I problemi economici e sociali della ricostruzione.
Dal confitto l'Italia era uscita vincitrice, ma stremata per lo sforzo compiuto e dominata da gravi difficoltà economiche e da profondi contrasti sociali. Le casse dello Stato avevano infatti accumulato elevatissimi debiti; la produzione agricola era diminuita per l'abbandono dei campi durante la guerra. A loro volta le industrie pesanti, quali la siderurgica e la meccanica, erano costrette a provvedere in tempi brevi a una riconversione produttiva, cioè il passaggio da un'economia di guerra a un'economia di pace. Il ristagno economico e la caduta generale del tenore di vita riducevano notevolmente il mercato interno. La disoccupazione cresceva a ritmo incalzante. Lo sforzo di conversione era aggravato dalla contemporanea crisi che travagliava le banche italiane, dimostratesi incapaci di porre in atto un valido sostegno creditizio nei confronti dell'industria, a causa dei consistenti prestiti a lungo termine già effettuati durante il periodo bellico e alla difficoltà del loro recupero. Ci fu il crollo di importanti istituti bancari con immediati riflessi negativi su tutto il sistema industriale. Di qui un inevitabile peggioramento delle già difficili condizioni di vita dei lavoratori; di qui un'esasperazione dei conflitti sociali, che dette l'avvio a due anni tormentati nella storia politica italiana, definiti biennio rosso, (1919-1920), in quanto caratterizzati da agitazioni operaie a sfondo rivoluzionario, che culminarono nell'occupazione delle fabbriche. Il dopoguerra era per di più travagliato da un profondo senso di frustrazione, alimentato da tutta una serie di interrogativi sul reale significato dei sacrifici sopportati a fronte degli esigui risultati ottenuti dal conflitto. Ebbe una forte presa su larga parte dell'opinione pubblica il mito della vittoria mutilata, divenuto ben presto il cavallo di battaglia di nazionalisti prima e dei fascisti poi. Ad appesantire la situazione contribuiva anche la smobilitazione dei circa 6 milioni di uomini chiamati alle armi dall'inizio del conflitto e che ora si trovavano inaspettatamente senza occupazione. In questo difficile contesto si determinò un evento che avrebbe poi avuto molta influenza sulla vita politica della penisola e sul suo sviluppo storico. Il pontefice Benedetto 15 permise la fondazione del partito popolare italiano, divenuta una realtà a Roma il 18 gennaio 1919 per iniziativa di Don Luigi Sturzo ed alcuni deputati a lui vicini. Don Luigi Sturzo era un sacerdote e uomo politico italiano. Nonostante la sua inclinazione agli studi filosofici e teologici, fu forte la passione sociale e politica. Fu attento osservatore del messaggio di Don Romolo Murri e cercò di applicarlo con prudenza, pur senza partecipare alla vita della Democrazia Cristiana a livello nazionale. Fondò il partito popolare italiano con coloro che aderirono al suo "appello a tutti gli uomini liberi e forti", al fine di dare rappresentanza politica alle masse cattoliche, ancora prive di un proprio partito. L'intenzione era quella di spezzare l'egemonia del partito socialista sulle masse popolari, soprattutto contadine, contrapponendogli un partito cattolico moderato. Don Sturzo voleva creare un partito democratico e aconfessionale, con un programma ricco di proposte progressiste. Tra i punti più qualificanti del programma del nuovo partito vi era una radicale riforma agraria, che interessava i ceti medi rurali. In base a essa il proprietario avrebbe cessato di essere il padrone per diventare al pari dei contadini e dei salariati un socio dell'azienda agricola: in tal modo avrebbe riscosso un certo interesse per il capitale offerto e, insieme agli altri soci, avrebbe diviso gli utili a fine anno. Il programma prevedeva inoltre l'estensione del voto alle donne, una maggiore autonomia locale, cioè maggior decentramento, in contrasto con il centralismo liberale e giolittiano; l'attenzione nei confronti del problema operaio era invece molto limitata. Dal pensiero cattolico provenivano l'ideale della tutela della famiglia