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Università estiva di Attac

12-14 settembre Cecina Mare


Movimenti, conflitti, democrazia, rappresentanza
La partecipazione oltre le organizzazioni novecentesche

Una traccia per facilitare la conversazione


di Paolo Cacciari

Bisogna che noi ci rendiamo capaci di pensare e di creare un


nuovo Stato, che non può più essere né quello fascista, né
quello liberale, né quello comunista, forme tutte diverse e
sostanzialmente identiche della stessa religione statale.
Dobbiamo ripensare ai fondamenti stessi dell’idea di Stato: al
concetto di individuo che ne è alla base; e, al tradizionale
concetto giuridico e astratto di individuo, dobbiamo sostituire
un nuovo concetto, che esprima la realtà vivente, che abolisca
la invalicabile trascendenza di individuo e di Stato.
L’individuo non è una entità chiusa, ma un rapporto, il luogo
di tutti i rapporti.
(Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli,[1945] Einaudi,
Torino, 1990, pp.222-223 )

1.
Si suole dire che la democrazia sia in crisi, agonizzante, già morta, ridotta ad un simulacro. In
verità bisognerebbe essere più precisi [della Porta 2011]. In crisi di credibilità (efficacia) e di
legittimazione (consenso) è la particolare forma storica di democrazia liberale,
rappresentativa, parlamentare che ha retto lo stato su base nazionale e che a sua volta si è
retta sulle istituzioni politiche: assemblee elettive, partiti, apparati pubblici. Più propriamente
ancora, è giunta al crepuscolo la variante socialdemocratica della democrazia.
E non potrebbe essere altrimenti! La prolungata crisi recessiva esplosa nel “sistema mondo
Nord-atlantico” [David Graeber] nel 2008 (ma con origini molto più lontane nel
tempo[Trenkle e Lohof]) ha fatto saltare il patto sociale fondamentale che ha retto le società
a “capitalismo avanzato”, vale a dire lo scambio tra cittadino e potere fondato sul voto
attraverso il quale il primo cede la sua parte di sovranità popolare ad una elite di governanti
professionisti in cambio di una promessa di sicurezza e benessere.
Il fallimento della democrazia liberale consiste nella sua illusorietà, nel non aver mantenuto
le sue promesse (come già spiegava Norberto Bobbio), nel non essere riuscita a stabilire un
equilibrio tra gli “ideali alti” della democrazia (partecipazione egualitaria) e gli “animal

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spirits” del capitalismo: “la formula della democrazia liberale si è dissolta nelle entropie della
globalizzazione e della mercificazione globale” [Carlo Donolo]. Una storia lunga più di due
secoli di tentativi di compatibilizzazione tra capitale e democrazia sta facendo una brutta
fine. Un informato osservatore delle vicende del capitalismo ha affermato: “La democrazia e
il capitalismo hanno rovesciato il loro rapporto: il capitalismo ha invaso la democrazia e le
leggi ovunque non toccano il potere delle corporation” [Guido Rossi]. La principale
impalcatura su cui reggeva la “civiltà occidentale”, cioè la supposta sinergia tra democrazia e
mercato, sta cedendo. Siamo entrati un una fase di “superamento di un modello di
democrazia, fondato geograficamente sullo Stato-nazione e, sul piano dei processi, sul
principio di rappresentanza, nonché su una rigida separazione della sfera politica dalle altre
sfere della società” [Luca Altieri e Luca Ruffini, 2014, p.3].
Considerando le prerformances economiche della Cina e di altre potenze emergenti a scarso
tasso democratico, torna plausibile la domanda – che fino a qualche tempo sarebbe stata
ritenuta blasfema – se crescita della produttività e dei rendimenti del capitale e democrazia
siano compatibili. La democrazia sembra diventata disfunzionale alla crescita e alla
riproduzione del capitale. Il neoliberismo si sta dimostrando il killer del liberalismo! “Come
mi diceva anni fa un mio amico economista, già comunista, si diventa liberali per
disperazione” [Longobardi].

2.
Alla crisi delle capacità attrattive ed egemoniche dell’ex Primo mondo le elite al potere, le
reti di comando e di regolazione finanziarie, mediatiche, accademiche e politiche delle
corporation, rispondono con un giro di vite dei dispositivi coercitivi. Più o meno
direttamente. Intimidazioni (riarmo), ricatti (disoccupazione), manipolazioni (TINA).
Soprattutto, con riorganizzazioni e ristrutturazioni che allungano le filiere di produzione del
valore delle merci all’intero globo (e all’intera vita delle persone – biocapitalismo), riescono
a segmentare la “composizione tecnica della forza lavoro” rendendo praticamente
impossibile la formazione di un movimento dei lavoratori subordinati intercategoriale e
transnazionale. Il corpo sociale è stato frantumato, individualizzato, atomizzato,
corporativizzato per professioni, separato per etnie, diviso per appartenenze religiose e così
via.
Sul versante istituzionale i poteri tecnocratici dominanti, tramite i suoi “procuratori”,
chiedono un totale asservimento e funzionalizzazione delle scelte politiche alle ragioni del
mercato. Saremmo così entrati in una fase “post-democratica” [Colin Crouch], di

