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Il dopoguerra: la società

Nel dopoguerra le istituzioni liberali furono incapaci di gestire la travagliata situazione sociale.
Ceti umili → gravemente insoddisfatti chiedono migliori condizioni di vita e partecipazione
politica. Gran parte della popolazione, soprattutto al sud, era rimansta esclusa dalla vita politica
del paese.
Masse operaie e contadine → essendo fra coloro che avevano preso attivamente parte alla
guerra, avevano avuto l’occasione di una maturazione politica, per cui chiedevano:
- adeguata rappresentanza parlamentare
- divisione e ridistribuzione delle terre
- maggiore eguaglianza, diritti e lotta ai privilegi
- migliori condizioni di lavoro e salari più alti
I lavoratori iscritti ai sindacati aumentarono considerevolmente (Confederazione generale del
lavoro e sindacati cattolici). Anche le donne protestarono per ottenere diritti civili, per il merito di
aver sostiuito gli uomini nelle fabbriche. Fra le numerose proteste sociali si registrarono:
Centro-Nord → scioperi nelle fabbriche.
Sud → occupazione delle terre incolte.
Fu il così detto biennio rosso (1919-1920), dominato dalle proteste e dagli scontri, che culminò con
l’occupazione di oltre 600 fabbriche. I conflitti sociali furono esasperati dall’aumento dei prezzi e
dai morti nelle azioni di forza.
Socialisti (massimalisti) → soluzioni di tipo bolscevico
Opinione pubblica di destra → spaventata e contraria alla deriva rivoluzionaria
Serviva un nuovo sviluppo politico-sociale che portasse dal liberalismo alla democrazia.
Formazione del movimento combattentistico → l’associazione nazionale combattenti e reduci che
esaltava il valore della guerra e della patria, sfiducioso verso tutti i partiti.

Il dopoguerra: l’economia
Come negli altri paesi europei, anche in Italia si verificò un ristagno economico e una forte crisi. La
debolezza del mercato interno fu tale che risultò incapace di sostenere la ripresa dei consumi e la
produzione manifatturiera.
- vertiginosa inflazione
- incremento della disoccupazione
- riconversione delle fabbriche
- mancanza di risorse minerarie
- diminuzione della produzione agricola, dovuta ai morti in guerra
- disavanzo delle casse statali
Piccola e media borghesia liberale → lamentava pesante carico fiscale, perdita del potere
d’acquisto, timore per le rivendicazioni operaie e contadine.
Grande borghesia industriale → si era arricchita con la guerra grazie alle massicce commesse
statali, sviluppandosi e sfruttando il capitalismo bancario.
Classe dirigente → era forte la tendenza all’autoritarismo, rafforzato dalle pratiche di guerra, e
l’affrontare le tensioni sociali con la forza, la censura e il controllo.
Anche le trattative di pace furono difficili, con il riconoscimento solo di parte delle richieste.
Nacque il mito della “vittoria mutilata” (occupazione dannunziana di Fiume). Il risentimento
nazionalista si sfogò contro le altre potenze, il governo italiano e le istituzioni liberali.
I partiti di massa
A destabilizzare il ceto liberale della Belle Epoque vi furono i partiti di massa. Fra i più importanti
c’era il Partitio popolare italiano del 1919, fondato da Luigi Sturzo sul solidarismo prevedeva:
- la suddivisione delle terre incolte ai contadini
- una riforma del fisco per una ridistribuzione delle tasse
- una legislazione sociale per migliorare le condizioni del proletariato
- l’interclassismo e il rifiuto della lotta di classe
Il Vaticano diede l’assenso, a favore della piena partecipazione dei cattolici alla vita politica del
paese, nonostante questioni irrisolte, pur di fermare l’avanzata del socialismo e la
secolarizzazione. Ottennero 100 deputati, ma il Partito socialista ne ebbe ben 165, diventando la
prima forza politica italiana, ma era internamente lacerata in due correnti:
- riformisti → spingevano la borghesia ad attuare riforme politiche e sociali per lo
sviluppo democratico dell’Italia, ostacolati dal ceto medio.
- massimalisti → contrari agli accordi con i liberali, vedevano il prologo della rivoluzione.
Queste divisioni interne limitavano l’incisività politica socialista e causavano difficoltà. Partito
popolare e socialista erano capillari sul territorio, con un programma e ideali di grande richiamo,
ottenendo molto successo, soprattutto grazie all’introduzione del sistema elettorale
proporzionale.
Sistema elettorale proporzionale → si votano liste di candidati con i rispettivi programmi dei
partiti e le loro differenze. In base al numero dei voti entravano in parlamento i candidati.
Sistema maggioritario → concentrava lo scontro elettorale sui singoli candidati, favorendo i
notabili e le clientele dello schieramento liberale.
Non erano più possibili le alleanze variabili come quella di Giolitti, i partiti di massa e la nuova
legge elettorale proporzionale mandarono in crisi il consolidato sistema di potere liberale.

