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Indice

Copertina
Frontespizio
Colophon
Prefazione
Introduzione
Capitolo I
Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
Epilogo
2016 Imprimatur srl
Tutti i diritti riservati
Promozione e distribuzione Rizzoli Libri
Sede legale e operativa:
Via Emilia allAngelo, 7 - 42124 Reggio Emilia
Tel./fax 0522 232222
Prefazione

I lavoratori delle nazioni europee e le loro famiglie non


hanno pi una casa comune in quella che sotto varie
denominazioni continua a considerarsi come la sinistra
politica del continente. La sinistra europea
scomparsa, ha scelto di lasciare alla merc del mercato e
della concorrenza mondializzati i lavoratori di tutti i
settori e di tutti i tipi: formalmente dipendenti e non,
qualificati e non qualificati, a tempo e a cottimo,
occupati e disoccupati, giovani e anziani. I partiti
politici di questa cosiddetta sinistra danno ormai per
scontato che una parte sempre pi grande del mondo
del lavoro non si recher alle urne, o appogger
qualche confuso movimento locale o trasversale,
oppure, ancora, voter per lestrema destra. Proprio
lemergere ed il rafforzarsi progressivo in Europa di
unestrema destra sociale, sovranista e statalista, ne
disturba senza dubbio qua e l i sonni. Ci si tranquillizza
tuttavia al pensiero che, alloccorrenza, una grande
coalizione democratica sarebbe sicuramente in grado
di sventare il pericolo fascista.
Lordine liberale e liberista non oggi completamente
incontrastato. Non potrebbe esserlo, in Europa, con i 40
milioni di disoccupati che vi ha provocato insieme al
generale peggioramento delle condizioni di vita per la
maggioranza della popolazione. Ma per la prima volta
nella storia del capitalismo europeo in quellordine ha
finito di fatto per riconoscersi tutta la sinistra politica
del continente, a seguito di un percorso trentennale di
crescente adesione alle idee che lo sostengono e di
crescente indifferenza per i suoi effetti su tutti coloro
(gli sdentati come sembra si diletti a chiamarli il
socialista Hollande) che devono lavorare per vivere.
Nel volume intendiamo ricostruire questo percorso e
fare il pi possibile luce sul ruolo che le vicende della
sinistra hanno giocato nel determinare il degrado
economico, sociale e culturale in cui versa lEuropa.
Naturalmente, domani un altro giorno e come
direbbe Toynbee la Storia si metter di nuovo in
movimento. Ma circa il modo in cui lo far, la scomparsa
della sinistra non concede oggi molto spazio
allottimismo.

Aldo Barba Massimo Pivetti


Giugno 2016
Introduzione

Durante il primo trentennio post-bellico nel capitalismo


economicamente e socialmente pi avanzato venne
edificato un complesso impianto di politica economica
finalizzato al pieno impiego come suo obiettivo
prioritario. Le relazioni tra lo Stato e il mercato
allinterno di ciascuna nazione e le relazioni di ciascuna
nazione con il resto del mondo furono strutturate in
modo tale da consentire una crescita il pi possibile
sostenuta del prodotto in condizioni di equilibrio nei
conti con lestero.
Il passaggio da quellepoca di crescita sostenuta e di
pieno impiego ad una fase di prolungata stagnazione ed
elevata disoccupazione generalmente percepito come
un fenomeno ineluttabile ed rimasto in larga misura
inspiegato. Esso rischia di rimanere tale perch
fortissima in Europa la resistenza a ricondurlo
allorientamento liberista impresso alla politica
economica negli ultimi decenni. Stabilire una
connessione tra la fine della crescita e la grande svolta
di politica economica dei primi anni Ottanta equivale,
infatti, a riconoscere la natura essenzialmente politica
dei suoi determinanti. Di fatto, proprio questo
riconoscimento la necessaria premessa per riuscire a
comprendere le cause del deterioramento economico e
sociale avvenuto nelle maggiori nazioni europee.
Il volume analizza il passaggio dai cosiddetti Trenta
gloriosi ai Trenta pietosi collegando esplicitamente la
vicenda economica europea dellultimo trentennio
cambiamento delle condizioni distributive,
rallentamento del processo di accumulazione, aumento
della disoccupazione e dellesclusione sociale alla
condotta della sinistra. Lelemento politico che ha
caratterizzato quel passaggio stato senza dubbio la
sua scomparsa. Ma le cause, i modi in cui essa
avvenuta e i suoi effetti non sono ovvi e vanno
analizzati.
Linizio della fine della sinistra continentale
individuato nella svolta compiuta nel 1982-1983 dal
governo della sinistra unita in Francia, rinnegando la
piattaforma politica che essa era andata articolando nel
corso del decennio precedente e che aveva condotto
alla sua vittoria elettorale del 1981. Limportanza di
quella vicenda dipende non solo dal fatto che la vittoria
della sinistra era derivata dalla sua capacit di
aggregare un ampio consenso intorno a un preciso
programma di rinnovamento sociale, ma anche dal fatto
che con riferimento a quel Paese e a quellesperienza
che possibile mettere meglio a fuoco gli elementi di
debolezza della proposta politica di tutta la sinistra
europea e le condizioni culturali che ne prepararono la
svolta.
La maggiore carenza del programma della sinistra
riguard la questione della gestione dei vincoli esterni
alla sua realizzazione, vale a dire una sottovalutazione
delle ripercussioni sullequilibrio nei conti con lestero
di un programma di investimenti pubblici e
redistribuzione del reddito. Le difficolt in tal modo
createsi aprirono una breccia al diffondersi
dellideologia modernista e antistatalista, gi
presente anche nella cultura di sinistra.
Dal rifiuto di una gestione non ortodossa del vincolo
esterno, si pass allaccettazione incondizionata della
mondializzazione e alla conseguente rinuncia al
perseguimento di politiche di pieno impiego da
conseguirsi attraverso la crescita della domanda
interna. Obiettivi prioritari della politica economica
divennero la stabilit dei prezzi e la crescita delle
esportazioni. Sindacati deboli, maggiore flessibilit dei
mercati, crescita dei salari inferiore alla crescita della
produttivit del lavoro, contrazione dello Stato sociale,
politiche di bilancio restrittive, privatizzazioni delle
imprese pubbliche industriali e finanziarie, divennero
dappertutto le tappe caratterizzanti il nuovo corso
seguito dalla sinistra della modernit e delle
riforme. Quella che venne abbandonata fu insomma
una concezione della crescita economica come
essenzialmente basata sulla crescita del potere
contrattuale dei salariati e su politiche redistributive. A
quel circolo virtuoso si sostitu un circolo vizioso tra
politiche recessive, indebolimento dei salariati e perdita
di consenso popolare.
La corsa alla modernit compiuta dalla sinistra
europea in pratica consistita nella perdita della
consapevolezza che il contenimento della
disoccupazione, una distribuzione del reddito
socialmente tollerabile e livelli adeguati di protezione
sociale implicassero un controllo completo della politica
monetaria e di bilancio da parte dei governi nazionali, e
pertanto un controllo dei flussi internazionali di capitali,
merci e forza lavoro tanto pi articolato quanto pi
ciascun Paese avesse scelto di puntare sullespansione
continua del proprio mercato interno per assicurarsi
una crescita stabile.
Una simile incapacit della sinistra europea di tenere la
rotta spiegabile solo alla luce del fatto che, pi che
promuovere e sostenere il consenso espansionista dei
Trenta gloriosi, essa fu da quello stesso consenso in
larga misura sostenuta. Il suo contributo, in altri termini,
non fu espressione di convincimenti profondamente
radicati e definitivamente acquisiti. Questo fu vero in
Francia, come dimostrato dalla svolta a U del 1982-
1983; lo fu ancora di pi in Italia, dove lelemento di
passivit e leffetto di trascinamento esercitato dal
generale contesto progressivo furono sempre
preponderanti.
Naturalmente soprattutto lesperienza del Pci che
pu aiutare a comprendere il percorso compiuto dalla
sinistra nel nostro Paese dal dopoguerra fino alla sua
definitiva uscita di scena con limplosione del
socialismo reale: un percorso costantemente
caratterizzato da una scelta di non-uso della propria
forza. Diversamente dal caso francese, la questione di
una svolta da programmi di effettivo rinnovamento
sociale alladesione allideologia del mercato non si
mai realmente posta per il maggior partito della sinistra
italiana, la cui azione politica sostanzialmente non and
mai oltre latto di presenza di un accigliato guardiano.
Anche se le idee della classe dominante sono in ogni
epoca le idee dominanti (Marx), pur vero che quanto
pi questo dominio resta incontrastato tanto pi
incontrastata la loro forza di assoggettamento. Con
lallontanamento dalle questioni economiche e di classe
anche da parte della sinistra cosiddetta antagonista, e
lo spostamento della sua attenzione dalla sfera dei
diritti sociali a quella dei diritti civili, si pu dire che nel
corso dellultimo trentennio le idee dominanti non
abbiano pi incontrato il bench minimo ostacolo. Per
la sinistra antagonista la difesa dei salariati attraverso
il potenziamento dello Stato e la difesa della sovranit
nazionale in campo economico hanno cessato di essere
bussole di azione politica, sostituite dalla
rivendicazione del diritto alla diversit e dalla lotta di
liberazione di ogni tipo di istanze individuali. Mai
lotta fu pi funzionale di questa alla tutela degli
interessi dei ceti dominanti, che infatti lhanno in larga
misura fomentata in quanto perfetto diversivo rispetto
allarretramento dei ceti popolari sul terreno delle
conquiste sociali, nonch fattore di divisione al loro
interno.
Oggi evidente la presenza in Europa delle condizioni
oggettive per la rinascita di una vera sinistra: dalla
crescente ostilit popolare nei confronti della
mondializzazione e della finanza, allurgenza sociale di
politiche finalizzate al pieno impiego e alla
redistribuzione del reddito; dal calo continuo della
partecipazione elettorale allaspirazione sempre pi
diffusa al recupero delle sovranit nazionali. Il vero
ostacolo alla rinascita di una sinistra capace di mettere
al centro della sua azione le questioni di classe e il
potenziamento dello Stato-nazione rappresentato
proprio dalla situazione di generale subalternit nei
confronti della cultura economica dominante, una
subalternit che dura ormai da oltre trentanni.
Capitolo I

Dai Trenta gloriosi ai Trenta pietosi

1. Le vicende che hanno portato alla scomparsa della


sinistra in Europa sono destinate a restare in larga
misura oscure senza unanalisi della grande svolta di
politica economica avvenuta tra la fine degli anni
Settanta e linizio degli anni Ottanta. Si tratta di mettere
a fuoco i contorni del progetto economico e politico in
cui ci troviamo tuttora immersi, riuscire a coglierne i
determinanti, i principali contenuti, gli esiti. In altre
parole, necessario porre in discussione un ordine
economico e sociale impostosi come il solo razionale e
possibile. Scriveva lo scienziato politico Steven Weber
nel 1997 su Foreign Affairs:

Leconomia delle nazioni occidentali stata sin dalla


rivoluzione industriale un mondo vibrante
caratterizzato da rapida crescita e sviluppo, almeno
per i Paesi del nucleo industrializzato. Ma essa
stata pure un mondo di continue e spesso enormi
fluttuazioni dellattivit economica. I cicli industriali
espansioni e contrazioni diffuse a quasi tutti i settori
di uneconomia hanno finito per essere accettati
come un fatto della vita. Tuttavia, le economie
moderne operano differentemente dalle economie
industriali del diciannovesimo secolo e della prima
parte del ventesimo secolo. Cambiamenti nella
tecnologia, nellideologia, nelle occupazioni e nella
finanza, di concerto con la globalizzazione della
produzione e del consumo, hanno ridotto la volatilit
dellattivit economica nel mondo industrializzato. Per
ragioni sia teoriche che pratiche, nei Paesi
industrialmente pi avanzati le onde del ciclo
industriale potrebbero diventare pi simili ad
increspature sulla superficie dellacqua, che vanno
via via a scomparire. La fine del ciclo destinata a
cambiare leconomia mondiale, minando alla base le
assunzioni e gli argomenti che gli economisti hanno
utilizzato per comprenderla.

Considerazioni trionfalistiche come queste ben


esprimono il clima intellettuale entro il quale si andato
strutturando il nuovo assetto di politica economica che
i Paesi industrialmente avanzati si sono dati dalla fine
degli anni Settanta. Niente meno che una nuova era
sarebbe stata aperta dal cambiamento tecnologico e
dalla rimozione degli ostacoli ideologici che avevano
impedito lo sviluppo globale della finanza, della
produzione e del consumo. Le crisi economiche, un
tempo percepite come connaturate al capitalismo, non
erano in realt che la manifestazione di una sua
immaturit. Pi precisamente, andavano comprese
collocandole entro la fase di sviluppo caotico e
instabile apertasi con linsorgere delle istanze
protezionistiche e nazionalistiche tra la prima e la
seconda guerra mondiale e avviatasi a conclusione con
il neo-conservatorismo di Reagan e della Thatcher:
nelle parole del premio Nobel per leconomia Robert
Lucas, la Macroeconomia [] ha raggiunto i suoi
scopi: il suo problema centrale, la prevenzione della
depressione, stato risolto ed nei fatti risolto per
molti decenni.
Ancelle della crescita stabile, globalizzazione e
deregolamentazione furono viste come fattori di
definitivo superamento di un aberrante, sebbene
prolungato, allontanamento dal ritmo regolare dello
sviluppo capitalistico di pi lungo periodo. A poco
servivano a raffreddare gli animi le considerazioni di
chi, come Alan Greenspan, pur convinto che i mercati
fossero divenuti pi efficienti, invitava alla cautela
ricordando come la storia piena di queste visioni di
nuove ere che, sfortunatamente, alla fine si sono
rivelate essere un miraggio. Abbandonare ogni
cautela era una tentazione irresistibile: il nuovo assetto
di politica economica doveva identificarsi con la fine
delle crisi; il vecchio assetto con il disastro economico.
A dire il vero, gli economisti, trattenendo la loro
naturale inclinazione allapologia, una certa cautela
finirono per mostrarla attribuendo alla nuova era
lambigua etichetta di grande moderazione. Che il
nuovo fosse da considerarsi grande era fuori
discussione. Ma era grande esattamente in che cosa?
Nella moderazione, vale a dire nella sobriet, attributo in
fin dei conti poco lusinghiero per il capitalismo, la cui
legittimazione sociale sempre dipesa dalla sua
capacit di generare crescita elevata per quanto
instabile. Il problema era che il mondo vibrante di rapida
crescita non era affatto quello della nuova era, ma
quello del periodo in cui i grandi cambiamenti nella
tecnologia e nellideologia di concerto con la
globalizzazione non erano ancora avvenuti. Allinizio
degli anni Duemila veniva con gran compiacimento
rilevato come nellultimo quarto di secolo la variabilit
del tasso di crescita fosse diminuita di circa la met e
quella dellinflazione di circa due terzi. Ma tutta
questenfasi sulla fine della variabilit mascherava un
fatto che male si accordava con lidea che il capitalismo
fosse diventato una macchina che avrebbe proceduto
inesorabilmente, senza intoppi, se solo si fosse avuto il
buon senso di non interferire troppo con il suo
funzionamento. Scegliendo il 1979 come punto di
svolta, nel corso dei trentanni precedenti, i cosiddetti
Trenta gloriosi, il prodotto si era infatti pi che triplicato
negli Stati Uniti, quasi quadruplicato in Francia, pi che
quadruplicato in Germania e Italia, decuplicato in
Giappone (vedi Tabella 1). Nel corso dei trentanni
successivi, gli Stati Uniti avevano poco pi che
raddoppiata la produzione, mentre Francia, Germania,
Italia e Giappone non erano riusciti a raggiungere
nemmeno questo pi modesto risultato.

Tabella 1. Aumento del Pil nei due trentenni

Eccezion fatta per la Gran Bretagna (per la quale,


tuttavia, la differenza tra i due trentenni pu essere ben
colta facendo riferimento allaumento del tenore di vita
dei ceti popolari e ai tassi di disoccupazione), in tutti i
principali Paesi del capitalismo avanzato il tasso di
crescita si era ridotto significativamente, raggiungendo
in Francia, Germania e Italia livelli inferiori ad un terzo di
quelli dei Trenta gloriosi. Tra il 1951 e il 1978 la crescita
annua in questi tre Paesi fu, in media, superiore al 5 per
cento; tra il 1979 e il 2008 fu del 2 per cento; tra il 2008 e
il 2015 la Germania crebbe dell1 per cento, la Francia
dello 0,4 per cento, lItalia del -1 per cento. In ognuno di
questi Paesi, nel corso degli anni Settanta, una crescita
annua inferiore al 4 per cento era normalmente
considerata un risultato deludente.
Quando valutati non in relazione alla variabilit della
crescita ma al suo livello medio, gli anni della grande
moderazione apparivano piuttosto come i Trenta
pietosi, vale a dire un periodo in cui, se era vero che la
stabilit macroeconomica si era accresciuta, era altres
vero che questa maggiore stabilit derivava dalla
rinuncia alla crescita.

2. In pochi per erano disposti a definire pietosa la


performance economica della nuova era, tanto in
Europa che negli Stati Uniti, sebbene per motivi diversi.
In Europa, dove il dato della caduta del tasso di crescita
non lasciava adito a molti dubbi, gli animi si scaldavano
con landamento relativamente pi favorevole degli
Stati Uniti e con la convinzione che il minor dinamismo
delle economie europee fosse da attribuirsi a
unincompleta assimilazione dei tratti distintivi delle
nuove modalit di funzionamento del capitalismo,
riconducibile ad ancora non rimosse incrostazioni
ideologiche e pratiche degli anni della turbolenza
economica. Con una disinvoltura ancor pi grande
dellansia di adesione al gusto dei tempi, un assetto di
politica economica che, quando vigente, aveva
generato alta crescita, veniva tirato in ballo per spiegare
la bassa crescita quando lo si stava smantellando. Negli
Stati Uniti, invece, la questione si poneva in termini di
fiduciosa attesa: il calo della crescita rispetto al
trentennio precedente era inferiore a quello europeo e
gli sviluppi politici, tecnologici e finanziari stavano
indubbiamente agendo nel senso di aumentare la
centralit del suo sistema economico; alla stabilit
avrebbe dovuto necessariamente far seguito la crescita
e, nellattesa, gli economisti si lambiccavano il cervello
chiedendosi perch i segni della nuova era fossero
visibili in ogni dove tranne che nelle statistiche
economiche, che registravano unalternarsi di
contrazioni e brevi riprese senza che le perdite
occupazionali che si determinavano nel corso delle
prime fossero recuperate dai guadagni occupazionali
nel corso delle seconde. Queste riprese economiche
incapaci di consolidarsi, soprattutto di accrescere gli
occupati, rimanevano in larga misura un mistero, non
venendo poste in relazione con una bassa crescita della
domanda e quindi del prodotto che, dato laumento
della produttivit, non era in grado di incrementare il
numero degli occupati.
Tanto negli Stati Uniti che in Europa, la crisi avviatasi
nel 2008 si sarebbe incaricata di fugare i pochi dubbi e
le tante illusioni. Crescita stabile, fine delle depressioni,
inutilit delle politiche macroeconomiche: un castello
ideologico scosso dalle fondamenta e tuttavia
destinato a restare in piedi, sotto lo sguardo attonito
dei suoi costruttori. Ma al di l della sorprendente
capacit di tenuta di questa rappresentazione della
realt, il rallentamento della crescita (sino addirittura
alla sua scomparsa in alcuni Paesi del nucleo
industrializzato, dove essa sopravviver soltanto nelle
previsioni ufficiali) non poteva pi essere occultato nel
benevolo involucro della grande moderazione. Tanto
in Europa, che aveva continuato ad approfondire la
frattura con il vecchio assetto di politica economica e
registrava tassi di crescita in continua caduta, quanto
negli Stati Uniti, dove il nuovo assetto di politica
economica portava a maturazione non la ripresa della
crescita ma una crisi in grado di rivaleggiare con il
disastro della Grande Depressione, diveniva sempre pi
evidente che nellera della crescita stabile, sia della
crescita che della stabilit non vi era traccia. I Trenta
pietosi, o forse sarebbe meglio dire i Quaranta pietosi
dal momento che quasi un altro decennio sarebbe
trascorso in Europa senza che si modificassero pi di
tanto i livelli di produzione raggiunti nel 2008,
mostravano il loro vero volto. E mentre il cieco
ottimismo della grande moderazione svaniva come
neve al sole della crisi economica, il suo posto veniva
rapidamente occupato dallidea che le economie dei
Paesi industrialmente pi avanzati stessero vivendo
una fase di stagnazione secolare: il dato della bassa
crescita era ormai divenuto non pi ignorabile.
Nel 2014, un intervento del periodico The Economist
il pi vecchio e intransigente difensore del libero
scambio significativamente titolato La visione di
lungo periodo, ragionando sui tassi di crescita
registrati dal 1960 nei Paesi industrialmente pi
avanzati, affermava perentoriamente che il problema
per il mondo sviluppato non nato in una notte []. Il
trend chiaro. Il tasso di crescita nominale ha rallentato
al di sotto del 4 per cento annuo; quello reale al di sotto
del 2 per cento (in Italia negativo). La crescita
andava scomparendo e il problema non era sorto con la
crisi, preesistendo come fenomeno di lungo periodo.
Ma per quale motivo invece che allalba della crescita
stabile si assisteva al crepuscolo della crescita?

Ci sono molte possibili spiegazioni per questo


cambiamento, ma la pi plausibile collegata alla
demografia. La crescita fu rapida dopo la seconda
guerra mondiale perch lEuropa fu ricostruita e
alcuni benefici dei cambiamenti tecnologici del
periodo pre-bellico si diffusero nelleconomia;
successivamente, dalla seconda met degli anni
Sessanta in avanti, i nati nel baby boom confluirono
nelle forze di lavoro. Ma poi il tasso di natalit cadde
ed i baby boomer iniziarono a pensionarsi [].
Crescita economica significa avere pi lavoratori e
farli lavorare pi efficientemente (produttivit).
Anche non condividendo totalmente il pessimismo
[corrente] circa il cambiamento tecnologico,
evidente che la produttivit dovrebbe lavorare molto
alacremente per compensare la demografia.

Caratteristico della nuova era non era dunque


unaccelerazione del cambiamento tecnologico, ma un
suo rallentamento, o quanto meno un suo rallentamento
rispetto agli incrementi di produttivit resi necessari
dallo scarso aumento delle forze di lavoro, menomate
dal calo della natalit e gravate dal peso del
pensionamento dei nati nel boom demografico.
Questa capriola dalla fine delle depressioni alla
depressione permanente, dalleuforia tecnologica al
catastrofismo tecnologico, non deve tuttavia
distogliere lattenzione dal terreno comune su cui
avvenne. I due opposti atteggiamenti non erano infatti
che modi alternativi di concepire il tasso di crescita di
pi lungo periodo come del tutto indipendente dai
diversi assetti di politica economica che i Paesi
capitalisti pi avanzati si erano dati nei due trentenni in
cui indispensabile ripartire il periodo post-bellico per
poterlo comprendere. La grande moderazione era la
variante ottimistico-fantasiosa di questa indipendenza;
la stagnazione secolare quella pessimistico-realista.
Ma, in entrambi i casi, il messaggio di fondo restava
immutato: il trentennio dellalta crescita era
unesperienza irripetibile, risultante dalla fortunata
sovrapposizione di unanomalia tecnologica e
unanomalia demografica, rispetto alla quale le
consapevolezze keynesiane dei decenni post-bellici
non avevano giocato alcun ruolo. Allo stesso modo, il
trentennio della bassa crescita era ricondotto a sviluppi
demografici e tecnologici avversi, del tutto indipendenti
dalle politiche liberiste attuate dopo la grande svolta.
3. Questa prospettiva si prestava a operare
efficacemente come fattore di ambigua convergenza tra
visioni molto diverse circa i determinanti e gli esiti dello
sviluppo economico nei Paesi capitalisti pi avanzati:
dagli orientamenti ultra-liberisti a concezioni marxiste
meccanicistiche, passando attraverso le numerose
quanto indefinite gradazioni delle posizioni neo-
keynesiane e dei loro corredi di interventi anti-
congiunturali, vi era una diffusa tendenza a considerare
landamento di lungo periodo della produzione come un
dato indipendente dalla politica economica. Tuttavia, si
trattava pur sempre di una convergenza incapace di
offrire una spiegazione convincente del rallentamento
della crescita. Lidea che il progresso tecnologico
stesse ritornando, dopo un trentennio di anomala
vitalit, al suo pi contenuto ritmo di avanzamento
secolare era in palese contrasto con la realt dei fatti:
non vi era alcun elemento che consentisse di ricondurre
il rallentamento della crescita nei Trenta pietosi alla fine
di una fase di sviluppo tecnologico eccezionale
lunico periodo in cui invenzioni e progresso tecnico
avevano effettivamente mostrato unanomala vitalit
era stato il sessantennio precedente la seconda guerra
mondiale. Daltro canto, anche considerando gli
sviluppi demografici come un dato, cosa del tutto
ingiustificata nellambito di una prospettiva di lungo
periodo, lelevato numero di disoccupati, come pure
lelevato numero di soggetti che scoraggiati dalla
disoccupazione lasciavano le forze di lavoro,
evidenziava come non vi fosse alcun limite, dal lato
dellofferta, che impedisse al numero degli occupati di
accrescersi. Insomma, cos come gli economisti non
erano riusciti a spiegare in maniera nitida il trentennio
dellalta crescita ed i motivi per cui era giunto a
conclusione, essi erano incapaci di spiegare il
trentennio della bassa crescita e i motivi per cui non
accennava a concludersi.
Era inevitabile quindi che, sebbene in forme attenuate
e limitatamente agli Stati Uniti, il ruolo giocato dalla
politica economica dovesse riacquistare una qualche
centralit. Della stagnazione secolare, infatti, vi era
non soltanto una lettura offertista tutta centrata sulla
demografia e la tecnologia, ma anche una lettura dal
sapore pi vagamente keynesiano legata al tema della
domanda. Linfluente economista di Harvard e ministro
del Tesoro statunitense Lawrence Summers
sottolineava nel 2014 come

la crisi economica ha determinato una crisi nel


campo della macroeconomia. Lidea che le
depressioni avessero soltanto un interesse storico
stata screditata dalla Crisi globale e dalla Grande
recessione []. Lesperienza del Giappone degli anni
Novanta e quella odierna di Europa e Stati Uniti
suggeriscono che al fine di comprendere e
combattere le fluttuazioni economiche le teorie che
considerano il livello medio del prodotto e
delloccupazione di lungo periodo come un dato
sono poco pi che inutili. Sfortunatamente, quasi
tutti i lavori sia nel campo delleconomia neo-classica
che in quello delleconomia neo-keynesiana si sono
concentrati sulla varianza del prodotto e
delloccupazione. Questo modo di ragionare presume
che, con o senza interventi di politica economica, il
funzionamento dei mercati in grado di ristabilire il
pieno impiego ed eliminare il divario tra prodotto
corrente e prodotto potenziale. Gli unici problemi che
sorgono riguarderebbero la volatilit del prodotto e
delloccupazione intorno ai loro livelli normali. Ma ci
che accaduto negli ultimi anni suggerisce che la
varianza di prodotto e occupazione hanno
unimportanza secondaria rispetto ai livelli medi di
queste grandezze.

Ma se si riconosce che non vi alcun motivo per cui il


livello della produzione corrente debba convergere al
livello dato della produzione potenziale, limplicazione
da trarre avrebbe dovuto essere che nel pi lungo
periodo sarebbe accaduto linverso, essendo
impensabile che il prodotto potenziale possa continuare
ad accrescersi indipendentemente dal tasso di crescita
della produzione corrente. Detto in altro modo, nei limiti
in cui la politica economica determina landamento della
produzione corrente, essa determina anche landamento
della produzione potenziale e non semplicemente il
grado di utilizzo delle forze produttive. Si noti che, alla
luce di queste considerazioni, lo stesso calo della
natalit non poteva essere considerato come un evento
indipendente dal rallentamento della crescita, ma
doveva essere concepito, allinverso, come determinato
proprio dallincapacit della politica economica di
garantire il pieno impiego e di innalzare il tenore di vita
dei pi ampi strati sociali.
Queste conclusioni, tuttavia, non venivano tratte,
limitandosi la riflessione allinane consapevolezza che
la politica monetaria, a lungo identificata con la politica
economica tout court, non era in grado di rilanciare la
crescita. E se si giungeva cos a constatare che la
manovra del tasso di interesse e le iniezioni di liquidit
erano insufficienti allo scopo, nessuno era per
seriamente intenzionato a mettere in discussione
lassetto di politica economica che i Paesi
industrialmente pi avanzati si erano dati nellultimo
trentennio, percepito come il solo compatibile con il
buon funzionamento del capitalismo. Ogni rottura di
questo assetto rimaneva semplicemente impensabile,
coincidendo con un allontanamento dallidea stessa di
progresso e di modernit, causa quindi di sicuro
arretramento economico e sociale.

4. Eppure di moderno nel nuovo assetto di politica


economica vi era ben poco, trattandosi semplicemente
dello smantellamento dellimpianto faticosamente
edificato nel periodo post-bellico al fine di consentire il
perseguimento del pieno impiego come obiettivo
prioritario dei Paesi economicamente e socialmente pi
avanzati. Si era proceduto alla liberalizzazione
pressoch totale dei movimenti internazionali dei
capitali, delle merci e delle persone; il mercato del
lavoro era stato deregolamentato; le imprese pubbliche
(industriali, dei servizi e bancarie) erano state
privatizzate; la banca centrale si era fatta indipendente
dal governo e aveva assunto come obiettivo esclusivo
la lotta allinflazione; lo Stato sociale era stato
ridimensionato; il risparmio era stato detassato e i
sistemi di prelievo avevano perso il loro orientamento
progressivo; il bilancio dello Stato era tornato a essere
considerato una bestia da domare che doveva produrre
surplus e non disavanzi; la politica industriale era
degenerata in una generica assistenza finanziaria alle
imprese (vedi Tabella 2).
Ci soffermeremo nel secondo capitolo sui tratti salienti
delle politiche economiche dei Trenta pietosi e sui loro
effetti economici e sociali. Ma importante
preliminarmente richiamare lattenzione sul fatto che i
pilastri di ogni impianto di politica economica quelli
che regolano le relazioni di una nazione con il resto del
mondo attraverso

Tabella 2. Limpianto di politica economica nei due


trentenni
la definizione del grado di mobilit internazionale del
capitale, delle merci e del lavoro e il regime del cambio;
quelli che regolano le relazioni tra lo Stato e il mercato
attraverso la politica monetaria e di bilancio e lazione
dellimpresa pubblica, nonch quelli che regolano le
relazioni tra capitalisti e salariati attraverso le istituzioni
del mercato del lavoro sono da considerarsi come
intimamente connessi. Un determinato orientamento
assunto in ognuno di questi ambiti ha precise
implicazioni circa lorientamento che possibile
assumere negli altri. La liberalizzazione dei movimenti di
capitale, per fare il principale esempio concreto, non
pu coesistere con un sistema fiscale improntato a
criteri di accentuata progressivit; allo stesso modo,
una seria politica di controlli valutari difficilmente
concepibile senza una forte presenza dello Stato nel
settore dellintermediazione finanziaria. Daltro canto,
politiche orientate allespansione della domanda interna
attraverso la manovra fiscale sono destinate, in regime
di libero scambio, a ripercuotersi negativamente sulle
condizioni che garantiscono lequilibrio nei conti con
lestero; queste ultime richiederanno invece politiche di
contrazione della domanda interna e dei livelli salariali.
Che in ognuno di questi ambiti si sia verificata dalla fine
degli anni Settanta una svolta radicale rispetto al
precedente assetto di politica economica pertanto un
fatto unitario: ogni svolta ha favorito e in alcuni casi
reso necessarie le altre, consolidando in tal modo la
forza di radicamento del nuovo impianto
complessivamente inteso.

Nota bibliografica
Per i due esempi di entusiastica quanto incondizionata
adesione al progetto liberista degli ultimi decenni, si
veda S. Weber, The end of the business cycle?, Foreign
Affairs, Vol. 76, n. 4, 1997 e R. E. Lucas, Macroeconomic
Priorities, American Economic Review, marzo 2003. Le
pi caute considerazioni del governatore della banca
centrale statunitense A. Greenspan sono tratte da
Testimony of Chairman Alan Greenspan The Federal
Reserves semiannual monetary policy report before
the Committee on Banking, Housing, and Urban
Affairs, U.S. Senate, 26 febbraio 1997. Il titolo
dellarticolo dellEconomist citato Secular stagnation
The long view, del 3 novembre 2014. Sulla
stagnazione secolare, pi in generale, si veda C.
Teulings e R. Baldwin (a cura di), Secular Stagnation:
Facts, Causes and Cures, CPER Press, Londra 2014, in
particolare il saggio introduttivo di Laurence Summers
alle pp. 27-38. Di L. Summers, si veda pure The age of
secular sagnation What it is and what to do about it,
Foreign Affairs, Vol. 95, n. 2, 2016. I dati relativi al tasso
di crescita del prodotto sono tratti dal Total Economy
Database, The Conference Board, www.conference-
board.org/data/economydatabase.
Capitolo II

La grande svolta di politica economica

1. Tra linizio degli anni Ottanta e la prima met degli


anni Novanta i Paesi capitalisti pi avanzati attuarono
una pressoch totale liberalizzazione dei flussi di
capitali in entrata e in uscita. Dopo gli Stati Uniti, che
avevano completato questo processo nel corso degli
anni Settanta, le restrizioni ai movimenti valutari
collegati alle transazioni in conto capitale vennero
abolite nel Regno Unito nel 1979 in appena sei mesi, in
Giappone nel 1980, in Francia e in Italia tra il 1987 e il
1990. Misure analoghe furono attuate in Australia,
Austria, Belgio, Danimarca, Olanda. (La Germania,
Paese con un saldo commerciale strutturalmente in
attivo e quindi pi bisognoso di deflussi che di afflussi
di capitale, si era gi orientata in questa direzione nei
decenni precedenti avendo eliminato le restrizioni ai
movimenti in uscita gi a partire dal 1958.)
Laffermazione di questo orientamento fu tale da porlo
al riparo da ogni ripensamento sin dalla crisi finanziaria
asiatica del 1997. Lo stesso sarebbe accaduto con la
crisi del 2008: il Fondo monetario internazionale (Fmi)
osservava nel 2012 che

[i]l ritmo della liberalizzazione ha moderatamente


rallentato a causa della crisi globale, ma il trend
generale a livello mondiale rimane di crescente
apertura dei flussi internazionali di capitale. Dove le
autorit sono intervenute per influenzarli, esse in
genere lo hanno fatto non ri-regolando
permanentemente componenti significative del conto
capitale, quanto piuttosto disciplinando
temporaneamente specifici tipi di flussi.

La liberalizzazione dei movimenti internazionali dei


capitali proseguita quindi senza interruzioni, sebbene
avanzando in forme pi riflessive rispetto alla fase di
spregiudicata apertura conclusasi nei primi anni
Novanta. Essa continua a essere vista come un fattore
in grado di favorire una crescita stabile nel pi lungo
periodo, sebbene si riconosca che in specifiche
contingenze il ricorso ai controlli, purch non
generalizzati, di natura temporanea e possibilmente non
discriminatori, pu essere appropriato. Questo nuovo
aspetto del processo di liberalizzazione dei movimenti
internazionali dei capitali non va interpretato come
espressione di un suo indebolimento, quanto al
contrario di un suo rafforzamento: possibile
consentire temporanee eccezioni alla regola senza
rischiare di compromettere lintero impianto, proprio
perch esse agiscono come fattore di sua
conservazione arginandone gli effetti pi palesemente
deleteri.
Nel 2002, lOcse rilevava senza troppe riserve come i
controlli ai movimenti di capitale non fossero pi
unopzione politica, sostenendo che

lesperienza di progressiva liberalizzazione


finanziaria nei confronti dellesterno era stata nel
complesso positiva. In termini di effetti di efficienza
economica generale, gli impedimenti frontalieri
allefficiente allocazione del capitale erano stati
rimossi e il ventaglio delle decisioni di risparmio inter-
temporale era stato ampliato attraverso laccesso ad
un pi grande bacino di capitali. Lapertura agli
afflussi di capitale dallestero aveva contribuito a
rafforzare la concorrenza, e, quindi, a migliorare il
funzionamento delle istituzioni finanziarie nazionali.

Dieci anni dopo, la crisi economica e finanziaria non


aveva scalfito queste convinzioni. Lunica lezione da
trarne era che

per minimizzare i rischi macroeconomici generati da


cospicui movimenti internazionali dei capitali,
necessario associare alle riforme strutturali un
appropriato orientamento delle politiche
macroeconomiche, con particolare riferimento alla
politica fiscale e del cambio, da integrare poi con
riforme finanziarie volte a rafforzare il quadro della
disciplina prudenziale.

Nessun ritorno quindi ai controlli: era lorientamento


della politica economica interna che doveva accordarsi
con il contesto liberalizzato, accompagnato da un
rafforzamento della vigilanza sugli intermediari finanziari
e da eventuali temporanei interventi volti a contenere
flussi eccessivi di capitali in entrata.
Va al riguardo osservato che la cornice giuridica
allinterno della quale la liberalizzazione dei movimenti
di capitale si andata imponendo una cornice aperta,
nel senso che, con la significativa eccezione dei Paesi
dellUnione europea, non esiste a tuttoggi alcun
divieto del controllo dei capitali analogo a quello
vigente per le transazioni in conto corrente. fuor di
dubbio che gli Stati Uniti abbiano dato impulso al
processo di liberalizzazione finanziaria. Ma sarebbe un
errore pensare che essi abbiano operato definendo un
quadro normativo generale. Gli Stati Uniti si sono
sempre mossi piuttosto su base fattuale e unilaterale,
come ben mostra il fallito tentativo, a met degli anni
Novanta, di modificare lartico VI del Fmi secondo il
quale i Paesi membri possono esercitare i controlli
necessari a regolare i movimenti internazionali di
capitali, ma nessun membro pu imporre questi controlli
in un modo che restringa i pagamenti per le transazioni
correnti. Quel tentativo di estendere alle transazioni in
conto capitale il regime liberalizzato delle transazioni in
conto corrente fu infatti un tentativo europeo (cfr. al
riguardo pi avanti, p.105), espressione di quellidea di
mondialisation maitrise che difficilmente poteva
trovare accoglienza negli Stati Uniti, evidentemente
poco interessati ad ottenere per legge ci che potevano
avere anche senza nessun obbligo formale (potendo
cos rinunziarvi sbrigativamente ogniqualvolta
lavessero ritenuto conveniente). Il velleitarismo della
mondialisation maitrise trover una grottesca
applicazione non a Washington, ma in Europa, facendo
del divieto del controllo dei movimenti internazionali dei
capitali un pilastro fondante dellUnione, da
considerarsi come condizione necessaria allo sviluppo
del mercato unico. E questo non soltanto allinterno
della stessa Unione, ma a valere nei confronti di tutti gli
Stati esteri.
Paesi come la Francia e lItalia, che fino ai primi anni
Ottanta si erano mostrati come i pi riluttanti a compiere
passi che comportassero una cos grave lesione delle
proprie prerogative statuali, si trovarono dopo pochi
anni legati ad un trattato che faceva della
liberalizzazione dei movimenti in conto capitale il
pilastro fondante del loro impianto di politica
economica.

2. Guido Carli not nel 1993 che sarebbero bastate


linterconnessione dei mercati finanziari, la sola libert
di investire il risparmio [in titoli emessi da altre nazioni e
denominati in altre valute] per cancellare dal nostro
ordinamento la visione dirigistica, la nozione di
economia mista. Il trattato di Maastricht incompatibile
con lidea stessa della programmazione economica. A
essa si vengono a sostituire la politica dei redditi, la
stabilit della moneta e il principio del pareggio di
bilancio.
La liberalizzazione valutaria fu dunque in Europa la
madre di tutte le riforme liberiste, in quanto min alla
base la capacit dello Stato di esprimere un indirizzo di
politica economica autonomo, sia al suo esterno (ossia
nei confronti degli altri Stati), che al suo interno (ossia
nei confronti degli interessi dominanti). Il voto
permanente dei mercati finanziari avrebbe esercitato un
condizionamento pervasivo sul potere dello Stato
nazionale, tale da comprometterne lesercizio anche in
ambiti che restarono formalmente di sua competenza. Le
politiche deflattive furono rese in larga misura
necessarie dalla liberalizzazione valutaria, che ag in tal
modo come volano del pi ampio assetto liberista
assunto dai Paesi dellEuropa continentale nel corso
dellultimo trentennio. in questo senso corretto
affermare che la liberalizzazione valutaria suon la
campana a morto per la politiche economiche dei Trenta
gloriosi, cos come possibile affermare che i momenti
di rinuncia formale al loro esercizio (si pensi alla
questione del pareggio di bilancio in costituzione)
abbiano rappresentato un passaggio di mero
consolidamento di questo processo.
Quanto i controlli valutari e il potere dello Stato siano
intimamente connessi testimoniato dal fatto che tra
tutte le libert imposte dal Trattato di Roma, quella dei
movimenti dei capitali fu lultima ad affermarsi. Se
vero infatti che la libera circolazione dei capitali
figurava tra i principi fondanti della cooperazione
comunitaria alla stregua della libera circolazione delle
persone, delle merci e dei servizi, vero pure che le
disposizioni relative alla liberalizzazione valutaria
abbondavano di cautele assenti per le altre libert
che di fatto finirono per rimandarla alla realizzazione di
forme di integrazione economica e politica molto pi
avanzate di quelle poi attuate dal Trattato di Maastricht
e dalla moneta unica. Diversamente che per lunione
doganale, nel Trattato di Roma non era fissato alcun
calendario per lo smantellamento dei controlli sui
movimenti di capitale. La loro soppressione graduale
era prevista solo nella misura necessaria al buon
funzionamento del mercato comune. Clausole cos
generiche finirono per dare ai singoli Stati un potere
discrezionale pressoch illimitato. Se le perturbazioni
sul mercato dei capitali avessero obbligato uno Stato
ad adottare misure urgenti o segrete, non vi era altro
obbligo che di informarne ex post la Commissione
europea. In caso di crisi dei conti con lestero, lo Stato
interessato poteva mettere radicalmente in discussione
la libert dei cambi, adottando tutte le misure restrittive
in grado di riequilibrare la bilancia dei pagamenti. Di
fatto, le direttive del 1960 e del 1962 che diedero
attuazione al Trattato di Roma liberalizzarono
incondizionatamente solo alcune forme di investimenti
diretti, gli investimenti immobiliari e i crediti commerciali
a breve e medio termine, non allontanandosi quindi
dalla filosofia di Bretton Woods. Gli Stati nazionali, pur
avendo come obiettivo primario la cooperazione e lo
sviluppo del commercio mondiale, non erano
intenzionati e tantomeno forzati a compiere passi che ne
compromettessero la capacit di attuare politiche
economiche orientate allinnalzamento dei livelli
occupazionali. Lassetto di Bretton Woods aveva come
obiettivo primario il rafforzamento, non lindebolimento,
di questa capacit, e aveva individuato proprio nella
restrizione dei movimenti di capitali lo strumento
necessario a garantire la complessa coesistenza tra
apertura degli scambi commerciali e centralit
dellobiettivo del pieno impiego.
Proprio a causa di tutte queste ritrosie nel procedere
sul fronte della libera circolazione dei capitali, il
ventennio successivo al Trattato di Roma oggi
considerato come il periodo buio della cooperazione
europea, gli anni in cui il progetto avrebbe perso
impulso prima dellimpetuosa ripartenza della seconda
met degli anni Ottanta. Si tratt al contrario dellunico
periodo in cui il dibattito sul futuro dellUnione europea
acquist spessore. Chiusasi la fase postbellica del
passaggio dalleconomia della guerra alleconomia della
pace e della cooperazione nei settori economici chiave,
con il Trattato di Roma il problema del conflitto tra
forme pi avanzate di internazionalizzazione e
conservazione delle prerogative dello Stato nazionale si
pose in modo esplicito. In modo altrettanto esplicito la
questione fu risolta in negativo. Lincompatibilit tra un
regime valutario completamente liberalizzato e la
possibilit di utilizzare le leve della politica monetaria e
fiscale al fine di conseguire alti livelli occupazionali era
un fatto fuori discussione. Non stupisce, alla luce di
questa consapevolezza, come in tutti i pi significativi
documenti comunitari di quel ventennio, dal piano
Werner sino al rapporto MacDougall, lo
smantellamento dei controlli sui movimenti di capitali
fosse visto come un momento logicamente e
temporalmente subordinato alla pi fondamentale
questione della creazione di forme di coordinamento
fiscale e politico, fase quindi di compimento e non di
avvio di un ipotetico percorso federale. La
liberalizzazione valutaria non era ancora considerata un
dogma, ma una scelta chiave di politica economica, che
poteva essere vantaggiosa per alcuni e dannosa per
altri. Nel corso degli anni Settanta i Paesi la cui taglia
era tale da alimentare lambizione a una conduzione il
pi possibile autonoma delle proprie sorti economiche,
politiche e sociali, si astennero dal compiere il passo.
Come vedremo nel prossimo capitolo concentrando
lattenzione sul caso francese, proprio limprovviso
risolversi di questa impasse in senso liberista lo snodo
chiave da cui muovere per analizzare il processo di
disfacimento della sinistra europea.

3. I rapporti commerciali tra i principali Paesi


industrializzati durante i Trenta gloriosi furono
improntati al principio della riduzione delle barriere
doganali e delle pratiche discriminatorie introdotte
allinizio degli anni Trenta, da realizzarsi attraverso
unintesa multilaterale (il Gatt) basata su un piano di
riduzioni tariffarie e sullapplicazione della clausola
della nazione pi favorita. Leffettiva capacit del Gatt
di agire come fattore di rilancio del commercio
internazionale dopo la fine del secondo conflitto
mondiale, tuttavia, dipese non tanto dal principio di
fondo, quanto dalle eccezioni a esso. Alle nazioni in via
di sviluppo era riconosciuta la possibilit di agire in
deroga praticamente senza alcun limite, di modi e di
tempi, per proteggere il loro immaturo apparato
industriale. Le stesse nazioni industrialmente pi
avanzate, daltronde, erano ben felici di diluire i
contenuti dellaccordo consentendo ai Paesi meno
sviluppati di adottare regimi speciali, concedendosi in
tal modo la facolt di ricorrere a pratiche analoghe,
senza assumere al contempo un atteggiamento
esplicitamente avverso al libero commercio. Il settore
agricolo e quello tessile (in modo particolare il primo)
erano settori da non esporre alla concorrenza
internazionale. Allo stesso modo, andavano tutelati i
settori di base e di rilevanza strategica, nozioni alle
quali si attribuiva il pi ampio significato. I principi del
Gatt erano da considerarsi come non imperativi nel caso
in cui si fosse trattato di ristabilire le condizioni di
equilibrio nella bilancia dei pagamenti. A questa
eccezione, sebbene di durata temporanea, veniva
attribuita unimportanza cos grande da riaprire il campo
alle quote, vale a dire a quelle restrizioni quantitative in
volume che avevano proliferato nel decennio
antecedente la seconda guerra mondiale e che le
nazioni pi avanzate avevano individuato come
principale ostacolo alla ripresa del commercio mondiale
nella fase post-bellica.
Pi ambiguo, invece, era il significato
dellallontanamento dal principio di non discriminazione
imposto dalla clausola della nazione pi favorita. Esso
avvenne attraverso una tendenza regionalistica, che
trovava attuazione nella stipula di accordi esterni al
Gatt riguardanti un numero limitato di nazioni strette da
peculiari vincoli economici e politici, al fine di stabilire
tra loro trattamenti privilegiati non estendibili agli altri
Paesi. Il primo significativo sviluppo in tal senso
riguard i Paesi dellEuropa occidentale coinvolti
nellEuropean Recovery Program, i quali concordarono
forti riduzioni dei regimi tariffari al loro interno da non
estendersi agli altri Paesi (sviluppo rafforzatosi poi con
listituzione della Comunit Europea del Carbone e
dellAcciaio). Assecondata dagli Usa, Paese
ostinatamente avverso alla definizione di qualsivoglia
quadro di regole sovranazionali, questa tendenza
regionalistica, se da un lato si collocava nel solco del
protezionismo temperato allinterno del quale il Gatt si
andava evolvendo, dallaltro rappresentava una prima
riaffermazione dei principi del libero scambio decaduti
tra le due guerre mondiali.
Non difficile capire perch il ruolo svolo dal Gatt nei
primi decenni post-bellici appaia oggi cos sfuggente.
Non si pu infatti guardare ad esso come alla prima fase
di un processo che sarebbe giunto a maturazione
allinizio degli anni Novanta con lassetto
liberoscambista dellOrganizzazione mondiale del
commercio (Omc). I risultati conseguiti sul fronte
dellabbattimento delle barriere tariffarie, dopo la prima
ondata di riduzioni degli anni immediatamente
successivi alla fine della guerra, furono modesti (nulli
negli anni Cinquanta e Sessanta). Inoltre, allallargarsi
del numero delle nazioni che sottoscrivevano lintesa
multilaterale, si moltiplicava il numero dei regimi in
deroga e delle pratiche discriminatorie. Pi che un
insieme di regole condivise, il Gatt era un forum
internazionale di risoluzione delle controversie.
Il problema per cos dire interpretativo deriva dal fatto
che nei decenni Cinquanta e Sessanta il commercio
mondiale crebbe a tassi rimasti ineguagliati anche negli
anni della globalizzazione e del libero scambio
incondizionati. Si ponga a confronto, ad esempio, il
decennio Novanta con il decennio Sessanta. Negli anni
Novanta, con la cosiddetta esplosione del commercio
mondiale, il volume degli scambi internazionali aument
2,5 volte pi velocemente del Pil mondiale, a fronte di
un aumento 1,5 volte pi veloce nei quattro decenni
precedenti. Tuttavia, mentre negli anni Novanta il
commercio mondiale crebbe, in media annua, del 6,6 per
cento contro il 2,6 per cento del Pil mondiale, negli anni
Sessanta esso crebbe dell8 per cento contro il 5,5 per
cento del Pil mondiale. Concentrando lattenzione sui
Paesi industrialmente pi avanzati, le esportazioni
crebbero dell8,3 per cento negli anni Sessanta, contro
il 6,6 per cento negli anni Novanta; le importazioni
dell8,7 per cento contro il 6,8 per cento. Se misurato
non in rapporto al Pil, il commercio mondiale aument
pertanto di pi negli anni del protezionismo temperato
che in quelli del successivo libero scambio
incondizionato.
Douglas Irwin, uno dei massimi esperti di commercio
internazionale, nellinterrogarsi circa il ruolo del Gatt
come determinante del boom di esportazioni del periodo
post-bellico, conclude che la formazione del Gatt non
sembra aver stimolato nel decennio successivo al 1947
una liberalizzazione del commercio mondiale
particolarmente rapida. quindi difficile attribuire al
Gatt un ruolo nella sorprendente ripresa economica del
periodo post-bellico che vada oltre quello di semplice
comprimario. In effetti, la prima significativa ondata di
riduzioni tariffarie si avr soltanto nel novembre del
1979 a conclusione del Tokyo Round, unintesa che
determiner un abbattimento delle barriere tariffarie nei
nove principali Paesi industrializzati dal 7 per cento al
4,7 per cento, seguita poi dalle ulteriori riduzioni
definite nel 1994 a conclusione dellUruguay Round. Da
una prospettiva liberoscambista ci troviamo di fronte
allimbarazzante successo di un orientamento di politica
economica il cui fine ultimo non era favorire il libero
scambio incondizionato, ma far convivere le istanze
protezionistiche degli Stati impedendo che esse
finissero per irrigidirsi nella logica delle ritorsioni
commerciali.
Per comprendere come un impianto sostanzialmente
protezionista raggiunse il risultato di promuovere il
commercio mondiale bisogna non perdere di vista il
fatto che il Gatt post-bellico, non diversamente dal Fmi
e dalla Banca mondiale (Bm), fu il figlio imperfetto dei
rapporti di potere determinatisi nel periodo di tempo
compreso tra la Grande Depressione e la fine della
seconda guerra mondiale. Il Fmi e la Bm non
realizzarono appieno quella struttura finanziaria
internazionale asservita alla crescita piuttosto che ai
creditori; allo stesso modo, il pi modesto strumento
del Gatt surrog lInternational Trade Organization
(Ito), ovvero lorganismo che con il Fondo e la Banca
avrebbe dovuto costituire la terza gamba di un tavolo di
cooperazione internazionale mirante a consentire agli
Stati di perseguire lobiettivo del pieno impiego senza
inciampare nel vincolo esterno. Resta tuttavia vero che
le istanze dellIto improntarono, in forma attenuata, i
contenuti del Gatt. La Carta dellHavana, lintesa che
nel 1948 introduceva lIto, poi decaduta perch non
ratificata dal Congresso americano, illustra queste
istanze limpidamente. Dopo aver individuato
nellarticolo 1 come principale finalit dellIto
lassicurare attraverso uno sviluppo bilanciato
delleconomia mondiale le condizioni di stabilit e
benessere indispensabili ad una convivenza pacifica
delle nazioni, nellarticolo 2 si affermava che

i Paesi membri riconoscono che evitare la


disoccupazione e la sottoccupazione, attraverso la
costituzione e il mantenimento in ogni Paese di utili
opportunit di impiego per chi capace e disposto a
lavorare e di un volume di produzione e di domanda
effettiva per beni e servizi ampio e stabilmente
crescente, non solo una preoccupazione interna ad
ogni nazione, ma anche una condizione necessaria
per lottenimento del fine generale e degli obiettivi
fissati nellarticolo 1, inclusa lespansione del
commercio internazionale, e quindi del benessere di
tutte le altre nazioni.

