Storia e interpretazione Storia Contemporanea Università degli Studi di Milano 22 pag.
Document shared on www.docsity.com
Downloaded by: ivanmasci (ivanmasci00@gmail.com) EMILIO GENTILE – FASCISMO: STORIA E INTERPRETAZIONE INTRODUZIONE La storia del fascismo è sicuramente singolare. Varie e spesso contrastanti sono le interpretazioni del fascismo. In particolare, si discute se sia stato un movimento autonomo o strumento di altre forze, se fu moderno o antimoderno, se fu autoritario o totalitario, fenomeno italiano o universale. Non c’è accordo neppure sulla collocazione del fascismo nel tempo e nello spazio: si discute ancora su dove e quando è nato; se è stato un fatto unicamente italiano oppure universale; se si deve parlare di “fascismo” oppure di “fascismi”, se c’è stata una “epoca del fascismo”, cronologicamente definita, oppure se c’è un “fascismo eterno”. Alcuni si chiedono addirittura se tale fenomeno sia esistito o meno. La “defascistizzazione” del fascismo si manifesta in varie forme: negando, per esempio, che vi sia stata un’ideologia fascista, una cultura fascista, una classe dirigente fascista, un’adesione di massa al fascismo, un totalitarismo fascista e perfino un regime fascista. Dalla tendenza alla “defascistizzazione” del fascismo, viene emergendo una rappresentazione alquanto indulgente, se non proprio benevola, dell’esperienza fascista. La forma più diffusa di “defascistizzazione” del fascismo si manifesta con la riduzione del fascismo al mussolinismo, cioè alla vicenda politica del duce: secondo questa interpretazione gli iscritti al PNF e i sostenitori del fascismo, pur dichiarandosi fascisti, non erano veramente tali. Secondo Gentile, il fascismo può essere così definito: il fascismo è un fenomeno politico moderno, nazionalista e rivoluzionario, antiliberale e antimarxista, organizzato in un partito milizia, con una concezione totalitaria della politica e dello Stato, con una ideologia attivistica e antiteoretica, a fondamento mitico, virilistica e antiedonistica, sacralizzata come religione laica, che afferma il primato assoluto della nazione, intesa come comunità organica etnicamente omogenea, gerarchicamente organizzata in uno Stato corporativo, con una vocazione bellicosa alla politica di grandezza, di potenza e di conquista, mirante alla creazione di un nuovo ordine e di una nuova civiltà. Per Gentile, il fascismo è la via italiana al totalitarismo inteso non solo come nuova forma di regime politico ma anche processo ideologico, culturale, organizzativo e istituzionale.
CAPITOLO I – IL FASCISMO: UN PROFILO STORICO
LE ORIGINI DEL FASCISMO. Le origini del fascismo si innestano nel processo di crisi e trasformazione della società e dello Stato iniziato negli ultimi decenni dell’800 con l’avvio dei processi di industrializzazione e modernizzazione, accompagnati da fenomeni di mobilitazione sociale che coinvolsero proletariato e ceti medi e diedero impulso alla politicizzazione delle masse. Motivi politici e culturali che contribuirono alla sua formazione sono presenti in movimenti radicali di destra e sinistra come nazionalismo, il sindacalismo rivoluzionario, il futurismo; questi condividevano mito della volontà di potenza, antiparlamentarismo, politica come attività per plasmare le masse, apologia della violenza e dell’azione diretta. Nella formazione del fascismo confluì anche il retaggio, più o meno spurio, di temi, ideali e miti, che emersero dalla contestazione antigiolittiana di gruppi intellettuali appartenenti soprattutto alla piccola borghesia, i quali volevano abbattere l’ordine esistente, con una guerra o una rivoluzione, vagheggiando la rigenerazione morale e culturale degli italiani in uno Stato più moderno ed efficiente, fondato su un più alto grado di integrazione fra governanti e governati. A essi si affiancarono gli intellettuali nazionalisti. Tutto questo porta all’interventismo, sulla scia dell’italianismo. Se è vero che la cultura antigiolittiana e i movimenti radicali di destra e di sinistra, esistenti in Italia prima della guerra mondiale, contribuirono alla formazione del fascismo, non è storicamente corretto definirli di per sé come forme di “protofascismo” o addirittura di un fascismo ideologico, né è vero che i ceti borghesi volevano intraprendere già prima della guerra la strada della reazione antiproletaria. Le condizioni per la nascita e il successo del fascismo furono portate dal conflitto mondiale e dagli sconvolgimenti economici, sociali, politici, culturali e morali che essa portò e che
Document shared on www.docsity.com
Downloaded by: ivanmasci (ivanmasci00@gmail.com) accelerarono la crisi dello stato liberale. L’esasperazione nazionalistica per il mito della “vittoria mutilata”, l’entusiasmo delle masse operaie e contadine per la rivoluzione bolscevica, provocarono la radicalizzazione e la brutalizzazione della lotta politica, che esplose con episodi di vera e propria guerra civile, travolgendo il quadro istituzionale tradizionale e creando una profonda crisi di potere, di autorità e di legittimità. Lo stato liberale fu incapace di far fronte alle rivolte del biennio rosso. Dal 1919 al1922 si succedettero governi deboli che minarono ulteriormente la fiducia nello stato liberale. Con le elezioni del 1919 si sancisce la fine del liberalismo. MUSSOLINI. Classe 1883, di origini contadine e militante socialista, Mussolini si distingue al congresso del partito socialista nel 1912 come uno dei capi dell’ala rivoluzionaria, anche grazie alle sue doti di oratore brillante e affascinante e alla sua personalità originale. All’inizio della Grande Guerra si schiera a favore della neutralità, salvo poi cambiare idea ritenendo la guerra uno strumento per porre fine all’imperialismo degli imperi centrali. Espulso dal partito socialista, si converte al nazionalismo, rivoluzionario, che affermava il primato della nazione sulle classi, e combatteva i fautori di una rivoluzione socialista sostenendo la vitalità del capitalismo produttivo e la necessità della collaborazione di classe per accrescere la ricchezza e la potenza della nazione. IL FASCISMO DICIANNOVISTA. In origine il termine fascio era usato comunemente per intendere un’associazione priva di una struttura di partito. Nel caso dei fasci di combattimento si intende un’associazione di tipo nuovo, l’antipartito, formato da spiriti liberi di militanti politici che rifiutavano i vincoli dottrinari e organizzativi di un partito. 23 marzo 1919: nasce il Movimento dei Fasci di Combattimento fondato a Milano da Benito Mussolini. Si trattava di un movimento antidogmatico, pragmatico, anticlericale, repubblicano, propone riforme sociali ed economiche radicali; è sostenuto da poche centinaia di ex socialisti, arditi, sindacalisti. I fascisti disprezzavano il Parlamento e la mentalità liberale, esaltavano l’attivismo delle minoranze, praticavano la violenza e la politica della piazza per sostenere le rivendicazioni territoriali dell’Italia e per combattere il bolscevismo e il Partito socialista. Inizialmente era un’organizzazione marginale, con pochi iscritti, perciò cambiò il proprio programma orientandosi più a destra, come difensore della borghesia produttiva. UN MASSIMALISMO DI CETI MEDI: LO SQUADRISMO E LA NASCITA DEL PARTITO FASCISTA. 21 novembre 1920: con il declino del Partito socialista, la borghesia e i ceti medi, convinti di non essere più tutelati dal governo, organizzano forme di autodifesa per riaffermare i diritti della proprietà e il primato dell’ideologia nazionale contro il “pericolo bolscevico”. Nasce ufficialmente il fascismo agrario, squadre armate che andavano a colpire sedi ed esponenti delle leghe rosse (che detenevano il controllo sul lavoro nelle campagne), appoggiate da proprietari terrieri e medi contadini che non si riconoscevano nelle lotte delle leghe indirizzate soprattutto ai braccianti. Il fascismo si presenta come difensore della borghesia produttiva e dei ceti medi, è patriottico e violento; lo squadrismo è massimalismo dei ceti medi e come tale fu la vera origine del fascismo come forza dominatrice della lotta politica, orientata consapevolmente verso la conquista del potere. All’inizio i sostenitori erano soprattutto membri della borghesia agraria, ma ben presto la maggior parte degli iscritti e dei sostenitori proveniva dai ceti medi, allora un gruppo in crescita nella società italiana. Maggio 1921: il movimento partecipa alle elezioni inserito nei Blocchi Nazionali con i liberali di Giolitti e ottiene 35 seggi. Giolitti sperava di porre fine agli attacchi illegali dello squadrismo inserendo il movimento in Parlamento, ma dopo la parziale vittoria Mussolini riacquista subito la sua libertà d’azione. Nell’agosto dello stesso anno stringe un patto di pacificazione con i socialisti per riottenere l’appoggio della borghesia che ormai vedeva negativamente le azioni squadriste e per far valere la sua autorità sui fascismi provinciali (con lo scopo di trasformare il movimento in partito sotto la sua guida). I ras Balbo, Farinacci e Grandi però contestano questa nuova linea. Novembre 1921: nasce il Partito Nazionale Fascista (il cui segretario è Bianchi) che incorpora le squadre come parte essenziale dell’organizzazione e del metodo di lotta e concepisce la militanza come dedizione totale, culto della patria, cameratismo, gerarchia. L’ideologia fascista era espressa
Document shared on www.docsity.com
Downloaded by: ivanmasci (ivanmasci00@gmail.com) attraverso riti e simboli, come fosse una religione laica. Nonostante la critica al materialismo borghese, i fascisti si schierano a favore della proprietà privata, del corporativismo (collaborazione di classe) e del produttivismo in vista di una politica di potenza e di espansione. L’obiettivo estero era il risarcimento per la vittoria mutilata e l’imperialismo coloniale. Il fascismo esaltava la giovinezza, e con essa la rivolta generazionale insita nelle sue azioni, in contrapposizione ai vecchi politici liberali e agli “animali” socialisti. Nel 1922 il partito aveva oltre 200.000 iscritti, oltre alla milizia e a un sindacato con mezzo milione di aderenti: il PNF era la più forte organizzazione politica del paese. I fascisti proclamavano apertamente la loro volontà di diventare la nuova classe dirigente perché si consideravano la nuova aristocrazia formata da giovani che avevano conquistato nelle trincee il diritto al comando. Il Partito fascista non nascondeva la sua avversione per la democrazia e per lo Stato liberale, di cui considerava finito il compito, e si accingeva a prendere il potere minacciando nessuno spazio di azione per gli avversari. VERSO LO STATO TOTALITARIO. Gli antifascisti sottostimano la forza del fascismo e la sua volontà di conquistare il potere, e per risolvere il problema posto dalle azioni fasciste propongono a Mussolini di entrare in un governo di coalizione. Il duce pare accettare il compromesso e il partito assume una nuova posizione: rispetta la monarchia e l’esercito, la religione cattolica, appoggia la politica liberista a favore del capitale privato e si pone l’obiettivo di restaurare l’ordine e la disciplina. La marcia su Roma (27-28 ottobre 1922) fu usata come arma di pressione e ricatto sul governo e sul re per indurlo a cedere al fascismo. Mise in crisi i