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Il Biennio Rosso

La crisi europea: alla ricerca di nuovi assetti


In seguito alla fine della prima guerra mondiale, il sistema coloniale venne meno e
l’Europa cadette in una profonda crisi. Il fattore principale di crisi fu la conversione
industriale dei vari stati, i quali durante la guerra avevano controllato la produzione
industriale, spostandola verso i materiali bellici, e dovettero così cercare di adattarle
alle nuove esigenze che la popolazione aveva in pace. Questo portò al fallimento
molte aziende ed altre invece riuscirono a effettuare questo cambiamento in tempi
lentissimi. Tale conversione fu più lunga del previsto: fino al 1922 si ebbe un periodo
negativo per l’economia europea e solo nel 1925-26 si ebbe un’espansione e crescita.
Ciò era causato dal fatto che la conversione industriale è collegata ad altri fattori
economici dell’epoca:
• la scarsa disponibilità di capitali da poter investire, in quanto gli stati europei
dovettero far fronte in primis al debito di guerra con gli altri stati, in particolare
gli USA
• l’impossibilità degli scambi, poiché vi era una politica protezionistica che aveva
così aumentato le tasse doganali
• la crescente inflazione, alimentata dalla continua produzione di cartamoneta,
dall’indebitamento statale e lo ristagnamento industriale

La dipendenza economica dell’Europa


La guerra aveva prosciugato le ricchezze di molti stati europei, tra cui Francia e
Inghilterra, ma in particolare Germania e Russia, questo permise lo sorgere di nuove
potenze: Usa e Giappone. Gli Stati Uniti, nonostante la loro entrata in guerra, non
dovettero far fronte a grandi sforzi, anzi prestarono capitali agli stati stranieri,
diventando così degli esportatori di capitali. Tutto ciò fu reso possibile da una
fortissima crescita dei settori industriali strategici (acciaio) e dai grandissimi
giacimenti di oro, che permisero a questi di rimpossessarsi dei titoli di stato in mano a
degli stranieri. La crisi europea fu più evidente soprattutto per l’ascesa di altre forze
economiche, tra cui il Sudamerica e il Giappone, il quale fu il fornitore di prodotti
industriali per la Cina, India e Indonesia. Così le potenze europee erano diventate
dipendenti dall’estero.

Nuovi modelli economici per uscire dalla crisi


In questo clima, si generarono una serie di scioperi e di agitazioni che coinvolsero
diversi strati sociali, al fine di una più equa distribuzione della ricchezza e di difendere
il loro reddito dall’inflazione. A tutto ciò lo stato rispose accentrando in se il potere. Da
ciò nacquero nuove teorie economiche, secondo cui l’iniziativa privata e il mercato, se
lasciati a se stessi, avrebbero potuto rivelarsi una catastrofe per l’economica statale,
infatti questi dovevano essere subordinati allo stato, in quanto simbolo di una volontà
superiore, era capace di finalizzarle all’interesse comune. Tutto ciò era finalizzato
all’eliminazione della concorrenza tra le varie aziende, che portava alla dissipazione
delle risorse, e al controllo del conflitto tra capitale e lavoro, che ostacolava la
produttività. Queste nuove teorie prendono il nome di “corporativismo”, che presero
piede nel partiti fascisti in Germania e in Italia. L’affermarsi del corporativismo andava
di pari passo con l’affermarsi di una nuova cultura politica, la quale sosteneva
l’eliminazione del parlamentarismo e la realizzazione di un sistema politico, il cui
vertice era occupato da un capo guida che grazie ai suoi poteri autoritari poteva
esprimere e comprendere i bisogni delle masse. Un’importante filosofo che interpretò
tutto questo fu Oswald Spengler, nel suo libro “Il tramonto dell’Occidente” (titolo che
indica proprio la crisi del vecchio continente), che riteneva la sua società
contemporanea era stata travolta dai processi di modernizzazione e per poter mettere
fine a tutto ciò era necessario un’azione di poteri forti, concentrati in un individuo
dominante, guida dispotica delle masse. Dunque l’ascesa del potere “cesaristico”
sarebbe avvenuta non in seguito a delle elezioni, ma grazie alla capacità del “nuovo
Cesare” di far rispecchiare l’individuo in se stesso: instaura una sorta di sintonia
carismatica con il cittadino. Solo con un regime totalitario si sarebbe potuta superare
la crisi.

Le nuove richieste di partecipazione politica


Il formarsi di queste nuove ideologie politiche era un evidente segnale che non si
trattava di una semplice crisi economica, ma bensì generale che colpiva più ambiti
sociali, soprattutto dimostrava il declino delle istituzioni liberali e democratiche, le
quali non riuscirono ad interpretare correttamente i cambiamenti apportati dalla prima
guerra mondiale. La guerra lasciò negli animi dei soldati e non solo, delle impronte
cancellabili, soprattutto a livello psicologico. Tra i vari soldati, per darsi coraggio di
fronte alle avversità, si era creata una particolare solidarietà, che successivamente
con il ritorno alla vita civile quotidiana, si cercò di ricreare tramite la formazione varie
associazioni di ex-combattenti. Tutto ciò dimostrava un maggior bisogno di
partecipazione sociale e permise una crescente adesione ai partiti e sindacati. La
richiesta delle masse di una maggiore partecipazione alla vita politica, insieme al
tasso di disoccupazione elevato ed all’inflazione, fece si che la popolazione
manifestasse il proprio mal contento, con una serie di lotte sociali di stampo
reazionario. I movimenti reazionari erano appoggiati dalla piccola e media borghesia,
la quale non si riconosceva più nel sistema parlamentare (il quale riteneva tali
manifestazioni di ordine urbani, anziché l’espressione di un malcontento popolare) e
tendeva verso a una società fortemente gerarchizzata e ordinata, dove l’individuo era
sacrificato al bene della nazione e si rispecchiava nel capo carismatico.

La crisi negli stati democratici


Nel biennio del 1919-20 la rivalità tra la popolazione e i nuovi movimenti reazionari
contro lo stato liberale si fecce più forti. Il processo di stabilizzazione istituzionale però
è differente nei vari stati: negli stati, dove vi era una tradizione democratica ben
salda, quali Gran Bretagna e Francia, i movimenti postbellici non segnarono una
rottura nel quadro istituzionale, mentre negli altri stati ci fu un più profondo impatto
con la guerra, che portò alla creazione di un regime totalitario, come Germania e
Italia.