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“democrazia dispotica” [Revelli], di “democrazia senza popolo” [Rodotà]. Insomma, una ex-
democrazia. Le ripetute esortazioni di Draghi agli stati non potrebbero essere più esplicite:
innescare il “pilota automatico” e “cedere sovranità” a favore della Troika. Davvero
illuminante un documento di qualche tempo fa della JP Morgan: “Le costituzioni e le
soluzioni politiche nella periferia meridionale, poste in essere dopo la caduta del fascismo,
hanno una quantità di caratteristiche che appaiono inadatte a un’ulteriore integrazione nella
regione”[Leiggt Phillips]. Fuori i Pigs dall’Europa!
Le risposte repressive (vedi Val di Susa con la riscoperta del “confino di polizia”) [Della
Porta] e securitarie (vedi le politiche contro l’emigrazione) ai conflitti sociali sono le sole
politiche di cui i governi sono capaci. E’ una deriva che viene da lontano, Come ricorda
Cotturri, già nel 1975 una Commissione Trilaterale (Usa, Europa, Giappone), a fronte del
crescente “sovraccarico di domanda” di democrazia emergente dalla società, dava
l’indicazione di “conferire ai governi un di più di potere decisionale: nacque lì una stagione
di proposte di riforma dei sistemi politici nel segno del ‘decisionismo’ delle classi dirigenti
(Reagan, Thatcher, Craxi)”. Da allora si è provocata una torsione: dalla democrazia della
rappresentanza a quella della investitura (del governo).

3.
Ma la democrazia, intesa come “ideale democratico”, è tutt’altro che in crisi. La democrazia,
se “presa sul serio” [Flores d’Arcais], come tensione permanente all’autogoverno, come
conflitto inesauribile tra demos e kratos (in contrapposizione alla dominazione), come
rivendicazione continua di allargamento della partecipazione popolare alle scelte di interesse
comune, come “domanda incontenibile di libertà”, come “legge spirituale della libertà
individuale”, come il bakuniano “istinto per la libertà” che risponde all’ideale kantiano della
“auto legislazione dell’essere umano”, come prassi che consente di approssimare l’“auto-
nomos”, la possibilità di darsi da sé la propria legge esercitando la libertà e il potere di-tutti-
e-di-ciascuno, come ideale fondativo delle società umane… è tutt’altro che superato. Lo
dimostrano i periodici cicli di rivolta che in suo nome attraversano i quattro angoli del globo,
confermando l’esistenza di una “antropologia positiva, di una insofferenza naturale
nell’indole umana ad ogni forma di costrizione e di ingiustizia.
Limitandoci ad osservare gli ultimi vent’anni troviamo almeno due grandi cicli di proteste: il
primo ha inizio con la rivolta del Chiapas del 1994, passa per Seattle, l’Argentina, Genova,
Porto Alegre… per giungere alla mobilitazione contro la “guerra preventiva globale” in Iraq
[Translorm!]. Il secondo comincia a Sidi Bouzid, una cittadina della Tunisia, il 17 dicembre

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2010, quando un ragazzo di 26 anni, Mohamed Bouaziz, si da fuoco. Poi sarà Piazza Tahrir a
Al Cairo, lo Yemen, il Bahrein e le altre “primavere arabe”. A seguire, tra febbraio e maggio
2011, prima a Vancouver, poi negli Stati Uniti, quindi in Spagna partono le occupazioni
delle piazze e di luoghi pubblici. Occupy Wall Streat e Indigandos per due anni diventano un
simbolo della resistenza al neoliberismo [Manuel Castells]. Ma c’è anche la straordinaria
mobilitazione in Islanda che portò nel 2011 alla nuova Costituzione “dal basso”,
crowdsourcing. E la resistenza popolare dei greci ai diktat delle istituzioni finanziarie
europee.

4.
Sarebbe semplicemente ridicolo pensare che i nuovi movimenti sociali e civili che aprono il
XXI secolo siano tutti coerenti e catalogabili dentro un unico filone definibile genericamente
anticapitalistico, antagonista o antisitema. Essi rappresentano semplicemente un vastissimo,
multiforme repertorio di contestazioni, proteste e ribellioni con una forte radicalità ed
elementi di straordinaria novità.
Se mi è permesso sintetizzare in una battuta intere biblioteche di sociologia politica e di
storia, potremmo dire che una volta - per duecento anni e più - era relativamente semplice
associare rivolte e rivoluzioni a precise identità collettive e classi sociali. Oggi, nella parte
del mondo che vede il declino economico dei paesi a capitalismo maturo, la conseguente
destrutturazione dei sistemi di organizzazione e di rappresentanza politica e la generale
caduta della presa egemonica culturale dei “valori dell’Occidente”, è più difficile individuare
i soggetti promotori dei conflitti, gli attori e gli agenti del cambiamento seguendo delle
griglie interpretative predefinite.
Agli occhi dell’osservatore sembra quasi che sia la stessa protesta e il protagonismo sociale e
politico a creare l’identità culturale e politica dei nuovi movimenti [Alteiri, Raffini]. E’ una
osservazione molto importante, perché il bisogno di stare assieme, di mettere-in-comune le
proprie energie, di condividere il proprio saper fare, le proprie esperienze e le proprie
competenze esprime una domanda di inclusione e di partecipazione che sembra voler
compensare e colmare il vuoto di relazioni umane esistente nella società “strutturata”,
rompendo l’isolamento solipsistico cui le persone sono costrette dalle relazioni sociali, di
produzione e di consumo, dentro cui sono immerse.
L’azione per la “messa in comune” del fare concreto che produce ricchezza è l’elemento
determinante di una società democratica. Per descrivere questo fenomeno John Holloway si è
inventato un verbo: “comunizar”. “In qualsiasi società (compresa quella attuale) esiste una

