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I Fasci di combattimento

Il 23 marzo del 1919 nasce a Milano, in piazza San Sepolcro, per opera di
Benito Mussolini, il movimento dei Fasci di combattimento, nucleo
originario di quello che sarà poi il movimento fascista. Erano presenti
all’incontro reduci della prima guerra mondiale, membri del corpo militare
degli arditi, ex repubblicani, sindacalisti rivoluzionari, futuristi (tra cui
Marinetti), nazionalisti. Punto di riferimento del movimento era “Il Popolo
d’Italia”, il giornale interventista di cui Mussolini era direttore già nel corso
del conflitto.Il fascismo delle origini era estremamente composito e al suo
interno è possibile ritrovare elementi ideologici e programmatici che
provenivano dal nazionalismo (il mito della guerra, l’idea della vittoria
mutilata, la giustificazione della violenza politica, l’antisocialismo),
rivendicazioni tratte dal radicalismo democratico e repubblicano che
avevano come proprio bersaglio le istituzioni dell’Italia liberale
(l’abolizione del Senato di nomina regia, il suffragio universale maschile e
femminile, la fine della monarchia e la proclamazione della Repubblica),
spunti anticapitalistici (imposta progressiva sul capitale, sequestro
dell’85% dei profitti di guerra), e anticlericali (il sequestro di tutti i beni
delle congregazioni religiose), e rivendicazioni sociali tratte dal
sindacalismo e dal partito socialista, di cui lo stesso Mussolini aveva fatto
parte fino al 1914 (giornata lavorativa di otto ore, abbassamento di dieci
anni dell’età di pensionamento dei lavoratori).Si trattava di un programma
confuso ed ecclettico il cui unico filo conduttore era la contestazione di
tutte le istituzioni dell’Italia dell’epoca, quelle liberali, borghesi,
parlamentari, quelle ecclesiastiche, economiche, partitiche, un programma
del resto che verrà poi nella maggior parte dei suoi punti rinnegato
nell’evoluzione successiva del movimento fascista.Ciò che non verrà invece
mai abbandonato dal movimento fascista è il fascino per l’azione esemplare
contrapposta alle lungaggini del confronto parlamentare e delle
negoziazioni tra le forze sociali, un fascino che trasferiva nella vita politica
l’esperienza dell’interventismo di Mussolini e dei nazionalisti e della prima
guerra mondiale mitizzata dai reduci.Da qui il bisogno di differenziarsi dal
sistema dei partiti e dalle modalità del confronto politico da loro utilizzate
e di caratterizzarsi come movimento dal basso, forza sociale “antipartito”,
forza in grado di connettersi immediatamente con il sentire delle masse
popolari e in grado di rinnovare la politica nelle sue forme ancor prima che
nei contenuti.E tra le forme dell’azione esemplare realizzate dal
movimento fascista vi era l’azione politica violenta diretta contro le
istituzioni dello stato e contro i partiti “antinazionali”, primo fra tutti il
partito socialista che non riconosceva il sacrificio che il popolo italiano
aveva compiuto nel corso della guerra. Non è un caso che la prima azione
realizzata dal movimento fascista il 15 aprile 1919 sia stata la devastazione
e l’incendio dell'”Avanti”, il giornale del partito socialista.Il movimento dei
Fasci di combattimento era un movimento minuscolo ai suoi esordi, seguito
da pochi reduci di guerra, qualche studente, esponenti della piccola
borghesia delusi dalle conseguenze del conflitto e militanti politici che non
si riconoscevano o erano stati espulsi dagli altri partiti. Alle elezioni del
1919 il movimento fascista, a Milano, la città che lo aveva visto nascere,
prese solo 4657 voti. Nell’arco di soli tre anni il movimento fascista riuscirà
a organizzare la sua “Marcia su Roma” e Mussolini a farsi nominare capo
del governo dal sovrano.

