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I FASCISMI.
Nel 1922 l’Italia divenne il primo Paese dove un movimento di questo tipo, il
fascismo di Benito Mussolini, riuscì a conquistare il potere.
Il governo italiano era deluso da quanto ottenuto con i trattati di pace: troppo
poco rispetto alle enormi perdite e sofferenze subite. L’Italia aveva dovuto
rinunciare alla Dalmazia (che era abitata in prevalenza da slavi, invece di
essere annessa all’Italia, secondo quanto stabilito dal patto di Londra,
divenne parte del territorio jugoslavo ), sia a Fiume ( che sulla base del
principio di nazionalità, doveva essere annessa all’Italia, ma che, secondo le
decisioni londinesi, era destinata a rimanere all’Austria).
Per protesta contro l’ostilità che serpeggiava tra i francesi e gli inglesi, per un
periodo la delegazione italiana aveva perfino abbandonato la conferenza di
pace.
Il governo era preoccupato per la situazione interna del paese, perché con la
smobilitazione dell’esercito sorgeva il problema degli ex combattenti, che
avevano difficoltà a reinserirsi nella vita civile ed erano sensibili alla
propaganda nazionalista della “vittoria mutilata”, espressione creata dal
poeta Gabriele D’Annunzio per mettere alla luce l’inutilità dei tanti sacrifici
patiti dagli italiani durante la guerra.
Fu il cosiddetto “biennio rosso”, che fece temere alle classi dirigenti che
anche in Italia potesse ripetersi l’esperienza rivoluzionaria russa.
Gli operai del settore metallurgico furono i più attivi e organizzati nella lotta
per le otto ore lavorative, per la difesa del salario e del posto di lavoro, per il
miglioramento delle condizioni di lavoro.
Nel 1919, l'acceso dibattito all'interno del partito socialista che, dopo la
guerra, aveva visto contrapporre le posizioni riformiste di Filippo Turati a
quelle rivoluzionario-massimalista di Giacinto Serrati, si arricchì.
In questa situazione di tensione, nel marzo del 1919 Benito Mussolini diede
vita a Milano ai Fasci Italiani di combattimento, che cominciarono ad
affermarsi nella Pianura padana, in Toscana e in Puglia.
Le elezioni decretarono il successo dei socialisti, con circa il 32% dei voti.
Quasi tutti gli eletti venivano però dai collegi del centro Nord: ciò era una
inevitabile conseguenza del fatto che il partito non riusciva a farsi
rappresentante della lotta per la terra né del bisogno di giustizia delle masse
contadine del sud. Il movimento di Mussolini ebbe risultati modesti, mentre il
neonato partito popolare guadagnò il 20% dei voti. Socialisti e popolari
insieme detenevano la maggioranza assoluta, tuttavia non potevano allearsi
perché li dividevano la prospettiva della rivoluzione sociale, che i popolari
volevano scongiurare, e soprattutto il giudizio sul comunismo sovietico.
Nessuno dei due partiti, d'altra parte, era disposto a stringere un patto di
governo organico con i liberali, considerati i responsabili del disordine in cui
era caduto il sistema politico Italiano. Così nessun governo stabile era in
grado di costituirsi.
Gli succedette il vecchio Giolitti, che faceva affidamento sulle sue provate
doti da mediatore per sedare lo scontro sociale e ricomporre le forze
politiche favorevoli ad un accordo parlamentare.
In realtà, nel fascismo confluirono presto tre matrici predominanti, che già si
erano trovate a convivere nell’interventismo: la prima, sindacalista-
rivoluzionaria, la seconda, tradizionalista; la terza, di impronta borghese.
Il movimento da lui fondato trovava nel disprezzo per l’intero mondo politico
una delle ragioni forti per radicarsi al malcontento popolare, ulteriormente
esacerbato dalla “vittoria mutilata”.
Le lotte del 19-20 avevano ottenuto un aumento dei salari, e perciò la classe
operaia continuava ad aver fiducia nella Cgl, nelle Camere del lavoro, nei
suoi partiti.
