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STORIA

I FASCISMI.

L’IMMEDIATO DOPOGUERRA IN ITALIA E IL “BIENNIO


ROSSO” 1919-1920.

All’indomani della Grande Guerra, nei paesi sconfitti, come ad esempio la


Germania, come anche i paesi indeboliti, come ad esempio l’Italia, si
formarono movimenti ultranazionalisti. Questi movimenti avevano spesso
riferimenti ideologici confusi e contraddittori. Da un lato, si presentavano
come “rivoluzionari”, desiderosi di un rinnovamento radicale e violento del
sistema politico; dall’altro si dichiaravano conservatori e tradizionalisti,
poiché affermavano di voler difendere le tradizioni nazionali e religiose dal
dilagare del materialismo socialista e dell’individualismo liberale.

L’ostilità nei confronti del socialismo e del comunismo guadagnò a questi


movimenti le simpatie dell’élite economiche e sociali.

Questi gruppi seppero però guadagnare consensi anche in vasti strati


piccolo-borghesi e rurali, impoveriti dalla guerra e dell’inflazione e spaventati
dalle trasformazioni in atto.

A costoro i movimenti ultranazionalisti sembravano offrire efficaci soluzioni


economiche e soprattutto un antidoto al sentimento di disorientamento e alla
perdita di identità che la Grande Guerra aveva generato tra le popolazioni
europee.

Nel 1922 l’Italia divenne il primo Paese dove un movimento di questo tipo, il
fascismo di Benito Mussolini, riuscì a conquistare il potere.

Negli anni successivi l’esempio italiano fu seguito in Germania, Portogallo,


Ungheria, e in molti altri paesi extraeuropei come ad esempio il Giappone.

Si trattava di regimi autoritari, che sostenevano la subordinazione degli


interessi e delle libertà individuali rispetto a quelli dello stato.

Nei regimi fascisti vennero abolite le libertà di associazione, di stampa e in


generale la possibilità di manifestare liberamente il proprio pensiero, e lo
Stato, controllato dal partito al potere, tese a vere e proprie forme di
totalitarismo.

A differenza della Germania, l’Italia era tra i Paesi vincitori, ma la guerra


aveva creato più problemi di quanto non ne avesse risolti.

Il governo italiano era deluso da quanto ottenuto con i trattati di pace: troppo
poco rispetto alle enormi perdite e sofferenze subite. L’Italia aveva dovuto
rinunciare alla Dalmazia (che era abitata in prevalenza da slavi, invece di
essere annessa all’Italia, secondo quanto stabilito dal patto di Londra,
divenne parte del territorio jugoslavo ), sia a Fiume ( che sulla base del
principio di nazionalità, doveva essere annessa all’Italia, ma che, secondo le
decisioni londinesi, era destinata a rimanere all’Austria).

Per protesta contro l’ostilità che serpeggiava tra i francesi e gli inglesi, per un
periodo la delegazione italiana aveva perfino abbandonato la conferenza di
pace.

Il governo era preoccupato per la situazione interna del paese, perché con la
smobilitazione dell’esercito sorgeva il problema degli ex combattenti, che
avevano difficoltà a reinserirsi nella vita civile ed erano sensibili alla
propaganda nazionalista della “vittoria mutilata”, espressione creata dal
poeta Gabriele D’Annunzio per mettere alla luce l’inutilità dei tanti sacrifici
patiti dagli italiani durante la guerra.

L’industria bellica doveva essere riconvertita e si era accumulato un enorme


debito pubblico a causa dei costi sostenuti dallo stato durante il conflitto.

Il paese era dunque in miseria, ma al tempo stesso erano cresciute le


aspettative di un rinnovamento sociale e politico. Durante la guerra, alle
classi popolari erano state fatte promesse che ora nessuno poteva
mantenere, ad esempio: ai contadini era stata promessa una redistribuzione
delle terre , mentre alla classe operaia, in rapida crescita soprattutto al
centro-nord, chiedeva un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro.

L’esempio della Russia accendeva grandi speranze rivoluzionarie.

La grande instabilità, che accomunava l’Italia ai paesi sconfitti dell’Europa


centrale e alla Russia, aveva diversi aspetti.

Vi era, innanzitutto, un bisogno di rivoluzione democratica per superare un


sistema liberale profondamente corrotto, che aveva raggiunto da poco il
suffragio universale maschile e in cui l’intero parlamento appariva screditato.

Si radicava poi sempre più a fondo un’esigenza di rivoluzione sociale e di


riorganizzazione del sistema produttivo affermatosi nel corso della guerra,
con una classe operaia forte e numerosa al centro nord e in rapida crescita.

Si allungava anche l’ombra di una rivoluzione militarista e nazionalista, forte


dei milioni di uomini addestrati a combattere e ora smobilitati, incapaci di
accettare il ritorno alla situazione dell’anteguerra.

Tra i lavoratori delle zone industriali del Nord prevalevano le organizzazioni di


ispirazione socialista.

In Italia, come strumento di organizzazione delle lotte operaie, agivano le


Camere del Lavoro: si trattava di strutture sindacali, ma anche di luoghi di
incontro e di cooperazione fra operai non necessariamente inscritti al
sindacato, nati per promuovere la difesa degli interessi dei lavoratori in tutte
le contingenze della loro vita e realizzare un contatto permanente fra tutti i
lavoratori.

Le Camere del Lavoro erano dirette dal grande sindacato unitario, la


Confederazione generale del lavoro (Cgl) - che dopo la guerra aveva
moltiplicato per sette i suoi aderenti toccando nel 1920 circa i 2.300.000
iscritti- e dal Partito Socialista.

Vi era anche un’organizzazione sindacale cattolica, la Confederazione


italiana dei lavoratori (Cil) e una anarcosindacalista e nazionalista, l’Unione
Italiana del lavoro (Uil), molto più piccola ma combattiva, che durante la
guerra era stata interventista.

Nell’immediato dopoguerra, sindacati e camere del lavoro si trovarono


dinanzi ad un’imponente ondata di scioperi spontanei, ma non avevano idea
di come incanalare questa protesta verso un obiettivo rivoluzionario.

Il 1919-1920 passarono fra agitazioni operaie, occupazioni di terre incolte da


parte dei braccianti, saccheggi di mercati e negozi, fra mille scontri piccoli e
grandi, senza che nessuno sapesse come gestire una così forte
mobilitazione.

Fu il cosiddetto “biennio rosso”, che fece temere alle classi dirigenti che
anche in Italia potesse ripetersi l’esperienza rivoluzionaria russa.

Gli operai del settore metallurgico furono i più attivi e organizzati nella lotta
per le otto ore lavorative, per la difesa del salario e del posto di lavoro, per il
miglioramento delle condizioni di lavoro.

Spesso misero in atto l’ostruzionismo, cioè il rallentamento della produzione,


al quale i padroni cominciarono a rispondere con le “serrate” , cioè con la
chiusura, anche per un lungo tempo, dei reparti e con il licenziamento degli
operai in lotta.

Nel 1919, in Lombardia alcuni sindacalisti decisero l’occupazione delle


fabbriche per impedire le serrate e per continuare la lotta operaia senza
interrompere la produzione.

Nel 1920, l’occupazione delle fabbriche si estese a tutto il Nord.

Le iniziative degli operai partivano spesso dai consigli di fabbrica ispirati ai


soviet russi: tali consigli miravano al controllo e alla cogestione delle
fabbriche stesse, cioè alla gestione del lavoro e, in molti casi, organizzavano
la difesa armata delle strutture produttive.

Essi scavalcarono le rappresentanze sindacali ufficiali dei lavoratori, che in


quel momento non sembravano in grado di organizzare la mobilitazione.

La protesta operaia si concluse nel settembre con un accordo che, pur


prevedendo l’accettazione di alcune delle richieste degli operai, rimase di
fatto lettera morta su una delle questioni centrali, il controllo operaio sulla
produzione.

L’occupazione delle fabbriche si concluse con un insuccesso e testimoniò la


mancata volontà o l’incapacità dei socialisti di dare uno sbocco
rivoluzionario alla protesta, ma, nello stesso tempo, alimentò le paure degli
imprenditori di un sommovimento sociale.

I socialisti , Dominati dalla corrente massimalista di Giacinto Menotti serrati,


erano in attesa della rivoluzione che giudicavano prossima, ma mancavano
di una linea politica che permettesse di utilizzare la loro grande forza
parlamentare. In attesa della rivoluzione erano incerti sul da farsi, a maggiore
ragione alla camera dei deputati, che consideravano un'istituzione da
boicottare. Essi ritenevano di dover impedire allo Stato borghese di
funzionare e si consideravano eletti solo per “mantenere un sasso
nell’ingranaggio".

I massimalisti controllavano gli organi direttivi e quindi la linea ufficiale del


partito, ma nel gruppo parlamentare socialista vi era anche una consistente
presenza di esponenti riformisti, come Turati, che controllavano anche il
sindacato e che non ritenevano affatto prossima la rivoluzione, e forse
nemmeno auspicabile. I dirigenti massimalisti venivano inoltre criticati
sempre più aspramente dall'estrema ala sinistra del partito, cui faceva a

capo soprattutto un gruppo arrivo a Torino nel quale spiccava la figura di


Antonio Gramsci.

Nel 1919, l'acceso dibattito all'interno del partito socialista che, dopo la
guerra, aveva visto contrapporre le posizioni riformiste di Filippo Turati a
quelle rivoluzionario-massimalista di Giacinto Serrati, si arricchì.

In quell'anno, videro la luce due nuovi settimanali: “IL SOVIET”, portavoce di


un gruppo di socialisti napoletani guidati da Amedeo Bordiga, e “L’ORDINE
NUOVO”, fondato a Torino Antonio Gramsci.