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convergenza delle differenti attività, un fattore agglutinante dei diversi soggetti attivi, una
qualche forma di socialità, di ‘comunalità’, un qualche tipo di comunanza tra coloro che
fanno, una qualche forma del mettere in comune” [Holloway]. L’aspirazione dei movimenti
sociali è riuscire a rovesciare a proprio favore queste forme di collaborazione sociale,
riorientandone i fini dal profitto alla mutualità, dalla crescita dei rendimenti monetari al
miglioramento delle condizioni di vita di tutti e di ciascuno.
Le invenzioni dei presidi, degli acampada, delle occupazioni delle piazze e dei beni pubblici
dismessi, così come le comunità virtuali sui social network, sono di per sé produttrici di
senso - per quanto assurdo possa sembrare – più ancora e prima degli stessi contenuti
programmatici posti alla base delle azioni collettive. E’ il caso in cui mezzo e scopo, concetti
e strumenti espressivi, parole e cose si integrano perfettamente [Favilli]. Secondo Castell
“l’origine dei movimenti sociali va ricercata nelle emozioni dei singoli”. Mentre “il ruolo
delle idee, delle ideologie e delle proposte programmatiche” entra in gioco in seconda
battuta. [Castells]. Le motivazioni principali che innescano i processi di aggregazione e che
generano “consonanze cognitive” e identificazioni comunitarie sono quindi da ricercare
principalmente in una insofferenza generica verso le ingiustizie, la prevaricazione,
l’autoritarismo, la dismisura… in una parola: l’assenza di democrazia. Nello slogan di
successo “Noi siamo il 99%” , non c’è solo la denuncia della ineguaglianza nella
distribuzione della ricchezza, c’è – forse, soprattutto – una visione universalistica del bene
comune. Nelle proteste dei nuovi movimenti le dimensioni economiche, ecologiche,
pacifiste, femministe, multietniche… si intrecciano e si ricompongono nella idea di fondo di
voler reinventare la democrazia per modificare le relazioni di potere nelle istituzioni sociali.
Secondo Castells il programma del “partito del Futuro” avrà un unico obiettivo: “democrazia,
punto e basta” [Martins].
In questa ottica le accuse di localismo, parzialità, impoliticità che spesso vengono formulate
da destra e da sinistra ai nuovi movimenti appaiono del tutto ingiustificate e fuori luogo. La
politicità intrinseca, genuina ed esplicita dei nuovi movimenti sociali è del tutto evidente.
Basta volerli ascoltare!

5.
I nuovi movimenti sociali, da qualsiasi punto di partenza prendano origine (da una ciclo-
officina o dal no alla guerra, da una palestra popolare o dalla solidarietà alla Palestina, da un
gruppo di acquisto solidale o dalla lotta alle mafie e alla corruzione, dalla difesa di un posto
di lavoro alla salubrità ambientale…), sono portatori di una visione partecipata delle relazioni

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umane. Che siano one issue o persino single event, che siano associati in reti globali (per
esempio conto il mutamento climatico o il lavoro schiavo minorile) o sparpagliati sul
territorio (come nel caso dei comitati contro le grandi opere inutili e pericolose)… tutti
pongono al centro dell’interesse loro (e lo rivendicano per l’intera società) il miglioramento
delle condizioni della vita. “La colonizzazione attraverso il mercato continua a scontrarsi con
la logica della vita” [Wolfgang Streeck]. Un conflitto che è rilevabile ovunque: nei Sud come
nei Nord del pianeta, nelle campagne come nelle periferie delle megalopoli, tra i giovani a
cui è negato il futuro come tra gli anziani impoveriti. Soprattutto tra le donne che, per ragioni
antiche di discriminazioni, conoscono meglio di chiunque altro quanto sono dure e difficili le
attività della presa in cura della vita, del lavoro necessario alla sussistenza.
“Di fronte all’incremento della tecnologia e della burocratizzazione all’interno delle
amministrazioni e delle imprese, di fronte all’incremento della tirannide del profitto,
dell’efficienza, della produttività, della redditività, dell’atomizzazione degli individui che lo
sviluppo tecnologico ed economico non fanno che accelerare, constatiamo che gli individui
resistono, si difendono, e che la società civile sviluppa delle contro-tendenze” [Morin]. Ciò
che altri chiamano “contro-culture” [Altieri e Raffini] fondate su pratiche di cooperazione
paritaria, su aggregazioni orizzontali, reti di solidarietà attiva, mutualità.

