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Atti del convegno:

Gli equilibri della FAME


La cooperazione è la risposta?
***
Riva del Garda - 1 e 2 novembre 2008
RINGRAZIAMENTI

Si ringraziano tutti i relatori che hanno partecipato al convegno


“Gli equilibri della fame. La cooperazione è la risposta?” e hanno
autorizzato la pubblicazione dei loro contributi.

Questo volume è stato curato da Cristina Coppo, con la collaborazione


di Clara Castellucci, Giulio Sensi, Davide Bessi, Silvia Brandolin,
Barbara Ciceri, Nicoletta Madia, Cristina Pirri, Erica Rattotti, Stefania
Scotti, Gloria Valentini.

Progetto grafico e copertina di Riccardo Zanzi.


Con il contributo della Provincia
a u t o n o m a d i Tr e n t o
PRESENTAZIONE

Da quanto tempo parliamo di “fame”? Certamente è un tempo troppo lungo da sopportare, guar-
dando al passato. Ed anche il futuro non ci riserva al riguardo belle sorprese: il primo degli obiettivi
del millennio - dimezzare il numero di persone che soffrono la fame entro il 2015 - è invece sempre
più lontano ed ormai irraggiungibile.
L’insofferenza è accresciuta dalla considerazione che - da decenni ormai - le cause della fame e
dell’ingiustizia sono note, ed altrettanto noti sono i necessari cambiamenti delle regole del gioco per
invertire processi politici ed economici iniqui, su cui è stata fondata la crescita speculativa dell’eco-
nomia mondiale. La crisi finanziaria ed economica attuale ha ancora di più messo alla scoperto ciò
che già conoscevamo e che ora è sotto gli occhi di tutti gli osservatori, ossia il decadimento del para-
digma economico fondato sulla deregolamentazione, la liberalizzazione e la privatizzazione, alla luce
dei risultati: bolle speculative, impatti devastanti sull’economia reale, crescita delle disuguaglianze,
disastri ambientali.
Se c’è un tema, dunque, che emerge con maggiore forza nell’agenda politica internazionale, è il
tema delle regole: è indispensabile reintrodurre le regole di governo dell’economia mondiale. Non
siamo a priori contrari all’economia di mercato, ma, prima dell’economia privata, occorre rimettere
al centro degli interventi il ruolo della programmazione e delle politiche pubbliche quali basi fondanti
ed imprescindibili della coesione sociale: politiche industriali, territoriali, sociali, educative. Politiche
che a tutti i livelli - globale, statale e locale - devono rispondere, come richiesto da tutta la società
civile mondiale, ai bisogni umani fondamentali, tra cui inseriamo anche il diritto ad un ambiente na-
turale sano, che è il primo rifugio ed alleato dei poveri. La crisi alimentare, infatti, scandalosamente
accoppiata alla sovra-produzione agricola mondiale, è strettamente connessa alla crisi climatica,
alla crisi energetica ed all’incapacità di gestione a lungo termine delle risorse naturali. Queste crisi
si rafforzano a vicenda e devono essere risolte insieme, applicando un nuovo paradigma di sviluppo
fondato sulla regolazione, la sobrietà, la solidarietà.
Parlando di regole, il primo terreno da sottoporre a bonifica è quello della finanza. La maggior
parte dei grandi problemi mondiali irrisolti, e tra questi il problema alimentare, hanno infatti le proprie
radici nel mondo finanziario. Nuove regole per una finanza giusta, trasparente ed al servizio dello
sviluppo umano dovranno essere immediatamente seguite dalla regolamentazione del commercio
internazionale e della governance delle imprese transnazionali - regole che nel loro insieme dovranno
disegnare, con un ritardo di 40 anni, quello che già negli anni ’70 emergeva quale paradigma proposto
dai paesi in via di sviluppo e prontamente negato dal “reaganismo” e dal “thatcherismo”: un nuovo
ordine economico internazionale fondato sulla pari dignità di tutti i paesi del globo.
Gli impoveriti hanno amaramente sperimentato che i loro peggiori dubbi relativi al processo di
“modernizzazione” dell’agricoltura si sono ampiamente verificati: la sostituzione dell’agricoltura di
sussistenza tradizionale col completo affidamento delle loro produzioni ai mercati internazionali ha
accresciuto esponenzialmente la vulnerabilità di buona parte della popolazione rurale del mondo. Al
contempo ha devastato l’ambiente, mediante l’induzione all’uso massiccio delle tecnologie chimiche
e genetiche. Viviamo in un mondo a due velocità che devono essere cambiate: le fasce impoverite
in cui il diritto al cibo è ancora un miraggio e la cui situazione è aggravata dalla crisi alimentare, e le
fasce arricchite in cui il cibo è un bene quasi illimitato, fornito in abbondanza anche grazie a mecca-

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Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

nismi di depredazione delle risorse alimentari e naturali del sud del mondo.
Le soluzioni per riequilibrare il pianeta in “soprappeso” con quello in “sottopeso” esistono, hanno
a che fare con una diversa regolamentazione dei mercati e con scelte individuali e collettive eque e
sostenibili, con il diritto dei popoli a produrre e consumare ciò che ritengono più giusto in un’ottica di
sovranità alimentare: una “partnerhip globale” in cui tutti gli attori possano giocare un ruolo virtuoso
e positivo per garantire in maniera sostenibile il diritto al cibo e costruire, finalmente, un mondo senza
affamati.

LUIGI IDILI
Presidente di Mani Tese

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SESSIONE INTRODUTTIVA

INTRODUZIONE DI GIANLUCA VIAGGI


PRESIDENTE DI MANI TESE NEL TRIENNIO 2006-2008

Con grande piacere apro il convegno internazionale di Mani Tese, appuntamento biennale in cui la
nostra associazione si confronta con le trasformazioni politiche, economiche e sociali del contesto
internazionale in cui opera. Per il 2008 abbiamo scelto come focus principale il tema della fame, ad
oggi uno dei più grandi problemi che affligge il pianeta, ancora irrisolto dall’uomo.
Eppure il nostro mondo è in grado di produrre ben più di quanto basti per sfamare i propri figli. La fame è
quindi frutto delle scelte dell’uomo, di politiche dissennate che hanno trasformato l’agricoltura di sussisten-
za in agricoltura di mercato e business di pochi, mentre masse di donne e uomini vanno ad ingrossare le
fila dei poveri nei grandi agglomerati del Sud e del Nord del mondo. L’attuale fotografia dello stato di salute
economica del mondo è devastante. Il libero mercato è fallito nel suo intento di creare opportunità per tutti
e regolamentarsi da solo. Ma questo non è un semplice imprevisto come vorrebbero farci credere.
Nel corso della storia di Mani Tese, il nostro impegno politico ha sempre avuto ragione nella sua
proiezione sul futuro. Quindici anni fa chiedemmo ai politici di tutto il mondo nuove regole per il
commercio internazionale, sottolineando come fosse inaccettabile il potere delle multinazionali e la
loro ricaduta sulle economie deboli dei paesi in via di sviluppo. Un potere portatore di sfruttamento,
ingiustizie, povertà e fame. Sempre in quegli anni, sostenemmo la proposta di una tassazione tesa a
porre un freno alle transazioni finanziarie a scopo speculativo ed a creare risorse indispensabili per la
cooperazione allo sviluppo. Purtroppo abbiamo sempre incontrato la più completa sordità dei politici
che governano il mondo, un mondo che è anche il nostro!
Ma cosa sta succedendo oggi? La crisi del sistema finanziario mondiale sta minando tutte le rocca-
forti del libero mercato. La deregolamentazione della operatività negli scambi di denaro ha permesso
la creazione di strumenti di finanza criminale. Oltre ad aver sempre prodotto ingiuste distribuzioni
di ricchezza - con la creazione di denaro da altro denaro mediante pure e spietate speculazioni a
danno dei più deboli - oggi tali strumenti sono la causa del loro stesso male. L’economia di carta sta
crollando. La crisi della finanza globale sta avendo effetti devastanti, purtroppo inevitabili, anche sulla
economia vera, quella reale. Mancano strumenti politici adeguati alla salvaguardia dei più deboli,
sui quali si abbattono le più drammatiche conseguenze. Ma non è finita. La finanza “incattivita” da
questi scenari si sta rifugiando nel mercato delle materie prime, speculando sui prezzi delle stesse,
in particolare dei prodotti agricoli ed alimentari.
La cooperazione può quindi essere la risposta alla fame? Si, ma sicuramente non l’unica. Solo
un’alleanza di forze che guardano nella stessa direzione può contribuire ad un corretto e solidale
sviluppo dei popoli. Al centro di tutto, il nostro impegno di giustizia che deve vincere la sordità della
politica per portarla a svolgere un ruolo degno del nome che porta, alla (ri)scoperta del ruolo dello
Stato, che oggi interviene, guarda caso, a sostegno della finanza speculativa - pur non affrontando il
problema alla radice. Se solo una parte dei miliardi che i vari Stati hanno versato per salvare il sistema
finanziario fosse stata investita in programmi alimentari, oggi ci staremmo raccontando altro, la fame
sarebbe vinta.
Un’altra forza su cui deve contare questa alleanza è il sostegno di una finanza giusta, capace di in-
terpretare il ruolo, che le spetta per definizione, di sviluppo e sostegno dell’economia vera, necessaria

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Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

all’uomo per vivere e sopravvivere. Oggi la sovranità del mercato deve essere sostituita. Partendo
dalla centralità che la politica deve restituire all’uomo e ai suoi bisogni reali, è possibile costruire una
nuova sovranità, quella alimentare, basata su un sistema economico etico e solidale.
Serve impegno nel diffondere un’informazione vera e non viziata dai poteri forti, attraverso iniziati-
ve di sensibilizzazione e di formazione nelle quali Mani Tese è impegnata da sempre. Serve sostenere
i nostri progetti di sviluppo, vera espressione di un’economia solidale ed al servizio dell’uomo, che
danno dignità e forza ai più poveri del mondo. Serve infine organizzare momenti di grande risonanza
come questo convegno.
Mani Tese vanta una tradizione ed una storia ricca di momenti forti capaci di aggregare non solo i
nostri volontari che sono l’anima dell’associazione, ma anche tutti coloro che sono interessati ai temi
che trattiamo. Sono migliaia le persone che si sono avvicinate a questi argomenti grazie ai nostri con-
vegni. Momenti in cui abbiamo contribuito a sviluppare in Italia un pensiero nuovo, grazie all’appoggio
di studiosi ed esperti che ci hanno sempre aiutato nella lettura dei fenomeni del nostro tempo. Non
significa solo informare, ma mettere insieme energie e alleanze, creando occasioni oggi più utili che
mai, perché corriamo il rischio di perdere i riferimenti che il movimento per “l’altro mondo possibile”
ha costruito negli ultimi decenni.
Ed è ciò che Mani Tese ha fatto fino ad oggi e continuerà a fare domani, grazie al coraggio, al-
l’impegno e al grande sacrifico di volontari, operatori e soci che da sempre spendono le loro energie
migliori per un altro mondo possibile.

SALUTO DI IVA BERASI


ASSESSORE ALL’EMIGRAZIONE, SOLIDARIETÀ INTERNAZIONALE, SPORT E PARI
OPPORTUNITÀ DELLA PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO.

Do il benvenuto a tutti voi convenuti per seguire i lavori di questo importante appuntamento,organizzato
da Mani Tese che abbiamo il piacere di ospitare per la seconda volta consecutiva. Mi sento di affer-
mare che Mani Tese sia una delle associazioni che da più tempo si è posta il problema della necessità
di equità nel mondo, il problema di una giustizia mondiale che non c’è.
Non so se anche voi, come me, qualche volta vi chiedete ”Ma che mondo abbiamo costruito? Perché
abbiamo un mondo così in disequilibrio? Perché non abbiamo avuto consapevolezza per tempo di che cosa
andavamo creando?”. Qualcuno mi ha detto: “Perché, cosa ti manca?”. Mi mancano la serenità e la possi-
bilità di non sentirmi in parte colpevole di quegli 800 milioni di persone che non mangiano e che subiscono
il non rispetto dei diritti fondamentali: questa situazione non mi permette di vivere serenamente, di vivere
con il sorriso.
Purtroppo questo non è pensare comune e condiviso. Siamo ancora in pochi ad avere la consa-
pevolezza di un ruolo individuale anche nella soluzione di questi grandi problemi. Non dobbiamo
accontentarci di delegare la soluzione del problema a Governi che non hanno o non si prendono la
responsabilità di un equilibrio mondiale, del rispetto di una giustizia internazionale; stiamo ancora
assistendo ad una situazione in cui Capi di Governo si sottraggono alle proprie responsabilità e non
hanno la consapevolezza del fatto che stiamo consumando l’80% delle risorse e che non si può an-
dare avanti così. Credo che dovremmo innanzitutto puntare sull’istruzione, sulla formazione dei nostri

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ragazzi, rendendoli consapevoli fin da piccoli della responsabilità che abbiamo verso chi non ha nulla,
verso il tipo di mondo che abbiamo creato e che non può reggere in futuro.
Stiamo andando verso l’autodistruzione sotto l’aspetto ambientale: ormai tutto il mondo scientifico
è unito nel denunciare il gravissimo problema dei cambiamenti climatici, gli stessi che si denuncia-
vano venti, venticinque anni fa, ma i Capi di Governo non ne vogliono sapere, non se ne considerano
responsabili. I cambiamenti climatici porteranno sempre più persone ad avere fame; un problema
che si aggraverà con l’utilizzo degli Organismi Geneticamente Modificati (OGM). Qualcuno ha cre-
duto che questi ultimi potessero essere la soluzione per la fame nel mondo, ma non lo sono: stanno
impoverendo milioni di ettari di campagna, milioni di ettari di terra nel mondo, e soprattutto in quella
parte di mondo che è già in grande difficoltà, perché, a fronte di un raddoppiamento del prodotto nei
primi due, tre anni, lasciano un terreno che ne necessiterà di 20 o 30 per poter essere recuperato
biologicamente.
Il Trentino sostiene molti progetti nel Sud del mondo per il recupero delle sementi originarie e il ripri-
stino del terreno, azioni che permetteranno alla popolazione del luogo di nutrirsi nel tempo, a differenza
dell’illusione che offrono gli OGM. All’inizio infatti, i contadini cedono all’illusione: vedendo raddoppiare la
produzione, la resa di un terreno sembra incredibile, ma gli effetti reali si vedono dopo 4 o 5 anni, quando
intere popolazioni sono state vincolate all’uso e all’acquisto di sementi modificate, il terreno è del tutto
impoverito e servono ulteriori risorse finanziarie per acquistare, dalle stesse aziende delle sementi, anche
concimi sintetici.
Credo che la responsabilità di ognuno di noi sia quella di avviare una lenta e pacifica rivoluzione
che parta dal basso, perché dall’alto non arrivano segnali positivi. Guardiamo cosa è successo con
gli obiettivi del millennio: uno degli obiettivi era sconfiggere o almeno dimezzare la fame nel mondo
entro il 2015 e invece il numero di persone che ne sono colpite continua ad aumentare. Nessuno di
quegli obiettivi è stato rispettato o viene ora rispettato dai 126 Capi di Stato che li hanno sottoscritti.
Impegno che stiamo invece rispettando, nel nostro piccolo, in Trentino: ho presentato ed è stata
condivisa - quindi ora è esecutiva - una legge che destina lo 0,25 delle prime tre entrate di bilancio
a interventi di solidarietà internazionale (si tratta di circa 10.000 euro). Ne sono molto orgogliosa
soprattutto perché è stata un’azione condivisa dall’intera comunità trentina.
Una comunità che ha fatto della solidarietà un riferimento importante del proprio esistere: vediamo
la presenza di oltre 230 associazioni, attive in tutte le parti del mondo in difficoltà. Sono migliaia di
persone che si recano all’estero, avviano progetti e li portano a termine, ma soprattutto danno vita a
rapporti di amicizia e collaborazione che continuano per sempre. Siamo ricchi di questo in Trentino,
siamo ricchi di qualità sociale che ci porta ad essere collegati con l’intero mondo in difficoltà, facendo
la nostra parte anche attraverso gli oltre 500 missionari, 600 cooperanti laici e tantissimi giovani
impegnati in questo settore. Siamo una realtà piccola, è vero, ma sono convinta che spesso quel
che conta sia proprio l’esempio, e ci auguriamo di riuscire a contagiare tante altre piccole o grandi
realtà.
Credo anche, però, che riusciremo a vincere questa battaglia se ognuno di noi sarà efficace nel-
l’impegno di sensibilizzare chi ha attorno. Poniamocelo come obiettivo: ognuno di noi può raggiun-
gere 10, 20, 100 persone, e a loro volta altre 10, 20, 100 persone… una rivoluzione silenziosa ma

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Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

costante con cui forse riusciremo a salvare questo pianeta. Sarà importante investire sulle donne,
le quali troppo spesso non sono invitate ai tavoli dei relatori e dove si prendono decisioni, ma che
nella solidarietà internazionale stanno facendo la differenza. Nei Paesi del Sud del mondo si stanno
distinguendo per la loro capacità di impegnarsi, per la loro capacità di futuro, forse perché sentono
maggiormente la responsabilità delle future generazioni e sviluppano, attraverso la maternità, l’istinto
di creare un mondo dove i propri figli possano vivere serenamente. Siamo in tanti, e io non voglio
credere che non riusciremo a creare un mondo migliore, a costruire un futuro per i nostri figli: magari
noi non lo vedremo però avremo fatto la nostra parte e non saremo passati invano sulla Terra.

SALUTO DI LUIGI MARINO


ASSESSORE AL PERSONALE, SCUOLA ED EDILIZIA SCOLASTICA
DEL COMUNE DI RIVA DEL GARDA.

Vi porto il saluto dell’Amministrazione Comunale, della Giunta Comunale e del Sindaco che purtrop-
po oggi è impegnato altrove ma che mi ha pregato personalmente di rappresentare l’Amministrazione
Comunale in questa sede. Non voglio rubare molto tempo ai lavori su un tema che è sempre stato
molto importante, ma che oggi è una emergenza, quindi sottoscrivo appieno quanto è stato detto fin
qui nell’introduzione, che mi fa piacere che sia stata seguita dal nostro Assessore Provinciale che
negli ultimi 5 anni ha operato personalmente andando in giro per il mondo e portando alle popolazioni
più bisognose quello che è il nostro piccolo contributo di amministratori.
Non posso però non fare una riflessione. Anche io credo che ormai siamo oltre il tempo limite:
gli eventi più recenti della crisi economica e finanziaria, che ha colpito un po’tutto il mondo, hanno
dimostrato e messo in luce quello che è stato sempre un limite denunciato di questo modello di
sviluppo occidentale, ossia il fatto di non essere un modello liberale, ma un modello di dipendenza a
tutti i livelli. Un modello che mette in crisi e crea frustrazione anche agli amministratori e alle persone
di buona volontà, che ovviamente per un effetto di ricaduta vedono sempre più ridurre quelle poche
risorse destinate al sostegno e all’iniziativa di sviluppo dei popoli e dei paesi più bisognosi del resto
del mondo. La nostra Amministrazione Comunale ha sempre dato il suo piccolo contributo però effet-
tivamente quest’anno, per la prima volta, abbiamo avuto difficoltà ad accontentare e assolvere tutti
gli impegni, rispetto ai vari progetti in corso, siano essi sostenuti da entità ecclesiastiche o da asso-
ciazioni. Questo significa che ormai siamo oltre il limite, che le recriminazioni non sono più ammesse
e che effettivamente bisogna rimboccarsi le maniche tutti quanti insieme.

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PRIMA SESSIONE

VOCI DAL MONDO SULLE CAUSE DELLA CRISI


La prima sessione è stata dedicata alla voci dal mondo, che proponiamo di ascoltare
per avere un’analisi delle dinamiche economiche e politiche internazionali che non sia
solo quella dei grandi mezzi di comunicazione. La crisi alimentare è uno dei paradigmi
delle varie crisi che stiamo vivendo oggi, ed è forse quella che in maniera più dramma-
tica colpisce le popolazioni del Sud del mondo, quelle popolazioni con cui Mani Tese co-
struisce rapporti di solidarietà e cooperazione da molti anni. La FAO afferma però che
c’è abbastanza cibo per tutti: perché allora gli affamati sono in crescita?
In questa sessione, coordinata da Giulio Sensi - Mani Tese, giornalista -, ne abbia-
mo discusso con Yash Tandon, direttore esecutivo del South Centre di Ginevra, Justin
Fong, direttore esecutivo di Moving Mountains della Repubblica popolare Cinese, Prem
Shankar Jha, economista autore de “Il Caos prossimo venturo”, Simon Monoja Lubang,
docente universitario e direttore del Centre for Peace and Development Studies in Su-
dan, e Gislene Dos Santos Reis, rappresentante del movimento Sem Terra.

YASH TANDON
DIRETTORE ESECUTIVO SOUTH CENTRE DI GINEVRA

Il mio intervento si concentra sulla crisi alimentare nel contesto della crisi finanzia-
ria internazionale e sulla necessità di un paradigma alternativo. C’è infatti bisogno di
cambiamenti degli schemi di pensiero, dobbiamo uscire dagli schemi consueti e non
pensare più al loro interno: per esempio non credo la cooperazione etica su cui le or-
ganizzazioni non governative hanno costruito la loro mission sia la via giusta. Nel mio
libro “Ending Aid Dependence” evidenzio come molti Paesi sono dipendenti dagli aiuti
e non ne possono fare a meno: dobbiamo uscire da questo modello di dipendenza,
basato sulla solidarietà, e analizzarne le implicazioni nelle relazioni tra Nord e Sud del
mondo.
In che modo la crisi alimentare colpisce i Paesi più poveri? La drammatiche oscilla-
zioni dei prezzi dei prodotti alimentari sono un aspetto importante per i paesi in via di
sviluppo: sta crescendo il numero di persone vittime di povertà, malnutrizione e fame,
e questa situazione provoca disordini in dozzine di Paesi, minacciando la stabilità
politica e sociale. Le misure di breve termine indirizzate a lenire gli effetti immediati
dell’aumento dei prezzi del cibo sulle popolazioni vulnerabili hanno un impatto diretto
sul bilancio, compromettendo la realizzazione delle politiche sociali e di sviluppo e
mettendo in serio dubbio il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio. I Paesi meno
sviluppati hanno il 70% della popolazione impiegata nell’agricoltura ma ancora im-
portano cibo: come si può spiegare questo? Ad esempio in Uganda la maggior parte
della popolazione non può permettersi i servizi sanitari, il 66% non ha accesso al cibo,
il 71% al vestiario. Questi dati emergono da un’indagine del 2008 della Fondazione
statunitense Kaiser: il 65% dei 1122 rispondenti inoltre sosteneva che l’AIDS era au-

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Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

mentato rispetto a 5 anni prima.


La radice del problema risiede nel sistema globale della produzione e degli scambi.
Per capire la crisi alimentare e la dipendenza dall’importazione di cibo, che ha colpito
le parti più povere del mondo come l’Africa, è necessario comprendere come il cibo
viene prodotto e distribuito e come è stato finanziato il sistema globale di produzione
e di scambio. La causa fondamentale dell’aumento dei prezzi risiede nel carattere
speculativo del commercio globale di cereali e di altri beni, e nella concentrazione di
produzione e distribuzione nelle mani di grandi corporation multinazionali.
Ènecessario comprendere che, nell’attuale fase di evoluzione del capitalismo, la
finanza è sovrana. Ogni elemento del mercato è finanziarizzabile: comunemente il
mercato viene pensato come un luogo dove la gente può comprare o vendere, ma
il mercato capitalistico è più complesso, e opera su molti livelli diversi. Ad esempio
cosa spiega la bolla del mercato immobiliare statunitense esplosa nel 2007, spinta da
ciò che è conosciuto come la crisi dei sub-prime? In realtà sotto l’attuale fase di “ca-
pitalismo finanziario” - il capitalismo che non segue la priorità della produzione sulla
finanza, ma quella della finanza sulla produzione - l’economia globale sta andando
alla deriva e questo è il motivo reale del collasso dell’economia statunitense, le cui
ripercussioni si risentono a livello globale.
La storia non si ferma però con la bolla immobiliare: l’avidità ha guidato gli inve-
stimenti bancari dalle case verso il petrolio, i metalli, i cereali e altre merci. La teoria
neoclassica afferma che i prezzi sul mercato sono determinati dalla domanda e dal-
l’offerta: questo forse nel lungo periodo, ma nel breve i prezzi delle merci, compre-
so il cibo, sono stabiliti dal mercato dei futures in posti come il Chicago Mercantile
Exchange dove si commercia con contratti basati su pura speculazione. Prima che i
cereali vengano seminati, e tantomeno raccolti, vengono finanziarizzati attraverso la
creazione di un bond correlato e commerciabile sul mercato dei futures. Molto più di
quanto è successo nel mercato immobiliare statunitense è avvenuto per i prezzi dei
beni alimentari sul mercato internazionale. Alcuni teorici neoliberali ora danno la colpa
alla crescente domanda di cibo da paesi come Cina e India, ma è uno stratagemma
per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica e dei mezzi di comunicazione dalla
vera radice del problema.
La concentrazione della produzione e distribuzione di cibo a livello globale è pre-
sentata nel testo di Thomas Line Making Poverty a History. Sul fronte produttivo, “le
aziende che riforniscono i paesi ricchi di frutti tropicali, come banane e ananas, solita-
mente possiedono piantagioni e compagnie marittime oltre a commerciare la frutta e
rifornire grossisti e commercianti al dettaglio. La maggior parte dei frutticoltori inoltre
deve dipendere da un lato da un ristretto numero di fornitori che controllano semi e
fertilizzanti e dall’altro dai mercati degli acquirenti per le loro vendite: il valore dipende
quindi dal prezzo e da altre pressioni su entrambi i lati del loro lavoro e possono facil-
mente trovarsi stritolati nel mezzo”.

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Sul fronte della distribuzione, “i supermercati sono arrivati a dominare la vendita
di cibo al dettaglio; i supermercati hanno acquistato un grande potere nella catena,
mentre le fasi precedenti sono diventate meno proficue per agricoltori e produttori.
Questo ha portato al declino e in alcuni luoghi alla completa perdita di altri canali di
promozione per i prodotti degli agricoltori.” I contadini si trovano, quindi, nel punto
finale e peggiore della catena del valore: mentre i produttori africani perdevano reddi-
to, commercianti e aziende negli anelli più alti della catena del valore hanno raccolto
enormi benefici.
A livello globale, altri tre fattori hanno contribuito alla crisi alimentare:
- la liberalizzazione commerciale, attraverso l’Organizzazione mondiale del com-
mercio (WTO) che ha forzato i paesi ad aprire i loro mercati a paesi esportatori di cibo
come Stati Uniti, Australia e Brasile. Anche oggi, i negoziati sull’esclusione di “prodotti
speciali” dalla liberalizzazione commerciale (che i Paesi in difficoltà alimentare voglio-
no a tutela della sicurezza alimentare) sono bloccati da paesi come gli Stati Uniti e
l’Unione Europea;
- il crescente utilizzo di beni alimentari per la produzione di biocarburanti;
- il riscaldamento globale, che sta danneggiando i terreni agricoli ed evidenzia il
bisogno di ripensare il paradigma dello sviluppo.
A livello nazionale e regionale la diminuzione della capacità produttiva nei paesi
sviluppati è il fattore più importante per spiegare la scarsità di cibo. È il risultato di
due fattori primari:
- la dipendenza dagli aiuti e dagli investimenti diretti esteri. Per attirarli, infatti, i paesi
del sud sono stati forzati ad adottare le politiche indotte da Banca mondiale e Fondo
monetario internazionale, all’interno dei cosiddetti Piani di aggiustamento struttura-
le. Questi hanno portato alla deregolamentazione dei mercati agricoli, all’abolizione
dei sussidi per l’agricoltura, alla liberalizzazione commerciale e alla distruzione delle
infrastrutture produttive (come le cooperative e le banche di credito), erodendo la
capacità produttiva;
- l’aumento della dipendenza dalle importazioni e la crescita dell’incidenza degli
aumenti di importazione e del dumping in molti paesi sviluppati. Ad esempio, l’aiuto
alimentare di Stati Uniti e Unione Europea verso l’Africa e altri paesi è una forma di
esportazione sottocosto di cereali in eccesso, e ha contribuito a minare l’autosuffi-
cienza alimentare in molti Paesi, come l’Uganda.
Cosa fare? È fondamentale un ripensamento dei paradigmi, delle questioni econo-
miche e politiche globali, e dei temi strategici relativi allo sviluppo, alla sovranità e alla
sicurezza. È necessario ripensare concetti come lo sviluppo auto centrato, l’autosuffi-
cienza e la sovranità alimentare e riflettere sugli aspetti legati all’ambiente. Rifiutare il
paradigma dell’ideologia neoliberale, dare fine alla dipendenza dagli aiuti, controllare
dove sono indirizzati e per cosa gli investimenti diretti esteri, ripensare il sistema pro-
duttivo e il modello di consumo, tenendo presente che il riscaldamento globale sta

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Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

rovinando i terreni agricoli.