La polemica tra gli ordinovisti e la maggioranza massimalista assunse toni


sempre più radicali e nel gennaio del 1921, con la scissione del partito
socialista e la nascita, in occasione del congresso di Livorno, del partito
comunista d’Italia, sezione italiana dell'internazionale comunista, fondata
due anni prima a Mosca.

Un’importante novità nello schieramento politico era rappresentata dal


Partito Popolare Italiano, nato nel gennaio del 1919. Si trattava di un partito
cattolico che, venuto meno il divieto papale di partecipazione alla vita
politica italiana, poteva ormai dare voce ad una parte importante del paese.
Guidava partito il sacerdote siciliano Don Luigi Sturzo, sostenitore di una
politica sociale, dell'incremento della piccola proprietà contadina, del
decentramento amministrativo e della scuola cattolica. I popolari si
rivolgevano a strati sociali più ampi di quelli a cui facevano riferimento i
vecchi partiti borghesi di ispirazione liberale ed erano in grado di contendere
ai socialisti il consenso delle classi più umili, contrastando la spinta
rivoluzionaria. Essi puntavano sulla collaborazione fra grande capitale
lavoratori, linea con quell'idea di corporativismo solidale ed interclassista
che, con diverse sfumature, aveva ispirato il pensiero sociale cattolico nei
decenni precedenti.

Mentre la rivoluzione sociale e democratica stentava a trovare la propria


strada, prendeva piede in Italia il militarismo aggressivo e nazionalista.

Il clima violento era un risultato della guerra. I reparti d’assalto dell’esercito


italiano- gli “Arditi”- che si erano costituiti nel 1917, nel dopoguerra si misero
al servizio della violenza politica e, nella maggior parte, andarono a gonfiare
le fila del nascente movimento fascista.

In questa situazione di tensione, nel marzo del 1919 Benito Mussolini diede
vita a Milano ai Fasci Italiani di combattimento, che cominciarono ad
affermarsi nella Pianura padana, in Toscana e in Puglia.

In questa prima fase il movimento fascista espresse rivendicazioni


contraddittorie.

I fascisti difendevano l’intervento italiano in guerra, ma rifiutavano i trattati di


pace e trovavano quindi un grande serbatoio di consenso
nell’insoddisfazione di larghi strati di ex combattenti.

Al tempo stesso chiedevano un’Assemblea Costituente, un assetto politico


completamente nuovo, che escludesse la corrotta classe dirigente liberale,
ma che includesse invece la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle
fabbriche, le otto ore lavorative, il suffragio universale per entrambi i sessi.

D’altro canto, i fascisti consideravano il proletariato il primo responsabile


dello stato di disordine del paese e furono loro a mettere in atto le prime
azioni violente contro le strutture tradizionali del movimento operaio.

Nell’aprile del 1919 diedero alle fiamme la tipografia milanese “dell’Avanti!”,


organo del partito socialista, e da allora si moltiplicarono le loro aggressioni:
le “squadre d’azione”, gruppi di uomini in camicia nera armati di manganello,
si resero protagoniste delle “spedizioni punitive” contro le Camere del lavoro,
le cooperative, i giornali e le sedi socialiste, nel corso delle quali i
rappresentanti dei lavoratori, socialisti ma anche cattolici, venivano aggrediti
e sottoposti a somministrazioni forzate di olio di ricino, in potentissimo
lassativo che in forti dosi provoca un’incontenibile diarrea, un modo questo
per umiliare e demoralizzare gli avversari politici.

Un altro fattore di tensione in questo periodo fu l’azione condotta a Fiume,


nel settembre del 1919, da un gruppo di volontari al comando del poeta
Gabriele D’Annunzio.

La città libera di Fiume aveva optato con un plebiscito per l’annessione


all’Italia, ma l’occupazione nazionalista messa in atto dal gruppo di
D’Annunzio aveva un carattere ideologicamente confuso.

Tra i motivi ispiratori vi erano i principi socialisti e, la costituzione che fu


emanata nella città che affermava che “lo Stato non riconosce la proprietà
come il dominio assoluto della persona sopra la cosa, ma la considera come
la più utile delle funzioni sociali”.

Il nazionalismo fiumano era un magma di estrema destra e di sinistra,


impregnato di inarco-sindacalismo e di interventismo.

Le iniziative che caratterizzarono il biennio 1919-1920 dimostrano che


neppure in Italia le tre componenti dei movimenti rivoluzionari -democratica,
socialista e nazionale- riuscivano a trovare un punto di incontro.

I socialisti erano internazionalisti e ignoravano il bisogno di appartenenza ad


una comunità nazionale, che la guerra aveva esasperato.

Al contrario, i nazionalisti si facevano portavoce dell'aspirazione a fare


dell'Italia una grande potenza, ignorando l'esigenza di profonde
trasformazioni sociali e divenendo così strumento delle élite tradizionali, che
si sentivano minacciate.
Entrambe le tendenze erano accomunate da disprezzo per la democrazia
politica delle istituzioni parlamentari.

In questa situazione politica e sociale, nel novembre del 1919 si tennero le


elezioni politiche generali, a suffragio universale maschile con il sistema
proporzionale ;l’ introduzione delle sistema proporzionale, voluta dai
socialisti e dai popolari, ampliava i collegi e favoriva i partiti di massa. Il
presidente del consiglio Francesco Saverio Nitti, in carica da giugno, cercò,
per la prima volta nella storia dell'Italia unita, a garantire la non ingerenza dei
prefetti e delle autorità di polizia nella consultazione elettorale.

Le elezioni decretarono il successo dei socialisti, con circa il 32% dei voti.
Quasi tutti gli eletti venivano però dai collegi del centro Nord: ciò era una
inevitabile conseguenza del fatto che il partito non riusciva a farsi
rappresentante della lotta per la terra né del bisogno di giustizia delle masse
contadine del sud. Il movimento di Mussolini ebbe risultati modesti, mentre il
neonato partito popolare guadagnò il 20% dei voti. Socialisti e popolari
insieme detenevano la maggioranza assoluta, tuttavia non potevano allearsi
perché li dividevano la prospettiva della rivoluzione sociale, che i popolari
volevano scongiurare, e soprattutto il giudizio sul comunismo sovietico.
Nessuno dei due partiti, d'altra parte, era disposto a stringere un patto di
governo organico con i liberali, considerati i responsabili del disordine in cui
era caduto il sistema politico Italiano. Così nessun governo stabile era in
grado di costituirsi.

Nitti non riuscì a coinvolgere socialisti e cattolici nel rinnovamento


democratico del paese. Il suo governo, stretto fra le continue agitazioni
sociali e la necessità di affrontare il deficit pubblico, dopo pochi mesi cadde,
nel giugno del 1920.

Gli succedette il vecchio Giolitti, che faceva affidamento sulle sue provate
doti da mediatore per sedare lo scontro sociale e ricomporre le forze
politiche favorevoli ad un accordo parlamentare.

Alla fine del 1920 il governo riuscì a chiudere la crisi di Fiume.

Il trattato di Rapallo, firmato con la Jugoslavia, attribuì l'Istria e Zara all’Italia,


la Dalmazia alla Jugoslavia.

Fiume diventava una città indipendente. Giolitti so la forza per allontanare


D'Annunzio e i suoi legionari nella città del natale nel 1920, Pensando così di
soffocare un pericoloso focolaio di rivoluzione nazionalista.

IL FASCISMO ITALIANO: L’IDEOLOGIA E LA CULTURA


Due anni dopo la nascita dei Fasci di combattimento, nel novembre del
1919, quando il movimento era cresciuto passando da 17.000 a 300.000
aderenti, Mussolini fondò il Partito Nazionale Fascista (Pnf).

All’inizio il movimento fascista rifiutò una collocazione ideologica precisa,


proponendosi come un contenitore vuoto, pronto ad accogliere tutte le
spinte eversive, come avvertiva Mussolini dalle colonne del “Popolo
D’Italia” , il quotidiano da lui fondato nel 1914 per dare voce all’area
interventista del Partito socialista italiano.

In realtà, nel fascismo confluirono presto tre matrici predominanti, che già si
erano trovate a convivere nell’interventismo: la prima, sindacalista-
rivoluzionaria, la seconda, tradizionalista; la terza, di impronta borghese.

Lo squadrismo rivoluzionario nazionalista, fortemente eversivo, si rifaceva al


sindacalismo e alle radici estremiste di Mussolini.

Il movimento da lui fondato trovava nel disprezzo per l’intero mondo politico
una delle ragioni forti per radicarsi al malcontento popolare, ulteriormente
esacerbato dalla “vittoria mutilata”.

Malgrado la sua componente sindacalista-rivoluzionaria, il fascismo non


riusciva però a sfondare in ambiente operaio, dove i socialisti e i comunisti
rimanevano molto forti.

Le lotte del 19-20 avevano ottenuto un aumento dei salari, e perciò la classe
operaia continuava ad aver fiducia nella Cgl, nelle Camere del lavoro, nei
suoi partiti.

Inizialmente fascismo riceveva consensi più nelle campagne che nelle città,
più al centro-sud che al nord, e sopratutto fra la borghesia grande e piccola
e fra i disoccupati.

La guerra mondiale aveva arricchito gli industriali a spese dei proprietari


terrieri, che spesso avevano dovuto vendere le proprie tenute, contribuendo
a diffondere la piccola proprietà contadina.