Inizialmente fascismo riceveva consensi più nelle campagne che nelle città,
più al centro-sud che al nord, e sopratutto fra la borghesia grande e piccola
e fra i disoccupati.
Il fascismo si dotò ben presto di caratteristiche culturali che fino ad ora non
aveva mai avuto. Si caratterizzò ben presto per il suo pessimismo
irrazionalista: non credeva affatto ad un progresso razionale, a un cammino
dell’umanità verso maggiori libertà, maggiori diritti, maggiori opportunità per
un numero crescente di donne e di uomini. Credeva che tutto si riducesse
alla legge brutale del trionfo del più forte, alla semplicità primitiva della lotta
per la vita fra gli individui e fra i popoli e le razze.
Una componente assai forte del fascismo era quella bellicista e anti-
parlamentare. I fascisti non credevano nelle virtù della pace e anzi
continuavano a esaltare la guerra, che era considerata una buona misura di
“igiene dei popoli”.
La pace duratura fra le nazioni era, impossibile e per di più negativa, perché
generatrice di viltà nei comportamenti e di appiattimento fra le razze e i
popoli.
In occasione delle elezioni politiche del maggio del 1921 Giolitti offrì ai
fascisti la possibilità di entrare a far parte del “Blocco Nazionale”, cioè
un’alleanza che comprendeva nazionalisti e liberali e che avrebbe dovuto
sostenere con maggior vigore il suo governo.
Giolitti per portare avanti il suo programma, tentava ora di servirsi dei
fascisti, come aveva già fatto in precedenza con socialisti e cattolici,
pensando di disinnescare, in questo modo, la carica eversiva.
Alle dimissioni di Giolitti (1° luglio) seguì la nomina a presidente del consiglio
di Ivanoe Bonomi, un socialista che nel 1912 aveva lasciato il Psi per formare
il Partito socialista riformista e che guidò il paese dal luglio 1921 al febbraio
1922, senza riuscire ad arginare la violenza dilagante e gli scontri in piazza.
Ancora più debole era il governo di Luigi Facta, durato solo otto mesi, dal
febbraio all’ottobre 1922.
La violenza fascista era giunta a livelli insopportabili, tant’è che tutte le forze
politiche, tranne i comunisti e la maggioranza dei socialisti, si auguravano
che il partito di Mussolini entrasse a far parte del governo.
Nel novembre del 1923 fu varata una nuova legge elettorale maggioritaria,
presentata dal deputato Giacomo Acerbo: essa prevedeva che la lista che
avete ottenuto la maggioranza relativa dei voti, arrivando almeno al 25%,
occupata in parlamento due terzi dei seggi grazie a un forte premio di
maggioranza.
Alle elezioni indette nell’aprile del 1924, il fascismo si presentò con un listone
unitario che includeva, oltre i fascisti, anche tutti coloro a cui il nuovo
governo ispirava fiducia.
La crisi provocata dal delitto Matteotti si era risolta non con la fine
dell’avventura fascista ma con la disfatta dei partiti dell’opposizione: il
fascismo si avviava a costruire un vero e proprio regime.
Il potere esecutivo veniva innalzato rispetto agli altri: Mussolini, ora chiamato
“Duce” (guida), il titolo che nell’antica Roma veniva dato ai condottieri e ai
generali, con una legge del dicembre del 1925 rafforzò i propri poteri
diventando “capo del governo” e non più presidente del consiglio, come
voleva lo Statuto.
Vennero soppresse le autonomie locali, prima nei piccoli e poi nei grandi
Comuni: al posto del sindaco veniva istituito un podestà di nomina
governativa, che fu affiancato da un consiglio comunale anch’esso nominato
dall’alto.
A quel punto il Gran Consiglio, che fino a quel momento aveva svolto il ruolo
extraparlamentare di cerniera fra il partito e lo stato, diventava l’organo
costituzionale più importante del paese.
Il. Partito fascista si identificò con lo Stato. Nei primi anni il Pnf era servito a
Mussolini per conquistare e consolidare il potere, ma quando lo stato fu del
tutto “fascistizzato” assorbì interamente l’organizzazione del partito
svuotandola di fatto.