A livello nazionale, è necessario far crescere il potere d’acquisto dei poveri che vivo-
no nelle zone rurali e incoraggiarli a produrre e acquistare prodotti locali. L’empower-
ment dei più poveri è fondamentale: la maggior parte di loro vive nelle aree rurali, per
cui i piccoli produttori agricoli devono essere sostenuti lungo la catena produttiva, in
particolare ora che aumenta la tendenza verso la concentrazione del mercato. Allo
scopo servono politiche nazionali anti-trust, supporto nella gestione e garanzia di
prezzi equi, meccanismi di supporto dei costi, comitati di promozione e cooperative.
I livelli di importazione devono essere adeguati in relazione alla garanzia che i piccoli
produttori abbiano accesso ai loro mercati locali o regionali, controllando le impor-
tazioni con aumenti tariffari, quote, divieti, richiesta di licenze, barriere non tariffarie,
norme di approvvigionamento innovative come quelle attive in Honduras per il riso.
Gli obiettivi di sicurezza alimentare nazionale devono prevalere sull’esportazione,
evitando la concentrazione dei benefici per l’esportazione nelle mani di poche grandi
operazioni e verificando che il settore dell’esportazione non utilizzi le risorse naturali
del paese a spese della sicurezza alimentare. Vanno creati appositamente dei vantag-
gi comparativi per i piccoli produttori.
Il ruolo delle donne è centrale nella produzione di cibo e nel raggiungimento della
sicurezza alimentare. Serve un approccio partecipativo che coinvolga le donne per af-
frontare realmente gli aspetti globali: troppe politiche o decisioni di aiuto che coinvol-
gono le donne avvengono in modo non partecipativo, dall’alto verso il basso, in modo
unidirezionale. C’è un forte rischio che, con la nuova attenzione per il cambiamento
climatico, la politica e gli aiuti vadano nuovamente nella stessa direzione e le donne
siano ancora una volta lasciate con la responsabilità di gestire il cambiamento locale
ma senza le risorse necessarie.
Inoltre è necessario rafforzare il ruolo dello Stato perché sostenga la produzione, la
sostenibilità di lungo periodo nella produzione agricola e la protezione dei produttori e
dei consumatori più vulnerabili. Questo ruolo rafforzato dello Stato dovrebbe tradursi
in una posizione maggiormente proattiva in alcuni ambiti:
* gli investimenti per promuovere la produzione dei piccoli agricoltori e l’agricoltura
sostenibile;
* l’utilizzo di tariffe e di politiche commerciali per proteggere i piccoli agricoltori e i
produttori interni dalle importazioni, e per rafforzare le capacità produttive interne e
regionali;
* crescita delle scorte a livello nazionale, e l’impegno in strategie di cooperazione
la
Sud-Sud per la loro gestione;
* l’avvio di politiche nazionali e regionali (sussidi, commercio statale, cooperative) per
garantire la sicurezza alimentare e stabilizzare i prezzi.
Un nuovo schema logico multilaterale per il commercio agricolo dovrebbe comprendere:
* fine della liberalizzazione del commercio di beni alimentari e di prodotti agricoli
la

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indispensabili;
* una regolazione multilaterale per porre fine al dumping;
* politiche che regolino la competizione multilaterale e tra corporation;
* accordi commerciali per i prodotti tropicali;
* la tutela della biodiversità dandole priorità sulla proprietà intellettuale, l’introduzio-
ne di requisiti sociali e ambientali nel commercio, come quello definito Qualified
Market Access1;
* limiti nella liberalizzazione del commercio, che non dovrebbe essere applicata indi-
scriminatamente finché persistono anomalie nel sistema commerciale internazionale.
Per concludere, vediamo come i diritti umani e il principio di equità esigano la forni-
tura di acqua potabile, cibo, sanità di base, energia, educazione universale, cure me-
diche, case e protezione sociale per i poveri in tutto il mondo, e per le nazioni povere.
Questo però richiede una nuova agricoltura e un sistema di produzione alimentare che
sia basato sul capacity building dei piccoli agricoltori a livello nazionale e regionale,
affinché venga prodotto cibo per il paese e per la regione, senza i vincoli del sistema
globale di capitalismo finanziarizzato e il dominio di banche, speculatori e catene in-
ternazionali di produzione alimentare.

JUSTIN FONG
DIRETTORE ESECUTIVO MOVING MOUNTAINS, REPUBBLICA POPOLARE CINESE

Mi sembra proprio di poter dire che siamo in un’epoca di crisi: me ne sono accorto
recentemente leggendo i giornali, guardando la televisione, ascoltando i temi di cui
la società civile e le ONG parlano in giro per il mondo. Ci troviamo in un momento in
cui la portata dei problemi sta raggiungendo dimensioni che ne aggravano l’urgenza.
Forse dovremmo definirlo un periodo di crisi, non un’epoca di crisi. Al momento ci
sono diverse cosiddette “crisi” che il mondo ha identificato essere in corso, come la
crisi finanziaria mondiale, la crisi climatica, la crisi del terrorismo o della sicurezza,
la crisi degli aiuti, la crisi petrolifera ed energetica… solo per citarne alcune. Ci sono
inoltre all’orizzonte alcune crisi che devono ancora presentarsi completamente, ma
che stanno crescendo e si faranno sentire maggiormente nel futuro, come la crisi idri-
ca e la crisi sanitaria. Trovo che questo periodo - o epoca - delle crisi sia interessante
per un paio di ragioni. La prima è che non sono sicuro di cosa qualifichi una crisi come
tale o di quale sia la sua definizione. Credo sia un problema perché non saperlo con
chiarezza limita le nostre possibilità di individuare soluzioni efficaci.

1 I paesi membri della Wto, e quelli occidentali a partire dall’Ue in particolare, potrebbero mettere a punto dei
meccanismi per favorire l’accesso al mercato di alcuni prodotti provenienti dai paesi del Sud e realizzati nel ri-
spetto di alcuni principi fondamentali in campo ambientale, dei diritti umani o del lavoro, applicando invece delle
misure tariffarie sui prodotti realizzati in condizioni di sfruttamento o senza rispettare questi diritti. La proposta
di estendere questo principio a livello multilaterale va sotto il nome di accesso al mercato qualificato (Qualified
market access).

14
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

L’attuale crisi alimentare è un esempio perfetto. Perché stiamo parlando ora di crisi
alimentare? Per essere più diretto, di quale crisi alimentare ci stiamo preoccupando
oggi? Per molti decenni in molte regioni nel mondo ci si è trovati di fronte a una crisi
alimentare: sono quindi curioso di sapere chi ha la responsabilità o il potere di dichia-
rare oggi una crisi alimentare internazionale. E sono altrettanto curioso di capire chi è
stato responsabile dei milioni di esseri umani nel mondo che hanno sofferto la fame e
sono stati fino ad ora privi del potere di attirare l’attenzione.
Ci sono importanti connessioni tra queste crisi, e vanno focalizzate anche per indi-
viduare soluzioni migliori di quelle attualmente sul tavolo. L’attuale crisi finanziaria e la
mancanza di denaro nel sistema sono state causate in parte da un lungo periodo di
eccessiva disponibilità di fondi. Una gran parte di questi proveniva da ciò che ha crea-
to la crisi climatica e la crisi energetica: l’insostenibile estrazione di risorse naturali,
soprattutto petrolio, che venivano trasformate in dollari o in euro. Questa imponente
disponibilità, concentrata nei paesi sviluppati, ha generato nelle nostre società la ten-
sione verso maggiori profitti, che si manifestano nella forma di ulteriore sfruttamento
delle risorse naturali - con crescente consumo nel mondo sviluppato e implicazioni
climatiche per il resto del mondo - approfittando dei paesi in via di sviluppo grazie alla
spirale di debito e dipendenza.
Cosa ha a che fare questo con la crisi alimentare? Come per le crisi climatica, finan-
ziaria o energetica, l’odierna crisi alimentare è il risultato di decenni di piani accurati.
Molti studi mettono l’accento sull’aumento del prezzo del petrolio, sull’impatto di gravi
disastri naturali sulle coltivazioni, sulla diffusione degli agro-carburanti come fattori
che hanno fatto precipitare la crisi alimentare. Anche se questi sono effettivamente
fattori in gioco, penso che le cause della crisi alimentare internazionale abbiano radici
più profonde e si siano sviluppate in un periodo di tempo più lungo. Mentre la produ-
zione di cibo è aumentata negli ultimi due decenni, anche il numero di persone che
soffrono la fame è salito e non per la crescita della popolazione: semplicemente, far
crescere la produzione di cibo non ha risolto la fame e la povertà, è stato solo un pic-
colo passo verso una reale disponibilità e l’autosufficienza di cui abbiamo bisogno.
In questo periodo si sono verificati alcuni cambiamenti che hanno minato la sicurez-
za alimentare e causato l’attuale crisi:
* la privatizzazione delle terre e i cambiamenti di proprietà, in nome della moderniz-
zazione e dell’urbanizzazione. Questo ha ridotto il numero di persone con accesso
a terra da coltivare, che possano essere protagoniste del suo utilizzo;
* ridotta disponibilità di acqua per i piccoli agricoltori, a causa dell’aumentato uti-
la
lizzo per le industrie e per gli agro-carburanti;
* l’incentivo alla produzione di beni agricoli non alimentari destinati all’esportazione,
anche in aree in cui la gente soffre la fame;
* la promozione di un’agricoltura con costi annuali troppo alti per fertilizzanti e pesti-
cidi: la rivoluzione verde e le moderne tecniche hanno infatti incrementato pratiche

15
agricole non sostenibili dal punto di vista economico e ambientale;
* la deregolamentazione dei mercati alimentari e gli accordi di libero commercio, che
hanno distrutto le industrie alimentari locali;
* l’incremento del debito e della povertà: le barriere poste ai paesi in via di sviluppo
nella produzione autonoma di cibo hanno fatto aumentare la povertà e spinto questi
paesi nella spirale del debito;
* l’aiuto alimentare invece che lo sviluppo alimentare: nonostante il detto “Dai a una
persona un pesce e mangerà per un giorno, insegnagli a pescare e mangerà per tut-
ta la vita” sia ben conosciuto, la pratica mondiale dell’aiuto internazionale continua
a dare pesce alle persone invece che sostenerne l’autosufficienza;
* le speculazioni sui beni alimentari: si era soliti dire che solo i veri compratori e ven-
ditori hanno accesso al mercato alimentare, ma negli ultimi anni questi mercati si
sono aperti agli approfittatori causando una grande volatilità dei prezzi e del merca-
to internazionale. Gli effetti si sono visti con l’aumento del prezzo del petrolio negli
ultimi anni e la sua rapida caduta delle ultime settimane.

Questi sono una parte dei cambiamenti pianificati e degli eventi programmati che
hanno minato la sicurezza alimentare negli ultimi decenni. Il che dimostra che l’attuale
crisi alimentare non può essere considerata una sorpresa o il risultato di fenomeni
recenti: è il prodotto di programmi, modelli e sforzi. Lo stesso discorso si potrebbe
fare per la crisi climatica e per quella finanziaria.
Se consideriamo il caso della Repubblica Popolare Cinese, dalla sua fondazione nel
1949 il paese è stato sottoposto a uno dei più grandi esperimenti sociali nel mondo.
La prima metà di questo periodo è stata caratterizzata da uno sviluppo fortemente
isolato dal resto del mondo e focalizzato sull’autosufficienza, in particolare agricola
e alimentare. Uscendo da un sistema feudale con forte concentrazione della terra,
la riforma agraria fu tra le prime priorità e visse diverse transizioni. Il risultato furono
l’accesso alla terra per la maggioranza della popolazione, la spinta a incrementare la
produzione di cibo per uso domestico, razionandolo quando necessario, e il divieto di
concentrazione della terra nella mani di imprese private.
Lo sforzo della Cina di produrre abbastanza per sfamare la sua crescente popola-
zione - al momento circa 1.300 miliardi di persone - è da tempo riconosciuto a livello
internazionale ed è uno dei principali pilastri su cui si è fondata la recente crescita
economica. La Cina nutre oltre il 20% della popolazione mondiale con solo il 7%
della terra coltivabile a disposizione; circa il 60% della sua popolazione vive ancora
nelle aree rurali. Recentemente, la Cina è diventata una grande esportatrice di beni
alimentari, importando relativamente poco. Questo è un elemento importante, perché
la popolazione cinese è stata additata come una delle cause della crisi alimentare.
Il Governo cinese sostiene che il maggior contributo che il paese ha dato per com-
battere la fame globale è stato sfamare quasi 400 milioni di suoi cittadini: la crescita

16
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

della produzione agricola è uno dei risultati conseguiti dal paese. L’aumento della
produzione ha superato la crescita della popolazione fin dai primi anni Cinquanta del
secolo scorso, tranne durante la carestia verificatasi tra la fine degli anni Cinquanta e
l’inizio degli anni Sessanta. La Cina oggi non è colpita da carestie diffuse o da fame,
sebbene la malnutrizione e il mancato accesso all’acqua potabile affliggano ancora
molte zone rurali. Il paese si è dato l’obiettivo di essere autosufficiente al 95% nella
produzione di grano più o meno nei prossimi due decenni, il che evidenzia l’impegno
a raggiungere la sicurezza alimentare adottando misure interne. La disponibilità di
generi alimentari in Cina è importante non solo perché coinvolge una gran parte della
popolazione e dei consumi mondiali, ma anche perché la rapida industrializzazione ha
portato il settore agricolo a competere per le risorse con quello non agricolo.
Negli ultimi 25 anni, tuttavia, l’agricoltura e l’alimentazione cinese si sono trasforma-
te significativamente. L’introduzione di fertilizzanti chimici e pesticidi ha incrementato
la produzione, ma con serie ricadute ambientali per la terra, l’acqua e la salute della
popolazione. Sebbene la crescita economica nazionale sia forte, non è omogenea
nelle varie regioni e c’è un profondo e diffuso divario tra ricchi e poveri. Da elemento
prioritario della sicurezza nazionale e dello sviluppo sociale, l’agricoltura è diventata
una parte sempre meno rilevante dell’economia nazionale, con la crescita del settore
manifatturiero e dell’industria. Recentemente si è manifestato il problema dell’infla-
zione dei prezzi dei beni alimentari, causato in parte da un’economia eccessivamente
in movimento.
Il mese scorso, il Congresso nazionale del popolo ha lanciato una nuova iniziativa
per permettere di trasferire i diritti di possesso della terra nelle aree rurali. Mentre
prima questo accedeva informalmente in molte zone, la nuova iniziativa ha aperto la
possibilità che ciò avvenga per accaparrarsi terra su larga scala e per l’agricoltura
industriale. Probabilmente si incrementerà il numero di agricoltori senza terra, con il
risultato di una più ampia vulnerabilità della popolazione.
Un’altra delle principali minacce alla sicurezza alimentare in Cina è legata alla quali-
tà e alla sicurezza del cibo. Il recente scandalo del latte in polvere che ha portato alla
morte di molti neonati è solo un esempio dei rischi che attraversano il settore alimen-
tare causando una diffusa preoccupazione nell’opinione pubblica. Nel contesto di un
mercato in crescita, ci sono forti incentivi ad arricchirsi violando deliberatamente le
regole sulla qualità e la sicurezza degli alimenti.
Le politiche che erano efficaci in passato non garantiranno in futuro la crescita agri-
cola. La Cina ha avuto successo nell’indirizzare la sua produzione alimentare, ma nel
futuro ci saranno grossi cambiamenti, che hanno a che fare più che altro con l’ingres-
so del paese nel sistema di produzione alimentare globale dominante. Il paese si sta
muovendo all’esterno, in Asia e oltre, non in funzione di un suo percorso specifico, ma
perché sta cadendo nel trend generale dello sviluppo già dispiegato da lungo tempo.
Le soluzioni alle varie crisi sembrano seguire i principi del business, come sempre.

17
PREM SHANKAR JHA
ECONOMISTA, AUTORE DEL LIBRO “IL CAOS PROSSIMO VENTURO”

Sono stato invitato qui dall’India non tanto come esperto di questioni del mio paese.
Anche se ho scritto di economia politica indiana per tutta la vita, gli interessi si amplia-
no con l’età e in questo momento mi sto occupando in particolare delle dinamiche di
sviluppo di tutto il mondo, tema molto affine agli argomenti trattati da questo conve-
gno, la fame e l’ineguaglianza. Dal momento che ho scritto un libro2 su queste temati-
che, mi servirò degli argomenti contenuti in esso e cercherò di contestualizzarli.
Questo convegno arriva in un momento estremamente appropriato perché siamo
in una fase di inflessione. Non lo chiamo un momento di cambiamento perché il cam-
biamento è graduale, mentre ciò che stiamo vivendo è una drastica e netta svolta, è
un momento di inflessione come è già avvenuto nel passato. Non è infatti la prima
volta che l’umanità o la società industriale affrontano una situazione tale, accade in
media una volta ogni 150/200 anni. Ce n’è stata una in Gran Bretagna tra il 1834, con
l’abolizione delle forme di sostegno per i poveri e di ogni forma di protezione per i
disoccupati, e il 1867 quando ha preso il potere un nuovo Governo che si è reso con-
to che qualcosa doveva essere fatto per i poveri e ha dato il via a quella che è stata
chiamata tory democracy: questi trent’anni sono forse stati i peggiori per i poveri
dell’Inghilterra, che erano completamente privati di ogni forma di potere e delle fonti
di sussistenza.
Un altro momento di recessione simile si è verificato negli Stati Uniti in seguito alla
crisi del 1929, dopo un precedente periodo di ottimismo che non ha avuto riscontri
in termini di crescita sostanziale nell’economia reale, ma al contrario ha portato alla
creazione di una grande bolla speculativa che si è poi infranta. La differenza tra quella
crisi e quella attuale, come Yash Tandon ha spiegato, è che è nel 1929 è stato coin-
volto un solo pese, anche se allora era la principale economia mondiale, mentre la
crisi odierna è davvero globale. Un’altra differenza sta nel fatto che al tempo la gente
non sapeva cosa fare, c’era poca dottrina sull’intervento statale e su quale modello
potesse fare la differenza: ci sono voluti quattro anni per elaborare una nuova filoso-
fia, che prese il nome di New Deal e ci mise altri quattro anni per essere approvata al
Congresso. Pertanto di fatto per 8 anni gli americani sono stati lasciati soli e hanno
davvero vissuto l’inferno.
La recessione è stata simile a quella che stiamo vivendo oggi, e questo dimostra
come il mercato da solo non possa risolvere i problemi. L’economia di mercato è sen-
za dubbio efficiente e vi sono una serie di speculazioni teoretiche che lo dimostrano.
Essa però non può in nessun modo da sola assicurare l’eguaglianza, anzi avviene
esattamente l’opposto: se lasciato a se stesso il mercato non cessa di rafforzare il
potere di chi è in cima alla gerarchia sociale e non cessa di far diminuire il potere di chi

2 “Il caos prossimo venturo”, ed. italiana Neri Pozza, 2007

18
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

ne è alla base, fino a che chi è alla base è obbligato a ribellarsi - che è l’interpretazione
che dava del fenomeno Marx, ed è l’interpretazione che diamo noi da sempre.
In ciascuno di questi due momenti storici, le circostanze mondiali e le condizioni
della gente hanno obbligato i Governi democratici a cambiare le proprie politiche e
ad ammettere che lo Stato ha un ruolo da rivestire, un ruolo fondamentale nel creare
le condizioni per far sì che l’economia di mercato funzioni in maniera corretta per il
benessere della gente. In questo momento stiamo vivendo un momento di svolta si-
mile a quello del 1929. Gli ultimi 28 anni di ideologia liberista - non la chiamo dottrina
economica perché mi sembra un po’povera dal punto di vista economico -, 28 anni di
posizione ideologica in cui si è dato per scontato che lo Stato non dovesse intervenire
nelle questioni economiche e dovesse lasciare che il mercato si regolasse secondo
i suoi meccanismi interni, hanno avuto conseguenze durissime per i paesi del Terzo
Mondo. Se guardiamo però anche solo agli eventi dell’ultimo mese, vediamo che que-
sta credenza è andata in frantumi, nel momento in cui 3 per la prima volta un pacchetto
di 700 miliardi di dollari è stato rifiutato dal Congresso statunitense, perché 94 suoi
membri democratici hanno detto “bene, noi diamo 700 miliardi di dollari a queste
persone, che però si sono dimostrate dei ladri e hanno usato il mercato per derubarci.
Dobbiamo avere la garanzia che siano affidabili, altrimenti non possiamo concedere
questi soldi”. E questo è stato l’inizio. Una cosa molto simile è avvenuta nello stesso
momento molto più rapidamente e semplicemente in Europa, dove c’è una tradizione
di intervento statale più forte: George Brown ha aperto la strada e poi Sarkozy e An-
gela Merkel l’hanno seguito.
L’idea del ritorno dello Stato e del suo intervento per curare e prevenire le mancanze
del mercato è tornata ad essere in voga. Sfortunatamente però c’è una differenza tra
il mondo di oggi e quello del 1832 o del 1929: non esiste uno Stato internazionale da
chiamare in causa. Nel grande conflitto tra ricchi e poveri in passato lo Stato veniva
chiamato a essere mediatore e moderatore della società intera, quando questi con-
flitti interni alle nazioni diventavano esplosivi, all’interno del Regno Unito, degli Stati
Uniti, e sicuramente anche negli Stati europei, lo Stato c’era, sia per i vincitori che i
vinti che lo potevano invocare a loro favore. Storicamente sono sempre stati i capita-
listi a riuscire a chiamare in causa lo Stato per farsi aiutare, ma poi col tempo anche
i lavoratori e gli altri soggetti marginali sono stati in grado di unirsi e hanno creato un
contropotere all’interno della dinamica democratica; si è raggiunta così una forma di
equilibrio concretizzatasi poi nel welfare state e in tutte le sue complesse istituzioni.
Sfortunatamente però oggi siamo in una condizione in cui non c’è uno Stato glo-
bale a cui i poveri di tutto il mondo possono rivolgersi per domandare un riequilibro
delle leggi economiche che influenzano la loro vita. Così ora, usando la bandiera del
nazionalismo, la cooperazione internazionale in tutto il mondo utilizza, abusa e usa
in maniera erronea il proprio Governo affinché agisca come portabandiera, portando

3 Settembre 2008

19
con sé anche armi e soldati, per annientare ogni tipo di opposizione che possa ritar-
darne l’avanzamento. Siamo nella peggiore situazione mai manifestatasi, in cui i ricchi
e i potenti nel nuovo mondo globale hanno il monopolio del potere e hanno sviluppato
strategie per cooperare in tutto il mondo, ma i paesi poveri, le classi marginali che
hanno solo la forza lavoro da vendere non possono farlo, non hanno questo potere e
non sanno nemmeno da dove iniziare per organizzarsi.
Il momento di recessione che stiamo vivendo è importantissimo a tale proposito
perché obbliga a riflettere su dove il mondo si sta dirigendo. Come detto da Yash
Tandon e da Justin Fong, le tre crisi di cui stiamo parlando oggi - del cibo, delle mate-
rie prime e del petrolio - sono prodotti di una singola causa molto più ampia che è la
globalizzazione dell’economia mondiale, che è stata accompagnata dallo sgretolarsi
di tutte le istituzioni, come ad esempio il venir meno dei meccanismi di controllo dei
movimenti globali del capitale a partire dagli anni Settanta. La globalizzazione dei
mercati finanziari ha richiesto l’abolizione dei dazi, ormai completamente portata a
termine, necessaria per trasformare il mondo in un unico sistema di mercato e in un
unico sistema manifatturiero. Alla base di tutto ciò vi è la deregulation, l’abolizione di
tutte le regole elaborate agli albori del capitalismo, nella fase caratterizzata degli Stati
nazione dal 1850, passando per la grande depressione fino al 1941, regole che all’ini-
zio erano esplicitamente orientate, nelle intenzioni intendo, alla protezione dei poveri
e alla limitazione del conflitto sociale. Distruggere queste regole non significava solo
abolire barriere finanziarie e creare mercati internazionali - finanziario, commerciale,
per gli investimenti - ma significava anche distruggere le istituzioni interne a ciascun
paese; la deregulation ha portato la distruzione dei movimenti sindacali, l’indeboli-
mento dei punti di attrito, l’indebolimento dello Stato sociale, la deregolamentazione
delle condizioni di lavoro - il che significa poter lavorare 24 ore al giorno, poter tenere
i supermarket aperti 24 ore al giorno, non avere vincoli sulla paga e sull’orario di la-
voro.
È accaduto tutto questo, ma qual è l’elemento comune? Tutto ciò è determinato
dall’intenzione di abbassare i costi di produzione per tenere un prezzo della merce
più basso per i consumatori, ma questa ideologia ha trascurato di sottolineare come
i consumatori contribuiscano alle spese dei produttori perché gli stipendi sono stati
notevolmente abbassati e alcuni sono stati licenziati. Non entro qui nei dettagli, ma
sapete bene che i salari reali negli Stati Uniti si stanno abbassando fin dagli anni Set-
tanta, con un breve incremento nella prima metà degli anni ‘90. Negli ultimi 8 anni il
90% degli incrementi di stipendio negli Stati Uniti ha interessato il 10% della popola-
zione, e il 40% del Pil degli Stati Uniti è andato all’1% della popolazione. Meno spet-
tacolare, ma simile, è l’aumento dell’ineguaglianza in tutta Europa, prevalentemente
in Gran Bretagna. La crescita dell’ineguaglianza in termini di stipendio è il risultato
dell’abolizione delle forme di protezione insite nello stato sociale.
Perché lo stato sociale si è sgretolato? Perché in definitiva si è manifestata una for-

20
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

ma cronica di disoccupazione nei paesi industrializzati. Tra il 1820 e il 1971 nessuno


dei Paesi industrializzati dell’OCSE è stato mai interessato da una forma di disoccu-
pazione cronica. L’unico tipo di disoccupazione era quella ciclica che si manifestava
in seguito ad una recessione. Il trend generale di questi Paesi ha visto un grandissimo
aumento nella quantità del lavoro; per esempio la crescita degli Stati Uniti sarebbe
stata impensabile senza i 55 milioni di persone arrivate in Nord America dall’Europa
tra il 1850 e il 1940. Ben 15 milioni di italiani hanno lasciato l’Italia per lavorare nel-
l’industria manifatturiera, metà di loro sono andati nel Nord Europa e gli altri in Nord
America: grandissime migrazioni sono state necessarie perché le industrie erano af-
famate di lavoratori. In seguito, malgrado gli introiti, il numero di industrie è diminuito
ed è stato il settore dei servizi a non smettere di crescere e a necessitare di lavoratori.
Per questo l’Europa non ha mai vissuto periodi di disoccupazione cronica. Negli ulti-
mi decenni invece, a partire dagli anni Settanta, il livello di disoccupazione negli stati
dell’OCSE è rimasto nella media del 7/9%. - questa percentuale è standardizzata,
perché in realtà ciascun paese usa dei criteri propri per stabilire il livello di disoccu-
pazione. Tale processo ha prodotto l’indebolimento e l’allontanamento della base dai
sindacati e da tutte le altre istituzioni che vi ruotano attorno.
Quando parliamo di crescita della disuguaglianza, o di crisi alimentare, parliamo
solo di sintomi. Ciò che realmente sta accadendo, negli ultimi quaranta anni, è più
sistemico: la società è stata distrutta e gli esseri umani atomizzati, perché non appar-
tengono più ad una comunità capace di proteggerli, ma devono trovare autonoma-
mente il lavoro, negoziandone le condizioni con enormi multinazionali che hanno un
potere molto più grande e impongono nei fatti di accettare la loro offerta. Questa è la
definizione di disemporwerment.
La realtà è che, ogni volta che parliamo di disuguaglianze economiche, stiamo ca-
dendo in una trappola ideologica del neoliberismo, perché se si trattasse solo di disu-
guaglianze economiche si dovrebbe presupporre che sono il risultato necessario, an-
che se non voluto, di questo enorme aumento della produzione e della ricchezza dato
dalla globalizzazione e dalla rivoluzione tecnologica nel campo della comunicazione.
La realtà è che le disuguaglianze economiche derivano direttamente da un’ineguale
distribuzione del potere politico, da quel disemporwerment della stragrande maggio-
ranza della società che porta all’aumento dell’insicurezza e dei lavori part-time, alla
perdita delle pensioni - parlo in particolare degli Stati Uniti e del Regno Unito, ma
anche qui si sta andando in quella direzione -, all’indebolimento del sistema sanitario.
Questo è il tipo di insicurezza crescente che caratterizza i nostri giorni.
Cosa è stato fatto per i paesi in via di sviluppo? La situazione è persino peggiore,
perché nei paesi in via di sviluppo è già presente una sorta di atomizzazione degli
esseri umani, dovuta all’abbandono dei villaggi per andare in città, che significa ab-
bandono della stabilità della famiglia allargata, del clan, della comunità con la sua
chiara definizione dei ruoli e delle regole. Si sta creando una società che scopre l’in-

21
dividualismo e lo sta scoprendo nel modo peggiore possibile, perché quaranta anni
fa - e ormai ho quasi settant’anni e mi ricordo bene quel periodo - c’era ancora una
collettività che ti poteva sostenere e proteggere, sia se arrivavi in città e trovavi ab-
bastanza in fretta un lavoro e un sindacato di riferimento per la fabbrica, sia se per
trovare lavoro entravi in un sindacato.
Oggi niente di questo esiste più. In India per esempio oggi ci sono solo 10 milioni di
lavoratori che beneficiano di piene garanzie sindacali, come pensioni e assicurazioni
sanitarie. Ci sono invece 140 milioni di lavoratori nell’industria e nel commercio che
non hanno alcun tipo di garanzia, che vengono dalle zone rurali - come in Cina - e
guadagnano di più che nelle campagne; intere famiglie fanno sforzi enormi per assi-
curarsi uno stile di vita da classe media, ma una volta ammalatosi un membro della
famiglia prima va in fumo un anno intero di guadagni per cercare di salvargli la vita, poi
non riuscendo a sostenere i costi delle spese sanitarie iniziano a chiedere in prestito
denaro con interessi del 36/40%, a volte anche 60%, e questo fa sì che la famiglia si
ritrovi per il resto della sua vita schiacciata dalla povertà e dalla dipendenza. Questo è
lo stato di cose, e quando incontro quotidianamente le persone leggo in loro la paura
terribile del futuro, di non sapere chi si prenderà cura di loro in vecchiaia.
Facciamo un esempio del tipo di filosofia che adesso è propria dell’Occidente:
l’abolizione dei sussidi. I Paesi dell’Occidente infatti obiettano che i sussidi sono un
modo critico di prendersi cura dei poveri e che possono essere usati in maniera scor-
retta - come spesso avviene. Ma se anche solo il 50% dei sussidi riuscisse a soddi-
sfare la funzione principale per cui sono stati creati, si potrebbe dire che lo fanno in
maniera inefficiente, e che il sistema potrebbe essere migliorato, ma non che deve
essere eliminato!
In India per esempio abbiamo un sistema di assicurazioni sulla vita, che è sull’orlo
del collasso, perché la Life insurance indian cooperation, anche se è un’organizzazio-
ne governativa, sta cercando di ottenere sempre più profitti, proprio come le assicu-
razioni private che hanno ricevuto l’autorizzazione a operare negli ultimi vent’anni. Ele-
menti come questo accrescono notevolmente l’insicurezza, e tutto ciò sta avvenendo
in un clima in cui non si comprendono i problemi dei poveri perché tra loro e i ricchi
si interpone l’ideologia liberista, che sta diventando una scusa per dire “niente paura,
ci occuperemo più avanti di loro, lasciamoli al loro destino e se alcuni periscono…
questo è il prezzo del progresso”.
Vorrei concludere soffermandomi sul caso dell’India, paese in cui lo sviluppo ha
avuto una forte accelerazione negli ultimi 5 anni e questa rapidità ha lasciato le per-
sone ancor più insensibili ai problemi dei poveri. E l’ambito in cui ciò è più visibile è
quello della terra: lo sviluppo ha bisogno di terra, che serve per costruire aziende,
strade, uffici postali, per cui qualcuno deve rinunciare alla sua parte, ma il 79% della
terra in India è agricola ed è stata coltivata, per cui è impossibile averla senza cacciare
qualcuno da quella terra. Il problema è che in India il possesso della terra non sempre

22
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

è definito con contratti regolari secondo il significato capitalista di proprietà, ma ci


sono grandi gruppi tribali che hanno diritti tradizionali sulle terre in cui vivono, che ora
vengono loro sottratte senza alcun rimborso, provocando forme di resistenza molto
forti a questa sottrazione.
E se anche si vende la terra ricavandone un po’di soldi, cosa succede dopo? L’unico
modo per risolvere questo problema sarebbe concedere la terra in affitto alle indu-
strie, o al Governo per i progetti energetici, così una certa percentuale dei guadagni
verrebbe pagata per sempre come royalty a chi ha perso sia la terra sia i suoi diritti
tradizionali. Non ci sono altri modi per uscire da questa situazione: il capitalismo è
iniziato quando la popolazione era di cinque milioni e mezzo di persone, c’era molta
disponibilità di terra e per costruire un’azienda potevi tagliare la foresta con l’approva-
zione di tutti. Oggi questa situazione non esiste più, in nessun paese in via di sviluppo;
è necessario coinvolgere i poveri e tutti gli stakeholders nel processo di sviluppo e
nella creazione di sicurezza sociale. La Cina sta andando in questa direzione, in modo
un po’dispendioso in questo momento, ma almeno hanno imboccato la strada; l’India
non ha ancora cominciato, ma mi sembra indispensabile, e solo lo Stato lo può fare.
Per concludere vorrei quindi chiedere a Mani Tese di interagire con i Governi degli
Stati in cui lavora, per spingerli a fare il contrario di ciò che aspirano a fare, dicendo
loro cosa è necessario e come li si può aiutare a proteggere i poveri senza distruggere
la forza produttiva del capitalismo.

