Sei sulla pagina 1di 113

COLLANA DEL TRIDENTE

STORIA CONTEMPORANEA
1

270

270

Giuseppe Perri

STATO D’ECCEZIONE

L’INTERNAMENTO DEI CIVILI NEL SECONDO CONFLITTO MONDIALE IN GRAN BRETAGNA, FRANCIA,
USA E ITALIA.

UNO STUDIO COMPARATO

270

© 2013
Giuseppe Perri
tutti i diritti riservati

Prima edizione italiana


dicembre 2013

Stampato in Italia
dal Gruppo
Editoriale L’Espresso S.p.A.
ilmiolibro.it

Tutti i diritti sono riservati, come da legge sul Diritto d'Autore n.518 del 1992 e successive modifiche.
Nessuna parte di questo libro potrà essere riprodotta e utilizzata anche parzialmente e con qualsiasi mezzo senza il
consenso dall'autore.

In quarta di copertina: la “Via Crucis” di un internato italo-


americano fissata sulla sua agendina
INDICE

11 Premessa

17 Principali abbreviazioni

I
19 L’INTERNAMENTO IN GRAN BRETAGNA, FRANCIA E USA

1
21 IL CASO INGLESE: LO SWINTON COMMITTEE

21 Amnesie e lacune storiografiche


23 L’antialienismo britannico
26 Le due fasi dell’internamento
35 “Per il buon nome di questo Paese”
2
39 I “CAMPI DELLA VERGOGNA” FRANCESI

39 Le tenaci amnesie e le peculiarità dell’internamento francese


42 Le origini repubblicane di Vichy
52 L’internamento repubblicano
56 L’internamento di Vichy
62 L’internamento della Liberazione

3
65 L’EXECUTIVE ORDER 9066: L’INTERNAMENTO DI
GUERRA NEGLI USA

65 Il riemergere del passato


67 Razzismo, “tribalismo” ed eugenetica: il laboratorio americano 77 “Wartime
relocation”
85 L’internamento degli italiani negli Usa

II
95 L’INTERNAMENTO DI GUERRA NELL’ITALIA
FASCISTA

1
97 REPRESSIONE E POLIZIA POLITICA

97 Il “nuovo Stato” fascista


101 La normativa repressiva fascista
106 La Direzione Generale di Pubblica Sicurezza
115 Burocrazia e regime

2
121 RAZZISMO E FASCISMO

122 “Francamente razzisti”


123 Il razzismo italiano
127 Scienziati e razzismo
138 L’antisemitismo
145 Antisemitismo, antigiudaismo e ruolo dei cattolici
150 Prima delle leggi razziali: il R. Decreto 30.10.1930 n. 1371
156 Regime e protestantesimo
158 Mussolini e l’ebraismo
161 Le leggi antiebraiche
165 Razzismo, imperialismo, totalitarismo
168 Fascismo totalitario

3
177 LA NORMATIVA ITALIANA SULLE PERSONE
DA INTERNARE

178 La legge di guerra e i preparativi dell’internamento


190 L’internamento e gli ebrei stranieri 196 Gli arresti e la
detenzione
205 L’internamento “parallelo” e gli “allogeni”
208 La fase finale dell’internamento “regolamentare”

4
213 MEMORIA IMPERFETTA
214 La continuità dello Stato
219 Il servizio allo Stato e il razzismo
222 Le amnesie
228 Il fattore cattolico

Conclusione
231 COSA FURONO QUESTI CAMPI?

239 APPENDICE
Il campo di concentramento di Città S. Angelo nella documentazione dell’Archivio centrale dello Stato (1940-1944)

277 Bibliografia delle opere citate


292 Indice dei nomi

270
270

«Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»


Karl Schmitt

270

270

PREMESSA
1. Un’eterna domanda della filosofia politica è quella intorno al sovrano; ci si domanda, cioè: “Chi detiene lo scettro?”,
di chi è la sovranità? Ora, se è vero l’assioma di Karl Schmitt, per il quale «sovrano è chi decide sullo stato di
eccezione», lo studio dell’internamento dei civili in guerra - trattandosi di una tipica fattispecie dello “stato
d’eccezione” - è uno strumento molto importante di comprensione storica, di svelamento delle basi strutturali dei regimi
politici, di chiarificazione delle relazioni profonde che caratterizzano le società nazionali. Stiamo parlando e parleremo,
si badi bene, non dell’internamento nei gulag sovietici o nei lager nazisti, che sono fenomeni prodotti da regimi del tutto
peculiari, per la cui tipizzazione si è dovuto fare ricorso ad una categoria speciale, quella di “totalitarismo”.
I regimi totalitari conclamati esulano dal nostro interesse per due motivi fondamentali. L’internamento di cui ci
occuperemo è quello che si è manifestato all’interno di ordinamenti giuridici in cui il principio di legalità non era stato
soppiantato e dunque l’internamento fu condotto in ossequio alla legalità formale e regolamentato; o meglio, ci si
convinse che così fosse, si tentò di dimostrare che così fosse, si tentò di convincere internati, critici, osservatori
internazionale e posteri che così fosse. E se alcuni aspetti rimasero comunque al di fuori di ogni copertura legale o suo
camuffamento, si tentò di minimizzarli, sopirli, tacerli. Per i regimi totalitari tutto questo non vale, poiché la loro
legalità era stata “geneticamente” modificata dal prevalere di principi (o presunti tali) esterni alla forza della legge
formale, universale e necessaria; vale a dire la razza o la classe, il Führerprinzip o la “difesa dello Stato”. Per cui la
stessa “legalità” totalitaria è stata tutt’altra cosa della legalità formale, visto che si esprimeva anche in forme parallele,
per esempio con le giurisdizioni sovrapposte e contraddittorie dello Stato e del partito; oppure segrete, vista la notevole
quantità di decreti e decisioni non pubblicizzati; retroattive, come avvenne nei territori occupati dalla Germania o
dall’Unione Sovietica, dove si poteva essere incolpati di comportamenti del passato che non erano punibili nel proprio
Paese; addirittura ubique, vista la pretesa degli stessi regime ad applicare la propria “legislazione” ovunque.
Il secondo motivo per cui non tratteremo dei regimi pienamente totalitari sta nel fatto che per essi il potere
d’internamento era illimitato e, per così dire, “naturale”; era cioè una sorta di prerogativa spontanea del potere e quindi
non bisognosa di essere ristretta in limiti legali. Di più, per il totalitarismo l’internamento era forse il principale
strumento di realizzazione delle proprie finalità politiche, come ha mostrato Hannah Arendt.
Noi parleremo invece, nella I parte del volume, dell’internamento praticato da regimi democratici o legalitari, che
proprio all’interno di queste procedure si sono specchiati con i loro avversari e con gli abissi del totalitarismo, vedremo
con quale esito. Il lavoro di ricerca sarà molto utile anche nel caso, intermedio, dell’Italia fascista (su cui ci
soffermeremo ampiamente nella II parte del libro) poiché si potrà meglio qualificarne la natura politica (di totalitarismo
“legalitario” e sui generis) e la responsabilità storica.

2. Alla Conferenza dell’Aia del 1907 si era ritenuto che l’internamento fosse una pratica desueta e ci si rifiutò di
regolamentarla per non legalizzarla implicitamente. Ciò nonostante, nel corso del primo conflitto mondiale i Paesi
belligeranti procedettero ad internamenti di civili (stranieri e nazionali); sembrava infatti implicito il diritto degli Stati di
internare i maschi mobilitabili, i quali furono però internati senza che il loro status fosse definito, il che condusse ad
abusi, che furono resi ancora più evidenti dal fatto che tutti gli Stati in guerra internarono anche donne e bambini.
Francia e Gran Bretagna operarono internamenti massicci nei confronti dei cittadini di Paesi nemici; per ritorsione,
anche la Germania procedette agli internamenti, mentre nell’Impero Asburgico furono internate almeno 200.000
persone appartenenti a minoranze nazionali sospettate di slealtà. Negli Usa si procedette all’internamento di circa
duemila residenti nati in Germania e molti altri furono arrestati. In Canada furono internati circa 8.000 immigrati
ucraini. In Australia si ebbe l’internamento di alcune migliaia di tedeschi, verso i quali si procedette anche ad una
politica di confisca e di persecuzione culturale. All’internamento si affiancarono altre gravi misure nei confronti della
popolazione civile: atrocità, esecuzioni di massa, deportazioni, lavori forzati. In Italia si procedette allo spostamento in
Sardegna dei cittadini austriaci, senza istituire campi, sulla base dell’articolo 16 del rdl 2 maggio 1915 n. 634, sulla
condizione dello straniero. Nel 1934, nel corso di una conferenza internazionale della Croce Rossa tenutasi a Tokio, fu
elaborato un progetto di Convenzione sugli internamenti di civili in caso di guerra, che non ebbe però il tempo di essere
formalizzata prima del nuovo conflitto. Allo scoppio della II Guerra mondiale il ripetersi della prassi dell’internamento
e l’assenza di una Convenzione mossero la Croce Rossa internazionale a richiedere, e ottenere, un assenso di massima
da parte degli Stati entrati in guerra al fine di assimilare prigionieri di guerra e internati civili di nazionalità nemica. Ciò
le consentì di operare in favore degli internati con visite ai campi, inchieste, rimpatri, formazione di elenchi ufficiali di
internati. Ma le altre categorie di civili (i politici e quelli non cittadini di Paesi belligeranti) rimasero al di fuori delle sue
possibilità d’azione. Malgrado questi sforzi della Croce Rossa si verificarono illegittimità nel diritto interno, abusi e
decisioni che contrastavano con norme inderogabili di diritto internazionale.

3. Per un “vuoto” di memoria significativo, sono davvero poco numerosi gli studi che affrontino le vicende
dell’internamento nel secondo conflitto mondiale nei singoli Paesi e non sono ancora apparsi seri studi comparativi che
affrontino le analogie e le differenze dell’internamento di guerra.
Sul piano sociale, a partire dagli anni ’70, dopo decenni di oblio, negli Stati Uniti si pose all’attenzione del dibattito
pubblico la questione dell’internamento dei civili durante la seconda guerra mondiale, delle violazioni della legalità e
dei diritti umani commesse in quelle circostanze e dei legami fra queste violazioni e la storia delle relazioni fra gruppi e
culture che costituiscono il mosaico della società americana. Nei decenni successivi anche la ricerca storica europea
s’interessò a questo tema, con analisi critiche, per quanto isolate, del fenomeno dell’internamento di guerra in Francia e
Gran Bretagna. Nello stesso periodo fu avviato in Italia un difficile lavoro di ricostruzione di un fenomeno che era stato
quasi cancellato dalla memoria storica, tanto che, ad esempio, solo da qualche anno può ritenersi conclusa la mappatura
dei siti utilizzati nel corso del secondo conflitto mondiale dal Ministero dell’Interno italiano per l’internamento dei
civili. Nel caso italiano il lavoro sulla memoria dei campi di internamento si associava al recupero (iniziato alla fine
degli anni ’80) di un altro importante pezzo di storia del fascismo, per troppo tempo rimasto oscurato, vale a dire la
politica razzista e antiebraica del regime.

4. L’internamento non va considerato un fenomeno minore o di scarsa importanza né relativizzato a causa della sua
apparente legalità, poiché esso è a sua volta al centro di molteplici interrogativi del nostro tempo. Alcuni sono quelli che
già agitavano il dibattito americano e che condussero nel 1981 alla solenne dichiarazione della Commission on the
Wartime Relocation and Internment of Civilians del Congresso degli USA, che statuiva il carattere razzista
dell’internamento dei cittadini americani d’origine giapponese. Si tratta quindi del rapporto fra diritti umani, razzismo e
internamento; un rapporto che è di stretta attualità, in un’epoca come la nostra di guerra globale al terrorismo, di
massicci flussi migratori, di difficile costruzione di una società multietnica. Quanto l’argomento sia d’attualità e quanto
la riflessione storica può aiutarci anche a risolvere i dilemmi del presente è dimostrato, a contrario, dal fatto che voci
espressamente favorevoli al diritto d’internamento si alzino nella pubblicistica di lingua inglese, in particolar modo
negli Stati Uniti, che si sono confrontati con gli effetti della Guerra al terrorismo e sullo status dei prigionieri di questo
conflitto atipico e asimmetrico. D’altra parte, ancora nel 2013, l’amministrazione americana non è in grado di porre fine
all’esistenza del campo d’internamento di Guantanamo.

5. Per concludere, una nota metodologica: quando s’indagano fenomeni poco noti o cancellati dalla memoria bisogna
guardarsi dal soggiacere al diffuso paradigma storico della “scoperta”, vale a dire la febbrile ricerca ed esibizione di
documenti segreti o dimenticati, che costringerebbero a modificare il giudizio storico consolidato, provocando vere e
proprie svolte nelle visioni del mondo e nelle rappresentazioni della società. Un paradigma che è comunque un effetto
obbligato per la storiografia del XX secolo, per la vicinanza temporale dei fatti indagati e per la natura della
documentazione, spesso sottoposta a numerosi vincoli e coperta da varie forme di segreto e riservatezza, oppure oggetto
di occultamenti, dimenticanze volute, incuria, mancato rispetto delle norme che governano il destino delle carte e dei
documenti prodotti dagli uffici pubblici. La verità è, però, per sua natura espansiva. Come ha scritto Carlo Ginzburg:
«se la realtà è opaca, esistono zone privilegiate – spie, indizi – che consentono di decifrarla». Oltre che indiziaria, la
ricerca storica è anche un lavoro di tipo ermeneutico, poiché si fonda sulla consapevolezza che ogni testo o documento
è inserito in una “storia degli effetti”, in una rete di interpretazioni e rimandi che lo consegna a noi e ce lo rende
intelligibile. La comunicazione e la memoria degli uomini sono infatti intrise di presupposti, chiavi di lettura e tessuti
connettivi, di quel circolo ermeneutico che è la condizione fondante dell’interpretazione del passato. Perciò, «il
domandare è più difficile del rispondere». Da buone domande derivano buone risposte, che non ondeggino
fastidiosamente fra il registro della retorica o quello, all’opposto, della mera elencazione di fatti.

Bruxelles, dicembre 2013


PRINCIPALI ABBREVIAZIONI

ACS (Archivio Centrale dello Stato)


ADSS (Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale)
AES (American Eugenics Society)
Agr (Divisione Affari Generali e Riservati)
APS (American Philosophical Society)
AS (Archivio di Stato)
CAB (Cabinet papers)
CFR (Code of Federal Regulations)
CWRIC (Committee on Wartime Relocation and Internment of Civilians)
Dgps o PS (Direzione Generale della Pubblica Sicurezza)
ERO (Eugenics Record Office)
FDRL (Franklin Delano Roosevelt Library)
FO (Foreign Office)
FP (Fondo prefettura)
GU (Gazzetta Ufficiale)
HO (Home Office)
INS (Immigration and Naturalization Service)
JO (Journal Officiel)
MA (Ministero dell’Aeronautica)
MAE (Ministero degli Affari Esteri)
MI (Ministero dell’Interno)
MG (Ministero della Guerra)
MM (Ministero della Marina)
NAUK (National Archives of the United Kingdom)
PML (Pickler Memorial Library)
PRO (Public Record Office)
PUL (Princeton University Library)
Rd (Regio decreto)
Rdl (Regio decreto legge)
SIM (Servizio Informazioni Militare)
USDJ (United States Department of Justice)
WVIACLA (Wartime Violation of Italian American Civil Liberties Act)
YUL (Yale University Library)
270

I
L’INTERNAMENTO IN GRAN BRETAGNA, FRANCIA E USA

270
«Una tragedia della democrazia»
Greg Robinson

1
IL CASO INGLESE: LO SWINTON COMMITTE

La Prima guerra del Golfo, oltre a tenere per mesi col fiato sospeso le opinioni pubbliche e i governi di tutto il mondo,
provocò anche un sussulto nell’ovattato mondo degli storici inglesi. Emerse per la prima volta l’attenzione per
l’internamento dei civili in Gran Bretagna durante lo stato di guerra, un fenomeno storico che era rimasto nei decenni
precedenti privo di studio e di chiarificazione scientifica e che, per questo motivo, era quasi del tutto sconosciuto al
grande pubblico.

Amnesie e lacune storiografiche


Già nel maggio del ’90, la Wiener Library di Londra (il più antico istituto di ricerca sulla persecuzione nazista degli
ebrei, fondato nel 1933) e la Parkes Library dell’Università di Southampton (anch’essa parte di un centro di ricerca
sull’ebraismo) avevano organizzato un convegno per commemorare il cinquantesimo anniversario dell’ondata di
internamenti degli enemy aliens del secondo conflitto mondiale in Gran Bretagna. Venivano innalzati per la prima volta
i “riflettori” della ricerca su questo problema; i due studiosi britannici organizzatori del convegno - esperti di storia
dell’antisemitismo - si lamentavano nella nota editoriale degli atti del convegno (poi pubblicati e ampliati con nuovi
interventi e
270

testimonianze) dei vuoti documentali sull’internamento inglese nella seconda guerra mondiale e auspicavano che «il
governo britannico, facendo seguito alle sue promesse di una più ampia accessibilità dei documenti pubblici, aiuti il
processo di scrittura della storia del fenomeno dell’internamento (e dunque la crescita della consapevolezza pubblica)
rendendo consultabile la documentazione riservata». Al convegno aveva partecipato anche François Lafitte (1913-
2002), il ricercatore del Political and Economic Planning (PEP), l’influente centro non governativo di studi economici
nato negli anni Trenta. Lafitte, che era stato iscritto al partito comunista inglese (ma che se n’era allontanato dopo i
processi di Mosca del ’37), che dopo la guerra era diventato un brillante commentatore del “Times” e un advisor molto
ascoltato dei governi laburisti, aveva pubblicato nell’estate del ‘40 un Penguin Special, di grande successo, dal titolo
The Internment Of Aliens. In esso si denunciavano gli errori del governo inglese nella sua politica d’internamento. Il
libro aveva contribuito ad ammorbidire l’atteggiamento del governo, ma era anche rimasta per decenni l’unica
pubblicazione degna di questo nome sull’argomento. Solo nel 1980 uscì, anche grazie ad una parziale liberalizzazione
nell’accesso ai documenti d’archivio, un’inchiesta di Peter e Leni Gillman, due giornalisti del “Sunday Times”: “Collar
the Lot!” How Britain Interned and Expelled Its Wartime Refugees. Seguirono alcune trasmissioni televisive, libri di
memorie, alcuni lavori non scientifici, ma a livello storiografico quasi nulla di apprezzabile, se non un contributo di
Michael Seyfert sugli ebrei tedeschi internati. Mancavano anche, cosa altrettanto grave e significativa, testi giuridici che
elaborassero il quadro dottrinale delle norme sull’internamento.
Sui motivi di tali lacune, Tony Kushner, uno degli organizzatori del convegno del ’90, chiariva che «la Gran Bretagna,
più di ogni altro Paese, possiede una felice rappresentazione di sé nella Seconda guerra mondiale. Non ci furono infatti
[in Gran Bretagna] fenomeni di collaborazionismo (…). Rispetto a questo background è difficile sorprendersi se
l’internamento degli aliens (…) non abbia ricevuto alcuna seria attenzione». Kushner sottolineava anche che l’assenza
di una piena e diffusa conoscenza del fenomeno continuava a produrre degli effetti perniciosi, censurando perciò
l’internamento di cittadini irakeni avvenuto durante la Prima guerra del Golfo e mettendolo in relazione col fatto che
«non si è ancora preso coscienza degli errori dell’internamento». Nel 2005 le cose non erano granché cambiate e
Richard Dove, curatore di un volume del Centre for German and Austrian Exile Studies dell’University of London
dedicato all’internamento in Gran Bretagna nei due conflitti mondiali, continuava a ritenere l’internamento degli enemy
aliens un argomento fortemente trascurato dalla storiografia inglese; egli denunciava anche quella che chiamava la
«cultura del segreto» del governo britannico che, se ha poi messo a disposizione dei ricercatori molti documenti relativi
all’internamento, continua a negarne degli altri, mentre sembra ormai certa l’avvenuta distruzione di una parte di essi.

L’antialienismo britannico

In generale, sebbene la società e le istituzioni inglesi abbiano saputo generare delle controspinte liberali che limitarono
la portata degli abusi legati all’internamento dei civili, non vi è dubbio, come afferma David Cesarani, che il fenomeno
sia strettamente legato a tendenze non superficiali della vita politica e sociale inglese del periodo fra il 1880 e il 1940:
tendenze che avevano assunto le forme della sociobiologia, dell’eugenetica, della xenofobia. Il legame della politica
d’internamento con la xenofobia e l’antisemitismo preesistenti è confermato da Colin Holmes, uno dei principali storici
dell’immigrazione nel Regno Unito, secondo cui «l’internamento può essere visto come il culmine dell’ostilità che si
era manifestata, prima della guerra, nei confronti degli aliens rifugiati». Sentimenti che sono in diretta connessione con
l’antialienismo dei decenni precedenti. Quando, infatti, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, un grande flusso di
immigrati giunse in Gran Bretagna, il riflesso xenofobico e restrittivo ebbe la meglio sul precedente favore goduto dalla
politica di asilo offerta agli stranieri. A parte mezzo milione di irlandesi, nel 1881 risultavano presenti in Gran Bretagna
soltanto centomila stranieri. Buona parte del nuovo flusso di immigrati che si ebbe a partire dai primi anni Ottanta era
composto di ebrei dell’est Europa. Questa presenza numerosa, in concomitanza con la retorica antidegenerativa tardo
positivista (si temeva che il “materiale” umano meno “sviluppato” avrebbe avuto il sopravvento su quello più
“evoluto”) e con l’imporsi di un’ideologia della coesione nazionale alimentata dalla competizione imperialistica fra gli
Stati europei, portò alla creazione delle prime organizzazioni antialieniste, a dibattiti parlamentari sul tema, alla
conseguente istituzione di Commissioni d’indagine parlamentari, infine all’Aliens Act del 1905 che introduceva uno
stretto controllo sui migranti, a cui poteva essere negato l’ingresso e che potevano essere espulsi dal Ministero
dell’Interno, se divenuti indesiderabili. Furono così poste le basi per un’abitudine dei funzionari pubblici al controllo
degli stranieri e per la costruzione di un’immagine negativa e stereotipata dello straniero, messo spesso dalla stampa e
dalla letteratura popolare in relazione con le tendenze asociali e criminali presenti nella società. Bisogna poi tenere
conto del delicato capitolo coloniale della guerra anglo-boera, il primo conflitto nel quale fu utilizzato l’internamento di
massa di civili, tra il 1900 e il 1902. Nei campi inglesi furono concentrati più di centomila civili boeri, con un’alta
mortalità soprattutto infantile; per le condizioni igieniche assai carenti morirono infatti più di ventimila internati. I
campi furono smantellati subito dopo la fine della guerra, anche sulla spinta della parte liberale dell’establishment
inglese. Pur trattandosi di un evento coloniale, quindi sottoposto ad un metro di giudizio diverso, secondo le abitudini
dell’epoca, rispetto alle attitudini dei governi europei nel territorio metropolitano, resta il fatto che i campi boeri si
inseriscono in questo quadro xenofobico di controllo degli stranieri, specialmente durante lo stato di guerra.
Non sorprende quindi la scelta del governo inglese di procedere, allo scoppio del Primo conflitto mondiale,
all’internamento di migliaia di residenti tedeschi e poi, dopo l’ondata di isteria antitedesca causata dall’affondamento
del Lusitania, di internare in massa tutti i maschi tedeschi ed austriaci residenti in Gran Bretagna. Dei circa 60.000
tedeschi residenti, circa la metà rimase internata fino all’armistizio e oltre, mentre altri 10.000 furono rimpatriati. La
stragrande maggioranza degli internati fu poi costretta a rientrare in Germania alla fine della guerra, causando la fine
dell’esistenza di una comunità tedesca in Gran Bretagna.
Nel primo dopoguerra la retorica xenofoba non cessò; si ebbero anzi in diverse città dei disordini che avevano come
obiettivo neri e cinesi, mentre gli ebrei erano accusati di fomentare il bolscevismo. Un nuovo Aliens Act fu emanato nel
1919, con nuove restrizioni a carico degli stranieri, come il divieto di cambiare il cognome, di partecipare ad agitazioni
sindacali, di essere membri di giurie o ufficiali di navi mercantili. Fu poi introdotto un permesso di lavoro speciale per
stranieri, rilasciato dal Ministero del Lavoro. Fu istituito il fermo di polizia per stranieri e l’obbligo per gli aliens di
essere registrati e di circolare con una carta d’identità corredata di fotografia. Agli ebrei est europei (la comunità più
ampia di aliens) fu impedito di accedere agli impieghi pubblici, anche se naturalizzati o figli di ebrei naturalizzati,
mentre le procedure di naturalizzazione di slavi ed ebrei erano intralciate e ritardate dai funzionari del Ministero
dell’Interno. Le ostilità che gravarono alla fine degli anni ’30 sui rifugiati ebrei in fuga dalla Germania nazista (più
dell’ottanta per cento degli inglesi riteneva, ad esempio, giuste le restrizioni alla loro possibilità di impiegarsi), facevano
evidentemente parte di tendenze di lungo periodo. L’accoglienza degli ebrei che scappavano dalle discriminazioni
hitleriane fu quindi limitata dal divieto di svolgere attività lavorative; per cui gran parte dei rifugiati furono presi in
carico dalle organizzazioni di soccorso ebraiche che, temendo l’inasprirsi del latente antisemitismo britannico,
contribuirono a spingere gli emigrati a non parlare il tedesco, ad esprimersi sempre in inglese, ad assumere gli
atteggiamenti e le abitudini di vita degli inglesi.
Sulla base di quello che è stato fin qui riportato, appare fondata la netta affermazione di David Cesarani, secondo cui le
procedure d’internamento nella Seconda guerra mondiale erano «la continuazione delle misure precedentemente
assunte, in tempo di pace o di guerra, a partire dal 1904».

Le due fasi dell’internamento

Il 24 agosto del ‘39 fu votato l’Emergency Powers (Defence) Act, che concedeva al governo «il potere di arrestare
persone nell’interesse della sicurezza pubblica o della difesa del regno». Il 23 Novembre 1939, fu approvato il
regolamento attuativo, il Defence Regulation 18B, che, sospendendo l’habeas corpus, fece da base legale agli
internamenti di cittadini britannici. Il regolamento dichiarava:

Se il Segretario di Stato ha ragionevoli motivi di ritenere che un qualsiasi individuo appartiene ad organizzazioni o è di
origini ostili oppure è stato recentemente coinvolto in atti pregiudizievoli per l’ordine pubblico o per la difesa del regno
o nella preparazione o istigazione di tali atti e che, a causa di ciò, è necessario esercitare un controllo su di lui, egli può
formulare un provvedimento contro tale persona e ordinarne la detenzione. (…) Per gli scopi di questo regolamento è
prevista la creazione di uno o più comitati consultivi composti da membri nominati dal Segretario di Stato.

In una certa misura, però, le autorità britanniche erano consapevoli dell’errore commesso nel precedente conflitto
mondiale e si era deciso fin dagli anni ’20 di non procedere nuovamente, in caso di conflitto, a internamenti di massa,
optando per una meno costosa politica di espulsioni. Per cui, in un primo momento, si cercò di evitare gli errori del
passato, suddividendo gli stranieri nemici in tre categorie (A pericolosi e da internare, B da sottoporre a restrizioni, C
gli altri) dopo averli ascoltati in speciali corti di giustizia. Soltanto 486 stranieri furono internati, mentre su circa 62.000
persone indagate, ben 53.000 furono classificate nella posizione C. La procedura serviva anche a impressionare
favorevolmente l’opinione pubblica americana, come scriveva in una nota interna del 3 gennaio ’40 il sottosegretario
permanente dell’Home Office al Segretario di Stato John Anderson, circa l’opportunità che la BBC rendesse noto «al
pubblico, e particolarmente al pubblico americano, informazioni sui metodi che stiamo seguendo nel trattamento degli
stranieri nemici in questo Paese». E si può ragionevolmente ipotizzare che questa moderazione abbia anche influito
sull’atteggiamento che venne poi assunto, nell’estate del ’40, dal governo italiano nei confronti degli inglesi (ma anche
dei francesi) residenti, di cui solo una minoranza fu sottoposta a restrizioni e all’internamento. Anche se, proprio nel
maggio del ’40, l’atteggiamento inglese si inasprì fortemente, sotto la minaccia di un’invasione tedesca. Un sondaggio
Gallup di quei giorni indicava che il 64 per cento degli inglesi giudicava troppo debole la politica del governo nei
confronti degli stranieri, per quanto la percentuale di coloro che chiedevano un internamento di massa fosse inferiore
ovvero il 43 per cento; è interessante notare che un mese prima, quando l’offensiva tedesca in Francia non era ancora
cominciata, solo l’uno per cento degli intervistati era favorevole all’internamento di massa. Adesso, una psicosi circa
l’esistenza di “quinte colonne” si era diffusa fra il pubblico, ma anche i vertici del servizio di controspionaggio (MI5)
erano convinti dell’esistenza di una rete di sabotatori fascisti. Ne era sostenitore il nuovo capo (dal 10 giugno) del MI5,
Oswald A. “Jasper” Harker (estromesso nell’aprile del ’41). Molti giornali, anche progressisti, chiesero l’adozione di
misure immediate contro gli stranieri nemici.
Più che dalla pressione di un’incostante opinione pubblica, il governo inglese fu spinto a procedere nuovamente
all’internamento di massa sia dalla fibrillazione legata alla situazione militare di quei mesi difficili sia dal riemergere
negli ambienti governativi dell’ideologia xenofoba che abbiamo già descritto e che era declinata nell’establishment
sotto le forme elitarie della cosiddetta idea di Englishness. Le corti che ebbero il compito di classificare i rifugiati nella
lista degli stranieri nemici si erano spesso fatte influenzare da questi elementi. Nel maggio del ’40 gli equilibri interni al
governo divennero più favorevoli ai militari e alle forze di sicurezza, che quindi presero in mano le redini della politica
verso gli stranieri, fino a quel momento gestita dai più liberali esponenti dell’Home Office. Si formò all’interno del
gabinetto un comitato segreto, lo Swinton Committee (dal nome del suo presidente, Lord Swinton, un conservatore
assai vicino a Churchill), di cui non si conosce ancora la lista completa dei componenti, ma si sa che sir Joseph Ball ne
era il vice presidente. Secondo Kushner, Ball e altri membri del Comitato erano di tendenze antisemite e xenofobe e
questa circostanza getta una luce inquietante sui reali obiettivi dell’internamento; egli scrive: «coloro che giustificano
l’internamento degli stranieri come una necessità militare ignorano l’indirizzo che gli fu dato e le motivazioni di coloro
che lo decisero. L’intera questione può essere compresa solo considerando i pregiudizi di classe e razziali di personaggi
come Ball». Il Comitato Swinton dipendeva dal Servizio segreto, era composto da personale dei Servizi e del War
Office ed ebbe in quel momento un potere totale sull’internamento, di cui non rispose neanche al governo. Quindi,
senza che fossero coinvolte le istituzioni rappresentative e senza pubblico dibattito, l’internamento fu deciso anche per
coloro che si trovavano nella lista B e C; il Comitato, infine, sottraendo al Ministero dell’Interno le competenze
sull’internamento, andò anche oltre quanto stabilito nel già “liberticida” Defence Regulation 18B. In pochi giorni
risultarono così arrestate, senza processo, circa 27.000 persone (fra cui 4.000 donne), 7.000 delle quali furono deportate
in Canada e Australia, mentre tutti gli altri furono internati nell’Isola di Man. Per l’intera durata del conflitto, e oltre,
furono tenuti segreti l’esistenza dello Swinton Commettee ed il suo ruolo nella politica d’internamento; il governo si
assunse direttamente la responsabilità dei provvedimenti d’internamento, temendo forse di perdere la fiducia dei
cittadini se essi fossero venuti a conoscenza di simili pratiche arbitrarie. Non sorprende dunque l’eclissi storiografica
che si è abbattuta su un fenomeno coperto da segreto di Stato.
Le donne nella categoria C, i maggiori di 70 anni e i minori di 16 anni furono esentati, ma ci furono anche centinaia
provvedimenti di clemenza verso singole persone perché protette da amici importanti, per ragioni organizzative oppure
per mera fortuna. Un procedimento quindi di massa, ma confuso, con caratteristiche casuali, che portò all’internamento
di un terzo di tutti gli enemy aliens e di un sesto dell’intera comunità italiana in Gran Bretagna. Il periodo di gestione
degli internati da parte del War Office e del Comitato Swinton (maggio-agosto ’40) fu il più duro: i campi furono diretti
da militari, ogni comunicazione verso l’esterno fu praticamente negata agli internati, che non potevano neanche leggere
i giornali o ascoltare la radio e quindi nulla sapevano degli sviluppi del conflitto. E quando l’Home Office riprese, come
vedremo, il controllo dei campi, furono trovate nel centro di censura istituito a Liverpool circa 100.000 lettere scritte
dagli internati o a loro dirette. Va inoltre considerato che la quasi totalità degli internati era composta da ebrei rifugiati
(tedeschi, austriaci e italiani), oppositori politici del regime nazista e italiani residenti da lungo tempo in Gran Bretagna;
quindi si trattava di persone inoffensive e che in molti casi avevano anzi buoni motivi per augurarsi una sconfitta
nazista, mentre alcuni di loro avevano già sofferto l’arresto e l’internamento prima di lasciare la Germania. E dunque
l’internamento di massa non fu il momentaneo prodotto del panico di guerra, ma «rappresentò il raggiungimento degli
obiettivi della campagna condotta, all’interno e all’esterno del governo, da chi non aveva mai accettato la presenza degli
immigrati».
Per quanto riguarda l’internamento degli italiani, la decisione n.11 del Gabinetto di guerra della mattina del 29 maggio
’40, la prima riguardante le «azioni contro gli italiani nel Regno Unito», stabiliva:

(i) un certo numero di italiani occupa posizioni in stabilimenti “chiave”, soprattutto centrali elettriche nelle Contee
orientali, alcune delle quali sono gestite da italiani. Si è d’accordo nel rimuovere immediatamente gli italiani che hanno
a che fare con stabilimenti sensibili.
(ii) Ci sono circa 18.000 italiani in questo Paese, molti dei quali sono residenti da molti anni. Se l’Italia entrerà in guerra
contro di noi, molti italiani dovrebbero essere internati; ma al momento non si pone la questione di un internamento di
massa degli italiani.
(iii) Tra gli italiani di questo Paese vi è un certo numero di estremisti (desperate characters) che non esiterebbero a
commettere atti di sabotaggio. Questi uomini sono stati schedati, ed è possibile assumere provvedimenti a loro carico in
tempi brevi. Il loro numero ammonta a circa 1.000 (…).
(vii) Sir Percy Loraine deve essere autorizzato a far sapere al Conte Ciano (…) che non abbiamo l’intenzione di
internare un largo numero di italiani e che siamo dunque pronti a rimandare in Italia gli italiani attualmente presenti in
Inghilterra, a patto che l’Italia vorrà fare altrettanto.
Nella serata del giorno dopo il Gabinetto torna sull’argomento, con una comunicazione di Anderson che aumenta a
1.500 il numero di italiani da internare e vi aggiunge circa 300 cittadini britannici di origine italiana. Il Gabinetto decide
anche che

Il Primo Lord dell’Ammiragliato deve allestire e tenere pronta una nave idonea, con la quale questi 1.500 italiani
potranno al più presto essere deportati, non appena saranno stati arrestati. (…) Il ministro degli Esteri e quello
dell’Interno dovranno poi, insieme, rivedere giornalmente la questione relativa all’arresto dei 1.500 italiani, più 300
cittadini britannici (British subjects) legati ad istituzioni italiane presenti in questo Paese.

La mattina dopo viene ribadito che «il ministro degli Esteri suggerisce che per il momento non dovremmo agire, sempre
a condizione che il ministro dell’Interno assicuri di potere mettere le mani sui “desperate characters” non appena l’Italia
avrà mosso un qualsiasi atto ostile», arresti che Anderson conferma di poter assolvere in tempi assai brevi. Nel
Gabinetto di guerra del primo pomeriggio dell’11 giugno ’40 vengono resi noti i provvedimenti già messi in pratica, fra
cui l’arresto di tutti i maschi italiani tra i 16 ed i 60 anni (residenti da meno di 20 anni), mentre in molte città della Gran
Bretagna avevano luogo manifestazioni anti-italiane:

Il Primo ministro comunica che ieri ha chiesto al ministro dell’Interno di organizzare un internamento generalizzato
degli uomini italiani. Il ministro dell’Interno fa sapere che sono stati compiuti i passi, in prima istanza, per mettere sotto
custodia gli estremisti (desperate characters) della lista speciale; non appena terminata questa azione, verranno fatti
arrestare tutti i maschi italiani tra i 16 ed i 70 anni che sono residenti in questo Paese da meno di 20 anni. (…)
È stato proposto che sia permesso alle persone indicate dall’ambasciata italiana di rientrare in Italia con un trasporto
navale speciale. Sarà permesso a un eguale trasporto di lasciare l’Italia. La lista dell’ambasciata italiana è stata
controllata dall’MI5 e comprende, oltre al personale d’ambasciata, persone come dirigenti di banca e simili.
Si è ricordato che in una riunione precedente era stato previsto che i 1.500 desperate characters avrebbero dovuto essere
al più presto deportati. (…) Il Canada ha accettato di ricevere 4.000 internati e 3.000 prigionieri di guerra. I 4.000
internati assorbiranno i più pericolosi dangerous characters tra i tedeschi (2.500) e gli italiani (1,500).
Il Gabinetto di guerra prende nota delle precedenti determinazioni e approva le azioni intraprese a proposito
dell’internamento degli italiani.

Ma l’MI5 riuscì a fornire un elenco di soli 750 nomi di “estremisti” italiani, scelti con criteri discutibili, che fu
completato dal Ministero della Guerra aggiungendovi a caso persone di giovane età (un metodo che assomiglia molto al
sistema delle quote); alcuni memorandum del Foreign Office lo affermano:

I criteri dell’MI5 per giudicare se una persona fosse o no un desperate characters, spesso si sono risolti nella mera
appartenenza al Fascio. (…) C’è il forte sospetto che in realtà l’MI5 abbia scarse o nessuna informazione, e tantomeno
prove, su più di un gruppo di quelle persone che essi [l’MI5] hanno fatto descrivere dal ministro dell’Interno, nel
Gabinetto, come desperate characters.
Cercando di completare la quota che l’MI5 non è riuscito a predisporre, (…) il War Office ha compiuto una selezione
arbitraria di altre 400 persone che sono state prese dalla lista di coloro che hanno tra i 20 ed i 30 anni.

Inoltre, le procedure di arresto furono caotiche e incoerenti; furono infatti arrestati anche cittadini britannici di origine
italiana, antifascisti, anziani con più di sessant’anni. In due settimane furono arrestati circa 4.200 italiani, fra cui alcune
centinaia di cittadini britannici. Al contrario, a circa 600 persone segnalate dall’ambasciata d’Italia (dipendenti degli
uffici consolari ed esponenti di rilievo della comunità italiana) fu permesso di lasciare in nave il Paese, in cambio di
altrettanti inglesi provenienti dall’Italia. La subitanea procedura d’internamento aveva provocato un forte choc nella
comunità italiana, che non aveva entrature nell’establishment, era composta per la maggior parte da piccoli bottegai e si
trovava quindi a subire anche le difficoltà di una sfavorevole condizione di classe. I contrasti internazionali degli anni
’30 avevano poi amplificato i pregiudizi sugli italiani, visti come orgogliosi nazionalisti e filofascisti; uno stereotipo che
si sommava a quello dell’italiano eterno bambinone e indolente. L’adesione al fascismo di molti rimaneva comunque un
fatto superficiale ed espressione più di un senso di appartenenza identitaria che una convinta partecipazione ai dettami
ideologici del regime mussoliniano.
I pregiudizi spiegano anche gli abusi e i maltrattamenti che caratterizzarono l’episodio più duro dell’internamento, vale
a dire la deportazione oltremare, in Canada e Australia, di più di 7.000 internati. La misura fu decisa dal Comitato
Swinton, in accordo con Churchill, mentre gli altri membri del governo ne furono informati solo a cose fatte. Sebbene si
trattasse apparentemente di una misura di sicurezza militare, la maggior parte dei deportati erano rifugiati di categoria B
o C, di cui liberarsi favorendone la successiva immigrazione nei Dominions o negli Usa; e anche fra coloro che furono
classificati di categoria A gli errori furono numerosi e macroscopici. Fra i deportati figuravano inoltre alcuni noti
democratici e antifascisti; anzi, gli antifascisti italiani sospettarono che il controspionaggio inglese li avesse inseriti
nella lista proprio perché già noti come “sovversivi” in quanto segnalati come tali dalla polizia italiana.
Fra il 21 giugno e il 10 luglio del ‘40 furono effettuati 5 viaggi, nei quali furono imbarcate anche alcune centinaia di
prigionieri di guerra. Spesso i deportati furono maltrattati e derubati sia alla partenza che all’arrivo; gravi furono gli
abusi commessi a bordo della nave Dunera, l’ultima a partire, che viaggiò per 55 giorni verso l’Australia: i deportati
furono derubati, picchiati più volte e sottoposti ad angherie, tanto che alcuni membri dell’equipaggio subirono poi un
processo in corte marziale; ma non furono ammesse al processo le testimonianze di tutte le vittime e le sentenze finali
furono lievi. Sulla Dunera furono anche imbarcati i sopravvissuti al tragico affondamento della Arandora Star, una nave
che era partita per il Canada priva di scorta e che fu affondata il 2 luglio da un sottomarino tedesco. Non era stata
preparata una lista d’imbarco, ma si stima che perirono nell’affondamento 175 tedeschi (internati di categoria A) e circa
450 dei 734 italiani imbarcati. L’età media dei morti italiani era di circa 50 anni e molti avevano più di 60 anni. Perì
anche Decio Anzani, residente in Gran Bretagna da 31 anni e segretario della Lega italiana per i Diritti dell’Uomo. Sulla
nave erano imbarcati anche Uberto Limentani e Paolo Treves, rifugiati ebrei, che si salvarono. Fra i tedeschi perirono,
tra gli altri, il deputato comunista Karl Olbrisch, che in Germania aveva patito il carcere e l’internamento, e due
importanti dirigenti sindacali, tutti classificati di categoria A. Con l’affondamento dell’Arandora Star la comunità
italiana, che contava circa 18.000 adulti nel giugno del ’40, pagò un alto tributo di vittime umane alla tragedia della
guerra e dell’internamento, ma anche alla xenofobia, agli abusi, alla superficialità e all’incuria con cui le autorità inglesi
procedettero alla deportazione di cittadini spesso innocenti e comunque non pericolosi.

“Per il buon nome di questo Paese”

La fine dell’emergenza militare, la conoscenza da parte dell’opinione pubblica dell’affondamento della Arandora Star e
della vasta presenza tra gli internati di vittime e oppositori del nazismo fecero cambiare atteggiamento al governo e
diedero la possibilità alle forze più liberali presenti nella società, in Parlamento e all’interno del governo, di esercitare
una forte pressione al fine di modificare la politica dell’internamento. Già il 10 luglio la questione dell’internamento fu
dibattuta alla Camera dei Comuni, mentre in agosto il controllo degli internati tornò nella mani del Ministero
dell’Interno. In autunno iniziò il rilascio graduale delle donne, poi degli altri internati non pericolosi, che proseguì per
tutto l’anno seguente; per gli italiani fu costituito un comitato speciale presieduto dall’ex ambasciatore a Roma, sir
Percy Loraine. A novembre iniziò il rilascio dei primi 400 italiani internati. La liberazione era anche legata alla
dichiarazione da parte dell’internato di voler aiutare lo sforzo bellico inglese. Nel settembre 1943 rimanevano internati
circa 1.500 italiani, 573 dei quali furono liberati solo alla fine della guerra; coloro che rimasero ristretti erano
soprattutto marinai di navi mercantili arrestati al momento dell’entrata in guerra dell’Italia. Ma ci furono anche diversi
casi di internati (spesso veterani della Prima guerra mondiale) che, anche dopo l’armistizio, non vollero venir meno al
legame di fedeltà con l’Italia ed accettarono di subire fino a 60 mesi d’internamento. Risentimenti sociali e comunitari
non dovettero mancare tra le motivazioni psicologiche degli “irriducibili”, dal momento che, come abbiamo visto, gli
italo-britannici occupavano un posto marginale nella vita economica e politica del Regno Unito tra le due guerre.
Più difficile fu la liberazione dei deportati; in Canada furono liberati ad ottobre solo coloro che accettarono di arruolarsi
nei Pioneer Corps inglesi, mentre gli altri furono riportati in Inghilterra con viaggi scaglionati nel corso dei due anni
successivi. Coloro che furono inviati in Australia non poterono rientrare in Gran Bretagna durante il conflitto per la
difficoltà e la pericolosità dei collegamenti navali; essi furono trattenuti a lungo nei campi d’internamento dalle autorità
australiane, che non erano favorevoli alla libera circolazione dei deportati. Quasi tutti gli italiani rimasero nei campi
australiani fino alla fine della guerra. L’Australia aveva, dal canto suo, internato circa 4.000 italiani, fra cui 700
naturalizzati; anche nel caso australiano l’internamento avvenne sullo sfondo di una “diffidenza etnica” che portò in
alcuni stati (Queensland e Western Australia) ad internamenti indiscriminati; gli ebrei italiani che avevano lasciato
l’Italia dopo il ’38 ebbero però la qualifica di refugee aliens e non quella di enemy e poterono così evitare
l’internamento. Agli internati vanno aggiunti i circa 17.000 militari italiani prigionieri di guerra destinati ai campi di
prigionia in Australia.
L’inversione di politica evitò danni peggiori ai civili internati e allo stesso “buon nome” della Gran Bretagna, come
ebbe a dire Anderson nel corso del dibattito parlamentare dell’estate del ’40; questa affermazione, però, e il
comportamento reticente che il governo manifestò anche in questa fase, rivelavano, come fosse per il governo inglese,
scrive Louise Burletson, «più importante l’apparire democratico (…), riconoscendo sì la necessità di rettificare i propri
errori, ma senza ammetterli completamente». Il destino degli italo-britannici fu comunque segnato permanentemente
dallo choc dell’internamento, delle tragedie ad esso legate, dai sentimenti anti-italiani che si manifestarono durante la
guerra e nei decenni successivi. Soprattutto la generazione di coloro che erano bambini al tempo dell’internamento fece
poi di tutto per cancellare la propria identità italiana. Scrive Terri Colpi: «questa generazione spesso anglicizzò i propri
nomi, si rifiutò di parlare in italiano o di studiarlo, preferì sposarsi con i locali e cercò in ogni modo (…) di assimilarsi
all’interno della società britannica: in breve volle diventare invisibile». Un fatto che va preso in considerazione in sede
di giudizio complessivo sul fenomeno dell’internamento degli stranieri nella Gran Bretagna della Prima e della Seconda
guerra mondiale. Giudizio che, come scrivono Tony Kushner e David Cesarani, non deve essere oscurato o
ridimensionato dall’assenza di vasti crimini contro l’umanità nella storia inglese del XX secolo, poiché «lo stato
britannico e la società britannica si sono dimostrati capaci, in periodi di crisi, di distruggere la presenza di comunità
minoritarie, attraverso un processo fatto di deportazioni, confische e arresti». Né (diversamente da quello che è accaduto
negli Usa) nel Regno Unito si è sviluppato nei decenni del secondo dopoguerra un dibattito pubblico su questi temi o
un’assunzione di responsabilità diretta da parte delle autorità britanniche, che anzi sono state le sole ad assumere la
misura dell’internamento degli enemy aliens nel corso della Prima guerra del Golfo.

270

2
I “CAMPI DELLA VERGOGNA” FRANCESI
Anche sui campi di Vichy e su quelli che li hanno preceduti e seguiti è stato a lungo passato un manto di censura.
Joseph Weill, un medico ebreo che aveva partecipato alle attività delle organizzazioni di soccorso presso i campi e che
aveva dato un contributo fondamentale alla salvezza di molti bambini internati indirizzando l’Oeuvre de Secours aux
Enfants (un’organizzazione ebraica non governativa) verso la scelta di far uscire i bambini ebrei dai campi di Vichy,
aveva pubblicato nel ’46 un resoconto del suo lavoro. Da testimone e osservatore privilegiato del fenomeno, egli aveva
già denunciato in quest’opera le condizioni di vita «indegne e inumane» dei campi e le relative responsabilità
repubblicane, non solo vichyste.

Le tenaci amnesie e le peculiarità dell’internamento francese

La ricostruzione ideologica e storiografica del passato in auge nel primo dopoguerra francese, non solo non scorgeva
pecche nella storia repubblicana, ma passava un manto di assoluzione nei confronti dello stesso regime di Pétain, visto
come una fase, per così dire, “obbligata” dalle circostanze storiche. Ad esempio, Alain Resnais, per non dover cozzare
clamorosamente contro questa vulgata, dovette eliminare un fotogramma del suo Notte e nebbia del ’56 nel quale era
ben identificabile un gendarme francese che partecipava agli arresti di ebrei parigini.
La prima, e a lungo isolata, ricerca universitaria sul fenomeno dell’internamento risale soltanto al 1978 e fu condotta da
due docenti universitari di Paris VIII-Vincennes, Gilbert Badia e Joseph Rovan, che raccolsero una serie di contributi e
testimonianze sull’emigrazione politica ed ebraica dal Reich tedesco. Saranno i primi anni Novanta a sollevare il “velo”
di ignoranza su questi eventi; non a caso, sarà una ricercatrice free lance ad iniziare faticosamente l’impresa: esce infatti
nel 1991, come ampliamento di una tesi di dottorato, Les camps de la honte di Anne Grynberg, all’epoca collaboratrice
del Museo di Auschwitz. La Grynberg, che poi è diventata direttrice di ricerca associata all’università Paris I-Sorbonne,
non riuscì a squarciare completamente la coltre di silenzio che era stata gettata sui “campi della vergogna” e nel 1999,
in occasione della seconda edizione del suo lavoro, denunciava che, fino alla metà degli anni ’90, «una cappa di silenzio
aveva ricoperto questa storia, assente dai manuali scolastici, poco apprezzata dall’editoria, dimenticata dalla memoria
nazionale». Occorse infatti aspettare il 1994 affinché uscisse una pubblicazione che fosse espressione di una nuova
sensibilità dell’establishment culturale francese verso l’internamento dei civili. Il volume raccoglieva i contributi di
docenti universitari e ricercatori, come Pierre Laborie, Jean Estèbe, Claude Laharie, della stessa Anne Grynberg, e di
personalità già impegnate nella conservazione della memoria dei crimini contro l’umanità, come Serge Klarsfeld,
Gérard Gobitz, Michel Slitinsky. Uscirono in quel periodo altri lavori, spesso opera di ricercatori indipendenti o di
giovani accademici, che iniziavano a operare una mappatura dei campi e delle loro singole storie; oppure studi
sull’internamento dei miliziani spagnoli nel ’38. Il Centre de Documentation Juive Contemporaine di Parigi pubblicò
nel 1996 l’opuscolo divulgativo L’internement des Juifs sous Vichy. Venne anche pubblicato il primo lavoro scientifico
sui campi francesi della Prima guerra mondiale. Si è trattato comunque di un numero limitato di pubblicazioni e,
secondo Anne Grynberg, alla fine degli anni Novanta il lavoro sulla memoria dei campi procedeva con lentezza e scarsa
sistematicità.
Del 1999 è il fondamentale lavoro di Gérard Noiriel, direttore di studi all'École des hautes études en sciences sociales,
sulle origini repubblicane del regime di Vichy che giunse a colmare la frattura tra due periodi che opinione pubblica e
storiografia avevano tenuto accuratamente separati. Quella di Noiriel è infatti una ricostruzione di lungo periodo che
mostra come le radici di Vichy affondino nel passato francese, fino a diversi decenni addietro. Si procedeva così al di là
del pur significativo choc che avevano provocato negli anni ’70 e ’80 i lavori dello studioso americano Robert O.
Paxton sulla vera natura del regime pétainista, cioè di solerte e non coartato collaboratore del Reich nazista. Con il
lavoro di Noiriel si andava oltre e si metteva in questione la stessa ricostruzione irenica del passato repubblicano, con
un forte accento posto sulla xenofobia, il rigetto dell’immigrazione, lo statuto civile degli immigrati. Finalmente, nel
2002, Denis Peschanski pubblica la sua tesi di dottorato completata due anni prima; questo volume rappresenta, ancora
oggi, l’unica monografia completa sulla storia dell’internamento francese. Peschanski è direttore di ricerca al
CNRS (Centre national de la recherche scientifique), è un dirigente del Partito socialista ed è figlio di ebrei immigrati
dalla Moldova che si distinsero nelle file della Resistenza comunista francese; egli si dichiara contrario agli eccessi
della «paxtonizzazione» della memoria sociale, vale a dire quello che egli giudica una sorta di eccesso di memoria a
proposito del passato pétainista; e quindi non ha impostato il suo lavoro lungo una linea che valorizzasse i contributi di
Noiriel. Nono stante ciò, anche Peschanski afferma assai chiaramente che «è occorso molto tempo per integrare la
Francia dei campi nella memoria sociale»; soprattutto «l’internamento della fine della Terza Repubblica resta poco
conosciuto».
Ora, il caso francese fu del tutto particolare nel panorama dell’internamento dei civili nel secondo conflitto mondiale,
per una serie di fattori; si è trattato infatti di un fenomeno molto ampio, che comportò l’internamento di circa
seicentomila persone e l’utilizzo di circa duecento luoghi d’internamento; abbracciò inoltre un arco temporale che va
dal febbraio del ’39 (dunque alcuni mesi prima dello scoppio della guerra) fino al maggio del ’46, in concomitanza con
la dichiarazione di cessazione dello stato di guerra. La morbilità e la mortalità nei campi francesi furono più alte rispetto
a quella degli altri casi che esamineremo (salvo forse i campi italiani “paralleli”, per i civili jugoslavi); infatti, mentre
nei campi inglesi, in quelli statunitensi e in quelli “regolamentari” italiani, il numero dei morti tra gli internati non fu
sostanzialmente diverso rispetto al tasso medio della popolazione civile, nei campi francesi si ebbero invece molti
decessi dovuti alle scarse condizioni igieniche dei campi e alla sottoalimentazione. La particolarità dell’esperienza
francese sta anche nel diverso significato politico e storico che l’internamento assunse nelle diverse fasi che lo
caratterizzarono. Anche se, sotto tali differenze, un fondo xenofobo e nazionalistico è comune a tutte le forme di
internamento che furono praticate in quegli anni in Francia.

Le origini repubblicane di Vichy

Gli stessi inizi del fenomeno sono legati alla percezione e alla condizione dello straniero. Stretta tra le esigenze del
padronato (che a causa della denatalità premeva per l’ingresso crescente di immigrati da impiegare nelle fabbriche) e le
tendenze protezionistiche di larga parte della società (tra il 1880 e il 1914, diverse decine di progetti di legge contrari
all’utilizzo di manodopera straniera erano state depositate alla Camera) , la classe politica repubblicana aveva, fin
dall’ultimo scorcio del XIX secolo, elaborato una politica dirigistica dell’immigrazione, regolando i flussi in base alle
congiunture economiche e ai settori economici interessati. Negli anni successivi alla Grande guerra era stato favorito un
ampio afflusso di manodopera straniera al fine di aiutare la ricostruzione, tanto che la nuova legge sulla
naturalizzazione del 1927 aveva ridotto a soli tre anni il periodo di residenza necessario per richiedere la cittadinanza
francese. Alla fine degli anni ’20 la Francia era così il Paese al mondo con la più alta percentuale di stranieri residenti
rispetto alla popolazione totale. Negli anni Trenta le cose cambiarono e diverse norme limitarono l’utilizzo di
manodopera straniera, con un blocco dell’immigrazione per lavoro a partire dal ’34, numerose revoche della carta di
lavoro e conseguenti espulsioni; il saldo netto di immigrati divenne così negativo (meno 200.000 persone) tra il 1931 e
il 1935.
Nella Terza Repubblica, d’altronde, i diritti dei lavoratori stranieri erano assai scarsi e, in generale, la condizione dello
straniero non era allineata ai criteri giuridici repubblicani. La maggior parte delle leggi sociali sul lavoro erano riservate
ai cittadini francesi e molti erano gli impedimenti lavorativi a carico degli stranieri, che erano esclusi dalla funzione
pubblica, dai settori economici vitali per la sicurezza nazionale (come l’industria degli armamenti e i trasporti), mentre
l’esercizio della professione medica era riservato dalla fine dell’Ottocento ai laureati in Francia. Il sentimento xenofobo
popolare, che mescolava nazionalismo, protezionismo e anticapitalismo, si rivolgeva spesso contro i numerosi
immigrati italiani (ma coinvolse anche gli spagnoli, i belgi e gli zingari) con gravi e ripetuti episodi di violenza, durante
quelli che sono stati definiti «i dodici anni terribili della xenofobia proletaria», fra il 1881 e il 1893. Il culmine di questa
scia di violenza fu raggiunto in quella «sorta di pogrom à la francese» che si verificò nel 1893 ad Aigues-Mortes, dove,
in un attacco della popolazione a lavoratori stagionali italiani, ci furono 8 morti secondo la versione ufficiale, mentre i
giornali inglesi parlarono, più realisticamente, di 50 vittime e di 150 feriti.
La riforma del 1893 della legge sulla cittadinanza aveva introdotto, de facto, una categoria speciale di cittadini: i
naturalizzati. Per ora, la sola discriminante era che la condizione di cittadino non si otteneva sulla base soltanto di criteri
oggettivi e generali, ma il governo si riservava di rifiutare la domanda di naturalizzazione per causa di “indegnità”. La
riforma successiva del 1927, mentre diminuiva, come detto, il periodo di residenza necessario per chiedere la
naturalizzazione, introduceva il diritto del governo a decretare la revoca della cittadinanza ai naturalizzati; un
provvedimento che rompeva l’unità del corpo nazionale. La discriminazione a danno dei naturalizzati non si limitava
alla precarietà del loro titolo di cittadinanza, ma venne allargandosi negli anni successivi: nel 1933 viene votata la legge
che riserva l’attività di medico ai cittadini francesi, mentre nel 1934 viene imposto per legge un impedimento decennale
alla partecipazione dei naturalizzati ai concorsi pubblici, escludendoli di fatto dalla funzione pubblica e da molte
professioni giuridiche. Altre restrizioni sono introdotte per via legale o amministrativa. L’invenzione della carta
d’identità (riservata agli stranieri, ma diverrà obbligatoria anche per i francesi sotto Vichy) mise a disposizione delle
autorità uno strumento efficace di controllo degli stranieri, che permetteva inoltre di diversificarne la condizione ed i
diritti, sulla base della loro condizione e della durata della loro permanenza in Francia; ad esempio, dal 1931 è vietato
agli stranieri il trasferimento di dipartimento, a meno che essi siano residenti da 15 anni (o da 5 anni, se sposati con una
francese). Come afferma Noiriel, «nel corso degli anni Trenta, la crisi economica e la xenofobia condussero i poteri
pubblici a “classificare” la popolazione straniera in una moltitudine di categorie alle quali vennero attribuiti dei diritti e
dei doveri differenti».
Dopo il 1935, le crescenti tensioni internazionali e i venti di guerra che andavano addensandosi sull’Europa irrigidirono
ulteriormente l’atteggiamento dell’opinione pubblica e del ceto politico verso gli stranieri; una certa sindrome da
accerchiamento e i timori legati ad un possibile confronto militare provocarono il crescere di un complesso reattivo di
frustrazione che trovò negli stranieri residenti il proprio sfogo naturale. Un sottosegretariato di stato per l’immigrazione
e gli stranieri fu per la prima volta istituito nel gennaio 1938; con l’arrivo di Daladier alla presidenza del consiglio,
dall’aprile dello stesso anno il ministro dell’Interno Sarraut iniziò a invitare i prefetti ad un’azione energica per liberarsi
di quelli che egli denominava «elementi indesiderabili», riferendosi soprattutto agli immigrati clandestini (la maggior
parte dei quali erano in fuga dal nazismo e dal franchismo). Il decreto legge del 2 maggio ’38, da un lato codificava per
la prima volta i diritti dei rifugiati, ma dall’altro era espressione di una politica repressiva nei confronti dei clandestini,
che erano passibili di arresto fino ad un anno, mentre l’articolo 8 del decreto conferiva al Ministero dell’Interno il
potere d’espulsione di qualsiasi straniero residente in Francia o di passaggio. Ed effettivamente furono sottoposti ad
arresto e detenzione centinaia di rifugiati clandestini; tra essi c’erano molti profughi ebrei, presso i quali l’inquietudine
portò anche ad un aumento dei casi di suicidio. Il decreto dichiarava che le nuove misure erano state introdotte in nome
della «sicurezza nazionale, dell’economia generale del paese e della protezione dell’ordine pubblico». Le stesse
motivazioni si ritrovano in tutti i documenti giustificativi delle misure repressive nei confronti degli stranieri assunte
dalla Terza Repubblica, che non a caso procedette subito, alla sua nascita, all’internamento dei cittadini prussiani
residenti in Francia, che Napoleone III (nella sua concezione regale della politica e della guerra) non aveva considerato
dei nemici. Anche il tema della “difesa nazionale” è uno dei valori fondanti della Terza Repubblica, fin dalla sua
proclamazione; un argomento che era già stato amplificato nella sua portata e nel suo significato poiché era stato
utilizzato nei decenni precedenti per giustificare, non solo il protezionismo economico, le restrizioni all’ingresso di
lavoratori stranieri, la condizione lavorativa dello straniero, ma anche la discriminazione nei confronti delle popolazioni
colonizzate (nel 1938 solo 2 milioni e mezzo di abitanti dell’Impero francese, su 69 milioni in totale, erano cittadini
francesi).
Lo strappo giuridico, prodotto finale di questa lunga storia repubblicana, si produsse con il decreto legge del 12
novembre 1938, che introdusse l’internamento, deciso per via amministrativa, dei clandestini sospettati di essere
pericolosi per l’ordine pubblico. Il decreto sottopose inoltre, nel suo Titolo II, a controllo amministrativo il matrimonio
dello straniero, che era considerato valido solo se lo straniero fosse stato in possesso da almeno un anno di un permesso
di soggiorno in Francia. Uno strappo concretizzato da almeno due componenti antigiuridiche contenute nel decreto del
12 novembre e del tutto nuove per l’ordinamento repubblicano: la scelta dell’internamento amministrativo in tempo di
pace e la natura di “legge dei sospetti” con la quale questo provvedimento si presentava. Il primo campo d’internamento
per stranieri “indesiderabili” fu creato a Rieucros, nel dipartimento di Lozère (la zona più interna della Linguadoca), il
21 gennaio 1939. Chiosa Peschanski: «non è più l’ora del legame nazionale unificante e mobilitante, ma della
frammentazione identitaria associata al rifiuto dell’altro». Ora, le cifre reali dei rifugiati erano comunque ridotte e non
commisurate alla percezione e ai timori che l’opinione pubblica aveva del fenomeno: il censimento del 1936 aveva
indicato la presenza di circa due milioni e duecentomila stranieri in Francia, i cui due terzi erano costituiti da spagnoli,
polacchi e italiani, questi ultimi i più integrati. Ma i rifugiati dal Reich tedesco che passarono il confine francese
assommarono, fra il 1933 e il 1939, a circa 200.000 persone, di cui solo 35.000 si installarono in Francia. Gli ebrei
residenti nel 1936 erano in totale 320.000, di cui la metà cittadini francesi e molti degli ebrei stranieri erano giunti in
Francia già negli anni Venti, provenienti dalla Polonia, dalla Russia, dalla Romania, dalla Grecia e dalla Turchia.
Nel febbraio del ’39 la sconfitta dei repubblicani spagnoli e il massiccio esodo di civili e militari dalla Spagna
sembrarono rendere la situazione più critica: quasi trecentomila persone passarono i Pirenei in cerca di rifugio. Il
governo francese aveva previsto da tempo questa possibilità, ma non aveva impostato alcun concreto piano
d’emergenza; per cui la situazione dei rifugiati apparve subito caotica e precaria: furono improvvisati dei “campi” sulle
spiagge del Rossiglione, con delle tende come unico rifugio per le decine di migliaia di profughi. A giugno del ’39 la
cifra degli internati era scesa a circa 160.000 persone, poiché molti dei profughi civili avevano preferito tornare in
Spagna. Nelle prime settimane la mortalità dei rifugiati spagnoli fu alta; le fatiche legate alla fuga, le condizioni di
debolezza pregresse (malattie, ferite di guerra, ecc.), l’assoluta impreparazione sanitaria delle autorità francesi, le dure
condizioni dei campi d’internamento, ne furono le cause. La stima delle vite perdute in quei mesi non è ancora
possibile, ma si trattò certamente del periodo peggiore, da questo punto di vista, dell’intero fenomeno dell’internamento
francese. Nel mese di marzo era stato costruito a Gurs, nel dipartimento dei Pirenei atlantici, un grande campo
“provvisorio”, fatto di baracche di legno male attrezzate e in condizioni igienico-sanitarie molto precarie. In venti
giorni, tra il 20 aprile e il 10 maggio ’39, 18.985 persone furono trasferite a Gurs; fra essi, circa 5.000 volontari delle
Brigate internazionali. Insomma, l’accoglienza ai profughi spagnoli non aveva avuto quel carattere umanitario e solidale
che sembrava appartenere alla natura stessa della Repubblica francese; anzi, nel clima xenofobo della seconda metà
degli anni ’30, per i profughi spagnoli la fuga in Francia si trasformò in una dura esperienza di esclusione e
internamento. In generale, scrive Anne Grynberg, «era grande la diffidenza verso gli internati, considerati come “pigri e
irascibili” (…); da mesi i combattenti della Repubblica spagnola erano presentati su gran parte della stampa come “ladri
e violentatori” e le storie più truci erano circolate sulla “canaglia marxista”». La memoria dei rifugiati è tinta d’amaro:
«se, diversi decenni dopo, il ricordo di questo periodo e delle sofferenze che l’hanno accompagnato resta comunque
così vivo e così amaro, non è solo a causa della miseria e delle tristi condizioni materiali. L’atteggiamento di una parte
dei francesi nei confronti degli esiliati, le violenze verbali di una parte della stampa (…), la percepibile diffidenza (che
si trasformava in molti casi in ostilità) sono altrettante cause di persistente risentimento».
Secondo Pierre Laborie si tratta di uno snodo non secondario della storia francese, poiché il presunto problema degli
stranieri è un indice fondamentale della crisi d’identità che la nazione visse negli anni Trenta, crisi connessa al timore di
un declino sostanziale della Francia. Noiriel indizia le cause profonde di questa crisi d’identità: l’impossibilità
economica di tenere in piedi il sistema sociale coltivato dai repubblicani, a causa della crisi economica mondiale; il ceto
delle “capacità”, delle professioni liberali, uno dei pilastri del regime repubblicano, «denuncia la “pletora” dei
diplomati, il numero eccessivo di donne e soprattutto di stranieri che frequentano le università. (…) Questi discorsi si
diffondono poi tra i giornalisti, gli accademici, i militari, i funzionari». Poi, il frantumarsi di alcuni compromessi
sociali, per esempio quello tra ideali repubblicani e privilegio alto borghese, ormai non più giustificato dalla media
borghesia; infine la nuova forza sociale che il proletariato operaio, prima relegato in posizione subalterna, assunse nel
corso degli anni Trenta. Piccola e media proprietà contadina, professioni liberali, piccola borghesia, che prima avevano
beneficiato dell’avvento del regime repubblicano, andarono ad ingrossare le fila dei “delusi dalla Repubblica”. Ne
deriva un paradosso sociale, per cui «l’originalità del regime di Vichy consiste nel fatto che esso si è appoggiato su una
coalizione eteroclita di gruppi sociali i cui interessi erano stati fortemente difesi dalla Terza Repubblica, quando la
congiuntura era favorevole». Ma le origini di quest’ondata di xenofobia sono ancora più lontane; esse vanno ricercate
non solo nella frattura sociale degli anni Trenta, ma in abitudini mentali e discriminazioni sociali consolidate da
decenni, cioè nella politica di esclusione del proletariato straniero, visto che gli immigrati erano esclusi, come abbiamo
visto, da molti settori della vita lavorativa e convogliati nei settori più repulsivi: l’industria pesante e le miniere, mentre
lo sfruttamento della manodopera straniera era uno dei fattori principali di competitività dell’industria pesante francese;
e la protesta poteva risultare cara ai lavoratori stranieri: fra la fine dell’Ottocento e la Seconda guerra mondiale, «decine
di migliaia furono espulsi dalla polizia per aver semplicemente protestato contro l’eccessivo sfruttamento». Così
facendo, «la Terza Repubblica ha contribuito a legittimare una visione del mondo sociale dominata dall’idea della
“preferenza nazionale”, idea che Vichy porterà al parossismo».
La parabola xenofoba raggiunse il suo vertice con lo scoppio della guerra: già il primo settembre ’39 fu emanato un
decreto che prevedeva l’arresto di tutti i cittadini maschi di potenze nemiche, dai diciassette ai cinquant’anni; nei giorni
successivi il provvedimento fu esteso a coloro che avevano fino a 65 anni d’età, mentre furono esplicitamente
ricompresi nei provvedimenti d’internamento anche i rifugiati dalla Germania e dall’Austria (unica eccezione, essere
marito di una cittadina francese o avere un figlio francese). La legge 18 novembre 1939, ampliando quella del ’38, dotò
i prefetti del potere di decretare l’internamento di chiunque (francese o straniero) fosse giudicato pericoloso per la
sicurezza nazionale. Sarraut la presentò come una legge eccezionale, legata allo stato di guerra; e Peschanski mostra di
condividere, in sede di giudizio storico, questa prospettazione; egli parla di una: «logica d’eccezione» che prevarrà in
Francia, prima della sconfitta come dopo la Liberazione; e assimila questo tipo d’internamento a quello praticato dalla
Francia nella prima guerra mondiale e dai paesi anglosassoni nel secondo conflitto mondiale, distinguendolo nettamente
dalle altre fasi dell’internamento gestite dal governo di Vichy o dalle autorità francesi in territorio occupato dai
tedeschi. Secondo Peschanski «non si può dunque parlare di una Vichy prima di Vichy. (…) Una differenza di natura
separa nettamente una politica d’eccezione proclamata come tale e una logica d’esclusione che pone i campi al centro
del suo progetto politico e ideologico. Tuttavia, sebbene ci sia una rottura evidente tra la Terza Repubblica al declino e
l’Etat français vichista, molta parte del quadro legislativo era già stata adottata e, soprattutto, sia l’opinione pubblica sia
le amministrazioni coinvolte vi si erano assuefatte». Un giudizio che è lo stesso di Pierre Laborie, che si dichiara
contrario all’idea di una «filiazione diretta» tra i campi della Terza Repubblica e quelli di Vichy; egli ricorda inoltre
come «i responsabili e i difensori di Vichy non hanno d’altra parte mancato, dopo la guerra, di utilizzare l‘argomento
dell’esistenza anteriore dei campi per parlare di un’eredità da accettare e per tentare così di alleggerire le responsabilità
del regime».
Occorre però dire, da un lato, che la comparazione con i campi inglesi e americani diventa, sotto questo riguardo, poco
felice, poiché anche la loro installazione non nasceva da premesse limpide e non era priva di componenti razzistiche e
xenofobe. Anche l’esempio della prima guerra mondiale, nel corso della quale i francesi internarono circa sessantamila
stranieri, non è esente da critiche. Ma è soprattutto quanto avvenuto nei mesi precedenti allo scoppio del conflitto che
indica invece le misure dell’internamento di guerra come strumenti di un aggravamento della politica xenofoba degli
anni precedenti. Particolarmente grave e significativa fu, in questo senso, la decisione di internare in massa i profughi
dalla Germania, rispetto ai quali fu fatto prevalere il criterio nazionale (e dunque il riflesso xenofobo) rispetto alla loro
condizione di perseguitati politici e ontici da parte dei nazisti. Un errore imperdonabile, frutto di un’inadeguatezza a
cogliere lo scenario storico e ideologico entro cui si inseriva la persecuzione nazista nei confronti degli ebrei. Per Anne
Grynberg, anche se non si può assimilare l’internamento praticato dalla Terza Repubblica a quello voluto dai dirigenti
di Vichy, però «la classe dirigente francese degli anni Trenta (…) ha preparato il condizionamento dell’opinione
pubblica. Abituata a confondere gli stranieri e i rifugiati, i rifugiati e gli ebrei immigrati, gli ebrei fra loro, ha spinto a
considerarli tutti, globalmente, come degli intrusi intrinsecamente diversi». Si aggiunga che i rifugiati tedeschi e
austriaci erano tenuti, negli anni Trenta, a dichiarare la loro «origine ebraica». Anche Machtild Gilzmer, che ha studiato
le vicende del campo di Rieucros, ritiene che posizioni come quella di Peschanski abbiano «la tendenza a minimizzare
questa prima fase dell’internamento (…), trascurandone il carattere ideologico ed irrazionale, che diverrà ancora più
netto sotto Vichy». Si è già detto, infine, di come anche un testimone come Joseph Weill abbia espresso critiche nei
confronti dei campi repubblicani.
Insomma, Vichy divide ancora la Francia. Vichy serve anche da pretesto, da poubelle della storia in cui gettare tutto ciò
che di negativo appartiene alla comunità nazionale, che ne esce così emendata e salva. Una poubelle da tenere quindi
accuratamente chiusa e non indagata, per evitare che i suoi miasmi contaminino il presente. Si tratta di un meccanismo
psicosociale assai tipico delle società che non hanno generato un regime fascista completamente endogeno, pur
avendone sperimentate le pulsioni generatrici. E l’effetto poubelle si moltiplica, si applica alla lotta politica presente, si
espande in Europa grazie alla nascita di uno spazio pubblico europeo, prodotto della crescita delle istituzioni
comunitarie.