Il fascismo si dotò ben presto di caratteristiche culturali che fino ad ora non
aveva mai avuto. Si caratterizzò ben presto per il suo pessimismo
irrazionalista: non credeva affatto ad un progresso razionale, a un cammino
dell’umanità verso maggiori libertà, maggiori diritti, maggiori opportunità per
un numero crescente di donne e di uomini. Credeva che tutto si riducesse
alla legge brutale del trionfo del più forte, alla semplicità primitiva della lotta
per la vita fra gli individui e fra i popoli e le razze.

l’Occidente e i suoi valori sembravano avviati inesorabilmente verso il


tramonto.; solo l’estetica del gesto eroico e della “bella morte” rimaneva
capace di dare un senso alla vita e questo si accompagnava ad un’ottica
razzista, che giustificava il ricorso alle armi, alla violenza e alla sopraffazione
che si esprimeva anche nel simbolo raffigurato nei gagliardetti delle squadre
d’azione (un drappo nero con un teschio d’argento).

In questo culto dell’illegalità violenta, il fascismo si poteva adattare sia alla


prepotenza delle classi dirigenti sia al rivoluzionarismo popolare postbellico.

La nuova cultura che il fascismo si dava era anche antimperialista e anti-


individualista e in questo andava d’accordo con il tradizionalismo cattolico.

Anziché mettere lo Stato al servizio dell’individuo, come faceva la tradizione


liberal-democratica, il fascismo metteva l’individuo al servizio dello Stato,
esaltando il concetto di nazione e di patria.

Mussolini parlava di “stato etico”, cioè dotato di diritti morali sull’individuo.


Più tardi parlò di stato totalitario.

Una componente assai forte del fascismo era quella bellicista e anti-
parlamentare. I fascisti non credevano nelle virtù della pace e anzi
continuavano a esaltare la guerra, che era considerata una buona misura di
“igiene dei popoli”.

La pace duratura fra le nazioni era, impossibile e per di più negativa, perché
generatrice di viltà nei comportamenti e di appiattimento fra le razze e i
popoli.

Non credevano nelle istituzioni parlamentari, che danno potere alle


maggioranze e le osteggiavano per il vecchio motivo sempre addotto dai
conservatori, secondo i quali il parlamentarismo favorisce la
professionalizzazione della politica e la prevalenza dei mediocri e dei corrotti.

Non credevano al diritto delle maggioranze di governare sulle minoranze,


bensì alla “disuguaglianza irrimediabile e feconda e benefica degli uomini
che non si possono livellare attraverso un fatto meccanico ed estrinseco
come è il suffragio universale”.

Partiti senza una precisa ideologia, con il solo scopo di sovvertire


violentemente regole della politica, i fascisti si collocarono molto presto in
una posizione di estrema destra, che raccoglieva il pessimismo
tradizionalista e illiberale, autoritario e anti-parlamentare delle varie
componenti del pensiero conservatore.

La paura del bolscevismo diede vigore al fascismo e lo portò alla vittoria, ma


le sue radici affondavano nella necessità per i conservatori di dotarsi di una
base di massa per dirigere la politica moderna.

Mussolini mantenne l’equilibrio fra le varie componenti del fascismo-


popolana e borghese- e rafforzò il proprio prestigio e i propri margini di
movimento.

In politica economica fu ambiguo: fra un atteggiamento liberista, favorevole


agli agrari esportatori, e il protezionismo auspicato dalla grande industria.

IL “BIENNIO NERO” E L’AVVENTO DEL FASCISMO FINO


AL DELITTO DI MATTEOTTI

Malgrado i successi riportati in politica estera, il governo di Giolitti incontro le


sue difficoltà affiori nella politica interna del paese, perché l’Italia si trovava
ormai in uno stato di vera e propria guerra civile latente.

Il 1921-22 ( il biennio nero) furono costellati da violenti atti intimidatori da


parte delle squadre fasciste in camicia nera, che bruciavano le sedi socialiste
e comuniste e prelevavano gli avversari trascinandoli in strada e
bastonandoli.

Nella crescita del movimento fascista Giolitti ritenne di trovare un argine


all’avanzata delle forze politiche e sociali di sinistra e, di poter controllare la
violenza delle squadre d’azione favorendone l’entrata in Parlamento.

In occasione delle elezioni politiche del maggio del 1921 Giolitti offrì ai
fascisti la possibilità di entrare a far parte del “Blocco Nazionale”, cioè
un’alleanza che comprendeva nazionalisti e liberali e che avrebbe dovuto
sostenere con maggior vigore il suo governo.

Giolitti per portare avanti il suo programma, tentava ora di servirsi dei
fascisti, come aveva già fatto in precedenza con socialisti e cattolici,
pensando di disinnescare, in questo modo, la carica eversiva.

Ma l’esito elettorale fu avverso al progetto dello statista piemontese, perché


complessivamente cattolici e socialisti mantennero le loro posizioni e i liberali
non ottennero la maggioranza sperata, mentre fra le loro file trentacinque
fascisti, fra cui Benito Mussolini, entravano. In Parlamento.

Alle dimissioni di Giolitti (1° luglio) seguì la nomina a presidente del consiglio
di Ivanoe Bonomi, un socialista che nel 1912 aveva lasciato il Psi per formare
il Partito socialista riformista e che guidò il paese dal luglio 1921 al febbraio
1922, senza riuscire ad arginare la violenza dilagante e gli scontri in piazza.

Ancora più debole era il governo di Luigi Facta, durato solo otto mesi, dal
febbraio all’ottobre 1922.

Ad aggravare la situazione intervenne, nell’ottobre 1922, un’ulteriore


scissione a sinistra con la nascita del Partito socialista unitario, guidato da
Giacomo Matteotti, favorevole ad una collaborazione con le forza liberali in
funzione antifascista.

La violenza fascista era giunta a livelli insopportabili, tant’è che tutte le forze
politiche, tranne i comunisti e la maggioranza dei socialisti, si auguravano
che il partito di Mussolini entrasse a far parte del governo.

Forse in questo modo avrebbe cambiato tattica e si sarebbe adattato alle


regole della politica.

Giolitti si dichiarò disponibile e insieme a lui anche il re era favorevole a


questa soluzione.

Mussolini, però, rifiutò l’offerta di entrare in posizione subordinata in un


governo di coalizione e organizzò una grande manifestazione in armi che
apparentemente sembrò un vero e proprio colpo di Stato che è passato alla
storia come “la marcia su Roma”.

Il 27 e il 28 ottobre del 1922 diverse colonne di camicie nere, circa 50.000


uomini, provenienti da tutto il paese, si diressero a Roma per occupare la
città e mettere il governo di fronte alla necessità di dimettersi, costringendo
così il re a nominare Mussolini capo di un esecutivo fascista.

Le camicie nere occuparono le stazioni ferroviarie e le strade che portano a


Roma, istituirono posti di blocco ed estesero la loro rete di controllo militare
su tutto il territorio.

La marcia su Roma poteva essere fermata dal punto di vista militare, ma si


sarebbe dovuto impiegare l’esercito, e molti ufficiali vedevano invece con
favore l’avvento di un governo fascista.

Il capo del governo Facta proclamò lo stato d’assedio affinché i carabinieri


potessero intervenire.

Ma Vittorio Emanuele III, ormai convinto che il fascismo rappresentasse il


male minore, preferì cedere: non firmò il decreto di stato d’assedio e chiamò

Mussolini a presiedere il nuovo governo. A Milano Mussolini ricevette la


notizia che il re si piegava alle sue condizioni e assunse l’incarico.

Il governo formato da Mussolini comprese numerosi ministri popolari e


liberali, dando l’impressione di non violare le regole del costituzionalismo, e i
borghesi e liberali trassero un sospiro di sollievo. In molti pensavano che si
trattasse di un governo temporaneo anche se, fin dalla metà di novembre,
Mussolini volle dare un segnale di novità, offendendo il parlamento con il
“discorso del bivacco”, tenuto alla Camera dei deputati il 16 novembre 1922,
nel corso del quale egli definì la Camera come un’ “aula grigia e sorda” che
avrebbe potuto trasformare in un “ bivacco di manipoli”, cioè in un
accampamento di camicie nere.

Mussolini diede assicurazione che le libertà sancite dallo Statuto sarebbero


state rispettate e le valenze nelle piazze sarebbero cessate, precisò che il
suo governo non sarebbe stato un governo di soli fascisti e assicurò
interventi drastici in campo economico, invitando minacciosamente la
Camera a non ostacolarlo.

Due scelte apertamente sovversive delle istituzioni liberali seguirono in breve


tempo. Nel dicembre del 1922 venne istituito un organo ufficiale di raccordo
tra il Partito e le pubbliche istituzioni, il Gran Consiglio Del fascismo, che
doveva preparare i principali provvedimenti legislativi e aveva compiti di
vigilanza e di epurazione della pubblica amministrazione.

Le squadre in camicia nera, non vennero sciolte, come avrebbero voluto i


moderati; ma nel gennaio del 1923 vennero inquadrate nella Milizia
Volontaria per la sicurezza nazionale (Mvsn): la Milizia diventava così un
corpo militare ufficialmente riconosciuto e agli ordini del capo del governo.

Mussolini però, non intendeva allarmare eccessivamente la borghesia e


preferiva proseguire nella conquista dello stato alternandone il meno
possibile la legalità.

Nel novembre del 1923 fu varata una nuova legge elettorale maggioritaria,
presentata dal deputato Giacomo Acerbo: essa prevedeva che la lista che
avete ottenuto la maggioranza relativa dei voti, arrivando almeno al 25%,
occupata in parlamento due terzi dei seggi grazie a un forte premio di
maggioranza.

Alle elezioni indette nell’aprile del 1924, il fascismo si presentò con un listone
unitario che includeva, oltre i fascisti, anche tutti coloro a cui il nuovo
governo ispirava fiducia.

La campagna elettorale fu turbata da gravi atti intimidatori e di violenza da


parte degli fascisti contro gli oppositori, specie socialisti e comunisti.

Il “listone” vinse le elezioni, nel centro-sud raggiunse un grande vantaggio,


raccogliendo circa il 65% dei suffragi.

Da questo momento in poi il Partito fascista e Mussolini ebbero il controllo


totale del parlamento.