Il partito socialista italiano


Il Partito socialista italiano ebbe un’enorme crescita nel primo dopoguerra
che lo portò ad essere il primo partito italiano alle elezioni del 1919 (con il
32% dei voti).Il partito era fortemente scisso al proprio interno tra anime
con prospettive politiche distanti tra loro. Esisteva una componente
riformista, guidata da Turati, il fondatore del partito, favorevole al
miglioramento delle condizioni di vita delle classi popolari attraverso
riforme, ben rappresentata all’interno del parlamento e con un grande
seguito nel mondo sindacale e delle cooperative, ma ormai minoritaria nel
partito.Esisteva una componente massimalista, guidata dal direttore
dell'”Avanti” Giacinto Menotti Serrati, diventata maggioritaria nel partito
nei primi anni del Novecento e cresciuta ulteriormente in seguito alla
Rivoluzione russa. Tale componente, che si rifaceva a un’interpretazione
ortodossa del pensiero di Marx, si poneva l’obiettivo “massimo” del
socialismo, la costruzione dello Stato socialista. Nonostante il suo
radicalismo tale gruppo politico non aveva saputo però ideare una
strategia rivoluzionaria che fosse coerente con i suoi obiettivi, come invece
avevano saputo fare i bolscevici in Russia, e più che preparare la
rivoluzione la aspettava: aspettava che il sistema capitalista mostrasse le
proprie contraddizioni, che nelle masse popolari maturasse una coscienza
e un’organizzazione di classe e che maturassero in questo modo i tempi per
il passaggio al socialismo. In polemica con questa impostazione si
formarono all’interno del partito dei gruppi di estrema sinistra composti
prevalentemente da giovani che si battevano per un impegno
rivoluzionario più deciso e concreto e per una più stretta adesioni ai
metodi e alle strategie dei bolscevici russi. Questo gruppo politico era
particolarmente forte a Torino dove trovava un proprio punto di
riferimento nella figura di Antonio Gramsci e nella rivista “Ordine nuovo” e
a Napoli dove era guidato da Amedeo Bordiga. Nel gennaio 1921 questo
gruppo politico uscirà dal partito socialista per dare vita al Partito
comunista d’Italia. Nonostante il Partito socialista fosse il primo partito
italiano, per le sue posizioni massimaliste, riteneva impensabile l’idea di
sostenere un governo insieme ai liberali e ai popolari e pertanto si
autorelegò all’opposizione lasciando che a guidare il paese fossero gli altri
partiti.Il suo radicalismo rivoluzionario, per quanto esercitato solo a
parole, spaventò però la piccola e media borghesia italiana, spingendola a
votare per partiti conservatori. La sua sostanziale opposizione alla prima
guerra mondiale, d’altra parte, e l’internazionalismo che gli impediva di
perseguire logiche “nazionali”, fornirono poi ai gruppi nazionalisti
argomenti per ergersi a difensori dei “valori della vittoria” e degli interessi
della nazione raccogliendo in questo modo i propri consensi e
contribuendo al diffondersi di un sentimento antisocialista presso la
borghesia italiana.