SIMON MONOJA LUBANG


DIRETTORE DEL CENTRE FOR PEACE AND DEVELOPMENT STUDIES, SUDAN

Gli interventi precedenti mi hanno fatto pensare alla necessità di rispolverare i nostri
ricordi su Il Capitale di Karl Marx e di provare a ripensare l’approccio e il modello da
lui presentato nel XIX secolo. Marx ha previsto, e sostenuto con forza, la scomparsa
e il fallimento del capitalismo.
Fino ad ora mi sembra, date le esperienze raccontate, che questo si stia rivelando
vero. Anche alcune delle analisi delle crisi globali fatte da tre dei miei colleghi - Yash
Tandon, Justin Fong e Prem Shankar Jha - dimostrano chiaramente che il sistema
liberista, che sta promuovendo il cambiamento e l’industrializzazione nel mondo occi-
dentale, ha raggiunto i propri limiti di applicabilità e sta esplodendo. C’è una questione
molto importante a cui Fong ha cercato di rispondere: “Chi è responsabile della crisi?
Che sia una crisi monetaria o una crisi alimentare, chi ne è responsabile?”. Penso che
la risposta a questa domanda ci permetta di identificare le cause analizzate abilmente
da tutti e tre gli interventi precedenti al mio, e per questo vorrei rivisitare Marx. Non
intendo concentrarmi sull’analisi economica, ma proporre degli esempi sulla crisi ali-
mentare internazionale, partendo da un fattore in particolare che riguarda anche il
Sudan: la crisi della leadership nel Terzo Mondo e in particolare in Africa.

23
Nell’esempio del Sudan, mettendo da parte l’influenza internazionale nella crisi
economica, una causa specifica dell’attuale situazione è legata al problema della
leadership. Se si guarda all’Africa, la questione della crisi alimentare non è nuova;
da quando l’umanità esiste si è trovata ad affrontare il problema del cibo e prima o
poi anche alcune crisi alimentari. Il modello di produzione alimentare in Africa viene
definito “agricoltura di sussistenza”: la maggioranza delle persone, in Africa come
in gran parte del Terzo Mondo, vive principalmente nelle zone rurali e coltiva secon-
do un modello di produzione di sussistenza. La storia ci ha insegnato che prima o
poi, a causa di problematiche ambientali o climatiche, possono presentarsi periodi
dell’anno in cui il cibo scarseggia, ma in passato queste comunità erano in grado di
trovare soluzioni per uscire dalla crisi alimentare o meccanismi per gestirla. Talvolta,
per particolari condizioni economiche o climatiche, le popolazioni perdono il raccolto
e si origina una carestia, ma di nuovo in passato riuscivano a riprendersi, a introdurre
dei cambiamenti e a far ripartire la produzione con il ritorno delle piogge abbondanti.
Questo ciclo è stato valido in passato.
La creazione degli Stati nazione in Africa e la loro gestione hanno avuto un effetto
negativo sulla produzione nelle zone rurali. Analizzando il trend della popolazione si
può notare che di recente, negli ultimi 50 anni, c’è stato un grande spostamento di
popolazione dalle zone rurali a quelle urbane. Le zone rurali, che supportavano i bi-
sogni della popolazione, sono oggi prive di giovani che quindi non producono beni di
sussistenza ma sono emigrati in città.
Ci sono diverse ragioni per questa migrazione, come ad esempio la ricerca di lavoro
o la necessità di spostarsi per la propria formazione, o magari la necessità di avere
accesso a quei servizi che sono concentrati nelle zone urbane - il che riflette il modello
di sviluppo economico ereditato dallo stato coloniale. Più spesso, però, lo sposta-
mento di popolazione, o la migrazione nei centri urbani, è connesso con il modo in cui
lo Stato è stato gestito dalla nostra classe dirigente. Si è già parlato dell’impatto degli
aggiustamenti strutturali del Fondo monetario internazionale, che hanno colpito molti
Stati del Terzo Mondo: negli anni Settanta e Ottanta questo ha avuto effetti devastanti
in particolare nei servizi di base come l’assistenza sanitaria e l’istruzione. Adesso crisi
come queste stanno interessando l’intero sviluppo di questi Paesi, ma sono esacer-
bate anche dal tipo di politiche messe in atto dalla maggior parte dei leader del Terzo
Mondo.
Se prendiamo l’esempio del Sudan, che è il mio case study, vediamo che la gente
è stata abbandonata. Dall’indipendenza nel 1956, il Sudan è stato governato da una
dittatura militare per 40 di questi 53 anni. Dopo la prima dittatura del generale Ibrahim
Abbud, dal 1958 al 1964, c’è stato un breve periodo di Governo democratico che si è
battuto per attuare alcune riforme costituzionali nel sistema di governance sudanese.
Già prima di questa fase, però, era in atto una ribellione nel Sud (detta “la prima guerra
del Sudan” o “Anya Anya War”) che stava consumando le risorse dello Stato a causa

24
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

delle ingenti spese per farla cessare. A causa dei fallimenti del Governo democratico,
sia nell’attuazione delle riforme necessarie in campo economico e dello sviluppo, sia
nel riportare la pace e risolvere la questione della ribellione nel sud del Sudan, i militari
sono tornati al potere nel 1968, quando il generale Nimeiri prese il potere con un colpo
di stato, creando una sorta di sistema socialista.
Negli anni successivi però Nimeiri ha compreso la forza dell’opposizione dei suo
nemici, in particolare dei partiti che gli si opponevano nel Nord del Sudan e ha deciso
di rappacificarsi con loro, spostando gradualmente il suo approccio da socialista ad
alleato degli Stati Uniti d’America. Uno dei suoi più grandi successi è stato la riso-
luzione del conflitto nel Sud del paese, attraverso le negoziazioni che sono sfociate
nell’Accordo di Addis Abeba: dal 1972, per soli 10 anni, ha regnato la pace nel Sud
del Sudan, fino a quando nel 1983 è di nuovo scoppiata la guerra civile a causa dei
cambiamenti introdotti dallo stesso Nimeiri. Infatti, dopo nuovi scontri con i partiti del
nord ha deciso di fare marcia indietro sull’accordo e lo ha abrogato unilateralmente
su raccomandazione di queste forze politiche, che lo accusavano di aver svenduto il
suo stesso territorio. L’abrogazione del trattato ha portato a una nuova guerra civile,
che penso sia stata la più disastrosa per il paese e in particolare per il Sud, durata
fino a quando, 21 anni dopo, nel gennaio 2005, non fu firmato il Comprehensive Peace
Agreement (CPA).
Quest’ultimo trattato avrebbe dato l’opportunità al Sudan di vivere in pace, ma a
causa della crisi della classe dirigente si è inasprito il conflitto nella zona del Sudan
Occidentale chiamata Darfur; una guerra sommersa iniziata molto prima dell’accordo
di pace ed esplosa prima della sua firma. Sarebbe troppo lungo spiegare cosa sta
succedendo in Darfur, mi limito a dire che questo conflitto ha spostato l’attenzione
della comunità internazionale dagli effetti del CPA; anche se l’accordo avrebbe dato
l’opportunità di risolvere conflitti come quello in Darfur o nell’Est del Sudan, l’intran-
sigenza dei leader di Khartoum ha reso difficile implementare il modello del CPA nel
caso della crisi del Darfur, che continua a protrarsi insieme alla crisi generale del
paese.
Passando alla crisi alimentare e alla crisi internazionale in termini finanziari, è pa-
radossale che il Sudan - anche se riceve un’enorme quantità di aiuti alimentari per
il Darfur - sia un esportatore di cereali: parliamo di oltre 200.000 tonnellate di cibo,
incluso il sorgo che è l’alimento di base del Sudan e che viene esportato nei paesi
del Golfo. Inizia a emergere l’interrogativo di come sia possibile che, con tutta la terra
che c’è in Sudan - il paese più esteso dell’Africa - e con le enormi riserve di risorse
naturali tra cui è incluso il petrolio che oggi esporta, il paese non riesca a nutrire i suoi
abitanti.
Per me questo è causato dalla crisi della leadership in Sudan, a sua volta risultato
delle politiche messe in atto nel pese fin dal periodo dell’indipendenza. Il governo di
Omar Hassan Al-Bashir, che ha preso il potere in un colpo di stato, ha raccomandato

25
che lo sviluppo del Sudan e tutte le sue risorse vengano incanalate nello sviluppo del
cosiddetto “triangolo”, che geograficamente costituisce la parte centrale del paese.
Chiunque visiti Khartoum si accorge che ci sono una fiorente attività economica e un
boom dell’impresa delle costruzioni; andando a Nord si vedono enormi progetti quali
la diga di Merowe per generare elettricità e il distretto di Al Jazeera e il White Nile
ricco di progetti agricoli già realizzati o in via di realizzazione; verso Est, nella zona
di Gedaref, si trova il bread basket del Sudan, con molti progetti volti alla produzione
di cibo, che poi viene esportato nel Golfo. Questa politica di concentrazione dello
sviluppo nell’area centrale, a spese delle periferie, crea una forte marginalizzazione
delle popolazioni esterne, incluse quelle del Darfur, del Sud, dell’Est, e in minor misura
del Nord.
Le politiche in atto stanno intensificando e probabilmente andranno ad esacerbare
il conflitto. Alla comunità internazionale si chiede di non limitarsi solo ad inviare aiuti al
Darfur e al resto del Sudan, di non preoccuparsi solo della questione dell’alimentazio-
ne dei rifugiati del Darfur, ma di concentrarsi sul tentativo di produrre un cambiamento
radicale nelle politiche e nella gestione del potere in Sudan. E al momento non se ne
parla molto, soprattutto all’interno della comunità internazionale: ci si concentra più
che altro sull’analisi delle cause della crisi alimentare e sulle politiche economiche
dell’Occidente. Ovviamente tutto ciò è rilevante per il Sudan, ma al momento per noi
le questioni fondamentali sono la pace in Darfur e la pace per l’intero paese, incluso
il Sud: questo è prioritario perché non può esserci nessuna forma di sviluppo se la
popolazione non vive in pace e in condizioni di stabilità.
Come ho accennato nell’introduzione, l’Africa si è dedicata all’agricoltura di sussi-
stenza per diversi secoli superando diverse crisi alimentari. Ci servono stabilità e una
forte leadership, lo vediamo ad esempio in Zimbawe, per attutire l’impatto delle crisi
globali. I Paesi africani non posso vivere isolati e subiscono gli effetti della globaliz-
zazione, che fa ricadere su di loro qualsiasi cosa accada a livello globale; in questo
senso sarebbe importante avere leader impegnati nelle battaglie umanitarie, a favore
della popolazione, anziché intenti a combattere la propria gente solo per trarne pro-
fitto.
Per concludere, al Sudan servirebbero un cambiamento radicale delle politiche e un
cambiamento radicale del coinvolgimento nella comunità internazionale. E in partico-
lare per le questioni del cibo, dello sviluppo economico e dell’aiuto umanitario, penso
che il modello lanciato con il Nepad4 dall’ex presidente del Sudafrica, Thabo Mbeki,
potrebbe essere rivolto alla società civile dell’Occidente, come hanno enfatizzato già
alcuni interventi precedenti. Servono forme di partnerhip e non aiuti: il Darfur ci ha
insegnato che questi ultimi non servono a migliorare la vita delle popolazioni.

4 New Partnership for Africa’s Development, un programma di sviluppo economico adottato nel 2001 dall’Unione
Africana

26
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

GISLENE DOS SANTOS REIS


MOVIMENTO SEM TERRA, BRASILE

Vorrei ringraziare Mani Tese per l’invito rivolto al Movimento dei Lavoratori Sem
Terra del Brasile a partecipare a questo convegno così importante per la società e per
il mondo. Parlo come agricoltrice, come militante sociale. Non ho mai scritto libri, non
ho mai approfondito gli studi di economia: parlo quindi a partire dall’esperienza della
mia realtà sociale. Il mio intervento si comporrà di tre parti: la prima è legata a ciò che
il Movimento Sem Terra pensa riguardo alla crisi degli alimenti a livello mondiale, la
seconda si riferisce all’attuale situazione del Brasile ed infine l’ultima esprime le sfide
che il Movimento Sem Terra propone come soluzione alla crisi alimentare.
Per il Movimento Sem Terra la crisi alimentare a livello mondiale non è una novità.
Si tratta di qualcosa che accade annualmente ma che di volta in volta diventa grave e
guadagna importanza nei mass media. La crisi può essere relazionata alla mancanza
di alimenti considerati fondamentali per la popolazione mondiale dal punto di vista
nutritivo, ma negli ultimi quaranta anni c’è stato un incremento della produzione ali-
mentare e allora pongo una domanda: “Perché molta gente soffre la fame?”.
Il vero problema secondo il Movimento Sem Terra è che esiste una parte della
popolazione che non possiede denaro e per questo non gli è possibile acquistare
alimenti. In sintesi l’origine della crisi è associata all’attuale modello agricolo, in cui
l’economia, dominata dal capitalismo finanziario, ha accelerato il processo di concen-
trazione della produzione agricola che resta nelle mani di poche persone - le imprese
multinazionali che dominano la catena di produzione degli alimenti. Riassumendo,
l’alimento è diventato una grande merce a livello mondiale, una merce molto lucrativa.
Questo modello di produzione, conosciuto da molti, principalmente in Brasile, come
agrobusiness, ha tra le sue caratteristiche principali lo sfruttamento dei lavoratori, la
distruzione dell’ambiente, il degrado del suolo, la promozione di una politica intenzio-
nale di svuotamento dei territori rurali, una politica agricola rivolta alla monocultura da
esportazione, l’uso di sementi transgenici e l’abuso di agrotossici.
Il Movimento Sem Terra in Brasile ha come riferimento teorico, per capire meglio
la questione della fame, un grande intellettuale brasiliano chiamato Josué de Castro,
vissuto tra il 1908 ed il 1973. Medico e geografo, ha scritto più di trenta libri tra cui i più
famosi sono “Geografia da fome” e “O Ciclo do Caranguejo” in cui già allora identifi-
cava la fame come un processo collettivo. Castro aveva percepito che il flagello della
fame non era qualcosa che riguardava solo la salute, ma un grande problema sociale,
e che questo flagello non si limitava solamente alla zona in cui lui aveva vissuto, a
Recife nello stato brasiliano del Pernambuco. Un approccio interdisciplinare vede la
fame come un prodotto di dominazione politica, di ingiustizia sociale, un risultato del-
la dipendenza economica. Cosa che rende la fame, al di là delle necessità fisiche, sete
di giustizia e di lotta contro il deficit delle nostre necessità spirituali e biologiche.

27
Per il Movimento Sem Terra la situazione odierna del Brasile, la causa della fame nel
nostro paese, è collegata non alla mancanza di alimenti ma ad una loro cattiva distri-
buzione. La mancata possibilità di accesso agli alimenti di base e ad altri beni e servizi
necessari per una qualità di vita che possa essere minimamente accettabile, inoltre,
non è dovuta alla mancanza di alimenti ma alla pessima distribuzione delle ricchezze
nel paese. Potrei citare alcuni elementi fondamentali che si sono già ritrovati negli
interventi della maggior parte degli altri relatori: le cause naturali, come la siccità in
Brasile, la concentrazione di terre, che rappresenta un problema storico nel territorio
brasiliano, e la questione della concentrazione delle rendite. Poiché il fenomeno della
povertà non deve essere visto come mancanza di risorse, una rapida comparazione
con gli altri paesi mostra che il Brasile è tra i più ricchi del mondo ma nonostante ciò
presenta un elevato livello di povertà della propria popolazione, perché la sua politica
è rivolta verso l’accumulo di capitale delle grandi imprese che investono nel territorio
brasiliano, nella maggior parte dei casi le multinazionali che sfruttano le ricchezze
naturali. Non siamo d’accordo con il modello agricolo orientato verso l’esportazione,
che fortifica il capitalismo finanziario internazionale. Esiste una forte influenza da par-
te delle multinazionali alimentari nella produzione agricola e nelle abitudini alimentari
delle popolazioni del Terzo Mondo. L’uso di questa diplomazia degli alimenti come
arma nelle relazioni tra i paesi, come politica che non beneficia mai le popolazioni nei
paesi produttori, deteriora sempre più la relazione tra cultura e alimentazione. Siamo
contrari al processo di politiche compensatrici.
In Brasile ci sono svariati problemi sociali e non è possibile sperare che si risolva il
problema della povertà se la politica economica continua a promuovere l’esclusione
sociale. C’è molta preoccupazione nei confronti del mercato futuro. Le ultime notizie
che arrivano in Brasile parlano di raccolti che sono già stati venduti dal grande mo-
nopolio delle multinazionali; questo peggiora l’economia brasiliana e la produzione
della piccola agricoltura a gestione familiare, causando un grande conflitto in campo
sociale. Come conseguenza di questi elementi, e di molti altri che sono stati già citati,
si ha a livello mondiale l’aumento dei tassi d’inflazione emerso nella crisi economica
che viviamo oggi, l’aumento degli indici di fame, denutrizione e miseria, l’aumento o
l’intensificazione del numero di conflitti sociali a livello globale.
La causa cronica della fame in Brasile e nel mondo è relativamente legata alla po-
vertà, all’insufficienza di alimenti. La crescita sproporzionata della popolazione in un
determinato stato o territorio in relazione alla sua capacità di sostentamento sono
fattori essenziali per il diffondersi della fame. Le conseguenze immediate della fame
sono la perdita di peso negli adulti, la comparsa di problemi di sviluppo nei bambini,
la denutrizione dovuta alla mancanza di alimenti energetici e di proteine, la crescita
del tasso di mortalità principalmente infantile - non solo per la fame ma anche per
l’indebolimento del sistema immunitario-, problemi endemici di salute.
Per noi del Movimento cambiare questa situazione significa cambiare la vita della

28
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

società, il che può non essere desiderabile perché finirebbe col contrariare gli interes-
si e i privilegi su cui si poggiano i gruppi dominanti. È più comodo e più sicuro indicare
la crescita della popolazione, la pigrizia dei poveri o le specificità della produzione
rurale come cause della miseria e della fame.
Il Brasile è il quinto paese più esteso del mondo, occupa la metà del territorio del
continente sudamericano. Da circa vent’anni sono aumentati la disponibilità di ener-
gia elettrica, il numero di strade e si è registrata un’enorme crescita industriale. Niente
di tutto questo fino ad oggi è servito a combattere il problema della fame nel paese:
la malnutrizione e le malattie endemiche persistono. Va inoltre aggiunto il problema
crescente della concentrazione della produzione agricola, di cui gran parte resta nelle
mani di poche persone, che guadagnano potere politico e vedono il loro patrimonio
aumentare sensibilmente. Accanto a questo, milioni di persone vivono nelle favelas
delle principali capitali del Brasile. Inoltre l’emigrazione interna contribuisce a pro-
vocare ulteriori problemi sociali, con l’abbandono della campagna per mancanza di
incentivi alla piccola agricoltura.
Garantire alimenti affinché tutti superino la miseria e la fame esige da ognuno di noi
un processo di gestazione di ciò che chiamiamo una nuova società, la quale prenda
in considerazione i diritti e i bisogni di base della popolazione a partire dai processi di
educazione e salute, dalla riforma agraria, dalle politiche agricole, dalla demarcazione
delle terre indigene, dalla regolamentazione dei quilombos5 e dal miglioramento delle
politiche sociali. È necessario inoltre sviluppare nuove relazioni di genere, come il
Movimento Sem Terra è solito dire: creare un’economia di comunione, solidale, che
presti attenzione alle reali esigenze affinché tutti i paesi possano ottenere quel che
definiamo sovranità alimentare nazionale. Credo che le politiche di lotta alla fame e
alla povertà, la promozione di ciò che in Brasile chiamiamo sicurezza alimentare e nu-
trizionale, debbano essere pensate come parte di un progetto popolare che assicuri
la sovranità alimentare dei paesi e all’interno del quale si possa generare un processo
di sviluppo partendo da un asse centrale che determina un crescente processo di in-
clusione sociale e non di esclusione. Pertanto combattere la fame e la povertà implica
necessariamente un ampio e sostenibile processo di distribuzione della ricchezza e
dei mezzi di produzione. L’azione per cui il Movimento Sem Terra si batte in Brasile
è una lotta reale di incentivazione all’agricoltura familiare, al lavoro con cooperative
agricole in modo che tutta la famiglia possa partecipare ad un’agricoltura basata sul-
l’agroecologia e ad un lavoro di tipo formativo ed educativo.
In Brasile siamo considerati, non solo noi del Movimento Sem Terra ma anche altri
movimenti sociali, come ladri, vagabondi, persone che non hanno molto da proporre;
fanno sì che tale immagine diventi il simbolo del movimento. Noi crediamo invece
nell’unità dei popoli, crediamo che possa esistere una solidarietà. Riteniamo che sia
necessario modificare la matrice tecnologica della produzione a livello mondiale e

5 Comunità di discendenti degli schiavi fuggitivi.

29
migliorare il prezzo dei mercati interni affinché vi sia una migliore gestione della pro-
duzione, e crediamo in alcuni esempi come quello di Cuba - che è molto solidale con
la maggior parte dei Paesi nonostante la repressione di cui soffre. Per noi del Movi-
mento Sem Terra la via d’uscita dalla crisi che viviamo nel mondo è la sovranità ali-
mentare, e crediamo nella cooperazione internazionale intesa come l’esistenza della
solidarietà tra paesi per avere società più giuste e ugualitarie. Nel sistema capitalista
per noi questo non sarà possibile.
É necessario generare un nuovo modello di società e concordo con Simon perché
probabilmente dovremmo riprendere Carl Marx e studiare meglio questo tema. Dob-
biamo pertanto approfittare di momenti come questo per costruire collettivamente
un’unione, affinché si superino insieme sfide come la resistenza e la formazione. Per
me la grande lezione sta nel classico di Josué de Castro sul superamento del fenome-
no della fame a livello mondiale. Castro rende la sua opera espressione della lotta al
latifondo, alla monocultura, difendendo uno sviluppo autosostenibile e agroecologico.
Un’azione pioniera che rivela la sua grande sensibilità e teoria. Lui snaturalizza il pro-
blema della fame, elemento fondamentale per il Movimento Sem Terra.
La fame ancora oggi è relazionata alle persone povere che vivono ai margini della
società, espropriate dei mezzi di produzione, quando dovrebbe essere invece rela-
zionata al modello di società vigente. Bisogna considerare che noi contadini, sia del
Brasile che del mondo, non vogliamo scomparire e lasciare spazio alla monocultura
di alimenti.
Mi piacerebbe concludere la mia esposizione con una citazione che il Movimento
Sem Terra considera molto importante, la frase con cui l’intellettuale sociologo bra-
siliano Florestão Fernandes riassume in poche parole quanto io vorrei esprimere “gli
agenti storici nel conquistare la loro autoemancipazione collettiva sceglieranno insie-
me le direzioni e la forma di una nuova società che, insieme, deve essere creata ”.

30
SECONDA SESSIONE
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

QUALE COERENZA PER LE POLITICHE


DI COOPERAZIONE EUROPEE?
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DIRETTORE DI EURODAD

È un momento davvero interessante per chi di noi sta lavorando nell’ambito della
finanza dello sviluppo e nelle istituzioni finanziarie internazionali. Da qualche anno
stiamo dicendo, sotto forma di proteste in occasione dei vertici del G8 o del Fondo
Monetario Internazionale (FMI), sotto forma di prese di posizione, sotto forma di di-
battiti e sotto forma di petizioni al Parlamento, che il sistema finanziario non funziona,
che le istituzioni finanziarie sono troppo deboli per poter controllare i paesi più forti e
potenti nel loro imporre politiche e condizioni ai paesi più poveri.
Noi continuiamo a dire da molti anni che il sistema non è solamente poco etico
e iniquo, ma anche instabile, e oggi ne vediamo la prova ogni giorno nei media. Ci
hanno sempre detto, quando facevamo queste affermazioni in passato, che eravamo
troppo naif, deprimenti, pessimisti, o che non arrivavamo a capire che il mercato po-
teva stabilizzarsi da solo e che il FMI proponeva modelli che avrebbero rimesso tutto
in ordine nel modo migliore. Ci hanno sempre detto che noi eravamo all’antica, che
avremmo dovuto cavalcare l’onda del futuro rappresentata dalla finanza globalizzata,
e che i paesi del Sud stavano progredendo, tanto che avrebbero potuto evolversi da
paesi a basso reddito - dipendenti dalle risorse degli aiuti - a paesi attivi nei flussi del
mercato internazionale - sempre più dipendenti quindi dai flussi di capitale privato,
dalle banche, dalle multinazionali e così via.
Molti Governi hanno seguito i consigli della Banca Mondiale, del Fondo Monetario
Internazionale, dell’Unione Europea e di altre istituzioni, provando ad attrarre un nu-

39
mero sempre maggiore di investimenti. Adesso però ci troviamo di fronte ad una crisi
finanziaria di grandi dimensioni che non colpisce soltanto l’Europa e gli Stati Uniti, ma
che colpisce anche, e maggiormente, i paesi in via di sviluppo attraverso il crollo dei
fondi diretti d’investimento o il calo delle rimesse dei lavoratori emigrati in Europa - di-
minuite del 20% in molti paesi rispetto allo scorso anno - e altrove. Così, per i paesi a
cui era stato detto che l’unica via da seguire era l’integrazione nel mercato finanziario
internazionale, cioè la liberalizzazione, si è creata una situazione di grave shock, che è
balzata in cima alle liste delle molte crisi con cui ci troviamo a combattere. Tra queste,
la crisi alimentare che è l’argomento principale di cui stiamo dibattendo.
Cosa sta succedendo adesso? Ad essere assolutamente chiaro è il fatto che la
colpa dell’attuale crisi finanziaria, così come di quella alimentare, non è da attribuire
ai paesi in via di sviluppo - come invece è stato fatto 10 anni fa nella precedente crisi
finanziaria globale, sostenendo ne fossero causa le istituzioni corrotte del Sud del
mondo e l’incapacità di questi paesi di controllare i sistemi bancari. È invece chiaro
che oggi la responsabilità è a Wall Street, nella city di Londra, a Roma, a Milano e
altrove.
Ed è ironico che nel 2002, durante il summit delle Nazioni Unite per il finanziamento
dello sviluppo, tutti i Governi mondiali abbiano sottoscritto, tra le altre misure di soste-
gno, la necessità di lavorare per creare un sistema finanziario stabile e meglio regola-
to; in quell’occasione inoltre si volle sottolineare a paesi come l’Indonesia, al Brasile
e al Messico che in questo processo di regolazione loro non avrebbero potuto gioca-
re nessun ruolo e avrebbero dovuto seguire la dinamica del sistema anglosassone.
Adesso vediamo che tutto è andato in fumo e che ci sono spazi aperti per costruire
un nuovo modello finanziario basato sui cittadini, che lavori per combattere la povertà
e per uno sviluppo equo per il mondo intero.
Il FMI, che ha sede a Washington, non distante dal Dipartimento del tesoro statuni-
tense, dovrebbe essere l’istituzione globale che vigila sul sistema finanziario interna-
zionale, ma da molte parti si dice che in realtà ha perso concentrazione e sta rischian-
do di addormentarsi; del resto i suoi impiegati sono così vicini al Tesoro statunitense
che finiscono per seguire le linee guida tracciate dall’amministrazione americana. Va
tenuto inoltre presente che un terzo del Consiglio esecutivo del FMI è costituito da
rappresentanti europei: come è possibile se deve rappresentare tutto il mondo? In
queste istituzioni c’è una grave e ridicola mancanza di governance, perché ricevono
eccessive pressioni dai leader globali e dai Ministri delle finanze dei paesi di prove-
nienza; in questi contesti sono stati lasciati a paesi come la Cina e il Brasile meno del
2% delle quote di voto, cioè una percentuale davvero iniqua, che impedisce a queste
istituzioni di essere indipendenti e le rende incapaci di imporsi sui paesi ricchi, su
coloro che promuovono liberalizzazioni selvagge a spese dei poveri.
Proprio adesso assistiamo ad un grande dibattito su questo argomento: ci si chiede
se istituzioni come il FMI dovrebbero avere un maggiore potere nel regolare il com-

