord, che si opponeva al governo talebano. Le
operazioni parvero a vere successo e agli inizi del 2002 Kabul e gran parte del territorio afghano
erano passati sotto il controllo degli oppositori ai talebani e delle forze americane. Osama bin
Laden era riuscito a sfuggire alla cattura e si era rifugiato nelle impervie regioni di frontiera fra
l’Afghanistan e il Pakistan. Di fronte al permanere di sacche di resistenza talebana e alla
perdurante incapacità del governo centrale di farvi fronte, su spinta degli Stati Uniti si assistette a
un coinvolgimento diretto di forze della NATO. La presenza di unità americane, inglesi, italiane,
tedesche di altri paesi dell’alleanza trasformò ben presto un’azione internazionale in un’iniziativa
occidentale.
Se in questa prima fase le scelte dell’amministrazione Bush, in particolare la campagna contro i
talebani, avrebbe goduto del consenso di gran parte della comunità internazionale, dell’ONU e
degli alleati europei, l’evoluzione nella politica americana, manifestatasi a partire dal 2002-2003
avrebbe finito con il provocare una nuova drammatica guerra, determinando tra l’altro gravi
fratture nel mondo occidentale. Il governo di Washington cominciò a sostenere che la guerra al
terrore non poteva arrestarsi all’Afghanistan, ma che doveva estendersi a tutti gli altri sostenitori
del terrorismo, fra cui l’Iraq di Saddam Hussein che fu così individuato come il prossimo obiettivo
di una possibile azione militare americana.
In una prima fase il governo americano accusò quello iracheno di possedere armi di distruzione di
massa e spinse l’ONU a sottoporre l’Iraq a controlli che avrebbero dovuto provare le tesi di
Washington e favorire severe sanzioni, ma le missioni degli ispettori delle Nazioni Unite diedero
risultati controversi. A questo punto Washington puntò a un’azione militare diretta contro
Baghdad ritenendo tra l’altro di poter conseguire il consenso della comunità internazionale. Le
scelte americane vennero però considerate pretestuose da gran parte dell’opinione pubblica
internazionale. In tutto il mondo occidentale riaffioravano i dubbi o le malcelate ostilità nei
confronti dell’amministrazione repubblicana, che divennero nuovamente il simbolo
dell’imperialismo americano. Si scatenò un’opposizione tale da ricordare il clima di contestazione
alla guerra del Vietnam. Le operazioni militari contro l’Iraq ebbero inizio nel marzo del 2003 e in
apparenza si conclusero vittoriosamente per le forze americane due mesi dopo con la caduta di
Baghdad e il rovesciamento e la fuga di Saddam Hussein, il quale sarebbe stato catturato,
processato e giustiziato qualche tempo più tardi.
A Washington non si comprese subito la complessità e la fragilità dello stato iracheno. Agli ex
sostenitori di Saddam Hussein si affiancarono ben presto gruppi terroristici vicini a al-Qaida e varie
fazioni sciite. Nella primavera del 2004 furono soprattutto le milizie sciite a scatenare una
ribellione contro gli occupanti. Al di là degli scontri armati l’Iraq era ormai preda di continui
sanguinosi attentati, di rapimenti, uccisioni e di rappresaglie da parte americana che ricordavano
le vicende del Vietnam.
Nel 2004 Bush veniva rieletto. Nel corso del secondo mandato l’amministrazione decise comunque
un mutamento di politica in Iraq mirando da un lato alla costituzione di un governo iracheno, che
sarebbe sorto dopo le elezioni tenutesi nel 2005, dall’altro al passaggio delle responsabilità dalla
sicurezza e dell’ordine pubblico alle autorità di Baghdad e a un ricostruito esercito iracheno. In
realtà il presidente Bush sarebbe stato costretto a mantenere una forte presenza di truppe nel
paese medio-orientale per consentire almeno una parziale stabilizzazione della situazione. Nel
2005 veniva eletto un presidente in Iraq la cui politica estera si caratterizzò per il duro
atteggiamento antiamericano e per le numerose dichiarazioni circa la necessità di distruggere lo
stato di Israele. Ben più preoccupante fu però la crescente aspirazione di Teheran a sviluppare un
potenziale nucleare, che il governo iraniano indicò sempre come finalizzato a scopi civili, ma che
gli stati occidentali considerarono come destinato a dotare l’Iran dell’arma atomica. La
contrapposizione fra Washington e Teheran si fece quindi ancor più forte e l’Iran venne sottoposto
a severe sanzioni economiche.