Crisi economica e conflitti sociali in Gran Bretagna


Alla fine della prima guerra mondiale, anche in Gran Bretagna si ebbe una forte crisi,
evidenziata soprattutto dal fatto che la Gran Bretagna non fosse più la prima potenza
mondiale e la sua egemonia economica, dunque, era venuta meno. Infatti, già dal
1916 era scoppiata una campagna antibritannica nell’Irlanda, che toccò l’apice nel
1919, quando questa tramite il movimento nazionalistico irlandese, organizzato
dall’IRA (Irish Republican Army), aveva dichiarato la propria indipendenza, generando
un feroce scontro tra cattolici e protestanti. La guerriglia andò avanti fino al 6
dicembre 1921, quando fu proclamato ufficialmente lo Stato libero Irlandese, che però
si spaccò in due: l’Ulster, regione comprendente le 6 province del nord di maggioranza
protestante, rimase sotto il diretto controllo britannico.

Politica deflazionistica: vantaggi e limiti


Con l’intento di rivalutare la sterlina (1STE=4.86$), il governo britannico instaurò una
politica deflazionistica. Tale obiettivo venne raggiunto nel 1925, portando notevole
prestigio alla Gran Bretagna, la quale dimostrava di essere ancora una gran potenza.
Ciò fu permesso anche grazie al Gold Standard, che permetteva la convertibilità della
sterlina in oro e le poneva un prezzo fisso a livello internazionale. Tutto ciò portò dei
svantaggi all’economia inglese, che venne penalizzata nelle esportazioni e nella
ripresa produttiva a causa dell’alto costo del denaro. A questo si deve sommare poi la
conversione industriale che spostò l’interesse dal monopolio del carbone a quello
dell’energia elettrica e del petrolio, producendo così milioni di disoccupati. Ci furono
allora delle manifestazioni operaie, la cui più importante è lo sciopero dei minatori del
1926, il quale poi venne fermato dal Partito Laburista e dalle Trade Unions per evitare
che si trasformasse in una guerra civile. Il governo allora diminuì le ore di sciopero,
portando l’adesione pubblica alle Unions quasi a nulla.

Coesione antigermanica e ripresa economica in Francia


La Francia affrontò la crisi usufruendo del risarcimento di guerra che la Germania
versava periodicamente nelle casse dello stato francese. Aumentarono le iscrizioni ai
partiti: gli operai francesi erano riusciti a conquistare importanti risultati, come le 8 ore
di lavoro. In questo periodo però le lotte sociali si radicalizzarono, portando allo spacco
dello stesso movimento operaio. Così il primo ministro francese decreto lo
scioglimento della confederazione sindacale (Cgt). L’economia francese reagì molto
più velocemente rispetto alle altre potenze europee, poiché contò sull’annessione
dell’Alsazia e della Lorena e in particolare del rimborso tedesco. L’industria
automobilistica divenne la prima in Europa e l’offerta di lavoro nelle industrie
attirarono la popolazione delle campagne nella città.

Gli Stati Uniti: tendenze conservatrici e isolazioniste


In seguito all’esito della guerra, gli Stati Uniti optarono per una politica conservatrice
ed isolazionistica, non aderendo alla Società delle Nazioni. I “ruggenti anni venti” non
portavano con loro solo una grande crescita industriale, favorita da un’assenza di
controllo sulle concertazioni industriali e finanziarie, ma anche agli anni del
proibizionismo: venne proibito la produzione e vendita di alcoolici, producendo la mala
via organizzata. Vennero adottate nuove misure per l’immigrazione, per timore del
diffondersi del bolscevismo e del comunismo. Sono gli anni di formazione del
movimento razzista del Ku Klux Klan, che si macchiò di vari crimini contro la
popolazione di colore. Nonostante ciò l’ascesa dell’economia statunitense procedeva
senza sosta.

La Germania di Weimar
La situazione economica si aggravò particolarmente negli stati centrali, soprattutto in
Germania, dove già pochi giorni prima del termine della guerra, i marinai della base di
Kiel scioperarono, generando così una reazione a catena generando scioperi anche
nelle altre città tedesche. Il kaiser, non essendo capace di affrontare la situazione e
comprendendo la sua gravità, decise di scappare in Olanda e vanne proclamata la
repubblica, affidata poi al governo provvisorio del socialdemocratico Friedrich Ebert.
Un anno dopo venne convocata l’assemblea costituente a Weimar, dove venne
promulgata una nuova costituzione, eleggendo Ebert come presidente della repubblica
e Scheidamann come cancelliere. Secondo la nuova carta costituzionale, alla cui
redazione collaborò anche il filosofo Max Weber e lo storico Meinecke, il potere
legislativo era nelle mani del parlamento, eletto a suffragio universale maschile e
femminile secondo il sistema elettorale proporzionale, e del Consiglio Federale,
costituito dai rappresentanti delle vari stati regionali (Lander). Il potere esecutivo
invece era affidato al presidente della repubblica, eletto direttamente dai cittadini ogni
sette anni, il quale aveva il compito di eleggere il capo del governo (il cancelliere), di
porre il veto alle leggi emanate dal parlamento, inoltre in caso di pericolo per la
nazione poteva sciogliere il parlamento e accentrare tutti i poteri nelle sue mani.
Nonostante la modernità della costituzione, vi erano ancora all’interno dell’apparato
burocratico coloro che rimanevano fedeli all’autorità tradizionale prussiana, in
particolare nell’esercito, dove in alcuni settori non vi era la simpatia per le istituzioni
democratiche.

La repressione del moto rivoluzionario spartachista


I Socialdemocratici maggioritari e i socialisti indipendenti erano alle redini del potere
tedesco, anche se differenti tra di loro per programmi politici. I socialdemocratici
proponevano un regime di tipo parlamentare e si opponevano a soluzioni di tipo
bolscevico. I socialisti indipendenti, invece, anche se contrarie a soluzioni
rivoluzionarie, miravano a riforme radicali, come alla nazionalizzazione delle industrie
e alla espropriazione delle terre. All’estrema sinistra era legata anche la Lega di
Sparta, nata da una scissione all’interno del partito Socialdemocratico, che poi
diventerà il Partito Comunista tedesco nel 1919 (KPF). A Berlino, in seguito a una
manifestazione convocata dall’estrema sinistra, fu travolta da uno scontro armato.
Ebert, che era contrario ai movimenti rivoluzionari, schierò le Freikorps (“corpi
franchi”) contro la mobilitazione dei lavoratori. Le milizie agirono con una dura
repressione, uccidendo i dirigenti del partito comunista e colpendo l’opposizione
operaia. Dopo la repressa nel sangue della rivolta spartachista, i Freikorps
continuarono ad operare grazie all’appoggio degli ufficiali dell’estrema destra,
commettendo attentati terroristici contro l’opposizione.