L’internamento repubblicano

Per l’internamento francese, al pregiudizio nazionale bisogna aggiungere il pregiudizio politico, legato alla ventata di
anticomunismo che percorse la Francia a partire dal ’38 e che portava a percepire come pericolosi gli esuli antifascisti
tedeschi ed austriaci. I primi profughi a essere arrestati furono infatti i comunisti, in ragione del patto di non aggressione
sovietico-tedesco; anche i comunisti francesi furono nel mirino della repressione: il 25 agosto fu vietata la diffusione de
L’Humanité e il 26 settembre fu sciolto il PCF. Seguirono numerose perquisizioni, arresti, licenziamenti e circa 500
internamenti di militanti comunisti francesi.
Per quanto riguarda razzismo, eugenetica e darwinismo sociale, la specificità francese consiste nel fatto che queste
ideologie non erano state inglobate nella visione del mondo degli accademici ed il loro influsso era del tutto marginale
nella comunità scientifica. Ma esisteva un consistente darwinismo sociale dei tecnici, misto a razzismo e antisemitismo,
tanto che il regime di Vichy è stato anche definito nei termini di una «“rivincita” dei tecnocrati» o come il «trionfo dei
funzionari e dei tecnici», quanto meno all’inizio. Tipico esempio di questa cultura dei tecnici è quello di Georges
Mauco, “esperto” dei problemi dell’immigrazione e funzionario del sottosegretariato all’immigrazione, il quale
affermava alla fine degli anni ’30 che asiatici, africani e “levantini” erano estranei alla cultura francese e per essi
preconizzava una «assimilazione impossibile e, per di più, spesso fisicamente e moralmente indesiderabile»; durante il
regime di Vichy, Mauco scrisse anche in favore della segregazione degli ebrei.
Il tema dell’antisemitismo, dopo la fiammata di fine Ottocento attizzata da pubblicisti come Droumont ed esplosa nelle
vicende dell’affare Dreyfus, era divenuto qualcosa di «nascosto e passivo» e, per questo, assai diffuso; attraversava
diverse “famiglie” politiche, per cui «i temi antiebraici penetravano surrettiziamente nella mentalità, cambiando
periodicamente la propria composizione». Leghe, movimenti di estrema destra e alcuni intellettuali di talento (Céline,
Brasillach, Drieu La Rochelle) rappresentavano l’espressione rumorosa ed evidente di queste tendenze di fondo, tra
l’altro presenti anche nel mondo anglosassone e nel resto d’Europa. Le loro dottrine, grazie anche al clima xenofobo ed
ai timori collettivi degli anni ’30, «s’insinuarono discretamente negli ambienti moderati», preparando l’antisemitismo di
Vichy.
Due giorni dopo la dichiarazione di guerra, gli stranieri da internare furono convocati, tramite comunicati radio o
pubblicati sulla stampa, nei luoghi di concentramento (a Parigi: stadi, velodromi, prigioni, ecc.). La maggior parte degli
arrestati era all’oscuro del fatto che si trattasse di un provvedimento d’internamento. Molti furono raggiunti a casa dai
gendarmi e arrestati bruscamente. Si calcola che nel novembre del ’39 gli internati di guerra fossero circa 20.000; a
parte il campo di Rieucros, per gli stranieri “indesiderabili” e gestito dal Ministero dell’Interno, gli altri internati erano
ristretti nelle decine di campi creati in tutto il territorio francese e gestiti da personale militare. Significativo del clima
xenofobo, un comunicato dei primi d’ottobre del ’39 del Ministero dell’Informazione, ampiamente riprodotto sulla
stampa, rendeva noto che il numero di furti nella regione parigina era notevolmente diminuito dopo gli internamenti dei
mesi precedenti. Fra gli internati vi erano anche ex internati a Dachau e negli altri campi tedeschi, oltre a notissimi
intellettuali come Alfred Kantorowicz, Arthur Koestler, Max Ernst, Walter Benjamin e molti altri. L’alternativa
all’internamento era l’adesione alle Compagnies de Travailleurs Etrangers (CTE), dei battaglioni di lavoro a cui
aderirono in massa gli ex miliziani spagnoli, ma che solo molto lentamente furono aperti anche ai profughi tedeschi,
praticamente non prima del maggio ’40. Il 12 ottobre, un primo gruppo di rifugiati tedeschi fu inviato nel campo di Le
Vernet d’Ariège (nel dipartimento Ariège-Pirenei), campo “punitivo” e per stranieri molto “pericolosi”, da isolare
«totalmente» (fra loro anche Arthur Koestler). Qui il regime d’internamento era assai duro: assenza di riscaldamento e
di elettricità, niente coperte o vestiti pesanti, 4 appelli quotidiani, percosse, obbligo di avere la testa completamente
rasata. Dal mese di novembre, anche alcune centinaia di donne “pericolose” furono arrestate ed internate nel campo di
Rieucros, che divenne quindi un campo femminile.
Come per l’esodo dei miliziani spagnoli, anche per l’internamento di guerra le autorità francesi mostrarono
impreparazione e superficialità: la costruzione dei campi e la scelta dei siti furono fatte in fretta, sotto la pressione degli
eventi e senza prevedere tempi lunghi d’internamento. Le dotazioni dei campi furono dunque in generale insufficienti.
Ad esempio, le baracche costruite a Gurs, il campo più grande, che ospitava circa 20.000 internati, mancavano
praticamente di finestre, illuminazione e riscaldamento. L’acqua costituiva il problema principale, soprattutto nei campi
situati a sud; spesso risultava inquinata e il suo uso finirà per provocare, negli anni successivi, epidemie di dissenteria e
di tifo. E poi, sia prima che dopo la sconfitta, il sistema dei campi non fu sufficientemente finanziato dallo Stato, per cui
la sua gestione si trovò sempre ad avere penuria di risorse e di mezzi. Dalla fine del mese di dicembre del ’39 furono
istituite delle commissioni speciali che ebbero il compito di esaminare la posizione individuale degli internati; un certo
numero ottenne la liberazione, mentre alcune migliaia di profughi internati accettarono di arruolarsi nella Legione
straniera. Nel febbraio del ’40 il Ministero dell’Interno decise di avocare a sé, togliendolo ai prefetti, i decreti
riguardanti i provvedimenti personali d’internamento, per evitare abusi ed errori visto l’uso improprio che a volte le
autorità locali avevano fatto della misura, comminata in più casi a marginali, autori di reati minori, prostitute, ecc.
Con l’invasione del Belgio da parte delle truppe tedesche ci fu un’ulteriore stretta nella politica d’internamento
francese: il 15 maggio fu decretato l’arresto in massa di tutti i cittadini tedeschi, misura allargata il 17 maggio a tutte le
donne. Furono arrestate in totale altre 8.000 persone, tra cui 5.000 ebrei. La maggior parte degli uomini fu inviata a
Rivesaltes, nel Rossiglione, mentre le donne affluirono nel campo di Gurs. A partire del 10 giugno furono internati
anche circa 8.500 italiani, appartenenti alla folta comunità di emigrati, forte di circa 700.000 persone. Con l’armistizio
la situazione divenne, se possibile, ancor più caotica. Per un certo periodo i direttori dei campi si trovarono a gestire in
prima persona gli eventi. Vi fu chi obbedì all’ordine segreto di distruggere gli archivi dei campi, come il direttore del
campo di Gurs, ma vi fu anche chi non lo fece, come il direttore del campo del Vernet, per quanto gli ordini impartiti
menzionassero esplicitamente questo campo. Sempre a Gurs, la direzione del campo favorì l’allontanamento di migliaia
di internate e la stessa cosa avvenne in altri campi.

L’internamento di Vichy

Il governo di Vichy riprese la politica d’internamento, dandole un significato nuovo e forte; adesso l’internamento
andava ad inscriversi nella politica di isolamento e di risanamento portata avanti dal nuovo Stato francese, che
intendeva ricostruire su nuove basi la vita nazionale, escludendo da essa tutti coloro che venivano additati come “l’anti-
Francia”. Il 3 settembre 1940 fu perciò reiterata la legge del 18 novembre 1939 sull’internamento di chiunque fosse
pericoloso per la “difesa nazionale” o la “sicurezza pubblica”, mentre la legge 4 ottobre 1940 autorizzava i prefetti ad
internare gli “ebrei stranieri”. Un'altra frontiera era così superata nella storia dell’internamento francese, vale a dire
quella dell’esplicita discriminazione razziale. Il 17 novembre, coerentemente con questo nuovo ruolo politico
dell’internamento, la gestione del sistema dei campi passò sotto il controllo del ministero dell’Interno e dei prefetti.
Peschanski stima che alla fine del 1940 vi fossero circa 45.000 internati nei campi della zona non occupata, mentre il
numero degli ebrei presenti negli stessi campi nel febbraio del ’41 è stimato in circa 40.000 persone. La condizione
degli internati nei campi di Vichy subì un peggioramento rispetto alle già precarie condizioni precedenti. Oltre
all’aggravarsi degli effetti negativi sulla salute causati dalle cattive condizioni igienico-sanitarie e logistiche, si aggiunse
la sottoalimentazione dovuta alle scarse risorse disponibili per la gestione dei campi. Un internato ha definito questi
campi «alla francese», non volti allo sterminio, ma caratterizzati dalla «profonda miseria» e dall’«abbandono affettivo».
In un’altra lettera censurata, un internato, che era stato prigioniero a Dachau prima di lasciare la Germania, scrive che
nel campo tedesco i prigionieri erano spesso picchiati, ma erano meglio nutriti che in Francia. Erano, in media, 830 le
calorie consumate giornalmente dagli internati negli ultimi mesi del 1941. I campi francesi furono pertanto, nel loro
genere, dei campi ad alta mortalità. Peschanski ha stimato che tra l’estate del ’40 e quella del ’44 morirono circa 3.000
persone nei campi di Vichy; sebbene egli poi sottovaluti l’ampiezza del fenomeno, giudicandola «una mortalità
limitata». Bisogna invece sottolineare che queste cifre sono del tutto anomale e nulla del genere avvenne in nessuno
degli altri campi d’internamento degli altri Paesi, neanche in quelli italiani “regolamentari”. L’incuria e la davvero
cattiva gestione dei campi francesi durante il secondo conflitto mondiale costituiscono dunque una grave violazione dei
diritti umani, di cui non sembra si sia ancora preso pienamente coscienza nel dibattito storiografico francese. E se la
cifra dei decessi non raggiunse una quantità molto più elevata, ciò non si può neanche attribuire a misure risolutive
assunte dalle autorità francesi.
Infatti, così com’era, il sistema non poteva reggere e le centinaia di morti avvenute durante l’inverno fra il ’40 e il ’41,
soprattutto bambini ed anziani, misero in crisi l’intero sistema concentrazionario. Particolarmente grave fu la situazione
degli ebrei tedeschi del Baden, del Palatinato e della Saar (circa 8.000 persone), che furono espulsi alla fine di ottobre
del 1940 dalla Germania e di cui le autorità d’occupazione tedesche imposero l’internamento nei campi della zona
libera francese. La mortalità tra questi profughi fu alta, trattandosi per la maggior parte di vecchi e bambini,
traumatizzati dall’espulsione, dalle condizioni in cui dovettero sostenere il viaggio di trasferimento, dai disagi della vita
nei campi francesi. La crisi fu lentamente risolta devolvendo l’opera di assistenza agli internati alle diverse associazioni
di soccorso e umanitarie che da anni si erano costitute per prestare aiuto ai profughi e agli internati. Fu attraverso il
volontariato dei membri di queste associazioni e, soprattutto, grazie alle risorse economiche che esse impiegarono per
risollevare le condizioni degli internati, che si poté porre un argine al disastro sanitario che andava profilandosi.
L’inverno ’41-’42 comportò comunque la perdita di un altro migliaio di vite umane. Un’altra questione affrontata dalle
associazioni di soccorso fu quella della condizione dei circa 4.000 ragazzi e bambini internati in zona sud; la questione
fu risolta con una soluzione che si rivelerà decisiva per evitare la loro deportazione nei campi di sterminio; prevalse
infatti, dopo una lunga discussione fra le diverse organizzazioni, la proposta di favorirne l’uscita dai campi, anche a
costo di separarli dai genitori. Furono ottenute progressivamente quasi tutte le liberazioni e i bambini furono inseriti in
case d’accoglienza gestite dalle organizzazioni d’assistenza ebraiche. La soluzione dell’uscita dai campi fu in parte
utilizzata dalle stesse autorità francesi anche per gli adulti, al fine di risolvere la crisi del sistema concentrazionario.
Molti uomini atti al lavoro furono trasferiti nei GTE, i gruppi di lavoro coatto; nell’autunno del ’41 gli internati della
zona sud erano così diminuiti a circa 20.000, mentre erano non più di 12.000 nella primavera del ’42. Ad essi vanno
aggiunti i circa 10.000 internati in Africa del Nord: ex miliziani spagnoli, internati politici di Vichy inviati in campi
“punitivi” algerini, altri appartenenti alle diverse categorie di internati della legislazione di Vichy. Gli ebrei che
ottenevano la liberazione erano considerati ancora dipendenti dall’autorità dei direttori dei campi, erano assegnati a un
domicilio coatto in località isolate ed erano sottoposti al controllo della polizia.
Nella zona occupata, i tedeschi non utilizzarono l’internamento come strumento repressivo privilegiato e, fino alla
svolta costituita dalla decisione della “soluzione finale”, l’internamento fu nella zona nord un fenomeno marginale. La
prima ondata di arresti fu qui il frutto dell’iniziativa delle autorità locali francesi, che nell’ottobre del ’40 procedettero
ad arresti di militanti comunisti, internandone 210 ad Aincourt (vicino Versailles). I tedeschi vollero invece
l’internamento dei nomadi, su cui già pesavano forme di pregiudizio da parte delle autorità francesi: il “problema”dei
nomadi era già emerso nel contesto xenofobo di fine Ottocento e aveva portato alla legge del 1912, che istituiva
un’anagrafe dei nomadi e l’obbligo della scheda antropometrica; e una legge repubblicana del 6 aprile 1940 aveva
proibito la circolazione dei nomadi in territorio francese per tutta la durata della guerra. Grazie allo zelo dei prefetti
francesi della zona occupata furono creati circa una ventina di campi d’internamento per nomadi, mentre l’internamento
di un certo numero di zingari fu autonomamente disposto anche dalle autorità di Vichy. Si discute molto sul numero
complessivo degli internati zingari; rispetto alla cifra di 30.000 internati che è stata a volte avanzata, Peschanski
propone di ridimensionarla drasticamente alla cifra più realistica di circa 3.000 internati. L’internamento degli ebrei in
zona occupata cominciò solo nel maggio del ’41, su iniziativa dei tedeschi, che chiesero alle autorità francesi di
applicare la legge del 4 ottobre 1940 che permetteva l’internamento degli ebrei stranieri; il 13 maggio, circa 3.700 ebrei
stranieri, convocati per “verifiche” dalla polizia francese, furono arrestati e trasferiti nei campi di Pithiviers e Beaume-
le-Roland (nel dipartimento del Loiret). Ad agosto ci fu un'altra ondata di arresti, voluta dai tedeschi, ma gestita dal
prefetto di polizia parigino ed eseguita da poliziotti francesi comandati da militari tedeschi; furono arrestati più di 4.000
ebrei, tra cui 1.500 francesi. In quell’occasione fu utilizzato il campo di Drancy, alla periferia nord-est di Parigi, un
complesso di edilizia popolare adibito nel ’40 dai tedeschi per l’internamento dei civili inglesi. Il 12 dicembre 1941
militi della Feldgendarmerie e della Sipo-SD procedettero all’arresto di circa 700 notabili della comunità ebraica
parigina che furono internati a Compiégne, assieme ad altri 300 internati di Drancy.
Nel corso del 1942, mentre le autorità di Vichy continuavano a svuotare i campi, i tedeschi mutarono la loro
impostazione e pervennero gradualmente ad attribuire all’internamento un significato non solo persecutorio ma
genocidiario, all’interno del progetto della “soluzione finale”. Il primo convoglio di ebrei deportati partì da Compiègne
il 27 marzo 1942, ma si trattava di una deportazione decisa mesi prima (e rimandata per motivi logistici) come misura di
ritorsione nei confronti degli attentati della Resistenza a danno di ufficiali tedeschi; una misura che i nazisti ritennero
più efficace di quella della esecuzione di internati politici (soprattutto comunisti), adottata in precedenza e che aveva
avuto l’effetto di aumentare l’ostilità della popolazione francese nei confronti degli occupanti. La deportazione generale
degli ebrei avvenne con la complicità delle autorità francesi. René Bousquet, segretario generale della polizia di Vichy,
aveva, nel maggio 1942, raggiunto un accordo di massima con Heydrich che contemplava una reale autonomia della
polizia francese in cambio di una piena collaborazione con quella tedesca nella deportazione degli ebrei. Il 17 luglio ci
fu la prima razzia di ebrei a Parigi (detta del Vel’ d’Hiv’, dal nome del velodromo in cui furono inizialmente concentrati
gli arrestati), condotta interamente dalla polizia locale e che portò all’arresto di 13.500 persone. La polizia francese
insistette affinché anche gli internati minori di 16 anni fossero deportati con le loro madri: lo prova un telex del 6 luglio
1942 in cui Theodor Dannecker, capo della sezione affari ebraici della Sipo-Sd di Parigi, fa il punto degli accordi
intercorsi con il governo Laval e chiede ad Eichmann l’autorizzazione alla deportazione anche dei minori di 16 anni
(come proposto da Laval). Tardando la risposta della Gestapo, ad opera dei gendarmi francesi circa 3.300 bambini
internati nella zona occupata furono separati dai loro genitori che furono deportati il 31 luglio ’42. Due settimane dopo i
bambini furono trasportati a Drancy, poi deportati e uccisi ad Auschwitz. Il governo Laval decise inoltre di consegnare
ai tedeschi gli ebrei stranieri presenti nella zona libera e circa 6.000 persone furono inviate a Drancy nell’estate del ’42.
Laval, nel consiglio dei ministri che autorizzò la consegna ai tedeschi degli ebrei stranieri in zona libera, definì queste
persone dei «rifiuti che i tedeschi ci avevano scaricato». Scrive, al proposito, Noiriel: «i dirigenti della Rivoluzione
nazionale erano gli eredi di uno Stato repubblicano che, con le sue leggi, le sue istituzioni, le sue pratiche burocratiche e
le sue categorie mentali, era entrato in guerra, fin dagli anni ‘30, contro gli stranieri installati sul suo territorio». Si
tratta, fra l’altro, di un caso unico poiché la zona libera della Francia fu l’unico Paese europeo in cui degli ebrei siano
stati deportati da un territorio non sottoposto al regime d’occupazione. Dall’agosto 1943 si decise di consegnare anche
gli ebrei francesi.
Gli ebrei deportati dalla Francia furono circa 42.000 nel 1942, 17.000 nel ’43 e 15.000 nel ’44, per un totale di circa
74.000 persone, vale a dire un quarto degli ebrei residenti in Francia, una percentuale non elevata, se si considerano gli
sforzi fatti dai tedeschi, la collaborazione offerta dai francesi e le quote registrate in altri Paesi di deportati rispetto alla
popolazione ebraica residente. Sul fatto che molti ebrei riuscirono a sfuggire alla deportazione, Peschanski ritiene che si
sia trattato di una pluralità di fattori: «la reazione delle Chiese, l’atteggiamento dell’opinione pubblica, l’organizzazione
clandestina di salvataggio, la reazione degli ebrei stessi, la diversità delle comunità ebraiche (composte per metà di
francesi), l’atteggiamento dei responsabili ebrei delle istituzioni tradizionali o nuove, essenzialmente religiose o di
assistenza, le dimensioni del Paese che implicava una notevole mobilitazione poliziesca affinché la caccia fosse
efficace, la presenza italiana ad est del Rodano fra il novembre 1942 e il settembre 1943, la strategia seguita dai
tedeschi e dallo Stato francese». All’interno di coloro che furono deportati è però percentualmente prevalente la quota
degli ebrei stranieri. Una questione assai delicata. Gérard Noiriel e Serge Klarsfeld lasciano chiaramente intendere, nei
lavori citati, che la xenofobia repubblicana e vichysta è la causa principale dell’alto numero di ebrei stranieri periti nella
Shoa. Nel senso che gli ebrei francesi poterono maggiormente godere, in quanto francesi, di aiuti organizzati o
occasionali.

L’internamento della Liberazione

I campi francesi vissero un’ultima fase nel corso della Liberazione, fino al 1946, poiché, dopo essere stati liberati dalle
truppe alleate o dai resistenti (nel maggio 1944 risultavano internate ancora 8.800 persone, di cui quasi il 60% nella
zona nord), furono utilizzati per internarvi i collaborazionisti, i trafficanti di borsa nera e i marginali (anche gli zingari).
Già nel novembre ’43 fu emanata un’ordinanza del nuovo Stato che ricalcava i termini della legge sull’internamento
dell’autunno del ’39. Secondo Peschanski quest’ultima fase dell’internamento rappresenta un ritorno alla logica
dell’eccezione, ma egli stesso fa anche presente che i civili tedeschi internati nel corso dell’avanzata nel territorio del
Reich subirono un trattamento non conforme ai principi giuridici generali, mentre il ministro dell’Interno, il socialista
Adrien Tixier, dovette esercitare un controllo continuo sul fenomeno dell’internamento dei presunti collaborazionisti,
per mantenerlo all’interno della legalità. In quello che Peschanski chiama «internamento di prossimità», vale a dire
quello gestito a livello locale dalle improvvisate autorità popolari, forme selvagge di epurazione, con maltrattamenti e
torture, furono infatti non rare. Non solo, il fenomeno dell’internamento assunse una dimensione senza precedenti, con
cifre superiori a tutte le altre fasi; si stima nel dicembre ’44 la presenza di 50.000 internati. Ad aprile del ‘45 21.000
erano gli internati ancora ristretti; a questa cifra vanno aggiunti i circa 14.000 civili tedeschi che risultavano internati
nell’estate del ’45, i quali erano stati prelevati in Alsazia e internati in condizioni pessime, tanto che si verificarono
diverse centinaia di decessi. Incredibilmente, fra i civili tedeschi internati c’erano anche degli ebrei; ad esempio, nel
campo di La Chauvinerie, una caserma utilizzata per l’internamento, nei pressi di Poitiers, furono internati 40 ebrei, la
maggior parte dei quali si era salvata dalla Shoa dissimulando la propria condizione e che adesso avevano,
paradossalmente, grande difficoltà a dimostrare di essere ebrei davanti alle autorità francesi. Scrive Paul Levy: «è come
se l’incubo ritorni. Invio di pacchi, interventi per liberare i bambini, denunce di maltrattamenti, mancanza di cibo. E una
burocrazia sempre riluttante». Sottoposti a controlli sulle loro conoscenze della religione ebraica, non tutti questi
internati riuscirono ad ottenere subito la liberazione. A fine luglio ’45 la cifra totale degli internati rimaneva identica,
con un gran numero di alsaziani. Ai primi del ’46 vi erano ancora 4.200 internati. L’ultimo internato, un nomade, lasciò
i campi nel maggio del ’46, dopo la proclamazione, il 10 maggio, della fine dello stato di guerra. Lo stesso Peschanski,
in sede di bilancio complessivo, deve riconoscere che l’internamento epurativo «non fu sempre condotto nel rispetto dei
principi dello Stato di diritto al quale si richiamava il nuovo regime».
Per quanto attiene alla condizione dei rifugiati e, più in generale, degli stranieri in Francia, le cose procedettero ancor
più lentamente. Sulla persistente diffidenza nei confronti dei rifugiati, si può citare il caso di Werner Koenig, figlio di
un dirigente socialdemocratico fuggito in Francia nel 1933, che, sebbene sposato con una cittadina francese e padre di
due cittadini francesi, non riuscì mai ad ottenere la naturalizzazione a causa di rapporti di polizia (richiesti dalla legge
del ’45) non positivi sulle sue idee politiche. La riforma del codice della nazionalità del 1945 fu anche più restrittiva
della legge del ’27, con l’aggiunta di accenni eugenetici sulla salute dei naturalizzati, prima assenti. Solo nel 1983 vi
sarà finalmente l’abolizione di ogni discriminazione legale nei confronti dei naturalizzati.
3
L’EXECUTIVE ORDER 9066: L’INTERNAMENTO DI GUERRA NEGLI USA.

Negli Stati Uniti, prima che altrove, già alla metà degli anni Settanta si era sviluppato un ampio dibattito sul fenomeno
dell’internamento, incentrato soprattutto su quanto era avvenuto a danno dei cittadini di origine giapponese. Nella
primavera del 1942 ben centoventimila nippo-americani erano stati infatti internati dal governo statunitense; più di due
terzi fra loro erano cittadini degli Stati Uniti, che furono quindi privati - su mera decisione del governo - dei propri
diritti civili.

Il riemergere del passato

Nel secondo dopoguerra la comunità nippo-americana era riuscita a modificare la propria condizione all’interno del
mosaico etnico americano, passando lentamente da comunità tra le più stigmatizzate assieme agli afro-americani (sia
per motivi culturali che per il “colore” della pelle), condizione che portò ad una temporanea alleanza nel corso degli
anni Cinquanta tra gli attivisti per i diritti civili delle due comunità, a gruppo etnico assai rispettato e ben allocato nella
scala sociale, grazie soprattutto ai successi dei propri membri nella vita economica e nel mondo del
270

lavoro. Nel 1966 questa ascesa fu segnalata dall’articolo Success Story: Japanese American Style del “New York
Times”, in cui venivano lodate la laboriosità e la diligenza dei nippo-americani, giudicati la migliore minoranza etnica
del paese, superiore anche ai bianchi nelle virtù sociali. Nel 1969 divenne un best seller la prima “autobiografia” dei
nippo-americani, scritta dal giornalista del “Denver Post” Bill Hosokawa, che era stato uno degli internati di guerra. Il
titolo scelto alla fine per il suo libro, Nisei: The Quiet Americans, intendeva esprimeva il salto sociale compiuto dalla
sua comunità e fu preferito alla più chiara connotazione razziale dell’iniziale Americans with Japanese Faces.
Hosokawa e la principale organizzazione dei nippo-americani, la Japanese American Citizens League (JACL) con cui
egli collaborava, non volevano evidentemente rompere il nuovo idillio con i wasp dell’establishment americano. Per
questo, la JACL evitò nel decennio successivo di impegnarsi in una battaglia politico-legale di risarcimento a favore
degli internati, che diverse mozioni avevano richiesto nel corso dei congressi dell’organizzazione svoltisi nei primi anni
Settanta. Le pressioni dei movimenti per i diritti civili produssero comunque nel febbraio del 1976 la Proclamation n.
4417 del presidente Ford, nel 34o anniversario dell’ordine presidenziale di internamento (l’Executive Order 9066) degli
enemy aliens. Il presidente dichiarava formalmente decaduto l’Ordine, cosa che non era ancora stata fatta dai tempi
della fine della guerra e, pur senza proclamare scuse ufficiali, giudicava «indignities» le decisioni prese a carico della
comunità nippo-americana; aggiungeva che «non solo la loro evacuazione fu sbagliata, ma i nippo-americani erano e
sono dei leali cittadini americani». Ford concludeva con la promessa che «noi americani abbiamo compreso la tragedia
di questa lontana esperienza (...) e promettiamo che questo genere di azioni non si ripeteranno mai più». Nell’aprile del
1978 la JACL decise finalmente di formare un National Commettee for Redress. Nel settembre del ’79 il senatore
Daniel Inouye introdusse una proposta di legge per l’istituzione di una Commissione d’inchiesta sull’internamento di
guerra. Nel maggio e giugno del 1980 Camera e Senato approvarono la legge e il 31 luglio dello stesso anno il
presidente Carter istituì la commissione parlamentare denominata Commission on Wartime Relocation and Internment
of Civilians. Nel 1982 la Commissione ha concluso i suoi lavori statuendo che l’internamento dei nippo-americani «non
era giustificata da necessità militari (…), [ma] fu provocata da pregiudizi razziali, isteria collettiva e da un vuoto di
leadership politica».
Razzismo, “tribalismo” ed eugenetica: il laboratorio americano

La decisione era venuta da lontano e s’inseriva in un quadro di discriminazione nei confronti dei nippo-americani,
all’interno di più ampie e significative tendenze razzistiche ed eugenetiche. Già gli inizi dell’immigrazione giapponese
negli Usa possiedono questo segno, poiché data a partire dal Chinese Exclusion Act del 1882 con il quale il Congresso
bloccò per dieci anni l’immigrazione di lavoratori cinesi, i quali avevano contribuito al decollo economico della costa
occidentale con il loro lavoro nelle miniere e nelle costruzioni ferroviarie. Si calcola che circa 230.000 cinesi affluirono
negli Usa fra il 1850 e il 1880, ma meno della metà vi fissò la propria residenza stabile (i tre quarti di essi in California).
La legge fu prorogata alla sua scadenza e resa permanente nel 1902. Il Chinese Exclusion Act era la prima decisione
federale che discriminava un gruppo d’immigrati, per quanto non particolarmente numeroso; ma essa si connetteva
direttamente alla decisione anti-asiatica già assunta dal Congresso nel 1870, quando la modifica delle norme sulla
naturalizzazione, che si rendeva necessaria per consentire agli schiavi liberati di acquisire la cittadinanza, fu formulata
in modo tale da impedire agli asiatici immigrati di potervi accedere. Solo ai nati sul territorio americano era consentito,
in base al principio dello ius soli, di divenire cittadini. La naturalizzazione d’immigrati “non bianchi” rimaneva esclusa.
Come conseguenza del blocco dell’emigrazione dalla Cina vi fu una crescita dell’ingresso d’immigrati giapponesi, che
non tardò a sollevare la medesima insofferenza di gruppi politici, di settori delle classi medie e delle organizzazioni dei
lavoratori, nei confronti di forze produttive che, come era accaduto per i cinesi, erano assai competitive per costi e
produttività. Anche i numeri dell’immigrazione giapponese sono complessivamente modesti: fra il 1890 e il 1910 ne
erano entrati circa 160.000 negli Usa, di cui 80.000 stabilmente residenti; ed essi non rappresentarono mai, prima del
’40, più del 2 per cento della popolazione californiana, per cui «l’invasione giapponese» o il «pericolo giallo», di cui
parlava all’epoca una certa pubblicistica americana, appaiono del tutto privi di riscontri numerici e paiono essere
piuttosto l’effetto di un diffuso sentimento xenofobo e razziale dell’opinione pubblica. Nell’ottobre del 1906 il comune
di San Francisco allargò ai nippo-americani il segregazionismo scolastico che già colpiva i cinesi e obbligò gli studenti
di «razza» giapponese a frequentare la scuola cinese della città. Il presidente Theodore Roosevelt, che temeva di
irrigidire i rapporti con l’emergente potenza nipponica, dichiarò la sua ostilità a questo tipo di decisione e grazie al suo
intervento fu evitato che la legislazione antigiapponese si allargasse. Ma non è senza significato, per la comprensione
dell’atteggiamento della classe dirigente statunitense su questo tema, che lo stesso Theodore Roosevelt manifestasse in
privato una visione dei rapporti sociali e internazionali fondata anche su basi razziali e in parte ispirata a quei principi
socialdarwinistici che si associavano al dominante positivismo evoluzionistico americano dell’epoca. E quando il
parlamento californiano, nel 1913, vietò l’acquisto della proprietà terriera agli immigrati non naturalizzabili, avendo di
mira soprattutto i giapponesi di prima generazione (i cosiddetti Issei), il presidente democratico Wilson non si oppose;
anche perché, come scrive Roger Daniels, uno dei principali storici dell’immigrazione negli Usa e dei rapporti
interetnici americani: «Wilson e i suoi alleati nutrivano ancor più pregiudizi razziali rispetto alla maggior parte dei
repubblicani e avevano infatti attaccato Roosevelt nella campagna presidenziale del 1912 accusandolo di essere troppo
morbido con i Japs».
Lo stesso Wilson aveva controfirmato nell’aprile del 1911, quale governatore del New Jersey, la legge che introduceva
in quello stato la sterilizzazione eugenetica di malati di mente, epilettici e “altri minorati”. Secondo Edwin Black, il
brillante giornalista d’inchiesta americano figlio di sopravvissuti all’Olocausto, non si tratta di un dettaglio di cronaca
politica: a suo parere la società americana dei primi del Novecento era affetta da molteplici e trasversali conflitti razziali
e sociali, a cui la classe dirigente e l’élite scientifica avevano reagito coltivando forme di antropologia razziale e
arroganti progetti eugenetici. Scrive infatti Black: «la nozione di un romantico melting pot americano era un mito. Esso
non esisteva quando, al volgere del secolo, lo scrittore inglese Israel Zangwill coniò ottimisticamente il termine. In quei
giorni (…) l’America era invece un calderone di indissolubili minoranze, etnie, popolazioni locali ed altri granitici
gruppi, tutti in costante ribollimento». In questo contesto, i confini tra sociologia e biologia cadevano e la supremazia
delle classi dirigenti si nutriva anche di un immaginario evoluzionistico, a sfondo razzistico ed eugenetico, il quale non
si manifestò in forme totalitarie e virulente per il carattere comunque aperto e pluralistico della società civile
statunitense; esemplari sono, sotto questo riguardo, le parole con le quali il governatore Samuel Pennypacker della
Pennsylvania motivò il suo veto alla legge sulla sterilizzazione obbligatoria votata nel 1905 dal parlamento di quello
stato:

Gli scienziati, come tutti gli altri uomini le cui esperienze sono state limitate dal perseguimento di un unico obiettivo,
(…) a volte vanno contenuti. Gli uomini di alta cultura scientifica sono inclini (…) a perdere di vista quei principi
generali che non si trovano all’interno del loro campo di studio. (…) Permettere queste pratiche significherebbe
infliggere sofferenza ad una classe indifesa (…) che invece lo stato ha il compito di proteggere.

Resta il fatto che negli Usa fu elaborata la prima forma dell’eugenetica selezionista (anche contro le idee di Galton, che
era più favorevole a misure di prevenzione): lo Stato dell’Indiana fu, nel 1907, il primo ordinamento al mondo a
introdurre la sterilizzazione forzata, poi seguito da altri 27 Stati federati. Numerosi furono anche gli Stati che vararono
leggi di proibizione per i matrimoni ”interrazziali”. Complessivamente, nel periodo compreso fra il 1907 e il 1940,
furono praticate negli Usa decine di migliaia di sterilizzazioni forzate (a volte all’insaputa delle vittime); le misure
erano dirette contro diverse forme di “degenerazione”, incluso il pauperismo e la scarsa intelligenza; la stessa nozione
di IQ (quoziente intellettivo) fu introdotta nel 1916 da psicologi eugenisti americani, che avevano ripreso gli iniziali
lavori di Binet con lo scopo precipuo di misurare la debolezza intellettiva e di dimostrarne l’ereditarietà.
L’eugenismo americano, che assunse la leadership dell’eugenismo mondiale e che costituì un modello per gli analoghi
movimenti degli altri Paesi, non fu un fenomeno di massa né scelse il dibattito pubblico come proprio strumento di
diffusione; si trattò di un movimento guidato principalmente da scienziati, supportato da parti importanti dell’élite
economico-culturale (come le fondazioni Carnegie e Rockfeller), accreditato dalle principali università del Paese (che
introdussero stabilmente cattedre di eugenetica) e che entrò a far parte della mentalità di pezzi importanti della classe
dirigente americana. Ma rimase un movimento minoritario che si mosse soprattutto con un’azione di lobbying e
misurando i propri obiettivi sulle possibilità reali di superare l’implicita ostilità della maggioranza della popolazione. La
sterilizzazione, che era già un risultato importante, non era che una delle misure coercitive immaginate dagli eugenisti:
poligamia, segregazione, deportazione, aborto e castrazione erano obiettivi a lungo termine del movimento; inoltre, gli
individui “normali” ma di “cattiva” ascendenza erano ritenuti un pericolo grave per l’igiene razziale e anche per loro si
riteneva necessario impedirne la riproduzione. Si preferì, comunque, differire pazientemente queste proposte e
approfittare a tempo debito delle opportunità che il dibattito politico avrebbe offerto. Intanto, la pratica delle
sterilizzazioni forzate ricevette l’importante avallo della Corte Suprema nel 1927, con una sentenza che negò
l’incostituzionalità della legge sulle sterilizzazioni della Virginia e statuì il carattere scientifico delle inferenze sulla
ereditarietà di «insanity, imbecility, & c.». L’effetto della sentenza fu un aumento delle sterilizzazioni in tutti quegli
stati che già la consentivano.
Uno degli strumenti principali dello sviluppo dell’eugenetica americana furono la Station for Experimental Evolution
(un istituto della Carnegie Foundation), creata nel 1904 e guidata dallo zoologo Charles Davenport, che diede vita nel
1910 anche all’Eugenics Record Office con il compito di procedere alla mappatura genetica dei “degenerati” e
progressivamente di tutti gli americani. Per dare solo un’idea delle convinzioni “scientifiche” di Davenport, si può ad
esempio fare riferimento alla sua asserzione che le caratteristiche comportamentali dell’operosità e della pigrizia fossero
sottoposte alle ferree leggi statistiche di Mendel, non diversamente dalla rugosità dei piselli indagati dal monaco boemo:

Studi empirici dimostrano che (…), quando entrambi i genitori sono molto incapaci, praticamente tutti i figli risultano
essere “molto incapaci” oppure “abbastanza incapaci”. Su una prole di 62 individui, solo 3 risultano industriosi o circa
il 5 per cento. Quando entrambi i genitori sono inefficienti in un certo grado, circa il 15 per cento della prole conosciuta
è stata registrata come industriosa. Quando un genitore è in un certo grado incapace solo il 10 per cento circa della prole
è “molto incapace”.

L’Eugenics Record Office collaborò strettamente con i promotori in Virginia di quella che sarà la legge più restrittiva
sui matrimoni “interrazziali”, vale a dire il Racial Integrity Act, promulgato nel 1924, il quale prevedeva una meticolosa
registrazione dell’origine razziale dei cittadini e una serie di restrizioni nei confronti dei non bianchi. Nel 1922 era stata
inoltre fondata l’American Eugenics Society, che raggruppava tutti i rappresentanti del movimento eugenetico nella
comunità scientifica statunitense. La più attiva sul piano politico delle associazioni eugenetiche americane fu però la
Eugenics Research Association, fondata nel 1913 e nella quale militarono sia eminenti scienziati che ideologi del
razzismo, fra cui Madison Grant, che ne assunse la presidenza per un certo periodo. Grant era l’autore di The Passing of
the Great Race (1916), vale a dire del testo in cui si dichiarava la superiorità della razza bianca nordica e si
preconizzavano misure estreme per salvaguardare l’identità razziale nordica degli Usa. Grant fu stimatissimo da Hitler,
che nel 1934 gli scrisse una lettera di ammirazione in cui affermava che il testo di Grant era la sua «Bibbia», secondo la
testimonianza di Leon F. Whitney, segretario dell’American Eugenics Society. Grant e la sua cerchia difesero negli anni
’30 le politiche eugenetiche del regime nazista e lo stesso Grant fece inviare ad Alfred Rosenberg e a Mussolini un’altra
sua pubblicazione del ’33, che poi uscì in traduzione tedesca integrale nel 1937. Grant ricevette d’altra parte le critiche
dei nazisti per il ruolo non primario da lui attribuito ai tedeschi all’interno della razza nordica e al “sangue germanico”
nella formazione del popolo americano. E bisogna considerare che uomini come Grant e Davenport, assieme ai molti
altri che s’impegnarono nella diffusione delle idee eugenetiche e razziste, appartenevano agli strati superiori della classe
dirigente, su cui esercitavano un influsso ideologico non trascurabile. Come scrive Edwin Black, «le dottrine della
purezza e supremazia razziale abbracciate dai fondatori dell’eugenetica americana non erano elucubrazioni di uomini
rozzi e ignoranti. Esse rappresentavano gli ideali più importanti di alcuni dei più stimati e colti personaggi della
nazione, perché fra i massimi esperti nel loro campo culturale o scientifico o perché riveriti per la loro erudizione».
Le tendenze razziste americane non si limitavano alla discriminazione dei non bianchi, ma si estendevano anche ai
“bianchi non nordici”: italiani, ebrei europei, scozzesi e irlandesi erano considerati, da autori come Grant o Lothrop
Stoddard, nei termini di una minaccia nei confronti delle origini nordiche della razza americana. Stoddard, membro
autorevole della Eugenics Research Associaton, pubblicò poi, nel 1940, un libro elogiativo nei confronti dell’eugenetica
nazista, dopo aver visitato la Germania ed essere stato ricevuto da Hitler. La guerra in Europa era già scoppiata e gli
eugenisti americani si ostinavano dunque a mantenere aperta la linea di credito nei confronti del regime nazista, come
avevano d’altra parte sempre fatto, fin dall’avvento al potere di Hitler. Molteplici legami furono infatti intrattenuti dagli
eugenisti americani con gli eugenisti tedeschi e con le autorità naziste. Questi legami assunsero le forme di viaggi di
studio, dichiarazioni pubbliche di sostegno, sovvenzioni ai centri di ricerca, scambio di riconoscimenti accademici,
pubblicazione di descrizioni entusiastiche dei programmi eugenetici nazisti; perfino i famigerati film di propaganda
nazista sul programma di eliminazione degli handicappati furono acquistati e diffusi dalle organizzazioni eugenetiche
americane. Solo l’entrata in guerra degli Usa, nel dicembre del ’41, pose fine a queste relazioni. Comunque, le
associazioni eugenetiche avevano risentito del clima bellico e fin dal 1938-39 avevano ridotto di molto le loro attività,
fin quasi a sparire, durante la guerra, dal panorama scientifico e politico americano. Dopo la guerra la ricomposizione di
quelle idee e di quelle organizzazioni fu lentissima e percorse le nuove, attuali e molto controverse strade
dell’ingegneria genetica, che rischia di riproporre, consapevolmente o meno, le stesse aberrazioni.
Le leggi sulla sterilizzazione non furono però abrogate negli Usa e si stima in quindicimila il numero degli sterilizzati
negli anni ’40, diecimila negli anni ’50 e altre migliaia negli anni ’60 e ’70. La sterilizzazione femminile era più
frequente e, in generale, la California risulta lo stato più attivo in questa pratica. A partire dal 1980, l'American Civil
Liberties Union ha condotto diverse azioni legali di risarcimento delle vittime di sterilizzazioni; quest’attività, da parte
di una delle più importanti organizzazioni indipendenti americane in difesa dei diritti civili, ha contribuito a produrre
una coscienza storica del fenomeno e spinto i governatori di diversi Stati (Virginia, Oregon, California, Nord e Sud
Carolina) a proclamare pubblicamente le proprie scuse a chi era stato sottoposto a tali pratiche. Ma la legge sulla
sterilizzazione della North Carolina è stata aggiornata nel 1981 ed è ancora formalmente in vigore, mentre l’ultimo
Stato ad abolire i divieti sui matrimoni interrazziali è stato l’Alabama nel 2000.
Secondo Black, non solo l’eugenetica americana era espressione di atteggiamenti mentali non secondari della classe
dirigente americana, ma bisogna dedurre da quanto finora abbiamo riportato che il mito della supremazia di una pura
razza nordica, con le annesse politiche eugenetiche e selezioniste, era stato originariamente elaborato in terra americana,
mentre i nazisti vanno considerati gli ossessivi e compulsivi esecutori delle politiche razziali legate a quel mito: «il
bizzarro culto della scienza razziale nazista era organicamente legato all’America (…) ed il principio nazista di una
superiorità nordica non fu concepito nel Terzo Reich, ma a Long Island [sede dell’Eugenics Record Office] decenni
prima, e poi attivamente trapiantato in Germania». Bisogna aggiungere che, nel caso dei nazisti, queste idee non
rappresentavano soltanto tendenze élitiste o la diretta manifestazione dell’arroganza delle classi dirigenti, ma
costituivano il tessuto di una vera e propria ideologia biocratica, sovversiva dell’ordine interno e di quello
internazionale.
L’eugenetica era stata anche una componente delle discutibili politiche dell’immigrazione introdotte negli Usa tra le due
guerre. Dopo la Prima guerra mondiale un’ondata xenofoba percorse il Paese; fra il 1880 e il 1920 erano arrivati circa
20 milioni di immigrati, per lo più europei; più di otto milioni giunsero fra il 1900 e il 1909. Negli anni del primo
dopoguerra, che sono stati anche definiti i tribal twenties, problemi sociali e problemi etnici si mescolarono e diedero
vita a forti tensioni, con scontri fra bianchi e neri e persecuzioni giudiziarie a danno degli anarchici italiani. Fu in questo
contesto che politiche dell’immigrazione, eugenetica e razzismo finirono per convergere attorno ad un programma di
restrizioni all’immigrazione. Albert Johnson, un ambizioso giornalista di provincia eletto al Congresso nel 1912, dal
1919 al 1931 fu Presidente della Commissione del Congresso per l’Immigrazione e la Naturalizzazione. Madison Grant
era intimo di Johnson e nella sua veste sia di presidente della Eugenics Research Association sia di vice presidente della
Lega per la restrizione delle immigrazioni, svolse un ruolo importante nella confluenza di eugenetica e politica di
controllo dell’immigrazione. Questi contatti portarono ad ottenere nel 1920 la nomina a consulente eugenetico della
Commissione per l’Immigrazione del Congresso del segretario dell’Eugenics Record Office, Harry Laughlin, un
insegnante originario dell’Iowa, le cui doti di organizzatore gli permisero di diventare una delle figure più importanti
dell’eugenetica americana e mondiale. Laughlin lavorò affinché venisse approvata una legislazione restrittiva
soprattutto nei confronti degli immigrati provenienti dall‘Europa mediterranea e dall’Est Europa (fra cui c’erano molti
ebrei), “certificandone” la tendenza genetica al crimine e alla immoralità. Merriam, il Presidente della Fondazione
Carnegie, che finanziava l’Eugenics Record Office e al quale Laughlin riferiva regolarmente sulla sua attività di
consulente del Congresso, benché temesse gli eccessi di Laughlin autorizzò gli statistici della Fondazione a collaborare
con lui alla redazione di un rapporto sullo stato delle relazioni etniche negli Usa. Il rapporto, consegnato nel 1922, fece
da base “scientifica” per l’elaborazione della nuova legge sull’immigrazione.
Intanto, nel giugno del ’23 Johnson venne eletto Presidente della Eugenics Research Association. In collaborazione con
il Dipartimento del Lavoro (che fu competente sulle politiche dell’immigrazione fino a quando Roosevelt, nel ’40, non
le trasferì al Dipartimento della Giustizia), Laughlin fece un lungo viaggio in Europa, dove prese contatto con le
ambasciate, studiò le pratiche di immigrazione e iniziò a diffondere questionari eugenetici, nuove pratiche d’indagine
sugli aspiranti migranti e una cultura razziale dell’immigrazione. Il suo rapporto al Congresso fece da base di
discussione per l’Immigration Act (The Johnson-Reed Act) della primavera del 1924, che stabiliva un sistema restrittivo
di quote per l’immigrazione, ottenendo il risultato di ridurre il numero degli immigrati provenienti dal sud e dall’est
europeo e di bloccare, praticamente, l’immigrazione giapponese. Il sistema delle inchieste eugenetiche sui migranti fu
per qualche tempo introdotto in molti consolati europei, ma venne poi abbandonato per motivi burocratici e per le
resistenze degli altri Paesi. Ciò nonostante, sottolinea Edwin Black, «per molto tempo ancora, dopo la cessazione degli
esami eugenetici, i consoli americani rimasero molto attenti, diversamente da quanto era accaduto in passato, alle
condizioni eugenetiche degli aspiranti migranti o rifugiati. Le loro preferenze biologiche e i loro pregiudizi diverranno
delle barriere insormontabili per molti di coloro che, nel mondo, tentavano di sfuggire all’oppressione nel corso degli
anni ‘30». Il sistema delle quote intralciò infatti la ricerca delle vie di fuga dal nazismo verso gli Usa tentate dagli ebrei
europei dopo il 1933. I consolati americani di Vienna e Berlino furono assediati da persone che chiedevano
disperatamente un visto d’entrata negli USA, ma il rigido sistema di quote introdotto dall’Immigration Act impedì a
molti questa via di fuga dalla persecuzione nazista. Fra i nippo-americani, molti Issei preferirono, a questo punto,
rientrare in patria, ma rimasero quelli che avevano figli nati in America, i quali avevano per questo la cittadinanza (i
Nisei), andando a costituire il grosso di una permanente minoranza nippo-americana che contava nel 1940 circa 126.000
persone (di cui più di 80.000 erano cittadini); la maggior parte dei nippo-americana era residente in California, con un
tasso di impiego in agricoltura e pesca pari al 50 per cento degli occupati.

“Wartime relocation”

Sulla scia dei decennali conflitti fin qui descritti e sulla base di diffusi convincimenti circa l’uso sistematico da parte
delle potenze dell’Asse di quinte colonne, nel giugno del ’40 il Congresso approvò lo Smith Act, che obbligava per la
prima volta nella storia statunitense tutti gli stranieri maggiori di 14 anni residenti negli Usa a registrarsi e comunicare
le variazioni di residenza o d’impiego. Il membro del Congresso Vito Marcantonio, che era stato dapprima eletto alla
Camera dei Rappresentanti come repubblicano, ma poi era stato rieletto come laburista (e che sarà nel ’49 candidato del
Partito Laburista a sindaco di New York), tuonò contro quella che egli definì «una penosa imitazione dei metodi
hitleriani, in nome di un sedicente programma di difesa nazionale», fatta passare a tamburo battente al Congresso «con
tempi da blitzkreig». L’American Committee for Protection of the Foreign Born pubblicò un libello di Marcantonio che
aveva una presentazione del giornalista progressista Carey McWilliams, mentre sulla copertina campeggiava il disegno
di un anziano lavoratore messo alla gogna. Intanto, su ordine di Roosevelt, l’Fbi e il servizio segreto della Marina (Oni)
avevano stilato una Custodial Detention List, segreta e contenente l’elenco delle persone pericolose da arrestare in caso
di guerra. Va sottolineato che i timori circa l’esistenza di una quinta colonna si sono rivelati storicamente infondati, in
quanto non sono mai state accertate cospirazioni antiamericane da parte degli enemy aliens né prima né durante la
guerra e mai nessun giapponese, italiano o tedesco fu arrestato per aver compiuto atti di sabotaggio. Anzi, nei mesi
precedenti l’entrata in guerra degli Usa, una cellula investigativa segreta alle dirette dipendenze di Roosevelt, guidata
dallo scrittore e giornalista John F. Carter, lo aveva informato della scarsa pericolosità e quasi totale lealtà dei nippo-
americani. Carter riferì a Roosevelt dell’assenza di prove sulla slealtà dei nippo-americani, mentre i soli pericoli per
l’ordine pubblico provenivano, al contrario, dal clima di sospetto su di loro. Carter era stato ghost writer e consigliere di
Roosevelt durante la campagna elettorale del ’40; incaricò a sua volta l’uomo d’affari (di orientamento conservatore)
Curtis B. Manson di condurre le indagini sul posto. Carter segnalò anche la vulnerabilità delle infrastrutture
californiane, riassumendo in cinque punti la relazione “I giapponesi della Costa occidentale” sulle indagini svolte dalla
speciale cellula investigativa:

1. Ci sono ancora, negli Usa, dei giapponesi che potrebbero decidere di legarsi alla cintura della dinamite e trasformarsi
in una bomba umana (…), ma ormai sono ben pochi. 2. Non esiste un “problema” giapponese sulla Costa occidentale.
Non ci saranno rivolte armate di giapponesi. Ci sarà sicuramente qualche sabotaggio finanziato dal Giappone ed
eseguito soprattutto da agenti esterni. Potrebbero esserci sporadici casi di sabotaggi fanatici operati da qualche
giapponese squilibrato. 3. La reale pericolosità del loro spionaggio sta nel fatto che potrebbe essere molto efficace per
quanto riguarda i trasporti di rifornimenti e i movimenti di truppe e di navi. 4. La maggior parte dei giapponesi locali è
leale verso gli Stati Uniti o, al peggio, spera che rimanendo inattivi potranno così evitare i campi di concentramento o
violenze incontrollate. 5. (…) Gli investigatori sono inorriditi dall’osservare che dighe, ponti, porti, centrali elettriche,
ecc., sono ovunque completamente privi di sorveglianza.

Preoccupato soprattutto dai pericoli di spionaggio o di attentati, secondo Greg Robinson, professore al Dipartimento di
Storia dell’Université du Québec a Montréal ed uno dei migliori conoscitori della storia dell’internamento americano,
quando si trattò di decidere tra i diritti dei cittadini nippo-americani e le presunte esigenze di sicurezza, Roosevelt non
ebbe dubbi e scelse di violare la costituzione pur di garantirsi di non correre alcun pericolo, reale o potenziale, di
sabotaggio.
Molti stranieri indicati dalla lista dell’Fbi furono arrestati subito dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour; tutti furono
interrogati dal Dipartimento di Giustizia e tremila (all’incirca 1.500 giapponesi, 1.250 tedeschi e 250 italiani) furono
internati. Secondo Roger Daniels questa procedura appare sostanzialmente legittima, perché conforme alle abitudini di
guerra, frutto di imputazioni alla persona e non a gruppi, non priva di alcune garanzie in favore degli accusati
(soprattutto l’interrogatorio). Bisogna inoltre considerare che la Prima Guerra Mondiale aveva portato nel 1918 alla
codificazione dell’Alien Enemy Act (risalente al 1798), che permetteva, effettivamente, l’arresto e l’internamento di
stranieri appartenenti a nazioni nemiche. Occorre però precisare che vi sono stati dei casi accertati di cittadini americani
internati, come il vice console italiano di New Haven; e non va dimenticato che gli Issei si trovavano nella condizione
forzata di aliens, poiché nei decenni precedenti gli era stata impedita la naturalizzazione. Per cui, anche se si accetta
l’Alien Enemy Act come base legale dei primi internamenti, per quanto questa legge sia di assai dubbia costituzionalità,
dei gravi abusi furono comunque compiuti. E le indagini che avevano portato alla formazione della lista dei pericolosi
erano state approssimative, permeabili a forme di errore e di abuso; come scrive Gloria Ricci Lothrop, professore alla
California State University, le imputazioni a danno di coloro che erano stati inseriti nella lista, «spesso consistevano
soltanto in pettegolezzi o insinuazioni, affermazioni basate sul sentito dire e, circostanza non infrequente, accuse frutto
di vendette». Comunque, già l’8 dicembre 1941 fu varato un provvedimento lesivo dei diritti dei cittadini americani e
basato, fra l’altro, su motivi razziali: vennero dichiarati chiusi i confini statunitensi, non solo a tutti gli enemy aliens,
fatto del tutto naturale, ma anche ai cittadini americani di origine giapponese. Il 30 dicembre, il segretario alla Giustizia
Biddle (un difensore dei diritti civili e una “colomba” del gabinetto di guerra) autorizzò la perquisizione di polizia di
abitazioni in cui vivesse un enemy alien; era un modo per aggirare i diritti costituzionali dei cittadini, poiché spesso i
cosiddetti enemy aliens erano anziani Issei conviventi con i propri famigliari Nisei (ovvero i giapponesi di seconda
generazione, nati sul suolo americano e dunque cittadini degli USA). Per gli italiani, come vedremo, era la stessa cosa.
Molte pressioni, interne ed esterne all’amministrazione, spingevano nella direzione dell’assunzione di provvedimenti
più gravi. L’andamento negativo del conflitto nei primi mesi di guerra e l’avanzata giapponese in Asia contribuirono
fortemente ad esacerbare gli orientamenti sia dell’opinione pubblica sia dell’establishment. Oltre alla pressione
popolare in favore di provvedimenti severi nei confronti dei nippo-americani, in continuità con i vecchi pregiudizi
antiasiatici degli Stati occidentali, il coordinamento dei deputati della Costa occidentale richiese l’evacuazione
immediata dei nippo-americani, mentre l’autorevole Walter Lippmann pubblicò il 12 febbraio sul “Washington Post” un
importante articolo a proposito della Quinta colonna della Costa del Pacifico. Il 19 febbraio 1942 Roosevelt firmò, dopo
aver superato le deboli resistenze di Biddle, il famoso Ordine dell’Esecutivo n.9066, che delegava i Comandanti Militari
territoriali ad allontanare dalle zone dichiarate di interesse militare chiunque essi reputassero necessario. L’Ordine non
conteneva alcun accenno di carattere razziale, ma era una chiara sospensione delle garanzie costituzionali,
strumentalizzabile in senso razziale, come effettivamente avvenne. Un mese dopo il Congresso tradusse l’Ordine
presidenziale nella Public Law 503, avente il medesimo contenuto.
Il 30 marzo 1942 il generale John De Witt, comandante della Regione difensiva occidentale, decretò l’allontanamento
dalla costa californiana di tutti i giapponesi, cittadini americani compresi. In poche settimane essi persero quasi tutti i
loro averi, furono concentrati in campi provvisori in California e poi internati definitivamente, per tutta la guerra, in
campi di concentramento siti negli Stati interni. Anche la Corte Suprema diede il proprio avallo ai provvedimenti di
internamento, respingendo i pochissimi ricorsi individuali che ebbero la ventura di giungere al suo esame e rifiutando,
nel dispositivo delle sentenze, di ammettere che le misure prese dal governo e dalle autorità militari avessero il carattere
di discriminazione razziale. Ma il giudizio storico attualmente prevalente è diametralmente opposto. Dal punto di vista
legale, secondo Greg Robinson, l’Ordine presidenziale esorbitò dai poteri dell’esecutivo ed ebbe altri caratteri
incostituzionali: «con questo provvedimento, il Presidente impose una norma militare a dei civili senza che vi fosse
stata la dichiarazione della legge marziale, impose ad una parte della popolazione l’internamento (…) senza che il
Congresso, a cui spettava questo potere, avesse sospeso le garanzie dell’habeas corpus. Infine, l’Executive Order 9066
fu un provvedimento che costituì una violazione condotta su basi razziali, con un’ampiezza che era senza precedenti,
dei diritti fondamentali dei cittadini americani». Sulle motivazioni prevalentemente razziali del provvedimento, Roger
Daniels è assai netto: «le ragioni per la creazione di questi campi di concentramento sono chiare. Una situazione
militare deteriorata diede l’opportunità ai razzisti di ottenere che anche la leadership nazionale condividesse i loro
orientamenti».
Roosevelt, come abbiamo visto, era stato informato della lealtà dei nippo-americani e della oggettiva situazione di
pericolo in cui potevano, per contro, trovarsi le infrastrutture civili californiane. Egli finì per valorizzare la seconda
parte dell’informativa, perché gravato dalla responsabilità di evitare ogni pericolo alla sicurezza degli Usa; timori,
questi, alimentati dalla pressione dei militari: Stimson e Knox, i due conservatori e interventisti repubblicani da lui
chiamati nel ’40 a dirigere rispettivamente il Dipartimento della Guerra e quello della Marina, erano favorevoli a forme
d’internamento in caso di guerra. E fu Stimson, a sua volta influenzato dai suoi collaboratori, a convincere Roosevelt ad
emanare l’Ordine di internamento. Pregiudizi razziali e consapevolezza delle lesioni costituzionali si mescolano nelle
parole del diario di Stimson:

La seconda generazione di giapponesi [i Nisei] potrà essere evacuata soltanto come parte di un’evacuazione totale,
concedendo poi l’accesso alle aree di sicurezza solo tramite permesso, oppure facendoli oggetto, apertamente, di
un’espulsione sulla base del fatto che le loro caratteristiche razziali ci impediscono di distinguere o riporre fiducia nei
giapponesi che hanno la cittadinanza. Quest’ultima è la soluzione, ma temo che, per applicarla, saremo costretti a
praticare un tremendo strappo al nostro sistema costituzionale.
La decisione di Roosevelt fu anche dovuta alle pressioni politiche di diversa natura di cui abbiamo parlato e al fatto che
egli non aveva mai davvero considerato i nippo-americani come cittadini a pieno titolo, avendo condiviso nei decenni
precedenti i timori di molti sulla loro slealtà. Inoltre, nonostante fosse sicuramente una delle personalità politiche più
progressiste dei suoi tempi, anche Franklin Delano Roosevelt era partecipe della Weltanschauung razziale ed eugenetica
che abbiamo già indicato essere una delle componenti principali della cultura delle élites americane dell’epoca. Ad
esempio, nel ’42 incaricò un gruppo di naturalisti di stilare una relazione sul profilo genetico preferibile dei futuri
emigrati e profughi da accogliere negli Usa, chiedendo fra l’altro anche la percentuale ottimale di italiani del nord da
accogliere rispetto a quelli del sud. Lui e Knox esaminarono anche, verso la fine della guerra, la possibilità di
sterilizzare 50.000 Junkers e ufficiali tedeschi. In colloqui privati Roosevelt non fece poi mistero di considerare i
giapponesi razzialmente aggressivi e primitivi. Essendo un uomo pragmatico, Roosevelt non si faceva però
condizionare del tutto da questi pregiudizi razziali, che in lui andavano a mescolarsi, in vista delle decisioni da
assumere, a motivazioni prettamente politiche. E i nippo-americani, oltre ad apparire razzialmente “diversi”,
possedevano anche uno scarso peso politico; essi erano anzi politicamente isolati: complessivamente non numerosi, con
gli Issei che non potevano votare e molti Nisei ancora minorenni (l’età media dei Nisei nel ’42 era di 18 anni), per scelta
delle autorità locali erano rimasti esclusi dal programma di lavori pubblici del New Deal e nessun nippo-americano o
asiatico in genere faceva parte dello staff della Casa Bianca oppure del giro dei consiglieri presidenziali.
Per quanto riguarda gli italiani ed i tedeschi, a lungo si è ritenuto che non fossero stati toccati dai provvedimenti di
guerra presidenziali. I rapporti emessi negli anni ’80 dalla CWRIC parlavano soltanto di nippo-americani e dei nativi
delle isole Aleutine (anch’essi internati). Lo storico Stephen Fox, il primo a produrre un lavoro scientifico
sull’internamento degli italiani nel 1988, confessa di aver avuto la prima notizia sull’argomento da un suo studente di
origini italiane della Northern California University. Nel corso degli anni ’90 si è invece diffusa la consapevolezza
storiografica e sociale che anche per le comunità italiana e tedesca ci sia stata un’applicazione delle restrizioni.
L’evento che aprì la strada ad una riflessione su quegli eventi fu la mostra “Una storia segreta. When Italian Americans
Were «Enemy Aliens»”, organizzata dal Garibaldi-Meucci Museum di Staten Island (New York), che nel 1993 fu
presentata in circa 40 città ed ebbe una vasta eco nei mass-media americani. La direzione della mostra era stata affidata
allo scrittore e giornalista Lawrence DiStasi, mentre una parte notevole della documentazione era stata fornita da Rose
D. Scherini, una ricercatrice indipendente che aveva iniziato ad accumulare documenti e testimonianze fin dalla fine
degli anni Settanta per la sua tesi di dottorato a Berkeley e che nel ’91 aveva pubblicato un articolo sugli effetti
dell’Ordine 9066 sulla comunità italiana di San Francisco. Su proposta dei deputati al Congresso Eliot Engel, un
democratico eletto nel distretto del Bronx e Westchester di New York, e del repubblicano Rick Lazio, eletto a Long
Island, nel novembre del 2000 il Congresso ha approvato il “Wartime Violation of Italian American Civil Liberties
Act”, con cui si dava mandato al Ministro della Giustizia di redigere un rapporto su quei fatti. La relazione, A Review
of the Restrictions on Persons of Italian Ancestry During World War II, è stata rimessa al Congresso nel novembre del
2001 ed ha ampiamente confermato l’effettività dei provvedimenti assunti in tempo di guerra e delle relative violazione
dei diritti delle Persons of italian ancestry.