La priorit dellobiettivo del pieno impiego, da


conseguirsi attraverso la crescita della domanda
interna, era ribadita nellarticolo 3: ogni membro
intraprender azioni finalizzate al mantenimento sia di
unoccupazione piena e produttiva sia di una domanda
ampia e stabilmente crescente allinterno del suo
territorio, attraverso misure appropriate alle sue
istituzioni politiche, economiche e sociali. Larticolo 4
coinvolgeva i Paesi creditori nel processo di correzione
degli squilibri, in quanto:

nel caso in cui uno squilibrio persistente nella


bilancia dei pagamenti di uno dei membri il
principale determinante di una situazione in cui gli
altri membri sono coinvolti in difficolt della bilancia
dei pagamenti, tali da vedersi impediti nel
perseguimento dei fini individuati dallarticolo 3
senza ricorrere a restrizioni del commercio estero, il
membro che ha generato lo squilibrio dar il suo
pieno contributo, mentre azioni appropriate saranno
intraprese dagli altri membri, al fine di correggere lo
squilibrio. Azioni in accordo con questo articolo
saranno intraprese considerando la desiderabilit di
impiegare metodi che mirano allespansione piuttosto
che alla contrazione del commercio internazionale.

Larticolo 5 ribadiva poi il concetto richiamando i


pericoli deflazionistici di un aggiustamento rigorista.
Larticolo 6 concludeva sottolineando la necessit di
escludere dallarea del libero commercio i Paesi non in
grado di garantire giusti salari e condizioni di lavoro
adeguate:

I membri riconoscono che le misure relative


alloccupazione devono prendere pienamente in
considerazione i diritti dei lavoratori attraverso
dichiarazioni intergovernative, convenzioni e accordi.
Essi riconoscono che ogni Paese ha un interesse
comune nellottenimento e nel mantenimento di giusti
standard occupazionali relativamente alla produttivit
del lavoro, e quindi nel miglioramento dei salari e
delle condizioni di lavoro nella misura consentita
dalla produttivit. I membri riconoscono che
condizioni di lavoro inique, particolarmente nella
produzione destinata allesportazione, creano
difficolt nel commercio internazionale, e,
conseguentemente, ogni membro intraprender ogni
misura ritenuta appropriata e possibile al fine di
eliminare tali condizioni allinterno del proprio
territorio.

4. I motivi del successo del Gatt post-bellico


dovrebbero quindi essere chiari: il protezionismo
temperato era finalizzato anche allo sviluppo del
commercio mondiale, non implicando lisolazionismo
autarchico. Non si propugnava una crescita trainata
dalle esportazioni, ma, al contrario, flussi di esportazioni
trainati dalla crescita. Questultima avrebbe dovuto
essere sostenuta dalla domanda interna; il
miglioramento dei salari ed un orientamento espansivo
della politica economica ne costituivano il
presupposto; condizioni di lavoro inique e austerit
sarebbero state per contro un fattore di contrazione
della domanda interna, e, pertanto, un nemico del
commercio internazionale. Lo Stato nazionale ed il suo
impegno a perseguire politiche economiche autonome
orientate al mantenimento in ogni Paese di utili
opportunit di impiego avrebbe costituito il motore del
processo. Stiamo toccando uno snodo chiave della
connessione tra i diversi ambiti della politica economica
sul quale avremo modo di tornare pi avanti.
Limitiamoci per il momento a sottolineare la distanza tra
questimpostazione e quella, libero-scambista, che
emerse dalla dichiarazione circa il contributo dellOmc
allottenimento di maggior coerenza nellazione di
politica economica globale, contenuta nel suo statuto
costitutivo del 1995:

Laccordo raggiunto nellUruguay Round mostra


come tutti i governi riconoscano il contributo che
politiche commerciali liberiste possono offrire ad una
crescita e uno sviluppo sani delle loro economie e
delleconomia mondiale nel suo complesso []. La
liberalizzazione del commercio mondiale costituisce
una componente di crescente importanza nel
successo dei programmi di aggiustamento che molti
Paesi stanno intraprendendo, spesso sopportando
significativi costi sociali nella transizione []. Il
rafforzamento del sistema di commercio multilaterale
che emerge dallUruguay Round ha la capacit di
offrire un miglior forum per la liberalizzazione, di
contribuire ad una pi effettiva sorveglianza e di
assicurare la stretta osservanza di regole e discipline
multilateralmente condivise. Questi miglioramenti
implicano che la politica del commercio internazionale
potr in futuro giocare un ruolo pi sostanziale
nellassicurare la coerenza dellazione di politica
economica globale.

Lenfasi qui non sul pieno impiego e sul conseguente


sviluppo del commercio internazionale, quanto
piuttosto sulle politiche di liberalizzazione del
commercio i cui effetti interni avrebbero reso necessari
programmi di aggiustamento, costosi socialmente ma
benefici per la competitivit. Al centro di questo
processo vi sarebbero stati i governi nazionali, ma solo
come attuatori di unazione coerente di politica
economica globale. Il libero commercio era lo
strumento che avrebbe imposto in prospettiva futura
in misura crescente ai singoli governi lagenda di
politica economica. Accesso ai mercati in cambio di
stretta osservanza di regole e discipline
multilateralmente condivise, un eufemismo per
indicare le politiche di austerit orientate alla deflazione
e al mutamento delle condizioni distributive a
svantaggio dei salariati. Questo, in essenza, il patto
proposto dallUruguay Round ai Paesi sottoscrittori.
Ben diversamente da quello proposto dalla Carta
dellHavana, che mirava a garantire laccesso ai mercati
in cambio di politiche orientate alla crescita della
domanda interna vale a dire condizioni distributive
pi eque in cambio di analoghe condizioni distributive
negli altri Paesi sottoscrittori e per il quale il
conseguente sviluppo della produzione interna in ogni
Paese economicamente e socialmente pi avanzato
avrebbe favorito lo sviluppo del suo commercio estero.
opportuno sottolineare che a beneficiare
dellorientamento post-bellico non furono soltanto le
nazioni industrialmente pi avanzate, visto che anche in
molti Paesi in via di sviluppo ebbe luogo un progresso
economico e sociale senza precedenti.
Lindustrializzazione basata sulla sostituzione delle
importazioni, ha rilevato Dani Rodrik, un noto
economista statunitense moderatamente critico della
globalizzazione, basata sullidea che linvestimento
interno e le capacit tecnologiche possano essere
stimolati offrendo ai produttori nazionali una protezione
temporanea dalle importazioni. Sebbene
questimpostazione sia caduta in disgrazia dallinizio
degli anni Ottanta, essa ha funzionato egregiamente per
un lungo periodo di tempo in un numero consistente di
nazioni in via di sviluppo. Per Rodrik non si tratta
soltanto del fatto che fino al 1973 non meno di 42
nazioni in via di sviluppo crebbero stabilmente a tassi
superiori al 2,5 per cento annuo, ma anche del fatto che
contrariamente a quanto comunemente si crede, la
crescita basata sulla sostituzione delle importazioni non
ha prodotto ritardi tecnologici e inefficienze a livello
macroeconomico. I successi del protezionismo
temperato non furono quindi limitati ai Paesi
industrialmente pi avanzati e non implicarono la
mancata crescita dei Paesi in via di sviluppo.
5. Nel corso dei Trenta gloriosi, al protezionismo
temperato e ai controlli dei movimenti dei capitali si
affianc un meccanismo di provvista di liquidit
internazionale anchesso funzionale al pieno impiego.
Soffermiamoci brevemente sul suo ruolo.
Eccezion fatta per il Paese che si pone al centro del
sistema, con la sua moneta che funge da valuta di
riserva e strumento di pagamento internazionale,
nessun meccanismo di provvista di liquidit
internazionale, per quanto permissivo, pu sostenere
squilibri permanenti dei saldi commerciali. Un buon
sistema monetario internazionale pu quindi
considerarsi quello che favorisce il riequilibrio dei conti
di parte corrente impedendo che laggiustamento
avvenga attraverso il contenimento della domanda
aggregata. Un tale aggiustamento, se generalizzato, ha
infatti leffetto di innescare un circolo vizioso tra
politiche restrittive ed equilibrio esterno dagli esiti
opposti a quelli indicati nella sezione precedente: non
crescita delle esportazioni trainate dalla crescita del
prodotto, ma riduzione delle esportazioni causata dalla
riduzione della crescita, a sua volta indotta dalla
necessit di contenere le importazioni.
Si portati a pensare che questa trappola possa essere
evitata grazie ad un meccanismo sovra-nazionale in
grado di spostare parte del peso della correzione sulle
spalle del creditore. Ora un meccanismo di tal fatta
astrattamente concepibile, solo che il suo concreto
operare implica lesistenza di un governo mondiale. Si
tratta quindi di una chimera, fuorviante nella misura in
cui distoglie lattenzione dallunica strada
effettivamente percorribile, ossia quella per cui ogni
singolo Stato deve dotarsi degli strumenti necessari a
consentire la sua crescita interna in condizioni di
equilibrio esterno; alla lunga, il problema non pu
essere risolto n dal favore dei creditore, n da una
provvista illimitata di liquidit internazionale. Circa gli
strumenti da utilizzare per conciliare la crescita interna
con lequilibrio esterno, nel corso dei Trenta gloriosi si
escludeva che questultimo potesse essere assicurato
grazie ad afflussi di capitale generati da alti tassi di
interesse interni; si escludeva al contempo il ricorso alla
sistematica variazione del tasso di cambio, essendo le
svalutazioni competitive unilaterali percepite come una
delle minacce principali alla tenuta del consenso
espansionistico. Restava il ricorso ad una qualche
forma di protezionismo temperato e naturalmente al
controllo dei movimenti di capitale.
Come abbiamo gi ricordato (cfr. sopra, tab.2 p.26), a
partire dagli anni Ottanta la provvista di liquidit in
valuta non stata pi alimentata dai soli canali pubblici
ma in misura crescente da canali privati attraverso una
complessa rete di imprese finanziarie e non finanziarie. Il
contesto cambiato radicalmente rispetto a quello
post-bellico, caratterizzato proprio dallo sforzo di
imbrigliare forze finanziarie destabilizzanti e
potenzialmente distruttive, limitando i flussi finanziari
internazionali privati alle esigenze determinate dalle sole
operazioni commerciali. Anche a causa dellenorme
crescita delle transazioni finanziarie internazionali, la
volatilit dei tassi di cambio passata dal 2 per cento
del trentennio post-bellico a circa il 15 per cento degli
ultimi decenni, nonostante il fatto che proprio per
proteggersi dalla libera circolazione dei capitali e dalla
conseguente instabilit del cambio numerosi Stati
abbiano ancorato la propria moneta a quella di Paesi a
maggiore solidit valutaria con accordi pi o meno
vincolanti. Contestualmente, sono state smantellate
tutte le barriere fiscali e tariffarie alle importazioni. Le
politiche restrittive sono cos rimaste lunico strumento
di riequilibrio dei conti con lestero, lasciando alle
politiche espansionistiche uno spazio incidentale,
erratico, ed in ogni caso determinato da circostanze
fuori dal controllo dei responsabili della politica
economica nazionale. Da un assetto in cui dal consenso
espansionistico derivava un regime protezionistico si
passati ad un assetto in cui dal consenso liberista
derivano politiche restrittive.
importante ribadire come non solo la politica
valutaria, ma anche la politica commerciale, e in ultima
analisi tutto lorientamento interno della politica
economica, costituissero nel primo trentennio post-
bellico aspetti centrali del processo di crescita in
condizione di tendenziale equilibrio esterno.
Fondamentale era considerata una conduzione il pi
possibile autonoma della politica economica nazionale,
ossia che vi fosse la minor interferenza possibile con
le politiche economiche nazionali (Keynes).
Gli accordi di Bretton Woods furono un successo della
cooperazione internazionale tra Stati forti, non di
unistituzione sovranazionale che indirizzasse loperato
di Stati deboli. Latteggiamento del Fmi degli ultimi
decenni semplicemente il prodotto del consenso e
dellimpianto di politica economica stabilitisi nei Trenta
pietosi. Da essi derivano lestensione praticamente
senza limiti del principio della condizionalit, ossia la
stretta subordinazione della concessione di liquidit
internazionale alladozione di politiche fiscali restrittive,
di detassazione del risparmio, di privatizzazione, di
deregolamentazione del mercato del lavoro, come pure
limpiego dei prestiti non pi finalizzato a creare
lopportunit di correggere gli squilibri della bilancia
dei pagamenti senza ricorrere a misure distruttive della
prosperit nazionale ed internazionale, quanto
piuttosto a consentire ai flussi finanziari internazionali
di mettersi al riparo dai disastri da essi stessi provocati.
Ci che dunque stiamo ponendo in luce che fu
limpegno dei Paesi capitalisti pi avanzati ad
accrescere produzione e occupazione al loro interno
lelemento che caratterizz il trentennio successivo al
secondo conflitto mondiale. La realizzazione di questo
obiettivo comune era affidata ad ogni singolo Stato, dal
momento che il pieno impiego delle forze di lavoro
poteva essere perseguito soltanto grazie ad un
massiccio intervento di ogni governo a sostegno della
domanda interna. Questo intervento presupponeva che
vi fossero le condizioni necessarie a una conduzione il
pi possibile autonoma della politica economica, ossia
implicava un sistema efficace di controlli delle
transazioni finanziarie e commerciali con il resto del
mondo. Le politiche di gestione della domanda,
innalzando i livelli occupazionali, rafforzavano i
salariati, contribuendo anche per questa via al
sostegno della domanda interna. Ed proprio in
relazione a questaspetto che entr in gioco la
questione del grado di mobilit internazionale delle
forze di lavoro.

6. I capitalisti, ben noto, hanno sempre aspirato a


movimenti migratori deregolamentati. I Trenta gloriosi
non costituirono da questo punto di vista
uneccezione. Al contrario, via via che lobiettivo del
pieno impiego veniva raggiunto, le pressioni volte a
ricostituire attraverso i flussi migratori un bacino di
lavoratori eccedentari e vulnerabili, al fine di esercitare
unazione disciplinatrice sui salariati, si accrescevano.
Tuttavia, il livello di coesione sociale da un lato e
lazione regolamentatrice dello Stato dallaltro due
elementi che come avremo modo di argomentare sono
in rapporto di reciproca dipendenza posero allora un
argine a questa aspirazione, sebbene in forme non prive
di incertezze ed incoerenze.
Se guardiamo alla politica migratoria delle principali
nazioni europee dal dopoguerra ad oggi, possibile
individuare, pur in presenza di significative differenze
tra i singoli Paesi, tre diverse fasi articolatesi lungo
linee non cos nette come quelle seguite dalle vicende
della mobilit internazionale dei capitali e delle merci.
Una prima fase, che va dal 1945 al 1975, si caratterizz
per la presenza di flussi migratori sostenuti in un
contesto di elevata crescita economica ed intensa
azione regolamentatrice dello Stato. Dopo una seconda
fase di arresto nel decennio tra il 1975 e il 1985,
determinata proprio dal rallentamento del processo di
crescita e dalle tensioni sociali accumulatesi a causa
delle politiche migratorie relativamente permissive dei
decenni precedenti, prese avvio una terza fase che si
distinse, specialmente a partire dagli anni Novanta, per
la massiccia ripresa dei flussi migratori sia verso i Paesi
europei che come la Germania e la Francia avevano gi
ricevuto flussi cospicui in entrata, sia verso quelli pi
periferici come la Spagna e lItalia, che nei decenni
post-bellici avevano invece esportato forze di lavoro.
Flussi migratori elevati e crescenti iniziarono a
coesistere con ancor pi elevate e crescenti eccedenze
di manodopera indigena. Gli Stati nazionali rinunziarono
ad uneffettiva politica di controllo. Essi tesero
piuttosto ad assecondare un vasto piano di
immigrazione semi-clandestina basato su un
atteggiamento permissivo allentrata, pi restrittivo in
materia di regolarizzazione, e di totale indifferenza circa i
costi sociali del fenomeno, di fatto scaricati sugli strati
pi bassi della societ e sulle aree geografiche investite
dallemergenza della prima accoglienza.
La peculiarit del fenomeno migratorio dellultimo
ventennio, rispetto a quello degli anni Cinquanta e
Sessanta, da ricondurre proprio al diverso contesto
occupazionale allinterno del quale questi flussi
migratori, sia regolari che irregolari, si sono andati ad
inserire. Si consideri, per fissare le idee, che nel 2014 il
numero degli occupati indigeni dei Paesi europei
dellOcse (circa 180 milioni) non era tornato ai livelli
dellinizio della crisi del 2008. Viceversa, gli occupati
nati allestero hanno presentato una crescita sostenuta
che ha portato il loro numero a 25 milioni, con un
incremento di circa l8 per cento tra il 2008 e 2014.
Evidentemente, si tratta di uno scenario ben diverso da
quello degli anni Sessanta nel corso dei quali, se vero
che si registrarono in alcuni Paesi europei tassi di
crescita ancor pi elevati degli occupati nati allestero,
vero altres che essi si accompagnarono ad un tasso
di crescita altrettanto elevato degli occupati indigeni ed
a un calo del numero complessivo dei disoccupati.
Completamente diverso, daltro canto, fu lorientamento
dei pubblici poteri nei due periodi. Se ancora alla met
degli anni Settanta le condizioni sociali e politiche
erano tali da consentire ad un indirizzo restrittivo
dellimmigrazione di imporsi in tempi relativamente
brevi, latteggiamento prevalente nellultimo ventennio
era mutato al punto da spingere il responsabile dei
diritti umani dei migranti presso le Nazioni Unite,
Franois Crpeau, ad affermare che i diritti umani sono
per tutti e che i migranti devono essere trattati come
titolari di uguali diritti, a prescindere dal loro status
migratorio in relazione al territorio sovrano in cui si
trovano. In altre parole, ogni migrante, anche per
motivi economici, sarebbe un rifugiato che in nome dei
diritti umani gli Stati non possono respingere.
Argomenteremo pi avanti (cap. IV) come
questidentificazione dei diritti umani con la
rivendicazione della soppressione dei confini di uno
Stato, ovvero del pi elementare presupposto del
potere statuale, abbia rappresentato un aspetto centrale
del processo che ha condotto alla scomparsa della
sinistra in Europa.

7. Nel corso dei Trenta gloriosi, nelle societ


industrializzate socialmente pi evolute, le conquiste
del lavoro salariato avanzarono senza arrecare
pregiudizio alla stabilit sociale e allo sviluppo
economico. Coesione sociale e crescita ne risultarono al
contrario rafforzate avendo entrambe come
presupposto principale proprio laccresciuta forza dei
salariati. Lavoratori pi forti salari pi elevati
crescita della domanda interna crescita della
produzione crescita delloccupazione lavoratori
pi forti. Fu questo in essenza il meccanismo virtuoso
che leg progresso economico e progresso sociale. Un
meccanismo potente e fragile allo stesso tempo:
potente, perch ogni sua componente tende a rafforzare
le altre in circolo; fragile, perch la sua attivazione non
automatica, come non automatico loperare di ogni
singola connessione. Il processo inconcepibile senza
uno Stato forte che lo instauri, lo indirizzi, vi
sovraintenda. Se vi un eccezionalismo storico dei
Trenta gloriosi, esso da rintracciare proprio nel fatto
che al termine della seconda guerra mondiale si cre un
consenso diffuso circa la necessit di investire i
governi nazionali del compito di promuovere strategie
intese ad attivare e sostenere il circuito virtuoso. I
lavoratori rimasero naturalmente ben lontani dal
sottrarre alla borghesia il controllo della macchina
splendidamente attrezzata dello Stato (Lenin); tuttavia,
innegabile che per i salariati e i loro rappresentanti
nacque la concreta possibilit di far sentire il proprio
peso nella vita della nazione, esercitando uninfluenza
pi o meno diretta su questioni economiche di
importanza cruciale.
Gli sviluppi delle istituzioni e delle norme regolanti il
mercato del lavoro furono una delle manifestazioni pi
evidenti di questa accresciuta influenza. Che li si
designi, per utilizzare il linguaggio della teoria delle
relazioni industriali, come modello della partecipazione,
della concertazione o del pluralismo organizzato, chiaro
fu il loro orientamento nei tre decenni successivi al
secondo conflitto mondiale: consolidare il fronte del
lavoro salariato fissandone sul piano della legge i
progressivi avanzamenti, nellambito di una presa di
distanza tanto dallassetto che aveva caratterizzato le
esperienze del fascismo e del nazional socialismo,
quanto dal confronto tra capitale e lavoro quale era
stato regolato solo marginalmente dallo Stato fino ai
primi decenni del novecento. Contrariamente a quanto
osservato da Adam Smith, secondo cui ogni volta che
la legge ha cercato di regolare i salari degli operai
stato sempre piuttosto per abbassarli che per
aumentarli, nei Trenta gloriosi lo Stato sostenne i
salariati attraverso numerosi canali.
Vi fu in primo luogo il complesso delle leggi che
disciplinavano le tipologie contrattuali, la protezione
dellimpiego (ovvero le modalit di assunzione e
licenziamento), la salute e la sicurezza sui luoghi di
lavoro. Vi furono poi le norme che regolavano la
contrattazione collettiva, le organizzazioni sindacali e il
diritto di sciopero. Un ruolo non trascurabile fu svolto
dai sussidi di disoccupazione, come pure dal complesso
delle politiche attive volte a favorire la formazione e il
collocamento dei lavoratori. Di importanza
fondamentale fu inoltre tutta la disciplina che regolava
la corresponsione delle prestazioni pensionistiche, vale
a dire del salario differito, e, pi in generale, di tutti i
servizi, primi fra tutti sanit ed istruzione, che lo Stato
metteva a disposizione dei lavoratori e delle loro
famiglie come salario indiretto. Proprio in quanto
erogatore di salario indiretto e differito, lo Stato poteva
intervenire sul piano strettamente negoziale, mediando
tra imprese e sindacati al fine di alleggerire la tensione
sulla contrattazione del salario diretto. Infine, esso
stesso era datore di lavoro, assorbendo forze di lavoro
e definendo attraverso i contratti di pubblico impiego
standard retributivi e normativi che non potevano non
condizionare anche il tenore della contrattazione
collettiva privata. Tralasciando il ruolo della spesa e dei
trasferimenti pubblici di cui ci occuperemo nella sezione
seguente, importante sottolineare come questo
sistema di consolidamento della forza crescente del
lavoro salariato si reggesse su due pilastri: da un lato vi
era lo sviluppo delle istanze rivendicative attraverso
lazione sindacale, dallaltro la subordinazione della
contrattazione alla legge, nonch della contrattazione
individuale alla contrattazione collettiva e della
contrattazione di livello inferiore alla contrattazione di
livello superiore.
Nellambito della contrattazione collettiva di livello
superiore rivest poi particolare importanza il regime di
indicizzazione dei salari ai prezzi. Nella misura in cui i
lavoratori riuscivano ad ottenere forme automatiche di
tutela del salario reale, il confronto negoziale poteva
concentrarsi sullaggancio dei salari reali allandamento
della produttivit del lavoro, senza disperdere energie
sulla pi arretrata questione della difesa del potere
dacquisto del salario nominale.
Questi pilastri assunsero importanza diversa nei
diversi contesti nazionali. In quelli con sindacati
storicamente deboli, lo Stato intervenne
prevalentemente attraverso la normativa sul lavoro.
Viceversa, in sistemi di relazioni industriali
tradizionalmente meno regolamentati, acquis
preminenza lintervento dello Stato a supporto
dellazione sindacale. Come diverse furono le forme in
cui la forza dei lavoratori salariati si and strutturando
nei diversi contesti nazionali, diversi furono i modi in
cui esse furono disarticolate a partire dalla grande
svolta di politica economica.
Il caso di scarsa pervasivit dellintervento normativo
diretto dello Stato ben esemplificato dalle vicende
dellInghilterra. Il sistema inglese di relazioni industriali
consolidatosi nei Trenta gloriosi, sebbene ispirato a
principi contrattualistici, prevedeva le cosiddette
clausole di sicurezza sindacale, che subordinavano
lassunzione del lavoratore o la sua permanenza in
servizio allappartenenza ad unassociazione sindacale.
Numerosi erano poi gli esempi di interventi statali a
sostegno dei salariati non strettamente legati alla
normativa negoziale, come ad esempio quelli in materia
di sciopero e sicurezza sui luoghi di lavoro.
LEmployment Act del 1982 limit le dispute sindacali
ammesse dalla legge alle controversie con il proprio
datore di lavoro, dichiarando cos illegale ogni forma di
sciopero solidale (incluso quello nei confronti di
lavoratori impiegati dalla stessa impresa
multinazionale). Nel 1984 il Trade Union Act subordin
lo sciopero al referendum preventivo. Con
lEmployment Act del 1988 e del 1990 la Thatcher
elimin le clausole di sicurezza sindacale, dichiarando
illecito il divieto di assunzione o il licenziamento del
lavoratore che si rifiutava di appartenere ad
unassociazione sindacale. Tutte queste innovazioni
furono poi conservate e perfezionate dai governi
laburisti della terza via attraverso lintroduzione della
legge sul salario minimo. Concepita come una sorta di
garanzia universalistica a tutela del lavoratore, in un
contesto negoziale dove la contrattazione individuale e
aziendale andava sempre pi sostituendosi ai contratti
di categoria, la legge sul salario minimo legale era in
realt destinata ad operare come una livella al ribasso
del sistema rivendicativo inglese, non prevedendo
alcun adeguamento automatico alle variazioni del costo
della vita, non estendendosi ai professionisti o alle
imprese individuali (vale a dire a quelle forme giuridiche
che in misura crescente andavano caratterizzando le
posizioni lavorative pi deboli), e stabilendo per i
lavoratori con meno di 22 anni salari minimi inferiori
rispetto a quelli degli adulti. In un sistema storicamente
caratterizzato da una striminzita legislazione lavoristica,
i meccanismi di tutela dei salariati inglesi erano tutti
incentrati sullazione di sindacati forti. La restaurazione
liberista mir pertanto in primo luogo alla
frammentazione del sindacato; lo Stato non fu
coinvolto direttamente, come nel caso di sistemi di
relazioni industriali pi regolamentati, ma lo fu di
riflesso in tutti gli ambiti in cui precedentemente
interveniva a sostegno delle associazioni dei lavoratori.
Il caso francese, caratterizzato dalla presenza di
unarticolata legislazione lavoristica, alto tasso di
centralismo e sindacati relativamente deboli, offre uno
scenario istituzionale per molti versi speculare a quello
inglese. Il caposaldo del sistema francese era la
regolamentazione legislativa del contratto collettivo
(una normativa risalente al 1919), che aveva effetti sui
contratti individuali dal momento che le clausole
peggiorative in essi stabilite erano sostituite di diritto
da quelle dei contratti collettivi. Lefficacia erga omnes
dei contratti collettivi stipulati dai sindacati
rappresentativi era garantita per decreto ministeriale.
Tutta la normativa conflu nel Code du Travail del 1973,
espressione giuridica del momento di forza apicale del
lavoro salariato in Francia. La prima azione di
disarticolazione di questo assetto furono le leggi
Auroux del 1982, seguite dallintervento delle leggi
Fillon del 2004, dalla legge sul lavoro del 2008 ed infine
dalla legge El Khomri del 2016. Le riforme Auroux,
accrescendo il peso dei contratti di lavoro conclusi a
livello di impresa, erano formalmente indirizzate a
rafforzare la democrazia sui luoghi di lavoro,
aumentando il potere contrattuale e di controllo dei
sindacati allinterno della singola impresa. Nei fatti,
ebbero per prime leffetto di allentare i vincoli sul
contratto aziendale stabiliti a livello nazionale, iniziando
a spostare il baricentro della contrattazione dalle sedi in
cui il potere dei sindacati in Francia si era storicamente
strutturato. I nuovi diritti di espressione che i
lavoratori si vedevano accordati allinterno delle
imprese, la presenza dei rappresentanti sindacali nei
consigli di amministrazione, il pi ampio accesso dei
sindacati alle informazioni relative alla gestione delle
imprese, le commissioni a tutela della salute dei
lavoratori e della sicurezza nei luoghi del lavoro,
suscitarono allinizio unopposizione da parte delle
direzioni e della propriet. Questopposizione and
per rapidamente mutando in esplicito favore, col
divenire evidente che la dimensione partecipativa
della riforma escludeva di fatto i sindacati da ogni
scelta di rilevanza strategica, trasformando un abortito
tentativo di cogestione nellepurazione di ogni
elemento conflittualistico dalla dinamica contrattuale.
Non pi relegati in secondo piano, gli accordi a livello
dimpresa finirono quindi per porre in luce la storica
debolezza dei sindacati francesi. Il processo si
consolid un ventennio pi tardi, quando le leggi Fillon
consentirono la stipula di contratti aziendali che
derogavano in peius ai contratti collettivi. Veniva in tal
modo superato un sistema di relazioni industriali che
aveva proprio nella normativa lavoristica e nel contratto
collettivo nazionale i bastioni intorno ai quali si era
organizzata per oltre mezzo secolo la difesa dei salariati
francesi.
In ogni Paese industrialmente pi avanzato, in modi e
tempi determinati dalle proprie specificit storiche ed
istituzionali sviluppi analoghi a quelli dellInghilterra
e della Francia si ebbero infatti sia in Germania che in
Italia, dove la disarticolazione del mercato del lavoro
assunse come tratto peculiare la proliferazione delle
tipologie contrattuali atipiche nel corso dei Trenta
pietosi uninsistita azione di erosione del sistema di
tutela dei salariati fu portata a compimento, nella diffusa
convinzione che le radici dellelevata disoccupazione
nel continente fossero da rintracciare proprio
nellassetto istituzionale che il mercato del lavoro aveva
assunto nel corso dei tre decenni precedenti. Questo
consenso trov espressione in uno studio molto
influente dellOcse del 1994, le cui conclusioni non si
limitavano al trito ribadire la generica necessit di
adottare politiche macroeconomiche non
inflazionistiche compatibili con la stabilit dei conti
pubblici, di favorire la creazione e la diffusione del
know-how tecnologico, sviluppare un clima sociale
favorevole allimpresa e le competenze dei lavoratori,
ma entravano esplicitamente nel vivo della questione
rivendicativa e distributiva. In particolare, in quello
studio si raccomandava di aumentare la flessibilit dei
tempi di lavoro in quanto

incrementare la flessibilit di pi breve periodo e nel


corso dellintera vita lavorativa nella contrattazione
volontaria tra datori di lavoro e lavoratori conduce ad
una pi elevata occupazione. Un importante elemento
di questo processo la crescita del lavoro part-time. I
governi hanno un ruolo da giocare rimuovendo gli
ostacoli al part-time e riformando i sistemi di
tassazione e pensionistici che ne discriminano la
diffusione.

Si indicava inoltre come necessario accrescere la


flessibilit salariale in quanto

i salari hanno un importante ruolo allocativo da


giocare nel mercato del lavoro offrendo chiari segnali
a lavoratori e imprese. Allo stesso tempo i costi del
lavoro non salariali contributi sociali a carico dei
datori di lavoro, retribuzioni per ore non lavorate
che creano un cuneo tra quanto i datori di lavoro
devono pagare per assumere il lavoratore ed il valore
del suo prodotto sono diventati in molti Paesi nel
corso degli ultimi due decenni una quota rilevante del
costo totale del lavoro. Dove la riduzione del salario
non compensa la crescita di questi costi del lavoro
non salariali, la disoccupazione cresce. Pertanto, vi
lesigenza, tanto nel settore pubblico che nel settore
privato, di attuare politiche che accrescano la
flessibilit salariale, e, nei Paesi in cui vi scarsa
possibilit di accrescerla, di ridurre i costi del lavoro
non salariali.

Le azioni su questo fronte avrebbero reso necessario


ridefinire la contrattazione collettiva in modo da lasciar
libere le imprese di rispondere flessibilmente alle
tendenze del mercato e introdurre clausole di
apertura che avrebbero consentito la rinegoziazione di
accordi collettivi di pi alto livello a livelli inferiori.
Anche la disciplina della protezione allimpiego avrebbe
dovuto essere rivista: dal momento che se le imprese
percepiscono la disciplina della protezione allimpiego
come un obbligo a mantenere lavoratori non pi
necessari, esse diventano pi caute nellassumere e
valutano i potenziali lavoratori con pi attenzione, con
particolare detrimento per quelli meno qualificati.
Insomma, ci che si propugnava era un quadro
articolato di liberalizzazioni e sgravi per le imprese:
libert nello stabilire i contenuti retributivi e non
retributivi del contratto, libert di licenziare, prevalenza
dellintesa di livello inferiore su quella di livello
superiore, superamento della contrattazione tra parti
collettive, eliminazione della contribuzione sociale a
carico dellimpresa, incremento dellimposizione
indiretta, recupero di una dimensione cottimista del
salario e sua differenziazione su base anagrafica e
territoriale. Dispersi nel labirintico percorso
dallapprendistato al contratto a termine, dal contratto a
termine al contratto a tempo indeterminato ma
depotenziato dalle pi sostanziali forme di tutela, i
salariati sarebbero stati inoltre privati di un efficace
meccanismo di aggancio delle retribuzioni alle variazioni
del costo della vita. Il circuito virtuoso tra progresso
economico e civile prese a operare in senso vizioso e
cos come nei Trenta gloriosi gli sviluppi nel mercato
del lavoro avevano segnato le tappe dellavanzamento
del lavoro salariato, nel corso dei decenni successivi ne
marcarono larretramento.

8. Nel 1965, nellillustrare al Congresso americano gli


esiti di una fase espansiva che dal gennaio del 1961
aveva creato 4 milioni e mezzo di nuovi posti di lavoro e
assicurato una crescita della produzione del 5 per cento
annuo in termini reali, il presidente Lyndon Johnson
pose laccento sulla centralit della politica economica:
A partire dal 1960 un nuovo fattore emerso per
rinvigorire gli sforzi privati. Il margine di differenza
fondamentale venuto dalle politiche governative,
che hanno sostenuto una costante, ma non
inflazionistica, crescita dei mercati (corsivo
nelloriginale). Lautorevole triumvirato keynesiano
formato da Gardner Ackley, Otto Eckstein e Arthur
Okun ribad il punto nel rapporto del Council of
Economic Advisers:

Le politiche del governo hanno offerto un


contributo fondamentale e continuativo ai grandi
avanzamenti delleconomia americana nel corso degli
ultimi quattro anni. Queste politiche [] hanno dato
coerentemente espressione ad un insieme di idee di
base condivise dai responsabili della politica
economica federale: (1) la ferma convinzione che gli
Stati Uniti devono utilizzare appieno lenorme
capacit produttiva della sua economia; viceversa,
laborrire sia per motivi umani che economici lo
spreco di risorse e opportunit che una prolungata
sotto-utilizzazione di questa capacit comporta; (2) il
riconoscimento del fatto che spesa pubblica, tasse e
trasferimenti sono un determinante fondamentale,
insieme alla politica monetaria, della forza della
domanda totale di risorse produttive; (3) la piena
comprensione del ruolo chiave dellinvestimento
privato nella domanda totale e nella crescita di lungo
periodo del reddito, e del bisogno di adeguati
incentivi al profitto che stimolino questo
investimento; (4) il riconoscimento che lespansione
del consumo necessaria se investimenti crescenti e
sviluppo economico devono essere mantenuti; (5) la
convinzione che sforzi vigorosi sono necessari per
ristabilire lequilibrio nella bilancia dei pagamenti; (6)
la determinazione ad ottenere prezzi ragionevolmente
stabili al fine di preservare lequit allinterno e
accrescere la nostra posizione competitiva sia
allinterno che allesterno; (7) la convinzione che, per
poter essere efficaci, queste politiche non possono
rispondere passivamente agli eventi, ma devono
cercare di prevedere ed indirizzare gli sviluppi futuri,
rimanendo flessibili e pronte a mutare in intensit o
direzione, pur mantenendo fissi gli obiettivi
prestabiliti; (8) la fiducia che il popolo condivide
queste idee ed pronto a sostenere innovazioni
inedite ma ponderate della politica pubblica.

Difficile descrivere in termini pi incisivi il cuore


keynesiano dellindirizzo di politica economica dei
Trenta gloriosi. Ad ispirare lintervento del governo era
la ripugnanza per lo spreco di risorse umane ed
economiche determinato dal sotto-utilizzo della capacit
produttiva. Impedire questo spreco era imprescindibile.
Sostenere la crescita della domanda aggregata e la
crescita economica erano una cosa sola. La politica
fiscale era considerata indispensabile per garantire il
livello di domanda totale necessario al pieno utilizzo
delle forze produttive. Spesa pubblica, tasse e
trasferimenti, si ponevano cos al centro dellazione di
politica economica (gli strumenti governativi pi
potenti per espandere o restringere la domanda
aggregata). Alla politica monetaria era affidato il
compito di assecondare questo sistematico ricorso alla
politica fiscale, assicurando una pronta disponibilit di
mezzi creditizi. Per mantenere il denaro a buon mercato
era necessario lintervento accomodante di un
banchiere centrale non vincolato da nessuna regola
predeterminata, se non dallobbligo di non intralciare
ma al contrario assistere lazione del governo. Bassi
tassi di interesse avrebbero garantito la sostenibilit di
pi lungo periodo dellindebitamento pubblico e
privato. Centralit delle variabili monetarie e della
determinazione convenzionale dei tassi di interesse,
quindi, ma senza illusioni circa lonnipotente capacit di
regolazione delleconomia da parte del banchiere
centrale: la gestione della domanda aggregata non
poteva che avvenire attraverso la via maestra della
politica fiscale.
Nel corso dei Trenta gloriosi questa via fu percorsa in
modi diversi negli Stati Uniti e in Europa. Negli Usa, la
politica fiscale sostenne la domanda attraverso il
prevalente ricorso alle spese militari e ai tagli delle
imposte; in Europa, si accompagn ad uno sviluppo
massiccio dello Stato sociale, come pure dellimpresa
pubblica in tutti i settori in cui liniziativa privata non
aveva avuto la forza di avviare un processo di
industrializzazione su grande scala, in modo particolare
nei settori tecnologicamente pi avanzati e a pi elevata
dotazione di capitale per addetto.
Corrispondentemente, le politiche di austerit
dellultimo trentennio acquisirono un diverso
contenuto nei due diversi contesti. Mentre nel caso
americano esse si connotarono per il progressivo
restringimento del keynesismo ad interventi di breve
periodo, dal carattere anticongiunturale, da realizzarsi
attraverso tasse e trasferimenti, senza implicare
incrementi della spesa pubblica non strettamente
riconducibili alle esigenze del Warfare State, nel caso
europeo austerit, privatizzazioni e taglio di servizi
pubblici di grande utilit sociale (istruzione, sanit,
pensioni, trasporti e alloggi popolari), si fusero in un
unico piano mirante al disimpegno dello Stato
dalleconomia di mercato. Lattuazione delle politiche di
austerit fu in questo secondo caso pi impervia, ma
proprio per questo pi ottusamente insistita,
richiedendo come presupposto lemancipazione della
banca centrale dal controllo del governo ed avendo
come fine ultimo il contenimento del Welfare State e la
liquidazione dellimpresa pubblica. Proprio le
privatizzazioni avrebbero acquisito particolare
significato in questo disegno, trattandosi, come rilevato
dalla Thatcher, di

uno dei mezzi centrali con cui invertire gli effetti


corrosivi e corruttori del socialismo []. Cos come la
nazionalizzazione stata al centro del programma
collettivista con cui i governi laburisti hanno cercato
di rimodellare la societ britannica, la privatizzazione
al centro di ogni programma di bonifica del territorio
di libert.

9. La bonifica fu radicale. In Inghilterra, nella prima


ondata di privatizzazioni dalla vendita della British
Telecom del 1984 alla caduta della Thatcher nel 1990,
furono privatizzate 40 imprese che impiegavano oltre
600 mila lavoratori. In Francia a segnare la svolta fu la
vendita della Saint Gobain: nazionalizzata nel 1982 dal
governo della sinistra unita, il gigante della produzione
del vetro e dei materiali edili che impiegava 150 mila
lavoratori fu riprivatizzato da Chirac nel 1986. Seguirono
la societ finanziaria Paribas (anchessa nazionalizzata
solo 4 anni prima), la Compagnie Gnrale dElectricit,
conglomerato da 240 mila occupati, la Socit Gnrale,
una banca gi pubblica prima delle nazionalizzazioni del
governo di sinistra. Dellambizioso piano quinquennale
di privatizzazioni relativo a 65 imprese pubbliche e a 900
mila lavoratori, Chirac sarebbe riuscito negli appena
due anni di premierato della prima coabitazione ad
attuarne la met, privatizzando 29 imprese che
impiegavano un totale di 500 mila lavoratori. Tra il 1986
e il 1988, il governo Kohl complet la privatizzazione
dellazienda simbolo dellindustria di Stato in Germania,
la Volkswagen, e dellazienda chimica ed energetica
VEBA, due gruppi che impiegavano ognuno circa 130
mila lavoratori e che gi erano stati interessati dal fallito
tentativo di privatizzazione fatto da Adenauer negli
anni Sessanta. La stessa sorte toccher alla Lufthansa.
In Italia, nonostante la forte avversione alle
privatizzazioni delle forze politiche della Prima
Repubblica, nel 1985 furono vendute delle quote di
minoranza di aziende operanti nei settori dei trasporti,
del credito e delle telecomunicazioni (Alitalia, Sirti, Stet
e Banca Commerciale) e fu privatizzata lAlfa Romeo nel
1987.
Come vedremo nel cap. V, il processo di privatizzazione
si consolid e rafforz nel corso dei due decenni
successivi con lappoggio in ogni Paese europeo di
tutte le forze politiche con ambizioni di governo. Alla
fine degli anni Settanta il valore aggiunto prodotto dalle
imprese pubbliche in Francia era pari all11 per cento (15
per cento dopo il programma di nazionalizzazioni
avviato dai socialisti nel 1981), in Inghilterra alla met
degli anni Settanta era dell11 per cento, nel 1983 in
Germania era del 9,6 per cento, allinizio degli anni
Novanta rappresentava ancora circa il 18 per cento in
Italia. Nel 2010, di tutta questa presenza dello Stato
imprenditore era rimasto ben poco, con i settori
finanziario, manifatturiero, dei trasporti e della logistica,
delle telecomunicazioni e energetico, in larga misura
bonificati dalla presenza pubblica. Allo Stato
imprenditore si sostituir spesso lo Stato azionista che,
come nel caso francese dellAgence des Participations
dtat, tenter goffamente di riacquistare attraverso i
fondi sovrani un peso nella gestione delle principali
aziende del Paese, muovendosi come un investitore
privato ed esercitando un potere di controllo attraverso
i diritti di voto e i consigli di amministrazione.
Contenimento dello Stato sociale e smantellamento
dellimponente presenza dellimpresa pubblica si
accompagnarono poi ad una marcata riduzione
dellazione di redistribuzione del reddito operata
attraverso il sistema delle tasse e dei trasferimenti. Le
stesse privatizzazioni furono in primo luogo
responsabili di questo cambiamento, visto che per
fruire di beni e servizi essenziali prodotti in regime di
mercato i salariati erano chiamati a pagare un prezzo in
grado di coprirne i costi di produzione e garantire al
settore privato un margine di profitto, e non la pi
modesta contribuzione tariffaria. Ma gli effetti sulla
massa salariale reale vale a dire sui beni e servizi di
cui i lavoratori entrano in possesso grazie al salario
diretto, indiretto e differito non si limitarono a quelli
causati dalle sole privatizzazioni, derivando da un pi
generale cambiamento avverso ai redditi da lavoro del
circuito redistributivo tasse-trasferimenti.

10. Per quanto riguarda le entrate tributarie, il


fenomeno di maggior rilevo fu indubbiamente la perdita
di progressivit dellimposizione diretta (personale e
sulle societ), di fatto divenuta unimposta di tipo
proporzionale. Rispetto poi ai Paesi europei in cui il
peso dellimposizione indiretta sui beni salario crebbe,
si pu affermare che il sistema di prelievo nel suo
complesso assunse un orientamento regressivo. Il
determinante fondamentale del degradarsi
dellimposizione diretta fu la forte riduzione delle
aliquote impositive pi elevate sugli utili societari, come
pure, pi in generale, la riduzione delle aliquote
dellimposizione diretta personale e lesclusione dei
redditi da capitale dalla sua base imponibile.
Lorientamento progressivo si affievol tanto negli Usa
che nei Paesi europei, con livelli medi di imposizione
personale sui redditi pi elevati in forte calo rispetto al
1970 (calo particolarmente marcato nel Regno Unito).
Questa riduzione della progressivit fu poi rafforzata
dalla sostituzione delle imposte sulle importazioni con
lIVA (definita dallOcse la strada del futuro). Va
tenuto presente che le imposte sulle importazioni, oltre
ad agire da freno alla penetrazione della produzione
straniera, colpivano in larga misura beni di lusso ed
avevano pertanto un carattere sostanzialmente
progressivo. Nella stessa direzione and la tendenza
allindifferenziazione delle aliquote dellimposizione
indiretta, che elimin un ampio ventaglio impositivo
mirante ad incentrare il prelievo sulla produzione
interna di beni di lusso. Tanto per quanto riguarda
lesclusione dei redditi da capitale dalla base imponibile
dellimposta personale progressiva, che per quanto
riguarda lindifferenziazione delle aliquote sui beni di
consumo, va sottolineata la connessione tra la
questione della progressivit del prelievo e la
liberalizzazione dei movimenti internazionali dei capitali
e delle merci: sia nella prima che nella seconda forma, la
liberalizzazione port limposizione fiscale nel corso dei
Trenta pietosi a gravare in misura crescente sul salario.
Dal lato delle uscite, i mutamenti di maggior rilievo
riguardarono una riduzione del totale dei trasferimenti
monetari ed in natura (accelerata in alcuni Paesi europei
sotto la spinta della crisi dellultimo decennio), e una
tendenza alla sostituzione del complesso dei
trasferimenti per vecchiaia e disoccupazione con le
politiche attive del lavoro, vale a dire quelle politiche
volte a porre a carico della fiscalit generale la
necessaria integrazione di salari al di sotto della
sussistenza ed a escludere dalla copertura assistenziale
i lavoratori non disposti ad accettare qualsiasi impiego
a qualsiasi condizione. Per i lavoratori
complessivamente intesi questi sviluppi hanno
comportato un duplice onere: le modifiche sul fronte
delle entrate, infatti, hanno teso sempre di pi a rendere
il circuito di finanziamento di questo nuovo Stato
assistenziale interno al salario, i redditi da capitale e
impresa rimanendone sostanzialmente esclusi; le
modifiche sul fronte della spesa hanno operato nella
stessa direzione, distogliendola dalla funzione di
sostenere il benessere generale del lavoro dipendente
ed orientandola verso quella di garantire la stabilit
sociale, alla stessa stregua delle spese destinate
allordine pubblico e alla sicurezza.
11. Totale liberalizzazione della circolazione
internazionale dei capitali, delle merci, della
manodopera; mercato del lavoro deregolamentato;
banca centrale indipendente dai governi; detassazione
dei redditi da capitale e fine della progressivit del
sistema impositivo; pareggio di bilancio;
ridimensionamento della spesa pubblica;
privatizzazione dellindustria di Stato e dei servizi
sociali: il successo del liberismo non avrebbe potuto
essere pi completo. Ma confrontiamo le proporzioni di
questo successo con gli esiti economici e sociali che lo
hanno accompagnato.
Del principale tra essi landamento del tasso di
crescita del prodotto abbiamo detto nel primo
capitolo, sottolineando che il suo essere stato
deludente ormai riconosciuto unanimemente, come
del resto lo stesso dibattito sulla stagnazione secolare
implicitamente dimostra. Si consideri il dato relativo al
prodotto pro-capite: negli Stati Uniti, il suo tasso di
crescita si ridotto dal 2,5 per cento medio annuo del
periodo tra il 1951 e il 1978, all1,6 per cento del periodo
tra il 1979 e il 2015; nel Regno Unito dal 2,2 per cento
all1,8 per cento; in Francia, dal 3,7 per cento all1,2 per
cento; in Germania dal 4,8 per cento all1,6 per cento; in
Italia dal 4,5 per cento all1 per cento. Si tratta di un
fatto che non si pu evidentemente spiegare
argomentando che la rivoluzione liberale rimasta
incompiuta: in realt essa avanzata forse pi di
quanto si aspettassero i suoi stessi ispiratori. E non si
pu nemmeno sostenere che senza di essa la crescita
del prodotto pro-capite sarebbe stata ancora pi bassa:
equivarrebbe ad affermare che il capitalismo, nei Paesi
in cui ha raggiunto il massimo grado di sviluppo,
inesorabilmente diventato un sistema stagnante,
incapace di promuovere il progresso economico e
sociale. Una simile difesa dello status quo,
evidentemente, condurrebbe su terreni molto scivolosi.
Un altro esito stato la ricomparsa della
disoccupazione di massa. Sarebbe forse pi corretto
parlare di comparsa, visto che nei Trenta gloriosi si era
persa memoria di tassi di disoccupazione cos elevati.
Nei 12 Paesi che avrebbero firmato il trattato di
Maastricht, tra la met degli anni Settanta e la met
degli anni Ottanta il tasso di disoccupazione, dopo un
ventennio in cui si era mantenuto intorno al 2 per cento,
raggiunse il 10 per cento. Quei livelli di disoccupazione
sono diventati cronici e si sono attestati intorno al 12
per cento. Ma i disoccupati definiti come tali dalle
statistiche sono solo un aspetto del problema. Nel 2014,
nei 28 Paesi dellUnione europea, su una popolazione
tra i 15 e i 74 anni pari a 380 milioni, 25 milioni erano
disoccupati, 10 milioni erano occupati a tempo parziale
involontariamente, 12 milioni erano disponibili al lavoro
ma avevano smesso di cercarlo, o non erano disponibili
ad accettarne uno qualsiasi. Per ogni disoccupato
rilevato dalle statistiche vi era un altro disoccupato
nascosto perch impiegato soltanto a tempo parziale o
perch fuoriuscito dalla forza lavoro. Ogni giorno, una
forza lavoro grande come quella tedesca (44 milioni)
veniva lasciata nellinoperosit. Non molto diversa era
la situazione negli Stati Uniti: i disoccupati erano 9
milioni, ma oltre 2 milioni avevano smesso di cercare
perch scoraggiati e 7 milioni erano occupati a tempo
parziale pur cercando un lavoro a tempo pieno. A questi
bisogna aggiungere poi oltre 2 milioni di fuoriusciti
dalla forza lavoro perch reclusi (erano meno di 500 mila
nel 1980) e 16 milioni perch malati e disabili (erano 4,4
milioni nel 1980). Questo esercito di lavoratori
disoccupati, sottoccupati, scoraggiati, incarcerati,
ormai percepito alla stregua di un fenomeno naturale
inevitabile. Ad indicare lineluttabilit di questesito
sconfortante si usa lespressione disoccupazione
strutturale, riferendosi ancora una volta a sviluppi di
pi lungo periodo che in nessun caso si ritiene
possano essere ricondotti alla bassa crescita della
domanda e quindi allimpianto di politica economica dei
Trenta pietosi.
Nel corso degli anni Sessanta un tasso di
disoccupazione del 5 per cento era considerato dalla
popolazione, dai pubblici poteri, e, in fin dei conti, dagli
stessi capitalisti, socialmente ed economicamente
inaccettabile: un fallimentare spreco di risorse ritenuto
allora non compatibile con il mantenimento della
stabilit sociale. Lessere passati dal considerare come
intollerabile una disoccupazione del 5 per cento al
convivere con un tasso di disoccupazione intorno al 12
per cento offre la misura pi cruda del baratro che
separa i Trenta gloriosi dai Trenta pietosi. Due
dimensioni, in particolare, di questo regresso politico,
economico e sociale meritano di essere sottolineate.
La prima riguarda la disoccupazione giovanile (15-24
anni), il cui tasso il doppio del tasso di
disoccupazione delle forze di lavoro di tutte le et.
Originariamente attribuito allingresso nel mercato del
lavoro dei nati nel boom demografico, dalla fine degli
anni Ottanta, con lavvicendarsi delle generazioni
numericamente pi contenute dei nati a partire dagli
anni Settanta, lincremento della disoccupazione
giovanile non si arrestato ma si invece accresciuto.
Ha acquisito proporzioni drammatiche con la crisi
economica e finanziaria del 2008, ma preesiste come
fenomeno di pi lungo periodo in special modo nei
Paesi in cui sta dilagando (nel 2014, Francia: 24 per
cento, Belgio: 23,2 per cento, Svezia: 23 per cento, Italia:
42,7 per cento, Spagna: 53,2 per cento). Non si tratta di
unanomalia statistica dovuta al fatto che i giovani,
diversamente dagli adulti, entrano ed escono con pi
facilit dalle forze di lavoro per istruirsi e formarsi.
Considerando come misura della disoccupazione
giovanile la percentuale delle forze di lavoro non
occupate e non impegnate in attivit educative o
formative (i cosiddetti Neet, Not in Education,
Employment or Training), i dati sono ancor pi
allarmanti e tendono a porre in maggiore evidenza la
natura persistente del problema. Quattordici milioni di
giovani europei sono oggi confinati nellallucinata
condizione di Neet. Tra questi, coloro che risultano
registrati come disoccupati sono il 48 per cento; la
distanza dal mercato del lavoro del restante 52 per
cento tale che non figurano nemmeno tra i
disoccupati. Solo un terzo di essi si dichiara interessato
alla politica e la quasi totalit di questa generazione
fantasma mostra livelli bassissimi di fiducia nelle
istituzioni. Daltro canto, scarsa la fiducia nelle
istituzioni anche tra i giovani occupati, visto che
vengono assunti con contratti temporanei pi degli
adulti (37 per cento contro il 9 per cento
delloccupazione totale) e che loccupazione a tempo
parziale molto pi diffusa tra i giovani (in un caso su
tre non hanno unoccupazione a tempo pieno). Gli
effetti della marginalizzazione e della precariet sulla
loro salute fisica e mentale sono ampiamente
documentati: senso di solitudine e impotenza,
depressione, uso di droga e alcolici; forte inoltre il
legame tra esclusione sociale e condotte criminali.
La seconda dimensione del problema occupazionale
sulla quale ci sembra importante richiamare lattenzione
la crescita della disoccupazione di lungo periodo. Dei
25 milioni di disoccupati rilevati nella UE nel 2014, 12,4
milioni (il 50 per cento del totale disoccupato e il 5,1 per
cento delle forze di lavoro) lo erano da oltre un anno;
tra questi, il 60 per cento lo era da oltre due anni. Pi la
durata della disoccupazione aumenta pi si riduce la
probabilit di diventare occupati ed aumenta quella di
uscire dalle forze di lavoro. Le et dove ci accade di
pi sono quelle inferiori ai 24 anni e maggiori dei 50
anni. Ad esempio, nel 2012, nella fascia det compresa
tra i 50 e i 64 anni, solo un disoccupato da pi di un
anno su dieci diventava occupato, mentre quattro su
dieci diventavano inattivi; per i disoccupati da pi di
due anni la probabilit di occuparsi si riduceva
ulteriormente, fino ad annullarsi dopo i quattro anni.
Molti disoccupati di lunga durata tra i 50 e i 64 anni
hanno responsabilit familiari e sono indebitati. Per
questo gruppo sociale stata rilevata una pi elevata
incidenza di attacchi cardiaci che nella restante
popolazione di et corrispondente. importante non
perdere di vista il fatto che questi sviluppi si sono
accompagnati ad una pressoch totale
deregolamentazione del mercato del lavoro: tutti gli
indici che misurano i livelli di protezione dellimpiego
sono in calo. Di fronte ad esiti cos eloquenti, la stessa
Ocse si vista costretta a ritornare sulla categorica
chiamata alle armi della sua Jobs Strategy del 1994 (cfr.
la sezione 7, pp.57-58), rilevando gi nel 2006 che
alcune delle sue raccomandazioni sono state poste in
discussione, in particolar modo per quanto riguarda i
sistemi di contrattazione altamente centralizzati e/o
coordinati che riducono [e non accrescono] la
disoccupazione aggregata.
Nellultimo quarantennio il capitalismo avanzato ha
funzionato come un enorme laboratorio sociale in cui
milioni di lavoratori sono stati tragicamente chiamati a
provare sulla propria pelle che la flessibilit salariale
avversa alloccupazione, e in cui stata ribadita la
fondatezza di consapevolezze che sembravano
definitivamente acquisite nei decenni post-bellici.
Al calo del tasso di crescita del prodotto pro-capite e
alla comparsa della disoccupazione di massa si poi
associata la caduta della crescita della produttivit del
lavoro, in larga misura una conseguenza, come per la
crescita della disoccupazione, della bassa crescita della
domanda. In Francia, la crescita del prodotto per
occupato diminuita dal 4,1 per cento del periodo 1951-
1978, all1,2 per cento del periodo 1979-2015; in
Germania si passati dal 4,5 per cento all1,3 per cento;
in Italia dal 4,8 per cento allo 0,9 per cento; nel Regno
Unito dal 2,2 per cento all1,5 per cento; negli Stati Uniti
dal 2 per cento all1,5 per cento. Se nei Trenta gloriosi la
crescita della domanda era stata sufficientemente forte
da generare riduzione della disoccupazione nonostante
la crescita del prodotto per occupato, nei Trenta pietosi
la bassa crescita della domanda ha innalzato la
percentuale delle forze di lavoro non utilizzate pur a
fronte di una minore crescita del prodotto per occupato.
E anche negli Stati Uniti, dove un minimo sostegno alla
domanda stato in ogni caso assicurato, quando dal
1995 cresciuta maggiormente la produttivit, si
ridotta la crescita delloccupazione. Se la la domanda
cresce poco, non possibile avere allo stesso tempo
pi lavoratori che lavorano pi produttivamente.
Lancor pi bassa crescita della domanda dei Paesi
europei non ha prodotto n luno n laltro effetto.
Lultimo aspetto sul quale va richiamata lattenzione
il mutamento distributivo. Il benessere della classe
lavoratrice nel suo complesso dipende non soltanto
dallandamento delloccupazione e del prodotto per
occupato, ma anche da quanta parte del prodotto per
occupato si risolve in salario. Nei Paesi sviluppati, la
crescita della produttivit del lavoro e dei salari reali
stata elevata fino alla grande svolta di politica
economica, per poi rallentare. Allo stesso tempo, gli
andamenti della produttivit del lavoro e del salario
hanno cominciato a divergere, il rallentamento del
salario essendo stato maggiore di quello della
produttivit del lavoro. Sulla base dei dati relativi a
salari e produttivit dei 36 Paesi pi sviluppati,
lInternational Labour Office (Ilo) stima che, dal 1999,
la produttivit del lavoro aumentata in media pi del
doppio dei salari. Quindi, non soltanto il prodotto per
occupato cresciuto meno rispetto ai decenni
precedenti, ma si anche ridotta la quota di esso che
andata ai salariati. A ci occorre aggiungere che sono
aumentate le disparit anche allinterno della struttura
del salario, sicch, qualora si escluda il salario
dirigenziale, la quota della produttivit del lavoro
attribuita ai salariati si ridotta ancora di pi, fino al
punto di giungere per le posizioni lavorative peggio
retribuite ad una contrazione dei livelli assoluti del
salario reale.
Stagnazione, disoccupazione e arretramento salariale
hanno fatto calare lo spettro della povert su societ
opulente, costringendo i governi a profondere sempre
pi risorse per arginare il fenomeno ed assicurare
stabilit sociale. Per strati crescenti della popolazione,
lunica possibilit di alleviare gravi deprivazioni
materiali, diffuse oggi anche tra lavoratori cos poco
retribuiti da permanere in stato di povert nonostante
siano occupati, offerta non dalle opportunit di un
utile impiego ma da trasferimenti pubblici. La lotta alla
povert, in altri termini, tornata di nuovo ad essere
una battaglia da combattere sul terreno dellassistenza
e non su quello della crescita, delloccupazione e del
salario.