Il partito comunista
Le divisioni del Partito socialista trovarono sfogo nel Partito comunista, nato nel 1921 da Antonio
Gramsci, che da anni indicava nell’unione degli operai e dei contadini, il fondamento della
rivoluzione proletaria italiana. Con la fine del biennio rosso, il paese non era affatto avviato ad un
successo del bolscevismo, e la sinistra estrema incolpò di questo i socialisti: da qui molti decisero
di abbandonare il partito per lo scontro con la borghesia capitalistica (tramite il Partito comunista
che seguiva la linea di Lenin). Il fronte politico di sinistra era dunque estremamente frammentato.
Lo scontro tra comunisti e l’estrema destra (riunita nel movimento fascista) non tardò ad arrivare.

Il movimento fascista
Il 23 marzo 1919 furono fondati da Mussolini (ex socialista rivoluzionario, ex interventista) i Fasci
italiani di combattimento. Inizialmente riscosse scarsissimi consensi a causa del suo programma
che mescolava elementi in conflitto, che erano per lo più urgenze:
- polemica contro i capitalisti e antisocialismo
- nazionalismo, autoritarismo, antiparlamentarismo
- anticlericalismo e repubblicanesimo
- suffragio universale e voto alle donne
- lotta “ ai pescecani” e pesanti tasse per i ceti più abbienti
- giornata lavorativa di 8 ore
Nel 1920 intuì la strategia per avere consensi: sfruttare la paura della borghesia per la rivoluzione
bolscevica, facendosi portatore dell’ordine. Mussolini organizzò delle squadre punitive per
violente spedizioni contro la sinistra, uccidendo amministratori pubblici e sindacalisti, devastando
giornali e cooperative. Nacque così lo squadrismo (=azioni violente perpetrate dai gruppi
paramilitari fascisti), grazie all’omertà degli esponenti politici e dell’esercito, che tolleravano tale
violenza nella paura di una rivoluzione di sinistra. Ci fu l’apice tra il 1920 e il 1922, nelle campagne
contro le leghe rosse, in città e nell’area padana. Godettero dell’appoggio dei gruppi reazionari e
del supporto finanziario di grandi proprietari e industriali: tutti volevano respingere le
rivendicazioni e le proteste dei salariati. Le camicie nere raccolsero crescenti adesioni da chi era
suggestionato dal mito della vittoria mutilata, assieme a disoccupati e piccoli proprietari. Vi erano
dissidi interni tra:
- fascismo urbano
- fascismo rurale
Giolitti e le istituzioni liberali non reputarono lo squadrismo una minaccia, nella convinzione che si
sarebbe presto esaurito, considerando invece utile per contenere le proteste proletarie e
convincere deputati a sostenere i liberali. Prefetti, esercito e magistratura, furono un aiuto
fondamentale, fornendo armi e protezione. Giolitti si sbagliò: le forze liberali non seppero
contenere l’avanzata di Mussolini e l’Italia cadde nelle mani della dittatura.

L’ascesa del Partito fascista


Un momento fondamentale che aiutò Mussolini ad affermarsi, furono le elezioni del 1921, dove
Giolitti, con la strategia del “blocco nazionale” (aggregazione politica italiana di destra), legittimò il
movimento fascista, che intanto non aveva rinunciato alla violenza e alle azioni extraparlamentari.
Questo gesto fu definito da molti il suicidio dello stato liberale, che si consegnava nelle mani del
fascismo. Mussolini apparve più rassicurante ed affidabile al popolo, e colse l’occasione di
riorganizzare i fasci nel Partito nazionale fascista. Organizzò un nuovo programma dove:
- affincava la monarchia e non il repubblicanesimo
- sosteneva la chiesa invece del laicismo
- rafforzamento dello stato e amore per la patria
- il rifiuto dell’internazionalismo
- una politica estera imperialista
- una politica economica liberista
L’evoluzione fascista seguiva un doppio binario:
- l’atteggiamento rivoluzionario e squadrista, illegale e violento
- l’azione politica parlamentare, determinante nel governo

Un governo incapace
In seguito alle dimissioni di Giolitti e i suoi successori, il partito milizia fascista (=partito che
consolida il potere tramite squadre militari) non incontrò ostacoli alle sue violenze, sostenuto dai
centri di potere statali e dalla chiesa. Nel 1922 a causa di un’ondata di violenze, la sinistra indette
uno sciopero pacifico per le libertà politiche e sindacali. I fascisti, dicendosi portatori dell’ordine,
assaltarono la sede dell’ “Avanti!” (giornale del Partito socialista). Il governo fu irrisoluto e in
questa sua inerzia, l’unico modo per fermare Mussolini era una vasta alleanza tra socialisti e
cattolici. Alla fine le polemiche sul da farsi causarono l’ennesima scissione a sinistra.