L’internamento degli italiani negli Usa

Nel Wartime Violations of Italian American Civil Liberties Act si dichiarava che:

(1) La libertà di più di 600.000 italiani immigrati negli Stati Uniti e delle loro famiglie è stata limitata durante la II
Guerra Mondiale da parte del Governo che li qualificò come enemy aliens, li costrinse ad
avere speciali carte d’identità, a restrizioni negli spostamenti e procedette al sequestro di beni personali.
(2) Durante la Seconda Guerra Mondiale più di 10.000 italo-americani che vivevano nella Costa occidentale sono stati
costretti a lasciare le loro case ed allontanati dalle zone costiere, per loro proibite. Più di 50.000 sono stati sottoposti a
coprifuoco.
(3) Durante la Seconda Guerra Mondiale migliaia di italo-americani immigrati sono stati arrestati e centinaia furono
internati in campi militari .
(4) Centinaia di migliaia di italo-americani prestarono servizio esemplare alla collettività e migliaia sacrificarono la loro
vita in difesa degli Stati Uniti.
(5) Oggi, gli italiani sono il più grande gruppo di residenti negli Stati Uniti nati all’estero e il quinto più grande gruppo
di immigrati negli Stati Uniti, stimato in circa 15 milioni di persone.
(6) L'impatto delle misure di guerra fu una devastante esperienza per la comunità degli italo-americani negli Stati Uniti,
e i suoi effetti sono ancora risentiti.
(7) Una politica deliberata ha mantenuto queste misure ignote al pubblico, durante la guerra. Anche a 50 anni di
distanza molte informazioni rimangono classificate, queste vicende rimangono sconosciute al pubblico e non sono mai
state accertate in nessun atto ufficiale da parte del Governo degli Stati Uniti.
Come ricorda il rapporto del Congresso, gli italiani non cittadini e dunque classificati come enemy aliens erano 600.000
mila. Già nella notte successiva all’attacco giapponese a Pearl Harbour, il 7 dicembre 1941, si procedette all’arresto –
senza vera base legale - di alcuni italiani il cui nome era inserito nella lista dei pericolosi stilata dall’Fbi. I primi arresti
avvennero quindi prima che, alcuni giorni dopo, fra l’Italia, la Germania e gli Usa si stabilisse lo stato di guerra, alcuni
addirittura prima ancora che l’8 dicembre Roosevelt firmasse il Proclama 2527:

Considerando che è previsto dalla sezione 21 del titolo 50 del Codice degli Stati Uniti quanto segue: "Ogni volta che c'è
una guerra dichiarata tra gli Stati Uniti e qualsiasi nazione o governo stranieri, o qualsiasi invasione o incursione di
predatori è perpetrata, tentata o minacciata contro il territorio degli Stati Uniti da qualsiasi nazione o governo stranieri, e
il Presidente rende pubblico l'evento, tutti i nativi, cittadini, abitanti, o soggetti della nazione o del governo ostili, che
abbiano l'età di quattordici anni o più e si trovino all'interno degli Stati Uniti e non siano naturalizzati, possono essere
fermati, trattenuti, custoditi e allontanati, come stranieri nemici. Il presidente è autorizzato in qualsiasi caso, con la sua
stessa proclamazione o con altri atti pubblici, a definire: le misure da adottare, da parte degli Stati Uniti, nei confronti
degli stranieri che ne siano passibili; di fissare le modalità e il grado della restrizione a cui devono essere sottoposti, e in
quali casi, e in base a quali misure di sicurezza deve essere loro consentito il soggiorno; di assicurare l’allontanamento
di coloro che, non essendo autorizzati a risiedere negli Stati Uniti, si rifiutino o non ottemperino all’ordine di
allontanamento; di stabilire eventuali altri regolamenti che si rendano necessari per quanto premesso e per la sicurezza
pubblica".
E che, le sezioni 22, 23 e 24 del titolo 50 del Codice degli Stati Uniti prevedono ulteriori misure nei confronti dello
straniero nemico.
Ora, quindi, Io, Franklin D. Roosevelt, in qualità di Presidente degli Stati Uniti e come Comandante in Capo
dell'Esercito e della Marina Militare degli Stati Uniti, rendo pubblico pertanto l'annuncio, a tutti coloro che esso può
riguardare, che un'invasione di incursioni predatorie è minacciata al territorio degli Stati Uniti dall’Italia.

Analoghi proclami 2525 e 2526 furono emanati lo stesso giorno nei confronti, rispettivamente, dei cittadini giapponesi e
di quelli germanici. Un Memorandum dell’8 dicembre 1941 dell’INS (Dipartimento dell’immigrazione), quantificava in
74 il numero degli italiani arrestati nelle 24 ore seguite all’attacco giapponese a Pearl Harbour. Si ritiene che,
complessivamente, circa 1.500 italiani furono arrestati nelle settimane successive all’attacco giapponese (molti di loro
non perché inseriti nelle liste dell’Fbi, ma per violazione degli obblighi che poi furono emessi a carico degli enemy
aliens, come il rispetto del coprifuoco) e almeno 257 italo-americani furono internati; va notato che il numero degli
effettivi internamenti rimane ancora imprecisato: alcune stime giungono fino ad un numero di 280 internati; la citata
relazione del 2001 del Dipartimento della Giustizia enumera un totale di 418 italiani internati, comprensiva
probabilmente degli italiani non residenti. Agli arrestati non furono contestate le ragioni del provvedimento a loro
carico, ma quasi tutti erano appartenenti all’associazione degli ex combattenti oppure erano giornalisti attivi nei giornali
e nelle radio italiane o insegnanti di lingua nelle scuole italiane dipendenti dai consolati. A causa della genericità delle
motivazioni degli arresti, fra gli internati si segnalano anche degli antifascisti; «al contrario, le autorità non toccarono
mai Generoso Pope, direttore ed editore del giornale newyorchese “Il Progresso Italo-Americano”, pubblicazione
filofascista con un’ampia circolazione, probabilmente perché Pope era un uomo potente con contatti ai più alti livelli
governativi». In generale, le indagini condotte dall’Fbi e dai servizi americani furono per forza di cosa affrettate, mentre
gli agenti erano privi delle conoscenze necessarie per muoversi negli ambienti italo-americani e per discernervi le reali
posizioni individuali. Nel luglio del ’43, nel dichiarare cessato il sistema di classificazione dei residenti in base alla
presunta pericolosità, ordinandone la cancellazione dai dossier degli interessati e abolendo la relativa Custodial
detention list, il ministro della Giustizia Biddle scrisse:

è ormai chiaro che questo sistema di classificazione è di per sé inaffidabile. Gli elementi di prova utilizzati allo scopo di
produrre la classificazione sono stati inadeguati; le procedure di prova seguite allo scopo di effettuare le classificazioni
erano difettose e, infine, l'idea che è possibile operare una valida determinazione di quanto una persona sia pericolosa in
modo astratto e senza riferimento al tempo, all'ambiente e alle altre circostanze pertinenti, è inefficace, imprudente e
pericolosa.

Nessuno degli internati italiani era ancora in vita quando gli storici, alla fine degli anni ’80, iniziarono ad interessarsi a
queste vicende, ma la loro esperienza era ancora viva nella memoria privata di famigliari e amici, sebbene l’opinione
pubblica (e anche la maggior parte degli italo-americani) ne fosse all’oscuro; e questo fin dal momento in cui gli arresti
vennero decisi, poiché la politica del governo degli Usa fu quella di dare all’operazione una natura riservata. La
maggior parte dei residenti italiani internati fu inviata a Fort Missoula, nel Montana, dove erano già internati dal maggio
1941 circa mille marinai italiani che si trovavano a bordo di navi presenti nei porti americani al momento dell’entrata in
guerra dell’Italia e che avevano preferito rimanere illegalmente negli Usa. Come fecero anche circa cento italiani che
lavoravano alla Esposizione Mondiale di New York del 1939-40, anch’essi internati a Fort Missoula. Il governo
americano procedette anche all’internamento di alcune migliaia di stranieri arrestati da diversi governi centro e
sudamericani, su istigazione degli Usa; la maggior parte dei giapponesi arrestati in Sud America erano residenti in Perù
e vi furono anche italiani (quasi trecento) e molti tedeschi (più di 4.000) arrestati e deportati negli Usa, per essere
scambiati con americani detenuti in Cina e in Europa. Nell’estate del ’42 circa 750 di questi arrestati furono scambiati
con altrettanti americani detenuti dai giapponesi. Gli altri rimasero internati negli Usa fino alla fine della guerra. Molti
furono poi rimpatriati nei Paesi d’origine, anche perché la motivazione ufficiale della loro detenzione era quella di
“immigrazione clandestina”, francamente sbalorditiva.
A tedeschi e italiani, oltre che ai giapponesi, si applicarono nelle settimane successive all’attacco di Pearl Harbour i
provvedimenti di restrizione nei confronti degli stranieri nemici; quelli che abbiamo già citato e tutti gli altri: il 16
dicembre 1941 la US Navy sequestrò decine di navi da pesca di proprietà di immigrati italiani; il 27 dicembre il
Ministero della Giustizia impose agli stranieri nemici la consegna di macchine fotografiche, radio, torce elettriche,
binocoli e penne ad inchiostro simpatico, mentre il 1° gennaio ’42 venne loro vietato lo svolgimento di attività
lavorative fuori dal luogo di residenza e ingiunta la consegna di tutte le armi in loro possesso. A partire dal 2 febbraio
venne resa obbligatoria una nuova registrazione degli enemy aliens, che dovevano rispondere ad una serie di domande
personali sui propri parenti, anche nel Paese d’origine; seguiva l’emissione di una carta d’identità munita di fotografia,
firma e impronte digitali. Negli stessi giorni furono proclamate alcune decine di zone di interesse militare, nelle quali
gli enemy aliens erano soggetti al coprifuoco dalle 9 di sera alle 6 del mattino. Il 24 febbraio iniziò l’evacuazione degli
enemy aliens (fra cui circa 10.000 italiani) dalle zone proibite in conseguenza della firma da parte di Roosevelt
dell’Executive Order 9066. Le evacuazioni ebbero luogo soltanto nella costa occidentale, a riprova della maggiore
attenzione prestata dalle autorità ai timori di un’invasione giapponese e del particolare pericolo rappresentato ai loro
occhi dai nippo-americani, quasi tutti residenti in California. Il 24 marzo il coprifuoco fu anticipato alle 8 di sera e fu
stabilito che il luogo di lavoro degli enemy aliens non potesse trovarsi oltre le 5 miglia dal luogo di residenza. Molte
altre misure a danno degli italiani dipesero dalle autorità locali; per dare solo qualche esempio: la Contea di Alameda in
California si rifiutò di pagare un fornitore di origini italiane invocando la legge federale che vietava il commercio con il
nemico; una miriade di oggetti, non proibiti, come mappe, fotografie, libri, ecc., fu sequestrata agli aliens, mentre a
Monterey fu loro proibito di esercitare la vendita al pubblico di alcolici. Le cronache dei giornali californiani della fine
di febbraio 1942 riportarono almeno 5 casi di anziani italiani che si suicidarono, dopo che i provvedimenti a loro danno
furono resi noti.
La percentuale di italiani non naturalizzati era molto alta: circa il 45 per cento dei residenti nati in Italia aveva la sola
cittadinanza italiana, mentre tra gli altri non era inusuale il mantenimento della doppia cittadinanza. In ogni caso, i
residenti stranieri godevano anch’essi delle garanzie costituzionali di cui i provvedimenti di internamento e di
evacuazione selettiva costituirono una palese violazione. Molti fra i diecimila evacuati erano immigrati di lunga data e
con figli che erano cittadini americani. Come fa notare Rose D. Scherini, «molte erano donne anziane con una scarsa
conoscenza dell’inglese, che convivevano con i loro famigliari e che non si erano mai decise a chiedere la cittadinanza
per vari motivi: timore per l’esame d’inglese obbligatorio, la distanza dagli uffici del Dipartimento dell’Immigrazione
(INS) o semplicemente il non comprendere la necessità della naturalizzazione». A parte i due casi già visti di italiani
con cittadinanza americana internati, circa 250 cittadini americani d’origine italiana e tedesca (più qualche americano
con simpatie fasciste), il cui nominativo era contenuto nell’elenco delle persone pericolose in caso di guerra stilato
dall’Fbi nel ’39, furono anch’essi sottoposti al divieto di permanenza nelle zone proibite (non potendosi procedere nei
loro confronti all’internamento, per l’opposizione del Ministero della Giustizia alla richiesta avanzata dalle autorità
militari). Circa trenta furono gli allontanati di origine italiana, quasi tutti dei naturalizzati tranne un americano di
nascita. Nel 1943 il Segretario di Stato alla Giustizia Biddle riconobbe l’incostituzionalità del provvedimento di
allontanamento dei cittadini americani e, sebbene non si procedesse alla revoca a causa delle pressioni dei militari, non
furono perseguite le temporanee violazioni da parte di naturalizzati italiani e tedeschi che si recavano nelle loro città
d’origine per esigenze personali.
Quanto fin qui riportato suffraga la tesi di Stephen Fox, secondo cui, inizialmente, il governo e l’opinione pubblica
volevano in effetti che l’internamento fosse generalizzato e non riguardasse solo i nippo-americani; sempre secondo
Fox, fu solo quando ci si rese conto della impossibilità di deportare tutti gli italiani e i tedeschi, perché troppo numerosi,
che vennero abbandonati i progetti su di loro; ed i giapponesi divennero l’unica minoranza di cui era realmente
possibile, quantitativamente, l’applicazione del provvedimento di relocation. Pregiudizi razziali pesarono comunque in
tutte queste vicende; e si può stabilire una connessione diretta tra la forma di quei pregiudizi e il trattamento di ogni
singolo gruppo di enemy aliens. Il sostanziale divieto di naturalizzazione che pesava sui nippo-americani li rendeva il
gruppo più discriminato e l’obiettivo più facile delle ansie e delle smanie di vendetta prodotte dallo stato di guerra,
mentre i pregiudizi sugli italiani pesarono sia sui provvedimenti a loro carico che, paradossalmente, sulla loro revoca; a
riprova di questo, molti commentatori citano la famosa conversazione tra Roosevelt e Biddle, riportata nel diario di
quest’ultimo, in cui gli italiani vengono definiti dal presidente «una massa di cantanti d’opera» e per questo poco
pericolosi, in rapporto ai tedeschi. Già alla fine di giugno del ’42 il governo fece marcia indietro e agli aliens di origine
italiana e tedesca fu permesso di rientrare nelle loro case. Ad ottobre gli italiani cessarono di essere classificati tra gli
stranieri nemici. Una molteplicità di fattori giocò in favore degli italiani, al di là dei diffusi stereotipi su di loro: l’essere
la principale minoranza del melting pot americano, tanto che il tipico eroe americano, Joe Di Maggio, era figlio di un
pescatore californiano non naturalizzato che fu pertanto sottoposto all’evacuazione dalla costa. Si aggiunga il ruolo
importante degli italo-americani nel sistema economico e produttivo e la loro massiccia presenza nelle forze armate, che
si calcola in diverse centinaia di migliaia di uomini, il che faceva sì che molti internati avessero i propri figli impegnati
in combattimento nei diversi teatri di guerra. Le motivazioni politiche furono però le più importanti: gli italo-americani
costituivano un serbatoio di voti tradizionale dei Democratici e, in vista delle elezioni presidenziali, occorreva impedire
che questa tendenza si ribaltasse. L’influenza politica degli italo-americani era poi ben evidenziata dalla nazionalità di
Fiorello La Guardia e Angelo Rossi, sindaci di New York e Los Angeles. Il ruolo di alcuni italo-americani che
lavoravano per importanti agenzie governative è stato recentemente messo in luce da Guido Tintori, il quale ha mostrato
che l’azione di uomini come Joseph Facci e Renzo Sereno dell’Office of War Information (l’agenzia che curava la
propaganda di guerra), fu decisiva per piegare le resistenze di quella parte dell’establishment che era più rigida (i
militari e Hoover) nei confronti degli italo-americani. Un importante rapporto di Max Ascoli, esule ebreo, presidente
della Mazzini Society e collaboratore dell’Office of the Coordinator of Inter-American Affairs (l’agenzia per lo
sviluppo delle relazioni interamericane), fu sollecitato ed utilizzato dalla first lady Eleanor Roosevelt (paladina dei
diritti civili, che aveva anche tentato di evitare l’internamento degli enemy aliens) per indirizzare gli ambienti del
Dipartimento della Giustizia verso un atteggiamento più favorevole agli italo-americani. Uno dei punti importanti di
questi rapporti stava nella chiarificazione del carattere superficiale e soprattutto patriottico dell’adesione degli italo-
americani al regime di Mussolini, che d’altra parte aveva ricevuto in passato apprezzamenti positivi da parte dello
stesso establishment americano. A partire dall’estate del 1943, la metà degli internati italiani fu liberata; rimasero
ristretti fino alla fine della guerra un centinaio di internati considerati fascisti, quasi tutti poi espulsi dagli Usa. Ma gli
effetti di lungo periodo di queste vicende sull’identità degli italo-americani non furono lievi. Secondo Lawrence
DiStasi, la Seconda guerra mondiale ha rappresentato una sorta di «gelata» sulla cultura degli italo-americani, che si
sforzarono in seguito di diventare sempre più americani e sempre meno italiani. L’italianness scomparve sempre più
dalla lingua, dai comportamenti, dalla cultura. Gli scrittori italo-americani, come John Fante, che avevano espresso la
loro identità italo-americana in forme che sfidavano e attiravano l’ascolto della comunità nazionale, persero questo
slancio vitale. E non ebbero prosecutori, nel senso che la letteratura italo-americana si ridusse anche dal punto di vista
quantitativo, se non per quanto riguarda quello che gli americani volevano ascoltare, cioè le storie di mafia e
criminalità. Nell’immaginario nazionale, l’identità italiana fu danneggiata forse per sempre.

L’attuale conoscenza più ampia del fenomeno ci permette di giudicare l’intera questione dell’internamento americano
durante la Seconda guerra mondiale come una «tragedia della democrazia» avvenuta sulla base di motivazioni in parte
razziali e in parte politiche. La componente razziale dei provvedimenti a danno dei nippo-americani emerge
chiaramente dal loro trattamento non individualizzato, in quanto “blocco” umano unico, da trattare nella medesima
maniera. Ma anche nel caso degli italiani, afferma Guido Tintori, «i vecchi pregiudizi contro i dagos e i wops giocarono
una parte importante nel formare il destino degli italiani residenti negli Usa».
Per quanto riguarda l’internamento dei tedeschi, non si è finora giunti a una deliberazione ufficiale né alla formazione di
una commissione di studio, anche se nel 2001 e nel 2007 sono state introdotte due proposte di legge (Wartime
Treatment Study Act), tuttora all’esame del Congresso. Risulta, comunque, che anche gli americani abbiano internato
ebrei tedeschi.

270
II
L’INTERNAMENTO DI GUERRA NELL’ITALIA FASCISTA

270

«Il passato della Repubblica, il nostro passato, non è in effetti tutto il passato, indifferentemente (…): la nostra
Gründerzeit, ossia l’epoca di fondazione dell’Italia contemporanea, è scaturita dalla morte del fascismo e dalla
successiva nascita della Repubblica».
P. G. Zunino
270

1
REPRESSIONE E POLIZIA POLITICA

L’istituzione, al momento dell’entrata in guerra, di campi di internamento per civili si inscrive, nel caso dell’Italia, in
una lunga e complessa strategia politica del regime fascista, fatta di repressione e persecuzione degli oppositori. Una
strategia che si fondava, nel caso dell’internamento, anche su una politica razziale. Tenendo conto delle amnesie
storiche che hanno portato Costantino Di Sante a parlare, con paradosso ma efficacemente, di «non luoghi della
memoria» a proposito dei siti in cui la politica italiana dell’internamento di civili e militari si concretizzò, occorrerà in
prima istanza rimettere ordine, seppure sommariamente, nella sequenza delle scelte repressive del regime.

Il “nuovo Stato” fascista

Durante la costruzione del regime fascista, come ha notato efficacemente Pier Giorgio Zunino, «si mise in atto un
poderoso sforzo per dimostrare che quella fascista non era un’illegalità bensì una “nuova” legalità». Se non si tiene
conto di questo elemento non si comprende il fenomeno fascista nel suo complesso. Né conservatrice né solamente
rivoluzionaria, l’ideologia fascista «quasi mai (…) giunse perciò ad una rimozione totale dei concetti politici più diffusi
e radicati».
Questo modus operandi del fascismo è strettamente legato alla natura più profonda dell’ideologia fascista, la quale è
una forma tutta particolare di totalitarismo, vale a dire un totalitarismo statalista: «il fascismo fu, soprattutto, ideologia
dello Stato, di cui si affermava la realtà insopprimibile e totalitaria». Uno Stato nuovo che era al contempo mezzo e fine
per la realizzazione di una nuova civiltà mondiale. Uno Stato che doveva anche assolvere al compito di forgiare la
nazione attraverso un processo educativo, per creare l’italiano “nuovo” che fosse all’altezza del compito mondiale che il
fascismo gli assegnava.
Ciò che più conta, per quel che riguarda la comprensione di quale fosse il carattere della repressione fascista e della
presa del regime sulla società, è che, questo Stato nuovo, il fascismo «cercò di realizzarlo con uno sperimentalismo
istituzionale, che utilizzò le strutture del regime precedente, adattandole ai suoi fini totalitari, e affiancando ad esse
continuamente nuove istituzioni e modificando radicalmente alcune di quelle già esistenti. Il processo di costruzione
della Stato fascista non si svolse con una lineare e organica sistematicità, ma mostrò una coerenza sostanziale».
In ciò il fascismo volle, fra l’altro, sembrare più nazionalista di nazismo e stalinismo, poiché presentò sempre le proprie
“purghe” interne come azioni assai limitate, che non intendevano intaccare in alcun modo né l’intera struttura dello
Stato né il corpo della nazione, ma che volevano soltanto dare nuova forma alla vita dello Stato e liberare la nazione dai
pochi “rami secchi” costituiti, di volta in volta, da sparute minoranze di antifascisti, ebrei, rom e sinti (zingari),
omosessuali, protestanti. Questa maggiore “dose” di nazionalismo presente nel fascismo è dovuta al suo diverso mito
originario, rispetto all’utopia biocratica nazista e alla mitologia sociocratica staliniana; il progetto nazista fu infatti
quello di una biocrazia all’interno della quale il popolo tedesco avrebbe svolto un ruolo centrale, ma non esclusivo,
poiché sarebbe stato sottoposto anch’esso alle procedure selezionistiche ed eliminazionistiche degli elementi “più
deboli”; la sociocrazia stalinista fu, invece, in parte derivata dal marxismo, in parte realizzazione compiuta di una
concezione della sovranità zarista e euro-asiatica. Fa però notare Emilio Gentile che neanche nel caso del fascismo si
tratta di pieno nazionalismo, poiché la nazione fu vista in parte come un obiettivo ed in parte come uno strumento per la
costruzione di un’Italia e di un’Europa compiutamente fasciste.
Il nazionalismo fascista è stato efficacemente definito dallo stesso Gentile nei termini di nazionalismo modernista, vale
a dire come tentativo di coniugare il mito della nazione con quello della modernità, come occasione per aumentare la
potenza della nazione, plasmare il popolo, far parte dell’aristocrazia chiamata a guidare i destini mondiali; un
modernismo nazionalistico che si diffuse in Europa alla fine dell’Ottocento, che era distante dal nazionalismo
conservatore ottocentesco e che si affermò in Italia sotto forma d’italianismo, diffuso negli ambienti del radicalismo
antigiolittiano di diversa e opposta origine. Il nazionalismo modernista fascista si fuse a partire dal ’21 con lo statalismo
autoritario proclamato dei nazionalisti, che intendevano dare alla nazione lo Stato che si meritava. Il nazionalismo
fascista fu però diverso da quello dei corradiniani, perché si fondava sul presupposto dell’identità tra fascismo e
nazione, da concretizzare attraverso la fascistizzazione del popolo italiano; un’ideologia che fu premessa sufficiente e
necessaria per la genesi e lo sviluppo dello specifico esperimento totalitario tentato dal fascismo dopo la conquista del
potere. Il primato idealistico dello Stato, creatore della nuova nazione, proclamato da Giovanni Gentile, fu la formula
attraverso la quale fu praticata la fusione tra fascismo e nazione; sulla base di questa concezione, il fascismo presentò
«lo Stato-nazione totalitario come massima espressione moderna della comunità nazionale». Qui, però, si innestò quel
processo di slargamento degli orizzonti che ridimensionò il discorso nazionale all’interno di un mito più vasto,
imperiale, che assegnava all’Italia il ruolo di diffondere i principi e tenere le redini di una nuova civiltà mondiale;
sempre secondo Emilio Gentile, tanto la fascistizzazione della nazione quanto il mito imperiale furono caratterizzati da
un male mortale, vale a dire un «obnubilante senso della sproporzione», che portò Stato, fascismo e nazione alla
catastrofe.
Prima che la sproporzione prevalesse, strettamente legata all’ideologia statalista fu l’azione poliziesca del regime,
affidata ai corpi professionali già inseriti nella macchina burocratica dello Stato, sottratta pertanto agli organi di partito,
che anzi furono a loro volta monitorati dalla polizia politica, soprattutto a partire dalla svolta totalitaria della metà degli
anni Trenta. Il capo della polizia Bocchini, un funzionario di carriera e non un gerarca fascista, fu il reggitore di questa
macchina repressiva. Il sistema da lui messo in piedi evidenziò la capacità della classe burocratica di perfezionare il
progetto totalitario, anche superando limiti e tendenze disgregatrici insite nel movimento fascista e nelle attitudini di
Mussolini. Frenandone inoltre, per alcuni anni, la mortale tendenza alla sproporzione. Una delle specificità del
totalitarismo italiano è stata dunque la cooperazione del personale burocratico alla edificazione di una legalità totalitaria
che eliminasse dal sistema le irrazionalità ideologiche, le scorciatoie antistoriche, gli eccessi di violenza. Totalitarismo
statuale, totalitarismo burocratico, quello fascista. Quindi totalitarismo sui generis, la cui radice “legalitaria” e statalista
lo ha portato ad usare repressione, incarceramento, internamento in modi e con misure incomparabili rispetto agli altri
due totalitarismi novecenteschi.

La normativa repressiva fascista

La lunga storia della adozione di nuove norme repressive da parte del regime mussoliniano aveva avuto inizio con il
nuovo Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza del novembre del 1926 (che sostituì quello del 1889) in cui venne
introdotto il confino, una misura di polizia connotata da precise finalità di repressione politica degli oppositori e delle
persone ritenute “pericolose” per la sicurezza dello Stato, vale a dire per l’ideologia e il potere fascista.
Già prima della legislazione fascista esisteva la misura preventiva di polizia del domicilio coatto, decretata da
commissioni provinciali composte dal Prefetto, dal capo dell’ufficio di pubblica sicurezza della provincia e dal pari
grado dei carabinieri; la misura si rivolgeva ai marginali (vagabondaggio, oziosità, ecc.) e ai delinquenti comuni. Crispi
la utilizzò per reprimere tumulti e rivolte politiche, istituendo anche il Casellario politico centrale. Durante il primo
conflitto mondiale ci fu nuovamente un suo utilizzo per reprimere le attività dei pacifisti. Esisteva anche, dal 1889, la
pena del confino che poteva essere comminata dal giudice penale; non si trattava quindi di un provvedimento
discrezionale e preventivo, ma del risultato di un processo penale; la pena del confino fu abolita nel 1930.
Il confino di polizia introdotto dal fascismo era una misura inflitta da speciali commissioni provinciali alle dipendenze
del ministero dell’Interno e composte da: prefetto, questore, procuratore del re, comandante dei carabinieri, un ufficiale
superiore della Milizia fascista; dal 1942 fece parte della commissione anche il segretario del Partito nazionale fascista.
Esisteva una commissione nazionale d’appello, ma le garanzie per la difesa erano praticamente inesistenti e spesso i
confinati non sapevano del procedimento a proprio carico se non al momento dell’arresto.
Appare evidente che il confino fascista non si configurava come una novità assoluta nella storia d’Italia e che una certa
continuità esista fra la politica repressiva del fascismo e quella dei governi precedenti; anche altre misure repressive
largamente utilizzate dal fascismo erano già state introdotte, nell’Italia liberale, in età crispina o ancor prima. Oltre alle
misure già citate (domicilio coatto, casellario politico), era stato creato nel 1880 un ufficio politico della polizia,
affiancato dalla istituzione degli agenti “ausiliari” (agenti investigativi in borghese operanti nel settore dell’ordine
pubblico), mentre gli anni successivi videro il potenziamento della polizia scientifica e delle competenze professionali
del personale di polizia. Per cui, secondo Giovanna Tosatti: «l’organizzazione degli uffici e l’adozione di determinati
strumenti di repressione e prevenzione quasi in nessun caso furono creazione originale della polizia fascista». Ma
occorre qui far valere la logica già vista nella premessa, vale a dire quella dello snaturamento dall’interno che la nuova
legalità fascista ha inteso, in ogni campo, determinare in rapporto alle articolazioni dello Stato ereditate.
Il confino, infatti, era associato, diversamente dal domicilio coatto, a molteplici divieti e restrizioni della libertà
personale e a forme di sorveglianza armata, tali da renderlo spesso assai simili ad una vera e propria carcerazione. Esso
costituiva un’innovazione di non poco conto poiché rendeva l’adozione di restrizioni discrezionali della liberta
personale una misura ordinaria e permanente. Si applicavano così gravi provvedimenti di polizia comminati
esclusivamente per via amministrativa da poteri estranei all’ordinamento giudiziario; misure la cui adozione concreta
era legata a comportamenti politici e che non erano ristrette a gruppi marginali della società, bensì allargate all’intero
corpo sociale al fine di purgarne le tendenze di opposizione.
Della durata variabile da uno a cinque anni, rinnovabile, il confino è stato giustamente definito da Carlo Spartaco
Capogreco una forma di «deportazione» degli avversari politici, soprattutto per quelli per i quali non si disponeva di
sufficienti prove per una condanna penale. Mimmo Franzinelli ha dedicato un capitolo di un suo lavoro alla
illustrazione di come, solo sulla base di denunce anonime e delazioni, spesso false o riferite a eventi di poco conto,
Mussolini in persona dedicasse molto del suo tempo a spedire personalmente al confino, oltre che oppositori e
dissidenti, anche malcapitati, poveracci e gente comune, se solo sfiorati dal sospetto di aver proferito frasi irriguardose
nei suoi confronti. Ogni mattina, almeno fino al 1935, il capo della polizia Bocchini sottoponeva a Mussolini tutti i casi,
avvenuti anche nel borgo più sperduto, di “offese al Duce” (barzellette, frasi dette in pubblico anche sotto gli effetti
dell’alcool, lamentele, ecc.); dopo veloce esame, era il Capo del governo in persona a decidere del destino del
malcapitato.
Si comincia ad intravedere qui l’idea di una carcerazione degli innocenti che è una delle caratteristiche principali
dell’universo concentrazionario novecentesco. Vale a dire che i regimi totalitari hanno la tendenza ad allargare
progressivamente l’area dei perseguitati, fino a non distinguere più fra oppositori e non, anzi facendo di tutta la società
una sorta di popolazione colonizzata e sottoposta all’autorità arbitraria di un governo nazionale che assomiglia ad una
forza di occupazione. Anche nelle norme emanate dal regime fascista, così attente al rispetto della tradizione giuridica
italiana e volte all’affermazione di una nuova e superiore legalità, vi era un germe totalitario che ne fece degli strumenti,
anche inconsapevole per chi li utilizzava, di persecuzione indiscriminata, lungo un piano inclinato che conduce
invariabilmente alla carcerazione o all’annichilimento di innocenti.
La “deportazione” di oppositori, dissidenti, disoccupati, sfruttati, ribelli, mugugnatori e malcapitati, fu organizzata in
modo da non suscitare soverchie attenzioni e allarme da parte dell’opinione pubblica interna e internazionale, secondo
una prassi spesso adottata dal regime e dai suoi apparati repressivi. La quantità di confinati politici non fu eccezionale,
ma il loro numero totale raggiunse comunque, nel corso del ventennio, quello di 12.330 persone. Ad essi vanno però
aggiunte le decine di migliaia di esuli antifascisti e gli effetti di repressione violenta del dissenso operata dallo
squadrismo nella prima metà degli anni Venti; la violenza squadristica aveva infatti prodotto non solo la eliminazione
fisica di un certo numero di oppositori ma anche la riduzione sensibile della possibilità stessa di esprimere il dissenso, a
causa del terrore seminato e della distruzione e soppressione di luoghi e mezzi di espressione.
Il controllo sui confinati nelle isole era affidato principalmente alla Milizia. Il corpo volontario forniva anche i giudici al
Tribunale speciale e svolgeva attività di polizia politica e di servizio d’informazioni; alla fine del 1927 era composto da
20.000 ufficiali e 257.000 militi. Nella sorveglianza dei confinati, la Milizia diede luogo a ripetuti episodi di
«vessazioni, spesso crudeli». A carabinieri e polizia era affidato il controllo dei confinati inviati nelle piccole e sperdute
località, spesso dell’Italia Meridionale, dove l’isolamento poteva essere totale, se si tiene conto dello stato della viabilità
dell’epoca e della differenza quasi antropologica fra la vita della borghesia colta metropolitana (da cui proveniva la
maggior parte dei dissidenti) e quella dell’Italia rurale e meridionale del ventennio.
Fra i provvedimenti di polizia, oltre al confino, vi era anche l’ammonizione, comminata da commissioni provinciali;
essa faceva divieto, per due anni, ai sospetti di lasciare il proprio luogo di residenza, di frequentare persone
politicamente sospette, di detenere armi, di frequentare riunioni pubbliche e di circolare di notte; c’era infine la diffida,
misura che precedeva l’ammonizione ed era comminata dalla questura all’interessato; con essa si impediva ogni forma
di attività politica. A carico degli espatriati era possibile avviare la procedura per la confisca dei beni e per la revoca
della cittadinanza.
Altra importante innovazione, con un’apposita legge del 25 novembre 1926, fu l’introduzione di un Tribunale speciale
per la difesa dello Stato con competenze esclusive nell’ambito dei reati politici, allo scopo «di creare una magistratura
parallela a quella ordinaria, più rapida e meno vincolata al rispetto [delle] garanzie». Il Tribunale speciale aveva inoltre
natura di magistratura militare con giurisdizione su civili in tempo di pace. I giudici appartenevano alla Milizia e il
relatore era un giudice militare; il tribunale applicava il codice penale militare di guerra: l’aberrazione giuridica che
condusse alla sua creazione non può essere meglio descritta. Per di più, nella relazione del Ministro Rocco che
accompagnava il disegno di legge si parlava apertamente di possibile retroattività della pena. Il Tribunale Speciale
giudicò, nei 17 anni della sua attività, 5.619 imputati (4.331 fra il 1926 e il 1940). La legge istitutiva del Tribunale
Speciale introdusse inoltre la pena di morte, che fu però utilizzata in modo selettivo e molto limitato. Ma occorre non
dimenticare che «Matteotti, Amendola, Rosselli non furono uccisi legalmente». È significativo che fra le nove condanne
a morte ben cinque siano state comminate a irredentisti slavi accusati di terrorismo. La questione dei confini orientali e
della presenza italiana nei Balcani diverrà, per l’apparato repressivo del regime, centrale negli anni della guerra.
Alcuni casi di persecuzione religiosa nei confronti di protestanti danno anche la prova della pratica di arresti immotivati
ed illegali; Giorgio Rochat cita, ad esempio, la vicenda del pastore battista Guglielmo Peruggia, arrestato a Milazzo
nell’ottobre del ’36 per aver distribuito dei vangeli a giovani del posto; il pastore fu recluso in totale isolamento e
scarcerato due mesi dopo, avendo il Tribunale speciale e il Ministero dell’Interno dichiarato il non luogo a procedere. A
Pescara, uno degli epicentri del proselitismo evangelico e quindi della “opposizione” religiosa al regime, su proposta
del prefetto quattro testimoni di Geova erano stati sottoposti nel maggio del ‘35 da Bocchini alla misura illegale di due
mesi di carcerazione preventiva. Commenta Rochat: «la carcerazione preventiva per un tempo preordinato (…) senza
intervento della magistratura, era illegittima anche per la legislazione fascista. (…) Fu tuttavia praticata in questi anni a
più riprese contro gli avversari più deboli, che non potevano protestare». Quattro fedeli pentecostali risultano incarcerati
a Pescara per più di un mese, nella primavera del ’40, su semplice ordine del prefetto.

La Direzione Generale di Pubblica Sicurezza

Il 23 settembre 1926 Arturo Bocchini fu nominato capo della Polizia ovvero direttore della Direzione Generale della
Pubblica Sicurezza del Ministero degli Interni (Bocchini mantenne la carica fino alla morte, avvenuta nel novembre del
1940). Venne avviata al contempo una ristrutturazione dell’apparato ministeriale e delle forze di polizia; venne inoltre
creato un complesso e articolato sistema di raccolta d’informazioni, di schedatura personale e di controllo della vita dei
cittadini.
La riorganizzazione dell’apparato di polizia del Ministero dell’Interno fu realizzata con un decreto legge del 9 gennaio
1927 (convertito in legge alla fine dell’anno); la Direzione Generale della Pubblica Sicurezza venne articolata in sette
Divisioni, affiancate da una Segreteria personale del Capo della polizia. Le Divisioni erano: Affari generali e riservati,
Polizia politica, Polizia, Personale di pubblica sicurezza, Polizia di frontiera e dei trasporti, Forze armate di polizia,
Gestione contratti e forniture. La riforma andava a modificare e rafforzare il riordino dell’amministrazione già attuato
all’indomani della guerra con un decreto dell’agosto 1919; adesso furono aggiunte la Segreteria del capo della polizia e
le Divisioni di Polizia politica, Polizia di frontiera e dei trasporti, Forze armate di polizia, Gestione contratti e forniture,
che non esistevano in precedenza. Anche il numero delle Sezioni, in cui a loro volta erano suddivise le Divisioni,
aumentò fino a raggiungere il numero di 17, 8 in più di quanto esse fossero nel 1920. A lato della riforma, si procedette
ad un’epurazione strisciante dei ranghi della polizia, che permise di escludere dal servizio tutti quei funzionari che
erano ostili alla svolta autoritaria e alle nuove funzioni di controllo e repressione politica che il regime intendeva
attribuire alla polizia.
L’intreccio fra attività di polizia e controllo politico divenne sostanziale nel funzionamento degli organi di polizia e
l’intera società fu avvolta in un sistema di controlli e di autorizzazioni che avevano il compito di sopprimere sul nascere
il dissenso e di controllare in modo capillare i cittadini. L’apparato poliziesco doveva cessare di essere un organo
ausiliario di altre strutture statali, ma diventare attraverso queste riforme un elemento centrale del regime, dotato di
autonomia e capacità d’azione, incaricato di sorvegliare e gestire la vita sociale e politica del Paese. Sono affermazioni
chiaramente contenute nel Testo Unico del 1926 e nelle istruzioni attuative subito dopo inviate dal ministro ai prefetti;
esse furono rafforzate e inserite in un quadro ideologico coerente dal discorso che Mussolini tenne alla Camera nel
maggio del 1927, in cui si attribuiva alla polizia il ruolo di promozione della civiltà e ci si inorgogliva dell’imponenza
delle forze di polizia italiane, stimate in circa 100.000 uomini (60.000 carabinieri, 15.000 agenti di polizia, 5.000 agenti
metropolitani e circa 20.000 agenti delle milizie ferroviarie, portuali, stradali, di confine, forestali e postali). Ormai ogni
struttura poliziesca, ogni attività d’indagine e di mantenimento dell’ordine pubblico, assumevano anche un carattere
politico e di controllo sociale, mentre «divenne pertanto requisito di buona condotta il non aver svolto opera contraria
all’ordine nazionale dello stato».
In questo contesto, la neonata Divisione di Polizia politica era un servizio fiduciario della Direzione generale della PS,
cioè un reparto spionistico e di raccolta di informazioni, ma non era strutturata per organizzare e svolgere l’azione
repressiva, demandata agli altri organi di polizia. A capo della Divisione fu chiamato Ernesto Gulì, un impiegato della
prefettura di Brescia che si ritrovò così a compiere un salto di carriera grazie a Bocchini (che era stato prefetto a Brescia
nel 1923) e al segretario del PNF, il bresciano Augusto Turati. Gli fu affiancato Michelangelo Di Stefano, un
funzionario esperto e uomo di fiducia di Bocchini. Di Stefano assumerà la direzione della Divisione di Polizia politica
nel 1929. Nel 1938 diverrà capo divisione Guido Leto. La divisione di Polizia politica aveva la possibilità di
comunicare direttamente con qualsiasi organo di polizia, centrale o periferico, mentre era l’unica ad essere in
collegamento diretto con i reparti operativi segreti (l’Ovra); secondo Mauro Canali, «i funzionari della PolPol erano
quindi il cervello dell’intero sistema investigativo e repressivo poliziesco». In ogni prefettura venne istituito un ufficio
provinciale della polizia politica diretto da un funzionario di pubblica sicurezza; collaborava con quest’ufficio un
analogo gruppo investigativo istituito presso i comandi di legione della Milizia. Venne creata anche una rete di
informatori, con l’ingaggio di circa trecento privati cittadini che avevano l’incarico di riferire sulle attività di singoli o
gruppi, sull’orientamento dell’opinione pubblica e su eventuali forme di dissenso. Ad ogni fiduciario fu assegnato dal
capo della polizia un numero e uno pseudonimo; esiste presso l’Archivio Centrale dello Stato un elenco di 530
confidenti della Divisione di polizia politica e un altro elenco di circa 1.200 informatori di questure e prefetture.
La riforma produsse anche un potenziamento della Divisione affari generali e riservati, che venne suddivisa in tre
Sezioni: la I per gli affari politici e le attività sovversive (di nuova istituzione), la II per l’ordine pubblico, la III per gli
stranieri. Dalla I sezione dipendevano anche il casellario politico centrale e l’ufficio del confino politico. Il lavoro del
casellario politico fu intenso e alla fine del 1927 esistevano già le schede di 100.000 oppositori; nei fascicoli personali
venivano indicate le caratteristiche fisiche e le tendenze psicologiche (intelligenza, cultura, emozionabilità, irritabilità,
tendenze morali, debolezze, ecc.) degli oppositori, le cui vicende personali venivano seguite e annotate regolarmente.
Gli ispettorati speciali di polizia furono un’invenzione di Bocchini al fine di dotare l’apparato di una struttura di polizia
politica operativa, autonoma e segreta; istituiti a partire dal 1927, essi assunsero la denominazione di Ovra nel dicembre
1930. Dato il loro carattere di polizia politica segreta e operativa, le attività di questi nuclei investigativi non sembrano
inquadrabili in precise regole burocratiche, per cui la documentazione dell’Ovra si può rintracciare anche nella
Divisione di polizia politica e nella segreteria personale del capo della polizia, strutture con le quali le zone Ovra si
rapportavano direttamente, mentre la Dagr doveva passare per la Polizia politica al fine di comunicare con l’Ovra.
La II sezione della Divisione affari generali e riservati, quella che si occupava dell’ordine pubblico, ebbe competenze
anche sui movimenti dei valori, sulle agitazioni operaie, sulla disoccupazione ed ebbe l’affidamento di uno schedario
dei parroci del regno introdotto nel 1929. La III sezione doveva compilare elenchi di stranieri sospetti, di sudditi
balcanici e il censimento dei sudditi jugoslavi; dal 1929 fu istituita l’anagrafe centrale degli stranieri e furono attivate
rilevazioni statistiche dei movimenti di stranieri e del numero dei residenti.
I Commissariati di polizia che facevano capo alla Divisione di polizia di frontiera e dei trasporti effettuavano i controlli
ai confini, sulle strade e sui treni; questa divisione fu molto attiva nella ricerca e cattura degli oppositori che
attraversavano i confini e un elenco di persone da arrestare o sorvegliare (la “Rubrica di Frontiera”) veniva
regolarmente aggiornato e inviato ai commissariati. Fu inoltre migliorato il “Bollettino delle ricerche”, pubblicato dalla
Divisione di polizia e contenente l’elenco dei ricercati sia per reati comuni sia per motivi politici, con notizie
segnaletiche a volte corredate dalle foto dei ricercati. Nel 1930 fu creata la polizia aerea per il controllo dei cieli,
soprattutto per impedire il sorvolo da parte di antifascisti emigrati all’estero, di solito effettuato con lo scopo di lanciare
dei manifestini sulle città italiane.
La Divisione di Polizia curava le funzioni di polizia giudiziaria, amministrativa e sociale; la Divisione personale di
Pubblica Sicurezza amministrava i dipendenti civili. Il Capo della Polizia esercitava il controllo e la vigilanza sugli
uffici periferici del Ministero attraverso gli ispettori generali di polizia.
Oltre ai fiduciari pagati e gestiti dalla Polizia politica e a quelli di questure e prefetture, l’Ovra sembra aver organizzato
una rete autonoma d’informatori, in una prima fase soprattutto di infiltrati presso le formazioni antifasciste esistenti in
Italia e all’estero. Nata, come si è detto, con la denominazione di Ispettorato speciale di polizia, il cui primo nucleo
iniziò ad agire nel 1927 a Milano sotto la direzione dell’ispettore generale Francesco Nudi, l’Ovra assunse questa
denominazione per volere di Mussolini alla fine del 1930; le testimonianze sul significato dell’acronimo sono imprecise
e sembra che il nome sia stato scelto perché sembrava poter creare un alone di mistero e di paura attorno alle attività
della polizia politica. E l’effetto fu raggiunto, perché nella società italiana di quegli anni la parola Ovra giunse ad essere
associata a «qualcosa di proteiforme e di terribile, interpretata come l’emblema di una struttura in grado di scoprire i
segreti più reconditi e di punire spietatamente i dissidenti». Dapprima rivolta contro le attività degli oppositori,
soprattutto del Partito comunista e di Giustizia e Libertà, che erano le due organizzazioni ancora attive in Italia, le
competenze dell’Ovra furono progressivamente allargate; a partire dalla metà degli anni ’30 l’Ovra si dedicò anche al
monitoraggio dell’opinione pubblica, al contrasto del contrabbando di valuta, al controllo dei pubblici funzionari e della
condotta dei gerarchi, alla sorveglianza delle minoranze religiose.
Questo ampliamento, oltre ad essere una naturale conseguenza del processo di strutturazione totalitaria della società
italiana conseguente alla svolta imperialistica del regime, fornisce ulteriori dettagli sulla connotazione specifica del
totalitarismo italiano. Già la scelta come capo della polizia di un uomo come Bocchini, che era espressione della
burocrazia di carriera e non del Partito e del movimento fascista, rappresentò un segnale preciso, che fu rafforzato dalle
riforme successive alla sua nomina; vale a dire che si garantiva alla polizia un’autonomia dal partito che doveva servire
a fare di essa uno strumento di governo efficace e professionale, il pilastro attorno al quale costruire lo stato totalitario.
L’aumento progressivo delle competenze e dell’autonomia dell’Ovra rafforzò questa tendenza. L’iscrizione
obbligatoria, dal 1932, di agenti e funzionari di polizia al Partito nazionale fascista non va vista come una corrosione
della struttura amministrativa da parte del partito, ma al contrario un segno della conclamata unità e identificazione fra
Stato e regime, come dimostra fra l’altro l’incompatibilità fra il servizio in polizia e l’appartenenza alla Milizia, sancito
esplicitamente nel 1936.
Lo spionaggio interno, esteso via via a tutta la società e alla vita privata dei cittadini, faceva parte integrante del sistema
fascista di governo attraverso la polizia. Il sistema d’informazioni messo in piedi dal regime si avvalse anche del
controllo delle conversazioni telefoniche, che esisteva già in epoca liberale, soprattutto per esigenze belliche, ma che fu
potenziato dal fascismo; era direttamente gestito dal Capo del governo tramite un servizio stenografico introdotto nel
1925, con ufficio centrale a Roma e uffici periferici istituiti nelle località scelte da Mussolini. Il controllo era così
pervasivo che Mussolini fece intercettare sistematicamente le sue conversazioni telefoniche, anche quelle con le sue
amanti. La censura postale fu utilizzata diffusamente, mettendo sotto controllo gli indirizzi di dissidenti e i plichi
provenienti dall’estero.
I portieri dei condomini, iscritti a speciali registri, avevano l’obbligo di controllare gli inquilini, mentre gli albergatori
dovevano segnalare l’identità e il luogo di destinazione dei loro clienti. Uno strumento di controllo e repressione del
dissenso fu anche l’uso spregiudicato di doppiogiochisti e agenti provocatori. La rete di spionaggio che il fascismo gettò
sulla società italiana aveva anche delle componenti più spontanee e non organizzate, di cui il regime si avvalse
ugualmente e che anzi fomentò. La delazione fu un fenomeno diffuso, anche se non fu un fatto solamente italiano, in
quanto essa ha rappresentato un tratto comune a tutti i regimi totalitari; recenti ricerche hanno, ad esempio, messo in
luce come il lavoro della Gestapo sia stato fortemente agevolato dalla diffusa tendenza alla delazione manifestata dai
tedeschi sotto il nazismo. La delazione si manifestò in maniera massiccia anche nei Paesi occupati dalle armate di stati
totalitari: emblematico il caso della Francia, dove si calcola che siano state spedite durante l’occupazione tedesca dai 3
ai 5 milioni di lettere di delazione.

TAV.1
MINISTERO DELL’INTERNO

DIREZIONE GENERALE DI PUBBLICA SICUREZZA

DIVISIONI SEGRETERIA PERSONALE


del CAPO DELLA POLIZIA

AFFARI POLIZIA POLIZIA PERS. FORZE POLIZIA di GESTIONE


GENERALI POLITICA di P.S. ARMATE FRONTIERA CONTRATTI e
e RISERVATI di POLIZIA e TRASPORTI FORNITURE

SEZIONI della Divisone AGR: vedi tav.2

CAPO DELLA POLIZIA: Arturo Bocchini (13.9.26 - 20.11.1940)


(Direttore Generale) Carmine Senise (1.12.1940 – 14.4.1943)
Renzo Chierici (14.4.1943-25.7.1943)
Carmine Senise (25.7.1943 – 23.9.1943)
Giuseppe Solimana (15.4.1944 - 1.8.1944)
Luigi Ferrari (dal 1.8.1944 – 12.9.1948)
CAPO DELLA POLIZIA della RSI: Tullio Tamburini (1.10.1943 -25.4.1945)

Compiti delle Divisioni:


Affari Generali e Riservati: vedi tav. 2
Polizia Politica: raccolta di informazioni per la DGPS
Polizia: gestione delle attività di polizia giudiziaria amministrativa e sociale
Personale di Pubblica Sicurezza: gestione del personale civile della DGPS
Polizia di frontiera e dei trasporti: controlli ai confini, sulle strade e sui treni
Forze armate di polizia: servizi tecnici speciali e non istituzionali (non più del 10% dell’organico)
Gestione contratti e forniture: gestione apparecchiature elettriche e macchinari

Fonti: - P. Carucci, L'organizzazione dei servizi di polizia, cit.


-Studi per la Storia dell’amministrazione pubblica italiana. Il Ministero dell’Interno
e i Prefetti, Pubblicazioni della Scuola Superiore dell’Amministrazione
dell’Interno, Roma 1998.

TAV. 2

SEZIONI della
DIVISIONE AGR
(Affari Generali e Riservati)

I – AFFARI POLITICI II –ORDINE III – STRANIERI


e ATTIVITA’ PUBBLICO
SOVVERSIVE

Compiti delle Sezioni:

I Sezione: Movimento sovversivo


Stampa e associazioni sovversive
Movimento allogeno
- da essa dipendevano: Casellario politico centrale
(con archivio proprio) Ufficio confino politico
Polizia segreta - Ovra
II Sezione: Ordine pubblico
Competizioni politiche
Movimento dei valori
Disoccupazione
Cerimonie
Agitazioni popolari
Agitazioni operaie
Scioperi e serrate
Schedario dei parroci

III Sezione: Anagrafe centrale degli stranieri


Statistiche di stato e di movimento degli stranieri
Lista degli stranieri sospetti
Censimento dei sudditi balcanici e jugoslavi
Altre competenze della Divisione AGR:

Censura cinematografica, relazioni settimanali sugli spostamenti degli oppositori, informazioni sugli ufficiali in
congedo, schedario della stampa estera, statistiche relative al movimento sovversivo, controllo sulle associazioni e sulle
chiese.

Fonti: - P. Carucci, L'organizzazione dei servizi di polizia, cit.


- Studi per la Storia dell’amministrazione pubblica italiana. Il Ministero
dell’Interno e i Prefetti, cit.

Burocrazia e regime

Repressione del dissenso e discriminazione razziale vanno posti in continuità storica; entrambe, nelle forme in cui sono
state realizzate, hanno provocato una lacerazione nella struttura statale. Questo appare solo parzialmente nella celebre
classificazione di De Felice, per il quale quello fascista fu uno «Stato autoritario in cui convissero alcune garanzie dello
Stato di diritto, alcuni aspetti dello Stato di polizia e (…) l’iniziativa paternalistico-demagogica del “duce”». È indubbio
che nel problematico e lungo esperimento totalitario condotto dal fascismo siano sopravvissuti ampi aspetti di garanzia
e di legalità; ma ciò non basterebbe a definire la Stato fascista un “semplice” Stato autoritario. Fu lo stesso Mussolini a
volere, nel 1925, una legge di epurazione della burocrazia e a sostenere, nel corso del relativo dibattito parlamentare:

È urgente procedere a questa epurazione (…) perché non siamo un ministero e non siamo nemmeno un Governo. (…) E
(…) voglio aggiungere che nella concezione fascista la burocrazia è un esercito. Non dico che tutti i burocrati abbiano
la mia febbre, perché forse non la sopporterebbero; ma esigo ed è necessario che tutti, dal primo all’ultimo, non
facciano del sabotaggio ai ruotismi della burocrazia.

Che poi, pragmaticamente, Mussolini abbia dato tutto il tempo alla burocrazia per fascistizzarsi, questo è tipico della
sua intelligenza politica, almeno prima che il velocizzarsi frenetico del corso politico mondiale, voluto da Hitler, non le
procurasse un affanno fatale. Può darsi che questo pragmatismo abbia indotto molti funzionari a trincerarsi,
sinceramente o meno, dietro il paravento di un autoritarismo legittimato dalle condizioni storiche. Ma si tratta
evidentemente di un’autoassoluzione che, se può aver parzialmente funzionato per la repressione del dissenso politico,
non ha alcun valore nel caso del razzismo di Stato. In effetti, soprattutto il razzismo appare a noi oggi uno spartiacque,
poiché gli uomini che agivano per conto dello Stato non potevano non accorgersi del grande tradimento che lo Stato
stava compiendo con le leggi razziali. Qui non era possibile nascondersi dietro la giustificazione di uno Stato autoritario
di diritto e tutte le finzioni cadevano. Era evidente che dopo le leggi antiebraiche non si sarebbe più potuto invocare la
fedeltà allo Stato per giustificare la propria collaborazione alla discriminazione razziale.
In ogni caso, lo studio della documentazione sembra a tratti accreditare l’impressione che l’apparato del Ministero
dell’Interno fosse, più del partito e di ogni altra struttura del regime, il vero strumento di azione politica del fascismo.
Se si guarda ai prefetti, trentasette di essi, che erano stati nominati nel periodo fascista su base politica e al di fuori dei
ruoli dell’amministrazione, erano in sede il 25 luglio ‘43. Il numero non è piccolo, anche se Aquarone non lo giudica
sufficiente per produrre uno stravolgimento completo di questa nevralgica figura amministrativa; e, assieme a dati
analoghi rintracciabili in altri rami della pubblica amministrazione, ne deduce una sostanziale impermeabilità della
burocrazia statale rispetto al regime e all’ideologia fascista; un giudizio riduttivo, che Pavone corregge, facendo notare
la presenza, tra il corpo dei prefetti, di altri prefetti di carriera che erano stati anche membri del Partito e ponendo la
questione della «particolare benevolenza accordata dal fascismo ai prefetti». Un rapporto speciale che dovrebbe
orientare la ricerca storica e far rivedere il giudizio che, in accordo con Aquarone, anche De Felice ha dato sulla
fascistizzazione della burocrazia, da lui giudicata superficiale e solo esteriore, «in gran parte di parata». Pur con le
dovute distinzioni e limitazioni, la documentazione attesta invece che pezzi interi del Ministero dell’Interno apparvero
essere in linea con gli obiettivi totalitari del regime: Demorazza in primo luogo, diversi prefetti e questori, una parte del
personale tecnico e amministrativo, la Direzione Generale di P.S., quest’ultima parzialmente ed entro i limiti del
moderatismo tecnico di cui abbiamo delineato i caratteri.
Da questi “pezzi” dell’amministrazione fu svolto un ruolo ideologico importante dentro al Ministero dell’Interno; non
solo per la natura, da sempre, eminentemente “politica” di questo ministero né soltanto per la sua naturale funzione
primaria di strumento repressivo e di controllo della società; ci fu qualcosa di più: nella documentazione, dietro la
cortina di un linguaggio burocratico e standardizzato, freddo e apparentemente inconsapevole, fa spesso capolino
un’intima adesione della struttura ministeriale e dei suoi uomini a progetti politici e strategie di governo che non si
limitassero al mantenimento dell’ordine costituito, ma che imponevano nuove forme di convivenza fra gli uomini e di
relazione fra i “sudditi” e lo Stato. Non solo prevenzione e repressione, quindi, ma discriminazione, razzismo,
totalitarismo.
Un discorso che vale, seppure in forme meno accentuate, anche per la polizia, che in effetti il regime affidò
esclusivamente al personale tecnico, non per questo non coinvolto nelle strategie politiche più vaste del regime. È infatti
innegabile che, dentro il Ministero dell’Interno, la polizia rimase un corpo non toccato da infiltrazioni partitiche; anzi, la
reale conduzione delle attività di polizia fu tutta interna al personale specializzato, con poche capacità di influenza
anche da parte del personale prefettizio e amministrativo. In merito alla direzione effettiva delle forze di polizia in
epoca fascista, Giovanna Tosatti ha perciò scritto che, «sul ruolo predominante attribuito ai direttori generali e ai
prefetti è lecito esprimere molti dubbi. Infatti, se soltanto si pensa a quanto fosse breve in genere la permanenza dei
prefetti nelle province e quella dei direttori generali nella carica, era abbastanza ovvio che ne derivasse un rilievo
obiettivo del ruolo del personale tecnico».
La polizia gestì direttamente, in particolare, le attività dell’Ovra e la Divisione di polizia politica, tanto che si può
affermare che «il momento d’oro di ispettori e questori coincise (…) con il periodo fascista. (…) E (…) proprio il
periodo del fascismo al potere sembra essere stato l’unico in cui la polizia abbia goduto di una vera autonomia e di un
reale potere decisionale». Resta il fatto che, seppur autonoma e professionale, la polizia dell’età del fascismo assicurò al
regime una salda presa sulla società e le condizioni per la progettazione e l’esercizio di un programma totalitario.
Un esule, Guido Ludovico Luzzatto, espresse nel 1939 un’insuperata analisi del sistema messo in piedi dal capo della
polizia:

Bocchini (…), un ministro di polizia che non si cura di sapere perché e per chi egli dirige con tecnica perfetta lo
strumento formidabile di asservimento. (…) La crudeltà inutile è stata abolita. Sistemi – nel loro genere – corretti,
freddamente meditati, hanno sostituito gli scatenamenti della brutalità selvaggia impunita. I poliziotti, anche quelli
dell’Ovra, sono ridivenuti strumenti disciplinati e precisi dei superiori, senza passione e senza velleità di sfoghi
personali. (…) Contro la malvagità vendicativa del despota, il capo della polizia è riuscito a creare così il sistema
oppressivo e stritolatore magistrale, capace di durare, capace di stritolare l’opposizione senza accrescerla attraverso il
prestigio del martirio. Per la causa dell’antifascismo nulla è più terribile e nefasto.

Per avere un quadro completo, occorre anche tenere conto che in diverse occasioni Bocchini diede prova di
moderazione non solo tecnica, ma anche politica, contribuendo così a ridurre gli effetti degli abusi prodotti dal regime.
Ad esempio, quando nell’estate del ’40 lasciò cadere nel nulla l’invio da parte di Heydrich, capo della Gestapo, del
regolamento tedesco per i campi di concentramento. La richiesta d’invio del regolamento era comunque partita dal
Ministero dell’Interno, forse all’insaputa di Bocchini. Oppure quando contrastò l’ala più ideologica del partito,
opponendosi fortemente a Starace e causandone la caduta. Secondo De Felice, anzi, Bocchini «era e rimase sempre un
uomo del vecchio regime che, se non faceva il doppio gioco, si muoveva però in una logica che non era certo quella
totalitaria». Dunque, in quanto derivazione della tradizione autoritaria crispina, la polizia finì per collocarsi
complessivamente a metà strada fra il conservatorismo legalitario borghese e i miti dell’ideologia fascista.

270
2
RAZZISMO E FASCISMO

A lungo si è equivocato sul razzismo mussoliniano, relegandolo al ruolo di maldestra imitazione del nazismo, priva di
fondamenti ideologici, di consenso sociale e soprattutto della ferocia assoluta manifestatasi in Germania. Anche il
principale contributo storiografico sulla politica del fascismo verso gli ebrei è sostanzialmente favorevole a questa
interpretazione; si tratta della celebre opera di Renzo De Felice, la cui prima edizione fu del 1961 e segnò l’inizio della
storiografia scientifica in questo campo, avendo potuto De Felice consultare una vasta gamma di documenti, molti dei
quali non disponibili in precedenza. Nell’introduzione all’ultima edizione del suo lavoro, De Felice apre con
un’affermazione chiara e distinta: «Tra i paesi europei l’Italia è uno di quelli che meno ha conosciuto il razzismo»; egli
aggiunge poco più avanti: «quanto al fascismo, esso come non fu razzista non fu nemmeno antisemita, né quando sorse
né per numerosi anni (…) e, anche quando Mussolini lo volle tale, l’adesione, anche se spesso rumorosa, della
maggioranza dei fascisti alla sua svolta fu soprattutto dettata da conformismo e opportunismo». Della stessa opinione
era stato anche Antonio Spinosa, il primo a pubblicare una ricerca sulle leggi razziali, all’inizio degli anni ’50. C’è chi,
invece, preferisce mettere l’accento sull’improvvisazione del razzismo fascista e sul suo sostanziale dilettantismo
tracotante. La conversione tardiva di Mussolini al razzismo sarebbe stata provocata, secondo De Felice, da una serie di
concause fra cui prevalgono le motivazioni di politica estera: «la decisione di Mussolini di introdurre anche in Italia
l’antisemitismo di Stato fu determinata essenzialmente dalla convinzione che per rendere credibile l’Asse fosse
necessario eliminare il più stridente contrasto nella politica dei due regimi». Mussolini, continua De Felice, ammantò
questa scelta con una sensibilità “razzista”, ma di tipo “spirituale”, sulla scorta delle dottrine del filosofo Julius Evola e
dunque non aderendo alla versione biologista del razzismo tipica di Hitler e dei nazisti. Dopo aver avanzato queste note
critiche, De Felice è però impietoso sul giudizio morale che deve imputarsi all’antisemitismo fascista: «imboccata la via
dell’alleanza con la Germania nazista e della guerra il fascismo la percorse così tutta, di degradazione in degradazione,
di crimine in crimine».