Un gravissimo fatto di sangue andò a turbare il clima politico. Il deputato


socialista riformista Giacomo Matteotti denunciò in parlamento i brogli
elettorali e le violenze fasciste, tali secondo lui da invalidare il voto.

Il 10 giugno Matteotti fu sequestrato per strada in pieno giorno, portato via in


un’ auto e assassinato. Le opposizioni abbandonarono la camera dei
deputati, dichiarando che non avrebbero più avvallato con la loro presenza la
svolta sanguinaria del governo. La loro assenza dal Parlamento fu chiamata
“Aventino”, in riferimento al fatto che sul colle “Aventino” si era ritirata
l'opposizione plebea nell'antica Roma per protestare contro i Patrizi nel
quinto secolo a.C.

Lo scopo di questa divisione era di indurre il re a ripristinare la legalità,


costringendo Mussolini alle dimissioni. In effetti in quei mesi il governo
fascista vacillò sotto il peso dell'indignazione dell'opinione pubblica, che
vedeva tornare quella violenza di strada che fine aveva costituito adesso ai
suoi occhi il maggior merito del governo di Mussolini. Quest'ultimo però non
si dimise nell'opposizione seppe trovare l'unità di azione indispensabile per
approfittare della passeggera debolezza del nuovo regime, né, d’altra parte,
Vittorio Emanuele III intervenne per destituirlo, come invece speravano gli
aventiniani.

Il 3 gennaio 1925, letterale in un discorso parlamentare, Mussolini si assunse


in prima persona la responsabilità politica e morale del delitto, coprendo gli
esecutori materiali, che non furono perseguiti penalmente.

Seguì un’ ondata di arresti fra i membri dei partiti di opposizione.

La crisi provocata dal delitto Matteotti si era risolta non con la fine
dell’avventura fascista ma con la disfatta dei partiti dell’opposizione: il
fascismo si avviava a costruire un vero e proprio regime.

LA COSTRUZIONE DELLO STATO TOTALITARIO


Nei quattro anni dopo il delitto di Matteotti fu costituito il regime “totalitario”,
che il fascismo voleva contrapporre ai suoi due grandi avversari ideologici: la
democrazia e il socialismo.

Si trattava di concepire istituzioni politiche fortemente autoritarie , capaci di


coinvolgere al tempo stesso, le masse popolari e di controllare
rigorosamente le coscienze; il tutto senza alterare i rapporti di forza tra classi
sociali.

Una serie di leggi, le “leggi fascistissime”,emanate fra il 1925 e il 1928,


cancellarono l’idea liberale di equilibrio e di controllo reciproco fra i poteri
dello Stato, modificando di fatto lo Statuto Albertino del 48.

Il potere esecutivo veniva innalzato rispetto agli altri: Mussolini, ora chiamato
“Duce” (guida), il titolo che nell’antica Roma veniva dato ai condottieri e ai
generali, con una legge del dicembre del 1925 rafforzò i propri poteri
diventando “capo del governo” e non più presidente del consiglio, come
voleva lo Statuto.

Egli si arrogava, in questo modo, la facoltà di scegliere e destituire i ministri e


non dipendeva più dalle maggioranze parlamentari, essendo responsabile
unicamente nei confronti del re.Fin qui si poteva ancora ritenere che l’Italia
ripercorresse la forma costituzionale autoritaria della Germania di Bismarck,
ma il governo ottenne anche il potere di prendere provvedimenti con forza di
legge escludendo il controllo parlamentare, cioè sottraendo al parlamento
parte del potere sovrano per eccellenza, quello legislativo.

Vennero soppresse le autonomie locali, prima nei piccoli e poi nei grandi
Comuni: al posto del sindaco veniva istituito un podestà di nomina
governativa, che fu affiancato da un consiglio comunale anch’esso nominato
dall’alto.

Le libertà di stampa, di associazione, di insegnamento venendo cancellate a


partire dal novembre del 1926. Furono autorizzati solo i giornali rigidamente
controllati dal regime e vennero sciolti tutti i partiti, eccetto, quello fascista.

Gli impiegati dello Stato furono obbligati a iscriversi al partito, compresi


professori universitari: in tutta l’università italiana solo una dozzina di docenti
preferirono perdere la cattedra piuttosto che iscriversi al partito fascista.

La Milizia divenne una polizia parallela, specializzata nella repressione del


dissenso, a cui venne affiancato un apposito servizio segreto,
l’organizzazione per la vigilanza e la repressione dell’antifascismo (Ovra).

Gli antifascisti venivano giudicati da una magistratura appositamente scelta,


il Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato, composto imparate da
ufficiali della Milizia, che funzionò come un vero e proprio tribunale militare
competente anche per un reato indeterminabile come quello di aver
concorso a “sminuire il sentimento nazionale”.

Il tribunale, davanti al quale le garanzie degli imputati erano ridotte al


minimo, poteva comminare perfino la pena di morte , ma fece uso
sopratutto del “confino”, che imponeva l’obbligo di residenza sotto rigida
sorveglianza in un luogo poco accessibile, di solito una piccola isola.

Gli oppositori furono incarcerati, come il dirigente comunista Antonio


Gramsci, o confinati o costretti all’esilio.

I fuoriusciti si riunivano a Parigi, dove furono attentamente controllati da


agenti segreti fascisti.

Vennero privati per legge della cittadinanza italiana e in alcuni drammatici


casi furono assassinati: fu questo il destino, nel 1937, in Francia dei fratelli
Carlo e Nello Rosselli, fondatori e dirigenti, con Emilio Lossu, del movimento
democratico-socialista Giustizia e Libertà, che criticava l’attendismo dei
fuoriusciti ed era caratterizzato da un forte impegno per l’azione, anche in
Italia.

Altri leader antifascisti come il liberale Giovanni Amendola e il giovane Pietro


Gobetti, quest’ultimo impegnato nella creazione di un nuovo partito che
promuovesse insieme giustizia sociale e libertà democratiche, morirono a
seguito dei pestaggi subiti da agenti fascisti.

La fine dell’ordinamento liberale, fu perfezionata dalla nuova legge elettorale


varata nel 1928.

Il Parlamento non venne più democraticamente eletto bensì nominato con


elezioni plebiscitarie, con le quali non si poteva più scegliere tra liste
candidati contrapposti ma solo accettare o respingere in blocco una lista
unica di deputati proposta dal Gran Consiglio del fascismo.

A quel punto il Gran Consiglio, che fino a quel momento aveva svolto il ruolo
extraparlamentare di cerniera fra il partito e lo stato, diventava l’organo
costituzionale più importante del paese.

Il. Partito fascista si identificò con lo Stato. Nei primi anni il Pnf era servito a
Mussolini per conquistare e consolidare il potere, ma quando lo stato fu del
tutto “fascistizzato” assorbì interamente l’organizzazione del partito
svuotandola di fatto.

Il regime rimodellò le relazioni industriali. Non si permise più che vi fosse la


libera contrattazione a determinare i livelli salariali e le politiche aziendali.

I sindacati furono aboliti, tranne quelli fascisti, e vennero sostituiti dalle


“corporazioni”, associazioni che presero il nome delle Arti medievali e che
raggruppavano sia i padroni sia gli operai di ciascun settore produttivo.

I diversi interessi sociali venivano mediati all’interno di istituzioni pubbliche


che dovevano garantire l’armonia sociale e produttiva. La Confindustria fu
invece mantenuta.

Il controllo sociale veniva così realizzato in maniera efficiente e la


conflittualità risultò abolita.

A farne maggiori spese furono gli operai, specie quelli delle grandi industrie,
dove le organizzazioni sindacali erano state forti; e questo perché non
potevano più servirsi dell’arma dello sciopero.

Fu imposto per legge il contratto collettivo di lavoro, a scapito di quei


padroni , specie delle piccole aziende, che in precedenza avevano potuto
sfruttare i lavoratori senza controllo.

Sull’applicazione dei contratti collettivi obbligatori il regime vigilò con poca


attenzione.

Le corporazioni ebbero non solo il ruolo di armonizzare le relazioni industriali


ma addirittura una funzione costituzionale, paragonabile a quella del Gran
Consiglio del fascismo.

Nel 1939 la Camera dei deputati fu sostituita dalla Camera dei fasci e delle
corporazioni, nominata per metà dal sistema corporativo e per metà dal gran
consiglio.

Il totalitarismo, a questo puto, raggiungeva il massimo sviluppo: il potere


politico supremo non rappresentava più gli interessi dei cittadini elettori,
chiamati a concorrere per formare la volontà generale, ma lo Stato come
organizzazione politica fascista e come organizzazione economica
corporativa.

Risultava così completata la rivoluzione istituzionale totalitaria: lo Stato


possedeva ora gli strumenti per controllare i cittadini: le loro opinioni, le loro
azioni, la dinamica dei loro interessi economici.

LA POLITICA ECONOMICA DEL REGIME FASCISTA E IL


CONCORDATO

Inizialmente cresciuto come movimento rurale, una volta al potere il fascismo


si sforzò di consolidare ed estendere la piccola proprietà contadina e di
tenere a freno la mobilita sociale; diffidava della civiltà urbana e cercò di
limitare il trasferimento in città della forza-lavoro.

Il regime fece anche grandi sforzi per bonificare le zone paludose e


accrescere la superficie messa a cultura.

Furono risanate e rese coltivabili le paludi pontine, a Sud di Roma, dove


vennero fondate Littoria ( oggi Latina), istituita a capoluogo di provincia, e
Sabaudia, secondo un piano urbanistico che ne faceva delle città rurali
modello.

Una “battaglia del grano” fu promossa per aumentare la produzione di


frumento e in generale venne fatto ogni sforzo per raggiungere
l’autosufficienza della produzione agricola italiana.