Una spirale inflazionistica senza precedenti


L’inflazione toccò in Germania livelli molto più alti rispetto al resto dell’Europa, in
quanto lo stato tedesco dovette far fronte a un grave debito di guerra, pari a 132
miliardi di marchi-oro, e i provvedimenti presi non fecero altro che accelerare questo
processo. Lo stato, infatti, aumentò il debito pubblico, stampando grandi quantità di
cartamoneta e contemporaneamente dichiarando inconvertibile la moneta in oro,
tramite il corso forzoso. In seguito, con la richiesta di pagare il debito di guerra,
stampò ancora più cartamoneta, con la conseguente caduta del valore della moneta
(1STE = 35milaMARCHI) e l’aumento dei prezzi.

L’occupazione della Ruhr e la svolta conservatrice


La Germania allora rinunciò alla politica di adempimento e dichiarò l’impossibilità dei
pagamenti. A tale dichiarazione la Francia passò subito all’attacco invadendo la Ruhr,
regione tedesca ricca di giacimenti carboniferi. I lavoratori tedeschi, però,
inaugurarono uno sciopero generale per bloccare la produzione e lo stesso stato
tedesco proclamò la “resistenza passiva”. L’occupazione francese fece innalzare
ulteriormente l’inflazione (1STE = 18miliardiMARCHI). La crisi colpì i lavoratori a
reddito fisso e i piccoli produttori, mentre arricchì i grandi imprenditori industriali e i
magnati della finanza, poiché gestivano i loro affari con una moneta estera. Per
cercare di porre una soluzione a tale situazione, il governo prese una serie di
provvedimenti: sul piano della politica estera pose fine al boicottaggio della Ruhr,
ottenendo il progressivo ritiro delle truppe francesi; sul piano della politica interna
proseguì una dura repressione a sinistra; sul piano economico istituì il Rentemark
(“marco di rendita”), il cui valore era garantito da un’ipoteca sui beni nazionali.
L’economia tedesca ebbe una ricrescita, che li permise di accordarsi per le riparazioni.
Si decise di attuare il piano Dawes, secondo cui in Germania veniva investiti capitali
statunitensi, che dovevano essere restituiti annualmente in base alla situazione
economica tedesca, permettendo in questo modo il decollo dell’economia tedesca. La
riconciliazione franco-tedesca venne sancita dagli accordi di Locarno, secondo cui
veniva attuato nuovamente il patto di Versailles.

La destra eversiva contro la repubblica di Weimar


Sia la destra moderata che quella estrema era suddivisa in vari gruppi minori, ma
benché questo, i loro consensi erano sempre maggiori. Basti pensare che nell’elezioni
del 1925 vinse Hindeburg, il quale era il punto di riferimento per molti nazionalisti.
Infatti, il programma della destra estrema s’intreccia con quello nazionalista per il
fattore del razzismo nei confronti degli ebrei. Su questa base, nazionalista e
antisemita, fu fondato il Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori (NSDAP) da Adolf
Hitler. Il partito era costruito in modo strettamente gerarchico, al vertice c’era
l’assoluta autorità del capo (Fuhrerprinzip), e difeso da squadre paramilitari, le SA.
Così per cercare di arrivare al potere Hilter tentò un colpo di mano a Monaco, che fallì
e lo stesso Hitler venne arrestato. Hitler in carcere scrisse Mein Kampf (“La mia
battaglia”), dove espone il suo programma politico: l’opposizione al trattato di
Versailles, la riunificazione di tutti i tedeschi, la privazione del diritto di cittadinanza
per coloro che non posseggono sangue tedesco (ebrei) e la necessità di uno spazio
vitale per la Germania, che gli permettesse di estendersi verso est. Grazie al
fallimento ottenuto a Monaco comprese che l’unico modo per arrivare al potere era
garantirsi l’appoggio dell’esercito e della polizia.

Il “Mito di Weimar”: un’epoca splendida prima della catastrofe


Gli anni venti in Germania si configurano come anni di fioritura culturale e artistica,
tanto che vengono paragonati ad un “nuovo rinascimento”, e a tutto ciò si lega il mito
di Weimar. Si guarda a quei artisti e alle loro opere come se avessero la percezione
che in Europa e in Germania da li a breve si sarebbe abbattuta una catastrofe, anche
se fino al 1933 nessun esito catastrofico era prevedibile.

Il caso italiano: dallo stato liberale al fascismo


Difficoltà economica del primo dopoguerra
Il periodo postbellico portò in Italia una forte radicalizzazione dello scontro sociale, fino
al completo scioglimento delle istituzioni liberali per la creazione di un regime
totalitario che poi sarà d’ispirazione nel resto d’Europa. Tutto ciò si deve al fatto che
nel paese italiano non ci fosse un tradizione liberale ben forte. Anche in Italia, il
dopoguerra fu caratterizzato da effetti devastanti per la popolazione: l’inflazione e la
disoccupazione non fecero che alimentare le lotte sociali, che evidenziavo il diverso
processo industriale presente tra il nord e il sud. Nonostante ciò, la guerra permise
un’espansione industriale: i grandi magnati industriali si servirono di ingenti capitali
pubblici per estendere la loro influenza in ogni campo industriale. I nuovi colossi
industriali molto spesso erano ingigantiti, ossia le loro azioni erano quotate
maggiormente del loro prezzo effettivo, e sfruttavano capitali in investimenti sempre
crescenti e azzardati, contando sull’aiuto dello stato in caso di bisogno. Così vi era una
sempre più maggiore necessità di capitali e le industrie si invocavano alle banche, le
quali in questo modo estendevano la loro influenza anche nel settore industriale.
Allora si creeranno un forte intreccio tra i gruppi monopolistici e il quadrumvirato delle
banche più potenti italiane (Banca commerciale, Banca del Credito italiano, Banca di
Sconto, Banco di Roma).

Un capitalismo monopolistico e il dualismo nord-sud


La guerra permise lo sviluppo di un sistema capitalistico, dove lo stato svolgeva il
ruolo più importante: regolatore della domanda e organizzatore dell’offerta. Tale
espansionismo industriale non si sviluppò omogeneamente, bensì mostrò il dualismo
economico esistente in Italia. La maggior parte delle industrie era concentrata nel
centro-nord, in particolare nel triangolo industriale Milano-Torino-Genova, mentre nel
sud si viva soprattutto di agricoltura. I contadini meridionali vivevano in condizioni
estreme e non potevano accedere alle grandi proprietà terriere, le quali erano nelle
mani dei latifondisti e borghesia agraria. L’unica speranza per una vita migliore era
l’emigrare, ma con le nuove leggi americane sull’emigrazione anche questo era
difficile da farsi.