Nota bibliografica
Per una rassegna dettagliata dei tempi e dei modi in cui
avvenuto lo smantellamento delle misure volte a
limitare e controllare i movimenti internazionali dei
capitali nelle principali economie avanzate, si veda
Capital Account Convertibility Review of
Experience and Implications for IMF Policies, a cura
di P.J. Quirk e O. Evans, Occasional Paper 131, IMF,
Washington Dc, ottobre 1995, e Advanced Country
Experiences with Capital Account Liberalization, a
cura di A. Bakker e B. Chapple, Occasional Paper 214,
IMF, Washington Dc 2002. Gli esempi dellincrollabile
favore delle istituzioni internazionali per una
indiscriminata liberalizzazione dei movimenti di capitale
sono tratti da: The liberalization and management of
capital flows: an institutional view, IMF, 14 novembre
2012; Forty Years Experience with the OECD Code of
Liberalisation of Capital Movements, OECD
Publications Service, Parigi 2002 (in particolare, alle
pp.155-165 si offre unemblematica ricostruzione, tutta
in chiave avversa ai controlli dei capitali,
dellesperienza francese dal dopoguerra ad oggi);
Getting the most out of international capital flows,
OECD Economic Outlook, Vol. 2011/1. Il rapporto
annuale del Fmi, Exchange Arrangements and
Exchange Restrictions (annate varie), contiene le
informazioni pi dettagliate circa gli sviluppi delle
normative relative alla convertibilit valutaria (sia in
conto corrente che in conto capitale) nei Paesi pi
avanzati e in quelli in via di sviluppo. La citazione di
Carli alle pp.32-33 da Cinquantanni di vita italiana,
G. Carli in collaborazione con P. Peluffo, Laterza, Roma
1996. Pi in generale, per le vicende europee, si veda
Dominique Servais, Uno spazio finanziario europeo -
Liberalizzazione dei movimenti di capitali e
integrazione finanziaria - La realizzazione dellunione
economica e monetaria, Ufficio delle pubblicazioni
ufficiali delle Comunit europee, Bruxelles 1995.
Per il confronto tra la crescita del prodotto e del
commercio mondiale negli anni Sessanta e Novanta si
veda Economic Growth in the 1990s: Learning from a
Decade of Reform, The World Bank, Washington Dc
2005, in particolare i capitoli 3 e 5. La citazione di D.
Irwin a p. 39 da The Gatts Contribution to Economic
Recovery in Post-War Western Europe, in Europes
Post-War Recovery, edito da B. Eichengreen,
Cambridge University Press, Cambridge 1995. Gli
articoli della Carta dellHavana riportati nel testo sono
in United Nations Conference on Trade and
Employment held at Havana, Cuba, from November
21, 1947, to March 24, 1948, Final Act and Related
Documents, Interim Commission for the International
Trade Organization, Lake Success, New York, aprile
1948. La Declaration on the Contribution of
the World Trade Organization to Achieving Greater
Coherence in Global Economic Policymaking
contenuta negli allegati all Agreement Establishing
the WTO, in The WTO Agreements Series N.1. Il World
Trade Report dellOmc (annate varie) costituisce il
principale documento economico ufficiale del consenso
libero-scambista. Per un controcanto, lunico rapporto
in cui fanno ancora capolino spunti critici e
consapevolezze keynesiane il Trade and
Development Report dellUNCTAD (annate varie). La
citazione di D. Rodrik a p. 44 tratta da The global
governance of trade as if development really mattered,
United Nation Development Programme, ottobre 2001.
Per una disamina esaustiva quanto convenzionale
delle modalit di funzionamento del sistema di Bretton
Woods e dei determinanti del suo collasso, si veda A
Retrospective on the Bretton Woods System: Lessons
for International Monetary Reform, a cura di D. Bordo
e B. Eichengreen, NBER, University of Chicago Press,
Chicago 1993. La citazione di Keynes a p. 47 tratta dai
dettagli del Piano Keynes di provvista di liquidit
internazionale, riportato in Postwar International
Stabilization, Federal Reserve Bulletin, Washington,
giugno 1943, pp.501-521. Uninformata discussione
degli sviluppi del principio di condizionalit dalla sua
introduzione nel 1950 ad oggi si trova in A. Buira, An
Analysis of IMF Conditionality, G-24 Discussion
Paper Series, United Nation, New York 2003.
Il principale e pi aggiornato studio di carattere
generale sulla questione migratoria The Age of
Migration, di S. Castles e M. Miller, Palgrave
Macmillan (4 edizione), New York 2009. Di particolare
interesse il confronto tra questesaustivo quanto
anodino lavoro e il molto pi orientato Immigrant
Workers and Class Structure in Western Europe, di S.
Castles e G. Kosack, Oxford University Press, Oxford
1973, acuta disamina degli effetti dellimmigrazione sulla
coesione della classe lavoratrice in Germania, Francia,
Svizzera e Regno Unito tra il 1945 e il 1973. I dati relativi
alla crescita tra il 2008 e il 2014 degli occupati nati
allestero a fronte della riduzione degli occupati
indigeni riportati a p. 50 sono tratti da International
migration outlook 2015, OECD, Parigi 2015, pp. 62-63.
Per quanto concerne il tentativo di estendere ad ogni
immigrato lo status di rifugiato, si veda il Report of the
Special Rapporteur on the human rights of migrants,
Franois Crpeau , Uman Right Council, UN General
Assembly, A/HRC/29/36, 2015.
La citazione di Lenin a p. 51 tratta da Stato e
Rivoluzione; quella di Adam Smith di p. 52 da La
Ricchezza delle Nazioni. Per una rassegna delle ragioni
teoriche addotte dagli economisti per giustificare il
processo di abbandono della contrattazione collettiva
centralizzata avviatosi nel corso degli anni Ottanta, si
veda R. Freeman e R. Gibbons, Getting Together and
Breaking Apart: The Decline of Centralized Collective
Bargaining, in Differences and Changes in Wage
Structures, a cura di R. Freeman e L. Kats, NBER,
University of Chicago Press, Chicago 1995. Il rapporto
Contrattazione Collettiva e Partecipazione dei
Lavoratori in Europa: Processi e Pratiche, Documento
CNEL n. 19, Roma, giugno 2002, offre una chiara analisi
comparata dei cambiamenti della normativa del lavoro in
Francia, Germania, Gran Bretagna, Paesi Bassi e
Spagna. La voce Relazioni Industriali di G. Cella e T.
Treu, nel Supplemento del 1989 dellEnciclopedia del
Novecento, un utile strumento per familiarizzarsi con il
frasario e il modo di porre le questioni (di matrice
anglosassone) proprio di questa disciplina. Labour
Market and Wage Developments in Europe e Industrial
Relations in Europe (annate varie), Commissione
europea, sono un utile fonte di informazione tanto
statistica quanto relativa allorientamento degli
organismi di governo europei sulla questione. Il
rapporto dellOcse da cui sono tratte le citazioni
riportate nel capitolo The OECD Jobs Study, Facts,
Analysis, Strategies, 1994, in particolare alla parte III.
Le citazioni del presidente Johnson e dei suoi
consiglieri economici sono tratte da Economic report of
the President Trasmitted to the Congress January 1965,
together with The Annual Report of the Council of
Economic Advisers, US Government Printing Office,
Washington 1965. Per una pi generale analisi delle
politiche macroeconomiche dei Trenta gloriosi, si veda
The Rise and Fall of the Golden Age, A. Glyn et al.,
WIDER Working Papers 43, aprile 1988. I diversi
caratteri dellorientamento restrittivo assunto dalla
politica fiscale nel corso dei Trenta pietosi, negli Usa e
in Europa, sono analizzati in A. Barba, The ebb and
flow of fiscal activism, Contributions to Political
Economy, Vol. 25, 2006. La citazione della Thatcher alle
pp. 62-63 riportata da D. Parker nel suo monumentale
The Official History of Privatisation. Vol. II, Popular
Capitalism 1987-1997, Routledge, Londra e New York
2012. T. Piketty e E. Saez in How progressive is the
U.S. Federal Tax System? A Historical and International
Perspective, Journal of Economic Perspectives, 21,
2007, analizzano in chiave comparata, attraverso i dati
delle dichiarazioni dei redditi, laffievolimento della
progressivit dei sistemi di prelievo nei Paesi
anglossassoni e in Francia. Per un esempio del favore
di cui oggi gode limposizione indiretta, particolarmente
rappresentativo Consumption Taxes: the Way of the
Future?, Policy Brief, OECD, ottobre 2007. I dati
principali circa gli sviluppi pi recenti del sistema tasse-
trasferimenti come strumento di riduzione della
disuguaglianza dei redditi nei Paesi capitalisti pi
avanzati sono contenuti in Income inequality and
growth: The role of taxes and transfers, OECD
Economics Department Policy Notes, n. 9, gennaio
2012.
Tra i numerossisimi interventi che trattano il tema della
disoccupazione giovanile, segnaliamo Youth
unemployment in advanced economies in Europe:
searching for solutions, A. Banerji et al., IMF Staff
Discussion Note, SDN/14/11, dicembre 2014. Per quanto
riguarda i NEETS, si veda Young people not in
employment, education or training: Characteristics,
costs and policy responses in Europe, Eurofund,
Publication Office of the European Union,
Lussemburgo 2012. Social inclusion of young people,
Eurofund, Publication Office of the European Union,
Lussemburgo 2015, discute gli studi che analizzano le
drammatiche conseguenze economiche e sociali del
fenomeno. In merito alla disoccupazione di lunga
durata, si veda Employment and Social Developments
in Europe, Commissione Europea, 2015, cap.II.1,
Preventing and fighting long-term unemplyment, in
particolare alle pp.130-1, dove si discute la forte
correlazione che stata riscontrata tra disoccupazione
totale, di lunga e di lunghissima durata e malattie
cardiache. La parziale sconfessione delle precedenti
conclusioni dellOcse circa il benefico ruolo della
flessibilit salariale contenuta in Boosting Jobs and
Incomes, OECD Employment Outlook, Capitolo 7,
Reassessing the Role of Policies and Institutions for
Labour Market Performance: A Quantitative Analysis,
2006 (A. Stiglbauer, The (New) OECD Jobs Study:
Introduction and Assessment, Monetary Policy &
The Economy, Q3/06, discute la vicenda di questo
ripensamento). Il Global Wage Report 2014-15
dellInternational Labour Office, Ginevra 2015, analizza
la relazione tra lampliarsi del divario tra crescita della
produttivit e crescita dei salari e i suoi effetti sulla
disuguaglianza della distribuzione dei redditi.
Uninattesa denuncia dei deludenti esiti economici e
sociali dei Trenta pietosi contenuta nellEconomic
Report of the President 2015, dove si rileva che
considerando gli sviluppi della produttivit del lavoro,
della distribuzione dei redditi e della partecipazione al
mercato del lavoro nel corso degli ultimi 65 anni, i
redditi della classe media sono passati dal raddoppiare
in una generazione al mostrare quasi nessuna crescita
[]. Insieme, questi fattori avrebbero quasi
raddoppiato il reddito del nucleo familiare tipico, se
solo fosse proseguito il loro pi favorevole andamento
dei precedenti periodi storici.
Capitolo III

Linizio della fine

1. Ci che dunque avvenuto in Europa dallinizio


degli anni Ottanta il progressivo smantellamento
dellimpianto di politica economica faticosamente
edificato nel primo trentennio post-bellico al fine di
consentire il perseguimento del pieno impiego come
obiettivo prioritario delle nazioni industrialmente e
socialmente pi avanzate. Abbiamo visto come gli
effetti dellorientamento liberista da allora impresso alla
politica economica siano stati laumento della
disoccupazione, delle disuguaglianze e dellesclusione
sociale. Parallelamente, nelle maggiori nazioni europee
si assistito al fenomeno della scomparsa della sinistra
di classe. Argomenteremo nei capitoli che seguono che
la svolta epocale di politica economica sulla quale ci
siamo soffermati nel capitolo precedente sia
comprensibile solo riconducendola esplicitamente alla
condotta della sinistra. nostra convinzione, in altri
termini, che non vi sia niente di paradossale nel fatto
che al peggiorato andamento del capitalismo avanzato e
allesplosione delle disuguaglianze al suo interno abbia
corrisposto in Europa la scomparsa della sinistra,
semplicemente perch stata proprio quella scomparsa
la causa fondamentale del generale deterioramento delle
condizioni economiche e sociali nel continente.
2. Per indagare il fenomeno necessario partire dalla
vittoria della coalizione di sinistra alle elezioni
presidenziali francesi del maggio 1981 e alle elezioni
politiche del mese successivo. Si pu infatti sostenere
che lesperienza di quel governo della sinistra unita,
sotto la presidenza di Franois Mitterrand, rappresent
il vero inizio della fine, anticipando nel suo
svolgimento, in maniera nitida e in un tempo molto
breve, tutti gli elementi essenziali che avrebbero poi
caratterizzato la deriva trentennale della sinistra delle
maggiori nazioni europee: la sua crescente adesione al
processo di deregolamentazione economica e
allideologia del mercato.
Con la doppia vittoria elettorale della primavera del
1981, la sinistra pot contare in Francia su un potere
politico mai prima goduto in tali proporzioni, dopo oltre
un quarantennio durante il quale era sempre rimasta ai
suoi margini. In aggiunta ai considerevoli poteri
attribuiti al presidente dalla costituzione della Quinta
Repubblica creata da De Gaulle sulla scia della pi
robusta tradizione centralista della Francia le elezioni
di giugno avevano conferito al Partito Socialista (Ps) la
maggioranza assoluta nellAssemblea Nazionale. Per la
prima volta dal 1946, anche i comunisti (Pcf) facevano
parte della coalizione di governo e assunsero la
responsabilit di tre ministeri. Pur non trattandosi di
ministeri di primaria importanza, la presenza del Pcf nella
coalizione e nel governo contribuiva ad assicurare
lappoggio della Cgt, il maggior sindacato dei lavoratori
francesi. Grazie a quella presenza, la Cgt si sentiva
maggiormente garantita circa la realizzazione effettiva
del Programme commun, elaborato e ratificato fin dal
1972 dal Pcf (allora ancora il pi forte partito della
sinistra), dal Ps e dai Radicali di sinistra. Merita
soffermarsi sul contenuto di quel programma, vera base
non estemporanea della vittoria del 1981 per le grandi
aspettative che esso era riuscito a suscitare nella
maggioranza della popolazione.
3. Nel programma comune della sinistra un posto
prioritario, anche rispetto alla politica di bilancio
espansiva e a quella fiscale redistributiva, venne
occupato dalle nazionalizzazioni. Il trasferimento alla
collettivit delle imprese industriali occupanti una
posizione strategica nei settori chiave delleconomia
nonch di tutto il settore bancario e finanziario fu
concepito come lo strumento principale della politica
economica del governo. Esso fu ritenuto indispensabile
al superamento di vuoti e ritardi tecnologici nella
struttura produttiva della nazione, in vista di una
crescita il pi possibile stabile in condizioni di
persistente equilibrio nei conti con lestero, inflazione
contenuta e assenza di attacchi speculativi contro la
moneta. Per gli estensori del programma, sottrarre una
parte cospicua dellinvestimento complessivo alla
logica del profitto, attraverso una forte espansione del
settore pubblico, non doveva servire solo a sostenere
continuativamente domanda aggregata e occupazione;
si trattava in primo luogo di riuscire a realizzare, anche
attraverso il controllo diretto del credito e il suo
effettivo incanalamento verso lindustria, una maggiore
indipendenza tecnologico-strategica della nazione e di
riconquistare il mercato interno tramite la riduzione
del contenuto dimportazioni della domanda.
Per il settore industriale veniva quindi prevista la
nazionalizzazione della maggior parte dellindustria
elettronica e di quella chimica, insieme alla
nazionalizzazione completa di quella nucleare,
dellindustria farmaceutica, delle risorse del sottosuolo,
dellarmamento, dellindustria aereonautica e spaziale.
Nel programma vennero indicati con precisione i nomi
dei gruppi che avrebbero dovuto essere concretamente
interessati da queste nazionalizzazioni. Partecipazioni
finanziarie pubbliche di carattere maggioritario furono
poi previste per una serie di gruppi, anchessi
precisamente indicati, operanti nella siderurgia e nel
petrolio, nei trasporti aerei e marittimi, nel trattamento e
distribuzione delle acque, nelle telecomunicazioni e
nelle concessioni autostradali. Per le banche e la
finanza, la nazionalizzazione avrebbe riguardato
linsieme del settore, ossia la totalit delle banche di
affari, le banche di deposito, tutte le maggiori holding
finanziarie, il finanziamento delle vendite a credito e il
credito immobiliare, le grandi compagnie di
assicurazione. I principali istituti di credito speciale
sarebbero stati raggruppati in una Banque Nationale
dInvestissments che si sarebbe fatta carico di gran
parte del finanziamento dello sviluppo industriale e
degli obiettivi della nuova politica economica. Furono
escluse dal programma di nazionalizzazioni nel settore
bancario e finanziario solo le piccole banche
mutualistiche e cooperative e tutte le banche straniere.
Queste ultime sarebbero state soggette a un controllo
pi stretto da parte della Banca di Francia, che avrebbe
dovuto vegliare a che le loro attivit non
contrastassero con il perseguimento degli obiettivi del
programma.
Appoggiandosi al settore finanziario nazionalizzato e
alla Banca di Francia, il governo avrebbe rafforzato fin
dallinizio il controllo dei cambi, in particolare i
movimenti di fondi delle societ multinazionali tra la
Francia e lestero. La speculazione contro la moneta
avrebbe costituito un reato definito dalla legge. I tassi
di interesse sarebbero stati tenuti bassi, in particolare
per gli investimenti considerati prioritari dal programma.
Nei confronti della Cee, il governo avrebbe preservato
la sua libert dazione per la realizzazione del suo
programma economico e sociale. Quindi non solo
avrebbe esercitato liberamente il diritto, del resto non
limitato dal Trattato di Roma, di estendere il settore
pubblico delleconomia nonch di definire e applicare
una propria politica nazionale del credito, ma si sarebbe
avvalso della facolt di invocare le clausole di
salvaguardia previste dal Trattato, pur precisandosi che
il ricorso alle restrizioni quantitative delle importazioni e
a una protezione doganale rinforzata sarebbe stato
riservato a situazioni eccezionali.
Gli altri principali punti economici del programma
furono: crescita trainata dalla domanda interna
attraverso laumento sostanziale dei salari reali;
estensione della protezione sociale, particolarmente in
campo sanitario, insieme a programmi molto estesi di
edilizia popolare; aumento della progressivit
dellimposizione sul reddito e della tassazione delle
imprese; rafforzamento dei diritti dei lavoratori contro i
licenziamenti senza giusta causa e abolizione di ogni
discriminazione nei confronti delle lavoratrici; infine,
costituzione di una rete capillare di asili infantili, capace
di accogliere tutti i bambini di et compresa tra i due e i
sei anni.
Alle elezioni politiche del 1973 il Pcf super ancora il
Ps, ma di poco e per lultima volta. Ciononostante nel
1980, alla vigilia della vittoria della sinistra unita, tutti i
punti principali del Programme commun vennero ripresi
dal Projet socialiste pour la France des annes 80
messo a punto dal Centre dtudes, recherches et
dducation socialiste (Ceres), diretto da esponenti
della sinistra del Ps con a capo Jean-Pierre
Chevnement. Anche le pi brevi 110 Propositions di
Mitterrand, presentate al congresso del Ps del gennaio
1981 a sostegno della sua candidatura alla presidenza
della Repubblica, si discostarono ben poco nello spirito
e nel contenuto dal Programme commun del 1972, pur
ponendosi in esse laccento sulle rivendicazioni pi
popolari della sinistra: riduzioni dellorario di lavoro e
dellet del pensionamento, aumenti del salario minimo
e del numero dei giorni di riposo retribuiti. Insomma, si
pu dire che lungo un intero decennio la sinistra
francese era riuscita ad accumulare e consolidare
consenso nel Paese diffondendovi e restando fedele a
un programma riformista di carattere marcatamente
antiliberista. Il risultato fu la sua duplice vittoria
elettorale del 1981.

4. Intanto per il contesto economico internazionale


era significativamente mutato rispetto agli inizi degli
anni Settanta, soprattutto a seguito dei forti aumenti del
prezzo del greggio (i due shock petroliferi) e delle altre
materie prime, laumento dei tassi di interesse e del
valore esterno del dollaro (che esercitavano effetti
stagflazionistici analoghi a quelli degli shock
petroliferi), la caduta della domanda mondiale
alimentata dallorientamento restrittivo impresso alla
politica economica dagli altri maggiori Paesi capitalisti
Usa, Regno Unito e Germania. vero che allincirca in
concomitanza della vittoria della sinistra in Francia gli
organi di previsione internazionali ritenevano
imminente una ripresa delleconomia mondiale,
contribuendo in una certa misura a tranquillizzare la
coalizione. Ma gi allora quelle previsioni non avevano
fondamento diverso dalla fede degli organismi
internazionali nella capacit del rigore di ripristinare lo
stato di fiducia dei mercati e nella capacit di questi
ultimi di assicurare ladeguamento automatico del
sistema alle sue potenzialit. (Cos lOcse prevedeva,
gi per il 1982 e per linsieme dei Paesi membri, una
crescita del Pil del 2 per cento e un aumento del 6 per
cento delle importazioni, contro un calo effettivo del Pil
in quellanno dello 0,5 per cento e la stagnazione in
volume del commercio mondiale.) comunque difficile
pensare, alla luce degli eventi economici internazionali
successivi al 1972, che la coalizione che stava
puntando a ottenere e poi a conservare il consenso
della maggior parte della popolazione francese, sulla
base di un programma di forte espansione economica e
trasformazione sociale, non si fosse posta la questione
cruciale dei vincoli esterni alla sua realizzazione.
Vediamo allora quanta attenzione fu dedicata alla
questione nel Projet socialiste del 1980.
Venne ribadita nel documento la necessit di rafforzare
lautonomia dellapparato economico francese,
essenzialmente attraverso la riduzione del contenuto
dimportazione della produzione interna, e in esso si
precis che le politiche industriali di riconquista del
mercato interno avrebbero dovuto riuscire a frenare
la crescita degli scambi con lestero rispetto alla
crescita del prodotto nazionale. (A questo riguardo si
faceva riferimento al caso del Giappone, ugualmente
sprovvisto di materie prime, le cui importazioni
contavano appena per il 14 per cento del suo prodotto
nazionale contro pi del 23 per cento per la Francia.)
Venne sottolineato, da una parte, che i socialisti erano
contrari a una protezione indiscriminata, che avrebbe
fatto venir meno lo stimolo che le imprese ricevono
dalla concorrenza internazionale; dallaltra, che per essi
la libert degli scambi non costituiva un dogma, ma
solo un mezzo che si giustificava nei limiti in cui avesse
contribuito a sostenere la crescita del prodotto e
delloccupazione. La sottoscrizione di un
liberoscambismo incondizionato veniva dunque
rifiutata perch la logica liberista non ammetteva freni
alla crescita delle importazioni se non attraverso il
rallentamento dellattivit e laumento della
disoccupazione, attraverso cio la soluzione
peggiore, dannosa sia ai Paesi ad essa direttamente
soggetti che a quelli i cui sbocchi si sarebbero trovati in
conseguenza ridotti. Un Paese che avesse perseguito
una politica espansiva, si argoment nel Projet, non
avrebbe arrecato alcun pregiudizio agli altri purch si
fosse adoprato a non far cadere il volume complessivo
delle sue importazioni a fronte dellespansione della sua
domanda interna, la quale avrebbe dovuto poter essere
soddisfatta, nel limite del possibile e del ragionevole,
dalla produzione nazionale. In caso di necessit, sulla
base di regole precisamente definite e per il tempo
occorrente alladattamento del tessuto industriale alla
concorrenza internazionale, si sarebbe fatto ricorso a
misure di contenimento delle importazioni capaci di
impedire unevoluzione degli scambi con lestero
incompatibile con la realizzazione del programma del
governo.
Non molto, data la crucialit del problema del vincolo
esterno, in un testo di 371 pagine e pur tenendo conto
della legittima preoccupazione di non prestare il fianco,
a solo un anno dalle elezioni, allaccusa di voler portare
il Paese allautarchia. comunque evidente che gli
estensori del Projet erano ben consapevoli che
problemi di bilancia dei pagamenti avrebbero potuto
impedire la realizzazione dei suoi obiettivi; inoltre, che la
politica industriale da essi sostenuta avrebbe avuto
bisogno di tempo per riuscire a incidere sul tessuto
industriale della nazione e a frenare la crescita degli
scambi con lestero in rapporto al prodotto sicch
solo ricorrendo a restrizioni amministrative delle
importazioni si sarebbe potuto nel frattempo impedire
una loro crescita eccessiva a fronte dellespansione
programmata della domanda interna. Ma lattenzione
dedicata al problema del vincolo esterno non appare
proporzionata alla realt del contesto internazionale, gi
pesantemente battuto da venti deflazionistici. Cos,
colpisce il lettore del documento che dalle sue pagine
non traspaia alcuna particolare considerazione
dellallora recente esperienza del governo laburista
inglese, che in buona misura proprio sulla scia della
scelta di non ricorrere a una gestione eterodossa del
vincolo esterno aveva appena subito la vittoria della
Thatcher (1979). Merita soffermarsi sullesperienza
inglese della seconda met degli anni Settanta e sulla
scarsa attenzione che la sinistra francese appare avergli
dedicato alla vigilia della sua vittoria elettorale.

5. Il laburista Jim Callaghan divenne primo ministro in


Inghilterra nellaprile del 1976, in piena crescita
dellinflazione mondiale innescata dal raddoppio del
prezzo del greggio nel 1973-1974. Dal 1973 il tasso di
inflazione era divenuto nel Regno Unito pi alto e la
disoccupazione vi cresceva pi rapidamente che nella
media del resto del capitalismo avanzato. Tra la
riduzione dellinflazione e la difesa dei livelli
occupazionali, Callaghan propendeva nettamente per il
primo dei due obiettivi, sostenendo nei suoi discorsi la
necessit per il governo laburista di emanciparsi
dallideologia di sinistra e dalle stesse concezioni
economiche keynesiane. Una parte del partito Tony
Benn e Michael Foot erano i suoi esponenti principali
allinterno del governo difendeva una linea di politica
economica alternativa a quella deflazionista di
Callaghan. Elemento portante di questa Alternative
Strategy era il ricorso a estese restrizioni quantitative
delle importazioni. Data la relativa arretratezza
dellindustria inglese, la riduzione della disoccupazione
attraverso lespansione della domanda interna avrebbe
comportato dei disavanzi negli scambi commerciali con
lestero insostenibili, mentre una svalutazione della
sterlina sufficientemente elevata da riuscire a impedirli
avrebbe dato un impulso troppo forte allinflazione,
rendendo pressoch impossibile la difesa dei salari reali
e della stabilit sociale. Del resto, lesperienza storica
mostrava senza ombra di dubbi che nessun Paese era
mai riuscito a far compiere alla sua industria alcun
rilevante avanzamento tecnologico-strategico lasciando
al contempo le sue frontiere economiche aperte alla
penetrazione dei concorrenti pi avanzati. Lindustria
nazionale andava dunque protetta, e per i fautori della
strategia alternativa il modo pi efficace di farlo era
quello di ricorrere a un sistema flessibile di quote
dimportazione, esteso a una gamma molto ampia di
prodotti manifatturieri e da mantenersi per un lungo
periodo di tempo. La strategia prevedeva limposizione
di quote su poco pi del 90 per cento delle importazioni
di beni finali di consumo, sul 72 per cento per cento
delle importazioni di beni capitali e sul 26 per cento di
quelle di beni intermedi, beni alimentari, bevande e
tabacco.
Osserviamo subito che in questa impostazione
lespansione di produzioni sostitutive di importazioni
non era concepita come effetto nel tempo di una
politica industriale a tale scopo finalizzata, ma come
effetto diretto delle restrizioni quantitative: esse
avrebbero dovuto fornire alle imprese lo stimolo a
espandere e a migliorare la capacit industriale per
sostituire con le loro produzioni beni altrimenti
importati. Da qui la necessit che le restrizioni fossero
mantenute per un periodo sufficientemente lungo da
riuscire a indurre lespansione di capacit industriale,
fornendo alle imprese la sicurezza di un mercato alla
loro produzione aggiuntiva.
Circa le reazioni internazionali a questa strategia
protezionista e i rischi di ritorsioni commerciali, i suoi
difensori ritenevano vi fossero solidi argomenti per
convincere i maggiori partner commerciali
dellInghilterra e gli organismi internazionali ad
accettarla. In primo luogo, la protezione non avrebbe
danneggiato le industrie esportatrici degli altri Paesi in
misura maggiore del ricorso ai metodi tradizionali di
ripristino dellequilibrio della bilancia dei pagamenti:
deflazione o svalutazione. In secondo luogo, il risultato
di lungo periodo del ricorso alle quote sarebbe stato
unInghilterra pi prospera con elevati tassi di crescita,
una struttura industriale rigenerata e livelli di
occupazione persistentemente pi alti dunque, in
prospettiva, per i suoi partner, un mercato pi ampio e
robusto di quello costituito da unInghilterra
liberoscambista ma persistentemente malata. In terzo
luogo, poteva essere agevolmente dimostrato che lo
stato di salute delleconomia inglese era a tal punto
compromesso che erano gli stessi accordi internazionali
in particolare larticolo XII del Gatt e larticolo 108 del
trattato istitutivo della Cee a giustificare il ricorso a
restrizioni generali delle importazioni per proteggere la
bilancia dei pagamenti del Paese e le sue riserve
valutarie. Infine, anche se questi argomenti non fossero
riusciti a persuadere i maggiori partner commerciali e gli
organismi internazionali, sarebbe stato meglio per tutti
che essi avessero fatto buon viso a cattivo gioco dato
che il Regno Unito sarebbe comunque andato avanti
sulla strada della strategia alternativa.
Ma lAlternative Strategy non pass. Nel partito e nel
governo prevalse la linea deflazionistica di Callaghan
tagli massicci delle spese pubbliche e rinuncia alla
piena occupazione in parte anche grazie alla
pressione esercitata da una difficile trattativa con il Fmi
per lottenimento di un prestito cospicuo, ritenuto
necessario a tranquillizzare i mercati in attesa dellinizio
dello sfruttamento del greggio del Mare del Nord. I tagli
della spesa si aggiunsero a una politica salariale
estremamente impopolare (laumento massimo del
salario nominale consentito nei rinnovi contrattuali era
del 5 per cento per tutte le categorie di lavoratori a
fronte di uninflazione del 16,5 per cento) nel
determinare nel Paese un crescente malcontento, che
fin per sfociare nel Winter of Discontent del 1978-79
unondata di scioperi nel settore dei servizi pubblici
(neppure la sepoltura dei morti ne fu risparmiata) che
tuttavia non indusse il governo ad effettuare alcuna
correzione di rotta. Per la sinistra inglese arriv cos il
momento di pagare il conto della sua scelta a favore
della deflazione: al Winter of Discontent segu
immediatamente la sua pesante sconfitta elettorale del
1979 e linizio dellera Thatcher.

6. possibile che questa esperienza abbia avuto


qualche ripercussione allinterno della sinistra francese
e abbia lasciato tracce nei documenti preparatori del
Projet socialiste. Noi non ne abbiamo trovate e
possiamo solo speculare sulle ragioni pi immediate
suscettibili di aver indotto gli estensori del Projet a non
attribuire eccessiva importanza al caso inglese, rispetto
alle difficolt prospettiche di un governo della sinistra
in Francia.
Numerose circostanze importanti potevano far ritenere
alla coalizione di sinistra che si accingeva a vincere le
elezioni che una gestione non ortodossa del vincolo
esterno sarebbe stata pi agevole in Francia, comunque
molto meno contrastata che in Inghilterra. Da diverso
tempo ormai, grazie specialmente a De Gaulle, la Francia
era molto pi indipendente dagli Usa e dal suo sistema
di alleanze, valori e vincoli di quanto non fosse
lInghilterra. Parigi poi non solo non aveva la City ma il
governo controllava gi buona parte del sistema
bancario e finanziario del Paese, settore che in caso di
vittoria della coalizione sarebbe stato pressoch
interamente nazionalizzato. Si poteva ragionevolmente
ritenere che la presenza della City, politicamente
potentissima e fonte per il Regno Unito di un
voluminoso e difficilmente rinunciabile flusso di redditi
da intermediazione finanziaria internazionale, rendeva
sostanzialmente impensabile un controllo rigido dei
movimenti di capitali nonch ogni contenimento degli
scambi commerciali con lestero. Del resto, sin dagli
anni Venti lo stesso Keynes aveva sottolineato che,
proprio a causa della City e dei suoi rappresentanti in
Parlamento, il Paese non sarebbe mai riuscito ad
adottare le misure capaci di liberarlo dalle piaghe della
disoccupazione e della povert. (In realt, nei due
decenni successivi alla seconda guerra mondiale,
lInghilterra ci riusc piuttosto bene, ma appunto grazie
al fatto che la guerra e i successi delleconomia di
guerra avevano temporaneamente tolto di mezzo le
maggiori resistenze allintervento statale e che la
vittoria sovietica sul nazismo aveva accresciuto
allinterno la minaccia della sovversione comunista.)
Inoltre, lInghilterra della seconda met degli anni
Settanta poteva contare sullinizio dello sfruttamento
del petrolio del Mare del Nord, che gi nel 1977 aveva
arrecato un sensibile miglioramento allo stato della sua
bilancia commerciale permettendole di riuscire a non
impiegare interamente i fondi messile a disposizione dal
Fmi. Naturalmente, proprio linizio dello sfruttamento
del petrolio del Mare del Nord, con il conseguente
miglioramento della bilancia dei pagamenti, rafforzava in
Inghilterra, allinterno del partito e del governo
laburista, la posizione degli oppositori del ricorso al
protezionismo. Infine, agli estensori del Projet
socialiste doveva certamente essere ben chiara la
differenza fondamentale tra la strategia della sinistra del
partito laburista inglese, primariamente basata su
restrizioni quantitative delle importazioni estese a una
gamma ampissima di beni, da mantenersi per un periodo
di tempo molto lungo, e la strategia di gestione del
vincolo esterno contemplata invece nel Projet,
primariamente basata su una forte espansione del
settore pubblico delleconomia, sia in campo industriale
che finanziario, rispetto alla quale il controllo delle
importazioni avrebbe dovuto svolgere un ruolo molto
pi limitato e ausiliario, di carattere temporaneo.
Va tenuto presente che alla fine degli anni Settanta si
era ancora lontani dai successi dellideologia liberista
richiamati nei primi due capitoli dai cambiamenti
epocali che essa sarebbe riuscita a indurre tanto nel
contesto economico-sociale del capitalismo avanzato
che nel senso comune. La forte accelerazione impressa
al processo di internazionalizzazione economica in
ciascuna delle sue tre dimensioni capitali, merci e
forza lavoro era appena ai suoi inizi e nessuno si
sarebbe ancora sognato di mettere seriamente in
discussione la sovranit dello Stato-nazione in campo
economico e la legittimit di unespansione
dellintervento pubblico. Non solo dunque il
precedente inglese, a causa della sua peculiarit,
potrebbe essere apparso agli estensori del Projet come
non molto significativo, ma plausibile, pi in generale,
che i problemi di bilancia dei pagamenti che la
realizzazione degli obiettivi del Projet avrebbero
sollevato non sembrassero loro richiedere
unelaborazione speciale, in quanto, tutto sommato,
abbastanza agevolmente sormontabili. Ci aiuterebbe a
capire anche la mancata ricerca, da parte della
coalizione, di accordi preventivi con la sinistra degli
altri maggiori Paesi europei, accordi finalizzati a
contenere il pi possibile, allinterno di ciascuno di
essi, lostilit nei confronti di controlli delle
importazioni cui questo o quel governo avesse deciso
di ricorrere nel suo sforzo di mantenere elevate
produzione e occupazione in un contesto internazionale
recessivo.
Resta ad ogni modo leccezionalit di ci che stava
accadendo in Francia: nel 1980 era impossibile non
rendersi conto che la direzione in cui la coalizione di
sinistra stava progettando di muoversi era esattamente
opposta a quella nella quale avevano gi iniziato a
muoversi i governi del resto del capitalismo avanzato;
dunque, che misure relative ai rapporti con il resto
dEuropa e del mondo, eccezionali anche per quei
tempi, avrebbero dovuto essere adottate, pena la
rinuncia alla realizzazione degli obiettivi principali del
Projet socialiste. Come ora vedremo, il destino che
esso sub rivela in modo chiaro che sia la necessit di
tali misure che le resistenze alla loro adozione presenti
allinterno stesso della coalizione furono gravemente
sottovalutate dai suoi ideatori.
7. Una svolta ad U nellorientamento di politica
economica del governo ebbe inizio a Parigi gi
nellestate del 1982 per poi essere completata nella
primavera del 1983, appena due anni dopo la vittoria
della coalizione del maggio-giugno 1981. La vicenda
potrebbe dunque apparire come troppo effimera per
meritare unattenzione particolare. Ma nonostante il
velleitarismo che il rapido abbandono del Projet
socialiste pur suggerisce, le seguenti considerazioni
inducono ad attribuire a quellesperienza il ruolo di
primum movens nel fenomeno della scomparsa della
sinistra in Europa. Innanzitutto la gi sottolineata lunga
gestazione e messa a punto del progetto, a partire dal
Programme commun del 1972. Non si tratt insomma di
una volgare improvvisazione. Va poi tenuto conto delle
importanti riforme economiche e sociali effettivamente
realizzate dal governo di sinistra nel biennio precedente
il completamento della svolta, e, infine, del rapido
emergere ed affermarsi in Francia, nel triennio che segui
alla svolta, di tutti gli elementi essenziali della corsa alla
modernizzazione compiuta nei successivi trentanni
dalla sinistra europea nel suo complesso.

8. Insieme alle nazionalizzazioni, ossia alla politica


industriale e finanziaria, mercato del lavoro e
distribuzione del reddito furono gli ambiti principali
interessati dal riformismo della coalizione di sinistra nel
biennio successivo alla sua vittoria. Ricordiamo le
misure che vennero effettivamente adottate e il loro
collegamento con gli obiettivi originari del programma.
Lallungamento del periodo di ferie pagate da 4 a 5
settimane allanno fu accompagnato dalla riduzione a 39
ore della settimana lavorativa legale, a parit di
salario, come primo passo verso una riduzione a 35 ore,
e dalla fissazione di un tetto al numero di ore di lavoro
straordinario (130 allanno per lavoratore).
Labbassamento a 60 anni dellet del pensionamento
fu accompagnata da misure dirette a incentivare i
lavoratori ad andare effettivamente in pensione anche a
partire dai 55 anni e i datori di lavoro ad assumere al
loro posto lavoratori pi giovani. Insieme alle
assunzioni nel pubblico impiego (circa 200 mila posti vi
furono creati nel 1981-82), tutte queste misure miravano
in primo luogo a ridurre la disoccupazione. Una serie di
altre misure accrebbero il potere dei sindacati allinterno
delle imprese, limitando la libert di licenziamento e il
ricorso a contratti atipici. Il salario minimo lo SMIC, di
volta in volta stabilito dal governo previa consultazione
con i sindacati venne accresciuto di circa il 39 per
cento in termini nominali nel biennio 1981-1982, cui
corrispose un suo aumento in termini reali di circa l11,5
per cento tra laprile 1981 e il luglio 1982. Nel corso
dello stesso periodo, il salario reale orario crebbe del 5,3
per cento mentre i trasferimenti di reddito a favore delle
famiglie furono aumentati di circa il 13 per cento in
termini reali. Il reddito disponibile delle famiglie
aument di circa il 6,5 per cento tra il 1980 e il 1982
(contro una caduta, per lo stesso periodo, del 2 per
cento nella Germania Occidentale, del 2,1 per cento nel
Regno Unito e dell1,5 per cento in Italia). La Tva (lIva
francese) venne ridotta dal 7 per cento al 5,5 per cento
per i beni di prima necessit e accresciuta dal 17,6 per
cento al 18,6 per cento per gli altri beni. Nel 1982,
insieme allaggiunta di una nuova imposta annuale del
2,5 per cento sulla ricchezza, le aliquote marginali della
tassazione del reddito furono accresciute fino al 75 per
cento. Nella visione dei responsabili della politica
economica del primo governo social-comunista uscito
dalle vittorie elettorali del 1981, il governo Mauroy, la
maggiore equit distributiva connessa con laumento
dei salari e della spesa sociale, nonch con la maggiore
progressivit del prelievo fiscale, aveva chiaramente
anche una valenza keynesiana: loccupazione sarebbe
aumentata grazie allespansione dei consumi
determinata dal cambiamento distributivo e grazie ai
maggiori investimenti che laumento della spesa per
consumi avrebbe indotto. La minore profittabilit degli
investimenti privati determinata dal cambiamento
distributivo sarebbe stata compensata dai maggiori
profitti effettivi connessi con tassi di utilizzazione pi
elevati della capacit produttiva disponibile.
Le nazionalizzazioni realizzate dal governo Mauroy
costituirono il mantenimento dellimpegno prioritario
assunto dalla coalizione di sinistra di fronte al suo
elettorato. Nel corso del 1981 e del 1982 vennero
nazionalizzate 12 grandi imprese industriali, 36 banche e
2 grandi societ finanziarie. Considerando che in
Francia le maggiori compagnie di assicurazione e un
grande numero di istituzioni finanziarie facevano gi
parte del settore pubblico, con le nuove
nazionalizzazioni praticamente lintero settore
finanziario venne a trovarsi in mano allo Stato: nel 1982
quasi il 90 per cento dei depositi era concentrato presso
banche di propriet pubblica, contro il 60 per cento nel
1981. Le imprese pubbliche del solo settore industriale
arrivarono a contare nel 1982 per l8 per cento del Pil,
contro il 5 per cento nel maggio 1981. I gruppi
industriali interessati dalle nuove nazionalizzazioni
occupavano 550 mila lavoratori, pari al 2,6 per cento
della forza lavoro. Le nuove imprese industriali
nazionalizzate avrebbero dovuto costituire il motore
della crescita attraverso decisioni di investimento
sottratte alla logica del profitto atteso, finalizzate
allammodernamento dellapparato produttivo e
allallentamento dei vincoli esterni tramite il
completamento della matrice industriale della nazione e
la riconquista del mercato interno. Un settore
finanziario ormai pressoch interamente in mano allo
Stato avrebbe erogato i fondi occorrenti a questa
strategia industriale; allo stesso tempo, avrebbe
enormemente agevolato il controllo dei capitali da e
verso lestero.
Questa strategia, anche qualora allinterno della
coalizione di sinistra la determinazione a perseguirla
fosse stata da tutti fermamente condivisa, avrebbe
comunque richiesto tempo per produrre i suoi frutti in
termini di un allentamento persistente dei vincoli esterni
alla crescita. Pure in presenza di ununanimit di intenti
e nelle migliori condizioni possibili, ladattamento della
struttura industriale alla politica industriale avrebbe
richiesto tempi piuttosto lunghi. Ammodernamento e
completamento dellapparato industriale, insieme alla
riconquista del mercato interno, non avrebbero potuto
avvenire dalloggi al domani. Nel breve-medio periodo,
pertanto, lallentamento dei vincoli di bilancia dei
pagamenti alla realizzazione del programma della sinistra
avrebbe richiesto il ricorso a restrizioni quantitative
delle importazioni e restrizioni delle esportazioni di
capitali, le une e le altre tanto pi estese e severe
quanto maggiormente deflazionistico-recessivo si fosse
rivelato lorientamento della politica economica
perseguita dai principali partner della Francia. Il fatto ,
per, che la coalizione di sinistra era ben lungi
dallessere unanime al suo interno circa il ruolo delle
nazionalizzazioni, e, pi in generale, circa la gestione del
vincolo esterno.
Il ruolo delle nazionalizzazioni, cos come concepito nel
Programme commun e nel Projet socialiste, era
espressione di una lunga tradizione di dirigismo
statalista e centralista, ben rappresentata dagli
esponenti del Ceres, in particolare dal socialista di
sinistra Jean-Pierre Chevnement, ministro
dellindustria nel governo Mauroy. Ma il dirigismo
statalista, sostenuto tanto dai socialisti del Ceres che
dal Pcf e di cui era intriso il Projet socialiste, se aveva
ispirato lazione iniziale del governo della coalizione,
che non poteva rinnegare immediatamente il programma
elettorale che ne aveva determinato la vittoria, non era
condiviso dagli esponenti pi influenti della
maggioranza del partito di Mitterrand, in primis da
Michel Rocard e Jacques Delors. Il primo aveva
sostanzialmente dovuto subire le nuove
nazionalizzazioni, alle quali era contrario. Da vecchio
fautore sessantottino della decentralizzazione dello
Stato e dellautogestione, egli era fortemente ostile
allimpiego delle imprese pubbliche come strumenti
primari della politica industriale dello Stato; esse
avrebbero dovuto piuttosto essere lasciate libere di
reagire agli stimoli del mercato mondiale e puntare, pi
che a una riconquista del mercato interno, a rafforzarsi
come multinazionali. Delors e i suoi seguaci nel Ps
erano a loro volta fermamente ostili a ogni gestione non
ortodossa del vincolo esterno, che, insieme a uno
sganciamento dallo SME e dal progetto di integrazione
economica europea, essi ritenevano avrebbe
comportato la rinuncia ad ogni aspirazione egemonica
della Francia nel continente. Per Delors e compagni, di
fronte al calo delle esportazioni causato
dallorientamento recessivo in atto della politica
economica dei maggiori partner commerciali, si sarebbe
dovuto ricorrere a una politica ancora pi
deflazionistica: per un certo numero di anni, sosteneva
Delors, non sarebbe stata perseguibile altra strada che
quella di cercare di crescere meno degli altri, e in questo
modo ripristinare lequilibrio dei conti con lestero.
Una volta ottenuto lappoggio di Mitterrand, ormai
ben consapevole che nella coalizione, al di fuori del Pcf
e del Ceres, una linea anche solo timidamente
protezionistica avrebbe suscitato grandi
preoccupazioni e goduto di un sostegno molto debole,
il punto di vista di Delors circa lineluttabilit del rigore
fu rapidamente fatto proprio dal governo. Le fughe di
capitali determinate dalla vittoria della sinistra (tra la
primavera del 1981 e la primavera del 1982 l80 per cento
del deterioramento della bilancia dei pagamenti fu
dovuto ai deflussi netti di capitali) furono contrastate
con un forte aumento dei tassi di interesse e non ci fu
alcun serio tentativo di servirsi di un sistema finanziario
ormai pressoch interamente in mano pubblica per
realizzare un controllo efficace dei movimenti di capitali.
Di fatto, tutte le imprese del settore continuarono a
comportarsi nei confronti dei loro clienti come se
fossero state private. Allaumento delle importazioni
causato dalliniziale espansione della domanda interna
e alla ben pi rilevante contrazione delle esportazioni
causata dalla recessione internazionale si rispose con
lausterit fiscale e salariale. I tre ministri comunisti e i
ministri della sanit e dellindustria (i socialisti di
sinistra Nicole Questiaux e Jean-Pierre Chevnement)
uscirono dal governo e Programme commun e Projet
socialiste finirono per sempre in soffitta.
Tra il compimento della svolta nel 1983 e il 1986 la
politica deflazionistica inaugurata dal governo Mauroy
e proseguita dal governo Fabius (1984) riusc
effettivamente a ridurre sensibilmente sia il tasso di
inflazione che lo squilibrio nei conti con lestero, ma al
prezzo di un ridimensionamento della protezione sociale
da parte dello Stato (principalmente in campo sanitario
e pensionistico), del ripristino di numerosi elementi di
flessibilit nellimpiego della forza lavoro da parte delle
imprese (assunzioni a tempo parziale, a tempo
determinato eccetera), del congelamento dei salari e
della riduzione del potere dacquisto delle famiglie (con
un calo del 6 per cento nei loro consumi di prodotti
industriali), di mezzo milione di disoccupati in pi e di
un tasso di disoccupazione superiore al 10 per cento.
La coalizione che era andata al potere con lobiettivo di
abbattere persistentemente la disoccupazione in
Francia si era trasformata in quella il cui governo di
fatto contribu a determinare il pi alto tasso di
disoccupazione dai tempi della Grande Depressione. I
tentativi di compensare la svolta in campo economico e
sociale con riforme il pi possibile lontane dalla sfera
dei vincoli internazionali riforme nel campo dei diritti
civili, tra le quali un tentativo fragorosamente fallito di
riforma del sistema scolastico nel senso di una sua pi
completa laicit naturalmente non riuscirono a evitare
la frana del consenso popolare al governo e la vittoria
della coalizione di destra (Union pour la Dmocratie
Franaise e Rassemblement pour la Rpublique) alle
elezioni politiche del 1986.