˃ L’EUROPA DI FRONTE ALL’11 SETTEMBRE:


Gli eventi dell’11 settembre e la politica dell’amministrazione Bush si intrecciarono strettamente
con l’evolvere delle vicende europee. In un primo tempo ci fu una reazione europea di pieno
sostegno agli Stati Uniti, sebbene la solidarietà dell’Europa si rivolgesse più al popolo americano
che all’amministrazione Bush. Questo appoggio si protrasse fino alla fine del 2002 per quanto gran
parte dei leader europei sostenessero che la lotta al terrorismo non implicava uno scontro di
civiltà. All’interno dell’UE non si potevano infatti trascurare alcuni fattori: a differenza deli Stati
Uniti il Medio Oriente era in qualche modo alle porte, le relazioni economiche con alcuni paesi del
mondo arabo erano tradizionalmente strette e importanti, in vari stati europei le comunità
musulmane erano ormai forti e le loro sensibilità non potevano essere ignorate.
Quando nel 2003 l’amministrazione statunitense manifestò l’intenzione di avviare un’azione
militare contro l’Iraq due importanti membri dell’UE assunsero un atteggiamento di aperta
opposizione. Per la Francia si trattava di ribadire la propria tradizionale autonomia da Washington
e un ruolo centrale in Europa a dispetto della presenza della Germania riunificata. Per la Germania
invece vi era alla guida dello stato una coalizione tradizionalmente pacifista, nel cui ambito non
mancavano però radicati sentimenti antiamericani. Vi furono però tre paesi di spicco, Gran
Bretagna (Blair), Italia (Berlusconi) e Spagna (Aznar) che si allinearono a Washington.
Il presidente Bush Jr. e i suoi collaboratori si trovarono a fronteggiare il netto peggioramento della
situazione in Iraq, mentre in Afghanistan in breve tempo la minaccia dei talebani si era
ripresentata rivelando la debolezza delle autorità di Kabul. Nel quadro del conflitto afghano
Washington era stata indotta a ricorrere al sostegno della NATO, in altri termini degli alleati
europei, che in questo ambito. A differenza dell’Iraq, non avevano fatto mancare il loro contributo
in uomini e aiuti umanitari. Questi sforzi non furono decisivi. In occidente si poteva continuare a
negare l’esistenza di uno scontro di civiltà, ma in molti paesi del mondo islamico cresceva la
percezione che l’occidente cristiano fosse caratterizzato da una preconcetta ostilità nei riguardi
dell’Islam.
˃ L’EMERGERE DI NUOVI ATTORI INTERNAZIONALI:
Le difficoltà incontrate dall’amministrazione Bush nella guerra in Iraq, il deciso appannarsi
dell’immagine internazionale degli Stati Uniti, il progressivo allontanarsi nel ricordo dell’opinione
pubblica della fine della guerra fredda e del crollo del comunismo furono all’origine a partire dal
2004 di una serie di analisi e valutazioni da parte di storici europei e statunitensi circa la
decadenza dell’impero americano. L’elemento decisivo ad apparente conferma di queste
interpretazioni si manifestò nel 2007 quando negli Stati Uniti esplose una grave crisi finanziaria.
Furono cosi spazzate via le valutazioni ricorrenti solo fino a pochi anni prima circa un mondo
unipolare dominato dalla super potenza americana.