6.
Mi rendo conto che sarebbe necessario definire con maggiore precisione da chi è composta la
“galassia dei movimenti” di cui parliamo. C’è chi l’ha fatto e tenta di tracciare delle linee di
connessione tra i “nodi” della protesta disegnando costellazioni a geometria variabile: quella
della giustizia ecologica, quella dei diritti umani, quella dei commons e così via. Tenta di
tenere un catalogo georeferenziarto il sito www.wiserearth.org [Paul Hawken]. Anche i
manuali di sociologia sono pieni di distinzioni utili: movimenti sociali e territoriali,
minoranze razziali e sessuali, gruppi di pressione, associazioni (di mestiere, del volontariato
ecc.). Ovviamente i loro comportamenti sono molto diversi e il loro rapporto con le
istituzioni varia di conseguenza.
Da Seattle in poi la nozione di “movimenti” (al plurale) è molto cambiata e - per ora -
potremmo intenderla in modo esteso comprendente tutte quelle mobilitazioni e azioni sociali
che tentano di praticare direttamente l’obiettivo senza farsi rappresentare da, o delegare ad
altri soggetti terzi, i rapporti con le controparti, con i poteri costituiti. Faccio quindi mia la
definizione che Alessandra Algostino fornisce della “democrazia dal basso”:
“Un’espressione collettiva di dissenso e di volontà di cambiamento che nasce ed è praticata

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al di fuori delle istituzioni, il che, peraltro, se da un lato comporta lo sviluppo di legami
reticolari che fanno semplicemente a meno delle istituzioni, dall’altro non nega la volontà di
incidere sulle istituzioni, trasformando esse e/o la loro politica.”[Algostino, 2007]. Se,
almeno in prima battuta, accettiamo questa definizione larga, possiamo compilare
mentalmente un lunghissimo elenco di soggetti che organizzano non solo le grandi campagne
contro le multinazionali, le società finanziarie, il lobbismo, la corruzione, gli stati che
calpestano i diritti umani fondamentali, gli armamenti, la privatizzazione dei beni comuni, la
brevettazione dei semi e del genoma umano, il land grabing, la censura… ma anche le attività
più minute come i gruppi di acquisto solidali, le banche del tempo, i gruppi di software
libero, le reti e distretti di economia solidale, il microcredito, le monete locali, le radio e le tv
di strada, il welfare di prossimità, le autogestioni, il mutualismo, le cooperative di
autorecupero, i gruppi di raccolta del cibo scaduto, i centri del baratto, gli ecovillaggi,
cohousing, la mobilità condivisa, l’ospitalità condivisa, le occupazioni e il recupero sociale di
strutture abbandonate, i forni comuni, gli orti sociali,i guerrilla gardening e così via. Piccoli
gruppi senza nome (e senza grandi leader!) che tentano concretamente e quotidianamente di
sfuggire alle grinfie del mercato. “Ambiti di comunità autonome” [Esteva].

7.
Le iniziative dal basso hanno un grande valore perché “la democrazia prima di essere un
ideale deve essere praticata” [Angelo d’Orsi]. Più che i proclami servono le dimostrazioni
che un altro mondo è possibile qui ed ora. Raúl Zibechi riferisce che, secondo il
subcomandante Marcos, “le grandi trasformazioni cominciano come minuscoli asteroidi
irrilevanti per il politico e l’analista che stanno arriba (in alto). (…) Sono sempre i piccoli
gruppi a prendere l’iniziativa, senza tener conto dei ‘rapporti di forza’ ma guardando solo
alla giustizia delle proprie azioni. In seguito, a volte anche molto più tardi, lo Stato finisce
con il riconoscere che i critici avevano ragione […] Il punto cruciale, a mio modo di vedere,
è il cambiamento culturale, la diffusione dei nuovi modi di vedere il mondo. Come insegna la
storia delle lotte sociali” [Zibechi 2012]. Trovo straordinario uno slogan del gruppo di
neocontadini Zappata Romanai: “Seminiamo zucchine raccogliamo rapporti umani”.
Anche il pensiero femminista è di questo parere. Scrive Lea Melandri: “È attraverso
modificazioni conflittuali dell’assetto dei micro poteri che si realizzano i mutamenti più
radicali dei modi di vita e dei meccanismi di riproduzione sociale (…) Il ruolo centralizzatore
delle istituzioni del macropotere ha contribuito ad alimentare l’idea che le istituzioni siano il
luogo a partire dal quale viene diretta la vita di una società”, invece: “Il macropotere non

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racchiude l’insieme del processo politico e tanto meno sociale”. Per cui: “La tentazione di
dare un ‘soggetto’ al movimento reticolare che opera per la creazione di una alternativa, fa la
sua comparsa là dove l’analisi si sofferma sulla forza trainante, ‘decisiva’, che possono avere
le lotte dei ‘senza’: senza tetto, senza fissa dimora, senza lavoro, strati di popolazione sempre
più violentemente messi al bando” [Melandri]. Della stessa opinione è Vandana Shiva: “I
regimi totalitari e dittatoriali si combattono a partire dalle realtà locali, perché i processi e le
istituzioni su larga scala sono connotati dal potere dominante. I piccoli successi sono invece
alla portata di milioni di individui, che insieme possono dare vita a nuovi spazi di democrazia
e libertà. Su larga scala le alternative che ci vengono concesse sono ben poche. Per converso
la realtà quotidiana ci offre mille occasioni per mettere a buon frutto le nostre energie”. Ha
scritto Harry Cleaver, citato da Chris Carlsson: “La base di una rivoluzione che abbia
successo e che dia forza a nuovi mondi va ricercata nell’infinità di ribellioni atomistiche e
molecolari con cui gli individui sconnettono il sistema nervoso delle relazioni capitale-lavoro
e creano relazioni alternative, per quanto temporanee e limitate queste sconnessioni e queste
alternative possano essere”[Carlsson].
La democrazia intesa prima di tutto come partecipazione è quindi anche un problema di scala
territoriale: bisogna riuscire ad abbassare il baricentro delle decisioni, disseminare il potere,
creare orizzontalità, pratiche sociali dal basso, reti strette civiche solidali, legami di
prossimità, comunalità e comunanze. “Una democrazia di persone”, la chiama Manuel
Castells.