40
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

portamento degli Stati e se potrebbero realmente godere della nostra fiducia. Durante
molti dei miei appelli, nelle campagne che portiamo avanti nel Sud del mondo, ho
affermato che non ci si può fidare di queste istituzioni e nemmeno si può riporre trop-
pa fiducia nell’ONU, che a sua volta non riesce nemmeno ad avvicinarsi al ruolo che
invece dovrebbe svolgere.
Tra circa un mese ci sarà un nuovo summit, un nuovo incontro per il finanziamento
dello sviluppo: una nuova possibilità, all’interno dell’area ONU e specialmente per i
paesi del Sud, di sfidare la crisi dell’ordine economico mondiale. Il debito ad esempio
è un tema sul quale potrebbero emergere novità interessanti. Forse 3 anni fa vi è ca-
pitato di sentire il signor Berlusconi o il signor Blair dire, durante il summit del G8, che
era stata completata la cancellazione del 100% del debito estero e che quindi il pro-
blema era stato risolto: non è assolutamente vero, i paesi in via di sviluppo continuano
a pagare enormi interessi legati al debito, nonostante le loro fragilissime economie.
I paradisi fiscali rappresentano un’altra tematica di vitale importanza, e in questo
l’Europa ha particolari responsabilità. È davvero troppo semplice per le compagnie
transnazionali europee investire nella produzione di soia in Brasile o nell’allevamento
di bestiame in Argentina, mentre per esempio i paesi africani che commercializzano
fiori o altri beni per il mercato europeo non riescono a ricavare nessun guadagno. Tra
le varie ragioni, il fatto che la distribuzione avviene in modo che i beni e il denaro pas-
sino attraverso paradisi fiscali nei Caraibi o nelle Isole Normanne, e anche - tramite
particolari strumenti finanziari - nelle città di Londra, Dublino, Monaco e altrove. In
questo modo le compagnie transnazionali riescono a pagare una tassazione minima,
vicina allo zero, mentre i poveri continuano ad essere sempre più poveri. E questo
avviene anche sul territorio europeo, per cui noi abbiamo una responsabilità fonda-
mentale nel malfunzionamento di questo sistema.
Passando al tema degli aiuti internazionali, vediamo come oggi sia una questione
di fondamentale importanza perché l’aiuto può costituire uno strumento davvero im-
prescindibile in anni difficili come questi, in cui diminuiscono altri flussi finanziari e si
cerca di dare un po’di stabilità a numerose situazioni di emergenza; ma perché i paesi
del Sud possano essere protagonisti di uno sviluppo autonomo è necessario che si
riparino le falle di questo sistema finanziario, che vengano meno le storture del siste-
ma di tassazioni e le condizioni imposte dalle multinazionali. Anche gli europei hanno
partecipato al High level summit meeting di Accra, in Ghana, sull’aiuto internazionale,
e hanno tentato di creare un blocco di fronte alle posizioni assunte dagli Stati Uniti
o dal Giappone, arrivando ad un accordo ragionevole. Rimangono però alcuni punti
interrogativi sulla serietà dei Governi europei nell’implementazione delle promesse di
aiuto.
L’Unione Europea ha serie difficoltà nel rispondere alla crisi alimentare, anche solo
nel definire che avrebbe stanziato un miliardo di euro, cifra che per 27 Governi non
è poi così alta ma per la quale è stato realmente difficile arrivare all’accordo, mentre

41
allo stesso tempo lo stanziamento di 100 miliardi di euro per salvare le banche è stato
definito e annunciato nel giro di una notte. Riguardo ai paradisi fiscali, per esempio,
le statistiche mostrano che il totale del denaro che va dai paesi ricchi ai paesi poveri
sotto forma di aiuto è in rapporto 1 a 7 con i flussi illeciti che si muovono da Sud verso
Nord.
Analizziamo le dichiarazioni rilasciate dall’Unione Europea sulla crisi mondiale: una
recente comunicazione della Commissione europea 6 afferma che la crisi attuale è il
risultato di alcune debolezze e che il sistema regolatore europeo è pronto a giocare un
ruolo attivo nel disegnare una nuova architettura globale. Però nelle ultime settimane
ci sono state molte dichiarazioni caotiche, l’Europa non si sta muovendo in modo
unitario, non ha un piano d’azione e non ha un’agenda effettivamente costituita che
può negoziare.
Vorrei ricordare che Kofi Annan, l’ex segretario generale dell’ONU, Michel Camdes-
sus, ex direttore del FMI e Robert Rubin, segretario del tesoro nell’amministrazione
Clinton, questa settimana hanno dichiarato che è fondamentale coinvolgere i paesi
in via di sviluppo e non approfittare della crisi internazionale per abbandonarli. Cosa
possiamo fare per non abbandonarli? Possiamo creare una forte mobilitazione socia-
le, di tutta la cittadinanza, per denunciare gli effetti delle crisi nel Sud del mondo, per
sostenere la necessità di realizzare ed attuare un nuovo modello che riesca a dare
molta più stabilità al sistema finanziario, superando gli schemi utilizzati negli ultimi
30 anni.
Due giorni fa mi trovavo a Washington per un incontro e la persona che aveva par-
lato prima di me, un esponente della Greylock investments, una società finanziaria di
venture capital che investe nella nascita e ristrutturazione di imprese, sosteneva che
non è il momento giusto per imporre nuove regole e nuove responsabilità al settore
privato, ma che la sfida è di fare in modo che il denaro cominci a circolare nuova-
mente. A mio parere questo è completamente sbagliato: se aspettiamo che il denaro
circoli di nuovo sarà troppo tardi! È adesso il momento di mobilitarci, perché proprio
il 15 novembre ci sarà il summit del G20 di Washington, poi un summit dell’ONU
entro un mese e tra meno di un anno il prossimo G8 in Italia, oltre ad altri incontri
dell’Unione Europea. È un momento vitale per tutti i cittadini, tutta la società deve far
sentire la propria voce, mobilitarsi e fare pressione sui potenti per cambiare il sistema
finanziario, per noi e per i paesi in via di sviluppo. È l’ora di mettere ordine nelle risorse
finanziarie, di lasciare alle popolazioni del Sud i frutti del loro lavoro e le loro risorse
naturali, evitando che continuino a essere sottomessi alle istituzioni internazionali e a
soffrire a causa di questo modello iniquo che ci troviamo davanti da trent’anni.

6 Comunicazione del 29 ottobre 2008

42
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

-2<&(+$$5%5,1.
EUROPE EXTERNAL POLICY ADVISORS

Come è stato sottolineato, le politiche dell’Unione Europea sul tema della coopera-
zione allo sviluppo possono essere migliorate e rese più coerenti, al fine di migliorare
l’efficacia degli interventi. L’aiuto può essere importante per creare una certa stabilità
nei paesi beneficiari e questo è il motivo per cui serve una cooperazione a livello di
Unione Europea. È stata definita anche una base legale - come viene definita nella
terminologia europea - per capire cosa può essere fatto a livello ufficiale nella coope-
razione allo sviluppo; è stata inserita nel trattato europeo di Lisbona che sarà, speria-
mo, messo in atto e ratificato.
Il principale obiettivo della cooperazione allo sviluppo europea è lo sradicamento
della povertà ed è importante tenerlo a mente perché le concezioni di cosa s’intende
esattamente per cooperazione allo sviluppo possono variare tra i Governi degli Stati
membri e in particolar modo si differenziano da quelle della società civile. Nella base
legale definita per la cooperazione allo sviluppo è inclusa anche l’importanza della
coerenza delle politiche europee, ossia si evidenzia che differenti ambiti sono tra loro
collegati e dovrebbero esser portati avanti contemporaneamente.
Vorrei anche concentrarmi su quello che viene definito “Consenso europeo”: si
tratta di un documento quadro di carattere strategico adottato a livello europeo nel
2005 per la cooperazione allo sviluppo. L’aspetto importante è che il documento è
espressione delle tre istituzioni europee più importanti e cioè il Consiglio europeo
- che rappresenta tutti gli Stati membri -, il Parlamento europeo - i cui rappresentanti
provengono da tutti gli Stati membri - e la Commissione europea - che è in partico-
lare l’organo esecutivo -, per cui possiamo dire che il Consenso europeo è davvero
espressione dell’Europa intera. Si tratta di uno strumento la cui adozione è del tutto
volontaria, costituito da due parti: la prima riguarda molto da vicino gli Stati membri
e la loro azione, mentre la seconda è riferita a quello che può fare la Commissione
europea, proprio come organo esecutivo.
Analizziamo alcune frasi del documento: “La cooperazione allo sviluppo è una com-
petenza condivisa tra la Comunità europea, di solito la Commissione, e gli Stati mem-
bri. La politica comunitaria, nella sfera della cooperazione allo sviluppo, sarà il più
possibile complementare alle politiche perseguite dagli Stati membri”. Inoltre “i paesi
in via di sviluppo hanno una primaria responsabilità nell’occuparsi del proprio svilup-
po”: questo è un punto particolarmente importante perché se i paesi in via di sviluppo
vogliono porre autonomamente delle questioni l’Unione è tenuta ad ascoltarli, ma
questo, secondo me, oggi non succede. A mio parere invece i paesi sviluppati hanno
l’obbligo di ascoltare le istanze dei paesi in via di sviluppo.
“L’obiettivo primario della cooperazione allo sviluppo dell’Unione è lo sradicamento
della povertà nel contesto dello sviluppo sostenibile, incluso il perseguimento degli

43
obiettivi del millennio”: questa frase definisce chiaramente che gli obiettivi devono
essere lo sradicamento della povertà e il raggiungimento degli obiettivi del millennio.
Inoltre “lo sviluppo è un obiettivo centrale di per se stesso”: significa che la coopera-
zione allo sviluppo non deve promuovere o incoraggiare vantaggi e benefici per i paesi
membri. Infine “lo sviluppo sostenibile include una buona governance, il rispetto dei
diritti umani e aspetti di carattere politico, economico, sociale ed ambientale”: quindi
sono necessari istruzione e sanità di base, equità di genere, sostenibilità ambientale.
Possiamo quindi dire che il Consenso Europeo è un documento molto valido, per-
ché è coerente dal punto di vista politico, contiene gli strumenti per supportare le
popolazioni nei paesi in via di sviluppo - sia quelli a basso reddito che quelli a medio
reddito - propone attività concentrate, ha un forte focus sulla povertà e include anche
l’empowerment delle donne. Anche i principi e gli impegni che presenta sono ugual-
mente validi: si parla di principi di ownership, partnerhip, dialogo politico, partecipa-
zione della società civile, equità di genere, rafforzamento delle istituzioni statali, oltre
all’aspetto molto importante di maggiori stanziamenti.
La seconda parte del documento del Consenso europeo riguarda quello che do-
vrebbe fare la Commissione europea - ad oggi senza applicazione - e le modalità in
cui potrebbe contribuire con una posizione unitaria agendo laddove altri non pos-
sono, assicurando coerenza politica, sostegno ai paesi partner nell’integrazione ad
esempio commerciale, promuovendo best practices, facilitando il coordinamento. Di
per sé è tutto ottimo, ma essendo un documento progettato per riflettere un approc-
cio e un’azione comuni, ed essendo ancora del tutto volontario, è imprescindibile
la necessità che ci sia realmente unità intorno ad esso, che tutti si pongano nella
stessa direzione, ma il consenso reale fra 27 paesi non è sempre facile. Nonostante
le politiche messe in atto sembrino essere buone, c’è una forte focalizzazione sulla
sicurezza, le migrazioni e il commercio. Come sempre si sostiene da una parte che
senza sicurezza non si può avere sviluppo, e dall’altra che senza sviluppo non si può
avere sicurezza; il problema di questo dualismo è trovare un equilibrio, e stare dav-
vero molto attenti all’implementazione delle politiche in modo che le tematiche della
sicurezza, delle migrazioni e del commercio non prendano il sopravvento sullo sradi-
camento della povertà e sullo sviluppo. Spesso infatti c’è discrepanza tra la retorica e
l’implementazione, per cui sono necessarie scremature e trasparenza.
In tutti i documenti politici si parla molto di equità di genere, del ruolo delle donne
nello sviluppo sociale, del fatto che se non sono in salute e non ricevono un’istruzio-
ne non può esserci sviluppo, ma proviamo a guardare la situazione di quel 20% del
budget che a livello europeo è stato definito che debba essere investito per garantire
l’accesso alla sanità di base e all’educazione. Nel 2005, la percentuale investita per
istruzione e sanità di base era del 7,44, ma nel 2006 era caduta a 4,36. Inoltre recen-
temente un gruppo di Ong ha pubblicato il 2015 Watch-report7 - per monitorare il con-

7 www.alliance2015.org

44
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

tributo portato dai programmi europei nel raggiungimento degli obiettivi del millennio
- in cui si analizza tra le altre cose un gruppo di paesi in via di sviluppo che ha ricevuto
il budget support, evidenziando come solo in quattro di questi paesi sia stato allocato
nel settore sociale almeno un quarto dei fondi.
Ritornando alla cooperazione, nonostante le dichiarazioni sull’importanza della
coerenza e i contenuti del consenso europeo, abbiamo una pluralità di soggetti dona-
tori attivi che non stanno collaborando tra loro per raggiungere l’obiettivo di garantire
a tutti i paesi partner tutti gli aiuti di cui hanno bisogno. Stanno provando a fare di più
e meglio, ed a livello politico bisogna riconoscere che la UE ha fatto molto non solo
per quanto riguarda il Consenso europeo, ma anche perché ad esempio si è impegna-
ta molto per organizzare una più efficace divisione del lavoro ma non tutte le istanze
vengono raccolte da tutti i paesi, e di concreto purtroppo non c’è ancora nulla.
Il budget support oggi è considerato, specialmente dalla Commissione europea,
lo strumento ottimale nella cooperazione allo sviluppo e assorbe buona parte degli
stanziamenti. Se analizziamo però dove vanno a finire le risorse inviate con il budget
support e se il paese riceve benefici reali, vediamo un utilizzo insufficiente nel settore
sociale, ad esempio nella promozione dell’equità di genere: l’implementazione dei
programmi è evidentemente molto lontana dalle idee e dalla parole che sono state
scritte.
Si è parlato del ruolo che la crisi internazionale, la crisi alimentare globale, l’aumento
dei prezzi dei carburanti, la crisi ambientale, quella finanziaria, hanno avuto in rela-
zione alla cooperazione allo sviluppo. Se pensiamo agli ultimi appuntamenti, nell’High
level meeting di Accra le posizioni assunte sono state probabilmente molto buone,
ma da un punto di vista effettivo, della concretezza dell’aiuto, non è successo molto.
Al meeting di Doha sul finanziamento per lo sviluppo, i rappresentanti europei e gli
Stati membri erano ancora molto lontani dalla capacità di parlare tutti con un’unica
voce. Ricordiamo inoltre che se da una parte vengono destinate risorse per il Sud del
mondo, dall’altra queste tornano nel Nord sotto forma ad esempio di pagamento degli
interessi del debito, togliendo spazio agli investimenti sociali.
Perché le politiche allo sviluppo abbiano una reale implementazione è importante
che anche la società civile faccia la sua parte. Nel 2009 ci sarà occasione di fare pres-
sione non solo a livello nazionale, perché il Governo fa parte del Consiglio europeo e
si può chiedere che spinga per modificare la situazione, ma anche a livello europeo,
perché si svolgeranno le elezioni del Parlamento europeo e si può da subito chiedere
ai candidati quale linea intendono assumere in merito alla cooperazione internazio-
nale. Inoltre, si svolgeranno le Mid-Term reviews dei Country Strategy Papers, che
offrono l’occasione di superare mancanze e criticità presenti in questi documenti per
prendere una nuova direzione nella seconda metà del loro periodo di validità (2007-
2013).
Per concludere, la cooperazione allo sviluppo deve essere riconosciuta come area

45
di diritto facente parte della politica europea, come stabilisce il trattato di Lisbona, e
non deve essere subordinata ad altre politiche dell’Unione, proprio perché ha come
obiettivo lo sradicamento della povertà. L’aspetto della coerenza politica giocherà un
ruolo importante; dobbiamo fare pressione perché venga nominato un commissario
per lo sviluppo e per l’aiuto umanitario che si occupi unicamente di questo, in modo
che non sia influenzato dalle politiche legate alla sicurezza o alle migrazioni e che
possa sviluppare una strategia autonoma. Il trattato di Lisbona, se verrà ratificato,
porterà importanti cambiamenti nella gestione della cooperazione allo sviluppo; inol-
tre il Parlamento europeo diventerà molto più forte e la società civile potrà essere più
influente.
Non bisogna dimenticare che i bisogni per lo sviluppo andranno ad aumentare: ci
sarà ancora più richiesta di denaro, di supporto, di solidarietà, di partnerhip: inoltre
i bisogni dei donatori stanno cambiando insieme al contesto internazionale e deve
essere ribadito che il focus resta lo sradicamento della povertà. C’è il rischio che
tematiche come quelle della sicurezza, del commercio e del contenimento dei flussi
migratori tendano sempre più ad influenzare la cooperazione allo sviluppo, privandola
del suo significato originario. Quindi la società civile deve prepararsi a gestire queste
forme di cambiamento, deve elaborare una strategia comune per fare pressione in
modo che l’Unione Europea possa agire in maniera efficace, con meno retorica e
più azioni, e diventare leader nella cooperazione allo sviluppo, verso lo sradicamento
della povertà e il raggiungimento degli obiettivi del millennio.

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DIREZIONE GENERALE SVILUPPO COMMISSIONE EUROPEA

Vorrei iniziare il mio intervento citando Stefano Manservisi, il Direttore Generale del-
la Direzione Cooperazione allo Sviluppo della Commissione Europea, di cui vi porto
i saluti, che in un intervento al Senato italiano evidenziava come la dinamicità della
società civile italiana, di cui le organizzazioni non governative (ONG) rappresentano
una grande parte, ricopra un ruolo fondamentale nel riavvicinare le persone alla po-
litica e, attraverso la politica, nell’interagire con l’Europa per far crescere lo sviluppo
nel mondo. Vorrei anche aggiungere che le ONG hanno un ruolo chiave nell’orientare
la pubblica opinione, direi quasi nell’educare la pubblica opinione sui temi della coo-
perazione e dei suoi obiettivi.
Questo mi sembra fondamentale perché tipicamente nelle politiche di cooperazio-
ne si devono, per così dire, equilibrare le forze che vi vogliono veder riflessi obiettivi
di sviluppo in senso largo, come ad esempio eliminare la povertà nel mondo, con
quelle che invece sono più orientate a pensare la cooperazione come uno strumento
per perseguire interessi nazionali. Questo è vero sia per i singoli paesi che per le or-
ganizzazioni internazionali o sopranazionali com’è l’Unione Europea, la quale come
abbiamo sentito da altre relazioni persegue altri obiettivi oltre a quello di promuovere

46
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

lo sviluppo. È quindi importante mantenere questa distinzione: ci muoviamo verso


obiettivi generali o verso obiettivi di interesse specifici, siano essi dettati dalle esigen-
ze nazionali o altro? È dalla declinazione di questo equilibrio che si può delineare una
risposta credibile ai quesiti posti da Mani Tese in questo convegno.
Non è questo un problema solo italiano. Se pensiamo agli Stati Uniti, nell’ambito
dell’aiuto alimentare è molto evidente che essi perseguono per lo più un interesse
nazionale, o in ogni modo attraverso un interesse nazionale, il sostegno ai produttori,
cercano di perseguire un interesse globale, fornire aiuto alimentare. Nel caso del-
l’aiuto norvegese, donatore medio anche se paese piccolo, notiamo che è l’unico tra
i donatori DAC8 con un rapporto aiuti/prodotto interno dell’1%, un valore molto alto.
In Norvegia il ministro dello sviluppo è diretta emanazione del mondo delle ONG, le
quali hanno un rapporto strettissimo con la gestione degli aiuti sia perché ne sono
beneficiari nel senso che ne realizzano gli interventi, sia perché riescono influenzare le
politiche norvegesi in questo ambito. Il ministro britannico dello sviluppo, pur non es-
sendo emanazione diretta del mondo delle ONG, ha nella sua circoscrizione elettorale
(constituency) ONG molto importanti, capaci di influenzare la politica britannica del-
l’aiuto. Questa tendenza - interessi generali vs interessi particolari - si è notata bene
durante la conferenza di Accra, in cui, come è stato accennato, l’Unione Europea si è
fatta portatrice di interesse generali laddove gli Stai Uniti e il Giappone esprimevano
opinioni più conservatrici.
Nel caso dell’Italia, l’opinione pubblica, pur se in larga maggioranza favorevole al-
l’aiuto, manifesta una propensione conservatrice nei confronti delle politiche di coo-
perazione. Molti dei nostri connazionali si chiedono a cosa serve, che vantaggio si
abbia: siamo quindi più nella dimensione di perseguire interessi specifici (l’aiuto come
strumento di penetrazione commerciale o mezzo per esercitare influenza politica)
piuttosto che perseguire un interesse globale come potrebbe essere la riduzione del-
la povertà. Le ONG possono giocare un ruolo più importante nel correggere queste
tendenze e influenzare l’orientamento delle politiche di sviluppo del nostro paese.
Una delle questioni su cui ci stiamo interrogando è se l’aiuto pubblico allo sviluppo
serve; parliamo di aiuti tra Governi, con i relativi aspetti strutturali e burocratici. In-
fluenti opinion makers come Jeffrey Sachs o Amartya Sen, ci dicono che l’aiuto serve,
perché salva vite umane ma anche perché aiuta a mettere in moto dinamiche pro-
gressiste nei paesi beneficiari. Altri, altrettanto autorevoli, sostengono che l’aiuto non
serve o non serve molto. Ad esempio, William Easterly, Professore alla NY University,
è molto critico, ma a mio parere il suo ragionamento sconta un limite importante per-
ché caratterizza, quasi caricaturizza, le diverse situazioni più che analizzarle. Un altro
fatto da tener presente è che negli ultimi anni la constituency dello sviluppo, formata
da chi si batte per ridurre la povertà, è innegabilmente aumentata, con grosso merito
delle ONG che hanno favorito questa tendenza.

8 (Development Assistance Committte) Comitato di Aiuto allo Sviluppo dell’OCSE

47
Un primo punto riguarda quindi il modo in cui noi riusciamo a influenzare queste
politiche, mentre un secondo - come ci ha ricordato Joyce Haarbrink - riguarda la loro
messa in pratica. Dal mio punto di vista, che è quello di chi si è occupato di formulare
le politiche relative all’aiuto (policy making), il problema fondamentale nella loro rea-
lizzazione è legato alle procedure. Come accennavo, l’aiuto pubblico è una relazione
fra Stati che implica negoziati, accordi, protocolli, intese, e così via. La Commissione
Europea a partire dal 2000, ha notevolmente ridotto la complessità delle proprie pro-
cedure e attraverso una chiara preferenza per la modalità budget support, cioè l’aiuto
diretto al bilancio dello Stato beneficiario - che vorrei sottolineare essere un dono e
non un prestito quindi senza creazione di debito in quanto trasferimento unilaterale -
cerca di incentivare, mantenendo però un controllo qualitativo rigoroso sugli interventi
e l‘appropriazione dei programmi da parte dei beneficiari.
Ad esempio, la risposta europea alla crisi provocata dall’aumento dei prezzi dei
prodotti agricoli, scoppiata di recente, è stata abbastanza pronta per una macchina
burocratica come la Commissione che oltre alla propria deve coinvolgere 27 ammini-
strazioni nazionali. Sull’ammontare delle risorse mi permetto non tanto di dissentire,
ma di precisare che non si tratta di una questione di volumi perché anche in questo
caso uno dei nostri maggiori problemi è legato alle procedure, in particolare alla que-
stione del cosiddetto assorbimento: possiamo aumentare le risorse ma non abbiamo
elementi certi per capire se questo aiuto verrà utilizzato. Ci sono progetti, non partico-
larmente grandi, in cui si fatica ad erogare i fondi per tutta una serie di problemi, alcuni
probabilmente creati dalle nostre amministrazioni ma altri dati da situazioni oggettive
di difficoltà nel mettere in atto queste realizzazioni. Per darvi una misura di grandezza,
abbiamo parlato di un miliardo di euro come intervento a favore della fame: questa
cifra rappresenta una parte cospicua del totale degli impieghi degli istituti bancari in
Africa sub-sahariana, (Sud Africa escluso). Per cui non si può fare un paragone con
quello che gli Stati dell’Unione hanno erogato a favore delle banche per rispondere
alla crisi finanziaria, perché quei fondi sono stati immediatamente assorbiti dal siste-
ma bancario europeo. Nel fare questi accostamenti è necessario tenere presente i
parametri di grandezza delle istituzioni africane.
Nel suo intervento, Joyce Haarbrink ha ricordato il Consenso europeo: esso offre
alla società civile un’occasione importante, non tanto nel condizionare quanto nel
controllare che i paesi europei, tutti aderenti al Consenso europeo, lo mettano effet-
tivamente in pratica. Il Consenso Europeo è una dichiarazione politica che impegna i
paesi Membri dell’Unione e che coinvolge tutte le istituzioni europee e le amministra-
zioni nazionali a perseguire obiettivi di sviluppo comuni e coordinare le rispettive po-
litiche. Ritorniamo un momento al budget support: perché la Commissione Europea
ha fortemente sostenuto l’idea di usare gli aiuti al bilancio in modo così massiccio?
Perché si tratta del modo più diretto di cui disponiamo per ridurre i costi burocratici - i
cosiddetti costi di transazione, cioè quello che viene speso per mettere in opera l’aiu-

48
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

to. A questa chiave interpretativa se ne affianca un’altra fondamentale: il fatto che uno
dei principi del Consenso europeo è la responsabilizzazione di chi riceve l’aiuto. Dal
momento in cui vengono immesse risorse nel bilancio pubblico di un paese partner,
il governo di quel paese diventa responsabile di come le utilizza. Ci si aspetta perciò
che nasca e cresca nei paesi partner una dinamica di controllo democratico. Essendo
il budget support, di fatto, equiparabile alle risorse delle Stato, il Governo ha un obbli-
go di rendicontazione verso le altre istituzioni dello Stato e nei confronti dei cittadini
molto superiore a quello che avrebbe con i classici progetti di aiuto. Ad esempio in
Tanzania, a fronte di un problema di gestione delle risorse pubbliche, i media e il Par-
lamento hanno chiesto al Governo cosa avesse fatto di queste risorse e il Governo
ha dovuto rispondere. I cittadini hanno quindi potuto rendersi conto di come somme
importanti destinate all’aiuto erano state non correttamente usate. Si tratta quindi di
un grande elemento di innovazione che richiede continua attenzione.
Quando si parla di aiuto al bilancio è importante tener presente la condizionalità,
uno degli aspetti che più è stato dibattuto ad Accra. La dichiarazione di Accra afferma
che i donatori devono spiegare al proprio partner le ragioni della condizionalità, cosa
che prima non succedeva. Le condizionalità venivano inserite nei programmi senza
commenti al seguito di un processo negoziale Governo/Donatori, processi caratteriz-
zati da una scarsa trasparenza.
Permettetemi due riflessioni finali sulla coerenza delle politiche europee. Stiamo
parlando di coerenza delle politiche per lo sviluppo - policy coherence for development
-, quindi il focus è relativo alla coerenza nei nostri interventi per lo sviluppo. Sia
l’Ocse (30 paesi Membri) che l’Unione Europea (27 paesi Membri) hanno prodotto su
questo tema documenti politici importanti. La coerenza delle politiche per lo sviluppo
recentemente approvata dal Consiglio europeo impone una più stretta concertazione
tra i differenti attori che formulano tali politiche. Ad esempio, le Direzione Generale
del Commercio della Commissione - ricordiamo che il Commercio è competenza
esclusiva dell’Unione mentre la cooperazione allo sviluppo è competenza mista -
poteva in passato proporre e fare approvare delle direttive in campo commerciale in
contrasto con azioni in favore delle politiche di sviluppo. Oggi non è più possibile. Ad
esempio, il mandato dato dal Consiglio Europeo alla Commissione per negoziare gli
accordi di Doha prevede espressamente di tener in conto delle esigenze dei paesi in
via di sviluppo. È un passo in avanti molto importante.
Passiamo brevemente alla questione degli EPA’s, gli Economic partnerhip agree-
ments, analizzandone le origini. Alla fine del 2007, le preferenze commerciali accorda-
te dall’Unione Europea ai paesi ACP (Africa, Carabi e Pacifico) hanno dovuto essere
interrotte, in quanto scaduta la deroga data dall’Organizzazione mondiale del com-
mercio. Da qui la necessità di definire un nuovo accordo commerciale tra l’Unione e
gli ACP. Sappiamo che il commercio è una determinante fondamentale nella crescita
del reddito di un paese: circa la metà della ricchezza di paesi come la Germania, l’In-

49
ghilterra o la Francia viene da rapporti commerciali. Come ricorderete, qualche anno
fa si diceva “More trade less aid”: più commercio e meno aiuto. Nel caso degli EPA’s,
l’idea fondante era di non avere solo ed esclusivamente degli accordi commerciali,
perché era stato osservato che negli ultimi venti anni, pur con il sistema di preferenze,
il livello del commercio tra i paesi ACP e l’Europa era rimasto stabile se non diminuito.
Si voleva quindi non solo ripristinare delle agevolazioni commerciali, ma anche cerca-
re di dare un impulso quantitativo, da qui il nome Economic partnerhip agreements.
Non si trattava solo di un problema di accesso al mercato, ma anche di creazione di
mercato basandosi sull’integrazione regionale, uno dei punti di forza dell’Europa - Per
inciso, l’economista statunitense Paul Krugman quest’anno ha vinto il premio Nobel
per l’economia studiando il processo di integrazione economica europeo. L’Europa
propone quindi il suo modello ai propri partner cercando di coinvolgerli in un rapporto
che favorisca anche il market building. Al momento il risultato non è soddisfacente
- è stato concluso un solo un accordo con i paesi dei Caraibi e ci sono alcuni interim
agreement - e questo a causa di molte riserve nei partner. Sugli aspetti commerciali ci
sono sicuramente molte cose da migliorare, ma vorrei ricordare che relativamente al
Doha round l’Unione Europea ha svolto un ruolo molto attivo, finalizzato a concludere
tra il 90 e il 95% di tutte le questioni. La questione rimasta inevasa, cioè la ragione per
cui il Doha round si è bloccato, é legata a clausole di salvaguardia su alcuni prodotti
agricoli, clausole che non coinvolgevano gli europei ma i rapporti tra paesi emergenti
e gli Stai Uniti.
Ci sono altri elementi, citati nei precedenti interventi, che generano tensione politi-
ca, in senso dinamico e non necessariamente negativo. Uno di questi è sicuramente
il problema della migrazione: la return directive, è stata concepita per regolare i flussi
migratori verso l’Unione Europea e ha suscitato proteste fortissime soprattutto da
parte dai paesi latinoamericani; il dialogo su questi temi è molto intenso, e in Africa si
stanno creando dei centri per facilitare il dialogo politico tra ACP e Unione Europea
su come regolare i flussi. Ci basti sapere che l’80-85% dei migranti che si trovano in
Europa sono regolarizzati, cioè hanno un visto e un permesso di lavoro.
Un ultimo elemento che vorrei affrontare, sempre nell’ambito della policy coherence,
è la questione ambientale, che ha un grosso riflesso sulle politiche di sviluppo.
L’Unione Europea ha approvato la politica del 20 - 20 - 20, che chiede ai paesi membri
di ridurre del 20% le emissioni, di usare il 20% di fonti di energia alternative e di
aumentare del 20% l’efficienza energetica. Per i paesi in via di sviluppo si applica
il principio dell’adaptation, nel senso che i paesi più poveri producono bassissime
emissioni ma subiscono gli effetti del cambiamento climatico come gli altri paesi che
sono responsabili delle emissioni di gas a effetto serra. La discussione in atto è molto
complessa, non riguarda solo la cooperazione e coinvolge la gestione del mercato
delle emissioni, dal quale potrebbero scaturire risorse molto importanti per avviare
interventi nei paesi in via di sviluppo e aiutarli a limitare l’impatto del cambiamento

50
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

climatico. Come nel caso della crisi finanziaria, ricordato dall’intervento di Alex Wilks la
maggioranza dei paesi in via di sviluppo (esclusi, Cina, Brasile e altri paesi emergenti) e
soprattutto i paesi più poveri hanno emissioni molto basse. Qui il dibattito si complica
per quanto riguarda la cooperazione, perché molte di queste risorse non verrebbero
contabilizzate come aiuto pubblico allo sviluppo (ODA) e quindi aprirebbero un
nuovo fronte sul quale l’impegno delle ONG potrebbe essere altresì determinante nel
raggiungere obiettivi di carattere generale.