e delle libere associazioni, le "comunità intermedie". Fu Favorevole ad una legislazione sociale e riforma fiscale che tutelasse le classi sociali più deboli e conferisse carattere di progressività alle imposte. In politica internazionale appoggiò il programma di Wilson dei 14 punti e credette nella funzione pacificatrice della società delle nazioni. La composizione sociale del partito popolare italiano era interclassista e la sua organizzazione poteva contare sull'appoggio di banche, giornali, organizzazioni del movimento cattolico popolare, cooperative e sindacati cattolici. Vi era una certa eterogeneità politica: intorno alla posizione di Sturzo si formarono una destra conservatrice e una sinistra democratica e sociale. Il partito verrà sciolto nel 26 quando il fascismo divenne regime a partito unico. Nelle masse, in seguito alla delusione per la vittoria mutilata, andarono invece riaccendendosi i rancori e le lotte fra i nazionalisti e gli ex interventisti di destra da una parte e vecchi neutralisti dall'altra: i primi disposti a riprendere le armi per correggere le storture della conferenza di Parigi, i secondi avversi ad ogni forma di violenza, considerata negativa, pericolosa, inopportuna. Un'identica tendenza all'attivismo si poteva notare a livello sociale: gruppi sempre più numerosi di persone davano infatti origine ad uno stato di agitazione permanente contro il carovita. A tutto ciò si aggiungevano le difficoltà interne del maggior partito di massa, quello socialista, che vedeva sempre più nettamente prevalere la corrente massimalista, avversa ad ogni collaborazione con lo Stato borghese e pertanto in netto contrasto con i riformisti, che facevano capo a Filippo turati. I seguaci del socialismo massimalista e del suo leader Giacinto Menotti Serrati, erano convinti che fosse ormai prossimo anche in Italia l'avvento della rivoluzione proletaria di tipo sovietico: compito del partito socialista era pertanto quello di preparare il proletariato alla lotta e alla ribellione intensificando le agitazioni, considerate come una "ginnastica rivoluzionaria", evitando ogni compromesso con il nemico di classe. Questa impostazione appariva però ben lontana dal proporre un piano d'azione concreto e capace di portare il partito aldilà della semplice diffusione di parole d'ordine vaghe e generiche. Proprio gli esponenti riformisti non perdevano occasione per sottolineare che il partito, in attesa di una rivoluzione che non si realizzava, tendeva ormai sempre più a rinunciare all'uso di strumenti in grado di attuare alcuni fondamentali miglioramenti e di avviare una progressiva trasformazione sociale e di convivenza democratica. Proprio mentre la polemica tra le due correnti del partito socialista si faceva sempre più rovente, se ne veniva costituendo una terza, legata ad Amedeo Bordiga e al giornale torinese "l'ordine nuovo" fondato nel 1919 da una vivace Elite intellettuale che ebbe tra gli esponenti più rappresentativi Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti. Gramsci fu un pensatore di grande originalità, che approfondì la conoscenza del pensiero di Lenin. Entrò in contrasto con la direzione massimalista del partito socialista accusata di rivoluzionarismo verbale e inconcludente, e si fece sostenitore di un progetto di rivoluzione italiana, fondata sull'alleanza tra operai del nord, contadini del sud, intellettuali progressisti e sulla "democrazia proletaria" incentrata sui consigli di fabbrica. Arrestato nel novembre del 1926, Gramsci fu processato e condannato dal tribunale fascista a 20 anni di prigione. Scrisse i "quaderni dal carcere", pubblicati a partire dal 1948. Morì in una clinica romana prima di essere tornato in libertà. Gramsci si interrogò sulle condizioni necessarie per avviare una trasformazione della società in senso socialista. Fattore decisivo e' il "gruppo sociale fondamentale": un gruppo sociale si afferma come fondamentale quando diventa cosciente della sua condizione e coinvolge altri gruppi in questa coscienza. Gramsci parlò di blocco storico cioè