7.
Il rifiuto delle intermediazioni politiche è del tutto comprensibile. La crisi della democrazia
liberale rappresentativa nella versione socialdemocratica ha trascinato con se i suoi strumenti,
le sue “agenzie elettorali”: i partiti politici. E viceversa; destini incrociati! In una società
“paneconomica” dove la ragione mercantile è totalizzante, tutto è monetizzabile e il consenso
politico diventa un sottomercato derivato. Una nuova disciplina ne studia le dinamiche
interne e i costi di funzionamento: la Politicl Economy. C’è chi ha calcolato quanto costa un
seggio al Senato degli US. Le principali banche di Wall Street, mentre agonizzavano nella
crisi finanziaria del 2008, trovavano comunque il modo di versare a Democratici e
Repubblicani cifre enormi: 6 milioni di dollari la Goldman Sachs, 5 la Citigroup, 4 la JP
Morgan, 3 la Merrill Lynch. E via di seguito. Come si sa, tale disinteressata generosità portò
l’amministrazione statunitense ad assumere la decisione di salvare dalla bancarotta il sistema
finanziario impegnando i denari dei contribuenti e stampando banconote a rotta di collo. Il

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budget raccolto da Obama per la seconda campagna elettorale ha superato il miliardo di
dollari. Mitt Romney gli è stato dietro di poco. La più costosa competizione elettorale di tutti
i tempi, nel pieno della più grave crisi economica!
Ha scritto Heather Gautney sul Washington Post (21 ottobre 2011) un articolo dal titolo:
Perché Pccupy Wall Street non vuole avere a che fare con i nostri politici: “C’è poi Barak
Obama. L’uomo che tutti avremmo voluto amare (…) Ma Obama ha esplicitato da che parte
sta. Basta guardare il lungo elenco di contributi ricevuti per la sua campagna da Wall Street.
Sfortunatamente Mr President, sei chi ti circonda”.
Le cose non vanno meglio a Bruxelles. In Italia per saperlo basta leggere le cronache della
tangentopoli infinita.
Ha scritto Arundhati Roy a proposito del “crepuscolo della democrazia”: “Che cosa ne
abbiamo fatto della democrazia? In che cosa l’abbiamo trasformata? Che succede una volta
che si è consumata, svuotata, privata di senso? Cosa succede quando ciascuna delle sue
istituzioni si è fatta metastasi fino a trasformarsi in una entità maligna e pericolosa? Cosa
succede ora che capitalismo e democrazia si sono fusi in un unico organismo predatorio
dell’immaginazione limitata e costretta, incentrata quasi esclusivamente sull’idea della
massimizzazione del profitto? Viene da chiedersi se sia rimasto qualche legame tra elezioni e
democrazia” [Roy].
I partiti sono diventati “macchine per fabbricare voti” [Ernesto Rossi]. La democrazia
diventa “democrazia di mercato”. Democrazia in vendita è il titolo di un libro di Kristian
Ross. Democrazia vendesi è il titolo di un libro di Loretta Napoleoni. Non serve insistere a
lungo, è come infierire su un cadavere. L’intera parabola della metamorfosi della “forma
partito” è descritta in modo definitivo in Finale di partito [Marco Revelli]: dal partito dei
notabili, a quello di massa, a quello “pigliatutto”, a quello delle cariche pubbliche fino a
quello personale del leader telegenico.

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Ma c’è qualcosa di più profondo che va oltre la critica alla “degenerazione” della democrazia
rappresentativa e dei partiti e che spiega il progressivo disconoscimento da parte dei
movimenti sociali (ma anche la disaffezione dell’elettorato comune [Diamanti]) del sistema
della rappresentanza. Un rifiuto che ha radici lontane e che si fa strada anche a prescindere
dallo “scandalo morale” della democrazia liberale piegata e catturata dall’economia di
mercato. La causa del malfunzionamento del sistema non deriverebbe da un difetto degli
strumenti o da errori commessi dai preposti manovratori, ma dalla natura stessa del sistema