vertici dello stato, che non seppero rispondere con l’esercito, perciò il re accettò Mussolini come capo di un governo composto da popolari, nazionalisti e liberali. Esso ottenne la fiducia del parlamento, ma questo non basta a legittimarlo: per la prima volta il re aveva messo a capo del governo il capo di un partito armato e dichiaratamente antidemocratico. La marcia su Roma può essere considerata storicamente il primo passo verso la distruzione dello stato liberale e l’instaurazione dello stato totalitario, anche se la costruzione del nuovo stato non seguì un disegno istituzionale predeterminato. Nella prima fase, Mussolini attua una politica di coalizione con i partiti disposti a collaborare, allo stesso tempo agendo per disgregarli; si servì dei mezzi legali di repressione contro i partiti antifascisti e per controllare le amministrazioni locali. Nel 1923 nascono il Gran Consiglio del Fascismo, un organo del partito, e la Milizia per la Sicurezza Nazionale, che inquadra legalmente lo squadrismo. Poi Mussolini inizia a estendere il consenso verso il PNF anche al Sud, questo comporta una crisi del partito per l’alto numero di nuovi iscritti che mirano a incarichi pubblici. Questo, unitamente alla formazione di altri Fasci al Sud, spesso in contrasto con Mussolini, porta a ulteriori problemi di divisioni nel PNF. Per togliere al PNF qualsiasi autonomia istituisce il Gran Consiglio, organo di partito ma anche governo ombra. Mussolini mira anche a consolidare il suo potere con il compromesso con le istituzioni tradizionali, tra cui la Chiesa. Per rendere più solida la sua maggioranza parlamentare fa approvare la legge Acerbo, che gli dà un premio di maggioranza immenso alle elezioni successive. Contro i brogli elettorali si schiera Matteotti, che viene assassinato. Con la secessione dell’Aventino si apre un periodo difficile per il PNF, ma gli antifascisti non sanno sfruttare politicamente l’occasione e Mussolini rimane al potere grazie alla maggioranza parlamentare e ai fiancheggiatori. Con il discorso di Mussolini alla Camera, il 3 gennaio 1925, il fascismo diede inizio a una nuova fase di consolidamento e di ampliamento del proprio potere. Ristabilisce l’unità del PNF mettendo Farinacci come segretario, ma lo sostituisce perché il ras è diventato troppo potente. IL REGIME FASCISTA. La trasformazione del sistema politico italiano in un nuovo regime a partito unico avvenne attraverso una “rivoluzione legale”, con l’approvazione da parte del Parlamento dominato dai fascisti di un complesso di leggi autoritarie con le quali venne distrutto il regime parlamentare pur rimanendo apparentemente intatta la facciata della monarchia costituzionale. Queste leggi comportano l’abolizione della libertà di associazione, la messa fuori legge dei partiti antifascisti, il rafforzamento dei poteri esecutivi rispetto a quelli legislativi e
Document shared on www.docsity.com
Downloaded by: ivanmasci (ivanmasci00@gmail.com) l’imposizione di podestà di nomina governativa nelle amministrazioni comunali. Per contrastare il dissenso clandestino viene reintrodotta le pena di morte per i reati contro lo Stato e il regime e viene istituito un Tribunale speciale per giudicare in materia. Contro i sovversivi, alla polizia tradizionale si affianca la polizia segreta (Ovra). Viene istituito il collegio unico nazionale e i deputati vengono selezionati dal Gran Consiglio. Esso ottiene anche il potere di stilare una lista di futuri capi di governo e di intervenire nella successione monarchica. Per eliminare i contrasti all’interno del PNF, ora partito unico, viene abolita la democrazia interna e il PNF passa sotto il controllo esclusivo di Mussolini. La stabilità del regime aveva avuto origine nel compromesso tra fascismo e istituzioni tradizionali, ma si basava soprattutto su un apparato poliziesco e sul crescente consenso, anche degli intellettuali. Un grande successo furono il concordato con la Chiesa nel 29 e le elezioni plebiscitarie, che fascistizzarono Camera e Senato. nell’opera di demolizione dello Stato liberale e di costruzione dello Stato totalitario, il fascismo non incontrò alcuna seria opposizione da parte delle istituzioni tradizionali. La monarchia, le forze economiche, la maggioranza degli intellettuali e dell’opinione pubblica borghese accettarono la demolizione del regime liberale senza proteste né rimpianti, e, considerando i cospicui vantaggi assicurati loro dal potere fascista, si adattarono a vivere nel nuovo regime che imponeva ordine e disciplina nella società e nel mondo del lavoro. Vennero aboliti i sindacati, tranne quelli fascisti, e venne istituita la Magistratura del lavoro per risolvere i conflitti tra lavoratori e datori di lavoro. L’indebolimento del sindacalismo fascista, a vantaggio dei datori di lavoro, fu solo in parte compensato dalla politica sociale e assistenziale del regime (contratti collettivi, provvedimenti per fronteggiare la disoccupazione, assicurazioni sociali, organizzazione del tempo libero attraverso l’Opera nazionale dopolavoro). La legge sindacale fu presentata come prima tappa verso l’attuazione dell’ordinamento corporativo. Negli anni Trenta il corporativismo fu esaltato come la risposta originale del fascismo alla crisi del sistema capitalista, in alternativa al comunismo, ma nella realtà l’ordinamento corporativo fu solo un nuovo apparato burocratico di scarsa funzionalità. il fascismo adottò una politica protezionista, ampliando in misura crescente, soprattutto dopo la crisi economica del 1929, il controllo pubblico sulla finanza e sull’industria, con iniziative come la costituzione dell’Istituto mobiliare italiano (1931) e dell’Istituto per la ricostruzione industriale (1933), che potenziarono l’interventismo statale nell’economia, ma al di fuori dell’ordinamento corporativo. ORGANIZZARE, MOBILITARE, PLASMARE. Queste erano le parole d’ordine del regime: il loro obiettivo era la creazione di un italiano nuovo, il cui credo fosse così espresso “credere, obbedire, combattere”. Negli anni 30 il regime assunse il carattere di una dittatura totalitaria, fondata sul Duce, sul partito unico e su una complessa rete organizzativa per l’inquadramento e la mobilitazione delle masse. La stampa viene fascistizzata e vengono create delle vaste campagne propagandistiche. Iil fascismo, però, rinuncia a imporre un’arte di Stato in letteratura, cosa che gli vale l’appoggio di molti intellettuali vecchi e nuovi. Vennero realizzate iniziative come la grande impresa editoriale della Enciclopedia italiana, l’istituzione dell’Accademia d’Italia e l’Istituto di cultura fascista. Il mito di Mussolini fu il fattore principale del consenso che la maggioranza degli italiani manifestò verso il regime, soprattutto negli anni fra il 1929 e il 1936. Il ruolo carismatico del duce ricevette un’esaltazione continua. Per l’educazione delle nuove generazioni il fascismo si servì della scuola, dove furono imposti la fascistizzazione dei libri di testo e il controllo sui docenti con giuramento di fedeltà al regime, e il partito, con le sue organizzazioni collaterali. Dalle nuove generazioni doveva uscire la nuova classe dirigente fascista, per cui spesso il fascismo entra in contrasto con la Chiesa sulla scuola. Le donne vengono considerate inferiori, il loro ruolo è quello di spose e madri, ma in quanto tali contribuiscono all’educazione delle nuove generazioni e alla produzione di figli e uomini nuovi per la patria. ACCELERAZIONE TOTALITARIA. Negli anni 30 il fascismo subì un’accelerazione totalitaria, cementata da alcuni provvedimenti: l’istituzione del ministero della Cultura popolare; la creazione della Gioventù italiana del Littorio; il rafforzamento delle prerogative e delle funzioni del Partito
Document shared on www.docsity.com
Downloaded by: ivanmasci (ivanmasci00@gmail.com) fascista; l’abolizionedella Camera dei deputati, che fu sostituita con la Camera dei fasci e delle corporazioni, l’istituzione della carica di Primo maresciallo dell’impero, conferita tanto a Mussolini quanto al re; nuovi provvedimenti di politica sociale a favore dei lavoratori e rilancio dell’attività e del ruolo dei sindacati. Nel 1938 vengono approvate le leggi antisemite. In realtà l’antisemitismo era stato condannato da Mussolini all’inizio degli anni 30, mentre sosteneva un razzismo dovuto al desiderio di rigenerare una razza italiana omogenea. Le leggi antisemite si devono alle crescenti connessioni con la Germania. L’accelerazione totalitaria fu vista positivamente dai giovani fascisti, ma suscitò preoccupazioni nelle istituzioni tradizionali, nel mondo cattolico ed economico. SULLA VIA DELL’IMPERO. La politica estera del fascismo, in un primo tempo, non tenne fede alle pretese di imperialismo e di costruzione di una comunità imperiale dominata da nazioni nuove, come Italia e Germania. In seguito, il fascismo si trasforma in un fenomeno internazionale con la comparsa di movimenti che gli somigliano non tanto per ideologie e scopi, ma piuttosto per la concezione militarizzata della politica, per l’attivismo rivoluzionario antidemocratico, per il culto della nazione e della razza. Con l’ascesa al potere di Hitler, ammiratore di Mussolini, si giunse a pensare che il continente fosse sull’orlo di una svolta epocale, che avrebbe portato al trionfo del fascismo e delle nazioni fascistizzate. In questo clima Mussolini avviò la campagna per la conquista di Etiopia, il cui successo alimentò il consenso degli italiani. DALL’APOTEOSI ALLA ROVINA. Inizialmente Mussolini mirava a mantenere buoni rapporti con le democrazie occidentali e vedeva Hitler come un folle esaltato. Con la guerra d’Etiopia, però, l’Italia si legò alla Germania nazista in seguito alle sanzioni della Società delle Nazioni, e il Patto d’Acciaio tra le due nazioni sancì il destino italiano. Il paese fu costretto a entrare in guerra dopo un iniziale tentativo di non belligeranza: inizialmente Mussolini mira a una guerra parallela, ma le ripetute sconfitte nel corso della guerra portarono alla subordinazione dell’Italia alla Germania nazista e di lì a poco al collasso del regime fascista. Il Gran Consiglio approvò l’arresto di Mussolini, a cui provvide il re. Gli Alleati invasero l’Italia e iniziarono la riconquista del paese dopo l’armistizio del 1943. LA REPUBBLICA SOCIALE. La Repubblica Sociale di Salò, fondata dai tedeschi dopo la liberazione di Mussolini nel Nord Italia, con la fuga del re al Sud e l’armistizio con gli Alleati, segnalò la spaccatura dello stato unitario italiano e l’inizio della guerra civile. la RSI fu un insieme di stituzioni contrastanti dominate dalla Germania, a cui si unirono giovani ispirati dai miti del fascismo, militari e intellettuali, ispirati da patriottismo, fedeltà a Mussolini o dall’ideologia. Il fascismo repubblicano rispolvera l’anticapitalismo e inasprisce le leggi antisemite e le deportazioni degli ebrei. Il suo crollo avviene il 25 aprile 1945 con la definitiva liberazione del paese dai tedeschi e l’uccisione di Mussolini. Dopo la fine della guerra, il mito del fascismo repubblicano, mescolato alla nostalgica esaltazione dell’esperienza fascista, fu, in larga parte, la matrice di vari movimenti neofascisti, che si costituirono e vissero, con varia fortuna, nell’Italia repubblicana.