“Francamente razzisti”

In realtà, Mussolini e il regime fascista furono «francamente razzisti», come si legge nel Manifesto degli scienziati,
pubblicato nel luglio 1938 per volontà di Mussolini al fine di dare una giustificazione preventiva e pseudoscientifica
della legislazione razziale che sarebbe stata varata di lì a qualche mese. Per cui, al di qua del giudizio morale e delle
evidenti degenerazioni progressive della politica razziale fascista, la questione di fondo è quella del legame ideologico
fra fascismo e razzismo. Ora, come ha notato Giuseppe Gaudenzi, la distinzione o contrapposizione fra razzismo
spirituale e biologico è assai debole: i nazisti ritenevano la razza un fatto anche spirituale, mentre il loro giudizio su
Evola era certamente positivo; d’altra parte non mancò un versante biologico del razzismo italiano, se si tiene conto del
manifesto degli scienziati fascisti e delle posizioni espresse dalla rivista ufficiale Difesa della Razza. Razzismo
spirituale e razzismo biologico rischiano dunque di essere delle nozioni artificiose se non sono considerate per ciò che
effettivamente rappresentano: due varianti di un unico tronco ideologico. D’altra parte, i sostenitori del razzismo
“spirituale” non furono, sul piano teorico e su quello dei comportamenti politici, meno antisemiti degli altri: Evola era
sostenitore di un acceso antisemitismo fondato su una visione mitica ed esoterica del mondo, all’interno della quale
l’arianesimo era costituzionalmente estraneo e opposto al “semitismo”; ad Evola fu molto vicino Giuseppe Preziosi,
vale a dire il peggior antisemita fra i fascisti italiani, stretto collaboratore della Gestapo negli anni dell’occupazione
tedesca. Ed Evola, al pari di Preziosi, era favorevole ad un’impostazione “tedesca” del problema ebraico, non limitata
alla discriminazione ma votata alla persecuzione degli ebrei e dei “meticci”.

Il razzismo italiano

L’ideologia razzista si saldava alla politica espansionistica del fascismo e, anche se i primordi del razzismo italiano non
furono marcatamente antiebraici, non si può certo affermare che le leggi razziali e antiebraiche del 1938 fossero
completamente avulse dal contesto storico e culturale italiano. La politica razziale del fascismo non fu un’assoluta
novità per il regime o per l’Italia; fin dalla seconda metà dell’Ottocento erano presenti, anche da noi, teorie
antropologiche di stampo razzista che si consolidarono in epoca fascista. Esisteva un razzismo italiano, accademico e
non; come scrive Enzo Collotti, «questi sedimenti culturali circolarono con tenace continuità e con le motivazioni e le
provenienze più diverse (…) in settori qualificati della cultura italiana». Il razzismo del fascismo s’inserisce pertanto in
un movimento di lunga durata, che affonda le sue radici in dottrine di fine Ottocento, quando il primo contatto
colonialistico fece sorgere anche in Italia l’idea di differenze e superiorità razziali fra bianchi e neri; un contatto che
provocò lo sviluppo dei germi del razzismo soprattutto grazie a tendenze endogene ben radicate nella cultura e nella
società italiana, implicitamente disponibili a queste conseguenze: «lo scientismo positivistico, la soggezione al potere
politico e il servilismo nei suoi confronti, (…) le avventure coloniali erano stati tutti elementi che avevano contribuito,
in modo più o meno diretto e in maniera più o meno profonda, a far nascere e crescere una cultura razzista anche in
Italia».
Occorre aggiungere che un altro importante contributo al formarsi di un senso comune razziale va fatto risalire agli
effetti dell’unificazione nazionale che, mettendo a confronto popolazioni vissute per secoli in contesti assai diversi e
favorendo così una latente ostilità fra Nord e Sud della penisola, stimolò forme di interpretazione dei comportamenti
umani nei termini di degenerazioni ereditarie, criminosità costituzionale, animalità di classi e gruppi di popolazione. Fu
soprattutto la repressione del cosiddetto brigantaggio (vale a dire l’insorgenza antipiemontese che divampò nel Sud tra
il 1861 e il 1866) a determinare la nascita e la diffusione del pregiudizio razziale antimeridionale; un pregiudizio che
non rimase puro fatto psicologico o invettiva triviale, ma a cui molti scienziati dell’epoca tentarono di fornire veste
scientifica e base empirica. Non a caso Lombroso, il principale rappresentante del positivismo razzista italiano,
partecipò come ufficiale medico alla repressione dell’insorgenza in Calabria, esperienza da cui trasse la convinzione di
una tara razziale dei meridionali, evidenziata dal “cranio dolicocefalo”, che li avrebbe resi disponibili a delinquere.
Alfredo Niceforo, seguace di Lombroso, riprese e approfondì i metodi e le conclusioni del suo maestro, giungendo alla
conclusione dell’esistenza in Italia di due razze nettamente distinte, l’una meridionale, latina, inferiore e criminogena
(«la razza maledetta»), l’altra settentrionale, germanica e superiore. E già negli anni ’70 Costantino Nigra, piemontese,
collaboratore di Cavour e filologo, aveva parlato di sostrati etnici diversi in Italia e dell’esistenza di due razze,
evidentemente in connessione con i problemi iniziali della unificazione nazionale. Quando questi problemi si
incancrenirono e una frattura fra le “due” Italie sembrava non ricomponibile, le antropologie positivistiche di
Lombroso, Niceforo e altri, negli anni Novanta, «imboccavano la “scorciatoia” dell’interpretazione razziale (…) e
dell’inferiorità del Mezzogiorno». Nacque quello che, efficacemente, Colajanni ebbe a definire il «romanzo
antropologico» delle scienze sociali positivistiche, che trasformavano in differenza razziale, rendendoli caricaturali e
irrigidendoli, quelli che erano, in realtà, stereotipi antichi sulle diverse regioni e province meridionali. A dispetto del
loro carattere “romanzesco” e - aggiunge sempre Colajanni, -“metafisico” più che positivo, le bizzarre teorie del
razzismo antimeridionale si diffusero, attecchirono in molti ambienti, si rafforzarono a contatto con gli altri razzismi
dell’epoca; tanto che Ettore Ciccotti, storico e meridionalista, deputato socialista e poi senatore del Regno dal 1924,
ebbe modo di definire nel 1898 il razzismo antimeridionale come «una specie di antisemitismo italiano».
L’antimeridionalismo si espande in “degenerazionismo” con Giuseppe Sergi, docente di antropologia a Roma e fra i
“padri” fondatori dell’antropologia italiana. Sergi era anch’egli un cultore della craniometria, credeva nell’inferiorità
razziale dei meridionali e si fece diffusore in Italia del mito ariano. Con il testo Le degenerazioni umane del 1889, la sua
analisi delle “degenerazioni” non rimaneva legata soltanto all’analisi delle popolazioni meridionali, ma veniva
generalizzata a tutti gli individui che si allontanassero dalla “normalità”. I degenerati di Sergi erano i pazzi, i suicidi, i
criminali, i devianti in genere, compresi mendicanti, prostitute e vagabondi. A suo giudizio alcune di queste
degenerazioni erano legate all’ereditarietà e occorreva quindi impedire che i degenerati si riproducessero.
L’adesione di molti esponenti della comunità scientifica all’ideologia antimeridionale e la loro inclinazione a
descriverla in termini di condizionamento biologico sono l’indizio dell’esistenza di una struttura epistemica basilare. Ad
un primo sguardo essa appare sotto le forme di quello che potrebbe essere definito un elitismo tardopositivista, cioè un
positivismo ormai sfrondato dai miti progressivi e pedagogici delle sue origini, derivanti a loro volta da quei
condizionamenti illuministici che operarono sul positivismo europeo ottocentesco; dunque un positivismo che abbraccia
le masse umane in sistemi unitari, da osservare e sezionare come sul tavolo anatomico e da un punto di vista superiore,
senza alcun condizionamento etico, vale a dire senza le «alcinesche seduzioni della dea Giustizia e della dea Umanità»,
come ebbe a definire persino Croce gli ideali umanitari e progressisti delle generazioni precedenti. E le basi etiche
dell’immaginario scientifico non vanno sottovalutate, poiché, se la tendenza a sistemazioni e generalizzazioni indebite
era già tipica del primo positivismo, quasi tutti i classici del positivismo declinarono le loro “leggi storiche” in senso
progressivo e liberatorio, proprio perché condizionati da paradigmi etici e da un umanesimo etico-politico. Pur
trattandosi di un discorso che abbraccia (come abbiamo già visto) l’intera cultura occidentale, ogni paese lo declinò poi
a suo modo, a partire dalle specifiche vicende storiche e dai connessi condizionamenti politico-sociali. Nel caso
italiano, i conflitti legati alla costruzione dello stato unitario e l’antimeridionalismo che tali conflitti produsse furono la
base per la costruzione del paradigma élitista e razziale, che poi si manifesterà, in un crescendo, durante l’epoca
fascista, nelle forme specifiche dapprima di ricerca della “potenza del numero”, poi di “bonifica” generale, infine di
“difesa della razza”. L’esistenza e la diffusione di questo paradigma spiegano anche perché la scienza italiana di epoca
fascista non si sia limitata, per opportunismo o forzatamente, ad appoggiare i programmi politici del fascismo, ma
condividesse molti degli assunti dell’ideologia fascista, contribuendo anzi a spingerla verso concezioni del
nazionalismo più riduzionistiche, cioè biologiche e razziali.

Scienziati e razzismo

Come hanno scritto Giorgio Israel e Pietro Nastasi, il più alto consenso al razzismo fascista ci fu, «oltre che, com’è
ovvio, negli ambienti più oltranzisti del partito fascista e negli apparati dello stato più fedeli al regime, fra gli
intellettuali e i docenti universitari». In particolar modo, a loro giudizio, l’eugenetica e la demografia fecero da
battistrada nei confronti delle teorizzazioni razziste del fascismo e prepararono il terreno a questa vasta adesione
universitaria al regime razziale imposto nel ’38. Ma i prodromi del razzismo fascista sono anche più ampi e
coinvolgono, in effetti, molte discipline. Sul versante dei rapporti di lunga durata fra scienza italiana e fascismo,
Roberto Maiocchi ha condotto uno studio approfondito nel quale si dimostra con ampiezza di documentazione che pezzi
importanti della comunità scientifica italiana produssero, autonomamente e in epoca prefascista, forme di ideologia
razzista su base “scientifica”, che poi furono via via coordinate, modificate se necessario, con le decisioni politiche e
strategiche del regime.
L’eugenetica, trovando adesione in molti ambiti disciplinari, mosse i primi passi in Italia agli inizi del Novecento ed
ebbe vasta diffusione soprattutto negli anni del primo dopoguerra. È vero che da noi si diffuse il paradigma della
“eugenica negativa” o “eugenica latina” (in contrapposizione all’estremismo dei “nordici”), vale a dire una strategia che
faceva affidamento al miglioramento igienico e ambientale più che a interventi di sterilizzazione e di selezione degli
individui “tarati”; è quanto sostennero ad esempio Sergi, l’economista e sociologo Achille Loria, il neurologo Ettore
Levi e, in un’opera sull’eutanasia del 1923, lo psichiatra Enrico Morselli, ordinario di psichiatra a Genova. Non
mancarono posizioni selezioniste, come quella del lombrosiano Angelo Zuccarelli, docente di antropologia criminale a
Napoli e sostenitore della sterilizzazione dei “degenerati”. Lo stesso Morselli, fra gli esponenti principali della comunità
scientifica italiana fin de siècle, che aveva coniato l’espressione “eugenica latina”, sosteneva quale scontato corollario
dell’eugenetica l’esistenza di differenze razziali fra gli esseri umani, la superiorità delle razze bianche o
«leucodermiche» e la necessità di una politica di separazione razziale per impedire incroci degenerativi. Il concetto di
superiorità razziale era condiviso anche da Ettore Levi.
Regime fascista ed eugenetica flirtarono fin dall’inizio, con articoli dedicati al «miglioramento della razza» comparsi
sulla rivista mussoliniana “Gerarchia” e con inviti al nuovo governo da parte degli scienziati a dare corpo ad una
politica di difesa della sanità pubblica. Esempio importante di questa cooperazione fu la creazione nell’ONMI (Opera
nazionale per la maternità e l’infanzia) che fu diretta derivazione e trasformazione dell’Istituto di eugenetica fondato da
Ettore Levi nel 1922. Il fascismo non si limitò a far suo il patrimonio di riflessioni dell’eugenetica italiana, ma impose a
sua volta un indirizzo popolazionistico che le era estraneo, poiché la cultura eugenetica internazionale e italiana era
maggiormente propensa allo strumento del controllo delle nascite e quindi al miglioramento “qualitativo”, più che
quantitativo, della popolazione. Con il famoso discorso dell’Ascensione del maggio 1927 Mussolini impose
definitivamente il dogma del numero inteso come forza e quindi il divieto di politiche di controllo delle nascite. Nicola
Pende fu colui che seppe operare, attraverso la nozione di “costituzione” fisica, la sintesi fra eugenetica “negativa” e
popolazionismo.
Pende, noto endocrinologo accademico, teorico della “biotipologia” cioè di una dottrina classificatoria degli organismi
umani e del loro corretto sviluppo, sarà nominato nel 1934 senatore del Regno e risulterà il più autorevole dei firmatari
del Manifesto degli scienziati razzisti. Egli aveva fondato nel 1925 un Istituto biotipologico e ortogenetico, i cui studi
erano fondati su una cartella che avrebbe dovuto accompagnare la vita degli individui registrandone le caratteristiche
originarie ed i loro sviluppi (negli anni ’30 essa fu adottata dall’Opera nazionale Balilla). Negli anni successivi Pende
diede una versione biopolitica e bioetnica della sua teoria, volta a dimostrare l’esistenza di una stirpe “latina” (italiana).
Contro il razzismo nazista egli contesta che esistano razze pure ed afferma che ogni popolo è il risultato di fusioni fra
diverse razze; in particolare, la stirpe italiana è il frutto della fusione di diverse stirpi regionali e di diverse razze, anche
se prevale l’antichissimo fondo razziale mediterraneo italico. Questa fusione e varietà è la ragione delle qualità
biologiche, speciali e privilegiate, dell’italianità; esse vanno preservate e potenziate con un’opera di «bonifica» della
razza. Pur preferendo Pende il termine stirpe a quello più compromettente di razza, la chiara base naturalistica della sua
disquisizione, assieme ad altri elementi caratteristici del discorso razziale (come la demarcazione, l’esistenza di gruppi
privilegiati, ecc.) ne conferma il carattere razzistico sui generis. Si trattava di una posizione condivisa e diffusa negli
ambienti medici degli anni Venti e Trenta. Il bilancio che secondo Maiocchi si può trarre dai resoconti di questi dibattiti
è che «nella cultura medica era ben presente una variante del razzismo tutta italiana». E quasi tutti i “razzisti” nostrani,
sia quelli di formazione biologica o medica sia quelli provenienti da discipline sociali, furono costretti ad operare i
contorsionismi concettuali che abbiamo visto all’opera nei discorsi di Pende; acrobazie verbali il cui unico scopo era
quello di difendere l’italianità, fenotipicamente così variegata e così poco nordica, senza rinunciare all’idea razziale. Un
razzismo che fosse anche capace di sostenere un primato italico e, a differenza della brutalità nazista e nordica, una
certa moderazione non del tutto esclusivista che desse a tale primato una forza espansiva di fronte ad altri popoli,
rispetto ai quali esercitare l’attrattiva che, si riteneva, i popoli forti e civilizzati hanno “sempre” esercitato sui popoli
circostanti. Qualcosa di simile al compelle entrare di epoca romana, ma elaborato e proposto in un contesto razziale,
dunque sullo sfondo di un chiaro, incontrovertibile e naturale sistema di relazioni tra etnie.
Il popolazionismo che fu “imposto” al razzismo medico derivava dal fatto che il fascismo era innervato da una linea
ideologica che risaliva al nazionalismo politico di primo Novecento, il quale a più riprese si era dichiarato contrario
all’emigrazione degli italiani e si era battuto per fare dell’Italia una potenza «demografica» in cui l’eccesso di
popolazione fosse la premessa di una spinta espansionistica. Le scienze sociali, la demografia e la statistica in particolar
modo, diedero a queste dottrine un contributo non di poco conto. Corrado Gini, il primo presidente dell’ISTAT e
fondatore della statistica universitaria italiana, nazionalista, tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali del fascismo
del ’25 ed influente collaboratore del duce, aveva elaborato già nell’anteguerra teorie popolazioniste basate sul primato
del numero e dei popoli “giovani” su quelli in via d’invecchiamento. La capacità riproduttiva era appunto uno dei
segnali principali della dominanza di un popolo e della giovinezza del suo «plasma germinale»: è la giniana “teoria
ciclica delle nazioni”. Su queste basi, Gini parlava apertamente di gerarchie fra popoli e razze, ritenendo inevitabile
l’imperialismo di popoli giovani e in evoluzione, come il popolo italiano. Ed è la guerra ad essere il regolatore supremo
del contrasto demografico ed economico tra le nazioni. Mentre «la colonizzazione deve in realtà concepirsi come una
parte del meccanismo naturale di regolazione, con cui la natura provvede a trasmettere la civiltà». Lungi dall’essere solo
elucubrazioni ideologiche frutto di bassi istinti di conquista di un’oligarchia senza scrupoli, come in effetti fu quella
fascista, l’imperialismo e il razzismo furono, come si vede, anche il prodotto di concettualizzazioni elaborate da
raffinati scienziati, di fama internazionale, come indubbiamente fu Gini. E ciò diversamente da quanto lascia intendere
la diffusa vulgata che afferma l’estraneità italiana al razzismo, la quale libera così da responsabilità pesanti pezzi
importanti dell’intellettualità e della società italiane. Un razzismo che non aveva le rozzezze degli ideologi più crudi,
che si presentava in termini di rilevazione empirica di tendenze oggettive di natura biologica e sociologica, ma proprio
per questo, afferma un biografo di Gini, «per molti aspetti più sottile e subdolo». Scrive perciò Maiocchi: «la scienza
demologica italiana forgiò i pilastri culturali del principio “il numero è potenza”, con tutti i suoi corollari di ordine
legislativo, politico, sanitario, culturale e militare. (…) Tutta la retorica fascista sui “destini imperiali” della “stirpe
italica” (…) trovò nell’opera di Gini un punto di appoggio apparentemente saldo». E Gini non fu l’unico demografo a
sostenere tali dottrine né si deve pensare a dottrine che si limitassero ad avere una mera valenza ideologica, buona per
dichiarazioni d’intenti o per mire carrieristiche: si trattava di un vero e proprio programma scientifico; come scrive
Maiocchi, «il progetto nativista fu molto più di un tema propagandistico, esso fu il perno dei maggiori programmi di
ricerca dei nostri scienziati sociali». I quali intendevano esercitare, su base scientifica, un influsso sull’azione dei
governi, riprendendo e ampliando il sogno positivistico di un ordine scientifico del mondo; lo statuto epistemologico di
tali teorie appare oggi del tutto destituito di fondamento, avendo esse più la natura di dottrine o di ideologie
«organicistico-decadentiste», condite da un vitalismo demografico.
Anche il successore di Gini, Franco Savorgnan, ordinario di statistica e presidente dell’ISTAT dal 1932 al 1943, già sul
finire del primo conflitto mondiale si dichiarava preoccupato per la salute della più evoluta delle razze umane, cioè la
razza bianca; nei suoi studi statistici e sociologici utilizzò liberamente la nozione di razza e nel primo dopoguerra aderì
anche lui alle teorie popolazioniste; nel 1938 lo troviamo fra i firmatari del Manifesto degli scienziati razzisti.
Nell’ambito degli scienziati cattolici, una figura di rilievo fu quella di Marcello Boldrini, autorevole docente
all’Università Cattolica. Statistico, demografo e cultore di fisiognomica, egli si occupò a lungo di indagini statistiche
applicate alla biologia e alla genetica. Bisogna considerare che il cattolicesimo e il magistero della Chiesa erano state
componenti importanti fra quelle che avevano spinto molti scienziati a dichiararsi contrari alle dottrine “nordiche” e
“protestanti” e ad operare la scelta per un’eugenetica diversa, “latina”, oppure a sostenere convintamente il
popolazionismo fascista e l’espansione demografica. Anche al di là delle pressioni politiche esercitate dal regime e
dell’intima adesione dei ricercatori ad una tradizione “latina” e cattolica, un’ulteriore spinta in tal senso venne dal
Concordato e dall’enciclica di Pio XI Casti Connubii del 1930, nella quale il pontefice espresse il chiaro divieto della
Chiesa nei confronti di ogni forma di controllo delle nascite e di eugenetica “positiva”.
Se sui ricercatori “laici” la Chiesa esercitò un’azione paragonabile a quella della tradizione e della pressione spontanea
che essa finisce per esercitare su ogni individuo, Boldrini, nella sua condizione di cattolico e di scienziato, venne a
trovarsi all’incrocio fra tendenze convergenti e finì per non riuscire a controllarne adeguatamente gli esiti. Egli
s’interessò alle classificazioni biotipiche di Pende, che intese rafforzare e perfezionare grazie all’utilizzo della
documentazione statistica. Fu estimatore del popolazionismo fascista e dell’opera di “bonifica” biologica della stirpe
italica da esso intrapresa, anche perché si trattava di impostazioni che egli giudicava non lontane dai suoi convincimenti
di cattolico. Per cui, in molte delle sue ricerche echeggia la nozione di razza e di distinzione razziale, anche se non si
parla di criteri di superiorità. Boldrini intese infatti applicare la statistica alla genetica, soprattutto al fine di determinare
il grado di «purezza» delle singole razze, con finalità del tutto oggettive e descrittive, cioè senza perciò sostenere che la
purezza fosse un elemento di superiorità. Tutto ciò dimostra quanto il linguaggio e le concettualizzazioni razziste
fossero un patrimonio condiviso dagli scienziati europei e italiani, una sorta di descrizione implicita e neutra del mondo,
un apparato pre-categoriale che condizionava le scelte ed i progetti scientifici dei ricercatori, anche di quelli, come
Boldrini, che, seppure si dichiararono favorevoli al fascismo, non furono “francamente” razzisti. L’appartenenza a
questo paradigma sottopose Boldrini al pericolo dell’ambiguità e dell’interpretazione equivoca; tenuto conto del clima
politico degli anni Trenta in Europa, soprattutto in riferimento alla genetica statistico-razziale, «la scelta di un tale
progetto di ricerca appare al giudizio dello storico decisamente intempestiva e infelice». Si produsse l’effetto, forse
involontario, di sviluppare ulteriormente la vulgata razziale e naturalistica, anche in virtù della valorizzazione che
Boldrini fece della fisiognomica; egli associò infatti i biotipi alle classi sociali, sostenendo ad esempio che i ricchi sono
longilinei e i poveri brevilinei; applicò la fisiognomica anche alla storia e allo studio delle personalità del passato,
mentre vide in Mussolini la vittoria dell’attivismo brevilineo nei confronti del languore e dell’inerzia che ormai
dominavano le longilinee élites liberali. Tutte le disquisizioni di Boldrini sulla fisiognomica e sui rapporti fra aspetto
esteriore e inclinazioni della persona hanno preparato il terreno ad un clima culturale che rese plausibile molte delle
assurdità, tipiche del razzismo, di cui abbondarono organi di stampa e propaganda del regime dopo l’emanazione delle
leggi razziali: «i costanti riferimenti al “naso ebreo” o al “labbro giudaico” di vergognose pubblicazioni quali Difesa
della razza di Interlandi potevano apparire ai lettori di Boldrini non del tutto frutto di una ideologia aberrante, al di là
delle buone intenzioni dello studioso». In ambito cattolico, diversamente da Boldrini, l’antropologo viennese Wilhelm
Schmidt, che fu direttore del museo etnologico lateranense e che esercitò un vasto influsso sugli studiosi cattolici fra le
due guerre, si oppose decisamente ad ogni forma di riduzionismo biologico e all’uso stesso del termine “razza”,
opponendogli il concetto storico-spirituale di nazione.
Un singolare studio statistico sulla comunità ebraica italiana si deve a Livio Livi, un altro importante esponente della
demografia italiana che fu collaboratore di Gini, partecipe della fondazione dell’ISTAT, ma poi strenuo avversario
scientifico di Gini. Pubblicato nell’immediato primo dopoguerra, lo studio fu coevo a un’ondata d’interesse - di matrice
antisemita - per il mondo ebraico, che si ebbe in quegli anni anche in Italia, ma che da noi durò poco e su cui torneremo.
Livi afferma di essere stato mosso in questo suo studio dalla constatazione del successo sociale degli europei di origine
ebraica. Pur dichiarando di apprezzarne le qualità, secondo Livi gli ebrei costituiscono comunque una razza autonoma e
non assimilata al resto della popolazione italiana. Lombroso, che era ebreo, aveva affermato al contrario che gli studi
anatomici e craniologici suffragavano la completa assimilazione degli ebrei, che nell’Europa moderna potevano ormai
essere considerati appartenenti alla razza ariana. Anche nel caso di Livi si può parlare di errori epistemologici più che di
razzismo ideologico e quindi non gli si può imputare un antisemitismo marcato o volgare, «ma rimane pur sempre vero
che oggettivamente egli fu colui che predispose importanti pezzi dell’arsenale ideologico e propagandistico
dell’antisemitismo più virulento (...) Dall’opera di Livi emergevano in definitiva due affermazioni, suffragate con
riflessione teorica impegnata e vastità di documentazione statistica (…): gli ebrei costituiscono una razza a sé stante
(…), inoltre gli ebrei hanno effettivamente occupato nella società moderna posizioni di prestigio e di potere. (…) Dopo
Livi non era più un pettegolezzo sostenere che in Italia il peso politico, economico, culturale degli ebrei era del tutto
sproporzionato alla loro consistenza numerica, ciò era divenuto una verità scientificamente provata».
In sostanza, per la quantità e l’autorevolezza degli esempi fin qui considerati, è fuor di dubbio che la statistica e la
demografia italiane fecero da apripista alla politica imperialista del regime e alle leggi razziali del ’38; e ciò non solo da
un punto di vista culturale, ma già quasi operativo: «non fu un caso né una distorsione della storia se dopo l’avvio della
legislazione razzista l’Ufficio demografico centrale del Ministero degli interni fu trasformato nella Direzione generale
per la demografia e la razza».
Gli antropologi italiani, nonostante l’esordio positivista, soprattutto con la craniologia di Lombroso e il
“degenerazionismo” di Sergi, che sembrava farli propendere verso il biologismo, furono invece più prudenti di medici e
demografi. Forse per una migliore percezione della difficoltà di applicare all’Italia il determinismo naturalistico; ma
anche in base a corrette esigenze metodologiche che portarono precocemente la comunità degli antropologi a
distinguere opportunamente fra antropologia fisica ed etnologia, non ritenendo ammissibile la mescolanza fra fatti e fra
metodi esplicativi delle due scienze. Nonostante questo apprezzabile abbandono delle rozzezze metodologiche dei
fondatori positivisti, l’antropologia e le scienze sociali italiane si mostrarono disponibili ad analisi razziste allorquando
si occuparono dei popoli sottoposti all’espansione coloniale europea. L’inferiorità della “razza” nera fu apertamente
sostenuta negli anni ’20 e ’30 da Bruno Francolini, docente a Napoli di geografia ed etnologia, dall’importante
africanista Nello Puccioni, soprattutto da Lidio Cipriani, direttore del museo antropologico di Firenze e fra i firmatari
del Manifesto degli scienziati razzisti. Il razzismo di Cipriani è senza equivoci: le popolazioni africane sono inferiori e
in preda ad un processo di regresso civile e culturale. Il resoconto dei suoi viaggi africani, che venne pubblicato nel
1932 con prefazione di Corrado Gini, intendeva dimostrare questa dottrina con l’offerta al lettore di dati craniometrici e
paleontologici, test d’intelligenza, osservazioni psicologiche, antropologiche e linguistiche. Il destino dei neri, data la
loro incapacità ad autogovernarsi, è quello della sottomissione coloniale, mentre gli incroci con la razza bianca sono
assolutamente da evitare. In particolare, essendo la donna, secondo Cipriani, depositaria delle virtù biologiche della
razza, vanno impediti risolutamente gli incroci di donne bianche con maschi razzialmente inferiori; l’incrocio inverso,
pur non comportando danni biologici consistenti, è pernicioso per il prestigio della razza dominante, direttamente
dipendente dal suo grado di isolamento “genetico”. Ciò che più conta è che queste idee erano ampiamente condivise da
quasi tutti coloro che si occupavano di questioni africane: missionari, militari, coloni, viaggiatori, scrittori, soprattutto
dopo che il fascismo riprese e sviluppò l’immaginario coloniale, fatto di idee di inferiorità, sottomissione e dominio,
che già erano germogliate nel periodo liberale. Per cui, «l’immagine del negro universalmente diffusa tra gli italiani sarà
il cavallo di Troia con cui il razzismo antisemita verrà fatto penetrare in Italia».
Gli studi di antichistica e di preistoria contribuirono anch’essi alla formazione di una mentalità nazionalistica e razzista.
Si trattava fra l’altro di contrastare e confutare la teoria prevalente ai primi del Novecento che ipotizzava forme di
colonizzazione della penisola da parte di popolazioni nordiche, i “terramaricoli”. Ugo Alberto Rellini, dal 1925 docente
a Roma di paleoetnologia, fu forse lo studioso più energicamente impegnato nell’attribuire invece alle antiche
popolazioni italiche e mediterranee un ruolo primario nella antropizzazione del continente europeo e nella costruzione
delle prime forme di civiltà. L’esistenza e il primato di una “razza italica”, il suo destino imperiale, il ruolo civilizzatore
di Roma furono elementi comuni a quasi tutti gli esponenti dell’antichistica italiana; i quali poi, non di rado, si
espressero a favore della legislazione razziale fascista, collaborarono alla pubblicistica razzista, cooperarono con il
regime per definire i contorni storici e culturali della politica razziale. Anzi, secondo Maiocchi «i paleontologi e gli
antichisti furono forse gli intellettuali che meno difficoltà ebbero a dare il proprio contributo alla politica razzista senza
dover alterare o forzare le proprie posizioni precedenti». Qualche esempio: Rellini collaborò a Difesa della razza,
pubblicò opuscoli sulla razza italica, elogiò il contenuto delle leggi razziali, fu membro del Consiglio superiore per la
demografia e la razza; l’Istituto di studi romani fu anch’esso attivo nel propagandare il razzismo italico e
l’antisemitismo, con un ciclo di pubblicazioni la cui prima opera fu affidata all’antichista Pericle Ducati; anche il
prestigioso paleontologo Alberto Blanc, scopritore del cranio del monte Circeo, avvalorò l’importanza delle distinzioni
razziali, elogiò il razzismo fascista, collaborò a Razza e civiltà.

L’antisemitismo

Il movimento nazionalista d’inizio secolo portò il suo contributo nei termini, oltre che di un’aggressiva e intollerante
italianità, di un’auspicata politica di potenza che facesse della forza demografica un fattore di espansione coloniale. Al
nazionalismo e ai giornali di quell’area si deve anche, durante la guerra di Libia e negli anni successivi, il primo sorgere
di rigurgiti antisemiti, fino a quel momento sostanzialmente assenti dal dibattito politico italiano. Vi erano stati soltanto
degli episodi isolati, come il “caso Pasqualigo”, dovuto ai dubbi espressi dall’omonimo deputato veneto sulla nomina a
ministro delle Finanze di Isacco Maurogonato Pesaro, a causa dell’origine ebraica del ministro. Oppure ambigui
interventi giornalistici dell’antropologo Paolo Mantegazza nel 1885 o di Enrico Ferri nel 1893. Ma, nel complesso, non
si andava al di là di umori e di stereotipi antiebraici, diffusi e sotterranei, ma mai coltivati né sul piano politico né su
quello della polemica culturale. Alcuni segni di questo fondo antisemita presenti nella letteratura minore italiana sono
stati raccolti da Riccardo Bonavita, che ha mostrato la presenza di questi temi già nella prima metà dell’Ottocento in
romanzi storici come Sibilla Odaleta di Carlo Varese del 1827 e nelle Note autobiografiche, del 1833, del patriota
anticlericale Francesco Domenico Guerrazzi, scritte nel carcere di Portoferraio. Un filone che si sviluppa in opere di
autori cattolici, come L’ebreo di Verona di padre Antonio Bresciani (comparso a puntate su “Civiltà Cattolica” fra il
1850 e il 1851), L’orfana del ghetto di Carolina Invernizio del 1887, Kaddish di Guido Milanesi del 1922.
L’antiebraismo cattolico si manifestò ciclicamente in quegli anni. Fu sotto il pontificato di Leone XIII, all’inizio degli
anni ’80 dell’Ottocento, che la stampa cattolica, con “Civiltà Cattolica” in primo piano, aveva rinfocolato
l’antigiudaismo cattolico che nei decenni precedenti era passato in secondo piano. Una ripresa della polemica
antiebraica sull’omicidio rituale si ebbe con gli articoli apparsi tra il 1895 e il 1898 su “L’Unità Cattolica”, giornale
intransigente, direttamente controllato dal Papa. Anche dopo la prima guerra mondiale ci fu una ripresa della polemica
cattolica, soprattutto ad opera di cattolici integralisti, come mons. Benigni. Per quanto Benigni rifiutasse, a parole,
l’antisemitismo razzista, secondo il suo biografo Émile Poulat nessuna storia dell’antisemitismo italiano può ignorare la
sua figura. L’antisemitismo fu una costante di tutta la sua attività pubblicistica: già nei primi scritti egli parla della
«razza rabbinica che sgozza i piccoli cristiani». E l’accusa di omicidio rituale sarà da lui ripetuta più volte: ad esempio,
nel 1926 Benigni pubblicherà (con uno pseudonimo), in serbo-croato a Belgrado due volumi su questo argomento, che
circolarono anche in traduzione russa e tedesca. In Benigni l’ebraismo è sinonimo di liberalismo, massoneria, usura e
bolscevismo. Fra il marzo e il giugno del 1921 Benigni aveva pubblicato sulla rivista “Fede e Ragione” la prima
edizione italiana dei Protocolli dei Savi di Sion, che uscì l’anno dopo, sempre a sua cura, in volume a Firenze. Già
l’anno prima, con uno dei suoi tanti pseudonimi, aveva pubblicato sulla stessa rivista (espressione del gruppo di
integristi che si erano raccolti attorno a lui ai tempi del pontificato di Pio X) un articolo sulla “congiura ebraico-
massonica internazionale”. Il fatto che Benigni fosse un alto prelato, che aveva anche avuto per alcuni anni un
importante incarico in Vaticano, non deve trarre in inganno. La storia della Chiesa compresa tra la fine del XIX secolo e
lo scoppio della Seconda guerra mondiale è ricca di tendenze diverse e contrapposte, di svolte culturali e organizzative.
Benigni volle interpretare una di queste tendenze, l’integrismo, che ebbe un ruolo rilevante per un breve periodo, al
tempo di Pio X, ma che non coincise completamente con l’orientamento generale di quel pontificato, tanto che Benigni
fu allontanato da Pio X dalla Segreteria di Stato nel 1911. Fu infatti costretto a dimettersi da sottosegretario della
Congregazione degli Affari ecclesiastici straordinari (e quindi da stretto collaboratore del segretario di Stato, Merry del
Val) e fu sostituito con Eugenio Pacelli, che era stato per cinque anni suo collaboratore.
L’integrismo antimodernista era espressione di un cattolicesimo che coniugava l’intransigentismo con la cultura sociale
e che quindi trovava nella “congiura capitalistico-massonica” la spiegazione della difficile congiuntura storica per il
cattolicesimo. Pio X assecondava il rigore antimodernista degli integristi e si servì di Benigni per combattere la nuova
“eresia” modernista; ma non condivideva la sua visione integrista del mondo, poiché dal punto di vista politico il
pontificato di Pio X fu piuttosto di segno clerico-moderato e quindi di conciliazione con le forze del liberalismo
proprietario. Benigni rimase invece sempre fedele al suo integrismo, che divenne ancor più minoritario quando
l’elezione di Pio XI fece voltare pagina rispetto alla contrapposizione modernismo/integrismo degli anni precedenti,
aprendo la Chiesa a nuove sfide. Sulla “questione ebraica”, infatti, di fronte all’ascesa dell’antisemitismo razziale e
all’atteggiamento persecutorio dei fascismi europei, la Chiesa avviò un processo di revisione, rispetto alle precedenti
tendenze antigiudaiche, che avrebbe dovuto culminare con la nota “enciclica mancata” di Pio XI. Rimane il fatto che le
idee integriste di Benigni andarono a costituire un pezzo della composita ideologia fascista e che le sue elucubrazioni
antisemite furono riprese, spesso con l’identica terminologia, dal razzismo ufficiale mussoliniano. Lo stesso Benigni
approdò al fascismo, di cui è provato che fu un agente informatore, esaltando la funzione d’ordine del regime e un
panromanismo che ne faceva il nuovo faro del futuro assetto europeo, in grado di contrastare tra l’altro il
democraticismo cristiano (quella che egli chiamava “l’internazionale bianca”, assistita dalla “mano nera occulta” e
filosemita dei gesuiti).
Il tentativo di revisione portato avanti dal pontificato di Pio XI va però associato ad altri due fenomeni, vale a dire la
strumentalizzazione da parte di Hitler e di Mussolini dei sentimenti antigiudaici già presenti nel clero e nelle masse
cattoliche, assieme ad una certa incapacità di reagire, a queste strumentalizzazioni, di una parte del mondo cattolico ed
ecclesiastico; secondo Giovanni Miccoli, «gli schemi di giudizio sugli ebrei e sul loro ruolo nella storia, consolidati da
un insegnamento secolare, operano come una sorte di blocco mentale, ostacolano e impediscono nei più una
dissociazione netta dalle misure di discriminazione e dalle forme di persecuzione». In realtà, il quadro è ancor più
complesso: c’è da tenere anche conto che molti cattolici, anche tra i filofascisti, non saranno antisemiti. Il capofila dei
fascisti cattolici contrari all’antisemitismo fu Egilberto Martire, editore della “Rassegna Romana”, che si presentava
come la rivista della Conciliazione. La rivista ebbe una discreta fortuna e collaboratori importanti: lo stesso cardinale
Pacelli vi pubblicò un articolo nel ’36. Sappiamo che era letta da diverse personalità politiche di orientamento cattolico
e che a 21 vescovi italiani veniva inviata in omaggio. Nonostante gli intenti di condizionamento sul fascismo, la rivista
fu costretta spesso a fare il contrario e cioè a limitare le pretese totalitarie del regime e a sforzarsi di renderle
ideologicamente compatibili col cattolicesimo. Il rifiuto di Martire e della rivista per l’ideologia razzista fu sempre forte
e coerente: fin dall’estate del ’33 compaiono articoli di critica al razzismo nazista, mentre l’anno dopo vengono
esplicitamente criticate le leggi naziste sulla sterilizzazione e le sanguinose vicende della cosiddetta “notte dei lunghi
coltelli”. Malgrado l’appoggio alla guerra d’Etiopia, la questione del razzismo diventa per Martire e la sua rivista un
elemento di grave disagio e di distacco dal regime; nel ’37 Martire fu messo sotto osservazione dalla polizia politica,
mentre nel ’38 si dimise dalla commissione parlamentare per la riforma del Codice civile a causa dei progetti di
discriminazione razziale. La coraggiosa pubblicazione nel luglio del ’38 di 4 articoli contro il razzismo causò la
chiusura della “Rivista Romana”. Nel febbraio del ’39 Martire fu arrestato e inviato al confino, da cui uscirà solo tre
anni dopo. Egli stesso dichiarerà poi che il suo arresto fosse da mettere in relazione ai contrasti tra Pio XI e Mussolini
sul razzismo. Martire dichiarò anche, dopo la guerra, di essere stato direttamente invitato dal cardinale Gasparri, nel
gennaio del ’23, ad adoperarsi per fiancheggiare il fascismo al fine di «portarlo su posizioni concilianti». Figure
appartenenti al cattolicesimo conservatore, come Martire e i molti che egli rappresentava, attenuano di molto le
responsabilità che da più parti si tendono ad addossare ai cattolici. Su questo tema faremo un bilancio più avanti.
Comunque sia, nel fascismo tutti i detriti e tutte le tendenze razzistiche s’incrociarono naturalmente. Ciò portò alla
progressiva maturazione di un’ideologia razzista che il regime declinò dapprima in senso popolazionistico, favorendo
l’espansione demografica, impedendo l’emigrazione ed esaltando la società rurale, i suoi valori e la sua fecondità in
contrapposizione all’artificiosa vita metropolitana fonte di decadenza morale e demografica. La politica demografica,
concretizzata in provvedimenti come la tassa sul celibato, la creazione dell’Onmi, l’incentivazione dell’educazione
fisica, la repressione delle pratiche abortive, ecc., sfociò naturalmente in politica di conquista e in ideologia razzista.
Un’ideologia che ebbe come elemento fondante, durante e dopo la guerra d’Etiopia, la paura della “contaminazione” da
parte dei popoli africani sottomessi e che condusse ad una politica di apartheid di cui è testimonianza il decreto
dell’aprile 1937 che vietava la convivenza more uxorio fra italiani e “sudditi” dell’Africa Orientale.
Essendo la sincresi fra tendenze di diversa origine, il fascismo manifestò atteggiamenti razzisti differenti, come ha
mostrato Mauro Raspanti. Egli individua almeno tre forme di razzismo fascista, che si distinsero fra loro, si
fronteggiarono, si combatterono, tentarono di egemonizzare la politica razziale del regime, si mescolarono anche.
Raspanti sottolinea come una base biologica sia presente in tutte queste forme. I tre razzismi del fascismo sono dunque
quello strettamente biologico, che ebbe in Interlandi il capofila e ne La Difesa della razza l’organo di diffusione; vi fu
poi il nazional-razzismo, cioè quel razzismo che si autodefinì spirituale, ma che tale non era, essendo basato su un
fondo biologico e popolazionista (Pende e Acerbo ne furono i difensori); infine una formulazione nebulosa e mistica
che Raspanti definisce razzismo esoterico-tradizionalista, quello di Evola e di Preziosi. Occorre aggiungere che ci fu un
quarto razzismo, provinciale e conservatore, estraneo alle diatribe di regime o alle elucubrazioni degli intellettuali
razzisti e il cui il procedimento costruttivo era inverso: a partire dall’armamentario nazionalistico dell’immaginario e
della formazione culturale tipica della provincia italiana di quegli anni, si sostenevano forme di esclusività “razzistica”
che però rimanevano impregnate di nazionalismo culturale. Questa forma di razzismo finiva poi per coincidere
praticamente col nazional-razzismo ufficiale, ma risulta profondamente diverso da quello per genesi e non del tutto
omologabile se si prendono in considerazione i suoi esiti politici e culturali, poiché esso non era che una variante
degradata e corrotta (dall’ideologia del regime) del conservatorismo nazionalistico.
Mussolini fu, nel suo pragmatismo ondivago e nella sua debolezza teorica, attratto da tutti e tre i razzismi teorici,
mentre gli fu estranea la variante provinciale poiché un fondo genuinamente razzistico esisteva nel suo animo e nella
sua cultura; il razzismo conservatore e provinciale era estraneo ai vertici del regime anche perché esso non era che un
effetto della loro evocazione e propaganda. Il regime alimentò i tre razzismi ufficiali, dando maggior spazio ora all’una
ora all’altra forma. Gli ebrei ne furono lentamente ma inesorabilmente coinvolti.
Ora, pur tenendo conto di questo intreccio di elementi, nel complesso appare convincente l’opinione di Michele Sarfatti,
secondo il quale Mussolini e il regime fascista praticarono soprattutto il “nazional-razzismo”; cioè una patologica
pulsione “purificatrice” motivata e guidata soprattutto da scelte politiche legate ad un’aggressiva ideologia
nazionalistica, ma non esente da ossessioni o fobie di tipo biologico. In questa ideologia i fattori biologici e i fattori
nazionalistici si mescolavano e integravano; vale a dire che l’identità razziale veniva concepita su base nazionale e
capace – in senso contrario ad ogni visione puramente biologica - di autopreservarsi e purificarsi da sé. La nazionalità, a
sua volta, veniva individuata, come appare chiaro nel Manifesto degli scienziati razzisti, su base demografica e
popolazionale, quindi sostanzialmente biologica. Al punto 3 del documento, che apparve sul “Giornale d’Italia” nel
numero del 14 luglio 1938 e che rappresentò il momento iniziale della politica razzista del regime, si dice chiaramente:
«Il concetto di razza è concetto puramente biologico»; i punti 5 e 6 aggiungevano:

5. (…) Per l’Italia, nelle sue grandi linee, la composizione razziale di oggi è la stessa di quella che era mille anni fa: i
quarantaquattro milioni d’Italiani di oggi rimontano quindi nella assoluta maggioranza a famiglie che abitano l’Italia da
almeno un millennio.
6. Esiste ormai una pura “razza italiana”. Questo enunciato non è basato sulla confusione del concetto biologico di razza
con il concetto storico-linguistico di popolo e di nazione, ma sulla purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani
di oggi alle generazioni che da millenni popolano l’Italia.

Antisemitismo, antigiudaismo e ruolo dei cattolici

Sul “quarto”razzismo” provinciale agiva anche, alimentandolo in parte ma mitigandone gli eccessi, il fondo cattolico
che caratterizzava la cultura nazionale, soprattutto in provincia. In Italia, infatti, a differenza di altre realtà europee,
neanche gli esponenti della destra cattolica più reazionaria accettarono di collaborare col regime nella propaganda
dell’antisemitismo; emblematico è il caso di Paolo De Töth, direttore di “Fede e Ragione”, su cui apparve, come si è
detto, nel 1921 una delle prime traduzioni dei Protocolli dei Savi di Sion. Ebbene, De Töth rifiutò l’invito di Preziosi a
collaborare nel ’38 alla campagna antisemita. Alcuni propagandisti di terza fila si prestarono invece a darle fiato, ma si
tratta di personaggi e tendenze poco espressive dell’episcopato e del clero italiano, maggioritariamente schierato sulle
posizioni antirazziste di Pio XI. Renato Moro ha passato in rassegna questa pubblicistica e, seppure sia innegabile ciò
che egli sostiene, vale a dire che questi interventi trovarono una qualche eco ed accoglienza in parte del clero e
dell’episcopato italiano, al fondo si tratta di posizioni esposte male, minoritarie, di scarso rilievo pubblico. La poco
qualificata campagna di stampa antisemita di matrice “cattolica” ha ricevuto il contributo di due amici di Benigni, come
il giornalista Guido Aureli e lo studioso olandese Herman de Vries de Heekelingen; ad essi si aggiungono il deputato
Alfredo Romanini, cattolico ed ex esponente del Partito dei contadini (che già nel ’36 aveva pubblicato un libretto
antiebraico) e il giornalista Gino Sottochiesa, che nel ’37 pubblica un libro nel quale nega l’italianità degli ebrei. Carlo
Cecchelli, cattolico e docente di storia dell’arte alla Sapienza, con alcuni articoli sul “Corriere della Sera” e un testo del
’39, ribadiva, anche se in forme meno rozze, i peggiori pregiudizi antisemiti. Si aggiungono a questi autori alcuni
esponenti del cattolicesimo giovanile, come Pasquale Pennisi; anche un giovanissimo Gabriele De Rosa è incappato
nell’errore di redigere un articoletto antiebraico. Tra tutti questi pubblicisti, un personaggio meno secondario è il
cattolico nazionalista ed esponente del mondo agrario italiano De’ Rossi dell’Arno, che aveva aderito al Centro
Nazionale (che riuniva i deputati cattolici filofascisti) e che dal 1936 dirigeva la “Rassegna Nazionale”; De’ Rossi
dell’Arno era stato vicino alle posizioni di Martire, ma poi se ne distaccò dando un pesante contributo giornalistico
all’antisemitismo fascista.
In realtà, questa pubblicistica è in fondo più fascista che cattolica: dalla cultura cattolica e papale fra Ottocento e primo
Novecento essa prende, in forme che diremmo “spontaneistiche”, quello che, con un duro giudizio, Miccoli ha definito
un «ampio retroterra fatto di disprezzo e latente ostilità», con in più un «apporto effettivo di temi, giudizi, accuse (…)
che acquistano una dimensione politica». Ma il giudizio forte di Miccoli, se è adatto alle difficili congiunture di fine
Ottocento, deve essere attenuato quanto più ci s’inoltra nel pontificato di Pio XI, che ha significato un indubbio
ripensamento di questi temi, al quale molti hanno tenuto dietro, ma non tutti. Proprio la distanza tra le posizioni prese da
De’ Rossi e quelle di Martire che, come abbiamo visto fu mandato al confino per la sua ostilità al razzismo di Stato,
misura la diversa rilevanza di questo “spontaneismo” antiebraico che caratterizza gli autori citati da Moro, rispetto alla
posizione più meditata, consapevole e “ufficiale” di Martire.
Per Miccoli l’intreccio tra antisemitismo e antigiudaismo fu ancor più negativo: egli aggiunge che fra antisemiti e
cattolici vi fu, nei decenni che precedettero le leggi razziali in Europa, «anche una comunanza di proposte operative di
discriminazione civile (…) capace di creare, nonostante tutto, consenso come di impedire opposizioni più decise,
quando la persecuzione divenne di Stato». Alcuni episodi noti possono suffragare questo giudizio; si cita, ad esempio, la
posizione di un personaggio come padre Tacchi Venturi, il gesuita che per lunghi anni fece da mediatore segreto tra il
Vaticano e Mussolini, il quale ebbe anche l’incarico di mediare sulla questione dei matrimoni misti e delle violazioni al
Concordato prodotte dalla leggi razziali; in occasione della richiesta di abrogazione della legislazione razziale avanzata
dall’Unione delle comunità ebraiche a Badoglio, egli ebbe a commentare in una lettera al segretario di Stato Maglione
del 28 agosto 1943, che quella legislazione «ha bensì disposizioni che vanno abrogate, ma ne contiene pure altre
meritevoli di conferma». Ma Tacchi Venturi, non era che un semplice fiduciario del Vaticano presso Mussolini; egli
non era in alcun modo un decisore e veniva accreditato del ruolo di mediatore-portavoce da entrambi i fronti proprio per
il suo fascismo, che lo portava ad chiamare Mussolini “il Capo”. Da questo punto di vista la segreteria di Stato se ne
serviva come emissario senza dargli alcun credito ideologico o decisionale. Le sue proposte, peraltro del tutto prive di
senso storico se avanzate nell’agosto del ’43, valevano meno che zero presso la segreteria di Stato vaticana, la quale era
invece ormai protesa verso il nuovo mondo che stava nascendo nella fase finale della guerra e i suoi sofisticati reggitori
(a differenza dell’improvvido emissario) sapevano bene che ogni forma di razzismo sarebbe stata bandita nel consesso
internazionale futuro.
A quello che scrisse Tacchi Venturi si possono aggiungere gli articoli non contrari a forme di segregazione e di numero
chiuso a danno degli ebrei pubblicati, fra il ’38 e il ’40 su “La Civiltà Cattolica”, dai padri Barbera e Messineo.
Quest’ultimo, anzi, pubblicò un articolo di plauso al libretto di Acerbo sul razzismo nazionale e non biologico. In questi
casi siamo effettivamente in presenza di uno scivolamento colpevole dall’antigiudaismo soltanto religioso
all’antisemitismo giuridico. Infine, ci sarebbe l’episodio, poco credibile, del presunto “antisemitismo” che Borgongini
Duca avrebbe manifestato a Ciano nel corso di un incontro del 30 luglio del ’38, chiesto da Ciano per protestare contro
le prese di posizione antirazziste di Pio XI; Ciano annotò nel suo diario che il cardinale si sarebbe «rivelato
personalmente molto antisemita»; in realtà, è più probabile che si sia trattato di un momento di vanità da parte di un
principe della Chiesa, che cercava tra l’altro di entrare in sintonia col suo interlocutore al fine di strappargli delle
concessioni di tutt’altro segno. Le molte azioni a favore di ebrei, convertiti e non, che Borgongini condusse in quegli
anni ne sono una testimonianza, anche se la presenza in lui di una qualche forma di pregiudizio religioso non può essere
esclusa.
Al contrario di quanto sostenuto recentemente da Miccoli e da altri, il bilancio complessivo che si può avanzare è di
tutt’altro segno e lascia pensare ad un ruolo attivo del Vaticano nella formazione, all’interno delle articolazioni statuali
del regime fascista, di un “partito” favorevole ad un’azione dell’Italia, verso gli esuli ebrei sottoposti al suo controllo,
che non si conformasse alle sempre più evidenti tendenze criminali del regime nazista e che quindi riteneva fosse
essenziale, come misura indispensabile per non rendersi complici dei gravi crimini che l’alleato era in procinto di
commettere, non consegnare queste persone al Reich nazista, neanche sotto la forma dell’espulsione individuale dal
territorio nazionale. Il versante dei rapporti tra il Vaticano, Ciano e il Ministero degli Esteri esula dai contenuti di questo
lavoro, ma sicuramente un approfondimento in questo senso dovrebbe riservare non poche sorprese a favore della
ricostruzione di un vasto e importante schieramento sociale e politico di forze che tentavano di costituire, per quanto in
forme sotterranee, un’alternativa alla deriva filonazista, razzista, neopagana e “biocratica” dell’Italia fascista. Il
Vaticano, come risulta da molti indizi, era, per quanto nei limiti abbastanza stretti del proprio raggio d’azione sul potere
fascista, un vero e proprio reggitore di questi fili e, comunque, una delle forze principali che si mosse per evitare questo
tipo di deriva e tutte le nefaste conseguenze che ne potevano derivare.
Un altro elemento concreto nell’atteggiamento del Vaticano circa la sorte degli ebrei stranieri sta nella cura che fu loro
prestata dopo gli internamenti disposti nel giugno del ’40; si tratta di un punto non trascurabile, visto che, per gli ebrei
di nazionalità tedesca, ex austriaca o di Paesi occupati dalla Germania, il fatto che non fossero cittadini di nazioni
nemiche li sottraeva al controllo e all’assistenza della Croce Rossa Internazionale e li lasciava quindi privi di ogni
garanzia e supporto interno o internazionale, tranne gli aiuti forniti ai non convertiti dall’organizzazione di soccorso
gestita dall’Unione delle comunità ebraiche, Delasem (Delegazione per l’assistenza agli emigranti).
La Delasem aveva svolto un’opera preziosa di assistenza a loro favore, con la presenza di propri fiduciari in molti
campi di concentramento e addirittura la pubblicazione (a partire dal gennaio 1941) di un bollettino di informazione per
gli internati. Settimio Sorani riferisce di un totale di 6.700 assistiti dalla Delasem nel 1941. Le somme spese erano
interamente provenienti da benefattori esteri (2.500.000 lire) e italiani (1.900.000 lire). La Delasem era però priva di
qualsiasi possibilità di esercitare un influsso, un controllo, una moral suasion nei confronti delle autorità fasciste,
tantomeno poteva ergersi a depositaria e garante del trattamento umanitario nei confronti degli internati. Si assunsero
invece questo ruolo il Vaticano, a livello centrale, ed i vescovi, sul territorio, nei loro rapporti con i poteri dello Stato
italiano. Il primo intervento documentato in favore degli ebrei stranieri internati è del 4 ottobre 1940 da parte della
Segreteria di Stato, su segnalazione del vescovo di Campagna, Giuseppe Palatucci; un’attenzione che è confermata da
una politica attiva nei confronti degli internati, con visite ai campi, interventi e raccomandazioni. Fu proprio Borgongini
a recarsi più volte in visita itinerante nei campi d’internamento italiani colmi di ebrei.
Infine, un altro capitolo da approfondire, a proposito del “partito” antibiocratico e anti-razzista che si venne a creare
nelle articolazioni statali fasciste, sarebbe quello dell’influsso che il cattolico Nello Quilici ebbe sugli indirizzi e le
scelte fatte da Italo Balbo e dai suoi fedeli, anche dopo la morte di Balbo. La progressiva moderazione politica che
Balbo andò maturando lo aveva infatti avvicinato alla monarchia e alla Chiesa e, secondo la testimonianza di Folco
Quilici, a parere di De Felice l’azione politico-culturale di Nello Quilici, del «Corriere Padano» e dei suoi illuminati
collaboratori, ebbero un’incidenza sull’evoluzione politica di Balbo. Ed è un fatto che i “balbiani” Albini e Chierici, già
attivi come prefetti nella difesa segreta di ebrei, ebbero un ruolo chiave, per quanto non privo di alcuni elementi di
ambiguità, nella gestione del Ministero dell’Interno e della polizia negli ultimi mesi del regime, impedendo attivamente
che le pulsioni antisemite dell’ala oltranzista del Partito fascista e di alcuni settori della Dgps conducessero alla
consegna ai tedeschi degli ebrei stranieri ristretti nei campi d’internamento in Italia.

Prima delle leggi razziali: il Regio Decreto 30 ottobre 1930 n. 1371

Una svolta nei rapporti tra fascismo ed ebraismo fu rappresentato dal Regio Decreto 30 ottobre 1930 n. 1371, i cui
articoli 35 e seguenti avevano istituito l’Unione obbligatoria delle Comunità israelitiche, corpo morale (persona
giuridica) con sede in Roma che riuniva le Comunità del Regno, delle Colonie e dei Possedimenti. Questo
riconoscimento giuridico, sollecitato dallo stesso mondo ebraico, si era prodotto nel quadro di una relazione complessa
tra fascismo ed ebraismo italiano. Da parte del fascismo, la creazione dell’Unione era stata indubbiamente funzionale
alla politica nazionalistica e totalitaria di allineamento di tutti i corpi sociali dentro la struttura statale; una politica che
comportava anche un clima di sospetto e di sorveglianza costante nei confronti dei culti religiosi minoritari. Prova ne sia
il trasferimento, nel 1932, delle competenze sui culti religiosi dal Ministero della Giustizia al Ministero degli Interni,
retto personalmente da Mussolini e primaria articolazione dell’apparato repressivo del regime.
Fra le motivazioni del regime c’era stata anche una componente espansionistica e imperialistica, che intendeva fare di
Roma la capitale del futuro ebraismo in un Mediterraneo italianizzato. Si trattava di una linea politica già accarezzata da
ambienti del Ministero degli Esteri negli anni 1918-1920. La Relazione allo schema di decreto legislativo sulle
Comunità israelitiche, redatta nel 1930 da una commissione mista (composta da rappresentanti dello Stato e delle
Comunità ebraiche) e che fece da base alla emanazione del citato Regio decreto, affermava esplicitamente che l’Unione
delle Comunità veniva proposta «anche ai fini della penetrazione nel bacino orientale del Mediterraneo, che accoglie
notevoli gruppi ebraici». Negli anni precedenti erano stati proprio rappresentanti importanti dell’ebraismo italiano ad
esporre a più riprese delle tesi di questo genere, offrendo la collaborazione del mondo ebraico alle mire espansionistiche
del regime e tentando di mostrare, in questo modo, il carattere controproducente di un’eventuale campagna antisemita
di cui si percepivano alcuni segni. Ad esempio, scrivendo a Mussolini, così si era espresso Angelo Sacerdoti, rabbino
capo di Roma, nel timore che un attacco squadrista alla sinagoga di Padova, verificatosi nell’ambito delle violenze
scatenate dall’attentato a Mussolini dell’ottobre 1926, preludesse ad una più ampia offensiva antiebraica.
Il riconoscimento giuridico voleva avere, da parte del regime, anche un significato antisionistico e di limitazione della
capacità d’azione dell’ebraismo italiano, che in questo modo sarebbe stato sottoposto a controllo permanente e
preventivo, quindi privato di un’autonoma politica nei confronti del progetto di costituzione di una patria ebraica in
Palestina; i suoi lavori preparatori furono infatti significativamente accompagnati da un breve ma intenso dibattito
scatenato dallo stesso Mussolini con un articolo provocatorio, comparso senza firma su “Il Popolo di Roma” del 29
novembre 1928, che si concludeva così: «Domandiamo allora agli ebrei italiani: siete una religione o siete una
nazione?». In sostanza, si chiedeva all’ebraismo italiano di dimostrare l’assoluta estraneità a una sorta di doppia fedeltà
(all’Italia e all’ideale sionistico) e quindi di sottomettersi completamente ai destini nazionali in cambio del
riconoscimento giuridico delle proprie organizzazioni.
Le parole usate da Mussolini in quella polemica erano peraltro rivelatrici di un fondo minaccioso, implicitamente
antisemita, che fu ripetutamente presente nelle esternazioni del dittatore e nella vita del regime fascista e che ebbe, di
tanto in tanto, manifestazioni più evidenti. Un rumore di fondo ben percepito dall’ebraismo italiano e che spiega anche
quale fu la spinta che mosse le comunità ebraiche italiane a chiedere il proprio riconoscimento giuridico e quindi
l’allineamento al regime. Quando non si trattava di minacce, la sensibilità dell’ebraismo italiano era colpita e
preoccupata a causa della scarsa tutela giuridica che il nascente regime mostrava nei confronti dei diritti delle
minoranze religiose; fin dagli esordi del regime fascista ci fu una lenta, indiretta, ma progressiva erosione della libertà
religiosa e si mise in discussione la parità fra le confessioni religiose e fra le loro organizzazioni. Le Chiese
evangeliche, con una circolare emanata dal capo della polizia Bocchini nell’aprile del ‘27, furono sottoposte a controllo
e vigilanza da parte dei prefetti poiché considerate focolai di tendenze antifasciste. La legge sui culti ammessi, emanata
nel ’29, poco dopo la sottoscrizione del Concordato e quale sua logica conseguenza, dietro le apparenze di un
riconoscimento della libertà di culto aveva di fatto declassato i culti non cattolici, posto fine all’eguaglianza religiosa
sancita dal codice penale Zanardelli del 1889, sottomesso tali culti al controllo e all’ingerenza dello Stato.
Il rapporto dell’ebraismo italiano con il fascismo è da inquadrare in questo contesto di disparità di trattamenti, di timore
e di minacce larvate, ma ripetute. Secondo Michele Sarfatti, risulta pertanto del tutto priva di fondamenti la vulgata che
vorrebbe “gli ebrei” sostenitori dell’avvento del fascismo. Essi, come tutti gli italiani, si divisero fra favorevoli ed
oppositori del regime nascente; Renzo De Felice ha, da un lato, sottolineato «come Mussolini avesse sin dal 1919 vari
ebrei nel suo entourage immediato. (…) Alcuni ebrei ebbero (…) parte notevole nel finanziamento dei primi gruppi
fascisti. (…) Basti pensare che alla “marcia su Roma” parteciparono (…) duecentotrenta ebrei e che a questa stessa data
ne erano iscritti al PNF o al partito nazionalista (…) circa settecentocinquanta. (…) Sono cifre significative che
dimostrano ad usura come il fascismo trovasse tra gli ebrei un vasto seguito». D’altra parte, egli fa notare che lo
«spiccato carattere borghese dell’ebraismo italiano spiega come se esso affluì numeroso nel fascismo, altrettanto
numerosamente affluì nei partiti e movimenti decisamente antifascisti».
Sed contra, Alberto Cavaglion ha parlato di un «alternarsi di effusioni e ripulse» nel rapporto fra regime fascista ed
ebraismo, fino al tragico epilogo delle leggi razziali del ’38. Il passivo giurisdizionalismo ebraico sarebbe l’antefatto
che spiega «come mai il fascismo poté agevolmente prevalere, seducendo gli ebrei e coinvolgendoli nel proprio disegno
politico di nazionalizzazione delle fedi religiose». Riferendosi poi alle molte lettere inviate dopo l’autunno del ’38 da
singoli ebrei al duce e alle altre autorità per dichiarare il loro patriottismo, per Cavaglion neanche le leggi razziali
avrebbero intaccato quello che egli chiama l’ «alto (…) grado di compenetrazione fra ebrei e fascismo». In effetti, il
decreto del 1930 accentuò le tendenze giurisdizionaliste già presenti nell’ebraismo italiano; infatti, la legge Rattazzi del
1857, che regolamentava la materia per il Regno di Sardegna, già prevedeva l’obbligatorietà dell’adesione individuale
alla comunità ed un controllo statale su alcuni aspetti della vita associativa. La legge fu estesa molto parzialmente al
resto del Paese dopo l’Unità, per cui le singole Comunità ebbero statuto e natura giuridica assai differenziata. Solo nel
1909 si costituì un Comitato delle Università Israelitiche italiane, che ricevette personalità giuridica nel 1920, ma che
ebbe natura puramente federativa e mantenne la specificità giuridica delle singole comunità; ad esempio, quella
milanese non chiese mai il riconoscimento pubblico, mentre quella romana fu riconosciuta nel 1881, ma mantenne la
partecipazione individuale su base volontaria. La legge del 1930, esplicitando l’obbligo per i singoli ebrei (salvo
rinuncia formale) e per le singole comunità di aderire all’Unione, favoriva così un rinsaldarsi dei legami comunitari non
su base spirituale, ma grazie al concorso di norme legali. Si pensi che anche la sepoltura nei cimiteri ebraici, quindi
accanto ai propri cari, era subordinata all’effettiva appartenenza alla comunità, mentre la rinuncia fu considerata, come
Angelo Sacerdoti propose, una vera e propria abiura.
Una sorta di via italiana, sia tradizionalista che statalista, all’assimilazione ebraica che, combattendo laicismo,
socialismo e sionismo, preservasse l’ebraismo italiano dai rischi di una dissoluzione, mantenendo in vita il senso
tradizionale di appartenenza e di vita ebraica. Angelo Sacerdoti riteneva infatti che l’esplicita scelta di restare o uscire
definitivamente dall’ebraismo avrebbe dato maggiore vigore morale e religioso alla comunità, liberandole da chi non
credeva più nell’ebraismo. Lo stesso Sacerdoti, in un’intervista del ’33 ad un giornale francese aveva parlato dei
pericoli provenienti dalla «subdola democrazia assimilatrice». Ma si trattò, oltre questo, di un’alleanza organica?
Michele Sarfatti ha dimostrato la debolezza di questa tesi: non ci furono mai ebrei fra gli alti dirigenti del Pnf, Guido
Jung fu l’unico ministro ebreo nel corso del ventennio, il numero di ebrei iscritti al partito fascista fu sempre
proporzionale alla consistenza numerica dell’ebraismo all’interno della comunità nazionale e tale numero, anzi, crebbe
nel ventennio in percentuale inferiore rispetto alla crescita degli iscritti presso gli altri italiani. Al contrario, come i
fascisti stessi spesso rimarcarono, la presenza ebraica era numerosa e qualificata all’interno dell’antifascismo politico e
culturale, mentre nessun ebreo fece mai parte dell’Accademia d’Italia.
Anche tenendo nel debito conto le debolezze e le incongruenze organizzative dell’ebraismo italiano, la legge del 1930
istitutiva dell’Unione delle Comunità ebraiche fu verosimilmente priva di un effettivo significato di adesione ideologica
al regime. Lo spirito generale del decreto del ‘30 ebbe, da parte ebraica, un ruolo essenzialmente difensivo; come scrive
Michele Sarfatti, «l’opera di regolamentazione governativa significava di per sé una tranquillizzante dichiarazione
ufficiale di “diritto all’esistenza” per gli ebrei nel regime fascista. (…) In cambio di ciò, le comunità (…) vennero
sottoposte a numerosi controlli politici, persero in sostanza la propria autonomia, divennero in un certo senso organi
dello Stato». Una sorta di segregazione dorata che, nell’attribuire rispettabilità, diritti e valenza pubblica alle Comunità
ebraiche e alla loro Unione, le separava in parte dal resto della comunità nazionale, sottoponendole a sorveglianza e
controllo.
Non è pertanto del tutto priva di senso l’affermazione di Cavaglion, secondo cui «la legge del 1930 è dunque da
considerarsi parte integrante delle leggi razziali: un preludio, un inascoltato campanello d’allarme». Se ci si fermasse
solo a questo, però, si produrrebbe un giudizio troppo severo nei confronti dei dirigenti ebraici, in questo modo
considerati incapaci di avvertire gli errori e i pericoli insiti nelle loro scelte; ed è proprio quello che Cavaglion intende,
quando afferma che con la creazione dell’Unione, «si delegava definitivamente allo Stato il compito di controllare chi
fosse ebreo e chi dovesse cessare di esserlo. Si avvalorò l’ipotesi che l’autorità giudiziaria fosse un giorno chiamata a
stabilire quale dovesse essere o non essere una “regolare condotta religiosa”. Di fatto si aprirono le porte a
un’embrionale discriminazione». Un giudizio forse influenzato dal diverso comportamento e dall’orientamento non
giurisdizionalista assunto negli anni del regime fascista dalle chiese evangeliche, dai valdesi in particolare.