9. Non vi fu alcuna ferma resistenza alla svolta, come


se allinterno della coalizione tutti si fossero al fondo
convinti che il rigore era effettivamente ineluttabile. Il
Ceres vi si accomod e lo stesso Chevnement nel 1984
rientr nel governo come ministro della Cultura. Il
partito comunista fin per uscire sia dal governo che
dalla coalizione, ma n il partito n la Cgt tentarono o
minacciarono una mobilitazione popolare contro la
svolta (alle elezioni del 1986 il Pcf fu punito anche pi
pesantemente, in termini relativi, dello stesso Ps). Tanta
passivit sorprendente e merita di essere indagata
perch la svolta a favore del rigore, in realt, non era
affatto ineluttabile.
importante ribadire e non perdere di vista che nel
1982-1983 si era ancora molto lontani dalla
mondializzazione e dal clima culturale in campo
economico quali li viviamo oggi. Lontani erano ancora il
Trattato di Maastricht, listituzione della Bce e della
moneta unica e i successivi accordi e trattati. Una
diffusa consapevolezza che le decisioni di politica
monetaria costituiscono una componente cruciale della
politica economica generale dei governi faceva ancora
considerare come pressoch assurda la concezione di
una banca centrale politicamente indipendente,
concentrata su un unico obiettivo di bassa inflazione. Il
controllo dei capitali era dappertutto in vigore e
ciascuna nazione godeva appieno della sua sovranit
monetaria. Ciascuna nazione poteva inoltre decidere
liberamente livello e composizione delle sue spese
pubbliche, nonch le forme del loro finanziamento e
della tassazione. Alla sovranit in campo monetario e
fiscale si accompagnava per ciascuno Stato la piena
libert di decidere la propria politica industriale e ogni
altro tipo di tutela degli interessi economici della
nazione. Di riflesso, lo stato dellarte in economia era
ancora tale da non ostacolare la comprensione del fatto
che interventi di natura protezionistica pi o meno
estesi e prolungati, finalizzati a permettere alleconomia
di un Paese di espandersi in un contesto internazionale
recessivo, ben difficilmente avrebbero potuto colpire le
esportazioni dei principali partner commerciali in misura
maggiore del ricorso a politiche di contrazione della
domanda interna o a svalutazioni competitive. Non era
insomma ancora troppo difficile convincersi e
convincere che, una volta chiarito al resto del mondo
che lobiettivo era di permettere una maggiore crescita
interna, punizioni e ritorsioni a fronte di restrizioni
amministrative delle importazioni avrebbero potuto
essere evitate. Inoltre, a fronte di una Francia
tradizionalmente piuttosto indipendente dal mondo
anglosassone stava una Germania ancora divisa, molto
pi cauta di oggi. Naturalmente non mancava
allinterno, da parte del centro e della destra, una fiera
opposizione al Programme commun e al Projet
socialiste. Ma la sinistra era politicamente molto forte
dopo le vittorie del maggio-giugno 1981, pi forte di
quanto non fosse mai stato in Inghilterra il partito
laburista. Una sinistra che poteva disporre, al posto
della City e i suoi rappresentanti in Parlamento di
keynesiana memoria, di un settore finanziario quasi
interamente in mano pubblica.
Si pu in definitiva affermare che la svolta rigorista del
1982-1983 non fu imposta a Mitterrand e al governo
Mauroy n dallesterno della coalizione di sinistra n
dallesterno della Francia. Si tratt di una scelta in
senso liberista e filo-capitalista autonomamente
compiuta in piena coscienza dalla maggioranza della
sinistra francese una scelta gradualmente maturata
nel corso del precedente quindicennio, lasciata a
covare sotto la cenere in vista delle contese elettorali
del 1981 e che a partire dal 1983 non fu mai pi
abbandonata.

10. Nonostante le posizioni di primissimo piano a


lungo occupate da Franois Mitterrand nella vicenda
politica del suo Paese, come segretario del Ps dallinizio
degli anni Settanta e come Presidente della Repubblica
dal 1981 al 1995, non riteniamo particolarmente
meritevole di attenzione il suo contributo alla svolta
della sinistra francese. Tutta la sua vicenda suggerisce
una personalit senza ferme convinzioni, in compenso
dotata di spiccate capacit nel riuscire ad adattarsi
rapidamente alla corrente per conservare e consolidare
il proprio potere. Nel complesso, la condotta di
Mitterrand a partire dal 1982-1983 pu considerarsi
come un effetto della svolta piuttosto che come una
delle sue cause, il suo contributo essendo stato
essenzialmente quello di non averla in alcun modo
contrastata. Un vero protagonista della scelta in senso
liberista e filo-capitalista fu Delors, forse il pi capace
interprete e realizzatore delle idee e aspirazioni ormai
dominanti allinterno della cultura di sinistra in Francia
allinizio degli anni Ottanta. Prima di soffermarci su
queste idee e aspirazioni, ricordiamo alcuni dei passi
pi decisivi del ritorno al realismo da parte della
sinistra francese.
Modernizzazione e ruolo della Francia nel processo
di integrazione europea formano le due bussole del
percorso compiuto sotto la guida di Delors. Con la
prima, fumosa espressione, divenuta una vera e propria
parola dordine, si alludeva alla necessit e urgenza di
rimettere in primo piano imprenditorialit privata,
assunzione del rischio e ricerca del profitto come le vere
fonti della ricchezza e del progresso sociale, contro
ogni arcaica velleit di riformismo socialista. Si trattava
di dotarsi di un profilo di realismo e competenza, di
unidentit politica attraente che rompesse con
limmagine ideologica e conservatrice del socialismo
tradizionale, puntando con determinazione al
conseguimento da parte della Francia di maggiori quote
di mercato e a una crescita trainata non dal consumo ma
dalle esportazioni. La pressione esterna esercitata dal
mercato internazionale avrebbe agito da motore della
modernizzazione. Oltre agli imprenditori, dei tecnici
scelti in base alla loro competenza e neutralit,
principalmente alti funzionari del Tesoro e della Banca
di Francia, divennero gli eroi del nuovo corso e ad essi
furono affidati poteri decisionali crescenti. Il distacco
forse pi drastico da una lunghissima tradizione di
controllo politico e regolamentazione avvenne in campo
finanziario, tanto allinterno che in materia di controllo
dei movimenti internazionali dei capitali. Allinterno, nel
1984 una riforma mise fine al sistema finanziario dirigista
che aveva caratterizzato fino ad allora il caso francese e
diede inizio alle privatizzazioni delle banche (lultima
banca pubblica fu collocata sul mercato nel 2001 da
Laurent Fabius, lo stesso che ventanni prima aveva
fieramente militato per la nazionalizzazione di tutte le
banche). Per quanto riguarda il controllo dei movimenti
internazionali dei capitali, dalla fine della guerra la
Francia era sempre stata la nazione che pi
strenuamente si era opposta a ogni loro
ammorbidimento. Dal 1983 la sua posizione mut
radicalmente. Per Delors, la libert di circolazione dei
capitali in Europa sarebbe stata il primo indispensabile
passo di un percorso che avrebbe portato allunione
monetaria; pi in generale, la libera circolazione
internazionale dei capitali, proprio perch perseguita
con determinazione da un Paese ad essa
tradizionalmente ostile come la Francia, avrebbe
contribuito a diffondere dappertutto la convinzione che
il contesto nazionale non era pi quello rilevante per la
politica economica, che il tempo delle soluzioni
nazionali ai problemi economici era ormai tramontato.
Nessuno sforzo fu dunque risparmiato per promuovere
nellambito degli organismi internazionali pi importanti
la causa della liberalizzazione finanziaria: un francese,
Henri Chavraski, fu mandato a sostenerla allOcse come
presidente dal 1982 del Comitato dei movimenti di
capitali e delle transazioni invisibili (Cmit) di
quellorganismo; un ex governatore della Banca di
Francia nominato da Mitterrand, Michel Camdessus,
fin nel 1987 a dirigere il Fmi, dove nel corso degli anni
Novanta avrebbe fatto di tutto (senza riuscirci grazie
allopposizione statunitense) per far approvare un
cambiamento formale dellaccordo istitutivo del Fondo
che sancisse lobbligatoriet della liberalizzazione dei
movimenti di capitali per i suoi membri (cfr. capitolo II,
p. 32). Ma ogni passo fu compiuto soprattutto
allinsegna della scelta europea. Dallinizio del 1985 lo
stesso Delors divenne presidente della Commissione
europea e per dieci anni pot dedicarsi a tempo pieno
alla modernizzazione del continente. indubbio che
tra il 1983 e il 1988 fu la Francia a condurre la partita
decisiva sullEuropa e ad essa si devono i suoi esiti, gi
nitidamente prefigurati nel Rapporto Delors del 1988.
Soffermiamoci sulla svolta che quel rapporto segn nel
progetto europeo.

11. Abbiamo visto come nel 1982-1983 il maggior


partito della sinistra francese, decidendo di rinunciare al
suo programma, avesse preso a considerare un
processo di svuotamento delle sovranit nazionali in
campo economico come un aspetto ineluttabile della
modernit. Ben presto si convinse anche
dellopportunit di farsi esso stesso promotore di tale
processo e di gestirlo in prima persona. Ci da un lato
avrebbe accresciuto il suo peso politico e culturale
allinterno, dallaltro avrebbe contribuito a conferire alla
Francia un ruolo egemonico in Europa. Ma che cosa
esattamente avrebbe dovuto sostituire la sovranit
dello Stato-nazione in campo economico?
Secondo le concezioni originarie del progetto europeo,
in prospettiva la sovranit nazionale in campo
economico avrebbe dovuto essere sostituita da nuove
forme di potere politico sovranazionale, capaci di
regolare i processi produttivi e distributivi in funzione
della crescita dellinsieme delle economie interessate
dal progetto e del contenimento delle diseguaglianze al
loro interno. Lunificazione politica del continente, in
altre parole, avrebbe alla fine compensato le singole
nazioni della perdita della loro sovranit monetaria,
fiscale, eccetera. Come abbiamo rilevato (cfr. cap. II, p.
35), fino alla fine degli anni Settanta, in numerosi
documenti ufficiali sullunione economica e monetaria
europea (il rapporto Werner, il rapporto Jenkins, il
rapporto Marjolin e specialmente il rapporto
MacDougall) si era argomentato che la rimozione dei
controlli sui movimenti di capitali avrebbe dovuto aver
luogo solo nello stadio finale del processo,
allorquando, insieme alla costituzione di una bilancia
dei pagamenti comune, sia la politica monetaria che
quella fiscale fossero state in larga misura centralizzate,
di modo che tra i singoli Paesi membri dellunione
potessero aver luogo trasferimenti di risorse reali,
finanziati da un bilancio federale o centrale,
corrispondenti agli avanzi e disavanzi interni allunione
esattamente allo stesso modo in cui trasferimenti di
questa natura hanno normalmente luogo tra le diverse
aree di una singola nazione. In quegli anni, insomma,
veniva generalmente riconosciuto che la completa
libert di movimento dei capitali e una moneta unica in
Europa avrebbero richiesto trasferimenti fiscali di entit
considerevole per compensare le singole nazioni della
perdita di indipendenza nella conduzione delle politiche
necessarie a risolvere i loro problemi economici interni.
Il rapporto Delors, su cui si bas pochi anni dopo il
Trattato di Maastricht (1992), prese nettamente le
distanze da questa impostazione. La rimozione del
controllo dei capitali avrebbe dovuto avvenire allinizio,
non alla fine del processo. La centralizzazione della
politica economica generale, comprendente dunque in
primo luogo la politica di bilancio, cess di essere vista
come un prerequisito della liberalizzazione dei
movimenti di capitali e dellunificazione monetaria.
Tutto laccento fu posto, da un lato, sullistituzione di
una moneta unica e di una banca centrale
sovranazionale cui venisse demandato decidere la
politica monetaria valida per tutti i Paesi membri, in
completa autonomia dai responsabili della politica
economica dei singoli Paesi e dagli organismi politici
dellUnione; dallaltro, sullimposizione di limiti
superiori ai disavanzi di bilancio e al debito pubblico
dei singoli Paesi membri, che non avrebbero pi potuto
contare su alcuna forma di finanziamento monetario
delle loro spese pubbliche. Secondo lo spirito tanto del
rapporto Delors che del Trattato di Maastricht, questa
perdita di sovranit (monetaria e fiscale) da parte di
ogni singolo Paese membro avrebbe agito da
catalizzatore rispetto allunificazione politica del
continente. E proprio lunificazione politica dellEuropa,
di cui la Francia si sarebbe di fatto posta alla guida,
piuttosto che eventuali effetti positivi dellunificazione
monetaria sulloccupazione e la crescita, avrebbe
costituito la vera ricompensa finale di qualsivoglia
sacrificio di sovranit e benessere che il perseguimento
del progetto avesse richiesto.
Non esistevano precedenti storici di unificazione
monetaria tra Stati che non fosse stata preceduta dalla
loro unificazione politica e lidea che la prima potesse
fungere da catalizzatore della seconda era totalmente
illogica. Questo semplicemente perch ununica politica
monetaria applicata a condizioni economiche e sociali
tra loro molto diverse avrebbe teso ad accentuare le
differenze tra gli Stati interessati e dunque a ridurre,
anzich accrescere, la coesione tra di essi. Cos, il
risultato politico-istituzionale effettivo del progetto
europeo alla Delors era scontato. Lo svuotamento
progressivo delle sovranit nazionali in campo
economico non poteva che risolversi in una duplice
assenza: la rimozione appunto dello Stato-nazione,
associata allassenza di un potere politico
sovranazionale. Il vuoto determinato da tale duplice
assenza fu riempito da due organismi tecnici
politicamente irresponsabili la Bce e la Commissione
europea cui vennero conferiti poteri decisionali
sempre pi importanti per le condizioni di vita della
popolazione.
Il progetto europeo alla Delors ha dunque avuto un
esito sostanzialmente autoritario, raggiunto in modo
graduale e indiretto, attraverso, appunto, il progressivo
svuotamento delle sovranit nazionali. Grazie a
Maastricht, allistituzione della moneta unica e ai
successivi accordi e trattati, la rinuncia da parte dei
governi europei al mantenimento di alti livelli di
occupazione e a politiche redistributive apparsa come
imposta da vincoli tecnici oggettivi, come il risultato di
una perdita di sovranit nazionale derivante da
circostanze ineluttabili. La presenza diffusa di
unillusione di ineluttabilit di questa situazione di
deresponsabilizzazione certamente il fattore che ha
consentito ai governi di tenere in molto minor conto
che in passato le ripercussioni sociali e politiche di
percorsi marcatamente deflazionistici e di classe.

12. Alla luce di quanto rilevato, difficile dubitare che


il prevalere in Francia nel 1982-1983 di quella che alcuni
autori hanno chiamato la seconda sinistra quella
dei Delors, dei Rocard, dei Fabius, al momento
opportuno sostenuta dallo scaltro Mitterrand sia
stato il fattore decisivo del cambiamento epocale in
senso liberista avvenuto nel continente nei successivi
trentanni. Forse qualcuno potrebbe pensare che
questo sottovaluti eccessivamente il ruolo della sinistra
tedesca, o di quella italiana, nellinnesco del
cambiamento. Considereremo pi avanti il caso
dellItalia. Per quanto riguarda la RFT, ricordiamo per
ora semplicemente che allepoca della svolta ad U della
sinistra al governo in Francia la Germania occidentale
era di nuovo immersa, dopo la breve parentesi di Willy
Brandt dellinizio degli anni Settanta, nel suo
Ordoliberalismus anti-keynesiano ed era passato ormai
quasi un quarto di secolo dalla svolta pro-libero
mercato della socialdemocrazia tedesca (congresso di
Bad Godesberg del 1959), che era stata in larga misura il
riflesso dello speciale rapporto di sudditanza della RFT
nei confronti degli Usa e non aveva avuto ripercussioni
rilevanti sul resto della sinistra politica europea. La
Germania ordoliberale era gi ammirata dai piccoli
borghesi di tutto il continente per il suo culto della
parsimonia, lefficiente tutela del risparmio e la crescita
trainata dalle esportazioni; inoltre, come vedremo pi
avanti, le idee ordoliberali avevano gi iniziato ad
essere culturalmente influenti nel continente grazie alla
loro scoperta da parte di Michel Foucault e
dellintelligentsia francese. Ma allinizio degli anni
Ottanta la Germania non era ancora in grado di
contribuire in misura sostanziale, attraverso le sue
principali correnti politiche, a dare inizio ad alcun
cambiamento epocale. Il ruolo della sua sinistra nella
morte della sinistra continentale non diverr importante
che alla fine degli anni Novanta, con Gerhard Schrder
e lemarginazione di Oskar Lafontaine nella Germania
ormai da un decennio riunificata e lintera Europa in
piena fioritura liberista.
Lo snodo cruciale fu insomma la Francia, perch
allinterno della sua sinistra che venne concepito e
concretamente avviato un progetto complessivo di
progressivo indebolimento del potere contrattuale del
lavoro dipendente, insieme al progressivo
smantellamento di ci che di meglio la civilt borghese,
in buona misura sotto limpulso delle idee socialiste, era
riuscita a costruire nel trentennio successivo alla
seconda guerra mondiale. dunque specialmente con
riferimento alla sinistra di quel Paese che importante
riuscire a mettere a fuoco le premesse della svolta, le
condizioni culturali che la prepararono.

13. Nel decennio compreso tra la fine degli anni


Sessanta e la fine degli anni Settanta si deline in
Francia la presenza di due sinistre, tra loro molto
diverse, che, come abbiamo visto, coalizzandosi
riuscirono nel 1981 a conquistare il potere politico sulla
base di un programma molto avanzato. Quel programma
per rifletteva le posizioni di una sola delle due sinistre:
quella composta dal Pcf, dalla Cgt e dalla parte
statalista e sovranista del Ps (sostanzialmente il Ceres).
Si pu dire che come se dal maggio francese fossero
scaturiti due fiumi che, ben presto, presero a scorrere in
direzioni pressoch opposte. Il primo, quello che rischi
realmente di travolgere il sistema (tanto da indurre De
Gaulle a correre a Baden-Baden per assicurarsi la lealt
dellarmata francese del Reno, in cambio dellamnistia
per i generali autori di un pronunciamento contro di lui),
fu il fiume della mobilitazione operaia promossa dalla
Cgt e dal Pcf, del pi grande sciopero della storia del
capitalismo moderno, del rafforzamento del potere
contrattuale dei salariati e del notevole aumento dei
salari reali ottenuti con gli accordi di Grenelle. Questa fu
la corrente da cui si formarono in seguito sia il
Programme commun che il Projet socialiste, ossia le
basi delle vittorie elettorali della sinistra del maggio-
giugno 1981. Il secondo, ben rappresentato dalla
componente studentesca del maggio, fu il fiume
dellinsofferenza verso ogni forma di autorit e di
potere, dellindividualismo anarcoide,
dellautogestionismo antistatalista. Schematizzando un
poco, si pu affermare che questa fu la corrente che nel
corso degli anni Settanta prevalse allinterno
dellintelligentsia francese di sinistra (torneremo su
questo punto pi avanti). Ma per quanto riguarda la
sinistra politica, pur riuscendo ad aprire nel corso del
decennio delle crepe al suo interno, essa non riusc a
deviare la corrente principale che da Grenelle port alle
vittorie della coalizione, passando per il Programme
commun e il Projet socialiste. La seconda sinistra
rest per cos dire in disparte, coltivando per con cura
i suoi rapporti con lintelligentsia del Paese; alle prime
serie difficolt incontrate dalla realizzazione del
programma della coalizione in un contesto
internazionale recessivo, essa usc prontamente allo
scoperto e riusc ad imporsi. Come si visto sopra, per
questa sinistra il rafforzamento della sovranit dello
Stato-nazione in campo economico, da conseguirsi
attraverso un maggiore controllo delle transazioni con
lestero e dunque anche attraverso una presa di
distanza dal processo di integrazione economica
internazionale, andava considerato come assolutamente
antitetico rispetto alle necessit della modernizzazione
dellapparato produttivo e dellintera societ. Di fatto,
per Delors e compagni proprio laccelerazione
dellinternazionalizzazione economica, a partire dal
contesto europeo, sarebbe stato il veicolo principale
della modernizzazione della Francia e della crescita del
suo peso nel continente.
Il diffondersi dellideologia modernista e antistatalista
allinterno della cultura di sinistra ebbe luogo, in
Francia come altrove in Europa, parallelamente al
diffondersi dellantisovietismo. Ma in Francia prima che
altrove essa fu il prodotto della crisi e della critica del
sistema sovietico, essenzialmente attraverso il declino
progressivo della forza politica del Pcf e della sua
influenza sullintelligentsia francese. Quel declino fin
per liberare i socialisti dalla pressione su di essi a lungo
esercitata dal comunismo. I successi della Russia
sovietica dalla seconda guerra mondiale agli anni
Sessanta lesistenza di un modo di produzione e di un
sistema sociale alternativo, caratterizzato dalla drastica
riduzione delle disuguaglianze e dalla piena
occupazione, che era riuscito a sconfiggere il nazismo e
stava attirando nella sua orbita un numero crescente di
Paesi avevano rafforzato considerevolmente i
lavoratori francesi nel conflitto di classe, insieme al Pcf
e alla Cgt. In quelle condizioni il mantenimento della
stabilit sociale dipendeva effettivamente in larga
misura dalla capacit del sistema borghese di mostrarsi
in grado di curare i suoi maggiori limiti storici
disoccupazione, forti disuguaglianze e povert diffusa
che contribuivano ad attirare masse crescenti di
lavoratori verso il comunismo, indipendentemente dal
verificarsi di eventi come quelli del 1956 in Ungheria o
del 1968 a Praga. Ma a partire dalla fine degli anni
Sessanta il quadro cambi sensibilmente, da una parte
per il pieno dispiegarsi del conflitto distributivo interno,
aggravato allinizio e alla fine degli anni Settanta dagli
aumenti del costo del greggio e delle altre materie prime
importate; dallaltro per il peggiorato funzionamento
delleconomia sovietica, che faceva maggiormente
risaltare gli aspetti pi sgradevoli del sistema ed
accresceva limpatto di eventi come la pubblicazione in
prima edizione a Parigi nel 1973 di Arcipelago Gulag di
Solzenicyn, lintervento sovietico in Afganistan alla
fine del decennio e linizio di Solidarnosc in Polonia. In
soli tre anni, tra il 1978 e il 1981, il Pcf perse un terzo dei
suoi iscritti.
In pratica, le incertezze e i timori crescenti suscitati
nelle file del socialismo francese, tra la fine degli anni
Sessanta e la fine degli anni Settanta, dallacutizzarsi
del conflitto distributivo si combinarono allinizio degli
anni Ottanta con la fine della sua soggezione politico-
ideologica nei confronti del Pcf e con un timore
decrescente del comunismo. Questa combinazione
costitu il terreno di coltura dellindebolimento degli
elementi pi progressisti del Ps e del prevalere della
seconda sinistra. Ma la svolta epocale del 1982-1983
difficilmente avrebbe potuto prodursi se gi da diversi
anni la maggior parte della cultura francese di sinistra
non avesse cessato di riconoscersi nellanalisi di classe
della societ, da cui erano invece ancora pervasi sia il
Programme commun che il Projet socialiste.

14. Osserva acutamente Antonio Gramsci in uno dei


suoi Quaderni del carcere, a proposito del fenomeno
generale del trasformismo, che la borghesia non riesce a
educare i suoi giovani, i quali si lasciano attrarre
culturalmente dagli operai e addirittura se ne fanno o
cercano di farsene i capi (inconscio desiderio scrive
il comunista italiano di realizzare essi legemonia della
loro propria classe sul popolo) ma nelle crisi storiche
ritornano allovile. Nel caso della Francia, questo
ritorno allovile, che in un quindicennio trasform
ribellismo e spirito libertario del 1968 in adesione
allideologia liberista, pot nutrirsi di un imponente
retroterra culturale, contrassegnato dal progressivo
allontanamento della cultura di sinistra dallanalisi
marxiana dei fenomeni sociali.
Nelle analisi sociali che nel corso dei ventanni
precedenti la svolta del 1982-1983 divennero la bussola
del pensiero francese di sinistra si cercherebbero
invano riferimenti al conflitto distributivo tra lavoro e
capitale come determinante fondamentale del
cambiamento sociale. La natura conflittuale del sistema
fu progressivamente persa di vista, cos come fin per
essere perso di vista il ruolo dellazione collettiva come
determinante del progresso sociale allinterno del
capitalismo. Negli scritti dei maggiori intellettuali di quel
ventennio di fatto sparirono, insieme alle classi e alla
questione generale dei rapporti di forza tra salariati e
percettori di redditi da capitale e impresa, le questioni
connesse con la capacit dello Stato di influire su tali
rapporti di forza e sullesito del conflitto distributivo.
Storicamente, che i poteri pubblici fossero in grado di
risolvere lo scarto tra obiettivi politici ambiziosi e
vincoli del mondo reale era stata una convinzione
condivisa in Francia tanto dalla sinistra che dalla
destra. Negli scritti dellintelligentsia francese questa
visione illuminista e razionalista del cambiamento
sociale, imperniata sullazione dello Stato e sul ruolo
della regolamentazione e della legge, venne
progressivamente sostituita da una riscoperta del
mercato come efficiente meccanismo decentralizzato di
progresso economico e sociale, manifestazione
insopprimibile non solo della libert e creativit
individuale ma dei contropoteri della societ civile.
Ogni discussione in termini di classi, cos come ogni
insistenza sulla connessione tra conflitto sociale e
dinamica del sistema, tese sempre di pi ad essere vista
come arcaica e scarsamente meritevole di attenzione.
Claude Lvi-Strauss fu il primo autore importante che
contribu ad allontanare la cultura di sinistra dal
marxismo. Allanalisi dei nessi intimi (lespressione
di Marx) propri del modo di produzione capitalistico, lo
strutturalismo contrappose la messa a fuoco di nessi
intimi comuni ad ogni tipo di vita sociale, nessi cos
profondi da far di fatto sparire completamente la storia
in quanto costituenti delle costanti di qualsivoglia
esperienza umana. Per Lvi-Strauss si trattava di
sceverare i fondamenti ultimi della vita in societ; il fine
ultimo delle scienze umane avrebbe dovuto consistere
nel riassorbire le umanit particolari in una umanit
generale nel dissolvere luomo per raggiungere
delle invarianti a partire dalla diversit empirica delle
societ umane. facile rendersi conto di come un simile
programma scientifico avesse ben scarse possibilit di
fornire qualche supporto analitico a un progetto di
rinnovamento in senso socialista della societ francese
della fine del XX secolo.

15. Il vuoto determinato nella cultura francese di


sinistra dal suo allontanamento dal marxismo ad opera
dello strutturalismo e post-strutturalismo fu riempito da
analisi sociali di natura marcatamente impressionistica e
da un diffuso quanto confuso ribellismo ad opera di
autori come Michel Foucault, Jacques Derrida e
Jacques Lacan specialmente del primo di questi tre
autori, probabilmente lintellettuale pi influente in
Francia tra la seconda met degli anni Settanta e la
prima met degli anni Ottanta.
Dopo essersi occupato di follia, malattia, delinquenza e
sessualit, lattenzione di Foucault assorbita dalla
questione della governamentalit o arte di governo.
Nelle sue lunghe giornate onnivore trascorse alla
Bibliothque Nationale de France egli scopre
leconomia politica, pi precisamente il corso delle
cose qual postulato dalla teoria economica
marginalista o neoclassica. La critica delleconomia
politica non sembra interessarlo; di certo, essa
completamente assente nelle frequentatissime lezioni
sulla governamentalit che egli tiene al Collge de
France nel 1978-1979. Lintellettuale francese non
sembra conoscere molto dellanalisi marxiana del
capitalismo e molto probabilmente ignora del tutto i
contributi critici di Keynes e di Sraffa. Per lui Keynes
semplicemente interventismo statale. Dalla letteratura
marginalista Foucault apprende che esiste una
regolamentazione spontanea dei processi economici
una razionalit del mercato che la politica
economica deve conoscere e rispettare per non essere
dannosa oltre che inutile. Ogni intervento governativo
deve basarsi ed essere funzionale a questa regolazione
spontanea del corso delle cose. La compulsione degli
scritti dei classici del marginalismo convince Foucault
che i fenomeni della produzione, della distribuzione e
dello scambio sono analizzabili attraverso procedimenti
di conoscenza analoghi a quelli applicati alla
conoscenza scientifica dei fenomeni naturali. Un buon
governo deve avere dimestichezza con la teoria
economica frutto di questa conoscenza scientifica,
perch in base ad essa che deve modulare le proprie
decisioni. Ci che rende un governo cattivo la sua
ignoranza dellesistenza, dei meccanismi e degli effetti
delle leggi di natura messe a fuoco dalla teoria
economica. Per mezzo di questultima entra nellazione
di governo la questione della verit.
La verit principale che Foucault trae dai contributi dei
fondatori del marginalismo che le condizioni di
persistente concorrenza pura necessarie in tutti i
mercati perch questi possano esprimere tutta la loro
razionalit, assicurando i risultati ottimali postulati
dalla teoria, sono di difficile realizzazione. qui che
entrano in scena i suoi veri eroi. Si tratta degli
ordoliberali, ossia degli anti-keynesiani di lingua
tedesca Walter Eucken, Ludwig von Mises, Friedrich
von Hayek, Wilhelm Rpke specialmente questultimo
le cui tesi costituiscono il punto di riferimento
pressoch esclusivo del suo pensiero sullarte di
governo. Va per detto che nel discorso di Foucault
non risulta mai del tutto chiaro quanto egli faccia
proprio il punto di vista degli ordoliberali. Si ha
limpressione che lintellettuale mantenga
intenzionalmente al riguardo una certa ambiguit, che
gli avrebbe pi agevolmente consentito di correggere il
tiro nelleventualit, per la verit piuttosto remota dato
il carattere di omelia vescovile delle lezioni che si
tengono al Collge de France, di qualche contestazione
da parte del pubblico. (Questa ambiguit ben
espressa da una frase da lui stesso impiegata in un altro
contesto: Ci che io qui dico non esattamente ci
che io penso, ma frequentemente ci che mi chiedo se
non potrebbe essere pensato.) In ogni caso,
eccettuata una prudente presa di distanza da qualche
eccesso di fobia dello Stato alla Rpke, si cercherebbe
invano nel discorso di Foucault una critica delle tesi
liberiste in esso insistite.
Attraverso gli ordoliberali Foucault sembra
convincersi che lessenziale sia appunto la
concorrenza, concepita come un sistema dotato di
rigorose propriet formali ma fragile nella sua esistenza
storica e reale. allora necessario che un buon governo
intervenga per assicurare che entri in funzione la
struttura formale della concorrenza. Gli interventi, che
potranno anche essere altrettanto numerosi che in
uneconomia pianificata, non devono per riguardare i
meccanismi delleconomia di mercato, bens le
condizioni del mercato. Essi devono costituire, nel loro
insieme, una politica attiva senza dirigismo. Una politica
indefinitivamente attiva il presupposto della
concorrenza, vista come un obiettivo storico dellarte di
governo piuttosto che come un dato di natura da
rispettare. La concorrenza pura potr aversi solo se sar
prodotta da una governamentalit attiva; si dovr
governare per il mercato, piuttosto che governare a
causa del mercato.
Per Foucault essere liberali significa dunque
essenzialmente essere progressisti, nel senso di un
continuo adattamento dellordine legale alle scoperte
scientifiche, ai progressi dellorganizzazione e della
teoria economica, ai mutamenti della struttura della
societ e alle esigenze della coscienza
contemporanea. Un regime socialista equivale invece
a una generale perdita di libert, perch ogni tipo di
pianificazione comporta una serie di errori economici la
cui riparazione la riparazione dellirrazionalit
intrinseca alla pianificazione pu essere ottenuta
solo sopprimendo le libert individuali. Foucault
particolarmente attratto dallidea ordoliberale secondo
cui leconomia di tipo assistenziale, leconomia
keynesiana, leconomia protetta e leconomia
pianificata formano un tutto solidamente coerente,
sicch se si persegue uno di questi corsi non sar
possibile sfuggire agli altri tre. E dal momento che lo
Stato portatore di unintrinseca difettosit, mentre
nulla proverebbe che leconomia di mercato abbia simile
difettosit, legittimo chiedere a questultima di
fungere non tanto da principio di limitazione dello
Stato, bens da principio di regolazione interna dello
Stato. Di nuovo, quindi, uno Stato sotto la sorveglianza
del mercato, anzich un mercato sotto la sorveglianza
dello Stato.

16. Con queste premesse, molto probabile che se


non fosse morto prematuramente (1984) Foucault
avrebbe finito per aderire alla fondazione Saint-Simon,
nata nel dicembre del 1982 e che fino al dicembre 1999,
quando cess le sue attivit, gioc un ruolo
considerevole nella diffusione in Francia delle tesi
liberali nella loro versione di sinistra. Scopo della
fondazione, nelle parole del suo segretario generale
Pierre Rosanvallon, era creare e sviluppare una cultura
della modernit, una cultura riformista che superasse
lera ideologica nella quale la sinistra si era rinchiusa.
Ne facevano parte esponenti di primo piano della
politica (tra i quali naturalmente Delors), della stampa,
dellaccademia, dellindustria e della finanza e aveva tra
i suoi soci fondatori intellettuali vicini a Foucault, come
appunto Rosanvallon. Con la sua produzione
intellettuale la sua insistenza sul mercato
internazionale come il regolatore per eccellenza
dellinstallazione in Francia di un nuovo modello di
sviluppo, sulla necessit per un governo veramente
progressista di ricorrere a degli esperti competenti e
neutrali, nonch sul carattere tecnico piuttosto che
politico dei suoi progetti di societ la Saint-Simon
esercit continuativamente in Francia, per circa
ventanni, uninfluenza notevole sulle scelte
governative. Si pu dire che il principale carattere
distintivo dello spirito della fondazione fu il rigetto della
lunga tradizione statalista e centralista francese il
rigetto del colbertismo insieme a quello di aspetti
importanti del giacobinismo. insomma lo spirito che
informa gli scritti degli storici Franois Furet e
Rosanvallon. Il primo interpreta la Rivoluzione francese
non come frutto di lotte di classe, tra la borghesia e
laristocrazia e poi tra la borghesia e il quarto stato,
ma come lotta unitaria per laffermazione degli ideali
liberali; il secondo vede la contemporaneit come un
lungo cammino verso un futuro sempre pi liberale e
democratico. Il loro think tank, oltre ad essere riuscito
per primo a imporre in Francia una concezione del
mercato come valore di sinistra, diede il primo
contributo fondamentale nel continente alla visione
delle lotte sociali come manifestazioni di immobilismo e
di coloro che continuavano a sostenerle come dei
conservatori.
In conclusione, nel corso di un quindicennio, tra la
fine degli anni Sessanta e la prima met degli anni
Ottanta, la cultura francese di sinistra pass dallo
statalismo e dalla confutazione dellegemonia americana
allantisovietismo; dalla demonizzazione dellUrss
allantistatalismo e al rigetto del marxismo, entrambi
visti come antitesi della modernit; dal rigetto del
marxismo al rigetto della stessa tradizione illuminista e
razionalista francese, di cui lanalisi marxiana del
capitalismo e le idee socialiste avevano costituito lo
sbocco principale nel XIX e XX secolo. Linfelice
marxista Louis Althusser pot ben poco contro tutto
questo; piuttosto, egli contribu al dilagare
dellantistatalismo allinterno della cultura di sinistra
con il suo scetticismo circa le possibilit di progresso
sociale attraverso lintervento statale, con la sua
concezione dello Stato come mero strumento della
riproduzione delle condizioni materiali del rapporto di
produzione e sfruttamento e la connessa visione del
servizio pubblico e dellintervento statale in funzione
dellinteresse collettivo come una gigantesca
mistificazione.
La svalutazione da parte della cultura di sinistra della
possibilit, pi spesso come abbiamo visto addirittura
dellopportunit, di riformare il sistema in senso
socialista attraverso lo Stato e le sue istituzioni spian
la strada alla svolta liberista. Sulla scia di quella
francese, anche il resto della sinistra europea via via si
convinse che lo Stato sociale interventista della
vecchia Europa costituiva un modello
irrimediabilmente esaurito e la sua difesa nullaltro che il
retaggio di unideologia arcaica. Dappertutto
eliminazione di vincoli e controlli e accelerazione della
globalizzazione dei mercati vennero considerati
funzionali alla modernizzazione delle realt economiche
e sociali nazionali. E poich nessuna vera difesa delle
sovranit nazionali in campo economico concepibile
senza adeguati controlli pubblici delle transazioni con il
resto del mondo, la tutela stessa di quelle sovranit fin
per essere vista dappertutto, a sinistra, come lostacolo
principale alla modernizzazione. Nelle pagine che
seguono ripercorreremo le tappe principali della corsa
alla modernit compiuta dalla sinistra europea, che in
trentanni, dietro lo schermo di uno sviluppo
tecnologico ininterrotto, ha fatto regredire di un secolo
i rapporti di produzione e di distribuzione.
Nota bibliografica
I testi completi del Programma comune e del
Progetto socialista si trovano in Programme commun
de governement du parti communiste e du parti
socialiste (27 giugno 1972), Introduzione di Georges
Marchais, Editions Sociales, Parigi 1972, e in Parti
Socialiste, Projet Socialiste pour la France des Annes
80, Club Socialiste du Livre, Parigi 1980. Sulle
nazionalizzazioni realizzate in Francia dal governo di
sinistra, e, pi in generale, sui suoi indirizzi di politica
economica, si veda H. Machin e V. Wright (a cura di),
Economic Policy and Policy Making under the
Mitterrand Presidency 1981-84, Francis Pinter, Londra
1985 (in particolare i contributi di C. Stoaffes e di P.
Fabra, pp. 144-169 e 173-183). Sulla prima fase di
quellesperienza di governo, le sue realizzazioni e il
peso che su di essa esercit il vincolo esterno, meritano
di essere visti: J. Sachs e C. Wyploz, The economic
consequences of President Mitterrand, Economic
Policy, aprile 1986; M. Lombard, A re-examination of
the reasons for the failure of keynesian expansionary
policies in France, 1981-1983, Cambridge Journal of
Economics, Vol. 19, 1995; S. Halimi, J. Michie e S. Milne,
The Mitterrand experience, in J. Michie e J.G. Smith (a
cura di), Unemployment in Europe, Academic Press,
Londra 1994; A. Fonteneau e P.A. Muet, La Gauche
face la crise, Press de la Fondation National des
Sciences Politiques, Parigi 1985, e, degli stessi autori,
Le poids de la contrainte extrieure sur la France,
Lettre de lOFCE, n. 3, 23 marzo 1983. Sulla discussione
in Inghilterra relativa alla gestione del vincolo esterno
da parte del governo laburista e la sua esperienza nella
seconda met degli anni Settanta, discussione ed
esperienza scarsamente prese in considerazione dalla
sinistra francese alla vigilia della sua vittoria elettorale,
si veda la nota del Central Policy Review Staff, The
case for and against import controls, Document of Her
Britannic Majestys Government, CP (76), 30 novembre
1976; si vedano anche M. Pivetti, Il controllo delle
importazioni nellimpostazione del Cambridge Economic
Policy Group, Note Economiche, n. 4, 1978, e T.
Pettinger, Jim Callaghan: a successful prime minister?,
E-International Relations, dicembre 2010.
Il cambiamento di rotta subito dal progetto europeo
nel corso degli anni Ottanta su impulso della Francia
pu essere colto con particolare nitidezza confrontando
il rapporto MacDougall del 1977 (Commission of the
European Communities, Report of the study group on
the role of public finance in European integration,
Bullettin of the European Communities, aprile 1977)
con il rapporto Delors sul quale ci siamo soffermati nel
testo (Committee for the Study of Economic and
Monetary Union, Report on Economic and Monetary
Union in the European Community, Office for Official
Publications of the European Communities,
Lussemburgo 1989). Il ruolo della Francia sotto la
presidenza Mitterrand nel processo di liberalizzazione
dei movimenti internazionali di capitali ben illustrato
in R. Abdelal, Le consensus de Paris: la France et les
rgles de la finance mondiale, Critique Internationale,
n. 28, luglio-settembre 2005 (tradotto dallinglese da R.
Bouyssou). Per un breve ma denso ritratto di Francois
Mitterrand, si veda L. Begley, How wily Mitterrand
transformed France, The New York Review of Books, 5
giugno 2014 (si tratta di una recensione del volume di P.
Short, A Taste for Intrigue: The Multiple Lives of
Francois Mitterrand).
La deriva neoliberista della sinistra di governo in
Francia a partire dal 1982-1983 stata illustrata e
discussa in numerosi scritti. Oltre ai gi citati Halimi et
al. e Fonteneau e Muet, si possono utilmente vedere: S.
July, Les annes Mitterrand. Histoire baroque de une
normalisation inacheve, Bernard Grasset, Paris 1986; i
contributi di G. Ross e di J. Jenson in J.F. Nollifield e G.
Ross (a cura di), Searching for the New France,
Routledge, Londra e New York 1991, e, degli stessi due
autori, The tragedy of the French left, New Left
Review, n. 171, settembre-ottobre 1988; A. Liepitz,
Laudace ou lenlisement. Sur les pratiques
economiques de la gauche, Editions La Dcouvert,
Parigi 1984 ; V. Giret e B. Pellegrin, 20 Ans de Pouvoir,
1981-2001, Editions de Seuil, Parigi 2001. Per il
retroterra culturale di quella deriva, abbiamo fatto
particolare riferimento nel testo alle seguenti opere: C.
Lvi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore,
Milano 1964 (spec. Cap. IX); M. Foucault, Sicurezza,
territorio, popolazione e Nascita della biopolitica,
Corso al Collge de France 1978-1979 (lezione del 5
aprile 1978 nel primo di questi due volumi e lezioni dal
10 gennaio 1979 al 4 aprile 1979 nel secondo), Feltrinelli,
Milano 2012; L. Althusser, Marx nei suoi limiti (1978),
Mimesis althusseriana, Milano 2004 (spec. sezioni 12-
16). Sulla fondazione Saint-Simon e il suo ruolo nella
deriva neoliberista della sinistra di governo in Francia,
si veda il gi citato 20 Ans de Pouvoir, 1981-2001 di
Giret e Pellegrin, pp. 198-245, e L. Bonelli, Ces
architectes en France du social-liberism, Manire de
Voir, n. 72, dic. 2003-genn. 2004, pp. 82-85. Dei due soci
pi autorevoli della fondazione, gli storici Francois
Furet e Pierre Rosanvallon, si vedano, rispettivamente,
Critica della rivoluzione francese (1983), Laterza, Bari
2004, e Le modle politique francais. La socit civile
contre le giacobinisme de 1789 nos jours, Le Seuil,
Parigi 2004. Si veda anche P. Anderson, The New Old
World, Verso, Londra e New York 2011, Parte II, cap. 4.
Va infine segnalato il capitolo sullesperimento
francese nel ricco volume di D. Sassoon, Cento anni di
socialismo: la sinistra nellEuropa occidentale nel XX
secolo, Editori Riuniti, Roma 1997, cap. 19. Un limite
importante dellanalisi di Sassoon che in essa
laccelerazione della globalizzazione dallinizio degli
anni Ottanta tende ad essere considerata come un dato,
piuttosto che come un fenomeno in larga misura dipeso
dalle scelte politiche nazionali.
Capitolo IV

La corsa alla modernita: la


mondializzazione

1. La corsa alla modernit compiuta dalla sinistra


europea non stata nei fatti nientaltro che una corsa
allindebolimento progressivo del potere contrattuale
del lavoro dipendente. La sinistra non ha
semplicemente subito il cambiamento delle condizioni di
potere e distributive avvenuto in tutta Europa nel corso
dellultimo trentennio: lo ha in larga misura
consapevolmente deciso e gestito.
La consapevolezza sottostante alla sua azione
modernizzatrice, dalla svolta della sinistra francese
del 1982-1983, chiaramente desumibile dal raffronto
con le idee e le istanze economiche della sinistra
europea nei decenni precedenti. indubbio che per pi
di trentanni dalla fine della seconda guerra mondiale, in
maggiore o minore misura nei diversi Paesi, essa avesse
contribuito con i suoi programmi di riformismo
socialdemocratico a spingere anche le forze politiche
conservatrici ad adoprarsi per cercare di salvaguardare
nel tempo lordine borghese mediante la riduzione della
disoccupazione e delle disuguaglianze e una crescente
protezione sociale dunque mediante il ricorso a linee
di intervento pubblico capaci di realizzare quegli
obiettivi. Si pu dire, a questo riguardo, che nelle
condizioni geo-politiche del primo trentennio
successivo al secondo conflitto mondiale il keynesismo
fosse divenuto in Europa uno strumento formidabile di
azione politica nelle mani sia delle rappresentanze
politico-sindacali dei salariati che in quelle dei loro
avversari di classe: strumento, per le prime, di
rivendicazione consapevole di migliori condizioni
materiali e maggiore sicurezza per i lavoratori;
strumento, per i gruppi dominanti, per contenere
lattrattiva esercitata dal sistema sociale alternativo e
assicurare la stabilit interna, togliendo spazio ai
movimenti di opposizione al capitalismo e al sistema
delleconomia di mercato.
Tra la sinistra e le altre forze politiche presenti nei
maggiori Paesi europei esistevano naturalmente delle
differenze importanti circa la misura in cui pieno
impiego ed equit distributiva andassero effettivamente
perseguiti. Cinondimeno nessuno avrebbe allora
negato che il contenimento della disoccupazione, una
distribuzione del reddito socialmente tollerabile e livelli
adeguati di protezione sociale implicassero da parte dei
rispettivi governi nazionali sia un controllo completo
della politica monetaria e di bilancio, che un controllo
delle transazioni con il resto del mondo tanto pi
articolato quanto pi ciascun Paese avesse scelto di
puntare sullespansione continua del proprio mercato
interno per assicurarsi una crescita stabile. Ritorniamo
sulla concezione del ruolo di questi controlli nei Trenta
gloriosi del capitalismo europeo, per poi mettere meglio
a fuoco come il loro abbandono abbia prodotto il
progressivo indebolimento del potere contrattuale del
lavoro dipendente e il cambiamento delle condizioni
distributive cui abbiamo assistito nel corso degli ultimi
trentanni.

2. Consideriamo innanzitutto la questione del controllo


della politica monetaria e della politica di bilancio da
parte dei governi nazionali. Fino alla fine degli anni
Settanta, una separazione della politica monetaria dalla
politica economica generale dei governi sarebbe
apparsa semplicemente inconcepibile. E altrettanto
inconcepibile sarebbe di conseguenza apparso un
regime di indipendenza politica della banca centrale. La
consapevolezza diffusa che la moneta e i fenomeni
monetari hanno effetti reali ossia effetti sulla
distribuzione del reddito, i livelli occupazionali e il
benessere sociale portava a guardare alla politica
monetaria come a una componente importante della
politica economica generale, di cui i governi in carica
dovessero assumersi per intero la responsabilit. Da
una parte la possibilit di creare moneta era da tutti
considerata come il principale dei poteri economici
pubblici; dallaltra si riteneva che il controllo dei tassi di
interesse interni rientrasse tra i compiti principali dei
governi, dal loro livello dipendendo lonere del servizio
dei debiti, gli stessi costi dei beni prodotti allinterno e
la loro competitivit sui mercati internazionali, la
dinamica del debito pubblico in rapporto al prodotto e
la distribuzione del reddito disponibile. Posto che la
spesa pubblica sarebbe stata perlopi finanziata da un
prelievo fiscale improntato a criteri di marcata
progressivit, bisognava riuscire a finanziare a tassi di
interesse i pi bassi possibile gli aumenti della spesa
necessari a contenere disoccupazione e squilibri sociali
ogniqualvolta essi avessero comportato dei disavanzi
pubblici.
Non solo quindi era allora ritenuto pressoch
inconcepibile che le decisioni concernenti i tassi di
interesse potessero essere delegate a degli organismi
tecnici indipendenti dai governi e politicamente
irresponsabili, ma si riteneva che i governi dovessero
altres disporre degli strumenti necessari al controllo
effettivo del loro livello. Da qui limportanza attribuita al
controllo dei movimenti internazionali dei capitali, senza
il quale il livello dei tassi di interesse non avrebbe
potuto essere deciso dalle autorit nazionali di governo
perch esso sarebbe stato invece dettato dallobiettivo
di impedire deflussi di capitali incompatibili con il
necessario equilibrio nel tempo della bilancia dei
pagamenti, nonch con la politica del tasso di cambio
prescelta. Questa perdita della sovranit monetaria
avrebbe poi condotto di fatto anche alla perdita di
buona parte della sovranit fiscale, ossia della libert di
ciascuna nazione di decidere livello e composizione
delle sue spese pubbliche, nonch le forme della
tassazione. Avendo infatti rinunciato alla possibilit di
stabilire il livello dei tassi di interesse interni, i governi
avrebbero difficilmente potuto evitare una crescita del
debito pubblico in rapporto al prodotto senza ricorrere
alla formazione di avanzi primari, tanto maggiori quanto
pi alti i tassi di interesse e lo stock accumulato di
debito. E siccome la libert di movimento dei capitali
avrebbe costretto ad evitare qualsivoglia circostanza
suscettibile di provocarne la fuga, sistemi di tassazione
benevolmente orientati verso il capitale sarebbero
divenuti una scelta obbligata, sicch nelle politiche di
bilancio restrittive finalizzate alla formazione di avanzi
primari il ruolo di gran lunga maggiore avrebbe finito
per dover essere assegnato alle imposte sui redditi da
lavoro, allimposizione indiretta e al contenimento della
spesa sociale. Tanto la minore progressivit
dellimposizione che le riduzioni delle spese sociali
avrebbero infine depresso i livelli di attivit e
loccupazione.
La consapevolezza relativa alla necessit del controllo
dei capitali, per scongiurare il ritorno a livelli di
disoccupazione pre-bellici, non era appannaggio
esclusivo della sinistra interna ad ogni nazione.
Larticolo VI degli accordi di Bretton Woods del 1944
non solo riconosceva il diritto di ogni governo di
ricorrere ai controlli, ma contemplava altres, per i Paesi
che avessero fatto ricorso ai finanziamenti del Fondo,
lobbligo di esercitarli per arrestare il deflusso di
capitali. Nel maggio di quello stesso anno Keynes
poteva cos dichiarare davanti alla Camera dei Lord che
ci che nel sistema pre-bellico, nel campo dei movimenti
internazionali dei capitali, sarebbe stato considerato
una eresia aveva finito per essere avvallato come
perfetta ortodossia. Di quellortodossia faceva parte
il convincimento che la crescita di ciascuna nazione
trainata dalla sua domanda interna, alimentando anche
lespansione degli scambi internazionali, avrebbe
contribuito a sostenere la crescita di tutte le altre, come
di fatto in larga misura si verific nei trentanni
successivi.
Come abbiamo illustrato nel secondo capitolo, tra la
fine degli anni Settanta e la prima met degli anni
Ottanta le economie europee iniziarono ad essere
esposte a una forte accelerazione del processo di
mondializzazione, in ciascuna delle sue tre dimensioni
fondamentali: capitali, merci e forza lavoro. Il favore
accordato dalla sinistra a ciascuna di queste tre
dimensioni del processo di mondializzazione economica
ha determinato il crollo del potere contrattuale dei
salariati e il conseguente cambiamento distributivo.