CAPITOLO II – IL FENOMENO FASCISTA, INTERPRETAZIONI A CONFRONTO
LA QUESTIONE DEL FASCISMO. La questione del fascismo, ossia l’insieme dei problemi e delle interpretazioni che il fenomeno ha suscitato, è stata particolare oggetto di studio di una vasta gamma di studiosi negli ultimi decenni, in particolare in Italia e in Germania. In molti altri paesi si svilupparono movimenti ispirati al fascismo che costituirono una vera minaccia alla democrazia. Una delle domande insite nella questione del fascismo è proprio come è possibile che in paesi industrializzati e democratici si sia avuta una svolta come quella posta da movimenti fascisti. Nel linguaggio politico corrente il termine “fascismo” è universalmente adoperato in senso spregiativo come sinonimo di destra, contro-rivoluzione, reazione, conservatorismo, autoritarismo, corporativismo, nazionalismo, razzismo, imperialismo. INTERPRETAZIONI DEL FENOMENO FASCISTA. Inizialmente il fascismo venne interpretato come fenomeno essenzialmente italiano, risultato di secolari deficienze storiche e morali tipiche degli italiani. Solo in seguito, col diffondersi di movimenti nazionalisti in tutta Europa, il fenomeno
Document shared on www.docsity.com
Downloaded by: ivanmasci (ivanmasci00@gmail.com) venne interpretato come internazionale. La propaganda fascista faceva leva sull’avvento di una società fascistizzata. Marxisti e comunisti identificarono per primi il fascismo con la reazione armata della borghesia all’avanzata del proletariato. La cultura liberale ha invece attribuito l’affermazione del fascismo “malattia morale” all’imbarbarimento della società e all’irrazionalismo culturale dovuti alla prima guerra mondiale. Interpretazioni radicali democratiche hanno visto il fascismo come una patologia storica tipica di paesi giunti tardi all’unificazione nazionale e pertanto legati a una tradizione di autoritarismo che aveva impedito l’assimilazione di valori e istituzioni della moderna coscienza liberale. Altri studiosi hanno accostato il fascismo al comunismo, accomunandoli sotto la categoria del “totalitarismo”, cioè di un nuovo sistema di dominio politico, fondato sul partito unico, su un’ideologia integralista, sul terrorismo, sulla mobilitazione demagogica delle masse, sul culto idolatrico del “capo” e sulla volontà di controllo totale, materiale e spirituale, della società. FASCISMO E FASCISMI NELLA STORIOGRAFIA. I due orientamenti di studio del fascismo hanno provato a concentrarsi l’uno sugli elementi del “fascismo generico” come tipo ideale (Weber) e l’altro, storiografico, sui singoli movimenti, con al centro i movimenti-regimi, o fascismi paradigmatici (fascismo italiano e nazismo), contornati da “protofascismi”, “parafascismi”, “pseudofascismi” e movimenti “fascistoidi” (movimenti senza regime, o che parteciparono al potere con altre forze, o ancora stroncati dai governi autoritari, come la Guardia di ferro in Romania), sebbene la rivendicazione della diversità dei singoli movimenti impedì la creazione di una “internazionale fascista”. I “fascismi”, inoltre, si differenziarono per diversità di tradizioni storiche, di contesti nazionali, di vicende politiche, e per i differenti livelli di sviluppo economico, di modernizzazione e di mobilitazione sociale dei vari paesi. Mentre nell’Europa centrale e occidentale i movimenti “fascisti” reclutarono il loro seguito soprattutto fra i ceti medi, nell’Europa orientale fu molto più consistente la componente popolare contadina e operaia. A livello ideologico, l’antisemitismo fu fondamentale nel nazismo e nei movimenti “fascisti” dell’Europa orientale, mentre fu marginale nel fascismo italiano. Se la costruzione di una teoria generale del fascismo nella storiografia risulta complicata a livello di movimento, non appare più semplice elaborarla a livello di regime. Da più parti sono stati avanzati dubbi sulla validità storiografica del concetto del totalitarismo, come categoria unificante esperienze storiche, politiche e ideologiche sostanzialmente differenti, come il fascismo, il nazismo e il comunismo, ed è stata anche messa in dubbio la natura totalitaria del regime fascista italiano. Alcuni studiosi sostengono la tesi di un fascismo internazionale (alla base c’è una natura classista di reazione borghese), altri dicono che la diversità dei vari fascismi deve essere inquadrata nella storia del nazionalismo emerso durante il processo di crisi e trasformazione dello stato (dalla rivoluzione francese fino all’avvento della modernizzazione). IL DIBATTITO ITALIANO SUL FASCISMO ITALIANO. Se fino agli anni 60 gli studi sul fascismo si erano limitati al periodo delle origini, con De Felice ci fu una prima distinzione tra fascismo-movimento, animato da ideali di rinnovamento, e fascismo-regime, conservatore e tradizionalista, frutto del compromesso tra Mussolini, istituzioni e ceti dominanti. Egli colloca il fascismo nella corrente del totalitarismo di sinistra originata dal giacobinismo e trova grandi differenze tra fascismo e nazismo per le matrici e le componenti culturali e ideologiche, per il grado di «nazionalizzazione delle masse», per il ruolo del “capo” e del partito nella liturgia e nel sistema politico, e anche per i presupposti, gli orientamenti e gli obiettivi della politica estera. Queste tesi sono state variamente contestate, soprattutto da parte di chi, sulla scia della tradizionale interpretazione marxista, riduce il fascismo a un epifenomeno, a una «forma contingente» del potere borghese, insistendo sulla continuità sostanziale fra regime liberale e regime fascista32. Più sensibili invece alle esigenze della nuova storiografia sono storici marxisti che, pur condividendo la prospettiva della continuità, in termini di dominio di classe, fra liberalismo e fascismo, ritengono tuttavia che il regime fascista sia un fenomeno nuovo rispetto al regime liberale. Togliatti lo
Document shared on www.docsity.com
Downloaded by: ivanmasci (ivanmasci00@gmail.com) definisce “regime reazionario di massa” tendenzialmente totalitario, fondato su un apparato poliziesco ma anche sull’organizzazione del consenso.
ORIENTAMENTI NUOVI NELLA STORIOGRAFIA CONTEMPORANEA.
Il fascismo può essere inteso come un movimento politico, sociale e culturale che si inserisce nei processi politici e sociali avviati in Europa dalla rivoluzione francese, nei conflitti e nelle tensioni della moderna società di massa e nella violenta accelerazione del processo di mobilitazione sociale e modernizzazione. È emersa una nuova concezione del fascismo come fenomeno dotato di individualità storica, non frutto del vizio di popoli peculiari, ma prodotto della società europea della Prima Guerra Mondiale, con la crisi sociale, politica ed economica che essa provocò. Infatti, il fascismo può anche essere inteso come forma nuova e inedita di nazionalismo rivoluzionario sorto dopo la grande guerra che derivavava la sua identità originaria dall’esperienza vissuta della guerra e dalla sua mitizzazione. Negli ultimi decenni il fascismo è stato sempre meno interpretato come fenomeno universale e sempre più analizzato nei singoli contesti in cui si è sviluppato. Nel tentativo di sviluppare una teoria generale del fascismo, sono state evidenziate caratteristiche comuni derivanti dalla situazione storica in cui i vari movimenti sorsero. Dei due orientamenti principali, uno si è concentrato sulla dimensione ideologica, soffermandosi sugli elementi fondanti del fascismo: il mito della giovinezza artefice di storia, l’ideologia a carattere anti-ideologico e anti-individualista, la religione laica istituita in funzione del processo di acculturazione e integrazione dell’unità organica e mistica della nazione (vista come comunità etnica e morale che perseguita le razze inferiori e pericolose; l’altro orientamento ha invece incluso la dimensione organizzativa del partito, definito un movimento di massa con integrazione interclassista, ma in cui prevalgono, nei quadri dirigenti e nella massa dei militanti, i ceti medi (che si considerano investiti di una missione di rigenerazione da attuare attraVerso il terrore, la tattica parlamentare e il compromesso). Per quanto concerne la dimensione istituzionale del sistema politico, il partito unico provvedeva all’organizzazione delle masse, coinvolte in un processo pedagogico di mobilitazione permanente.
CAPITOLO III – IL FASCISMO: UNA DEFINIZIONE ORIENTATIVA
IL PROBLEMA DEL FASCISMO ALL’INIZIO DEL XXI SECOLO. Idee come la
defascistizzazione del fascismo o l’interpretazione del fascismo come fenomeno opposto al comunismo, amico-nemico del leninismo e comunismo imperfetto non aiutano a interpretare e a conoscere davvero il fascismo. Inoltre, la storiografia recente propone di analizzare il fascismo come fenomeno del Novecento, ma questo compito non è facile, in quanto il Novecento è il secolo delle due realtà, in cui il progresso e il miglioramento delle condizioni di vita si oppongono alla cruenza della guerra e agli stermini. IL SECOLO DEL FASCISMO? Il XX secolo è stato definito in molti modi: secolo delle ideologie, degli estremismi, del totalitarismo, della democrazia, del comunismo. Può anche essere definito il secolo del fascismo? Se guardiamo ai numerosi movimenti definiti fascisti in Europa allora potremmo dire che sì, il fascismo è stato un fenomeno tipicamente novecentesco. In realtà l’universalità storica del fascismo è incerta, mentre l’universalità del comunismo è certa, esemplificata dalla vocazione internazionalista del movimento. FASCISMO E COMUNISMO. Il fascismo non ha mai avuto l’universalità del comunismo, né ideologicamente né politicamente. Inoltre, sicuramente aveva una componente ideologica che voleva dare un contenuto sociale più radicale e antiborghese alla politica dello Stato, ma senza mettere indiscussione le strutture di questo sistema politico, senza immaginare una società senza classi e senza Stato. A conferma di ciò, i sindacalisti rivoluzionari che aderirono al fascismo avevano già ripudiato l’ideologia marxista e socialista. Essi sono quindi da definire come atei, non come eretici del marxismo. Fascismo e bolscevismo hanno come unico punto in comune il regime a partito unico.
Document shared on www.docsity.com
Downloaded by: ivanmasci (ivanmasci00@gmail.com) I RISCHI DEL FASCISMO GENERICO. La teoria del fascismo generico si pone di fronte a un fascismo elastico (cambia nello spazio e nel tempo). Il fascismo è un insieme di tre dimensioni: quella organizzativa, quella ideologica e quella istituzionale, quindi dissociando l’ideologia dalla storia e il mito dall’organizzazione si potrebbe infatti pensare che l’integrità del fascismo si sia persa nell’inevitabile incompletezza della realtà pratica. La ricerca teorica sul “fascismo generico” è rimasta una singolarità negli studi sui movimenti politici del XX secolo. Non sono in uso i concetti di “giacobinismo generico”, “liberalismo generico”, “socialismo generico”, “bolscevismo generico”. NON SOLO IDEOLOGIA. Tuttavia, se l’irrazionalità della cultura fascista non si fosse coniugata con la razionalità dell’istituzione, sarebbe rimasta confinata nel campo dello snobismo e del settarismo intellettuali. DOVE E QUANDO E’ NATO IL FASCISMO? Per una definizione generale del fasicmo bisogna partire dalla collocazione storica. Esso è nato in Italia dopo la Grande Guerra. Il fascismo italiano nel 900 è stato una novità per le seguenti ragioni: - è stato il primo movimento nazionalista rivoluzionario, organizzato in forma di partito- milizia, che ha conquistato il potere politico, ha distrutto la democrazia parlamentare per costruire uno Stato nuovo; - è stato il primo partito che ha portato un pensiero mitico al potere e ha istituzionalizzato la sacralizzazione della politica, creando una religione politica imposta come fede collettiva; - è stato il primo regime politico che fin dall’inizio si è definito totalitario (che concepiva la politica come potere concentrato nelle mani del partito e del duce), col progetto di fascistizzare la società. Dall’esperienza del fascismo italiano presero ispirazione altri regimi sorti in Europa tra le due guerre. Dopo l’ascesa del fascismo italiano ebbe inizio la questione del fascismo: le principali interpretazioni del fascismo – reazione borghese, crisi morale, espressione di peculiari caratteri nazionali, rivoluzione dei ceti medi, sistema totalitario – sono apparse per la prima volta in Italia negli anni Venti, e furono in seguito elaborate e applicate ad altri movimenti e regimi. IL FASCISMO COME ESPERIMENTO TOTALITARIO. Anna Arendt sostiene che il fascismo non fu totalitario prima del 1938. Gli storici non sono d’accordo. Il fascismo è stato storicamente l’unico dei regimi a partito unico del XX secolo che si è autodefinito come stato totalitario, riferendosi alla sua concezione della politica e al suo regime di tipo nuovo, fondato sulla concentrazione del potere nelle mani del partito e del suo duce e sull’organizzazione capillare delle masse, con il proposito di fascistizzare la società attraverso il controllo del partito su tutti gli aspetti della vita individuale e collettiva, al fine di creare una nuova razza di conquistatori e dominatori. Il termine totalitario è stato inventato e adoperato da intellettuali e politici antifascisti prima ancora della nascita del regime a partito unico, per definire l’ideologia, la politica e i metodi del Partito fascista (probabilmente da Amendola che, in riferimento al sistema elettorale introdotto dalla legge Acerbo, disse che lo scopo del fascismo era ottenere il controllo sulle coscienze). Secondo la definizione che ne dà Emilio Gentile, il totalitarismo è “un esperimento di dominio politico messo in atto da un movimento reazionario, organizzato in un partito militarmente disciplinato con una concezione integralista della politica, che aspira al monopolio del potere e dopo averlo conquistato distrugge o trasforma il regime preestistente e costruisce uno stato nuovo”. Anche don Luigi Sturzo parla del fascismo come di un totalitarismo. Il giornale antifascista La Stampa sottolineò infatti come il fascismo avesse scatenato una guerra di religione, tanto che nel 1939 il cardinale di Milano Schuster denunciò l’implicita negazione del Credo apostolico nella rivendicazione degli attributi divini per il partito (il partito rivendica una propria religione). Nessuno si oppose al laboratorio totalitario. Anche se si parlava del ruolo della monarchia, la diarchia tra duce e re dava più potere al duce. Lo stesso re dichiarò che non si poteva contrastare Mussolini. Non si può parlare di totalitarismo perfetto, nessun totalitarismo lo fu. Furono tutti laboratori con questo obiettivo.