Il partito popolare
Nel gennaio del 1919 viene finalmente fondato il partito dei cattolici
italiani, il Partito popolare. Viene in questo modo definitivamente superato
il divieto ai cattolici di partecipare alla vita politica nazionale voluto dal
Papa Pio IX sin dall’unità d’Italia. Il mondo cattolico, il papa e le gerarchie
ecclesiastiche speravano in questo modo di contenere il diffondersi delle
idee socialiste presso i ceti operai e contadini nel periodo dell’allargamento
del suffragio e della rivoluzione socialista in Russia. Fondatore e primo
segretario del partito è don Luigi Sturzo, prete siciliano impegnato sin dagli
anni Novanta dell’Ottocento nella promozione delle organizzazioni dei
contadini siciliani, profondo conoscitore dei problemi del mondo agrario
meridionale. Per quanto don Sturzo abbia rivendicato il carattere
aconfessionale del partito (cioè il fatto che il partito non dovesse essere
immediatamente identificato con la religione cattolica) e abbia cercato di
far mantenere al partito una sua autonomia rispetto alle gerarchie
ecclesiastiche, esso era fortemente legato alla chiesa. La sua linea politica si
ispirava alla dottrina sociale della chiesa e la sua struttura organizzativa si
basava sulle organizzazioni di base del mondo cattolico (parrocchie,
cooperative, leghe contadine). Il Partito popolare era un partito
democratico (favorevole al suffragio universale maschile e femminile e al
sistema proporzionale), popolare (su posizioni socialmente avanzate
rispetto ai problemi del mondo contadino ed operaio), di massa (dotato,
come il partito socialista, di una presenza capillare nella società italiana
grazie alla rete delle organizzazioni del mondo cattolico). Il fatto che fosse
un partito di massa non significa che fosse un partito delle classi lavoratrici
in contrapposizione alle classi sociali più alte. Anzi, una delle
caratteristiche più importanti del partito popolare è la sua natura di partito
interclassista, in aperta contrapposizione alla visione classista del partito
socialista. Ispirandosi alla dottrina sociale della chiesa cattolica il partito
popolare condannava infatti la lotta di classe e auspicava una società in cui
fosse presente un’armonia tra le classi sociali sulla base di una visione
corporativa dello stato. E’ proprio la sua natura di partito interclassista a
far sì che all’interno del Partito popolare fossero presenti forze sociali
provenienti dal mondo del lavoro ma anche forze sociali provenienti dal
mondo dell’impresa e accanto a figure progressiste, esponenti
conservatori. Tra i principi fondamentali del Partito popolare vi era l’idea
che lo stato dovesse rispettare e promuovere l’iniziativa degli organismi
naturali della società (quali la famiglia, l’associazionismo, i comuni e in
generale le istituzioni politiche decentrate), che esso sia la cornice
all’interno della quale possano svilupparsi e vengano garantite le
fondamentali libertà personali e sociali. Conseguentemente il programma
del Partito popolare prevedeva: la tutela della famiglia, la difesa
dell’istruzione privata delle scuole cattoliche dalla tendenza al monopolio
dell’istruzione della scuola pubblica, la difesa dei diritti della chiesa nei
confronti del laicismo dello stato, il rafforzamento della piccola proprietà
(con riferimento alla piccola proprietà agricola), il decentramento
amministrativo, il voto alle donne, la riforma elettorale in senso
proporzionale. Grazie alla rete di associazioni del mondo cattolico e
all’appoggio della chiesa il Partito popolare ebbe un immediato successo.
Venne fondato nel gennaio del 1919 ma già nelle elezioni di novembre
1919 ottenne il 20% dei consensi. La base sociale del Ppi si trovava
soprattutto nei contadini e nei ceti medi delle città , mentre gli operai
votavano prevalentemente socialista. Il Partito popolare nasceva con un
carattere fortemente antisocialista. Questo non gli impedì di formare delle
alleanze locali con i socialisti per governare nei comuni. A livello nazionale
invece, dove gli aspetti pragmatici tipici dell’amministrazione di un
comune hanno meno rilevanza e l’ideologia dei partiti conta maggiormente,
un’alleanza tra socialisti e i popolari era più difficile e di fatto non si
verificò fino all’avvento del fascismo al potere e allo scioglimento dei due
partiti. A partire dalle elezioni del 1919 i cattolici avevano ormai una loro
forza politica autonoma e non portavano più voti ai liberali come avevano
fatto in passato (per esempio nelle elezioni del 1913 col patto Gentiloni).
Nasceva così un nuovo partito di massa, una forza politica autonoma con
un proprio preciso programma. Anche questo contribuì a porre in crisi il
potere dei liberali.

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