Questione meridionale
La guerra è stata superata grazie all’incitamento dei soldati con la promessa delle
terre, anche se al loro rientro tale promessa non venne mantenuta. I braccianti
reagirono occupando i latifondi, appoggiati dai sindacati socialisti e dall’Associazione
nazionale dei combattenti. Questi chiedevano il possesso delle terre incolte delle
grandi proprietà, ma lo stato non reagì e il conflitto divenne ancora più grave. Questo
dimostrava la distanza che vi era tra stato e popolazione, e fu il problema che decreto
proprio la fine del sistema liberale. Solo Antonio Gramsci e il gruppo dei giovani
intellettuali torinesi compresero la gravità di ciò ed espressero le loro idee nel foglio
“L’Ordine nuovo”: i contadini dovevano essere i protagonisti della rivoluzione sociale e
della ricostruzione. Infatti ritenevano che se i contadini fossero ben organizzati,
potrebbero essere un elemento di ordine e di progresso, ciò non avvenne, in questo
modo si sentirono estranei allo stato e alle sue istituzioni e si prepararono all’avvento
della dittatura.

Il biennio rosso in Italia


Il sistema capitalistico instaurato in Italia, dove il ruolo più importante era svolto dallo
stato, dovette affrontare un difficile periodo. Il sistema economico era malato, poiché
le azioni erano quotate maggiormente del loro valore e mancava di un mercato
interno, in quanto la popolazione era talmente povera da non garantire un consumo
tale da farsì che la produzione industriale aumenti. A ciò si aggiunse anche il fattore
della crescente inflazione e disoccupazione e il crollo della lira (1$=28£). Il
svalutamento della lira era sfavorevole nei cambi: l’Italia importava dagli USA grano,
carbone e petrolio.

La mobilitazione del proletariato industriale


Tutto ciò portò un forte malcontento nella popolazione che si manifestò con un’ondata
di vari scioperi. I lavoratori chiedevano la riduzione delle ore giornaliere lavorative, un
aumento salariato per reggere il corso della vita, condizioni di lavoro più umane, il
riconoscimento delle “commissioni interne”, organi di rappresentanza dei lavoratori
all’interno delle fabbriche. Nelle zone industrializzate, le lotte operaie si unirono alle
lotte dei braccianti, i quali a differenza di quelli del sud non chiedevano il possesso
delle terre, bensì salari più elevati e un ente che garantisse maggiori stabilità di
occupazione. I lavoratori riuscirono ad ottenere importanti risultati: protessero il loro
potere d’acquisto e ottennero le 8 ore lavorative. Il culmine delle rivolte venne toccato
fra il 12 giugno e il 7 luglio del 1919, quando gli scioperi per il rincaro dei prezzi che
scopiarono a La Spezia si dilagarono in tutta l’Italia. Lo stato reagì con una dura
repressione, ma riuscì anche a porre un calmiere ai prezzi dei beni di largo consumo.

La frustrazione dei ceti medi


L’inflazione non colpì solo i ceti poveri, manche la piccola e la media borghesia, come
salariati e risparmiatori. Ciò corrispondeva a una crisi di identità sociale, poiché la
piccola borghesia aveva goduto un ruolo di prestigio nell’esercito e mal si conciliava
con l’anonimato della vita quotidiana del dopoguerra. Il tenore di vita di molti ex
combattenti peggiorò, avvicinandosi a quello della classe proletaria che fino allora
avevano sempre ripudiato. I redditi degli impiegati, soprattutto pubblici, furono
taglieggiati maggiormente rispetto a quelli degli operai. Il risentimento della classe
della piccola borghesia si muoveva anche verso quella della borghesia agiata, i cui
partecipanti vennero definiti “pescicani”, i quali accumularono ingenti ricchezze e
portarono una netta differenza tra essi e il resto della popolazione. Crebbe così anche
la sfiducia nello stato liberale incapace di tutelare i ceti medi.

Benito Mussolini e la nascita del Movimento dei fasci e delle


corporazioni
Tra coloro che riuscirono a ben comprendere la grave situazione che si trovava a
vivere il ceto medio impoverito fu Mussolini. Egli fu l’ex direttore dell’ ”Avanti!” ed
esponente della parte più rivoluzionaria del Partito Socialista Italiano (PSI), dal quale
venne espulso per la sua insistenza per la partecipazione alla guerra. In seguito
all’espulsione, nel 1919 a Milano fondò il Movimento dei Fasci e delle Corporazioni, che
due anni dopo sarebbe diventato il Partito Nazionale Fascista. Questi si fecero
conoscere con l’incendio della sede nel 25 aprile del 1919 del periodico socialista
“Avanti!”, il loro principale obiettivo infatti era indebolire il movimento operaio e le sue
organizzazioni, sostituirsi allo stato e l’utilizzo della violenza. Il movimento dei fasci si
intrecciava con il movimento nazionalista, in quando le idee di fondo s’intrecciano:
• esaltazione della violenza e dell’azione individuale
• rifiuto degli ideali pacifisti
• rifiuto del valore dello stato di diritto

Il mito della vittoria mutilata e la questione di “Fiume”


In seguito agli esiti del trattato di Versailles, nacque un forte mal contento nella
popolazione nazionalistica, chiamato il “mito della vittoria mutilata”. Tale questione
venne utilizzata dai nazionalisti conto il governo liberale, ritenuto incapace di far
valere i diritti della nazione, conquistati in guerra. Ciò portò alle dimissioni del governo
Orlando (19 giugno 1919), sostituito da quello di Nitti (liberale riformista), che non
riuscì però ad arginare la crisi italiana, che si aggravò ulteriormente. In seguito alle
decisioni prese nella conferenza, si riteneva che Fiume dev’essere una città libera,
questa soluzione però non andò giù ai nazionalisti italiani che si scagliarono
maggiormente contro il governo. Nacquero cosi delle rivalità tra le truppe italiane e
francesi, si decise allora di limitare i contingenti italiani. A ciò si oppose Gabriele
d’Annunzio che partì alla volta di Fiume, dove venne catturato e carcerato. Emerse la
debolezza dello stato, incapace di intervenire, lasciando maggior spazio alla destra, la
quale propagandava sentimenti nazionalistici, militaristici e antiparlamentari. La
discussione attorno a Fiume si placcò solo quando nel 1920 col trattato di Rapallo fu
dichiarata “città libera”.