Document shared on www.docsity.com
Downloaded by: ivanmasci (ivanmasci00@gmail.com) ELEMENTI PER UNA DEFINIZIONE DEL FASCISMO. Dimensione organizzativa: movimento di massa organizzato nella forma del partito-milizia che fonda la sua identitò non solo sulla gerarchia sociale e la provenienza di classe ma sul senso del cameratismo, si ritiene investito di una missione di rigenerazione nazionale, vuole creare un nuovo regime distruggendo la democrazia parlamentare. Dimensione culturale: - cultura fondata sul pensiero mitico e sul senso tragico e attivistico della vita - ideologia anti-ideologica e pragmatica che si esprime attraverso un nuovo stile politico e attraverso i miti, riti e simboli di una religione laica istituita per creare un “uomo nuovo”. - Concezione totalitaria del primato della politica: l’obiettivo è realizzare tramite lo stato totalitario la fusione dell’individuo e delle masse nell’unità organica e mistica della nazione - Etica civile basata sulla subordinazione assoluta del cittadino allo stato, sulla dedizione totale dell’individuo alla comunità nazionale. Dimensione istituzionale: - Apparato di polizia che previene, controlla e reprime dissenso e opposizione; - Partito unico che assicura, con la propria milizia armata, la difesa del regime inteso come complesso delle nuove istituzioni pubbliche create dal movimento rivoluzionario; - Sistema politico fondato sulla simbioso tra partito e stato, figura del capo. - Organizzazione corporativa dell’economia; - Politica estera ispitata alla ricerca di potenza e grandezza nazionale con obiettivi di espansione imperialista in vista della creazione di una nuova civiltà.
CAPITOLO IV – CONSIDERAZIONI SULL’IDEOLOGIA DEL FASCISMO
E’ ESISTITA UN’IDEOLOGIA DEL FASCISMO? Alcuni studiosi sostengono che le idee che il fascismo assunse per giustificare i suoi atti appartenevano ad altri movimenti politici. L’ideologia del fascismo fu un insieme di idee diverse, non fu né coerente né organica. In realtà se all’indagine storica l’ideologia fascista di presenta poco logica e sistematica, questo non significa che il fascismo non ebbe una sua ideologia, diversa dalle altre. Per il fascismo l’ideologia era un’idea- forza, con fini essenzialmente pratici, sintesi di azione e oggetti di fede. Alcuni studiosi avanzano l’ipotesi che il fascismo non abbia avuto una sua ideologia, bensì una sovrastruttura ideologica di volta in volta improvvisata sulla spinta dell’azione, costituita da elementi di altri movimenti politici. Un concetto rigido di ideologia sarebbe infatti poco adatto per descrivere un movimento che rifiuta il razionalismo e l’intellettualismo e pone come principio della sua ideologia la critica delle ideologie. Esso si affidava invece alle facoltà autentiche e creative dello spirito e faceva proprio il filone del pensiero critico contemporaneo che aveva messo in risalto il valore pratico delle concezioni politiche. Eppure anche in Francia, dove fu poco consistente come forza politica, esso ebbe una notevole risonanza culturale, grazie ad intellettuali come La Rochelle, che giudicò il fascismo il movimento che “muove verso la restaurazione del corpo” e “la difesa dell’uomo contro la grande città e la macchina”. L’UOMO NUOVO FASCISTA. Nel 1939 Brasilach dichiarava la nascita (avvenuta in Italia) di un nuovo esemplare umano, l’uomo fascista, il cui disprezzo per la rigidità dottrinaria aveva decretato il trionfo della filosofia della vita dopo la distruzione della ragione a opera della ragione medesima (in rivolta contro l’ottimismo tragico della decadente civiltà europea). Questo è il periodo della crisi del modello dell’uomo cartesiano, razionale e ottimista: la Grande Guerra mostra che è impossibile credere in una razionalità della storia, nei vantaggi illimitati dell’industrializzazione ecc. La concezione fascista dell’uomo nuovo riunisce idee di Nietzsche, Pareto, Sorel, di critici della scienza e filosofi esaltanti la vita e l’azione; vi è un bisogno di umanizzare il mondo economico col richiamo a valori superiori da affermare contro il culto della macchina e dell’efficienza. L’IDEOLOGIA DELLO STATO TOTALITARIO. Si afferma il primato dell’azione politica, il totalitarismo viene inteso come risoluzione del privato nel pubblico. L’elemento essenziale che attirò gli intellettuali fu la subordinazione dei valori privati alla politica attiva di un’aristocrazia che
Document shared on www.docsity.com
Downloaded by: ivanmasci (ivanmasci00@gmail.com) traeva legittimità dalla perpetuità della sua azione: Pellizzi, uno dei massimi ideologi del fascismo, dirà che “L’Italia è uno stato che si fa”. L’ideologia dello Stato (da non confondere con l’ideologia della società comunista) non fu tuttavia un’ideologia di massa, poiché negò ad essa la possibilità e la capacità di autogovernarsi. Si differenzia dall’ideologia conservatrice e reazionaria per l’attivismo. ATTIVISMO E RELATIVISMO FASCISTI. Secondo le ideologie reazionarie, la politica è lo strumento di valori eterni e immutabili e il mito del passato rende la storia una continua degenerazione da un archetipo fondamentale. Il fascismo si differenziò quindi anche dal tradizionalismo (per cui i valori acquistano prestigio dalla loro tradizione, e non in quanto strumenti efficaci) e dal nazionalismo, l’idea di nazione fu un mito e non una realtà naturale indipendente dagli individui. Si oppone anche allo scetticismo conservatore verso il mutamento e al prudente realismo politico e storico. Inoltre, non ha il mito del futuro. Per il fascismo non vi erano valori o principi oggettivi, se non la concezione di Nietzsche che afferma implicitamente che la cellula del movimento sociale è l’individuo capace di agire più degli altri. Il modo di fare politica e organizzare la vita sociale fa infatti appello all’istinto, alla fede, all’immaginazione, al fascismo magnetico del capo. LA POLITICA COME SPETTACOLO. Il gruppo fascista non era altro che un insieme di credenti, legati da vincoli di fede nel fascismo, nel culto dei martiri, negli ideali di guerra. Si parla, infatti, di romanticismo fascista, per definire un atteggiamento soggettivo verso la politica, che ridava colore alla vita sociale, rendendo l’esperienza civile uno spettacolo in cui esaltarsi nel flusso della massa, attraverso la mediazione magica del duce. L’organizzazione del consenso era fondata proprio su questi cerimoniali, in cui l’uomo è ridotto a elemento cellulare sopraffabile e manipolabile, esaltando fantasie, pregiudizi di gruppo, complessi di grandezza o miseria, distruggendone la capacità di scelta e critica. Nello stato totalitario la la vita civile si esaltava nel flusso della massa ordinata con la ripetizione di riti, simboli e un richiamo alla solidarietà collettiva. L’uomo nuovo è membro della folla suggestionata. LA TRAGEDIA DEL PESSIMISMO ATTIVISTA. L’ideologia fascista si presentava in due forme di esaltazione della vita: come corsa verso la grandezza e la morte eroica; cinico realismo, che celavano la radice del fallimento di tale concezione della vita (pessimismo attivista). La rivoluzione fascista non era infatti compiuta da uomini che credevano nell’uomo, bensì da intellettuali che consideravano il regime come l’ultima fase di splendore della civiltà europea alla vigilia dell’avvento di una in cui durezza e gioia sarebbero state, secondo Kunas, una sola cosa. Hanno sperato in una nuova politica animata da un nuovo senso della vita, che l’uomo disincantato, adoratore del denaro e corroso dal vizio, si sarebbe trasformato in un eroe integro – ed è avvenuto esattamente il contrario. Non avevano alcuna fiducia nell’essere umano, di cui mostravano l’egoismo e l’ipocrisia, e malgrado la loro simpatia per l’uomo, il loro pessimismo era pericolosamente prossimo a diventare un vero e proprio odio contro l’uomo.
CAPITOLO V – IL FASCISMO FU UNA RIVOLUZIONE?
Il fascismo non può essere definito rivoluzionario né secondo l’ideale marxista di rivoluzione, perché non fu una radicale trasformazione dei rapporti tra due classi fondamentali, né secondo l’ideale progressista democratico, perché non attuò una più consapevole e razionale partecipazione popolare alla vita pubblica attraverso forme di rappresentanza liberamente scelte. Nonostante ciò, secondo Dorso, l’ostilità della piccola borghesia verso lo Stato liberale spinse in campo cittadini fino ad allora rimasti immobili (e successivamente repressi), creando così un fenomeno rivoluzionario, che spingerà Parsons a parlare di “radicalismo di destra”. Per Rémond, la differenza tra controrivoluzione e fascismo sta nel fatto che la lotta per cancellare le conseguenze della rivoluzione francese si proponeva di ripristinare l’ordine del passato, mentre il regime fascista presupponeva la democrazia, accaparrandosi la sovranità nazionale e legittimandosi sfruttando elementi della rivoluzione quali la politica di massa e il concetto di Stato educatore.
Document shared on www.docsity.com
Downloaded by: ivanmasci (ivanmasci00@gmail.com) Mosse ritiene che il fascismo fu un fenomeno rivoluzionario sia nazionale che europeo e lo definisce una “rivoluzione di destra”, con motivi e fini politici e culturali (e non economici), che liquidava le vecchie classi dirigenti senza abolire lo Stato, ma sostituendovi gerarchie basate sulla funzione anziché sullo status sociale. De Felice individua due elementi per i quali si può parlare del fascismo come di un fenomeno rivoluzionario: - La composizione sociale del movimento fascista come espressione di ceti emergenti che aspirano a maggiore partecipazione; - L’aspirazione a trasformare la società e l’individuo in una direzione che non era mai stata sperimentata né realizzata, e il ricorso quindi a una politica pedagogica. La crisi, o meglio la mancanza del consenso dei ceti medi verso lo stato liberale, ha preceduto e facilitato la crisi delle istituzioni nel dopoguerra. La guerra provocò una mobilitazione politica di massa dei ceti medi che videro nel conflitto il grande evento necessario per un mutamento radicale di regime. Il fascismo seppe aggregare molte componenti dei ceti medi aspiranti al dominio politico: fu un movimento di massa, ma la massa non partecipò in modo attivo e consapevole. Secondo la visione del massimalismo storiografico di Gramsci, i ceti medi (massa gregaria per eccellenza) furono semplici truppe in camicia nera, guidate da strateghi e comandanti della grande borghesia: la realtà dei fatti dimostra, invece, che dalla rivoluzione francese le élite rivoluzionarie e i quadri dirigenti provennero sempre dalla “classe fondamentale” (i ceti medi), dotata di una “soggettività politica”. Amendola sottolinea, infatti, l’autonomia del fascismo nei confronti delle forze che inizialmente ne assicurarono l’affermazione con i loro finanziamenti. Nel 1925, l’Avanti aveva infatti scritto che l’unico modo per conquistare il potere, per il proletariato socialista, era allearsi o neutralizzare il ceto medio (aumentato nel primo ventennio di secolo, ma politicamente emarginato in organizzazioni di categoria e movimenti d’opinione accomunati da aspirazioni democratiche e affinità ideologiche nella critica alle istituzioni e ai partiti). La loro protesta era sintomo di instabilità del regime liberale e il tentativo giolittiano di conquistare il consenso delle classi popolari e “depoliticizzare” i movimenti emergenti, contribuì a renderla più ostile e incline a riconoscersi nei valori nazionali professati dal fascismo. Inoltre, il fascismo creò un regime nuovo che però non si staccò completamente da quello precedente (ad esempio, permane lo Statuto Albertino), proclamò di voler mutare la vita collettiva, la mentalità, i costumi, senza raggiungere risultati concreti. Non è possibile parlare di rivoluzione fascista, ma tutt’al più di travestimento rivoluzionario del vecchio regime.
CAPITOLO VI – I VOLTI DI UN MITO
L’inerzia della massa spinse, tuttavia, lo stesso Mussolini ad affermare che “una tenace terapia di vent’anni è riuscita a modificare soltanto in superficie” le “deficienze tradizionali e contingenti di questo grande piccolissimo popolo italiano”; riferendosi all’indifferenza e al rifiuto della politica, radicati quasi come una forma di autodifesa. Nella definizione di “modello totalitario” solo il fascismo ebbe, infatti, il mito dello Stato totalitario come forma di vita sociale primaria e insopprimibile. Per nazismo e comunismo, invece, lo Stato era lo strumento per realizzare un mito superiore (società senza classi e dominio del Volk), che avrebbe reso superflua l’esistenza dello Stato considerato dai nazisti “un recipiente” per la razza superiore “contenuto”. Dalla tendenza alla “defascistizzazione” del fascismo è emersa invece una rappresentazione indulgente dell’esperienza fascista, nella quale la Germania nazista viene incolpata di aver introdotto razzismo e antisemitismo. Il mito del Duce trova le sue radici nel culto romantico e idealistico del genio, ma il tronco è cresciuto e si è ramificato con lo sviluppo della società di massa. Secondo Weber il capo carismatico è un individuo dotato di poteri ritenuti straordinari dai suoi seguaci, che in lui venerano e accettano con obbedienza e devozione la personificazione di una missione.