l'unificazione culturale e politica dei diversi gruppi sociali intorno a quello fondamentale. Egli accentuò rispetto alla tradizionale dottrina di Max il momento culturale e politico del divenire sociale rispetto al momento economico. All'interno della sovrastruttura attribuì il primato alla società civile, al momento culturale e politico della persuasione, subordinando alla società civile lo Stato inteso come apparato coercitivo, esercizio di forza. Sostenne l'importanza di una riforma intellettuale e morale della società rispetto al momento della conquista del potere politico. Da qui il problema degli intellettuali: essi dovevano attuare l'unificazione culturale della società. Dal Rinascimento in poi gli intellettuali si erano staccati dal popolo. Da questi intellettuali si differenzia l'intellettuale organico, cioè colui che si preoccupa dei problemi delle masse, ne da' una interpretazione coerente che diventi mentalità di tutta la società. Solo il proletariato può unificare culturalmente la società: è il partito stesso l'intellettuale organico per eccellenza, è la realizzazione della volontà collettiva. Compito della filosofia e' elaborare la concezione del mondo del gruppo egemone e favorirne la penetrazione all'interno della società. La filosofia viene funzionalizzata alla prassi. Nel mondo sociale ciò che si prevede e' solo la lotta. I singoli momenti di essa sono prevedibili, nella misura in cui si opera per realizzarli. La storia e' attività pratica di gruppi sociali, in lotta per l'egemonia. Ad ostacolare in Italia un costruttivo sviluppo della vita democratica contribuiva l'indisponibilità dei partiti a trovare una base d'intesa: il partito liberale, infatti, male accettava il programma del partito popolare, giudicato troppo avanzato; dal canto suo il partito socialista tendeva ad acuire il proprio anticlericalismo e a rifiutare l'intesa con i popolari, accusati a loro volta di essere sensibili solo al problema contadino.
L'emergere dell'attivismo fascista e la questione di fiume
Di tale stato di cose seppe abilmente approfittare l'ex socialista ed ex interventista Benito Mussolini, il quale, rientrato dal fronte, si era messo a difendere dalle colonne del suo giornale "il Popolo d'Italia" i risultati della guerra vittoriosa contro l'arrendevolezza e l'incomprensione della classe dirigente. Dotato di una non comune capacità oratoria e per di più sicuro di poter contare su finanziamenti internazionali, era riuscito a raccogliere intorno a sé alcuni simpatizzanti fra i nazionalisti, gli ex combattenti e giovani della media borghesia, con l'appoggio dei quali il 23 marzo 1919 aveva fondato a Milano, in un vecchio stabile di piazza San sepolcro, i fasci di combattimento. Il fascio simboleggiava la promessa del movimento: se l'Italia fosse riuscita a diventare unita, eliminando i contrasti interni fomentati dei socialisti, sarebbe diventata una grande potenza come la Roma antica. Il fascio dà impressione di unità e forza; è infatti un insieme di elementi stretti e legati tra di loro. Il fascio littorio comprendente vari bastoni e una scure, era portato sulla spalla da coloro che nell'antichità scortavano i magistrati romani. Il programma del nuovo movimento, il cosiddetto programma di San Sepolcro, prevedeva, in politica estera, la lotta contro tutti gli imperialismi nonché l'adesione alla società delle nazioni. In politica interna chiedeva l'instaurazione della Repubblica con ampie autonomie regionali e comunali, il suffragio universale esteso anche alle donne, l'abolizione del Senato quale espressione della reazione aristocratico borghese in quanto di nomina regia, l'eliminazione dei titoli nobiliari, della polizia politica e della coscrizione obbligatoria. Il programma prevedeva inoltre un ampio piano di riforme economiche e sociali, che prevedevano il pagamento dei debiti dello Stato da parte delle classi più abbienti, la lotta alle speculazioni borsistiche e bancarie, il censimento delle ricchezze in vista di un'adeguata tassa sul patrimonio. Prevedeva inoltre la terra ai