• La Russia aveva iniziato a giocare un ruolo di grande potenza fin dagli inizi del 700, per non
parlare della funzione avuta dell’Urss quale superpotenza. Dopo aver vissuto una fase di eclissi
durante il governo di El’cin, l’arrivo al potere di Putin comportò una veloce trasformazione e un
parziale recupero di importanti posizioni sullo scenario internazionale. Con gli eventi dell’11
settembre dichiarò pieno sostegno alla lotta al terrore lanciata da Bush, tra l’altro favorendo
l’azione statunitense in Afghanistan. Ciò consentì a Putin di presentare il conflitto in Cecenia come
parte della mobilitazione internazionale contro il fondamentalismo islamico. Nel 2009 il conflitto si
concluse con la piena ripresa del controllo sulla regione da parte delle autorità del paese.
Quanto ai rapporti con l’Occidente, le buone relazioni con Washington erano destinate a
interrompersi rapidamente. Putin considerò come una mossa aggressiva e una volontà di
accerchiamento il sostegno statunitense all’ulteriore allargamento della NATO nel 2004. Era
preoccupato inoltre dai movimenti per l’affermazione di governi filo occidentali in alcuni paesi
confinanti con la Federazione Russa, specialmente Ucraina e Georgia. Proprio la voce di una
possibile adesione alla NATO dalla Georgia scatenò un attacco armato contro quest’ultima con cui
la Russia ottenne il riconoscimento di due territori separatisti. Il cessate il fuoco in Georgia fu il
risultato della mediazione dell’UE e della Francia, ma l’esito della crisi era indubbiamente
favorevole a Mosca e rappresentò un ulteriore scacco per l’amministrazione Bush.
Più complessa si presentava la questione in Ucraina che aveva manifestato aspirazioni
indipendentiste sin dal periodo successivo alla rivoluzione d’ottobre ma Stalin era stato
particolarmente duro nel reprimere ogni opposizione al comunismo. Dopo il conflitto mondiale
l’Ucraina era ritornata a rappresentare una parte apparentemente fedele e importante dell’unione
Sovietica, per quanto linguisticamente e culturalmente separata fra un est e sud-est
prevalentemente russofono e un ovest ucraino, storicamente influenzato dalla Polonia. Nel quadro
del processo di indipendenza furono raggiunti accordi in base ai quali Mosca avrebbe ottenuto in
affitto per un periodo di 99 anni le basi navali in Crimea. I governi succedutisi a Kiev nel corso degli
anni 90 espressero due posizioni fra loro contrastanti: da un lato i sostenitori di un deciso
avvicinamento dell’Ucraina all’occidente, in particolare all’UE e in secondo luogo agli Stati Uniti;
dall’altro coloro che pur intendendo mantenere il paese indipendente, ritenevano che sso dovesse
preservare stretti rapporti con Mosca.
L’Ucraina si scontrò ben presto con un atteggiamento sempre più duro del Cremlino, che utilizzò
l’arma delle forniture di gas quale strumento di pressione su Kiev. Nel 2010 l’Ucraina si spostava
nuovamente su posizioni di maggiore allineamento alla Federazione russa. In apparenza era
confermata l’influenza del Cremlino sull’Ucraina.
˃ EQUILIBRI INTERNAZIONALI DAL 2001 AL 2014:
Nel 2008 veniva eletto presidente degli Stati Uniti Barack Obama, gli entusiasmi a favore della
nuova amministrazione furono più evidenti nell’Europa occidentale. Obama mantenne fede a
quanto promesso per ciò che concerneva l’Iraq e tra il 2009 e il 2011 venne attuato il ritiro
completo delle forze americane del paese; in apparenza vi era stato un parziale miglioramento
delle condizioni di sicurezza e dal 2006 vi era alla guida dello stato iracheno come primo ministro
Nuri al-Maliki, un esponente sciita moderato e filoccidentale. Gli Stati Uniti continuarono a
finanziare economicamente il governo di Baghdad e l’evacuazione dall’Iraq rispondeva alla
speranza di Washington di migliorare le relazioni con Teheran che proseguiva con il suo
programma di diventare una potenza nucleare. Washington (sostenuta dall’ONU) d’altro canto
impose sanzione economiche contro l’Iran.