3. Da Bretton Woods fino alla fine degli anni Settanta,


il mantenimento della sovranit nazionale nei campi
monetario e fiscale attraverso il controllo dei capitali
aveva effettivamente costituito la colonna portante
delle politiche di pieno impiego e redistributive
perseguite dai governi dei principali Paesi capitalistici.
La successiva liberalizzazione dei movimenti di capitali,
specialmente nel contesto europeo, pu considerarsi
come lepitome assoluta dellabbandono di quelle
politiche per pi di un motivo. Oltre che attraverso la
perdita del controllo dei tassi di interesse interni e della
sovranit fiscale, la liberalizzazione dei movimenti di
capitali ha inciso sulla distribuzione tra salari e profitti
perch ha eliminato lostacolo principale al
perseguimento da parte delle imprese dellobiettivo di
localizzare per quanto possibile i processi produttivi
laddove il costo del lavoro minimo, generando ingenti
flussi di investimenti in impianti e attrezzature verso i
Paesi in via di sviluppo. Questi flussi hanno
determinato distruzione e minore formazione di capacit
produttiva allinterno dei Paesi pi sviluppati,
specialmente nel settore manifatturiero, e maggiore
formazione di capacit in quelli in via di sviluppo, per lo
pi destinata a produrre merci da esportare verso gli
stessi Paesi di provenienza degli investimenti diretti.
Con la libera mobilit dei capitali si cos verificata, nel
corso degli ultimi tre decenni, una massiccia
sostituzione di produzione manifatturiera interna con
importazioni di manufatti dai Paesi dellestremo oriente,
dallIndia e dal Bangladesh, dallAmerica latina, dal
Maghreb e dallAfrica del Sud, dai Paesi dellex blocco
sovietico. Alleffetto depressivo sui salari determinato
dallimpatto negativo di questo processo di
sostituzione sui livelli occupazionali, va aggiunto
quello determinato dalla minaccia delle delocalizzazioni,
la quale, resa credibile da quelle gi avvenute grazie al
regime di libera circolazione dei capitali, ha finito per
indurre i lavoratori e i loro sindacati ad accettare salari
minori e maggiore flessibilit.
Va poi tenuto conto del ruolo svolto dallaccresciuta
apertura commerciale. Il processo di sostituzione di
produzione interna con importazioni avvenuto in questi
ultimi decenni con la benedizione della sinistra europea
non riconducibile ai soli flussi di investimenti diretti
verso i Paesi in via di sviluppo. Esso stato pi in
generale il prodotto dellaccresciuta apertura alle
importazioni dai Paesi a basso costo del lavoro. La
conseguente maggiore concorrenza da essi esercitata
ha abbassato i prezzi di molti beni finali di consumo e
dei loro mezzi di produzione sul mercato internazionale,
contribuendo al contenimento dei tassi di inflazione nei
Paesi industrialmente avanzati. Ma nonostante la
minore inflazione, in questi Paesi leffetto netto sui
salari stato negativo. In pratica, la pressione al
ribasso sui salari monetari e il costo del lavoro
esercitata dallapertura commerciale ha pi che
compensato il contenimento dellinflazione da essa
determinato. In sintesi, la deindustrializzazione prodotta
dallaumento degli investimenti in impianti e
attrezzature nei Paesi in via di sviluppo a bassi salari e
dallaumento delle importazioni da quegli stessi Paesi
ha ridotto il potere contrattuale dei salariati, attraverso
non soltanto il suo impatto sul livello e la composizione
del prodotto (con il ridimensionamento del settore
manifatturiero in rapporto a quello dei servizi,
caratterizzato da salari pi bassi e condizioni di lavoro
pi precarie), ma pure attraverso gli effetti sui salari
monetari esercitati dalla concorrenza dei prezzi
internazionali decrescenti di una gamma sempre pi
ampia di beni e dalla minaccia delle riallocazioni
produttive.
Nella tradizione della sinistra europea, pi in generale
allinterno della cultura economica e politica pi
progressista, il ricorso a forme di protezionismo non era
mai stato escluso. Gi alla fine dellOttocento in Francia
Jean Jaurs sosteneva davanti alla Camera dei deputati
che una nazione governata dai socialisti, pur
mantenendo molteplici e crescenti relazioni con il resto
del mondo, avrebbe tuttavia fatto ricorso a prodotti
importati solo nella misura in cui essi fossero stati
indispensabili al suo sviluppo. Dal canto suo John
Maynard Keynes, in un noto passo scritto nel 1933,
argomentava, a proposito delle relazioni economiche tra
nazioni, che ci che per sua stessa natura dovrebbe
essere internazionale sono le idee, la conoscenza, larte,
i viaggi, lospitalit. Ma che i beni siano prodotti
allinterno ogniqualvolta questo sia ragionevolmente e
convenientemente possibile; e, soprattutto, si faccia in
modo che la finanza sia eminentemente nazionale. E
ancora nel 1957, in Francia, la Cgt si pronunciava
allunanimit contro listituzione del Mercato comune
europeo, denunciando per bocca del suo segretario
generale, Benoit Frachon, i danni che esso avrebbe
arrecato allindipendenza economica della nazione.
La sostituzione di produzione interna con importazioni
sperimentata in Europa in questi ultimi tre decenni non
avrebbe mai potuto avvenire senza una preliminare
conversione della sinistra europea al libero scambio,
conversione che proprio a partire dalla Francia (cfr. il
capitolo precedente) si andata diffondendo in tutto il
continente. La progressiva sottomissione degli Stati
delle loro leggi, regolamenti e procedure amministrative
alle regole di una concorrenza internazionale sempre
pi impermeabile a ogni norma sociale sanitaria e
ambientale, sarebbe stata impossibile senza il prevalere
a sinistra di una cultura della modernit, una cultura
riformista insistente sul ruolo del mercato
internazionale come regolatore per eccellenza
dellattivit degli Stati. Tanto la gi ricordata creazione
allinizio del 1995 dellOrganizzazione mondiale del
commercio che tutti i successivi sforzi di fare del libero
scambio un progetto di civilt imperniato su un potere
statale esercitato al servizio degli interessi delle imprese
dal progetto per lAccordo multilaterale sugli
investimenti, ai pi recenti tentativi di stipulare un
Accordo sul commercio dei servizi, di istituire un
Grande mercato transatlantico tra lEuropa e gli Stati
Uniti e di istituzionalizzare il trasferimento di potere dai
tribunali amministrativi nazionali a dei tribunali
internazionali di arbitrato privato in materia di contrasti
tra le leggi nazionali e gli interessi delle multinazionali
sono stati essenzialmente lesito della mitizzazione
delliniziativa privata e della concorrenza anche da parte
della sinistra, dellaver finito questultima per attribuire
unintrinseca difettosit o irrazionalit a ogni forma
di controllo del mercato da parte dello Stato.

4. Va infine tenuto conto della crescita della forza


lavoro immigrata. Questo aspetto della mondializzazione
e i suoi effetti sul potere contrattuale dei salariati
meritano unattenzione particolare. In primo luogo, per
le peculiarit della libera circolazione dei lavoratori, la
cui capacit di imporsi ha rivelato in Europa una
dinamica diversa e molto pi complessa della libera
circolazione delle merci e dei capitali. In secondo luogo,
perch lostilit del lavoro dipendente indigeno
allimmigrazione, la dimensione pi immediatamente e
fisicamente percepita della mondializzazione, ha di
fatto determinato il suo distacco definitivo dalla
cosiddetta sinistra del continente.
Abbiamo accennato nel secondo capitolo a un certo
grado di improvvisazione e incoerenza che caratterizz
il modo in cui gli Stati avevano affrontato la questione
dellimmigrazione nel periodo dellalta crescita. Alla fine
della seconda guerra mondiale, tuttavia, i pubblici
poteri avevano ben chiaro che non era possibile
lasciare nelle mani degli industriali la gestione
dellafflusso e del reclutamento della manodopera
straniera. Le due principali linee di azione che vennero
poste in campo furono la strategia integrazionista
francese e la strategia tedesca del lavoratore ospite.
Riconsideriamole brevemente.
In Francia, la creazione nel 1946 dellOffice national de
limmigration (Oni) riuniva Stato, padronato e sindacati
al fine di affrontare il problema della scarsit delle forze
di lavoro determinatosi dopo il secondo conflitto
mondiale. I principi ispiratori dellOni erano quelli di
assicurare unimmigrazione controllata, il monopolio
dello Stato nel reclutamento e lintegrazione degli
immigrati nella societ francese. Formalmente lazione
doveva essere egalitaria; in concreto venne stabilita
una chiara scala di preferenze privilegiando le
popolazioni europee vicine: gli italiani in primo luogo,
poi i belgi e gli europei del nord. Per le altre popolazioni
europee (spagnoli, portoghesi eccetera) non vi era n
preferenza n tantomeno esplicita avversione.
Questultima invece era totale nei confronti dei nord-
africani (degli algerini in particolar modo). Se fino al
1955 la politica discriminatoria e dirigista fu efficace (nel
1954 vi erano in Francia meno stranieri che nel 1946), a
partire da quellanno inizi a prevalere lidea che
unimmigrazione libera fosse pi consona alle esigenze
del sistema produttivo francese. La modalit di ingresso
irregolare dei sans-papiers venne incentivata e lOni
relegato al ruolo di passivo legalizzatore dei flussi
clandestini. Il passaggio da unimmigrazione controllata
e legale ad unimmigrazione incontrollata e clandestina
si intensific sulla spinta di una convergenza tra gli
industriali e i pubblici poteri ormai convintisi, come
rilevato senza troppi giri di parole da Pompidou nel 1963
allAssemblea Nazionale riunitasi per discutere un
accordo per importare lavoratori dal Marocco, che
limmigrazione un modo per creare una certa
distensione sul mercato del lavoro e di resistere alla
pressione sociale.
Questorientamento mut nuovamente con la circolare
Massenet del 1968, che viet le regolarizzazioni a
posteriori, dando avvio ad una nuova fase
regolamentatrice che divenne sistematica con
lattuazione, nel 1974, di una politica restrittiva
appoggiata sia dalla destra che dalla sinistra e mirante a
programmare gli afflussi, bloccare definitivamente gli
ingressi clandestini e regolarizzare gli immigrati presenti
nel Paese. Il numero degli ingressi fu tuttavia sostenuto
dalle politiche dei ricongiungimenti. Il fenomeno
continu per un suo moto inerziale, assumendo nuovi
connotati: se da un lato larrivo di mogli e figli appariva
come un passo necessario verso lagognata
integrazione del lavoratore straniero nella societ
francese, dallaltro poneva le premesse per la
segregazione di intere comunit.
Per alcuni versi, le vicende tedesche furono analoghe
a quelle francesi. Se escludiamo la fase dal 1945 al 1961,
caratterizzata dai consistenti afflussi dei tedeschi
espulsi dalla zona est del Reich Polonia, Ungheria,
Cecoslovacchia, Jugoslavia ed in seguito dei tedeschi
della Rdt, anche in Germania nel periodo dal 1961 al
1973 si registrarono massicci ingressi di lavoratori
stranieri fortemente regolati dallo Stato, a cui segu una
fase di arresto durata dal 1973 fino alla caduta del muro
di Berlino. In Germania, a met degli anni Cinquanta, nel
corso del cosiddetto miracolo economico, divenne
evidente che il solo contributo degli ingressi di
manodopera altamente qualificata dei tedeschi etnici e
dellest non era sufficiente a sostenere il processo di
indebolimento e marginalizzazione dei sindacati
avviatosi nel dopoguerra (tra il 1951 e il 1955 il tasso di
sindacalizzazione dei lavoratori tedeschi era sceso da
un picco del 36 per cento al 32 per cento). Ricorrere ai
lavoratori stranieri consent pertanto di continuare ad
esercitare unazione disciplinatrice sui salari,
permettendo ai lavoratori indigeni pi qualificati di
spostarsi dagli impieghi a bassa specializzazione a
quelli pi specializzati e meglio retribuiti. Per conciliare
queste esigenze con la loro indisponibilit ad attuare
politiche integrazioniste, i tedeschi fecero ricorso al
sistema del Gastarbeiter: al lavoratore ospite
sarebbero stati accordati permessi di soggiorno di
breve durata e revocabili, scaduti i quali essi dovevano
abbandonare la Germania. Un enorme schema di
rotazione degli immigrati venne montato nel tentativo di
soddisfare anche nel pi lungo periodo le esigenze di
manodopera a basso costo dellindustria tedesca,
evitando al contempo ogni radicamento del lavoratore
straniero, da considerarsi appunto solo
temporaneamente ospite allinterno del Paese. (Il
primo accordo in tal senso fu raggiunto nel 1955 con il
governo italiano, ansioso di alleggerire le tensioni
generate nel sud del Paese dagli altissimi livelli di
disoccupazione e di assicurarsi al contempo una fonte
di rimesse in valuta.) Nel 1973 il numero dei lavoratori
stranieri presenti in Germania raggiunse il picco di 2,6
milioni, ossia il 12 per cento di tutti i salariati tedeschi. I
saldi tra gli elevati flussi annui di ingressi e espulsioni
erano infatti diventati stabilmente positivi tra il 1968 e il
1973, nellordine di circa 400 mila ingressi annui,
segnando una crisi del modello della rotazione. Le
imprese, trovando troppo oneroso continuare a istruire
nuovi lavoratori, ottennero un allentamento della
disciplina dei rinnovi dei permessi di soggiorno e si
inizi a sviluppare la pratica dei ricongiungimenti.
Il quadro mut radicalmente a partire appunto dal 1973.
Il manifestarsi di eccedenze di manodopera in tutti i
principali settori delleconomia causato dal
rallentamento della crescita e lingresso nel mercato del
lavoro dei nati nel boom demografico dellimmediato
dopoguerra portarono ad un radicale mutamento della
politica migratoria: interdizione del reclutamento
straniero, preferenza per loccupazione dei disoccupati
tedeschi, blocco dei rinnovi dei permessi di soggiorno
per le mogli e i figli ricongiuntisi dopo il 1974, arresto
dei flussi interni nei Lnder in cui la presenza degli
stranieri era superiore al 12 per cento. Il rallentamento
della crescita aveva dato uno spazio politico alla
consapevolezza che il sistema della rotazione non era
stato in grado di impedire il radicamento dei lavoratori
stranieri sul territorio tedesco.
In Germania come in Francia, laumento della
disoccupazione ebbe quindi come effetto immediato il
ritorno ad una concezione vincolistica molto forte dei
movimenti internazionali dei lavoratori (con caratteri pi
accentuati in Germania, dove il pi limitato ricorso alla
pratica dei ricongiungimenti familiari avrebbe
determinato un numero complessivo di presenze
straniere costante se non in leggero calo per oltre un
decennio). Ma la libera circolazione delle persone
riprese allinizio degli anni Novanta. Secondo i dati
delle Nazioni Unite, la popolazione nata allestero
presente sul territorio francese pass dai 5,9 milioni del
1990 a 7,8 milioni del 2015 (dal 10,4 per cento al 12,1 per
cento della popolazione totale); quella sul territorio
tedesco dai 5,9 milioni del 1990 ai 12 milioni del 2015
(dal 7,5 per cento al 15 per cento della popolazione
totale); quella nel Regno Unito dai 3,7 milioni del 1990 a
8,5 milioni del 2015 (dal 6,4 per cento al 13,2 per cento
della popolazione totale); quella sul territorio italiano
dagli 1,5 milioni del 1990 a 5,8 milioni del 2015 (dal 2,5
per cento al 9,7 per cento della popolazione totale).
Sufficientemente forti da aspirare alla conquista di uno
spazio per i propri valori culturali e religiosi, meno
disposti del lavoratore immigrato isolato ad aderire ai
principi condivisi che fungevano da collante delle
societ ospitanti, di fatto posti ai margini di quelle
stesse societ, questi gruppi sociali costituirono in
misura crescente la principale fonte di rinnovo della
popolazione, dato il loro pi elevato tasso di natalit, e
si radicarono nelle periferie dei grandi agglomerati
urbani.

5. Tre ordini di circostanze hanno soprattutto


contribuito, in assenza di un inasprimento di limitazioni
e controlli, allaumento del numero relativo di lavoratori
immigrati sperimentato nel corso degli ultimi decenni
dai maggiori Paesi europei. Il primo fu la crisi e il
successivo collasso del blocco sovietico, che a partire
dalla met degli anni Ottanta determinarono in Europa
occidentale unespansione senza precedenti dellofferta
di lavoro qualificato a basso prezzo. Il secondo fu il
cosiddetto consenso di Washington: limposizione
sistematica di condizioni molto onerose ai Paesi
beneficiari degli interventi degli organismi finanziari
internazionali austerit monetaria, drastiche riduzioni
delle spese pubbliche, privatizzazioni che ha a lungo
favorito lespulsione di forza lavoro dai Paesi
sottosviluppati o in via di sviluppo, contribuendo alla
creazione di condizioni di offerta di lavoro a basso
prezzo pressoch illimitata per i Paesi industrialmente
pi avanzati. Al collasso del sistema sovietico e agli
effetti economici del consenso di Washington si
sono aggiunti negli anni pi recenti gli effetti dei
conflitti e delle distruzioni in numerosi Paesi del Medio
Oriente e dellAfrica. Le popolazioni in fuga da quei
Paesi hanno alimentato un terzo ingente flusso
migratorio verso lEuropa. Esso pu considerarsi come
un effetto indesiderato, probabilmente anche
ottusamente inatteso, delle devastazioni geopolitiche
causate nellultimo quindicennio dagli interventi militari
degli Stati Uniti e dei loro alleati europei e medio-
orientali, ed stato, per cos dire, la goccia che ha fatto
traboccare il vaso: lostilit nei confronti degli immigrati
ormai condivisa in Europa dai due terzi della
popolazione, rendendo il problema sempre pi
difficilmente gestibile da parte dellUnione europea, con
pesanti ricadute negative sulla sua coesione interna.
Gli effetti depressivi dellimmigrazione sui salari
dovrebbero essere i pi ovvi, in quanto essa si traduca,
per le economie pi sviluppate, in unofferta di lavoro a
basso prezzo praticamente illimitata. Anche quando si
tratti di manodopera non qualificata, o scarsamente
qualificata, limpatto del fenomeno non resta
circoscritto ai livelli pi bassi della scala delle
retribuzioni ai salari della forza lavoro indigena pi
direttamente esposta alla concorrenza degli immigrati
ma tende ad estendersi ai gradini immediatamente
superiori della scala delle retribuzioni, abbassandone il
livello. (Gli effetti depressivi dellimmigrazione sui salari
sono assimilabili a quelli esercitati da riduzioni
progressive del salario minimo, laddove questo istituto
esista.) Ora, dei tre principali aspetti economici della
mondializzazione, quello del flusso crescente di
lavoratori immigrati naturalmente il pi direttamente
subito, quindi anche quello pi apertamente osteggiato,
dai salariati dei maggiori Paesi europei; allo stesso
tempo, per, i suoi effetti negativi sui salari vengono
per lo pi negati nella letteratura economica corrente ed
esso anche laspetto della mondializzazione che gode
del maggior favore da parte della sinistra. La netta
ostilit del lavoro dipendente indigeno allimmigrazione,
proprio perch rifiutata dalla sinistra europea come
tema politico, ha notevolmente contribuito alla perdita
della sua base sociale.

6. In una lunga lettera al rettore della moschea di


Parigi, pubblicata dal LHumanit il 6 gennaio 1981,
lallora segretario del Pcf Georges Marchais scriveva:

padronato e governo francesi stanno ricorrendo


allimmigrazione massiccia come in altri tempi alla
tratta dei Neri per procurarsi una manodopera di
moderni schiavi, super sfruttati e sottopagati. Grazie
ad essa si realizzano profitti maggiori e si esercita una
pressione pi intensa sui salari, le condizioni di
lavoro e di vita, i diritti dellinsieme dei lavoratori,
tanto immigrati che francesi. [] Bisogna fermare
limmigrazione se non si vogliono condannare altri
lavoratori alla disoccupazione. [] Per essere pi
precisi: dobbiamo bloccare limmigrazione, tanto
quella clandestina che quella ufficiale, ma non
cacciare con la forza i lavoratori immigrati gi presenti
in Francia. [] In quelli che sono ormai dei veri e
propri ghetti, gi si trovano ammassate famiglie con
tradizioni, lingue e modi di vivere differenti. Ne
derivano tensioni e scontri tra immigrati di diversa
provenienza nonch rapporti sempre pi difficili con i
francesi. Al crescere della concentrazione, la carenza
di alloggi si aggrava, ledilizia popolare diviene
sempre pi difficilmente accessibile alle famiglie dei
lavoratori francesi. I costi dellassistenza ai lavoratori
immigrati e alle loro famiglie che vivono in condizioni
di indigenza diventano sempre pi insostenibili per i
bilanci dei comuni maggiormente interessati in
quanto i pi popolati da operai e impiegati. La scuola
non riesce pi a far fronte alla situazione, ritardi
nellapprendimento si accumulano, tanto per i figli
degli immigrati che per quelli dei lavoratori francesi.
[] I livelli di guardia sono stati raggiunti. Non pi
possibile trovare delle soluzioni adeguate se non si
mette fine alla situazione intollerabile creata dalla
politica razzista del padronato e del governo
(corsivo aggiunto).

Nel corso della campagna presidenziale del 1981


Marchais e i comunisti insistettero sulla questione,
cogliendo ogni occasione per difendere le condizioni di
vita dei salariati francesi sempre pi compromesse dalla
presenza dei moderni schiavi, super sfruttati e
sottopagati. Ma i comunisti si ritrovarono
completamente isolati. La stampa, tanto di destra che di
sinistra (Liberation), insieme a schiere di intellettuali e
artisti, fecero a gara nel denunciare il razzismo del
Pcf. Nel suo libro Le suicide francais (2014), ric
Zemmour scrive che Marchais fu ridicolizzato e
insultato e che il Pcf capitol, rinunciando a combattere
limmigrazione, a seguito di una riunione del suo ufficio
politico nel corso della quale il segretario venne
convinto dai suoi compagni che il partito non era in
grado di resistere al mitragliamento mediatico-politico.
Quella sconfitta lasci tracce profonde e durature a
tal punto che dopo di allora vi furono due soli tentativi
degni di nota, allinterno della sinistra in Europa, di
contrastare limmigrazione, entrambi miseramente falliti:
quello compiuto in Germania da Oskar Lafontaine,
allinizio del cancellierato di Gerhard Schrder, prima di
dimettersi nel 1999 tanto da ministro dellEconomia che
da presidente della SPD, e quello compiuto in Francia
dal solito Chevnement, prima di dimettersi nel 2000 da
ministro dellInterno del governo di Lionel Jospin.
Nel corso dellultimo trentennio, non solo per la
sinistra modernista ma anche per la sinistra cosiddetta
antagonista la difesa della sovranit nazionale in campo
economico, pi in generale della sovranit popolare, ha
cessato di essere bussola di azione politica. Essa rigetta
con orgoglio ogni forma di nazionalismo. La sua
ideologia ormai essenzialmente costituita da una
miscela di antirazzismo e multiculturalismo, una sorta di
cosmopolitismo intriso di marxismo volgare, visto cio
come un aspetto ineluttabile di quella forza
continuamente sovvertitrice del capitalismo che
sarebbe reazionario oltre che insensato cercare di
contrastare ed alla quale conviene invece adattarsi
come ad unopportunit. Cos, per quanto riguarda la
questione dellimmigrazione, mentre come abbiamo
appena ricordato ancora allinizio degli anni Ottanta
razzisti erano per la sinistra di classe padronato e
governo, che attraverso limmigrazione stavano
alimentando la formazione di un esercito di schiavi
moderni super sfruttati e sottopagati, per la sinistra
antagonista razzista ogni manifestazione di
esasperazione popolare nei confronti di questa massa
crescente di moderni schiavi, capace di compromettere
gli esiti principali del conflitto di classe livelli salariali,
condizioni di lavoro, protezione sociale e di
sconvolgere le condizioni di vita di interi quartieri. Il
fatto che tra lavoratori indigeni e lavoratori immigrati
non pu esserci che concorrenza e conflitto quando i
secondi siano disposti ad accettare salari e condizioni
di lavoro e di vita inaccettabili per i primi. Tutta la storia
del capitalismo mostra in modo chiaro che tra lavoratori
di diversa provenienza e coscienza di classe non pu
esservi alcuna unione o solidariet. Gi nel 1870 Marx
scriveva in una lettera inviata a New York a Sigfrid
Meyer e a August Vogt:

Ma ci che pi conta che attualmente in Inghilterra


ogni centro industriale e commerciale dispone di una
classe lavoratrice divisa in due campi ostili, i proletari
inglesi e i proletari irlandesi. Il normale lavoratore
inglese odia il lavoratore irlandese come un
concorrente che abbassa il suo standard di vita. []
Questo antagonismo il segreto dellimpotenza della
classe lavoratrice inglese, nonostante la sua
organizzazione. il segreto attraverso il quale la
classe capitalista conserva il suo potere.

Lunione dei proletari di tutto il mondo nel conflitto


di classe interno a ciascuna nazione inconcepibile, a
meno di ipotizzare che i rapporti di forza tra capitale e
lavoro siano sufficientemente omogenei nei diversi
contesti geopolitici. Prima vengono i rapporti di forza
allinterno delle singole nazioni e i loro esiti: se questi
sono abissalmente diversi, allora nelle nazioni pi
sviluppate un conflitto interno alla classe lavoratrice,
indigena e immigrata, inevitabile, con conseguente
indebolimento generale del suo potere contrattuale.
Naturalmente, vi sono forme diverse dall accoglienza
fraterna degli immigrati per esprimere solidariet di
classe nei confronti dei lavoratori dei Paesi meno
sviluppati. Opporsi, come nel corso dei Trenta gloriosi,
a ogni forma di aiuto a quei Paesi che non sia
subordinato al perseguimento effettivo di politiche di
crescita delloccupazione e rivendicare lerezione di
barriere doganali contro le importazioni da Paesi ad
infimo costo del lavoro sono due forme concepibili di
tale solidariet.

7. Gli effetti depressivi dellimmigrazione sui salari


erano in passato riconosciuti anche dagli economisti
ortodossi. Cos il premio Nobel Paul Samuelson, nella
sesta edizione (1964) del suo influente libro di testo,
scriveva:

Contenendo lofferta di lavoro, politiche limitative


dellimmigrazione tendono a mantenere elevati i salari.
Al riguardo va tenuto presente il seguente principio
di base: limitazioni dellofferta di qualsiasi tipo di
lavoro relativamente a tutti gli altri fattori produttivi
tenderanno a far aumentare i salari; un aumento
dellofferta, tutto il resto rimanendo invariato, tender
invece a deprimerli.

Ragionando insomma sulla base di una spiegazione


della distribuzione del reddito in termini di funzioni di
domanda e offerta di fattori produttivi, limmigrazione
deprime i salari semplicemente perch aumenta lofferta
di lavoro. Ma lapprovazione incondizionata e fideistica
di ogni aspetto della mondializzazione da parte degli
economisti ortodossi ha prodotto nel corso degli ultimi
trentanni una voluminosa letteratura di carattere
empirico in cui si tende a negare che limmigrazione
abbia effetti significativi sui salari nei Paesi interessati
dal fenomeno. Qualsiasi misurazione dellimpatto
dellimmigrazione sui salari resa estremamente
problematica dal fatto che sul loro livello e andamento
agiscono continuamente una molteplicit di circostanze
che non restano immutate a fronte di variazioni dei
flussi migratori. Cos, lassenza di una significativa
correlazione negativa tra immigrazione e salari, come ad
esempio quella riscontrata nel corso degli anni
Sessanta con lapprossimarsi del pieno impiego, pu
significare ben poco se non possibile escludere che
senza immigrazione il livello medio dei salari sarebbe
stato maggiore di quello effettivamente verificatosi. Pi
interessanti sono perci le ragioni teoriche che
vengono tirate in ballo per tentare di spiegare lassenza
di un significativo effetto depressivo dellimmigrazione
sui salari quale risulterebbe dallanalisi empirica.
Per una prima spiegazione, limmigrazione avrebbe s
effetti depressivi sui salari ma essi sarebbero solo
temporanei; nel pi lungo periodo tenderebbero a
sparire grazie alla maggiore formazione di capitale
determinata dai pi alti profitti e dalla conseguente
maggiore offerta di risparmio. La maggiore formazione
di capitale si tradurrebbe in un aumento della domanda
di lavoro, capace di neutralizzare leffetto sul salario
dequilibrio dellaccresciuta offerta di lavoro dovuta
allimmigrazione. Questo tipo di spiegazione poggia
naturalmente sulla validit del postulato tradizionale
della dipendenza degli investimenti dai risparmi;
chiunque riconosca che il volume delle decisioni di
investimento invece indipendente dallofferta
(potenziale) di risparmio, e riconosca al contempo che
minori livelli di consumo influiscono negativamente
sulla formazione di capitale perch indeboliscono
lincentivo ad investire, non avr alcuna difficolt ad
ammettere il carattere persistente della tendenza
dellimmigrazione ad esercitare un impatto negativo sui
salari. Una seconda e pi frequente spiegazione insiste
piuttosto sulla non-sostituibilit tra lavoro immigrato e
lavoro indigeno, vale a dire sul postulare
implausibilmente che la forza lavoro immigrata
costituisca unenclave non in grado di incidere sul
salario del lavoro indigeno, che dipenderebbe solo dalla
quantit disponibile di questultimo. Uneco di questa
spiegazione si riscontra frequentemente sulla stampa,
allorquando vi si afferma che gli immigrati non fanno
concorrenza ai lavoratori indigeni in quanto destinati a
mansioni che i secondi non sarebbero pi disposti a
svolgere.
Insieme a queste due spiegazioni principali non
mancano altri tentativi di sostenere teoricamente la
presunta irrilevanza dellimmigrazione per i livelli
salariali dei Paesi industrialmente avanzati. Qui ci
sembra meriti soprattutto segnalare al lettore come
lesponente di questa letteratura generalmente
riconosciuto come il pi autorevole, leconomista
americano George J. Borjas, abbia gradualmente
cambiato idea sulla questione finendo per ammettere
nel 2003 che levidenza empirica suggerisce
invariabilmente che limmigrazione ha effettivamente
arrecato pregiudizio alle opportunit dimpiego dei
lavoratori indigeni concorrenti [] e che a livello
nazionale essa esercita un effetto considerevole sul
salario dei lavoratori concorrenti.
Allo stesso risultato di Samuelson (e di Borjas), ma per
una strada completamente diversa, si giunge attraverso
la teoria che vede la distribuzione del reddito tra salari e
redditi da capitale e impresa come dipendente dalle
forze relative dei combattenti (Marx). Secondo
questimpostazione limmigrazione stata
semplicemente una determinante importante, tra
numerose altre, compresa la condotta della stessa
sinistra, dellindebolimento del potere contrattuale dei
salariati sperimentato dal capitalismo avanzato nel
corso degli ultimi tre decenni. Laumento del numero
relativo di lavoratori immigrati si sommato
allabbandono delle politiche di pieno impiego e alla
crescita del peso relativo del settore dei servizi,
prodotto dalle delocalizzazioni e dallapertura alle
importazioni di manufatti dai Paesi a bassi salari, nel
determinare uninfluenza decrescente dei sindacati,
laumento dei posti di lavoro sottopagati rispetto a
quelli con salari vicini al valore mediano, laumento del
tasso di povert e della quota di percettori di redditi
bassi nella popolazione attiva. stato essenzialmente
attraverso il settore dei servizi che limmigrazione ha
contribuito alla diminuzione persistente del salario,
facendo diventare superflue o di lusso cose
precedentemente comprese nella normale
sussistenza. Sui salari e le condizioni di lavoro del
settore dei servizi, dove gi in partenza si trovava
concentrata la maggioranza degli occupati
sindacalmente e socialmente non protetti e peggio
pagati, la concorrenza esercitata dai flussi in
espansione di lavoratori stranieri si sommata a quella
dei lavoratori indigeni liberati dal settore
manifatturiero. Ci che insomma limmigrazione ha
contribuito a determinare, specialmente per il tramite del
settore dei servizi, stato un abbassamento
nellinsieme delleconomia del prezzo minimo del lavoro
che occorre pagare per evitare sia diminuzioni della
produttivit individuale che una generale instabilit
sociale. E la riduzione di questo prezzo minimo ha
depresso il livello medio dei salari in quanto esso di
fatto stabilisce uno standard in base al quale tende a
determinarsi la remunerazione della maggior parte dei
lavoratori.
Riguardo poi alla sinistra antagonista, sulla quale ci
soffermeremo nellultimo capitolo, particolarmente
sconcertante nella sua posizione sullimmigrazione
stata la tendenza ad ignorare laspetto pi generale del
problema, forse il pi importante. Ci riferiamo
allinfluenza snervante prodotta dallinsicurezza di
vita (Engels), ossia allimpatto sui lavoratori indigeni
della prossimit fisica a masse in miseria: linevitabile
crescente propensione ad accettare salari minori e
maggiore flessibilit prodotta dalla paura di finire nelle
sotto-classi le cui condizioni di vita si dispieghino
quotidianamente sotto i propri occhi.

Nota Bibliografica
Le concezioni dominanti nei Trenta gloriosi sul ruolo
del controllo nazionale della politica monetaria e di
bilancio e del controllo delle transazioni con il resto del
mondo sono discusse, insieme al loro abbandono a
partire dallinizio degli anni 80, in M. Pivetti,
Maastricht e lindipendenza politica delle banche
centrali: teoria e fatti, Studi Economici, Vol. L, n. 55,
1995, e, dello stesso autore, in: Bretton Woods,
through the lens of state-of-the-art macrotheory and
the European Monetary System, Contributions to
Political Economy, Vol. 12, 1993; Debito pubblico e
inflazione: sul progetto di unione monetaria europea
come fattore di disciplina, in A. Graziani (a cura di),
Leconomia mondiale in trasformazione, manifestolibri,
Roma 1998; Monetary versus political unification in
Europe. On Maastricht as an exercise in vulgar
politica economy, Revue of Political Economy, Vol. 10,
n. 1, 1998. Sui vincoli posti dal trattato di Maastricht e
dai piani di rientro del debito pubblico in esso
contenuti ad un utilizzo espansionistico della politica
fiscale nei Paesi sottoscrittori si veda A. Barba Note
sul patto di stabilit e crescita ed il rientro del debito
pubblico, Studi Economici, n. 68, 1999. Sulla
consapevolezza esistente allinizio degli anni 80 circa il
cambiamento radicale che stava verificandosi negli
obiettivi della politica economica dei maggiori Paesi
capitalistici, merita vedere lindagine conoscitiva che
venne promossa in Inghilterra dalla Camera dei Comuni
sugli effetti economici e sociali del cambiamento: House
of Commons, sessione 1979-1980, Treasury and Civil
Service Committee, Memorandum on Monetary Policy,
2 volumi, HMSO, Londra 1980.
Sul libero scambio, gli investimenti e gli arbitrati
internazionali si vedano, oltre ai dati
dellOrganizzazione mondiale del commercio
sullespansione degli scambi negli ultimi decenni (Omc,
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Commission, Transatlantic Trade and Investment
Partnership. The economic analysis explained,
Bruxelles, settembre 2013; United Nations Conference
on Trade and Development, Recent developments in
investor-state dispute settlement (ISDS), New York,
maggio 2013; S. Donan, EU and US pressed to drop
dispute-settlement rule from trade deal, Financial
Times, 10 marzo 2014, e il contributo apologetico di R.
Rosencrance, The Resurgence of the West: How a
Transatlantic Union Can Prevent War and Restore the
United States and Europe, Yale University Press, New
Haven 2013. Meritano poi di essere segnalati i seguenti
contributi critici sul ruolo del mercato internazionale
come regolatore per eccellenza dellattivit degli Stati e
la loro progressiva sottomissione a una concorrenza
sempre pi impermeabile ad ogni norma sociale,
sanitaria e ambientale: H.E. Daly, The perils of free
trade, Scientific American, novembre 1993; R.M.
Jennar e L. Kalafatides, AGCS. Quand les Etats
abdiquent face aux multinationales, Raisons dagir,
Parigi 2007; R.M. Jennar, Le Grand March
Transatlantique. La menace sur les peuples dEurope,
Cap Bear Editions, Perpignan 2014, e, dello stesso
autore, Cinquante tats ngocient en secret la
libralisation des services, Le Monde Diplomatique,
settembre 2014; S. George, Les usurpateurs. Comme les
entreprises internationales prennent le pouvoir, Seuil,
Parigi 2014; T. Porcher e F. Farah, Tafta. Laccord du
plus fort, Max Milo, Parigi 2014. Sul periodico-bibbia
dei libero scambisti, si veda A. Zevin, The
Economist, le journal le plus influent du monde, Le
Monde Diplomatique, agosto 2012.
Per le vicende francesi relative alle restrizioni
allimmigrazione degli anni Settanta utile consultare Y.
Gastaut, La volte-face de la politique franaise
dimmigration durant les Trente Glorieuses, Cahiers de
lURMIS, 5, 1999; per quelle tedesche, si veda W.
Seifert, Social and Economic Integration of Foreigners
in Germany, in Path to Inclusion. The Integration of
migrants in the United States and Germany, a cura di P.
Schuck and R. Munz, Berghahn Books, New York e
Oxford 1998. I dati relativi ai nati allestero presenti nei
maggiori Paesi europei sono tratti da International
Migrant Stock, The 2015 Revision, Nazioni Unite, New
York 2015. La citazione di Pompidou a p da Le
peuple, Organe du syndicat Cgt, novembre 1963.
Unampia rassegna della letteratura neoclassica cui
abbiamo fatto riferimento nel testo, relativa agli effetti
dellimmigrazione sui salari, contenuta in D.B.
Bodwarsson e H. Van der Berg, The Economics of
Immigration. Theory and Policy, Springer, Heildelberg,
Londra e New York 2009. Di G.J. Borjas, il principale
autore neoclassico in materia, si vedano: The labor
demand curve is downward sloping: reexamining the
impact of immigration on the labor market, The
Quarterly Journal of Economics, novembre 2003;
Increasing the supply of labor through immigration.
Measuring the impact on native-born workers, Center
for Immigration Studies Backgrounder, 2004, e,
insieme a L. Katz, The evolution of the Mexican-born
workforce in the United States, in Mexican
Immigration to the United States, University of
Chicago Press, Chicago 2007.
La nozione classico-marxiana del salario analizzata in
M. Pivetti, Il concetto di salario come costo e
sovrappi e le sue implicazioni di politica economica,
in M. Pivetti (a cura di), Piero Sraffa. Contributi per
una biografia intellettuale, Carocci, Roma 2000. Il
brano di Marx sulla divisione della classe lavoratrice in
due campi ostili, citato nella sez. 5, tratto da Karl
Marx and Friedrich Engels; Selected Correspondence,
Progress Publishers, Mosca 1975 (lettera del 9 aprile
1870). La citazione di Engels alla fine del capitolo
tratta da La condizione della classe operaia in
Inghilterra (1845), il cui capitolo sullimmigrazione
irlandese illustra la lotta delloperaio inglese con un
concorrente che sta nel gradino pi basso che
possibile in un Paese civilizzato e che perci abbisogna
di un salario minore di chiunque altro.
Capitolo V

La corsa alla modernita: istituzioni del


mercato del lavoro e ruolo dello stato

1. Discusso nel capitolo precedente il tema delle


relazioni con il resto del mondo, concentreremo ora
lattenzione sui canali pi interni attraverso i quali la
svolta compiuta dalla sinistra ha prodotto in Europa il
cambiamento delle condizioni di potere e distributive
cui abbiamo assistito nel corso dellultimo trentennio.
Istituzioni del mercato del lavoro, politica tributaria e
Stato sociale, privatizzazioni e decentramento
amministrativo sono i principali aspetti interni del
cambiamento che prenderemo in considerazione.
La vicenda europea dalla fine della seconda guerra
mondiale ai nostri giorni mostra in modo chiaro come
organizzazioni dei lavoratori e Stato centrale tendano a
rafforzarsi o a indebolirsi vicendevolmente.
Lindebolimento dei sindacati e la decrescente
importanza del ruolo dello Stato nella distribuzione del
reddito rappresentano i due lati di una stessa medaglia,
cos come listituzione nel primo trentennio post-bellico
di sistemi tributari marcatamente progressivi, dei servizi
sanitari nazionali, di sistemi generali distruzione gestiti
dallo Stato, di generosi sistemi pensionistici pubblici e
di cospicui apparati produttivi di propriet pubblica fu
allo stesso tempo il riflesso e la condizione di un
crescente potere contrattuale del lavoro dipendente e
delle sue organizzazioni allinterno delle societ
europee. Ma lesperienza del capitalismo avanzato ha
anche rivelato, in primo luogo per quanto riguarda le
istituzioni del mercato del lavoro, la presenza di
unasimmetria importante nei processi di cambiamento
che le hanno interessate: mentre istituzioni benigne
nei confronti dei salariati si erano andate costituendo
faticosamente durante un lungo periodo di tempo in
condizioni storico-sociali complesse, la loro
eliminazione o il loro ridimensionamento sono stati
molto pi semplici e rapidi proprio perch hanno potuto
avvalersi della collaborazione della sinistra.

2. In ogni economia capitalistica avanzata, lo stato


generale delloccupazione pu essere considerato come
il contesto di fondo con il quale interagiscono tutti gli
altri principali determinanti della forza contrattuale dei
salariati e dellandamento dei salari reali. Come abbiamo
gi messo in luce nel secondo capitolo, agli alti e
persistenti livelli di disoccupazione hanno corrisposto,
da una parte, la riduzione del potere dei sindacati e
dello stesso tasso di sindacalizzazione; dallaltra, un
maggior peso della contrattazione salariale al livello
della singola impresa, ossia una minore estensione
allinsieme della forza lavoro, attraverso meccanismi
formali o informali, delle condizioni salariali e di lavoro
stabilite in sede di contrattazione collettiva nazionale.
Agli effetti negativi sul livello medio dei salari generati
dalla riduzione del potere contrattuale dei sindacati si
sono perci sommati quelli generati dalla decrescente
influenza degli esiti della contrattazione collettiva sui
livelli salariali della forza lavoro non sindacalizzata.
ampiamente riconosciuto che i livelli salariali conseguiti
dai lavoratori sindacalizzati attraverso la contrattazione
collettiva tendono a costituire un determinante del
livello generale dei salari, anche quando non
esplicitamente stabilito dalle leggi. Gli esiti della
contrattazione collettiva diventano uno standard di
riferimento di ci che i lavoratori si aspettano dalle
imprese; inoltre, le imprese operanti in settori
scarsamente sindacalizzati, proprio per non
incoraggiare una maggiore sindacalizzazione al loro
interno, sono indotte a pagare salari pi elevati di quelli
che sono disposte a pagare in assenza di contrattazione
collettiva.
Naturalmente rientrano tra le istituzioni benigne nei
confronti dei salariati le cosiddette rigidit del mercato
del lavoro, ovvero quellinsieme di garanzie a tutela del
lavoro dipendente istituite nel corso del tempo in
Europa e via via incorporate nelle legislazioni
lavoristiche grazie alla pressione esercitata dalla sinistra
e dai sindacati: dai limiti alla libert di licenziamento
delle imprese alle varie forme di assicurazione contro la
disoccupazione; dai vincoli stabiliti dalla legge in
materia di assunzioni e durata dei contratti alla
regolamentazione dei tempi di lavoro e dei periodi di
ferie retribuite. Ma la minore forza contrattuale dei
lavoratori, determinata dallaumento persistente della
disoccupazione, andata di pari passo con la
conversione della sinistra alla flessibilit del mercato
del lavoro. Ne sono risultati dei cambiamenti
sfavorevoli ai salariati in tutte queste istituzioni. Ci ha
contribuito ad abbassare il livello minimo dei salari reali
compatibile con lordinato svolgimento del processo
produttivo e la stabilit sociale. Con quei cambiamenti,
infatti, per le imprese divenuto sempre pi facile e
meno costoso sostituire i lavoratori e per questi ultimi
sempre pi difficile sia trovare unoccupazione stabile
che sopportare la condizione di disoccupato. La
riduzione dei redditi da lavoro dipendente che ne
derivata ha teso ad autoalimentarsi perch in tutto il
capitalismo avanzato salari e stipendi costituiscono la
quota preponderante del reddito complessivo delle
famiglie (pressoch la sua totalit per quanto riguarda
le famiglie a medio e basso reddito), sicch ogni
riduzione dei redditi da lavoro dipendente, attraverso il
suo impatto sui consumi, ha ripercussioni negative
sulla domanda aggregata e loccupazione, creando i
presupposti di ulteriori cambiamenti nella distribuzione.
Merita qui di essere sottolineata lesistenza di una
stretta connessione tra labbandono delle politiche
pubbliche di gestione della domanda aggregata
finalizzate al mantenimento di alti livelli di occupazione
e la progressiva riduzione dellinsieme delle tutele
giuridiche dei lavoratori. Un buon grado di protezione
degli occupati e dei disoccupati a ben vedere
concepibile nel capitalismo solo in presenza di politiche
di pieno impiego, di modo che labbandono di queste
ultime ha portato con s anche il progressivo
smantellamento del sistema di garanzie istituito a difesa
del lavoro dipendente. Leconomia di mercato infatti
incompatibile con un sistema avanzato di istituzioni a
tutela del lavoratore in assenza di una politica
economica volta a neutralizzare il suo principale
fallimento, ovvero la sua incapacit di assicurare
lassorbimento di tutto quanto il sistema via via in
grado di produrre. Le imprese non assumono se non
sono libere di licenziare a piacimento, n di scegliere chi
e come assumere, a meno che non possano
ragionevolmente contare, alla luce dellesperienza, su di
una crescita stabile della domanda dei loro prodotti e
quindi dei loro livelli di attivit. Le garanzie a difesa dei
lavoratori sono state possibili e si sono diffuse in
Europa nei trentanni successivi alla seconda guerra
mondiale perch tra gli imprenditori era allora diffusa la
consapevolezza che lobiettivo primario della politica
economica era il mantenimento di alti livelli di
occupazione, a loro volta ritenuti indispensabili dai
governi per la stabilit sociale.

3. Cos come, direbbe Marx, senza teoria nessuna


rivoluzione, anche una restaurazione ha bisogno di
una teoria adatta a provvedere il suo percorso di
giustificazioni analitiche che ne facilitino la
realizzazione. La sinistra complice della restaurazione
liberista in Europa ha semplicemente fatto propria la
teoria economica dominante, per la quale concorrenza e
flessibilit in tutti i mercati, a partire da quello del
lavoro, tutto quanto occorre per assicurare, insieme
allallocazione ottima delle risorse, ladeguamento
automatico del prodotto effettivo delleconomia al suo
prodotto potenziale e la piena occupazione. Posto che i
salari siano flessibili verso il basso in presenza di
disoccupazione involontaria, produzione e occupazione
aumenteranno insieme alla domanda di lavoro da parte
delle imprese e variazioni del tasso di interesse si
incaricheranno di portare in equilibrio anche il mercato
dei beni, assicurando che tutta la parte dellaccresciuta
produzione non assorbita dai consumi delle famiglie sia
assorbita dagli investimenti decisi dalle imprese. Per la
visione dominante, questa interazione tra il mercato del
lavoro e il mercato del prodotto, di cui la flessibilit
salariale costituisce lelemento cruciale, andrebbe
avanti fino al raggiungimento del pieno impiego.
Facendo propria questa visione, la sinistra ha finito per
individuare proprio nei lavoratori sindacalizzati e nelle
loro resistenze lostacolo principale alla crescita
delloccupazione. Gli occupati stabili si sono cos
trasformati da componente pi avanzata dei salariati sul
fronte del conflitto distributivo a principale nemico dei
disoccupati.
impossibile riscontrare nella realt in particolar
modo in quella dellultimo trentennio una qualsivoglia
conferma della validit della visione dominante. Gli
ultimi tre decenni hanno visto in tutto il capitalismo
avanzato e specialmente in Europa livelli di
disoccupazione molto pi elevati che nel trentennio
precedente, nonostante i mercati del lavoro siano
divenuti dappertutto molto pi flessibili. Questa
fastidiosa evidenza empirica ha indotto leconomista
neoclassico Gregory Mankiw (multimilionario grazie al
suo costoso e vendutissimo Principi di economia) a
considerare un mistero laumento della
disoccupazione sperimentato dal capitalismo avanzato
negli ultimi decenni. Di fatto non si trover proprio
niente di misterioso nel fenomeno quando non si perda
di vista che gi da molto tempo ormai la critica della
teoria economica ha invalidato lintero apparato
analitico in base al quale viene generalmente postulata
lesistenza di una relazione inversa tra salari e
occupazione. Ma il punto che, purch si impieghino
nella bisogna mezzi adeguati, critica teorica ed evidenza
empirica possono essere fatti perdere di vista. E non c
dubbio che mezzi adeguati vengono effettivamente
impiegati senza scrupoli e senza badare a spese, in
gioco essendoci niente di meno che il consolidamento
di un cambiamento delle condizioni di potere e
distributive quale quello avvenuto in Europa.
La sinistra complice della restaurazione liberista si
fatta bandiera negli ultimi decenni di ogni esperienza
che sembrasse provare la rilevanza per i livelli
occupazionali di una maggiore flessibilit del mercato
del lavoro. Negli anni Novanta il chiaro esempio era
costituito dal caso americano, dove si registrava una
crescita relativamente elevata della domanda interna
nonostante il mutamento della distribuzione dei redditi
avverso ai salariati ed un orientamento restrittivo della
politica fiscale. Chiaritosi con la crisi che nessuno
stimolo agli investimenti ne era derivato e che i
maggiori consumi erano stati generati da un processo
di crescente indebitamento delle famiglie insostenibile
nel pi lungo periodo, allinizio del decennio
successivo lattenzione si rivolta agli interventi sul
mercato del lavoro del socialdemocratico Gerhard
Schrder, divenuto cancelliere in Germania nel 1998. Tra
le maggiori nazioni dellEuropa continentale, la
Germania effettivamente quella che dalla fine degli
anni Novanta ha avuto il tasso di disoccupazione pi
basso; allo stesso tempo, quella che ha sperimentato,
insieme al maggior calo dellincidenza della
contrattazione collettiva nella determinazione dei salari,
la maggiore flessibilizzazione del mercato del lavoro
compreso il taglio dei sussidi di disoccupazione,
lobbligo per i disoccupati di accettare un lavoro e il
maggior aumento di tutte le forme di occupazione
atipica con il risultato che alla vigilia dello scoppio
della crisi (2008) lincidenza dei bassi salari (quelli
inferiori ai 2/3 del salario mediano nazionale)
sulloccupazione complessiva vi aveva quasi raggiunto
il livello statunitense e superato quello del Regno
Unito. Ma, come per il caso statunitense, anche per
quello tedesco la relazione inversa tra salari e
occupazione non ha avuto niente a che vedere con i
postulati della teoria economica dominante. In regime di
moneta unica, i bassi salari hanno semplicemente reso
pi competitivi i prodotti tedeschi. Si trattato in
pratica di una svalutazione, attuata dalla Germania
attraverso i salari anzich attraverso il cambio, che
nonostante la stagnazione dei suoi consumi interni
riuscita a sostenere i livelli occupazionali attraverso
flussi crescenti di esportazioni nette di beni e servizi.
Questo punto suggerisce una riflessione sul gioco delle
parti attualmente in atto in Europa, gioco nel quale la
sinistra del continente si trova interamente coinvolta.
Mentre tutte le economie possono riuscire a crescere
simultaneamente attraverso lespansione dei loro
mercati interni, una crescita simultanea di tutte
attraverso le esportazioni nette di beni e servizi
inconcepibile: alle esportazioni nette delle une
corrispondono necessariamente importazioni nette da
parte delle altre. La via tedesca al sostegno
delloccupazione non percorribile dallinsieme dei
Paesi capitalisti. Ci troviamo pertanto in Europa di
fronte al seguente paradosso: in ununione di mezzo
miliardo di persone, il ruolo di guida viene lasciato a
una nazione che alla sua totale inadeguatezza storico-
culturale a svolgerlo, somma il fatto che, pur essendo
divenuta a seguito della riunificazione la maggiore
nazione europea, non cresce e non trascina la crescita
degli altri attraverso lespansione continua del proprio
cospicuo mercato interno, ma si adopra invece con ogni
mezzo per vendere agli altri i volumi crescenti di
produzione che la sua atavica parsimonia non le
consente di assorbire. Il grado di successo di questa
strategia di crescita dipende crucialmente dalla misura
in cui essa non sia perseguita anche dai suoi partner
commerciali. Non appena la flessibilit del mercato del
lavoro e lausterit hanno incominciato ad essere
imitate da tutti in Europa e la domanda proveniente dai
Paesi in via di sviluppo ha rallentato, la contrazione dei
livelli di vita per la maggioranza della popolazione
diventato un disastro continentale, destinato a
coinvolgere presto o tardi la stessa nazione guida.
Ma nel ritardare il pi possibile lesplosione sociale
provocata dallaumento continuo della parte destinata
ai ricchi di prodotti nazionali tendenzialmente stagnanti,
la grossa Germania sta giocando il ruolo dellutile
idiota: il suo relativo successo pu continuare ad
essere dappertutto additato come prova
dellopportunit di non interrompere la restaurazione
liberista; allo stesso tempo, se in questo o quel
contesto la situazione diviene particolarmente
problematica, i governi locali possono agevolmente
imputarne la responsabilit alleccessiva rigidit della
nazione guida.