Vennero sacrificate le culture più pregiate e redditizie, come l’ulivocoltura e


la viticoltura, a favore della coltivazione di cereali, per i quali le condizioni
climatiche e del suolo non erano sempre favorevoli.

L’autosufficienza in fatto di approvvigionamenti alimentari rivestiva però un


grande significato ideologico e politico, perché erano anche legate alla
politica demografica del fascismo: il governo puntò sull’incremento della
popolazione italiana con l’idea che la ricchezza e la potenza di un Paese si
misurassero dal numero degli abitanti.

Era una politica assurda per uno Stato, come quello italiano, che aveva
subito duramente il dramma dell’emigrazione per rimediare all’eccesso di
manodopera in rapporto alle risorse; inoltre il flusso dell’emigrazione era ora
interrotto.

Il fascismo decise di corrispondere un incentivo economico per ogni figlio


nato e l’Opera nazionale maternità e infanzia ( Omni ) si incaricò
dell’assistenza delle donne in gravidanza sino al parto e dei bambini.

La politica demografica fascista era anche funzionale al mito della giovinezza


del popolo, all’esaltazione delle sue fresche e incoercibili energie vitali.

Essa puntava infine al rafforzamento militare, inteso come accrescimento del


numero dei soldati: in un’epoca nella quale le guerre si decidevano ormai
sopratutto in base alla supremazia tecnologica.

Mussolini sbandierava un esercito composto di “otto milioni di baionette”.

Negli ultimi anni del regime Venne anche pensata una riforma del latifondo
siciliano, tuttavia mancarono la volontà e il tempo per andare a fondo su
questa strada.

Per modificare la struttura del latifondo meridionale, il fascismo avrebbe


dovuto abbandonare una politica tradizionale, favorevole ai proprietari,
sceglierne una innovativa, favorevole ai contadini.

Il problema sociale delle campagne siciliane, che rimaneva di portata


gigantesca, in realtà non fu affrontato. Eppure il fascismo diede qualche
segnale di novità nei confronti del meridione: per la prima volta fu tentata
una vasta opera di repressione della mafia, in particolare del prefetto di
Palermo Cesare Mori.

Tale repressione, fu condotta con metodi ingiusti, coinvolgendo con brutalità


e mettendo in stato d'assedio interi paesi. La mafia venne sradicata, né
poteva esserlo breve tempo, poiché non costituiva un fenomeno meramente
criminale, ma si radicava nella struttura socio-economica dell’isola.

Inoltre il prefetto non ottenne dallo stato tutto l'appoggio necessario. La


mafia finì per assumersi il merito di baluardo contro le tendenze
centralistiche e repressive della dittatura, legandosi sempre più saldamente
agli interessi dei grandi proprietari siciliani, che si sentivano minacciati
dall'eventualità della riforma agraria.

Per ragioni di prestigio, il regime fascista puntò ad un ripiegamento


protezionista della politica economica.

Si impegnò a riportare il rapporto della lira con la sterlina a livelli paragonabili


a quelli dell'anteguerra; per fare ciò il Duce, in un discorso del 1926,
propose, con il linguaggio militaresco che gli era proprio, di raggiungere e
difendere la “quota novanta”, ovvero 90 lire per una sterlina contro le 145
occorrenti nel 1925 per pareggiare una sterlina.

Questo grande sforzo portò un prezzo molto alto per l'economia italiana,
strutturalmente dipendente dal commercio estero.

Divenne molto difficile per l'Italia esportare i prodotti nazionali. Infatti, se la


lira valeva di più, anche i prodotti italiani costavano di più sui mercati
internazionali e quindi non riuscivano a battere la concorrenza.

Viceversa, I prodotti importati costavano meno in lire e si i imponevano sul


mercato interno, danneggiando la produzione nazionale.

Il Fascismo , che nei primi anni di governo era stato liberista, E che per
questo era piaciuto agli agrari e a parecchi industriali, tornò quindi al
protezionismo e ad un forte interventismo dello Stato nell'economia, come ai
tempi di Crispi.

Questa scelta avvantaggiò gli stessi settori della grande industria siderurgica
ed elettrica che, avevano tratto beneficio dal protezionismo perché favoriti
Dalle commesse pubbliche. Il regime si spinse anzi molto più in là del
protezionismo Crispino e finì con il pensare ad una vera e propria
“autarchia”, cioè un annullamento delle importazioni per supplire con la
produzione interna a tutte le esigenze del mercato nazionale; tale scelta
Venne annunciata da Mussolini nel marzo del 1936, nel clima di isolamento
internazionale e di sanzioni economiche seguito all’invasione dell’Etiopia.

Il rapporto del fascismo con il grande capitale fu ambiguo.

Da un lato, cercò di sottometterlo ad una politica di tutela del prestigio delle


finanze nazionali, e manifestò avversione per una politica economica
favorevole agli interessi industriali, con tutto ciò che questo comporta in
termini di mobilità sociale e di libertà di impresa.

Quelli della grande industria sono infatti interessi forti, capaci di fare
contrappeso al dominio della politica, interessi che devono far circolare
uomini, capitali, idee.

Dall’alto lato, il fascismo, sulla stessa linea di Crispi, assicurò protezione


statale all’industria, sopratutto quella pesante, le garantì il controllo sociale,
riducendo al minimo la conflittualità, le fornì protezione sul mercato interno e
una politica aggressiva su quelli esteri.

Assicurò all’industria una moneta forte, anche se esagerò su questa via per
ragioni di prestigio internazionale, finendo per danneggiarla.

Sempre con l’intenzione di pilotare la vita economica del paese, venne


creata una fitta rete di enti, “opere”, istituti e comitati.

Questa tendenza si accentuò durante gli anni 30 anche a causa della grave
crisi economica e mondiale scoppiata nel 1929. A questa congiuntura risale
infatti la più importante delle creazioni: l’istituto per la ricostruzione
industriale (Iri) , fondato nel 1933. L’iri rappresentò il fulcro della presenza
dello Stato nell'economia e lo strumento per nazionalizzare settori importanti
che avevano bisogno dell'intervento pubblico.

In teoria l’istituto avrebbe dovuto rivendere ai privati le industrie risanate, ma


di fatto grande parte di esse rimasero in mano allo Stato. L’iri sopravvisse al
fascismo diventando un gigante capace di controllare, cinquant'anni dopo la
caduta del regime, fino ad un terzo dell'economia italiana.

Il successo più significativo del regime fu ottenuto nei confronti della Chiesa
cattolica. Fin dall'inizio il fascismo ebbe consensi da parte del Vaticano, che
proprio per questo aveva allentato i propri legami con il partito popolare, il
quale, sotto la guida di Don Sturzo, aveva scelto una decisa opposizione. Più
di una ragione spingeva la gerarchia cattolica ad apprezzare il fascismo:
eliminazione del conflitto sociale, Poggio al corporativismo, che in tutta
Europa aveva una forte matrice cattolica, e più in generale, la prevalenza
della finalità comunitaria su quelle individuali.

La chiesa trovò nel fascismo un alleato contro due comuni avversari: il


liberalismo e il socialismo.

La violenza dei fascisti non poteva essere condivisa in Vaticano, anche


perché aveva colpito esponenti religiosi come don Giovanni Minzoni, ucciso
nel 1923.

Una volta consolidatosi al governo, tuttavia, il nuovo regime si presentava


come il difensore dell’ordine e c’erano, quindi le condizioni per una soluzione
complessiva della “questione romana”, aperta dalla occupazione della Città
eterna nel 1870.

Furono avviate a questo proposito trattative che si conclusero l’11 febbraio


1929 con la firma dei patti Lateranensi, che vennero inseriti nella
Costituzione della repubblica italiana, e che costituiscono tutt’ora la base dei
rapporti fra lo Stato italiano e la Chiesa Cattolica.

I Patti Lateranensi si compongono di un trattato, di un concordato e di una


convenzione finanziaria.Il trattato istituiva la città del vaticano, uno stato
sovrano nel cuore di Roma, comprendente la basilica di san Pietro con la
piazza antistante e i Palazzi vaticani: mezzo chilometro quadrato e mille
abitanti per assicurare alla chiesa, la sovranità su un territorio.

In cambio la Chiesa riconosceva, per la prima volta, la piena legittimità del


regno d’Italia.

I patti comprendevano inoltre un cospicuo indennizzo finanziario alla Chiesa


da parte dello Stato italiano, come risarcimento per l’occupazione del 1870.

LA GUERRA D’ETIOPIA E LE LEGGI RAZZIALI


I patti lateranensi rappresentarono un grande successo per il prestigio
all’estero dell’Italia. Gli inglesi attribuivano al fascismo la vittoria contro il
bolscevismo e il risollevamento dal disordine generale. La politica estera
fascista, però oscillava tra i vincitori e i vinti della Grande Guerra ed era
impegnata a favore della revisione dei trattati di pace.

L’italia fascista continuava ad essere accettata nel club dei paesi vincitori,
anche se, al tempo stesso, continuava ad essere discriminata nelle sue
esigenze vitali e rappresentava un punto di riferimento per i paesi sconfitti.

Cercava inoltre di estendersi lungo l’intera area balcanica ai danni della


Jugoslavia con la quale nel 1920 Giolitti aveva risolto la questione di Fiume
con il trattato di Rapallo: nel 1924 il trattato di Roma stabilì il passaggio di
Fiume all’Italia.

Due anni dopo l’Italia strinse un patto di mutua assistenza con L’Albania, che
a sua volta entrò nell’orbita italiana.

Firmò inoltre trattati di amicizia con Romania e Ungheria, che avanzarono


rivendicazioni “revisioniste” ma non contrastanti con gli interessi italiani.

La partecipazione dell’Italia alla Società delle Nazioni era, molto più


problematica in quanto la Società non era favorevole ai trattati di pace.