&$7(5,1$$0,&8&&,
RESPONSABILE FINANZA EUROPEA, CRBM / MANI TESE

Il mio contributo è incentrato su una realtà della UE poco conosciuta, la Banca Eu-
ropea per gli Investimenti (BEI), la più grande istituzione finanziaria pubblica al mon-
do. Dopo una presentazione di cosa è e cosa fa, proporrò una serie di considerazioni
legate al tema delle coerenze delle politiche europee.
La BEI viene istituita nel 1958 con il trattato di Roma, con la particolarità di non
venire istituita tra le istituzioni europee, ma come Organismo Europeo, assegnandole
quindi uno statuto abbastanza ambiguo che la identifica come un organismo interno
alle istituzioni Europee ma le lascia di fatto una personalità giuridica autonoma, quella
di una banca. Nasce per finanziare in particolare le opere infrastrutturali all’interno
della UE, soprattutto nelle aree meno sviluppate. Nel tempo ovviamente il suo ruolo
cambia e a partire dagli anni Settanta la BEI inizia ad investire anche fuori dal territorio
della UE, tanto che oggi ha un portfolio annuale di quasi 50 miliardi di Euro, che in
termini di volumi è quasi il doppio di quello della banca mondiale.
Ha un ruolo estremamente importante nel policy making della UE, specialmente per
quanto riguarda le operazioni all’esterno del suo territorio. Quello che viene definito
external lending, cioè la quota di portfolio annuale che viene investito fuori dall’UE,
oggi ammonta al 13% degli investimenti totali, ovvero a 6,3 miliardi di Euro l’anno. Per
capire questo dato e per analizzarlo in relazione ad altri, bisogna tenere conto che ad
esempio il decimo Fondo europeo di sviluppo stanzia 23 miliardi di euro per il periodo
2007 - 2013: parliamo quindi di una cifra che è quasi il doppio dello stanziamento
annuale del Fondo per lo sviluppo.
Al contrario della Banca Mondiale, che ha gran parte delle risorse provenienti dai
paesi che la sostengono, la BEI reperisce quasi tutta la liquidità esclusivamente sul
mercato azionario emettendo bond. Si tratta di un soggetto finanziario estremamente
sicuro, tanto che in questi giorni di piena crisi finanziaria è uscita rafforzata al contra-
rio di tutte le altre banche, proprio perché gode della garanzia degli Stati membri, e
ha continuato ad emettere bond, anche perché c’era una grossa esigenza di liquidità.
Inoltre la BEI gestisce una piccola parte di risorse provenienti dal budget della UE, in
particolare per quei progetti che sono iscritti nel quadro delle politiche di sviluppo nei
paesi ACP e del Mediterraneo.

51
La BEI ha tre tipi di prestiti: finanziamento di progetti, finanziamento a programmi
tematici nel settore ad esempio dell’ambiente o dei trasporti, e prestiti che vengono
erogati ad intermediari finanziari, che normalmente sono banche e che a loro volta
suddividono la cifra in piccoli prestiti per finanziare le piccole e medie imprese o gli
enti locali. La banca, da statuto, non potrebbe prestare fuori dalla UE perché nasce
proprio per il sostegno all’interno dei paesi europei e fa queste operazioni in base ad
un mandato che viene conferito periodicamente dal Consiglio europeo. L’ultimo man-
dato è stato conferito nel 2006 per il periodo 2007-2013 e ha visto un forte incremento,
più di 7 miliardi di euro, delle risorse per l’esterno, cioè della quantità di fondi disponi-
bili che la banca può investire fuori dalla UE; non si tratta infatti di una quota definita
dalla banca stessa ma è fissata in sede politica, dal Consiglio europeo.

IL FINANZIAMENO ESTERNO DISTRIBUZIONE

Sud-Est Europeo . . . . . . . . . . . . . . . . 2.926


Europa Orientale, Caucaso, Russia . 230
Mediterraneo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.438 (di cui 48 dal budget UE)
Paesi ACP . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 756 (di cui 325 dal budget ACP)
Sud Africa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 113
Asia e America Latina . . . . . . . . . . . . 925
TOTALE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6.389

La tabella, relativa al 2007, mostra come il prestito esterno è distribuito: emerge


chiaramente che per le politiche di vicinato i paesi privilegiati sono quelli limitrofi alla
UE, in particolare il Sud-Est europeo. Il dato relativo ad Asia e America Latina nor-
malmente è più basso, ma in questo caso è alterato a causa del primo prestito che la
BEI ha fatto alla Cina, un prestito di cinquecentomilioni di euro per un programma di
riduzione dell’emissione dei gas serra.
Il mandato globale della BEI è costituito da due sottomandati, il primo conferitole
nell’ambito dell’accordo di Cotonou per i paesi ACP, mentre l’altro è un mandato che
il Consiglio europeo conferisce in maniera particolare per autorizzare la Banca a la-
vorare nei paesi non ACP, in particolare in America Latina e Asia (mandato ALA), e
nei paesi coinvolti della politica di vicinato, ossia Europa dell’est, Mediterraneo e Asia
centrale.
Ovviamente ognuno di questi mandati fissa delle priorità regionali: per i paesi ACP
le priorità dei prestiti derivano direttamente dall’accordo di Cotonou, che è quindi
riferimento per individuare quali tipi di progetti la Banca deve finanziare e che ricor-
diamo avere come obiettivo principale la riduzione e lo sradicamento della povertà.
Nell’ambito di questo accordo viene istituito uno strumento finanziario ad hoc che si
chiama Investment facility, gestito dalla BEI con fondi che in minima parte vengono
dalla Commissione e che prevalentemente la BEI reperisce sul mercato attraverso

52
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

l’emissione dei bond. L’Investment facility ha un comitato, composto dalla commissio-


ne della BEI e dai paesi membri, che gestisce l’insieme di questi soldi, quindi anche il
budget che la Banca trova sul mercato.
Per quanto riguarda gli altri paesi partner, il mandato è molto più ambiguo, perché
se l’articolo 8 della decisione del Consiglio del 2006 fa riferimento alla coerenza com-
plessiva con le azioni della UE e soprattutto con l’assistenza comunitaria agli altri pae-
si partner, in realtà poi le priorità regionali sono abbastanza diverse. Nel Mediterraneo
sono sviluppo del settore privato, mentre nel mandato ALA sono sostenibilità ambien-
tale, sicurezza energetica, investimento diretto estero e trasferimento di tecnologia;
nel caso del mandato esterno la parola sviluppo non è mai menzionata in maniera
chiara, anche se si riferisce alla coerenza e all’assistenza esterna ai paesi partner.
Anche nei paesi ACP la BEI ha le sue priorità settoriali, che vanno oltre l’accordo
di Cotonou e in parte ne derivano ma in parte no, anche perché come abbiamo visto
tutte le priorità sono passibili di interpretazione e conta molto qual è l’implementa-
zione finale. Nei paesi ACP il 50% delle risorse viene destinato al settore privato e
finanziario - cioè va agli intermediari finanziari, banche che a loro volta prestano i fondi
alle realtà locali - e l’altra metà per infrastrutture, estrazione mineraria e, nella quantità
marginale dello 0,5%, per altre attività industriali, agricoltura e turismo.
Passiamo ora ad analizzare come avviene la promozione del settore privato. Prin-
cipalmente è implementato attraverso lo strumento del prestito globale, i global loan,
cui accennavamo: banche private ricevono prestiti di cui non è possibile per il pub-
blico conoscere l’utilizzo ed è molto difficile per la BEI stessa monitorarne la destina-
zione. Per questo vengono criticamente definiti “i buchi neri della finanza europea”.
Si tratta di un problema che finalmente anche gli Stati membri hanno incominciato a
porsi, richiedendo alla Banca maggiore trasparenza per capire se effettivamente sono
le piccole e medie imprese locali a beneficiare di questi prestiti. Al momento per chi fa
lavoro di advocacy e monitoraggio delle attività della banca è assolutamente impos-
sibile eseguire un’analisi di questo tipo, quindi noi da tempo richiediamo trasparenza
e accountability pubblica in relazione a questi prestiti, che nel caso dei Paesi ACP
ammontano al 50%, ma che si realizzano anche in Europa e sono quindi una quota
veramente rilevante dell’intero budget. Inoltre, va considerato un altro elemento: il
rispetto degli standard ambientali e sociali, che non solo non viene rispettato dalla
Banca nelle operazioni esterne, ma che in questo caso viene demandato all’interme-
diario senza nessuna forma di monitoraggio sull’implementazione degli standard da
parte dei beneficiari finali.
Per quanto riguarda le infrastrutture nei Paesi ACP, secondo la nostra analisi gli
investimenti in questo settore non sono coerenti con i Country Strategy Papers; in
particolare la Commissione non riesce ad avere un ruolo sostanziale nel garantire la
coerenza con le politiche di sviluppo. Lo si può vedere con un esempio pratico. Da un
anno e mezzo noi seguiamo il caso degli impianti idroelettrici di Gilbel Gibe in Etio-

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pia: abbiamo anche chiesto ad un parlamentare Europeo di fare una interrogazione
scritta alla Commissione e l’esito è stato piuttosto interessante perché ha risposto
Luis Michel in persona dicendo che “La Commissione non è direttamente coinvolta
nell’attuazione del progetto in questione, poiché l’energia non è un settore prioritario
delle sue attività di cooperazione con l’Etiopia”. Ci si chiede allora perché questo pro-
getto sia stato finanziato, se la Commissione stessa ammette che non è una priorità
per le politiche di cooperazione europee in Etiopia; noi continueremo a porre questa
domanda fino a che finalmente non troveremo una risposta.
Il problema delle infrastrutture nei paesi ACP ha ovviamente anche delle implicazio-
ni sociali e ambientali, ma la BEI di fatto non è preparata ad operare come una banca
di sviluppo e non è in grado di eseguire valutazioni di impatto adeguate. Basti pensare
che lo staff dell’unità sociale-ambientale conta un esperto in ambito sociale, a fronte
di investimenti per 50 miliardi di euro, e tre esperti ambientali; la Banca Mondiale ne
ha centinaia - anche se poi i risultati sono discutibili lo stesso. Se in ambito UE la
Banca è obbligata a rispettare la normativa Europea, all’esterno la utilizza solo come
riferimento, come un benchmark, e sostanzialmente si rifà alle legislazioni nazionali,
non avendo guidelines ad hoc - proprio perché il suo territorio di intervento avrebbe
dovuto essere quello europeo. Questo è un aspetto molto critico, perché spesso nel
Sud del mondo la legislazione nazionale in materia di standard ambientali e sociali è
praticamente inconsistente, e si somma al fatto che non viene eseguito nessun tipo di
monitoraggio ex post, quindi si continuano a replicare progetti, come nel caso delle
dighe in Africa, senza studiarne l’impatto - questo perché la Banca sostiene di non
avere le risorse e le competenze per farlo.
Un altro settore estremamente controverso è quello dell’estrazione mineraria, che
non è coerente con gli obiettivi di sviluppo sostenibile della UE in quanto non si ritrova
né negli obiettivi regionali né nei Country strategy papers. Anche qui porto l’esempio
di un progetto che stiamo seguendo: una miniera di rame e cobalto in Congo, la quale
è stata data in concessione ad uno dei colossi americani dell’estrazione mineraria,
che ha ricevuto 100 milioni per l’avviamento di questa miniera, nonostante le miniere
siano ben lontane dai principi di sostenibilità ambientale.
Finora abbiamo analizzato casi relativi ai paesi ACP, vi porto anche un esempio
latinoamericano, dove ha competenza il mandato ALA che ha tra le sue priorità il
sostegno agli investimenti diretti esteri dell’Europa. Lo scorso anno quasi tutto il por-
tafoglio per l’America Latina è stato accordato a Telefonica e Vivo Cellular - due note
compagnie europee - per sostenere l’espansione della telecomunicazione; negli anni
precedenti era stato il settore dell’industria automobilistica ad aver assorbito molte
risorse, perché la BEI ha fortemente sussidiato la delocalizzazione della produzione
delle automobili in America Latina. Qui non è tanto un problema di coerenza, quanto
di quella che in inglese viene definita consistency: quando ci sono diverse priorità
quale peso viene attribuito alle singole? In America Latina, su quattro priorità di cui

54
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

la prima è la sostenibilità ambientale, viene perseguita solo quella dell’investimento


diretto estero.
Per riassumere, le criticità che noi studiamo e sulle quali in qualche modo ci con-
frontiamo con la BEI sono:
1 la coerenza interna del mandato, che da una parte è ancorato da una politica in-
terna di sviluppo ma dall’altra è legato a interessi di vario tipo dell’Unione Europea,
tra i quali non dimentichiamo la sicurezza energetica;
2 la coerenza con il mandato di Cotonou, che ha contenuti chiari ma problemi nel
modo in cui vengono tradotti nei progetti finanziati;
3 la tipologia di valutazione realizzata dalla BEI, che prende in considerazione quasi
esclusivamente criteri economici. Questo deriva anche dal suo statuto e infatti
spesso ci rispondono “ma noi siamo una Banca e quindi come Banca ci dob-
biamo comportare”, però loro fanno sviluppo per cui oltre ad essere una Banca
dovrebbero tenere in considerazione il fatto che si fregiano del marchio di tutto un
settore che fa sviluppo. È una contraddizione molto grossa che deriva soprattutto
dal fatto che la Banca non ha risorse adeguate per fare questo tipo di lavoro, non
è attrezzata per agire come Banca di sviluppo però lo fa, e con tante risorse;
4 gli scenari futuri, in particolare la grossa opportunità che deriva dalla Mid-Term
review. Quando nel settembre 2006 è stato rinnovato il mandato esterno non tutti i
paesi avevano la stessa opinione sulla sua necessità e sulla rilevanza che avrebbe
dovuto avere, per cui fu approvato con la condizionalità di realizzare a metà per-
corso una valutazione per decidere di un eventuale o meno rinnovo per il periodo
successivo (2014 - 2020). Il processo della Mid-Term review è già cominciato, si
svolgerà l’anno prossimo ma si inserisce in un quadro di grandi cambiamenti a
causa dalla crisi finanziaria che sicuramente sta orientando l’interesse degli Stati
membri verso l’interno. Da tempo circolano voci su una possibile fusione tra la
Banca Europea per gli Investimenti e la Banca Europea per la Ricostruzione e lo
Sviluppo, che è una seconda istituzione europea che però vede anche la parteci-
pazione di altri Paesi come gli Stati Uniti e il Giappone, ed era nata per sostenere
la transizione democratica dei Paesi dell’ex Unione Sovietica ed ora sta vivendo
una crisi rispetto al suo mandato e alla sua mission. Questa ipotetica fusione cosa
potrebbe generare? Una Banca Europea di Sviluppo? La domanda resta aperta.
Per concludere, un’altra domanda che ci stiamo ponendo: il mandato esterno della
BEI è riformabile? E se non lo è servono nuovi strumenti? È un tema dibattuto all’in-
terno della campagna Counter Balance promossa alle organizzazioni che in Europa
lavorano per la riforma della BEI.

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3$648$/('(0852
FACOLTÀ DI ECONOMIA, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI ROMA TRE

Come avrete avuto modo di leggere e sentire, il commercio è un punto fisso nel-
l’agenda dello sviluppo internazionale: non ne parlano soltanto le istituzioni di Bretton
Woods ma anche il WTO, l’Unione Europea, e ne parlano molto anche le ONG. Pos-
siamo dire che ormai c’è un consenso internazionale liberista sul fatto che bisogna
necessariamente parlare di commercio quando si parla di sviluppo, e i negoziati del
WTO ne sono un triste esempio. Purtroppo anche molte ONG, non tutte per fortuna,
sono cadute in questa trappola, anche grazie all’aiuto di cantanti rock che hanno
iniziato a dire “trade not aid” oppure “more trade than aid” e questo naturalmente
ha rafforzato il consenso liberista. Del resto anche l’Unione Europea si è accodata:
come diceva Joyce Haarbrink si parla molto di poverty eradication e di obiettivi del
millennio, ma in realtà al di là della retorica emerge sempre più l’interesse a sviluppare
i rapporti commerciali piuttosto che le vere e proprie politiche di sviluppo. Da qui l’aid
for trade piuttosto che il trade for aid, come se il commercio fosse un obiettivo e non
uno strumento di sviluppo.
Da questo punto di vista non mi meraviglio che un economista come Paul Krugman
abbia avuto il premio Nobel: infatti anche se liberal, è fortemente liberista e dunque in
linea con questo consenso internazionale, che condiziona anche la UE. Infatti, anche le
altre politiche UE molto spesso sono state, in un certo senso, ridimensionate per rispet-
tare questo consenso liberista. Ad esempio, per favorire il commercio è stata ridefinita
la politica agricola, che per quanto molto criticabile è stata una politica di sviluppo che
negli anni Sessanta ha consentito all’Europa di raggiungere obiettivi importanti anche in
termini di condizioni di vita nelle campagne. Successivamente, la politica agraria euro-
pea è degenerata in vista di un adeguamento alle esigenze commerciali, che sono così
diventate non uno strumento di sviluppo ma un vero e proprio obiettivo politico.
Molte persone ancora pensano, come diceva giustamente Franco Conzato, che
grossa parte dello sviluppo sia dovuto al commercio.
Il grafico 1 (pagina a fianco) intende rappresentare, seppur in maniera imperfetta, una
delle relazioni possibili tra commercio e sviluppo. Per sviluppo intendo naturalmente
non la crescita del Pil ma lo sviluppo umano che in questo grafico è misurato dall’HDI
(Human Development Index), un indicatore molto approssimativo ma comunque
migliore del Pil e che trovate sull’asse verticale, mentre su quello orizzontale abbiamo
il peso delle esportazioni nel Pil. Naturalmente le esportazioni non si possono inserire
come valore assoluto, ma è meglio considerarle in percentuale sul PIL, in modo da
avere il grado di apertura commerciale del paese. Si potrebbero prendere anche altre
variabili per misurare questa apertura, ad esempio gli investimenti diretti esteri o i
movimenti di capitale, però per brevità ho scelto le esportazioni che sono un elemento
sicuramente importante e significativo di cui sono disponibili i dati.
Dal grafico emerge quello che pochi sanno: in realtà i paesi più aperti sono i paesi

56
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

Grafico 1 * TRADE AND DEVELOPMENT

più poveri, che sono dunque più aperti dei paesi ricchi. Con che coraggio si chiede
ai paesi poveri di aprirsi ulteriormente? I tre punti rossi nella parte bassa, LDC, SSA e
LHD indicano rispettivamente i less developed countries, che secondo le definizioni
ufficiali sono i paesi con il più basso reddito pro capite, i paesi dell’Africa Sub Saharia-
na e i paesi a low human development. Si vede quindi chiaramente che i paesi meno
sviluppati non sono paesi chiusi, anzi, come potrebbe dire qualche marxista, sono
“extravertiti”. A destra ci sono molti paesi poveri come Angola e Ciad che hanno dei
gradi d’apertura molto alti, mentre i paesi più ricchi del mondo, come il Giappone o
gli Stati Uniti, sono in alto a sinistra con un altissimo livello di sviluppo umano e una
relativa chiusura rispetto al commercio internazionale, sebbene in valore assoluto le
loro esportazioni siano molto elevate - è infatti fondamentale valutare il dato in re-
lazione al Pil. Naturalmente ci sono anche Paesi come quelli dell’Asia orientale che
sono in alto a destra (alto sviluppo umano con alto grado di apertura). Tuttavia, quello
che in conclusione si vede da questo grafico è che non esiste una relazione univoca
chiara, positiva, esplicita tra l’aumento del grado di apertura e l’aumento dello svilup-
po. Nessuno è ancora riuscito a dimostrarlo, se non alcuni modelli astratti di qualche
economista liberista.
Questi economisti liberisti sono comunque molto bravi a diffondere le loro idee
pseudo-scientifiche ed è per questo che stanno vincendo la battaglia culturale e poli-
tica. Vi direbbero di certo che se voi aprite la vostra economia al commercio nel lungo
periodo si vedranno sicuramente i benefici e ci sarà sviluppo. Possiamo smontare
anche questo luogo comune, con un altro grafico, simile a quello precedente, ma
costruito in senso dinamico.

57
*UDILFR * TRADE AND DEVELOPMENT: 1990-2005

Con i dati del 1990 e del 2005 ho fatto un grafico (sopra) per vedere se dopo 15 anni
i Paesi che si erano aperti avevano ottenuto un incremento nello sviluppo umano. Il
risultato smentisce quello che dicono i liberisti. In alto a sinistra nel grafico 2 vedete
un gruppo di paesi, fra cui ho segnato solo la Mauritania, che hanno avuto un aumento
dello sviluppo umano e una riduzione dell’apertura commerciale. In basso a destra
invece i paesi, tra cui ho segnato Zimbabwe, Swaziland, Lesotho, Tagikistan, Ucrai-
na, che hanno avuto un aumento del commercio internazionale sul Pil molto forte,
anche del 20-30%; per esempio l’Ucraina, che non è un paese in via di sviluppo, ha
avuto un altissimo aumento delle esportazioni, il 25%, eppure ha avuto una riduzione
dell’indice di sviluppo umano. Poi ci sono tutti quei paesi che hanno dovuto aprirsi
per via degli accordi commerciali, grazie anche all’insistenza delle organizzazioni di
Bretton Woods, e che hanno avuto sicuramente un incremento di sviluppo grazie an-
che al commercio. Non intendo negare che il commercio possa eventualmente anche
sostenere lo sviluppo, ma vorrei ricordare che fortunatamente non è l’unico modello
di sviluppo che abbiamo a disposizione. Ci sono diverse strade per lo sviluppo, e na-
turalmente anche il commercio internazionale può avere un ruolo positivo, ma non è
detto che tutti i casi abbiamo dei buoni risultati. Dovremmo quindi considerare il com-
mercio uno strumento tra gli altri, non il più efficace e nemmeno quello prioritario.
La crisi alimentare conferma esattamente questo. Del resto, i dati che ho presentato
non sono gli unici a dimostrare l’incertezza dei benefici del commercio: nella lettera-
tura accademica gli economisti liberisti utilizzano modelli matematici sofisticati, come

58
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

ad esempio i Computable General Equilibrium Model, che non riescono a dimostrare


univocamente che una liberalizzazione commerciale generalizzata in campo agricolo
darebbe risultati positivi per tutti i paesi in via di sviluppo. Infatti, le stime ottenute in
questo modo sono molto contraddittorie: alcuni studiosi giungono alla conclusione
che i paesi in via di sviluppo ne trarrebbero vantaggio, e altri invece affermano esat-
tamente il contrario: un tale disaccordo scientifico impedisce di poter affermare con
certezza che la liberalizzazione del commercio agricolo aiuti lo sviluppo dei paesi più
poveri.
Ciò può avvenire soltanto in alcuni casi specifici, in presenza di alcune determinate
circostanze, come ad esempio la competitività dei piccoli produttori locali.
In questa battaglia culturale sul ruolo del commercio internazionale, credo che il
ruolo della società civile sia fondamentale e che il nostro principale compito in questa
fase di consenso liberista dominante sia proprio fare questa controinformazione. Da
questo punto di vista è necessaria un’alleanza tra società civile e mondo della ricerca
per capire insieme i meccanismi, studiarli e fare in modo di smontare il paradigma
dominante secondo cui il commercio è lo strumento migliore per favorire lo svilup-
po. Bisogna decostruire questo paradigma, che in questi anni è stato vincente e ha
guidato tutte le politiche economiche, non soltanto delle istituzioni di Bretton Woods
ma anche dell’Unione Europea, che di fatto hanno perseguito l’ampliamento delle
relazioni commerciali come canale privilegiato di cooperazione internazionale. L’altro
nostro compito strategico, oltre a questa battaglia culturale, è tessere alleanze con la
società civile del Sud, con i piccoli agricoltori del Sud, per discutere insieme di questi
problemi, come ad esempio sta facendo da qualche anno la campagna “EuropAfri-
ca”. In particolare, nel caso delle politiche agricole, mettere insieme organizzazioni
del Sud e organizzazioni del Nord è fondamentale. Infatti, uno dei corollari liberisti è
“meno protezione all’agricoltura del Nord a favore dello sviluppo dell’agricoltura del
Sud”. Tuttavia, se discutete con le associazioni dei produttori agricoli africani, potrete
verificare che gli agricoltori del Sud non chiedono lo smantellamento delle politiche
agricole del Nord, ma desiderano piuttosto poter avere anche loro politiche agrarie
che favoriscano lo sviluppo delle campagne. Queste politiche nei decenni preceden-
ti sono state smantellate attraverso l’aggiustamento strutturale e la liberalizzazione.
Proprio nell’attuale fase di crisi agricola queste politiche sarebbero state fondamentali
anche per combattere la fame, che abbiamo visto essere un fenomeno soprattutto
rurale. Pertanto, è necessario che i paesi in via di sviluppo siano in condizione di per
poter disegnare e attuare le loro politiche di sviluppo, soprattutto in ambito rurale,
senza dover chiedere il permesso al WTO e senza subordinarle alle politiche com-
merciali. Sono piuttosto le politiche commerciali che vanno subordinate alle politiche
di sviluppo.
Un’altra parola magica inventata dagli economisti liberisti è “distorsivo”: le politiche
agricole sarebbero distorsive dei mercati e della concorrenza internazionale. In realtà,

59
non sono le politiche agrarie ad essere distorsive dei mercati, bensì è il commercio ad
essere distorsivo dello sviluppo. Le politiche agrarie possono promuovere lo sviluppo,
se per esempio prevedono il sostegno agli agricoltori, facilitando l’accesso al mer-
cato, stabilizzando i prezzi, favorendo l’accesso a tecnologie sostenibili o fornendo
assistenza tecnica: queste sono politiche di sviluppo. E se ciò è impedito da accor-
di internazionali di carattere commerciale, sono gli accordi internazionali ad essere
distorsivi, non le politiche agricole. Lo stesso discorso vale per i nostri agricoltori:
la politica agricola comune, nonostante vada riformata e rivista, è un fondamentale
strumento di sviluppo rurale in Europa e non possiamo rinunciarvi. Allo stesso modo i
paesi del Sud non possono rinunciare alle politiche economiche e sociali che in que-
sti anni sono state sacrificate per non creare distorsioni nei flussi di commercio. Al
contrario: i flussi di commercio devono essere regolati (cioè distorti) se ostacolano lo
sviluppo. A questo proposito vorrei chiudere con una citazione di colui che secondo
me è il più grande economista del Novecento: John Maynard Keynes. Egli scrive nel
1933, all’indomani della grande crisi del ‘29, in una situazione molto simile a quella
attuale: “Sono più d’accordo con quelli che vorrebbero ridurre l’intreccio economico
tra le nazioni che con quelli che lo estenderebbero. Idee, conoscenza, arte, ospita-
lità, viaggi, migrazioni: queste sono le cose che dovrebbero essere internazionali.
Cerchiamo però di far sì che i beni vengano prodotti al proprio interno quanto più
ragionevolmente e convenientemente possibile e soprattutto che la finanza sia essen-
zialmente nazionale”.
La nostra sfida sta quindi nell’essere keynesiani senza essere protezionisti. Non
penso che sia difficile né impossibile ed è questo il nostro compito.

60
TERZA SESSIONE

LA COOPERAZIONE ITALIANA
Con la terza e ultima sessione ci siamo interrogati su come la cooperazione italiana
SRVVD ULVSRQGHUH DL FDPELDPHQWL LQ DWWR VHQ]D VFRPSDULUH VRWWR LO SHVR GHL WDJOL ¿-
nanziari e senza essere piegata ad altri obiettivi di politica estera. Mani Tese si chiede
costantemente quale sia il ruolo che come soggetto di cooperazione deve assumere in
relazione alle dinamiche internazionali in costante evoluzione. Oggi lo scenario è carat-
terizzato dalle crisi di cui abbiamo analizzato le cause nelle prime sessioni: la coopera-
zione può essere la risposta?
In questa sessione, coordinata da Angela Comelli - coordinatrice di Mani Tese -, ab-
biamo avuto il contributo di Franco Conzato, della Direzione generale Sviluppo della
Commissione Europea, Marco Baccin, Min. Plen. Direzione Generale Cooperazione allo
Sviluppo, Ministero Affari Esteri, Andrea Stocchiero di CESPI, Sergio Marelli, presiden-
te dell’associazione ONG italiane, Theophile Kaboré, di Kibaré, associazione partner di
Mani Tese in Burkina Faso e Benin, Luciano Rocchetti, responsabile settore solidarietà
internazionale della Provincia Autonoma di Trento, Fabio Pipinato, rappresentante de
“La carta di Trento per una migliore cooperazione”.