4. Lesperienza del capitalismo avanzato dalla fine della


seconda guerra mondiale rivela lesistenza di
connessioni significative anche tra lo stato generale
delloccupazione e quella parte dello standard di vita
del lavoro dipendente di una nazione che determinato
dalle forme del prelievo fiscale e da alcune importanti
componenti della spesa pubblica, come sanit,
pensioni, istruzione, edilizia abitativa, trasporti. Lo
sviluppo dello Stato sociale stato in Europa laspetto
principale delle politiche dei redditi, ossia del
cosiddetto scambio sociale. Si trattava di fare in modo
che, pur in presenza di bassi tassi di disoccupazione e
di rapporti di forza conseguentemente favorevoli al
lavoro dipendente, la crescita dei salari monetari si
mantenesse per quanto possibile entro i limiti della
crescita della produttivit del lavoro al fine di non
pregiudicare la profittabilit degli investimenti privati o
compromettere la competitivit internazionale della
produzione interna. In sostanza, attraverso lo Stato
sociale, la forza contrattuale dei lavoratori si traduceva
in una certa misura in unespansione dei servizi
collettivi anzich incidere direttamente sui margini di
profitto delle imprese.
Con il cambiamento degli obiettivi della politica
economica, al crescere della disoccupazione e al
diminuire del potere contrattuale dei sindacati anche il
mantenimento di uno Stato sociale generoso, ma
fiscalmente oneroso per i ceti abbienti, divenuto
sempre meno necessario. Esso apparso divenire
anche sempre pi insostenibile, da una parte per
limpatto negativo del nuovo orientamento
deflazionistico della politica economica sulla crescita
del reddito e delle entrate tributarie, dallaltra per la
riduzione, imposta dalla liberalizzazione finanziaria, della
progressivit generale dei sistemi di tassazione. Siamo
qui di fronte allinterconnessione sulla quale abbiamo
attirato lattenzione del lettore allinizio del capitolo e
cio al fatto che forza contrattuale del sindacato e
importanza del ruolo dello Stato nel conflitto
distributivo tendono a crescere o a diminuire insieme.
Allaumentare della disoccupazione e allindebolirsi dei
sindacati, non solo i salari hanno preso a crescere
sistematicamente meno della produttivit del lavoro, ma
la spesa sociale stata ridimensionata parallelamente
alla diminuzione della progressivit dei sistemi
impositivi (cfr. cap. II, pp. 65-67).
Tanto le riduzioni della progressivit dellimposizione
che le riduzioni delle spese sociali hanno agito
negativamente sulla domanda aggregata. Nei limiti in
cui la minore spesa sociale stata compensata da
maggiori spese private per la sanit, le pensioni e
listruzione, sono diminuite corrispondentemente le
disponibilit delle famiglie a medio-basso reddito per
altre spese e cos sono diminuiti i livelli di attivit e
loccupazione. Anche in questo caso dunque, come in
quello discusso nella sez. 2, il processo ha teso ad
autoalimentarsi: uno Stato sociale generoso divenuto
sempre meno sostenibile, ma anche sempre meno
necessario a causa del progressivo indebolimento della
forza contrattuale dei sindacati.

5. Nelle tre maggiori nazioni continentali si sono avute


delle differenze importanti rispetto ai canali interni pi
interessati dalla svolta compiuta dalla sinistra. La
corsa alla modernit della sinistra tedesca ha
riguardato specialmente le istituzioni del mercato del
lavoro e la tassazione dei redditi delle societ e dei
redditi pi elevati delle persone fisiche, le cui aliquote
impositive sono state considerevolmente ridotte; quella
della sinistra francese si tradotta soprattutto nel
ridimensionamento dellistruzione pubblica, a tutti i
livelli, oltre che nellabbassamento delle aliquote
impositive sui redditi pi elevati; quella della sinistra
italiana ha colpito specialmente la spesa pubblica per le
pensioni e per la sanit.
Sia in Francia che in Germania la spesa sanitaria stata
la componente della spesa sociale che ha subito il
ridimensionamento minore (tanto in percentuale del Pil
che in termini di spesa pro-capite). Pur con i tagli decisi
dopo la crisi del 2008 per sottostare ai vincoli di
bilancio europei, non si avuto in queste due nazioni
niente di paragonabile ai ridimensionamenti della spesa
sanitaria attuati in Italia, Spagna, Portogallo e Grecia. Si
pu parlare per la Francia e la Germania di stagnazione
piuttosto che di riduzione netta in termini reali delle
risorse impegnate. Anche per la Francia e la Germania,
tuttavia, un peso crescente nel corso degli ultimi due
decenni delle assicurazioni private rispetto alle
assicurazioni sociali obbligatorie rivela la tendenza a
maggiori diseguaglianze nellassistenza sanitaria, pur se
molto pi contenute di quelle determinate in Italia e
altrove dai tagli lineari per medici, posti letto, acquisti di
beni e servizi e dalle diminuite possibilit di accesso
fisico ed economico alle cure (con lallungamento delle
liste di attesa e i forti aumenti delle spese di
partecipazione dei cittadini in campo specialistico).
Soprattutto due circostanze contribuiscono a spiegare
la maggiore cautela della Francia e della Germania nel
ridimensionamento delle rispettive sanit pubbliche.
Innanzitutto una pi antica e profonda consapevolezza
della loro importanza primaria per il mantenimento della
pace sociale in contesti di generale peggioramento delle
condizioni materiali di vita per la maggioranza della
popolazione, quali quelli connessi con una
disoccupazione persistentemente elevata, precariet
diffusa e bassi salari. Legata a questa consapevolezza
pu considerarsi la tendenza riscontrabile in entrambe
le nazioni a reinvestire nella sanit stessa le risorse
risparmiate con razionalizzazioni e riduzioni di sprechi,
piuttosto che destinarle a riduzioni del disavanzo
pubblico e ad obiettivi di rientro del debito. In secondo
luogo, in entrambe le nazioni una conoscenza molto pi
diffusa che altrove del caso statunitense, con il suo
pessimo e costosissimo sistema sanitario privato
(classificato dallOrganizzazione mondiale della sanit al
37 posto nel mondo, con 50 milioni di americani privi di
qualunque copertura sanitaria nonostante una spesa
pro-capite pi che doppia di quella francese e tedesca)
ha seriamente ostacolato il diffondersi nella
popolazione del preconcetto della maggiore efficienza e
qualit di servizi sanitari privati. Allo stesso modo,
nessun cittadino francese o tedesco sceglierebbe di
affidare la cura della propria salute alle strutture
dellinglese National Health Service, dopo la sua
mercatizzazione nel corso degli ultimi venticinque
anni, cos come nessuno si sarebbe sognato di lodare
lo sgangherato sistema ferroviario britannico dopo le
privatizzazioni dellera Thatcher-Blair.
Nel campo dellistruzione, invece, la Francia la
nazione europea che nel corso degli ultimi tre decenni
ha subito i cambiamenti pi rilevanti rispetto a un
sistema originario pubblico centralizzato, gratuito e
marcatamente meritocratico. A seguito delle leggi sul
decentramento del 1982 e del 1983, il peso dello Stato
nel finanziamento della spesa complessiva per
listruzione sensibilmente diminuito a favore di quello
degli enti territoriali. La Francia allo stesso tempo
passata dal secondo allundicesimo posto tra i Paesi
dellOcse per la parte del Pil destinata alla scuola
primaria e secondaria. Questo, nonostante il maggior
peso nella sua popolazione dei giovani in et scolare (il
20 per cento della popolazione francese ha unet
compresa tra i 5 e i 18 anni, contro il 15 per cento sia in
Germania che in Italia). Il ridimensionamento
dellimpegno pubblico ha colpito anche la scuola
materna, e, allestremo opposto, listruzione superiore.
Nella prima, a fronte di un rapido aumento del numero
di bambini nella fascia di et 2-5 anni, non
accompagnato dallapertura di classi supplementari, il
tasso di scolarizzazione caduto nel corso dellultimo
trentennio dal 35 per cento al 20 per cento
(raggiungendo valori bassissimi, intorno al 5 per cento,
proprio nei dipartimenti con le difficolt economiche e
sociali pi acute). La conseguenza naturalmente stata
un forte aumento della scolarizzazione privata e della
spesa delle famiglie. Anche nellistruzione superiore le
debolezze crescenti delluniversit pubblica hanno
aumentato le possibilit di sviluppo del settore privato.
A fronte del raddoppio del numero degli studenti
nellistruzione superiore sono attualmente 2 milioni e
mezzo contro 1,2 milioni nel 1980 il peso del
finanziamento pubblico andato continuamente
diminuendo cos che il settore privato raccoglie
attualmente il 20 per cento degli studenti contro il 13
per cento nel 1990. Secondo lInsee (lIstituto nazionale
di statistica), nellistruzione superiore negli ultimi dieci
anni ben l80 per cento dellaumento del numero degli
studenti si rivolto a istituzioni private. Insomma, con
lindebolimento dellistruzione pubblica nel corso degli
ultimi decenni, il peso dellistruzione privata
incontestabilmente aumentato in Francia a tutti i livelli
del sistema educativo insieme alla posizione delle
scuole private nella gerarchia qualitativa degli istituti e
allincidenza delle spese per listruzione sui bilanci delle
famiglie. I livelli crescenti di disoccupazione,
aumentando la concorrenza tra i giovani per laccesso
allimpiego, hanno contribuito allespansione della
domanda, quindi dellofferta, di servizi distruzione
privati: il ricorso da parte di alcuni a una preparazione
privata migliore o supplementare costringe gli altri ad
allinearsi, al costo di doversi indebitare. Naturalmente
non si ancora, per luniversit, in una situazione
comparabile a quella statunitense, dove lindebitamento
degli studenti ormai fuori controllo ed scarsamente
suscettibile di essere ripagato visto landamento
delloccupazione e dei salari. Tuttavia, con la complicit
della sinistra, i principi repubblicani di uguaglianza e
gratuit sono ormai diventati delle parole sempre pi
vuote: secondo un rapporto della Corte dei conti
francese, la Francia oggi una delle nazioni sviluppate
in cui gli esiti dellistruzione sono pi fortemente
correlati allestrazione sociale degli studenti e allo
statuto culturale delle loro famiglie e in cui maggiore il
peso sui loro risultati della composizione sociale
dellistituto scolastico frequentato. Nelle parole di un
docente di scienze economiche e sociali di un
prestigioso liceo parigino:
unofferta privata diversificata e di buon livello
esplosa nel corso degli ultimi anni in risposta al
degrado del servizio pubblico sempre pi a corto di
soldi e a una domanda sociale sempre pi forte,
alimentata dalla volont disperata dei genitori di
riuscire a far entrare i loro figli nellascensore sociale
o, almeno, di evitare loro la disoccupazione. Linsieme
di queste nuove offerte costituisce ormai un sistema,
un arcipelago dalla ramificazioni infinite, di cui il
denaro costituisce la chiave di accesso.

Per quanto riguarda la previdenza pubblica, stata


soprattutto la sinistra italiana ad essersi distinta nella
sua riforma. Alla fine degli anni Sessanta (legge
Brodolini del 1969) la sinistra era riuscita a far adottare
in Italia un generoso sistema pensionistico pubblico a
ripartizione, di tipo retributivo, con elevato rapporto tra
pensione e ultima retribuzione e prestazioni indicizzate
in base al costo della vita, successivamente anche in
base alla dinamica dei salari, capace di preservare al
termine della vita attiva gli standard di vita acquisiti
dalle diverse categoria di lavoratori dipendenti. (Il
sistema presentava senza dubbio dei difetti in
particolare lasciava spazio a dei comportamenti
opportunistici da parte di questa o quella categoria di
lavoratori dipendenti che tuttavia avrebbero potuto
essere emendati senza troppe difficolt.) Ma allinizio
degli anni Novanta la sinistra italiana si convert allidea
che la collettivit non poteva pi permettersi di
assicurare ai suoi anziani pensioni elevate e indicizzate
ai salari, e che se il livello medio delle pensioni
pubbliche non fosse stato ridotto il loro onere avrebbe
necessariamente finito per determinare una caduta
sostanziale del tenore di vita degli occupati. Insomma,
giovani contro anziani, occupati contro disoccupati,
ogni istanza divisiva in grado di occultare il comune
interesse di classe dei salariati era colta con prontezza
dalla sinistra, desiderosa di muoversi su un terreno sul
quale le forze di destra avrebbero incontrato ben altre
resistenze.
Inizi cos, con la legge Amato del 1992, il processo di
ridimensionamento delle prestazioni della previdenza
pubblica. Questo processo sostanzialmente avvenuto
innestando nel sistema il principio dell ognuno per
s, sia attraverso il passaggio graduale dalla
ripartizione di tipo retributivo a una di tipo contributivo,
sia incoraggiando lo sviluppo di un sistema
complementare di fondi pensione privati, deputato a
evitare che le decurtate prestazioni pensionistiche
pubbliche si traducessero a regime in intollerabili livelli
di povert per gli anziani. Con il nuovo sistema
contributivo la pensione dipende dallammontare totale
dei contributi versati nel corso della vita attiva ed
perci tanto pi bassa quanto pi a lungo si sia rimasti
disoccupati o sottopagati; essa inoltre tanto pi
bassa, dato lammontare dei contributi versati, quanto
pi lunga laspettativa di vita al momento del
pensionamento.
Tanto la sinistra che i sindacati sposarono
acriticamente la tesi che linvecchiamento della
popolazione rendesse ineludibile labbandono del
vecchio sistema pensionistico. In realt, laumento del
rapporto tra gli anziani e la popolazione in et da lavoro
non comportava affatto, di per s, linsostenibilit di
lungo periodo del vecchio sistema. Infatti, lincidenza
della spesa pensionistica pubblica sul Pil dipende
oltre che dal rapporto tra gli anziani e la popolazione in
et da lavoro e dal livello medio delle pensioni dal
prodotto per occupato e da quanta parte della
popolazione in et da lavoro partecipa alla forza lavoro
e diviene effettivamente occupata. Ora, tutte queste
grandezze, non solo il livello medio delle pensioni, sono
controllabili nel medio-lungo periodo dalla politica
economica. Tasso di partecipazione e prodotto per
occupato dipendono infatti in larga misura dai livelli
occupazionali: se questi vengono mantenuti
sufficientemente elevati da politiche sistematicamente
espansive, il conseguente maggiore potere contrattuale
dei salariati si traduce prima o poi in pi alti livelli
salariali che da una parte incoraggiano la partecipazione
e dallaltra spingono le imprese al miglioramento delle
tecniche per cercare di compensare i pi alti salari con
una pi alta produttivit del lavoro. Lesperienza di
questi ultimi decenni ha poi mostrato che i tassi di
fertilit dunque anche il fenomeno demografico
dellinvecchiamento della popolazione dipendono
largamente dalla stato delleconomia e dal benessere
generale della collettivit e sono pertanto suscettibili di
essere influenzati dallorientamento della politica
economica.
Lincapacit della sinistra di cogliere questo nesso tra
fertilit e benessere economico lha spinta ad assumere
al riguardo una posizione che sfiora il paradosso. Essa
riconosce la necessit di innalzare i tassi di fertilit
ormai giunti a livelli insufficienti a garantire anche la
sola stazionariet della popolazione. Ma questo
riconoscimento tutto asservito allargomento che gli
immigrati, con i loro pi alti tassi di fertilit, devono
aumentare per ringiovanire la popolazione e pagarci le
pensioni. Ci equivale a confondere la soluzione con il
problema: gli effetti sui salari dellaccresciuta
immigrazione sono infatti tra le cause principali del calo
della fertilit e del conseguente invecchiamento della
popolazione.
Va infine aggiunto che la presenza stessa di un sistema
pensionistico pubblico generoso, nei limiti in cui, una
volta istituito, il suo smantellamento fosse
politicamente inconcepibile, agisce da fattore
incorporato di crescita. Direttamente, perch accresce la
propensione al consumo delleconomia e quindi stimola
anche la formazione di capitale; indirettamente, perch
tende ad imporre un orientamento espansivo alla
politica economica dal momento che i suoi responsabili
sono naturalmente interessati a contenere il pi
possibile, attraverso una crescita sostenuta del
prodotto, lonere delle pensioni sulla loro base
elettorale. Il punto per che non c nessuna
conquista nessun importante fattore di coesione
sociale del tipo del sistema previdenziale istituito in
Italia nel 1969 il cui smantellamento possa
considerarsi politicamente inconcepibile. La vicenda
della sinistra europea nel corso dellultimo trentennio
ce lo ha rivelato in modo inconfutabile.

6. Soffermiamoci ora sulle privatizzazioni, uno dei


canali principali attraverso i quali la sinistra ha
contribuito a produrre in Europa il cambiamento delle
condizioni di potere e distributive a favore dei
percettori di redditi da capitale e impresa. In un
contesto di tendenziale stagnazione, per i capitalisti e i
loro rappresentanti lunico modo per poter continuare
ad assicurarsi la crescita dei profitti quello di
accaparrarsi una quota pi grande del prodotto sociale,
abbassando i salari e appropriandosi di pezzi
dellapparato produttivo precedentemente riservati allo
Stato.
Come abbiamo rilevato nel secondo capitolo, le
privatizzazioni, avviate in Europa dalla destra alla fine
degli anni Settanta, raggiunsero il loro apice nel corso
degli anni Novanta ad opera soprattutto di forze
politiche di sinistra: in Francia Jospin, dal 1997 al 2002,
privatizz pi dei governi Balladur e Jupp; in Italia, tra
il 1996 e il 2000 i governi Prodi, DAlema e Amato
realizzarono le grandi privatizzazioni delle banche e
delle telecomunicazioni; in Inghilterra, Blair apr
allimpresa privata il territorio dei servizi pubblici
essenziali (carceri, ospedali e istruzione) attraverso le
privatizzazioni striscianti dei partenariati pubblico-
privato.
Se la destra aveva presentato i programmi di
privatizzazione come una scelta politica di netta cesura
con lassetto dei Trenta gloriosi, esplicitamente volta a
muovere il primo fondamentale passo verso la
marginalizzazione dellintervento pubblico
nelleconomia e lindebolimento delle rappresentanze
sindacali, il favore della sinistra europea si basato su
argomenti in apparenza pi sfumati e sofisticati. Il
principale tra essi richiamava la necessit di affidare allo
Stato solo un ruolo di garante della concorrenza al fine
di assicurare ai cittadini servizi migliori a prezzi pi
bassi; si avanz poi lesigenza di superare le politiche
di sostegno ai campioni nazionali, favorendo al loro
posto aggregazioni volte a creare imprese in grado di
operare su scala mondiale; le privatizzazioni avrebbero
inoltre favorito lo sviluppo del mercato mobiliare,
consentendo di ampliare la diffusione dellazionariato
popolare e spingere il sistema pensionistico verso la
capitalizzazione; infine, si sottoline la necessit di
assicurare un importante fonte di entrate allo Stato che
consentisse di avviare i piani di rientro del debito
pubblico senza ricorrere ad impopolari quanto
economicamente dannosi incrementi dellimposizione
fiscale.
In forme pi o meno consapevoli e coerenti, queste
diverse argomentazioni confluirono in
unincondizionata adesione ideologica alle virt della
propriet privata dei mezzi di produzione che port le
forze di sinistra al passo con i tempi sul terreno
dellantistatalismo, contendendolo ad una destra
accusata di favorire un processo di ritorno al privato
troppo brutale e avversa allidea di disegnare per lo
Stato un ruolo di attento arbitro del gioco del
mercato. Una terza via, come sottolineato nel 1995 da
Blair nel prendere il controllo del partito laburista, da
percorrere alla luce del convincimento secondo cui il
socialismo non era mai stato qualcosa che riguardasse
le nazionalizzazioni o il potere dello stato []. Era
invece uno scopo morale della vita, un insieme di valori,
un credere nella societ, nella cooperazione,
nellottenere insieme ci che non possiamo ottenere da
soli. Per procedere insieme e non da soli il potere
dello Stato era quindi inessenziale, ma nulla invece si
sarebbe ottenuto nel caso di

un quinto mandato Tory in Inghilterra. Ci sarebbe


stato un Servizio Sanitario Nazionale? (No!) Ci
sarebbe stato un sistema distruzione statale gratuita
per tutti? (No!) Ci sarebbe stato uno stato sociale?
(No!). Bene, facciamo in modo che non accada. Ri-
eleggeteli e non ci sar alcun dubbio. Con loro
torner lIva sui carburanti, [] il vostro ufficio
postale sar venduto, pi privatizzazioni del sistema
sanitario, giganteschi monopoli privatizzati che
controllano i vostri servizi, il loro prezzo deciso da un
branco di ex ministri nei consigli di amministrazione.

Molti degli esiti nefasti paventati da Blair in caso di


ritorno dei conservatori al potere si verificarono in
realt proprio nel decennio del New Labour (lo stesso
Blair, un anno dopo le sue dimissioni, fin nel consiglio
di amministrazione della banca J.P. Morgan che aveva
assistito finanziariamente numerose privatizzazioni).
Leclettismo della terza via, infatti, non aveva nessun
solido retroterra programmatico, consistendo in una
riproposizione edulcorata di tutti gli argomenti della
destra, arricchiti da unincrollabile fede nella capacit
della finanza e della borsa di indirizzare al meglio
lattivit economica. Riconsideriamo brevemente quegli
argomenti.
Il pi importante tra essi era indubbiamente il vecchio
pregiudizio sulla maggiore efficienza e qualit dei servizi
offerti dallimpresa privata. I liberisti avevano sempre
considerato lintervento dello Stato produttore
tollerabile solo quando, grazie ad esso, fosse stato
possibile attenuare gli effetti dellassenza di
concorrenza (di fatto o potenziale), confinandolo cos ai
casi della produzione di servizi godibili solo
collettivamente (beni pubblici come la difesa) e dei
monopoli naturali. Se nei Trenta gloriosi si era assistito
al superamento della nozione secondo cui dove vi era
concorrenza, o possibilit di crearla, non doveva
esserci limpresa di Stato, dopo la grande svolta di
politica economica anche questo ristretto ambito di
intervento venne posto in discussione alla luce della
moderna teoria dei contratti. Leconomista Andrei
Shleifer, nellillustrare la questione nel 1998 in
uninfluente saggio contro limpresa pubblica,
sottolineava che la prima intuizione fondamentale
dellapproccio dei contratti concerne alcuni casi in cui
indifferente se lattivit sia svolta direttamente dallo
Stato o data in appalto. Se il governo sa esattamente
ci che vuole far fare al produttore, allora pu mettere la
propria volont nel contratto (o in un regolamento) e
farlo rispettare. In questo caso, la differenza tra
fornitura diretta o in appalto scompare. Monopoli
naturali, sanit, istruzione: grazie alle intuizioni
fondamentali della teoria dei contratti, i vantaggi
dellimpresa pubblica evaporavano anche in settori
tradizionalmente considerati appannaggio dello Stato.
Si riteneva poi che linefficienza dellimpresa di Stato
fosse accresciuta dalla sua possibilit di attingere alla
finanza pubblica, sottraendosi ai vincoli di bilancio e
alla disciplina dei mercati dei capitali che invece
assoggettavano limpresa privata indirizzandola sulla
frontiera dellefficienza produttiva.
Rispetto a questo insieme di convincimenti, la
posizione della sinistra divenne sempre pi quella di
accettare senza troppe riserve tutti i pregiudizi avversi
allo Stato imprenditore, limitandosi al compassionevole
riconoscimento della necessit di garantire ai pi
bisognosi la fruizione di servizi essenziali, che nella
maggior parte dei casi sarebbe stato per opportuno
non far produrre direttamente dallo Stato. Questultima
scelta sarebbe dipesa da unattenta analisi del tasso di
purezza concorrenziale dei mercati privati e dei sistemi
di disciplina ed incentivazione che potevano
correggerne le imperfezioni. Ma mentre i governi di
sinistra si impegnavano in una febbrile attivit di
creazione di autorit di vigilanza e comitati di controllo,
gli esiti disastrosi di questa linea politica divenivano
via via pi evidenti. Come rilevato nel 2014 da uno
sconsolato editorialista del Guardian,

le privatizzazioni non funzionano. Ci avevano


promesso la democrazia degli azionisti, la
concorrenza, il calo dei costi e servizi migliori. Con il
passare di una generazione, la maggioranza del
pubblico ha sperimentato esiti opposti. Dallenergia
allacqua, ai servizi pubblici ferroviari, la realt stata
la creazione di monopoli privati, sussidi perversi,
prezzi esorbitanti, misero sotto-investimento,
affarismo e cattura dei regolatori []. I consumatori e
i politici sono ingannati dal segreto commerciale e
dalla complessit contrattuale. La forza lavoro ha
visto tagliate le sue retribuzioni e peggiorate le
condizioni di lavoro. Il controllo dei servizi essenziali
non solo passato nelle mani di giganti aziendali
basati allestero, ma questi giganti sono spesso di
propriet statale solo che si tratta di un altro stato.
Relazioni dopo relazioni hanno mostrato che i servizi
privatizzati sono pi costosi e inefficienti rispetto ai
loro omologhi di propriet pubblica. E non sorprende
che una grande maggioranza del pubblico, che non
ha mai sostenuto una sola privatizzazione, non ha n
fiducia nei corsari delle privatizzazioni n voglia di
affidar loro la gestione dei servizi pubblici.

I guadagni di efficienza delle imprese privatizzate non


si materializzarono. I prezzi non diminuirono con il taglio
dei costi ed i guadagni di produttivit. La qualit di
molti dei servizi era peggiorata notevolmente e alcuni di
essi cessarono di essere offerti. Le imprese privatizzate
o ereditarono la posizione di monopolio dello Stato
avvantaggiandosene senza freni, oppure si riunirono in
cartelli, sotto lo sguardo distratto o compiacente dei
comitati di controllo. Numerose imprese privatizzate
giunsero addirittura al collasso, imponendo la
socializzazione delle perdite o la rinazionalizzazione. I
salari e le condizioni di lavoro nelle imprese privatizzate
peggiorarono. Di particolare rilievo fu il dato relativo
agli scarsi investimenti. importante infatti non
dimenticare che in molti Paesi (lItalia un chiaro
esempio in tal senso), lo Stato si era dovuto far carico
in passato, in tutti i settori di maggior rilievo, di grande
parte degli investimenti ad alta intensit di capitale e
particolarmente rischiosi che gli imprenditori privati non
avevano trovato conveniente effettuare e che era
tuttavia necessario intraprendere per tenere il passo
delle nazioni pi industrializzate. Date queste premesse,
era inevitabile che le privatizzazioni, invece di aprire una
fase in cui liniziativa privata si sarebbe assunta il ruolo
di promotrice del processo di sviluppo, avrebbero
semplicemente finito per coincidere con un
impoverimento della matrice industriale e la definitiva
rinuncia a programmi di ampio respiro di ricerca e
sviluppo.
Un altro ordine di argomenti a favore delle
privatizzazioni chiam in causa gli effetti che esse
avrebbero avuto in termini di internazionalizzazione
proprietaria delle imprese, favorendo lingresso di
nuovi soggetti economici e nuovi capitali in grado di
modernizzare e vitalizzare uno spirito industriale
nazionale fiaccato dallinvasione dello Stato. Le
posizioni della sinistra al riguardo furono oltremodo
contraddittorie. Dal punto di vista astratto, infatti, gli
stessi ragionamenti che portavano a ritenere che la
propriet privata era preferibile a quella pubblica
avrebbero dovuto condurre alla negazione di ogni
ragione di bandiera. In concreto, la sinistra europea
conserv una sua concezione di patriottismo
economico favorendo la creazione di cordate nazionali
con diversa intensit nei diversi contesti nazionali:
scarsa ad esempio nel caso dellInghilterra, con
carattere di piano in Francia, in forme confuse e dagli
esiti spesso grotteschi in Italia, dove in molti casi i
capitalisti nazionali assunsero solo il ruolo di
intermediari di successive operazioni di cessione
allestero, lucrando cospicue plusvalenze.
Ma al di l di questi esiti diversi, la questione centrale
invest il significato che linteresse nazionale poteva
ancora assumere per la sinistra nellera della
mondializzazione e della fine dellimpresa pubblica.
evidente che il patriottismo economico, inteso come
tutela del capitalista nazionale, non ha di per s alcun
valore per i lavoratori, acquisendolo solo nei limiti in cui
esso funzionale ad un progetto di sviluppo indirizzato
dallo Stato ed avente come obiettivi la massima
occupazione e la crescita dei salari. Linteresse
nazionale non coincide con quello dei capitalisti di
bandiera ma con linteresse dei lavoratori; esso
pertanto incompatibile con le privatizzazioni, come pure
con le liberalizzazioni, la deregolamentazione del
mercato del lavoro, la libera circolazione di merci,
uomini e capitali insomma, con tutto lassetto di
politica economica dei Trenta pietosi.
Il settore in cui la questione emerse con maggiore
evidenza fu quello dellintermediazione finanziaria. Il
suo funzionamento si basa sulla garanzia pubblica ed
un suo ordinato sviluppo impensabile senza una
pervasiva presenza statale. Daltro canto, un moderno
sistema industriale si controlla attraverso il sistema
finanziario e quasi nessuna leva di politica economica
pu essere manovrata agevolmente dallo Stato senza
un sicuro controllo del settore. Non fosse altro che per
elementari considerazioni di perdita di potere, ci non
poteva sfuggire alle componenti della sinistra di
governo non completamente ottenebrate dallideologia
liberista. Il problema era come conciliare questa
consapevolezza con il favore accordato alle
privatizzazioni di banche e assicurazioni. Lopposizione
al passaggio di intermediari finanziari di grande rilievo
in mani straniere altro non fu che un modo di
barcamenarsi in questa contraddizione, traducendosi in
concreto in interventi senza nessun carattere
programmatico volti soltanto a promuovere interessi
economici amici per assicurarsene la lealt politica.
Ancora pi assurdi furono gli esiti dellidea che le
privatizzazioni avrebbero catalizzato la trasformazione di
un sistema finanziario bancocentrico, caratterizzato
da un mercato azionario asfittico. Molti investitori
privati, infatti, acquistarono le aziende pubbliche con
capitale di finanziamento, scaricando quindi sulle
imprese privatizzate unenorme massa di debito che ne
compromise la capacit di effettuare nuovi investimenti
e in molti casi la stessa capacit operativa. Le
privatizzazioni operarono in questo modo come un
potente fattore di accrescimento dellindebitamento
privato e della fragilit finanziaria del sistema
produttivo.
A rendere impellenti tutte le argomentazioni a favore
delle privatizzazioni vi erano infine gli effetti che si
sosteneva esse avrebbero avuto sulle finanze
pubbliche e sulla stabilit del pi generale quadro
macroeconomico. Le ragioni delle privatizzazioni si
fondevano cos con quelle dellausterit: la vendita
dellimpresa pubblica avrebbe consentito da un lato di
arrestare il flusso delle spese e dei trasferimenti ad essa
collegati; dallaltro di acquisire allo Stato ingenti risorse
finanziarie dai soggetti privati che ne avrebbero
assunto il controllo. Ladesione della sinistra allidea
che le privatizzazioni fossero un veicolo per abbattere
il debito pubblico e il suo onere sulle generazioni
future ha rappresentato una delle manifestazioni pi
evidenti del suo smarrimento politico. Come si appena
osservato, le privatizzazioni agirono come fattore di
accrescimento del debito privato piuttosto che di
riduzione del debito pubblico. Ma, pi in generale, vi
che i problemi che pone la gestione del debito pubblico
non sono mai problemi di rapporti tra generazioni: sono
essenzialmente problemi di carattere distributivo intra-
generazionale, determinati dal fatto che chi chiamato
ad onorarne il servizio attraverso le imposte non
coincide con chi possiede le cartelle del debito
pubblico. Nella testa della sinistra un presunto conflitto
generazionale ha cos finito con il prendere il posto del
conflitto effettivo tra lavoro e capitale e tra chi paga le
imposte e chi, della stessa generazione, percepisce
dallo Stato gli interessi. Essa ha perso completamente
di vista che un elevato e crescente rapporto tra il debito
pubblico e il prodotto interno lordo dannoso proprio
perch implica un crescente asservimento dei lavoratori
ai percettori della rendita finanziaria. Il problema che il
determinante fondamentale di questo crescente
asservimento un prodotto che cresce ad un tasso pi
basso del tasso di interesse. Le pur ingenti risorse
finanziare raccolte con le privatizzazioni (sebbene molto
decurtate dalle commissioni delle banche di
investimento che gestirono le operazioni di
collocamento) non potevano in alcun modo arrestare la
spirale di avvitamento del debito in rapporto al
prodotto, ma operarono al contrario nel senso di
accelerarla perch hanno agito come fattore di
rallentamento della crescita. Va poi considerato che le
privatizzazioni, favorendo e accompagnandosi ad
interventi fiscali volti ad alleggerire il carico tributario
sui redditi pi elevati, hanno rafforzato quella dinamica
redistributiva perversa dai pi poveri ai pi ricchi che
costituisce il vero problema posto da unirresponsabile
gestione del debito pubblico.
Per la sinistra, ridurre la questione dellimpresa
pubblica al far cassa equivaleva a confinarla nel
perimetro definito dalla destra, perdendosi
completamente di vista il fatto che le nazionalizzazioni
servivano in primo luogo gli interessi dei lavoratori. Ad
ispirarle erano state solo in parte le questioni poste dai
monopoli dovuti a ragioni tecnologiche e dalla non
esclusivit nel consumo dei beni pubblici. Con esse ci
si prefiggeva soprattutto di assicurare il livello di
occupazione pi alto possibile a prescindere dal
contributo offerto dalliniziativa privata; migliorare le
relazioni industriali facendo del lavoro pubblico il fronte
pi avanzato del conflitto distributivo; massimizzare i
guadagni di produttivit e la possibilit per i lavoratori
di goderne eliminando dalla scena elementi di rendita
assenteista; non subordinare gli investimenti alla
massimizzazione del profitto di breve periodo ma ad
obiettivi sociali e nazionali di pi lungo periodo. In
breve, la resa della sinistra sulla questione delle
privatizzazioni equivalsa allo svuotamento di tutti i
contenuti di classe della sua azione politica.

7. La subordinazione del potere legislativo al potere


esecutivo, il decentramento amministrativo e fiscale
come fattore di indebolimento dello Stato centrale, la
crescente subalternit in Europa degli ordinamenti
giuridici nazionali alle norme sovranazionali sono i
segni pi evidenti lasciati sullassetto istituzionale dei
Trenta pietosi dallo spirito antistatalista che li ha
permeati.
Non intendiamo discutere in dettaglio questi
mutamenti e la sorprendente facilit con la quale si
sono diffusi. Ci sembra importante tuttavia soffermarci
sullinvaghimento delle forze politiche di sinistra per il
tema dellautonomia locale. Lavversione della sinistra
al modello centralista acquista rilevanza per il suo porsi
in evidente contrasto con limportanza storicamente
attribuita dai partiti dei lavoratori allunit politica e
morale della nazione. Per usare le parole di Togliatti
allAssemblea Costituente, la classe operaia fu
unitaria perch la sua missione non poteva adempiersi
se non su una scala nazionale. Lazione politica della
sinistra aveva sempre ruotato intorno allunit dei
salariati come classe, unit minacciata appunto dalla
frammentazione territoriale, specialmente in presenza di
profonde differenze nel grado di sviluppo economico e
sociale delle diverse realt locali. Il contrasto al
localismo come fattore divisivo andava quindi
perseguito senza limiti, se non quelli definiti dai confini
dello Stato. Si riteneva che, pur proiettandosi
idealmente oltre lo Stato sul piano dei principi, la
missione politica di una forza di sinistra avesse
possibilit di trovare compimento solo su una scala non
pi grande e non pi piccola di quella nazionale.
La concezione centralista del potere dello Stato che
prevalse nei decenni post-bellici non implicava
naturalmente trascurare le realt locali. Dal punto di
vista politico, le istanze locali giungevano agli organi
centrali di governo attraverso la supremazia del potere
assembleare, sistemi elettorali proporzionali e un forte
legame del parlamentare con il territorio ed il suo
elettorato. Dal punto di vista amministrativo, la
presenza capillare dello Stato centrale sul territorio si
concretizzava in un rapporto diretto tra lo Stato e la
citt, indispensabile entit autonoma chiamata a
soddisfare le esigenze delle comunit locali sotto la
vigilanza del potere prefettizio. Dal punto di vista
finanziario, se agli enti locali era riconosciuta una
minima capacit di spesa, la totalit delle imposte era
riscossa dal governo centrale.
Gestire dal centro la spesa pubblica e limposizione
fiscale era considerato fondamentale per poter
assicurare livelli uniformi di spesa pro-capite, a fronte di
livelli impositivi eterogenei. Leterogeneit impositiva
avrebbe cos automaticamente realizzato un
trasferimento di risorse dalle zone pi ricche a quelle
pi povere. Nessun fenomeno di concorrenza fiscale
tra le basi impositive pi mobili poteva attivarsi nel
territorio dello Stato. Inoltre, proprio perch ricondotta
alla finanza pubblica centrale, la spesa locale avrebbe
potuto essere pi agevolmente finanziata grazie al
debito pubblico nazionale e alla possibilit di
monetizzare parte dei disavanzi. Infine, la creazione di
livelli intermedi di governo avrebbe comportato un
inutile quanto considerevole aggravio dei costi politici
e burocratici dello Stato, senza contare che la capacit
di influenza dei gruppi di pressione volti a distogliere a
proprio vantaggio le risorse pubbliche non avrebbe pi
incontrato nel governo centrale il massimo livello di
resistenza, derivante sia dalla maggior forza e distanza
dello Stato centrale che dalla migliore qualit degli
amministratori.
Tutti gli argomenti portati a sostegno del centralismo
nel corso dei Trenta gloriosi si trasformarono a partire
dagli anni Ottanta in altrettante ragioni a favore del
localismo. Un livello uniforme di spesa pubblica pro-
capite inizi ad essere considerato come inefficiente,
in quanto solo grazie a centri di spesa decentrati
sarebbe stato possibile differenziare tipologie e livelli di
offerta accordandoli ai gusti delle comunit locali. I
trasferimenti, qualora se ne fosse ravvisata la necessit,
dovevano avvenire attraverso il meccanismo esplicito
dei fondi di solidariet, ai quali le comunit pi povere
potevano accedere grazie alle contribuzioni di quelle
pi ricche. La concorrenza impositiva tra diverse
giurisdizioni fiscali avrebbe consentito ai cittadini di
votare la qualit delle amministrazioni locali,
accrescendone efficacia ed efficienza. Nello stesso
senso avrebbe operato limpossibilit di finanziare la
spesa pubblica locale emettendo moneta e la necessit
di ricorrere alle pi onerose modalit di finanziamento a
debito sul mercato: sottoposti a vincoli di bilancio
stringenti, gli amministratori locali si sarebbero visti
costretti a gestire la produzione decentrata dei beni
pubblici in base a criteri aziendalistici. Il corpo politico
locale, divenuto una sorta di amministratore delegato di
aziende possedute dallazionista contribuente,
sarebbe stato forzato ad operare limpidamente,
contrariamente alla remota quanto opaca classe politica
centrale.
Allo Stato centrale andavano affidate le sole politiche
macroeconomiche anticongiunturali e redistributive,
nonch la produzione dei beni pubblici che potevano
essere goduti solo dalla nazione collettivamente (come
la difesa). Il principio guida divenne la presunzione che
lofferta di beni pubblici dovesse essere affidata al pi
basso livello di governo in grado di includere tutti
coloro i quali ne godevano i benefici e ne sopportavano
i costi. I livelli superiori andavano chiamati in causa
solo quando quello inferiore non fosse stato, in senso
spaziale, inclusivo. Il ruolo del governo centrale fu
visto come residuale, a fronte di unidentificazione tra
autonomie regionali, accrescimento della partecipazione
democratica e efficienza delloperato dei pubblici poteri.
Poco importava che vi fossero chiari segnali circa
leffetto di affievolimento della progressivit fiscale
determinato dalla riduzione del tasso di centralismo del
sistema impositivo, come pure che non vi fosse
nessuna prova solida dellesistenza di una relazione tra
decentramento fiscale ed efficienza della pubblica
amministrazione.
A chiarire quale fosse il senso di questa corsa al
decentramento era in realt il sostegno che essa
raccoglieva da destra. Le autonomie regionali potevano
finanziarsi solo ricorrendo allimposizione o a forme
onerose e limitate di indebitamento. Ma essendo la
capacit di finanziarsi attraverso le imposte fortemente
differenziata nei diversi contesti territoriali, ed in ogni
caso compromessa dalla mobilit delle basi imponibili e
dai conseguenti fenomeni di concorrenza fiscale, il
ruolo principale che il decentramento era chiamato a
svolgere era quello di affamare il leviatano e arrestare
la crescita del settore pubblico. Le comunit che
avessero visto sottofinanziata la spesa per i servizi
locali non avrebbero avuto troppe alternative al ridurne
lofferta e abbassarne la qualit, visto che era
francamente difficile attendersi che i benefici derivanti
da una maggiore concorrenza fossero in grado di
compensare sul piano dellefficienza quello che veniva
meno sul piano delle risorse. Lo stesso sarebbe
accaduto nelle zone pi ricche, dal momento che i
cittadini pi abbienti, quindi meno bisognosi dei servizi
pubblici locali, avrebbero avuto pi possibilit di
piegare a proprio vantaggio le scelte politiche
ottenendo meno tasse e meno spesa. La spinta al
decentramento convergeva in tal modo con quella alle
privatizzazioni: le imprese private, liberate dalloneroso
obbligo di servizio (si pensi al trasporto locale e alla
necessit di assicuralo anche su tratte economicamente
non convenienti) avrebbero preso il posto di quelle
pubbliche portate al collasso finanziario. In altre parole,
austerit e privatizzazioni trovarono proprio nella
dimensione regionale lo spazio dove potersi affermare
con pi forza. Tutta la retorica sulla possibilit di
adeguare lofferta dei servizi pubblici ai gusti dei
cittadini si tradusse in nullaltro che nelliniziare ad
accordare ai pi ricchi la possibilit di non usufruire e
non contribuire.
Le spinte appena descritte sono talmente irragionevoli
da poter essere spiegate solo come una delle
manifestazioni della perdita di sovranit nazionale.
Decentramento e subalternit dei poteri nazionali alle
norme e alle istanze sovranazionali sono strettamente
collegati: pi lEuropa indebolisce gli Stati, pi ha
bisogno delle regioni per amministrare il territorio.
Sarebbe tuttavia un errore pensare che il favore della
sinistra europea per il decentramento sia nato con i
trattati UE e laffermazione del principio della
sussidiariet. Come ben illustra il caso italiano, sul
quale ci soffermeremo nel prossimo capitolo, una
pulsione allautonomismo locale stata sempre
presente in seno alla sinistra, motivata quantomeno dal
tentativo di acquisire sul piano regionale una centralit
politica negata, per motivi esterni o per il percepirsi
come inadeguata, sul piano nazionale. Contenuta per
decenni dalla consapevolezza che statalismo e
centralismo fossero una sola cosa, questa pulsione
eruppe con il progressivo imporsi dellazione
disgregatrice della sovranit nazionale esercitata dal
progetto europeo. Si pu dire pertanto che la
responsabilit della sinistra per non aver avversato
questazione di frammentazione si sia sovrapposta al
suo favore di pi lungo corso per il regionalismo. Ed
proprio con il sovrapporsi di queste due tendenze che
si giunger alla paradossale coesistenza tra la
negazione dellinteresse nazionale e laffermazione
dellinteresse locale.

Nota bibliografica
Limpatto delle politiche delloccupazione e dei livelli
occupazionali sulle istituzioni del mercato del lavoro, il
potere contrattuale dei sindacati e i livelli salariali
stato analizzato nel corso degli ultimi 10 anni da
numerosi autori. Si vedano in particolare: I. Dew-Becker
e R.J. Gordon, Selected issues in the rise of income
inequalities, Brookings Papers on Economic Activity,
2, 2007; W. Salverda e K. Mayhew, Capitalist
economies and wage inequalities, Oxford Review of
Economic Policy, Vol. 25, n. 1, 2009; G. Bosch et al.,
Industrial Relations, legal regulations, and wage
setting, in J. Scmitt e J. Gauti (a cura di), Low-Wage
Work in the United States and Europe, Russel Sage,
New York 2010; M. Pivetti, On advanced capitalism
and the determinants of the change in income
distribution: a classical interpretation, in E.S. Levrero
et al. (a cura di), Sraffa and the Reconstruction of
Economic Theory: Volume One (Theories of Value and
Distribution), Palgrave Macmillan, Londra 2013.
Il processo di sostituzione di indebitamento privato a
salari come strumento di sostegno dei consumi delle
famiglie americane analizzato in A. Barba e M. Pivetti,
Rising household debt. Its causes and macroeconomic
implications: a long-period analysis, Cambridge
Journal of Economics, Vol. 33, n. 1, 2009.
Sullorientamento neo-mercantilista della politica
economica tedesca e le sue ripercussioni sui Paesi
europei, si veda S. Cesaratto, Europe, German
mercantilism and the current crisis, in E. Brancaccio e
G. Fontana, The Global Economic Crisis. New
Perspectives on the Critique of economic Theory and
Policy, Routledge, Londra 2011. Per quanto riguarda
laccresciuta flessibilit del mercato del lavoro tedesco,
i ridimensionamenti dellistruzione pubblica in Francia e
i tagli della previdenza e della sanit pubbliche in Italia,
si vedano C. Weinkopf, A changing role of temporary
agency work in the German employment model?,
International Employment Relations Review, Vol. 12, n.
1, 2006 e i saggi contenuti in G. Bosch e C. Weinkopf (a
cura di), Low-Wage Work in Germany, Russel Sage,
New York 2008; Cour des Comptes, Leducation
nationale face lobjectif de la russite de tous les
lves, Rapport public, La Documentation Franaise,
Parigi, maggio 2010; A. Parienty, School business.
Comme largent dynamite le systme ducative, La
Dcouverte, Parigi 2015 (da cui tratto il brano citato
nella sez. 5); M. Pivetti, The principle of scarcity,
pension policy and growth, Review of Political
Economy, numero speciale sulle pensioni a cura di S.
Cesaratto, Vol. 18, n. 3, 2006; A. Barba, Previsioni
demografiche e sostenibilit della spesa pensionistica
in Italia, Studi Economici, Vol. 94, n. 1, 2008; S.
Gabriele, Politiche recessive e servizi universali: il caso
della sanit, in S. Cesaratto e M. Pivetti (a cura di),
Oltre lausterit, eBook di Micromega, Roma 2012.
La citazione di Tony Blair tratta da Leaders Speech
Brighton 1995 (Tony Blair), in Speech Archive at
www.britishpoliticalspeech.org. Per una rassegna dei
principali argomenti teorici sviluppati nel corso degli
ultimi decenni dagli economisti avversi allimpresa
pubblica si veda A. Shleifer, State versus private
Ownership, Journal of Economic Perspectives, Vol.
12, n. 4, autunno 1998. W. Maggison e J. Netter, From
State to Market: A Survey of Empirical Studies on
Privatization, Journal of Economic Literature, Vol.
XXXIX, giugno 2001, offre una pi articolata disamina
del tema, di carattere sia teorico che empirico. Larticolo
di The Guardian citato a p di Seumas Milne, The
tide is turning against the scam that is privatisation,
del 9 luglio 2014. Sui pessimi esiti delle privatizzazioni
nel caso inglese, si veda anche J. Meek, Private Island,
why Britain now belongs to someone else, Verso,
Londra 2015. Per un quadro conciso degli effetti della
privatizzazione delle ferrovie in Europa, si veda J.
Mischi e V. Solano, Acclration de la privatisation du
rail en Europe. Trent-six compagnies pour une ligne de
chemin de fer, Le Monde Diplomatique, giugno 2016.
Una chiara introduzione ai principali temi del dibattito
corrente sul federalismo fiscale contenuta in W.
Oates, An Essay on Fiscal federalism, Journal of
Economic Literature, XXXVII, n. 3, settembre 1999.
Fiscal Federalism in the European Union, edito da A.
Fossati e G. Pannella, Routledge, Londra 1999, una
raccolta di saggi che analizzano in chiave comparata i
rapporti economici tra governi locali e centrali in tutti i
principali Paesi europei. La citazione di Togliatti
dallintervento allAssemblea Costituente dell11 marzo
1947, seduta pomeridiana, Tipografia della Camera dei
Deputati, Roma 1947, p. 2001.
Capitolo VI

Il caso italiano: comunisti? Brava gente

1. Pi che di corsa alla modernit, per la sinistra


italiana si pu parlare di una lunga marcia verso il vuoto
ideologico e programmatico. Non ci occuperemo in quel
che segue di questo vuoto n dei suoi protagonisti.
Cercheremo invece di metterne a fuoco le premesse,
concentrando lattenzione sul periodo che a noi sembra
quello decisivo per la comprensione del fenomeno,
ossia il decennio compreso tra la fine degli anni
Sessanta e la fine degli anni Settanta. Cercheremo
anche di individuare gli elementi pi significativi del
percorso che port il maggiore partito della sinistra
italiana alle scelte che esso comp in quel decennio.

2. Unaccresciuta forza contrattuale del lavoro


dipendente si manifest in modo chiaro in Italia a
partire dallautunno caldo del 1969 attraverso
laumento dei salari reali (cresciuti mediamente di circa il
5 per cento allanno tra il 1969 e il 1975), il rafforzamento
della loro difesa dallinflazione (attraverso laccordo del
gennaio 1975 tra sindacati e confindustria, il cosiddetto
accordo Lama-Agnelli sul punto unico di contingenza)
e la realizzazione di importanti riforme economiche e
sociali: la riforma del sistema pensionistico (cfr. sopra,
p. 165); lo Statuto dei diritti dei lavoratori; nuove norme
per la tutela delle lavoratrici madri e la parit di
trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro;
lavvio di un tentativo di riforma del sistema tributario
nel senso dellaumento della sua progressivit;
listituzione del Servizio sanitario nazionale. Ma
allaccresciuto potere contrattuale dei salariati e
allavvio anche in Italia di un riformismo effettivo
corrisposero una serie di avvenimenti, interni ed
esterni, che ebbero uninfluenza importante sulle scelte
che il partito comunista italiano (Pci) fin per compiere
nella seconda met del decennio in questione.
Allinterno, la reazione stragista alle riforme: la stagione
delle grandi riforme fu in Italia anche la stagione dello
stragismo, inaugurata alla fine del 1969 dalla strage di
piazza Fontana. Allesterno, il colpo di Stato in Cile
dell11 settembre 1973 contro il governo del socialista
Salvador Allende e lo scoppio della prima crisi
petrolifera alla fine di quello stesso anno. Infine, ma
come vedremo non per ultimi, lacutizzarsi dei problemi
dellinflazione e della bilancia dei pagamenti, a fronte
degli aumenti salariali, degli aumenti dei prezzi delle
materie prime e delle continue svalutazioni della lira tra
il 1973 e il 1977.
Questi avvenimenti fecero da sfondo, costituendone
per cos dire la ratio, alla strategia berlingueriana del
compromesso storico e della connessa politica di
solidariet nazionale: una scelta di non belligeranza e
di collaborazione con la democrazia cristiana (Dc) di
fronte alla crisi economica, in una situazione ritenuta di
pericolo per la democrazia soprattutto a causa del
terrorismo interno. Come noto, quella linea non
produsse alcuna partecipazione del Pci al governo
nazionale; essa si risolse nel suo appoggio esterno al
III e al IV governo Andreotti, ossia ai governi
monocolori democristiani del 1976-1977 e del 1978-1979.
Il Pci divenne cos partito di governo senza essere
nel governo, si assunse cio delle responsabilit senza
alcun potere. Ci che in sostanza prevalse allinterno
del Pci fu la decisione di non usare, praticamente in
cambio di niente, i maggiori consensi che il partito era
riuscito a conquistare nel Paese dalla fine degli anni
Sessanta e grazie ai quali esso era passato dal 27,9 per
cento (1970) al 34,6 per cento il suo massimo storico
alle elezioni amministrative del 1975, a fronte di un
sensibile arretramento della Dc (dal 38 per cento al 35
per cento, ma gi alle elezioni politiche del giugno
dellanno successivo essa sarebbe risalita al 38,7 per
cento, a fronte di un primo calo, ancora molto
contenuto, del Pci: 34,4 per cento). A seguito
dellavanzata elettorale del 1975, il Pci insieme al partito
socialista (Psi) ottenne il governo di altre tre regioni
(Liguria, Piemonte e Marche) in aggiunta alle
tradizionali tre regioni rosse. Napoli, Roma, Firenze,
Bologna e Torino ebbero dei sindaci comunisti o
sostenuti dai comunisti e allincirca la met della
popolazione italiana si trov a vivere in aree
amministrate dalla sinistra. Allindomani delle elezioni
politiche del 1976, la Dc (nonostante il suo recupero) e i
tre partiti centristi minori non si trovarono pi in grado
di formare una maggioranza e il Psi era molto restio a
farne parte se il Pci fosse rimasto escluso. Il potere
politico contrattuale dei comunisti era dunque tale da
consentire loro di porre con determinazione sul tappeto
la questione della partecipazione al governo nazionale,
invece di mostrarsi disponibili a sostenerlo senza farne
parte e senza alcuna contropartita certa in termini di
politiche di sostegno delloccupazione e di ulteriori
riforme economiche e sociali.
Tra i Paesi europei facenti parte dellOcse, lItalia
aveva in quegli anni (1974-1979) il tasso di
disoccupazione pi elevato (mediamente il 6,6 per
cento). Ma in quegli stessi anni linflazione sub
unaccelerazione allinterno di tutto il capitalismo
avanzato con il tasso dinflazione italiano del 16 per
cento tra i pi elevati facilitando dovunque
labbandono dellobiettivo del pieno impiego. La
solidariet nazionale fu di fatto in Italia il passaggio
politico attraverso il quale tutto venne subordinato alla
lotta allinflazione, indicata in una risoluzione approvata
dalla direzione del Pci il 7 ottobre 1976 come lotta
contro il pericolo pi grave per le masse. Quanto alle
riforme, grazie a quelle economico-sociali sopra
ricordate, era finalmente iniziata anche nel nostro Paese
la costruzione di una rete di solidariet effettive tra i
membri della collettivit nazionale, tesa in primo luogo a
ridurre lesposizione del lavoro dipendente e della parte
pi debole della popolazione alle vicissitudini del
mercato e allavidit dei ceti abbienti. Ma si trattava
appunto solo di un inizio. La rete di solidariet e
garanzie avrebbe dovuto essere consolidata e
sviluppata; essa avrebbe potuto essere consolidata e
sviluppata, grazie alla forza e al prestigio conquistati nel
Paese dalla sinistra. Con la solidariet nazionale si
inizi invece a procedere nella direzione opposta.
Insieme allulteriore aumento della disoccupazione e
delle disuguaglianze, tutte le controriforme che da allora
si sono susseguite a un ritmo sempre pi serrato hanno
incrinato la coesione sociale allinterno della nazione e
contribuito a minare le gi non solide fondamenta della
sua unit.