A farne maggiori spese furono gli operai, specie quelli delle grandi industrie,
dove le organizzazioni sindacali erano state forti; e questo perché non
potevano più servirsi dell’arma dello sciopero.
Nel 1939 la Camera dei deputati fu sostituita dalla Camera dei fasci e delle
corporazioni, nominata per metà dal sistema corporativo e per metà dal gran
consiglio.
Era una politica assurda per uno Stato, come quello italiano, che aveva
subito duramente il dramma dell’emigrazione per rimediare all’eccesso di
manodopera in rapporto alle risorse; inoltre il flusso dell’emigrazione era ora
interrotto.
Negli ultimi anni del regime Venne anche pensata una riforma del latifondo
siciliano, tuttavia mancarono la volontà e il tempo per andare a fondo su
questa strada.
Questo grande sforzo portò un prezzo molto alto per l'economia italiana,
strutturalmente dipendente dal commercio estero.
Il Fascismo , che nei primi anni di governo era stato liberista, E che per
questo era piaciuto agli agrari e a parecchi industriali, tornò quindi al
protezionismo e ad un forte interventismo dello Stato nell'economia, come ai
tempi di Crispi.
Questa scelta avvantaggiò gli stessi settori della grande industria siderurgica
ed elettrica che, avevano tratto beneficio dal protezionismo perché favoriti
Dalle commesse pubbliche. Il regime si spinse anzi molto più in là del
protezionismo Crispino e finì con il pensare ad una vera e propria
“autarchia”, cioè un annullamento delle importazioni per supplire con la
produzione interna a tutte le esigenze del mercato nazionale; tale scelta
Venne annunciata da Mussolini nel marzo del 1936, nel clima di isolamento
internazionale e di sanzioni economiche seguito all’invasione dell’Etiopia.
Quelli della grande industria sono infatti interessi forti, capaci di fare
contrappeso al dominio della politica, interessi che devono far circolare
uomini, capitali, idee.
Assicurò all’industria una moneta forte, anche se esagerò su questa via per
ragioni di prestigio internazionale, finendo per danneggiarla.
Questa tendenza si accentuò durante gli anni 30 anche a causa della grave
crisi economica e mondiale scoppiata nel 1929. A questa congiuntura risale
infatti la più importante delle creazioni: l’istituto per la ricostruzione
industriale (Iri) , fondato nel 1933. L’iri rappresentò il fulcro della presenza
dello Stato nell'economia e lo strumento per nazionalizzare settori importanti
che avevano bisogno dell'intervento pubblico.
Il successo più significativo del regime fu ottenuto nei confronti della Chiesa
cattolica. Fin dall'inizio il fascismo ebbe consensi da parte del Vaticano, che
proprio per questo aveva allentato i propri legami con il partito popolare, il
quale, sotto la guida di Don Sturzo, aveva scelto una decisa opposizione. Più
di una ragione spingeva la gerarchia cattolica ad apprezzare il fascismo:
eliminazione del conflitto sociale, Poggio al corporativismo, che in tutta
Europa aveva una forte matrice cattolica, e più in generale, la prevalenza
della finalità comunitaria su quelle individuali.
L’italia fascista continuava ad essere accettata nel club dei paesi vincitori,
anche se, al tempo stesso, continuava ad essere discriminata nelle sue
esigenze vitali e rappresentava un punto di riferimento per i paesi sconfitti.
Due anni dopo l’Italia strinse un patto di mutua assistenza con L’Albania, che
a sua volta entrò nell’orbita italiana.
Questo , naturalmente, portò agli inizi degli anni 30, allo sviluppo di un
carattere aggressivo della politica di potenza fascista, che si indirizzò vero
l’unico Stato africano che era riuscito a mantenere la propria indipendenza e
con la quale l’Italia aveva un conto in sospeso dai tempi della sconfitta di
Adua (marzo 1896): l’Etiopia.
Negli ultimi anni l’Etiopia aveva compiuto degli importanti progressi. Aveva
costruito una ferrovia, una rete stradale, scuole e ospedali; si era dotata di
un’ armamento più moderno, aveva avviato l’abolizione della schiavitù ed era
entrata a far parte della Società delle Nazioni.