Si diffuse ben presto l’opinione che l’amministrazione americana non fosse in grado o non volesse
esprimere una linea politica chiara sul futuro dell’intera area del Medio Oriente e che l’azione degli
Stati Uniti non andasse oltre le dichiarazioni pubbliche e le buone intenzioni. Incerta si rivelò la
strategia di Obama circa l’Afghanistan, dopo aver promesso in campagna elettorale un disimpiego
anche da questo paese, il presidente dovette fronteggiare un peggioramento della situazione
militare sul terreno, cosa che condusse all’ipotesi di un ulteriore rafforzamento del contingente
statunitense, nonché delle forze alleate. Una volta ristabilite le sorti del conflitto Obama dichiarò
l’intenzione di procedere in tempi relativamente rapidi al ritiro delle truppe statunitensi
dall’Afghanistan, prospettiva che rafforzò nei talebani la convinzione di poter riconquistare il
controllo del paese una volta allontanatesi le forze occidentali.

• PRIMAVERA ARABA
Nel 2010 insorsero una serie di manifestazioni antigovernative in Tunisia, paese percepito da
sempre come un esempio di stabilità e allineato all’occidente. L’onda della rivoluzione si allargò
rapidamente ad altre nazioni: Marocco, Algeria, Giordania.
Anche la Libia che fino a quel momento era stata sotto la guida del pugno di ferro del colonnello
Gheddafi vide scoppiare improvvise manifestazioni contro il regime. Ben presto la protesta si
trasformò in guerra civile e per alcuni mesi Gheddafi riuscì a contrastare l’azione degli insorti. Fu
questo l’unico caso in cui il mondo occidentale decise di intervenire, sostenitori di tale svelta
furono Gran Bretagna e Francia (che riuscirono in parte a coinvolgere l’amministrazione Obama),
spinti dalla necessità di ricostruire un nuovo equilibrio di Nord africa, scosso dalle primavere
arabe, e dagli interessi nei confronti delle risorse di petrolio e di gas della Libia. È probabile che
Washington condividesse il primo di questi obiettivi, ma Obama decise comunque di tenere un
basso profilo, confermando l’incertezza dell’amministrazione circa qualsiasi assunzione di forti
responsabilità di natura internazionale. Significativa nella crisi libica fu la posizione dell’Italia, da
sempre vicina alla Libia per i forti investimenti compiuti nel paese sia per la convinzione che una
Libia stabile avrebbe evitato l’esplodere di flussi migratori dall’Africa verso la penisola.
Il governo Berlusconi dapprima si mostrò ostile all’uscita di scena di Gheddafi, per poi piegarsi alle
pressioni anglo-francesi e allinearsi. Nell’ottobre del 2011 Gheddafi veniva catturato e giustiziato.
La guerra civile sembrava così avere termine, ma le speranze francesi e britanniche e dell’opinione
pubblica circa la nascita di una democrazia libica si infrangevano di fronte a una situazione
altamente instabile con il crescere degli contri armati fra milizie rivali. La tendenza della Libia a
trasformarsi in un altro failed state aveva quale ovvio contraccolpo il riemergere di flussi migratori
verso l’Italia, considerata spesso territorio di transito verso altri stati dell’UE.
• L’instabilità di vaste aree dell’Africa e dell’Asia in particolare le vicende connesse alle primavere
arabe, sembrava confermare l’incertezza dell’amministrazione Obama di fronte alla definizione del
ruolo internazionale degli Stati Uniti. Nel suo primo mandato d’altronde Obama aveva concentrato
l’attenzione sule questioni interne, in particolare sulla ripresa dell’economia e sulla creazione di un
sistema di assistenza sanitaria pubblica. Egli inoltre poteva vantare al suo attivo l’individuazione e
l’uccisione del leader di al-Qaida, Osama bin Laden. Questo episodio era visto dall’opinione
pubblica come la conclusione della lotta al terrore iniziata dopo l’11 settembre e sembrava in larga
misura giustificare sia il disimpiego dell’Iraq sia la prospettiva del ritiro in Afghanistan, nonché il
sostanziale disinteresse per il manifestarsi di numerose crisi in varie parti del mondo.