3. Le implicazioni di politica economica del


compromesso storico e della solidariet nazionale
emersero in modo chiaro in un convegno organizzato a
Roma nel marzo 1976, tre mesi prima delle elezioni
politiche, dal Centro studi di politica economica (Cespe)
del Pci, dal titolo Crisi economica e condizionamenti
internazionali dellItalia. Un titolo apparentemente
promettente, in quanto suggeriva che allinterno del Pci
si fosse fatta strada la consapevolezza della necessit
di mettere in discussione i condizionamenti
internazionali delleconomia italiana, che, sotto forma di
ingenti fughe di capitali e ingenti disavanzi commerciali
con lestero, ne costituivano i principali fattori di crisi,
ossia lostacolo maggiore alla crescita delloccupazione
e al miglioramento delle condizioni di vita della
maggioranza della popolazione. Dunque, che il
problema fosse essenzialmente quello di individuare
misure capaci di allentare i vincoli esterni alla crescita
dei salari e delloccupazione e di riuscire a usare la forza
accumulata dalla sinistra per imporne ladozione ai
responsabili della politica economica. Ma al convegno
questo orientamento non inform che tre contributi,
che alla fine risultarono del tutto eccentrici rispetto
allimpostazione generale ad esso data dai suoi
promotori. Il senso del convegno e di quel titolo risult
semplicemente essere il seguente: dati i suoi
condizionamenti internazionali ovvero, data
lirremovibilit dei vincoli esterni lItalia non avrebbe
potuto affrontare la crisi economica in corso che
attraverso il contenimento dei salari e politiche
monetarie e di bilancio restrittive. Ogni tentazione
protezionistica avrebbe dovuto essere respinta. Nella
sua relazione introduttiva, leconomista ufficiale del Pci
nonch segretario del Cespe, Eugenio Peggio,
riconosceva che

il problema dellequilibrio della bilancia dei


pagamenti costituisce uno dei problemi pi urgenti e
pi acuti che sta dinnanzi al Paese. Di tale problema,
le forze di sinistra e il movimento sindacale non
possono disinteressarsi, pensando che si tratti
essenzialmente di un affare altrui. [] Ma in ogni
caso non possibile preporsi il riequilibrio della
bilancia dei pagamenti e il superamento della crisi
delleconomia italiana attraverso una politica
protezionistica, che tra laltro creerebbe serie
difficolt a tutta la politica internazionale del nostro
Paese. Non neppure percorribile la strada di una
continua svalutazione della lira, che cerchi di forzare
al massimo le esportazioni italiane. [] Di fronte
allimpossibilit di ricorrere a una ulteriore dilatazione
dellindebitamento verso lestero, di tornare a una
politica protezionistica e di affidare a una continua
svalutazione della lira il riequilibrio nei conti con
lestero, appare evidente che i problemi del Paese
possono essere affrontati e avviati a soluzione
soltanto con un grande sforzo di tutta la nazione: uno
sforzo che comporta necessariamente sacrifici, anche
per la classe operaia e per le grandi masse popolari.
[] In linea generale deve ritenersi che la dinamica
del costo del lavoro per unit di prodotto non possa
differire sostanzialmente da quello che si verifica
negli altri Paesi con i quali lItalia deve pi competere.
questa la condizione necessaria per far s che lItalia
possa continuare ad agire in uneconomia aperta, e
non debba fare concessioni di carattere
protezionistico.

Naturalmente queste proposizioni riscossero una


totale approvazione da parte della star internazionale
del convegno, leconomista italo-americano Franco
Modigliani, le cui ricette per i problemi delleconomia
italiana erano note da tempo:

Sono in pieno accordo con Eugenio Peggio sulla


impostazione che egli ha dato al problema della
dinamica salariale, in un sistema che vuole restare
pienamente funzionante e godere dei benefici del
commercio internazionale; [] ma bisogna anche
vedere se partiamo da un livello [dei salari] che
compatibile con il sistema, se cio il livello corrente
non sia gi tale da schiacciare i profitti ad un punto
incompatibile con il pieno impiego. [] Comunque la
condizione che Peggio ha posto non solo
condizione necessaria per lequilibrio della bilancia
dei pagamenti, ma anche la condizione necessaria
perch si possa evitare un processo distruttivo ed
esplosivo di inflazione e svalutazione. [] Come si fa
a fermare linflazione? Non esiste altra maniera che io
conosca se non quella di fermare il costo unitario del
lavoro. [] Questo naturalmente richiede qualche
sacrificio ai lavoratori. [] Quali sono le
contropartite? [] Le contropartite dirette di questo
sacrificio sono tre: difesa delloccupazione,
riassorbimento della disoccupazione e fine
dellinflazione. Queste sono le tre contropartite per la
classe operaia.

Nei giorni in cui si svolse il convegno del CESPE, ai


lavoratori italiani si era gi iniziato a far fare dei sacrifici.
Nonostante la forte svalutazione della lira attuata
allinizio dellanno, che avrebbe permesso alle imprese
di trasferire laumento dei costi sui prezzi senza
rischiare un calo delle loro esportazioni, le
confederazioni sindacali non solo non avevano
modificato le piattaforme contrattuali elaborate prima
della svalutazione, ma avevano anche accettato uno
scaglionamento degli aumenti salariali. Allora avrebbe
dovuto gi essere chiaro a tutti che il contenimento
delle rivendicazioni salariali non avrebbe avuto alcuna
contropartita in termini di maggiori investimenti e di una
riduzione della disoccupazione. Questo semplicemente
perch pi alti margini di profitto per unit di prodotto
non avevano mai costituito, di per s, una circostanza
capace di tenere alto il livello degli investimenti privati:
non importa quanto elevati fossero tornati ad essere i
margini di profitto, nuovi investimenti non sarebbero
stati effettuati se le imprese non si fossero aspettate di
riuscire a vendere il prodotto dellaccresciuta capacit
produttiva. Quanto agli investimenti sociali, era difficile
capire in che modo il contenimento dei salari avrebbe
dovuto determinare il loro aumento, considerato che il
Pci non era al governo e che nessuna sinistra al mondo
aveva mai ottenuto per buona condotta il premio di
essere ammessa a partecipare al governo della propria
nazione a meno di intendere per buona condotta
semplicemente la rinuncia alla tutela degli interessi della
propria base sociale. Alla luce dellesperienza gi
accumulata dal movimento operaio italiano, era
evidente che questi interessi avrebbero potuto essere
efficacemente tutelati solo con controlli severi dei
movimenti di capitali e la riduzione del contenuto di
importazioni della domanda interna, ossia con
restrizioni temporanee delle importazioni di beni non
indispensabili al processo produttivo e lavvio di una
politica industriale di sostituzione di importazioni con
produzione interna. Ora, non i sacrifici, ma al
contrario proprio la ferma indisponibilit da parte del
movimento operaio ad offrirne degli altri ci che
avrebbe potuto indurre i responsabili della politica
economica a percorrere la strada della riduzione della
dipendenza dallestero delleconomia italiana. Di fronte
infatti ad una tale indisponibilit, le alternative
percorribili per riassorbire il disavanzo esterno
sarebbero state o una drastica contrazione dei livelli di
attivit, quindi anche della massa dei profitti delle
imprese, da ottenersi mediante il ricorso a politiche
monetarie e di bilancio fortemente restrittive, o il
proseguimento del ricorso a svalutazioni competitive,
con limpatto negativo della conseguente spirale
svalutazione-inflazione-svalutazione su gran parte della
base sociale della Dc e dei partiti centristi minori:
risparmiatori, creditori e ceti di piccola e media
borghesia scarsamente protetti o non protetti affatto
dallinflazione.
Questi argomenti, sostenuti nella sua comunicazione al
convegno da uno degli autori di questo volume,
suscitarono in Luciano Lama, segretario generale della
Cgil, una certa sorpresa:

In sostanza mi sembrato di intendere che [] se


non cresce la domanda interna di beni di consumo e
quindi il salario, non si fanno investimenti privati, e
poich quelli pubblici si d per scontato che sono
bolle di sapone, lunica soluzione giusta sarebbe la
rivalutazione delle rivendicazioni elaborate prima della
svalutazione monetaria. lunica voce che ho inteso,
cos chiara, ma lho intesa. E naturalmente, per ridurre
il grado di vulnerabilit della nostra economia a
eventi esterni, si dovrebbe dissentire da quelli che
Pivetti ha chiamato i fuorvianti tab dellautarchia e
realizzare una politica di controllo delle importazioni
[]; tutto ci a me sembra arieggiare il ripristino di un
sistema protezionistico che potrebbe davvero
riportarci indietro di molti decenni sul piano
economico e politico, con la prevedibile
conseguenza: di un drastico, rovinoso
peggioramento del livello di vita dei lavoratori e del
nostro popolo; di una rapida uscita dellItalia non
solo dal serpente monetario, ma dal novero dei Paesi
industrializzati, sia pure a met e con tanti ingiusti
squilibri. Non credo che possa essere, una sorta di
autarchia degli anni Ottanta, la medicina che ci serve
per uscire dalla crisi e per combattere validamente la
spirale svalutazione-inflazione-svalutazione []. Noi
non abbiamo mutato le piattaforme contrattuali e non
abbiamo intenzione di mutarle. Scontiamo che queste
non costituiscono, per le nuove previsioni
inflazionistiche, una difesa totale del potere di
acquisto per il futuro. I sacrifici, si dice. [] Ma per
compenetrare pienamente le masse popolari della
gravit della situazione e della necessit di affrontarla
anche, se necessario, con sacrifici ulteriori, occorre
una tensione nuova, politica e morale, che oggi non
c. [] Una linea di moderazione non cedimento,
se si pone obiettivi qualitativamente pi importanti,
che valgono di pi, pi di un aumento nominale dei
salari []. Lungi da me lintenzione di indirizzare i
lavoratori su obiettivi illusori e sbagliati. Ma se
vogliamo ragionare seriamente e preparare un futuro
diverso, occorre rispondere prima di tutto a una
domanda: che cosa bisogna fare in Italia per
assicurare gradualmente, ma con certezza, il lavoro a
tutti, specialmente ai giovani? [] La strategia del
sindacato [ dare] priorit alle riforme e al
cambiamento del modello di sviluppo []. Il
sindacato ha compiuto razionalmente questa scelta e
non ha nessuna intenzione di cambiarla [] e per
questo abbiamo affermato unitariamente come
movimento sindacale la necessit di dar vita a un
governo fondato su un largo consenso delle masse
lavoratrici e popolari.

Non molto diversa nella sostanza, ma decisamente pi


surreale nellarticolazione, fu la posizione espressa al
convegno da Bruno Trentin, segretario generale della
Federazione lavoratori metalmeccanici, allora
considerato come lesponente pi autorevole della
sinistra del movimento sindacale. Nel passo che qui
riportiamo, egli sembra aspirare a poter continuare a far
fare sacrifici ai lavoratori italiani, ma da ministro del
Lavoro piuttosto che da dirigente sindacale:

possibile che un mutamento radicale degli indirizzi


di politica economica, una svolta esemplare nei criteri
ispiratori di una necessaria politica di austerit e
quindi un mutamento del quadro politico pongano
lesigenza di nuove scelte autonome da parte del
sindacato e che le stesse reazioni del sistema e pi
stringenti condizionamenti internazionali pongano
lesigenza di nuovi sacrifici per le classi lavoratrici.
Con quali contropartite? [] Le contropartite non
potranno a breve termine essere commisurate in
termini di riduzione sensibile della disoccupazione
strutturale. Ci vorr del tempo per questo. E non
potranno neanche essere commisurate in termini di
riforme pur indispensabili con i loro effetti a medio
termine sulloccupazione e il salario dei lavoratori;
questi effetti si faranno sentire anche essi solo con il
tempo, appunto. La contropartita che il sindacato pu
pretendere in questo caso e si tratta di una
contropartita non monetizzabile potr consistere
nella possibilit offerta alla classe operaia di
partecipare alla gestione dei suoi sacrifici. una
contropartita che ripropone, come tutta lesperienza
recente del movimento sindacale italiano, un
problema di potere, di partecipazione, di articolazione
democratica della societ.

Due anni dopo, nel 1978, terminata lesperienza del


primo monocolore democristiano di solidariet
nazionale e alla vigilia dei rinnovi contrattuali di fine
1978, inizio 1979, i due autorevoli sindacalisti
continuavano a condividere e sostenere la tesi del loro
partito circa i sacrifici dei lavoratori come condizione
necessaria sia di una riduzione della disoccupazione
che delladozione di mai chiaramente specificate misure
concrete per il cambiamento del modello di sviluppo,
un mutamento radicale degli indirizzi di politica
economica, il rinnovamento della vita economica e
sociale del Paese. In unintervista rilasciata al
quotidiano La Repubblica del 24 giugno 1978, Lama
ribadiva che se si voleva essere coerenti con lobiettivo
di ridurre la disoccupazione era ovvio che ogni
miglioramento delle condizioni dei lavoratori occupati
avrebbe dovuto passare in subordine: Il sindacato
propone ai lavoratori una politica di sacrifici. Non si
tratter di sacrifici marginali, ma sostanziali. [] Nei
prossimi anni la politica sindacale dovr essere molto
moderata. [] Dal 1969 ad oggi, abbiamo puntato a
introdurre elementi di rigidit nellimpiego della forza
lavoro. [] Ebbene, bisogna essere intellettualmente
onesti. stata unidiozia. Il mese successivo, il nuovo
indirizzo sindacale venne sancito allAssemblea
generale delle tre confederazioni la cosiddetta svolta
dellEUR. In un articolo su Le Monde del dicembre di
quellanno, anche Trentin dichiarava che dopo il 1969 il
sindacato non aveva previsto tutte le implicazioni
economiche delle sue rivendicazioni: Avremmo
dovuto prevedere che la riduzione degli orari, i nuovi
diritti sindacali, le rigidit che erano state introdotte
nella produzione avrebbero accelerato la crisi senza che
ne venissero predisposte tempestivamente delle
soluzioni. [] Ora bisogna battersi per i sacrifici! Nel
presente contesto, lausterit una strategia che punta
a trasformare le strutture economiche e sociali. E
ancora nel 1980, dopo la seconda esperienza di
appoggio del Pci a un monocolore democristiano, nella
sua opera Il sindacato dei consigli sottolineava
limportanza dellavvenuto superamento di una logica
per cui il sindacato riteneva di dover chiedere delle
contropartite certe ai sacrifici, e sosteneva che il dato
rilevante della svolta dellEUR era stato proprio il fatto
dellesser riuscito il movimento sindacale italiano a
prendere finalmente le distanze da una cosa terra terra
come la contrattazione salariale dallessere riuscito,
nelle sue parole, a distaccarsi da tutta una filosofia
sostanzialmente contrattualistica [] tuttora imperante
in molti Paesi dEuropa.
Il Pci e il movimento sindacale italiano non si
sarebbero mai pi ripresi da un simile distacco dai
bisogni e dalle domande della loro base sociale,
distacco operato con i sacrifici e lausterit, ossia
con la moderazione e la deflazione, concepiti e accettati
come contropartita socio-economica del compromesso
storico. I successi elettorali del 1975-1976 vennero
cancellati nel giro di pochi anni, senza che ci
provocasse alcun ripensamento tra i dirigenti
comunisti. Essi continuarono a non avere dubbi sul
fatto che di fronte alla crisi economica la linea del
partito non avrebbe potuto essere che quella seguita:
mostrare allintero Paese un alto senso di
responsabilit nazionale, come si espresse nel 1986
Gerardo Chiaromonte, uno dei maggiori sostenitori della
linea berlingueriana, nel suo libro Le scelte della
solidariet democratica. Cronache, ricordi e
riflessioni sul triennio 1976-1979. Insomma, anche
negli anni che seguirono il fallimento dellesperienza del
compromesso storico i dirigenti comunisti rimasero
convinti che di fronte allacutizzarsi allinterno della
societ, in conseguenza della crisi, del conflitto tra
interessi contrapposti la conventio ad excludendum nei
confronti del partito avrebbe potuto essere superata
solo sacrificando la tutela degli interessi della propria
base sociale alla tutela di un presunto quanto
vagamente specificato interesse generale: dare un
senso ed uno scopo aveva avuto modo di dire
Berlinguer nel 1977 a quella politica di austerit che
una scelta obbligatoria e duratura, e che, al tempo
stesso, una condizione di salvezza per i popoli
delloccidente [], in linea generale, ma, in modo
particolare, per il popolo italiano.
Lo storico inglese Donald Sassoon ha osservato che,
lungi dal riuscire ad eliminare una volta per tutte quella
conventio ad excludendum, accettando di sostenere
dei governi democristiani rimanendone escluso il Pci
implicitamente sanc la propria illegittimit. Ad ogni
modo, con quel suo appello etico a una mobilitazione
generale delle forze democratiche contro una sorta di
nemico comune alle porte, il partito comunista italiano
era di fatto giunto alla fine dei suoi giorni prima e
indipendentemente dalla fine dellUrss.

4. Gli anni Settanta furono per il Pci anche gli anni del
grande imbarazzo per la passata ammirazione e
solidariet verso lUnione Sovietica. Come noto, la
linea del compromesso storico fin per spingere
Berlinguer a compiere unabiura completa dal sistema e
dal Paese emersi dalla Rivoluzione dottobre, fino al
riconoscimento del senso di sicurezza che lui e il partito
ricavavano dallappartenenza dellItalia al Patto
Atlantico (mi sento pi sicuro da questa parte,
dichiar in unintervista al Corriere della sera del 15
giugno 1976). Mentre, come vedremo tra un momento,
sul piano della politica interna si possono individuare
importanti elementi di continuit tra la linea del
compromesso storico e la tradizione togliattiana del
Pci, sulla questione dellUrss e del conflitto tra i due
blocchi la rottura con quella tradizione non avrebbe
potuto essere pi netta.
Gli scritti e i discorsi di Togliatti rivelano come egli
considerasse estremamente importante il rafforzamento
dellUnione Sovietica e come si rendesse perfettamente
conto che la guerra fredda lavrebbe invece indebolita,
tanto pi quanto pi accanitamente la corsa agli
armamenti avesse continuato a svilupparsi. Togliatti
pertanto riteneva che il movimento operaio e socialista
di ciascun Paese capitalista a partire dal movimento
operaio italiano, caratterizzato dalla presenza del
maggior partito comunista del mondo occidentale
dovesse adoprarsi per la distensione dei rapporti
internazionali e la rimozione degli ostacoli che a questa
si opponevano. vero che in quegli anni mostrarsi
solidale con lUnione Sovietica non comportava gli
stessi rischi di isolamento culturale e politico che
avrebbe comportato in seguito. Il sistema sovietico di
fatto riscuoteva ancora unammirazione diffusa, in
primo luogo per essere riuscito in poco tempo a
trasformare una nazione per lo pi composta di
contadini analfabeti o semi-analfabeti (che si
genuflettevano e invocavano la benedizione dello zar,
come aveva scritto Benedetto Croce) in una grande
potenza industriale che aveva sconfitto il nazismo e che
stava attirando nella sua orbita un numero crescente di
Paesi. Ma resta il fatto che dalle prese di posizione di
Togliatti sullUrss emerge in modo chiaro la
consapevolezza della forza e del prestigio che ciascun
movimento operaio e socialista nazionale, non importa
quanto autonoma dallesperienza del socialismo reale
fosse la sua linea, oggettivamente ricavava
dallesistenza di un modo di produzione e di un sistema
sociale alternativi che si erano mostrati capaci di
assicurare persistentemente, insieme alla piena
occupazione, il soddisfacimento dei bisogni primari
dellintera collettivit (da un alloggio caldo a una buona
istruzione e alla cura della salute per tutti, da una
distribuzione molto egualitaria del reddito a una marcata
parit effettiva tra uomini e donne). E, in aggiunta a
questa consapevolezza, la lucidit del capo dei
comunisti italiani circa limpatto devastante sulle
condizioni di vita di centinaia di milioni di persone su
tutta la terra che avrebbe avuto un serio indebolimento
dellUnione Sovietica, o addirittura la sua liquidazione
da parte della maggiore potenza economico-militare
degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Nel corso di
questultimo quarto di secolo, i disastrosi effetti geo-
politici della dissoluzione dellUrss e del blocco
sovietico si sono andati dispiegando davanti ai nostri
occhi, insieme al degrado economico-sociale dello
stesso capitalismo avanzato che quella dissoluzione ha
contribuito a determinare. Si pu affermare, alla luce
dellesperienza, che labiura completa del partito di
Berlinguer dal sistema del socialismo reale,
apparentemente lungimirante, fu in realt anche
unabiura dallelemento pi intelligente della tradizione
togliattiana.
Il principale tratto di continuit con quella tradizione si
ebbe invece in campo economico, rispetto al quale si
pu parlare di un robusto quanto ininterrotto filo rosso
di subalternit del Pci nei confronti della nostra cultura
economica laico-liberale. Nel primo trentennio post-
bellico il partito comunista seppe senza dubbio
conquistarsi una posizione egemone allinterno della
cultura italiana: in campo letterario e artistico, tra gli
uomini di cinema e di teatro. Tuttavia lintelligentsia
organica al partito, pur presente e influente anche nei
campi filosofico, storiografico e giuridico, continu a
brillare per la sua assenza nella principale disciplina
sociale. Paradossalmente, un grande movimento di
ispirazione marxista continu a rimanere privo al suo
interno di ogni vera dimestichezza con leconomia
politica critica, i suoi sviluppi, le sue implicazioni di
politica economica. Linsicurezza e la subalternit in
materia economica che hanno caratterizzato tutta la
vicenda del Pci sono in buona misura riconducibili a
una sostanziale carenza di interesse, quindi di
competenza, nella materia. Torneremo alla fine del
capitolo sul carattere per cos dire congenito di questa
carenza.

5. Eppure la partenza, con il Piano del lavoro della Cgil


del 1949-1950, era stata promettente, nonostante anche
allora dovette apparire piuttosto sorprendente che
uniniziativa del genere fosse stata promossa dalla
componente sindacale del movimento operaio e
socialista italiano, anzich dalla sua componente
politica. N allora n in seguito il Pci promosse mai
alcunch di altrettanto articolato in tema di lotta alla
disoccupazione.
Secondo il Piano, lintervento dello Stato necessario
per iniziare ad eliminare le piaghe dellenorme
disoccupazione e degli infimi salari italiani avrebbe
dovuto concentrarsi su tre settori: il settore energetico,
quello agricolo e il settore delledilizia. Lespansione
simultanea degli investimenti e dellattivit produttiva
in questi tre settori avrebbe fatto uscire dalla
depressione lintera industria nazionale. Emerge dal
Piano una visione semplice e chiara sia delle relazioni
tra domanda finale e attivit economica generale che
delle interdipendenze settoriali. Meritano di essere
segnalati alcuni aspetti e giustificazioni dellintervento
propugnato dal Piano nei tre settori da esso
direttamente interessati. Considereremo subito dopo le
idee sulla questione del finanziamento del Piano e su
quella dei sacrifici dei lavoratori quali emersero dai
lavori della Conferenza economica nazionale convocata
a Roma dalla Cgil nel febbraio 1950 per la discussione
pubblica delle linee del Piano.
Per quanto riguarda lindustria elettrica, la richiesta di
nazionalizzazione avanzata dal Piano partiva dalla
constatazione che qualora fossero state utilizzate tutte
le risorse idriche del Paese la sua produzione avrebbe
potuto essere pi che raddoppiata, consentendo di
soddisfare, oltre al fabbisogno nazionale corrente
(limitato anche dalla presenza di migliaia di comuni
ancora privi di elettricit), laumento della domanda di
elettricit connesso con lespansione industriale e
commerciale e con il progresso civile del Paese. Si
sottolineava poi la riluttanza dei gruppi elettrici privati a
costruire nuovi impianti, a meno di poterne vendere la
produzione a prezzi molto elevati dato che tutti gli
impianti di meno costosa costruzione erano gi stati
fatti e quelli che restavano da fare erano i pi cari; da
qui il ricatto al Paese, o aumento del prezzo
dellelettricit per cui il popolo che pagher le
costruzioni e la propriet rester dei monopoli privati,
oppure non si costruiscono altre centrali e il popolo
soffrir della deficienza di energia. La conclusione di
Di Vittorio: Signori, se [la costruzione di nuovi
impianti] se la deve pagare il popolo appartengano essi
allo Stato, alla Nazione italiana e non ai privati. Infine,
venne chiaramente espressa nel Piano la tesi che
importanti economie di scala nella produzione di beni-
base come lelettricit ne giustificassero ampiamente la
nazionalizzazione. In tal modo, dei minori costi unitari
derivanti da quelle economie si sarebbe avvantaggiata
la collettivit sotto forma di prezzi bassi dellenergia,
anzich i privati sotto forma di alti profitti.
Per quanto riguarda lagricoltura, nel Piano
lattenzione si rivolse non solo e non tanto alla
questione dei contratti agrari come tender ad
avvenire in seguito, con lattenzione del Pci pressoch
interamente assorbita dalla questione delleliminazione
della mezzadria in regioni come la Toscana quanto alle
questioni del ruolo dello sviluppo industriale
nellaumento della produttivit della terra e della
costituzione di un Ente nazionale per la bonifica,
lirrigazione e la trasformazione fondiaria. Si sarebbe
dovuto puntare a non commettere il furto di aumentare
la produttivit della terra privata adoprando denaro
pubblico; lo Stato avrebbe dovuto dire al latifondista:
Io ti lascio una parte della tua terra in proporzione al
valore presso a poco che aveva la tua estensione
quando non era bonificata o non era irrigata; [] la
restante parte della terra deve essere data ai contadini
nel modo pi conveniente e cio in enfiteusi, dando
cos al contadino la garanzia e la certezza assoluta della
sua presenza nel fondo, in modo da stimolarlo a
compiere una parte delle trasformazioni fondiarie e ad
ottenere il maggiore rendimento della terra che gli si d
e ci non solo nellinteresse del contadino, ma anche
nellinteresse della collettivit.
Quanto alledilizia popolare, anche per questo settore
il Piano prevedeva la costituzione di un Ente nazionale
che avrebbe dovuto coordinare e potenziare lattivit
degli organismi gi esistenti (INA-casa, INCIS,
cooperative, ecc.). Tanto rispetto alla costruzione di
decine di migliaia di case, destinate a dotare di un
alloggio degno una parte cospicua della popolazione,
che rispetto allesecuzione di edifici e opere pubbliche
come scuole, ospedali, ambulatori, acquedotti e
fognature, il Piano opportunamente sottolineava il
basso contenuto dimportazioni del settore delle
costruzioni, la cui espansione avrebbe dunque potuto
dare lavoro a milioni di disoccupati incidendo in misura
limitata sulla bilancia dei pagamenti.
Particolarmente interessante fu la posizione che
prevalse alla Conferenza sulla questione del
finanziamento del Piano una posizione che nei
decenni successivi non sarebbe stato pi dato di
incontrare nei principali documenti economici prodotti
dal movimento operaio italiano. Si riconobbe che data la
presenza di milioni di disoccupati e di attrezzature
produttive ampiamente inutilizzate, il Piano avrebbe
potuto essere realizzato anche tramite lemissione di
segni monetari ossia tramite creazione di moneta da
parte dello Stato senza avere effetti inflazionistici; si
sarebbe trattato di un prestito che la collettivit fa a se
stessa per creare nuove ricchezze che produrranno a
loro volta un reddito che consentir nuovi risparmi e
nuovi investimenti. Gli investimenti pubblici nei settori
energetico, agricolo ed edilizio si sarebbero
autofinanziati attraverso lespansione della
produzione, quindi del reddito e del risparmio, che essi
stessi avrebbero determinato: il Piano finanzia il
Piano, fu lespressione ripresa da Di Vittorio nelle sue
conclusioni alla Conferenza. Del resto, in un clima
nazionale pesantemente einaudiano in campo
economico, i due principali tecnici esterni al sindacato
(e al partito) invitati alla Conferenza per contribuire alla
discussione dei problemi del finanziamento del Piano
furono gli economisti di orientamento keynesiano
Alberto Breglia e Sergio Steve. Entrambi ribadirono la
validit del principio che sono gli investimenti a
determinare i risparmi, attraverso il livello del prodotto
che proprio da essi dipende, e criticarono la tesi della
coperta che quella che e non si pu allungare, tesi
prevalente nelle universit italiane, nella stampa e
nellopinione della classe dirigente italiana (Steve),
pur essendo basata sullipotesi, palesemente assurda
nel caso dellItalia, che tutti i fattori di produzione siano
sempre pienamente impiegati. Secondo tale tesi, che
come vedremo tra un momento fin per prevalere anche
a sinistra nei decenni successivi, data la quantit di
lavoro, terra e capitale disponibile nelleconomia, anche
prodotto e reddito nazionale sono da considerarsi come
dati, sicch non possibile produrre pi macchinari o
pi case senza ridurre al contempo la produzione di altri
beni.
Infine, la questione dei sacrifici. Anche a questo
riguardo troviamo nel Piano un punto di vista
interessante, molto diverso da quello che avrebbe
prevalso in seguito. Innanzitutto non riscontrabile in
esso alcuna offerta di sacrifici da parte del mondo del
lavoro come manifestazione di buona condotta per
ottenere il premio di essere ammessi a partecipare al
governo della nazione; tantomeno vi nel Piano una
disponibilit ai sacrifici come se un sistema socialista
fosse gi stato instaurato nel Paese. La possibilit di
sacrifici da parte dei lavoratori venne concepita per
dopo, non prima della realizzazione del Piano, come si
espresse Di Vittorio; quindi anche per dopo la
formazione di un governo riformista a forte
partecipazione popolare capace di assicurare il
perseguimento della piena occupazione e del
miglioramento delle condizioni di vita delle classi
lavoratrici come suoi obiettivi primari. Da questo punto
di vista, il Piano del lavoro della Cgil pu essere
considerato come una prefigurazione italiana del patto
sociale che avrebbe trovato effettiva realizzazione in
buona parte dEuropa nel corso dei Trenta gloriosi (cfr.
Cap. II).
Un ultimo punto merita di essere sottolineato. Il Piano
del lavoro fu una proposta articolata e responsabile
avanzata dal maggiore sindacato di classe al padronato
e ai suoi rappresentanti politici. Qualora la proposta
fosse stata respinta, lalternativa, prospettata da Di
Vittorio con sobria fermezza, avrebbe potuto essere per
loro estremamente pi gravosa: il travolgimento
completo dellordinamento sociale, al quale il
movimento operaio e socialista avrebbe potuto vedersi
costretto dal perdurare di condizioni di vita intollerabili
per i lavoratori.

Questi signori si troveranno di fronte ad una seria


responsabilit in presenza dellofferta dei lavoratori.
[] Poich il Piano richiede uno sforzo da parte di
tutti i cittadini proporzionale alle loro possibilit,
quindi uno sforzo pi elevato da parte di coloro che
hanno accumulato maggiori ricchezze, necessario
che un governo che vuole realizzare il Piano sia del
tutto indipendente dai monopoli e dai grandi
latifondisti e si appoggi sulle grandi masse popolari
italiane, perch uno sforzo di lavoro, uno sforzo
economico come quello che occorre per vincere la
disoccupazione [] ha bisogno dellentusiasmo e
della volont attiva delle masse popolari, entusiasmo
creatore che in tanti Paesi ha fatto miracoli quando i
lavoratori hanno avuto la coscienza di lavorare non
per larricchimento di qualcuno ma per il benessere
generale della societ nazionale a cui essi
appartengono; ci vuole un governo che riscuota la
fiducia delle masse popolari. [] Come
risponderanno i ceti possidenti? Questo lo sapremo
nei prossimi giorni in un modo pi preciso e
categorico. Quello che ora sappiamo, per, questo:
che la grande maggioranza del popolo italiano si
raccoglier attorno alla bandiera della Cgil, attorno
alla bandiera del Piano del lavoro italiano, alla
bandiera della rinascita economica del Paese ed avr
tanta forza da travolgere tutte le resistenze che vi si
opporranno.

E concludendo la sua relazione alla Conferenza:

Ascoltate signori della classe dirigente, delle societ


per azioni, latifondisti, perch a voi che ci
rivolgiamo. Bisogna operare, non si pu restare inerti.
Gli italiani vogliono lavoro per aumentare le
disponibilit di beni, per portarsi ad un livello di vita
economico e culturale superiore a quello attuale.
Credo che non sia nellinteresse di nessuno e meno
di tutti credo sia nellinteresse dei ceti privilegiati di
tenere una parte cos imponente del popolo davanti al
muro, davanti alla necessit di operare un
travolgimento completo dellordinamento sociale per
creare nuove basi di vita.

Ma n allora n in seguito il Pci si riconobbe in questa


impostazione della lotta politica; al contrario, il partito si
adoper con successo, come abbiamo visto sopra
per far cambiare orientamento anche al sindacato.

6. Ritorniamo dunque sul filo rosso della subalternit


del Pci nei confronti della cultura economica laico-
liberale, che alla fine della quarta sezione di questo
capitolo indicammo come il principale elemento di
continuit tra la linea berlingueriana del compromesso
storico e della solidariet nazionale e la tradizione
togliattiana del partito.
Le questioni della disoccupazione e dellemigrazione
italiana, centrali nel Piano del lavoro, non figurano nel
discorso complessivo di Togliatti come le questioni
preminenti di cui lo Stato avrebbe potuto farsi carico
attraverso la politica economica. Esse continuarono ad
essere menzionate piuttosto fugacemente nei suoi
interventi, che insistevano invece sulla necessit, per
una politica autenticamente operaia e socialista, di
perseguire la modifica della struttura economica del
Paese e lallargamento della sfera di influenza delle
masse lavoratrici nella direzione della vita politica del
Paese. In un intervento al Comitato centrale del 24-27
luglio 1963, un anno prima della sua scomparsa,
Togliatti cos ribadiva quella che per lui avrebbe dovuto
continuare ad essere la politica non riformista del
partito:

[Q]ui bisogna fare una scelta: ci pu essere una


politica riformista e ci pu essere una politica
socialista. Sono due cose diverse. Una politica
riformista non una politica socialista, ma soltanto
una politica che pu portare a correggere alcuni dei
difetti della societ capitalista, a colmare alcuni degli
squilibri esistenti. Essa non apre la strada al
raggiungimento degli obiettivi fondamentali che una
politica socialista persegue. E quale lo spartiacque
oggi? Esso sta prima di tutto nella rivendicazione di
riforme di struttura. Le lotte politiche ed economiche
di un partito operaio e socialista devono infatti
tendere a modificare, a iniziare una trasformazione
della struttura economica della societ, al tempo
stesso che lazione di un partito operaio e socialista
deve tendere ad una estensione dellautonomia e del
potere della classe operaia, delle masse lavoratrici e
delle loro organizzazioni. Se non si vedono questi due
momenti allora si cade nel riformismo.

Ora, obiettivi classici tanto del riformismo che di una


politica socialista obiettivi come la piena occupazione
e una maggiore protezione dei salariati dalle
vicissitudini del mercato, una distribuzione pi equa del
reddito, un sistema avanzato di protezione sociale,
specialmente in campo sanitario e previdenziale, una
buona scuola pubblica di ogni ordine e grado
avrebbero potuto essere realizzati solo attraverso
politiche monetarie e di bilancio adeguate, nonch
attraverso politiche industriali e commerciali e un
sistema di controlli delle transazioni con lestero capaci
di allentare persistentemente i vincoli di bilancia dei
pagamenti alla crescita e alla redistribuzione del reddito.
Ci che invece concretamente si ricava dal discorso
complessivo che il capo comunista era andato
sviluppando nel corso degli anni lidea che la
struttura economica e politica della societ italiana
avrebbe potuto essere trasformata essenzialmente a
partire dallattuazione dellordinamento regionale e
dalla rottura del potere dei monopoli non importa
tanto se privati o pubblici (questo almeno fino al 1962,
allorquando, sotto limpulso del costituendo centro-
sinistra e la nazionalizzazione delle industrie elettriche
da parte del governo Fanfani, anche Togliatti finir per
sollecitare la nazionalizzazione di settori di produzione
monopolistici). Si pu dire che la rivendicazione da
parte di Togliatti di una modifica della struttura
economica del Paese fosse accompagnata da una sua
marcata sottovalutazione delle possibilit
dellintervento economico dello Stato, dunque anche
della rilevanza che avrebbe potuto assumere limpiego
di tutta la forza del partito nel condizionamento delle
scelte di politica economica dei governi.
Lamministrazione di alcune regioni da parte della
sinistra avrebbe potuto fare ben poco per attenuare
squilibri e difetti della societ capitalista; tantomeno
avrebbe potuto aprire la strada al raggiungimento
degli obiettivi fondamentali di una politica socialista.
Tuttal pi, essa avrebbe potuto contribuire ad
accrescere il prestigio della sinistra nel Paese attraverso
la sua migliore gestione di servizi locali come
lassistenza agli anziani, gli asili infantili e i trasporti
urbani. Forse linsistenza di Togliatti sulla lotta per la
rivendicazione dellente regione rispecchi una sorta di
ripiegamento, dettato dalla convinzione che il Pci non
sarebbe mai stato ammesso a condividere le
responsabilit del governo nazionale. Quanto alla
necessit di una rottura del potere dei grandi gruppi
monopolistici, continuamente evocata da Togliatti nel
corso del decennio che precedette la sua scomparsa, si
tratt di una rivendicazione mutuata dalla cultura laico-
liberale da quei gruppi politici da lui definiti di terza
forza, ben rappresentati di volta in volta da
intellettuali-politici come Ernesto Rossi, gli Amici del
Mondo, Eugenio Scalfari. Con la parola dordine del
controllo democratico dei monopoli, il Pci fece
semplicemente propria la vecchia tesi liberale secondo
cui, senza una legislazione adeguata e adeguati
controlli pubblici, il mercato avrebbe teso a generare
degli ostacoli al buon funzionamento della libera
concorrenza, sotto forma di monopoli capaci di
pregiudicare la situazione economica generale.
Il passo seguente, tratto da un discorso tenuto da
Togliatti al teatro Adriano di Roma il 22 febbraio 1959,
pubblicato il giorno successivo su lUnit, illustra
concisamente le ragioni della priorit che secondo il Pci
avrebbe dovuto essere assegnata alla lotta ai monopoli:

Non bisogna fare ci che i monopoli chiedono, ma


bisogna che il governo abbia una posizione di
controllo e di azione contro i monopoli, i quali
tendono a dominare, nel loro esclusivo interesse,
tutta la situazione economica del Paese, e in questo
modo spingono alla rovina masse di piccoli e medi
produttori e di imprenditori privati.

Emerge qui la mescolanza di subalternit culturale e


calcolo politico che caratterizz la visione economica
del Pci in quegli anni. Si suggerisce in primo luogo, alla
maniera liberale, che eliminati i monopoli la libera
concorrenza sarebbe stata in grado di servire linteresse
generale, di assicurare cio a tutti, date le risorse
disponibili, il maggior benessere possibile attraverso
pi alti livelli di occupazione, la diffusione del
progresso tecnico, prezzi inferiori. In secondo luogo,
alle grandi imprese (i monopoli) viene contrapposta
come imprenditoria privata progressiva limpresa
medio-piccola, ossia quellimprenditoria, prevalente
nelle regioni rosse, considerata dal Pci, insieme al
lavoro autonomo, come il principale bacino di
espansione potenziale della base elettorale del partito
nellinsieme del Paese. Solo che era nella grande
impresa, non in quella medio-piccola, che la presenza
del sindacato poteva assicurare una maggiore tutela del
lavoro salariato; era inoltre nella grande impresa, non in
quella medio-piccola, che avevano luogo le principali
innovazioni tecniche, anche sotto la spinta delle
rivendicazioni salariali; ed infine non erano tanto le
grandi imprese, quanto piuttosto le imprese medie e
piccole sparse su tutto il territorio nazionale quelle i cui
livelli di attivit dipendevano massicciamente dalle
esportazioni e dunque dal mantenimento della loro
competitivit internazionale attraverso i bassi salari (da
l a qualche anno anche attraverso le svalutazioni della
lira). La lotta ai monopoli signific dunque in pratica
la scelta del ceto medio imprenditoriale e del lavoro
autonomo come interlocutori privilegiati del partito, una
scelta sostanzialmente configgente con gli interessi dei
salariati.
Togliatti tendeva a non soffermarsi troppo su
questioni economiche complesse, spesso rinviando al
contributo che alla loro discussione avrebbero dato
altri compagni. Ma i compagni capaci di fornire un
contributo non troppo vago erano pochi e tra quei
pochi praticamente nessuno che sulle questioni cruciali
fosse in grado di sviluppare un punto di vista
alternativo al modo di ragionare tradizionale. Per
decenni la questione economica pi spinosa rimase
quella della relazione tra consumi e investimenti la
questione che avrebbe finito per costituire il vero
fondamento della linea dellausterit e dellofferta di
sacrifici (per i lavoratori) da parte dei dirigenti del
partito. Dopo la parentesi del Piano del lavoro, infatti,
torn a prevalere allinterno del Pci il convincimento
einaudiano che per fare il pasticcio di lepre (gli
investimenti) occorresse procurarsi prima la lepre (il
risparmio). Non si sarebbe pi sentito parlare di
investimenti pubblici che, disponendo il Paese di
manodopera e attrezzature produttive inutilizzate,
avrebbero finito per autofinanziarsi con il prodotto e
il reddito aggiuntivi da essi stessi creati, e che dunque
avrebbero potuto essere immediatamente realizzati
tramite lemissione di segni monetari. Come una sorta
di riflesso condizionato, i canoni del buon padre di
famiglia non ci sono i soldi, dunque non possiamo
fare nuove spese senza ridurre quelle che gi facciamo
non avrebbero mai pi cessato di influenzare la linea
del partito. Secondo quei canoni, le spese di cui il Paese
avrebbe avuto bisogno, spese per investimenti e per
maggiori consumi sociali, non avrebbero potuto essere
effettuate senza ridurre o almeno contenere i consumi
privati, quindi senza una disponibilit anche da parte
dei lavoratori a compiere il sacrificio di astenersi dal
rivendicare aumenti salariali.
Nel discorso del Pci, come nel modo di ragionare
tradizionale, il risparmio complessivo continu ad
essere concepito come una grandezza data, sicch un
risparmio pubblico negativo una spesa dello Stato in
disavanzo non avrebbe potuto che essere distruttivo
di un uguale ammontare di risparmio privato. Si
continu a non considerare che per la presenza di
disoccupazione il risparmio pubblico negativo fa
aumentare la produzione e il reddito e quindi crea per
questa via un corrispondente risparmio positivo
privato. Si pu dire che dagli anni Cinquanta fino
allausterit berlingueriana e allinizio del declino del
partito, i suoi dirigenti non riuscirono mai ad
emanciparsi dallidea dominante secondo cui laumento
del consumo privato di ostacolo alla formazione di
capitale, n dalla teoria antistatalista dello
spiazzamento, ossia dallidea che maggiori livelli di
spesa pubblica per beni e servizi tendono a contrarre,
piuttosto che a sostenere, i livelli di attivit del settore
privato delleconomia. Rappresentative al riguardo
sono le posizioni di volta in volta espresse da Giorgio
Napolitano, a lungo considerato uno dei maggiori
esperti di cose economiche tra i dirigenti del partito.
Cos, in una sua relazione al Comitato centrale
dellottobre 1977 (citata da lUnit il 17 ottobre di
quellanno) si affermava che la prima fondamentale
scelta di carattere generale deve consistere in uno
spostamento di risorse dai consumi agli investimenti, e
nellambito dei consumi, da quelli privati a quelli sociali;
in un contenimento del disavanzo pubblico tale da
lasciare spazio sufficiente per il finanziamento
dellattivit delle imprese. E nella Proposta di progetto
a medio termine, pubblicata dal Pci in quello stesso
anno, veniva indicato come essenziale che fosse
stabilita la quota di credito e risparmio assorbita dal
settore statale per offrire una adeguata disponibilit di
credito allaccumulazione del settore privato.
Alla fine degli anni Settanta i comunisti italiani
avevano insomma imparato ben poco dallesperienza
economica del precedente trentennio. Dalla fine della
guerra lItalia aveva continuato ad essere caratterizzata
da alti livelli di disoccupazione e da una rilevante
emigrazione netta (circa 3 milioni di espatri netti nel
primo ventennio postbellico, 1946-1966).
Ciononostante, a fronte di tassi di crescita delle
esportazioni stabilmente molto elevati non si era mai
cercato di tenere il pi possibile elevati anche i tassi di
crescita della domanda interna e del prodotto. Di fatto,
lo scarto tra crescita delle esportazioni e crescita
dellinsieme dei consumi e degli investimenti interni si
era mantenuto costantemente molto pi alto in Italia
che negli altri principali Paesi industriali, generando
cospicui flussi di esportazioni nette di beni e servizi e
saldi positivi nelle partite correnti della bilancia dei
pagamenti. I nostri consumi e investimenti complessivi
avevano dunque continuato a mantenersi non solo di
molto inferiori a quanto il Paese sarebbe stato in grado
di produrre, ma anche inferiori ai suoi livelli di prodotto
effettivi, col corollario che ad una parte rilevante del
risparmio nazionale aveva continuato a corrispondere,
non unaccumulazione di capitale reale, ma
unaccumulazione di crediti verso lestero. A dispetto di
tutto ci, alla fine degli anni Settanta i dirigenti del Pci
continuavano a difendere lopportunit di contenere la
spinta rivendicativa della classe operaia, lopportunit
di uno spostamento di risorse dai consumi agli
investimenti e di un contenimento della quota di
risparmio assorbita dal settore statale per offrire una
adeguata disponibilit di risparmio allaccumulazione
del settore privato. Il Pci continuava indefessamente a
predicare le virt della parsimonia e a rivendicare un
uso oculato dello scarso risparmio nazionale. molto
probabile che i suoi dirigenti non si rendessero neppure
ben conto del fatto che predicare le virt della
parsimonia equivaleva in pratica a giustificare forti
disuguaglianze nella distribuzione del reddito.

7. Nella prefazione alla prima edizione del Primo libro


del Capitale (1867), Marx aveva sottolineato che

nel campo delleconomia politica la libera ricerca


scientifica non incontra soltanto gli stessi nemici che
incontra in tutti gli altri campi. La natura particolare
del materiale che tratta chiama a battaglia contro di
essa le passioni pi ardenti, pi meschine e pi
odiose del cuore umano, le Furie dellinteresse
privato []. Oggi perfino lateismo culpa levis, in
confronto alla critica dei rapporti tradizionali di
propriet (corsivi nel testo).

Nel caso della sinistra italiana, la libera ricerca


scientifica e il pensiero critico in campo economico
incontrarono un ulteriore ostacolo nel conformismo
generato dal fenomeno dellintelligenza organica,
rapidamente diffusosi, specialmente allinterno del Pci,
a seguito della pubblicazione tra il 1949 e il 1951 della
prima edizione tematica dei Quaderni del carcere di
Antonio Gramsci. Per Gramsci, se la propria concezione
del mondo unitaria e coerente, si appartiene
sempre a un determinato raggruppamento e si
conformisti di un qualche conformismo. Del pari, non
c organismo nella societ civile senza intellettuali ad
esso pi o meno organici, cio senza uno strato di
persone specializzate nellelaborazione della
concezione del mondo propria del gruppo sociale di
appartenenza o di elezione. Lintellettuale organico di
Gramsci insomma una figura molto vicina, se non a
quella dei pugilatori a pagamento cui fa riferimento
Marx nel Capitale, per distinguerli dai ricercatori
disinteressati, quanto meno a quella di chierici ben
irreggimentati.
Lenfasi di Gramsci sugli intellettuali come categoria
organica di ogni gruppo sociale fondamentale
rispecchia essenzialmente il fatto che al centro della sua
riflessione vi era la questione delle forme dello sviluppo
progressivo verso il dominio da parte di un determinato
gruppo sociale delle funzioni che il partito politico
di quel gruppo avrebbe dovuto compiere per riuscire a
diventare e rimanere il partito dirigente. La sua idea
principale era che il partito politico avrebbe dovuto in
primo luogo riuscire a formare i propri componenti,
fino a farli diventare intellettuali politici qualificati,
dirigenti, organizzatori di tutte le attivit e le funzioni
inerenti allorganico sviluppo di una societ integrale,
civile e politica. La riflessione di Gramsci in carcere
non fu dunque quella di un teorico che intendesse
contribuire alla sviluppo di una determinata concezione
della realt; fu la riflessione di un capo di partito per il
quale si trattava di fissare un indirizzo di politica
culturale che fungesse da autolimite della libert di
discussione e di propaganda e di riuscire ad
esercitare una funzione unificatrice ben
diversamente, egli precis, da quello che normalmente
avviene nel caso delluniversit, la quale eccetto che
in alcuni Paesi, non esercita alcuna funzione
unificatrice.
Ma con laccumularsi dalla pubblicazione dei
Quaderni delle interpretazioni della riflessione
gramsciana, un equivoco ha teso a formarsi e a
diffondersi sulla nozione di intellettuale organico.
come se questa nozione, centrale nella riflessione di un
capo di partito naturalmente assorbito dal problema
della conquista del governo politico e dellegemonia
sociale, fosse stata scambiata per la nozione centrale
della riflessione di un teorico impegnato nello sviluppo
di una concezione del mondo alternativa a quelle
dominanti sviluppo imperniato appunto su un nuovo
modo di intendere il lavoro intellettuale. Che la
riflessione carceraria di Gramsci non possa essere
interpretata come unanalisi alternativa della realt
sociale riceve una conferma importante proprio dal
contenuto delle sue note dedicate a questioni
economiche e di quelle sulle critiche di Croce a Marx.
Nelle prime, Gramsci fa confusione tra economia
classica ed economia borghese contemporanea, ossia
tra il contesto teorico in cui lo stesso Marx si mosse e
in base al quale svilupp la sua critica, e la successiva
teoria economica marginalista, finendo per definire lo
stesso Einaudi un economista classico. In quelle note si
afferma poi senza fondamento che il concetto di lavoro
socialmente necessario (equivalente al concetto di
condizioni normali di produzione delle merci)
irrilevante per leconomia borghese e si usa del tutto a
sproposito il termine costi comparati, che ha un
significato teorico preciso nella teoria classica
(ricardiana) del commercio internazionale; infine, si
menzionano le gare di emulazione socialista tra i
lavoratori come un passo nella direzione giusta laddove
il lavoro sia diventato esso stesso gestore
delleconomia, ma poi esse vengono oscuramente
assimilate a un modo di comparare i costi, di
preoccuparsi delle utilit particolari e delle
comparazioni tra quelle utilit per trarne iniziative di
movimento progressivo. Quanto alle sue note sulle
critiche di Croce a Marx, Gramsci sostanzialmente
accetta il terreno di discussione stabilito dal filosofo
napoletano, delle cui argomentazioni non riesce a
cogliere larbitrariet; non si pronuncia su nessuno dei
punti della critica di Croce allanalisi marxiana del valore
e del profitto in cui viene tirata in ballo leconomia
pura (la teoria economica corrente) e in cui alle tesi di
Marx viene contrapposta lovvia legge della domanda
e dellofferta: Gramsci evidentemente consapevole di
conoscere troppo poco della teoria economica corrente
per avventurarsi in questo ambito dei convincimenti di
Croce.
Gi ai tempi di Gramsci la scarsa dimestichezza con
leconomia politica era un fenomeno diffuso tra i
marxisti italiani. Gramsci ne era consapevole e lo
giudic con severit considerandolo un grande
pericolo per il movimento operaio. Tuttavia conferisce
alla sua scarsa dimestichezza con la teoria economica
un carattere doppiamente paradossale: in primo luogo
si tratt appunto di scarsa dimestichezza con
leconomia da parte di un marxista, e in secondo luogo
fu Gramsci stesso a sottolineare il pericolo di una
carenza di competenza e spregiudicatezza nellanalisi
dei fenomeni economici. Gramsci in carcere non colm
questa carenza di competenza. Daltro canto, i soggetti
di cui pi desiderava occuparsi e sui quali avrebbe
voluto fare qualcosa fr ewig, come scrisse in una
nota lettera a Tatiana Schucht del 19 marzo 1927, non
avrebbero potuto essere pi distanti dalleconomia
politica (una ricerca sugli intellettuali italiani, linguistica
comparata, teatro di Pirandello e romanzi di appendice
sono i quattro possibili soggetti indicati in quella
lettera).
Ancora oggi, la difficolt maggiore per il lettore dei
Quaderni di riuscire a distinguere al loro interno le
proposizioni che si riferiscono a una situazione post-
rivoluzionaria come quella sovietica degli anni Venti-
Trenta una situazione al centro della riflessione di
Gramsci in carcere, come la lettura del quaderno
monotematico su Americanismo e fordismo rende
evidente da quelle che riguardano invece lazione del
partito della classe lavoratrice in una societ capitalista.
La nozione di intellettuale organico e quella ad essa
connessa di egemonia hanno un significato chiaro,
nonch un fondamento, se riferite alla situazione
dellUrss ai tempi di Gramsci, caratterizzata da
unestrema fragilit della societ sovietica e
dallisolamento del potere. In tal caso si tratterebbe di
nozioni interne a una riflessione sui mezzi idonei a
superare tale fragilit e tale isolamento, in vista del
mantenimento e del consolidamento del potere
conquistato con la rivoluzione. Molto pi arduo
invece dare a quelle nozioni senso e fondamento
qualora esse siano riferite a una societ caratterizzata
dalla presenza consolidata di gruppi sociali
contrapposti e alla pratica del partito di uno di tali
gruppi. Non si vede, in primo luogo, come potrebbe
formarsi la teoria o concezione della realt in base alla
quale un gruppo sociale elaborerebbe i propri
intellettuali organici (=dirigenti=specialisti+politici) se
tutti gli intellettuali fossero effettivamente organici a
questo o quel gruppo sociale. Lintellettuale organico di
Gramsci in ultima analisi semplicemente un quadro pi
o meno qualificato di partito, soggetto alla sua
disciplina e non in grado di elaborare autonomamente
alcunch sul piano dellinterpretazione della realt. Il
modo di essere del nuovo intellettuale avrebbe dovuto
consistere per Gramsci nel mescolarsi attivamente alla
vita pratica come persuasore permanente. Ma
persuasore permanente di che cosa? Delle buone
ragioni del proprio gruppo sociale, della legittimit dei
suoi interessi o magari della loro superiorit rispetto
agli interessi contrapposti degli altri gruppi? Non si
vede che egemonia effettiva avrebbe potuto essere
conquistata sulla base di una simile azione di mera
propaganda o persuasione permanente.
Alla luce di quanto sopra, si pu dire che allinterno
della sinistra italiana, nei decenni successivi alla
seconda guerra mondiale, la riflessione carceraria di un
capo di partito essenzialmente interessato alla funzione
dellintellettuale quale persuasore permanente abbia
giocato il ruolo svolto altrove o in epoche precedenti
della storia del capitalismo dallanalisi spregiudicata di
studiosi come Ricardo, Marx o leconomista borghese
John Maynard Keynes. Una riflessione sullo specifico
modo di essere dellintellettuale politicamente
impegnato, che si pone al servizio di un partito, venne
scambiata per un contributo teorico suscettibile di
servire da fondamento allazione pratica. Linevitabile
conseguenza di un simile equivoco fu che
continuarono a dominare incontrastate, finendo per
orientare di fatto lazione di tutte le forze in campo, le
uniche vere idee filosofiche e economiche presenti sulla
scena nazionale: quelle di Croce sommate a quelle di
Einaudi.
La formazione di un equivoco come quello qui indicato
e la soggezione culturale ad esso collegata possono
contribuire a spiegare il paradosso dellassenza di
politiche di pieno impiego nellesperienza italiana del
secondo dopoguerra. indubbio che un fattore che nel
primo trentennio post-bellico spinse i principali Paesi
occidentali al perseguimento di politiche di pieno
impiego fu la necessit di togliere spazio ai movimenti
di opposizione al capitalismo e al sistema delleconomia
di mercato. paradossale allora che proprio lItalia, che
aveva il pi forte partito comunista dellOccidente, non
abbia sostanzialmente mai conosciuto politiche di pieno
impiego. Il Pci traeva gran parte della sua forza dal
bisogno di rappresentanza politica di masse di
lavoratori costantemente minacciate dalla
disoccupazione e scarsamente protette dallo Stato;
proprio in ragione di tale forza, la pressione per il
perseguimento di politiche di pieno impiego avrebbe
dovuto essere in Italia maggiore che altrove. Il fatto che
ci non avvenne in buona misura riconducibile
allininterrotta soggezione del comunismo italiano nei
confronti del pensiero laico-liberale del Paese.

