Sei sulla pagina 1di 5

La nascita del termine.

Il 12 maggio del 1923 compare, sulle colonne de “Il Mondo” un articolo di Giovanni
Amendola dal titolo Maggioranza e minoranza. Il tema centrale è il metodo di governo e di
sopraffazione che il fascismo – a pochi mesi dalla presa del potere – mette in atto sul piano
della politica e delle amministrazioni locali: occupazione forzata dei municipi, dimissioni
forzate degli amministratori, convocazione di nuove elezioni. La connivenza dei prefetti
risulta determinante ma anche l’uso sistematico dell’intimidazione e della violenza che fanno
sì che le liste di minoranza e di minoranza siano in effetti entrambe espressione del partito
dominante che impedisce ad ogni opposizione di strutturarsi. Tale modus operandi del
fascismo viene chiamata da Amendola “sistema totalitario”, che si configura come “promessa
del dominio assoluto e dello spadroneggiamento completo e incontrollato nel campo della vita
politica ed amministrativa”. È in questa occasione che, probabilmente, sebbene come
aggettivo viene usato per la prima volta il termine. Tuttavia non è casuale ed estemporaneo
tale uso. Poche settimane dopo, Amendola ribadisce, sulle colonne della stessa rivista, che vi
è uno “spirito totalitario” nella volontà fascista di approvare la legge elettorale Acerbo. E
ancora, ad un anno dalla marcia su Roma, sottolinea come “veramente la caratteristica più
saliente del moto fascista rimarrà, per coloro che lo studieranno in futuro, lo spirito totalitario;
il quale non consente all’avvenire di avere albe che non saranno salutate col gesto romano,
come non consente al presente che non siano piegate nella confessione ‘credo’”. Su un altro
versante, ma sempre in riferimento alla questione elettorale, Luigi Sturzo scrive, nel 1924, su
“La Rivoluzione Liberale” dello “spirito di dittatura che oggi pervade l’Italia, descrivendo il
sistema fascista come tendente alla “trasformazione totalitaria di ogni e qualsiasi forza
morale, culturale, politica, religiosa”, indicando nel contempo al fascismo la strada per uscire
dall’illegalismo nella rinuncia all’identificazione tra stato e partito.
Come si vede, il termine “totalitarismo” viene dunque utilizzato – e gli esempi potrebbero
essere molti – in una dimensione politica e per certi versi descrittiva del sistema di potere
fascista. Tuttavia, nel momento in cui il fascismo si trasforma concretamente in regime
dittatoriale (in sostanza dopo le leggi fascistissime del gennaio 1925), la definizione del
termine inizia a colorarsi di caratteristiche metapolitiche che ne seguiranno il destino
successivo. E’ lo stesso Amendola che, nel giugno 1925, scrivendo l’introduzione agli Atti del
Congresso dell’Unione Nazionale parla di Stato fascista come Stato-Leviatano e aggiunge: “Il
fascismo rappresenta soprattutto l’esagerazione parossistica e monomaniaca dell’ingerenza
del potere esecutivo in tutta la vita statale e sociale, il capovolgimento acrobatico dei rapporti
normali tra Stato e Società in virtù del quale la società esiste per lo Stato e lo Stato per il
governo ed il governo per il partito”.
È significativo che una settimana dopo l’intervento di Amendola al Congresso dell’Unione
Nazionale – in cui aveva espresso le tesi sopra riportate – Mussolini riprende la parola
parlando, al quarto congresso nazionale del Pnf, della “nostra feroce volontà totalitaria” di
“fascistizzare la nazione” al cento per cento. D’altra parte, che il termine non nasca
originalmente nell’ambito del fascismo ma sia, al contrario, preso in prestito dal campo
antifascista lo dimostra un discorso di Roberto Forges Davanzati (ex nazionalista e membro
del direttorio del Pnf) all’istituto di cultura di Firenze nel 1926: “Se gli avversari ci dicono
totalitari, che siamo domenicani, che siamo intransigenti, che siamo tirannici, non vi
spaventate di questi aggettivi. Prendeteli con onore e con orgoglio… sì siamo totalitari!
Vogliamo essere tali, dal mattino alla sera, … vogliamo essere domenicani…, vogliamo
essere tirannici”.