Alla fine del 1934 un incidente di frontiera fra l’Eritrea italiana e l’Etiopia fornì
a Mussolini il pretesto per preparare l’attacco al Paese Africano.
L’intento fu subito chiaro e l’Italia fu colpita, nel novembre del 1935, dalle
sanzioni internazionali della Società delle Nazioni, che vietavano il
commercio con il nostro Paese e la concessione di crediti, sanzioni
comunque vanificate in quanto la Germania, dove al contempo era salito al
potere Hitler, si dichiarò disposta a rifornire l’Italia di tutto quello di cui
avesse bisogno.
Nel maggio del 1936 Mussolini potè proclamare la rinascita dell’Impero “sui
colli fatali di Roma” e il re Vittorio Emanuele III si fregiò del titolo imperiale,
proprio nel periodo in cui le altre potenze coloniali stavano cercando di
ridefinire lo status giuridico e le forme di governo dei loro possedimenti.
LA REPUBBLICA DI WEIMAR E IL
NAZIONALSOCIALISMO TEDESCO
Fin dal 1921 e più massicciamente nel 1923, i ritardi tedeschi nel pagamento
delle riparazioni della guerra, imposte dai trattati di Versailles indussero il
governo francese a occupare la regione industriale della Ruhr.
L’aumento dei prezzi delle merci mirò le basi stesse della società. Per alcuni
fu l’occasione di realizzare enormi profitti; per interi gruppi sociali ( come ad
esempio operai salariati, funzionari ecc. che avevano un reddito fisso)
rappresentò la catastrofe.
La repubblica di Weimar, nata nel 1919, aveva i suoi punti deboli in quanto
era al contempo, parlamentare e presidenziale, perché da una parte il
governo aveva bisogno della fiducia del Parlamento ma, dall’altra, l’articolo
48 della Costituzione riconosceva al presidente, la facoltà di emanare leggi
per decreto, quindi di scavalcare il Parlamento, e di assumere di fatto la
dittatura.
Per questa via poterono rifarsi a un filone della cultura tedesca che si
opponeva all’universalismo dei valori liberali e socialisti, esaltando il
particolarismo, il tradizionalismo, i legami con la comunità, la terra, la patria,
la prevalenza della forza sul diritto e sulla ragione.
I tedeschi, ariani puri, erano stati relegati entro confini troppo angusti, ero un
“popolo senza spazio” e avevano il diritto di conquistare il loro “spazio vitale”
espandendosi a danno dei loro vicini.
E del pensiero tedesco che in ogni campo del sapere aveva fornito
all’Europa e al mondo risultati e contributi di fondamentale rilevanza storica.
Molti intellettuali fecero sentire la loro voce di civiltà, ma la cultura razzista,
irrazionalista e violenta trovò purtroppo un numero sempre maggiore di
sostenitori nelle università, nelle chiese e nelle istituzioni.
All’inizio del 1920 il nuovo partito tenne una manifestazione in una grande
birreria del capoluogo bavarese, durante la quale Hitler espose i punti
principali della sua linea politica: il razzismo, la subordinazione del cittadino
alla collettività, la creazione di un “diritto germanico” e perfino di un nuovo
cristianesimo di natura patriottica, il riarmo, le limitazioni alla libertà di
stampa e artistica, l’organizzazione centralissima dello stato.
Nel momento in cui Hitler presentava il suo partito nella birreria diMonaco, la
guerra civile in Russia si stava concludendo a favore dei bolscevichi.
Questa rincorsa a dotarsi dei mezzi più efficaci per sconfiggere l’avversario,
naturalmente, fu vinta dai nazisti, che misero in campo le SA ( squadre
d’assalto), in camicia bruna, cresciute fino a inquadrare 400.000 uomini nel
1933 e tre milioni l’anno seguente, dopo la presa del potere da parte dei
nazisti.