La marcia su Roma
Mussolini seppe sfruttare al meglio lo spacco che si era creato nel parlamento. Aveva capito che il
governo non era in grado di reagire, e che gli italiani avrebbero nettamente preferito un governo
forte e deciso. Fu formato allora un quadrumvirato che avrebbe dovuto guidare la marcia su Roma
delle squadre fasciste di tutta Italia. Dovevano mobilitare il partito intero in modo che Mussolini
potesse assumere il potere con un colpo di stato. Il re Vittorio Emanuele III si rifiutò di mandare
l’esercito ad impedire l’assedio, offrendo a Mussolini la presidenza del consiglio. La marcia su
Roma fu un’arma di pressione sul governo e sul re, che permise al fascismo di prendere il pieno
potere direttamente dalle mani del sovrano e col minimo sforzo.

Il fascismo diventa “legale”: le riforme


I politici (tra cui Giolitti) fecero ancora lo stesso errore, credendo che il governo di Mussolini fosse
destinato a scomparire. Egli invece costituì un governo di cui facevano parte: fascisti, nazionalisti,
liberali, popolari e indipendenti. Questa era una fase intermedia per l’instaurazione di un potere
personale e autoritario:
«Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento
e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo
tempo, voluto.» (Discorso del Bivacco)
Nonostante l’antiparlamentarismo fascista, Mussolini tramite l’azione governativa e la violenza di
strada, ottenne il monopolio del potere, arrivando a trasformare le istituzioni in senso autoritario,
dall’interno dello stato, senza violare nulla. Ciò che stava facendo Mussolini, era rendere legali le
azioni fasciste:
1. Gli squadristi furono inquadrati nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, ossia
l’esercito privato del regime e serviva:
- a disciplinare il partito
- a legittimare l’uso della violenza
2. I fascisti furono messi a capo dei settori chiave dell’amministrazione pubblica e il Gran
consiglio del fascismo usurpò compiti che spettavano al governo e al parlamento.
3. Si assicurò inoltre la simpatia delle grandi imprese e dei proprietari fondiari, attenuando
il fisco e assicurando che non ci sarebbero state riforme agrarie.
4. La riorganizzazione della scuola (affidata a Giovanni Gentile) fu definita la più fascista
delle riforme, con una visione gerarchica.
5. Fu intrapresa un’opera di condizionamento della cultura popolare attraverso i mezzi di
comunicazione di massa, la radio, dove venivano elogiate le sue imprese e dettato come
forgiare il perfetto fascista: una rivoluzione antropologica.
6. Distrusse dall’interno il Partito Popolare, intrecciando abilmente intimidazioni e
approcci politici con le trattative con la chiesa. Ottenne infine il ritiro dei ministri
popolari dal governo e le dimissioni di Sturzo (il leader del partito).
7. Con il Partito popolare fuori gioco, fece approvare una nuova legge elettorale
maggioritaria (Legge Acerbo 1923): la lista che avesse conseguito la maggioranza
relativa dei voti, avrebbe ottenuto i 2/3 dei seggi parlamentari.
8. Proseguì una politica di avvicinamento alla Chiesa: la riforma Gentile decretò infatti,
l’obbligo dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole.

L’omicidio Matteotti
Nel 1924 si tennero le nuove elezioni politiche, alle quali Mussolini presentò il listone (fascisti +
nazionalisti + liberali), un soggetto politico alternativo ai partiti tradizionali. Ottennero il dominio
assoluto della camera dei deputati. Le votazioni però si svolsero di un clima di intimidazioni e
violenze squadristoche e corruzione finanziaria. Giacomo Matteotti scoprì tali illegalità e le
denunciò duramente con un discorso in opposizione al fascismo. In risposta fu rapito e ucciso, ma
emersero subito le responsabilità del fascismo. Non fu mai provato il coinvolgimento di Mussolini,
ma l’indignazione fu tale che perfino gli stessi fascisti presero le distanze.
I partiti d’opposizione protestarono contro il governo boicottando i lavori parlamentari. La
seccessione dell’Aventino (=rifiuto dei partiti d’opposzione di partecipare ai lavori parlamentari),
fu un gesto dimostrativo per sensibilizzare il re e l’opizione pubblica del pericolo fascista,
rivelandosi tuttavia inefficace. Nemmeno il sovrano intervenne nonostante le pressioni per
revocare l’incarico a Mussolini. Alla fine fu Mussolini stesso a porre fine alla crisi, assumendosi la
responsabilità politica, morale e storica dell’omicidio, e di essere pronto a stroncare l’Aventino:
preannunciava così la fine di ogni libertà costituzionale e l’inizio della dittatura.