Regime e protestantesimo

Anche se, in campo valdese, non mancarono prudenze eccessive e volontà di non essere coinvolti nelle vicende degli
altri culti; nel ’36 ci fu, ad esempio, il rifiuto esplicito del moderatore Comba a fare fronte comune con i metodisti e i
battisti, anche al fine di salvaguardare il «carattere di completa e indiscussa italianità» della chiesa valdese. Benché i
valdesi non siano stati oggetto di specifiche politiche persecutorie, in generale nessun protestante ottenne posti di
responsabilità nazionale nel corso del ventennio; il caso più importante è quello di Niccolò Introna a cui Mussolini vietò
la nomina a direttore generale della Banca d’Italia perché valdese. Dal ’40 i valdesi furono esclusi dalla carica di
podestà o segretario del fascio, anche nelle loro Valli.
Una meno nota persecuzione su base razziale fu ingaggiata dal fascismo nei confronti dei pentecostali (o tremolanti,
nelle circolari di regime). Già più volte censurati direttamente da Bocchini, che era convinto della loro pericolosità e del
carattere truffaldino, volto al lucro, degli organizzatori del culto, i pentecostali erano riusciti ad evitare i provvedimenti
di scioglimento a loro carico proposti dal capo della polizia. Ma all’inizio del ’35 rapporti negativi su di loro furono
redatti dalla questura di Roma e dal vicecapo della polizia Senise; Buffarini Guidi emise perciò nell’aprile del ’35 una
circolare ai prefetti nella quale chiedeva loro di sciogliere i circoli pentecostali, a causa della contrarietà all’ordine
sociale di quel culto e perché esso si concretizzava in pratiche «nocive all’integrità fisica e psichica della razza»:

Ministero dell’Interno – Direzione Generale dei Culti


Ai Prefetti del Regno – All’Alto Commissario di Napoli
Roma 9 aprile 1935 A. XIII
Oggetto: Associazioni pentecostali
Esistono in alcune Province del Regno semplici associazioni di fatto, che, sotto la denominazione di Pentecostali o
Pentecostieri o Neumatici o Tremolanti, attendono a pratiche di culto in riunioni generalmente presiedute da “anziani”.
Il culto professato dalle anzidette associazioni – non riconosciuto a norma dell’art.2 della legge 24 giugno 1929, n. 1159
– non può ulteriormente essere ammesso nel Regno, agli effetti dell’art. 1 della citata legge, essendo risultato che esso si
estrinseca e si concreta in pratiche religiose contrarie all’ordine sociale e nocive all’integrità fisica e psichica della
razza.
Pertanto le LL.EE. provvederanno subito per lo scioglimento, dovunque esistano, delle associazioni in parola, e per la
chiusura dei relativi oratori e sale di riunione, disponendo conseguentemente anche per un’opportuna vigilanza, allo
scopo di evitare che ulteriori riunioni e manifestazioni di attività religiosa da parte degli adepti possano aver luogo in
qualsiasi altro modo o forma.
Si gradirà sollecita assicurazione dell’adempimento.
Pel Ministro
(f.to Buffarini)

Si tratta probabilmente del primo provvedimento vessatorio di rilievo, in territorio metropolitano, basato su esplicite
motivazioni razziali. La persecuzione si limitò a vietare il culto e al controllo delle attività dei fedeli, ma non si tradusse
in provvedimenti generalizzati a danno della libertà delle persone. Le inchieste a danno dei pentecostali furono riprese
nel clima di mobilitazione bellica del ’39: il 22 agosto e il 24 settembre Bocchini ordinava ai prefetti (ma fu coinvolta
anche l’Ovra) indagini attente e sorveglianza sugli aderenti al culto pentecostale e sulle loro pubblicazioni, facendo
erroneamente riferimento anche ai testimoni di Geova, che il capo della polizia mostrava di non distinguere ancora dai
pentecostali; questa volta l’accento era però spostato sull’origine straniera del culto e sulla sua pericolosità ideologica,
più che sulle precedenti motivazioni di carattere razziale; fra il ’40 e il ’43 si ebbero, di conseguenza, decine di arresti e
di invio al confine, nell’intero territorio nazionale, a danno dei pentecostali. A ciò si deve aggiungere la persecuzione a
carico dei testimoni di Geova, di cui abbiamo fatto cenno, che non ebbe dichiarate motivazioni razziali, bensì politiche.
Come scrisse in una richiesta di invio al confino il prefetto di Pescara, Renzo Chierici, stretto collaboratore di Italo
Balbo che nel ’43 diventerà Capo della polizia: «questi evangelici pacifisti ed internazionalisti vanno stangati». I
testimoni di Geova violavano, evidentemente, due dei miti fondanti dell’identità fascista di Chierici: la religione della
nazione ed il rito sacrificale della guerra.

Mussolini e l’ebraismo

Recenti ricerche sugli orientamenti e sui comportamenti politici (pubblici e segreti) di Mussolini negli anni 1929-1938
cancellano la falsa idea, accreditata dallo stesso Mussolini, di una simpatia e di un favore (temporaneo) accordato dal
fascismo all’ebraismo. Ad esempio, Mussolini ebbe a dire, in un colloquio del 1934 con Nahum Goldmann, presidente
del Comitato internazionale delle delegazioni ebraiche, «Io sono sionista, io»; un’affermazione che faceva parte di una
strategia politica che, nella congiuntura della prima metà degli anni Trenta, al fine di contenere in quel momento le
velleità espansionistiche tedesche, intendeva far sorgere la leggenda di un Mussolini amico e protettore degli ebrei.
Giorgio Fabre ha il merito di aver recentemente portato alla luce una prima serie di fatti e atti, verificatisi in quegli anni
e riguardanti singoli ebrei o gruppi, i quali dimostrano che Mussolini non interpretava il decreto del 1930 come un
“patto” con l’ebraismo ma come l’elemento fondamentale di una strategia di separazione degli ebrei dalla vita nazionale
e dalla dirigenza dell’Italia fascista.
Ecco alcuni dei fatti esposti da Fabre: una vasta inchiesta (coordinata dal capo della polizia) condotta fra il 1928 e il
1929 sul grado di diffusione del sionismo negli ambienti ebraici italiani; la richiesta del febbraio 1929 al governatore
della Banca d’Italia della rimozione del Direttore della filiale di Genova perché ebreo; l’inaspettata mancata nomina nel
marzo 1929 di Federigo Enriques all’Accademia d’Italia; l’inchiesta disposta nel settembre 1929 sul conto del
provveditore agli studi della Campania per sospetto sionismo (egli fu poi rimosso nel 1933); un’inchiesta del maggio
1930 sul fisiologo Carlo Foà (collaboratore della rivista mussoliniana “Gerarchia”) accusato di disfattismo sionista (Foà
fu poi costretto da Mussolini a dimettersi nel febbraio 1933 da preside dell’Università di Milano); la preclusione nel
marzo 1932 all’archeologo Della Seta della candidatura per l’Accademia d’Italia; l’allontanamento nel dicembre 1932
di Margherita Sarfatti dalla redazione del “Popolo d’Italia” (nel 1934 fu allontanata anche da “Gerarchia”); le
dimissioni forzate nel marzo 1933 di Giuseppe Toeplitz dalla carica di amministratore delegato della Banca
Commerciale Italiana; l’allontanamento nel dicembre 1933 di Guido Beer dalla direzione del gabinetto della presidenza
del Consiglio; l’allontanamento nel settembre 1933 di Guido Artom dall’ufficio stampa del Duce; le dimissioni nel
gennaio del 1934 di Gino Jacopo Olivetti da segretario della Confederazione generale fascista dell’industria. Dal 1934
decisioni di questo genere si moltiplicarono e si inserirono viepiù in un quadro di esclusione e di antiebraismo sempre
più evidente. Per cui nel 1937 «l’equazione ebrei = razza aveva iniziato a diffondersi nella dirigenza del partito e del
paese»; due casi di utilizzo di questa equazione risalgono proprio al ’37, l’uno in un elenco di ebrei con posizioni di
rilievo a Trieste, inviato dal preside della provincia a Mussolini, tramite la prefettura, nel quale si parla di
identificazione in «base alla razza» delle persone elencate, l’altro in un Appunto per il Duce del Ministero della Cultura
Popolare che parlava di internazionalismo ebraico «connaturato alla loro razza».
Se, assieme al dissimulato antiebraismo, pure ci fu un “patto” e dunque ci fu successivamente, con le leggi razziali,
tradimento da parte di Mussolini e del regime, esso fu un tradimento dal duplice aspetto. L’uno certamente nei confronti
dell’ebraismo organizzato italiano, avendo Mussolini finto con esso un accordo e una benevolenza non veri, come è
provato dalla certezza storiografica che le leggi razziali italiane non furono sollecitate direttamente dai nazisti né
suggerite in alcuna forma; esse furono infatti il risultato di un’autonoma decisione del regime fascista, all’interno della
quale Mussolini svolse un ruolo fondamentale. Come scrive De Felice, in sede di giudizio storico, «il volere (…)
addebitate ai nazisti la responsabilità diretta della campagna razziale italiana non solo non è suffragato da prove
concrete, ma è, a nostro avviso, un voler negare a se stessi, in quanto italiani, una parte di responsabilità». Michele
Sarfatti, nel confermare l’assenza di documentazione che dimostri suggerimenti o imposizioni naziste in merito alla
politica razziale in Italia, sottolinea anche il ruolo promotore e centrale della persona di Mussolini, «che redasse
personalmente o comunque revisionò tutti i testi principali della politica antiebraica», anche se la cooperazione di molti
esponenti del regime non fu per nulla trascurabile.
Ora, questo tradimento ebbe un aspetto più generale che non va dimenticato: un tradimento che fu perpetrato ai danni
degli ebrei, del diritto e dello Stato. Come ha spiegato, a proposito delle leggi di Norimberga e delle persecuzioni
successive, l’autorevole giurista e filosofo del diritto Ernst-Wolfgang Böckenförde: «nel caso degli ebrei tedeschi la
loro privazione dei diritti e la loro persecuzione andò a costituire un tradimento senza eguali: da parte dello Stato e dei
suoi aguzzini, ma anche da parte dei cittadini che voltarono lo sguardo e si disinteressarono, da parte cioè di coloro che
furono testimoni e non intervennero. Infatti, ciò che è accaduto agli ebrei tedeschi non riguardava soltanto persone di
cui era doveroso rispettare i diritti fondamentali, ma toccava dei cittadini, dei componenti dello Stato tedesco, con i
quali tutti avevano un rapporto specifico per l'esistenza stessa del legame di cittadinanza». Considerazioni che sono
perfettamente valide anche per le leggi razziali italiane, che anzi per alcuni versi andarono oltre la legislazione tedesca:
furono infatti imposte delle limitazioni più ampie al diritto di proprietà, l’esclusione degli studenti dalle scuole
pubbliche e l’espulsione di tutti gli “ebrei stranieri”.

Le leggi antiebraiche

In una prima fase, pezzi dell’apparato statale furono interessati da questi sviluppi: nell’aprile del ’34 si invitavano i
prefetti ad esercitare controlli sulle nomine di ebrei nelle amministrazioni locali; nel ’36 il prefetto di Ferrara assicurava
il Ministero dell’Interno della sua opera di “sfaldamento” nei confronti della presenza ebraica nelle cariche pubbliche
della provincia; nello stesso anno il Ministero degli Esteri invitò diversi dicasteri a non inviare dipendenti ebrei in
missione all’estero, mentre nel novembre del ’37 fu ordinato alle scuole e alle accademie militari di non accogliere
“israeliti”. Articoli di giornale e alcuni libri antiebraici fecero da contorno “culturale” a questa tendenza. Il quadro
normativo del ‘38 è stato correttamente giudicato da Michele Sarfatti come «il frutto di un approccio alla questione
antiebraica gelido, coerente, risoluto, non maniacale». Il primo decreto porta la data del 7 settembre (regio decreto legge
7 settembre 1938 n. 1381) e fu pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 12 settembre 1938, con il titolo “Provvedimenti nei
confronti degli ebrei stranieri”. Il giorno dopo apparve sulla GU il regio decreto legge 5 settembre 1938 n. 1390 recante
“Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista” che escludeva dalla scuola italiana tutti gli ebrei. La
“Dichiarazione sulla razza” approvata dal Gran Consiglio nella seduta del 6 ottobre fu pubblicata il 26 dello stesso mese
sul Foglio d’ordini del Pnf. Fece seguito il regio decreto legge 17 novembre 1938 n. 1728 recante “Provvedimenti per la
difesa della razza italiana”, pubblicato sulla GU del 19 novembre 1938.
In particolare, l’articolo 26 del decreto demandava al Ministero dell’Interno la risoluzione «caso per caso» delle
questioni relative al decreto stesso, una norma che rivelava la deriva antigiuridica che ormai caratterizzava il regime.
Queste norme lasciavano aperta la porta ad una persecuzione completa e vessatoria, molto al di là della “sola”
«separazione» (di per sé gravissima) che Mussolini invocò, ad esempio nel discorso di Trieste del 18 settembre, a
designare il carattere limitato dei provvedimenti antiebraici. Dopo verranno, con coerenza, gli altri divieti imposti per
via amministrativa, le pressioni per l’allontanamento degli ebrei italiani, l’espulsione degli “ebrei stranieri” e il loro
internamento all’inizio della guerra; infine, la caccia all’ebreo e la partecipazione allo sterminio da parte della
Repubblica sociale.
Il nazional-razzismo del fascismo è confermato dal fatto che nelle leggi antiebraiche italiane, diversamente che in
Germania, non fu introdotta la categoria dei “meticci” e fu possibile ad alcuni cittadini che non avessero tutti gli
ascendenti “ariani” ottenere la qualifica di “ariano”, in virtù del principio della «superiorità del sangue italiano». Il
razzismo nazista era invece maggiormente connotato da paranoie storicistiche, tecnologiche e medicali, oltre ad essere
anch’esso espressione, ma in misura meno forte di quanto normalmente si pensi, di spinte politiche e nazionalistiche. I
nazisti in verità non intendevano preservare la nazione tedesca ma la “razza ariana” e progettavano, come si è detto, di
lanciare su larga scala, in caso di vittoria nella guerra, il piano di selezione della popolazione tedesca per eliminare
intere categorie di tedeschi razzialmente “inadatti”.
Il fascismo fu più nazionalista del nazismo e dello stalinismo; ecco perché non praticò il terrore di massa. Condizionato
da un’autorappresentazione dell’italianità di origine controriformistica, cioè come un’unità omogenea impermeabile ai
vizi d’oltralpe, il fascismo cercò di modificare il “corpo” antropologico e biologico della nazione, senza impoverirla,
cioè senza apparenti ossessioni eliminazioniste, ma con l’uso martellante della propaganda e dell’educazione. O meglio,
le pulsioni eliminazioniste rimasero occultate sotto una falsa coscienza che le rifiutava. Ma ogni razzismo deve per
forza di cose approdare a forme di segregazione o di eliminazionismo.
Il razzismo fascista ha quindi rappresentato una variante del razzismo europeo; il problema è che, nel negare l’esistenza
di un genuino razzismo italiano, con la sua indiscussa autorità scientifica De Felice ha influenzato il giudizio storico
internazionale, condizionando ad esempio Mosse e con lui vasta parte della storiografia. Pure nel caso italiano si trattò,
effettivamente, di atti violenti e persecutori; come scrive Michele Sarfatti, era una «violenza che nel 1938 fu indirizzata
contro la vita sociale degli ebrei e non contro la loro vita fisica, ma che fu tale da imporre immediate conseguenze
anche su quest’ultima: suicidi, crollo della natalità, ecc.». Anzi, nel caso dell’Italia si può affermare che ci siano state
delle scelte che hanno anticipato gli sviluppi successivi delle discriminazioni operate dalla Germania nazista nei
confronti degli ebrei. Le leggi prevedevano infatti l’esclusione di tutti gli ebrei, studenti, professori e autori di manuali,
dalle scuole statali e l’esclusione degli ebrei da Accademie, Istituti e Associazioni culturali e scientifiche; venne poi
revocata la cittadinanza italiana concessa ad “ebrei stranieri” dopo il primo gennaio 1919 e decretata l’espulsione entro
sei mesi di tutti gli “ebrei stranieri” dal territorio italiano, dalla Libia e dai possedimenti nell’Egeo; bisogna tenere conto
del fatto che l’espressione “ebrei stranieri” è una designazione di carattere burocratico e discende direttamente dalle
rilevazioni di carattere razzista fatte nel censimento razzista del 22 agosto 1938, volto alla individuazione delle persone
da sottoporre alle restrizioni previste dalla legislazione antiebraica; esse attribuivano (come fu poi confermato dai
decreti razzisti e da tutte le decisioni amministrative in merito) alle persone la qualifica di ebreo sulla base della “razza”
a cui appartenevano i genitori, anche se tali persone professassero altre religioni. Come scrive Klaus Voigt, si tratta
chiaramente di «una definizione di politica razziale, e come tale può essere riportata solo tra virgolette».
Con un ultimo decreto-quadro (“Provvedimenti per la difesa della razza italiana”) furono confermate le norme
precedenti e venne sancito il divieto di matrimonio fra individui di razze diverse, furono stabilite le norme per definire
l’appartenenza alla “razza ebraica” (valida cioè per tutti i figli di genitori ebrei tranne quei figli di matrimoni “misti”
che non professassero la religione ebraica) ed elencate le interdizioni specifiche per gli ebrei: divieto di prestare servizio
militare, di essere tutori di “ariani”, di essere proprietari e gestori di aziende che interessino la difesa nazionale, di
essere proprietari e gestori di aziende con più di cento dipendenti, di essere proprietari di terreni con un estimo
superiore alle cinquemila lire, di essere proprietari di fabbricati con imponibile superiore alle ventimila lire, di avere
domestici “ariani”, di essere dipendenti dello Stato, del partito fascista, delle amministrazioni locali, delle aziende
municipalizzate, degli enti parastatali o di diritto pubblico, delle banche di interesse nazionale, delle imprese private di
assicurazione.
Secondo Gabriele Turi, l’intransigenza razzista del regime fascista nei confronti della scuola, la prima ad essere
investita dalla legislazione razziale e con provvedimenti di esclusione totale, aveva anche lo scopo di sottomettere
definitivamente il mondo della cultura. Era un messaggio diretto a tutta la società, anche ai non ebrei, per l’evidente
ruolo strategico della formazione, per rafforzare la presa sulla società e stroncare sul nascere forme di dissenso o
sussulti legalitari che la svolta razzistica e imperialistica poteva provocare. Ma è anche vero, come abbiamo visto, che il
mondo accademico era stato il più permeabile all’ideologia razzista, fin dai suoi esordi nel contesto coloniale
ottocentesco. Tanto che, come ricorda Roberto Finzi, «fu proprio nel mondo della cultura – e, in particolare, di quella
istituzionalmente “alta” – che i provvedimenti razzisti del 1938 ebbero aperta accoglienza favorevole (…) ed effetti
pratici non secondari». La cacciata dei docenti ebrei dalle università non produsse dissensi degni di nota e fu accettata
passivamente dal mondo accademico, a volte per consonanza ideologica, più spesso per opportunismo, in ogni caso
perché l’intimidazione culturale insita nella stessa legislazione razzista produsse il suo effetto.

Razzismo, imperialismo, totalitarismo

Assodato dunque che ciò che accadde prima dell’8 settembre 1943 fu violento e ideologicamente aberrante, che non si
trattò affatto di quella che De Felice ha definito «una persecuzione all’acqua di rose» né del risultato di inesistenti
pressioni tedesche al riguardo né dell’effetto di un’improvvisa e immotivata conversione al verbo razzista, occorre
vedere da dove nascesse l’accelerazione data dal fascismo alla politica razziale italiana e quindi dare ragioni storiche
dell’evoluzione che condusse a scelte di tale natura. Sul tema della ricerca delle cause, in effetti De Felice ha colto un
elemento centrale, che però ha giudicato di minore rilevanza rispetto alla necessità di uniformarsi alla Germania nazista.
Si tratta della spinta imperialistica e degli effetti della guerra d’Etiopia, fra l’altro proprio i fattori che maggiormente
spinsero Mussolini a stringere rapporti di alleanza con Hitler.
In generale, la stretta correlazione storica fra imperialismo, razzismo e totalitarismo è stata messa in luce da Hannah
Arendt. In effetti, fu l’imperialismo europeo di fine Ottocento a decretare il successo delle dottrine razziste: «la politica
imperialista avrebbe richiesto l’invenzione del razzismo come unica “giustificazione” possibile, come scusa per le sue
imprese, anche se nessuna teoria razziale fosse mai venuta alla luce nel mondo civile». Ed è da questo intreccio
perverso e determinante che bisogna partire per comprendere molte cose della storia del Novecento, ivi compresa
l’avventura razzista dell’Italia fascista. La politica razziale italiana era dunque dovuta a cause profonde connesse con
movimenti storici di lunga durata, legati principalmente alla spinta imperialistica e agli effetti della guerra d’Etiopia.
In particolare, secondo la Arendt, nei Paesi che non poterono partecipare alla corsa imperialistica vi fu, rispetto a paesi
come la Francia e l’Inghilterra, un diversa e maggiore simbiosi fra spinte imperialistiche e pseudoteorie razziste, anche
perché lo spazio d’oltremare era già stato saturato dalle tradizionali potenze coloniali e non rimaneva che vagheggiare
un’espansione direttamente fuori dai confini nazionali, presso i popoli e gli stati confinanti. Fu proprio questa contiguità
spaziale fra dominatori e “colonie” a determinare l’uso di visioni del mondo e di mezzi che le vecchie potenze coloniali
applicarono solo lontano da casa: «c’era nell’imperialismo continentale qualcosa di sostanziale che lo distingueva da
quello d’oltremare. L’espansione senza soluzione di continuità non consentiva un distacco geografico fra i metodi e le
istituzioni della colonia e quelli della nazione». Non solo, questi metodi furono dapprima esercitati nella patria
nazionale, per cui «l’imperialismo continentale fu e rimase inequivocabilmente ostile a tutti gli organismi statali
esistenti. Ebbe quindi un’impronta più sediziosa». Ad un imperialismo segnato dall’eversione occorreva far
corrispondere un’ideologia di dominio altrettanto eversiva nei confronti dei diritti umani e delle regole di convivenza
civile tra gli uomini, vale a dire il razzismo. Si potrebbe dire che in ciò sta la differenza fra il colonialismo anglo-
francese, anch’esso feroce nella prassi ma senza contraccolpi pesanti sull’ordinamento giuridico interno in termini di
diritti civili, rispetto a quanto avvenne in Italia e negli altri paesi non democratici. L’Italia è da inserire a pieno titolo in
questa tipologia, anche se la conquista etiopica avvenne nei confronti di un paese non contiguo. D’altra parte il fascismo
italiano coltivò entrambe le vocazioni espansionistiche, sia quella africana sia quella per contiguità (negli spazi
mediterranei e balcanico-centroeuropei). L’ideologia imperialistica fascista fu dunque basata sia su un presunto “diritto
naturale” all’espansione dei popoli conquistatori sia su un “dovere” morale di civilizzazione che non aveva lo scopo di
annientare, bensì di asservire i popoli assoggettati a un progetto di civiltà superiore.
La “conquista dell’Impero” imponeva comunque l’elaborazione di un’ideologia razzista che supportasse le pretese di
dominio dell’Italia e degli italiani; e questo Mussolini volle. E in questo quadro «egli si impegnò nella definizione di un
modello originale di persecuzione degli ebrei». La svolta razzistica s’imponeva ad un regime che era già “coloniale” nei
confronti della propria popolazione, privata delle libertà politiche, irreggimentata in strutture totalitarie e di massa,
perseguita nella parte che si opponeva al regime; un “colonialismo” interno non immune dalla violenza, eversivo e non
privo di avventurismo poiché dapprima esercitato per sovvertire lo Stato.
La mistura generatrice del totalitarismo sta proprio nell’eversione a base razzista con obiettivi imperialistici, che si
manifestò in quei paesi in cui non esisteva una forte tradizione democratica e dove erano disponibili modelli
riconosciuti di governo dispotico (zarismo in Russia, autoritarismo e paternalismo imperiale in Germania). Lo stesso
vale per l’Italia poiché lo stato liberale aveva al suo interno delle linee di tendenza autoritarie che il fascismo, all’inizio,
non fece che assecondare e rafforzare. Il momento della svolta imperialistica avvenne con la guerra d’Etiopia, circa un
decennio dopo il varo delle leggi “fascistissime” e dell’avvento della dittatura mussoliniana, decennio nel corso del
quale l’autoritarismo prefascista ebbe modo di porre salde radici nella vita dello Stato, producendo le spinte
imperialistiche e razzistiche che fecero da motore per la costruzione del sistema totalitario.
Mussolini, pertanto, elaborò, con l’attiva collaborazione di ministri e burocrati, uno schema di legislazione
discriminatoria modellato sulle esigenze ideologiche e amministrative del regime fascista. Per cui, la legislazione
razziale italiana si inserisce in un movimento storico coerente, che parte dal sovversivismo nazionalistico e squadristico,
passa per la conquista eversiva dello Stato, prosegue con la legislazione speciale contro gli oppositori e con
l’inquadramento totalitario degli italiani, culmina con le imprese coloniali, la condotta di guerra e il razzismo di Stato.

Fascismo totalitario

Nel sistema giuridico coloniale italiano prefascista, le popolazioni indigene non possedevano la cittadinanza: eritrei e
somali erano sudditi, mentre dal 1919 esisteva una cittadinanza libica speciale che, in certi casi, permetteva di adire alla
cittadinanza piena; la legge organica sui possedimenti libici del 1927 aveva tolto questa possibilità, riconducendo i libici
a sudditi coloniali. La prima norma effettivamente razzista del nostro ordinamento fu la legge organica per l’Eritrea e la
Somalia del 6 luglio 1933, n. 999, in quegli articoli che si occupavano dei “meticci”, i quali stabilivano dei limiti
all’acquisizione della cittadinanza per persone nate da genitori «di razza bianca» ignoti. Il regio decreto del 1° giugno
1936, che riordinava la materia dopo la conquista dell’Etiopia, non conteneva queste norme ed escludeva quindi del
tutto la possibilità dei “meticci” di divenire italiani. Il crescendo razzista in Africa Orientale Italiana ebbe una svolta
definitiva con il r.d.l. n. 880 del 19 aprile 1937 che vietava la convivenza fra cittadini e sudditi e prevedeva una pena
per il cittadino da uno a cinque anni di reclusione. Un decreto del governatore dell’Eritrea del 12 giugno 1937
aggiungeva il divieto per gli europei di abitare nei villaggi e nei quartieri abitati dagli indigeni, mentre il governatore
della Somalia vietava dal luglio dello stesso anno ai cittadini di frequentare gli esercizi pubblici indigeni. Nello stesso
mese veniva imposto in Eritrea anche il divieto di trasporto comune di cittadini e indigeni. Sempre sul versante del
razzismo coloniale, la legge 29 giugno 1939 n. 1004 introduceva il concetto di “prestigio della razza” e contemplava le
pene per chi la offendesse, se indigeno, o ne sminuisse la dignità con comportamenti incongrui, se cittadino. Una legge
del maggio 1940 ribadiva e ampliava a tutti i sudditi coloniali la nozione di meticcio, escludendo universalmente
l’accesso alla cittadinanza, l’adozione da parte di cittadini, l’accoglimento in istituti o scuole frequentate da cittadini.
È sbagliato perciò pensare ad un Italia fascista radicalmente diversa dalle altre esperienze totalitarie e razzistiche; qui
anche la Arendt compie quest’errore di prospettiva, ritenendo che Mussolini si sia accontentato di edificare una dittatura
e non abbia compiuto quel numero di crimini necessari per realizzare il terrore totalitario. Come scrive Emilio Gentile,
«questo giudizio è stato poi fatto proprio da altri politologi e storici del fascismo, come Alberto Aquarone e Renzo De
Felice, ed è tuttora considerato alla stregua di una verità indiscutibile». Ma si tratta di una deformazione prospettica
causata appunto dalla semplice comparazione di quello che avvenne in Italia rispetto alla Germania nazista e all’Unione
Sovietica di Stalin. Secondo Emilio Gentile si tratta anche, nel caso della Arendt, di una conoscenza non approfondita
del fascismo italiano e della sua storia.
In realtà i processi storici che hanno caratterizzato questi regimi sono in buona parte paralleli e le tipologie politiche
appaiono assimilabili; se solo si vuole restare sul piano lessicale, fu il fascismo stesso ad utilizzare il termine
“totalitario” per autodefinirsi. E poi la sua diversità dagli altri totalitarismi non ne compromette la portata e il
significato: anche se «l’esperimento totalitario fascista si svolse con ritmi, tempi e metodi diversi dagli altri esperimenti
totalitari (…), ciò non sminuisce il suo significato storico per la comprensione del fenomeno totalitario del XX secolo».
La differenza fu soprattutto d’intensità, per gli ostacoli maggiori che si frapponevano a Mussolini sulla strada della
completa presa totalitaria sul corpo sociale. Il fascismo era andato al potere molto presto cioè agli inizi del “secolo
breve” e il sistema di potere che fu edificato risentì di questa precocità, vale a dire che mantenne un che di
conservatorismo ottocentesco, non avendo la società italiana ancora percorso per intero il passaggio alla società di
massa; nell’Italia fascista resse perciò a lungo un compromesso fra i poteri forti (fascismo, Corona, Chiesa, esercito,
capitalismo) che Hitler aveva in parte potuto evitare nella costruzione della Germania nazista. L’Italia era una società
che non aveva subito i violenti processi di destrutturazione che sconvolsero la Germania degli anni Venti: la
massificazione spersonalizzante della società, accompagnata alla perdita di legami di appartenenza e di sicurezze
economiche, sono infatti la base necessaria per la conquista del potere da parte dei movimenti totalitari e per
l’edificazione di un totalitarismo compiuto.
Inoltre, come già Gramsci indicava, più che frutto di un compromesso, il regime fascista risultò essere la costruzione di
un fronte sovversivo frutto del sommarsi di spinte dal basso, di carattere popolare e piccolo-borghese, e di tendenze
autoritarie tipiche delle classi dirigenti italiane. Ecco perché fin dall’inizio il consenso attorno al regime fu così ampio
da rendere non necessaria un’azione di repressione violenta su vasta scala. L’alleanza sovversiva fascista divenne
pertanto quella sorta di rivelazione della società italiana di cui parlava Salvatorelli; il risultato fu un totalitarismo semi-
consensuale, un regime che non doveva fare grandi sforzi per ottenere l’allineamento di gruppi e singoli, com’è
testimoniato da tutte le grandi e piccole scelte, dai giuramenti di diversa natura e dalle molteplici manifestazioni di
consenso che il regime impose e che gli italiani accettarono quasi sempre di buon grado e con pochissime eccezioni.
Bisogna poi aggiungere che il compromesso italiano era stato costruito nel contesto storico dell’immediato primo
dopoguerra, quindi all’interno di una legalità e di una moralità internazionali ancora connesse ai valori incarnati dalle
potenze vincitrici della prima guerra mondiale; il fascismo non voleva e non poteva permettersi, pena l’isolamento,
l’estraniazione da tale contesto; tutta la sua azione repressiva fu sempre compiuta con l’accortezza di non suscitare la
riprovazione dell’opinione pubblica internazionale. Anche per la repressione degli oppositori all’estero si preferì, di
norma, l’uso di agenti provocatori che inducesse ad azioni inconsulte e violente i fuoriusciti proprio allo scopo di
discreditarli agli occhi dei paesi ospitanti. La stessa preparazione ed emanazione delle leggi antiebraiche fu
accompagnata da dichiarazioni volte a ridurre le inevitabili reazioni negative dell’opinione pubblica internazionale e dei
governi dei paesi democratici. Anche durante la guerra mondiale, spesso queste abitudini continueranno ad improntare
l’atteggiamento delle autorità italiane, sia civili che militari, ma in compresenza di scelte dettate da maggiore
spregiudicatezza e crudeltà. Nel periodo della Repubblica sociale si può infine affermare che il fascismo compì il
definitivo salto nell’illegalità, essendo venute meno quasi del tutto le remore “legalitarie” dei decenni precedenti.
Questo atteggiamento “legalitario”, connotato da ambiguità e cinismo, non fu soltanto il frutto di un calcolo politico, ma
in effetti era al centro dell’ideologia repressiva del regime, che non raggiunse i livelli quantitativi degli altri regimi
totalitari soprattutto in virtù – come abbiamo più volte indiziato – di una autorappresentazione di sé più statalista
rispetto alle altre esperienze totalitarie, e di una visione più fredda e più burocratica del sistema di controllo del regime
sul corpo sociale. Stalinismo e nazismo non persero mai il loro movimentismo di fondo ed evitarono accuratamente di
cristallizzarsi in forme statuali sentite come nemiche del movimento storico che essi intendevano incarnare; un vero e
proprio stato nazista non è perciò esistito e i cittadini si trovavano «sotto l’autorità simultanea e spesso contrastante di
poteri concorrenti, come l’amministrazione statale, il partito, le SA e le SS». Come fu appurato nel processo di
Norimberga, gli ordini venivano impartiti in modo vago, con noncuranza e senza dettagli, secondo una concezione
ideologica e non giuridica dell’azione di governo.
Faceva invece parte dell’ideologia del fascismo la ricerca di un equilibrio fra movimentismo e rispettabilità giuridica,
fra forza e diritto. Questo almeno sul breve periodo, perché si riteneva impossibile modificare velocemente e
radicalmente la visione del mondo collettiva, frutto di processi storici secolari e il cui stravolgimento avrebbe avuto
l’effetto di rendere ingovernabile la società, anche per il potere dittatoriale fascista. Eppure una totale sostituzione delle
categorie mentali dominanti rimaneva l’obiettivo epocale del fascismo; ed è ciò che cominciò ad essere più ampiamente
perseguito a partire dalla metà degli anni ’30. «Ma anche in questa fase di accelerazione totalitaria, il partito restava
formalmente subordinato allo “Stato fascista”, in ciò distinguendo nettamente il totalitarismo fascista da quello nazista e
da quello comunista». Né le spinte antistataliste che pure si manifestarono nell’attività del PNF, soprattutto sotto la
direzione di Starace, ebbero mai il fine di distruggere il mito dello Stato nuovo totalitario, ma quello invece di renderlo
sempre più tale e diverso dallo stato tradizionale.
La Arendt dimostra ampiamente come tutti i movimenti totalitari hanno il compito di realizzare le intuizioni generali
che i capi dei movimenti pongono al fondo della loro costruzione immaginaria e intransigente della realtà, vale a dire
della loro ideologia. Per questo, mentre lo Stato era considerato da comunismo e nazismo come un mezzo per realizzare
il mito fondante, sociale o razziale, della propria ideologia, nel fascismo lo Stato rappresentava il fine ultimo. Uno Stato
nuovo, partorito dal popolo italiano, miticamente considerato generatore naturale di forme superiori di civiltà. La
cooperazione del personale burocratico alla edificazione di una “legalità” totalitaria, oltre a fare del fascismo un regime
indecifrabile agli occhi di chi lo confronta al nazismo, ha immunizzato, temporaneamente, il fascismo da quel cupio
dissolvi che, non bisogna dimenticarlo, è la pulsione più profonda che agita l’inconscio totalitario. Quella stessa
pulsione che porta alla lunga i totalitarismi a perire trascinando con sé tutto ciò che li attornia.
Infine, ad attenuare ulteriormente la classificazione separata di fascismo, nazismo e comunismo reale, ci sono le più
recenti valutazioni intorno all’effettiva consistenza dei regimi a totalitarismo conclamato e sulla loro reale azione di
controllo totale sul sistema sociale. È quanto, ad esempio, sottolinea Daniel Goldhagen in una nota del suo saggio sui
tedeschi comuni e la Shoah, quando stigmatizza l’applicazione acritica alla Germania nazista del modello di
totalitarismo compiuto, giudicandolo «radicalmente errato, giacché continua a nascondere agli occhi di molti l’ampio
margine di libertà e pluralismo di fatto esistente nella società tedesca». Il libro di Goldhagen è ricco di esempi fattuali a
sostegno della sua tesi, che appare d’altra parte confermata da ricerche empiriche recenti, ad esempio quella, già citata,
condotta da Eric Johnson sul funzionamento della polizia politica nazista. Pur dichiarando che sarebbe un errore il
ribaltare completamente il modello totalitario classico, Johnson giudica ormai incontestabile «che la Gestapo aveva una
disponibilità di uomini e risorse limitata: tanto che il terrore nazista non divenne mai assoluto, e i tedeschi comuni
godettero abbastanza ampiamente della possibilità di dar voce alle loro lagnanze». Non solo, anche la Gestapo come la
polizia fascista alternò brutalità e pretese di legalità e, soprattutto, colpì le sue vittime con selettività, evitando di
travolgere la società tutta intera con un’offensiva globale che sarebbe stata inefficace e pericolosa per il regime.
Al fondo dei regimi totalitari c’è sempre, dunque, l’incontro fra spinte complementari, fra progetti ideologici di radicale
trasformazione del mondo e tendenze reali di parti importanti del corpo sociale. Nel caso del fascismo ciò è ancora più
vero; e se si dimentica che alla sua origine c’è la gramsciana alleanza fra il sovversivismo delle classi dirigenti e quello
popolare, si perde di vista il suo carattere di regime organico e strutturato, scambiandolo per una dittatura mero frutto di
compromessi fra gruppi di potere. Si deve infine ricordare che non mancò comunque a Mussolini la volontà di superare
i limiti del compromesso storico su cui si basava il suo regime, nella direzione della costruzione di una società
compiutamente totalitaria. Le vicende storiche della seconda metà degli anni Trenta lo spinsero viepiù in questa
direzione e la storia del secondo decennio dell’Italia fascista è la storia della rivelazione dell’intima natura totalitaria del
regime.
L’ampia documentazione a nostra disposizione fa ormai emergere inoltre la certezza che non fu solo Mussolini a volere
le leggi razziali, come molti commentatori tendono a ritenere, ma che siano stati anche “pezzi” dei vertici e della base
ideologizzata del regime a maturare la svolta razzista, ingrediente fondamentale della politica totalitaria già implicita in
molte altre scelte del regime e della destra nazionalistica italiana. Risulta particolarmente interessante la spiegazione
che Sarfatti dà dello specifico antiebraismo italiano che portò alla emanazione dei decreti del ’38: a suo parere si è
trattato di una cosciente e non ineluttabile volontà di perseguitare (per convenienza politica, ostilità religiosa e culturale,
pulsione razzista, ossessione uniformante) una minoranza, disprezzabile in quanto tale e già “segregata” con la
riduzione a culto “ammesso”. Il contesto del crescente antisemitismo europeo e italiano prestò a questa decisione
l’ambiente “naturale” di cui aveva bisogno, tanto da renderla perfino, in un certo senso, banale.
270

3
LA NORMATIVA ITALIANA SULLE PERSONE DA INTERNARE
A parte il poco noto e terribile episodio dell’internamento in fortezze alpine dei militari borbonici refrattari
all’arruolamento nell’esercito sabaudo e degli insorgenti meridionali (i “briganti”) catturati e non giustiziati sul posto,
l’unico precedente italiano nell’internamento di civili fu quello di massa, con esiti tragici, ordinato da Graziani in Libia
per piegare la resistenza alla colonizzazione italiana. Nel corso della Prima guerra mondiale in Italia si procedette -
senza istituire campi - allo spostamento in Sardegna dei cittadini austriaci. Successivamente, l’internamento dei civili
stranieri era stato regolato, in assenza di una Convenzione internazionale specifica, dalla legge di guerra italiana (mai
abrogata e dunque in vigore ancora oggi) emanata nel 1938 con r.d. 8 luglio n. 1415. La legge ricalcava i contenuti delle
diverse Convenzioni internazionali formulate nei decenni precedenti, compresa quella di Ginevra del 1929 sul
trattamento di prigionieri e feriti in guerra. L’articolo 286 della legge dispone il potere del Ministero dell’Interno di
ordinare con decreto l’internamento degli stranieri nemici che siano pericolosi per lo Stato. Il trattamento degli internati
veniva demandato, dall’articolo 289, ad un apposito «decreto del Duce», fatte salve le garanzie che la legge stessa
stabiliva per i prigionieri di guerra, ai quali gli internati erano praticamente equiparati. L’equiparazione era prevista nel
progetto di Convenzione frutto della conferenza di Tokio del ’34, che non ebbe però il tempo di essere formalizzata.
Tali garanzie erano: il diritto di essere trattati con umanità, mantenuti dallo Stato, di non essere internati in luoghi
insalubri, di non essere impegnati in lavori eccessivi, di avere la libertà di culto e di conservare gli effetti personali.
Fatto assai importante, nei confronti del decreto di internamento e di espulsione vi era inammissibilità di ricorso,
secondo il dettato dell’art. 290: «Contro i provvedimenti definitivi, emanati in applicazione degli articoli precedenti,
non è ammesso ricorso giurisdizionale, né ricorso straordinario al Re».
Il decreto del Duce sul trattamento degli internati stranieri fu emanato il 4 settembre 1940 (pubblicato nel n. 239 della
G. U. dell’11 ottobre ‘40), quando già erano stati effettuati numerosi arresti e diverse circolari avevano dato istruzioni ai
prefetti sui provvedimenti da prendere nei confronti delle categorie di civili individuate come pericolose; questo decreto
rappresentò l’unica base giuridica dell’internamento civile fascista. Si tratta però, come vedremo, di una base assai
fragile e peraltro retroattiva, quindi formalmente di dubbia validità.

I preparativi dell’internamento

Nell’imminenza di un conflitto mondiale, a titolo forse sperimentale, il Ministero dell’Interno organizzò a partire dal
1938 la costruzione del primo campo di concentramento e di lavoro per confinati politici a Pisticci, in Lucania; i primi
confinati vi giunsero nell’aprile del 1939. Già da alcuni anni erano state stilate (e rinnovate periodicamente) dalle
prefetture, su richiesta del Ministero dell’Interno, liste di persone pericolose da arrestare in circostanze di pericolo per la
sicurezza interna o da sottomettere all’eventuale internamento in caso di guerra. Il 16 agosto 1939 la Dgps invia la
prima circolare ai prefetti (classificata segreto) sui “Provvedimenti da adottare durante il periodo di sicurezza o all’atto
della mobilitazione”, volta soprattutto a schedare le persone sospettate di spionaggio; tali persone venivano suddivise in
5 categorie: residenti all’estero o irreperibili, stranieri residenti in Italia e italiani (o stranieri) al confino o in carcere,
italiani, militari, italiani o stranieri non rintracciati al momento della mobilitazione. Si stabilivano, per ora
genericamente, le misure da prendere nei loro riguardi. Con una circolare ministeriale del 31 agosto 1939 (reiterata il 5
settembre), a cura della II Sezione della Divisione Agr (che si occupava di ordine pubblico e agitazioni popolari) si
richiedevano alle prefetture elenchi precisi degli «stranieri appartenenti agli stati presunti nemici», distinti per
nazionalità e con proposta dei provvedimenti di espulsione, internamento o confino da comminare (in base all’articolo
284 della legge di guerra); la circolare chiedeva ai prefetti anche l’eventuale indicazione di stranieri di altre nazionalità
da allontanare dal Regno; infine sollecitava l’elenco dei sovversivi italiani pericolosi in caso di guerra e «da inviare al
confino di Polizia». In calce alla circolare, firmata da Bocchini, c’è un appunto a mano del capo sezione che annota
l’invio di una copia della stessa al Casellario politico centrale, per ciò che concerneva i “sovversivi” italiani. I risultati
di questa indagine portarono la Direzione Generale di Pubblica Sicurezza a stimare, nella minuta di un appunto per il
Duce dell’11 settembre del ’39, l’internamento di 1.540 stranieri, l’invio di altri 2.326 al domicilio coatto, più altri 296
italiani da inviare al confino; un migliaio di stranieri erano da espellere.
Anche il Ministero della Guerra, quello della Marina e quello dell’Aeronautica inviarono le loro segnalazioni, che
portarono all’aggiunta di 458 italiani da destinare in campo di concentramento e di qualche centinaio di stranieri da
aggiungere all’elenco degli allontanati. Alcune di queste misure divennero operative: lo Stato Maggiore della Marina
comunicò alla Divisione di polizia politica della Dgps, con una lettera datata 2 settembre ’39, di essere «venuto nella
determinazione di dare attuazione ai provvedimenti di mobilitazione previsti a carico dei cittadini (italiani e stranieri)
iscritti negli schedari (…) come agenti accertati o sospetti di spionaggio», limitatamente alle località di La Spezia,
Portoferraio, Piombino, La Maddalena, Taranto, Brindisi, Venezia, Pola. Si chiedeva quindi alla Dgps di dare corso,
poiché di sua competenza, ai provvedimenti previsti. Il 9 settembre, con un messaggio segreto urgentissimo, la Dgps
dava disposizione alle prefetture competenti di procedere agli allontanamenti. Il provvedimento venne revocato in
novembre, ma soltanto per le persone di nazionalità italiana, su richiesta dello stesso Stato Maggiore della Marina.
Tramontata l’ipotesi di un’entrata in guerra dell’Italia, per tutto il periodo della non belligeranza la documentazione si
dirada, ma risultano le reiterate istruzioni agli ispettori Ovra affinché fosse assicurata un’attenta vigilanza della
situazione interna nel territorio italiano e un attento controllo sulle attività di schedatura affidata alle prefetture. Fin dal
gennaio ’40, poi, venne demandata ai prefetti, in collaborazione con gli ispettori generali, l’individuazione di edifici da
adibire a campo di concentramento. Un appunto interno del 10 marzo 1940 (la redazione della minuta sembra essere del
vice capo della polizia Senise) rassicura sull’attenzione costante della Dgps alla questione delle persone pericolose in
caso di guerra:

La Direzione Generale della Polizia ha pronti gli elenchi delle persone pericolose che, in relazione al loro grado di
pericolosità, sono suddivisi in cinque categorie.
In caso di mobilitazione, a un cenno della Direzione Generale, sarà provveduto subito all’arresto delle persone
comprese nelle prime due categorie: e, cioè, quelle dei sovversivi ritenuti capaci di commettere azioni criminose e
quella delle persone capaci di turbare l’ordine.
Per quanto riguarda le persone, italiane e straniere, agenti accertati di spionaggio, come da accordi già presi con le
Autorità Militari, si procederà perché siano internate in campi di concentramento, mentre le persone soltanto sospette di
esercitare attività spionistica, se italiane, saranno sottoposte a strettissima sorveglianza, e, se straniere, verranno espulse
dal Regno.

Le attività organizzative riprendono fervore nel maggio 1940. Il 20 maggio fu ordinato ai prefetti di riordinare le liste
dei sudditi nemici con le relative misure da adottare nei loro riguardi; nell’occasione la sezione III (movimento
stranieri) della Divisione Agr precisava ai prefetti che l’internamento in campi di concentramento «dovrebbe essere
limitato ai casi di reale pericolosità potendo nei casi meno gravi essere sufficiente l’internamento in comuni interni»; si
aggiungeva che negli elenchi «dovranno essere naturalmente compresi “ebrei stranieri” che sono riusciti a venire nel
Regno». Nella bozza della circolare, che porta la data del 16 maggio, era contenuto il seguente paragrafo che poi fu
escluso dalla redazione finale: «Si dispone inoltre che a tutti gli “ebrei stranieri” ed a tutti i sudditi appartenenti a Stati
nemici, in caso di guerra, dovrà essere vietato in modo assoluto di allontanarsi dalla località di abituale residenza»; nella
circolare effettivamente inviata ai prefetti non si faceva cenno alle misure di sicurezza da adottare, poiché per ora si
volevano conoscere i dati relativi agli stranieri, riservando a comunicazioni successive le disposizioni da assumere nei
loro confronti. Il successivo telegramma del 25 maggio precisava che la qualifica di “stranieri attualmente appartenenti
a Stati nemici” era da riservare soltanto ad inglesi, francesi e polacchi, ma confermava che andava esaminata la
posizione di «tutti stranieri, qualsiasi nazionalità, residenti at qualsiasi titolo». Una circolare del 25 maggio ’40
indirizzata ai prefetti dell’Italia centrale e meridionale (Sicilia esclusa) li invitava ad approntare un elenco di località da
utilizzare per l’internamento “libero” (cioè in domicilio obbligato).
La comunicazione più rilevante di tutta questa vicenda è da ritenersi la lettera che il 26 maggio la Terza Sezione della
Divisione Agr inviò alle altre autorità ministeriali competenti:

Roma, 26 maggio 1940 - Prot.443/64545


Al Ministero Affari Esteri – A.G. IV
Al Ministero della Guerra – C.S.M.S.S.
All’Ufficio Stato Maggiore R. Marina (Servizio I.S.)
Al Ministero dell’Aeronautica – Gabinetto (S.I.A.) - Roma
Oggetto: Provvedimenti da adottare a carico di stranieri in caso di guerra
Com’è noto l’art. 284 della Legge di Guerra prescrive che il Ministero dell’Interno con suo decreto può disporre
l’internamento dei sudditi nemici atti a portare le armi o che comunque possano svolgere attività dannosa allo Stato.
Poiché atti di spionaggio o comunque dannosi all’interesse della Patria in armi possono essere commessi anche e
soprattutto da stranieri di nazionalità non nemica è necessario estendere detta facoltà a tutti gli stranieri di qualsiasi
nazionalità ritenuti pericolosi. Tali internamenti per i quali si stanno aggiornando d’accordo con i centri C.S. gli elenchi
già compilati in settembre u.s. dovrebbero essere effettuati, a seconda della pericolosità degli stranieri, in campi di
concentramento oppure in determinati comuni. A parere di questo Ministero, gli ebrei stranieri residenti in Italia e
specialmente quelli che vi sono venuti con pretesti, inganno, o mezzi illeciti, dovrebbero essere considerati appartenenti
a Stati nemici, criterio che, a quanto risulta, viene seguito in Germania. Inoltre il termine per la dichiarazione di
soggiorno di cui all’art. 142 del Testo Unico delle Leggi di P.S. dovrebbe essere abbreviato da tre ad un giorno.
Ciò premesso si prega di far conoscere il proprio avviso su quanto innanzi facendo le proposte del caso anche in ordine
al trattamento da usare:
1°) agli stranieri da restringere in campi di concentramento, indicando se questi in seguito dovranno continuare ad
essere organizzati dalla Polizia che li sta approntando oppure dall’Autorità Militare;
2°) agli stranieri internati in comuni diversi dalle loro residenze abituali. Per questi ultimi potrebbero essere sufficienti
le prescrizioni di non allontanarsi dalla sede loro assegnata e di presentarsi una volta al giorno alle Autorità locali di
P.S.
Si pregano inoltre i Ministeri militari di compiacersi precisare entro quali limiti d’età debbano considerarsi validi a
portare le armi i sudditi appartenenti a Stati nemici nonché di fare conoscere da quali località del Regno si ritenga
opportuno allontanare gli appartenenti a Stati nemici e gli ebrei stranieri, avvertendo che, come risulta dall’unito
prospetto, il numero più rilevante di ebrei stranieri, venuti in Italia recentemente a scopo di transito e fermatisi,
abusivamente, risiede a Milano, Genova, Trieste, Roma, Fiume e Torino. Si unisce un appunto da cui risulta il
trattamento che viene fatto ai sudditi appartenenti a Stati nemici in Germania e si prega di dare alla presente richiesta
carattere di massima urgenze.
Pel Ministro
(f.to Bocchini).

Viene da chiedersi cosa c’entrino con la guerra certe espressioni di Bocchini relative agli ebrei che si sono stabiliti in
Italia con «pretesti, inganno, o mezzi illeciti»: sembra solo rabbia di poliziotto per l’elusione delle misure di
prevenzione approntate e non una riflessione su una misura urgente e necessaria in vista della partecipazione italiana
alla guerra. Inoltre è davvero strano che la preoccupazione ed i dettagli della missiva siano soprattutto per gli “ebrei
stranieri”, quasi che l’idea di una guerra brevissima seguita da imminenti trattative diplomatiche di pace rendesse non
necessario focalizzare l’attenzione sui nemici veri; confermando con ciò l’impreparazione mentale al conflitto di pezzi
importanti dell’apparato statale, oltre a rivelare l’intenzione del regime di profittare del conflitto per portare avanti la
propria “politica razziale”. La risposta più sollecita fu quella dell’Aeronautica, che suggerisce prudenza
nell’internamento degli stranieri neutrali, per i quali si consiglia il rimpatrio, poiché «l’atteggiamento delle Nazioni
neutrali o non belligeranti durante i conflitti armati è suscettibile di mutamenti repentini», tenendo anche conto del
cospicuo numero di italiani residenti all’estero; «nessuna obiezione circa i criteri riguardanti il trattamento degli ebrei
stranieri», mentre si suggerisce l’arco di età fra i 15 e i 65 anni per l’attitudine a portare le armi, usando quindi «criteri
di assoluta severità (…), tenendo poi conto in sede propria delle condizioni fisiche di ciascun individuo per determinare
eccezioni». Tutti gli appartenenti a Stati nemici e tutti gli ebrei stranieri andrebbero allontanati dall’Italia centro-
settentrionale e dalle isole, concentrandoli «in località non litoranee dell’Abruzzo e Molise, della Lucania e della
Calabria». Messaggi dello stesso tenore furono inviati il 3 giugno dallo Stato Maggiore della Marina e il giorno dopo
dal Controspionaggio militare del Ministero della Guerra.
Ulteriori istruzioni per l’individuazione, l’arresto e l’internamento venivano impartite ai prefetti con una circolare
telegrafica del 1° giugno 1940. Lo scopo era di evitare «verificarsi inconvenienti di sorta e siavi unicità direttive»; in
effetti, si trattava del definitivo ordine di arresto, non appena dichiarato lo stato di guerra, delle «persone
pericolosissime sia italiane che straniere di qualsiasi razza». Delle persone arrestate doveva essere data comunicazione
al Ministero con le destinazioni proposte, tenendo anche conto che per il confino insulare i posti disponibili erano
«limitatissimi». Infine, Bocchini riteneva necessario sottolineare gli accorgimenti professionali da assumere in queste
delicate circostanze; si tratta di un documento paradigmatico della visione e dell’orientamento che la polizia dell’era
fascista ebbe nei confronti della propria azione repressiva:

Raccomandasi vivamente che il servizio di cui trattasi proceda con il massimo ordine et senza destare allarmismi in
modo da dare la sensazione che ogni provvedimento è diretto a colpire casi isolati di effettiva pericolosità e non è la
conseguenza di preoccupazioni d’ordine generale che non possono sussistere dato il clima fascista della Nazione.
Pel Ministro
(Bocchini)

Ancora l’8 giugno Bocchini tornava sull’argomento per fornire chiarimenti, precisando che gli stranieri proposti per
l’internamento potevano lasciare il Regno prima dell’inizio dello stato di guerra, che gli arrestati dovevano essere
tradotti in carcere in attesa che il Ministero avesse comunicato la località di internamento, che «persone (ebrei
compresi) invece da internare in comuni diversi dalle residenze (…) non dovranno essere fermate», che andava limitato
al massimo l’arresto di “stranieri neutrali”, che gli arresti avrebbero dovuto essere graduali e non di massa (in base alla
pericolosità degli “internandi” e ai posti disponibili nelle carceri) e si ribadiva infine di agire con «oculato e vigile
rigore, colpendo giusto senza fare inutili vittime». Un’altra circolare del 10 giugno, nel ribadire l’invito affinché «si
proceda senza destare allarmismi e gradualmente (…) con tatto e diligenza (…) al fine di evitare in modo assoluto
ripercussioni internazionali et ritorsioni contro i nostri connazionali residenti all’estero», confermava altresì che il fermo
degli stranieri nemici doveva limitarsi a quelli pericolosi (nella minuta è però cancellato il superlativo assoluto, per cui
questa circolare risulta essere un po’ più severa della precedente), ma attenuava alcune delle disposizioni già impartite:
per i neutrali occorreva soprassedere ed attendere le ulteriori istruzioni ministeriali, mentre i religiosi stranieri, anche se
appartenenti a Stati nemici, sarebbero stati arrestati solo in seguito ad un’autorizzazione del Ministero. A commento di
questo testo occorre dire che il timore delle “ripercussioni internazionali” confermava la sostanziale impreparazione e
debolezza del regime di fronte all’avventura bellica: se da un lato polizia e fascismo si erano sempre mossi nell’ottica di
una rispettabilità diplomatica a cui il regime teneva, questi timori e preoccupazioni erano adesso più il sintomo di una
percezione inadeguata dell’asprezza senza precedenti della guerra che si stava dispiegando e quasi di un’adesione in
tono minore al conflitto. Alle 22,30 del 10 giugno veniva inoltrato ai prefetti l’ordine operativo di precedere agli arresti:

Ministero dell’Interno – Gabinetto - Ufficio del Telegrafo e della Cifra


10/6/1940 ore 22,30 Ri – Urgente
Ai Prefetti e Questori Regno et p.c. Sez I e III Agr
Riferimento precorsa corrispondenza e per ultimo circolare 10 corrente n. 43778/443 raccomandasi disporre perché
entro prime ore pomeriggio domani undici corrente e così pei giorni successivi fino ad espletato servizio siano
comunicati Ministero telegrafo in chiaro dati numerici italiani et stranieri arrestati specificando quanti di detti arrestati
sia ebrei. Se negativo Questure et Prefetture dovranno astenersi dal fare dette segnalazioni. Ripetesi che segnalazioni
dovranno pervenire Ministero entro prime ore pomeriggio a datare da domani undici corrente e così pei giorni seguenti
fino ad espletato servizio.
Pel Ministro Bocchini

Con dispaccio telegrafico del 12 giugno Bocchini avocava a sé la decisione finale sull’allontanamento di stranieri,
anche se a proporlo fossero stati i centri di controspionaggio militare. Il 13 giugno Bocchini si preoccupa di
raccomandare di «affrettare operazioni relative fermi elementi italiani e stranieri pericolosi proposti per internamento
campi concentramento in modo che servizio possa essere ultimato brevissimo tempo»; evidentemente alcune prefetture
avevano preso alla lettera gli inviti alla gradualità contenuti nei precedenti dispacci. Inoltre egli dà disposizione affinché
negli elenchi dei fermati si distinguano gli ebrei dagli italiani e dagli stranieri. Si tenga conto che l’ordine di arresto
generalizzato degli “ebrei stranieri” verrà dato due giorni dopo e quelli fermati fino a quel momento lo erano in ragione
esclusiva della loro “pericolosità” per motivi militari; ma il capo della polizia vuole comunque tenerli distinti in vista di
prevedibili decisioni sul loro conto, vista la nota del 26 maggio 1940 che il sottosegretario agli Interni, Buffarini Guidi,
inviò a Bocchini manifestandogli la volontà di Mussolini di istituire campi di concentramento per ebrei in caso di
guerra.
Il motivo principale dell’attesa sulla sorte degli “ebrei stranieri” va individuato nella mancata risposta del Ministero
degli Affari Esteri alla lettera del Ministero dell’Interno del 26 maggio in merito all’atteggiamento da tenere verso gli
stranieri e gli ebrei, a cui avevano, molto più sollecitamente, già dato risposta i Ministeri militari. Il 10 giugno il
ministero degli Affari esteri aveva preannunciato il suo parere in una missiva a Bocchini che però riguardava la
richiesta di non allontanare verso la Germania una famiglia di ebrei austriaci, dando quindi un chiaro orientamento
“garantista” a quello che sarà il proprio assecondamento della politica d’internamento degli ebrei stranieri perseguita da
Mussolini e Bocchini. Soprattutto, il Ministero degli Esteri si dichiarava, così, contrario a una politica di rimpatrio degli
ebrei tedeschi, preferendo applicare ad essi la misura dell’internamento generalizzato, come proposto dal telespresso del
Ministero dell’Interno del 26 maggio. Finalmente, il 15 giugno, il Ministero degli Esteri inviava il suo telespresso
riservato di risposta. Il documento risulta protocollato il 17 giugno, ma è da ritenersi che Bocchini ne abbia preso
visione il 15 stesso, tanto che nella stessa giornata fu emanato l’ordine d’internamento degli “ebrei stranieri”.

Ministero degli Affari Esteri – Dir. Gen. “A.G.” Uff. IV


Telespresso n. 34/R 08383/2309 – Riservato
Indirizzato a R. Ministero dell’Interno – Dgps – Agr
Roma addì 15 giugno 1940 XVIII
Oggetto: Trattamento degli stranieri in caso di guerra
In riferimento al telespresso del 26 maggio n. 1/64545-443 sez. III si ha il pregio di comunicare quanto segue: l’Art. 284
delle leggi di guerra che dà la facoltà al Ministero dell’Interno di disporre l’internamento dei sudditi nemici, è da
interpretarsi in connessione con l’art. 3 della stessa legge che allarga notevolmente il concetto di suddito nemico. Infatti
si comprendono nella categoria (…) anche le persone con doppia cittadinanza (escluse però quelle che hanno la
cittadinanza italiana) (…) e gli apolidi che abbiano o abbiano avuto in qualsiasi momento la nazionalità nemica. Per
quanto riguarda gli stranieri appartenenti a Stati neutrali, non sembra possibile adottare, con disposizione di carattere
generale, provvedimenti che, non essendo conformi ai principi del diritto internazionale, si ripercuoterebbero a danno
dei nostri connazionali residenti in detti Paesi (…). Le predette considerazioni non tendono peraltro a sottrarre gli
stranieri neutrali da qualsiasi misura precauzionale, quando di volta in volta se ne presentasse la necessità. (…)
L’espulsione è una facoltà dello Stato di residenza. Riconosciuta dal diritto comune e quindi non può dar luogo a
discussioni con gli Stati neutrali. (…) Qualora, peraltro, la misura dell’espulsione per speciali circostanze, non fosse
applicabile nei riguardi di singole persone, codesto Ministero di concerto con quello degli Affari Esteri, potrebbero
adottare caso per caso opportune misure di sicurezza, [cioè] (…) fare obbligo a detti stranieri di soggiornare in
determinate località. Stranieri appartenenti a Stati occupati (…) [da] un belligerante: (…) speciali misure di vigilanza
qualora essi risultassero pericolosi (…). Tale misura dovrebbe essere a preferenza quella del domicilio obbligatorio in
località determinate. (…)
Ebrei: Per gli ebrei che hanno o abbiano avuto la cittadinanza di uno Stato belligerante compresi gli ebrei tedeschi o
quelli di uno Stato caduto di fatto in potere della Germania si riterrebbe utile disporre in via di massima o il loro
internamento o il loro concentramento in appositi campi a seconda che trattasi di individui sospetti o pericolosi, senza
pregiudizio per gli altri dell’obbligo della residenza obbligatoria in località determinate, salvo naturalmente le dovute
eccezioni. Per quanto si riferisce invece agli ebrei che abbiano la cittadinanza di Stati neutrali sarebbe utile procedere di
preferenza al loro allontanamento dal regno qualora ciò sia possibile o al loro internamento o concentramento ove
ricorrano gli estremi e salvo anche in questo caso le dovute eccezioni.
Questo Ministero ritiene di attirare l’attenzione di codesto Dicastero sull’ opportunità che le misure di sicurezza siano
adottate di concerto con questo Ministero, trattandosi di provvedimenti che incidono sulle relazioni con Stati esteri (…).
Pel Ministro
(f.to) Anfuso

Il Ministero degli Esteri, faceva ampliava l’assoggettamento alle misure precauzionali di coloro che avessero la doppia
nazionalità e di alcuni apolidi, mentre si mostrava molto preoccupato del rispetto della legalità internazionale, invitando
il Ministero dell’Interno a cooperare a questo fine anche in futuro: un orientamento che si rivelerà storicamente assai
positivo, mettendo al riparo l’Italia da alcuni gravi errori. Blande erano le misure proposte per neutrali o cittadini di
Stati occupati. Per quanto riguarda gli ebrei “stranieri”, il Ministero degli Esteri non si sottrae alla politica razziale del
regime, ma cerca di conciliarla con le esigenze della rispettabilità internazionale e quindi fa una proposta che è
parzialmente razzista, poiché propone l’internamento indiscriminato degli ebrei tedeschi od originari di Paesi nemici,
mentre per gli altri propone l’allontanamento oppure, solo se pericolosi, l’internamento.
Nel contesto dei decreti razziali emanati nell’autunno del ‘38, il rdl n. 1381 del 7 settembre 1938 faceva divieto, come si
è detto, agli “ebrei stranieri” (che avessero iniziato il loro soggiorno posteriormente al 1° gennaio 1919) di avere stabile
dimora in Italia e nelle colonie. Va notato che si trattava di un provvedimento inedito sul piano europeo: neanche la
Germania aveva, fino a quel momento, adottato una misura così generale, anche perché di difficile attuazione pratica,
come si accorsero ben presto le autorità italiane. Il censimento speciale dell’agosto del ’38, condotto in vista
dell’emanazione delle leggi razziali, aveva determinato in circa 9.800 il numero degli “ebrei stranieri” residenti in Italia.
Molti ebrei italiani, circa 1.400, si ritrovarono nella condizione di stranieri o apolidi poiché i decreti razziali del ’38
avevano anche revocato la cittadinanza italiana agli ebrei che l’avessero ottenuta dopo il 1919. Il totale di coloro che,
all’epoca del censimento, venivano considerati “ebrei stranieri” presenti sul territorio italiano ammontava dunque a più
di 11.000 persone. Di questi, circa 8.000 non erano più ammessi a risiedere nel Regno per effetto del rdl n. 1381. Ci
furono molte partenze, ma per alcune migliaia di persone fu impossibile lasciare l’Italia. Non volendo creare un grave
caso internazionale, non furono messe in atto le procedure per il loro immediato allontanamento forzato. Le
conseguenze negative di una brutale espulsione di massa convinsero il Ministero dell’Interno a concedere una proroga
di sei mesi a chi ne avesse fatto domanda e la cui posizione non fosse stata ritenuta pericolosa. Passati questi ulteriori
sei mesi, Mussolini decise infine di dare il suo benestare a una sospensiva degli allontanamenti, avanzata l’8 dicembre
del ’39 dall’ambasciatore americano a Roma al Ministero degli Esteri.