Tra gli elementi di maggiore frustrazione del nazionalismo italiano vi era la


mancata concessione di compensi coloniali prevista dal patto di Londra nel
1915.

Questo , naturalmente, portò agli inizi degli anni 30, allo sviluppo di un
carattere aggressivo della politica di potenza fascista, che si indirizzò vero
l’unico Stato africano che era riuscito a mantenere la propria indipendenza e
con la quale l’Italia aveva un conto in sospeso dai tempi della sconfitta di
Adua (marzo 1896): l’Etiopia.

Negli ultimi anni l’Etiopia aveva compiuto degli importanti progressi. Aveva
costruito una ferrovia, una rete stradale, scuole e ospedali; si era dotata di
un’ armamento più moderno, aveva avviato l’abolizione della schiavitù ed era
entrata a far parte della Società delle Nazioni.

Aveva adottato una Costituzione autoritaria, che comunque modernizzava le


strutture politiche del Paese.

Alla fine del 1934 un incidente di frontiera fra l’Eritrea italiana e l’Etiopia fornì
a Mussolini il pretesto per preparare l’attacco al Paese Africano.

Un milione di uomini fu richiamato sotto le armi e l’industria bellica cominciò


a lavorare a pieno ritmo.

La Gran Bretagna e la Francia non avevano intenzione di combattere a


sostegno dell’Etiopia, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica cercavano, invece, di
non farsi coinvolgere nel conflitto. La Germania, invece, appoggiava l’Italia
nella conquista del paese africano per ottenere in cambio il via libera
all’occupazione dell’Austria; né tantomeno la chiesa cattolica si oppose
all’aggressione.

Nell’ottobre del 1935, senza alcuna dichiarazione, l’esercito italiano attaccò


l’Etiopia.

L’intento fu subito chiaro e l’Italia fu colpita, nel novembre del 1935, dalle
sanzioni internazionali della Società delle Nazioni, che vietavano il
commercio con il nostro Paese e la concessione di crediti, sanzioni
comunque vanificate in quanto la Germania, dove al contempo era salito al
potere Hitler, si dichiarò disposta a rifornire l’Italia di tutto quello di cui
avesse bisogno.

L’Etiopia non possedeva artiglieria pesante né aviazione e l’Italia invece usò i


propri aerei per bombardamenti massicci e, dal gennaio 1936, vennero
utilizzati anche gas tossici, autorizzati direttamente da Mussolini, con effetti
letali.

L’iprite fu nebulizzata sull’esercito, sulle popolazioni, sui pascoli, sul


bestiame, nelle acque; tant’è che ebbe un effetto micidiale poiché l’Etiopia
non aveva l’organizzazione industriale necessaria a dotare la popolazione e
le forza armate di maschere antigas, infatti nel giro di soli sette mesi, il Paese
africano fu piegato.

L’esercito italiano si macchiò di atrocità gravissime contro la popolazione


civile ed ebbe circa 4000 morti, mentre gli etiopi persero 200.000 uomini.

In pochi mesi l’esercito d’occupazione arrivò ad Addis Abeba e l’imperatore


etiope, Hailé Selassié, si rifugiò in Inghilterra, mentre Etiopia, Somalia ed
Eritrea, andavano a formare l’Africa orientale italiana.

Nel maggio del 1936 Mussolini potè proclamare la rinascita dell’Impero “sui
colli fatali di Roma” e il re Vittorio Emanuele III si fregiò del titolo imperiale,
proprio nel periodo in cui le altre potenze coloniali stavano cercando di
ridefinire lo status giuridico e le forme di governo dei loro possedimenti.

L’apparato della propaganda fascista sfruttò naturalmente l’onda di


entusiasmo seguita al successo, esaltando le capacità “autarchiche” della
nazione, l’indifferenza italiana alle sanzioni internazionali, l’uscita dalla
Società delle Nazioni e promettendo che l’espansione coloniale avrebbe
portato pane e terra per tutti. Intono al 1935-36 il regime toccò così l’apice
del consenso popolare.

LA REPUBBLICA DI WEIMAR E IL
NAZIONALSOCIALISMO TEDESCO

La situazione più grave fu sicuramente quella della Germania data la sua


incapacità di risollevarsi dal disastro della Prima Guerra Mondiale, tant’è che
cadde in una forma estrema e aggressiva di totalitarismo, quella nazista.

La responsabilità storica fu sicuramente delle potenze vincitrici che avevano


imposto condizioni troppo dure alla Germania sconfitta e continuavano a
pretendere l’osservanza delle clausole, molto punitive, dei trattati di pace.

A differenza del fascismo italiano, che si costruì culturalmente e


politicamente in gran parte dopo la presa del potere, il nazionalsocialismo
tedesco fu molto esplicito fin dall’inizio circa il suo contenuto ideologico e
nessuno potè sostenere di non aver avuto modo di valutare la portata e il
significato di quanto stava accadendo.

Fin dal 1921 e più massicciamente nel 1923, i ritardi tedeschi nel pagamento
delle riparazioni della guerra, imposte dai trattati di Versailles indussero il
governo francese a occupare la regione industriale della Ruhr.

Diverse città tedesche si trovarono sotto il dominio militare francese. I


tedeschi risposero con una resistenza passiva e con uno sciopero generale
che indusse le truppe francesi ad intervenire con le armi, uccidendo 13
scioperanti. l’occupazione del maggior polo industriale e minerario della
Germania portò ad un conseguente crollo totale del marco.

L’aumento dei prezzi delle merci mirò le basi stesse della società. Per alcuni
fu l’occasione di realizzare enormi profitti; per interi gruppi sociali ( come ad
esempio operai salariati, funzionari ecc. che avevano un reddito fisso)
rappresentò la catastrofe.

Nell’autunno venne trovato un accordo e la Francia annuncio il proprio ritiro


ma la miseria e le umiliazioni alimentarono sia il risentimento nei confronti
delle istituzioni democratiche, che sembravano incapaci di far fronte alla
situazione, sia l’estremismo politico.

Le sofferenze terribili sopportate dai lavoratori avevano causato un’ondata di


scioperi nell’autunno del 1918 e nell’anno dopo il tentativo comunista.

I nazionalisti e gli altri comandi militari potevano dunque accusare i lavoratori


di aver “pugnalato alle spalle” l’esercito impegnato al fronte, facendogli
mancare il necessario supporto dei rifornimenti, anche se questa non era la
verità, in quanto la Germania aveva avuto la responsabilità principale della
Guerra.

Nella Germania imperiale dell’élite dirigente aveva costituito una casta


chiusa, strettamente imparentata al suo interno. Militari, industriali, banchieri,
uomini politici, contribuivano ad un blocco strettamente saldo, radicalmente
antidemocratico e impenetrabile.

Questa élite era particolarmente nostalgica nei confronti della monarchia


prussiana e sosteneva compitamente la teoria della “pugnalata alle spalle”.
Non si rassegnò mai alle regole costituzionali democratiche e lavorò fin
dall’inizio per distruggerlo, sfruttandone le contraddizioni.

La repubblica di Weimar, nata nel 1919, aveva i suoi punti deboli in quanto
era al contempo, parlamentare e presidenziale, perché da una parte il
governo aveva bisogno della fiducia del Parlamento ma, dall’altra, l’articolo
48 della Costituzione riconosceva al presidente, la facoltà di emanare leggi
per decreto, quindi di scavalcare il Parlamento, e di assumere di fatto la
dittatura.

Professori universitari, ecclesiastici, intellettuali e scrittori, contribuirono a


elaborare nella Germania di Weimar un contesto culturale capace di dare un
senso all’autoritarismo e al vittimismo che attraversavano lo schieramento
politico di centro-destra e la società civile.

Per questa via poterono rifarsi a un filone della cultura tedesca che si
opponeva all’universalismo dei valori liberali e socialisti, esaltando il
particolarismo, il tradizionalismo, i legami con la comunità, la terra, la patria,
la prevalenza della forza sul diritto e sulla ragione.

Gli ideali democratici venivano considerati estranei all’autentica tradizione


tedesca e ciò contribuì non poco a mirare le basi morali e di consenso della
repubblica di Weimar.

Man mano acquistarono sempre più spazio idee decisamente razziste e in


particolare antisemite. Si cominciò a sostenere che a pugnalare alle spalle il
popolo tedesco, insieme con i comunisti, erano stati gli ebrei, popolo di
stranieri in Europa, di cosmopoliti senza patria.

Nel 1923 uscì la traduzione tedesca di un libello razzista di grande successo,


I protocolli dei savi di Sion e la politica mondiale degli ebrei, che pretendeva
di documentare l’esistenza di una congiura internazionale ebraica finalizzata
alla conquista del potere mondiale.

Secondo le teorie razziali, che si erano diffuse ampiamente in quei decenni,


la razza superiore era quella “ariana”, di provenienza nord-europea, l’unica
capace di incarnare i canoni di bellezza, forza, creatività e coraggio, contro la
quale si accanivano gli sforzi degli ebrei e degli altri popoli inferiori.

I tedeschi, ariani puri, erano stati relegati entro confini troppo angusti, ero un
“popolo senza spazio” e avevano il diritto di conquistare il loro “spazio vitale”
espandendosi a danno dei loro vicini.

Questa cultura nazionalista offendeva la grande tradizioni

E del pensiero tedesco che in ogni campo del sapere aveva fornito
all’Europa e al mondo risultati e contributi di fondamentale rilevanza storica.
Molti intellettuali fecero sentire la loro voce di civiltà, ma la cultura razzista,
irrazionalista e violenta trovò purtroppo un numero sempre maggiore di
sostenitori nelle università, nelle chiese e nelle istituzioni.

Ai valori che venivano affermando nella società tedesca faceva riferimento


un movimento politico nato agli inizi del 1919, il Partito dei lavoratori

tedeschi, che poco dopo prese il nome di Partito nazionalsocialista tedesco


dei lavoratori (Nsdap), più tardi chiamato come Partito nazista.