Document shared on www.docsity.com
Downloaded by: ivanmasci (ivanmasci00@gmail.com) Gobetti nel 1924 scrisse che il mussolinismo era ben più grave del fascismo, perché confermava agli italiani in quanto affidano la salvezza e il destino a un duce dominatore. Al crollo del mito fascista, i capi attribuirono al mussolinismo la responsabilità della crisi, assimilando il regime a una dittatura personale, confezionata nella “fabbrica del consenso” per un pubblico preparato a ricevere il mito e a favorirne il successo, considerandolo indispensabile alla sua esistenza, conforme alle tradizioni e aspirazioni e personificazione di una missione. Il mito mussoliniano ebbe infatti origine da quello del superuomo e fu, inizialmente, un mito socialista di un uomo promettente, di cultura, di ardore sincero e disinteressato, ingegno e credibilità, simbolo per i giovani socialisti rivoluzionari che videro in lui l’uomo capace di combattere con successo la politica riformista che stava diluendo la prospettiva rivoluzionaria nelle rivendicazioni economiche, nelle battaglie parlamentari e nel compromesso con la democrazia borghese. La scelta dell’interventismo e la fondazione del Popolo d’Italia segnarono il crollo del mito socialista di Mussolini, centrato nella sua integrità di rivoluzionario, nella sincerità e nella fede. Da intransigente apostolo dell’idea, milite integerrimo e capo fedele, l’interventismo lo trasformò in un traditore venduto, politicamente opportunista e ambizioso per interesse, egocentrico e corrotto dal desiderio di potere. Mussolini divenne l’anti-Giolitti, simbolo di vitalità contro un vecchio scettico e cinico, un uomo carico di avvenimenti. Diventa il mito di una riforma intellettuale e morale degli italiani, da cui doveva venir fuori un italiano nuovo, moderno, morale e attivo: “uomo nuovo, morale ed economico, uomo che dovrà rifare le sorti del mondo”. Mussolini si affermò quindi col mito del rinnovatore nazionale, che aveva saputo rinunciare al potere e al successo per seguire la sua coscienza. Il successivo mito del duce fu, invece, un mito di massa, costituito da elementi spontanei e artificiali, fiducia e fanatismo. Mito fascista: mette insieme uomo nuovo e rinnovatore nazionale, è un mito di massa prodotto da una varietà di motivazioni. Dopo la conquista del potere, Mussolini e il fascismo usarono il mito del duce nella politica del consenso, ma essi operarono all’interno della struttura del mito e ne condivisero i valori essenziali, perché Mussolini e il fascismo appartenevano alla cultura che li aveva generati. Il mito popolare di Mussolini nacque dopo la conquista del potere: tra coloro che applaudirono la marcia su Roma, molti erano infatti semplicemente affascinati dal nuovo presidente del Consiglio, dall’oratoria semplice e persuasiva, che di lì a poco avrebbe raggiunto l’Italia ignorata dai suoi predecessori, dando loro la sensazione di una vicinanza fisica al potere. Mussolini appariva in grado di imporre la disciplina persino al suo partito, grazie alle qualità di amministratore che lo resero, agli occhi dell’opinione pubblica borghese, il salvatore della patria dall’anarchia e dell’Occidente dal bolscevismo, circondato dalla fiducia per la sua opera risanatrice delle ingiustizie (grazie anche all’ostentazione delle sue origini popolari). Era la guida del paese, colui che fa nascere l’orgoglio di essere figli dell’Italia; dotato di poteri straordinari ma fisicamente vicino alle masse, è continuamente in contatto con esse e interprete delle loro aspirazioni. Diversamente, Gobetti e Rossini videro nel mito di Mussolini l’immaturità degli italiani, che criticavano regime e gerarchi, servendosi del mito del duce, laddove il mussolinismo prevaleva invece sul fascismo e lo annullava in sé. Un nuovo fascismo era infatti impensabile senza l’uomo che aveva asservito l’idea al punto da sostituirla con la propria personalità. Col delitto Matteotti, il mito di Mussolini subì una forte scossa, ma venne confortato dai successi della sua politica e dall’orgoglio patriottico per la guerra d’Etiopia, penalizzato dall’aggravarsi delle situazioni di vita quotidiana di operai e contadini e dalla minaccia della guerra. Unica eccezione furono i giovani, sui quali Mussolini intervenne rendendo il culto del duce il principio e la condizione fondamentale della loro esistenza. Essi erano grati al duce di aver fatto nascere in loro l’orgoglio di essere italiani, mentre la figura del Capo del fascismo costituiva il nucleo centrale del mussolinismo per gerarchi e gregari che fino al 1921 avevano considerato D’Annunzio come vero duce. Alla proposta del patto di pacificazione coi socialisti, Mussolini vide apertamente contestato il suo ruolo di duce dalla rivolta dei ras, ma riuscì a imporsi per le sue doti politiche, essendo l’unico a poter impedire la disgregazione del movimento in
Document shared on www.docsity.com
Downloaded by: ivanmasci (ivanmasci00@gmail.com) frammenti locali. Molti opposero resistenze nel fascismo verso la pretesa di Mussolini di essere duce indiscusso e obbedito senza riserve dai gerarchi, infatti il mito del duce si affermò come risultante dello scontro delle varie correnti. Il vero e proprio culto del duce nacque con Augusto Turati, segretario del PNF dal 1926 al 1930, anno in cui sorse la Scuola di Mistica fascista, che istituì anche corsi per maestri elementari. Il duce aveva il ruolo supremo del mediatore e del giudice, era l’unica fonte di autorità. I giovani dovevano credere, obbedire e combattere in suo nome. Nella logica del pensiero mitico fascista, il mito mussoliniano acquistava una funzione predominante, diventando il principale fattore pedagogico per la formazione delle nuove generazioni e l’educazione di una classe dirigente fascista. Considerato punto di congiunzione tra divino e umano, “delegato di Dio” e somma e sintesi di ogni tipo di grandezza, Mussolini appariva l’Eroe che aveva realizzato il mondo che esisteva dapprima solo nelle elaborazioni del suo spirito. Pur essendovi motivazioni legate a paura e ambizione, i gerarchi erano in gara tra loro per la conquista dell’affetto e della stima del duce, come dimostrano anche i ricordi autobiografici scritti dopo la caduta del fascismo, in cui si evince quanto essi ignorassero debolezze e meschinità della sua smisurata personalità. Essi cominciarono, tuttavia, a perdere la loro fede nel momento in cui Mussolini divenne posseduto dal mito di sé stesso, isolandosi nell’auto-contemplazione, al di sopra della massa dei comuni mortali incapaci di percepire la sua impenetrabile natura (atteggiandosi a figura sovrumana di “genio” segnato dal destino nella banalità del presente). Aveva la convinzione di essere infallibile; non era più l’interprete, ma il correttore degli italiani che dovevano essere trasformati in esecutori dei suoi progetti di grandezza. La volontà di plasmare e correggere gli italiani lo possedeva come un male fisico, sebbene considerasse il popolo italiano un materiale scadente per realizzare i suoi grandi disegni. Egli, vivendo la seconda guerra mondiale come una sfida personale contro ogni popolo, si immaginava un grande che sente l’arrivo della crisi storia e possiede le qualità per dominarla, ma è frenato dalle scarse qualità “eroiche” degli italiani.
CAPITOLO VII – PARTITO, STATO E DUCE NELLA MITOLOGIA E
NELL’ORGANIZZAZIONE DEL FASCISMO Partito, Stato e Duce furono i pilastri fondamentali del sistema politico fascista. Il fascismo fu il primo “partito milizia” a conquistare il potere in una democrazia liberale europea col proposito di distruggerla, concependo la politica come insoddisfazione della realtà. Esso è stato un movimento- regime con una propria logica, che non può essere interamente identificata e risolta nella logica degli interessi di classe e della politica di Mussolini, anche se con questa è intrecciata. Mito e organizzazione furono le categorie fondamentali attraverso le quali i fascisti interpretarono i problemi della moderna società di massa e definirono il loro posto in questa realtà, per agire in essa e trasformarla. Il partito realizza in forme di vita collettiva il mito dello Stato totalitario attraverso l’organizzazione del PNF, la creazione dell’italiano nuovo di Mussolini capace di obbedire e combattere. Il compito di “sistematizzare la fede e inculcarla nelle masse” fu svolto dal Partito fascista attraverso forme di vita collettive, espandendo l’organizzazione in diramazioni capillari che permettessero di trasmettere le direttive del duce senza deformazioni. La militarizzazione della politica e l’enfasi sull’antitesi nemico-amico, nei riti e nei simboli, assume il carattere di milizia civile al servizio della religione della nazione. Dopo la conquista del potere il fascismo continua a elaborare il mito dello stato nuovo e cerca di realizzarlo con lo sperimentalismo istituzionale, che utilizzò le strutture del regime precedente adattandole ai suoi fini totalitari e affiancando a esse nuove istituzioni e modificandone alcune già esistenti. Se la nomina dall’alto delle gerarchie (con il Gran Consiglio che dirige il partito sotto la “guida suprema” del duce) era considerata dal fascismo autoritario come il sistema definitivo, per quello totalitario non era che un primo stadio verso la costruzione di uno Stato fascista, una “fase di compromesso” della rivoluzione. La necessità di “durare” aveva quindi imposto un arresto alle ambizioni del fascismo integralista, ravvivate dopo la conquista dell’Etiopia con: - La polemica antiborghese;
Document shared on www.docsity.com
Downloaded by: ivanmasci (ivanmasci00@gmail.com) - Il rilancio del populismo sindacale; - L’offensiva contro la Chiesa. Le nuove generazioni totalitarie e i vecchi integralisti consideravano infatti lo Stato esistente come una costruzione ibrida, limitata da “isole di separazione” che sfuggivano alla fascistizzazione (sopravviveva ancora lo Statuto Albertino del 1848), laddove il duce si creava tutore dell’integrità dello Stato “sovrapartitico”. Il PNF rievocava invece la stagione “eroica” dello squadrismo come momento dello “stato nascente” e vero motore del cambiamento. Il fascismo prova ripugnanza a cristallizzarsi in uno Stato fisso e determinato, bisognoso delle aristocrazie in declino o delle masse anonime. Obiettivo dell’organizzazione era infatti quello di ridurre ad unità le varietà sociali, sfruttando il mito romano della partecipazione alla vita civica in modo da disciplinare nelle sue strutture un sempre maggiore numero di cittadini coscienti della missione dello Stato. Il “cittadino-soldato” svuotava la propria individualità per essere assorbito nella comunità totalitaria, adottando valori dipendenti dal ruolo che il fascismo gli aveva assegnato, grazie alle direttive del “grande pedagogo” (il PNF). Essendo il legame tra partito e Stato legato alla vita fisica di Mussolini, l’argomento della successione era vietato, benché fosse chiaro che lo “Stato Nuovo” potesse diventare un “sistema di vita” permanente soltanto grazie alla presenza di un Capo. Bottai attribuiva, quindi, ai politici, il compito di creare nuovi miti o detronizzare il mito, smantellando tutte le organizzazioni del sistema a esso funzionali e dissociando mito e organizzazione. La politica di massa del fascismo ebbe un’attitudine pedagogica, volta alla socializzazione fascista della mentalità, delle idee e dei comportamenti degli italiani, per creare una comunità cementata da una fede politica e organizzata in una gerarchia di funzioni e competenze. Le basi giuridiche del regime fascista furono poste con la legislazione autoritaria del 1925-26; all’inizio degli anni 30 i caratteri essenziali del sistema politico fascista erano definiti e consolidati: un regime chiuso, irreversibile, fondato sulla concezione gerarchica del potere che emana dall’alto, con sostanziale eliminazione della divisione dei poteri e primato dell’esecutivo, esercitato formalmente nel nome del re madi fatto centrato nelle mani del Duce. Il fascismo autoritario considerava il sistema realizzato tra il 25 e il 29 come uno stadio definitivo e sostanzialmente compiuto; per il fascismo totalitario si trattava di un primo stadio verso la costruzione di uno stato integralmente fascista, uno stadio che corrispondeva alla fase di compromesso della rivoluzione, quando la necessità di durare aveva imposto un arresto alle ambizioni del fascismo integralista, ma che bisognava superare per procedere verso la realizzazione del mito totalitario. Il fascismo totalitario reclamava nuovi sperimentalismi politico-istituzionali per realizzare in modo più effettivo e capillare l’integrazione delle masse nello stato e per creare uno stato nuovo. Negli anni 30 il fascismo si mosse con: - Ampliamento sistematico delle forme di organizzazione e mobilitazione delle masse e radicalizzazione del processo di concentrazione del potere nel fascismo; - Crescente espansione della presenza del partito nella società e nello Stato; - Serie di riforme: Camera dei Fasci e delle Corporazioni nel 1938, legislazione razziale, ministero della cultura popolare). Ancora, però, il partito restava formalmente subordinato allo stato fascista: nonostante si fosse inserito gradualmente entro le sue strutture, il risultato non era ancora totalitario. Per i fascisti lo stato “non è una fissata realtà, ma un processo in atto”. Il fascismo totalitario riteneva che l’organizzazione e il controllo delle masse fossero la condizione per trasformare il loro carattere, la loro mentalità e il loro comportamento, producendo così l’adesione attiva al fascismo. Esso voleva formare una collettività di cittadini aderenti e partecipanti alla vita dello Stato, cittadini-soldato che svuotavano la propria individualità per lasciarsi assorbire nella comunità totalitaria. Bottai afferma che l’obiettivo era far assurgere il fascismo a religione politica e civile, religione d’Italia.