FRANCO CONZATO
DIREZIONE GENERALE SVILUPPO COMMISSIONE EUROPEA

Come anticipato nella precedente sessione, sicuramente in ambito europeo la so-


cietà civile e le organizzazioni non governative rivestono un ruolo fondamentale nel
processo di formazione delle politiche sullo sviluppo, ma dobbiamo tenere presente
che questo avviene in un quadro preciso di rapporti istituzionali complessi. Nel con-
testo europeo la Commissione si rapporta con organizzazioni che rappresentano le
ONG, che sono dette umbrella organisation, per cui la base di partenza è solida anche
se sicuramente si può fare di più in termini di advocacy. Ad esempio Eurodad, rap-
presentata nella sessione precedente da Alex Wilks, ha fatto un lavoro molto preciso
e puntuale sulla questione del debito, arrivando a essere uno degli interlocutori im-
portanti della Commissione, e influenzando il contenuto finale di documenti preparati
dalla Commissione.
Ci stiamo chiedendo per prima cosa se la cooperazione italiana è in grado di af-
frontare l’attuale scenario globale e le sfide che questo pone, di conseguenza quali
sono i suoi punti di forza e di debolezza e infine se ha gli strumenti per incidere in
particolare sul problema della sicurezza alimentare. Per rispondere ai primi due inter-
rogativi, ho cercato di usare tre lenti. La prima è quella dell’OCSE, un’organizzazione
internazionale conosciuta anche come l’organizzazione dei paesi ricchi - ma sarebbe
più corretto dire industrializzati perché comprende paesi come la Turchia e il Messi-
co - che ha sede a Parigi ed è composta da 30 paesi più la Commissione Europea,
che è associata ai lavori dell’organizzazione. All’interno dell’OCSE, il comitato DAC

64
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

si occupa in particolare degli aiuti allo sviluppo. Non tutti i paesi membri dell’OCSE
sono membri del DAC, che conta 22 aderenti più la Commissione, e non tutti i paesi
dell’Unione Europea sono o membri dell’OCSE o del DAC, il che rende bene l’idea di
come ci troviamo di fronte a un sistema di relazioni abbastanza complicato.
La seconda lente che userò è quella dell’Unione europea, all’interno della quale è in
corso un importante dibattito tra i paesi membri su quali politiche avanzare e in par-
ticolare sul tema della valutazione degli accordi di Monterrey. Nel 2002 a Monterrrey
(Messico) si è svolta una conferenza internazionale delle Nazioni Unite, che ha pro-
dotto il Consenso di Monterrey che prevede un impegno dei donatori ad aumentare i
fondi d’aiuto laddove i paesi beneficiari si impegnano a sostenere politiche pubbliche
ispirate da criteri di efficienza ed efficacia. La Commissione monitora il rispetto degli
impegni presi dai paesi membri cosi come sono stati enunciati dal Consiglio Euro-
peo.
Infine, la terza lente è quella di un istituto di ricerca americano, il Center for global
development che pubblica periodicamente un Development index che cerca di mi-
surare le realizzazioni nell’ambito dell’aiuto; proprio tra pochi giorni, il 12 novembre,
verrà presentata a Parigi la versione 2008. Il Development index raggruppa e classi-
fica i 22 paesi del DAC attraverso sette categorie che sono l’aiuto, il commercio, gli
investimenti, la migrazione, l’ambiente, la sicurezza e la tecnologia. L’indice analizza
la performance rispetto a tutte le sette categorie ma anche rispetto ad ognuna di
esse, per cui dall’analisi emerge come alcuni paesi avanzano o retrocedono all’interno
delle differenti categorie. Nell’indice aggregato l’Italia si posiziona al terzultimo posto
davanti a Grecia e Giappone, e va un po’meglio per quanto riguarda l’aiuto, in cui
precede paesi importanti come la Germania e gli Stati Uniti. L’indice evidenzia che il
nostro aiuto rimane debole soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra aiuti allo svi-
luppo - ODA, Official Development Assistance - e il prodotto interno lordo. Secondo i
dati DAC, 2007, il rapporto per quanto riguarda l’Italia è dello 0,19%, valore al di sotto
della media DAC -che è 0,28- e anche al di sotto della media UE che è 0,39. Sono
parametri importanti che non devono però portarci a conclusioni affrettate, anche se
è innegabile che l’Italia rimane indietro rispetto all’obiettivo dello 0,7% definito dalle
Nazioni Unite. Il nostro Governo si è però pubblicamente impegnato a migliorare, e lo
ha fatto non solo in sede europea, in cui si è prefissato di arrivare a 0,51% nel 2010
e a 0,7% nel 2015, ma anche in sede di G8 - che come sapete comprende i 7 paesi
più industrializzati, più la Russia e la Commissione Europea. Questi impegni sono
stati sottoscritti sia dal governo Prodi sia dal governo Berlusconi, quindi si potrebbe
pensare ad una buona base di partenza per una convergenza bipartisan sul tema. In
realtà l’Italia si era già impegnata nel 2002 a Barcellona a portare l’aiuto allo 0,33%
per il 2006, ma purtroppo questo obiettivo non è stato ancora raggiunto. Sono dati
importanti per la società civile, perché le offrono uno strumento per confrontare il
Governo nel rispetto dei suoi propri obiettivi. Ricordiamo anche che sono stati presi

65
degli impegni concreti nei confronti dell’Africa, laddove la metà dei prossimi aumenti
di aiuto dovrebbero essere destinati a questo continente.
Una prima conclusione è che se il nostro paese vuole rimanere un partner credibile
nella discussione sulle sfide globali, deve mantenere gli impegni presi. Potrebbe non
essere la condizione sufficiente, perché bisogna discutere anche sulla qualità dell’aiu-
to, ma sicuramente è la condizione necessaria.
Il DAC ha fatto delle simulazioni per verificare quanto stanziamento sarebbe neces-
sario entro il 2010 per raggiungere l’obiettivo dello 0,51%, e si tratta di cifre molto im-
portanti che implicano uno sforzo di bilancio davvero rilevante per l’Italia. Non siamo
però gli unici in questa situazione: ci sono altri paesi del DAC, tra cui la Germania, che
si sono impegnati con gli stessi parametri e che hanno lo stesso problema sul piano
del bilancio. L’Italia dovrebbe più che raddoppiare il suo contributo, ma per tutti i paesi
DAC si parla di un aumento di circa il 40% e quindi di un impegno notevole. Difficile
quando , in più, ci si trova ad affrontare la più grave crisi finanziaria ed economica dal
secondo dopoguerra.
La Commissione europea continua nei sui documenti a ricordare agli Stati membri
gli impegni presi, e il segretario generale dell’OCSE ha da poco inviato una lettera ai
capi di stato dei 30 paesi membri dell’OCSE chiedendo loro di onorare gli stessi im-
pegni. Le pressioni ci sono, ma non è per nulla scontato che i Governi nazionali reagi-
ranno, per cui la società civile ha qui un ruolo di advocacy fondamentale nel ricordare
ai Governi che questi impegni sono stati presi nei confronti dei paesi più poveri, i quali
non hanno nessuna responsabilità per la crisi finanziaria ed economica.
All’Italia è riconosciuto un ruolo importante nelle discussioni internazionali in ma-
teria di finanziamento innovativo, in particolare per il contributo dato alla discussione
sulla realizzazione dell’International finance facility for immunisation e a quella sulle
tasse solidali, un tipo di strumento fiscale di cui si parlerà anche a Doha. A Roma
c’è stato il lancio del Advance Market Commitments for Vaccines e anche in questa
occasione l’Italia ha ricoperto un ruolo importante insieme ad altri paesi nel finanziare
interventi in ambito sanitario.
Anche sull’efficacia dell’aiuto i nostri partner ci riconoscono un ruolo importante.
Roma aveva ospitato nel 2003 il primo forum sull’armonizzazione degli aiuti che poi è
proseguito con le dichiarazioni di Parigi del 2005 e con il piano di azione di Accra nel
2008. I dati più recenti sull’efficacia dell’aiuto non sono pero favorevoli e mostrano una
tendenza al ribasso. Si deve aggiungere che l’attuazione delle dichiarazioni di Parigi
e Accra implica impegni complessi con investimenti importanti nella struttura delle
agenzie d’aiuto che limitano i risultati nel breve periodo. Secondo la survey dell‘OC-
SE citata in precedenza, l’Italia dovrebbe investire maggiormente nell’allineamento
(alignment) alle procedure del paese beneficiario. La Commissione, da parte sua, ha
chiesto a tutti i membri di impegnarsi a fondo e produrre in tempi accettabili una road
map che permetta di monitorare gli impegni che scaturiscono dalla sottoscrizione

66
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

delle Dichiarazioni di Parigi e Accra.


Uno strumento essenziale per seguire l’evoluzione delle politiche di aiuto di uno Sta-
to è la Peer review dell’OCSE che viene realizzata ogni 4 anni. La Peer Review , è un
esercizio di valutazione delle politiche di cooperazione condotto dagli altri donatori.
Ha quindi il vantaggio di non essere percepito come un “audit”, mero controllo proce-
durale, ma di essere un momento importante di verifica e dialogo sulle politiche e la
loro efficacia e efficienza. Tra gli elementi che emergono dalla Peer review dell’Italia
mi sembra importante mettere in luce che la cooperazione italiana si muove tuttora
senza una visione strategica e questo è vero sia per la cooperazione bilaterale sia per
la cooperazione multilaterale. La cooperazione multilaterale è principalmente diretta
dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e secondo il DAC rappresenta circa il 50%
dell’aiuto italiano al netto del debt relief, la cancellazione del debito, mentre al lordo
raggiungiamo il 70%. Questo significa che l’aiuto italiano per il 70% (circa 1,6 milioni
di Euro nel 2007) usa il sistema multilaterale come principale modalità di intervento
della propria politica. La media del DAC è molto più bassa, intorno al 30%. Se i dati
forniti dal DAC nel 2006 sono ancora validi, la struttura centrale dell’unità tecnica del
Ministero degli Esteri ha un numero di esperti che è inferiore alla stessa struttura in
Lussemburgo. Il DAC ha mostrato questo elemento perché fa emergere la sfida or-
ganizzativa che l’Italia dovrà affrontare se vuole avvicinarsi agli Stati più influenti in
materia di cooperazione.
Il DAC segnala che scontiamo questa mancanza di un quadro legislativo compiuto
anche in termini di sostenibilità ed efficacia del nostro aiuto, e suggerisce un ap-
proccio più concentrato, meno dispersivo e orientato verso i risultati piuttosto che la
mera provvista di input. Si tratta di un passaggio metodologico importante, che altre
Agenzie dei paesi DAC, europei e non, hanno dovuto affrontare: il caso più recente è
quello della Spagna. A riguardo segnalo che fino a 5-6 anni fa l’Italia era al 4° posto tra
i donatori DAC, mentre ora è al 9° posto, superata da Spagna, Svezia, Olanda, ossia
paesi con risorse in termini di GDP inferiori a quelle italiane.
Per passare all’ultima questione, la risposta all’attuale crisi alimentare, penso che
la cooperazione non solo può, ma deve dare una risposta. Sul piano sostanziale l’ap-
proccio, e qui mi riferisco solo a quello europeo che quindi include il contributo italia-
no, è di rinforzare la produzione agricola in previsione di un aumento della domanda
di beni alimentari, fatto che sembra accertato. Nel breve termine, sicuramente si tratta
di rispondere agli effetti immediati della crisi che secondo le stime della Commissione
ammontano a circa 18 miliardi di Euro. Il contributo della Commissione è pari a circa il
10 per cento, 1,8 miliardi di Euro, da erogare nel corso del 2009 e 2010. Una parte im-
portante di questi interventi sono sicuramente ascrivibili all’aiuto umanitario, mentre
altri sono orientati al rilancio della produzione con interventi di riabilitazione di sistemi
di irrigazione e la fornitura di sementi e fertilizzanti. Sono previsti inoltre misure di tipo
“sociale” da fornire in ambito rurale. Il problema più complicato si pone sul lungo pe-

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riodo, dove ancora una volta torna preponderante la questione delle politiche e della
loro coerenza perché saranno coinvolte non solo le politiche commerciali ma anche
la politica agricola comune, incluse questioni legate all’uso degli OGM, che in ambito
europeo è tuttora fonte di tensioni politiche tra i paesi membri.
Ancora una volta non ci sono risposte immediate, ma è importante tenere ben pre-
sente la dinamica tra breve e lungo periodo e considerare con particolare attenzione,
come società civile, la possibilità di influenzare le politiche di lungo periodo.

MARCO BACCIN
MIN. PLEN. DIREZIONE GENERALE COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO,
MINISTERO AFFARI ESTERI

Vorrei portare alcune considerazioni sullo stato della cooperazione allo sviluppo
italiana che spero possano essere utili nella discussione su alcune questioni centrali
emerse, e cioè se la cooperazione allo sviluppo è in grado di affrontare le sfide e le
crisi globali, qual è il ruolo dei differenti attori, in particolare della cooperazione de-
centrata e della società civile, e qual è il collegamento con gli obiettivi del millennio.
Ci sono alcuni, e purtroppo non sono pochi, che credono che nell’attuale quadro
di crisi finanziaria ed economica e di difficoltà di bilancio, che colpisce praticamente
tutti i paesi seppur in maniera diversa, si renda in qualche modo inattuale, impratica-
bile il discorso sulla cooperazione internazionale, tanto da doverlo rimandare a tempi
più favorevoli e meno difficili sul piano economico e finanziario. Mi sembra una logica
che sottende un approccio assistenziale della cooperazione, che la intende come
beneficenza: se il portafoglio è più o meno pieno si può fare, altrimenti si rimanda a
tempi migliori, come se fosse un optional. Io non credo che debba essere così, anzi
credo che proprio le crisi che si stanno sommando e intrecciando - energetica, ali-
mentare, economico-finanziaria, ma anche la crisi di governance internazionale - in
realtà rendono ancora più necessaria una politica seria ed efficace di aiuto pubblico
allo sviluppo, se non altro perché le crisi colpiscono di più e prima di tutti i più deboli
e i più poveri.
La realtà, come è stato detto in molte occasioni, è che per la prima volta esiste-
rebbero i mezzi e le possibilità per debellare o quantomeno affrontare seriamente
ed efficacemente la fame e la povertà. Tuttavia, cresce invece il divario Nord-Sud e
sembra anche allontanarsi la possibilità di raggiungere gli obiettivi del millennio nel
2015, come risultato evidente anche nel recente vertice di New York organizzato dalle
Nazioni Unite. Credo non si possa negare che la causa di fondo di questa situazione
così insoddisfacente sia l’insufficiente impegno dei Governi, nonostante le promesse
solenni reiterate in moltissime occasioni. La cooperazione allo sviluppo non viene as-
sunta dai Governi come una priorità politica: proprio in occasione del vertice di New
York a cui accennavo, il Presidente dell’Assemblea Generale D’Escoto ha ricordato a
tutti che per ogni dollaro speso per la cooperazione allo sviluppo, ce ne sono dieci

68
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

dedicati alle spese militari. Manca insomma la consapevolezza che la cooperazione


allo sviluppo non è solo un dovere morale e una questione etica, per quanto impor-
tante, ma che è un interesse fondamentale di tutti se vogliamo arrivare ad avere un
mondo più giusto - che sarebbe anche un mondo più sicuro e un mondo più stabile.
Allo scopo però andrebbero cambiati il tipo di approccio e le priorità seguite finora:
la cooperazione internazionale non deve essere solo solidarietà ma deve costituire
in qualche modo un vero e proprio laboratorio di pratiche, di iniziative economiche,
giuridiche e culturali mirate alla convivenza tra i popoli e tra i paesi.
L’aspetto della coerenza delle politiche è fondamentale e in Italia non coinvolge solo
il Ministero affari esteri, ma anche tutta una serie di attori che ancora oggi agiscono
in maniera disarticolata nel campo della cooperazione allo sviluppo: varie ammini-
strazioni pubbliche, vari ministeri e il loro rapporto con la società civile e gli enti locali
coinvolti nella cooperazione decentrata. Concordo sul fatto che l’aiuto pubblico allo
sviluppo deve essere inserito, razionalmente e funzionalmente, in un quadro di coe-
renza globale che comprende la cancellazione del debito, la questione degli investi-
menti, le forme innovative di finanziamento, la riforma del commercio internazionale,
un maggior ruolo della cooperazione decentrata e un suo miglior raccordo, ma anche
la questione delle cooperazioni triangolari con le economie emergenti e lo slegamento
degli aiuti.
Oggi è in corso a livello internazionale, come ricordava Franco Conzato, una discus-
sione sulla cooperazione allo sviluppo che coinvolge i due aspetti di fondo, quantitati-
vo e qualitativo, che sono poi naturalmente collegati fra loro. Sull’aspetto quantitativo
esistono tutta una serie di parametri che corrispondono ad impegni internazionali
assai scarsamente rispettati, perché ad oggi sono in regola esclusivamente i paesi
scandinavi, il Lussemburgo e l’Olanda. Il tema del finanziamento dello sviluppo verrà
affrontato nel corso delle prossime settimane a Doha, appuntamento che segue le
conferenze di New York del 2000 e di Monterrey del 2002. Per gli aspetti qualitativi ad
Accra è stata stabilita recentemente un’agenda e in quell’occasione la discussione si
è focalizzata sulla ownership, e cioè la capacità dei paesi beneficiari degli aiuti di sta-
bilire le proprie linee di sviluppo, sulla questione del coordinamento degli attori della
cooperazione, e quindi fra paesi ma anche fra le diverse tipologie di attori - governi,
società civile, ONG, enti locali -, sulla trasparenza e la programmazione degli aiuti, sul
ruolo della società civile e su altre questioni come la divisione del lavoro che è in corso
nell’ambito dell’Unione Europea.
Aspetto quantitativo e aspetto qualitativo sono anche i due poli della discussione
in corso sulla cooperazione allo sviluppo italiana. Sull’aspetto quantitativo, come già
ricordava Conzato, la situazione è tutt’altro che soddisfacente, anche se il nostro pae-
se si è impegnato chiaramente, a più riprese e in diversi fori, a raggiungere alcuni di
quei parametri che dovevano essere lo 0,33% del Prodotto Interno Lordo nel 2006,
lo 0,51% nel 2010 - e questo era anche un impegno europeo - e lo 0,7% nel 2015.

69
In realtà nel 2007 il dato era fermo allo 0,19%, per il 2008 dovrebbe essere lo 0,2%
ma possiamo già anticipare, visto che ci sono le previsioni di spesa, che il dato del
2009 ci riporterebbe allo 0,1% con una diminuzione dei fondi per la cooperazione
allo sviluppo - io mi riferisco a quelli che vengono assegnati al Ministero degli Affari
Esteri, che servono per la cooperazione multilaterale, quindi contributi volontari per
le agenzie delle Nazioni Unite e non solo, e per la cooperazione bilaterale, quindi per
la collaborazione con le ONG. Ancor più grave è il fatto che queste proiezioni sono
triennali e parlano già di un incremento per il 2010 di circa 10 milioni di Euro, seguito
però nel 2011 da un ulteriore taglio di circa 100 milioni di Euro. In termini monetari e
non percentuali, vediamo che l’assegnazione per la Direzione Generale della coope-
razione allo sviluppo nel 2006 era stata di 392 milioni di Euro, nel 2007 si era passati
a 647 milioni di Euro e nel 2008 a 732, per cui c’era una linea di tendenza positiva,
seppur chiaramente del tutto insufficiente rispetto agli impegni assunti e ai parametri
citati; nel 2009 però il taglio riporterebbe a 320 milioni di Euro.
Questo quadro è naturalmente del tutto insoddisfacente. È vero che non sono tempi
facili, ci sono il problema del deficit di bilancio e la crisi finanziaria, ma è anche una
questione di decisioni politiche e di definizione di priorità, e su questo io credo che la
società civile abbia un ruolo importante nel chiedere un diverso orientamento, una di-
versa scala di priorità da parte del Governo e di chi decide la finanza pubblica. Perché
per quanto possano avere un senso i discorsi che si fanno oggi sulla razionalizzazione
della spesa, sul maggior ruolo che deve avere la cooperazione decentrata e anche su
un possibile apporto da parte del settore privato, io credo che tutto questo non possa
diventare sostitutivo dell’aiuto pubblico allo sviluppo, imprescindibile anche perché si
possa parlare di efficacia dell’aiuto. Questo tema ci creerà qualche difficoltà in am-
bito G8, quando l’anno prossimo l’Italia avrà la presidenza, perché quello che viene
chiamato il G8 sviluppo ha oggi una importanza crescente e quindi il nostro paese
dovrà cercare di arrivarci almeno con le carte un po’ meno scombinate di come sono
adesso.
Una situazione così pesante comincia a dare segnali di insostenibilità, tanto che
si è costituito un gruppo interparlamentare su cooperazione e sviluppo e lotta alla
povertà, che ha intenzione di fare un’azione di lobby in Parlamento a favore di ulteriori
stanziamenti e di un approccio più attento ai temi della cooperazione. Esistono già
due iniziative, da una parte un emendamento alla finanziaria presentato dal Senatore
Pianetta che prevede aumenti delle imposte sul tabacco che sembrerebbe poter dare
altri 250 milioni di Euro per la cooperazione, dall’altra il sottosegretario Scotti ha pro-
posto di destinare alla cooperazione una parte del rientro del debito argentino, e si
tratterebbe di altri 200 milioni di Euro. Se questo avvenisse, si ritornerebbe ai volumi
del 2008. Aumentare i fondi per la cooperazione e perdere questo quasi primato ne-
gativo sarebbe importante, però forse serve un approccio meno episodico a tutta la
questione, che possa permettere di dare più garanzie e più stabilità a tutto il discorso

70
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

sulla cooperazione. Anche gli stessi Stati generali della cooperazione e della solida-
rietà che si sono riuniti a Roma hanno fatto un forte richiamo in questo senso.
E poi c’è l’aspetto qualitativo, e non me la sento di dare del tutto torto a Conzato
quando sostiene che manca una strategia della cooperazione allo sviluppo italiana.
Come sapete, la cooperazione allo sviluppo è regolata dalla legge n.49 del 1987, che
era, e per certi aspetti è ancora, uno strumento valido, ma certamente datato. Questa
legge stabilisce una cosa importante quando dice che la cooperazione allo sviluppo
è parte integrante della politica estera; credo però che non voglia intendere che è uno
strumento della politica estera, ma che è un fattore che deve “contaminare” la politica
estera con i suoi valori specifici di solidarietà, partecipazione, pace e diritti.
Oggi è avvertita la necessità, proprio per garantire alla cooperazione italiana una
maggiore qualità e una maggiore funzionalità, di rivedere e attualizzare la legislazione
in merito. Nella passata legislatura era stato presentato un disegno di legge-dele-
ga - che aveva fra l’altro completato il suo iter ma poi la legislatura si è interrotta
abbastanza improvvisamente - con alcuni principi importanti, tra cui l’unitarietà del-
la cooperazione allo sviluppo, che ricondurrebbe al Ministero degli affari esteri non
solo la decisione sulle linee politiche di cooperazione allo sviluppo ma anche quasi
completamente la gestione dei fondi, il discorso del fondo unico, un maggior ruolo
della società civile e della cooperazione decentrata e un diverso rapporto coi paesi
beneficiari. Si proponeva anche la costituzione di un’agenzia, ossia, fermo restando
al Ministero degli affari esteri l’elaborazione delle linee politiche di cooperazione allo
sviluppo, la creazione di un organismo operativo esecutivo sul piano delle iniziative
concrete, progettuali di cooperazione allo sviluppo; un ente autonomo che, seppur
fortemente collegato al Ministero degli affari esteri per non perdere la coerenza fra la
politica e la sua esecuzione, fosse in grado di assicurare funzionalità con procedure
diverse, più snelle, più flessibili. Bisognerà vedere se nella nuova legislatura potrà
essere ripreso.
Inoltre è venuta meno un’altra cosa che io credo sia stata e sia importante: una figu-
ra politica, che potrebbe essere un viceministro o un sottosegretario agli Esteri, speci-
ficamente dedicato alla cooperazione allo sviluppo, con una delega delle competenze
specifiche. Questo permetterebbe un’attenzione politica più vicina e più puntuale alle
tematiche della cooperazione allo sviluppo ed anche un rapporto con la società civile
più concreto e più funzionale.
Ricordava Conzato che l’anno prossimo ci sarà la Peer Review, che è un’analisi del-
lo stato della cooperazione italiana che viene fatto in ambito OCSE e DAC. Si valuta
quindi tutta la questione del funzionamento della Direzione generale della coopera-
zione allo sviluppo, per il quale si potrebbe fare già molto per migliorare il coordina-
mento, l’organizzazione degli organici, la semplificazione delle procedure. Ci sono
insomma tutta una serie di iniziative che possono essere prese già da ora per rendere
più funzionale la nostra cooperazione e anche per avviare una programmazione geo-

71
grafica e una programmazione per settori.
Accenno solo alla cooperazione decentrata, una realtà assolutamente da valorizza-
re nelle sue forme specifiche che non sono sostitutive dell’aiuto pubblico allo sviluppo
ma lo integrano portando una serie di valori e di specificità proprie.
La cooperazione allo sviluppo si sta occupando della crisi alimentare soprattut-
to su tre versanti: con il rafforzamento delle agenzie del polo romano delle Nazioni
Unite, con interventi di emergenza (sono stati 130 milioni di Euro per quest’anno) e
con una serie di progetti di sviluppo agricolo. Naturalmente bisogna fare di più, con
investimenti mirati per le infrastrutture, con riforme strutturali e politiche di sostegno
agli agricoltori e ai mercati locali, con riforme strutturali a livello internazionale, e qui si
aprirebbe tutto il discorso sulle barriere all’importazione dei prodotti agricoli. In Italia
avremo a breve due importanti appuntamenti, il G8 del prossimo anno e l’EXPO del
2015, che coinvolgeranno questi temi.

ANDREA STOCCHIERO
CESPI (CENTRO STUDI POLITICA INTERNAZIONALE)

Per riflettere sul ruolo della cooperazione decentrata e della società civile nell’am-
bito di questa crisi della cooperazione italiana, dobbiamo chiederci quale contributo
la cooperazione ufficiale allo sviluppo del Ministero degli affari esteri abbia dato e
potrà dare soprattutto in futuro: sicuramente scarso, per non dire quasi nullo rispetto
a tutti gli impegni presi. Intanto in questi ultimi 10 anni si sono affermati nuovi attori
che hanno iniziato ad intraprendere percorsi di cooperazione, non senza difficoltà e
contraddizioni, e che fanno capo al mondo che viene chiamato della “cooperazione
decentrata”, in cui comprendiamo anche la cooperazione delle organizzazioni non
governative, l’associazionismo della società civile e i diversi movimenti che vengono
compresi nella cosiddetta società civile globale; assistiamo quindi a una trasforma-
zione importante del ruolo delle società civili, a un nuovo protagonismo non solo in
Italia ma soprattutto a livello mondiale.
Tutti concordiamo sul fatto che la cooperazione decentrata non deve essere sosti-
tutiva della cooperazione ufficiale, perché ci sono processi che coinvolgono diversi
livelli di governo. Ovviamente la cooperazione decentrata rispetto alle regole interna-
zionali e ai comportamenti delle istituzioni multilaterali può fare un’importante azione
di advocacy e di lobby, però poi chi decide sono i nostri rappresentanti eletti, i nostri
Governi che si riuniscono all’interno dei diversi consessi della comunità internaziona-
le, dalle Nazioni Unite all’Unione Europea. La questione è che la cooperazione decen-
trata rischia di diventare sostitutiva, perché, se guardiamo ai dati, abbiamo intorno
ai 300.000.000 di euro come impegno della cooperazione italiana per quest’anno e
stime intorno ai 90.000.000 di euro per la cooperazione decentrata di Regioni, Provin-
ce e Comuni. Uscirà tra poco una nostra nuova indagine sulla cooperazione sanitaria,

72
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

perché oltre alla cooperazione che fanno i dipartimenti di relazioni internazionali, ci


sono all’interno delle Regioni alcuni Assessorati alla sanità che da tempo intrapren-
dono una cooperazione sanitaria che non era mai stata contabilizzata; in particolare
ci sono 4 regioni, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana, che nel 2007 han-
no speso 10.000.000 di euro per la cooperazione sanitaria, coinvolgendo ospedali,
aziende sanitarie e associazioni.
Sarebbe interessante proporre indagini anche, ad esempio, sulla cooperazione cul-
turale o su quella che fa riferimento alla gestione dei flussi migratori - dove ovviamente
ci sono critiche forti da fare -, comunque da un punto di vista meramente contabile
la cooperazione decentrata va a rappresentare non il 10%, come dicevamo nel 2005
in un nostro rapporto, ma il 30 o il 40 % della cooperazione ufficiale dello Stato ita-
liano a livello centrale. Inoltre non dobbiamo dimenticare che se con questo Governo
effettivamente si realizzerà il federalismo fiscale, avremo Regioni, alcune delle quali
già impegnate in una “politica estera” all’interno della quale ci sono l’internazionaliz-
zazione economica e la cooperazione decentrata, con risorse adeguate per diventare
attori e protagonisti concreti e reali sullo scenario internazionale. Per fare un esempio,
la Lombardia da un punto di vista economico e di popolazione è pari o superiore ad
un paese come l’Olanda, per cui avrebbe una spinta che porrebbe in discussione
equilibri a livello nazionale; per questo è importante fare attenzione e non considerare
la cooperazione decentrata come la parente povera della cooperazione ufficiale allo
sviluppo, perché è quest’ultima che sta diventando la vera parente povera e perché
ci sono delle spinte politiche che nel prossimo futuro probabilmente cambieranno lo
scenario.
In tutto questo il problema dell’efficacia e della qualità coinvolge anche la coope-
razione decentrata e la società civile. I precedenti interventi parlavano di laboratori
di pratiche. Ma quanti ne troviamo realmente sui nostri territori? Quanto le Ong e
le amministrazioni si scambiano esperienze per imparare? Quanto i problemi della
nostra cooperazione ufficiale sono anche i nostri problemi concreti sul territorio? Noi
chiediamo l’allineamento, il coordinamento, la coerenza, ma quanto queste parole
sono reali nelle nostre azioni, nei nostri piccoli progetti, nei nostri rapporti? Sono
quindi giustissime le critiche mosse ai più alti livelli, però sono i nostri territori i luoghi
in cui probabilmente si può agire con più efficacia, da un punto di vista di lobby, di
advocacy, di concretezza. Il valore della prossimità della cooperazione decentrata sta
tutto qui, e non possiamo parlare di grande democrazia a livello globale quando, nel
nostro Comune, non riusciamo a interagire sulla modifica di un piano regolatore o su
una gestione del servizio idrico che non sia completamente privata. Le tematiche forti
a livello locale sono tematiche anche della cooperazione allo sviluppo, che non deve
essere vista come una politica a sé stante; per non essere percepita come marginale
la cooperazione allo sviluppo deve parlare sempre di più delle nostre concrete real-
tà.