Il Partito popolare e il cattolicesimo democratico di Strurzo


In questo frangente maturò la formazione del Partito Popolare Italiano (PPI), fondato
da Don Sturzo, esponente del cattolicesimo democratico italiano, con l’intento di
raccogliere l’adesione dei cattolici per formare una nuova forza politica in cui
riconoscersi. Nacque subito dopo l’abrogazione della bolla di papa Benedetto XV,
nella quale dava il proprio consenso per la formazione di partiti cattolici, consapevoli
che i credenti avrebbero dovuto possedere un istituzione che li rappresentasse e allo
stesso tempo emarginasse i l movimento socialista. Al partito aderirono le popolazioni
delle campagne e anche parte degli operai. I punti salienti della dottrina del partito
erano il rispetto della proprietà privata, la riforma agraria e la riforma tributaria per
una più equa distribuzione delle ricchezze, maggiore autonomia agli enti locali e in
fatto di politica estera si manteneva sostenitore delle teorie wilsoniane. Il partito però
fu destinato al declino con l’avvento del papa Pio XI, il quale era più conservatore.

La vittoria dei partiti popolari


Nel 1919, i cittadini italiani furono chiamati all’elezioni, che si svolsero secondo il
nuovo sistema elettorale proporzionale. Il nuovo sistema fu richiesto a gran voce dal
partito socialista e cattolico, in quanto il sistema uninominale era tipico liberale, col
quale coloro che appartenevano all’elitè locale manipolando gli elettori riuscivano ad
ottenere un numero maggiore di voti. Infatti con il nuovo sistema e il suffragio
universale e maschile il governo liberale cominciò sfaldarsi. Nelle elezioni il Partito
Socialista e il Partito popolare uscirono vittoriosi, anche se con la rientrata in scena di
Giolitti le forze liberali possedevano la maggioranza relativa.

La difficile ricerca degli equilibri


Il risultato dell’elezioni però lasciava aperta la discussione riguardo la formazione di
un governo che potesse fronteggiare la crisi, in quanto nessun partito possedeva le
potenzialità per governare da solo, ma nessuno voleva collaborare con gli altri. In
questa situazione l’unico uomo politico capace di porre una soluzione era Giolitti, il
quale propose un programma nettamente riformista, basato su una rigorosa riforma
tributaria e sull’aumento del potere al parlamento. Tale proposta però non ottenne il
consenso dei socialisti e del partito popolare e nel mentre in tutta Italia l’influenza del
fascismo aumentava sempre più.

L’occupazione delle fabbriche: la rivoluzione alla porte?


Nel 30 agosto 1920, le rivolte operaie arrivarono al culmine quando gli operai dell’Alfa
Romeo occuparono la fabbrica come risposta all’annuncia della sua chiusura da parte
del dirigente, dando avvio a una reazione a catena. Le occupazioni avvennero
particolarmente a Torino, non perché fosse il centro delle concentrazioni industriali ma
bensì perché operava il gruppo dell’ “Ordine Nuovo” , dal quale sarebbe sorto due
anni dopo il Partito Comunista Italiano (PCI). L’occupazione delle fabbriche però
divenne ben presto un problema politico, in quanto né il Psi né la Cgl decise di
prendere la direzione del movimento di rivolta. A capo dell’occupazione rimase solo la
Federazione Italiana Operai Metallurgici (FIOM), la quale però non riuscì a coinvolgere
gli operai degli altri settori industriali. Tutto ciò dimostra come tale azione non potesse
avere una base rivoluzionaria, infatti lo stesso Psi lo usò come strumento di pressione
per arrivare al potere e dar vita a un esperimento riformista.

La crisi del compromesso giolittiano


In seguito all’occupazioni, gli operai ottennero un aumento di salario e il
riconoscimento di forme di controllo operaio nella gestione delle aziende. Nonostante
ciò, il governo non era riuscito ad assicurare la pace sociale. La borghesia industriale e
agraria, infatti, riteneva che le rappresaglie operaie e il potere sindacalista fosse la
causa principale del disordine sociale ed il maggior ostacolo per la ripresa economica.
L’occupazione spaventò la borghesia, poiché si rese conto che anche privi di una
direzione, gli operai erano in grado di far funzionare le officine, cosicché
abbandonarono il riformismo giolittiano e preferirono il movimento fascista.

Dal biennio rosso al biennio nero


Insieme alla rottura tra il riformismo giolittiano e la borghesia, all’interno del Psi si
sottolineava la divisione fra massimalisti e riformisti. Tra la popolazione si iniziava a
prevedere una nuova profonda crisi ed è proprio in questo clima che i fascisti
organizzarono la loro prima offensiva: in seguito allo stabilirsi della nuova
amministrazione socialista a Bologna i fascisti assaltarono il municipio, provocando
una serie di tumulti. Un mese dopo analogamente accade a Ferrara e poi in tutta la val
padana. In questo modo, si passò dal biennio rosso, caratterizzato dalla profonda crisi
economica, al biennio nero, all’insegna dell’offensiva antisocialista per potare il
fascismo al potere.

L’avvento del fascismo


L’espansione industriale era sorretta dall’inflazione, dalle sovvenzioni pubbliche e dal
sostegno delle banche. Questo equilibrio iniziò a rompersi quando l’Ilva e l’Ansaldo, le
società italiane più potenti, si trovarono sull’orlo del fallimento, trascinando nel vortice
anche le banche che le finanziavano. Queste si salvarono grazie all’intervento dello
stato. Tale manovra economica però fece sì che gli investimenti calarono in ogni
settore produttivo, rallentando l’inflazione ma allo stesso tempo aumentando al
disoccupazione. Allora i lavoratori in cerca di un’occupazione, disposti ad accettare
condizioni di lavoro poco favorevoli, allentarono la forza con cui il proletariato si era
combattuto per i propri diritti sul posto di lavoro. In questo modo, tutto sembrava
tornare a livello sociale come una volta, dove la borghesia teneva le redini
dell’economia. Nel 1921, Giolitti emanò vari provvedimenti:
• abolì il prezzo politico del pane
• fornì a prezzi bassi i beni di prima necessità
• aumentò le tariffe doganali, al fine di tutelare il sistema industriale nazionale
La fine del compromesso giolittiano e la nascita del Partito fascista
Con la rottura della borghesia e egli operai con il governo giolittiano, Mussolini
comprese che era possibile arrivare al potere, cercando l’appoggio proprio di questi,
dandosi un assetto conservatore. Così nel 1921 il Movimento di Fasci si trasformò in
un partito organizzato gerarchicamente, detto il Partito Nazional Fascista (PNF), e poco
dopo la Confederazione delle Corporazioni Sindacali, al fine di arrivare ai lavoratori.
Mussolini cercò anche l’appoggio della Chiesa e dei cattolici, cercando di riscuotere la
simpatia del papa Pio XI. In seguito riscosse del successo anche negli ambienti vicini
alla corona e nelle alte gerarchie militari. Il piano politico del partito rimaneva ancora
però l’utilizzo della violenza contro il movimento operaio, cosicché potenziò le squadre
d’azione, le quali intensificarono le spedizioni punitive contro partiti d’opposizione e
giornali. Nelle campagne si stava per scatenare una guerra civile, che ben presto
sarebbe dilagata in tutto il paese, proprio in questa frattura tra contadini e media
borghesia s’inserì il fascismo.