Document shared on www.docsity.com
Downloaded by: ivanmasci (ivanmasci00@gmail.com) Tutti i regini totalitari sono stati per certi aspetti “imperfetti” o “incompiuti” rispetto al loro mito di integrazione e a seconda delle fasi di svolgimento. Il termine totalitario è da intendersi come indicativo di un orientamento e di un atteggiamento mentale, che si concretizzò progressivamente in miti, istituti, comportamenti e forme di vita. Il sistema politico fascista nella sua concreta realtà storica può essere definito come Cesarismo Totalitario: una dittatura carismatica di tipo cesaristico, integrata in una struttura organizzativa costruita in modo conforme a un mito totalitario, consapevolmente adottato e concretamente operante come codice di comportamento e punto di riferimento per l’azione e l’organizzazione dello Stato e delle masse.
CAPITOLO VIII – IL PARTITO NEL LABORATORIO TOTALITARIO FASCISTA
Il PNF era sorto direttamente, senza soluzione di continuità, dallo squadrismo, come partito armato con orientamento totalitario basato sui principi di ordine, gerarchia e disciplina. Il principio della gerarchia prese subito il sopravvento sulla democrazia interna: “il milite fascista conosce solo doveri, ha il solo diritto di compiere il dovere e di gioirne”. La maggior parte degli studiosi ritiene che, dopo il consolidamento della monocrazia di Mussolini, il PNF fu politicamente liquidato e passivo. Mussolini considerava sia le masse che il PNF come un esercito. Dopo la marcia su Roma, il PNF fu privato dell’autonomia e sottoposto alle direttive del Gran Consiglio, creato e presieduto da Mussolini, che riformò dall’alto gli ordinamenti del partito per renderlo un organo esecutivo della volontà del Duce. Il Gran Consiglio diventa nel 1928 un organo costituzionale dello Stato, ma rimane contemporaneamente un organo supremo del partito: esso delibera su statuti e ordinamenti, nomina e revoca il segretario e delibera sulla successione al trono e l’attribuzione della corona. Siamo in presenza di una vera e propria saldatura tra partito e Stato. Nel 1929 il PNF passa direttamente alle dipendenze del capo del governo. Dallo statuto del 1929, anche il segretario del partito venne nominato con decreto reale su proposta del capo del governo; egli era di diritto come segretario del Gran Consiglio e poteva essere delegato dal capo del governo per presiedere il “supremo organo del regine”, essendo il più alto gerarca dopo il Duce (a cui era affidato anche il controllo politico sul conferimento delle cariche). Lo statuto del 1932 sancì la sistemazione del partito come milizia civile agli ordini del Duce e al servizio dello Stato fascista e che l’adesione al partito era la condizione della piena capacità giuridica di diritto pubblico del cittadino italiano, tanto che per l’ammissione ai concorsi dell’amministrazione pubblica era necessaria l’iscrizione al PNF (la cui tessera venne dichiarata equipollente alla carta d’identità). Essendo il potere legittimato dal partito, Mussolini, pur essendo diffidente, sapeva tuttavia che il legame con esso non poteva essere reciso. L’operazione di sottomissione richiese una faticosa risistemazione interna del partito, attraverso una revisione degli iscritti e dei quadri locali (epurando anche molti fascisti dei primi anni che si ribellavano alla normalizzazione del fascismo-regime). All’inizio del 1927, il Gran Consiglio chiuse ogni nuova ammissione al partito, affidando il reclutamento di nuovi iscritti alle organizzazioni giovanili, con il rito annuale della leva fascista. Inserito nello stato fascista, il partito rinunciò ad avere, come partito, una propria volontà, riconoscendo come tale la volontà del suo duce, ma acquistò in cambio notevoli poteri e privilegi. Il segretario generale del partito aveva la funzione di mantenere il collegamento tra il partito e gli organi dello Stato, era il garante della subordinazione del partito e del rispetto dei confini entro i quali era stato delimitato. Le rivalità personali fra dirigenti fascisti riflettevano spesso la lotta di classe tra la piccola borghesia, base originaria del partito, e gli elementi aristocratici che spesso occupavano una posizione dominante (in quanto Mussolini cercò spesso di stabilizzarsi assorbendo i rappresentanti locali delle forze tradizionali). Nei primi anni di governo, la prevaricazione continua dell’autorità prefettizia da parte dei ras fu la fonte primaria dei conflitti, benché Mussolini nel 1927 avesse precisato che il prefetto, rappresentante del governo, era la suprema autorità della provincia,
Document shared on www.docsity.com
Downloaded by: ivanmasci (ivanmasci00@gmail.com) abilitato a epurare la burocrazia minore a indicare agli organi responsabili gli elementi nocivi. Si cercò tuttavia di allontanare i prefetti non amati dai fascisti, nominandoli “prefetti politici” tra i membri del partito, tra i funzionari di carriera del ministero dell’Interno, tra i segretari del PNF e i sottosegretari all’Interno. Un’altra fonte di conflitti tra rappresentanti del partito e dello stato furono i rapporti tra i segretari federali e i prefetti. Il prefetto era rappresentante del governo, suprema autorità della provincia, a cui il segretario federale doveva rispetto e obbedienza. Tuttavia, contro i provvedimenti del federale non c’era possibilità di rivolgersi al prefetto, né il prefetto poteva annullare o modificare le decisioni del federale. Questo è un esempio di ambiguità irrisolta del regime. Quando propose di unificare la carica di segretario del PNF con quella di sottosegretario all’Interno, Turati fu dimesso e anche Giuriati denunciò l’insostenibilità del dualismo in Gran Consiglio, prima di dimettersi. Il PNF utilizzò diverse tattiche per ampliare la sfera del suo potere nell’ambito dello Stato: - Infiltrazione: adottata verso territori tradizionali dello Stato come le forze armate che il partito non era riuscito a porre sotto il suo controllo. - Controllo diretto: con i sindacati (presenza del partito all’interno ma anche controllo dall’esterno; ordinamento corporativo; mercato. - Annessione: su organizzazioni del tempo libero e l’educazione. L’Opera Nazionale del Dopolavoro viene incorporata nel PNF e così anche l’Opera Nazionale Balilla. Il PNF celebrava il culto dello Stato, ma perseguiva un obiettivo effettivamente antistatalista contro lo Stato esistente, che considerava un’ibrida costruzione di vecchio e nuovo, non ancora del tutto fascistizzato, dove sopravvivevano ancora troppi istituti, uomini e mentalità del vecchio regime. In attesa di raccogliere l’eredità del Duce, il PNF si dedicava a occupare di volta in volta con la sua organizzazione tutti gli spazi possibili nella società, adempiendo alla sua funzione di grande pedagogo degli italiani. Attraverso la Commissione amministrativa paritetica degli uffici di collocamento, i datori sceglievano i lavoratori dando la preferenza a iscritti al partito o sindacalisti fascisti. La vigilanza sul mercato fu affidata al partito e poi istituzionalizzata dopo la guerra di Etiopia con il Comitato permanente di vigilanza sui prezzi, presieduto dal segretario del PNF, che stabiliva i prezzi all’ingrosso per le merci suscettibili di disciplina nazionale. Nel 1934, il segretario del partito poteva presiedere le corporazioni e in ogni consiglio dovevano essere presenti tre rappresentanti del partito, uno dei quali poteva essere nominato vicepresidente. Durante le sanzioni dovute alla conquista dell’Etiopia, il partito gestì la regolamentazione dell’attività economica nazionale, organizzando la nuova colonia grazie all’ispettore del PNF, che rappresentava il segretario del partito e faceva parte del Consiglio del Governo generale dell’Africa Orientale italiana (Aoi), mentre tutti i segretari federali erano membri della Consulta per l’Aoi. Il partito interveniva nell’inquadramento, nel controllo, nell’educazione politica e nei provvedimenti di polizia, rappresentando le categorie produttrici attraverso gli Uffici della produzione e del lavoro. Nel 1926, il partito entrò in competizione col ministero delle Corporazioni per il controllo dell’Opera nazionale dopolavoro: Turati riuscì a diventare vicesegretario e iniziò a porre tutte le associazioni sotto il controllo del partito, fino ad incorporarla nel PNF nel 1932, per poi sottrarre al Ministero dell’Educazione nazionale l’Opera nazionale balilla e istituire una organizzazione giovanile unica, dai 6 ai 21 anni, alle dipendenze del partito. Durante il periodo di Starace, ombra di Mussolini, ingerenze e prevaricazioni aumentarono tanto da rendere il Partito un’immensa caserma (consacrata, nel 1938, come “partito unico del Regime”, con personalità giuridica e compiti di difesa e potenziamento della Rivoluzione fascista ed educazione politica degli italiani). L’attività legislativa del PNF fu elaborata e coordinata da un Ufficio studi e legislazione, a cui era affidato il compito di realizzare una rigorosa unità di indirizzo nell’attività del Partito e delle organizzazioni dipendenti. L’organizzazione capillare non doveva lasciare spazi privati nell’esistenza dell’individuo, infatti erano tutti coinvolti nel dopolavoro, venivano anche tassati i celibi e premiate le coppie prolifiche.
Document shared on www.docsity.com
Downloaded by: ivanmasci (ivanmasci00@gmail.com) Il partito era organizzato in Gruppi rionali, che concentravano i fascisti in una zona particolare della città. Ogni gruppo era diviso in Settori, a loro volta divisi in cinque Nuclei, alle cui dipendenze erano posti i capi fabbricato, istituiti nel 1936, per dare un frammento di potere ai fascisti come premio per la loro fedeltà e dedizione (e far sì che ogni componente potesse essere schedato e controllato). Il Gruppo rionale segnalava disordini e registrava lo stato d’animo delle masse, fornendo assistenza medica e legale, curando la prole, con particolare riguardo ai ceti operai più refrattari alla fascistizzazione. L’attività politica fu sempre riservata ai maschi, confinando la mobilitazione femminile in organizzazioni del partito e attività assistenziali. Tuttavia, la presenza di tradizioni associative cattoliche o socialiste costituiva spesso un ostacolo, tanto che nel Mezzogiorno la popolazione si mostrava disciplinata nei confronti del Partito del Governo e dell’Ordine, ma non ne percepiva la missione necessaria per rivoluzionare i modi di vivere. Si cercò, quindi, di conquistare le nuove generazioni, affidando l’educazione fascista dei ragazzi dai 6 ai 18 anni alle organizzazioni dei Balilla e degli Avanguardisti, accanto alle Piccole e alle Giovani Italiane. Nell’ottobre del 1930, i Fasci giovanili di combattimento inquadrarono giovani dai 18 ai 21 anni, prima del loro ingresso nel partito. Nel 1937, con l’istituzione della Gioventù italiana del Littorio (per la preparazione spirituale, sportiva e fisica nelle scuole) tutte le organizzazioni giovanili fasciste furono fuse sotto la guida del PNF. Nel 1935, presso ogni Federazione, furono istituiti Corsi di preparazione politica, aperti a giovani da 23 a 28 anni, con “particolari requisiti di intelligenza e di volontà”. Nel 1940 sorse un Centro nazionale di preparazione politica per i giovani, situato nel Foro Mussolini e aperto a tutti gli iscritti al PNF di 28 anni che avevano compiuto il servizio militare. I Guf furono i centri più fervidi per la mobilitazione dei giovani intellettuali, critici della burocratizzazione del regime e fautori di un ruolo più intraprendente del PNF, che cercò di imbrigliare il loro attivismo in un agonismo culturale, attraverso le gare dei Littoriali, centri di osservazione per la scelta dei futuri dirigenti. L’adesione al fascismo doveva essere resa un atto naturale per ogni nato in Italia: per raggiungere la normalità totalitaria, nel 1940 fu disposto il tesseramento dei Figli della lupa dalla primissima età, con l’invio da parte del Fascio femminile di una visitatrice fascista che consegnasse la tessera gratuita al neonato. Tuttavia, quanto più diventava invadente, tanto più la politica totalitaria provocava reazioni negative nella massa, che cominciava a sentirsi soffocata in maniera ingiustificata. La politica del “piatto tesseramento” dava infatti una ingannevole immagine di forza, dato che la generazione che aveva fatto la rivoluzione (delusa anche dalla rapida successione di segretari) era poco propensa a passare il comando.