contadini, la partecipazione dei lavoratori agli utili delle aziende, la concessione di industrie e servizi pubblici a organizzazioni operaie, la riduzione dell'orario lavorativo alle otto ore giornaliere. Voleva inoltre il sequestro di tutti beni delle congregazioni religiose. Secondo alcuni storici questo programma costituiva l'essenza del fascismo antecedente al compromesso effettuato con la classe dirigente italiana all'atto della presa del potere, (fascismo movimento in contrapposizione a fascismo regime), e riassumeva in sè i valori dei ceti medio bassi, ostili sia ai poteri plutocratici, basati cioè sulla ricchezza, sia ai socialisti che fomentavano i contrasti di classe e che impedivano l'unità della nazione. Il programma di Sansepolcro raccoglieva tuttavia un insieme di posizioni generiche e disparate, dal repubblicanesimo all'anticlericalismo, da richieste progressiste a rivendicazioni di tipo reazionario. La linea politica dei fasci, appare ancora decisamente spostata a sinistra, piena di rivendicazioni sociali, ma nello stesso tempo, il programma insisteva sulla necessità di una politica estera intesa a valorizzare l'Italia nel mondo. Il movimento si proponeva di fondere insieme socialismo, e quindi riforme sociali, e l'idea di nazione. Mussolini tendeva a considerare i fasci di combattimento più come un movimento politico duttile ed elastico che come un vero partito, fermo nella sua ideologia. "Noi fascisti, affermava allora, ci permettiamo il lusso di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente. I fascisti non hanno dottrine prestabilite: la loro unica tattica e' l'azione". Era questa l'impressione che il fascismo delle origini suscitò in osservatori attenti: il fascismo non aveva ancora rivelato il suo vero volto e pertanto difficilmente poteva essere giudicato. Tutti erano certi dell'inconsistenza del fenomeno, che ritenevano destinato a rientrare ben presto nei limiti dello Stato liberale o a sparire. In questo difficile contesto venne a inserirsi la questione di Fiume. Insorta durante la conferenza di Parigi e riguardante la sistemazione del confine italiano con il nuovo regno di Jugoslavia, tale questione costituì un motivo di aspri dissidi e lunghe discussioni. I termini della contesa erano i seguenti: se si intendeva tenere conto del criterio di nazionalità, l'Italia avrebbe dovuto tenere la città di Fiume, i cui abitanti erano italiani, ma non la Dalmazia, dove la popolazione era quasi tutta slava; se si voleva invece prendere in considerazione quanto era stato stabilito con il patto di Londra, all'Italia sarebbe spettata la Dalmazia ma non Fiume, che in quel trattato non era neppure menzionata. La posizione italiana era chiara: il patto di Londra andava rispettato quindi Dalmazia e Istria dovevano passare all'Italia con l'aggiunta di Fiume, in quanto la maggioranza della sua popolazione italiana aveva espresso pubblicamente la propria volontà di annessione al paese di origine. Francia e Inghilterra non vedevano di buon occhio un aumento dell'influenza italiana sull'Adriatico e neppure il presidente americano Wilson si mostrava disponibile alle richieste italiane, deciso com'era a difendere il principio di nazionalità, in virtù del quale gli slavi dovevano riunirsi in un unico Stato. Ecco perché da parte dei tre ex alleati vennero esercitate pressioni di ogni genere sui rappresentanti italiani Orlando e Sonnino, al fine di indurli a non pretendere l'applicazione letterale delle clausole del patto di Londra e a non insistere sull'annessione di Fiume. A quel punto il presidente Orlando commise l'ingenuità di abbandonare sdegnosamente la conferenza, con un gesto che ebbe un esito negativo, poiché gli alleati in sua assenza discussero la questione delle colonie tedesche, senza tenere conto dell'Italia. A causa di tali avvenimenti, nel giugno del 1919 il governo Orlando cadde e venne sostituito da un altro ministero liberale, retto dall'economista Francesco Saverio Nitti che raggiunse con le potenze vincitrici un accordo in base al quale Fiume sarebbe stata evacuata