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Come CESPI, ci siamo concentrati molto negli ultimi 5 anni sul tema dei flussi mi-
gratori, perché è un fenomeno che permette di evidenziare come la cooperazione
sia oggi essenziale, non tanto per gestire i flussi migratori - che sono più una misura
finalizzata alle esigenze del nostro mercato del lavoro - ma in quanto le migrazioni
sono oggi uno dei fenomeni più evidenti della crisi dei rapporti Nord-Sud. Visitando
alcuni villaggi del Senegal abbiamo visto che i migranti attraverso le loro rimesse e
attraverso i comportamenti assunti quando rientrano, con un look occidentale, diven-
tano i principali trasformatori delle società locali. Il dibattito su migrazione e sviluppo
è apertissimo, ed è da considerare con cautela l’idea che i migranti devono essere i
nuovi attori dello sviluppo perché considerati i migliori conoscitori della realtà locale:
in diversi casi ciò non è vero perché più i migranti non stanno nei loro paesi e meno
li riconoscono, e quando ritornano si trovano in conflitti con il loro villaggio e le loro
comunità. D’altra parte oggi le rimesse dei migranti rappresentano in diversi paesi di
origine la principale fonte finanziaria e il principale strumento per alleviare la povertà,
molto più dei tanti progetti di Ong. Non è quindi possibile separare la cooperazione
dal fenomeno migratorio e dalla voce dei migranti.
Se qui abbiamo una politica e una società poco informate, se le conseguenti scelte
fatte in Italia danno risultati quasi disastrosi per il nostro sviluppo, a maggior ragione
nella cooperazione dobbiamo analizzare bene tutti gli elementi in campo: quanto,
come, perché, dove funziona di più, dove funziona di meno. Quindi l’esigenza di ap-
prendere non è funzionale solo ad una migliore qualità della cooperazione, ma è fun-
zionale soprattutto ad una migliore democrazia e ad una migliore politica. Per questo
come CESPI in questi anni abbiamo cercato di muoverci in questa direzione, e per
esempio abbiamo avviato con le Regioni Toscana e Marche una riflessione sulla coo-
perazione transfrontaliera nei Balcani e nel Mediterraneo, abbiamo lavorato su una
valutazione della legge 84 sui Balcani, abbiamo intrapreso un percorso con il WWF
che coinvolge anche diversi altri attori tra cui la Provincia autonoma di Trento su una
cooperazione per la sostenibilità ambientale, abbiamo lavorato con una Ong per fare
una valutazione di 10 anni di cooperazione a Santo Domingo. Recentemente, infine,
abbiamo partecipato alla riflessione di 9 Ong sul tema “costruire insieme è possibile”
da cui è nato un documento di riflessione che parte dall’analisi di 14 progetti in giro
per il mondo che, in qualche maniera, venivano tutti definiti “progetti di cooperazione
decentrata” e che quindi vedevano agire insieme Ong e autonomie locali nel Nord e
nel Sud del mondo. Da tutto questo emerge l’importanza di intrecciare le riflessioni,
di aprire un reale dibattito attraverso occasioni di scambio che non rimangano poi fini
a se stesse; le stesse Ong ci hanno fatto notare come il lavorare assieme alle ammi-
nistrazioni locali sia un percorso arricchente, perché nel momento in cui si ha a che
fare con una comunità locale, che sia in America latina o in Africa, il potersi presen-
tare insieme ad un’autorità del tuo territorio permette di instaurare una relazione con
una qualità maggiore. Infatti, proporsi come comunità territoriale - e quindi come una

74
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

realtà che include scuole, ospedali, aziende sanitarie locali, piccole agenzie per lo svi-
luppo economico locale - rafforza la ricchezza e le possibilità di scambio con i diversi
soggetti del Sud. Sappiamo che esistono problemi di trasparenza nelle democrazie
dei paesi del Sud, che del resto sono molto forti anche da noi, e proprio per questo è
importante l’impegno politico, l’impegno del territorio attraverso le Ong come media-
tori e come tessitori di un capitale sociale che intreccia i vari livelli, lega le due realtà e
i rispettivi problemi - ad esempio il problema dell’acqua pubblica lo troviamo in Bolivia
ma è sempre più presente anche da noi e si collega alla campagna mondiale sul diritto
all’acqua. È un elemento importante a fianco del quale però c’è un fattore di grande
debolezza, ossia la difficoltà di articolarsi sul multilivello, per cui queste iniziative coin-
volgono le autorità locali qui da noi e nei paesi del Sud, ma il livello nazionale rimane
sempre distante e sempre difficile da coinvolgere. Succede in Italia nel momento in
cui troviamo una cooperazione nazionale senza un quadro di riferimento e una stra-
tegia sulla cooperazione decentrata, così a maggior ragione succede anche nei paesi
del Sud dove l’interlocuzione tra diversi livelli istituzionali non è facile e il rapporto con
i Ministeri a livello centrale è molto debole e andrebbe rafforzato. Ancora una volta
quindi si pone, sia al sud che al nord, il problema della democrazia dal territorio allo
Stato centrale alla comunità internazionale, quali elementi necessari su cui fondare
una vera cooperazione per un mondo migliore.

SERGIO MARELLI
PRESIDENTE ASSOCIAZIONE ONG ITALIANE

Mi piacerebbe condividere con voi le seguenti cinque riflessioni: non c’è cultura
della cooperazione allo sviluppo; quando questa cultura c’è o è dominata da un ap-
proccio occidental-nordista o è filantropica; la cooperazione è sempre più strumenta-
lizzata, non è una politica prioritaria ma è una politica subordinata; stiamo assistendo
a un grande ballo mascherato; di conseguenza, bisogna andare a vedere dietro le
quinte, dietro le maschere, cosa succede.
Il primo punto è proprio che non c’è cultura di cooperazione. Non c’è nella maggio-
ranza, non c’è nell’opposizione, indipendentemente da chi giochi quel ruolo in quel
momento, non c’è nell’opinione pubblica. La mia generazione è cresciuta nel mondo
delle Ong, dentro alle associazioni di volontariato, dentro i movimenti, dentro un mon-
do che ci ha abituato e preparato a svolgere un’azione di formazione, di sensibilizza-
zione, di educazione alla mondialità - gli abbiamo dato tanti nomi convinti del fatto che
c’era e c’è bisogno di creare cultura. Oggi però rifletto sul fatto che il nostro mondo
è un po’ connivente con i messaggi distorti che l’opinione pubblica riceve e che la
rendono sempre più viziata e incapace di crearsi una cultura autonoma. Connivente
con chi? Non tanto con le istituzioni, ma con i messaggi mediatici, con il linguaggio
della comunicazione, ed è una connivenza molto più subdola, una dipendenza molto

75
più perniciosa di quella dal denaro pubblico. Io ho sempre sostenuto il nostro diritto
di prendere denaro pubblico senza cedere a nessun tipo di condizionamento e in rari
casi abbiamo dovuto lottare per difendere questa autonomia nell’utilizzo di quei fondi.
Mi preoccupa molto di più la difficoltà di resistere a tutte le argomentazioni che ci por-
tano, mi preoccupa molto di più la nostra capacità di resistenza a chi ci dice che per
essere incisivi dobbiamo cambiare il nostro messaggio, modificare il nostro linguag-
gio, semplificare le cose. Noi sappiamo invece che la questione è molto complessa, e
che si fatica a capire le cose complesse.
Quando questa cultura c’è, è una cultura dominata da una visione occidental-nor-
dista oppure da una visione filantropica di quello che noi stiamo facendo. È una cul-
tura difficile da affrontare, che con la nostra coscienza e con il nostro tentativo di
coerenza facciamo fatica a intercettare e a sfondare, ci riescono meglio quelli che
usano strumenti molto più semplici. Rifletto spesso sul fatto che nel nostro mondo
c’è un pozzo di San Patrizio costituito dalle adozioni internazionali, dalle adozioni a
distanza. Un pozzo che non finisce mai, per cui tutti propongono queste cose e con-
tinuano a raccogliere soldi; probabilmente, è una di quelle modalità di semplificare la
questione, di uscire con un messaggio molto semplice, di lasciarsi alle spalle tutta la
complessità che noi invece sappiamo essere la questione da affrontare. E riguardo
agli obiettivi del millennio, sono molto critico anche perché la grande défaillance che
stiamo accettando - perché anche noi abbiamo imparato a diventare ragionevoli - è
che parlano solamente degli effetti: parlano di fame, di aids e di discriminazione ma
non toccano le cause, perché non vogliono aggredire il vero problema. Le cause sono
complesse, sono nascoste, stanno nel backstage, stanno dietro la maschera che vie-
ne oggi presentata.
Le dichiarazioni di Accra e di Parigi, in cui si evidenzia che l’importante sono la
qualità e l’efficacia degli aiuti, dimostrano chiaramente a mio parere questo approccio
un po’ occidental-nordista. Prendiamo un esempio, la questione delle condizionalità,
cioè a quali condizioni viene erogato l’aiuto, e di conseguenza il tema della good
governance. Se le risorse devono essere destinate ai poveri, devono essere impiegate
nel sociale, non devono andare a finire nei paradisi fiscali, che certo non sono stati
inventati dai ruandesi o dai cingalesi. E la governance non è solo un problema dei
paesi del Sud, ma anche di quelli del Nord, per cui da che pulpito è stata scritta
quella dichiarazione di Parigi in cui si afferma la necessità di good governance? È
forse good governance togliere l’unico diritto che abbiamo come cittadini di scegliere
chi ci rappresenta eliminando le preferenze quando andiamo a votare? È questo che
andiamo in giro a proporre ai paesi del Sud e con cui noi misuriamo se, bontà nostra,
loro sono all’altezza di ricevere i nostri aiuti?
E quando la cultura non è dominata da questo tipo di pensiero è di tipo filantropico.
Come accennava Marco Baccin, le crisi odierne sono un’ottima occasione per coloro
che cercano giustificazioni per sostenere che “vorremmo aiutare ma non possiamo”.

76
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

Questa storia va avanti da trent’anni in questo paese, va avanti da trent’anni in Europa,


va avanti da trent’anni nel mondo occidentale. Il fatto di trovare sempre una giustifica-
zione è veramente figlio di questa cultura filantropica, di questa cultura del buonismo,
che si attiva quando avanzano dei soldi nel portafoglio.
Penso però che si vada oltre, e che la cooperazione sia strumentale, ad esempio ai
flussi migratori, tanto che oramai siamo al paradosso che una forza politica in Italia
cavalchi esattamente questa motivazione per sostenere, come noi, l’importanza della
cooperazione. Mi piacerebbe verificare se la penserebbero ancora allo stesso modo
se qualcuno gli spiegasse che oramai tutti i sociologi riconoscono il fatto che una
cooperazione efficace, che aumenta anche il benessere delle popolazioni dei paesi
d’origine, fa aumentare i flussi migratori. Lo dicono tutti, lo dicono i sociologi, lo di-
cono gli economisti, lo dicono i dati statistici: il benessere rompe quel muro, rompe
quel potere calmierante che ha il fattore economico il quale, ancora oggi, impedisce a
molti di migrare. Dal nostro punto di vista la cooperazione ha anche una relazione con
i flussi migratori, perché partiamo dal presupposto che il nostro obiettivo è di mettere
tutte le donne e gli uomini del pianeta in condizioni di scegliere, autonomamente da
tutto e da tutti, dove vivere e far crescere i propri figli. Penso però che ci sia un’altra
grande strumentalizzazione della cooperazione, ancor più perniciosa di questa legata
ai flussi migratori, ed è quella delle guerre per le risorse, dall’Iraq al Congo, e delle
guerre contro il terrorismo. Non dimentichiamo il fatto che dal 2001 ad oggi, cioè
da dopo l’attacco alle torri gemelle, c’è stata un’inversione significativa - oserei direi
quasi a 180 gradi - degli obiettivi della grande cooperazione internazionale. Paesi
che fino a quel giorno erano considerati i bad boys, quelli appunto che ai sensi della
governance non dovevano ricevere gli aiuti e avevano dei flussi di risorse molto bassi,
dal 12 settembre 2001 sono balzati all’apice delle classifiche dei paesi recipienti di
aiuti, sono improvvisamente diventati i good boys, quelli a cui dare i soldi, e questo
cambiava in base a quali movimenti erano contemplati nelle black list delle organiz-
zazioni terroristiche.
Oppure, la cooperazione è strumentale all’internazionalizzazione delle imprese e
all’espansione dei mercati. A riguardo vorrei fare un commento rispetto alla questione
della riforma della legge 49. La scorsa legislatura si è chiusa con un testo, approvato
dal Comitato ristretto della Commissione esteri del Senato, che ci dicono avere rice-
vuto il cosiddetto accordo bi-partisan. Mi chiedo come abbiano potuto raggiungere
questo accordo perché, quando incontro un parlamentare dell’attuale maggioranza
mi viene detto che è ora di finirla con questa cooperazione e che la cooperazione
deve essere uno strumento per portare all’estero le nostre imprese e ridare crescita
economica al nostro paese in modo da uscire dalla crisi finanziaria. Spero quindi che i
parlamentari delle forze di centro sinistra non abbiano trovato un accordo bi-partisan
con chi ha questa visione. Continuano però a dirci che su quel testo è stato raggiunto
un accordo, anche se all’articolo 1 si dice che non ci deve essere nessuna collusione

77
con le operazioni militari, nessun tipo di aiuto legato, nessuna collusione con le ope-
razioni commerciali e di ampliamento dei mercati. Come è possibile che i parlamentari
dell’attuale maggioranza siano d’accordo su questo? Non riesco a comprenderlo e
credo che sia una cooperazione strumentale e strumentalizzata.
Stiamo assistendo a un ballo mascherato. Se guardo alle parole, oggi il nostro più
grande alleato è il ministro Tremonti, che continua a parlare della necessità di etica,
del fatto che l’etica è il principio ispiratore della politica, che ha nella politica e nel-
l’economia i suoi strumenti e che poi la finanza e uno dei mezzi per realizzare quel-
l’economia che è controllata dalla politica che si ispira all’etica. La contraddizione sta
nel fatto che in questa Finanziaria - per non parlare sempre del 56% di tagli alla coo-
perazione che è una questione già di per sé eloquente riguardo all’etica - il Governo
ci propone non solo di continuare ad avere i centri di permanenza temporanea ma di
chiamarli centri di identificazione ed espulsione, e di investire per la loro creazione e
il loro mantenimento più di 200 milioni di euro, azzerando così il fondo di inclusione
sociale per gli immigrati. Questa sembra essere l’etica, forse perché siamo in un’epo-
ca di forte relativismo culturale, in cui ognuno si confeziona l’etica e la morale che
preferisce. Sono molto preoccupato che a Doha o successivamente vengano fissate
delle nuove regole per tutta questa questione delle crisi finanziarie, proprio perché
vorrei capire quale che ispirerà le nuove regole. Qualcuno va parlando - a mio modo
di vedere va farneticando - di una nuova Bretton Woods: anche in questo caso vorrei
capire con quale etica, cioè quali sono i principi che ispireranno le nuove regole, per-
ché temo che voglia essere l’occasione per far ripartire una macchina con gli stessi
obiettivi di quella che ha tracollato qualche mese fa. A me non interessano le nuove
regole, a me interessano una nuova cultura, un nuovo approccio, una nuova etica. Per
cui dobbiamo stare attenti a non farci intrappolare in questa questione che oramai
sembra diventata, con l’accordo di tutti, una questione tecnica, mentre si tratta di
definire dei meccanismi di controllo, di capire chi poi applica quelle regole. Da almeno
dieci anni noi sosteniamo, tra le altre cose, la necessità di una tassazione sulle specu-
lazioni finanziarie a breve termine. Sia per reperire risorse, ma soprattutto perché per
agire con la leva fiscale è necessario agire con la base imponibile e mettere mano alle
speculazioni dopo aver visto di quali entità sono e chi le sta facendo. Prima di definire
le regole, però, va capito chi le applicherà e chi ne sarà il garante.
Bisogna andare dietro le quinte, tirare giù le maschere. In Italia oggi c’è grande
enfasi sull’efficacia e sulla qualità, ma non sulla quantità. Per sperare in risultati sod-
disfacenti dobbiamo mettere benzina nel motore, perché senza l’elemento propulsore
è inutile andare a vedere gli altri elementi. Nei massimi vertici della cooperazione in-
ternazionale allo sviluppo si parla di razionalizzazione delle Ong, si dice che “occorre
razionalizzare le Ong”. Di nuovo, razionalizzare è una regola, per cui vorrei capire chi
la controlla e qual è l’etica, quali sono i principi di questa razionalizzazione; poi potrò
essere d’accordo, se si tratterà davvero di una valorizzazione dell’iniziativa autonoma

78
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

della società civile. Nel nostro paese la società civile si è sviluppata e organizzata in
maniera capillare, territoriale, possiamo anche dire frammentata, come è tipico degli
italiani, gli stessi italiani che nel mondo si vantano del fatto che il nostro fiore all’oc-
chiello quelle centinaia di migliaia di piccole imprese che continuano a tenere in piedi
il paese. Quando, però, si parla di razionalizzazione delle Ong, io ho come il sentore
che razionalizzazione significhi eliminare quelle che danno fastidio, per poi forse fare
il sistema paese di cui si è parlato ad Accra e per il quale giustamente il DAC, il comi-
tato dell’OCSE per gli aiuti, ci bacchetta dicendo al nostro Governo che non siamo in
grado di implementarlo. Questo ci ricorda che non solo l’Italia non è capace di fare
sistema paese, ma non è nemmeno capace di seguire quell’orientamento che ormai
ha assunto l’Unione Europea e che è la cosiddetta division of labour, la suddivisione
dei compiti tra i vari Stati membri.
Noi vogliamo rientrare in questo sistema paese che nasce in una prospettiva di
razionalizzazione, parola che è molto vicina come assonanza a omogeneizzazione,
delle Ong, per cui resteranno quelle che rientrano in un country system deciso da
qualcun altro? Oppure vogliamo davvero porci il problema di come fare a ragionare
con le Regioni, con tutte le Province, con 8300 Comuni, con le 1400 associazioni che
secondo l’ISTAT fanno solidarietà internazionale, con il Ministero degli esteri, e fare
davvero un sistema paese?
Concludo con un accenno a una questione che reputo fondamentale, a uno degli
aspetti più negativi di quel supposto risultato ottenuto col testo bi-partisan per la
riforma della legge 49: la logica, la fissazione, secondo cui la cooperazione continua
a essere fondamentalmente una questione di finanziamento dei progetti. Io sono con-
vinto che per noi il progetto è solamente uno strumento, che certamente ha il diritto
di essere finanziato, ma non è un obiettivo, non è un ideale per il quale sacrificare
percorsi, partecipazione, partenariati, decentramento della cooperazione. Qualunque
nuova legge, qualunque riforma ci riporterà al punto di partenza: ad una cooperazione
che, dal mio punto di vista e con la lente dell’attualità, non servirà a nulla.

THÉOPHILE KABORÉ
PRESIDENTE DI ASSOCIATION INTER-AFRICAINE POUR LE DEVELOPPEMENT
SOLIDAIRE (A.I-A.D.S.) - KIBARÉ

Da alcuni anni partecipo ai convegni di Mani Tese per discutere i problemi dello
sviluppo, ricevendone molta energia e forza. Ricordo quando 9 a Firenze di parlava di
speranze per il futuro con Alex Zanotelli e Susan George, la quale sosteneva che era
possibile cambiare l’ordine delle cose ed un altro mondo era possibile, e quando10 due
anni fa il Ministro Patrizia Santinelli diceva che avrebbe cambiato la cooperazione.
Oggi parliamo di crisi, ma quella alimentare e quella finanziaria per noi in Africa non

9 Convegno Mani Tese “Dai cieli dell’utopia alla polvere della storia”, 2002
10 Convegno Mani Tese “Chi global?”, 2006

79
sono delle crisi. Una crisi avviene se qualcosa che andava bene a un certo punto si
interrompe, mentre noi viviamo quotidianamente questi problemi. La crisi alimentare
per la nostra popolazione non ha significato - a parte l’aumento del prezzo di miglio
e riso - poiché ogni giorno non ha abbastanza cibo per poter mangiare ed ogni anno
ci si pone la stessa domanda. E anche la crisi finanziaria non significa nulla perché
non ci sono soldi, non ci sono conti, non ci sono banche, e la popolazione non ne sa
nulla di tutte queste cose. In questo momento in Africa abbiamo piuttosto una crisi di
coscienza generale: è la crisi dei falsi profeti, ce ne sono troppi nel vero senso della
parola. C’è il Presidente che in campagna elettorale promette qualunque cosa ai cit-
tadini senza poi mantenere nulla, e ci i Pastori musulmani e cattolici, veri/falsi profeti
che non si sa bene cosa raccontino alle persone.
Come associazione Kibaré crediamo che parlando del tema della cooperazione
e di azioni solidali internazionali non si possa dimenticare l’aspetto umano, per cui
parliamo di una solidarietà mondiale ed umana e cerchiamo un buon metodo per
renderla efficace. La cooperazione deve durare nel tempo, i problemi alimentari e di
povertà che vediamo oggi ci saranno anche negli anni futuri. Il professor De Muro ha
in parte risposto alle preoccupazioni dell’Africa sottolineando che gli africani devono
riappropriarsi delle loro materie prime e sviluppare una propria politica agricola per
combattere la crisi alimentare. Infatti come è possibile chiedere di vendere a persone
che non hanno di che sfamarsi? Come si può chiedere loro di produrre cotone, caffè,
materie prime per i biocarburanti? Come possono avere da questo degli utili per sod-
disfare i bisogni primari e mandare i bambini a scuola? In Burkina Faso la popolazione
da secoli vive in quei territori e coltiva faticosamente quella terra, per ricavarne in
particolare il miglio che è alla base dell’alimentazione. Per eliminare la fame sarebbe
necessario che la maggior parte della popolazione potesse coltivare gli alimenti di
base, per cui la cooperazione deve essere diversa da quella che viene portata avanti
oggi e deve portare a dei cambiamenti reali. È necessario cambiare le norme, creare
dei comitati che favoriscano la partecipazione nell’elaborazione dei programmi, spe-
rimentare e dare vita a esperienze concrete.
La visione dello sviluppo che hanno gli economisti e gli Stati del nord non è la stessa
che ha un contadino di un villaggio povero del Burkina Faso. Dove non ci sono acqua,
scuole, strade, un centro di salute di base, svilupparsi significa cambiare in positivo
qualcosa nelle condizioni di vita di tutti i giorni, grazie a un pozzo o a un mulino per
esempio. E per questo l’apporto delle ONG è insostituibile, perché vivono tutti i giorni
la realtà del villaggio e sanno cosa è per noi lo sviluppo.
Oggi il commercio è su scala internazionale, ma un paese prima deve svilupparsi
al suo interno e garantire cibo e istruzione alla popolazione, poi può definire come e
quanto entrare a far parte di questo meccanismo. Cosa rappresenta oggi l’Africa nel-
l’OMC? Cosa è l’OMC per l’Africa? E cosa sono l’ONU, l’UNICEF, la FAO per l’Africa
e per i contadini africani? Attori di un gioco che è già stato definito con i Governi dei

80
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

paesi più potenti.


La stessa cosa vale per la crisi energetica e per l’impegno contro i cambiamenti
climatici: si parla dell’importanza del Protocollo di Kyoto ma i più grandi produttori di
emissioni come Stati Uniti e Cina non vogliono firmare. Le Nazioni Unite, che hanno
sede negli Stati Uniti, hanno chiesto al Burkina Faso di ratificare e il Burkina Faso lo
ha fatto. Tutto questo però per gli africani non significa nulla.
Oggi si è diffusa una nuova idea: far produrre biocarburanti all’Africa, dove ci sono
persone che non hanno da mangiare, dove un paese come il Burkina Faso non produ-
ce miglio sufficiente per la popolazione. Arriva qualche ricco politico e dice ai contadi-
ni di coltivare prodotti non per nutrire i loro figli ma per produrre olio e nutrire le mac-
chine in Europa e nel mondo. Questo è molto grave, e la stessa cosa è stata chiesta a
Lula: distruggere la foresta Amazzonica e coltivarla per produrre i biocarburanti.
C’è poi il problema molto grave delle sementi, perché aziende come la Monsanto
inventano prodotti che non esistono in natura, mettono il loro brevetto e li diffondono
in tutto il mondo per poterne trarre profitto. Tutto ciò arriverà anche in Burkina Faso,
poiché noi abbiamo un Presidente che ha accettato tutto questo senza comprendere
nulla, semplicemente perché sperimentare gli OGM in Burkina Faso gli porterà dei
soldi. Saremo il solo paese africano ad avere il cotone OGM: non abbiamo il miglio,
ma coltiviamo il cotone.
Qual è il nostro punto di vista? Noi non diciamo che i biocarburanti sono una buona
cosa, ma pensiamo che se gli Europei e tutto il resto del mondo hanno le capacità
tecnologiche per trasformare il mais in carburante, questo potrebbe essere “il petrolio
dell’Africa”, per permettere al nostro continente di svilupparsi, anche se non ne sono
sicuro perché la Cina è già arrivata. Però quando parli di questo con i contadini , ti
viene risposto “ ah bene, si rifiutano di darci del riso o di darci il mais per trasformarlo
e alimentare le macchine: nutrono le macchine e ci lasciano morire di fame”. E allora
abbiamo risposto: la cosa migliore è che ve lo produciate da soli.
La nostra organizzazione Kibaré, creata grazie al supporto di Mani Tese, si chiede
se di fronte a questa crisi alimentare gli stessi intellettuali hanno capito la necessità di
utilizzare i terreni per produrre e di organizzare i contadini per coltivare più riso, per-
ché quando non ci sarà più riso il paese cadrà nella catastrofe. Per questo abbiamo
deciso di proporre a Mani Tese un piano triennale per fornire i contadini di trattori e di
tutti gli strumenti necessari per migliorare la produzione. Con questo punto di parten-
za, saremo poi in grado di commercializzare tra di noi.
Concludo rispondendo a Justin Fong. Nella mia esperienza la Cina è ricca, e arriva
in Africa trasformando i giovani in rivenditori di beni che non producono. Un vecchio
detto suggerisce che è meglio che qualcuno ti insegni a pescare, non che ti dia il
pesce. Ma mi chiedo chi sia in questo caso il povero per cui viene pescato il pesce:
in Africa la Cina non costruisce scuole o ambulatori, ma cerca soltanto il petrolio, ad
esempio in Congo, in Nigeria in Sudan e del Niger. Guardando le cose da un punto

81
di vista concreto, sono dei ladri che entrano nelle case e rubano. Hanno un sistema
ancora più perverso di quello europeo, perché arrivano con valigie di soldi, comprano
e ripartono.

LUCIANO ROCCHETTI
RESP. SETTORE SOLIDARIETÀ INTERNAZIONALE
DELLA PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO

Ritengo importante una brevissima premessa a partire dall’affermazione di Ser-


gio Marelli “Questo Moloch, questo mito del progetto che è difficile da scardinare”:
condivido in pieno l’affermazione ma, a mio parere, c’è qualcosa che è ancora più
difficile da scardinare ed è l’idea stessa di cooperazione come aiuto allo sviluppo.
Dobbiamo provare a riflettere su questo aspetto per non perpetuare gli equivoci che
ci portiamo dietro e che secondo la mia analisi sono un po’ la causa della crisi della
cooperazione.
Infatti forse 20 anni fa aveva un senso parlare di aiuto allo sviluppo, cercando pos-
sibilmente di esplicitare quello che non si dice o si dice poco: c’è qualcuno che ha
che trasferisce a qualcuno che non ha, qualcuno che sa che trasferisce a qualcuno
che non sa, qualcuno che può che trasferisce a qualcuno che non può e così via,
cercando magari di migliorare le performance e di trasferire competenze con progetti
sostenibili partecipati, ma l’approccio rimane quello per cui c’è qualcuno che ha le
competenze e che porta la canna al pescatore africano che non sa pescare. A mio pa-
rere però la realtà non è mai stata così, perché se c’è una cosa di cui è ricca la terra è
proprio la cultura, sono proprio le capacità, le ricette specifiche che ciascun territorio
ha saputo costruire rispetto ai propri problemi. Soprattutto oggi, perché i fenomeni
della globalizzazione e dell’interdipendenza ci mostrano chiaramente che - come non
esistono più un nord e un sud o meglio come un nord sia dentro un sud e viceversa
- la migliore e più avanzata modernità può essere insita in un territorio che magari noi
consideriamo del tutto arretrato e viceversa.
Credo allora che una chiarificazione rispetto a questo concetto vada fatta e a mio
parere la conclusione è che la cooperazione non è un elemento di aiuto allo svilup-
po ma è una modalità di stare al mondo. Forse sarebbe esagerato dire l’unica, ma
sicuramente è una della modalità per stare al mondo oggi, per poter comprendere e
se possibile affrontare le problematiche che sono sempre più globali, che ci sono in
Trentino come in qualsiasi altra regione italiana o in qualsiasi altra parte del mondo.
La costruzione di partenariati territoriali permette a persone di diverse culture e di
diverse estrazioni, che vivono diverse o diversissime situazioni, di confrontarsi innan-
zitutto come persone ma poi anche come sistemi territoriali: si tratta di un’occasione
importante e di una modalità interessante per poter capire meglio la modernità e, in
qualche modo, anche affrontarla.
La centralità non è quindi l’aiuto, ma la relazione. Dentro la dimensione relazionale

82
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

c’è anche la dimensione dell’aiuto, o meglio dell’interscambio, ma questa non è né la


prioritaria né la principale.
Porto l’esperienza della provincia autonoma di Trento, non intesa ente pubblico,
perché sarebbe contraddittorio rispetto a quello che ho detto finora, ma come comu-
nità - parola impegnativa, forse abusata, forse rischiosa - che tenta in qualche modo
di inoltrarsi su questa strada seguendo due principi, il primo è la prossimità, il secon-
do la reciprocità, di cui ho già accennato. Prossimità non vuol dire soltanto vicinanza
di territori, anzi noi la viviamo con territori lontanissimi dal punto di vista geografico e
anche territoriale: è la capacità delle persone di diversi territori di penetrarsi l’un l’altro,
di capirsi, di costruire alleanze, di condividere analisi, di tentare sperimentazioni lungo
piste anche innovative. È chiaro che un’operazione di questo tipo, la costruzione di
un percorso per cercare di capirsi con culture, lingue, tradizioni, religioni diverse è
un’operazione difficile, richiede una calma e una pazienza che spesso non hanno tem-
pi compatibili con le nostre regole, nemmeno con quelle dell’Ente che rappresento.
Purtroppo mi accorgo io stesso di una certa schizofrenia tra quanto a volte dico e
quanto poi pretendo quando mi trovo dall’altra parte del tavolo a valutare o finanziare
progetti. Infatti le nostre strumentazioni fanno riferimento ad altro, ad un’ottica pun-
tuale progettuale che in un certo senso io difendo perché ha portato dei miglioramen-
ti, ma che necessita di un’ulteriore passo in questa direzione. Come colmare questa
grave lacuna data dalla frammentazione e dalla scarsità di coordinamento? Se per
cooperazione decentrata si intendesse solamente la cooperazione che fanno gli enti
locali, credo che il salto di qualità sarebbe del tutto insufficiente e poco interessante,
mentre è utile che il salto di qualità si senta rispetto alle relazioni, alle partecipazio-
ni, alle valutazioni. Nell’esempio del Trentino, su un territorio con 500.000 persone e
poco più di 200 Comuni ci sono 200 associazioni che fanno solidarietà internazionale;
questo è un dato, che da un lato può essere letto come una risorsa e una ricchezza,
ma da un altro punto di vista rappresenta la difficoltà di far sistema e di collaborare.
Credo che la situazione, amplificata, sia la stessa a livello nazionale, e la soluzione
non è certamente che ognuno vada per la sua strada sperimentando qualcosa, ma
non può nemmeno essere che le istanze più in alto dettino regole esclusive e impon-
gano coordinamenti e razionalizzazioni. A mio parere la soluzione è ridare valore alla
partecipazione cercando di offrire gli strumenti necessari, come da tempo le Regioni
chiedono al Ministero, e credo anche le Ong e tutti i soggetti del territorio: servono
strumenti e azioni positive, servizi per poter realmente fare coordinamento, fare siner-
gia, fare sistema. Una banca dati per la circolazione delle informazioni è un esempio
che sembra semplicissimo e sarebbe fondamentale ma non esiste: se una regione
italiana vuole impegnarsi con una del Burkina Faso, sarebbe meglio se potesse sa-
pere prima se lo sta già facendo qualcun altro, che sia un’altra regione, il governo o
una Ong. Esiste qualche tentativo in questa direzione, in termini ad esempio di forma-
zione, un servizio che nel nostro piccolo abbiamo verificato avere, oltre al vantaggio

83
immediato di trasferire competenze, anche l’effetto di far conoscere tra loro i soggetti
- e questo dovrebbe avvenire anche a livello internazionale, per dare corpo attraverso
esperienze concrete a quello che a mio parere è il più importante degli obiettivi del
millennio: sviluppare una partnership globale per lo sviluppo.