A capo di questo emerse fin dall’inizio un austriaco trentenne, trasferitosi in


Germania, a Monaco, prima della guerra, Adolf Hitler.

All’inizio del 1920 il nuovo partito tenne una manifestazione in una grande
birreria del capoluogo bavarese, durante la quale Hitler espose i punti
principali della sua linea politica: il razzismo, la subordinazione del cittadino
alla collettività, la creazione di un “diritto germanico” e perfino di un nuovo
cristianesimo di natura patriottica, il riarmo, le limitazioni alla libertà di
stampa e artistica, l’organizzazione centralissima dello stato.

Nel momento in cui Hitler presentava il suo partito nella birreria diMonaco, la
guerra civile in Russia si stava concludendo a favore dei bolscevichi.

L’Armata rossa stava riconquistando l?ucraina e non era ancora stata


fermata dai polacchi. La rivoluzione in Germania era dunque una possibilità
molto concreta: per molti tedeschi il comunismo rappresentava una grande
speranza a portata di mano, per molti altri, invece, rappresentava una grande
paura, aggravata dalla violenza con cui la guerra civile stava devastando la
Russia.

Anche i socialdemocratici condividevano con la borghesia l’orrore per il


comunismo e le loro posizioni erano sostanzialmente indistinguibili da quelle
del centro.

I comunisti non vedevano quindi alcuna differenza tra socialisti e borghesi.


Parlavano addirittura di Social-fascismo, il che non contribuiva a creare la
possibilità di uno schieramento politico unitario antifascista.

Sia la sinistra che la destra tedesche, disponevano di proprie milizie. In


questo modo lo stato era diventato ostaggio di una guerra civile latente che
nessuno intendeva o poteva fermare. Gli stessi “corpi franchi” di estrema
destra che avevano giustiziato Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht nel 1919
tentarono un colpo di stato, l’anno seguente, naturalmente senza successo.

Nel 1921 le milizie segrete dell’estrema destra nazionalista uccisero il


ministro delle finanze Matthias Erzberger e, nel 1922, il ministro degli Esteri
Walther Rathenau, intellettuale e industriale ebreo che aveva organizzato
l’economia nazionale durante la guerra e stava ora cercando di far uscire la
Germania dal suo isolamento.

Questa rincorsa a dotarsi dei mezzi più efficaci per sconfiggere l’avversario,
naturalmente, fu vinta dai nazisti, che misero in campo le SA ( squadre
d’assalto), in camicia bruna, cresciute fino a inquadrare 400.000 uomini nel
1933 e tre milioni l’anno seguente, dopo la presa del potere da parte dei
nazisti.

A partire dalla metà degli anni venti, Hitler istituì la sua propria guardia del
corpo, le SS ( squadre di protezione), potenziate per controbilanciare le
tendenze ingovernabili e la forza eccessiva delle SA. I membri delle SS
dovevano provare la propria purezza ariana da molte generazioni ed erano
soggetti ad un controllo personale da parte dei loro capi.

Non potevano spostarsi senza il consenso dei superiori. Dopo la presa di


potere da parte di Hitler, liquideranno le SA e diventeranno il corpo di punta
del sistema poliziesco e militare tedesco.

Il 1923 fu un anno di grandi tensioni: a gennaio, i francesi invasero la Ruhr; in


estate il crollo del marco; in ottobre ultimo tentativo di rivoluzione comunista
in Germania, ad Amburgo, subito repressa; in novembre, i nazisti tentarono
un colpo di Stato a Monaco e Hitler fu condannato a 5 anni di carcere…

Tutte le istituzioni dello Stato erano ormai orientate verso destra e dopo
pochi mesi, dopo esser uscito dalla prigione, Hitler proseguì il suo percorso
di attività politica.

Nel 1925 fu eletto presidente della Repubblica il maresciallo Paul von


Hindemburg, ex capo di stato maggiore durante la guerra, massimo
esponente della destra monarchica e nazionalista.

Usò abbondantemente le prerogative che la Costituzione concedeva al


presidente, tanto che nel 1923 arrivò a far votare al parlamento solo cinque
leggi contro cinquantanove decreti. Anche i grandi industriali, legati alla
presenza del riarmo e quindi delle relative immense commesse statali, si
impegnarono a fondo nella politica di estrema destra. Tutta la classe
dirigente dell’anteguerra, che aveva dovuto lasciare il campo alla
socialdemocrazia nei giorni della sconfitta, ritrovava dunque la propria
compattezza.

Il nazismo vide crescere i propri consensi solo a partire dal 1928, ma in


cinque anni arrivò a conquistare il potere in maniera perfettamente legale.

Con l’aggravarsi della crisi economica, il piccolo partito di Hitler, fino ad


allora tollerato o incoraggiato dalla destra monarchica, si sviluppò
esponenzialmente, mentre progressivamente perdevano consensi quei partiti
che si erano riconosciuti alla democrazia di Weimar.

La curva ascendente dei voti del partito nazista salì a 1 a quasi 14 milioni,
quella degli iscritti da 100.000 a 1.200.000, parallelamente al crescere dei
disoccupati.

Alle elezioni politiche del 1930 la sinistra mantenne sostanzialmente i suoi


voti. Il successo elettorale nazista fu dunque determinato dal crollo del
vecchio centro-destra, sopratutto del centro, il partito cattolico che aveva
una visione corporativa e reazionaria della società, così vicina a quella
fascista. Gli elettori del centro-destra erano piccoli borghesi, disoccupati
sensibili alla propaganda nazista contro gli operai marxisti, “privilegiati”
perché avevano un lavoro.

Per loro l’entusiasmo violento del nazionalsocialismo rappresentò un


richiamo irresistibile.

Alle elezioni presidenziali del 1932 i voti socialisti confluirono su Hidenburg,


pur di bloccare Hitler.

Eppure il vecchio maresciallo preparava concretamente la fine della


democrazia. Fu proprio lui, l’anno seguente, ad affidare il governo al capo
nazista, leader di quello che era ormai diventato il primo partito tedesco.

LA GRANDE CRISI ECONOMICA DELL’OCCIDENTE


Il mondo devastato dalla Prima Guerra Mondiale sembrava ormai incapace
di stabilità economica, nonostante avesse imparato a produrre molto, non
possedeva un livello di benessere sufficiente ad assorbire questa
sovrabbondante produzione.

Nella maggioranza dei Paesi il “consumo di massa” non si intravedeva


neppure, perciò non erano molte le persone in grado di acquistare l’enorme
quantità di merci prodotta.

La guerra aveva alterato gli equilibri economici anche nei rapporti fra nazioni
e durante il conflitto degli Stati Uniti, il Giappone e alcuni Stati sudamericani
si erano arricchiti, mentre l’Europa si era impoverita.

I flussi commerciali e finanziari erano stati stravolti, anche i vincitori, avevano


perso rigore a vantaggio delle Americhe e dell’Estremo Oriente.

La frantumazione dell’impero austro-ungarico e dell’impero ottomano aveva


moltiplicato nell’Europa orientale le barriere doganali che dividevano Stati
spesso contrapposti da rivalità razionali. Perdipiù la Russia, dopo la
rivoluzione del 1917, si era del tutto ritirata dall’economia mondiale.

Il commercio internazionale, che era stato uno dei motori dello sviluppo
economico nei decenni precedenti, non potè più svolgere questo ruolo nel
dopoguerra, durante il quale gli Usa si videro costretti ad aiutare la Germania
con massicce iniezioni di capitali per metterla nelle condizioni di far fronte
alle pesanti indennità di guerra imposte dal trattato di Versailles.

In Europa gli anni del dopoguerra furono contrassegnati da un frenetico


alternarsi di crisi e di riprese.

Nel 1921 una prima crisi finanziaria e industriale investì sia i Paesi vinti sia
quelli vincitori, favorita da un caos monetario generalizzato, che fece
crescere l’Inflazione sopratutto nei Paesi più deboli come la Germania dove
si giunse, nel 1923, al tracollo totale della moneta.

Negli anni seguenti la produzione mondiale conobbe una buona ripresa, ma


la disoccupazione restava molto elevata e i mercati non si stabilizzavano.

Improvvisi reali di borsa creavano arricchimenti fittizi a una forte propensione


al consumo da parte di ceti medi.

Negli anni Venti gli Usa vissero un periodo di grande prosperità chiamato “
anni ruggenti”: tra il 1922 e il 1929 la produzione industriale raddoppiò,
grazie sopratutto alle innovazioni tecnologiche.

Per gli statunitensi questi furono anni di “consumi di massa”, stimolati dalla
pubblicità e dalla vendita a rate, e si diffuse uno stile di vita ottimistico
( l’American Way of Life), basato sul benessere dei ceti medi e dei lavoratori
qualificati e sulla ricerca di nuovi svaghi.

Inoltre si ebbero anche cambiamenti importanti anche nelle mentalità, che


divenne molto più aperta, sopratutto per quanto riguarda il ruolo delle donne.

La diffusa fiducia nelle capacità di sviluppo dell’apparato produttivo e la


disponibilità di capitali indussero una sorta di euforia speculativa, a causa
della quale si pensava di potere vendere in futuro titoli azionari acquistati ai
prezzi correnti: dal 1927 al 1929 il valore di alcuni titoli quotati alla Borsa di
Wall Street, a New York, quasi triplicò.

Molto presto, però, esplose la fragilità di questa fase espansiva e, più in


generale dell’intero sistema capitalistico.

Giovedì 24 ottobre 1929, il “giovedì nero”, dopo una giornata di grande


incertezza dei mercati e di ribasso di tutti i titoli, la Borsa di New York crollò
improvvisamente. Milioni di azioni vennero vendute a prezzi notevolmente
bassi e nel giro di qualche giorno il valore dell’intero mercato finanziario
americano si dimezzò.