dalle truppe italiane, che fino allora l'avevano presidiata, e affidata a reparti alleati in attesa di una definitiva soluzione del problema. Tale decisione esasperò gli ambienti nazionalisti al punto da indurre Gabriele D'Annunzio ad organizzare la cosiddetta marcia di Ronchi. Egli nella notte tra l'11 e il 12 settembre 1919, alla testa di un gruppo di volontari e di un consistente numero di ufficiali e soldati, partì da Ronchi, nel Friuli-Venezia Giulia per occupare Fiume, dove instaurò un governo provvisorio sotto il nome di reggenza del Carnaro ( nome del golfo omonimo) e proclamò l'annessione della città All'Italia. Di fronte a tale situazione Nitti dette palese prova di debolezza in quanto non assunse una ferma posizione né a favore né contro gli eventi di fiume, infatti sperava nella riapertura del tavolo delle trattative con le potenze. Le prime elezioni politiche del dopoguerra, nel novembre 1919, evidenziarono la crisi del liberalismo e sancirono il successo dei socialisti e dei cattolici. Nel giugno 1920 Nitti si dimise e il governo passò a Giolitti, più aperto alle rivendicazioni popolari. Anche Giolitti però ben poco poté fare a causa soprattutto del carattere organico della crisi liberale, manifestatasi nella sua fase più acuta proprio in quei difficili mesi, allorché sembrava che anche in Italia ci fossero tutte le condizioni per una rivoluzione socialista come quella che un paio d'anni prima si era affermata in Russia. Di qui una serie di scioperi a catena, di prolungate agitazioni di massa, che miravano al rinnovo del contratto salariale, al fine di adeguare gli stipendi all'aumento del costo della vita; gli industriali, dal canto loro, rifiutarono ogni concessione, trovandosi in difficoltà sia per i problemi derivanti dalla riconversione delle strutture, sia per le pesanti tasse imposte dal governo, sia infine per la resistenza opposta dalle banche alle loro richieste di prestiti. Ne derivò uno stato di gravissima tensione, che segnò il periodo culminante del biennio rosso, 1919 -1920. Di fronte alla decisione degli industriali di non concedere gli aumenti salariali, i lavoratori metalmeccanici del Nord aderenti al sindacato Fiom, (federazione impiegati operai metallurgici),e più in particolare quelli del triangolo industriale Torino-Milano-Genova, procedettero all'occupazione di oltre 600 fabbriche, metallurgiche, delle ferrovie, dei trasporti, i portuali di Genova e Savona. In molti stabilimenti l'attività lavorativa non venne interrotta e fu aumentata la produzione, volendo dimostrare che la fabbrica funzionava anche con una gestione collettiva. Nello stesso tempo si procedette ad una difesa delle strutture occupate contro una eventuale irruzione delle forze dell'ordine. La situazione era divenuta pertanto molto grave e avrebbe potuto sfociare in una guerra civile, se Giolitti non si fosse opposto alle richieste di tipo autoritario avanzate dagli industriali. Egli dette ordine alla forza pubblica di non assalire le fabbriche, ma al tempo stesso di non permettere l'uscita degli operai in armi dai luoghi di lavoro e di creare a scopo puramente difensivo assembramenti di truppe nei punti strategici della città. A quel punto però Giolitti cercò di risolvere la crisi attraverso un accordo perseguito tra il 12 e 20 settembre 1920 e raggiunto con la collaborazione dei sindacati. Così, dopo ben 7 settimane di lotta, la vertenza poté considerarsi conclusa con insoddisfazione di tutti. Gli industriali ritennero di avere subito una grave disfatta, avendo dovuto non solo accettare il progetto di un controllo operaio sulle aziende, progetto di legge che poi verrà accantonato, ma anche prendere atto dell'atteggiamento assunto dal governo, considerato troppo favorevole allo spirito rivoluzionario delle masse. Infatti Giolitti obbligò gli industriali a concedere dei miglioramenti salariali. Gli operai dal canto loro, condizionati dai mancati rifornimenti di materie prime, abbandonati dai tecnici e dagli ingegneri e guidati con poca chiarezza di obiettivi dalla direzione dei sindacati