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della rappresentanza democratica. Un sistema a lungo difeso e promosso come il modello
superiore perchè il solo capace di produrre equità, benessere, sicurezza [Cotturri]. Si tratta
del rifiuto del modello stesso di democrazia elitistico-competitivo di Max Weber e di Joseph
Schumpeter che ha informato il costituzionalismo occidentale [Ugo Mattei].
I nuovi movimenti sociali rompono lo schema liberale tradizionale secondo cui le “masse”,
ritenute prive di visione generale e incapaci di produrre mediazioni per proprio conto, devono
necessariamente, per contare nelle decisioni, parlamentarizzarsi passando attraverso l’azione
di selezione delle rappresentanze esercitata dai partiti. Uno schema “binario” dove la natura
dei movimenti sociali e quella delle rappresentanze politiche rimane rispettivamente identica
a se stessa e sempre separata. Si tratta di un dibattito aperto da tantissimo tempo e tutt’ora
irrisolto all’interno del Movimento operaio e delle formazioni “extra-parlamentari” divise da
sempre tra “spontaneisti” e “partitisti”. Scriveva Angelo Bolaffi: “Il movimento di massa è
concepito (dai partiti tradizionali della sinistra) come qualcosa di informale, una sorta di
torso michelangiolesco, non più semplicemente sociale ma non anche politico (…)
l’autonomia dei movimenti di massa è sempre intesa restrittivamente a sovranità limitata, in
attesa di un fine ultimo, cioè di essere parlamentarizzata e completamente sintetizzata nella
forma partito” [Bolaffi].
Ancor oggi il pensiero della sinistra politica non va oltre l’auspicio del miglioramento del
rapporto tra le due polarità, limitandosi a chiedere che movimenti e partiti riescano a trovare
un rapporto di “pari dignità” [Giulio Marcon], “un punto di incontro a metà strada” [Mario
Tronti], “una interlocuzione dinamica tra le forze dell’auto-organizzazione e quelle sempre
più leggere della rappresentanza” [Marco Revelli], un incrocio tra “movimenti che si
politicizzano” e “partiti che si socializzano” [Porcaro e Piobbichi]. Ancora più chiaro Paolo
Flores d’Arcais: “Il nodo è quindi costruire una classe politica in grado di ascoltare i
movimenti (…). Una nuova classe politica che sappia davvero svolgere il ruolo della
mediazione istituzionale, senza coinvolgerli necessariamente in un impegno diretto in se
stessa” [Flore d’Arcais 2013]. Secondo questa impostazione risulta possibile per qualche
quadro del movimento passare da una parte all’altra dello steccato, ma guai a buttarlo giù,
abbattendo le false autonomie che servono solo a mantenere le “masse” nel loro stato
corporativo e la rappresentanza politica al disopra della società. Nessuna cessione di
sovranità al basso, nessuna messa in discussione della sovranità stessa.
Contro questo schema si esprime Marco Bascetta: “Questa ripartizione dei compiti, questa
mezza rappresentanza, lascia inalterate le forme tradizionali della politica, i partiti e lo stato,
ai quali resta comunque la parola definitiva o, per dirla altrimenti, il potere esecutivo. Il

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potere di scegliere, discriminare, selezionare. E priva al tempo stesso i movimenti della
capacità di affermare autonomamente, e fuori da ogni mediazione istituzionale, praticandoli
direttamente, comportamenti, forme di vita, diritti futuri. Capacità che dei movimenti
costituisce la sostanza politica più propria” [Bascetta].

9.
“Democrazia in crisi e allora?” [Antonio Martins]. E’ ipotizzabile una democrazia senza
partiti? La domanda se la sono posti in tanti, per lo più preoccupati per il vuoto”
costituzionale lasciato dalla “evaporazione” dei partiti [Revelli, Diamanti, Zagrebesky,
Palano]. La risposta è no, se si pensa che sia necessario e inevitabile – in qualsiasi tipo di
società - un esercizio del potere concentrato ed accentrato. Sì, se viceversa l’aspirazione è il
protagonismo diretto, autogestionario delle popolazioni. No, se la democrazia continua a
rimanere solo uno strumento procedurale truffaldino (lo specchio deformante delle elezioni)
attraverso cui l’1% della popolazione riesce ad esercitare il suo dominio sulla Terra. Sì, se la
democrazia è un mezzo per potersi sottrarre all’imposizione, alla coercizione, alla
subalternità.
I nuovi movimenti sembrano voler reinventare una democrazia di nuovo tipo, una nuova
concezione della democrazia, una democrazia radicale, reale, autentica, sociale, “insorgente”
[Abensour, Rosanvallon], con cui tentare l’esperimento di eliminare alla radice la causa della
separazione tra cittadino-elettore ed eletto-governante insita nella delega. Se ciò risultasse
possibile si verificherebbe un rovesciamento del senso che comunemente si attribuisce alla
democrazia; la sua qualità non risiederebbe più tanto nel grado di partecipazione al potere
che garantisce (inclusione verticale), ma nella dispersione e diffusione orizzontale del potere
che avverrebbe attraverso la decentralizzazione, la moltiplicazione e la distribuzione delle
sedi della decisione. Fino, in linea di tendenza, riuscire ad annullare del tutto l’idea di un
potere che si esercita dall’alto. Come racconta Kingsnorth a proposito della rivoluzione
zapatista: “il loro scopo non era quello di prendere il ‘potere’ in nome del ‘popolo’, ma di
disperderlo al livello delle comunità” [Kingsnorth].
Un passo di Revelli ci può indicare la strada: “La dissipazione di sovranità decisionale delle
sedi istituzionali e delle elite di governo (…) trova compensazione in una simmetrica crescita
di coscienza e di competenza alla base della piramide (…) Nelle reti orizzontali di
mobilitazione e di intervento, nelle molteplici forme di ‘presa di parola’ (…) nei circuiti di
riaffermazione di cittadinanza attiva dal basso. Nelle stesse forme esperenziali di
‘democrazia locale’, in territori delimitati ma densi, perché in essi è ben visibile

