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GLI STATI UNITI E LA POLITICA ISOLAZIONISTA

La politica dei 14 punti di Wilson aveva aperto agli Stati Uniti la strada per il consolidamento
internazionale, ma questo liberismo, alla fine, non risultò vincente, perché faceva si che gli Stati
Uniti aderissero completamente alla Società delle Nazioni, assumendosi grosse responsabilità
davanti ai problemi che erano sorti dalla guerra, talvolta anche estranei agli interessi del paese.

Nel 1920 fu trovata una soluzione a questo problema con l’elezione di Warren Harding,
appartenente al Partito Repubblicano.

Per la prima volta, durante le elezioni del 1920, poterono votare anche le donne, grazie soprattutto a
Emmeline Pankhurst, che aveva fondato l’unione sociale e politica femminile, che appunto
rivendicava il suffragio avvalendosi di dimostrazioni, marce scioperi della fame... da qui
l’appellativo di suffragette.

Il governo di Harding, però, prese una posizione del tutto diversa da quella di Wilson, infatti la sua
politica era concentrata sull’isolazionismo, cioè era fondata sul disinteresse dello stato nei confronti
delle vicende internazionali.

Inoltre questo nuovo governo decise di non prendere più parte ai trattati scaturiti dalla conferenza di
Parigi, ma ne stipulò di nuovi, in modo autonomo, con Germania Austria e Ungheria.

L’opinione pubblica si mostrò molto favorevole a questo nuovo governo, tanto che era convinta che
così facendo gli Stati Uniti avrebbero potuto sfruttare il rientro del denaro che avevano prestato e
sfruttarlo per sviluppare il mercato interno, lasciando piena libertà alle imprese (liberismo) , ma allo
stesso tempo proteggendo i prodotti nazionali con l’applicazioni di pesanti tariffe doganali
(protezionismo).

Questo isolazionismo del paese, però, fece prendere seri provvedimenti sull’immigrazione, tanto
che si solidificò un clima di violenza e razzismo per tutti gli immigrati e tornò a far parlare di se la
setta segreta del Ku Klux Klan, nata nel 1865 alla fine della guerra di secessione.

Anche se nel campo economico il paese concedeva piena libertà alle imprese, la stessa cosa non
avveniva per quanto riguarda la politica interna, infatti vi era un clima rigido e repressivo, chiamato
proibizionismo.

All’interno di questo quadro va inserita la legge del 1919 che vietava la produzione e la vendita di
bevande alcoliche che stimolò ancora di più le fissazioni razziste, perché si credeva appunto che gli
immigrati fossero più inclini all’alcolismo.

Si credeva, quindi, che così facendo si potesse prevenire la delinquenza, ma anche prevenire che la
produttività degli operai venisse ridotta.

Questa legge, però, portò solo effetti negativi, perché provocò il traffico illegale di alcolici, gestito
da bande criminali chiamate gang, che gestivano ognuna un quartiere preciso.

Il proibizionismo, quindi, non fece altro che trasformarsi in una guerra mafiosa tra quartieri, fino al
1933, anni in cui il proibizionismo venne abolito.
IL BOOM ECONOMICO

La politica isolazionista intrapresa da Harding, e poi continuata da Coolidge, favorì la ripresa


dall’economia e il superamento della crisi di sovrapproduzione e questo portò l’esigenza di
ampliare il mercato esterno, per poter smerciare la sovrapproduzione.

Sempre per favorire l’economia e per fare in modo che i paesi vinti, ovvero la Germania e l’Austria,
pagassero i loro debiti di guerra, Coolidge presto dei soldi a queste potenze, attraverso il piano
Dawes, ideato dal finanziare Charles Dawes.

Con questo piano l’America riuscì a riattivare l’economia dell’Europa, che poté finalmente pagare il
suo debito e di conseguenza l’America reinvestì i capitali in eccedenza nei confronti dell’Europa
generando un vero e proprio boom economico che caratterizzo il periodo da 1925 al 1926.

Questo aumento di produttività fece crescere i salari, determinando un netto miglioramento della
vita degli americani e le innovazioni come il nastro trasportatore, utilizzato nella fabbricazione in
serie, che faceva riferimento alla catena di montaggio ideata da Henry Ford, diedero un tale impulso
alla produzione da aumentare il numero delle automobili in circolazione a 27 milioni.

Furono ideati i primi grattacieli, nei quartieri principali delle città, e gli americani stessi cambiarono
i loro costumi, soprattutto le donne, che conobbero una certa emancipazione, tanto che gli anni venti
vennero definiti appunto anni ruggenti, in cui si diffuse l’American way of life (il modi di vivere
americano).