L’internamento e gli ebrei stranieri

Di «provvedimenti da adottare nei confronti di elementi ebraici» in relazione alla proclamazione dello stato di guerra si
era parlato per la prima volta in una circolare telegrafica di Bocchini ai prefetti del 25 settembre 1939, che attribuiva a
loro la «diffusione di notizie false e tendenziose (…) scopo creare disorientamento tra il popolo». È evidente che il
clima di guerra stesse esacerbando l’atteggiamento del regime verso gli ebrei; cosa confermata da un colloquio del
febbraio ’40 tra Bocchini e Almansi (l’ex vice-capo della polizia, dal novembre del ’39 presidente delle Comunità
ebraiche), in cui il capo della polizia comunicava la volontà di Mussolini di allontanare tutti gli ebrei italiani. Non a
caso, nel riordino degli elenchi dei sudditi nemici nei confronti dei quali applicare provvedimenti restrittivi, ordinato dal
Ministero degli Interni il 20 maggio ‘40, come abbiamo visto si dava mandato per la prima volta ai prefetti di inserirvi
«naturalmente» anche gli “ebrei stranieri”. Nella comunicazione del 26 maggio ’40 del Ministero dell’Interno al
Ministero degli Esteri e ai Ministeri militari, si sottolineava la necessità di equiparare gli “ebrei stranieri” di qualunque
nazionalità (specialmente gli immigrati illegali) agli «appartenenti a Stati nemici», come si stava facendo in Germania.
Bisogna ritenere che il Ministero dell’Interno dovette attendere la risposta del Ministero degli Esteri prima di tradurre la
propria volontà di procedere all’internamento degli “ebrei stranieri” in provvedimento esecutivo, che ebbe inizio non a
caso a partire dal 15 giugno ’40. Michele Sarfatti suggerisce di retrodatare al 16 maggio la decisione di internare gli
“ebrei stranieri”, sulla base della bozza della circolare che fu poi effettivamente diramata il 20 maggio, poiché tale
bozza conteneva il divieto di allontanamento dal luogo di residenza degli “ebrei stranieri”. Ora, il divieto di
allontanamento non è ancora un ordine di arresto e di successivo internamento e, sebbene tutto ciò sia rivelatore delle
intenzioni del Ministero dell’Interno, occorre confermare la data del 15 giugno come quella in cui fu effettivamente
ordinato l’internamento degli “ebrei stranieri”, cioè dopo l’acquisizione del parere del Ministero degli Esteri. D’altra
parte, neanche la proposta che il Ministero dell’Interno aveva avanzato di equiparare gli “ebrei stranieri” ad
appartenenti a Stati nemici rappresentava, di per sé, una volontà d’internamento generalizzato, poiché ciò non era
previsto per gli stessi stranieri nemici. Occorre poi considerare che il citato appunto sulle previsioni numeriche
d’internamento timbrato 7 giugno non conteneva riferimenti al numero degli “ebrei stranieri” da internare; infine è
decisivo il fatto che alla fine non fu ordinato l’arresto di tutti gli “ebrei stranieri”, seguendo le indicazioni del Ministero
degli Esteri.
L’arresto degli “ebrei stranieri” iniziò quindi il 15 giugno ’40, alcuni giorni dopo la prima retata di oppositori italiani e
di stranieri pericolosi, lo stesso giorno in cui la Dgps acquisì il citato parere del Ministero degli Esteri. La circolare
ministeriale inviata quel giorno ai prefetti era chiara e dura:

Ministero dell’Interno – Direzione Generale della P.S. – Divisione A.G.R. Sez. 3^


Ufficio Telegrafo e Cifra – 15 giugno 1940-XVIII ore 21,19
Prefetti Regno - Questore di Roma – p.c. Ministero Affari Esteri A.G. IV - n. 443/45626
Appena vi sarà posto nelle carceri ciò che dovrà ottenersi sollecitando traduzione straordinaria individui già arrestati ai
campi di concentramento loro assegnati dovrà procedersi rastrellamento ebrei stranieri appartenenti a Stati che fanno
politica razziale. Detti elementi indesiderabili imbevuti di odio contro i regimi totalitari, capaci di qualsiasi azione
deleteria, per difesa Stato et ordine pubblico vanno tolti dalla circolazione. Dovranno pertanto essere arrestati ebrei
stranieri tedeschi, ex cecoslovacchi, polacchi, apolidi della età di diciotto a sessanta anni. Di essi dovrà essere inviato
Ministero elenco con generalità per assegnazione campi di concentramento. Loro famiglie in attesa approntamento
appositi campi concentramento già in allestimento dovranno essere provvisoriamente avviate con foglio di via
obbligatorio at Capoluogo di Provincia che mi riservo indicare non appena mi saranno pervenuti elenchi relativi. Ebrei
ungheresi e rumeni dovranno essere allontanati dal Regno; nei casi in cui ciò non fosse possibile prego informarne
questo Ministero per determinazioni
Pel Ministro
(f.to) Bocchini

Dunque furono applicate le indicazioni del Ministero degli Esteri: gli ebrei ungheresi, romeni e slovacchi dovevano
essere rimpatriati, mentre gli ebrei tedeschi o assoggettati furono internati. Solo per gli ebrei apolidi si andò oltre, non
facendo cenno la circolare alla precedente nazionalità degli stessi e proponendone l’arresto generalizzato. Per donne e
bambini si sarebbe atteso che i campi di concentramento entrassero in funzione. Qualche settimana più tardi furono
esclusi dai provvedimenti d’internamento gli immigrati in Italia prima del ’19 e i coniugati con italiani.
Che però Mussolini e Buffarini Guidi nutrissero l’intenzione di procedere ad arresti generalizzati di ebrei, italiani e
stranieri, è provato dalla citata nota del 26 maggio 1940. La nota non specifica la nazionalità di coloro che andavano
sottoposti al provvedimento e va interpretata, a nostro parere, come riferita sia ad italiani che a stranieri. Fu poi
Bocchini che si preoccupò di dare una forma legale e in qualche modo limitata a questa volontà politica, per quanto
riguarda gli “ebrei stranieri”, coordinandosi con il Ministero degli Esteri per ottenere un provvedimento di internamento
che li riguardasse e che fosse il più ampio possibile, nel rispetto della legalità internazionale. Il Ministero degli Esteri,
dal canto suo, accettò l’internamento generalizzato degli ebrei appartenenti a Stati belligeranti, anche a prescindere dalla
loro effettiva pericolosità, accedendo così in parte alla volontà politica razzista che chiaramente promanava dalle
richieste del Ministero dell’Interno; d’altro canto, riteniamo che l’allargamento di tale provvedimento agli ebrei tedeschi
fosse anche un modo per impedirne il rimpatrio forzato, misura contro cui il dicastero degli esteri si era già espresso nel
citato telegramma del 10 giugno. Infine, s’impedì in tal modo che gli “ebrei stranieri” cittadini di Stati neutrali fossero
arrestati.
Per quanto riguarda gli ebrei italiani, sembra che Bocchini si sia comportato in modo ancor più restrittivo rispetto alla
volontà politica che gli veniva comunicata; egli emanò due circolari telegrafiche (27 e 31 maggio ’40) in cui invitava le
prefetture a inviare «elenchi di ebrei italiani pericolosi da internare». È un’emendazione che ha un suo significato
poiché, ancora una volta, con una certa moderazione e con atteggiamento “tecnico” Bocchini faceva leva sia sulla
ebraicità delle persone da internare sia sulla loro effettiva pericolosità, frenando, implicitamente e in una certa misura,
gli impulsi antisemiti ministeriali e prevenendo gli eventuali eccessi dei propri sottoposti.
Gli stranieri con passaporto di Stati nemici residenti in Italia erano più di diecimila, ancora agli inizi del 1941; ma gli
arresti si rivolsero principalmente verso gli ebrei (soprattutto stranieri o apolidi, ma anche italiani) e verso gli oppositori
politici italiani. Infatti, nell’ottobre 1940 gli internati erano 5.624, di cui 2.412 “ebrei stranieri”, 331 ebrei italiani, 1.042
italiani non ebrei e solo 1.839 stranieri non ebrei (fra questi, pochi inglesi e francesi). Più della metà degli arrestati fu
confinato nelle località d’internamento “libero” e costrette a risiedervi senza potersi allontanare e dovendo recarsi
giornalmente presso la locale stazione dei carabinieri. Si può stimare a mio parere, sulla base del numero dei fascicoli
che oggi sono posseduti dall’Archivio centrale dello Stato (circa 20.000 incartamenti personali), tenendo conto delle
perdite documentali dovute alle vicende belliche, delle statistiche annuali sugli internati condotte dal Ministero
dell’Interno, dei proscioglimenti e delle liberazioni, che nell’intero periodo giugno 1940-settembre 1943 il numero
complessivo degli internati (liberi e nei campi) sia stato, all’incirca, di 40 mila persone.
L’internamento degli italiani rivestiva, d’altra parte, un carattere particolare; come si è detto, fra le persone schedate in
vista dei provvedimenti d’internamento c’erano anche degli italiani, il che non risultava rientrare nella normativa in
vigore: né nella legge di guerra del ’38 né nel relativo decreto del Duce, che parlavano entrambi soltanto di «sudditi
nemici». Invece, come sappiamo, le prescrizioni per l’internamento contenute nella circolare del 1° giugno additavano
ai prefetti tutte le «persone pericolosissime sia italiane che straniere di qualsiasi razza». L’abuso fu “sanato”
retroattivamente, almeno nel caso degli italiani non ebrei, con il r.d.l. 17 settembre 1940, n. 2374, che equiparava
l’internamento al confino di polizia, rendendolo quindi una misura preventiva di pubblica sicurezza decretabile anche
nei riguardi di sudditi italiani. Formalmente, il decreto legge citato si applicava anche agli ebrei italiani, ma senza
particolari distinzioni nei riguardi degli altri internati. Però la sproporzione nel numero degli internati ebrei italiani, pari
a circa il 20 per cento di tutti gli internati italiani alla data del settembre ’40, mostra chiaramente che vi era di mezzo,
nel loro caso, un’evidente finalità di politica razziale, non solo illegittima e contraria al diritto come i decreti razzisti del
’38, ma anche illegale (fino al decreto del 17 settembre e oltre).
Circa 270 ebrei italiani furono internati fra il giugno e il settembre 1940, in assenza di una base legale e solo per via di
provvedimenti amministrativi, arbitrari e non appellabili; l’arbitrio è testimoniato dalla variabilità degli atteggiamenti
dei prefetti, che seguirono nei confronti degli ebrei italiani metodi e decisioni assai diverse, alcuni più severi (Livorno,
Genova, Roma) altri più tolleranti. A ciò si aggiungevano le componenti antisemite ampiamente presenti nelle
motivazioni addotte dai prefetti per la proposta d’internamento, mentre appaiono quasi sempre generiche e carenti le
motivazioni politiche o relative alla effettiva pericolosità delle persone. Il che conferisce, secondo Mario Toscano «un
esteso carattere di profilassi sociale con forti venature antisemite alla politica di internamento degli ebrei italiani».
L’internamento va dunque inquadrato, in questo senso, non solo e non tanto come una misura contingente legata agli
eventi bellici, per quanto egualmente discutibile sotto questo profilo. Esso rappresentò anche un pezzo della politica
antiebraica, razziale e di repressione degli oppositori. Questa valutazione è pienamente confermata dal trattamento
riservato agli “ebrei stranieri”, che rappresenta anzi l’elemento maggiormente rivelatore dell’illegittimità
dell’internamento italiano e della sua natura politica e razziale. Per loro è in funzione, implicitamente ma chiaramente,
l’attributo di nemici “oggettivi”, ostili per natura ai regimi totalitari.
Gli “ebrei stranieri” furono la categoria d’internati maggiormente colpita, sul piano numerico e percentuale, dai
provvedimenti ministeriali. Già nell’ottobre del ’40, su 3877 “ebrei stranieri” presenti in Italia e censiti dal Ministero
dell’Interno, ben 2419 erano stati internati (1789 nei campi e 623 nei comuni). Le circa 1.400 persone rimaste nel
proprio domicilio erano mogli e figli di internati, anche se sono stati accertati casi di uomini che riuscirono ad evitare
l’internamento. Anche per Klaus Voigt il linguaggio della circolare del 15 giugno ’40 in cui si disponeva l’arresto degli
“ebrei stranieri” «riconosceva in modo esplicito che l’internamento degli “ebrei stranieri” era parte integrante della
politica razziale». Tanto più che il Ministero dell’Interno comunicò alla Croce Rossa Italiana, in data 18 agosto 1940,
che l’internamento degli “ebrei stranieri” non dipendeva direttamente dallo stato di guerra e sarebbe comunque
avvenuto.

Gli arresti e la detenzione

Due circolari, dell’8 e del 25 giugno, dettarono le regole di vita nei campi; esse confluirono poi nel decreto del Duce del
4 settembre 1940. Il testo della circolare del 25 giugno, inviata ai 5 Ispettori generali di polizia (incaricati del controllo
sui campi di concentramento), ai prefetti e al questore di Roma è il seguente:

Oggetto: Prescrizioni per i campi di concentramento e per le località d’internamento.


1) non è consentito agli internati di tenere presso di loro passaporti o documenti equipollenti e documenti militari; 2) gli
internati non debbono possedere denaro a meno che non si tratti di piccole somme non eccedenti in nessun caso le cento
lire; le eccedenze dovranno essere depositate presso banche o uffici postali su libretti nominativi che saranno conservati
dal direttore del campo di concentramento o in mancanza dal Podestà. Qualora gli internati abbiano necessità di
effettuare prelevamenti, dovranno chiedere di volta in volta l’autorizzazione al direttore del campo di concentramento o
in mancanza al Podestà, il quale, se ritiene giustificata la richiesta, provvederà a far eseguire l’operazione tenendo
presente che la somma da prelevare non deve mai superare quella consentita. Prelevamenti di somme superiori
dovranno essere autorizzati dal Ministero; 3) gli internati non possono tenere gioielli di valore rilevante ne titoli; tanto i
gioielli che i titoli dovranno essere depositati, a spese dell’interessato, in cassette di sicurezza presso la banca più vicina
dove l’internato sarà fatto accompagnare per tale operazione. La chiave della cassetta sarà tenuta dall’interessato,
mentre il libretto di riconoscimento sarà conservato dal direttore del campo di concentramento ed in mancanza dal
podestà; 4) gli internati non possono detenere armi o strumenti atti ad offendere; 5) gli internati non debbono occuparsi
di politica; 6) agli internati può essere consentita in linea di massima soltanto la lettura di giornali italiani; per la lettura
di giornali o libri in lingua straniera deve essere chiesta l’autorizzazione al Ministero; 7) in un primo tempo dovrà essere
corrisposto a tutti gli internati, senza distinzione di sorta, il sussidio giornaliero di £. 6,50, aumentato per gli internati
nei comuni della somma di £. 50 mensili; successivamente le Questure interessate dovranno chiedere alle Questure nelle
cui giurisdizioni dimorava l’internato se questi sia in grado di mantenersi con mezzi propri provvedendo, in caso
affermativo, a sospendere la corresponsione del sussidio; 8) ai fini di una maggiore vigilanza le Questure nelle cui
giurisdizioni dimorava l’internato provvederanno a fornire alle Questure interessate i precedenti delle persone internate
sospette di spionaggio o ritenute comunque pericolose; 9) la corrispondenza ed i pacchi di qualsiasi genere, sia in arrivo
che in partenza, debbono essere sempre revisionati o controllati, prima della consegna o della spedizione, dal Direttore
del campo di concentramento o in mancanza dal Podestà o da un loro incaricato; 10) gli internati non possono tenere
apparecchi radio; 11) le visite dei familiari agli internati sia nei campi di concentramento che nei comuni di
internamento debbono essere autorizzate dal Ministero; 12) la convivenza dei familiari con gli internati nei campi di
concentramento non è consentita; 13) la convivenza dei familiari con gli internati nei comuni d’internamento deve
essere autorizzata dal Ministero; le relative pratiche debbono essere trasmesse al Ministero dalle Questure interessate
debitamente istruite.

Gli arresti furono eseguiti dalle questure secondo i criteri di discrezione prescritti da Bocchini. Sappiamo che la
circolare ministeriale del 1° giugno 1940, con la quale si davano ai prefetti opportune istruzioni per l’arresto delle
persone da sottoporre a internamento, chiedeva di procedere «con il massimo ordine e senza destare allarmismi». Per
cui, solitamente con modi gentili e nascondendo l’arresto sotto le forme di un colloquio di routine in questura, i fermi
degli esuli ebrei avvennero alla spicciolata e senza destare allarme, non solo nella popolazione, ma neanche nei diretti
interessati; si ha però notizia di un caso di suicidio a Fiume, nel corso dell’arresto. Sulle vicende relative agli arresti e al
primo anno dell’internamento possediamo un documento eccezionale, vale a dire il diario di Maria Eisenstein,
attendibile sul piano documentale e dall’indubbio valore letterario. Maria Eisenstein, nata Moldauer, proveniva da una
famiglia austriaco-polacca; avvalendosi delle esenzioni per gli studenti, non aveva lasciato l’Italia entro il marzo del ’39
poiché stava concludendo la stesura della sua tesi di laurea. Era infatti iscritta all’Università di Firenze, dove conseguirà
la laurea in Lettere nel novembre del ’39. Scrive la Eisenstein, sui momenti del suo arresto:

Avevo sempre pensato – cinema, libri, gialli – che ogni arresto che si rispetti debba essere accompagnato dalle pesanti
parole: “In nome della legge” e da un mandato di cattura.
La mattina del 17 giugno 1940 (…) alle sette e minuti, un ometto in borghese, mal vestito, si presentò a casa mia e
ottenne con bel garbo dalla mia riluttante padrona che mi svegliasse a un’ora per me così insolita. La padrona, saputo
che era della questura, gli offrì una tazzina di caffè e lo trattenne in amabile conversazione finché non fui in vestaglia.
“Il questore vuol parlarvi…” mi disse l’ometto. (…)
L’ometto mi accompagnò – non volle che prendessi una carrozza: “È vicino” disse, “prendiamo un po’ d’aria”.
Giungemmo ad un edificio basso e tetro nei pressi della questura.

Gli arrestati vennero condotti nei penitenziari e lì incarcerati, spesso con i detenuti comuni. Quasi tutti gli internati
hanno un ricordo umiliante e disperato di questi momenti, anche perché nessuno conosceva le reali intenzioni della
polizia. Fra i ricordi di Maria Eisenstein, alcuni deprimenti, altri umoristici (come quando il direttore del carcere
s’indignò con lei perché aveva osato parlare scherzosamente in una lettera di un “certo” Manzoni), vale la pena di
riferirne uno che può dare l’idea dell’atmosfera dai tratti angoscianti in cui si trovarono precipitati gli arrestati:

Uscendo, incontrai tutte le mie compagne che credevo alla passeggiata nel cortile. Io non ci andavo mai, perché questa
era l’unica ora in cui stavo sola in cella. Chiesi alla guardiana che mi scortava, perché tutte fossero andate
all’ambulatorio, se stavano tutte male. “Vanno per la puntura” rispose indifferente. “Che puntura?” “Beh… per la
malattia, no. Per la sifilide”.
Gran Dio, avevano la sifilide! Come mai non ci avevo pensato prima? Certo che col loro mestiere dovevano averla. E
gli asciugamani, il vestito, la cipria che m’avevano prestato, le scodelle e posate in comune? (…) Mi venne una gran
disperazione: piansi fino a che le ragazze non tornarono in cella. Poi, però, dimenticai la faccenda e la mia paura, in
quei giorni non ero capace di concentrarmi. Era una fortuna.

La detenzione durò, in media, un paio di settimane o poco più. Ma vi furono casi in cui la permanenza in carcere fu
molto più lunga, per abuso o pigrizia da parte delle autorità di pubblica sicurezza; ad esempio, Toni Jetter, una giovane
dietologa viennese, arrestata in Piemonte il 25 luglio del ‘40, dovette patire ben 35 giorni nel carcere di Cuneo prima di
essere inviata in internamento al campo di Lanciano. Gli arrestati, in maggioranza uomini, dopo il periodo di detenzione
venivano poi tradotti nelle località d’internamento con le modalità in uso per i criminali e i confinati, vale a dire
ammanettati e legati fra loro con le catene; vi furono però eccezioni e spesso le scorte acconsentivano a liberare i
prigionieri dalle manette. Molte testimonianze parlano di compatimento e sconcerto nei poliziotti e secondini che si
trovarono di fronte delle persone che erano ristrette senza aver commesso reati e dal comportamento estraneo a quello
dell’ambiente carcerario solito. Ma non mancarono casi in cui gli internati furono costretti a pagarsi le spese di viaggio
verso il campo di destinazione, pur essendo queste a carico dello Stato. Per esempio, nove internati del campo di Casoli
sottoscrissero una denuncia nella quale dichiararono di essere stati sottoposti alla richiesta di un pagamento di 84 lire da
parte di poliziotti di Trieste, dove erano stati arrestati, per evitare di viaggiare ammanettati.
Fra gli arrestati, pochissimi riuscirono ad ottenere la liberazione; occorreva per questo l’intercessione di importanti
personalità: senatori, nobili, alte cariche statali o ecclesiastiche. L’internamento, per quanto fondato su criteri
soprattutto razzistici, vista la preponderanza di ebrei fra gli internati, e attuato su basi legali fragili e retroattive, come il
decreto del Duce del settembre ’40, ebbe una sua regolarità e fu modellato sul trattamento riservato ai prigionieri di
guerra. La gestione dell’intera materia era centralizzata e affidata alla divisione Agr, diretta dall’ottobre 1938 da
Epifanio Pennetta (sostituito da Guido Leto nel ’43), alle cui dirette dipendenze lavorava un ufficio di coordinamento
gestito dal commissario Alfredo Tagliavia; Settimio Sorani, uno dei principali attivisti della Delasem di Roma, riferisce
che Senise si mostrava più sensibile di Pennetta nel disbrigo delle pratiche di emigrazione. A capo dell’ufficio internati
stranieri, annesso alla Terza sezione della Agr, vi era Arturo Lioni, mentre a capo dell’intera sezione vi era Giovanni
Padellaro. L’ufficio internati italiani era diretto da Ugo Magistrelli, poi sostituito da Ulderico Ercoli. Ogni campo
doveva istituire uno schedario degli internati, i quali non potevano allontanarsi dal perimetro del campo, se non sulla
base di un’autorizzazione del direttore, nominato dal Ministero e alle sue dirette dipendenze. Ci si poteva allontanare
dalle località d’internamento solo su autorizzazione del Ministero. Occorreva procedere a tre appelli giornalieri e per gli
indisciplinati era previsto il trasferimento nelle colonie poste nelle isole. Come riportato nel citato decreto del duce, agli
internati bisognosi veniva corrisposta una diaria di 6,50 lire giornaliere, quasi interamente assorbita dalle spese per il
vitto (si tenga conto che il minimo vitale, comprensivo delle spese di alloggio, si aggirava sulle 300 lire mensili).
Medicinali e cure sanitarie erano a carico del Ministero. Il provvedimento dell’internamento era di esclusiva
competenza del Ministero dell’Interno su proposta delle prefetture; era assicurato uno stretto collegamento col Sim
(Servizio informazioni militari, diretto dal colonnello Cesare Amè), mentre decisioni relative all’internamento furono
prese anche su sollecitazioni provenienti dalle prefetture, dall’Ovra territoriale, dagli Ispettorati di P.S., dalla Divisione
polizia politica, dalle ambasciate e dai consolati italiani in Germania, dalla Commissione Emigrazione e Lavoro, dai
Ministeri e dalla Direzione generale per la demografia e la razza (Demorazza). L’archivio della sezione Internati italiani
è oggi conservato nell’Archivio Centrale dello Stato, in parte nella Categoria II Guerra mondiale (A5G, fascicolo 32), in
parte nella serie Massime (cioè disposizioni della Dgps), fascicoli 16 e 18 della categoria mobilitazione civile (M4).
L’archivio della sezione Internati stranieri si trova nella categoria A4-bis della Dgps, Agr; in esso sono contenuti circa
12.000 fascicoli personali, soprattutto di stranieri, ma anche di alcuni italiani accusati di spionaggio. I fascicoli delle
persone internate dopo l’armistizio (quasi tutti ebrei) sono conservati nella categoria A5G-32.
Anche in relazione al parere espresso dal Ministero degli Esteri, favorevole all’allontanamento degli ebrei cittadini di
paesi neutrali, furono decretati, nei mesi successivi all’entrata di guerra, poco più di mille allontanamenti, che
coinvolgevano soprattutto ebrei ungheresi e romeni, ma anche ebrei provenienti dal Reich tedesco. Le solite difficoltà di
messa in pratica del provvedimento portò all’internamento di molte delle persone che ne erano destinatari. Ad esempio,
alla già citata Toni Jetter, viennese, venne notificato il 2 settembre ’40 un foglio di via obbligatorio per l’uscita dal
Regno, poi revocato e tramutato in internamento a Lanciano.
Gli esuli ebrei internati finirono in quasi tutti i luoghi (circa sessanta) che svolsero le funzioni di campo di
concentramento. Il più grande campo per ebrei fu quello di Ferramonti di Tarsia, in provincia di Cosenza; gli altri
principali campi per “ebrei stranieri” furono quelli di Campagna, in provincia di Salerno, Civitella del Tronto e Isola del
Gran Sasso, in provincia di Teramo. Gli esuli inviati all’internamento “libero”, vale a dire al confino, finirono in quei
comuni inseriti negli elenchi che ogni prefettura aveva stilato su invito delle circolari ministeriali, costretti a risiedervi
senza potersi allontanare e dovendo recarsi giornalmente presso la locale stazione dei carabinieri. La maggior parte di
coloro che furono ristretti nei campi erano “ebrei stranieri”, italiani “allogeni” e, a partire dalla primavera del ’41, civili
jugoslavi. Non si tratta di un dato casuale; come afferma uno studioso dell’occupazione italiana durante il secondo
conflitto mondiale come Davide Rodogno, «la soluzione della “questione slava”, della “questione dell’Alto Adige” e la
legislazione antisemita furono aspetti di una medesima politica razzista che non tardò a manifestarsi nei territori annessi
tra il 1940 e il 1943».
Gli sviluppi della guerra portarono l’Italia ad occupare zone del territorio jugoslavo e francese, con un conseguente
aumento delle persone classificate come “ebrei stranieri”, fino a raggiungere un massimo di circa 10.000 persone nei
giorni dell’armistizio (in cui ci fu un ultimo afflusso di circa 1.500 profughi ebrei in fuga dalla Francia). Per questo, la
cifra degli “ebrei stranieri” internati aumentò costantemente; divennero 5.463 nel novembre del ’42 e 6.386 nella
primavera del ’43; ma si preferì fare ricorso più diffusamente al provvedimento dell’internamento “libero”, per cui la
cifra degli internati nei campi rimase costantemente intorno alle 2.000 persone.
Molti internati ottennero col tempo di poter passare dai campi all’internamento “libero”, come accadde ad esempio a
Maria Eisenstein, già nel dicembre del ’40, quando fu assegnata in internamento libero a Guardiagrele. Per quanto
riguarda gli “ebrei stranieri”, il “proscioglimento” era possibile soltanto per un diverso accertamento della “posizione
razziale” o in virtù della reale possibilità di emigrare, ma le cifre attestano che solo alcune centinaia di esuli (liberi o
internati) hanno potuto lasciare l’Italia dopo la sua entrata in guerra. Secondo Maria Eisenstein e le altre internate nel
campo di Lanciano, anche la corruzione avrebbe potuto ottenere il medesimo risultato, seppure in rari casi:
Con ventimila lire si può ottenere la liberazione. Ce l’hanno detto oggi e ci credo. (…) A Roma lo sanno tutti. C’è al
ministero degli Interni un certo dottor L., incaricato degli internati e persona molto influente. Il dottor L. ha molta pietà
cristiana verso gli internati ebrei. Con ventimila lire questa pietà diventa straordinariamente attiva. In una settimana si è
fuori. Cora è uscita così.

Non ci sono prove di questi casi di corruzione, ma non sorprenderebbe se fossero veri, se si tiene conto di quello che
avveniva nelle pratiche di “arianizzazione” intentate dagli ebrei italiani, dove arbitrio e corruzione erano diffusi.
Le condizioni di vita nei campi erano prima di tutto dipendenti dal relativo garantismo insito nell’equiparazione degli
internati ai prigionieri di guerra, anche se questo non deve far dimenticare che la maggior parte dei provvedimenti
d’internamento erano illegittimi e illegali. Il decreto del Duce vietava inoltre l’uso della violenza e i casi di violenza
sugli internati pare siano stati effettivamente pochi e limitati, tranne un’attitudine meno morbida manifestata dalla
milizia che sorvegliava il campo di Ferramonti. In generale, l’alimentazione nei campi era povera, ma ciò non provocò
inedia o morte per fame. Non erano infrequenti i permessi per recarsi, scortati dalla polizia, nei luoghi di residenza al
fine di sbrigare pratiche per l’emigrazione, sottoporsi ad operazioni chirurgiche o sostenere esami universitari.
Solitamente, ciò che lasciava più a desiderare, per la natura e la vetustà degli edifici, erano i servizi igienici e le
condizioni sanitarie dei campi. Anche l’assistenza medica diretta era insufficiente, ma le autorità non respingevano mai
le richieste di ricovero ospedaliero avanzate dai medici provinciali incaricati, con una circolare del 30 giugno ’40, di
visitare gli internati mensilmente. Secondo Klaus Voigt, fu grazie al senso di responsabilità e all’umanità dei medici che
la mortalità degli internati non fu superiore a quella delle popolazioni locali. Anche se le cattive condizioni sanitarie
causarono uno stato di salute precario, che portò circa la metà degli internati ad ammalarsi seriamente almeno una volta
durante il periodo del loro internamento, con un quinto di loro costretti al ricovero ospedaliero. Soprattutto lo stato
psichico degli internati era precario: irritabilità, senso di frustrazione, timori per il futuro, consapevolezza
dell’ingiustizia subita, tremori per il destino dei parenti rimasti nell’Europa occupata dai nazisti. Ancora una volta è
Maria Eisenstein a restituircene alcuni aspetti:

Poi viene la sera, fa scuro e il numero 6 svanisce con le altre ombre. E io esco coraggiosa dal mio nascondiglio,
coraggiosa perché fa buio e quando fa buio la maschera mi abbandona. Allora ho il coraggio d’avere paura. Quanta
paura, mio Dio, quanta paura! Mi stringe la gola, mi paralizza le membra. Mi rannicchio nella mia branda, mi copro la
testa con la coperta e lascio che la paura salga, e m’avvolga, e cresca e geli in me, mi faccia stupita, ebete. È l’angoscia
di quello che accadrà. Che accadrà di noi ebrei? Di me, se vince Hitler?
Ci ammazzerà tutti. L’ha promesso. Sterminerà la razza. (…) Lo spasimo mi irrigidisce: vedo i cadaveri degli ebrei e
me tra loro. Io, cadavere, riconosco tra i cadaveri volti noti, illividiti: i miei nonni che ho adorato, la mia bella madre,
amici e nemici uno a fianco dell’altro, una fila lunga e interminabile… una fila lunga 17 milioni di corpi.

L’internamento “parallelo” e gli “allogeni”

Oltre gli “ebrei stranieri”, un’altra categoria di persone era nel mirino dei provvedimenti di internamento: i cosiddetti
“allogeni”, vale a dire sudditi italiani di origine straniera, in particolar modo gli appartenenti alle minoranze slave delle
regioni nord-orientali del Regno. Il termine “allogeno”, già in uso in epoca liberale, sotto il fascismo era divenuto di uso
amplissimo e stava ad indicare la volontà di negare l’esistenza di minoranze nazionali, evitando l’uso di termini
(dalmati, croati, tedeschi, ecc.) che indicassero una identità nazionale distinta.
Anche su questa vicenda dell’internamento parallelo pesa l’ombra del razzismo. La cosiddetta “questione adriatica”,
riguardante le aspirazioni del nazionalismo italiano a riassorbire all’interno del nuovo stato i territori già appartenuti alla
Repubblica veneziana, aveva fatto da innesco ad un sentimento di ostilità nei confronti degli slavi del sud, tale da
trascendere velocemente in atteggiamento razzista. “Balcanico”, “slavo”, ecc. fin dall’età liberale divennero sinonimo,
in ogni forma di pubblicistica, da quella giornalistica ai documenti amministrativi, di arretrato, primitivo, pericoloso,
violento, anarchico, ingovernabile. Il giovane nazionalista triestino Ruggero Timeus (pseudonimo: Fauro), morto sul
Carso e poi glorificato dal fascismo, espresse già prima della Grande guerra questo nazionalismo intollerante e razziale,
che convinse la maggioranza degli “irredentisti”: «l’uomo deve curarsi dei diritti e degli interessi della propria nazione
soltanto. L’irredentismo antico che partiva dal principio dell’indipendenza nazionale per tutti, poteva essere
imbarazzato. Noi no». Negli stessi scritti egli parlava di «bifolchi slavi», «popolo di contadini tardigradi, politicamente
miopi, profondamente clericali», valorizzava «l’odio che sussulta, che aggredisce, che affama», esaltava una lotta senza
quartiere tra «due razze». Durante il fascismo queste tendenze furono difese ed alimentate dagli eredi di Timeus, gli
irredentisti giuliani Suvich (che fu sottosegretario agli Esteri), Tamaro, Salata. Tamaro già nel ’15, in Italiani e slavi,
dichiarava che «il predominio adriatico è un diritto». Svalutazione e disprezzo degli slavi venivano ripresi da Tamaro ne
La lotta delle razze nell’Europa danubiana, del ’23. Nell’edizione ridotta della ponderosa Storia di Trieste del 1924,
Tamaro si sbizzarrisce nelle definizioni ingiuriose degli slavi: «piccola gente della Carsia e della Carniola appena uscita
da un’infanzia sociale», «immigrati mistilingue, meticci accozzati», «sloveni, popolo di boscaioli e contadini, senza
storia e senza propria cultura», «invasione, infezione slovena», ecc. Su “Gerarchia”, la rivista ideologica del regime,
Giuseppe Cobol nel ’27 propugnava di impedire l’esercizio della professione agli avvocati slavi, di allontanare i maestri
dalle scuole ed i preti dalle parrocchie, pretendendo che ciò fosse «nell’interesse dello Stato e anche in quelli della
popolazione slava stessa; perché agli slavi non giova essere guidati da questi agitatori di mestiere che danno ad essi la
fisionomia di ribelli e antistatali». E così avvenne, in quell’aggressivo “fascismo di confine” che si realizzò nella
Venezia Giulia italiana, con attacchi al clero, cacciata dei contadini slavi dalle loro terre, politiche di
snazionalizzazione, modifiche ai cognomi, tanto da far parlare gli studiosi odierni di vero e proprio «genocidio
culturale». L’invasione della Jugoslavia nel ’41 portò queste tendenze al parossismo. Su “Il Regime Fascista” di
Farinacci del giugno ’42 si poteva leggere che «il sangue di un nostro fante vale di più che le carogne immonde di cento
banditi». Nel dicembre del ’41 il pubblico ministero del Tribunale Speciale così definiva gli imputati “allogeni” nel
processo tenutosi a Trieste: «omuncoli impastati di odio, di rancore, di livore settario».
Fra i circa 20.000 fascicoli personali degli internati posseduti dall’Archivio centrale dello Stato (a cui vanno aggiunti
quelli, in numero imprecisato, andati perduti) un migliaio riguardano gli “allogeni”. Il numero complessivo degli
“allogeni” internati dal Ministero dell’Interno dovrebbe superare le 2.000 persone. Una serie di arresti fu operata già nel
giugno del ’40 negli ambienti delle associazioni clandestine slave: molti furono inviati all’internamento, mentre 60
persone furono sottoposte al citato processo del Tribunale Speciale, con pesanti condanne detentive e nove condanne a
morte. Nel giugno del ’42 l’Ispettorato di polizia per la Venezia Giulia fu incaricato di provvedere direttamente
all’internamento degli “allogeni”, allargandolo alle famiglie dei disertori. Furono creati dei campi di raccolta nella zona
e fu poi ceduto all’Ispettorato il campo di prigionia di Cairo Montenotte (in Liguria) che poteva ospitare più di mille
persone; alcuni degli internati furono inviati nei campi d’internamento (“regolamentari”) del Ministero dell’Interno,
come alcune centinaia di donne e bambini concentrate nel campo di Fraschette di Alatri (nel Lazio). Più numerosi (forse
4-5 mila persone) dovrebbero essere invece i cittadini jugoslavi internati in Italia, nei campi “regolamentari” del
Ministero dell’Interno, dopo l’occupazione del regno jugoslavo da parte delle potenze dell’Asse. Ad essi vanno aggiunti
i civili jugoslavi internati direttamente dalle Autorità militari italiane (il cosiddetto internamento “parallelo”) il cui
numero è ancora molto difficile da stimare, ma che dovrebbe superare le 50-60 mila persone.
Le condizioni di vita nei campi di concentramento “paralleli” per civili jugoslavi furono assai peggiori rispetto a quelli
“regolamentari”, con un’alta mortalità; ad esempio, nel campo di Renicci, in Toscana, fra la fine del ’42 e l’armistizio
morirono 159 persone su circa 4.000 internati, alloggiati in tende e baracche fatiscenti, sottoalimentati e senza
un’assistenza sanitaria decente.

La fase finale dell’internamento “regolamentare”

Le pulsioni antisemite dell’ala oltranzista del Partito fascista e di alcuni settori della Dgps condussero, negli ultimi mesi
del regime, alla formulazione di un disegno di legge per sottomettere gli internati al lavoro coatto, cambiandone in tal
modo lo status giuridico, non più riconducibile a quello dei prigionieri di guerra. La proposta legislativa, preparata del
ministro delle Corporazioni Cianetti, fu ripresa dal partito fascista, che in giugno, scagliandosi ancora contro
l’ebraismo, chiese la sollecita adozione del lavoro coatto e l’allontanamento degli stranieri. Per quanto riguarda il lavoro
obbligatorio, al quale Mussolini era favorevole, si procedette selezionando le persone da assoggettare e i luoghi per
concentrarli, ma i fatti del 25 luglio posero fine al progetto. La richiesta di rimpatrio significava la consegna degli ebrei
stranieri ai tedeschi per la deportazione ad est; la grave richiesta era sottoscritta, oltre che da Scorza (segretario del
partito) e Galbiati (capo della Milizia), da tre ministri. In parallelo, la divisione Agr della Dgps aveva redatto un
«Appunto per il duce» datato 10 maggio 1943 che proponeva la consegna ai tedeschi praticamente di tutti coloro di cui
essi avrebbero fatto richiesta per ragioni di «sicurezza militare»; la formulazione dell’appunto vide la collaborazione
attiva del responsabile dei rapporti con la polizia tedesca, Alianello; si dovrebbe escludere la responsabilità di Padellaro,
direttore della Sezione III (movimento stranieri), che scrisse il 28 maggio un rapporto per il capo divisione contrario
all’estradizione generalizzata. Secondo Klaus Voigt, anche Chierici, da alcune settimane capo della polizia, era
contrario al contenuto dell’Appunto sull’estradizione, tanto che vietò di sottoporlo a al duce. Mussolini non assecondò
la richiesta di allontanamento degli ebrei stranieri dall’Italia, anche se nel novembre del ’42 aveva dato il suo assenso ai
tedeschi per la consegna degli ebrei presenti nelle regioni della Croazia occupate dagli italiani, che non furono poi
consegnati grazie alle manovre dilatorie dei vertici dell’Esercito e del ministero degli Esteri. Il 15 luglio del ’43 la Dgps
diede parere favorevole ad un’analoga richiesta tedesca riguardante gli ebrei presenti nella zona d’occupazione italiana
in Francia. Il 25 luglio interruppe anche questo tragico progetto.
Proprio il 25 luglio, un enigmatico telegramma del Gabinetto del ministero dell’Interno alla Dgps «per le
determinazioni che riterrà opportune e delle quali si gradirà avere comunicazione, a titolo di notizia» avanzava la
proposta di trasferire a Bolzano i quasi duemila ebrei presenti nel campo d’internamento di Ferramonti. Qualcuno,
dentro all’apparato poliziesco italiano, voleva avere degli ostaggi per trattare meglio la resa imminente, forse le stesse
persone che avevano preparato l’Appunto per il duce del maggio precedente. La polizia era in quel momento suddivisa
in due partiti, da un lato i moderati rappresentati dagli ex collaboratori di Balbo che Mussolini aveva chiamato da
qualche mese e guidare il ministero, con Albini sottosegretario e Chierici capo della polizia, dall’altro i filo-tedeschi
(che dopo l’otto settembre si recarono al Nord e aderirono alla Repubblica sociale) guidati dal capo della Polizia
politica Guido Leto. Non sappiamo chi ci fosse realmente dietro il telegramma del 25 luglio; forse membri di entrambi i
gruppi. Anche questa iniziativa, naturalmente, non ebbe esito.
Il nuovo governo guidato da Badoglio, già il 29 luglio, diede ordine di liberare gli internati politici italiani, tranne
“allogeni”, comunisti, anarchici, spie e trafficanti. Comunisti e anarchici vennero liberati a metà agosto, mentre gli
“allogeni” e gli “ebrei stranieri” rimasero ristretti, a riprova che il pregiudizio razzistico era ormai penetrato nei gangli
dello Stato e nei suoi vertici; le leggi razziali rimasero infatti pienamente in vigore fino al gennaio del ’44, quando un
primo decreto legge diede inizio al loro smantellamento.
Il 10 settembre 1943, il capo della polizia badogliana Senise, prima che i tedeschi prendessero il controllo di Roma,
emise un’ultima circolare in cui ordinava la liberazione degli internati stranieri (come previsto dall’armistizio). Non si
sa quante prefetture ricevettero effettivamente la circolare. Klaus Voigt stima in circa 10.000 gli ebrei stranieri presenti
sul territorio italiano nei giorni dell’armistizio; di questi, circa 2.200 si ritrovarono salvi al di qua della linea del fronte
che, assai rapidamente per il veloce ripiegamento tedesco, si attestò già a fine settembre ‘43 lungo la linea Gustav. Ma il
1° novembre il Ministero dell’Interno della Rsi revocava i provvedimenti di liberazione. Inoltre, a fine novembre, fu
emanato dalla Rsi l’ordine di arresto generalizzato degli ebrei e si provvide ad allestire gli appositi campi di
concentramento. Gli esuli ebrei, ristretti da ormai tre anni, ebbero le maggiori difficoltà a scampare ai rastrellamenti e
risultano perciò essere il gruppo percentualmente più colpito dagli arresti e dalle spedizioni verso i campi di sterminio
nazisti. Vale a dire che ci furono circa 3.000 “ebrei stranieri” arrestati su 10.000, rispetto a un totale di 8.500 arrestati
fra i circa 45.000 perseguitati presenti in Italia nella seconda metà del 1943.

270
4
MEMORIA IMPERFETTA

Alla fine della guerra, un velo di oblio generale è stato steso per almeno un quindicennio, in tutto il mondo, sugli orrori
del conflitto e pure sulla specificità della persecuzione a danno degli ebrei; e questo perfino nella coscienza del popolo
ebraico. Per quanto riguarda il caso specifico dell’Italia, a questa iniziale messa tra parentesi del ricordo si è andata ad
aggiungere una deformata percezione dei profughi ebrei che vissero in Italia gli anni terribili della persecuzione e che
poi sono sopravvissuti. Anche se molti di loro lasciarono il paese dopo la guerra, essi mantennero un ricordo tutto
sommato non negativo degli anni vissuti in Italia. Anche gli ebrei italiani elaborarono, negli anni del dopoguerra, una
memoria incompleta della persecuzione fascista e dell’antiebraismo della società italiana, minimizzando le
responsabilità e rimarcando con sincera generosità soprattutto i fatti positivi e le diffuse prove di solidarietà che singoli
e gruppi avevano posto in essere in quegli anni.
Si tratta di un tema che va articolato, nel caso dell’Italia, su diversi fronti. È, in senso più ampio, la grande ambiguità
del dopoguerra italiano e dell’irrisolta questione della mescolanza fra regime fascista e Stato. In quegli anni molti
invocarono la propria innocenza in nome della fedeltà allo Stato e non percepirono, neanche a posteriori, la natura
criminale di numerosi provvedimenti emanati dal fascismo, nemmeno per ciò che riguarda le misure discriminatorie e
repressive legate alla politica razziale del regime.

La continuità dello Stato

Occorre dire che il tema della continuità dello Stato, fra fascismo e Repubblica, è fra i più spinosi ed è gravido di
importanti conseguenze, non solo storiografiche. Si tratta di un tema opaco, come fa notare Pier Giorgio Zunino,
secondo il quale ogni sforzo conoscitivo rivolto a vicende tanto complesse e drammatiche deve tener conto della
parziale insondabilità di quegli eventi: «per quante ragioni si ritenga di poter individuare per spiegare il prevalere, dopo
tanto disastro, delle permanenze sulle discontinuità, il bandolo della matassa, si dovrà poco gloriosamente riconoscere,
sembra alla fine sempre sfuggire di mano. Nonostante tutto rimangono avvolte nella penombra le determinanti ultime
della complessa fenomenologia sociale che impresse il suo segno su quelle vicende».
Per alcuni versi, si tratta anche di una vicenda contraddittoria, se si tiene conto della tesi secondo la quale l’8 settembre
rappresentò un evento traumatico nella storia d’Italia, una sorta di morte della Patria. Da un lato, quindi, una continuità
nella struttura statale, del tutto evidente in molta parte della documentazione relativa alla macchina amministrativa;
dall’altra la cesura causata dall’armistizio e dagli eventi successivi. Probabilmente è necessario articolare i due temi in
una connessione dialettica che riconosca sia il versante discontinuista sia l’evidente sopravvivenza di importanti pezzi
di legalità fascista. Una duplicità che permetterebbe di fare chiarezza su molti temi, cioè anche sulla questione del
mancato perseguimento dei criminali di guerra italiani e stranieri, sui rapporti fra l’Italia e le potenze vincitrici,
sull’autorappresentazione di sé e della Resistenza che il nascente Stato repubblicano produsse.
La questione della continuità dello Stato è complicata dall’esistenza di forme di continuità fra Stato fascista e Stato
liberale unitario. Da un lato, nel senso di un potenziale autoritarismo insito nelle strutture dello Stato liberale che il
fascismo avrebbe poi solamente amplificato; l’aver affidato infatti, nello Stato unitario sabaudo, la costituzione
materiale all’attività legislativa e quindi al solo Parlamento, con un primato reale della legge ordinaria sullo Statuto, ha
indirettamente prodotto un parallelo primato dell’amministrazione pubblica sui cittadini, i cui diritti non erano
imprescrittibili ma di fatto sottoposti permanentemente all’assenso dei pubblici poteri. Di ciò Mussolini si avvalse per
violare, attraverso la legiferazione ordinaria, la costituzione materiale, che già era una “prassi costituzionale”, cioè
differente rispetto alla lettera dello Statuto. E lo fece, secondo questa tesi, in modo non del tutto eversivo, per la natura
non contrattuale ma in qualche modo concessiva dei diritti di libertà. Lombardi ne conclude, in accordo con l’autorevole
opinione di Aquarone, che fu proprio questa continuità che, mentre permise lo sviluppo della dittatura fascista, la
preservò altresì dal divenire assoluta e totalitaria, poiché le strutture amministrative furono sempre in grado di
fronteggiare l’assalto del partito fascista e la sottomissione della legge all’arbitrio dell’ideologia: «sembra paradossale –
e forse lo è – ma è proprio così: la struttura autoritaria del nostro diritto amministrativo lo preserva dagli elementi
totalitari da cui lo si voleva far assorbire. (…) In realtà, l’amministrazione tradizionale dello Stato rappresenta quasi una
sorta di frontiera rispetto alle strutture del partito e alle pretese di egemonia da parte di esso».
Tesi suggestive, che colgono dei nuclei importanti di verità, ma che, più che escludere che il fascismo sia stato un
totalitarismo, illuminano sul carattere specifico del totalitarismo (per quanto “incompiuto” o “imperfetto”) fascista, che
fu di stampo statalista, nazionalista e burocratico. La comprovata penetrazione della mentalità razzista
nell’amministrazione è la prova della commistione fra Stato e regime, fra amministrazione e ideologia totalitaria e
confuta la pretesa capacità dell’amministrazione pubblica di arginare le pretese del partito fascista; una commistione
così profonda che Mussolini progettava, vinta la guerra, di governare la società e lo Stato attraverso i direttori generali
dei ministeri, concepiti come strumenti efficaci e affidabili di una politica ideologica e totalitaria; una prefigurazione del
“governo tecnico” dei nostri giorni. Di un totalitarismo tutto affatto particolare, di cui la componente tecnico-
burocratica rappresentava la struttura portante più consistente. Dal canto suo, Claudio Pavone, che ha elaborato la
sintesi migliore del problema della continuità dello Stato (seppur ormai qualche decennio or sono) esprime un giudizio
netto sulla tesi della doppia continuità stato liberale-fascismo e fascismo-repubblica; essa rischia, afferma Pavone, di far
perdere la reale natura delle strutture sottoposte ad analisi: «le istituzioni statali potrebbero infatti, su questa strada,
essere gratificate come di una loro innocenza rispetto al fascismo, che nasce e crolla mentre esse istituzioni – comprese
alcune di quelle create dal fascismo stesso – restano». Senza sopravvalutare l’autonomia della burocrazia rispetto al
regime fascista, bisognerebbe quindi sondare, al contrario, la capacità del fascismo di violare dall’interno le istituzioni
ereditate dallo stato liberale, per poi lasciarle in tali condizioni - cioè svuotate e tralignate - come scomoda ma
ineludibile eredità per il nuovo disegno istituzionale repubblicano che andava producendosi nei mesi finali del conflitto
e in quelli successivi.
La storiografia degli ultimi anni ha messo in luce un altro fattore decisivo per la comprensione di questo delicato snodo
storico, vale a dire come i processi di rielaborazione dell’identità nazionale messi in campo negli anni del secondo
dopoguerra abbiano contribuito a modificare la percezione dell’immediato passato e ad occultare alcuni elementi non
secondari di quello stesso passato, rafforzando l’idea di una continuità tutto sommato indolore fra passato fascista e
presente repubblicano. Se continuità e autoassoluzione furono al centro dell’inconscio collettivo che ha prodotto i miti
fondativi dello Stato repubblicano, ciò avvenne perché, come ha scritto Luigi Ganapini, «nel momento della sconfitta,
dell’occupazione tedesca, nessuno avrebbe potuto alzare la voce a rimproverare agli italiani il loro passato, pena un
rifiuto e un ripudio che sarebbe stato letale per le formazioni politiche dell’antifascismo, indubbiamente deboli e
sconosciute ai più in quella congiuntura». Venne perciò affermata una continuità morale e giuridica, sulla quale il
regime fascista aveva potuto incidere solo superficialmente, senza intaccare le qualità fondamentali del popolo italiano,
che non fu – secondo questo autoritratto collettivo postbellico - partecipe delle deviazioni ideologiche, pratiche e
giuridiche del regime. David Bidussa ha individuato nel mito del “bravo” italiano il nucleo centrale di questa
autorappresentazione nazionale e Filippo Focardi ha indicato nel breve periodo che va dall’8 settembre al trattato di
pace il periodo mitopoietico, che aveva lo scopo congiunturale di fronteggiare la propaganda del fascismo repubblicano,
mobilitare le forze contro l’occupante tedesco e superare l’armistizio preparando un nuovo status dell’Italia nei
confronti degli alleati. Al centro del mito c’era «un’immagine tipizzata del soldato italiano come intimamente avverso
alla guerra, recalcitrante al compimento di atti di violenza e di sopraffazione». Corollari di questo nucleo centrale della
mitologia fondativa repubblicana furono: la responsabilità unica di Mussolini e del fascismo nella scelta di partecipare
alla guerra, il carattere laborioso e umano del colonialismo italiano, il carattere blando e formale della politica
antisemita. La forza persuasiva e la lunga intangibilità di questo mito sono anche dovuti al suo associarsi necessario con
la natura fondativa e liberatoria della Resistenza; se alcuni corollari del mito, nota Focardi, quali la natura pacifica del
colonialismo italiano e il nostro scarso antisemitismo sono stati parzialmente rimessi in discussione, il nucleo centrale e
la complessiva forza attrattiva del mito restano assai forti. Con ovvi effetti di occultamento storico e sociale sulla reale
natura dell’esperimento totalitario fascista.
Sul piano costituzionale, Aldo Pezzana, per quanto anch’egli incline alla tesi della continuità dello Stato, ha fornito un
elenco importante delle violazioni flagranti dello Statuto compiute dal fascismo: la libertà di stampa (garantita dall’art.
28); la libertà di riunione (art. 32); le norme sulla rappresentanza politica (art. 39) con la creazione nel ’29 di un collegio
unico nazionale con lista bloccata e poi con la sostituzione della Camera dei Deputati con la Camera dei Fasci e delle
Corporazioni; lo scrutinio segreto nei lavori parlamentari (art. 63), che fu abolito nel ’39; il divieto di Tribunali
straordinari (art. 70), violato dalla istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Infine, la violazione più
grave e più significativa, l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, garantita dall’articolo 24 dello Statuto e violata
dalla introduzione nel ’38 dei decreti antiebraici. Pezzana fa anche notare l’estrema gravità data dal fatto che, in questo
caso, la violazione fu perpetrata per decreto e non attraverso il normale strumento legislativo, come era avvenuto in
precedenza per le altre modificazioni costituzionali. Enzo Fimiani ha inoltre sottolineato gli altri strappi costituzionali,
quelli perpetrati fra il ’22 e il ’24: la creazione del Gran Consiglio e della milizia, il decreto del ’23 sui limiti alla libertà
di stampa, soprattutto la legge Acerbo che attribuiva di fatto una delega costituente alla maggioranza parlamentare.
La violazione della riserva di legge sulla libertà personale (art. 26 dello Statuto Albertino), che è in qualche misura al
centro di questo libro, rappresenta infine l’aspetto più concreto e grave delle politiche incostituzionali del fascismo. Una
riserva che appare violata in almeno tre modi: il primo, che colpì moltissimi italiani, riguarda le misure limitative della
libertà personale (confino, ammonizione e diffida) previste dal TU di PS, quindi apparentemente legali, ma prive di
riserva di giurisdizione e di fatto demandate all’arbitrio delle autorità di polizia, anzi spesso personalmente e
discrezionalmente decise da Mussolini. Una seconda violazione riguarda gli arresti comminati in violazione dello stesso
TU di PS, provate ad esempio nel caso delle indagini sui Testimoni di Geova della provincia di Pescara. Infine gli
internamenti di guerra, disposti nella maggioranza dei casi su base razziale e in via amministrativa, prima che un
“Decreto del Duce” giungesse, alcuni mesi dopo l’inizio degli internamenti, a tentare di darne veste legale.
La somma di queste importanti violazioni dimostra che il fascismo non si limitò a modificare la “costituzione
materiale”, ma creò un nuovo tipo di Stato con le seguenti, tendenziali, caratteristiche: assenza di istituzioni
rappresentative, assenza della separazione dei poteri, assorbimento di ogni altra fonte di legittimità sociale e politica
(soprattutto quelle di Corona e Chiesa), introduzione (con le leggi razziali) della personalità del diritto e quindi lesioni
profonde al principio di legalità. Accanto a queste chiare discontinuità, non mancano, come abbiamo visto, forme di
continuità (tra Stato liberale e Stato fascista) nella ideologia nazionale, nella pratica amministrativa pubblica, nella
legislazione, nella stessa statualità.

Il servizio allo Stato e il razzismo

La gravità assoluta della discriminazione razziale, da un punto di vista giuridico e in riferimento alla natura stessa dello
Stato, è stata ben evidenziata da Ernst-Wolfgang Böckenförde, che scrive, rifacendosi al caso tedesco: «la cittadinanza
non è una relazione contrattuale che può essere rotta in modo arbitrario. Si tratta di un legame di appartenenza formale,
di una relazione fondata sul diritto che tocca l'individuo in quanto tale. Essa è caratterizzata principalmente da un
rapporto di protezione e di obbedienza. Si comprendono in questo modo, da una parte, i doveri del cittadino verso lo
Stato (lealtà, rispetto delle leggi e, nei momenti difficili, fedeltà), d'altra parte, la responsabilità e il dovere dello Stato di
proteggere ogni cittadino "contro minacce e violenze condotte da terzi", come prevedeva il diritto generale prussiano
dal 1794. In un tale rapporto di protezione e di fedeltà è inconcepibile che una delle parti possa rigettare l'altra, salvo,
forse, in caso di crimine grave contro la collettività».
Nel periodo postbellico questo dato non fu prioritario e non fu affermata l’impossibilità di invocare la fedeltà allo Stato
italiano che, con la repressione degli oppositori e la discriminazione razziale, dissolveva il fondamento della sua
essenza. In virtù di questa continuità, il fascismo lascerà, come frutto avvelenato di cui la nascente Repubblica sarà
costretta a cibarsi, oltre ai relitti delle antiche istituzioni liberali ormai fascistizzate, oltre alle nuove istituzioni fasciste,
addirittura atti, decisioni e pezzi di Stato prodotti dal fascismo repubblicano. Secondo Pavone, infatti, una piena
comprensione della continuità amministrativa deve tenere anche conto del ruolo della Repubblica sociale, che mantenne
in piedi nelle regioni del centro-nord tutte le strutture preesistenti, chiedendo e ottenendo obbedienza dai cittadini,
esercitando così l’amministrazione in forme apparentemente legali, tanto che la giurisprudenza successiva considererà
generalmente legittimi i suoi organi e le loro attività.
Solo in un contesto di questo genere, nell’ambito cioè di una continuità amministrativa che coinvolga anche le
articolazioni della Repubblica sociale, diventa comprensibile il comportamento di molti funzionari prefettizi, che
rimasero al loro posto e offrirono collaborazione agli Alleati e al governo monarchico quando le loro province furono
liberate, sia per una certa attitudine all’opportunismo se non all’avventurismo, sia perché non percepivano il loro
comportamento e la loro posizione come ostacoli invalicabili al raggiungimento di un compromesso con i nuovi poteri.
Va perciò considerato che la Repubblica sociale andò a coprire il vuoto istituzionale causato dall’armistizio e può
rappresentare quell’elemento di connessione che spieghi la coesistenza della “morte dello Stato” e della sua sostanziale
continuità. Scrive infatti Pavone: «la RSI impedì che gli italiani, dopo lo sconquasso seguito all’armistizio, vivessero
fino in fondo l’esperienza rinnovatrice dell’assenza di poteri costituiti. (…) Essa favorì (…) un recupero del senso di
sfasciamento dello Stato seguito (…) alle giornate del settembre 1943». Al centro del processo di continuità ci fu
dunque «la mancanza di fratture nell’ordinamento giuridico» che, con il mantenimento di quasi tutte le leggi ordinarie
del Regno e con il recepimento di molte misure adottate dalla Repubblica sociale, fece poi da fortissimo contrappeso
all’introduzione della nuova Costituzione e all’adozione della forma repubblicana.
Se si allarga l’orizzonte ai fattori sociali e strutturali, si avrà conferma del primato della continuità e, allo stesso tempo,
una sua spiegazione. Le ricerche di Pier Giorgio Zunino mostrano come le élites economico-sociali non subirono
sostanziali mutazioni nel passaggio al postfascismo, mantenendo una presa conservatrice sulla società anche dopo il
crollo del regime: «l’egemonia ideologica esercitata dal blocco di potere costituito intorno al fascismo si rivelò infatti,
sia nell’ultima fase della dittatura sia nel passaggio di regime, consistente e oltremodo viscosa, nonostante tutto. (…) Il
modellamento del pensiero collettivo il cui lavorio di fondo si era esercitato in profondità nel corpo del paese lungo due
decenni (…), aveva suscitato (…) non superficiali adattamenti allo stato delle cose, dando quasi luogo (…) ad una
stabilizzazione ideologica destinata a durare ben oltre la fine dello stato totalitario».
Da questa generale continuità, derivò una dottrina della neutralità della pubblica amministrazione che valse, sulla base
della distinzione fra Stato e regime e della differente condizione di chi dichiarò essersi sentito servitore dello Stato e
non del fascismo, a mondarla di colpe rispetto al passato e la mantenne sostanzialmente integra all’interno del nuovo
Stato repubblicano. Sui riflessi che tale giudizio riveste nell’analisi della situazione italiana dopo il fascismo, nella
valutazione della continuità dello Stato e sulla percezione della sopravvivenza ideologica del regime, basti fare
riferimento ad alcuni dati: nel 1960 tutti i viceprefetti, questori e vicequestori in attività erano entrati a far parte
dell’amministrazione pubblica in epoca fascista; lo stesso si dica, alla medesima data, di 62 prefetti su 64. E pochissimi
di loro risultavano aver collaborato con la Resistenza.