Sviluppo del termine tra le due guerre. Il termine “totalitarismo” varca i confini nazionali
nel 1926 quando a Londra viene pubblicato Italy and Fascism di Luigi Sturzo e il traduttore
B.B. Carter inventa gli italianismi “totalitarian” e “totalitarianism” che da questo momento
avranno un successo e una diffusione mondiali.
Negli anni Trenta, il termine inizia ad entrare prepotentemente – in modo diretto o indiretto –
nelle analisi del fascismo e parzialmente dello stalinismo svolte dai contemporanei. Non è qui
possibile darne compiutamente conto ma si tenga presente che il ventaglio è molto ampio,
soprattutto nella qualità e nell’uso proprio o improprio del termine. Sarà sufficiente fare tre
esempi.

Gli anni Cinquanta. La grande stagione dell’analisi dei totalitarismi si conclude negli anni
Cinquanta con due opere che segnano il punto più alto della riflessione scientifica
sull’argomento, Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt del 1951 e Totalitarian
Dictatorship and Autocracy di Friedrich e Brzezinski del 1956.
Secondo Arendt il totalitarismo “è una forma di dominio radicalmente nuova, perché non si
limita a distruggere le capacità politiche dell’uomo, isolandolo in rapporto alla vita pubblica,
come facevano le vecchie tirannie e i vecchi dispotismi; ma tende a distruggere anche i gruppi
e le istituzioni che formano il tessuto delle relazioni private dell’uomo, estraniandolo così dal
mondo e privandolo fin del proprio io”. Per raggiungere tale fine, il totalitarismo usa una
combinazione di terrore ed ideologia. L’ideologia costituisce, da questo punto di vista, un
insieme del tutto coerente poiché fondato sulla certezza assoluta della sua validità e senza
rapporto con la fattualità storica; da ciò ne derivano azioni coerenti poiché legate direttamente
all’evoluzione storica così determinata. Conseguenza essenziale è che, in tal modo, lo stesso
contenuto ideologico perde valore. Il terrore serve, conseguentemente, a tradurre in realtà la
logica fittizia strutturata dall’ideologia. Colpisce i nemici reali nella fase di instaurazione del
regime, poi i nemici “oggettivi” la cui identità non è in relazione alla pratica antisistema bensì
alla loro stessa natura, arrivando a colpire a caso. “Il terrore totale, che irregimenta le masse di
individui isolati e le sostiene in un mondo che per esse è diventato un deserto, diventa perciò
uno strumento permanente di governo, e costituisce l’essenza stessa del totalitarismo; mentre
la logica deduttiva e coercitiva dell’ideologia ne è il principio d’azione, cioè il principio che
lo fa muovere”. Sul piano organizzativo, l’elemento sincronizzante tutti i gruppi e le
istituzioni è il partito unico che politicizza tutte le sfere d’azione dell’individuo, ne regola i
comportamenti e lo sorveglia attraverso la polizia. Tuttavia non ne deriva una struttura
monolitica del totalitarismo poiché all’interno del sistema si creano istituzioni e gruppi con
parti di potere e in conflitto tra loro che segnano quell’”assenza di struttura” che anch’essa
costituisce una caratteristica del totalitarismo. A dare omogeneità ideologica ed organizzativa
si erge la figura del capo, depositario della legittimità ideologica e pratica del regime.
Dunque, nel modello della Arendt la personalizzazione costituisce una sorta di terzo pilastro
(accanto all’ideologia e al terrore) del totalitarismo anche se non lo afferma esplicitamente.