Le leggi fascistissime
Dal 1925 al 1929 il regime autoritario fascista fu completamente edificato. Fu costruito un nuovo
tipo di stato, con l’imposizione della dittatura. Nel biennio del 25-26 furono inoltre emanate le
leggi fascistissime, atte a sottrarre il regime a ogni minaccia:
● abolizione della libertà di associazione, di stampa e del diritto di sciopero e furono sciolti
i sindacati, legalizzando esclusivamente il sindacato fascista;
● ampliamento dei poteri del capo del governo (esecutivo + legislativo), nessuna legge
doveva essere presentata in parlamento senza la preventiva autorizzazione del Duce;
● riordino centralistico dell’organizzazione statale, sostituendo i podestà ai sindaci e
rafforzando i prefetti per indebolire i ras, ormai incontrollabili;
● soppressione della democrazia interna al partito;
● creazione dell’Ovra, la polizia politica segreta;
● fu varato il Codice Rocco che ripristinava la pena di morte e istituito il Tribunale speciale
per la difesa dello stato, per giudicare gli avversari del regime, con durissime pene del
codice militare di guerra (confino).

Uno stato totalitario


Le leggi fascistissime avevano trasformato lo Stato costituzionale in stato totalitario: fondato su
una dittatura personale e un partito unico, che intendeva riorganizzare il paese e l’intero corpo
sociale inquadrando le masse nelle strutture del regime, condizionandole in modo totale sia nei
comportamenti, sia nella mentalità. Questo atteggiamento faceva leva da una parte su una
massiccia propaganda, dall’altra su una spietata repressione poliziesca. Lo stato voluto da
Mussolini era uno stato forte, contrapposto all’individualismo liberale e democratico: “Tutto nello
Stato, niente contro lo stato, nulla al di fuori dello stato”.
Il fascismo fu una rivoluzione solo apparente: fu un regime reazionario, che privilegiò i gruppi
dominanti tradizionali e sovrappose l’apparato della dittatura al vecchio stato monarchico e alle
preesistenti strutture economiche sociali (dissente da questa opinione lo storico De Felice per il
quale il fascismo come movimento fu effettivamente rivoluzionario).
La fascistizzazione dello Stato
Con la riforma elettorale del 1928, fu cancellato definitivamente il sistema liberale: si stabiliva
l’elezione di 400 deputati, approvati o respinti internamente a partire da una lista redatta dal Gran
consiglio del fascismo. Nello stesso anno il Gran consiglio assunse anche il carattere di organo
costituzionale: ciò sottolinea come gli organi dello stato si fossero integrati e sovrapposti a quello
fascista, in una sorta di simbiosi istituzionale, che gli storici definirono un processo circolare di
fascistizzazione dello Stato e statizzazione del Partito fascista. Il centro di tutto era il capo del
governo che al contempo era anche il duce. Lo squadrismo fu cancellato poi dallo stesso Mussolini,
in nome della nuova pace sociale fascista. Crollò così ogni speranza di salvare lo Stato liberale,
facendo nascere un antifascismo consapevole, ma privo di mezzi per battersi.

La propaganda
Nella gestione del potere Mussolini si servì dell’apparato burocratico statale inserendovi uomini
fidati, ma soprattutto della propaganda. Si avvalse dei più moderni mezzi di comunicazione di
massa (stampa, radio, cinema) per veicolare ogni giorno l’opinione e le parole d’ordine del
fascismo. Il nuovo Ministero della Cultura Popolare esercitò uno strettissimo controllo sulla
stampa. Usò anche l’Ente Radiofonico di Stato: nelle piazze, negli edifici pubblici di città gli
altoparlanti trasmettevano in diretta i discorsi di Mussolini. L’arma più forte fu la cinematografia
perché diffondeva immagini che potevano essere impresse nella mente senza la mediazione del
ragionamento. Anche scuola e cultura furono strettamente controllate: si esaltava l’antica gloria di
Roma, rinnovata dallo stesso Mussolini, e la predominanza delle materie umanistiche su quelle
tecniche e scientifiche. Dal 1929 introdussero l’obbligo per i maschi di prestare giuramento di
fedeltà al regime, esteso successivamente a tutti gli insegnanti e ai docenti universitari.