Nel volgere di poco tempo però l’inasprirsi della crisi economica si tradusse in calo della
produzione e un incremento della disoccupazione, che destò preoccupazione per le sorti di alcune
nazioni particolarmente indebitate come l’Italia. Nel 2011 su spinta di Bruxelles e di Berlino,
Berlusconi la cui leadership e credibilità internazionale erano già fortemente scosse da una serie di
vicende giudiziarie e personali, dovette dare le dimissioni a favore di un governo tecnico guidato
da Mario Monti che avviò una politica di tagli alla spesa pubblica e di incremento della tassazione.
L’Italia condizionata dall’incertezza politica interna e dalla crisi economica, la preoccupazione
principale appariva l’esplodere di un quasi incontrollabile flusso migratorio di fronte al quale,
nonostante i ripetuti appelli di Roma, l’UE sembrava mostrare scarsa attenzione.
La debolezza dell’UE e delle maggiori nazioni europee occidentali trovava piena conferma in
occasione dell’esplodere di una grave crisi ai propri confini orientali. In Ucraina in particolare dove
le pressioni di Mosca spinsero il paese a rinunciare alla firma del trattato con l’UE e ciò diede
slancio ad una serie di manifestazioni nelle piazze. Il presidente fuggì lasciando il paese nel caos e il
potere nelle mani dell’opposizione. Putin reagiva immediatamente facendo occupare da unità
dell’armata rossa la strategica penisola della Crimea, dove nel volgere di poche settimane veniva
organizzato un referendum che dava una schiacciante maggioranza a favore dell’annessione alla
Federazione Russa. Scattavano da parte degli Stati Uniti e dell’UE sanzioni economiche abbastanza
blande, anche perché all’interno dell’UE alcune nazioni quali l’Italia e la Germania non potevano
trascurare i forti legami economici con Mosca e in alcuni casi la dipendenza energetica dalle
forniture di gas e petrolio. La situazione si sarebbe probabilmente stabilizzata se Putin non avesse
deciso di sostenere anche militarmente le forze separatiste presenti nella parte orientale
dell’Ucraina dove più del 50% della popolazione è russofona. Ne seguiva un conflitto aperto e
sanguinoso fra le milizie filorusse e l’esercito di Kiev, tra l’altro spingendo Washington e l’UE ad
adottare più severe sanzioni contro Mosca.
• Quanto alla Cina, sempre più forti sono la sua influenza economica e il suo ruolo politico,
probabilmente anche grazie alla capacità della leadership del partito comunista cinese di tenere il
paese sotto uno stretto controllo.

• Preoccupa anche il crescente ruolo della Corea del Nord, uno dei più chiusi e brutali regimi
trasformatosi nel corso del tempo in una sorta di dittatura familiare, essendo passata la guida del
partito comunista e della nazione di padre in figlio fino ad arrivare a Kim Jong-un. Inoltre la Corea
è entrata nel novero delle potenze nucleari, con ripetute minacce rivolte sia al governo di Seul sia
agli Stati Uniti.

Certo è che le relazioni internazionali a poco più di un ventennio dalla fine della guerra fredda
sembrano caratterizzarsi per l’assenza di un equilibrio e di attori in grado di influenzare in maniera
determinante il corso degli eventi. Persino gli Stati Uniti, a dispetto del loro permanere come
prima economia mondiale e come prima potenza militare, appaiono incerti e condizionati da
un’opinione pubblica restia a che Washington assuma impegni caratteristici di una superpotenza.
Sembra così affermarsi la valutazione che il sistema internazionale sia ormai caratterizzato da più
attori che si situano all’incirca allo stesso livello per la loro capacità di esercitare la propria
influenza, spesso limitata a un ambito regionale. Né la fine della guerra fredda ha fatto scomparire
le contrapposizioni ideologiche, anche se alle ideologie, comunismo e liberalismo, che avevano
segnato la seconda parte del 900, sembrano essersi in parte sostituite, soprattutto in alcune aree
del globo, rivalità e conflitti di natura religiosa.

Potrebbero piacerti anche