LA CRISI DEL 29

Tra il 1925 e il 1929 ci fu una vera e propria gara alla produzione , incentivata dalla convinzione
che lo stato di benessere in cui l’America stava vivendo non poteva finire.

Questo senso di ottimismo coinvolse anche la banche, che furono le protagoniste di numerosi presiti
e speculazioni, ovvero l’acquisto o la vendita di beni immobili, valute o azioni con l’intento di
ottenere un profitto più alto fruttando la variazione dei prezzi.

Le banche, quindi, praticavano una politica di agevolazione creditizia, che spingeva le imprese a
impiegare i propri crediti non in investimenti produttivi, ma in speculazioni di Borsa, che però non
avevano alcuna base reale nell’espansione della produzione.

Protagoniste di queste speculazioni, però, non furono solo le banche, ma anche i piccoli
risparmiatori, che determinarono una vera e propria febbre speculativa, perché più si comprava e
più i titoli da loro acquistati salivano di valore.

Questa idee, però, furono presto intaccate dal protezionismo, che stringeva le possibilità d’acquisto
dei singoli mercati e in più il governo, per combattere al suo interno l’inflazione monetaria, aveva
adottato la strada della deflazione, riducendo la moneta in circolazione.

Questa scelta, però, condizionava il libero spostamento sei capitali, abbassava il potere d’acquisto
dei salari e rendeva molto caro il prestito bancario.

Tutto questo, quindi, determinò una crisi di sovrapproduzione, che colpì tutto il mondo, ma in
particolar modo l’America, danneggiata più delle altra dalla mancanza di esportazioni.
Dato che i cittadini Americani non potevano consumare da soli le enormi quantità di merci prodotte,
nei mercati si accumularono diversi beni invenduti e di conseguenza i prezzi diminuirono,
decretando la chiusura di numerose fabbriche.

A questo punto gli speculatori ritennero giusto vendere le proprie azioni per ricavarne il guadagno
sperato, ma la corsa alle vendite fece crollare il valore dei titoli e perciò il 24 ottobre 1929, il
cosiddetto “giovedì nero”, la Borsa di New York, con sede a Wall Street, crollò.

In soli due anni la produzione industriale calò del 54%, provocando il fallimento di molte industrie
e delle banche a esse collegate; tra il 1931 e il 1933 aumentò notevolmente la disoccupazione.

Pian piano il crollo economico dell’America si propagò in tutto il mondo, dando inizio a una crisi
generale chiamata grande depressione, che si poté ritenere conclusa solo dopo la seconda guerra
mondiale.

La Germania, che dipendeva economicamente dall’America, fu il paese che risentì di più del crollo
della Borsa di Wall Street, tanto che la disoccupazione arrivò a toccare 6 milioni di famiglie nel
1932.

L’anno seguente, con la nomina di Hitler come cancelliere, la disoccupazione diminuì e ci fu una
ripresa economica.

La Gran Bretagna rimosse il principio del libero commercio, che fu sostituito da misure tese a
privilegiare i paesi del Commonwealth.

La crisi arrivò perfino in Italia, danneggiando gli agricoltori e il settore industriale, determinando la
perdita del lavoro di numerosi uomini.

Alcuni industriali, però, ebbero modo di sfuggire alla crisi e favoriti dalla politica protezionistica
del fascismo riuscirono a concentrare nelle loro mani il monopolio di alcuni settori produttivi, a
scapito, però, dei consumatori.

ROOSEVELT E IL NEW DEAL

A risollevare l’America dalla sua crisi fu il presidente Roosevelt, che aiutato da un gruppo di
intellettuali elaborò un piano di emergenza chiamato New Deal, che abbandonò l’economia libera
per adottare un’economia guidata, cioè basata sull’intervento dello Stato.

Roosevelt, inoltre, abbandonò la politica deflattiva per adottarne una inflattiva, in modo da favorire
investimenti e consumi.

Basandosi su queste idee , quindi, svalutò il dollaro del 40%, rialzando i prezzi, immettendo la
moneta di carta e introducendo il controllo dello Stato sul sistema bancario.

Roosevelt intervenne anche a livello di politica sociale, difendendo i salari minimi, i contratti di
lavoro e la presenza dei sindacati, inoltre, anche a costo di aumentare il deficit dello Stato portò
avanti diversi lavori pubblici, combattendo di conseguenza la disoccupazione.

Roosevelt, quindi, seppe portare avanti tutte queste iniziative anche grazie a una politica fiscale
molto pesante soprattutto per quanto riguarda le classi più abbienti.

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