La lotta di classe
Alla base dell’ideologia nazionalistica del regime, stava la negazione del concetto di lotta di classe.
L’obiettivo era la ricchezza della nazione, non delle parti. I datori di lavoro e i lavoratori impegnati
in un determinato settore economico venivano riuniti in una corporazione, il cui scopo era quello
di risolvere pacificamente le discussioni tra le parti sociali tenendo conto dell’interesse nazionale.
Nella pratica, poiché l’unico sindacato era quello fascista controllato dallo stato, i lavoratori non
ebbero più alcuna possibilità di esprimersi. Le corporazioni servirono a cancellare ogni potere dei
lavoratori. Ogni decisione riguardante i problemi dei lavoratori poteva esse presa d’intesa tra il
governo fascista e gli imprenditori senza paura di proteste.

L’economia
Mussolini non aveva mai declinato una vera linea economica, ma arrivato al governo decise di
intraprendere una politica economica liberista. Con svariati decreti-legge si conquistò il consenso
di industriali, borghesia e classe media. A metà degli anni 20 questa politica fu subito interrotta a
favore della fascistizzazione istituzionale, prevedendo un maggior intervento dello Stato
nell’economia. Il governo si preoccupò:
1. di ridare stabilità e forza alla lira che era fortemente svalutata, fermando il cambio a
quota 90 (90 lire per una sterlina). Ciò comportò una drastica limitazione del credito e al
taglio dei salari. Diminuendo la moneta in circolazione diminuì anche la richiesta di beni
sul mercato interno e i prezzi vennero spinti al ribasso.
2. instaurò una politica protezionistica: si aumentarono i dazi doganali, si fissarono divieti
d’importazione secondo un programma di autarchia alimentare (autosufficienza); si
diede inizio alla battaglia del grano (=campagna a favore della produzione cerealicola
interna) che diede risultati notevoli, sbandierati dalla propaganda di regime. Tale
battaglia legò il regime agli agrari del Sud e avvantaggiò le industrie produttrici di
concimi e di macchine agricole, ma sottrasse ampi spazi agli allevamenti e alle
coltivazioni pregiate.

Lo Stato imprenditore
Alla Crisi del 1929 il regime riuscì a tamponare la situazione con efficaci provvedimenti. Sottopose
l’economia nazionale ad un controllo più esteso, attraverso la partecipazione statale alle attività
finanziarie ed industriali. Furono incrementati i lavori pubblici e di opere di edilizia, che miravano a
dare “un volto imperiale” alla città. Fu avviata la bonifica di zone incolte e paludose. Fu istituito
l’Istituto mobiliare italiano (che finanziato dallo stato subentrava alle banche in crisi nel concedere
prestiti alle imprese), l’Istituto per la ricostruzione industriale (con denaro pubblico acquistò parte
del pacchetto azionario delle grandi banche e di grandi industrie, che divennero così a
partecipazione statale). Lo stato assumeva così un grande ruolo in tutta la vita economica e
finanziaria del paese, ma il potere pubblico poteva gestire gran parte dell’attività economica.

I Patti lateranensi
Anche con la chiesa Mussolini intraprese un doppio binario: da una parte perseguitava esponenti
politici e sindacali cattolici e sacerdoti antifascisti, dall’altra si mostrava amichevole con le
gerarchie cattoliche. Cercò quindi di ampliare il proprio consenso facendo del cattolicesimo uno
dei capisaldi del regime. Tramite una politica di conciliazione, l’11 febbraio 1929 vennero firmati i
Patti lateranensi da Pio XI, sancendo la pacificazione tra Stato e Chiesa:
- Il trattato → l’Italia riconosceva la Città del Vaticano come Stato indipendente, e la
Chiesa riconosceva lo Stato italiano con Roma capitale (pongono fine alla questione
romana) e il cattolicesimo diventa unica religione di stato.
- La convenzione → riconosceva alla chiesa un’ingente indennità.
- Il concordato → riconobbe validità civile al matrimonio religioso e introdusse
l’insegnamento obbligatorio del cattolicesimo nelle scuole. I vescovi non dovevano
prestare giuramento allo stato, ma l’Azione cattolica si ritirava dalla politica.
L’accordo serviva ad entrambe le parti: Pio XI vedeva nel fascismo una barriera contro “liberalismo
e socialismo”, Mussolini invece non poteva fare a meno dell’appoggio della chiesa, né poteva
sperare di sottometterla, dato il grande numero di cattolici in Italia.

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