Le amnesie

I motivi della rimozione o errata percezione del razzismo di stato in Italia sono assai complessi e solo oggi cominciano
ad affiorare. Possiamo solo provare ad elencarne alcuni, quelli che per ora sono riemersi dalla parentesi della
dimenticanza e della sottovalutazione. In primo luogo ha giocato un’amnesia generale, che ha coinvolto tutti coloro che,
usciti dalla tragedia della guerra, hanno dovuto condensare le energie nello sforzo di ridare un senso alla vita, di
ricostruire dalle macerie e riparare le ferite materiali e morali. Annette Wieviorka, recensendo su Le Monde la
traduzione francese del libro di Novick sulla storia della coscienza della Shoah nella vita americana, rilevava che
ovunque nel mondo si è assistito a diverse oscillazioni della capacità di ricordare: «l'evoluzione descritta da Novick non
è per nulla propria degli Stati Uniti, ma dovunque, in Israele come in Francia, o ancora in Germania, nonostante le
specifiche condizioni politiche, sociali, culturali e il differente ruolo degli ebrei, si ritrova lo stesso ritmo evolutivo,
dalla mancata percezione di un destino proprio degli ebrei durante la guerra, al silenzio del dopoguerra, rotto dal
processo Eichmann, allo sviluppo della coscienza in occasione della guerra dei sei giorni e del Kippur fino
all'onnipresenza di questi ultimi anni». Nel caso dell’Italia, anche quando nei sopravvissuti o negli studiosi tornava ad
affiorare la memoria delle effettive circostanze e la condanna morale e storica dei crimini che erano stati commessi,
l’ombra comparativa della “soluzione finale” faceva ripiombare il caso italiano nell’anonimato di una discriminazione
non sistematica e quasi trascurabile. È quello che Michele Sarfatti con grande acume ha definito il «peso di Auschwitz»
nella trama della memoria comune e delle ricostruzioni scientifiche del passato: «l’assunzione di Auschwitz a metro di
paragone assoluto ha comportato l’inserimento dell’antiebraismo fascista in un sistema di confronti (…) finalizzati (…)
a “svalutare” la persecuzione antiebraica praticata dal regno fascista tra il 1938 ed il 1943 a fronte delle ben più gravi
responsabilità della Repubblica sociale italiana, ed a “svalutare” il ruolo avuto da quest’ultima nell’arresto e nella
deportazione di migliaia di ebrei a fronte delle ben più gravi responsabilità della Germania nazista».
Per gli ebrei sopravvissuti che trovarono rifugio in Italia non si trattò solo di una deformazione della memoria, ma
anche degli effetti di una comparazione vissuta sulla propria persona e condizionata dall’esito finale, che fu, per molti di
loro, di salvezza. Come ha scritto Karl Voigt, nel loro caso «la persecuzione fascista era stata accettata per sfuggire a
una più minacciosa. Nel ricordo le condizioni nell’esilio italiano apparvero a molti, come ebbe a esprimersi un profugo,
“una piacevole delusione”. Alla fine, a dispetto di tutti i pericoli, delle rinunce e delle sofferenze, prevalse la gratitudine
per aver trovato in Italia la salvezza».
Nel caso degli ebrei italiani, «il canone interpretativo della persecuzione elaborato dalla maggioranza dell’ebraismo
italiano si fondava sulla convinzione che il popolo e la cultura nazionale erano assolutamente estranei
all’antisemitismo». Secondo Guri Schwarz forse giocò, almeno nei rappresentanti ufficiali, anche un fattore di
opportunità politica, in un periodo in cui molti profughi diretti in Palestina transitavano per l’Italia ed era dunque
auspicabile che non vi fossero ombre o preconcetti che incidessero negativamente nelle scelte della nuova classe
dirigente repubblicana. Ma le motivazioni più profonde furono di carattere storico-culturale, addensate attorno alla
volontà di non esasperare la memoria della persecuzione per non sottolineare, a se stessi e agli altri, la propria identità-
diversità rispetto all’intero corpo sociale. La ripresa del processo d’integrazione, che era stato in Italia assai forte fin dal
Risorgimento e connotato da fiducia nei confronti dello Stato e del popolo italiano, portava inconsciamente a mettere tra
parentesi l’epoca della discriminazione. E questa tendenza si coniugava perfettamente con la volontà della comunità
nazionale di offrire un’immagine altrettanto edulcorata del recente passato razzista. L’ebraismo italiano finì pertanto per
collaborare alla formulazione di un’insoddisfacente e lacunosa autocoscienza storica degli italiani su quanto era
effettivamente avvenuto sotto il regime fascista e negli anni del conflitto mondiale. Più problematica appare l’idea,
sostenuta da Schwarz, che sia stata la valorizzazione della Resistenza intesa come secondo Risorgimento e il sorgere di
un «paradigma antifascista» a determinare la convergenza fra oblio della coscienza nazionale e ricordo edulcorato della
comunità ebraica, nel senso che «l’interpretazione del fascismo come “anti-Risorgimento” e la qualifica
dell’antisemitismo quale corpo estraneo (…) si integravano perfettamente poiché l’emancipazione era stata uno dei
frutti caratteristici del liberalismo risorgimentale».
Ma non furono tanto le forze antifasciste, che pure cercarono accuratamente di evitare che su di esse e sull’Italia
repubblicana ricadessero le colpe e le punizioni da addebitare al regime fascista, ad essere i maggiori responsabili della
rimozione postbellica di quelle colpe; furono soprattutto i poteri “tecnici”, monarchici, burocratici, militari e
polizieschi, che, nel cercare di allontanare da sé ogni colpa e di salvaguardare la posizione dell’Italia nell’agone
internazionale, accreditarono l’immagine di un’Italia esente da condotte criminali, rispettosa dei diritti umani e del
diritto internazionale. Focardi ricorda che monarchia ed esercito «giocarono la carta antitedesca non solo a fini
patriottici ma anche con calcolo opportunistico per una comoda riabilitazione delle colpe». Questi poteri, anche quando
non si trattava di responsabilità personali o di gruppo, spesso per mera pulsione corporativa e spinti soprattutto da un
fortissimo desiderio di continuità, lavorarono con discrezione ma efficacemente per mettere insieme i tasselli della
memoria assolutoria che poi prevalse. Un esempio è la relazione riservata scritta dal Ministero degli Affari Esteri nel
1946 per i lavori della conferenza di pace di Parigi, che aveva per titolo “Relazione sull’opera svolte dal ministero degli
Affari esteri per la tutela delle comunità ebraiche (1938-1943)”, che accreditava un comportamento protettivo nei
confronti degli ebrei nei territori balcanici e francesi occupati dall’Italia; si tratta effettivamente di una vicenda assai
complessa sulla quale però oggi siamo in grado di far luce e che rivela comportamenti contraddittori e comunque dettati
da calcolo politico oltre che da spirito umanitario. Ed è interessante sottolineare che, come nota Davide Rodogno,
l’argomento della protezione degli ebrei e del rifiuto di consegnarli ai nazisti non fu utilizzato nel corso delle trattative
che portarono all’armistizio. Anche se elementi di genuina preoccupazione umanitaria fecero parte delle scelte compiute
dai vertici politico-militari italiani, che ad esempio in Croazia non consegnarono ai tedeschi i profughi ebrei rifugiati nel
territorio posto sotto il controllo italiano, contravvenendo ad un ordine esplicito emanato da Mussolini.
A partire da queste premesse, il sommarsi di altre circostanze, che hanno a che fare con la politica interna e
internazionale del dopoguerra, ad esempio la formazione di nuovi schieramenti internazionali che videro l’Italia e la
Germania Federale divenire solide ed importanti alleate degli angloamericani, produsse la particolare conformazione
della memoria italiana sul secondo conflitto mondiale, sul ruolo svolto in esso dall’Italia e sulle responsabilità italiane
nei crimini commessi nel corso del conflitto; La questione andrebbe allargata, poiché non si trattò soltanto di calcolo
opportunistico, ma di un vero e proprio processo impersonale che coinvolgeva l’essenza e la ragion d’essere di strutture
permanenti dello Stato.
Vale a dire che una valutazione d’ordine generale dovrebbe mostrare come la rimozione e il mancato riconoscimento
delle gravi responsabilità che ricadevano sugli organi dello Stato e sulla società civile italiana in ordine alla politica
razziale e alla condotta di guerra, pur avendo trovato un terreno favorevole nelle varie teorie parentetiche del fascismo e
nella nuova retorica della guerra di Liberazione, vanno addebitati soprattutto alla continuità e alla forza di quei poteri
che avevano giocato in apparenza un ruolo soltanto “tecnico” negli anni del regime: burocrazia, esercito e polizia
politica. Essi avevano incarnato la componente monarchica e statuale della “diarchia” italiana in epoca fascista; ma
quanto questa diarchia fosse fittizia e, di fatto, anche l’ala monarchica del regime fosse ampiamente compromessa con
l’ideologia fascista e nazionalista e con la prassi di governo totalitaria è mostrato, ad esempio, da Emilio Gentile che,
oltre a sottolineare «l’acquiescenza passiva» della monarchia e dei poteri tradizionali nei riguardi del fascismo, ricorda
che «l’esperimento totalitario fascista fu distrutto dalla disfatta militare e non dalla resistenza della monarchia e delle
altre istituzioni tradizionali, le quali entrarono in azione solo quando il Gran Consiglio (…) provocò il crollo del
regime». Anche qui, però, il giudizio storico va temperato e bisogna ricordare che molti fatti fanno propendere verso la
constatazione dell’esistenza di spazi di reale autonomia della monarchia e dei monarchici nei confronti del fascismo; il
Senato del Regno, ad esempio, conservò un margine d’autonomia e fu una tribuna nella quale alcune istanze dei
fiancheggiatori del fascismo e dei monarchici poterono trovare espressione.
In questo quadro ha giocato un ruolo importante anche il mancato perseguimento, negli anni del dopoguerra, dei
criminali di guerra tedeschi che avevano operato in Italia. Mimmo Franzinelli ha recentemente scritto esplicitamente, a
questo proposito, di una «rimozione di Stato» voluta da politici e magistrati militari italiani per motivi di opportunità nel
contesto delle tese relazioni internazionali degli anni Cinquanta; nel senso che occorreva, in funzione antisovietica,
evitare di indebolire politicamente e militarmente la Repubblica Federale Tedesca con richieste di estradizione e di
condanna di militari tedeschi a causa, come ebbe a scrivere riservatamente nel 1956 l’allora ministro degli Esteri
Martino, della «sfavorevole impressione che produrrebbe sull’opinione pubblica tedesca e internazionale» e «allo scopo
di vincere la resistenza che incontra oggi in Germania la ricostruzione di quelle Forze Armate, di cui la Nato reclama
con impazienza l’allestimento». Franzinelli accenna anche alle «preoccupazioni di carattere politico sull’opportunità di
evitare che (…) militari italiani si trovassero sotto inchiesta per violazioni analoghe commesse nei Balcani». Una
ricerca di Filippo Focardi e Lutz Klinkhammer mostra come si sia trattato, effettivamente, anche di una sorta di scambio
che ha garantito l’impunità degli imputati italiani per crimini di guerra, che fu orchestrato da Ministero degli Esteri,
Ministero della Difesa, Presidenza del Consiglio e Procura generale militare.
Questi poteri, soprattutto quelli ministeriali, rappresentarono nel secondo dopoguerra gli unici spezzoni di autorità
pubblica sopravvissuti all’implosione seguita all’8 settembre, alla cosiddetta “morte dello Stato”. Ancora oggi, essi
costituiscono l’articolazione più intima, anzi la sola, dello Stato italiano e la sede, in simbiosi con il potere politico, del
vero potere di “ultima parola” - che costituisce il nocciolo della sovranità. Solo la magistratura è recentemente riuscita a
modificare tale assetto, che ha retto e continua a reggere gli equilibri statali italiani del secondo dopoguerra, rendendo il
proprio ruolo strutturale e non più soltanto epifenomenico.

Il fattore cattolico

Tutto ciò non deve, però, cancellare o attenuare l’effettiva, grande differenza nella condotta di guerra tra italiani e
tedeschi e dunque il fatto che le colpe dei tedeschi furono molto più gravi. E quasi nessuno degli studiosi citati ricorda
che, nel bilancio complessivo di tali diverse responsabilità, un ruolo determinante è stato certamente svolto dal fondo di
cultura cattolica che caratterizzava la società civile italiana. Se ci si focalizza sull’azione concreta condotta dalla Chiesa
italiana, abbiamo già visto come la Nunziatura apostolica presso la Real Casa italiana, fin dal ’40, abbia espresso un
orientamento nettamente favorevole ad un’azione umanitaria nei confronti degli ebrei stranieri presenti in Italia e il fatto
che tale orientamento non rimase un’enunciazione di principio, ma si tradusse in concrete azioni di difesa di questi
perseguitati, contribuendo al contempo alla creazione di quello che abbiamo definito un “partito” trasversale favorevole
al prevalere dei principi del diritto naturale ed umanitario, facendo da premessa significativa all’azione che si sviluppò
negli anni della occupazione tedesca e che permise a molti ebrei, esuli o italiani, di salvarsi.
Per avere una percezione più diretta dell’Italia cattolica più profonda, si può citare la posizione assunta da un
arcivescovo di provincia, peraltro visto come conservatore e non ostile al regime, anzi inviato nella sede arcivescovile
di Chieti nel ’31 per sostituire Nicola Monterisi, vescovo di Chieti dal 1920 al 1929, che aveva delle posizioni non
lontane da quelle sturziane e aveva avuto rapporti freddissimi, se non ostili, con i poteri fascisti locali.
Ebbene, nella lettera pastorale della quaresima del 1942, non a caso stigmatizzata dal prefetto di Pescara, l’Arcivescovo
Venturi scriveva:

Tutti siamo fratelli; e quel sacro vincolo, che unisce e cementa gli uomini tutti, rinsaldato dalla stessa natura, non può
essere rotto o allentato giammai da niuna diversità di origine, di sangue, di razza, di coltura, di fede, ma solo dalla
malizia umana e dall’abbrutimento, a cui l’uomo spesso si abbandona.

Aggiunge Venturi a chiare lettere a pag. 17, parafrasando san Paolo:

E come Dio nella distribuzione delle sue grazie non fa distinzione alcuna tra giusto e ingiusto, tra giudeo o greco, tra
sapiente e ignorante, ma le versa su tutti, come fa su tutti risplendere il sole, così deve fare anche il cristiano. Oggetto
cioè del suo amore devono essere gli uomini tutti, siano amici, siano nemici; del proprio o di diverso sangue;
appartenenti alla stessa o ad altra lingua.

Se anche un arcivescovo conservatore aveva il coraggio, in piena ascesa delle armate naziste, di non dimenticare di
citare san Paolo e di rimarcare l’indissolubile legame tra cristianesimo e umanesimo, ben sapendo di essere sotto
l’attento vaglio della censura di guerra, possiamo comprendere quale sia stato il terreno culturale e spirituale su cui
doveva cadere, in Italia, il messaggio del razzismo di Stato.
270
Conclusione
COSA FURONO QUESTI CAMPI?

«Le ragioni per la creazione di questi campi di


concentramento sono chiare. Una situazione
militare deteriorata diede l’opportunità ai razzisti
di ottenere che anche la leadership nazionale
condividesse i loro orientamenti»

Roger Daniels

Il vuoto giuridico in cui agirono i governi nel corso del secondo conflitto mondiale, per l’assenza di Convenzioni
internazionali in materia, va tenuto in debito conto in sede di giudizio storico dell’internamento di civili e di una
valutazione sul piano del diritto delle norme di applicazione; esso gioca certamente in favore dei governi e della
legittimità delle loro decisioni. Non bisogna però tralasciare eventuali illegittimità nel diritto interno oppure abusi e
decisioni che contrastino con norme cogenti di diritto internazionale, quelle stesse che hanno poi portato alla creazione
del tribunale di Norimberga.
In un lavoro che ha impostato una tassonomia scientifica dei campi di concentramento novecenteschi, Joël Kotek e
Pierre Rigoulot hanno introdotto un indice del fenomeno assai utile. In primo luogo occorre ben distinguere i campi
dalle prigioni, poiché queste ultime sono riservate a persone condannate o in attesa di giudizio con l’accusa di aver
commesso dei reati. I campi sono invece luoghi di reclusione paradossali, un istituto tipicamente novecentesco dedicato
agli innocenti, cioè a persone che non hanno commesso crimini o che addirittura non possono commetterne. Una
reclusione che definirei ontica, comminata per il solo fatto d’esistere.
All’interno della nozione di campo, i due autori citati pongono opportunamente la differenza fra campi d’internamento,
campi di concentramento e campi di sterminio. I campi d’internamento «hanno la funzione di isolare temporaneamente
individui sospetti o pericolosi. Rientrano in questa categoria i campi creati durante i conflitti bellici (…). Nella maggior
parte di questi campi non si pratica il lavoro forzato: la loro funzione è meramente preventiva, non produttiva. Le
condizioni di vita possono essere dure, talvolta atroci». I campi di concentramento sono invece consustanziali ai regimi
totalitari e rappresentano una struttura fondamentale di quei regimi al fine di terrorizzare e plasmare la società; essi non
sono dunque temporanei o «contingenti». I campi di sterminio sono impiantati per assassinare immediatamente tutti
coloro che vi giungono; Treblinka ne è un esempio, non esistendovi né alloggiamenti né viveri, ma solo macchinari di
morte, mentre Auschwitz rappresenta una struttura mista di concentramento e sterminio.
Possiamo lasciare sullo sfondo Treblinka e le terribili questioni che pone il campo di sterminio, poiché non si tratta di
questo quando si analizzano i “campi del Duce” (almeno prima della nascita della RSI, i cui campi divennero un anello
del sistema concentrazionario nazista) o gli altri campi creati da Francia, Usa e Gran Bretagna nel corso del Secondo
conflitto mondiale. Nel loro caso il giudizio storico si trova invece a dover rispondere a due quesiti fondamentali:
l’internamento di guerra era legittimo oppure ha dato vita ad abusi giuridici, distorsioni sociali, strumentalizzazioni
politiche? E poi, tutti questi campi ebbero un che di concentrazionario o vanno tutti considerati campi d’internamento
temporaneo e limitato? Alla prima domanda ha già risposto, come sappiamo, il governo degli Usa, che ha riconosciuto
gli abusi e ha addossato al «vuoto di leadership politica» la responsabilità di quegli abusi; ma il lavoro di Robinson ci ha
anche mostrato come le violazioni furono ampie e come le loro cause storiche siano state profonde. Violazioni simili a
danno dei propri cittadini e del diritto interno, anche se su scala più ridotta, furono commesse pure dal governo
britannico e da quello francese. Restano da valutare le eventuali violazioni al diritto internazionale, su cui ci
soffermeremo meglio nel corso dell’analisi del caso italiano.
Anche alla seconda domanda si può dare una risposta sulla base di quello che abbiamo esaminato finora: aspetti
concentrazionari non mancano in tutti i casi che abbiamo visto, sia dal punto di vista dell’asprezza delle detenzioni sia
dal punto di vista delle finalità politiche dell’internamento. Risulta infatti evidente che molti registi dell’internamento si
ponevano obiettivi politico-sociali di tipo xenofobo, razzista e di restringimento delle libertà pubbliche.
Per quanto attiene all’internamento italiano nel corso del secondo conflitto mondiale, esso fu inquietante poiché il
criterio principale che lo guidò non fu l’appartenenza nazionale, ma quella razziale. Era il regime che decideva chi fosse
un “ebreo straniero” o un “allogeno”; e come abbiamo visto, gli internati appartenevano in maggioranza a queste
categorie coniate dal regime. Se scandaloso e paradossale fu il fatto che inglesi e francesi internassero ebrei e dissidenti
soltanto perché tedeschi, ancor più scandaloso risulta l’internamento di cittadini tedeschi o ex austriaci (quindi
appartenenti a Stati alleati) operato dal regime fascista italiano sulla base del fatto che costoro erano “ebrei
stranieri”. Sulla necessità di non sminuire il fenomeno dell’internamento italiano, si potrebbe aggiungere che non deve
trarre in inganno la definizione di campi ‘regolamentari’, poiché non bisogna dimenticare che si trattava di un decreto
d’internamento che, ancor prima di essere un regolamento (per quanto non completamente inumano) per gli internati,
non rispettava l’habeas corpus poiché non prevedeva processi, garanzie o ricorsi. Bisogna poi considerare che il decreto
del Duce del 4 settembre 1940 fu emanato quando la maggior parte degli internamenti era già stata effettuata ed ebbe
quindi un carattere retroattivo, dunque antigiuridico. Infine il carattere razzista di buona parte dell’esecuzione del
provvedimento lo rende ancor più debolmente “regolamentare”, per quanto il rispetto sostanziale delle norme contenute
nel decreto del Duce e l’equiparazione degli internati ai prigionieri di guerra li mise al riparo di gravi abusi ai loro
danni.
In linea di fatto, poi, fu lo stesso regime ad usare la nomenclatura “campo di concentramento”; fu il regime, ancora, a
vedere una continuità fra confino e internamento, nel concepire il progetto del campo di lavoro di Pisticci per confinati
e nell’affidare alla stessa ditta che aveva progettato quello di Pisticci la costruzione del campo di Ferramonti. Infine, fu
il regime a dichiarare, come abbiamo già riportato, che gli “ebrei stranieri” sarebbe comunque finiti tutti in campi di
concentramento, anche se l’Italia non fosse entrata in guerra.
Il punto decisivo è che Mussolini approfittò della guerra per fare i suoi campi e per perfezionare la sua politica razziale,
che non era uguale nei modi e nei tempi a quella di Hitler, ma che era razziale anch’essa. Oltre agli “ebrei stranieri”,
furono internati anche i rom e sinti italiani, in quanto “zingari”. Furono internati anche gli “zingari” stranieri, che erano
sottoposti al provvedimento automatico dell’espulsione fin dal 1926. L’ordine di arresto e internamento degli zingari fu
emanato con circolare sottoscritta da Bocchini nel settembre 1940, poi reiterata nell’aprile del 1941. Infine, vecchi e
nuovi oppositori politici del regime, solo per il fatto di essere tali, furono sottoposti anch’essi all’internamento, nei
campi o nei comuni. Come abbiamo già ricordato, alcune centinaia di ebrei italiani furono internati, cioè all’incirca il
dieci per cento degli internati italiani, il che la dice lunga sulla natura razzista dei provvedimenti a loro carico. Ebrei,
rom e sinti (stranieri e italiani), oppositori politici furono tutti, in varia misura, internati ontici.
Sulla distinzione fra “internamento” e “concentramento”, è tornato recentemente Carlo S. Capogreco, il quale, nel
confermarla, l’ha arricchita di un elemento fondamentale, quello della base legale dei provvedimenti di segregazione,
che a lui sembra sia tipica delle prassi di internamento (e dunque dei “campi del Duce”), rispetto all’arbitrarietà e
all’assenza di regole tipiche della “concentrazione”. A ben vedere, le considerazioni di ordine legale indebiliscono
invece di rafforzare la classificazione che Capogreco propone; correttamente egli infatti attribuisce ai campi di
concentramento la natura di luoghi di reclusione per civili ivi costretti sulla base di decisioni di natura puramente
amministrativa e dunque «con l’abuso e in spregio alla legalità». Mentre i campi d’internamento raggruppano e
recludono, secondo la sua definizione, gli individui «sulla base di motivazioni che, in genere, costituiscono la
giustificazione temporanea di quell’abuso». Stranamente, egli ne conclude attribuendo una natura “concentrazionaria”
alle colonie di confino per oppositori istituite dal fascismo dal 1926 e ai campi coloniali italiani in Libia, mentre i campi
istituiti dal regime al momento dell’entrata in guerra nel 1940 sarebbero dei “legali” campi d’internamento. Veri campi
di concentramento, per la loro illegalità, arbitrarietà e durezza, furono – secondo Capogreco - anche i campi
dell’internamento “parallelo” per civili jugoslavi, gestiti dal Ministero della Difesa nel corso della partecipazione
italiana al secondo conflitto mondiale.
Ritengo che questa classificazione proposta da Capogreco nel lavoro di sintesi sui campi italiani non regga e sia
fortemente influenzata da una dottrina giuridica e politica sbagliata, quella cioè che vede l’internamento compatibile
con l’assetto democratico di uno Stato e addirittura giustifica l’idea che questo valga particolarmente, come scrive
Capogreco, nello «stato di guerra, allorché le nazioni hanno il potere (o il dovere giuridico) di procedere
all’internamento di determinate categorie di civili». Bisogna dire che si tratta di una tesi del tutto superata dal dibattito
odierno e che, fatto ancora più importante, non corrisponde né in fatto né in diritto alla situazione creatasi nel corso del
Primo e del Secondo conflitto mondiale, quando gli Stati, anche democratici, internarono i civili illegalmente e senza
basi giuridiche. Cosa, fra l’altro, che alcuni Stati hanno poi riconosciuto, manifestando contrizione e risarcendo le
vittime. Non è in poi chiara la distinzione fra abuso e «motivazioni che, in genere, costituiscono la giustificazione
temporanea di quell’abuso». La realtà è che si tratta in entrambi i casi di un provvedimento amministrativo, preventivo
e ingiustificato.
In secondo luogo, il “decreto del Duce” è appunto ciò che il nome definisce, vale a dire un provvedimento puramente
discrezionale, neanche paragonabile ad una garanzia octroyée, alla maniera delle Costituzioni ottocentesche, poiché
queste erano appunto delle Costituzioni, vale a dire un sistema di limiti al potere assoluto, per quanto concesso dal
sovrano; il “decreto del Duce” è, al contrario, la diretta manifestazione di una volontà sovrana ed arbitraria, che
incidentalmente fornisce anche delle garanzie a individui che vengono discriminati e internati sulla sua stessa scorta.
Quindi, il “decreto del Duce” del settembre 1940 non può svolgere il ruolo di base legale, allo stesso titolo delle leggi di
Norimberga o dei decreti italiani del ’38 in riferimento alle materie “razziali” che essi intendevano regolare; infine,
particolare non minore, si tratta di un decreto retroattivo, che giungeva mesi dopo i primi arresti e la cui forza giuridica
è dunque quasi nulla. Aggiungerei che, se il paragone viene fatto con il confino per oppositori politici, le misure
d’internamento appaiono essere ancor più discrezionali e amministrative, dunque maggiormente concentrazionarie.
Basti pensare che, per quanto riguarda il confino, esistevano altre misure preliminari (ammonizione e diffida) e almeno
la possibilità di frapporre appello. Infine, il confino era quasi sempre misurato sulle qualità soggettive dell’individuo
che, nella maggior parte dei casi, era un oppositore. Gli internati sono invece, in genere, dei nemici ontici ed
“oggettivi”.
Con questo non si vuole sminuire la gravità del confino, che abbiamo già visto essere in linea di continuità con
l’internamento. Appare però paradossale fare l’inverso e non percepire la differenza fra la lotta politica e la lotta ontica,
per quanto fascismo, comunismo e nazismo abbiano spesso mescolato i due fronti. E nel percorso dell’aberrazione
ideologica la frontiera del nemico ontico è l’ultima da infrangere: oltre c’è l’abisso del Male assoluto, come affermava
Hannah Arendt.
Dal punto di vista del trattamento degli internati, gli scrupoli legalistici del regime, i timori di trattamenti di reciprocità
da parte delle potenze belligeranti, un’assenza di crudeltà sistematica nella polizia, ma soprattutto la sconfitta militare
che ne sancì la fine prematura, portò il regime fascista a restare fermo sul primo gradino del terrore, quello che Hannah
Arendt ha definito l’Ade, vale a dire il clima che si registra in quei campi in cui si recludono in condizioni precarie gli
internati ma non si applicano ad essi strategie rieducative, selezionistiche o di schiavizzazione. L’universo
concentrazionario ha effettivamente manifestato almeno altri tre gradi di pressione terroristica sugli internati: il
Purgatorio rieducativo sovietico e cinese (e nazista d’anteguerra), l’Inferno concentrazionario nazista durante la guerra,
la Geenna dei sei centri di sterminio nazisti. Anche il primo gradino ha però prodotto i suoi soprusi, le sue vittime, i suoi
morti.

270
APPENDICE
Il campo di concentramento di Città S. Angelo nella documentazione dell’Archivio centrale dello Stato (1940-1944)

1. La scelta dei siti per l’internamento dei civili nella provincia di Pescara

Con una lettera del 1° giugno 1940 alla Dgps, il prefetto di Pescara, Alberto Varano, rispondeva alla circolare del
Ministero dell’Interno emanata il 25 maggio, nell’imminenza dell’entrata in guerra dell’Italia:

In risposta al telegramma suindicato, informo codesto Ministero che non riterrei opportuno che alcun comune della
provincia sia prescelto per internarvi, in caso di emergenze, stranieri o connazionali pericolosi o sospetti. Dello stesso
parere si è dimostrato il Centro C.S. di Bari, opportunamente interpellato, e ciò per l’evidente motivo che i centri
importantissimi di produzione bellica della Valle del Pescara e le importanti opere idrauliche o di pubblico interesse che
ivi insistono ed altrove, dovrebbero essere tenuti lontani da ogni possibilità di pericolo.
In conformità con quanto sopra, anche altra volta, e precisamente nel 1936, questo ufficio espresse a codesto Ministero
parere contrario alla costituzione in provincia di colonie di confinati.
Il Prefetto
(f.to) Varano

Fra le fabbriche di guerra, a cui Varano faceva riferimento, la più importante e delicata era la Montecatini di Bussi, vale
a dire la sola fabbrica italiana di armi chimiche. Per avere un’idea dell’importanza dello stabilimento, una relazione
dell’aprile del ’38 a cura della Direzione del Servizio Chimico Militare quantificava una produzione media, a Bussi, di
100 tonnellate mensili di yprite nel semestre ottobre 1937-marzo 1938, con quaranta casi complessivi di infortuni
(dichiarati non gravi) fra gli operai.
La circolare a cui Varano dava risposta era indirizzata ai prefetti dell’Italia centrale e meridionale (Sicilia esclusa),
invitandoli ad approntare (entro il 5 giugno) un elenco di località da utilizzare per il confino di persone che occorreva
allontanare dalle loro residenza in caso di emergenza bellica. Seguendo solo in parte le valutazioni del prefetto, il
Ministero escluse le località della val Pescara, ma la provincia di Pescara fu indicata ugualmente come sede per campi
di concentramento e per il confino di guerra o internamento “libero”. Nell’Italia centro-meridionale le località prescelte
per l’internamento ‘libero’ furono complessivamente diverse centinaia; quelle della provincia di Pescara furono:
Collecorvino, Montesilvano Spiaggia, Penne, Pianella e Caramanico. Montesilvano Spiaggia era classificata, nel
sistema delle località di internamento ‘libero’, fra i «comuni a clima mite», dove il Ministero inviava internati con
problemi di salute.
In modo del tutto autonomo e centralizzato, salvo la collaborazione delle locali questure, il Ministero dell’Interno aveva
in precedenza esperito delle ricerche per l’individuazione di siti da adibire a campi di concentramento. Alcune indagini
di questo genere erano già state condotte nel ‘33, alla ricerca di edifici dismessi che consentissero la reclusione di
gruppi di internati in caso di guerra. Nel ’36 il Ministero dell’Interno tornò sulla questione raccomandando inoltre alle
prefetture di tenere aggiornate le liste delle persone pericolose; ed è alla risposta a questa circolare che si riferisce
Varano nel ribadire l’opinione contraria della prefettura di Pescara agli internamenti sul suo territorio.
Le ricerche recenti avviate dal Ministero nel gennaio del ’40 erano state condotte nell’Italia centro-meridionale da
ispettori generali di polizia, fra cui Guido Lospinoso, che aveva relazionato su molte province, compresa quella di
Pescara. In generale, i siti prescelti erano vecchi edifici (ville, conventi, ecc.) da ottenere in affitto dai proprietari e da
adattare a luoghi di reclusione. Decisa ormai l’entrata in guerra dell’Italia, prefetture ed ispettori di zona furono
incaricati di ispezionare i siti prescelti e di riferire al Ministero.
La relazione su «Locale da potersi adibire per concentramento nuclei internati e confinati nel comune di Città S.
Angelo», inviata dall’ispettore generale Falcone, responsabile di zona per gli internamenti, venne protocollata al
Ministero dell’Interno in data 1 giugno 1940. La relazione fornisce la seguente descrizione:

Trattasi di un vasto fabbricato in discreto stato di conservazione e di abitabilità posto in via Umberto I°, nel comune di
Città S.Angelo. Detto fabbricato si compone del piano terreno con otto vasti ambienti, ove si possono collocare cento
persone; del primo piano con altri dieci vasti ambienti capaci di contenere 150 persone, e del secondo piano con un solo
grande salone ove si possono collocare cinquanta persone. - In totale lo stabile in parola può ospitare agevolmente
trecento persone. – È dotato di acqua potabile, luce elettrica e cessi. Annesso al fabbricato vi è un orto dell'estensione di
mille e cinquecento metri quadrati. Il Comune di Città S. Angelo dista dal Capoluogo (Pescara) Km. 18, dalla Via
Statale Km. 9 e vi si accede a mezzo della Via Provinciale.
Il fabbricato, di proprietà del Comune, disposto a cederlo in affitto per il noto uso, in passato era adibito per manifattura
di tabacchi. Il posto fisso dei RR. Carabinieri si potrebbe collocare in un altro fabbricato poco distante di proprietà del
Sig. B. A., che darebbe volentieri tre camere in affitto.
Nel Comune di Città S. Angelo trovasi la stazione dei Reali Carabinieri comandata da un Maresciallo, e quattro militari.

La relazione era indirizzata direttamente al Capo della polizia e faceva parte di un resoconto più ampio che aveva per
oggetto «Fabbricati che possono adibirsi per alloggio di nuclei di internati e confinati nella Provincia di Pescara». Nel
foglio di sintesi numerica del suo lavoro, Falcone scriveva:

Pregiomi informare V.E. che recatomi nella Provincia di Pescara ed assunte le debite informazioni, con l'ausilio della
locale Questura, in seguito a sopraluoghi eseguiti, ritengo adatti per concentramento di nuclei di internati e confinati
politici, i seguenti stabili:
I° Grande fabbricato nel Comune di Pescara di proprietà del Sig. G. F. di Chieti Posti n. 300.
2° Vasto fabbricato nel Comune di Città S. Angelo di proprietà del Comune stesso Posti n. 300.
3° Villa isolata nella Frazione Villanuova nel Comune di Cepagatti di proprietà della Sig.ra P.
M. Posti n. 120.
Totale posti 720
L’Ispettore Generale di P.S.
(f.to) Falcone

La cifre indicate nella relazione appaiono corrette a mano, abbassando (più realisticamente) le quote a 200 posti
ciascuno per i primi due edifici e 80 per la villa di Villanova. In un altro appunto senza data e senza intestazione, nel
medesimo fascicolo, erano elencati, oltre ai siti citati, anche la proprietà Obletter della frazione di Castellana, nel
comune di Pianella, di cui Falcone non parla, probabilmente perché l’edificio necessitava di lavori di adattamento. Per
questi due ultimi edifici, le carte ci restituiscono una vicenda che vede protagonista quel secondo potere notabilare e
nobiliare che il fascismo covò al suo interno, specialmente in Abruzzo. Come scrive Enzo Fimiani, «i notabili traslocati
nel fascismo (…) spesso, esplicavano le loro funzioni di potere quasi nell’ombra, non occupando in prima persona uffici
o funzioni istituzionali, non guidando le sorti della potestà locale in forme aperte e dirette, bensì servendosi della longa
manus di propri uomini fidati, ponendosi in tal modo al di là, o meglio al di sopra, delle formali gerarchie del Pnf». Un
“secondo” potere che a Pescara appare intessuto di componenti molteplici: oltre al notabilato tradizionale, vanno
annoverati anche il “rassismo” moderato come quello esercitato da Acerbo, la solidarietà di ceto e la moral suasion
praticate dalla nobiltà locale, alcuni influssi ecclesiastici. Su carta intestata della Corte dei Conti del Regno d’Italia, il
Consigliere G. V. di T., nobile pescarese, si indirizzava a Bocchini, chiedendo di soprassedere alla decisione di
utilizzare la villa di Villanova dei principi P. come sede di internamento:

Eccellenza Cav. Gr. Cr. Arturo Bocchini


Senatore del Regno
Capo della Polizia – Roma
Nel ringraziarVi della benevola accoglienza che ieri Vi siete compiaciuto di farmi e della considerazione nella quale
Voi avete mostrato di prendere la mia segnalazione e la mia preghiera, nei riguardi non solo dei miei congiunti Principi
P. di C., ma anche del piccolo villaggio di Villanova (Pescara), che sarebbe stato prescelto per assecondare un
provvedimento di polizia nei riguardi di ebrei, mi permetto di farVi avere l’unito telegramma e la lettera che ricevo
dagli stessi miei zii, che sollecitano una Vostra parola alla Questura di Pescara, perché sia posto fine all’increscioso
progetto.
A parte, come Vi ho detto, le altissime benemerenze patriottiche e guerriere, passate ed attuali, della famiglia P. di C.,
non sembra opportuno mortificare un villaggio agricolo già tanto ingiustamente colpito dalla presenza di una setta (che
nessuno è riuscito ancora a snidare) con l’invio di un grosso nucleo di ebrei, che – secondo l’opinione del mio vecchio
amico e conterraneo Gr. Uff. Falcone dovrebbero rappresentare la fortuna del luogo, perché ricchi!
Vi prego, Eccellenza, di dare fede alla mia onesta opinione che il progetto anzidetto è quanto mai errato.
Con la devozione che conoscete, mi permetto di attendere fiduciosamente l’invocato Vostro atto di saggezza.
(G. V. di T.)
Roma, 22 giugno 1940-XVIII

I toni della richiesta non sono poi tanto supplicanti; anzi, il chiedere che «sia posto fine all’increscioso progetto» e
l’invocare un «atto di saggezza» di Bocchini fa invece trasparire il sentimento indispettito dello scrivente e dei suoi
nobili parenti. Antigiudaismo e “integralismo” cattolico mostrano di essere pregiudizi presenti nella classe dirigente, per
quanto blandamente espressi e senza i toni del razzismo estremista. Anche le idee dell’ispettore Falcone, per come
vengono riferite, illustrano il contesto mentale entro il quale egli svolgeva i suoi compiti, mentre il riferimento soltanto
agli ebrei come persone da internare conferma che negli ambienti del Ministero dell’Interno l’internamento di guerra
fosse visto principalmente come una prosecuzione della politica razziale più che una misura necessaria nella
congiuntura bellica. Il riferimento alla setta, infine, è realistico poiché i paesi della provincia di Pescara si erano
effettivamente mostrati permeabili alla catechesi evangelica, come dimostrano le inchieste dell’Ovra e i confinamenti
comminati negli anni precedenti. La villa in questione era stata in precedenza ispezionata con le seguenti risultanze:

Villa isolata nella Frazione Villanova del Comune di Cepagatti di proprietà della Signora M. P. dimorante in Chieti. Si
compone del piano terreno con due cameroni e cucina, ed altro ampio locale. Al primo piano vi sono dieci camere. In
totale vi si possono collocare 120 persone. È fornito di tutti i servizi igienici, acqua cessi e luce. La Frazione Villanova
dista dal Comune di Cepagatti Km. 6; dal Capoluogo (Pescara) Km. 12 e dalla Via Provinciale Pescara-Chieti Km. 2.
Dalla Stazione di Chieti è distante km. 4. La villa è contornata da giardino e terreno coltivabile per circa 5 mila metri
quadrati. Nel recinto stesso vi è un altro piccolo fabbricato, che ha bisogno di qualche piccola riparazione, adatto per
posto fisso dei RR. Carabinieri. La Stazione dei Reali Carabinieri, composta di un Maresciallo e quattro militari trovasi
a Pianella che dista da Villanova Km. 10. Lo stabile è mobiliato, ma la Signora P. ch’è disposta a cederlo in fitto pel
noto uso, porterebbe via tutti i mobili.

La lettera del Consigliere V. di T. era stata preceduta da una missiva manoscritta, datata 21 giugno-ore 19, che suo zio,
il principe M. P. di C. e proprietario della villa gli aveva fatto recapitare e che è conservata nelle carte del Ministero,
perché acclusa alla richiesta di V. di T. a Bocchini. Scriveva al nipote l’anziano don M. P.:

Carissimo (…),
Come sempre – e così sarà sempre finché Dio mi dà la vita – ti sono riconoscente per le molteplici prove di vero affetto
che dai a me e a tutti di mia famiglia. Ieri sera giunse il tuo telegramma, questa mattina è giunta la tua lettera.
Ho ammirato come hai saputo dimostrare le giuste ragioni della richiesta – e quell’accenno ai “Tremolanti” (io non ci
avevo pensato) rappresenta un reale timore – cosa avverrebbe?
Qui venne il Comm. Falcone e fissò le sue mire a Villanova sulla casa nostra – dichiarando adatta per gli ebrei da
collocarvi “gente ricca” (come egli diceva) che farebbe un gran bene alle popolazioni di questi due paesetti”.
Ora a Castellana i “Tremolanti” non solo ci sono ancora e notoriamente conosciuti, fanno propaganda con insistenza –
sia fra le famiglie sparse per le campagna ed a Villanova sono in continui segreti e notturni rapporti. Scusa del modo
come scrivo, la posta è per partire e sento l’obbligo di fare che la presente ti giunga subito. Ho la mente confusa e non
so affermare le mie idee, o pensieri, su questo pezzo di carta.
Fino a questo momento alla Questura di Pescara non ancora arriva, da Roma, alcun contrordine per la nostra casa. Fa’,
con la tua grande autorità e conoscenza di località e popolazione, che simile contrordine venga anche per Castellana.
Avrai compiuto un’opera Santa.
Zio M.

Nel fascicolo è conservata anche una lunga nota manoscritta, non firmata né intestata, datata 20 giugno, che è stata con
tutta probabilità redatta da V. di T. per Bocchini, il quale deve aver poi richiesto un esplicito diniego dei Principi ad
affittare la villa, visto che la relazione di Falcone affermava il contrario. La lettera del 22 giugno, che abbiamo visto, di
V. di T. ribadiva alcuni punti della nota manoscritta ed aveva lo scopo essenziale di rendere manifesta la volontà dei P.,
contraria all’affitto della villa al Ministero, allegandovi la lettera del Principe ed un telegramma indirizzato al Barone
V., spedito da Chieti il 20 giugno 1940 alle ore 16,20 col seguente testo «Scongiuroti provvedere nostra casa Villanova
abbracciovi. Zia E.». Il contenuto dell’interessante nota del 20 giugno (di cui i Principi P. ebbero copia, come si desume
dalla lettera di M. P. al nipote) è il seguente:

La casa di campagna dei Principi P. di C. in Villanova, fraz. del Comune di Cepagatti (Pescara) è un vecchio e modesto
fabbricato adibito oltre che ad abitazione della famiglia anche e più specialmente ai bisogni dell’azienda agricola, che è
molto sviluppata e industrializzata.
Questa casa sarebbe precettata per requisizione al fine di essere adibita ad alloggio di ebrei confinati. L’ambiente è per
molte ragioni inadatto. La famiglia P. (che è stata persino invitata dalla Questura di Pescara a sgombrare la casa dai
mobili!) rimarrebbe priva di abitazione e non potrebbe provvedere alla raccolta dei generi d’imminente maturazione.
Il Principe P. è un vecchio gentiluomo di oltre 75 anni; ha avuto un figlio morto in guerra; altro, decorato di guerra,
morto in seguito alla vita di strapazzo di guerra e il terzo è il Principe V. –noto superdecorato e supermutilato di guerra,
maggiore degli arditi, già Segr. Gen. dell’Assoc. degli Arditi d’Italia; una figlia è maritata al Gen. Medico B. e si trova
ora ad Addis Abeba (questa sarebbe la vera proprietaria della casa); una nipote, ex figlia, è Dama della Croce Rossa a
Tobruk, dove il marito Cap. B. B. comanda un gruppo di squadriglia di aeroplani.
Con tale situazione famigliare si va a requisire una casa di campagna, per mettere in grave imbarazzo i proprietari e non
assicurare una sistemazione conveniente ai confinati! A Pescara esistono alberghi vuoti, tra cui il Grand Hotel che ogni
anno fallisce per insufficienza di clientela. Si Prega di dare disposizioni alla R. Questura di Pescara di non insistere
nella requisizione della casa P. in Villanova.
Villanova è un villaggio di meno di 500 anime. Negli anni scorsi vi fu una invasione di piccoli nuclei di “Tremolanti”
che portarono lo scompiglio e un grave danno al sentimento cattolico del paese. Radunarvi 200 ebrei ora sarebbe un
errore… evidente!

La risposta di Bocchini non si fa attendere e il 24 giugno egli comunica al V. che «in seguito alle vostre premure (…), la
villa dei principi P. (…) non sarà adibita a campo di concentramento». V. di T. ringrazierà con una lettera scritta a
Villanova il 30 giugno:

Villanova di Cepagatti (Pescara) 30.6.XVIII


All’Ecc. Cav. Gr. Croce Dott. Arturo Bocchini
Senatore del Regno – Capo della Polizia - Roma
Eccellenza,
desidero ringraziarvi vivamente a nome dei miei congiunti P. e mio del provvedimento di giustizia e di opportunità
saggissima che avete adottato, scongiurando una molestia non solo ai detti miei parenti, ma anche alla popolazione
rurale di questo villaggio, dal quale mi piace di mandarvi un saluto.
Gradite la conferma della mia deferente devozione
G. V. di T.

Ma Bocchini, già il 20 giugno, senza quindi aspettare di ricevere la lettera ed il telegramma dei proprietari della villa,
aveva deciso di rinunciare all’utilizzo di quel fabbricato, «per sopravvenute difficoltà», comunicandolo alla Divisione
Forze armate di polizia e a quella Gestione contratti e forniture della Dgps. La procedura per la creazione dei campi
locali era stata infatti avviata il 6 giugno, con l’invio di diverse comunicazioni per ognuno dei tre siti proposti da
Falcone, rispettivamente alla Divisione Gcf (per la fornitura del casermaggio), alla prefettura di Pescara (per provvedere
alla stipula del contratto d’affitto), alla Divisione Fap (per provvedere all’istituzione del posto fisso di vigilanza dei
carabinieri), infine il 9 giugno ancora al prefetto per sollecitare la trasmissione dello schema del contratto d’affitto.
Il 23 giugno, con le stessa motivazione di «sopravvenute difficoltà» (della cui natura non resta traccia nelle carte
d’archivio) fu scartato anche l’edificio sito in Pescara; per cui l’unico “campo” che fu allestito in provincia di Pescara fu
quello dell’ex manifattura tabacchi di Città S. Angelo (che era in origine un convento dedicato a S. Chiara). Agli atti
esiste anche il tentativo esperito nel maggio del ’43 dalla Dgps di aprire un altro campo di concentramento nel convento
di S. Antonio di Civitaquana. Ma dopo una relazione di Falcone sull’edificio e una richiesta di stipula del contratto
d’affitto da parte della Dgps alla prefettura, il campo non fu mai attivato, forse a causa del mancato accordo con il
comune sulle spese di adattamento, che Falcone aveva quantificato in 40.000 lire e che il Ministero chiedeva fossero a
carico del comune di Civitaquana.

2. L’istituzione del campo di concentramento di Città S. Angelo.

Presso l’Archivio di Stato di Pescara non esiste pressoché alcun documento sul campo di concentramento di Città S.
Angelo né documentazione sulle attività di politica razziale operate dagli organi dello Stato per conto del regime
fascista. A giustificazione delle lacune e dei vuoti della documentazione si invocano da alcuni le distruzioni causate
dalla guerra; in effetti, Pescara fu oggetto di due disastrosi bombardamenti sul finire dell’estate del ’43 e fu vicinissima
al fronte per tutto il periodo ‘43-‘44, tanto che la stessa Prefettura fu provvisoriamente trasferita in alcune località della
provincia meno interessate dagli attacchi degli alleati. Ma non può essere la guerra con le sue distruzioni la motivazione
dei vuoti d’archivio, come abbiamo già dimostrato in un altro lavoro.
La penuria di documenti si è accompagnata ad una progressiva perdita della memoria, fin quasi all’oblio, sull’intero
fenomeno della istituzione di campi di concentramento italiani nel corso del secondo conflitto mondiale. Un fenomeno
non minore, con un’ampia diffusione su vasta parte del territorio nazionale, con implicazioni politiche, morali e storiche
di primissimo piano. Eppure sostanzialmente rimosso dalla memoria collettiva: un oblio significativo sotto molti
riguardi. Solo negli ultimi anni, grazie al lavoro pionieristico di alcuni ricercatori si è tornato a riflettere su quel
fenomeno e a ricostruire, faticosamente, un abbozzo di memoria condivisa. Ancora oggi uno di loro è però costretto a
scrivere: «l’esistenza dei campi di concentramento italiani non è ancora un dato comunemente acquisito: i nomi di essi
(…) sono ancora praticamente sconosciuti ai più, e le loro strutture fisiche e i “siti” geografici sono stati abbandonati a
se stessi o deliberatamente distrutti».
Il campo di Città S. Angelo non fu utilizzato subito per internarvi le persone arrestate nell’estate del ’40. Lungaggini
burocratiche relative al contratto d’affitto e alle discrepanze nelle diverse relazioni sulla capienza del campo, assieme
alla effettuazione di alcuni lavori di adattamento, ne ritardarono l’attivazione. A metà luglio Falcone comunicava che
l’edificio che doveva ospitare il campo non era ancora «in ordine». Il 30 luglio la Divisione contratti della Dgps
autorizzò la prefettura di Pescara a sottoscrivere il contratto di locazione con il Comune per la somma di 1.000 lire
mensili; il contratto, comprensivo della locazione per i locali per i carabinieri di sorveglianza, decorse dal 2 settembre
1940 per la cifra di 13.800 lire annue. Per i lavori di adattamento furono pagate 41.200 lire dalla Divisione contratti
della Dgps. Il 5 settembre giunsero gli effetti di casermaggio per duecento persone, mentre dal 21 settembre furono
inviati in missione, per la gestione del campo, un funzionario e due agenti di P.S. Il 10 dicembre Falcone chiede al
Ministero che la ditta Piscitelli, fornitrice del casermaggio, invii, anche se gli internati non sono ancora arrivati al
campo, altre 200 coperte di lana, «perché per il clima rigido, non è possibile dare in dotazione ad ogni internato una sola
coperta».
Il campo di Città S. Angelo rimase vuoto fino al febbraio 1941, quando vi giunse il primo gruppo di 13 internati, che
trovarono pareti non intonacate, pavimenti sconnessi, pochi servizi igienici senza acqua calda. A metà maggio dello
stesso anno vi erano già ristretti 102 internati, come risulta da una comunicazione di Falcone al Ministero. Si trattava,
presumibilmente, soprattutto di “allogeni” di origine slovena. Una serie di arresti era stata infatti operata nel giugno del
’40 negli ambienti delle associazioni clandestine slave: molti furono inviati all’internamento, mentre 60 persone furono
sottoposte nel 1941 a processo da parte del Tribunale speciale. A maggio il Ministero dell’Interno inviò a Città S.
Angelo anche 57 marittimi jugoslavi, i quali erano stati fermati il 6 aprile (il giorno stesso dell’attacco italo-tedesco alla
Jugoslavia) nel porto di Genova mentre si trovavano imbarcati nei piroscafi Una e Dubac. A luglio essi furono
rimpatriati, ma il Ministero continuò ad inviare a Città S. Angelo internati provenienti dalla Jugoslavia, anche perché
l’occupazione di quel territorio provocava un crescente internamento di civili. Il che fece di Città S. Angelo uno dei
“campi per jugoslavi” all’interno del sistema dell’internamento gestito dal ministero dell’Interno. Anche se non si è
trattato di una destinazione ufficializzata o esclusiva, il Ministero inviò solitamente gli jugoslavi destinati
all’internamento regolamentare, in Abruzzo, oltre che Città S. Angelo, a Casoli (a partire dal ’42), Corropoli (nel ’42-
’43), Lanciano (dal febbraio ’42), Notaresco (dal giugno ’42); fuori d’Abruzzo, a Scipione (in provincia di Parma, a
partire dall’estate del ‘42) e Sassoferrato (in provincia di Ancona, a partire dal febbraio ’43). Furono anche utilizzate
per questo scopo le ex colonie insulari per confinati di Ponza (dal marzo del ’42 all’agosto del ’43) e Lipari (dal
novembre ’41 al luglio ’43). Un discorso a parte va, naturalmente, fatto per i citati campi speciali per civili jugoslavi, in
cui non si applicavano le garanzie contenute nel decreto del Duce del settembre 1940.
Al momento dell’invio dei marittimi jugoslavi arrestati a Genova, il Ministero intendeva aggiungere complessivamente
97 internati, in ragione della capienza stimata non inferiore a 200 posti da Falcone, ma lo stesso Ispettore generale si
vide costretto a scongiurare per telegramma il Ministero dall’inviare un numero di persone che facesse superare al
campo la cifra complessiva di 160 presenze, poiché, ridimensionando le ottimistiche stime fatte l’anno precedente, tale
si era praticamente rivelato il massimo di internati che la struttura potesse ospitare. In una comunicazione del 1° giugno
del ’41 Falcone segnalava la presenza totale di 160 internati, vale a dire la capienza massima del campo. Come detto, i
marittimi jugoslavi furono poi rimpatriati, anche in base ad accordi con Pavelic. Furono dapprima liberati quelli di
nazionalità croata, tredici in tutto, che furono accompagnati a Fiume e di lì passarono il confine il 21 giugno; il 5 luglio
anche i restanti 44 marinai, dalmati, furono liberati. A fine luglio erano presenti nel campo 139 internati, come risulta da
un elenco nominativo redatto per dare risposta ad una richiesta avanzata dall’Ufficio prigionieri di guerra della Croce
Rossa Italiana. Tutti sono indicati come jugoslavi, tranne un internato segnalato come ebreo apolide ed un altro come
ebreo tedesco.

3. La gestione del campo

Ancor prima che il campo fosse agibile, fu inviato a dirigerlo il commissario G. D. M., sollevato dal precedente incarico
nel campo di Civitella della Chiana, in Toscana, «perché affetto da nevrastenia e di esaurimento nervoso» e trasferito a
Pescara. Pochi giorni dopo Falcone, viste le condizioni di salute del D. M., ne chiedeva la sostituzione. Alla fine di
ottobre del ’40 anche il nuovo direttore, il commissario aggiunto Francesco Mariniello, aveva ottenuto di essere
esonerato dal servizio di direttore del campo che si andava allestendo. Quando il campo fu effettivamente aperto, nel
febbraio del ’41, dapprima fu la questura di Pescara a curarne la conduzione e poi alla direzione fu chiamato il
commissario N. F. Il suo incarico fu di breve durata poiché Falcone ne chiese per due volte, a giugno e a luglio del ’41,
la sostituzione, giudicandolo «zelante, permaloso ed irascibile». In un primo rapporto, del 12 giugno, Falcone affermava
che il F.

Si è messo in dissidio col Procuratore del Re, col Pretore e con l’Arma dei RR. CC. In maniera che il Campo stesso non
funziona regolarmente. Tale stato anormale, si deve all’eccessivo zelo del suddetto Funzionario, il quale pretenderebbe
che la Stazione dei RR. CC. fosse messa a completa sua disposizione, non potendo, a suo dire, sopperire ai servizi
svariati disposti con una ordinanza da lui emanata; mi ha richiesto inoltre, con insistenza, aumento di Carabinieri e di
agenti di P.S. dei quali ne vorrebbe anche in divisa..
Il 3 luglio Falcone chiese ancora la sostituzione di F., in seguito ad un episodio di una certa gravità, che permette di
ricostruire uno spaccato della vita interna al campo. La relazione di Falcone si apriva col riportare una comunicazione
del F. al questore di Pescara, con la quale il direttore del campo giustificava l’arresto e l’invio nel carcere di Pescara di
alcuni internati; scriveva F.:

la sera del 1° corrente, un gruppo numeroso di internati, all’invito del giudice Rossic Giorgio, internato anche questo e
da me incaricato di fare l’appello, di fare silenzio e di stare in ordine, esplodeva in invettive ed ingiurie, in lingua croata,
contro lo stesso giudice e si avanzava minaccioso verso quella balconata ove si postano carabinieri e giudice al
momento delle adunate. Il vice brigadiere che era presente assieme all’agente di P.S. Moretti ed alcuni carabinieri
intervenne prontamente e sedò il chiasso (…). Giunto sul posto feci trarre in arresto coloro che si erano mostrati i più
scalmanati (…) e dopo di aver fatto un discorso, a mezzo di interprete, ottenni il ripristino completo della calma e della
disciplina. Subito dopo però, andato nelle varie camerate (…) per fare le indagini del caso (…), seppi così che da un
certo tempo, alcuni mestatori, che si ritiene siano comunisti, tra i quali i suddetti arrestati, facevano propaganda contro i
borghesi o i signori del campo perché costoro avrebbero un trattamento diverso dagli altri. Infatti, usando un sistema già
trovato in uso, ho avuto cura di tenere divisi, in camerate omogenee gli ufficiali, i laureati, i commercianti, ecc. dalla
ciurma e dalla massa di gentaglia di tutte le risme che affollano questo campo. (…) Il Kristic Alessandro, mentre
ammanettato, stava per essere condotto in caserma dei RR. CC. Voltosi alla massa gridò in croato “alzatevi”,
intendendo incitare la massa alla ribellione.

In effetti, contrasti politici e sociali fra gli internati jugoslavi di Città S. Angelo non sono da escludere, tanto che il
problema si ripropose anche dopo l’allontanamento di F.; Falcone fu in quel momento di diverso avviso. Scrisse infatti
al Ministero che le indagini da lui condotte portavano a ritenere che la causa degli incidenti fosse l’incarico dato al
giudice Rossic e l’influenza di questi sul F. Dopo aver dato ordine di «esonerare immediatamente il Rossic dagli
incarichi (…) e ad abolire le divisioni di casta», egli dava notizia del fatto che F. aveva schiaffeggiato uno degli arrestati
e di uno sciopero della fame iniziato dagli incarcerati; confermava infine la necessità di sollevare F. dall’incarico, parere
condiviso dal prefetto di Pescara. La divisione Agr dette corso alla richiesta di Falcone chiedendo alla Divisione del
personale di provvedere al trasferimento di F. ad altro campo di concentramento.
Ora, una valutazione dei fatti permette alcune riflessioni; in primo luogo, le “dimissioni” di D. M. e Mariniello, così
come i problemi di F., dimostrano che i funzionari di polizia non avevano alcuna voglia di assumere i compiti di
direttore e quando dovevano per forza di cose accettare l’incarico vi riversavano il malcontento e le preoccupazioni che
generava questo compito ingrato, svolto lontano dalla propria sede di servizio e dalla propria residenza. A ciò si somma
il fatto che, solitamente, coloro che furono prescelti per questo incarico erano funzionari anziani e poco motivati; né
l’assolvimento di un mandato difficile ed oscuro, come quello di direttore di un luogo d’isolamento, poteva dare luogo a
meriti particolari o aiutare avanzamenti di carriera. Amedeo Osti Guerrazzi ha studiato i fascicoli personali esistenti
degli ex direttori dei campi “regolamentari”; si tratta di 36 fascicoli su un totale di un centinaio di persone che ruotarono
intorno a questo incarico. Ne ha ricavato questa immagine complessiva: «La direzione di un campo diventava quindi
una forma di esilio o di punizione per poliziotti ritenuti scadenti e inaffidabili. (…) Questi funzionari possono essere
suddivisi, grosso modo, in due gruppi: il primo, il più esiguo, composto da poliziotti anche capaci ma privi di qualsiasi
appoggio politico e di raccomandazioni, il secondo formato invece da funzionari men che mediocri, inviati nei campi
allo scopo di tenerli lontani da posizioni di maggiore responsabilità». Molti di loro si ritrovarono per la prima volta
nella loro vita ad esercitare un vero potere su altri individui ed alcuni ne approfittarono o non riuscirono ad esercitarlo
in modo equilibrato; ma il tutto sempre nei limiti (tranne qualche eccezione) di un piccolo cinismo e di una smaniosa
(con tratti umoristici) ansia di comando. Il Ministero, attraverso gli ispettori generali ed i questori, esercitò peraltro un
controllo efficace sui direttori, limitando gli abusi e trasferendo quelli scorretti. Si ebbero anche diversi casi di direttori
sostituiti perché non sufficientemente severi con gli internati, a riprova della poca attitudine al comando di questi
funzionari. Maria Eisenstein ci ha lasciato un ritratto di uno di questi direttori che vale la pena riportare, per dare
maggiore vita al quadro che abbiamo fin qui ricostruito. Si tenga conto che nei campi femminili erano inviati i
funzionari più anziani e costui era infatti vicino ai settant’anni, ma intrecciò egualmente una relazione con un’internata
trentenne, fatto che poi gli costerà la censura del Ministero e il sollevamento dall’incarico:

Il commissario Edvino Pistone, messinese, saliva sbuffando, il viale che portava al nostro campo. Era di media statura,
grosso, aveva il volto vuoto dei vecchi commedianti e dei vecchi poliziotti. Vestiva una divisa attillata. Le borse sotto
gli occhi lo rendevano assai brutto; i pochi capelli grigio-scuri erano disposti con gran cura sul cranio liscio. Aveva
sessant’otto anni, ma non li dimostrava; la passione senile per la trentenne Natascia, rendeva baldanzoso ed elastico il
suo passo. In complesso era pietoso, ma ci faceva paura. Era falso, lo si vedeva, vanitoso e triviale. Ma quello che ci
faceva più rabbia era la sua pretesa di farci ridere con le sue spiritosaggini. Dovevamo ridere tutte, anche quelle che non
capivano l’italiano. Anch’io ridevo. Me ne vergognavo, ma ridevo: avevo troppa paura di lui per non ridere.
Se questa è lo sfondo umano che caratterizzava i direttori dei campi, è comprensibile la sfiducia di fondo che è evidente
nelle parole di Falcone verso F., il quale, anche se la sua gestione del campo appare irregolare e le sue reazioni
eccessive, aveva però visto giusto sui problemi disciplinari nel campo, che infatti si riproporranno in futuro. Anche per
quanto riguarda i rapporti con la popolazione locale, quelli affrontati da F. erano problemi reali, che né il Ministero né
funzionari come Falcone sembravano aver previsto o percepito; vale a dire l’effetto che sul piccolo mondo paesano
poteva avere la presenza di decine di internati provenienti dal resto d’Europa. Sicuramente, come a giusta ragione il
barone V. di T. temeva per Villanova, la presenza del campo aveva modificato e influenzato parte del clima sociale di
Città S. Angelo, generando un moto che pare per lo più di simpatia per gli internati. Si tenga conto che, nel ’42, lo
stesso Mussolini ebbe a lamentarsi, in uno sfogo col federale dell’Aquila, della generale benevolenza abruzzese verso
gli internati. Ma non furono solo ingenuità, “buon cuore” o “naturale socievolezza” ad avvicinare internati e paesani:
quello che si intravvede è un interesse verso il mondo esterno, verso quel resto del mondo che il provincialismo
autarchico e strapaesano fascista aveva oscurato e allontanato. Interesse che era preludio ad una critica del fascismo e
della sua guerra, che si farà strada nella popolazione.
Tornando ai fatti del primo luglio ’41, quasi nessuna delle persone fatte incarcerare da F. risulta inclusa nell’elenco
degli internati presenti a Città S. Angelo il primo agosto successivo. Salvo errori nella trascrizione dei nomi, solo
l’internato con il cognome italiano risulta ancora presente, per cui si deve pensare ad un trasferimento degli altri
accusati in un altro campo.
Per quanto Varano paia aver avallato la sostituzione di F., una sua relazione al Ministero, datata 13 agosto 1941, segnala
i problemi che la vita del campo presentava, primi fra tutti l’insufficienza del personale e l’insofferenza degli internati
“balcanici”:

Al Ministero dell’Interno
Dgps Agr Roma
Come è noto a codesto Ministero, al campo di concentramento di Città S. Angelo è preposto un funzionario di P.S. che
ha, a sua disposizione, due agenti di P.S., adibiti esclusivamente al servizio di istituto. Poiché il campo è stato, finora,
riservato ai soli sudditi ex jugoslavi, che ammontano ad oltre centoventi e che conservano, nei rapporti reciproci e nei
confronti dell’autorità, la loro mentalità prettamente balcanica, l’opera del funzionario e degli agenti è assorbita
completamente dal mantenimento della disciplina.
Moltissimi internati, poi, danno luogo, con istanze di ogni genere, a molto lavoro burocratico, ciò che talvolta fa
ritardare l’esplicazione delle incombenze ordinarie della direzione ed amministrazione, abbastanza gravose e
complicate. Si è determinata, così, la necessità per quella direzione di aver, per lo meno nei giorni di pagamento del
sussidio e della chiusura della contabilità (…) un impiegato d’ordine. (…)
Il Prefetto
(f.to Varano)

Il contenuto della relazione è anche illuminante sui sentimenti che uomini come Varano (fascisti e funzionari del
Ministero dell’Interno) manifestavano soprattutto nei confronti di slavi e “allogeni”. Il linguaggio che la prefettura di
Pescara utilizza nelle sue comunicazioni col Ministero riferendosi agli internati di nazionalità jugoslava non è un dato
secondario: il parlare di una loro «mentalità prettamente balcanica» è espressione di un atteggiamento diffuso in quei
funzionari, a sua volta preludio allo sviluppo degli eventi che renderanno tragica l’occupazione italiana in Jugoslavia e
daranno vita al duro fenomeno dell’internamento militare (o “parallelo”) dei civili jugoslavi. Ma si trattava anche di un
linguaggio e di pregiudizi che si erano col tempo consolidati nella burocrazia ministeriale italiana, nella quale il
riferimento ad “impulsi atavici” dei popoli balcanici era ricorrente anche nei decenni precedenti allo scoppio del
secondo conflitto mondiale, come abbiamo visto.
Le norme dell’internamento civile escludevano che gli internati potessero essere sottoposti a lavori forzati. Un altro
episodio del campo di Città S. Angelo, dell’estate del ’41, ne dà la misura: la prefettura richiese il 18 giugno che fosse
disposta una piccola retribuzione per gli internati che s’incaricavano di effettuare le pulizie nel campo; il Ministero
venne incontro alla proposta e dispose a fine luglio un compenso di cento lire mensili da dividersi tra gli internati
interessati.
Un altro problema della vita interna dei campi fu il controllo della corrispondenza, che a Città S. Angelo si pose a causa
delle lingue utilizzate dagli internati. Le regole per la gestione della posta erano le stesse che vigevano per i prigionieri
di guerra: lettere di una pagina, pacchi di non più di cinque chili, censura e controllo. Per le lingue straniere si ricorreva
alle commissioni provinciali di censura, istituite in tutti i capoluoghi in periodo di guerra per il controllo della
corrispondenza ordinaria. Di norma erano accettati solo l’italiano, il tedesco, l’inglese ed il francese. A Città S. Angelo
la lingua più utilizzata era però il croato e, come avveniva in molti altri campi, la traduzione ai fini del controllo era
demandata ad un internato. Ma nel novembre del ’41 Varano sollevò il problema presso il Ministero, facendo anche
riferimento al fatto che alcuni internati erano ristretti perché accusati di attività spionistica:

R. Prefettura di Pescara – 7 novembre 1941


Al Ministero dell’Interno – Direzione Generale della P.S. – Divisione A.G.R.
Prot. N. 06171 – Oggetto: Controllo corrispondenza internati
Nel Campo di Concentramento di Città S. Angelo si trovano normalmente oltre un centinaio di internati stranieri, tra i
quali diversi agenti sospetti od accertati di spionaggio, che ricevono una massa non indifferente di corrispondenza
redatta, nella maggior parte, in croato e sloveno. Per il controllo di detta corrispondenza la Direzione si servì, per un
certo periodo di tempo, dell’opera di un internato, che ne faceva la traduzione. Tale sistema, però, fu ben presto
abbandonato per alcuni inconvenienti ai quali diede luogo.
Non essendo stato possibile trovare un traduttore né a Città S. Angelo, né in questo capoluogo ed essendone la locale
Commissione di Censura sprovvisto, la corrispondenza è stata finora inviata ad altra Commissione fornita di traduttore
per le lingue anzidette. Ugualmente si è provveduto per la corrispondenza di tutti gli altri internati nella provincia. Tale
sistema, però, si è dimostrato poco soddisfacente sia per il lamentato eccessivo ritardo nel recapito della corrispondenza,
sia per l’accresciuto carteggio che ha provocato.
Ad eliminare ogni inconveniente, si prega di far conoscere se sia ritenuto prescrivere a tutti gli internati (…) che la
corrispondenza (…) sia redatta in italiano e per una estensione non superiore ad una pagina. (…)
Il Prefetto
(f.to) Varano

Il ministero decise di inviare in missione a Città S. Angelo un agente della questura di Pavia che conosceva lo sloveno,
mentre per il croato non c’erano agenti disponibili, neanche per il campo di Lipari. La guardia scelta Severino Roti
rimase a Città S. Angelo fino al 7 febbraio 1942; non sappiamo come fu gestita la corrispondenza nel periodo
successivo.
A sostituire il commissario F. nella direzione del campo era giunto il commissario F. D. D.; anche la sua gestione fu
criticata da Falcone, che già nel dicembre del ’41 inviò un rapporto assai duro al Ministero:

R. Prefettura di Pescara – 10 dicembre 1941 – XX - Riservata


Al Ministero dell’Interno – Direz. Gen. P.S. Div. Personale e p.c. Div A.G.R. – Roma
Oggetto: D. D. Dr. F. – Direttore Campo Concentramento Città S. Angelo
Mi si riferisce che il Commissario di P. S. D. D. Dr. F., Direttore del Campo di concentramento di Città S. Angelo, in
provincia di Pescara, col suo comportamento, specie dal lato morale, abbia dato luogo a sfavorevoli commenti nella
cittadinanza. Dicesi che egli userebbe speciali riguardi ad internati facoltosi, da qualcuno dei quali avrebbe accettato
anche del denaro.
Per i motivi di cui sopra, la sua permanenza a Città S. Angelo sarebbe incompatibile, per cui prego codesto Ministero
voler dare disposizioni affinché siano accertati i fatti, e provvedere sollecitamente qualora gli addebiti risultino fondati.
L’Ispettore Generale di P.S.
(f.to) Falcone

Con tutta probabilità, Falcone si fidava di un informatore angolano. Oppure la fonte fiduciaria era un agente di polizia o
un carabiniere. Non è d’altra parte da escludere che le dicerie avessero un qualche fondamento reale, poiché il D. D.
andò incontro ad accuse simili quando diresse il campo di Bagno a Ripoli. Suonava comunque un po’ strana la richiesta
di accertamenti che l’ispettore avanzava al Ministero, visto che proprio lui aveva il compito istituzionale e le maggiori
possibilità per farlo.
L’attento controllo sui direttori dei campi e il credito concesso, da parte degli ispettori generali, alle critiche che li
riguardavano, facevano parte di una consegna di sorveglianza attenta della condotta dei direttori. Conoscendo la qualità
del personale che veniva inviato nei campi, il Ministero non voleva creare occasioni di sopruso e di illegittimità,
tenendo conto anche di condizioni, come quelle dell’internamento, che erano oggettivamente favorevoli al sorgere di
tendenze all’abuso nelle persone che erano chiamate a gestire dei civili, privati di diritti fondamentali per causa di
guerra. Per cui i trasferimenti e i richiami in sede furono assai frequenti e le segnalazioni di Falcone a proposito dei
direttori di Città S. Angelo appaiono restare nella norma. D. venne sostituito, poiché il direttore del campo risulta
essere, nel maggio 1942, il vice commissario aggiunto Augusto Menè. Ma la sua carriera non fu stroncata da questo
episodio, poiché nel dicembre 1942 gli venne assegnato un incarico più importante, nel settore dei campi, vale a dire la
direzione del campo di concentramento più grande fra quelli creati dopo l’entrata in guerra dell’Italia e cioè quello di
Ferramonti, in Calabria, che ospitava migliaia di “ebrei stranieri”. A Città S. Angelo risulta inviato, con lo stesso
movimento, il vice commissario Carmine Sanzò.