CAPITOLO IX – IL FASCISMO COME RELIGIONE POLITICA
La sacralizzazione della politica è la tendenza dei movimenti politici moderni ad assumere aspetti religiosi nell’ideologia, nello stile di vita, nelle attività di socializzazione e di integrazione dei loro affiliati con la formulazione di un insieme di credenze, con il culto fideistico dei capi e l’adozione di riti e simboli. La tendenza del movimenti politici moderni ad assumere aspetti religiosi nasce dai conflitti nella modernità, che portano alla luce l’esigenza di riaffermare un nucleo centrale prescrittivo minimo sufficiente per far sì che la società continui a esistere come tale, superando il caos in una dimensione più alta di ordine comunitario (attraverso forme discrete di religione civile e l’intensificazione dell’aura sacrale che da sempre circonda il potere). La religione politica fascista riproduce la struttura di quelle tradizionali nelle quattro dimensioni fondamentali: quella della fede, quella del mito, quella del rito e quella della comunione; ma senza avventurarsi in una guerra di religione, ispirandosi al realismo politico più che al fanatismo ideologico e concedendo ai cattolici la possibilità di realizzare manifestazioni che non sconfinassero nell’ambito politico e sociale. Il fascismo, quando giunse al potere, si istituzionalizzò come religione politica, coltivando l’ambizione di rivaleggiare con la chiesa cattolica per il controllo e la formazione delle coscienze, evitando però lo scontro diretto, mirando piuttosto ad associare il cattolicesimo e la chiesa nel
Document shared on www.docsity.com
Downloaded by: ivanmasci (ivanmasci00@gmail.com) proprio progetto totalitario. In particolare, lo stato fascista voleva il monopolio dell’educazione delle nuove generazioni secondo i valori della propria etica, che non ammetteva limiti alla totale fedeltà dei cittadini verso la nazione e lo Stato. La religione tradizionale era utilizzata come instrumentum regni, integrata nell’universo mitico come componente storica del mito della romanità, non venerata come depositaria di verità divina, ma come religione dei padri ed espressione della stirpe italiana. Sturzo parlerà infatti di “statolatria e deificazione della nazione”, accolte da borghesia patriottica, intellettuali e giovani, grazie al fatto che il fascismo non innescò un processo di disincantamento del mondo, ma di metamorfosi del sacro. Tale religione prendeva le mosse, ma si distanziava, dalla cultura dell’avanguardia modernista, che proponeva una religiosità intellettuale “aristocratica” basata sull’umanismo integrale anticattolico. L’adozione di una religione laica della nazione per fronteggiare la mobilitazione di socialisti e cattolici era invece il programma di Corradini, fondatore del movimento nazionalista, intenzionato a imitare i culti nazionali della rivoluzione francese e le religioni degli eroi e della natura giapponesi. Mussolini definiva religiosa la sua concezione del socialismo rivoluzionario, usando spesso metafore della tradizione cristiana, portando l’uomo a desiderare di immolarsi anima e corpo a una causa che trascendesse i meschini motivi della vita di ogni giorno. Nello stato di effervescenza collettivo della guerra erano germinati sentimenti e idee che avevano contribuito alla visione della guerra come “grande evento rigeneratore”. La simbologia della morte e della risurrezione, diffusasi nelle trincee (così come la dedizione alla nazione, il culto degli eroi e dei martiri e la comunione del cameratismo) avevano contribuito a generare il senso mistico della comunità nazionale, celebrata dal poeta soldato D’Annunzio. In questa situazione, molti giovani e intellettuali videro nel fascismo la risposta a questo bisogno di religiosità laica su cui rifondare il senso della coesione collettiva nazionale. Il fascismo apparve come movimento capace di trascendere la banalità della vita quotidiana e di realizzare la nazionalizzazione delle masse, operando la rigenerazione morale degli italiani. I fascisti si paragonavano infatti a missionari cristiani in una crociata salvifica contro la bestia trionfante del bolscevismo profanatore della patria, superando l’attaccamento alla vita mondana e l’idolatria dell’internazionalismo. Il fascismo si affermò come religione politica non solo perché fu abile nell’uso di miti, riti e simboli ma perché trovò un terreno favolevole dove mettere radici e svilupparsi. Ciò che univa i fascisti nella fase originaria del loro movimento non era una dottrina, ma uno stato d’animo e un’esperienza di fede. Nel regime la definizione del fascismo come religione divenne formalmente il fondamento della cultura fascista e fu continuamente ripetuta a tutti i livelli della propaganda e della gerarchia. L’immagine del fascismo come “religione della patria” consentì al movimento di monopolizzare il patriottismo, presentandosi alla borghesia e ai ceti medi come salvatore dal bolscevismo. L’ideologia fascista, cristallizzata nei comandamenti di un “credo”, permetteva di espellere dalla comunità fascista, in quanto “nemici della patria”, i ribelli “traditori della fede”, messi al bando dalla vita politica e, dal 1929, da quella pubblica in assoluto. Il mito di Mussolini e il culto del Duce furono le manifestazioni più spettacolari e popolari della religione fascista. Gran parte della funzione pedagogica del partito si risolve in una costante e capillare propaganda della fede attraverso precetti, riti e simboli per diffondere e consolidare tra le masse la credenza nei miti del fascismo. La conversione delle masse ai miti della religione fascista era una condizione che il fascismo riteneva indispensabile per poter consolidare il suo potere. Solo con la socializzazione di un proprio sistema di credenze, attraverso riti e simboli, il fascismo riteneva di poter conquistare, in modo attivo e duraturo, il consenso delle masse. In questo modo, il regime pensava di portare a compimento l’integrazione e la nazionalizzazione delle classi entro le strutture di uno Stato totalitario, trasformando la massa in popolo, in una comunità morale organizzata sotto il comando di una gerarchia e ispirata da un’unica fede incondizionata nei miti del fascismo. La dialettica tra fede, mito, rito e comunione costituiva la struttura essenziale della religione fascista. Fede e dedizione avevano la precedenza su competenza e capacità intellettuali, in quanto il partito allevava gli “apostoli” attraverso tappe simili a quelle della liturgia cattolica, come la leva fascista (rito di passaggio simile alla cresima, attraverso cui i giovani delle Avanguardie venivano consacrati
Document shared on www.docsity.com
Downloaded by: ivanmasci (ivanmasci00@gmail.com) fascisti dal segretario del PNF). In una delle cerimonie pubbliche, ai giovani venivano consegnate la tessera e un moschetto, rispettivamente simbolo di fede e strumento di forza. Le sedi locali del PNF, le case del Fascio, erano considerate le chiese in cui coltivare il ricordo dei morti e purificare le anime, con tanto di campane da suonare in occasione dei riti. All’inizio degli anni 30 fu lanciata una sottoscrizione pubblica per la costruzione (a Roma) della Casa Littoria, la sede nazionale del PNF, realizzata vicino al Foro Mussolini, con un palazzo per gli uffici e uno spazio per le adunate dei gerarchi, in cui erano fondamentali i simboli che esaltassero l’elemento festoso e conservassero il pathos, come il saluto romano, i canti, le formule, attuando una “guerra di simboli” (con distruzione delle bandiere rosse). Le manifestazioni funebri culminavano nel momento in cui, all’appello del morto, la massa fascista rispondeva “presente!” perché chi moriva con la fede nel fascismo, in un certo senso, acquisiva l’immortalità nella memoria collettiva. Nei cortei fascisti gli uomini dimostravano lo stesso orgoglio provato nelle trincee, in particolare nel “Natale di Roma”, all’anniversario della fondazione dei Fasci di combattimento e della Marcia su Roma, che scandiva gli anni dell’era fascista (in occasione del decennale del fascismo al potere fu aperta a Roma la Mostra della rivoluzione fascista, a cui collaborarono i maggiori artisti italiani del tempo). Si sviluppa anche il Mito di Roma: la Roma classica era spazio sacro dove per la prima volta si era manifestata la vocazione alla grandezza dello spirito latino. L’epoca romana era l’epoca delle origini, punto di partenza e riferimento, fonte di virtù civiche e senso dello Stato. I fascisti si proponevano di diventare i romani della modernità, suggestionando un mito attuabile in forme di disciplina civile e operante milizia. Il culto della romanità era celebrato modernisticamente come mito di azione per il futuro, mirante a creare una nuova civiltà per l’epoca moderna, solida e universale come la civiltà moderna (non vi è nostalgia di un passato da ricostruire, la tradizione è la forza spirituale dei popoli e la creazione costante della loro anima, il passato è una pedana di combattimento per andare incontro all’avvenire). In vista dell’Esposizione Universale prevista a Roma nel 1942, l’Eur venne destinato a eternare nei secoli il “tempo di Mussolini” e la gloria della civiltà italiana, attraverso una bianca monumentalità volta a significare il trionfo della solarità mediterranea e la vittoria del fascismo sul destino (oscura divinità che mette alla prova la capacità dei popoli di lasciare un’impronta duratura nella storia, perpetua lotta tra destino e volontà).