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l’implicazione tra azione collettiva e vita. Come in una sorta di gigantesco gioco di vasi
comunicati la sovranità verticale che si era concentrata in alto può rifluire in basso, nella
‘massa positiva’ di micro-comunità interrelate” [Revelli, 2013, p.127]
I punti di riferimento cardinali per un simile rovesciamento sociale sono: la critica
femminista al potere e il modello della confederalità.

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Non è questa la sede possibile per mettere a tema la questione di genere, ma è del tutto
evidente che la critica femminista alle forme della democrazia e dello stato sia quella più
radicale e decisiva. Tutte le forme di democrazia fin’ora comparse sulla caccia della Terra, a
dispetto della loro pretesa universalistica ed egualitaria, in realtà sono fondate su sistemi
sociali e di potere largamente escludenti e discriminatori, all’interno dei quali il ruolo delle
donne (anche nei rari casi in cui è stata concessa una parità formale dei diritti) è relegato
nell’ambito domestico e comunque a servizio di un assetto sociale gerarchico che premia le
funzioni che gli uomini si sono dati.
Nei paesi occidentali, nemmeno la lunga e faticosa conquista di una “cittadinanza” piena
(alle donne non è bastato un secolo per ottenere il diritto di voto) è servita a scalzare il
dominio dei valori maschili patriarcali nell’organizzazione del lavoro, della società e dello
stato. Il capitalismo stesso è una espressione del patriarcato che ha pianificato una
organizzazione sociale sulla base della invenzione della divisione tra “lavoro produttivo”,
socialmente riconosciuto, perseguito e retribuito, e “lavoro riproduttivo”, gratuito e affidato
per “condizione naturale” alla donna, così da creare una autorità in capo all’uomo, maschio,
sostentatore e per diritto controllore-padrone della sua femmina e della sua prole. Le
conquiste egualitarie del femminismo moderno dalla Rivoluzione francese ad oggi non hanno
modificato l’essenza del sistema sociale, ma solo ne hanno permesso l’accesso anche alle
donne costringendole così ad una integrazione/alienazione doppiamente faticosa, ad una
doppia ubbidienza e a un doppio sfruttamento.
I nuovi movimenti sociali di cui stiamo parlando non sempre hanno presente la tragedia del
femminile - stretto nella morsa tra il dover negare la propria differenza o sottostare al potere
maschile. Ma hanno imparato dal femminismo a riconoscere le relazioni di controllo e di
dominio insite nel potere politico. Per estirpare il dominio non bisogna esercitare il potere
(sperando di indirizzarlo a fin di bene) né distribuirlo (sperando di stemperarne la presa).
Bisogna disconoscerlo, destrutturarlo, fino ad annullarlo riconsegnandolo alla responsabilità
di ogni individuo. Per questi motivi il pensiero femminista guarda le cose da un punto di

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vista esterno. Da quello di tutti gli oppressi, gli esclusi, i discriminati. Cioè di tutte le forze
vitali esistenti in natura.

11.
Il modello ideale confederale.
Uno dei padri della democrazia americana, Thomas Jefferson, era giunto ad ipotizzare la
formazione di “piccole repubbliche” dimensionate al bacino d’utenza delle scuole elementari.
Hannah Arendt immaginava una rete di “repubbliche elementari” aperte e disposte a
relazionarsi tra di loro. In molti pensano che l’esempio storicamente più alto di democrazia
sia stato raggiunto con la Comune di Parigi che Karl Marx così descriveva: “In un abbozzo
sommario di organizzazione nazionale […] è stabilito con chiarezza che la Comune doveva
essere la forma politica anche del più piccolo villaggio di campagna. Le comuni rurali di ogni
distretto dovevano amministrare i loro affari comuni mediante un’assemblea di delegati con
sede nel capoluogo, e queste assemblee distrettuali dovevano a loro volta inviare i propri
deputati alla delegazione nazionale a Parigi; ogni deputato doveva essere revocabile in ogni
momento e legato a un mandat impératif (istruzioni formali) dei propri elettori […] Invece di
decidere ogni tre o sei anni quale membro della classe dirigente dovesse rappresentare
falsamente il popolo in parlamento, il suffragio universale doveva servire al popolo costituito
in comuni.” [Marx].
Quasi un secolo più tardi, in Catalonia, dal 1936 al 1937, le milizie antifranchiste, liberata
Barcellona, consentirono alla Confederacion Nacional del Trabajo di dar vita ad una
esperienza di gestione popolare diretta attraverso una rete di micro poteri diffusi di quartiere
e di fabbrica, ispirati alla autorganizzazione del lavoro e della vita civile. Una
collettivizzazione senza statalizzazione, senza deleghe e senza partito egemone. Una
esperienza che finì per mano degli emissari della Internazionale comunista prima che per i
bombardamenti nazi-fascisti.
Pino Ferraris ha studiato le esperienze dei movimenti operai tra Otto e Novecento, prima che
si affermasse l’egemonia del modello organizzativo bolscevico. Giunse così a proporre per
l’oggi “un progetto di una confederazione politica dell’iniziativa sociale”, “una rete solidale
delle autonomie confederate. Aggiungedo che nella Prima Internazionale il luogo del
coordinamento non si chiama “stato maggiore”, ma più modestamente “ufficio di
corrispondenza” ”[Ferraris 2011]. “Il principio confederale non mi sembra affatto una
superata esperienza ottocentesca, ma richiama nel presente quella configurazione di
associazionismo, pacifico, reticolare e altamente partecipativo che fu l’utopia organizzativa