Gli errori di prospettiva di Giolitti e l’impasse del Partito Socialista


Il movimento fascista fu sottovalutato e le stesse forze liberali decisero di utilizzarlo
solo come un semplice strumento per reprimere le rivolte operaie, per poi eliminarlo
svolto tale compito. L’ascesa del fascismo fu poi facilitata dalla sconfitta del
movimento operaio, dovuta non solo al fascismo ma anche al clima economico vigente
e alla debolezza del partito socialista, indebolito per le continue lotte che si
generavano al suo interno tra massimalisti e riformisti. Il gruppo riformista era stato
incapace di tutelare i diritti dei lavoratori, le classi medie e gli interessi dei ceti
imprenditoriali. Nonostante nelle elezioni del 1921 avessero vinto, il partito socialista
si trovò isolato, poiché si era consolidata un’alleanza tra liberali, nazionalisti e fascisti.

Le spaccature del movimento socialista


Il movimento socialista non era stato capace di reggere gli attacchi fascisti, in quanto
frammentato e isolato. La direzione del partito aveva espulso la parte riformista, la
quale poi diede origine al Partito Socialista unitario (PSU). A tale decisione, la Cgl
rinunciò al patto di alleanze con il partito socialista e si diede una propria autonomia,
cosi da avere più libertà. La minoranza comunista (Gramsci), inoltre, decise di
separarsi e di fondare il Partito comunista d’Italia. Intanto in tutta Italia dilagavano le
incursioni fasciste: il 12 maggio 1921 il ras di Ferrara, Italo Balbo, invase con le milizie
Ferrara e il 27 maggio Bologna cadde nelle mani dei fascisti.

La debolezza dei governi liberali


Il popolo non si riconosce più ormai nel governo liberale, così i fascisti pensarono bene
che era il momento giusto di avviare una decisa azione insurrezionale che piegasse le
ultime forze antiliberali, per un’ascesa più rapida al potere. La situazione allora
degenerò: la debolezza del governo cresceva, mentre il parlamento era bloccato al
suo interno per le sue lacerazioni. Così il governo di Giolitti cadde nel 1921, ma i suoi
successori non furono in grado di dare una soluzione alla grave situazione.

La marcia su Roma: l’Italia verso la dittatura


Il 28 ottobre del 1921 migliaia di fascisti armati, guidati dal quadrumvirato dei
massimi esponenti del partito (Emilio De Bono, Italo Balbo, Cesare De Vecchi, Michele
Bianchi), occuparono militarmente la capitale e le città del nord, mentre Mussolini
aspettava a Milano il compiersi dei fatti. L’ordine di mandare l’esercito per intervenire
contro l’assedio fu bloccato dal re Vittorio Emanuele II, il quale successivamente
incaricò lo stesso Mussolini a formare un nuovo governo. In questo modo le forze
liberali furono completamente distrutte e il fascismo, con l’appoggio delle cariche
maggiori dello stato, si preparava a instaurare in Italia una dittatura cupa e
aggressiva.
La costruzione del regime
Con l’avvento del regime fascista ci fu una ripresa economica nel triennio 1923-25,
grazie all’aiuto dello stato nell’accumulazione dei capitali e investimenti. Per
raggiungere questo risultato si fece soprattutto leva sul fisco:
• vennero eliminate le leggi fiscali, emanate da Giolitti
• si defiscalizzarono i redditi azionari
• i contadini e gli operai dovettero pagare delle imposte sul reddito
• l’aumento dei beni di consumo, attraverso delle imposte indirette
• si diminuì la spesa pubblica per far fronte al debito pubblico
Dal punto di vista politico limito la libertà di espressione e di stampa, mentre dal
punto di vista economico lasciò ogni libertà d’iniziativa agli imprenditori e per
agevolare la produzione e gli investimenti lo stato prestò ingenti quantità di capitali.
Si può parlare di crescita economica fino al 1926, quando vennero percepiti i primi
segnali di un nuovo ristagno economico, ma per porre una soluzione a tale problema
vennero lanciate due nuove iniziative la battaglia del grano e la bonifica integrale. La
battaglia del grano consisteva nell’accrescere la produzione agricola, in particolare
quella del grano, attraverso l’utilizzo di nuovi macchinari. La bonifica integrale,
invece, consisteva nell’estendere i terreni coltivabili, strappandoli alla palude e
all’incolto, presenti soprattutto nel Mezzogiorno. Per l’applicazione di tutto ciò era
necessario una grossa quantità di manodopera.

Il delitto Matteotti: il carattere illiberale del fascismo


Sin dall’inizio il programma fascista, Mussolini era contrario all’istituzioni liberali, piano
iniziò a sostituirle con nuovi organismi necessari per la dittatura. Nacquero in questo
modo il Gran Consiglio del fascismo, formato dai maggiori esponenti del capitalismo, e
la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, incaricata di tutelare l’integrità del
regime. Giacomo Matteotti denunciò l’imbroglio elettorale del 1924 con il quale
vinsero i fascisti. In seguito a tale denuncia, fu rapito a Roma, e trovato pochi giorni
dopo ucciso. Il delitto suscitò una profonda indignazione, ma nonostante ciò il re
Vittorio Emanuele II diede il proprio appoggio a Mussolini. L’appoggio più importante
Mussolini lo trovò nel papa Pio XI, il quale un forte conservatore, per cui contrario al
parlamentarismo e alla democrazia liberale. Ciò non fermò Mussolini, il quale sciolse
una gran parte delle associazioni giovanili cattoliche, come i Boy Scout.

Il 1926, l’anno di svolta: la costruzione del regime razzista


Il regime fascista al potere rivoluzionò completamente l’assetto istituzionale del
paese, ma gradualmente: riducendo la libertà di espressione e di stampa
gradualmente fino a farla scomparire, in modo da eliminare l’opposizione politica e
sociale; estraniando il parlamento dei suoi poteri; creando nuovi canali di mediazione
sociale, per assicurarsi l’appoggio del ceto sociale. Successivamente vennero
promulgate alcuni decreti governativi, che spinsero il paese italiano verso la dittatura
più estrema:
• ridotta la libertà di stampa e di attività politica
• eliminata l’opposizione
Venne modificata, inoltre, l’organizzazione statale in modo che la maggior parte dei
poteri vennero accentrati nelle mani del duce e il parlamento venne ridotto a un
semplice organo di controllo (privato del potere legislativo); gli enti locali vennero
affidati ai prefetti (eletti direttamente dal duce, al quale dovevano rispondere del loro
operato); tutti i partiti, ad eccezione di quello fascista, furono dichiarati illegali e venne
istituito un tribunale speciale per la difesa dello stato al fine di sopprimere
l’opposizione del regime. Così venne eliminato il Partito Comunista, arrestando i suoi
massimi esponenti, tra quali Gramsci; mentre altre personalità politiche per scampare
alla forca presero la strada per l’esilio.