Cos’è il totalitarismo. Vi sono tre elementi fondamentali – che saranno poi ripresi quasi
sempre dai teorici successivi – che accumunano le due teorie, ovverossia la centralità
dell’ideologia, del terrore e del partito unico che armonizza ed organizza i primi due fattori (il
controllo dei mezzi di comunicazione e la polizia segreta sarebbero ulteriori specificazioni di
questi tre elementi).
In buona sostanza, se ha ragione Norberto Bobbio nell’identificare il totale assorbimento della
società civile nello stato come elemento specifico del totalitarismo, nondimeno ha ugualmente
ragione Claudio Pavone quando sottolinea che allora “non possiamo non dubitare che sia
esistito e che possa mai esistere uno stato totalitario così perfetto e così ben riuscito, che
davvero includa in sé tutta la vasta rete di rapporti umani, sociali, familiari, religiosi, culturali,
lavorativi che contraddistinguono una società civile sempre più complessa, come bene o male
erano anche le società che hanno dovuto subire i regime totalitari. Questa non vuole essere
una consolazione teorica, e tantomeno può essere una consolazione retrospettiva per coloro
che hanno sofferto sotto i regimi totalitari. È piuttosto un atto di fiducia nella libertà umana e
può aiutarci a dare un senso a quella ricostruzione della politica in senso democratico.
Insomma, c’è sempre uno spiraglio attraverso cui la società, non totalmente assorbita, riesce a
passare oltre”.

Confronto tra nazismo e stalinismo. Innanzitutto, è necessario mettere in luce le profonde


differenze tra fascismo (nella sua versione nazista) e comunismo.
Comunismo: costituisce un insieme coerente di principi che definisce una possibile
trasformazione della struttura economico-sociale della comunità; è un’ideologia umanistica,
razionalistica e universalistica; ha l’uomo al suo centro, lo ritiene perfettibile e mira a
costruire un sistema fondato sulla piena uguaglianza e libertà; la violenza è considerato un
elemento strumentale per raggiungere un fine.
Fascismo: è un insieme di idee e di miti che non prevede il cambiamento della struttura
economico-sociale della comunità; ha un’ideologia organicistica, irrazionalistica e
antiuniversalistica; pone la razza al centro del suo sistema; ritiene la violenza uno strumento
di governo.
Inoltre, appaiono diversi i gradi di industrializzazione delle società nelle quali si instaurano
sistemi comunisti o fascisti, come i criteri e le aree sociali di reclutamento dell’élite e della
base di massa. Nondimeno, tali elementi non sono sufficienti per sostenere che il concetto di
totalitarismo non sia applicabili a determinati regimi (o meglio a fasi storiche di questi regimi)
anche se di segno diverso. Infatti, ideologie diverse possono comunque determinare pratiche
di dominio simili. Ciò da cui comunque non bisogna farsi sviare è, da un lato, dalla facile e
superficiale analogia, dall’altra dalla differenza puramente teorica o, se vogliamo, dogmatica.
E’ necessario, al contrario, un metodo comparativo e storicamente fondato. Da questo punto
di vista, ha quindi un senso confrontare nazismo e stalinismo. Tale comparazione implica la
necessità di individuare alcuni riferimenti prettamente storici, in termini analitici e in termini
di contestualizzazione, che seppure non possono avere la pretesa dell’esaustività, sono in
grado di individuare i principali luoghi del confronto:

1) l’elemento che sta alla radice della fondazione dei suoi sistemi è chiaramente diverso (il
sangue e la classe) così come gli elementi interpretativi che ne derivano (la centralità delle
origini e il nazionalismo; la disuguaglianza sociale e l’internazionalismo) ma entrambi i
sistemi sono convinti che “non solo si possa spiegare la crisi della società borghese con le
sue varie manifestazioni ma si riconoscono in modo chiaro le leggi storiche o naturali che
stanno alla base di questi fenomeni”. Di fronte alla crisi finale della società borghese si
giustifica così la violenza e la durezza che bisogna mettere in campo. Non è quindi un
caso che siano due fenomeni caratterizzati dalla violenza a dare origine all’intero sistema:
da un lato la I guerra mondiale per la Germania che fornisce i presupposti
nazionalsocialisti (le colpe dell’internazionalismo, delle classi, degli ebrei, ecc.) con “una
validità quasi empirica”; dall’altra la guerra civile per la Russia “che contribuì
all’imbarbarimento della società russa, in particolare della gioventù, mentre l’esperienza
della violenza segnò in maniera irreversibile un’intera generazione, affermandosi come
mezzo di sicuro successo nella disputa politica”
2) In entrambi i regimi, inoltre, si configura l’esistenza di élite sostanzialmente omogenee
per ciò che concerne sia la complessiva visione del mondo di cui sono portatrici, sia il
fatto che siano segnate da specifiche esperienze nel contesto della guerra e della guerra
civile, sia profondamente ideologizzate. Queste diventano il gruppo dirigente degli anni
successivi, che si distinguerà per la brutalità con cui conseguono il proprio fine politico.
3) “Comune alle due ‘élite portatrici di visioni del mondo’ era la convinzione di poter
avviare in tempi molto brevi e con uno sforzo enorme un processo che avrebbe risolto
molti, se non tutti, i problemi sociali una volta per sempre. Questo ebbe numerose
conseguenze. Innanzitutto ne derivò l’idea che, rimuovendo i responsabili di questi
problemi, anche i problemi sarebbero scomparsi”. In secondo luogo, ne derivò che i
cambiamenti dovevano essere realizzati il più rapidamente possibile. “E’ un’idea che
conferisce un carattere rivoluzionario al movimento, perché la convinzione che il
cambiamento non era possibile attraverso un cammino lento e di riforme fu la premessa
per la scelta di una soluzione veloce, rivoluzionaria, e costituì la differenza decisiva
rispetto ai socialdemocratici da una parte e ai nazionalisti tedesche dall’altra”. In terzo
luogo, ne derivò una straordinaria capacità di mobilitazione che caratterizzò il nazismo
come “puro regime di mobilitazione”, meno accentuato in Urss e presente soprattutto nelle
“campagne”.
4) Altro elemento è la lealtà e il dissenso dei sostenitori: “il regime stalinista fu dittatura di
una minoranza che non potè appoggiarsi con fiducia su componenti precise della propria
popolazione, se non per difendersi contro l’aggressore esterno. Di conseguenza, la sua
forza terroristica si diresse in primo luogo contro il proprio popolo. Il regime nazista
venne all’inizio guidato da una minoranza, che però ben presto si trasformò in
maggioranza; la sua dinamica distruttiva si è rivolta innanzitutto contro le popolazioni dei
paesi conquistati dell’est e contro gli ebrei d’Europa perseguitati per motivi razziali. I
diversi obiettivi della forza terroristica di entrambi i regimi riflettono le diverse coordinate
della visione del mondo che ne è alla base”
5) La logica policratica interna ai regimi mostra in realtà più differenze che analogie.
“Diversamente dall’Unione Sovietica, in Germania funzionò, fino agli ultimi giorni della
guerra, un apparato statale altamente differenziato ed efficiente, una burocrazia
diversificata, un corpo di giuristi e di economisti altamente professionalizzati, un sistema
sociale complesso e un apparato di governo federale e gerarchizzato. Tutto ciò in Unione
Sovietica era inesistente o quasi. Anzi, una delle caratteristiche del sistema stalinista fu la
mancanza di un’infrastruttura amministrativa tipica di uno stato moderno, così che il
sistema di potere fu totalmente centralizzato, pressoché privo di gradini gerarchici
intermedi, mentre l’apparato centrale perdeva presa su interi ambiti sociali e spazi
pubblici. Per bilanciare queste carenze, il partito era, insieme all’esercito, l’unico
strumento di potere sufficientemente differenziato, sia dal punto di vista delle funzioni sia
del personale, per imporre la volontà dell’apparato centrale. Un obiettivo questo che
tuttavia era praticabile solo attraverso campagne, intese come misure straordinarie e non
certo commisurabili a un apparato amministrativo di forma moderna, cui si può far ricorso
in ogni momento e dappertutto”. In sostanza “il regime stalinista si rivela come il più
policratico”.
6) In Germania il terrore è rivolto verso l’esterno (i nemici interni non sono più del 5%)
mentre in Urss soprattutto verso l’interno; inoltre il terrore in Germania ha un alto grado
di razionalità che manca in Urss dove è alto il grado di casualità. Molto diverso è poi il
sistema dei Lager: in Germania il lavoro coatto è una manifestazione secondaria mentre lo
sterminio è l’obiettivo primario; in Urss il contrario. Se si guarda invece alle deportazioni
ad Est aumenta il parallelismo: “le deportazioni ‘a Oriente’, perpetrate con incredibilità
brutalità, di minoranze etniche e gruppi che nel sud e nell’ovest dell’Unione Sovietica
venivano visti come potenziali collaboratori dei tedeschi, come agitatori politici o anche
solo come persone non addomesticabili, dimostrano che l’ìarcipelago Gulag’ venne
costruito come sistema di repressione non solo contro i nemici politici e sociali, ma anche
contro quelli ‘etnici’”.