Nota bibliografica
La strategia del compromesso storico venne
originariamente delineata da Enrico Berlinguer in tre
articoli apparsi su Rinascita il 28 settembre, il 5 ottobre
e il 12 ottobre 1973, poi ripubblicati nel secondo volume
di E. Berlinguer, La Questione comunista, Editori
Riuniti, Roma 1975. Sulla proiezione internazionale di
quella strategia e il suo messaggio socio-economico, si
vedano, dello stesso Berlinguer, La politica
internazionale dei comunisti italiani, Editori Riuniti,
Roma 1976 e Austerit, occasione per trasformare
lItalia, Editori Riuniti, Roma 1977 (da cui tratta la
citazione di p. 199). Le implicazioni di politica
economica del compromesso storico e della
solidariet nazionale, con particolare riguardo
allirremovibilit per il Pci dei vincoli esterni alla crescita
dei salari e delloccupazione, emergono con particolare
chiarezza dagli atti del convegno promosso dal CESPE
nel marzo del 1976, al quale si fatto riferimento nella
sez. 3, dal titolo Crisi economica e condizionamenti
internazionali dellItalia, Quaderni di Politica ed
economia, Nuova Serie, n. 1, Editori Riuniti, Roma 1976.
Oltre alla comunicazione di Massimo Pivetti, gli altri due
contributi critici a quel convegno furono gli interventi
di Domenico Mario Nuti e di Robert Rowthorn. Sul
convegno del CESPE si veda anche P. Bini, The Italian
economists and the crisis of the nineteen-seventies.
The rise and fall of the conflict paradigm, History of
Economic Thought and Policy, n.1, 2013, pp. 86-89.
Sul convincimento di parte comunista della necessit
di combattere linflazione e affrontare il problema della
bilancia dei pagamenti attraverso riduzioni della spesa
pubblica, il contenimento dei salari e lo spostamento di
risorse dai consumi agli investimenti, si veda G.
Chiaromonte, Laccordo programmatico e lazione dei
comunisti italiani, Editori Riuniti, Roma 1977. La natura
dei vincoli di bilancia dei pagamenti alla crescita
delloccupazione nel caso italiano e le linee di politica
economica pi idonee ad allentarli, sono discusse in M.
Pivetti, Bilancia dei pagamenti e occupazione in
Italia. Integrazione internazionale e equilibri sociali,
Rosenberg & Sellier, Torino 1979. Sullinutilit
dellastensione dal consumo come fattore permissivo
dellinvestimento in presenza di disoccupazione, si
veda A. Barba e G. De Vivo, Lo spreco della
parsimonia, in Economia e luoghi comuni, a cura di A.
Di Maio e U. Marani, Lasino doro, Roma 2015. Le
interviste a Lama e a Trentin cui si fatto riferimento
alle pp. 197-198 del testo, pubblicate rispettivamente nel
gennaio e nel dicembre del 1978 su La Repubblica e Le
Monde, sono citate anche in A. Lipietz, Laudace ou
lenlisement. Sur les politiques conomiques de la
gauche, Editions La Dcouvert, Parigi 1984, pp. 87-88 e
90-91.
Per unanalisi critica dellesperimento politico del
compromesso storico e della solidariet nazionale,
si vedano D. Sassoon, Cento anni di socialismo: la
sinistra nellEuropa occidentale del XX secolo, Editori
Riuniti, Roma 1997, cap. 20, e, dello stesso autore, The
Strategy of the Italian Communist Party. From the
Resistance to the Historic Compromise, Frances Pinter,
Londra 1981. Si veda anche L. Paggi e M. DAngelillo, I
comunisti italiani e il riformismo, Einaudi, Torino 1986
(da cui tratto il titolo del capitolo), in part. cap. I. Il
dissenso, allinterno del Pci, sulla linea dellEUR (cfr.
sopra, p. 198) discusso in M. Golden, Labor Divided.
Austerity and Working Class Politics in Contemporary
Italy, Cornell University Press, Ithaca, NY e Londra
1988.
Le posizioni di Togliatti cui si fatto riferimento nella
sez. 4, tanto quelle sui temi di politica interna che quelle
sullUrss e il conflitto tra i due blocchi, sono state tratte
soprattutto dai suoi scritti e discorsi ripubblicati con il
titolo Togliatti e il centrosinistra, 1958-1964, Istituto
Gramsci Sezione di Firenze, Cooperativa Editrice
Universitaria, Firenze 1975. Sul mutato atteggiamento di
Togliatti rispetto alle nazionalizzazioni, si veda la sua
relazione al X congresso del Pci. Per quanto riguarda il
Piano del lavoro, gli atti della conferenza promossa
dalla Cgil, sulla quale ci siamo soffermati nella sez. 5, si
trovano in Il Piano del lavoro. Resoconto integrale
della Conferenza economica nazionale della Cgil,
Roma 18-20 febbraio 1950, Stab. tip. Vesisa, Roma 1950.
Nel 1975 la facolt di economia e commercio
delluniversit di Modena organizz un convegno sul
Piano del lavoro, i cui atti sono stati pubblicati nel
volume Il piano del lavoro della Cgil, 1949-1950,
Feltrinelli, Milano 1978.
Rispetto alla nozione gramsciana di intellettuale
organico, si fatto riferimento nellultima sez. del
capitolo a passi dei Quaderni del carcere contenuti in:
A. Gramsci, Gli intellettuali e lorganizzazione della
cultura, Editori Riuniti, Roma 1991, in part. pp. 5, 7, 9,
13, 41; Il materialismo storico e la filosofia di
Benedetto Croce, Editori Riuniti, Roma 1991, pp. 4, 7, 9-
16, 22-3, 264-71, 335-7, 342-3; Note sul Machiavelli
sulla politica e sullo stato moderno, Editori Riuniti,
Roma 1991, pp. 459-65. Il passo di Marx sui pugilatori a
pagamento contenuto nel poscritto alla seconda
edizione del Primo libro del Capitale. Per le critiche di
Croce a Marx discusse da Gramsci, si vedano i capitoli
III-VII di B. Croce, Materialismo storico ed economia
marxistica, Laterza, Bari 1961 (10^ ediz.), spec. pp. 65-6,
70, 75, 138, 152-58, 160 e 163. Sulle note economiche di
Gramsci, si vedano anche le osservazioni di Sraffa in N.
Badaloni, Due manoscritti inediti di Sraffa su Gramsci,
Critica Marxista, 1 (6), 1992. Le seguenti opere
possono poi considerarsi come particolarmente
rappresentative della considerevole mole di letteratura
dedicata allinterpretazione della riflessione carceraria di
Gramsci: N. Badaloni, Il marxismo di Gramsci, Einaudi,
Torino 1975; G. Vacca, Politica e storia in Gramsci,
Editori Riuniti, Roma 1977; C. Luporini, Dialettica e
materialismo, Editori Riuniti, Roma 1978; A. Asor Rosa,
Intellettuali e classe operaia, La Nuova Italia, Firenze
1973. Infine, sul conformismo generato dal fenomeno
dellintelligenza organica e la subalternit dei
comunisti italiani nei confronti della cultura economica
laico-liberale, si veda M. Pivetti, Sulla rilevanza
analitica dei Quaderni e la questione della loro
influenza, in G. Vacca (a cura di), Gramsci e il
novecento, Carocci, Roma 1997, Volume Secondo.
Capitolo VII

La sinistra antagonista

1. Proprio di fronte al cambiamento dei rapporti di forza


a favore del lavoro dipendente e allacutizzarsi del
conflitto distributivo in Europa alla fine degli anni
Sessanta, una parte della sinistra europea imbocc un
sentiero di progressivo allontanamento dalle questioni
economiche e di classe, ponendosi inizialmente come di
fatto antagonista proprio nei confronti della sinistra
tradizionale e divenendo in seguito sempre pi
individualista, attraverso lo spostamento della sua
attenzione dalla sfera dei diritti sociali a quella dei diritti
civili.
Abbiamo gi fatto riferimento nel terzo capitolo (cfr.
sopra, pp. 110-111) ai due fiumi scaturiti dal maggio
francese e al ruolo di uno di essi nella svolta ad U
compiuta nel 1982-1983 dal governo della sinistra unita
in Francia: quello dellinsofferenza verso ogni forma di
autorit e di potere; dellindividualismo anarcoide;
dellautogestionismo antistatalista; dellantisovietismo
e della mitizzazione della rivoluzione culturale cinese.
Allindomani del collasso del socialismo reale, in
tutto il continente questa sinistra cosiddetta
antagonista cess definitivamente di occuparsi
criticamente di questioni economiche e di classe,
sostituite dallecologismo e dallantinuclearismo, dalle
questioni legate ai diritti degli omosessuali e delle
minoranze etniche, dal nuovo femminismo maternalista
della differenza biologico-sessuale piuttosto che
sociale e culturale. La liberazione di ogni tipo di istanze
individuali, un magma costituito dal diritto alla diversit
rivendicato da tutte le comunit, da tutte le minoranze
e dai singoli individui ha finito per informare il
discorso e lazione politica di questa sinistra.
Meritano per qui di essere innanzitutto segnalati due
filoni di pensiero nei quali ha finito per riconoscersi una
parte della sinistra antagonista. Da un lato, la militanza
ecologista ha favorito un crescente diffondersi al suo
interno di una sorta di ideologia della frugalit, ossia di
un punto di vista ostile alla crescita economica tout
court, indipendentemente dal contesto culturale e dalle
politiche suscettibili di promuoverla. Dallaltro e
indipendentemente dal filone della decrescita, anche
allinterno della sinistra antagonista si finito per
flirtare con la tesi, gi precedentemente ricordata (cfr.
cap. I, pp. 21-23), secondo cui fattori strutturali di
natura tecnologica e demografica, piuttosto che linee di
politica economica riflettenti i rapporti di forza venutisi
a stabilire allinterno del capitalismo avanzato nel corso
degli ultimi decenni, avrebbero determinato una sua
ineludibile tendenza alla stagnazione. Per il primo di
questi due punti di vista la crescita della produzione e
del consumo non sarebbe auspicabile e andrebbe
combattuta; per il secondo, auspicabile o meno, la
crescita sarebbe in ogni caso impedita da fattori
oggettivi e le politiche economiche potrebbero farci ben
poco. Nel discutere delle posizioni assunte dalla
sinistra antagonista conviene iniziare proprio da questi
due filoni di pensiero: nonostante le apparenze la
materia oggetto di entrambi essendo appunto costituita
dal problema della crescita economica rappresentano
le due manifestazioni pi importanti delleffettivo
allontanamento dalle questioni economiche e di classe
che si verificato al suo interno. Considereremo
successivamente limpegno di questa sinistra nella
difesa del diritto alla diversit, ossia il suo
coinvolgimento nel variopinto mondo dei diritti civili.

2. Lecologismo e unimpressione dinconcepibilit di


una crescita infinita in un pianeta finito hanno
determinato allinterno della sinistra antagonista
francese, italiana e tedesca un certo successo di una
letteratura che propugna la necessit di puntare alla
costruzione di una societ della decrescita.
Riconoscendo che nella nostra societ la decrescita
fonte di catastrofi un semplice rallentamento della
crescita, osserva Serge Latouche, il principale
esponente di questa corrente, sprofonda le nostre
societ nello sgomento, aumenta i tassi di
disoccupazione e precipita labbandono dei programmi
sociali, sanitari, educativi, culturali e ambientali che
assicurano un minimo di qualit della vita si
argomenta che essa concepibile solo in unaltra
societ, quella, appunto, della decrescita, che sarebbe
contraddistinta dallampio spazio che in essa la
povert materiale lascerebbe alla creativit
dellimmaginazione. Si postula in pratica che la durezza
delle condizioni materiali di vita acuirebbe in questaltra
societ lo spirito dinventiva su come assicurarsi
comunque una maggiore gioia di vivere. La societ
della decrescita prefigurata come una societ in cui
ciascun individuo avrebbe sia il tempo che lo stimolo
necessari ad inventarsi modi per vivere frugalmente
felice.
Secondo queste idee occorrerebbe in sostanza uscire
dalla societ industriale uscire dalleconomia,
intesa sia come scienza economica che come vita
economica di qualsiasi societ industriale moderna.
Quella cui si anela una societ pre-industriale,
essenzialmente una societ contadina, caratterizzata da
una generale austerit o sobriet volontaria, in cui
unassemblea possa dire: Due paia di scarpe bastano.
Non avete bisogno di dieci paia. Per i fautori della
decrescita si tratterebbe tuttavia di una societ
dellabbondanza, anche se di unabbondanza
frugale, in quanto basata sullautolimitazione dei
bisogni che permetterebbe a tutti di vivere meglio
consumando e lavorando di meno. I teorici della
decrescita ritengono che il nemico principale vada
individuato, non nella qualit e nei livelli relativamente
bassi di consumo della maggioranza della popolazione,
ma nel generale sovra consumo; nella nuova societ da
essi auspicata ogni lavoro, leggero o pesante che sia,
dovrebbe essere svolto non per guadagnare del denaro
con cui far fronte alle proprie necessit, senza riguardo
al contenuto del lavoro stesso, ma per produrre beni e
servizi per quanto possibile direttamente utili a chi li
produce. Si auspica insomma una sorta di ritorno
allautoproduzione e una rinuncia al conforto materiale,
onde restituire dignit alla povert. Nella societ
della decrescita dovrebbe essere decretata una
moratoria sullinnovazione tecnologica, e, in un
contesto di tendenziale autosufficienza di municipalit
sufficientemente piccole da poter essere direttamente
controllabili dai loro cittadini, i bisogni verrebbero
soddisfatti da unit produttive locali di piccole
dimensioni impieganti tecniche sostenibili.
Per i decrescenti ci che conta ritornare al passato
un passato pi o meno remoto a seconda del grado di
ascetismo dei diversi autori comunque reso per cos
dire permanente da un blocco istituzionalizzato del
progresso tecnico e dellaumento della produttivit del
lavoro. Essi sono per il rigetto di qualsiasi societ
produttivista: non solo del capitalismo e della
produzione per il profitto, ma di ogni altro tipo di
societ pi o meno socialista che miri a una pi equa
distribuzione dei frutti della crescita e alla
conservazione dellambiente attraverso la
regolamentazione o il controllo diretto da parte dello
Stato dei processi produttivi. Nelle parole di Latouche:

La scuola della decrescita non colloca il cuore del


problema nel neo o ultraliberismo o nelluniverso del
mercato, ma nella logica della crescita percepita come
essenza delleconomicit. In questo il progetto
radicale. Non si tratta di sostituire una buona
economia a una cattiva, una buona crescita o un
buon sviluppo a una crescita e a uno sviluppo cattivi,
ripitturati di verde, di sociale e di egualitario, con una
dose pi o meno forte di regolamentazione statalista e
di solidariet sociale. [] Il progetto della decrescita,
di fatto, non n quello di unaltra crescita, n quello
di un altro sviluppo (sostenibile, sociale, solidale,
verde, rosso eccetera), ma piuttosto la costruzione di
unaltra societ.

E ancora:

Noi rifiutiamo di salvare i miti di unaltra economia,


di unaltra crescita o di un altro sviluppo (che siano
allinsegna del keynesismo, del pubblico, del
socialismo, dellumanesimo, della sostenibilit ecc.).
[] Non basta mettere in discussione il capitalismo.
Bisogna contestare ogni societ della crescita. E su
questo Marx non ci aiuta. [] Capitalismo pi o meno
liberista e socialismo produttivista sono due varianti
di uno stesso progetto di societ della crescita
fondato sullo sviluppo delle forze produttive, che
dovrebbe favorire il cammino dellumanit verso il
progresso. [] La nostra concezione della societ
della decrescita un superamento della modernit
(corsivi nelloriginale).
Un superamento della modernit che resta tuttavia
molto vago. Non mai chiaro nella letteratura sulla
decrescita quali sarebbero i rapporti di produzione e di
distribuzione nella nuova societ, n se lintero
prodotto andrebbe ai lavoratori in una societ nella
quale, secondo i suoi sostenitori, nessuno lavorerebbe
pi di due ore al giorno e tutti sarebbero occupati.
Insomma, che fine vi farebbero il capitale e il profitto? Il
superamento della modernit auspicato dai
sostenitori della decrescita poi francamente, oltre che
vago, un po sinistro: il lettore dei loro scritti pu
difficilmente evitare che gli vengano continuamente alla
mente Pol Pot e i Khmer rossi. Fortunatamente, i
decrescenti avvertono il bisogno di dire qualcosa
sulla transizione alla societ della decrescita e qui
largomentare si fa pi familiare e rassicurante. Cos
Latouche osserva che per alleviare oggi le sofferenze di
numerose popolazioni europee, a partire da quella
greca, sarebbero indispensabili dei rimedi transitori di
buon senso, come la riduzione del tempo di lavoro e il
ricorso a rimedi keynesiani come i disavanzi pubblici e
misure risolutamente protezionistiche. Egli osserva
inoltre, con riferimento alla Francia e alle elezioni
politiche del 2012, che il programma economico pi
intelligente era quello di Marine Le Pen [], di fatto pi
o meno il programma che avrebbe dovuto avere la
sinistra. Dopotutto Serge Latouche ha un passato di
economista critico, durante il quale deve aver avuto
dimestichezza con letture decisamente pi sensate delle
sue attuali fonti dispirazione (tra le quali primeggiano il
pensiero del teologo-filosofo Ivan Illich e Leconomia
dellet della pietra dellantropologo Marshall
Sahlins).

3. Lidea dellimpossibilit della crescita ha fatto


breccia a sinistra non soltanto con lo scatenamento
della furia crescitoclasta dei decrescenti, ma anche
con il diffondersi dellapparentemente pi ragionevole
convinzione che il rallentamento del processo di
crescita dellultimo quarantennio abbia poco a che
vedere con la carenza della domanda aggregata e le
politiche economiche liberiste, risultando invece da un
calo del saggio di profitto e della propensione ad
investire, ovvero da una pi fondamentale
contraddizione del processo di accumulazione
capitalistica. Questa posizione espressione dellantica
avversione della sinistra pi radicale alle politiche
keynesiane, considerate in fin dei conti dannose in
quanto

mirano a portare acqua al mulino delle tesi []


secondo le quali le razzie del capitalismo possono
essere in qualche modo controllate e regolate se solo
vi fosse un ritorno ad alcune delle politiche del
passato. Esse mirano ad impedire la comprensione del
fatto che vi una tara profonda e intrinseca, vale a
dire delle contraddizioni irrisolvibili allinterno del
capitalismo che possono essere superate solo
attraverso la rivoluzione socialista e la fine del
sistema del profitto capitalistico.

Ora, a prescindere dalleffettivo operare delle forze che


determinerebbero la caduta del saggio di profitto (come
pure delle controforze, che nei Trenta pietosi avrebbero
in ogni caso dominato), le ragioni dellavversione alle
politiche keynesiane potrebbero essere comprese
qualora il ritorno alle politiche del passato agisse
come fattore di depotenziamento del fronte del lavoro
nel conflitto di classe. Se, viceversa, ci si convincesse
che una forte azione di controllo e regolazione del
capitalismo opera nel senso di rafforzare, non di
indebolire, il fronte del lavoro, le ragioni di
questavversione svanirebbero. La critica alle politiche
economiche orientate al buon funzionamento del
capitalismo, in altri termini, ha un significato politico
chiaro soltanto in una fase molto avanzata del conflitto
di classe e delle conquiste dei salariati. In una fase
come quella attuale, appaiono piuttosto come una
forma di pensiero dal contenuto giustificazionista, che
finisce di fatto per rafforzare il fianco della
conservazione.
Queste considerazioni contribuiscono a spiegare il
successo del libro di Thomas Piketty, Il capitale nel
XXI secolo, anche tra le fila della sinistra antagonista.
Questo autore ritiene ci si trovi di fronte a un tasso di
crescita lenta plurisecolare, determinato da fattori
tecnologici e demografici, al quale tutte le nazioni
finirebbero prima o poi per convergere. Alla luce di
questa convinzione, i casi di pi alta crescita sarebbero
nullaltro che una manifestazione dellavvicinamento
dei Paesi a pi basso grado di sviluppo a quelli che si
trovano sulla frontiera tecnologica, come pure del
recupero nellambito dei Paesi industrialmente pi
avanzati di fasi di temporaneo arresto o rallentamento
del processo di crescita. Landamento del capitalismo
mondiale non rifletterebbe quindi che una legge
millenaria, semplicemente di tanto in tanto localmente
perturbata da circostanze di natura accidentale. N la
crescita del prodotto n la sua distribuzione tra salari e
profitti dipenderebbero dalle linee di politica economica
effettivamente perseguite nei diversi contesti e dai
sottostanti rapporti di forza tra le classi: nella sua
analisi, tanto il tasso di crescita del prodotto che la sua
distribuzione sono sostanzialmente dei dati esogeni,
entrambi dipendendo dallofferta di lavoro e dalla sua
produttivit (ossia dal progresso tecnico). Egli rileva
che

LEuropa continentale ed in particolare la Francia


vivono in larga misura nella nostalgia dei Trenta
Gloriosi, vale a dire di quel periodo di trentanni, dalla
fine degli anni Quaranta alla fine degli anni Settanta,
durante il quale la crescita stata eccezionalmente
forte. Non comprendiamo quale genio malvagio ci ha
imposto una crescita cos debole a partire dalla fine
degli anni Settanta e linizio degli anni Ottanta.
Ancora oggi, allinizio degli anni Duemiladieci, ci
immaginiamo spesso che la cattiva parentesi dei
Trenta pietosi (che sarebbero in realt trentacinque o
quarantanni) si chiuda, che questincubo termini e
tutto ricominci come prima. Di fatto, quando visti in
prospettiva storica, appare chiaramente che proprio
il periodo dei Trenta Gloriosi ad essere stato
eccezionale, semplicemente perch lEuropa aveva
accumulato nel corso degli anni 1914-1945 un enorme
ritardo di crescita con gli Stati Uniti, che stato
rapidamente colmato proprio nei Trenta Gloriosi.
Quando questa convergenza avvenuta, lEuropa e
gli Stati Uniti si sono ritrovati insieme sulla frontiera
mondiale, e si sono messi a crescere allo stesso ritmo,
che il ritmo strutturalmente lento della frontiera
mondiale. [] probabile che la Francia, la Germania
e il Giappone avrebbero colmato il loro ritardo di
crescita generato dal collasso 1914-1945 a
prescindere dalle politiche economiche adottate, o
quasi. Al pi potremmo affermare che lo statalismo
non ha nuociuto. Allo stesso modo, una volta che la
frontiera stata raggiunta, non stupisce che questi
Paesi hanno smesso di crescere pi dei Paesi
anglosassoni e che i tassi di crescita si sono allineati.
In prima approssimazione, le politiche di
liberalizzazione non sembrano aver cambiato
questa elementare verit, n innalzando e nemmeno
riducendo la crescita (corsivi aggiunti).

Ci troviamo qui di fronte allidea centrale di questo


filone di pensiero. La tesi dellimpossibilit della
crescita, quali ne siano le cause e i giudizi sui livelli
raggiunti nellultimo trentennio grandemente
moderati, secolarmente stagnanti, convergenti ad un
presunto ritmo plurisecolare lento in essenza la tesi
dellimpossibilit di influenzare la crescita attraverso
la politica. Del ruolo svolto da questa tesi come
potente strumento di conservazione dello status quo
abbiamo gi detto nel primo capitolo. Ci interessa qui
porre in luce che una ragione non secondaria
dellattrattiva da essa esercitata risiede nel fatto di
costituire unidea deresponsabilizzante. Che si tratti di
senso di colpa derivante da conversioni
opportunistiche o di frustrazione generata da una
genuina sensibilit sociale, la crescita impossibile
un formidabile alibi, ed pertanto un comodo abito
mentale nel quale ci si infila senza troppa fatica.
Vi poi un secondo aspetto che ha favorito la
diffusione di questa idea nella sinistra antagonista. Nel
corso degli ultimi decenni, essa ha coltivato una sorta
di terzomondismo mondialista che ha intrecciato
confusamente anticolonialismo e liberismo. La tesi
secondo cui lo sviluppo dei Paesi pi avanzati sarebbe
avvenuto a danno dei Paesi meno sviluppati stata
riproposta per sostenere che la mondializzazione, per
quanto socialmente dannosa nel centro capitalistico,
avrebbe di fatto compromesso quei meccanismi di
asservimento neocoloniale che impedivano lo sviluppo
nella periferia. La bassa crescita del centro, come pure
lelevata crescita della periferia, sarebbero nullaltro che
la manifestazione di questo mutamento. Al motto di
Nessuna frontiera, nessuno Stato, la sinistra
antagonista si mossa contro il nazionalismo, il
razzismo, il capitalismo, di fatto identificati come un
solo nemico. Lo stesso benessere relativamente pi
elevato dei lavoratori occidentali stato percepito come
derivante dallo sfruttamento dei lavoratori del terzo
mondo. Apparentemente, queste tesi danno al conflitto
di classe un contenuto nientemeno che universale. In
concreto, individuando come terreno di quel conflitto il
mondo, rappresentano la forma pi estrema di
spoliticizzazione della vita sociale, finendo di fatto per
fare dello sterile antioccidentalismo e dellutile
antistatalismo.

4. La rivendicazione del diritto alla diversit cui


abbiamo fatto riferimento allinizio del capitolo pu
considerarsi come un aspetto del pi generale
fenomeno del relativismo culturale, molto presente
allinterno della sinistra antagonista: una specie di odio
verso se stessi, che nel corso degli ultimi trentanni ha
portato un po dappertutto in Europa a reclamare il
rispetto integrale dei costumi stranieri, aprendo la
strada a ogni sorta di eccezioni alluniversalismo della
legge.
Differenzialismo e relativismo culturale ricevettero un
forte impulso dalla fondazione in Francia nellautunno
del 1984 di SOS Racisme, un movimento che contribu a
minare, in un tempo relativamente breve, buona parte
del lungo lavoro assimilazionista che era stato
precedentemente compiuto in quel Paese dalle sue
istituzioni repubblicane. La professione di fede
contenuta nel primo numero di Globe, mensile
dellantirazzismo francese diretto da Bernard-Henri
Lvy, cos recitava: Di sicuro siamo risolutamente
cosmopoliti. Di sicuro tutto ci che tipicamente
francese (franchouillard) o patriottardo (cocardier) ci
non solo estraneo ma odioso. Per tutti i movimenti del
tipo di SOS Racisme costituitisi in Europa nel corso
degli ultimi trentanni, le comunit di diversa origine
stabilitesi sul territorio di ciascuna nazione europea non
avrebbero pi dovuto sforzarsi di fondersi in un
medesimo amalgama con la popolazione autoctona, ma
avrebbero dovuto al contrario affermare con
determinazione tutte le proprie differenze, le proprie
specificit, concepite come altrettante opportunit.
Naturalmente, lafflusso continuo di lavoratori stranieri
e i conseguenti ricongiungimenti familiari dovevano
essere considerati come le principali fonti di
arricchimento di tali opportunit: limmigrazione
una fortuna, un arricchimento andava conclamando la
sinistra antagonista, mentre la presenza di una
crescente popolazione immigrata di fatto peggiorava
sempre pi le condizioni di vita nei quartieri popolari;
sovrapponendosi al disimpegno crescente dello Stato,
accelerava dappertutto il degrado della scuola
pubblica; regalava episodi del tipo del capodanno di
Colonia. Al contempo, la posizione di generosa
apertura allimmigrazione, come abbiamo gi ricordato
nel quarto capitolo, faceva oggettivamente il gioco
delle imprese, naturalmente interessate a rifornirsi a
basso costo di tutta la manodopera di cui avevano
bisogno, reclutando gli immigrati come schiavi e
lasciando il pi possibile contrattualmente indeboliti i
lavoratori locali. anche grazie al cosmopolitismo della
sinistra antagonista che in tutta Europa le
organizzazioni padronali hanno potuto pi agevolmente
far tacciare di razzismo o xenofobia da parte dei
principali mezzi di comunicazione le manifestazioni di
ostilit popolare allimmigrazione.
Allinterno della sinistra antagonista, in un rapporto
piuttosto stretto con lecologismo mediato dalla
comune idealizzazione della natura, va poi collocato
anche il femminismo della differenza, che dagli Stati
Uniti si diffuso in Europa nel corso degli ultimi
trentanni e per il quale la diversit biologica molto
pi importante della diversit sociale. Il nuovo
femminismo postula che la diversit biologica
renderebbe luniverso femminile, mosso allo spirito di
sacrificio ed al coraggio dalle virt naturali della
maternit, un universo totalmente differente da quello
maschile, predestinato allopposto alla prevaricazione,
alla violenza e allasservimento della natura. Proprio
questo dualismo sessuale e la specificit della natura
femminile giustificherebbero la rivendicazione di un
sistema giuridico fondato su diritti particolari, specifici
alluniverso delle donne; in pratica, la rivendicazione di
una diversit dei diritti. Come noto, il femminismo pre-
anni Ottanta alla Simone de Beauvoir mirava
allemancipazione delle donne attraverso la
realizzazione delluguaglianza tra i sessi e alla parit dei
diritti, in primo luogo in campo economico, senza allo
stesso tempo mai perdere di vista le differenze di classe,
ossia senza perdere di vista che sono molto maggiori le
differenze esistenti tra donne appartenenti a classi
sociali diverse che non quelle esistenti tra donne e
uomini appartenenti alla medesima classe. Il
femminismo della differenza biologica ha preso
nettamente le distanze da questa impostazione: se da
un lato mostra un interesse di facciata al fatto che,
anche allinterno del capitalismo avanzato, nonostante
la parit sostanziale raggiunta nei livelli distruzione, le
donne continuino a ricevere salari inferiori a quelli degli
uomini e a soffrire di tassi di disoccupazione
sistematicamente pi alti, dallaltro ignora
completamente il conflitto di classe, finendo per
fantasticare di una natura comune, comuni interessi e
obiettivi tra loperaia o la domestica della periferia pi
sordida e la ricca borghese dei quartieri residenziali.
Come ha scritto lacuta critica del nuovo femminismo
Elisabeth Badinter:

Prendendo la strada contraria al femminismo


universalista, [lattuale femminismo] ha accantonato il
concetto di disuguaglianza e favorito il massiccio
ritorno della biologia. Linno alla natura ha soffocato
la lotta sociale e culturale. [] I maggiori progressi
son tutti avvenuti grazie allaudace decostruzione del
concetto di natura. Non per negarla ma per rimetterla
al suo giusto posto. Si offerta cos a ciascuno una
libert senza precedenti in relazione ai ruoli
tradizionali che definivano il genere. stata quella
filosofia, universalista e culturalista, a mutare la
condizione femminile []. Si visto allora che il
sesso, il genere e la sessualit non determinano a
priori un destino. Ora questo discorso non pi di
moda. [] e sono state proprio le donne a riportare in
auge la diversit biologica e con essa la
specializzazione dei ruoli.

La fantasia del nuovo femminismo circa lesistenza di


un mondo totalmente diverso da quello maschile, un
universo in cui loperaia disoccupata e la borghese
benestante condividerebbero le medesime virt naturali
della maternit e avrebbero quindi obiettivi comuni, ha
contribuito involontariamente a generare unaltra
fantasia, non meno assurda, allinterno delluniverso
omosessuale maschile. Una coppia di omosessuali che
rivendichi il diritto ad avere un figlio proprio (ma lo
stesso potremmo dire di una coppia eterosessuale in
cui la donna sterile), sangue del sangue di uno dei
due partner, pu oggi pi facilmente fantasticare che
una donna, indipendentemente dalla sua classe
sociale e dalle sue condizioni economiche, mossa
naturalmente allo spirito di sacrificio dalle virt
femminili della maternit, possa accettare di mettere a
rischio la propria salute facendosi usare come
unincubatrice e portare in grembo per nove mesi un
essere che una volta nato non rivedr mai pi, se non
per eventuale concessione della coppia che ha preso in
affitto il suo utero. Nella carta dellassociazione
francese laica CoRP che rivendica la maternit come
prerogativa femminile da non svendere, si ricordano i
rischi corsi dalle donne che vendono gli ovociti e dalle
madri che affittano gli uteri (cisti ovariche, menopausa
precoce, perdita di fertilit, tumori del sistema
riproduttivo, trombosi, insufficienza renale, ictus e, in
alcuni casi, la morte); i rischi per i nati (nascita
prematura, peso insufficiente, morte intrauterina); le
pesanti conseguenze della rottura del legame biologico
per entrambi; soprattutto si ribadisce che sono i poveri
a vendere e i ricchi a comprare. Una simile
mercificazione del proprio corpo, di fronte alla quale la
prostituzione impallidisce, semplicemente il frutto di
condizioni economiche particolarmente disagiate. Forse
avrebbe stupito lo stesso Marx, che pure preconizz
che il capitalismo avrebbe mercificato tutto il
mercificabile e che la borghesia avrebbe dissolto la
dignit personale nel valore di scambio e [] strappato
alle relazioni familiari il loro toccante velo sentimentale
per ricondurle a una pura questione di denaro. Non
cos per un esponente di primo piano della sinistra
antagonista italiana: C anche unaltra realt egli ha
dichiarato recentemente [quella] di donne che non
sono in condizioni economiche disagiate, che scelgono
come gesto damore di mettere a disposizione il proprio
corpo per una gestazione per altri. Di squilibrate ve ne
sono in tutte le classi, questo fuori di dubbio, sicch
non si pu escludere a priori che qualche ricca
borghese acconsenta ad affrontare una gravidanza per
altri come gesto damore e di sacrificio. Ma il fatto
che le incubatrici umane sono in gran numero donne
provenienti da famiglie a basso reddito, spesso in
costrizione, in ogni caso suscettibili di abusi e
sfruttamento perch non educate e prive di risorse
finanziarie. Daltro canto, se si considera che nelle
circostanze pi favorevoli la donna contenitore
pagata circa 30.000 dollari, il salario orario inferiore a 5
dollari lora, cio meno della met di quello corrisposto
da McDonalds.

5. Possiamo concludere questo capitolo sulla sinistra


antagonista osservando che la sua lotta per i diritti
civili sta sfondando delle porte aperte. In tutta Europa,
in una situazione di progressiva liquidazione dei
principali diritti sociali, si tende a lasciare molto spazio
alla tutela dei diritti civili e non solo perch questi
ultimi sono per lo pi a costo zero per i governi. Gli
interessi e i poteri privati forti non sono in nulla scalfiti
dalla loro tutela e sono pertanto disposti (salvo la
Chiesa cattolica che tuttavia indotta dagli scheletri
presenti nel suoi armadi a non disturbare troppo il
manovratore) a cedere tutto su questo terreno, purch
non si metta il bastone tra le ruote al processo di
smantellamento dei diritti sociali e alle privatizzazioni. Va
poi considerato che la questione dei diritti civili crea un
feticcio di conflitto politico, agendo al contempo
allinterno dei ceti popolari come un fattore divisivo che
distoglie lattenzione dai comuni interessi di classe. Pur
di riuscire indisturbati ad ottenere ulteriori riforme del
mercato del lavoro e ad impadronirsi di parti sempre
maggiori dellapparato produttivo pubblico, gli interessi
dominanti mettono a disposizione tutti i mezzi di cui
dispongono per mantenere sempre viva la battaglia
politica dei diritti civili.

Nota bibliografica
Le idee sulla decrescita e i passi citati nel testo sono
tratti dalle seguenti opere di Serge Latouche, che
contengono unindicazione esaustiva dei contributi di
questa scuola di pensiero e delle sue principali fonti
dispirazione: La scommessa della decrescita,
Feltrinelli, Torino 2007; Breve trattato sulla decrescita
serena, Bollati Boringhieri, Torino 2008; Pour en finir
avec lconomie. Decroissance e critique de la valeur
(in coll. con A. Jaffe), Libre & Solidaire, Parigi 2015. I
contributi italiani pi citati in queste opere sono quelli
di A. Magnaghi (Il progetto locale, Bollati Boringhieri,
Torino 2000), M. Pallante (La decrescita felice. La
quantit della vita non dipende dal Pil, Editori Riuniti,
Roma 2005) e F. Gesualdi (Sobriet. Dalla spesa di
pochi ai diritti per tutti, Feltrinelli, Milano 2005).
Linfluenza della scuola della decrescita inoltre
chiaramente presente nella letteratura italiana in tema di
beni comuni, in particolare negli scritti di U. Mattei (si
vedano, di questo autore, Beni comuni: un manifesto,
Laterza, Bari 2011 e Contro riforme, Einaudi, Torino
2013; si veda inoltre La rivolta dei beni comuni,
Micromega, n. 3, 2013). Anche la letteratura sui beni
comuni contiene una mitizzazione di situazioni pre-
industriali una certa nostalgia di legnatico, erbatico,
fungatico.
La citazione che esemplifica lansia di mutamento
sociale dei movimenti comunisti pi radicali, insieme ai
sentimenti profondamente anti-keynesiani da essa
ispirati, tratta da un articolo del World Socialist
Website (WSWS.org) del 23 febbraio 2016, dal titolo
Secular stagnation and the contradictions of
capitalism, a firma di N. Beam, il leader trotskista del
Socialist Equality Party canadese. La citazione di T.
Piketty da Il capitale nel XXI secolo, Bompiani,
Milano 2014.
Su SOS Racisme, i suoi fondatori e sostenitori, si veda
. Zemmour, Le suicide francais, Albin Michel, Parigi
2014, pp. 243-9. In Italia, nel corso degli ultimi
trentanni, la principale espressione di generosa
apertura allimmigrazione da parte della sinistra
antagonista stata rappresentata dal Manifesto,
fondato nel 1969 sullonda dellantisovietismo
montante e dellidealizzazione della Cina maoista (sulla
formazione del gruppo del Manifesto, si veda V. Foa e
A. Natoli, Dialogo sullantifascismo, il Pci e lItalia
repubblicana, Editori Riuniti, Roma 2013, in part. pp.
252-84).
Particolarmente rappresentativo del femminismo della
differenza il libro di L. Irigaray, Il tempo della
differenza, Editori Riuniti, Roma 1989; ma si vedano
anche S. Agacinsky, La politica dei sessi, Ponte alle
Grazie, Milano 1998 e F. Hritier, Maschile e
femimminile. Il pensiero della differenza, Laterza, Bari
1997. Il brano di E. Badinter citato nel testo tratto da
La strada degli errori. Il pensiero femminile al bivio,
Feltrinelli, Milano 2014, pp.116-17. Lopera di S. de
Beauvoir, Il secondo sesso, pubblicata a Parigi da
Gallimard nel 1949 (ed. it. Il Saggiatore, Milano 1961, 2
voll.) fu per 3 decenni il testo di riferimento del
movimento femminista mondiale, prima della svolta
degli anni 80. Anche le posizioni del nuovo
femminismo hanno trovato spazio in Italia soprattutto
sulle pagine del Manifesto.
Per quanto riguarda il diritto alla paternit/maternit,
segnaliamo il lavoro seminale della femminista radicale
G. Corea, The mother machine: Reproductive
technologies from artificial insemination to artificial
wombs, Harper & Row Publishers, New York 1985. La
raccolta di saggi New Cannibal Markets
Globalization and the Commodification of the Human
Body, edita da J.D. Rainhorn e S. El Boudamoussi,
Edition de la maison des sciences de lhomme, Parigi
2015 (in particolare nella parte 2^: Wombs for Rent)
offre unaggiornata disamina della pratica dellutero in
affitto negli Stati Uniti, in India e in Israele. Per
unanalisi della condizione di povert culturale e
materiale in cui versano le donne contenitore
statunitensi, si veda J. Damelio e K. Sorensen,
Enhancing autonomy in paid surrogacy, Bioethics,
2008, 22(5), 269277. Il documento dellassociazione
CoRP (Collettivo per il rispetto della persona), animata
proprio da S. Agacinsky, figura chiave del pi noto
collettivo La manif pour tous, sorto in opposizione al
movimento Le mariage pour tous di Bernard-Henry
Lvy, consultabile allindirizzo web
www.stopsurrogacynow.com. La citazione di Marx di p.
239 dal Manifesto del Partito Comunista. Per la
questione della gravidanza per altri come gesto
damore, nel testo abbiamo fatto riferimento a
unintervista concessa da Nichi Vendola a Matrix
(Canale 5), trasmessa il 2 marzo 2016 e citata sul Fatto
Quotidiano del giorno successivo. Sulla genitorialit
omosessuale dal punto di vista del femminismo della
differenza, si veda S. Niccolai, Maternit
omossesussale e diritto delle persone omosessuali alla
procreazione. Sono la stessa cosa? Una proposta di
riflessione, in Costituzionalismo.it, fasc. 3, 2015.
Infine, per unanalisi critica della tesi tradizionale, in
campo giuridico, di una subalternit dei diritti sociali ai
diritti civili (o diritti di libert), si veda M. Luciani,
Sui diritti sociali, in Studi in onore di Manlio
Mazziotti di Celsio, vol. II, Cedam, Padova 1995.
Epilogo

La sinistra europea si suicidata. La sua scomparsa


non pu essere spiegata in termini di opportunismo
politico: labbandono nel corso degli ultimi decenni dei
suoi programmi di progresso economico e sociale, lungi
dallampliare e consolidare la base del suo potere, ha
portato sistematicamente alla perdita del consenso che
proprio quei programmi le avevano assicurato nel corso
dei Trenta gloriosi. Daltro canto, non evidentemente
neppure spiegabile in termini di opportunismo
individuale, sebbene questultimo sia stato per
numerosi esponenti della sinistra estremamente
remunerativo sotto il profilo del carrierismo e
dellarrampicamento sociale: per quanto vergognosa
possa essere stata la sua fine, significherebbe
confondere le cause con gli effetti.
necessario distinguere tra lo svolgersi progressivo
del processo di disfacimento della sinistra europea e i
suoi determinanti primi. Occorre riflettere, in altre
parole, sulle ragioni che la resero incapace di tenere la
rotta, oltre che analizzare il percorso da essa compiuto
nellandare col vento. A questo riguardo non va perso
di vista che gli stessi Trenta gloriosi non furono in
primis farina del sacco delle sinistre europee. Il loro
determinante primo va piuttosto individuato nel nuovo
ruolo che lo Stato aveva finito per assumere allinterno
del capitalismo avanzato a seguito di una serie di eventi
epocali della prima met del secolo: la rivoluzione
bolscevica, la Grande Depressione, la seconda guerra
mondiale, la vittoria sovietica sul nazismo. In
conseguenza di quegli eventi, la macchina dello Stato
semplicemente non pot pi funzionare al servizio
pressoch esclusivo dei capitalisti ed essere usata
primariamente come strumento repressivo nel conflitto
di classe. Essa dovette invece essere condivisa con i
salariati, che divennero quindi in grado di servirsene
per i loro obiettivi. Si pu dire che alla fine della guerra
le sinistre europee si mossero sostanzialmente a
rimorchio di questo nuovo ruolo dello Stato: certamente
contribuirono allo sviluppo del meccanismo virtuoso
del primo trentennio postbellico, ma non lo avevano
messo in moto.
Anche a monte della svolta del capitalismo avanzato di
fine anni Settanta inizio anni 80 si possono individuare
degli eventi di natura per cos dire strutturale, che
tuttavia la sinistra europea, con la sua azione nel corso
dei Trenta gloriosi, aveva contribuito a determinare. Nel
volume abbiamo soprattutto fatto riferimento a un
contesto caratterizzato dal marcato acutizzarsi del
conflitto distributivo, da una crisi profonda del sistema
sociale alternativo e dal cessato pericolo della
sovversione comunista. Posta di fronte a tali eventi,
essa non solo non fu in grado di contrastare la svolta
ma ne assunse la guida. La nostra analisi suggerisce
che il percorso da allora compiuto fu in larga misura
predeterminato nel momento in cui, pur essendo
allapice della sua forza, la sinistra europea non si
oppose al cambiamento di rotta, al contrario
favorendolo e proponendosi di governarlo. La sua
permanenza o semplice vicinanza al potere fu percepita
come presupponente la rinuncia alluso di quella forza
ed ebbe quindi come conseguenza la sua dissipazione.
Nel riassumere i principali passaggi e relazioni causali
del processo di disfacimento della sinistra, i tre aspetti
fondamentali ai quali abbiamo rivolto lattenzione sono
stati le relazioni economiche con lestero, la questione
salariale e lorientamento della politica fiscale. Nei
decenni post-bellici, il sostegno della domanda
aggregata attraverso un utilizzo espansionistico e
redistributivo della politica fiscale in un contesto di
tendenziale equilibrio dei conti con lestero aveva
costituito il presupposto principale della crescita
occupazionale. Questa, aumentando il potere
contrattuale dei salariati, aveva dato ulteriore impulso ai
consumi, alla produzione e alloccupazione, rafforzando
anche per questa via il mondo del lavoro ed i partiti che
dei suoi interessi si facevano promotori. La sinistra
Europa fu dunque parte integrante del circuito virtuoso
occupazione salario Stato sociale
occupazione: con il suo operare lo rafforz risultandone
al contempo rafforzata. Allo stesso modo, al momento
della svolta, sostenendo lincondizionata
liberalizzazione di capitali, uomini e merci, insieme
allausterit, allarretramento dello Stato e alla
deregolamentazione del mercato del lavoro, essa favor
lavvio del circolo vizioso degli ultimi decenni,
facendosi artefice della propria dissoluzione. in
questo senso che si pu sostenere che determin il
cambiamento dai Trenta gloriosi ai Trenta pietosi:
invece di spendere la sua forza per contrastarlo, la
spese e dissip per favorirlo e gestirlo.
Lesperienza di tutto il periodo postbellico testimonia
della necessit di attrezzarsi analiticamente e
programmaticamente per riuscire ad inserirsi nellazione
delle forze suscettibili di generare il cambiamento e
cercare di governarle nella direzione di fatto voluta dai
pi ampi strati della popolazione. Proprio il contrario di
ci che accaduto in Europa dopo la crisi del 2008, che
ha s generato diffuse reazioni di rigetto del liberismo
ma nessun recupero a sinistra di consapevolezze capaci
di prefigurare e imporre soluzioni autenticamente
progressive. Allinterno del capitalismo avanzato il
consenso liberista si andato frantumando in questi
ultimi anni, nonostante gli sforzi che una martellante
propaganda ha continuato a compiere per preservarlo
di fronte al sempre pi evidente degrado economico e
sociale da esso provocato. Lostilit popolare nei
confronti di banche e finanza del loro potere, avidit e
insipienza non mai stata cos forte nella storia nel
capitalismo. Mondializzazione e multiculturalismo
continuano ormai ad affascinare solo la parte
ideologicamente pi disorientata della giovent, mentre
dappertutto cresciuta, proprio tra i giovani, la
richiesta di politiche finalizzate alla piena occupazione e
al benessere collettivo, piuttosto che al perseguimento
di equilibri finanziari di fatto coincidenti con la tutela
esclusiva degli interessi dei pi ricchi. Parallelamente,
andata crescendo in questi ultimi anni in Europa
laspirazione al recupero della sovranit nazionale in
campo economico, finalmente ri-percepita come
condizione necessaria alla conquista di spazi di impiego
della macchina dello Stato da parte del lavoro
dipendente, ossia come condizione dellesercizio
effettivo della sovranit popolare. Infine, il calo
continuo della partecipazione elettorale ha svelato
uninsofferenza crescente nei confronti di una classe
politica asservita agli interessi dei potenti e quasi
dovunque sempre pi composta di figuranti parlanti.
Gli elementi strutturali per la rinascita in Europa di una
sinistra vera, di nuovo consapevole che al potere del
denaro pu contrapporsi solo quello dello Stato-
nazione, sono attualmente tutti presenti. Una sinistra
che rimettesse al centro della sua attenzione le
questioni economiche e di classe, la difesa dei salariati
e dei ceti popolari attraverso il rilancio dello Stato e del
pubblico, avrebbe oggi il non trascurabile vantaggio di
non doversi inventare praticamente niente. Tanto a
livello teorico che pratico il pi gi stato elaborato e
sperimentato. Si tratterebbe di riprendere le fila di
quanto di meglio una parte sostanziale della civilt
europea riusc a realizzare nei primi 30 anni successivi al
secondo conflitto mondiale, facendo in pi tesoro
dellesperienza degli ultimi decenni, ossia dei costi in
termini di degrado economico e sociale che
labbandono di quel cammino ha comportato. Non vi
sarebbe dunque da affrontare lignoto ma si tratterebbe
piuttosto di riuscire a superare una sorta dinerzia
culturale. Di fronte ai disastri causati dal liberismo, oggi
possiamo riconoscere che il suo maggior successo
stato proprio quello di essere riuscito cos a lungo a far
credere alle sinistre europee che la difesa degli interessi
dei lavoratori costituisse il retaggio di unideologia
arcaica e che lo Stato sociale della vecchia Europa
rappresentasse un modello irrimediabilmente esaurito.

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