FABIO PIPINATO
RAPPRESENTANTE DE “LA CARTA DI TRENTO PER UNA MIGLIORE COOPERAZIONE”

Vorrei suggerire tre strumenti interessanti: un dossier sulla cooperazione di comu-


nità pubblicato su Volontari per lo sviluppo, la Carta di Trento per una migliore coope-
razione, composta da dieci punti di riflessione, e il libro “Darsi il tempo. Idee pratiche
per un’altra cooperazione internazionale” edito da EMI. Offrono l’occasione per anda-
re sino al fondo alla crisi che stiamo vivendo, anche come mondo della cooperazione,
e capire le difficoltà che dobbiamo affrontare.
Ecco i dieci punti contenuti nella Carta di Trento:
1 Leggere il presente: una cooperazione che rifletta ed agisca. È importante che la
cooperazione si dia spazi per la formazione, perché ci sono ancora moltissime
realtà che non si prendono il tempo per leggere il presente ed agiscono fuori tem-
po.
2 Riguadagnare il mondo: una cooperazione dialogica e non autoreferenziale. Met-
tere l’accento su una cooperazione che dà spazio al dialogo, disponibile a sedersi
per capire l’altro.
3 Investire nel capitale: umano e sociale. Questo è sicuramente strategico per ambo
le parti. È il fondamento della relazione cooperativa. Parte dai saperi di ogni terri-
torio.
4 La comunità al centro. In inglese si dice only through community ed è l’impegno
affinché prima i processi e poi i progetti passino “solo attraverso la comunità” e
non vi sia nulla di imposto dal nord del mondo.
5 I diritti nella responsabilità. Passare dalla logica assistenzialista dei bisogni a quel-
la dei diritti: siamo al 60esimo anno della dichiarazione universale dei diritti umani
e non dobbiamo mai darli per scontati.
6 Entrare in relazione. Una relazione vera e profonda, che vada oltre l’emergenze,
la distanza degli sms a sostegno dei progetti, i centri chirurgici per il trapianto di
cuore laddove non c’è la cura della polio, al fine di porsi/agire accanto delle popo-
lazioni.
7 Cooperare al plurale: riconoscere il pluriverso degli attori e delle forme. Siamo
molto pochi, è necessario fare sistema tra le ong, la cooperazione italiana, gli
enti della cooperazione decentrata, ma anche con il mondo del commercio equo
e solidale, del microcredito, del turismo responsabile, con le associazioni di mi-
granti e con il mondo del lavoro, con le imprese che sottoscrivono impegni di

84
Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

responsabilità sociale. Gli anni novanta sono stati straordinari perché quando s’è
“fatto sistema” abbiamo ottenuto la legge contro le mine antiuomo, la legge per
la cancellazione del debito estero, stavamo raggiungendo un accordo sulla Tobin
tax. Facciamo nuovamente sistema per nuove conquiste. Se camminiamo da soli,
con l’individualismo che ci viene propinato, non porteremo a casa nulla.
8 Oltre la rete: costruire visioni d’insieme nel fare cooperazione. Ad esempio, su
base territoriale, la Provincia Autonoma di Trento ha costruito, in questi anni, espe-
rimenti interessanti che sono i tavoli tematici ove si condividono conoscenze ed
azione.
9 Guardando al futuro: una cooperazione sostenibile e responsabile.
10 Il senso del limite. Al fine possiamo avere il quadro delle potenzialità e dei limiti del
nostro agire.
La cooperazione è la risposta? A mio parere è parte della risposta. Anche se il Go-
verno italiano ci dice “non siete nessuno” con lo 0,07% del PIL, dobbiamo riuscire ad
avere sufficiente autostima per investire in una cooperazione sperimentale, fallibile,
partecipata. Ne va della speranza.

85
CONCLUSIONI Gli equilibri della FAME La cooperazione è la risposta?

ANTONIO TRICARICO
CRBM/MANI TESE

Abbiamo avuto nel corso di questo convegno suggestioni forti molto vicine al pensiero politico di
Mani Tese, che riprendo come spunti anche per il lavoro che dovrà fare l’associazione, in cooperazio-
ne con altri, su queste tematiche.
Orwell diceva che “qualcuno è più uguale degli altri”, oggi ci viene detto che “alcune crisi sono più
crisi di altre”. In ogni caso la crisi finanziaria servirà molto probabilmente per giustificare tantissime
politiche, che avranno ricadute pesanti sia nei nostri paesi, sia nel Sud.
Nell’affrontare il tema della crisi alimentare nel contesto delle altre crisi è emerso come in realtà la
crisi sia unica, è la crisi di un paradigma, quello che noi banalmente chiamavamo modello di sviluppo
e che era collegato in particolare a determinate politiche economiche di stampo neoliberista che oggi
sono nel pieno del fallimento. In questo cambio di paradigma auspicato per risolvere l’unica crisi, la
crisi di tutti, si è detto che certamente la cooperazione internazionale deve avere un ruolo ma non è
l’unico strumento per l’azione. Sono tante le risposte che dovranno essere messe in campo, coordi-
nate all’interno di un paradigma che dovrà venire.
Nel 1997 un convegno di Mani Tese molto partecipato, che si svolse a Firenze nella sala in cui
cinque anni dopo iniziò il Forum sociale europeo, chiedeva un nuovo ordine economico internazio-
nale. Eravamo all’apice del neoliberismo, ed era presente il WTO a raccontarci le sorti magnifiche
e progressive che ci aspettavano; sarebbe bello invitare nuovamente la stessa persona proiettando
quella sessione e chiedendo se ha lievemente cambiato idea o meno, per una questione di giustizia ed
onestà intellettuale. Quindi nel 1997 Mani Tese chiedeva già in modo molto articolato un nuovo ordine
economico internazionale, facendo numerose proposte che per altro la società civile italiana, europea
e mondiale ha messo in campo come pezzi fondamentali di questo nuovo ordine. In breve: l’avevamo
detto, e così è stato e lo diciamo con grande tristezza.
Però non basta dire che l’avevamo detto, perché ora dobbiamo affrontare grandi emergenze, e la
più grave di tutte è che nessun Governo ha una soluzione organica, per cui si procede per tentativi e
palliativi che spesso non sono sufficienti. Dobbiamo raccogliere la sfida della definizione di un nuovo
ordine, di nuove regole, di chi deve decidere queste regole e poi attuarle.
In questo crollo di un paradigma la questione dello Stato non è affrontata nel modo giusto, non ci si
interroga sulle politiche pubbliche - parola messa al bando negli ultimi trenta anni - in particolare per
la cooperazione, per il commercio internazionale, per i beni comuni e per altre questioni fondamentali
per il bene pubblico delle persone. Questo rientra nel nostro mandato di chiedere qual è l’interesse
pubblico di alcune scelte in economia, in finanza, nella cooperazione.
Si è discusso sul tema della ownership, che possiamo approssimativamente tradurre come il
sentire propri e guidare i processi di sviluppo. Credo sia il momento di andare oltre, di parlare di
empowerment: non è solo un discorso di sentire propri i processi, ma anche di avere il potere di
deciderli. I Governi, sia del Nord che del Sud, si oppongono a una logica di empowerment di coloro
che oggi non solo sono fuori dai mercati ma ne subiscono gli effetti negativi, si oppongono al fatto
che tali soggetti possano essere attori politici di cambiamento nello sviluppo. Noi dobbiamo invece
essere fieri di aver contribuito alla crescita della società civile nel Sud del mondo, tanto che oggi è

91
anche più forte di quella nel Nord, e la vera sfida è di continuare sulla strada dell’empowerment,
anche nella nostra società.
Parlando di crisi alimentare, i movimenti contadini ci hanno ricordato la centralità della questione
del possesso della terra, ancor di più in un momento in cui grandi masse di capitale si stanno spo-
stando particolarmente in Asia per acquistare quella terra che sarà il prossimo mercato aggredito
dalla speculazione finanziaria, insieme a quello delle emissioni di carbonio. Si è detto che manca un
paradigma, ma la rappresentante dei Sem Terra ci ha parlato di un paradigma che in fondo già c’è e
va solo attuato, quello della sovranità alimentare. È un paradigma olistico, organico, che prevede il
cambiamento strutturale di tutte le altre politiche e che darebbe subito risposte in termini di sicurezza
alimentare ma anche di dignità di vita e di possibilità di sviluppo, nel Sud come nel Nord del mondo.
Si è discusso sulla questione, sempre più di moda ma sempre più senza risposte, di come au-
mentare la coerenza delle politiche e se debba essere una coerenza delle politiche per lo sviluppo
o per qualcos’altro. È emerso nel dibattito un altro interrogativo: di quale coerenza delle politiche
stiamo parlando? Diversi relatori ci hanno detto che in realtà molte scelte sono coerenti, ma lo sono
per obiettivi sbagliati, e subordinano ad altre priorità quelli che erano i principi di sviluppo. Priorità
basate su una logica di mercato, di confronto, di competizione. Del resto ci sono varie cooperazioni
e il problema è capire come si relazionano fra di loro, allo stesso modo in cui ci sono anche tanti
attori che si relazionano fra loro, tra questi il settore privato - per il quale è comodo definirsi attore
di sviluppo, avendo beneficiato della più grande cancellazione del debito nella storia dell’umanità: in
una settimana le banche si sono fatte cancellare un debito superiore a due trilioni di dollari, quando
per cancellare complessivamente due-trecento milioni di dollari di debito dei paesi impoveriti ci sono
voluti quindici anni.
Concludo con una questione centrale, che va al cuore dell’azione come società civile, sulla quale
ci siamo messi in discussione nel contesto di un mondo in evoluzione, chiedendoci cosa dovremmo
fare in collaborazione con i nostri partner del Sud. Si parla molto di ristabilire la fiducia nei mercati,
presentata come priorità perché nessuno si fida più di nulla, ma mi chiedo se la vera sfida non sia
invece ristabilire la fiducia nei Governi e nelle istituzioni che possano davvero fare qualcosa. Ho la
sensazione che i Governi, nel loro proclamare grandi annunci a cui non danno concretamente segui-
to, abbiano una paura enorme, rispetto a qualsiasi scelta, di non avere la fiducia e il consenso nella
società. Questa è davvero la sfida del cambio di paradigma: come ristabilire fiducia nella società in
un momento in cui sono necessarie scelte impegnative? Come società civile dobbiamo sentirci attori
attivi e importanti e tornare nella società come protagonisti delle questioni che abbiamo sempre so-
stenuto, senza lasciare il campo a chi fa proposte solo populiste ma riappropriandoci delle tematiche
e ponendo ancora una volta una questione di giustizia: chi ha sbagliato deve anche pagare e proba-
bilmente lasciare il campo a nuovi attori. Se non lo facciamo ora, quando?

92
BIOGRAFIE RELATORI
E INDICE

Con il contributo della Provincia


a u t o n o m a d i Tr e n t o

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RELATORI

CATERINA AMICUCCI
Nata a Roma nel 1974 è laureata in Scienza Umanistiche presso l’Università “La Sapienza”.
Ha iniziato a lavorare nel mondo dell’associazionismo nel 1996 con il Servizio Civile Internazionale
per il quale ha ricoperto la carica di Segretaria Nazionale dal 1999 al 2003. Negli stessi anni si è
occupata di Medio Oriente e di Palestina avviando e coordinando il progetto MedHebron. Nel 2006-
2007 ha ricoperto l’incarico di direttore dell’associazione “Un Ponte Per...”. È tra i fondatori del pro-
getto “La città dell’Utopia” con il quale è impegnata nella costruzione di mercati locali ed economie
informali. Collabora dal 2007 con la Campagna per la Riforma della Banca Mondiale occupandosi di
finanza europea.

MARCO BACCIN
Nato a Roma nel 1949. Nel 1975 entra nella carriera diplomatica e rivesta oggi la carica di Ministro
Plenipotenziario. Si è occupato di questioni consolari politiche ed economiche ed ha ricoperto incari-
chi diplomatici in Francia, Spagna ed America Latina. È stato capo della Segreteria del Sottosegreta-
rio di Stato Umberto Ranieri e Consigliere Diplomatico del Sindaco di Roma Walter Veltroni e Capo di
Gabinetto del Vice Ministro degli Affari Esteri Patrizia Sentinelli. È autore di numerosi articoli e pub-
blicazioni su temi di politica estera. Marco Baccin dal 1983 al 1986 presta servizio come Consigliere
Politico dell’Ambasciata Italiana a Montevideo e nel 1983 al 1984, in assenza di un Ambasciatore,
svolge le funzioni di Incaricato d’Affari nel delicato periodo della transizione tra il regime militare e
la democrazia.

FRANCO CONZATO
Franco Conzato, Funzionario della Commissione Europea, é attualmente il Rappresentante della
Commissione presso il Comitato Aiuti allo Sviliuppo dell OCSE a Parigi. In precedenza é stato Econo-
mista Senior al Dipartimento delle Politiche dello Sviluppo della Direzione Generale Sviluppo a Bru-
xelles e Consigliere Economico presso le Delegazioni in Ethiopia e in Ghana. Ha conseguito la Laurea
in Scienze Politiche all Università di Padova e un Master in “Banking and Finance for Development”
presso la ex Fondazione Finafrica di Milano in associazione con le Università Statale e Bocconi.

PASQUALE DE MURO
Nato a Napoli, si è laureato in Economia e Commercio presso l’Università degli Studi di Napoli
“Federico II” nel 1983. Ha un dottorato di ricerca in Economia e Politica Agraria. Dal 2000 è ricer-
catore all’Università degli Studi “Roma Tre” presso la Facoltà di Economia “Federico Caffè” dopo
aver lavorato, sempre come ricercatore, all’Università di Roma “La Sapienza”. Dal 2000 collabora
al Programma di ricerca scientifica di rilevante interesse nazionale per il nuovo negoziato agricolo
nell’ambito dell’OMC ed il processo di riforma delle politiche agricole dell’UE. Ha fatto parte anche
del Progetto di ricerca MURST Ateneo sulle strategie di sviluppo rurale e integrazione delle politiche
settoriali e ambientali e del Programma sul Pluralismo funzionale e impatto territoriale delle aziende
agricole nel contesto dei sistemi locali italiani. Dal 1988 è membro della Società Italiana di Economia
Agraria, dal 1991 è membro della redazione della rivista scientifica La Questione Agraria e dal 1994
è membro dell’Associazione Italiana per lo Studio dei Sistemi Economici Comparati.

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JUSTIN FONG
Justin Fong è il direttore esecutivo di Moving Mountains, organizzazione non governativa della
Repubblica Popolare Cinese. Lavora principalmente sulle tematiche dell’ambiente, della giustizia so-
ciale, della costruzione della società civile, di policy advocacy, di tecnologia applicate allo sviluppo
e di educazione. Fong ha studiato all’Università della California e di Los Angeles ed è specializzato
in public policy. È socio della East West Center Asia Pacific Leadership, della Woodrow Wilson, della
Blakemore Foundation e membro della University of California Board of Regents.

JOYCE HAARBRINK
Project e Programme Manager, lavora per la riforma delle Istituzioni Europee, per i diritti delle
donne e l’equità di genere, la salute nella cooperazione allo sviluppo e sugli scrutini parlamentari. Ha
studiato letteratura inglese all’Università di Amsterdam e filologia a Bruxelles.

THEOPHILE KABORE
Rappresentante nazionale di Mani Tese in Burkina Faso, è presidente di Association Inter-Africaine
pour le Developpement Solidaire (A.I-A.D.S.) - KIBARÈ , associazione partner di Mani Tese con sede
a Natitingou, che opera in Benin e in Bukina Faso allo scopo di promuovere azioni per lo sviluppo delle
comunità di base dei due paesi e di rafforzare il legame tra le due popolazioni e con quelle del resto
del mondo.

SIMON MONOJA LUBANG


Laureato all’Università di Khartoum (Sudan) in Antropologia Sociale e Sociologia, ottiene una spe-
cializzazione in studi africani all’Università del Sussex in Inghilterra, e inizia un dottorato a Oxford
che dovette interrompersi a causa della guerra in Sudan che non gli permise di tornare agli studi.
Professore Associato di Antropologia all’Università di Juba, è attualmente direttore del Centre for
Peace and Development Studies.

SERGIO MARELLI
Sergio Marelli è da sempre impegnato nel mondo della cooperazione internazionale e delle ONG
(Organizzazioni non Governative). Particolarmente rilevante è la sua esperienza quinquennale di Vo-
lontario internazionale a Butezi (Burundi) nel progetto “Centro di Sviluppo Sociale di Butezi” in qualità
di responsabile dei settori agro - zootecnico e commercializzazione alla quale hanno fatto seguito
missioni di valutazione e programmazione in oltre 35 Paesi in via di sviluppo. Dal 1994 è Direttore
Generale di Volontari nel mondo - FOCSIV (Federazione di 57 Organismi Cristiani di Servizio Inter-
nazionale Volontario) e, dal 2000, riveste la carica di Presidente dell’Associazione delle ONG italiane
(Associazione di 163 Ong). È inoltre membro del Coordinamento Nazionale del Forum Permanente
Terzo Settore; esperto nominato nell’Osservatorio Associazioni di Promozione Sociale - Presidenza
del Consiglio dei Ministri; membro del Consiglio Direttivo del CeSPI, membro del Coordinamento del
Focal Point italiano del Programma Volontari delle Nazioni Unite; membro del Board of Directors della
CIDSE (Coordinamento delle Agenzie di Sviluppo delle Conferenze Episcopali Europee e Nord Ameri-
cane); membro della Commissione “Elaborazione di proposte per un codice di condotta internaziona-

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le sul diritto all’alimentazione” istituita all’interno del Comitato Nazionale Italiano per il collegamento
tra il Governo (Ministero delle Politiche Agricole e Forestali) e la FAO.

FABIO PIPINATO
Fabio Pipinato ha una laurea in Scienze Politiche ed ha fatto parte dal 96 al 98 della Segreteria UNIP
- Università della Pace di Rovereto. Direttore di Unimondo www.unimondo.org ha curato la comunica-
zione della campagna sdebitarsi nell’anno 2.000. Ha due esperienze di cooperazione internazionale in
Rwanda (93-94) e Kenya (2001-2003). È stato Presidente della Cooperativa Mandacarù per un com-
mercio equo e solidale. Membro sia del Comitato scientifico di Polemos che di Migra. Attualmente è
direttore della sede di Trento della Fondazione Fontana e membro del consiglio del Forum Trentino per
la pace. Collabora con Enti Locali, Regioni, Ministeri e con l’Unione Europea sui temi legati al portale
Unimondo. Pubblica in diversi periodici cartacei ed on line. Ha recentemente pubblicato con lo staff di
Unimondo tre libri: Orizzonti, Cooperazione ed Antologia. Tutti reperibili on line.

MOVIMENTO SEM TERRA


Il “Movimento dei sem-terra” (MST) è una forma di organizzazione sociale dei senza-terra, co-
stretti a lavorare la terra per gli altri sotto le più differenti forme come la mezzadria, l’affitto o come
semplici salariati. Il MST è nato come forma di coscientizzazione e organizzazione degli agricoltori per
liberarsi dallo sfruttamento dei latifondisti ed iniziare ad organizzare la propria vita e quella della pro-
pria famiglia. I contadini iniziarono ad organizzarsi nei villaggi e nelle comunità rurali, creando gruppi
di famiglie che, al principio, si riunivano clandestinamente, per discutere di ingiustizia e di proprietà
della terra. Avendo così una visione delle cause dei loro problemi, iniziarono ad organizzare manife-
stazioni pubbliche a favore della riforma agraria, facendo assemblee di massa, cortei ed occupazioni
di terre incolte. In termini storici, le prime lotte dei senza terra iniziarono negli anni ‘78-’79, ma solo
nel gennaio 1984 si costituì il Movimento dei Senza Terra a livello nazionale. Gli obiettivi fondamentali
dei sem-terra sono la Riforma Agraria, la giustizia sociale e l’istruzione dei lavoratori rurali.

LUCIANO ROCCHETTI
Cinquant’anni. Nato e vive a Rovereto con la moglie Sonia e il figlio Floriano, di cinque anni. Lau-
reato in sociologia (da studente lavoratore) dopo aver fatto studi classici. Ha svolto servizio civile in
una comunità di accoglienza per portatori di handicap e persone emerginate socialmente. Ha lavorato
una decina d’anni nel sociale, come educatore in gruppi famiglia per adolescenti a rischio. Un’altra
decina d’anni nel campo della formazione professionale, rivolta in particolare a giovani lavoratori
(apprendisti). Cooperante in Mozambico (Pemba) per due anni, dove si è occupato dell’area educa-
tiva e organizzativa, nell’ambito di un progetto idrico. Dal 2000 responsabile del Settore Solidarietà
internazionale della Provincia autonoma di Trento.

PREM SHANKAR JHA


Esperto del sistema politico indiano e della sua economia, Prem Shankar Jha ha studiato filosofia,
scienze politiche ed economia a Oxford, ha lavorato alle Nazioni Unite e come stato assistente a New
York di Paul G. Hoffman, direttore e poi amministratore dell’ UNDP. Successivamente trasferito in

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Siria, a Damasco, tornò in India solo nel 1966 diventando giornalista per la testata Hindustan Times.
Ha lavorato anche per Times of India, Economic Times e Financial Express. Nel 1990 ha collaborato
con il primo Ministro V. P. Singh, scrivendo un libro sulla sua esperienza. È editorialista di numerose
testate tra le quali The Hindustan times, The Business Standard, e Outlook. È stato anche corrispon-
dente dall’India per The Economist. Ha scritto diversi libri e insegnato all’Università della Virginia e
di Richmond.

ANDREA STOCCHIERO
Laureato nel 1986 in economia e commercio presso l’Università Cà Foscari di Venezia, dal 1990
al 1995 è stato esperto di economia internazionale per la Commissione Economica per l’America
Latina e i Carabi delle Nazioni Unite su programmi di analisi delle relazioni economiche euro-lati-
noamericane. Ha inoltre svolto ricerche sullo sviluppo sostenibile e la lotta alla povertà per l’Istituto
per la Cooperazione Economica e i Problemi dello Sviluppo. Dal 1995 al 1997 è stato responsabile di
progetti di cooperazione economica con l’America Latina. Vice direttore del CeSPI, dal 1998 coordina
programmi di ricerca sui temi dell’internazionalizzazione dei sistemi territoriali, della cooperazione
decentrata e delle politiche di cooperazione per la gestione dei flussi migratori (programma Circuiti
economici e migratori nel Mediterraneo, attualmente programma Migraction). È docente presso corsi
di formazione sulla cooperazione internazionale, tra cui il Master in International Development.

YASH TANDON
Yash Tandon è il direttore esecutivo del South Centre formato da un gruppo di esperti che lavora
sulle tematiche dello sviluppo. La lunga carriera di Yash Tandon spazia dal ruolo di policy maker al-
l’attivista politico, da professore a intellettuale. Fu particolarmente coinvolto nella battaglia contro la
dittatura di Idi Amin e ha passato molto tempo in esilio. Orginario dell’Uganda e laureato in economia
e relazioni internazionali alla London School of Economics di Londra, ha frequentato diverse universi-
tà incluse la Makerere University (Uganda), la Dar-es-Salaam University (Tanzania), la stessa London
School of Economics (UK) e, infine, la Columbia University (US). Prima di approdare al South Centre,
è stato direttore e fondatore del Southern and Eastern African Trade Information and Negotiations
Institute (SEATINI). Ha scritto oltre un centinaio di articoli ed è autore di diversi libri su diverse tema-
tiche quali la politica africana, la pace e la sicurezza, commercio e WTO, economia internazionale,
Cooperazione Sud-Sud e diritti umani. Siede in diversi comitati consultivi.

ALEX WILKS
Alex Wilks è il coordinatore di Eurodad. Dirige l’ufficio di Bruxelles ed è responsabile della direzione
strategica dell’organizzazione. Entrato a far parte di Eurodad nel giugno del 2004, ha lavorato per il
progetto Bretton Wood, organizzazione non governativa con base a Londra che monitora la Banca
Mondiale e il Fondo Monetario Europeo. È stato anche giornalista della rivista Ecologist elaborando
strategie comunicative innovative come il blog sul Presidente della Banca Mondiale. Laureato ad
Oxford, ha studiato storia moderna focalizzandosi su politica,economia del colonialismo e decoloniz-
zazione. Ha scritto diversi articoli ed è stato attivista in numerose occasioni di contestazione.

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INDICE

PRESENTAZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .4

SESSIONE DI APERTURA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .6
Introduzione di Gianluca Viaggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6
Saluto di Iva Berasi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7
Saluto di Luigi Marino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9

PRIMA SESSIONE “VOCI DAL MONDO . . . . . . . . . . . .10


SULLE CAUSE DELLA CRISI”
Intervento di Yash Tandon. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10
Intervento di Justin Fong. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .14
Intervento di Prem Shankar Jha . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18
Intervento di Simon Monoja Lubang. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23
Intervento di Gislene Dos Santos Reis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27

SECONDA SESSIONE “QUALE COERENZA PER . . . . . 39


LE POLITICHE DI COOPERAZIONE EUROPEE?”
Intervento di Alex Wilks . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39
Intervento di Joyce Haarbrink . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43
Intervento di Franco Conzato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 46
Intervento di Caterina Amicucci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51
Intervento di Pasquale de Muro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 56

TERZA SESSIONE “LA COOPERAZIONE . . . . . . . . . . . 64


È LA RISPOSTA?”
Intervento di Franco Conzato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 64
Intervento di Marco Baccin . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 68
Intervento di Andrea Stocchiero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 72
Intervento di Sergio Marelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75
Intervento di Théophile Kaboré. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 79
Intervento di Luciano Rocchetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 82
Intervento di Fabio Pipionato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 84

CONCLUSIONI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 91

I RELATORI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 94
Con il contributo della Provincia
a u t o n o m a d i Tr e n t o
***
Finito di stampare nel mese di ottobre 2009
da MEDIAPRINT - Milano
Possiamo veramente parlare di diritto umano al cibo?
Gli ultimi dati della FAO ci dicono di no: il numero delle persone che
vivono ancora nella fame è arrivato a 925 milioni. E la comunità interna-
zionale non è sufficientemente impegnata per far fronte alla crisi
alimentare mondiale, che nel 2008 ha visto un nuovo drammatico
picco.
Tra le cause, mancanza di risorse finanziarie, aumento del prezzo del
petrolio, cambiamenti climatici, privatizzazioni e conversione di terreni
agricoli per fini che aumentano la ricchezza di pochi e portano intere
comunità alla fame. Le responsabilità sono di molti. Mani Tese crede sia
ancora possibile elaborare vie d’uscita che concretizzino un reale impe-
gno di giustizia, contro la povertà e la fame.
Mani Tese, attiva su questo tema da più di 40 anni, nell’ambito del
convegno internazionale 2008 “Gli equilibri della fame. La cooperazio-
ne è la risposta?” chiama a confrontarsi attori internazionali, protagoni-
sti della cooperazione italiana e rappresentanti delle comunità locali del
Sud del mondo, che contribuiranno a tracciare lo scenario dei fattori più
rilevanti che intervengono ad acuire la crisi alimentare. Alle istituzioni
presenti verrà proposta una visione partecipata e concreta della coope-
razione internazionale, strumento possibile per affrontare il problema
della fame.

Atti del convegno:

Gli equilibri della FAME


La cooperazione è la risposta?
***
Riva del Garda - 1 e 2 novembre 2008

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