A partire dalla metà degli anni venti, Hitler istituì la sua propria guardia del
corpo, le SS ( squadre di protezione), potenziate per controbilanciare le
tendenze ingovernabili e la forza eccessiva delle SA. I membri delle SS
dovevano provare la propria purezza ariana da molte generazioni ed erano
soggetti ad un controllo personale da parte dei loro capi.
Tutte le istituzioni dello Stato erano ormai orientate verso destra e dopo
pochi mesi, dopo esser uscito dalla prigione, Hitler proseguì il suo percorso
di attività politica.
La curva ascendente dei voti del partito nazista salì a 1 a quasi 14 milioni,
quella degli iscritti da 100.000 a 1.200.000, parallelamente al crescere dei
disoccupati.
La guerra aveva alterato gli equilibri economici anche nei rapporti fra nazioni
e durante il conflitto degli Stati Uniti, il Giappone e alcuni Stati sudamericani
si erano arricchiti, mentre l’Europa si era impoverita.
Il commercio internazionale, che era stato uno dei motori dello sviluppo
economico nei decenni precedenti, non potè più svolgere questo ruolo nel
dopoguerra, durante il quale gli Usa si videro costretti ad aiutare la Germania
con massicce iniezioni di capitali per metterla nelle condizioni di far fronte
alle pesanti indennità di guerra imposte dal trattato di Versailles.
Nel 1921 una prima crisi finanziaria e industriale investì sia i Paesi vinti sia
quelli vincitori, favorita da un caos monetario generalizzato, che fece
crescere l’Inflazione sopratutto nei Paesi più deboli come la Germania dove
si giunse, nel 1923, al tracollo totale della moneta.
Negli anni Venti gli Usa vissero un periodo di grande prosperità chiamato “
anni ruggenti”: tra il 1922 e il 1929 la produzione industriale raddoppiò,
grazie sopratutto alle innovazioni tecnologiche.
Per gli statunitensi questi furono anni di “consumi di massa”, stimolati dalla
pubblicità e dalla vendita a rate, e si diffuse uno stile di vita ottimistico
( l’American Way of Life), basato sul benessere dei ceti medi e dei lavoratori
qualificati e sulla ricerca di nuovi svaghi.
Gli Stati Uniti non ebbero più capitali da investire all’estero, specie in
Germania, la cui produzione industriale dipendeva da quel flusso finanziario.
Nel 1929 gli Stati Uniti, da soli, detenevano il 45% della produzione mondiale
e un altro 35% era diviso tra Inghilterra, Germania, Francia, Belgio, Olanda,
Svezia, Svizzera, Austria e Canada. Questi furono i paesi più danneggiati,
mentre l’Italia fu colpita in ritardo e in modo marginale, in quanto dipendeva
ancora scarsamente dal mercato mondiale.
Il Giappone subì in misura minore gli effetti della crisi, poiché il suo regime
militarista aveva imboccato prima degli altri la via del riarmo e quindi
l’Industria pesante lavorava a pieno regime per lo Stato.
Allora, però, il contrasto fra l’incapacità delle democrazie liberali di dare una
risposta alla crisi e il dinamismo di questi paesi risultava forte, e contribuì
non poco alla diffusione delle ideologie di stampo totalitario.
Gli Stati uniti; furono i primi ad ampliare l’intervento pubblico; nel 1923 fu
eletto alla presidenza il democratico Franklin Delano Roosevelt, che si trovò
dinanzi ad una situazione di crisi totale, accentuata ancora di più
dall’amministrazione repubblicana. Così Roosevelt agì con grande rapidità,
mise al lavoro un “gruppo di cervelli” ( brain trust), che gli suggerì la strada di
quello che fu chiamato il “nuovo corso” ( new deal ).
Dato che gli investimenti privati nelle attività produttive erano crollati del
90%, il governò varò un grande programma di investimenti federali finanziati
con la spesa pubblica, e quindi l’inflazione, poiché più denaro si immette in
un sistema economico e meno questo denaro ha valore.
Era necessario creare una nuova occupazione per distribuire salari e mettere
i cittadini nella condizione di acquistare beni disponibili sul mercato, cioè di
creare nuova domanda.