e del partito socialista, si erano trovati nell'impossibilità di autogestire le fabbriche e avevano quindi dovuto rinunciare all'occupazione. A uscire provato dall'intricata situazione fu anche Giolitti, che si trovò sommerso da una valanga di accuse provenienti da ogni parte. A confortare il vecchio statista intervenne però la soluzione della questione di Fiume. Egli infatti per mezzo del ministro degli esteri Carlo sforza, aveva preso già da tempo contatti con la Jugoslavia. Il 12 novembre 1920, con la firma del trattato di Rapallo, Italia ottenne la città di Zara, (oggi in Croazia), le isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa, mentre Fiume venne dichiarata città libera, cioè non appartenente né alla sovranità italiana a quella jugoslava; la restante parte della Dalmazia fu invece sottoposta alla Jugoslavia. Di fronte a tale iniziativa diplomatica, D'Annunzio e i suoi seguaci dovettero lasciare la città, il 18 gennaio 1921. In tutta questa vicenda Mussolini ebbe un atteggiamento ambiguo. Egli infatti, dopo aver dichiarato nel 1919 che il vero governo risiedeva non a Roma bensì a fiume, nel 1920 riconobbe "l'inevitabile logica di Rapallo". Che cosa era avvenuto di tanto rilevante da determinare un'imprevedibile voltafaccia? Mussolini aveva fiutato il cattivo tempo e con realismo politico aveva evitato di mettersi fuori dalla legalità. Infatti i conservatori non l'avrebbero mai seguito sulla via dell'impresa fiumana, che avrebbe implicato tra l'altro una rottura delle alleanze e delle amicizie dell'Italia con le potenze dell'intesa. La pista da battere rimaneva per Mussolini quella della lotta contro il socialismo e le forze dei nuovi partiti di massa, che avevano messo in crisi il vecchio assetto economico e sociale del paese. Solo ponendosi su tale via, egli avrebbe potuto trovare consensi e collegamenti necessari alla sua ascesa politica. Con tutto ciò non va dimenticato che fu proprio Mussolini nel 1924, nella sua qualità di capo del governo, ad affrontare di nuovo la questione ed avviare la soluzione con un accordo siglato a Roma, in base al quale veniva accettata l'annessione di Fiume all'Italia, fatta eccezione per il sobborgo di Susak assegnato alla Jugoslavia e trasformato nel vero porto della città. Giorni ancora più travagliati e difficili erano comunque alle porte. I Liberali non esercitavano più un ruolo di primo piano, proprio mentre il fascismo diventava di giorno in giorno sempre più aggressivo nei confronti dei socialisti, intensificando gli atti di violenza ai danni delle sedi di partito, delle cooperative e delle leghe operaie. Nel frattempo all'interno del partito socialista Italiano il divario tra riformisti e massimalisti da una parte e la corrente comunista dall'altra si accentuò al punto da rendere inconciliabili due diversi modi di intendere il partito. Ne derivò una situazione di rottura, che finì per condurre il partito socialista Italiano ad una scissione: nel corso del congresso socialista di Livorno, infatti, la minoranza di estrema sinistra dette vita, il 21 gennaio 1921 al partito comunista, in origine partito comunista d'Italia. Intanto il governo assisteva pressoché indifferente al diffondersi della violenza fascista, considerandola non pericolosa per la stabilità delle istituzioni. Per risanare il bilancio statale,Giolitti pose mano ad alcune riforme importanti, tese ad aumentare la pressione fiscale sui ceti ricchi: il che accentuò il malumore delle destre, rendendo sempre meno stabile la posizione del presidente del consiglio il quale decise di ricorrere allo scioglimento anticipato delle camere e di indire nuove elezioni nel maggio 1921. A tale scopo i giolittiani costituirono un'alleanza elettorale con nazionalisti e fascisti, il blocco nazionale, sulla base del comune obiettivo di sconfiggere i partiti di massa. I risultati usciti dalle urne non premiarono i liberali con l'auspicata maggioranza, ma consacrarono invece l'ascesa del fascismo al parlamento con ben 35 deputati eletti: tra essi lo stesso Mussolini, il quale nel corso di