CAPITOLO X – L’UOMO NUOVO DEL FASCISMO
Mussolini e i fascisti si consideravano un’avanguardia di italiani nuovi che avevano l’ambizione di attuare una rivoluzione antropologica per forgiare una nuova razza di dominatori, di conquistatori e creatori di civiltà, nuove generazioni più forti, decise e dinamiche, in vista della stagione di guerra. Un ideale fondamentale in questo contesto è quello del cittadino-soldato (antitesi con l’uomo borghese): attivo, impegnato, virile, concepisce la vita come lotta, tutto è nello Stato e nulla ha valore fuori da esso. Tutta la vita individuale e collettiva doveva essere militarmente organizzata secondo i principi e i valori della sua concezione integralista della politica. Il culto del corpo non era altro, in realtà, che la riesumazione artificiale del legionario romano, la restaurazione del “buon contadino” frugale e laborioso e il “virtuoso borghese” di De Amicis, che coltivava uno smisurato senso del dovere e gli ideali di patria e monarchia. Il fascismo, infatti, fondando la sua moralità su valori di onestà e rispettabilità, rappresentava la rivoluzione borghese ideale, ma la sua natura militarista e collettivista era incompatibile con liberalismo e conservatorismo. La differenza fra rispettabilità in borghese e in uniforme era sottolineata anche dalla pretesa della civiltà borghese di reclamare una dimensione privata dell’esistenza (contrapposta all’identità del cittadino-soldato fascista). La convivenza tra i due tipi di rispettabilità era, pertanto, considerata come destinata a essere superata. L’aspirazione della nazione italiana a “conquistare la modernità”, superando le nazioni più sviluppate, si scontrava infatti con il carattere di “uomo del Guicciardini” (ossia dell’uomo del Rinascimento che vive e opera per coltivare il suo spazio, sacrificando tutti i valori che rendono le nazioni grandi), mantenendo il popolo in uno stato di “sonnolenza”. I movimenti di inizio 900, che sognavano una più grande Italia in grado di avere un
Document shared on www.docsity.com
Downloaded by: ivanmasci (ivanmasci00@gmail.com) posto di primo piano, disprezzarono Giolitti proprio in quanto incarnazione della mancanza di sincerità ed energia delle convinzioni, e dell’attaccamento a tradizioni e culti del passato. Essi svilupparono il mito dell’italiano nuovo inserendolo nel più ampio mito dell’uomo nuovo. I movimenti dei reduci che sorsero dopo la prima guerra mondiale ebbero in comune la convinzione di essere espressione della nuova Italia nata in trincea con il compito di rinnovare la classe dirigente e rigenerare la nazione. Il combattente diventato fascista e squadrista è il prototipo della nuova élite che doveva conquistare il potere spodestando la vecchia classe dirigente. Lo squadrista fu la prima versione dell’italiano nuovo, incarnava il mito della giovinezza e della vitalità contrapposto alla viltà dell’uomo borghese, liberale e democratico disprezzato perché considerato debole, pavido, senza fede e volontà di lotta. La guerra era considerata l’esame dei popoli, occasione per sfratare la leggenda degli italiani che non si battono grazie all’italiano nuovo, consapevole che la sua milizia proseguiva nella lotta ai “nemici interni”, avversari politici visti come tipi umani da eliminare in quanto antropologicamente incompatibili con la nuova Italia (al punto che Carli parlerà di “due razze”, dotate di opposta costituzione fisiologica e mentale). L’antifascismo rappresentava, quindi, l’antirazza, la cui potenza poteva pregiudicare l’intera nazione e il destino della civiltà e gli antifascisti erano esseri umanamente spregevoli, avidi di beni materiali, rinnegavano la patria (divisione tra italiani e non italiani). Furono quindi inasprite le crociate contro i disertori della battaglia della razza e gli scapoli (per costringerli al matrimonio o condannarli alla vergogna). La donna era considerata la migliore collaboratrice dell’educatore fascista. Sposa e madre, a lei era affidato il compito di fare figli ed educarli. Vi era la necessità di coinvolgere le giovani generazioni, più facilmente plasmabili all’ideologia del fascismo: la Gioventù Italiana del Littorio doveva essere un vero e proprio laboratorio per la formazione dell’italiano nuovo, una scuola di massa del PNF in cui poter allevare generazioni integralmente fasciste tra le cui fila scegliere i dirigenti del domani. Il mito della giovinezza, inoltre, dimostrava il primato dell’uomo sull’istituzione che, decaduta, diviene una maschera di vecchi ideali. Mussolini disse: “Voglio correggere gli italiani dai loro difetti tradizionali come troppo facile ottimismo, negligenza e ingenuità”. Egli credeva nella possibilità di modificare e migliorare la razza e il carattere degli italiani mediante la politica. Al contrario, secondo Bottai, quando si cerca la solidarietà nei giovani, si pone nelle loro mani una torcia, che incendierà presto o tardi l’istituzione. Nel progetto, da una parte vi era la creazione di una nuova aristocrazia al comando, dall’altra la massa degli italiani nuovi, allevati per essere docili strumenti nelle mani del Duce e del partito per attuare la politica di grandezza e potenza dello Stato totalitario e della nazione fascista: unico fattore egualitario sarebbe stata la comune fede nella religione fascista e il comune obbligo di dedizione totale allo Stato fascista. La rigenerazione degli italiani fu per Mussolini una vera e propria ossessione che lo accompagnò fino al crollo del regime; egli accusava gli italiani di “far resistenza a pensare e vedere grande”. Mussolini era, tuttavia, consapevole di aver perso la sfida della rivoluzione antropologica con gli italiani, da lui definiti “poco degni della mia Italia”. La rivoluzione antropologica fu un fallimento, ma l’esperimento fu realmente messo in atto e in esso furono coinvolti per due decenni milioni di italiani di entrambi i sessi e di tutte le generazioni.
CAPITOLO XI – LA MODERNITA’ TOTALITARIA
Fino agli anni 60 tra gli studiosi dominava l’idea che il fascismo non avesse avuto una sua ideologia; esso non meritava di essere studiato prendendolo in considerazione anche come movimento di idee. Tutti gli aspetti ideologici e istituzionali che furono propri del fascismo – militarizzazione della politica, mobilitazione delle masse, culto del Duce, concezione dello Stato totalitario, educazione dell’italiano nuovo, miti della nuova civiltà, riti e simboli di una religione politica – erano considerati come mascheratura della dittatura di un demagogo e di una classe sociale.
Document shared on www.docsity.com
Downloaded by: ivanmasci (ivanmasci00@gmail.com) In realtà, si può parlare propriamente di una ideologia fascista fatta di idee, credenze e progetti, e non di espedienti propagandistici e tecniche di manipolazione, che furono solo strumenti di diffusione. Si sottolinea la sincerità dell’ideologia fascista: essa è una brutale e franca dichiarazione di avversione per la libertà, l’eguaglianza, la pace, l’esaltazione di irrazionalità, sacrificio, forza, massa da plasmare. Il fascismo come ideologia e fenomeno politico non fu una creazione di Mussolini, ma fu espressione delle credenze, delle idee, dei miti e dei programmi di un movimento di massa sorto dall’esperienza della Grande Guerra e dalla reazione antisocialista dei ceti medi, che acquistò una sua propria autonomia come nuova forza politica organizzata, e si propose non solo di assicurare la difesa dell’assetto economico e sociale fondato sulla proprietà privata, ma volle realizzare una rivoluzione politica e culturale, attraverso la distruzione del regime liberale e la costruzione di uno Stato nuovo concepito secondo la forma inedita di organizzazione totalitaria della società civile e del sistema politico. Linz parla infatti di ideologia negativa, ossia di mera opposizione a ideologie preesistenti, ma anche di formulazioni positive, cioè la visione di vita, politica e organizzazione dello Stato. Rosa dimostrò, invece, l’insostenibilità della tesi secondo cui il fascismo sarebbe stato solo il braccio armato del nazionalismo: sarà invece quest’ultimo a irrobustire il fascismo, la cui prima aggregazione era stata politico-ideologica. Se consideriamo il fascismo come “ideologia della terza via” tra capitalismo liberale e collettivismo comunista, esso sarebbe nato in Francia molto prima, e sarebbe divenuto un sistema teorico compiuto precedentemente alla Grande Guerra (che offrì soltanto l’occasione per trasformare l’ideologia in movimento politico). Il contributo di intellettuali del sindacalismo rivoluzionario fu infatti rilevante, ma avvenne attraverso il ripudio dei fondamentali principi del socialismo marxista (dalla concezione di lotta di classe, all’estinzione dello Stato e al mito dello sciopero generale). Inoltre, secondo questa interpretazione, militarizzazione e sacralizzazione della politica e subordinazione alla comunità furono elementi non essenziali o addirittura di corruzione dell’idea platonica di fascismo idealtipico, svincolato dal fascismo storico. Se invece si affermasse che l’essenza del fascismo fu il razzismo, la paternità verrebbe contesa tra Francia e Germania, concludendo che fino al 1938 il fascismo italiano non fu propriamente tale. Le organizzazioni e le istituzioni (seppur espressione di valori costanti) sono spesso derivazioni di atteggiamenti contingenti. Inoltre, i movimenti che confluirono nel fascismo non possono essere definiti manifestazioni di “protofascismo”, poiché tali idee e miti furono comuni anche a movimenti antifascisti o comunque non fascisti. Tuttavia, presentarono tutte le principali caratteristiche di una ideologia politica moderna. Walter Benjamin, ad esempio, interpreterà il fascismo come “estetizzazione della politica”: la politicizzazione dell’estetica ispirò, infatti, l’atteggiamento fascista verso la cultura, la produzione simbolica e la “politica come spettacolo”. Secondo il paradigma della negatività storica, la militanza fascista di intellettuali poteva essere spiegata con l’opportunismo o l’ingenua valutazione di ciò che il fascismo era (data la necessità di simulare un consenso esteriore per tutelare un’interiore avversione, al fine di poter agire contro il fascismo dall’interno del fascismo stesso). Le ricerche recenti confermano, invece, che la loro partecipazione avvenne nella piena consapevolezza degli intellettuali, che credevano profondamente nel mito nazionale e nella progressiva fusione di filosofia, arti e scienze con la politica e quindi non ritennero che la politica totalitaria fosse in contrasto con la loro concezione della cultura, con la loro idea di modernità e con la loro visione del destino della nazione I futuristi furono affascinati dall’appello per la mobilitazione della cultura per la rigenerazione degli italiani e la formazione di una nuova civiltà che avrebbe impresso sul futuro lo stile di una modernità italiana. I futuristi addirittura protestarono spesso contro alcune decisioni politiche e culturali del regime, senza tuttavia mai mettere in discussione i motivi fondamentali dell’ideologia
Document shared on www.docsity.com
Downloaded by: ivanmasci (ivanmasci00@gmail.com) (avendo essi sempre sostenuto la simbiosi tra cultura, politica e vita, attraverso la simbiosi tra cultura e vita). L’avanguardia moderna della Voce e dei futuristi sperava che la cultura influenzasse il rinnovamento della politica per rigenerare la nazione in modo da renderla capace di affrontare la conquista della modernità. L’italianismo aveva portato questi movimenti, prima della Grande Guerra, a dare vita a una rivolta generazionale condotta in nome del ruolo creativo della giovinezza, in un’epoca di sconvolgimenti provocati dal turbine vibrante del grandioso congegno della vita moderna, con le scoperte scientifiche e lo sviluppo tecnologico. Anche i nazionalisti di formazione classicistica parlarono di un ritmo di vita che “sembra tutto travolgere, perché non sono ancora sorti i nuovi uomini consapevoli che abbiano l’animo pari alla nuova vita del mondo e siano forti sopra le nuove forze”. I mezzi tecnici di controllo e sfruttamento della natura permettevano infatti un espansionismo economico che favoriva una nuova pienezza della vita. La cultura italiana di inizio 900 e il nazionalismo modernista si caratterizzano per un grande entusiasmo per la modernità, intesa come espansione di energie umane, e un senso tragico e attivistico dell’esistenza. In politica questa è l’epoca delle masse e dell’ascesa di nuove élite. Si sviluppa l’idea che la nazione debba essere protagonista nella politica mondiale. Il nazionalismo modernista sosteneva, inoltre, la necessità di accompagnare la rivoluzione industriale con la “rivoluzione dello spirito”, che affermasse il primato di cultura, idee e sentimenti (per contrastare effetti negativi della modernizzazione quali materialismo, scetticismo ed egoismo) e formasse la coscienza e il carattere di un uomo nuovo in grado di comprendere e affrontare le sfide della vita moderna. La modernità è vista come epoca di crisi e tramutazione dei valori verso la formazione di una nuova civiltà. Grazie a giovani aristocrazie, non fondate sui privilegi di nascita e tradizione, sarebbe stato quindi possibile superare la civiltà cristiana con l’avvento di una nuova civiltà pagana. I vociani proponevano una nuova democrazia nazionale di massa, auspicando riforme concrete come il suffragio universale, decentramento amministrativo, liberismo, ma anche una rigenerazione degli italiani che li liberasse dall’abitudine alla sudditanza e al conformismo. I futuristi, secondo Boccioni, volevano spingere l’Italia al lavoro tenace e alla conquista feroce, mentre l’avanguardia attribuiva alla guerra un significato di esame collettivo di disciplina e sacrifico, in cui si temprava e si metteva alla prova il carattere del popolo. Si sviluppa anche il mito della violenza rigeneratrice, che portà con sé l’idea della moralità della guerra, vista come esame collettivo di disciplina e sacrificio in cui si temprava il carattere dell’individuo e della nazione. La partecipazione dell’Italia alla Grande Guerra fu voluta come rito di iniziazione collettiva degli italiani alla modernità. Nata dall’esperienza della Grande Guerra ed erede del nazionalismo modernista, l’ideologia fascista può essere considerata una manifestazione di modernismo politico, inteso come ideologia che accetta la modernizzazione e ritiene di possedere la formula capace di trasformare gli esseri umani. Il fascismo impose, tuttavia, la propria visione di modernità, contrapposta a quella socialista e comunista, attraverso lo sperimentalismo istituzionale e l’uso mitico della storia per richiamarsi ai miti di passate grandezze al fine di creare quelle future (ispirandosi a virtù civiche e senso dello Stato). Il mito della “rivoluzione continua” spinse il fascismo a non garantirsi la permanenza al potere con una politica di conservazione, bensì a incanalare a vantaggio della potenza nazionale tutte le energie della modernizzazione, la cui manifestazione universale era propria la fede nella potenza rigeneratrice della politica. Il fascismo aveva verso la modernità un atteggiamento ambivalente. Distingue tra una modernità “sana” da costruire, e una modernità “perversa” da combattere (materialismo borghese, individualismo liberale e collettivismo comunista). La modernità fascista imponeva agli individui e alle masse la rinuncia alle libertà e alla ricerca della felicità in nome del primato assoluto della collettività nazionale, organizzata nello Stato totalitario, per conseguire fini di grandezza e potenza.
Azione Antifascista: Storia, teoria e pratica della resistenza alla violenza squadrista e razzista: dai camerati di Mussolini e Hitler al suprematismo bianco della “nuova destra” in Europa e negli Stati Uniti