Le leggi sindacali
Nel 1926 vennero promulgate le leggi sindacali, con le quali vennero resi illegali gli
scioperi; i sindacati si convertirono a organismi di stato, con il compito di tutelare il
bene della nazione, e sorvegliati da una magistratura del lavoro. In questo modo i
lavoratori vennero assorbiti dalla grande macchina dello stato, come semplice forza-
lavoro senza nessun riconoscimento come forza sociale. Con queste leggi si completò
il disegno socio-politico del regime, che dopo aver privato i cittadini dei loro diritti civili
e politici, priva i lavoratori di difendere i propri interessi.

La svolta economica: la rivalutazione della lira


Nel 1926 riprese la crescita dell’inflazione e della svalutazione della lira, interessando
principalmente quel ceto a reddito fisso. Mussolini, timoroso che questi potessero non
appoggiare il regime, decise di intraprendere un piano per la rivalutazione della lira,
inserendo nuovamente lo stato come regolatore nella vita economica. La lira svalutata
era agevolava le esportazioni, ma rendeva più difficoltose le importazioni, indebolendo
soprattutto quei settori industriali che necessitavano di una grande importazione di
materie prime (industria siderurgica e chimica, elettricità, agricoltura). Inoltre, in
quanto favoriva la crescita dell’inflazione, impediva la realizzazione di un principale
obiettivo del regime, per il quale la borghesia industriale e agraria lo avevano
appoggiato: l’abbassamento dei salari. Intraprese allora l’impresa di “Quota 90”, che
consisteva nel riportare il valore della lira a quello dell’anno precedente: 1 STE = 90
LIRE. In questo modo Mussolini attuò una nuova riforma politica: si cercò di ridurre
l’inflazione, controllando i prezzi dei prodotti, tutelando i piccoli risparmiatori e i settori
industriali più forti, imboccando la strada del protezionismo. Grazie a “quota 90” si
rafforzò la grande industria e Mussolini dimostrò a tutto il mondo economico, che
l’unica volontà politica in Italia era solo quella del duce.

Gli effetti sociali della rivalutazione: il consenso della piccola borghesia


“Quota 90” generò una grave crisi, producendo gravi squilibri e forti tensioni sociali.
Infatti, la crisi colpì maggiormente quei settori industriali legati principalmente
all’esportazione, per cui aumentò disoccupazione e l’abbassamento dei salari non
venne riequilibrato ai prezzi del mercato, e tutto ciò provocò la ripresa delle lotte
operaie. Il regime, nonostante il tenore di vita delle masse lavoratrici si fosse
abbassato notevolmente, continuò ad appoggiare gli interessi della borghesia
industriale. Nonostante tutto ciò il regime si rafforzò, in quanto i piccoli risparmiatori
invece vennero favoriti, poiché i loro depositi godevano di una stabilità, e grazie alla
simpatia del papa Pio XI, che gli assicurò maggiori consensi nelle campagne e città.

Il nazismo e i regimi fascisti


La Germania nazista
A differenza degli Stati Uniti, dove nel dopo guerra si creo un fronte democratico, in
Europa presero avviò movimenti reazionari, alimentati dalla crisi. La Germania fu
travolta negli anni ’30 dalla crisi che colpì gli Stati Uniti, i quali non potendo più
investire capitali nello stato tedesco, fecero precipitare l’economia di questo,
nonostante la ripresa che ebbe nella seconda metà degli anni ’20. La disoccupazione
così aumentò vertiginosamente e il malcontento fece sgretolare la repubblica, il cui
governo non seppe prendere dei giusti provvedimenti per poter affrontare la crisi. In
questo modo i consensi maggiori andarono verso la destra estrema, in particolare al
partito Nazionalsocialista di Adolf Hitler.

L’ascesa del potere del Partito Nazista


Nel 1932, l’anno più duro della crisi, il partito nazionalsocialista ottenne la
maggioranza relativa, così il presidente della repubblica Hindeburg incaricò Hitler di
formare il nuovo governo. Nella notte del 27 febbraio, però, ci fu un attentato
terroristico al parlamento: il Reichstag venne incendiato. Tutte le accuse ricaddero sui
comunisti, permettendo ai nazisti di dare avviò a una dura repressione verso
l’opposizione e venne ripristinata la pena di morte contro i crimini contro la sicurezza
dello stato. In seguito a dei discordi in parlamento, vennero richiamati i cittadini
tedeschi alle elezioni, le quali furono vinte con una netta maggioranza dai nazisti. Ciò
permise a Hitler di mettere in atto tutti i suoi piani, in particolare di sopprimere ogni
garanzia democratica, così pochi giorni seguenti furono affidati i pieni poteri a Hitler,
privando il parlamento del potere legislativo.

La base sociale del nazismo: ceti popolari e ceti medi


L’ascesa del nazismo fu resa possibile dall’appoggio dei ceti militari e il fatto di essere
un’organizzazione nuova, non legata alla vecchia elite. Il partito di fatti era formato dai
componenti dei ceti medio-bassi e dal proletariato non qualificato, formatosi con il
taylorismo. Il proletariato dequalificato era la categoria sociale che più si riconosceva
nel partito, il quale poi manipolò gli ideali del ceto medio per garantirsi il suo
appoggio. Il nuovo ceto medio, infatti, sperava di distinguersi dal proletariato e di
uscire dall’anonimato.

La dottrina del nazismo e il consolidamento dello stato totalitario


Per assicurarsi l’appoggio della casta militare e dei ceti imprenditoriali, Hitler nella
notte dei “lunghi coltelli” fece assassinare tutti i massimi esponenti dell’ala sinistra del
partito. In seguito alla morte di Hidenburg, Hitler accentrò tutti i poteri nelle sue mani,
avendo così le redini dello stato. Per spargere terrore nelle masse utilizzò squadre di
polizia speciali, quali SS, per la difesa del partito, e la Gestapo. Si servì di queste
inoltre per eliminare completamente l’opposizione, commettendo vari crimini, inoltre
in questo senso vennero sciolti tutti i partiti. Molti oppositori cercarono scampo
all’estero, ma anche gli esponenti del mondo culturale, in quanto ormai nello stato
tedesco non esisteva più libertà di pensiero e di stampa, infatti venne avviato il rogo
dei libri proibiti, al fine di distruggere le culture straniere.