un congresso tenuto a Roma dal 7 all'11 novembre 1921 riusciva a far votare un ordine del giorno per la trasformazione del movimento in partito nazionale fascista. La metamorfosi era ormai completata: sorto come realtà ambigua, ma comunque aperta a sollecitazioni e tematiche socialiste, il fascismo si era ormai schierato su posizioni di difesa a oltranza degli interessi borghesi e della proprietà privata, di opposizione violenta nei confronti di tutti coloro che avevano tentato di far progredire il movimento dei lavoratori nelle campagne e nelle città. Le ragioni del crescente successo del nuovo partito vanno ricercate nel comportamento dei ceti medi, ma soprattutto della piccola borghesia che, non protetta dalle organizzazioni sindacali come lo era il proletariato e del tutto indifesa nei confronti dello strapotere economico della grande borghesia, tendeva a rivendicare un proprio spazio vitale. Nel generale turbamento dello stato, i fascisti finirono però per trovare il sostegno anche della grande borghesia agraria e industriale, convinta di poter strumentalizzare il movimento in senso antisocialista e quindi di poterlo facilmente liquidare. D'altra parte, la grande borghesia e i ceti medi erano tenuti insieme soprattutto dall'impressione suscitata dagli avvenimenti del settembre 1920: l'occupazione delle fabbriche era apparsa loro come un attentato alla proprietà privata, come un chiaro segno di sovvertimento dell'ordine costituito, come un nuovo passo verso la conquista del potere da parte della classe operaia. L'Elemento decisivo per un radicale mutamento della situazione politica erano state le elezioni del maggio del 1921, che avevano sancito l'ascesa del fascismo e determinato la caduta del governo Giolitti, accusato dalle destre di troppa remissività nei confronti dei rossi e di ostilità nei riguardi delle classi più elevate, sulle quali egli aveva fatto ricadere una maggiore pressione fiscale. Una volta ottenuta nelle elezioni del maggio del 1921 una patente di rispettabilità con l'ingresso in parlamento e verificatosi la caduta del governo Giolitti, Mussolini, dette via libera alle squadre d'azione. Il movimento fascista intrapreso la strada della violenza. Finanziato, armato rifornito di mezzi dai grandi proprietari terrieri, il fascismo si organizzò in squadre d'azione che avevano l'obiettivo di smantellare l'organizzazione politica e sindacale di matrice socialista e cattolica. Furono bruciati tipografie di giornali e sedi di riunione. I membri di queste bande armate vestivano la camicia nera, indossata durante la guerra dai reparti d'assalto del nostro esercito, avevano come distintivo il fascio littorio ed erano muniti di corti bastoni ferrati, i manganelli, simbolo di una violenza che avrebbe assicurato loro la giustizia diretta. Loro preciso compito era quello di assalire e disperdere con la forza le associazioni socialiste e cattoliche e di mettere a tacere gli esponenti politici dei partiti di sinistra. I membri delle squadre d'azione erano appartenenti ai ceti medi piccolo borghesi ed erano giovani o adolescenti. Di fronte a tale tendenza a farsi giustizia da sé e a creare un regime di terrore con la tecnica delle spedizioni punitive e delle manganellate, il nuovo governo Bonomi pensò di poter riservare ai fascisti una larga tolleranza, lasciando libero corso degli eventi, nella certezza di poterli frenare al momento opportuno. Questa volta però commetteva un grosso errore, non rendendosi conto che le forze fasciste non erano destinate a rientrare nella legalità: esse trovavano valido sostegno economico non soltanto presso l'alta borghesia, ma anche presso gli esponenti della classe politica liberale, nonché presso gli organi dello Stato come prefetture e questure e dell'esercito, ma soprattutto presso quei settori della piccola e media borghesia che più temevano l'eversione rossa.Le forze dell'ordine non intervennero per difendere le vittime degli squadristi, anzi i fascisti erano preziosi alleati che riportavano la pace sociale e rimettevano le masse al loro posto.