Le differenze, nel complesso, appaiono più marcate delle analogie, proprio in relazione alle
caratteristiche dei due sistemi, mentre nel contempo, risulta necessario sottoporre ad analisi
altre due prospettive. La prima è quella che individua lo stalinismo come portatore di valori
comunque positivi in contrapposizione al nazismo portatore di valori negativi. In tale tesi vi è
una parte di verità ma nello stesso tempo la sua dogmaticità non consente di tradurla in una
categoria interpretativa dal punto di vista strettamente storico, bensì casomai ideale. La
seconda è quella prettamente revisionista che individua nel nazismo la risposta alla minaccia
bolscevica poiché, a ben guardare, i due sistemi hanno sviluppato la loro tecnica di sterminio
“non per distruggersi l’un l’altro, visto che si consideravano reciprocamente non più che la
variante emergente del nemico principale” (Herbert).

Il fascismo italiano è totalitario? Secondo Hannah Arendt Mussolini avrebbe coniato il


termine “totalitarismo” ma non sarebbe riuscito ad applicarlo all’Italia fascista. Come si è
visto metà di questa tesi è falsa in partenza. Nondimeno, il problema posto dalla Arendt
rimane nella sua sostanza centrale. Più che dare una risposta definitiva, credo possa essere più
utile offrire alcuni elementi che, a mio avviso, devono essere tenuti presenti in un’analisi di
questo tipo:
a) Il concetto nasce in Italia, il fascismo lo utilizza per qualificare il proprio sistema di
dominio ma nello stesso tempo, come si è visto, non appartiene al pur debole bagaglio
ideologico del fascismo ma è un’appropriazione della riflessione dell’antifascismo.
b) Quando il fascismo va al potere è comunque “la prima volta che la cultura antiliberale,
antidemocratica, antisocialista, irrazionalistica, conquistava il potere politico. Fu un
grande evento che inerisce alla stessa definizione storico-teorica del totalitarismo”
(Pavone)
c) La fase di passaggio essenziale è data dalla trasformazione del fascismo in regime,
attraverso le leggi fascistissime, che segnano in questa prospettiva il lento passaggio da
dittatura a regime totalitario.
d) Le evidenti differenze tra nazismo e fascismo italiano non possono tuttavia far
dimenticare le forti analogie, che quindi devono essere tenute presenti. Tra queste almeno
due devono essere ricordate: l’uso sistematico della violenza e del disordine; il razzismo e
la politica razziale che, a differenza di quanto a lungo sostenuto, non sono stati in Italia
fenomeni né blandi né puramente imitativi.
e) L’organizzazione dello Stato e i suoi limiti hanno messo in luce con chiarezza, attraverso
la sottolineature dei limiti al sistema di dominio fascista in Italia determinati dall’esistenza
di altre due istituzioni forti come la monarchia e la Chiesa.
f) La produzione di un fenomeno di atomizzazione degli individui, inteso “come la faccia
sporca dell’individualismo”. Per dirla con Michelet “uniti nell’azione, disuniti nel cuore”
g) L’esistenza di una dottrina e di una pratica del partito unico.

Potrebbero piacerti anche