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della contestazione giovanile americana degli anni ’60. Direi che la confederalità esprime
una logica di raggruppamento che converge con le emergenti culture e tecniche di rete: la
rete piatta orizzontale che spezza la piramide gerarchica e verticale dell’organizzazione
novecentesca. La confederalità è un patto tra diversi retto da reciprocità ed equivalenza”
[Ferraris, 2008].

12.
Elezioni. L’eterno dilemma dei movimenti. Ad ogni tornata elettorale una vexata quaestio
investe la galassia dei nuovi movimenti impegnati per la giustizia sociale e ambientale, i
gruppi di cittadinanza attiva, i comitati territoriali, le liste locali, le realtà dell’autogestione, il
mondo dell’altra economia e dell’agricoltura contadina, il sindacalismo di base, i collettivi
femministi, ecologisti, mediattivisti, pacifisti, studenteschi e molti altri ancora: se e come
partecipare ai confronti elettorali.
È naturale che gli attivisti dei movimenti, che pure esprimono un antagonismo strutturale allo
stato di cose presente e che ambiscono a cambiare il mondo partendo da sé, non vogliano
limitarsi ad influenzare da lontano o per interposta persona le dinamiche politiche pubbliche
e si pongano invece il problema di come riuscire a far valere più incisivamente, in modo
meno mediato e non episodico le proprie critiche e le proprie proposte. Lo stesso World
Social Forum (la principale struttura di collegamento ancora esistente tra i vari movimenti
nazionali) è stato attraversato da opposte posizioni: c’è chi lo vorrebbe un soggetto politico
più strutturato, capace di interloquire con le istituzioni del potere costituito [Wallerstein], e
chi al contrario lo critica perché troppo cristallizzato [Waterman].
In generale i movimenti si interrogano se sia possibile mettere in comune pratiche sociali
diverse, instaurare comunicazioni tra esperienze di lotta e di “saperi altri” senza dover
passare per le forche caudine delle agenzie parastatali dei professionisti della mediazione
politica (quali sono oggi i partiti politici) ma senza diventare essi stessi un partito, evitando di
dar vita a strutture intermedie, senza creare nuovi corpi separati, che ben presto
diventerebbero incontrollabili dagli stessi attivisti e facilmente catturabili dalle dinamiche
istituzionali del potere. Ha scritto Pino Ferraris: “Io non so se una confederazione politica
dell’iniziativa sociale possa osare una proiezione nella rappresentanza istituzionale, oppure
debba limitarsi ad agire come gruppo di pressione democratica per rafforzare gli spazi, le
risorse del ‘fare società’. Comunque urge l’iniziativa” [Ferraris 2008].
Sullo stesso quesito si è interrogato Immanuel Wallerstein proponendo una soluzione alla
contraddizione tra chi pensa sia necessario partecipare alle elezioni e chi al contrario crede

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sia un esercizio inutile e nocivo: “Sono completamente d’accordo con chi sostiene che
conquistare il potere dello Stato è irrilevante per la trasformazione a lungo termine del
sistema mondiale – e forse anche la pregiudica. Come strategia di trasformazione questo è
stato tentato e ha fallito più volte. Questo non significa che partecipare alle elezioni sia uno
spreco di tempo. Dobbiamo considerare che una grande percentuale del 99% sta soffrendo
nel breve periodo. [...] Agire per ridurre al minimo il dolore richiede una partecipazione
elettorale. E il dibattito tra i fautori del male minore e coloro che si propongono di sostenere
genuini partiti di sinistra? Questa diventa una decisione di tattica locale, che varia
notevolmente in base a diversi fattori: le dimensioni del paese, la formale struttura politica, la
demografia, la posizione geopolitica, la storia politica. Non esiste una risposta standard”
[Wallerstein]. La possibilità o meno di partecipare ai confronti elettorali deriva, quindi, da un
percorso di autoriconoscimento e di autorappresentazione dei movimenti che deve
svilupparsi a monte. Più al fondo, il rapporto con le istituzioni dipenderà dall’atteggiamento
che i movimenti avranno maturato nei riguardi dello Stato e del potere in genere [Carlo
Levi]. Se avranno maturato sufficienti anticorpi immunitari tali da consentire loro
“scandalose incursioni” nel sistema istituzionale senza essere catturati dal mito dello Stato,
oppure no.
Le ultime elezioni per il Parlamento europeo hanno dato delle risposte concrete nei diversi
paesi, anche se certamente non univoche.

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