La bolla speculativa, che aveva sostenuto la crescita dell’economia


americana, in pochi giorni aumentò provocando gravi conseguenza.

I risparmiatori che avevano investito in borsa persero di punto in bianco i loro


averi, in quanto non potevano più sostenere le spese che avevano
preventivato e per le quali si erano indebitati, mettendo così in difficoltà il
sistema bancario.

Le aziende quotate in borsa valevano la metà. Il valore finanziario di una


società per azioni è dato dalla somma delle sue azioni, ma queste si
vendono e si comprano sul mercato liberamente e il prezzo può o alzarsi o
abbassarsi. Se un’azienda vale 100, significa che l’insieme di tutte le sue
azioni vale 100. Dopo il “giovedì nero”, tutte le imprese che usufruivano di
capitali in prestito, si trovarono prive di credito. Questo avvenne perché le
banche concedono prestiti prendendo a garanzia il valore dell’azienda, ma
quando questo crolla, vengono a mancare le garanzie richieste dal sistema
creditizio.

Senza credito le aziende sono costrette a chiudere o a ridimensionare la


produzione, di conseguenza licenziano la forza-lavoro in eccesso oppure
riducono le giornate lavorative.

Così, privi di salario, o con un salario ridotto, disoccupati e lavoratori


perdono il loro potere d’acquisto; i consumi di massa si riducono, il volume
degli acquisti (la domanda interna) si abbassa, e aumentano le merci
invendute,

I prezzi, di conseguenza, diminuiscono ma non eccessivamente, poiché non


tutti i costi si possono abbattere, e comunque non abbastanza da stimolare
una ripresa dalla domanda.

In questo modo, vengono meno i profitti e le aziende sono costretti a


chiudere, creando nuovi disoccupati. Crollano i prezzi delle materie prime, di
cui l’industria non si fornisce più, crollano i prezzi dei prodotti agricoli e
crollano quindi anche i prezzi delle terre e degli immobili.

La grande crisi ( o meglio, “grande depressione”), esplose il 24 ottobre 1929,


mostro che tutto il sistema capitalistico stava producendo in una quantità
superiore rispetto all’effettivo potere d’acquisto. Il capitalismo, inoltre, non
disponeva ancora dei sistemi correttivi che, in seguito alla crisi, furono
introdotti e non disponeva neppure di banche centrali con poteri e risorse
sufficienti per poter controllare e sostenere i vari sistemi bancari.

A partire da Wall Street, la crisi si diffuse su tutta l’economia americana.


Nessuno, neppure il governo, sembrava in grado di fermare il crollo e le
conseguenze sociali furono disastrose. In un’epoca e in un paese le cui
forme di previdenza sociale erano inesistenti, i disoccupati aumentarono
raggiungendo i 15milioni, colpendo particolarmente le fasce più deboli: le
donne, i neri, i lavoratori recentemente immigrati.

L’importanza economica degli Stati Uniti era enormemente cresciuta negli


anni della guerra ed inevitabilmente la crisi determinò ripercussioni molto
gravi sul resto del mondo.

La diminuzione della domanda americana colpì le esportazione degli altri


paesi, che vennero danneggiati ulteriormente dall’adozione, da parte degli
Stati Uniti, di misure protezionistiche a difesa del mercato interno.

Gli Stati Uniti non ebbero più capitali da investire all’estero, specie in
Germania, la cui produzione industriale dipendeva da quel flusso finanziario.

L’ondata di fallimenti si diffuse, quindi, anche fra le banche e le aziende


tedesche, aggredendo sia i Paesi industrializzati che quelli produttori di
materie prime.

La lana australiana, il caffè brasiliano, la seta giapponese e la maggior parte


dei prodotti primari, come ad esempio i diamanti sudafricani, il grano
canadese, il riso giapponese e la carne argentina, rimasero invenduti sul
mercato internazionale.

Le piccole aziende agricole, andarono nelle mani delle banche creditrici e i


contadini diventarono affittuari delle terre che in precedenza appartenevano
a loro.

Quanto più un Paese era integrato, con le sue attività produttive e


commerciali, nel mercato mondiale, tanto più gravemente venne colpito dalla
depressione. Questa condizione di crisi si era accentuata anche a causa di
un mercato mondiale sempre più unificato, sebbene la produzione industriale
si concentrasse ancora in pochi paesi.

Nel 1929 gli Stati Uniti, da soli, detenevano il 45% della produzione mondiale
e un altro 35% era diviso tra Inghilterra, Germania, Francia, Belgio, Olanda,
Svezia, Svizzera, Austria e Canada. Questi furono i paesi più danneggiati,
mentre l’Italia fu colpita in ritardo e in modo marginale, in quanto dipendeva
ancora scarsamente dal mercato mondiale.

Il Giappone subì in misura minore gli effetti della crisi, poiché il suo regime
militarista aveva imboccato prima degli altri la via del riarmo e quindi
l’Industria pesante lavorava a pieno regime per lo Stato.

L’apice della depressione economica fu raggiunto nell’estate del 1932. Negli


Stati Uniti, il Paese più colpito, in quello stesso periodo i fallimenti di aziende
industriali ammontavano a circa 32.000 e la produzione si era dimezzata, i
prezzi dei prodotti agricoli erano crollati a livello più basso del secolo, il
prodotto interno lordo sei ra ridotto della metà, mentre il commercio estero
era sceso anch’esso al livello più basso dal 1914.

Dai circa 10milioni di disoccupati, si passò a 40milioni, quasi 15 negli USA e


6 in Germania. Inoltre, anche quando la produzione industriale come ciò a
riprendersi, l’occupazione non raggiunse i livelli precedenti, perché le
aziende avevano registrato dei progressi tecnologici che consentivano loro di
risparmiare manodopera. Le precedenti crisi del sistema capitalista erano
state superate grazie all’esportazione, anche se, negli anni Trenta non
esistevano più portoni di mondo da colonizzare, in cui investire e vendere
prodotti industriali, e l’imperialismo aveva concluso la propria stagione
espansiva. Di conseguenza, ogni soggetto economico, dal più grande al più
piccolo, cessò di sopravvivere.

ROOSEVELT E IL “NEW DEAL”


Il pensiero economico liberale riteneva che lo stato non dovesse
intromettersi nel funzionamento del mercato. Ora, però, la situazione dei
Paesi a economia di mercato si faceva sempre più drammatica, mentre
proprio le nazioni, che fino ad allora avevano adottato delle misure più o
meno drastiche del controllo statale dell’economia, sembravano poter
reagire meglio alle difficoltà, come la Russia Sovietica.

In paesi come la Germania, la politica di riarmo e la grande crescita della


spesa militare stimolarono la ripresa dell’economia.

Lo stesso avvenne in Italia, dove il regime mussoliniano adottò misure di


controllo più severe della vita economica.

Allora, però, il contrasto fra l’incapacità delle democrazie liberali di dare una
risposta alla crisi e il dinamismo di questi paesi risultava forte, e contribuì
non poco alla diffusione delle ideologie di stampo totalitario.

Anche nei Paesi rimasti fedeli alla democrazia e al mercato, si fece


comunque strada la convinzione che lo Stato dovesse intervenire.

Gli Stati uniti; furono i primi ad ampliare l’intervento pubblico; nel 1923 fu
eletto alla presidenza il democratico Franklin Delano Roosevelt, che si trovò
dinanzi ad una situazione di crisi totale, accentuata ancora di più
dall’amministrazione repubblicana. Così Roosevelt agì con grande rapidità,
mise al lavoro un “gruppo di cervelli” ( brain trust), che gli suggerì la strada di
quello che fu chiamato il “nuovo corso” ( new deal ).

Fu una vera e propria rivoluzione, che modificò in senso statalista l’economia


del Paese.

Dato che gli investimenti privati nelle attività produttive erano crollati del
90%, il governò varò un grande programma di investimenti federali finanziati
con la spesa pubblica, e quindi l’inflazione, poiché più denaro si immette in
un sistema economico e meno questo denaro ha valore.

Per fare i modo che domanda e offerta ricominciassero a stimolarsi a


vicenda, si pensò di intervenire sulla domanda di beni.

Era necessario creare una nuova occupazione per distribuire salari e mettere
i cittadini nella condizione di acquistare beni disponibili sul mercato, cioè di
creare nuova domanda.

Questo avrebbe stimolato la produzione di beni e rimesso in funzione il


sistema dei consumi. Poiché i privati non creavano nuova occupazione,
sarebbe toccato allo stato svolgere questo compito e permettere a molti
disoccupati di trovare lavoro.

Il governo di Roosevelt finanziò opere pubbliche e promosse investimenti


privati con agevolazioni di credito. Lo Stato spese molto denaro con
l'obiettivo creare una nuova ricchezza, poiché l'indebitamento era
considerato momentaneo, in quanto la futura ripresa dell'attività produttiva
avrebbe portato a sua volta ad un aumento del gettito fiscale. Sul fronte delle
opere pubbliche, fu istituito l’”Ente della valle del Tennessee”, che operò una
risistemazione delle risorse idriche negli stati del sud. In questo modo si fornì
lavoro agli operai impiegati nelle opere pubbliche, e anche a tutta l'economia
degli Stati meridionali riforniti di acqua ed elettricità

Per quanto riguarda il mercato del lavoro, l'amministrazione Roosevelt


intervenne su salari E prezzi con la “Legge per la ripresa nazionale
dell’industria” (National industrial recoveri act). Questa legge assicurava agli
operai un salario minimo ed un orario di lavoro massimo; inoltre imponeva
alle industrie il rispetto della libertà sindacale, assieme ad una serie di vincoli
che frenavano la concorrenza e facevano quindi aumentare i prezzi.

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