4. Le condizioni igienico-sanitarie

Pur senza gli eccessi dell’internamento “parallelo” gestito dai militari, non bisogna però pensare ai campi
“regolamentari” come a strutture adeguate. A Città S. Angelo, ad esempio, mancava l’acqua calda e i servizi igienici
erano insufficienti. È la stessa prefettura a segnalarlo al Ministero: il 16 novembre 1941, su sollecitazione del medico
provinciale, il prefetto notifica l’urgenza dell’attivazione del riscaldamento dell’acqua. Un episodio che conferma il
giudizio molto positivo che è stato dato sul personale medico che ebbe a curare l’assistenza sanitaria ai campi.
Comunque, nei campi dell’internamento civile l’assistenza medica diretta era, in generale, insufficiente, ma le autorità
non respingevano mai le richieste di ricovero ospedaliero avanzate degli ufficiali sanitari; inoltre, come sappiamo, con
una circolare del 30 giugno ’40 il Ministero dispose che i medici provinciali ispezionassero, almeno una volta al mese, i
campi. Fu una di queste ispezioni ad occasionare la citata richiesta di Varano al Ministero:

R. Prefettura di Pescara – 16 novembre 1941 XX


n. di prot. 04047
Al Ministero dell’Interno - Dgps Agr - Roma
Oggetto: Campo di concentramento di Città S. Angelo. Condizioni igieniche.
Informo codesto Ministero che le condizioni igieniche del campo, per alcuni servizi non sono soddisfacenti.
Infatti, su conforme parere di questo medico provinciale, all’uopo interessato, per la stagione invernale è indispensabile
che i bagni e la doccia siano provvisti di dispositivi per il riscaldamento, onde evitare che possa svilupparsi il tifo
petecchiale, poiché tra gli internati vi sono soggetti appartenenti a razze, nelle quali il predetto tifo è endemico.
Trasmetto, pertanto, gli uniti preventivi (…) per la fornitura di un riscaldatore d’acqua per il bagno ed uno per la doccia,
nonché quello (…) per gli impianti delle linee elettriche ed idrauliche che debbono alimentare gli apparecchi da
riscaldamento per la camera da bagno a vasca e quella a doccia.
Resto in attesa delle determinazioni in merito.
Il Prefetto
(f.to) Varano

Il Ministero accettò sollecitamente la proposta di Varano e il 29 novembre diede l’assenso, previo giudizio di congruità
sui preventivi da parte dell’Ufficio Tecnico Erariale, ai «lavori per mettere in efficienza il bagno» del campo di Città S.
Angelo. Non va però sottovalutato, nella missiva di Varano, il riferimento a «razze nelle quali il tifo è endemico»,
poiché si tratta di un pregiudizio razzistico non di poco conto. Non sappiamo se sia Varano stesso a coltivarlo o se egli
l’abbia tratto da fonti mediche, la qual cosa potrebbe non sorprendere, vista la diffusione di idee razziste negli ambienti
medico-scientifici italiani dell’epoca. E l’idea che ci fossero “razze” predisposte al tifo era un’ossessione che pervadeva
le autorità sanitarie tedesche, specialmente quelle al seguito delle truppe d’occupazione in Polonia. Cristopher
Browning ed altri ricercatori hanno anzi dimostrato come questi pregiudizi pseudoscientifici del personale sanitario
abbiano contribuito sia alla creazione dei ghetti in Polonia sia alla progressiva emersione della “soluzione finale”. La
ghettizzazione era infatti un naturale complemento di queste convinzioni, anzi finiva per confermarle, poiché le terribili
condizioni igieniche e alimentari dei ghetti nazisti in Polonia non potevano non generare epidemie. Questa nefanda
spirale di autoamplificazione dei pregiudizi sanitari aiutò a rendere meno inconcepibile la “soluzione finale”: «avendo
deciso di trattare gli ebrei non come vittime da curare, ma come portatori di malattie e quindi da evitare, questi medici,
psicologicamente, erano solo a un breve passo dalla convinzione di Hitler, secondo cui gli ebrei non erano meglio di
bacilli e parassiti».
Il livello di intossicazione ideologica dei medici nazisti era sicuramente molto più alto, forse incomparabilmente più
alto, di quanto emerga dalle parole, pur pesanti, di Varano; ed è per questo che le autorità pescaresi chiesero la cosa più
logica in quel caso, cioè il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie del campo di Città S. Angelo. Si può,
anche in base al diverso contesto storico-politico, avanzare l’ipotesi generale che il razzismo “medico” nazista fosse
“apocalittico”, esasperato, eversivo dei limiti della razionalità scientifica e giuridica, e portava perciò in sé un esito
genocidiario. Il razzismo, invece, del funzionario del regime fascista Varano sembrava mantenersi all’interno di una
logica “tradizionale” del controllo umano; e se comportava forme di dominio anche nuove, dotate di caratterizzazioni
razziali, non alludeva ancora ad un nuovo ordine biocratico del mondo ed era quindi prive di un’implicita pulsione di
annientamento.
Varano non si sottrae perciò, nel dicembre del ’41, dal domandare per telegramma l’invio urgente di altre cento coperte,
«per imminente arrivo altri assegnati et clima rigido». Segue una piccola disputa fra comune e Ministero sulle spese di
manutenzione del campo: si tratta di poche centinaia di lire, ma riguardano la sostituzione di vetrate nelle camerate e nei
bagni, di riparazione ai lavandini e ai rubinetti, di lampadine elettriche, tutte cose che in pieno inverno (la prima
richiesta di autorizzazione di spesa è del 29 gennaio 1942) erano vitali per lo stato di salute degli internati. Alla fine,
tardivamente, a primavera ormai inoltrata, il Ministero accetta di farsi carico delle spese di manutenzione ed autorizza
gli acquisti.
Nel maggio del ‘42, a causa della temporanea chiusura del campo di Corropoli, in provincia di Teramo, 50 internati di
quel campo erano stati trasferiti a Città S. Angelo. La cosa che va notata è che gli internati di Corropoli erano fra quelli
più politicizzati; erano in genere irredentisti jugoslavi e comunisti italiani provenienti dal confino politico e la loro
sorveglianza a Corropoli era stata problematica, con l’invio di alcuni di loro nelle colonie insulari. In conseguenza dei
numerosi arrivi, Varano comunicava al Ministero la saturazione dei posti disponibili nel campo:
Al Ministero dell’Interno
Dgps Agr – Roma
Oggetto: internati trasferiti da Corropoli.
In relazione al telegramma n. 29144/442 del 30 aprile, si comunica che il 4 maggio, sono giunti a Città S. Angelo i
cinquanta 50 internati trasferiti dal Campo di Concentramento di Corropoli.
Con l’occasione si ritiene opportuno e doveroso far presente che, essendosi raggiunte il numero di 134 internati, tutti i
locali sono stati occupati, ad eccezione di una sola camerata destinata in parte alle creazione di una infermeria di
isolamento e in parte a disinfestazione della biancheria.
Nel campo, pertanto, non vi sono più posti disponibili.
Il Prefetto
(f.to)
Varano

Non sembra però che i provvedimenti di adeguamento sanitario del campo siano stati poi concretizzati. Infatti, nel
giugno 1942, l’Ispettore Generale Medico, nella relazione per la Dgps che verrà inviata dalla Direzione Generale di
Sanità del Ministero dell’Interno con una lettera del 4 luglio, segnalava la perdurante assenza dell’infermeria di
isolamento e descriveva in questo modo il campo di Città S. Angelo:

Il campo di concentramento di Città S. Angelo trovasi entro l’abitato in via Umberto n. 31, in un fabbricato di proprietà
comunale che era in origine convento, poi opificio, e infine rimasto abbandonato. Ha la capacità massima di 150 posti-
letto, per soli uomini. Presenti 132 individui provenienti in maggioranza dagli ex Stati Jugoslavi. Il campo fu aperto nel
febbraio 1941; gli ultimi arrivi sono del 4 marzo u.s. e proveniente da altro campo. Nulla da rilevare attualmente sotto
l’aspetto sanitario circa i ricoverati.
L’atrio dell’edificio è di ammattonato sconnesso. Appena entrati appare una porta che dà in una camera buia senza
finestre destinata per le punizioni. In un piano terreno sopraelevato sono i dormitori, ampi, con il pavimento a tavolato
di legno. Uno dei dormitori trovasi al piano superiore. Finora nessun locale è stato destinato per l’eventuale isolamento
o infermeria o ambulatorio. Vi è il bagno ma senza scaldabagno che necessita. Tutti i locali avrebbero bisogno di un’
imbiancatura a calce delle pareti e inoltre sarebbe da raccomandare che le eventuali disinfezioni siano eseguite a cura
del Centro provinciale di profilassi per la maggiore competenza del personale. Gli internati prendono i loro pasti fuori
dal campo. Le vaccinazioni non sono state ancora eseguite. L’assistenza medica è affidata all’unico medico condotto
del luogo Dr. G., il quale è molto daffarato per cui spesso non è disponibile. Se ne proporrebbe la sostituzione con
l’ufficiale sanitario Dr. Nasuti. Aggiungo che essendo per il passato entrati tre malati di scabbia, il Dr. G. non si curò
nemmeno di denunciarli come di obbligo. Non sono state ancora praticate le vaccinazioni.
Roma 2 giugno 1942 XX
L’Ispettore Generale Medico

La relazione fornisce l’idea delle precarie condizioni igieniche in cui gli internati continuavano a vivere e, soprattutto,
testimonia della mancata realizzazione dello scaldabagno, che pure era stata autorizzata fin dal novembre precedente dal
Ministero. La sensazione è quella di un abbandono degli internati a se stessi.
Il dottor G. era stato inizialmente coinvolto nella gestione del campo in quanto medico condotto del paese; la cosa
costituiva naturalmente un aggravio del suo carico di lavoro, tanto che Varano si sentì in obbligo, un anno prima
dell’ispezione medica, cioè nel giugno del ’41, di chiedere al Ministero l’attribuzione per lui di un compenso; aveva
scritto Varano:

R. Prefettura di Pescara – 18 giugno 1941 XIX


Al Ministero dell’Interno – Direzione Generale della P.S. – Divisione A.G.R – Roma
Oggetto: Dr. G. G. medico condotto
Comunico a codesto ministero che il medico in oggetto, da quando è stato impiantato il campo di concentramento di
Città S. Angelo, ha sempre aderito alle richieste del Direttore del campo per visite mediche agli internati. È un lavoro
non indifferente perché, ogni giorno, escluse le chiamate urgenti, sono, in media, dieci visite mediche che egli compie
agli internati.
Finora non ha avuto alcun compenso, mentre ne avrebbe diritto in quanto il Dr. G., come condotto, deve curare,
gratuitamente, soltanto i poveri del Comune. Si prega, pertanto, di compiacersi disporre per un compenso a forfait
dell’opera già prestata, e fissare il compenso stesso per l’avvenire.
Il Prefetto
(f.to) Varano
Il Ministero aveva dato il proprio assenso e aveva accettato la proposta di Varano di fissare un compenso di 300 lire
mensili per il dottor G., «con l’obbligo di due ore giornaliere di ambulatorio al campo, nonché di aderire a tutte le
richieste di visite».
Pare che l’ispezione abbia avuto un suo effetto poiché, sollecitamente, il 17 giugno ’42, la prefettura di Pescara (senza
attendere la trasmissione della relazione ispettiva al Ministero) invia un preventivo (firmato dal funzionario Pace),
vistato dal Medico provinciale e dal Genio civile, per «le spese per impianti igienici nel campo di concentramento di
Città S. Angelo»; il preventivo è restituito con la ratifica di spesa da parte del Ministero.
Ai primi di luglio giungono a Pescara 5 nuclei famigliari allontanati da Fiume per essere internati; vista l’impossibilità
di sistemarli a Città S. Angelo, la prefettura provvede ad alloggiarli nei locali vuoti di una vecchia conceria della poco
distante Penne, prelevando il casermaggio da quello ancora disponibile nel campo di Città S. Angelo. Aggiunge il
prefetto «che è stato disposto che i predetti, da considerarsi ammoniti, siano sottoposti alle relative prescrizioni e
vigilati».
Dal punto di vista logistico e delle condizioni igieniche, non sembra che molto sia cambiato, a più di due anni
dall’apertura del campo: con una lettera del 27 novembre ’42 il prefetto aveva chiesto l’autorizzazione ad effettuare
ulteriori lavori per l’infermeria (proposti dal medico provinciale). L’esordio della stessa missiva lascia però assai
perplessi, poiché Varano inizia col dire che «sono stati da tempo iniziati presso il campo di concentramento di Città S.
Angelo i lavori per impianti igienici, di cui al preventivo approvato da codesto Ministero con nota (…) del 27 giugno
c.a.». Sembra chiaro che l’acqua calda non sia ancora disponibile nel campo di Città S. Angelo, all’approssimarsi del
secondo inverno d’internamento. Anche questa spesa fu comunque approvata dal Ministero ai primi di gennaio.

5. Il giro di vite

I problemi principali del campo, oltre a quelli igienico-sanitari, furono di natura disciplinare. Nel settembre 1942, la
Croce Rossa internazionale visitò il campo di Città S. Angelo e non ebbe rilievi da muovere; il delegato trovò anzi che
gli internati godevano di una libertà di movimento maggiore che in altri campi. Ma questa condizione cominciava ad
essere mal tollerata dalla prefettura. Il 19 novembre del ’42 Varano scrisse al Ministero facendo dei rilievi politici sulla
situazione del campo di Città S. Angelo:

R. Prefettura di Pescara – 19 novembre 1942 XXI°


Al Ministero dell’Interno – Direzione Generale della P.S. – Divisione A.G.R. – Roma
N. di prot. 05483
Si trovano internati nel Campo di concentramento di Città S. Angelo ventisei individui, appartenenti al partito
comunista, i quali, malgrado l’attiva vigilanza degli agenti di P.S., riescono tuttavia a mantenere rapporti con gli abitanti
di quel comune, molto ospitali per loro natura, avendo così facile occasione di propagandare le proprie idee
sovvertitrici.
Si prospetta, in via di massima, la questione a codesto Superiore Ministero, perché voglia esaminare l’opportunità di
trasferire i predetti internati in un campo chiuso.
Il Prefetto
(f.to) Varano

La lettera fu girata a Falcone, che venne incaricato di condurre gli opportuni accertamenti e di esprimere il proprio
avviso al riguardo. Fu così che, nel dicembre del ’42, su proposta di Falcone, viene limitata l’uscita degli internati, i
quali in precedenza frequentavano abbastanza liberamente il paese, in quanto l’edificio del campo era in pieno centro
urbano e molti di loro pranzavano presso le osterie o gli abitanti del luogo. Scrive Falcone alla Dgps, Divisione Agr, in
data 12 dicembre 1942:

Gl’internati nel campo di Concentramento di Città S. Angelo in provincia di Pescara, godono effettivamente di
eccessiva libertà, motivo per cui, spesso si verificano incidenti, che ad onta dei continui richiami e delle punizioni
inflitte ai colpevoli, continuano sempre.
Dal sopraluogo e dalle indagini da me eseguite mi è risultato che gl’internati, specie quelli di sentimenti comunisti, che
sommano a poco più di una ventina, si vedono spesso a confabulare con gli abitanti del Comune.
È necessario pertanto provvedere affinché i lamentati inconvenienti vengano a cessare, per cui d’accordo col Sig.
Questore di Pescara, abbiamo stabilito di limitare la libertà agli internati, come già si pratica in altri campi di
concentramento, accordando loro, due ore al giorno di uscita, indrappellati e scortati da agenti e da Carabinieri, in
maniera che non abbiano contatto con estranei
È da notare inoltre, che nel Campo di Concentramento di Città S. Angelo, vi è un piazzale dove gl’internati possono
prendere aria a volontà.
L’Ispettore Generale di P.S.
(f.to) Falcone

È interessante notare come nel vecchio poliziotto sia soprattutto il “pericolo” comunista a sollecitare la sua penna; si
può così misurare la diversità di atteggiamento fra il poliziotto di mestiere, legato alla repressione del sovversivismo già
al centro dell’investigazione prefascista, e il prefetto di nomina politica Varano, attentissimo alle evoluzioni razzistiche
del regime, che invece infiora le sue lettere con considerazioni sul «carattere balcanico» e sulle «razze nelle quali il tifo
è endemico». Viene qui confermata l’idea di una minore permeabilità dell’apparato poliziesco alle mire totalitarie e alle
innovazioni ideologiche del regime, rispetto al personale prefettizio, molto più ideologizzato e maggiormente
responsabile della attuazione dei programmi politici del fascismo. Dopo aver ricevuto la relazione di Falcone, il
Ministero chiese alla Prefettura di «segnalare con singoli, circostanziati rapporti gli elementi comunisti più pericolosi
ristretti nel campo in oggetto, che verranno trasferiti nelle isole». Ma la sera dell’8 gennaio ’43 gli internati inscenarono
una protesta contro i nuovi provvedimenti voluti da Falcone, rifiutandosi di uscire per cenare nelle trattorie del paese,
come solitamente facevano vista la mancanza di una mensa nel campo. Varano ne approfittò per arrestare nove
«sobillatori» e additarli come tali al Ministero, chiedendone il trasferimento nelle isole, con l’accordo di Falcone. Sette
di loro furono inviati a Lipari e a Ponza (come abbiamo visto, utilizzate per l’internamento “regolamentare” dei civili
jugoslavi) su provvedimento del Ministero; dai cognomi sembrano essere tutti jugoslavi, mentre dal provvedimento
furono esclusi, fra coloro che erano stati arrestati, un internato italiano ed un altro probabilmente greco, quest’ultimo
perché frattanto era stato prosciolto e liberato.
Per impedire che gli internati mantenessero contatti con la popolazione, il prefetto propose a fine marzo del ‘43 di
allestire una cucina nel campo. Dopo aver chiesto il parere di Falcone, ma senza attenderne la risposta, il Ministero
autorizzò la spesa il 31 marzo. Agli atti vi è la relazione di Falcone, datata 24 aprile 1943, in cui egli, riferendosi ad una
missiva ministeriale del 5 aprile a lui indirizzata, scriveva:

Per i pasti, gli internati, ai quali viene concesso un’ora di permesso, si recano nelle diverse trattorie del paese, ma la
vigilanza non riesce efficace, essendo limitato il numero degli agenti e carabinieri. Ragion per cui gli incidenti si
ripetono ogni tanto, anche perché in Città S. Angelo vi è una Scuola Magistrale Femminile. Si rende pertanto necessario
ed urgente, per eliminare i lamentati inconvenienti, istituire una mensa all’interno del Campo, come si pratica, con
ottimo risultato, in altri simili Campi. Si eviterebbe così l’inconveniente di vederli sparpagliati per le diverse trattorie
del paese, e gl’internati stessi rimarrebbero più soddisfatti, avendo modo di preparare le vivande a loro gusto.

Interessante il tocco di “colore” finale, che si ritrova altre volte sotto la penna di Falcone, che deve aver sempre svolto
la sua attività professionale cercando di indorare la pillola di provvedimenti coercitivi facendoli ritenere, in fondo,
anche nell’interesse di chi li subiva. Ma forse è anche un modo, un po’ furbesco ma reale, per segnare l’assenza di
crudeltà e di assillo ideologico nel vecchio funzionario, consapevole di ciò che va preparandosi nell’immediato futuro.

6. Epilogo

Il campo funzionò per tutto il 1943, con circa un’ottantina di internati. A fine marzo del ’43 risulta essere direttore del
campo il commissario Angelo Rossi della questura di Pescara. Nell’aprile del ’43, in uno dei suoi otto viaggi pastorali
nei campi di concentramento italiani, il Nunzio Borgongini Duca visitò, per la prima volta, anche il campo di Città S.
Angelo. Nel giugno del ’43 Falcone fu ricollocato a riposo e le sue competenze furono assunte dall’Ispettore generale
Nicola Lorito, già responsabile dell’Ispettorato generale Abruzzo-Marche.
Un’ultima relazione di Lorito, del 3 settembre, segnala ancora gravi problemi disciplinari e sanitari:

Provincia di Pescara – Città S. Angelo


Il campo è in stabile all’interno del paese in località di angusto ed incomodo accesso, neppure igienicamente adatto. Vi
si trovano molto addensati 79 internati. Epperò dovrebbero essere ridotti, eliminandosi una diecina di elementi
irrequieti, insofferenti e talvolta sobillatori, da destinarsi altrove separatamente. Dovrebbero pure essere allontanati
subito, per motivi di igiene, i due internati tubercolotici da inviare, se non possibile la immediata liberazione, in qualche
tubercolosario. La direzione è affidata al commissario agg/to di p.s. Rossi dott. Angelo, ma in effetti viene esercitata
alternativamente, per ogni quindicina, tra gli altri Funzionari di p.s. della Questura di Pescara. Sarebbe opportuna la
permanente presenza del direttore in luogo.

Dopo l’armistizio molti internati fuggirono; alcuni trovarono ospitalità presso famiglie del luogo. Ma il campo fu
mantenuto in vita dall’amministrazione della RSI, che nominò il 23 settembre anche degli ispettori di zona per i campi
di concentramento: a Lorito venne affidata le province di Pescara e di Campobasso, mentre Falcone fu ancora una volta
richiamato in servizio con il compito di ispettore per le province di Chieti e Teramo; infatti, molti campi di
concentramento abruzzesi rimasero in attività per tutto il periodo della RSI e dell’occupazione tedesca. Il 20 marzo
1944 una lettera della prefettura firmata dal funzionario Pace, relazionava alla Dgps che nel campo «sono rimasti solo 5
internati, perché gli altri in parte si sono allontanati arbitrariamente e parte sono stati muniti del foglio di via dal
Comando Germanico del posto». Agli atti vi è la minuta manoscritta della risposta del Ministero dell’Interno della RSI
alla lettera di Pace:

Ministero dell’Interno – Direzione Generale della Pubblica Sicurezza


Roma 18 aprile 1944 XXII
Prot. N. 451/1847
Oggetto: Campo di concentramento di Città S. Angelo
Al Capo della Provincia di Pescara in Pianella – risposta al foglio del 20.3.u. n. 06
Con riferimento alla lettera su indicata, si prega di trasmettere l’elenco nominativo dei cinque internati nel campo in
oggetto, comunicando altresì la nazionalità e la razza dei medesimi
P.C.P.

Sarebbe da escludere che fra coloro che furono evacuati dai tedeschi ci fossero degli ebrei, poiché la presenza di
internati ebrei fu sempre sparuta nel campo di Città S. Angelo. Non risulta poi che ci siano stati ebrei deportati nei
campi di sterminio che siano stati arrestati in provincia di Pescara. Per gli internati di origine croata si deve ritenere che
i tedeschi abbiano provveduto al loro rimpatrio (in quanto appartenenti a una nazione amica) come risulta sia avvenuto
a Teramo. Ed i tedeschi scelsero quasi sempre di rimpatriare gli internati croati dei campi italiani “speciali” (o
“paralleli”), come fecero a Gonars (in provincia di Udine) e Chiesanuova (in provincia di Padova); solo a Renicci, in
Toscana, i 700 jugoslavi catturati dai tedeschi dopo l'8 settembre furono deportati in Germania. Stessa sorte toccò al
migliaio di “allogeni” italiani ristretti a Cairo Montenotte, in Liguria. Nell’atteggiamento complessivamente favorevole
ai croati pesò la stretta alleanza nazista con il regime genocida di Pavelic, che aveva causato tutta una serie di screzi e
divergenze nei rapporti italo-tedeschi nel corso dei due anni e mezzo di occupazione italiana di parte della Jugoslavia.
Nei primi giorni dell’aprile 1944, il campo di Città S. Angelo venne definitivamente chiuso. Per quanto riguarda invece
gli ebrei residenti nella provincia e noti alla prefettura, una nota del Capo della provincia Mortillaro del 31 marzo ‘44 ne
indicava il numero totale di 11, che il Capo della polizia della Rsi ordinava fossero deportati al nord, al campo di
smistamento di Fossoli dove i nazisti concentravano gli ebrei arrestati in Italia prima di inviarli ad Auschwitz. Non ci
sono agli atti prove dell’arresto da parte di funzionari della questura di Pescara di queste undici persone; è però
accertato l’arresto di alcuni di loro da parte dei tedeschi, che li trasferirono prima a Teramo, nella caserma Mezzacapo,
e poi a Servigliano, in provincia di Ascoli Piceno, dove un campo per prigionieri di guerra venne utilizzato dai tedeschi
come campo di smistamento degli ebrei rastrellati nelle regioni adriatiche. L’ultimo trasferimento di ebrei da
Servigliano verso il nord Italia, destinazione finale Auschwitz, avvenne il 4 maggio 1944. Successivamente i tedeschi
non furono in grado di organizzare altri trasferimenti al nord ed i prigionieri arrivati dopo quella data, fra cui tutti quelli
provenienti da Pescara, poterono sfuggire alle camere a gas solo grazie alla circostanza fortunata di essere giunti a
Servigliano nelle settimane finali dell’occupazione tedesca. Molti di loro furono liberati dai partigiani che fecero due
incursioni nel campo, la cui custodia era affidata a personale italiano.
La notifica ai tedeschi dell’esistenza di queste persone in provincia di Pescara ed il loro arresto avvenne proprio nei
giorni successivi al citato ordine telegrafico che la prefettura di Pescara aveva ricevuto dal Capo della polizia della RSI.
Sembra quindi che la prefettura abbia dato corso a quest’ordine, anche se preferì delegare ai tedeschi la sua esecuzione,
facendo in modo che fossero direttamente loro ad arrestare gli ebrei e poi ad incaricarsi di deportarli. Non sembra però
che i funzionari della prefettura di Pescara si siano dati ad una caccia indiscriminata all’ebreo (come avvenne in altre
prefetture dell’Italia centro-settentrionale), poiché i pochi ebrei italiani residenti in provincia non risulta siano stati
arrestati o additati ai tedeschi: nella documentazione esaminata, quando si parla di ebrei, la prefettura si riferisce sempre
e soltanto agli “ebrei stranieri”.
BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE CITATE

Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale, vol.


VI, Le Saint Siège et les victimes de la guerre, mars 1939–décembre 1940, a cura di P. Blet, R. A. Graham, A. Martini,
B. Schneider, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1972
Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale, vol.
IX, Le Saint Siège et les victimes de la guerre, janvier 1943–décembre 1943, a cura di P. Blet, R. A. Graham, A.
Martini, B. Schneider, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1972
A. Andri, G. Mellinato, Scuola e confine. Le istituzioni educative della Ve-
nezia Giulia 1915-1945, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, Trieste
1994
G. Antoniani Persichilli, Disposizioni normative e fonti archivistiche per lo
studio dell’internamento in Italia (giugno 1940-luglio 1943), in «Rassegna degli Archivi di Stato», XXXVIII [1978], n.
1-3
A. Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, Einuadi, Torino
20032
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Ed. Comunità, Milano 1989
(ed. or. 1951)
G. Badia e altri, Les barbelés de l’exil. Etudes sur l’émigration allemande et
autrichienne (1938-1940), Presses universitaires de Grenoble, Grenoble 1979
G. Badia, Trois destins d’émigrés allemands, in G. Badia e altri, Les bar-
belés de l’exil. Etudes sur l’émigration allemande et autrichienne (1938-1940), Presses universitaires de Grenoble,
Grenoble 1979
B. Bianchi, I civili: vittime innocenti o bersagli legittimi?, in B. Bianchi (a
cura di), La violenza contro la popolazione civile nella Grande Guerra. Deportati, profughi, internati, Unicopli, Milano
2006
E. Barnabà, Morte agli italiani. Il massacro di Aigues-Mortes, Bucolo,
Giardini Naxos 2001
F. Biddle, In Brief Authority, Doubleday, Garden City (N.Y.) 1962
D. Bidussa Il mito del bravo italiano, Il Saggiatore, Milano 1994
P. Birnbaum, Destins. Juifs. De la Révolution française à Carprentras,
Calmann-Lévy, Parigi 1995
E. Black, War Against the Weak. Eugenics and America’s Campaign to
Create a Master Race, Thounder’s Mouth Press, New York 2003
E.-W. Böckenförde, Les juifs et la trahison allemande, in “Le Monde”
8 novembre 1997
M. Boldrini, Sulle maggiori razze umane europee, in Contributi del labora-
torio di statistica dell’Università cattolica di Milano, Vita e Pensiero, Milano 1934
R. Bonavita, Grammatica e storia di un'alterità: stereotipi antiebraici cristia-
ni nella narrativa italiana 1827-1938, in C. Brice, G. Miccoli (a cura di), Les racines chrétiennes de l'antisémitisme
politique (fin XIXe-XXe siécle), Publications de l’Ecole française de Rome, Roma 2003
G. Boursier, L’internamento degli zingari in Italia, in C. Di Sante (a cu-
ra di), I campi di concentramento in Italia. Dall’internamento alla deportazione (1940-1945), F. Angeli, Milano 2001
C. R. Browning, Verso il genocidio. Come è stata possibile la “soluzione fi-
nale”, Il Saggiatore, Milano 1999
M. T. Brunnhuber, After the Prison Ships: Internment Narratives in Ca-
nada, in R. Dove (a cura di), “Totally Un-English”? Britain’s Internment of “Enemy Aliens” in Two World Wars,
Rodopi, Amsterdam-New York 2005
L. Burletson, The State, Internment and Public Criticism in the Second
World War, in D. Cesarani, T. Kushner (a cura di), The Internment of Aliens in Twentieth Century Britain, Frank Cass,
Londra 1993
H. J. Burgwyn, L’impero sull’Adriatico. Mussolini e la conquista della Ju-
goslavia 1941-1943, Leg, Gorizia 2006
P. Burrin, Ressentiment et apocalypse. Essai sur l’antisemitisme nazi, Seuil,
Paris 2004
M. Canali, Le spie del regime, Il Mulino, Bologna 2004
R. Canosa, I servizi segreti del duce, Mondadori, Milano 2001
C. S. Capogreco, Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo
d'internamento fascista, 1940-1945, Giuntina, Firenze 1987
C. S. Capogreco, Postfazione a M. Eisenstein, L’internata numero 6,
Tranchida, Milano 1994 (ed. or. 1944)
C. S. Capogreco, L’entrata in guerra dell’Italia e l’internamento degli ebrei
stranieri: il campo di Ferramonti, in C. Di Sante (a cura di), I campi di concentramento in Italia. Dall’internamento alla
deportazione (1940-1945), F. Angeli, Milano 2001
C. S. Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista
(1940-1943), Einaudi, Torino 2004
C. S. Capogreco, Renicci. Un campo di concentramento in riva al Tevere,
Mursia, Milano 2003
E. Capuzzo, Sull’ordinamento delle comunità ebraiche dal Risorgimento al
Fascismo, in AA.VV., Italia Judaica IV. Gli ebrei nell’Italia unita. 1870-1945, Ministero per i Beni Culturali e
Ambientali, Roma 1993
S. Carolini, Gli antifascisti italiani dal confino all’internamento 1940-1943,
in C. Di Sante (a cura di), I campi di concentramento in Italia. Dall’internamento alla deportazione (1940-1945), F.
Angeli, Milano 2001
P. Carucci, L'organizzazione dei servizi di polizia dopo l'approvazione del
Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza nel 1926, in “Rassegna degli Archivi di Stato”, 1978, n. 1-2-3,
P. Carucci, Confino, soggiorno obbligato, internamento: sviluppo della nor-
mativa, in C. Di Sante (a cura di), I campi di concentramento in Italia. Dall’internamento alla deportazione (1940-
1945), F. Angeli, Milano 2001
F. Cassata, Il fascismo razionale. Corrado Gini fra scienza e politica, Carocci, Roma 2006,
A. Cavaglion, G. P. Romagnani, Le interdizioni del duce. Le leggi raz-
ziali in Italia, Claudiana, Torino 20022
A. Cavaglion, Il senso dell’arca, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli
2006
D. Cesarani, T. Kushner (a cura di), The Internment of Aliens in Twen-
tieth Century Britain, Frank Cass, Londra 1993
D. Cesarani, An Alien Concept?, in D. Cesarani, T. Kushner (a cura
di), The Internment of Aliens in Twentieth Century Britain, Frank Cass, Londra 1993
G. Ciano Diario 1937-1943, Milano, Rizzoli, 20007
L. Cipriani, In Africa dal Capo al Cairo, Bemporad, Firenze 1932

L. Cipriani, Considerazioni sopra il passato e l’avvenire delle popolazioni


africane, Bemporad, Firenze 1932
L. Cipriani, Fascismo razzista, Tumminelli, Roma 1940
G. Cobol, Il fascismo e gli allogeni, in "Gerarchia", VII, n. 9, 1927
M.-L. Cohen, E. Malo (a cura di), Les camps du Sud-Ouest de la Fran-
ce. Exclusion, internement et déportation. !939-1944, Privat, Tolosa 1994
R. Colapietra, Pescara 1860-1960, Costantini Editore, Pescara 1980
E. Collotti, Sul razzismo antislavo, in A. Burgio (a cura di), Nel nome
della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, Il Mulino, Bologna 20002
E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza, Ro-
ma-Bari 2003
T. Colpi, The Impact of the Second World War on the British Italian Com-
munity, in D. Cesarani e T. Kushner (a cura di), The Internment of Aliens in Twentieth Century Britain, Frank Cass,
Londra 1993
CWRIC, Personal Justice Denied, Civil Liberties Public Education
Fund, Washington (D.C.)-University of Washington Press, Seattle 1997
C. Davenport, Heredity in Relation to Eugenics, Henry Holt and Com-
pany, New York 1911
R. Daniels, Prisoners without Trial. Japanese Americans in World War II,
Hill and Wang, New York 2004 (nuova edizione)
R. De Felice, Il fascismo e l’Oriente. Arabi, ebrei e indiani nella politica di
Mussolini, Il Mulino, Bologna 1988
R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, nuova ed., Ei-
naudi, Torino 1993
R. De Felice, Mussolini il duce, vol. II, Lo Stato totalitario 1936-1940,
Einaudi, Torino 1996
A. Del Boca, Gli italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi, Laterza, Ba-
ri 1991
C. Delpla, Le camp du Vernet d’Ariège, 1939-1944, in M.-L. Cohen,
E. Malo (a cura di), Les camps du Sud-Ouest de la France. Exclusion, internement et déportation. !939-1944, Privat,
Tolosa 1994
F. Del Regno, Gli ebrei a Roma tra le due guerre mondiali: fonti e problemi
di ricerca, in “Storia contemporanea”, XXIII, 1, febbraio 1992

C. Di Sante,L’internamento civile nell’ascolano e il campo di concentramento


di Servigliano (1940-1944), Istituto provinciale per la storia del Movimento di Liberazione nelle Marche, Ascoli Piceno
1998
C. Di Sante, I campi di concentramento in Abruzzo, in C. Di Sante (a
cura di), I campi di concentramento in Italia. Dall’internamento alla deportazione (1940-1945), F. Angeli, Milano 2001
C. Di Sante, S. Hasan Sury (a cura di), L’occupazione italiana della Li-
bia. Violenza e colonialismo. 1911-1943, Centro per l’Archivio Nazionale e gli Studi Storici, Tripoli (Libia) 2009
L. DiStasi (a cura di), Una storia segreta. The Secret History of Italian A- merican Evacuation and Internment during
World War II, Heyday Books, Berkeley CA 2001
R. Dowe, “A Matter wich touches the good name of this country”, in R.
Dove (a cura di), “Totally Un-English”? Britain’s Internment of “Enemy Aliens” in Two World Wars, Rodopi,
Amsterdam-New York 2005
G. Dreyfus-Armand, É. Temime, Les camps sur la plage, un exil espa-
gnol, Autrement, Parigi 1995
M. Eisenstein, L’internata numero 6, Tranchida, Milano 1994 (ed. or.
1944)
R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino , 2004
D. Faber, Prigionieri di guerra e internati civili in Australia fra guerra e do-
poguerra: le fonti australiane, italiane, britanniche e svizzere, in AA.VV., Una storia di tutti. Prigionieri, internati,
deportati italiani nella seconda guerra mondiale, F. Angeli, Milano 1989
G. Fabre, Mussolini razzista. Dal socialismo al fascismo: la formazione di
un antisemita, Garzanti, Milano 2005
J.-C. Farcy, Les camps de concentration français de la Première Guerre mon-
diale (1914-1920), Anthropos, Parigi 1995
E. Fimiani, Fascismo e regime tra meccanismi statutari e “costituzione mate-
riale” (1922-1943), in M. Palla (a cura di), Lo Stato fascista, La Nuova Italia, Firenze 2001
E. Fimiani, Per una storia del regime fascista in Abruzzo. Cinque chiavi in-
terpretative, in R. Giannantonio (a cura di), La costruzione del regime. Urbanistica, Architettura e Politica nell’Abruzzo
del Fascismo, Lanciano, Carabba, 2006

R. Finzi, Da perseguitati a “usurpatori”: per una storia della reintegrazione


dei docenti ebrei nelle università italiane, in M. Sarfatti (a cura di), Il ritorno all vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia
dopo la seconda guerra mondiale, Giuntina, Firenze 1998
F. Focardi, La memoria della guerra e il mito del “bravo italiano”. Origine e
affermazione di un autoritratto collettivo, in “Italia Contemporanea”, 220-221, settembre-dicembre 2000
F. Focardi, L. Klinkhammer, La questione dei “criminali di guerra” ita-
liani e una Commissione di inchiesta dimenticata, in “Contemporanea”, n. 3, 2001
S. Fox, General DeWitt and the Proposed Internment of German and Ita-
lian Aliens during World War II, in “Pacific Historical Review”, 57, Novembre 1988, pp. 407-438
S. Fox, UnCivil Liberties. Italian Americans Under Siege during World
War II, Universal Publishers, Usa 2000
S. Fox, Fear Itself. Inside the FBI Roundup of German Americans during
World War II, iUniverse, Usa 2005
P. Frandini, Ebreo, tu non esisti! Le vittime delle Leggi razziali scrivono a
Mussolini, Manni, San Cesario di Lecce 2007
M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della po-
lizia politica fascista, Bollati Boringhieri, Torino 1999
M. Franzinelli, Delatori. Spie e confidenti anonimi: l’arma segreta del regime
fascista, Mondadori, Milano 2002
M. P. Friedman, Nazis and Good Neighbors. The United States Cam-
paign against the Germans of Latin America in World War II, Cambridge University Press, Cambridge 2003
D. Frigessi, Cattaneo, Lombroso e la questione ebraica, in A. Burgio (a
cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, Il Mulino, Bologna 20002
G. Gabrielli, Prime ricognizioni sui fondamenti teorici della politica fascista
contro i meticci, in A. Burgio, L. Casali (a cura di), Studi sul razzismo italiano, Clueb, Bologna 1996
H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983, p. 419
E. Galli Della Loggia, La morte della patria. La crisi dell'idea di nazione
tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1996
L. Ganapini, L’identità nazionale italiana nel secondo dopoguerra, in “Ita-
lia Contemporanea”, n.220-221, settembre-dicembre 2000

G. Gaudenzi, Fascismo e antisemitismo, in “La rivista dei libri”, genna-


io 1995
E. Gentile, La nazione del fascismo. Alle origini della crisi dello Stato na-
zionale in Italia, in “Storia contemporanea”, 1993
E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002
M. Gilzmer, Camps de femmes. Chronique d’internées, Rieucros et Brens,
1939-1944, Autrement, Parigi 2000
C. Gini, Colonie e materie prime, in “La vita economica italiana”, 2-3,
1936
C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in C. Ginzburg,
Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Einaudi, Torino 1986, p. 191
L. Goglia, Note sul razzismo coloniale fascista, in “Storia Contempora-
nea”, XIX, 6, 1988
D. J. Goldhagen, I volonterosi carnefici di Hitler, Mondadori, Milano
1997
A. Grynberg, Les camps de la honte. Les internés juifs des camps français
(1939-1944), La Découverte, Parigi 1999, nuova ed.
Gyges (G. L. Luzzatto), Bocchini: il Fouché di Mussolini, in “Il Nuovo
Avanti”, 20 maggio 1939
A. Halimi, La délation sous l’occupation, L’Harmattan, Paris 2003
J. Higham, Strangers in the Land. Patterns of American Nativism 1860-
1925, Rutgers University Press, New Brunswick, N. J., 1955
C. Holmes, John Bull’s Island: Immigration and British Society. 1871-
1971, Macmillan, Londra 1988
I. Iacoponi, Il fascismo, la Resistenza, i campi di concentramento in provin-
cia di Teramo. Cenni storici, Martintype, Colonnella (Te) 2000
G. Israel, P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, Il Mulino, Bo-
logna 1998
F. Izzo, I lager dei Savoia, Controcorrente, Napoli 1999
F. Joly, J.-B. Joly, J.-F. Mathieu, Les camps d’internement en France de
septembre 1939 à mai 1940, in G. Badia e altri, Les barbelés de l’exil. Etudes sur l’émigration allemande et autrichienne
(1938-1940), Presses universitaires de Grenoble, Grenoble 1979
E. A. Johnson, Il terrore nazista, Mondadori, Milano 2001
S. Klarsfeld, La livraison par Vichy des juifs de zone libre dans les plans
SS de déportation des juifs de France, in M.-L. Cohen, E. Malo, (a cura di), Les camps du Sud-Ouest de la France.
Exclusion, internement et déportation. !939-1944, Privat, Tolosa 1994
S. Klarsfeld, Recueil de documents des archives du Comité International de
la Croix-Rouge sur le sort des Juifs de France internés et déportés, 1939-1945, The Beate Klarsfeld Foundation, Parigi
1999
J. Kotek, P. Rigoulot, Il secolo dei campi, Mondadori, Milano 2002
S. Kühl, The Nazi Connection. Eugenics, American Racism and Germany
National Socialism, Oxford University Press, Oxford-New York 1994
T. Kushner, Clubland, Cricket Tests and Alien Internment 1929-1940, in
D. Cesarani e T. Kushner, The Internment of Aliens in Twentieth Century Britain, Frank Cass, Londra 1993
P. Laborie, Les Espagnols et les italiens dans l’imaginaire sociale, in P.
Milza, D. Peschanski, Exils et migration. Espagnols et italiens en France 1938-1946, L’Harmattan, Parigi 1994
P. Laborie, Vichy et l’exclusion : un miroir impitoyable, in M.-L. Cohen,
E. Malo (a cura di), Les camps du Sud-Ouest de la France. Exclusion, internement et déportation. !939-1944, Privat,
Tolosa 1994
C. Laharie, Le camp de Gurs. Histoire du camp après juin 1940, in G.
Badia e altri, Les barbelés de l’exil. Etudes sur l’émigration allemande et autrichienne (1938-1940), Presses
universitaires de Grenoble, Grenoble 1979
B. Lang, The Dunera Boys: Dramatizing History from a Jewish Perspect-
ive, in R. Dove (a cura di), “Totally Un-English”? Britain’s Internment of “Enemy Aliens” in Two World Wars,
Rodopi, Amsterdam-New York 2005
M. Legnani, L’Italia dal fascismo alla repubblica. Sistema di potere e al-
alleanze sociali, Carocci, Roma 2000
P. Levy, Un camp de concentration français: Poitiers 1939-1945, Sedes,
Parigi 1995
R. J. Lifton, I medici nazisti, Bur, Milano, 20063
L’internement des Juifs sous Vichy, Centre de Documentation Juive
Contemporaine, Parigi 1996
L. Livi, Gli Ebrei alla luce della statistica, 2 voll., Vallecchi, Firenze
1918-1920
L. Livi, Spunti di demografia ebraica, Istituo poligrafico dello Stato,
Roma 1931
G. Lombardi, Premessa alla seconda edizione di A. Aquarone, L’organiz-
zazione dello Stato totalitario, Einuadi, Torino 20032

S. Mazzamuto, Ebraismo e diritto dalla prima emancipazione all’età repub-


blicana, in Storia d’Italia, Annali XI, Gli ebrei in Italia, vol. II, Einaudi, Torino 1997
R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, La Nuova Italia, Fi-
renze 1999
M. Malkin, In Defense of Internment. The case of “Racial Profiling” in
World War II and the War on Terror, Regnery Publishing, Washington 2004
J. Mangione, Concentration Camps- American Style, in L. DiStasi (a cu-
ra di), Una storia segreta. The Secret History of Italian American Evacuation and Internment during World War II,
Heyday Books, Berkeley CA 2001
Manifesto degli scienziati, in “Il Giornale d’Italia”, 14 luglio 1938
V. Marcantonio, The Registration of Aliens, American Committee for
Protection of the Foreign Born, New York 1940
R. Martucci, L'invenzione dell'Italia unita. 1855-1864, Sansoni, Firen-
ze 1999
G. Meyer, Vito Marcantonio. Radical Politician, 1902-1954, State Uni-
versity of New York Press, Albany 1989
G. Miccoli, Santa Sede, questione ebraica e antisemitismo, in Storia d’Ita-
lia, Annali XI, Gli ebrei in Italia, vol. II, Einaudi, Torino 1997
G. Miccoli, Antiebraismo, antisemitismo: un nesso fluttuante, in C. Brice,
G. Miccoli (a cura di), Les racines chrétiennes de l'antisémitisme politique(fin XIXe-XXe siécle), Publications de
l’Ecole française de Rome, Roma 2003
M. Missori, Governi alte cariche dello Stato alti magistrati e prefetti del Re-
gno d'Italia, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Roma 1989
M. Montagnana, Prigionieri di guerra e internati civili italiani in Australia
attraverso “Il Risveglio”, organo del movimento antifascista italo-australiano “Italia Libera”, in AA.VV., Una storia di
tutti. Prigionieri, internati, deportati italiani nella seconda guerra mondiale, F. Angeli, Milano 1989
R. Moro, Propagandisti cattolici del razzismo antisemita in Italia (1937-
1941), in C. Brice, G. Miccoli (a cura di), Les racines chrétiennes de l'antisémitisme politique (fin XIXe-XXe siécle),
Publications de l’Ecole française de Rome, Roma 2003
B. Mussolini, Opera Omnia, vol. XXI, La Fenice, Firenze 1956

W. L. Neumann, America encounters Japan. From Perry to MacArthur,


Johns Hopkins Press, Baltimora 1963
B. Niiya (a cura di), Japanese American History. A A-to-Z reference from
1868 to the Present, Facts on File, New York 1993
G. Noiriel, Les origines républicaines de Vichy, Hachette, Parigi 1999
P. Novick, L’Holocauste dans la vie américaine, Gallimard, Paris 2001
G. Orecchioni, I sassi e le ombre. Storie di internamento e di confino nel-
l’Italia fascista. Lanciano 1940-1943, Edizioni di Storia e Letteratuira, Roma 2006
E. Ortona, L'esodo da Londra dell'ambasciata italiana nel 1940, “Storia
contemporanea”, 1, 1990, pp. 173-182
A. Osti Guerrazzi, Poliziotti. I direttori dei campi di concentramento italia-
ni 1940-1943, Roma, Cooper, 2004
C. Ottaviano, Il caso sudafricano: internati civili, prigionieri di guerra e poli-
tiche migratorie, in AA.VV., Una storia di tutti. Prigionieri, internati, deportati italiani nella seconda guerra mondiale,
F. Angeli, Milano 1989
N. Palombaro, Le sanzioni contro il fascismo nella Provinca di Pescara,
Ires Abruzzo, Pescara 2003
P. Panayi, An Intolerant Act by an Intolerant Society: The internment of
Germans in Britain During the First World War, in D. Cesarani e T. Kushner (a cura di), The Internment of Aliens in
Twentieth Century Britain, Frank Cass, Londra 1993
R. Paris, Les italiens et le mouvement ouvrier français de 1870 à 1915, in
A. Bechelloni, M. Dreyfus, P. Milza (a cura di), L’intégration italienne en France, Éditions Complexe, Bruxelles 1995
C. Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e
continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, 1995
R . O. Paxton, La France de Vichy 1940-1944, Éditions du Seuil, Pa-
rigi 1973
R . O. Paxton, M. R. Marrus, Vichy et les Juifs, Calmann-Lévy, Pari-
gi 1981
N. Pende, Bonifica umana razionale e biologia politica, Cappelli, Bologna
1933
G. Perri, Il caso Lichtner. Gli ebrei stranieri, il fascismo e la guerra, Jaca
Book, Milano 2010

G. Perri, Un nuovo documento sul ruolo della Nunziatura apostolica nella


formazione della politica italiana nei confronti degli ebrei stranieri durante il secondo conflitto mondiale, in “Ricerche
di storia sociale e religiosa”, XXXIX, 77, nuova serie, gennaio-giugno 2010
D. Peschanski, La France des camps. L’internement, 1938-1946, Galli-
mard, Parigi 2002
A. Petacco, L’archivio segreto di Mussolini, Mondadori, Milano 1998
A. Pezzana, Il Senato del Regno dal 1922 al 1946. La Camera Alta, il
fascismo ed il postfascismo, Bastogi, Foggia 2006
L. Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-
1945), nuova ed., Mursia, Milano 2002
P. P. Poggio, Unificazione nazionale e differenza razziale, in A. Burgio
(a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, Il Mulino, Bologna 20002
C. Pogliano, Eugenisti, ma con giudizio, in A. Burgio (a cura di), Nel
nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, Il Mulino, Bologna 20002
É. Poulat, Intégrisme et catholicisme intégral. Un réseau secret international
antimoderniste: la “Sapinière” (1909-1921), Casterman, Tournai 1969
É. Poulat, Catholicisme, démocratie et socialisme, Casterman, Tournai
1977
F. Quilici, Tobruk 1940. Dubbi e verità sulla fine di Balbo, Milano,
Mondadori, 2006
M. Raspanti, I razzismi del fascismo, in La Menzogna della razza. Docu-
menti e immagini del razzismo e dell'antisemitismo fascista (a cura del Centro Furio Jesi), Grafis Edizioni, Bologna
1994
M. Raspanti, Il mito ariano nella cultura italiana fra Otto e Novecento, in
A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, Il Mulino, Bologna 20002
W. H. Rehnquist, All the Laws but One. Civil Liberties in Wartime,
Vintage, New York 2000 (1° ed. 1998)
G. Ricci Lothrop, Unwelcome in Freedom’s Land. The impact of World
War II on Italian Aliens in Southern California, in L. DiStasi (a cura di), Una storia segreta. The Secret History of
Italian American Evacuation and Internment during World War II, Heyday Books, Berkeley CA 2001

G. Robinson, By Order of the President. FDR and the Internment of Ja-


panese Americans, Harvard University Press, Cambridge, Mass.-London 2001
G. Robinson, After Camp: Portraits in Midcentury Japanese American
Life and Politics, University of California Press, Los Angeles 2012
J. B. Robitscher (a cura di), Eugenic sterilization, Thomas, Springfield
(Illinois) 1973
G. Rochat, Regime fascista e chiese evangeliche, Claudiana, Torino 1990
D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo, Le politiche di occupazione del-
l’Italia fascista in Europa (1940-1943), Bollati Boringhieri, Torino 2003
E. Salerno, Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell'avventura coloniale
italiana (1911-1931), Manifestolibri, Roma 2005
M. Sarfatti, Il volume “1938. Le leggi contro gli ebrei” e alcune considerazio-
ni sulla normativa persecutoria, in AA.VV., La legislazione antiebraica in Italia e in Europa, Camera dei deputati, Roma
1988
M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle leggi
del 1938, Zamorani, Torino 1994
M. Sarfatti, Gli ebrei negli anni del fascismo, in Storia d’Italia, Annali XI,
Gli ebrei in Italia, vol. II, Einaudi, Torino 1997
M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista.Vicende, identità, persecuzione, Ei-
naudi, Torino 2000
M. Sarfatti, La preparazione delle leggi antiebraiche del 1938. Aggiorna-
mento critico e documentario, in I. Pavan e G. Schwarz (a cura di), Gli ebrei in Italia tra persecuzione fascista e
reintegrazione postbellica, Giuntina, Firenze 2001
M. Sarfatti, Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani di oggi, Einaudi, To-
rino 2002
F. Savorgnan, La guerra e la popolazione. Studi di demografia, Zanichelli,
Bologna 1918
F. Savorgnan, Corso di demografia, Nistri-Lischi, Pisa 1929
R. D. Scherini, Executive Order 9066 and Italian Americans: The San
Francisco Story, in “California History”, LXX, 4, 1991-92, pp. 367-377
R. D. Scherini, When Italian Americans Were “Enemy Aliens”, in L.
DiStasi (a cura di), Una storia segreta. The Secret History of Italian American Evacuation and Internment during World
War II, Heyday Books, Berkeley CA 2001
R. Schor, L’antisémitisme en France dans l’entre-deux-guerres, Éditions
Complexe, Bruxelles 2005
G. Schwarz, Gli ebrei italiani e la memoria della persecuzione fascista
(1945-1955), in “Passato e Presente”, 1999, n. 47
G. Schwarz, Introduzione a I. Pavan e G. Schwarz (a cura di), (a cura
di), Gli ebrei in Italia tra persecuzione fascista e reintegrazione postbellica, Giuntina, Firenze 2001
M. Seyfert, His Majesty’s Most Loyal Internees, in G. Hirschfeld (a cu-
ra di), Exile in Great Britain: refugees from Hitler's Germany, Humanities Press, Atlantic Highlands, N.J., 1984
A. W. B. Simpson, In the Highest Degree Odious. Detention Without Tri-
al in Wartime Britain, Oxford University Press, Oxford-New York 1994
S. Sorani, L’assistenza ai profughi ebrei in Italia (1933-1947). Contributo
alla storia della “Delasem”, Carucci, Roma 1983
D. Sorrentino, La conciliazione e il fascismo cattolico. I tempi e la figura di
Egilberto Martire, Morcelliana, Brescia 1980
A. Spinosa, Mussolini razzista riluttante, Mondadori, Milano 2000
L. Sponza, The British Government and the Internment of Italians, in D.
Cesarani e T. Kushner (a cura di), The Internment of Aliens in Twentieth Century Britain, Frank Cass, Londra 1993
L. Sponza, The Internment of Italians 1940-1945, in R. Dove (a cura
di), “Totally Un-English”? Britain’s Internment of “Enemy Aliens” in Two World Wars, Rodopi, Amsterdam-New
York 2005
L. Stoddard, The Rising Tide Of Color Against White World-supremacy,
Scribner’s Sons, New York 1920
Studi per la Storia dell’amministrazione pubblica italiana. Il Ministero del-
l’Interno e i Prefetti, Pubblicazioni della Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno, Roma 1998
H. Strum, Jewish Internees in the American South. 1942-1945, in “Ame-
rican Jewish Archives”, 1990, n. 1, pp. 27-48
V. Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, Mani-
festolibri, Roma 1993
R. Timeus, Scritti politici (1911-1915), Lloyd Triestino, Trieste 1929

G. Tintori, New Discoveries, Old Prejudices. The Internment of Italian A-


mericans during World War II, in L. DiStasi (a cura di), Una storia segreta. The Secret History of Italian American
Evacuation and Internment during World War II, Heyday Books, Berkeley CA 2001
G. Tintori, Italiani enemy aliens. I civili residenti negli Stati Uniti d’A-
merica durante la Seconda guerra mondiale, in “Altreitalie”, gennaio-
giugno 2004, pp. 83-109
G. Tosatti, Gli internati civili in Italia nella documentazione dell’Archivio
centrale dello Stato, in AA.VV., Una storia di tutti. Prigionieri, internati, deportati italiani nella seconda guerra
mondiale, F. Angeli, Milano 1989
G. Tosatti La repressione del dissenso politico tra l’età liberale e il fascismo.
L’organizzazione della Polizia, in “Studi Storici”, Anno 38, 1, 1997
M. Toscano, L’abrogazione delle leggi razziali, in M. Sarfatti (a cura di),
Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, Giuntina, Firenze 1998
M. Toscano, L’internamento degli ebrei italiani 1940-1943: tra contingen-
ze belliche e politica razziale, in C. Di Sante (a cura di), I campi di concentramento in Italia. Dall’internamento alla
deportazione (1940-1945), F. Angeli, Milano 2001
M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia. Dal 1848 alla guerra dei
sei giorni, Angeli, Milano 2003
A. Triulzi, La costruzione dell’immagine dell’Africa e degli africani nell’Ita-
lia coloniale, in A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, Il Mulino,
Bologna 20002
G. Turi, Ruolo e destino degli intellettuali nella politica razziale del fascismo,
in AA.VV., La legislazione antiebraica in Italia e in Europa, Camera dei deputati, Roma 1988
US Department of Commerce, Historical Statistics of the United States:
Colonial Times to 1970 (2 vv.), US Government Printing Office, Washington (D.C.) 1975
K. Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, 2 voll.,
La Nuova Italia, Firenze 1993-1996
B. Vormeier, Le camp de Gurs. Les internés allemands et autrichienns en
1939-1940, in G. Badia e altri, Les barbelés de l’exil. Etudes sur l’émigration allemande et autrichienne (1938-1940),
Presses universitaires de Grenoble, Grenoble 1979
P. Weil, La France et ses étrangers, Gallimard, Parigi 2004 (nuova edi-
zione)
J. Weill, Contribution à l’histoire des camps d’internement dans l’anti-France,
Éditions du CDJC, Parigi 1946
A. Wieviorka, Shoah: du silence à la prise de conscience, in “Le Monde
des Livres’’, 9 novembre 2001
M. Winock, Edouard Drumont et Cie. Antisémitisme et fascisme en France,
Seuil, Parigi 1982
P. G. Zunino, L’ideologia del fascismo, Il Mulino, Bologna 1995
P. G. Zunino, La Repubblica e il suo passato, Il Mulino, Bologna 2003

270

270

INDICE DEI NOMI


Acerbo, G. 143, 147, 244 Albini, U. 150, 210 Alianello, R. 209 Borgongini D
Almansi, D. 191 272
Amè, C. 201 Birnbaum, P.
Amendola, G. 105
Anderson, J. 27, 31, 36 Bousquet, R.
Anfuso, F. 189 Brasillach, R
Anzani, D. 34 Browning, C
Aquarone, A. 115, 169, 215 Bresciani, A.
Arendt, H. 16, 166, 169, 173, Buffarini Gu
237
Artom, G. 159 187, 193
Ascoli, M. 92 Burletson, L.
Aureli, G. 145
Camarra, N.
Badia, G. 40 Canali, M. 1
Badoglio, P. 147, 210
Balbo, I. 150, 158, 209 Capogreco, C
Ball, J. 28, 29 235
Barbera, M. 147 Carolini, S.
Beer, G. 159 Carter, B. 67
Benigni, U. 139 e n., 140, 141 Carter, J. F.
Benjamin, W. 54
Biddle, F. 80, 81, 88, 91 Cavaglion, A
Bidussa, D. 217 Cavour, cont
Binet, A. 70 Cecchelli, C.
Black, E. 69, 72, 74, 77 Céline, L.-F.
Blanc, A. 138 Cesarani, D.
Bocchini, A. 100, 103,106, 108, Chierici, R.
109, 111, 113, 118 e n., 119 210
e n., 153, 156, 158, 179, 183- Churchill, W
187, 190-194, 198, 234, 244- Ciccotti, E. 1
248, 251n Cianetti, T. 2
Böckenförde, E.-W. 161, 219 Ciano, G. 30
Boldrini, M. 132, 133 e n., 134 Cipriani, L.
e n. Cobol, G. 20
Bonavita, R. 138 Colajanni, N
Collotti, E. 1
D’Ambrosio, F. 34n Colpi, T. 37
Daladier, É. 45 Comba, E. 1
Daniels, R. 69, 80, 82 Crispi, F. 10
Dannecker, T. 61 Croce, B. 12
Davenport, C. 71, 72
De Felice, R. 115, 116, 119,
121, 122, 150, 153, 160, 162, Facci, J. 92
165, 169, 216n Falcone, R. 2
Della Seta, A. 159 245, 247-2
De Rosa, G. 146 269-273
De’ Rossi dell’Arno, G. 146 Farinacci, R.
De Töth, P. 145 Fauro (vedi:
de Vries de Heekelingen, H., Fante, J. 93
145 Ferrari, L. 1
De Witt, J. 81 Ferri, E. 138
Di Maggio, J. 92 Fimiani, E. 2
Di Sante, C. 97 Finzi, R. 165
DiStasi, L. 84, 93 Foà, C. 159
Di Stefano, M. 108 Focardi, F. 2
Dove, R. 23 Ford, G. 66
Dreyfus, A. 53 Fox, S. 84, 9
Drieu La Rochelle, P. 53 Fracassi, G. 3
Droumont, É. 53 e n. Francolini, B
Ducati, P. 138 Franzinelli, M

Eichmann, A. 61, 223 Galbiati, E.


Eisenstein Moldauer, M. 198, Galton, F. 23
199, 200n, 203, 205, 256 Ganapini, L.
Engel, E. 84 Gasparri, P.
Enriques, F. 159 Gaudenzi, G.
Ercoli, U. 201 Gentile, E. 9
Ernst, M. 54 Gentile, G. 9
Esposito, R. 75n Gillman, L.
Estèbe, J. 40 Gillman, P.
Evola, J. 122, 123, 143 Gilzmer, M.
Gini, C. 127
Fabre, G. 159 132, 134, 1
Graziani, R. 177 Ginzburg, C.
Gulì, E. 108 Gobitz, G. 4
Grynberg, A. 40, 41, 48, 51 Goldhagen, D
Guerrazzi, F. D. 138 Goldmann, N
Gyges (vedi: Luzzatto, G. L.) Gramsci, A.
Grant, M. 72
Harker, O. A. (“Jasper”) 28 La Guardia, F
Heydrich, R. 61, 118 Laharie, C. 4
Hitler, A. 72, 73, 115, 122, 141, Laughlin, H.
166, 170, 205, 234, 264 Laval, P. 61
Holmes, C. 24 Lazio, R. 85
Hoover, J. E. 92 Leone XIII, p
Hosokawa, B. 66 Leto, G. 108
Levi, E. 128
Inouye, D. 67 Levi, M. A.
Interlandi T., 134, 143 Levinas, E. 7
Introna, N. 156 Levy, P. 63
Invernizio, C. 139 Lichtner, R.
Israel, G. 127 Lifton, R. J.,
Limentani, U
Jaconelli, A., 35n Lioni, A. 20
Jetter, T. 199, 202 Lippmann, W
Johnson, A. 75 e n., 76 Livi, L. 134
Johnson, E. 173 Lombardi, G
Jung, B. 155 e n. Lombroso, C
135
Kantorowicz, A. 54 Loraine, P. 3
Klarsfeld, S. 40, 62 Loria, A. 12
Klinkhammer, L. 227 Lorito, N. 27
Knox, H. 82, 83 Lospinoso, G
Koenig, W. 64 Luzzatto, G.
Koestler. A. 54, 55
Kotek, J. 231 Magistrelli, U
Kristic, A. 255 Maglione, L.
Kushner, T. 22, 23, 28, 37 Maiocchi, R.
137
Laborie, P. 40, 48, 50 Manson, C. B
Lafitte, F. 22 Mantegazza
Manzoni, A.
Mauco, G. 52 Marcantonio
Maurogonato Pesaro, I. 139 Mariniello, F
McWilliams, C. 78 Martino, G.
Mendel, G. 71 Martire, E. 1
Menè, A. 261 Mattei, E. 13
Merriam, J. C. 76 e n. Matteotti, G.
Merry del Val, R. 140
Messineo, A. 147 Pace, C. 267
Miccoli, G. 141, 146, 148 Pacelli, E. 1
Milanesi, G. 139 Pacitto, G. 3
Molinari, F. 87n Padellaro, G.
Monterisi, N. 228 Pais, E. 137n
Moro, R. 145, 146 Palatucci, G.
Morselli, E. 127n, 128 Pareti, L. 13
Mortillaro, G. 275 Paribeni, R.
Mosse, G. 163 Pasqualigo, F
Mussolini, B. 72, 93, 100, 103, Patellani 128
107, 110, 111, 115, 121, 122, Pavelic, A. 2
133, 141, 142, 144, 147, 151, Pavone, C. 2
152 e n., 153, 156, 158-160, Paxton, R. O
162, 166-170, 174, 187, 190, Pende, N. 12
191, 193, 208-210, 215, 216 Pennetta, E.
e n., 217, 219, 226, 234, 257 Pennisi, N. 1
Pennypacker
Napoleone III 46 Peruggia, G.
Nastasi, P. 127 Peschanski, D
Nasuti, dr. 266 50, 51, 57,
Niceforo, A. 125 Pétain, H. 39
Nigra, C. 125 Pezzana, A.
Noiriel, G. 41, 42, 45, 49, 61, Picciotto, L.
62 Pio X, papa
Novick, p. 222, 223 Pio XI, papa
Nudi, F. 110 142, 145, 1
Piscitelli, fra
Olbrisch, K. 34 Pistone, E. 2
Olivetti, G. J. 159 Pope, G. 87,
Osti Guerrazzi, A. 255 Poulat, É. 13
Raspanti, M. 143 Preziosi, G.
Rellini, A. 137 Puccioni, N.
Resnais, A. 40
Ricci Lothrop, G. 80 Quilici, F. 1
Rigoulot, P. 231 Quilici, N. 1
Robinson, G. 79, 82, 232
Rocco, A. 105 210
Rochat, G. 105, 106, 158n Sereno, R. 9
Rodogno, D. 203, 225 Sergi, G. 12
Romanini, A. 145 136n
Roosevelt, E. 92 Seyfert, M. 2
Roosevelt, F. D. 76, 78, 79, 81, Solimana, G.
82, 83, 86, 87, 91 Sorani, S. 14
Roosevelt, T. 68, 69 Sottochiesa,
Rosenberg, A. 72 Starace, A. 1
Rosselli, C. 105 Slitinsky, M.
Rossi, A. 92 Spinosa, A.
Rossi, A. 272 Stimson, H. L
Rossic, G. 254, 255 Stoddard, L.
Roti, S. Strauss, H. 2
Rovan, J. 40 Suvich, F. 2
Rubio, J. 48n Swinton, Lor

Sacerdoti, A. 151, 154, 155 Tacchi Ventu


Salata, F. 206 Tagliavia, A.
Salvatorelli, L. 171 Tamaro, A.
Sanzò, C. 262 Tamburini, T
Sarfatti, Margherita 159 Timeus, R. (“
Sarfatti, Michele 144, 153, 155, Tintori, G. 9
160-162, 174, 191, 223 Tixier, A. 63
Sarraut, A. 45 Toeplitz, G.
Savorgnan, F. 132 Tosatti, G. 1
Scherini, R. D. 84, 90 Toscano, M.
Schmidt, W. 134 Treves, P. 34
Schmitt, K. 15 Tuchmann, H
Schwarz, G. 224 Tuchmann; H
Scorza, C. 209 Turati, A. 10
Senise, C. 113, 157, 181, 201, Turi, G. 164
Vilanova, A. 48n
Voigt, K. 164, 196, 204, 209, Varano, A.
210, 223 240, 241, 2
267-270
Walbaum, dr. 263 Varese, C. 1
Weill, J. 39, 52 Venturi, G. 2
Whitney, L. F. 72
Wieviorka, A. 222
Wilson, W. 69

Zanardelli, 153
Zangwill, I. 69
Zuccarelli, A. 128
Zunino, P. G., 97, 214, 221

270
270
270

270

Potrebbero piacerti anche