La persecuzione antiebraica
I principali ideali di Hitler erano la superiorità genetica della razza ariana, di cui i
tedeschi erano i puri rappresentanti, e la necessità di uno spazio vitale per lo stato
tedesco, che gli permettesse di estendersi a est, verso la Russia. Hitler voleva rendere
la Germania una potenza mondiale, a discapito del trattato di Versailles e riscattandosi
della sconfitta della prima guerra mondiale. Il pericolo più grande, però, per l’integrità
nazionale la purezza della razza erano gli ebrei. Tale astio era di origine economica: gli
ebrei possedevano il controllo della maggior parte delle banche, così molti proprietari
terrieri avevano ipotecato i loro beni con questi, quindi con l’eliminazione degli ebrei
avrebbe risolto questo problema. Allora facendo leva sui sentimenti antisemiti, additò
alla cultura e alla religione ebraica come la responsabile del declino economico
tedesco. Con le leggi di Norimberga del 1935 gli ebrei vennero privati del diritto di
cittadinanza, di voto, dagli impieghi pubblici e privati di qualsiasi diritto per
l’esercitazione di una libera professione. Inoltre vennero vietati i matrimoni misti e
quelli già celebrati furono annullati. Nel 1938 la persecuzione degli ebrei si fece più
brutale e sistematica, basti pensare che tra la notte del 9 e 10 novembre,
soprannominata la “notte dei cristalli”, nella quale si svolse la più feroce
manifestazione antisemita.

I campi di concentramento e di sterminio


I lager furono installati in tutto il territorio tedesco sin dagli inizi del partito nazista. La
loro organizzazione era di tipo sistematico e scientifico. Si calcola che durante la
seconda guerra mondiale furono deportati nei lager circa 8-10 milioni di tedeschi
(ebrei e oppositori politici), di cui il 90% fu ucciso. In seguito al 1942, con
l’emanazione della “soluzione finale” di Hitler, secondo il quale venne ordinato
l’uccisione sistematica di tutti gli ebrei, vennero costruiti dei campi di sterminio.
Il lager, modello estremo dello stato totalitario
Il lager era uno strumento importante per il regime nazista, in quanto era parte
integrate della sua ideologia, secondo cui l’avversario era un nemico assoluto e di
conseguenza andava annientato, per cui simbolo della “schiavitù degli inferiori”. In
aggiunta era uno strumento di terrore, rassicurando invece coloro che davano il loro
pieno consenso al regime e appartenenti alla razza ariana. Il lager rappresentava
inoltre il perfetto modello della società totalitaria depersonalizzata e organizzata sulla
base di un sistema di disciplina integrale in cui ogni norma è costituita dalla pura
volontà dei potenti. I prigionieri venivano suddivisi in gruppi ed a ogni gruppo spettava
un contrassegno, collegato a una gerarchia (ordine crescente):
• Ebrei: triangolo o stella gialla
• Zingari e omosessuali: triangolo rosa
• Emarginati e disoccupati: triangolo nero
• Oppositori politici: triangolo rosso
• Sacerdoti e testimoni di Geova: triangolo viola
• Criminali comuni: triangolo verde (soprannominati kapò, avevano il compito di
far mantenere la disciplina agli altri detenuti)
Oltre ai soprusi che si trovavano a vivere quotidianamente dalle forze dell’ordine, gli
ebrei vivevano in situazioni disumane: mal nutrizione, privi di riscaldamento e di
igiene, etc.

Controllo sociale, dirigismo economico, espansionismo politico


Il regime totalitario puntava all’assoggettamento completo dell’individuo nelle
strutture dello stato. Uno degli strumenti fondamentali che il regime nazista usava a
suo favore era l’educazione. Le scuole, i giochi e letture erano finalizzati per la
formazione di una perfetta gioventù devota al regime, per esempio per i ragazzi si
prevedeva l’addestramento premilitare, mentre le ragazze si preparavano alla
maternità, quindi a portare avanti la razza. Vennero usati poi i mas media al fine di
estendere la propaganda nazista e assillare le masse, le quali si riconoscevano nella
figura del capo carismatico del Fuhrer. Furono eliminate tutte le compagini sindacali e
sostituite dal “fronte del lavoro”. Il regime applicò anche un coordinamento della
politica industriale, promuovendo grandi piani di lavori pubblici per ridurre la
disoccupazione, e una politica di riarmo, sostenendo la ripresa dell’industria pesante
tedesca. Tale politica però ebbe riscontri con quella estera, poiché con il riarmo la
Germania infrangeva il trattato di Versailles e per di più era una minacciava le altre
potenze con il suo obiettivo espansionistico.

L’Austria dalla dittatura del Dolfuss all’annessione del Reich tedesco


Con la crisi del 1929, generatasi negli Stai Uniti, venne travolta anche l’Europa, in cui
ogni stato prese dei provvedimenti differenti. La Germania, come in Italia, si creò un
regime totalitario, in cui ci fu la soppressione di ogni liberta democratica e la
subordinazione dell’individuo al fine di uno sviluppo industriale. L’Austria, invece,
conobbe già nel seguente dopoguerra la formazione di organizzazioni di stampo
fascista e antisocialista, le Heiwehr. Questi raggiunsero il loro apice nel 1927, quando
il governo viennese le utilizzò come strumento per la repressione della rivolta operaia.
Anche qui la crisi portò ad una soluzione di tipo autoritario, infatti nell’elezioni del
1930 vinse Engelbert Dollfuss, leader dei conservatori cattolici, il quale contro la lotta
contro il comunismo fondò il “Fronte patriottico”. Grazie a questa nuova istituzione,
eliminò il regime parlamentare e si accentrarono tutti i poteri nel capo del governo
Dolfuss, che seguì una politica basata sul dimensionamento delle libertà democratiche
e sulla repressione dell’opposizione politica. Nonostante tutte le assomiglianze con il
regime nazista, Dolfuss si oppose alla nazificazione dell’Austria: arrivò a sciogliere le
nuove organizzazioni naziste nate nel paese, perdendo in questo modo molti consensi.
Cosicché nel 1934 un gruppo di nazisti cercarono di attuare un colpo di stato, benché
fosse andato male, costò la vita a Dolfuss. Pochi anni dopo, nel 1938, fu lo stesso
Hitler, che con un’invasione militare annesse l’Austria al Terzo Reich.

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